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ACHAB

Rivista di Antropologia
2005 numero V

Universit degli Studi di Milano-Bicocca

AChAB
Rivista studentesca di Antropologia dell'Universit di Milano-Bicocca - Numero V

Se volete collaborare con la Rivista inviando vostri articoli, oppure, contattare gli autori, scrivete a: achabrivista@libero.it

Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi

Redazione Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini

Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo

Impaginazione Paolo Borghi, Fabio Vicini

Tiratura: 500 copie


Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del domino di alcune immagini utilizzate in questa rivista. Gli autori sono invitati a contattarci. *Immagine in copertina tratta da www.corriere.it (profughi cubani). *Le immagini a lato e sotto a questo box sono di Anna Sambo (Benin 2004)

Visitate il sito www.studentibicocca.it/achab

In questo numero...
2 Achab, tra alterit radicale e molteplicit di prospettive di Michele Parodi L'identit Mizrahi nella societ israeliana. Riflessioni sulle categorie di nazione, etnia e classe di Rossana Di Silvio Una ricerca etnomusicologica nell'ambito delle cure 'alternative': tre pratiche musicali di guarigione di Patrizia Santoro Dialogo sulla guerra Siamo in guerra di Pietro Clemente Spade e crisantemi. Antropologi in tempo di Guerra di Valerio Fusi Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione e riflessivit di Paolo Benini e Gabriella Erba Quale fine per la ricerca etnografica?
Alcune osservazioni suscitate dalla lettura di "Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione e riflessivit"

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di Michele Parodi 44 Relazione da Bomalang`ombe, regione di Iringa, Tanzania. di Edoardo Occa Libri e poesie a cura di Antonio De Lauri

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Gruppo di antichi cavalieri, cimitero nella valle di Bashgal, Kafiristan. Muse Guimet, Paris.

Achab, tra alterit radicale e molteplicit di prospettive


di Michele Parodi

Nella figura di Achab convergono due immagini, il re empio di Israele raccontato dalla Bibbia e il capitano di baleniere del romanzo di Melville. In Moby Dick Achab il capitano del Pequod all'inseguimento della balena bianca: Moby Dick, l'essere misterioso, irraggiungibile e inafferrabile che affiora all'orizzonte con uno sbuffo per poi immergersi nuovamente negli abissi marini inaccessibili all'uomo, in acque che sembrano infinite, che tutto ricoprono e celano. La balena bianca il prendere forma del sacro, il trascendente che affiora mostrando per un istante la sua ambiguit incomprensibile. Ma Moby Dick ha strappato una gamba ad Achab ed egli non si rassegna a quella perdita senza spiegazione. Esige una risposta o una vendetta. Ricerca sacrilega impossibile, senza fine, destinata alla sconfitta. La ricerca di Achab pensabile come metafora dell'antropologia, alla perenne ricerca di un'alterit che sempre gli sfugge e che sempre gli deve sfuggire. Antropologia empia poich non rassegnata ad un rapporto negativo con la natura e l'uomo, ma impegnata a svelarne la fecondit creatrice. Contro l'intangibilit delle cose proclamata dal religioso e dalla cultura, dall'ideologia, l'antropologia afferma il suo sguardo kinico e sovversivo. L'antropologia come critica, come operazione decostruttiva delle sicurezze tranquillizzanti con cui l'alterit pu essere consumata in differenza. L'antropologia quindi sempre contro se stessa, ironicamente impegnata in descrizioni seguite al tempo stesso dalle prove della loro precaria incompletezza. Ma Moby Dick pu essere irresistibile incantatrice, come le sirene di Ulisse, voce che attira. Bisogna allora tapparsi le orecchie, attraversare l'oceano rimanendo sulla soglia dell'abisso. Nel romanzo di Melville Achab invece vinto dalla sua brama di vendetta, vuole uccidere, vuole possedere la balena. Per questo la sua lotta destinata alla sconfitta. Uccidere Moby Dick vorrebbe dire reificare ci che invece trascende ogni mira totalizzante. Achab preso e strangolato dal cappio della corda del suo arpione scompare trascinato negli abissi dalla balena. L'alterit radicale, al posto di suggerire un dialogo mai conclusivo, pu divenire una costruzione altrettanto ideologica con cui affermare e reificare una diversit che impone una separazione insanabile. Achab, Acab, anche il pi empio re d'Israele, colui che sedotto

dalla empia Gezabele, figlia del re dei Sidoni, fece si che gli dei fenici diventassero dei nazionali in Israele. And a servire a Baal e ad adorarlo. Eresse un tempio ai Baal in Samaria (Terzo libro dei Re, 16, 29). Baal, un nome divino, teonimo polivalente dietro cui si celano molteplici manifestazioni. Cos in Acab paradossalmente confluiscono il singolare, il Dio unico di Israele, e il plurale, il multiforme Baal. E ancora una volta questo rapporto impossibile pu essere pensato come metafora del rapporto dell'antropologia con i suoi oggetti, oggetti di cui descrive la forma unica, scientifica, al medesimo tempo negandone per l'assolutezza. Giudizi inevitabilmente compromessi da un particolare punto di vista. Ad ogni descrizione l'antropologia accosta segretamente il compagno nascosto, l'altro volto senza espressione e senza occhi. Molteplicit indefinita irriducibile ad un unico sguardo, forza ribelle e destabilizzante attraverso cui aprirsi al mondo. Alla fine su Acab-Baal trionfer la potenza del Dio unico. Il profeta Elia dir: "Prendete i profeti di Baal: non ne scampi nemmeno uno Elia li fece scendere al torrente Cison, ove li uccise tutti" (Terzo libro dei Re, 18, 40). Anche Acab sar ucciso, ucciso in battaglia travestito per non farsi riconoscere. Come profetizzato i cani leccheranno il suo sangue (Terzo libro dei Re, 22, 38).

Continua...

Achab, dipinto di Gianni Fochi http://homepage.sns.it/fochi/Quadri.html

L'identit Mizrahi nella societ israeliana


Riflessioni sulle categorie di nazione, etnia e classe
di Rossana Di Silvio
nazionale in "movimento sionista attuativo" (Barnavi, 1996). Con l'Illuminismo e la Rivoluzione francese, anche l'ebreo si trova ad essere proiettato nei cambiamenti che si susseguono e che avvolgono la societ in una benefica atmosfera di liberalit. In un mondo teso all'efficienza ed aperto al talento individuale, egli si fa strada in tutti i campi, dalla scienza, alla finanza, all'arte, diventa "ebreo in casa e uomo nel mondo", come vuole la haskalah, la versione ebraica dell'Illuminismo (Barnavi, 1996). Ma questo compromesso non lo ripara dai sentimenti rancorosi dei Gentili che vedono in lui, in quanto uomo nel mondo, il concorrente pericoloso ed invadente, ed in quanto ebreo dunque"diverso"- facile e credibile "capro espiatorio" di tutti i mali sociali del momento. D'altro canto, in questo mondo aperto, liberale, borghese e nazionalista l'ebreo si inserisce male perch, per quanti sforzi faccia, le sue radici sono sempre altrove, e nel suo spasmodico desiderio di fondersi con la cultura circostante, assomiglia sempre pi a quel patetico personaggio kafkiano che diventa pi indigeno degli stessi indigeni, e proprio per questo viene rifiutato. Ancora nella seconda met del XIX sec., gli ebrei che vivono in Occidente continuano a sostenere con convinzione un processo di emancipazione che sfoci naturalmente nella assimilazione alla cultura secolare, trasformandoli in israeliti, ovvero cittadini di pari grado dei loro compatrioti gentili, con diversa appartenenza di culto (Barnavi, 1996). Un principio che per definizione esclude l'emancipazione degli ebrei in qualit di nazione. Diversa la situazione degli ebrei dell'Europa Centro-Orientale, i quali, proletarizzati e ghettizzati, hanno poche speranze di assimilazione e le cui tradizioni ed istituzioni religiose comunitarie hanno mantenuto tutta la loro energia unificatrice. La lotta di questa comunit si orienta al riconoscimento in quanto nazione ebraica, identificabile anche attraverso una propria lingua, lo yiddish, una nazione pensata in quel medesimo luogo geografico, di cui rivendicano l'appartenenza al pari degli altri popoli coabitanti. Il Bund socialista diventa lo strumento di lotta, espressione dell'autonomismo politico e culturale della comunit ebraica centro-orientale, partito operaio antisionista, che vede la luce nell'ultimo decennio dell'ottocento. Ma l'esperienza del Bund, oltre a suscitare l'ostilit degli altri partiti operai per la sua specificit culturale, non sar in grado di proteggere i propri membri dalle vessazioni non solo di classe, ma anche antisemitiche del proletariato gentile, e andr a confluire nel movimento sionista politico, connotandolo in senso ideologico e socialista, caratteristiche che gli saranno proprie da quel momento e che andranno a condizionare fortemente la fisionomia dello Yishuv prima e dello Stato poi (Barnavi,1996).

Questo lavoro intende proporre alcuni elementi di riflessione per la comprensione del fenomeno di etnicizzazione della societ israeliana prendendo come riferimento paradigmatico la condizione degli ebrei Mizrahim, sefarditi od "orientali", che dir si voglia. Il materiale utilizzato proviene da diversi campi, storico, etnografico, geo-politico e urbanistico, prospettando un'interazione multidisciplinare che informa molto bene della complessit dell'argomento (Goldberg e Salomon, 2002). Verr tratteggiato il contesto storico in cui ha preso idea e forma la costruzione della nazione israeliana, sottolineando l'aspetto di contaminazione con la cultura europea dominante e con le sue categorie portanti, verranno analizzate la trasposizione e la riformulazione di tali idee nell'ambito del nascente contesto socio-politico israeliano e si concluder con uno specifico approfondimento sulla condizione identitaria degli ebrei Mizrahi, sul loro strutturarsi in etno-classe e su alcune forme di resistenza adottate contro la perifericit socio-culturale di cui sono stati fatti oggetto. Il contesto storico Il 14 maggio 1948 Ben Gurion legge la Dichiarazione d'Indipendenza di Eretz Israel, un sogno plasmato nel corso dell'ultimo secolo ad opera di un movimento, quello sionista, che affonda le sue radici nelle ideologie dell'ottocento europeo, habitus sociale e culturale dei primi sostenitori provenienti dall'Europa Centrale e Orientale. Cos nazionalismo, laicit e pi tardi socialismo operaio, costituiranno le idee portanti di ci che diventer un apparato statale ancor prima di avere una definizione territoriale. Tuttavia, queste idee di nazionalismo saranno fin da subito scarsamente condivise dall'intera collettivit ebraica perch mal si accordavano con un'altra idea di nazione, strettamente interrelata con la religione, le cui radici spirituali, pratiche e rituali, hanno permesso al popolo ebraico di conservare la sua peculiarit di nazione, la sua specificit, lungo i duemila anni dell'ultima diaspora. E non solo gli ortodossi europei, gli haredim, sono contrari al sogno secolare sionista, anche lo Yishuv, l'antica e scarna comunit ebraica sopravvissuta nei secoli in terra di Palestina, gli apertamente avverso per i medesimi motivi. Secondo queste realt centrate sull'ebraicit spirituale e sul "Mito dell'Attesa", i sionisti, in gran parte atei e secolarizzati, con il loro terreno desiderio di emancipazione sfidano apertamente la volont di Dio, mostrando un atteggiamento empio. Fu il nascente antisemitismo europeo (termine coniato nel 1874) e, con il tempo, il suo terrificante ingrossarsi, a costituire lo strumento di maggiore forza nella traduzione del vecchio movimento religioso-

Alla fine dell'ottocento molti ebrei sono costretti a migrare verso nazioni pi tolleranti, gli Stati Uniti in modo particolare, ed in Europa cominciano a circolare idee pi corpose sulla autoemancipazione del popolo ebraico. A farsi portavoce di questa prospettiva sar innanzitutto un medico di Odessa, Lev Pinsker, il quale, diagnosticando l'antisemitismo come una "perversione patologica dell'animo umano" e per ci stesso, "incurabile", propone come rimedio l'"occupazione di un focolare nazionale[.]un pezzo di terra di cui avere propriet e dal quale nessuno straniero ci possa scacciare"(Barnavi, 1996). Non saranno per gli ebrei occidentali, troppo impegnati nel processo di assimilazione, a raccogliere il messaggio auto-emancipatorio del medico di Odessa. Saranno piuttosto le comunit "orientali" a dare concreto vigore all'azione sionista. La comunit orientale, non solo russa ma anche polacca e rumena, affider a Pinsker la leadership del movimento il cui scopo la creazione di Eretz Israel, innanzitutto mediante la raccolta di fondi per acquistare terre in Palestina, e poi attraverso la migrazione in Terra Santa che, iniziata numerosa gi nel 1882, proseguir in una successiva ondata ai primi del novecento. Il successo e l'entusiasmo dell'operazione non fornisce, tuttavia, quello slancio comunitario generale che ci si sarebbe aspettato. Il movimento sionista europeo ristagna, frammentato in centinaia di societ e con notevoli frizioni interne. L'elemento che trasmette una nuova accelerazione sar ancora una volta l'antisemitismo crescente, ed in particolare il caso Dreyfus in Francia, nonch dell'elezione di un sindaco antisemita a Vienna. Ma ancor pi varr il pensiero e l'opera di Theodor Herzl, che intravede in questi segnali l'anomalia storica rappresentata dagli ebrei, popolo dotato pienamente di cultura propria ma nella particolare condizione, per l'appunto storicamente anomala, di essere privo di una collocazione geografica e di una identit statuale. Con "Lo Stato degli ebrei: soluzione moderna per un problema antico" del 1896, testo fondante del sionismo politico, Herzl trasformer in poco tempo un movimento ormai amorfo in una macchina potente ed efficace. Nel 1897, a Basilea, il primo Congresso Sionista definisce chiaramente lo scopo del movimento: la creazione di un focolare per il popolo ebraico in Palestina, che fosse garantito dal diritto pubblico. Il movimento sionista entra realmente in azione: viene creata un'Organizzazione Sionista Mondiale, una banca, una struttura di divulgazione a mezzo stampa in pi lingue. Lo Stato, che si prefigura come prodotto della lunga memoria del popolo ebraico, sar al tempo stesso una rottura e una continuazione della tradizione (Barnavi, 1996): rottura nel pensiero di uno stato moderno e laico, in stretta sintonia con il modello culturale assimilato dall'ebraismo occidentale, e continuit nell'entusiasmo messianico di cui sono portatori quei proletari dell'est che s'impossesseranno concretamente di quello Stato. L'essenza del nascente Stato israeliano sar, negli anni a venire, proprio in questa sua doppia origine, rivelandone ogni volta le incoerenze, i tentennamenti, le frammentazioni, l'elevata complessit, le numerose anime che ancora nel presente esprimono tutta la fatica della fusione, mai del tutto raggiunta, in una unica realt sociale (Giorgio, 2000).

Il contesto socio-politico Si pu affermare che il sionismo rappresenta la versione moderna di un'antica ossessione ebraica: la ricerca di "normalit" (Barnavi, 1996). Un sentimento che tuttavia ha sempre espresso una sua intrinseca ambiguit, la normalit cercata non ha mai avuto il significato di "essere uguale agli altri", anzi l'ebraicit, ancorch svuotata delle sue implicazioni religiose, non ha mai smesso di essere preservata. Lo Stato cos costruito sull'ideologia sionista, di stampo fortemente socialista, doveva avere carattere di democrazia occidentale e al tempo stesso essere Stato "ebraico", uno Stato conforme agli ideali profetici, debitamente laicizzato e aggiornato alle tendenze nazionalistiche dell'epoca. Una condizione per certi versi non difforme da quella delle giovani nazioni di recente emancipazione dal dominio coloniale: come queste il nascente Stato israeliano prendeva a prestito da realt esterne, quella occidentale in primo luogo, modelli e forme di vita sociale e politica che non gli appartenevano storicamente (Anderson, 1996 -Hobsbawm e Ranger, 2002), ma, differentemente da questi, gli ebrei avevano una lunga esperienza diretta di forme riccamente elaborate di vita comunitaria all'interno dei diversi paesi che per tanti secoli li avevano accolti, ospitati, integrati. L'imperativo divenne "ricollegare l'ebreo alla terra", ristabilire concretamente questo vincolo che, assolutamente scontato per quelle nazioni europee dispensatrici di ideologie nazionaliste, egli aveva perduto nell'esilio prolungato (Barnavi, 1996). Era necessario far rivivere una lingua nazionale, ormai sepolta nel tempo, inventare una tradizione nazionalistica, un apparato statuale, un esercito, festivit ed eroi nazionali, un corpus cerimoniale, attraverso i quali rivestire l'ebreo di un abito di nuova foggia, nazional-moderna, rimaneggiando la storia, ma soprattutto il mito, in modo particolare quello relativo all'indissolubile omogeneit del popolo ebraico (Yiftachel, 1999). Tuttavia, gi nello Yishuv pre-statale, emergono numerosi contrasti, legati principalmente alla difficolt della co-presenza di laici e religiosi, di cui il pi importante e duraturo sar quello tra Mizrahi o sefarditi (la comunit di rito spagnolo proveniente dall'area musulmana) e Ashkenazi (comunit di rito tedesco proveniente dall'Europa centro-orientale). Il neo Stato d'Israele erediter, e in esso perdureranno, tutti i tratti dell'ambivalenza insita nella coesistenza di questi due presupposti identitari, laico e religioso, di provenienza orientale e occidentale, che si esprimeranno nell'estrema frammentazione partitica e nella marcata polarizzazione ideologica del Paese, nonch nella spaccatura a livello giudiziario tra tribunali civili, fondati sul diritto occidentale, e tribunali rabbinici, fondati sulla Torah, cui sono tutt'oggi demandate le competenze in materia di statuto personale dei cittadini di culto giudaico, siano essi credenti o agnostici (Guolo, 1997 - Vidal e Algazy, 2003). Cos il significato simbolico di questi elementi della tradizione religiosa reintroducono quel substrato che si voleva espulso dalla nuova esegesi nazionale: una immagine spirituale della nazione ottenuta attraverso la forzatura biblica in senso attivistico, ma anche tesa a

ridefinire l'autorit in campo religioso e a porsi come fonte di in cui poter consumare il mito della unicit del popolo ebraico, legittimazione dei nuovi significati di antichi simboli. non riuscito nella realt a strutturare nessuna forma di "meltingAll'interno del quadro politico e di governo del Paese tale pot" (Galili, 2004). Anzi, pi premeva la spinta migratoria, pi situazione ha comportato nel tempo una tendenza generale al s'incrinava l'unitariet della cultura politica nazionale fondativa, raggruppamento delle forze in tre macro espressioni, gi di matrice sionista-laburista, basata sul binomio identit ampiamente visibili negli anni '20: la sinistra dell'area sionista nazionale-laicit, dando sempre pi spazio alle fratture culturali o socialista, la destra dell'area "revisionista" sionista e il Partito neoetniche e ad ulteriore frammentazione sociale (Vidal e Algazy, Nazionale Religioso, con un'ampia componente Mizrahi. 1999). In linea generale, dunque, il governo dello Stato israeliano ha comportato un continuo e assai precario equilibrio dello status L etnicizzazione della societ quo tra l'anima laica e religiosa del costrutto identitario nazionale, Gli studi sui nazionalismi hanno esplorato raramente le creando in definitiva un sistema fondato sulla neutralizzazione del stratificazioni sociali intra-nazionali che sono correlate al conflitto religioso attraverso una concezione del "politico" che, processo di costruzione della nazione (Yiftachel,1997). Nel caso anzich secolarizzare i concetti teologici, riteologizza concetti di Israele, dove i paradigmi dell'occupazione e del possesso della secolarizzati (Barnavi, 1996 - Guolo, 1997). Inoltre, le tensioni terra, tipici del discorso sionista, sono fondanti la costruzione culturali derivanti dalla difficolt di scindere identit religiosa e della nazione, lo studio delle "frontiere interne", frutto della nazionale, hanno reso impervia la colonizzazione del territorio, pu strada della piena laicit dello spiegare la creazione e la Stato, anche in ragione di una riproduzione della disparit tra gli continua emergenza bellica che ha ebrei Ashkenazi e Mizrahi imposto una ricerca ad oltranza di (Yiftachel,1998). Dopo un certo grado di coesione l'indipendenza, Israele entra in una nazionale (Giorgio, 2000). Le fase di radicale ristrutturazione del continue crisi, comunque, non territorio, con una intensificazione sono mai approdate, di fatto, a vere delle tattiche e delle strategie nella e proprie rotture; anzi, costruzione culturale etnocentrica l'opposizione religiosa, anche nel dello Yeshuv pre-statale, favorito lungo governo delle sinistre, dalla acquisizione di un apparato riuscita ad inserirsi con profitto statale, di un esercito e della nelle intercapedini delle divisioni legittimazione internazionale. La interne ai grandi partiti ristrutturazione del territorio (Guolo,1997), e l'atteggiamento di ruotava attorno al principio compliance mostrato dai governi di fondamentale della giudaizzazione maggioranza nei confronti delle del territorio attraverso un capillare opposizioni religiose ortodosse programma di diffusione della Le dodici trib dIsraele spiegabile solo se inquadrato popolazione ebraica, fondato sul nell'azione di un patto di sistema insito nelle presupposto dell'appartenenza della terra al modalit di costruzione dell'ordinamento statale (Barnavi, 1996). popolo ebraico. Il nascente stato israeliano svilupp una forma L'esempio pi rilevante di applicazione della politica dello status esclusiva di etnonazionalismo, di cui le frontiere divennero quo la rinuncia del nuovo Stato a darsi una costituzione, che l'icona portante: la colonizzazione fu considerata una delle viene in qualche modo "sostituita" dalle undici Leggi massime acquisizioni di ogni sionista, e i kibbutzim di frontiera Fondamentali, di cui la pi importante, per misurare i rapporti tra fornirono il modello per la riconquista della "Terra di laici e religiosi, la "Legge del Ritorno", che permette di definire Redenzione" (Yiftachel, 1999 - Massey e Jess, 2001). Prima del chi ebreo e le modalit di acquisizione della cittadinanza 1948, solo il 7-8% della Palestina era in mano agli ebrei, ma israeliana. Anche in questo caso, i forti contrasti derivanti da una durante la prima ondata migratoria, tra il '49 e il '52, furono doppia definizione, quella etnico- religiosa (appartenenza per insediati circa 240 villaggi comunitari (kibbutzim e moshavim, la ascendenza o per conversione) e quella nazionale (appartenenza versione sionista-religiosa della comunit agricola) per cittadinanza), sono stati risolti attraverso compromessi, sulla prevalentemente lungo la Linea Verde (Barnavi, 1996 - Yiftachel, base dei rapporti di forza degli attori in campo, obbligando la 1999). politica ad adottare un modello di tipo consociativo, retta sul Nel corso della seconda ondata, tra i primi anni '50 e la met degli meccanismo dell'"integrazione per divisione" o, pi anni '60, sorsero 27 citt di sviluppo e ulteriori 56 villaggi, semplicemente sul meccanismo separazione/compensazione popolati principalmente da migranti Mizrahi, ebrei nord-africani (Barnavi, 1996 - Guolo, 1997). Lo stato ebraico, dunque, inteso in prevalenza, ma anche medio-orientali e caucasici. Nello stesso nel senso classico sionista di luogo d'accoglienza per tutti gli ebrei periodo numerosi gruppi di Mizrahim furono allocati in quartieri

urbani di "frontiera", nelle adiacenze dei quartieri o delle aree palestinesi. Nel corso della terza ondata migratoria, circa venti anni dopo, sorsero pi di 150 piccole "citt di sviluppo", situate proprio nel cuore di entrambi i lati della Linea Verde. Questi ulteriori insediamenti furono presentati all'opinione pubblica come un rinnovato sforzo di giudaizzare le frontiere ostili di Israele, usando la tipica retorica della "sicurezza nazionale" (Yiftachel, 1998). Dato il basso livello delle risorse socio-economiche di molti Mizrahim, minore istruzione e basse competenze professionali, nonch della loro provenienza maggioritaria dalla cultura araba e la mancanza di legami con le elites israeliane, le "citt di sviluppo" e i "quartieri di frontiera" divennero velocemente, e cos sono rimasti, specifiche concentrazioni di popolazione Mizrahi povera, segregata e deprivata (Eickelman, 1993 Yiftachel, 1998). La politica nei confronti degli ebrei "orientali" pu considerarsi un ottimo esempio di applicazione di quel meccanismo di separazione/compensazione su cui, si diceva, si fonda la dinamica dello status quo in campo sociale. Dagli studi del Centro ADVA relativi al decennio 1990-2001, emerge la profonda disparit salariale tra ebrei di origini occidentali ed ebrei "orientali" o asiatici; ugualmente l'istruzione risulta nettamente a favore dei giovani appartenenti al gruppo ashkenazi ed il dato direttamente correlato con lo status socioeconomico (ADVA Center, 2003). Le profonde disuguaglianze tra i diversi segmenti della popolazione, gi ampiamente evidenti a partire dagli anni settanta, sono state ulteriormente aggravate dal recente passaggio, da parte dello Stato, da un sistema economico fondato sulla ridistribuzione del reddito nazionale ad un'economia di tipo liberista e globalizzata. Nel 2000, circa un terzo degli abitanti e dei lavoratori dei kibbutz vivevano sotto la soglia di povert e in generale si evidenziava un peggioramento generale delle condizioni di vita di una parte consistente della societ israeliana, in particolare a carico degli ebrei sefarditi, cui solo il movimento-partito Sha'as faceva fronte assicurando un sistema di assistenza sociale alternativo (Giorgio, 2000). Come agli esordi, il carattere del nazionalismo in Israele ashkenazi, costruito attraverso un discorso frutto della contaminazione occidentale; la stessa percezione del ruolo dello stato ashkenazi, e gli ebrei occidentali hanno raccolto pi degli altri gruppi etnici i vantaggi offerti dall'aver "occupato un focolare per il popolo ebraico". L'autorizzazione all'imponente ondata migratoria degli anni novanta di quasi un milione di ebrei russi, ritenuti di cultura occidentale, va inquadrata nell'obiettivo di restituire agli Ashkenazi quel ruolo maggioritario perduto in seguito all'avanzamento sulla scena politica dei Sefarditi e di arginare di conseguenza la crescente domanda di differenziazione e riconoscimento identitari del gruppo "orientale", divenuta nell'ultimo ventennio sempre pi forte (Vidal e Algazy, 1999).Questa nuova immigrazione per ha ulteriormente destabilizzato i gi fragili equilibri preesistenti, non solo perch i russi, a differenza degli orientali a suo tempo, sono stati accolti con grande generosit dallo Stato (prestiti considerevoli a fondo perduto, facilitazioni immobiliari, priorit nelle assunzioni, ecc.),

ma anche, e forse soprattutto, perch le motivazioni sottostanti non sono di certo rappresentate da convinzioni sioniste, quanto dalla ricerca di condizioni di vita ed economiche migliori (Giorgio, 2000). I russi, inoltre, sono fieri della loro identit europea, del loro modo di vivere, che ostentano e tentano di imporre, e della loro capacit di auto-organizzarsi, anche dal punto di vista della rappresentanza politica (Galili, 2000). Dal canto loro gli "orientali" Mizrahi, che spesso si sono trovati a dover condividere lo stesso spazio geografico e sociale con i nuovi arrivati, hanno risposto con un irrigidimento di quelle posizioni sioniste, marcatamente di tipo nazionalistico-religioso, mostrando, tra l'altro, di aver interiorizzato l'immagine sprezzante e quasi razzista che gli Ashkenazi avevano di loro (Vidal e Algazy, 1999). Tuttavia, i fenomeni di intolleranza etnica che hanno percorso Israele negli ultimi decenni hanno radici lontane, in quella stessa figura di "ebreo nuovo" che il sionismo sognava: un ebreo-israeliano monolitico a fondamento di una societ unitaria che aveva condotto, soprattutto negli anni '50 e '60, ad una omogeneizzazione brutale il cui costo attuale comporta che ogni gruppo rivendichi non solo una sua identit e collocazione, ma l'egemonia, e che l'attuale sistema elettorale ha in qualche modo legittimizzato attraverso l'etnicizzazione della politica (Giorgio, 2000). Le elites ashkenazim si sono sempre pi legate ai settori avanzati dell'economia mondiale, lasciando indietro larghi strati di popolazione ebraica, in prevalenza Mizrahim, mentre i russi appaiono in questo gioco ancora una incognita. Non sono pochi gli studiosi israeliani di scienze sociali, e non solo, a sostenere che per Israele il carattere democratico del Paese unicamente una costruzione percettiva, cui hanno contribuito, e contribuiscono, a vario titolo, oltre agli apparati governativi dominanti, i media, le accademie e la retorica politica (Yiftachel, 1999 - Warschwski, 2004). Infatti, se per democrazia s'intende la presenza di elementi strutturali fondanti, come confini chiari entro cui sviluppare aspetti diversificati della societ civile, una costituzione, uguaglianza di diritti politici ecc., Israele non pu dirsi una democrazia. Al massimo si pu parlare di aspetti democratici che vanno a costruire, per l'appunto, un'immagine percettiva, interna ed esterna, intra-nazionale ed internazionale. In realt, cos come sostiene Oren Yiftachel, ad un' indagine pi approfondita emerge il carattere prevalentemente "etnocratico" di Israele: un regime dove l'appartenenza etnica e non di cittadinanza la logica principale della distribuzione delle risorse; dove i confini dello stato e le specificit politiche sono sfuocati e dovuti principalmente al ruolo delle diaspore etniche e alla posizione subalterna delle minoranze; dove un gruppo etnico divenuto dominante si appropriato dell'apparato statuale e determina la gran parte delle politiche pubbliche (Yiftachel, 1999). Il carattere costitutivo di questa etnocrazia quello della colonizzazione etnica, ma la fusione dei principi etnocentrici con le dinamiche della colonizzazione ha creato modelli di stratificazione sociale e di frammentazione etnica all'interno della stessa societ. Infatti, la ragione fondante della etnocrazia ebraica,

ovvero l'esclusione spaziale dei palestinesi, ha subito una sorta di diffusione intra-sociale ed ha legittimato i modelli di etnicizzazione interna vistosamente visibili nella segregazione spaziale e nella tensione tra ebrei Ashkenazim e Mizrahim. Come i palestinesi, anche i Mizrahim hanno subito una marginalizzazione spaziale all'interno del progetto di colonizzazione israeliano, per la quale sono stati confinati nelle periferie pi isolate del territorio o nei quartieri pi poveri delle principali citt israeliane, limitando fortemente il loro potenziale di mobilitazione economica, sociale e culturale. Inoltre il medesimo modello segregativo stato utilizzato sia nei confronti dei gruppi Haredim (gli ebrei ultraortodossi) che dei russi di recente immigrazione. In altre parole, la logica segregazionista del regime etnocratico stata infusa nelle pratiche spaziali e culturali che hanno lavorato per "etnicizzare" Israele (Yiftachel, 1999). Questo processo ha comportato una serie crescente di ripercussioni sui livelli di eguaglianza dei diritti legali e politici, sul pluralismo culturale, sui livelli di tolleranza nei confronti degli "altri" e, soprattutto, su genuine aperture politiche che superassero lo stile ideologico di vita delle comunit (Warschawski, 2004). Al contrario, la tendenza etnicistica stata cos potente da incrementare in modo smisurato l'affiliazione politica di matrice etnico-classista-religiosa, come risultato evidente nelle elezioni del '96, dove questi tipi di formazioni politiche hanno surclassato i due partiti storici principali, i Laburisti e il Likud, tradizionalmente pi eterogenei dal punto di vista etnico (Tzfadia e Yiftachel, 2003). Il prezzo pi alto di questa operazione stato ovviamente pagato dai palestinesi, seguiti a poca distanza dai Mizrahim insediati nelle citt di frontiera, nei villaggi agricoli periferici e nei quartieri poveri delle citt. Sembra esistere un chiaro legame tra la de-arabizzazione del territorio e la marginalizzazione dei Mizrahim. Essi sono stati posizionati, geograficamente e culturalmente, tra gli arabi e gli ebrei, tra Israele e i suoi vicini ostili, tra un passato orientale sottosviluppato e un futuro occidentale di progresso (Yiftachel, 1997). Ma la profondit e l'estensione della discriminazione tra palestinesi ed ebrei "orientali" decisamente diversa, in quanto i Mizrahim, ricompresi loro stessi nel progetto sionista, hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo attivo nella oppressione dei palestinesi e nella giudaizzazione dei territori contesi e colonizzati. E' possibile dunque individuare uno stretto legame tra la costruzione della nazione e le relazioni spaziali di gruppo all'interno della nazione, tra impatto della colonizzazione delle frontiere e divisione socio-politica dello spazio. Spesso gli studi sul nazionalismo israeliano e le sue implicazioni spaziali si sono mossi a partire dalla dicotomia oppositiva riguardo i confini arabo-israeliani, scotomizzando l'evoluzione dei rapporti e dei conflitti interni alla stessa societ israeliana e l'impatto dello spazio e della sua costruzione sociale sulla evoluzione delle relazioni tra Ashkenazi e Mizrahi. Al contrario, la individuazione/divisione dello spazio "stato-nazione" non un

processo naturale, ma un progetto attraverso cui si costruisce una realt spaziale immutabile e la si radica nelle culture territoriali mediante un rimaneggiamento degli elementi storici, diventando in definitiva un modo efficace per legittimare la dominazione sociale e politica di particolari gruppi (Hobsbawm e Ranger, 2002). Il lato oscuro e spesso poco discusso di questo progetto, l'oppressione delle minoranze socialmente periferiche, che si manifesta attraverso svariati meccanismi, tutti finalizzati alla riproduzione dell'egemonia della maggioranza in nome della storia, del territorio e delle istituzioni dello stato (Massey e Jess, 2001). Interiorizzando una estrema e massificata sintesi della prospettiva orientalista per cui le culture non-europee sono inferiori, le elite dominanti utilizzano la medesima logica di divisione/individuazione dello spazio per marginalizzare e controllare socialmente i gruppi periferici in nome del cosiddetto "interesse" della costruzione della nazione, fornendo in tal modo una sorta di "licenza" sociale per la selezione dell'assetto culturale e territoriale delle minoranze e creando, attraverso il mito dell'unit nazionale, oppressione e disuguaglianza. In questo quadro un caso particolare rappresentato dalle societ colonizzanti, le quali secondo alcuni modelli teorici combinano tre principali raggruppamenti sociali, spesso in relazione gerarchica tra loro sia per quanto riguarda il potere che il prestigio: un gruppo di potere costitutivo, il gruppo dei successivi immigrati che vengono incorporati nel gruppo dominante ma con status inferiore, e un debole gruppo indigeno, spesso escluso dalla "nazione" (Massey e Jess, 2001). Una specifica strategia di politica pubblica sancisce e definisce le profonde divisioni tra i tre gruppi ed esercita pratiche pervasive di controllo sociale nel percorso di costruzione della nazione: una di queste la colonizzazione delle regioni di frontiera e la divisione sociale dello spazio nazionale, come nel caso di Israele (Yiftachel, 1998). Le regioni di frontiera, dislocate ai margini geografici, politici e culturali della societ principale, giocano un ruolo centrale nella costruzione delle identit nazionali e statuali. Esse sono zone fisicamente e metaforicamente "indistinte", al margine del controllo collettivo, ma che delineano la direzione dell'espansione e della crescita, forniscono le basi per simboli, leggende e miti usati nella costruzione dell'identit nazionale: sono il luogo dove la collettivit affina la sua identit nell'interazione con gli "altri"(Yiftachel, 1999). La promozione e la costruzione sociale delle regioni di frontiera hanno rappresentato un pilastro centrale del progetto di costruzione dell'identit in molte societ di colonizzazione, ed in alcune societ post-coloniali i governi hanno deliberatamente re-insediato piccoli nuclei di gruppi etnici maggioritari in alcune aree di frontiera interne, con lo scopo di rinsaldare il controllo dello stato. Le frontiere interne spesso sono presenti in quelle regioni con un'alta concentrazione di minoranze etniche, dove il gruppo dominante usa immagini ed ethos positivi dello sviluppo per espandere l'influenza dell'apparato statale e riprodurre il proprio potere. Tale operazione comporta in particolare il controllo della pianificazione urbana e regionale, attraverso cui le elite dirigono la collocazione e gli insediamenti in particolari aree, guidano lo

sviluppo, regolano l'uso del territorio ed impongono confini municipali e burocratici (Tzfadia e Yiftachel, 2003). La divisione sociale dello spazio dunque fondamentale nella comprensione delle relazioni tra gruppi, dal momento che essa riproduce ineguaglianze sociali ed identitarie, come l'accesso ai servizi o il prezzo della terra, con l'obiettivo di rinforzare e riprodurre una determinata distribuzione delle risorse e delle opportunit (Yiftachel, 1998). Come ci ricorda Edward Said, i processi di insediamento e colonizzazione raramente sono neutrali, piuttosto riflettono la subordinazione e la colonizzazione dello spazio, il quale, in quanto produzione sociale, ristruttura costantemente le percezioni sociali, in un continuo rimaneggiamento della memoria collettiva di gruppo (Massey e Jess, 2001- Said, 1999). Fra le altre peculiarit del colonialismo israeliano bisogna notare che esso si configurato pi dal punto di vista territoriale che economico (Yiftachel, 1999), ma soprattutto che, a differenza di altre societ coloniche dove il nazionalismo stato uno sviluppo di seconda data (Stati Uniti, Australia, Canada, ecc.), Israele stato portatore sin dall'inizio di uno specifico etno-colonialismo, di matrice europea, assodato come modello a-priori del progetto di costruzione della nazione. Lo stato israeliano si configurato sulla base di tre gruppi sociali: un nucleo costitutivo di coloni, in prevalenza Ashkenazi, un gruppo indigeno costituito dai Palestinesi, e un gruppo di immigrati post-indipendenza, in prevalenza Mizrahi. Alla fine del '96 la composizione di Israele contava il 34% della popolazione Ashkenazi, il 37% Mizrahi, il 16% arabi e il rimanente 14% di russi recentemente immigrati, con un gruppo costitutivo dominante per il quale il controllo etnico, sia sugli arabi che sulle minoranze ebraiche, era motivato dalla paura di una "orientalizzazione" del Paese e della conseguente erosione della dominazione Ashkenazi (Vidal e Algazy, 1999). La linea pi comunemente adottata stata quella di diffondere una serie di immagini negative sui Mizrahi e sulla loro cultura sin dagli anni '50, quando lo stesso Ben Gurion si riprometteva, a nome dello Stato, di assorbire queste popolazioni e di imprimere loro i valori della Nazione ebraica (Barnavi, 1996). In parallelo la politica pubblica si orientata verso strategie specifiche di controllo sociale che mantenessero e rinforzassero il ruolo dominante Ashkenazi, come ad esempio la rapida de-arabizzazione degli ebrei orientali, la stigmatizzazione della cultura e della lingua araba e una generale regolamentazione di carattere restrittivo di tutti i cittadini israeliani di origine araba. In questo quadro, la diffusione territoriale attraverso gli insediamenti colonici ha giocato un ruolo di primo piano, assolvendo a due funzioni prevalenti: la ricollocazione di molti Mizrahi nella periferia del Paese e della societ, lontano dal potere e dalle risorse pi vantaggiose, e l'insediamento di molti di questi sulle terre e sui villaggi confiscati agli arabi; una politica che ha in tal modo orientato il conflitto tra i due principali gruppi non-Ashkenazi (Giorgio, 2000). Parallelamente gli insediamenti, soprattutto di frontiera, sono stati celebrati come l'asse portante della costruzione della nazione, esempio illuminante di sacrificio personale e strumento vitale a favore della collettivit, tramite una

retorica discorsiva utile sia ad unificare la causa di ebrei provenienti da diversi retroterra culturali, sia a consolidare la nuova identit nazionale. La divisione sociale dello spazio stata resa possibile dall'attuazione di tre pratiche prevalenti: la prima consistente nella dispersione e nel "confinamento" della popolazione ebraica disagiata (Mizrahi), la seconda con l'uso di meccanismi di segregazione che hanno trasformato queste localit in veri e propri ghetti, ed infine l'impiego di "procedure di screening dei residenti" tramite cui selezionare nelle aree urbane candidati appropriati da destinare agli insediamenti municipali periferici (Tzfadia e Yiftachel, 2003), con lo scopo di creare una enclave di classe media e di provenienza urbana che fungesse da supporto alle istituzioni dello stato, ai poteri legali, nonch da principale gestore delle risorse destinate allo sviluppo (Barnavi, 1996). Questi processi hanno portato ad una sempre maggiore marginalizzazione degli ebrei Mizrahi che ne ha bloccato la mobilit sociale, rinforzando ed approfondendo la loro posizione inferiorit ed ampliando il divario che li separa dal gruppo Ashkenazi. La resistenza dei Mizrahim Il movimento Mizrahi, presente in Palestina fin dai primissimi anni del '900, ha da sempre avuto una specifica connotazione religiosa, che a breve divenne nazional-religiosa andando a confluire tra le correnti di minoranza del sionismo. Nonostante l'apparente marginalit del Partito Mizrahi esso riusc ad esercitare all'interno del sionismo un ruolo considerevole per la sua capacit di attrarre all'idea e al progetto sionista gli ebrei sefarditi, pi religiosi che nazionalisti. Successivamente far parte di tutte le coalizione di governo del Mapai (il Partito Operaio Sionista), con l'unico scopo di consolidare il carattere ebraico dello Stato di Israele, contribuendo a dare una connotazione religiosa al sionismo laico ed inscrivendolo nella continuit della tradizione, come movimento di un popolo che aspira al Ritorno e ad un'esistenza nazionale (Guolo, 1997). Cos, mentre le forze politiche sioniste secolari sono impegnate nella costruzione dei confini fisici dello Stato, dei nuovi miti nazionali e della definizione dell'identit israeliana, il Mizrhai, insieme con gli altri partiti religiosi ortodossi, parteciper attivamente alla costruzione di questa stessa identit attraverso una strategia di "progressiva ebraicizzazione" dello Stato (Guolo, 1997), che punter a stabilire una "religione civile", come lo stesso Ben Gurion augurava, che gradualmente sostituisse il giudaismo talmudico e rabbinico con una esegesi biblica selettiva, di tipo mito-simbolico, in cui venissero valorizzati elementi, come l'eroismo biblico del popolo d'Israele, a sostegno dell'identit nazionale (Barnavi, 1996). E' solo a partire dagli anni '70 che le espressioni di resistenza da parte dei Mizrahim alla dominazione Ashkenazi diventano pi sostanziali e visibili. Seguendo sinteticamente le evoluzioni temporali del movimento, prenderemo in considerazione alcuni elementi attraverso cui, a nostro parere, si espressa e si esprime la rivendicazione identitaria della popolazione Mizrahi, che non si configura soltanto come un'espressione di mera resistenza alle politiche dominanti, ma che possiede caratteri pi originali e

creativi. i due modelli e questa differenza in stretta correlazione con la Come abbiamo detto, a partire dagli anni '70 il diffuso sentimento questione geografica e con il suo significato socio-politico. di dissonanza dei Mizrahi si condensa in chiare manifestazioni di Secondo questa prospettiva, se sul piano nazionale la protesta dei protesta, che a livello politico sfociano nella costituzione del Mizrahim ha dato voce alla domanda di una pi equa movimento giovanile delle "Black Panthers" e nella successiva distribuzione delle risorse pubbliche, soprattutto di natura socioascesa del Likud a scapito dei Laburisti, un partito ritenuto ormai economica, ma lo ha fatto con un tono accomodante e comunque rappresentante esclusivo degli interessi delle elites Ashkenazi e ancorata al discorso politico sionista dei confini "legittimi", a della classe media (Barnavi, 1996). Tuttavia, la vera novit si livello locale viene portata avanti una sfida aperta alla classe riscontra nelle "citt di sviluppo", insediamenti periferici di dominante Ashkenazi, manifestata dallo sviluppo di visioni e voci piccola e media grandezza demografica, dove nel corso degli anni alternative (come, ma non solo, l'identit ultra-ortodossa '50 vennero allocati la maggior parte degli immigrati mizrahim, sefardita) e con l'obiettivo di trasformare il sionismo dall'interno, secondo una specifica strategia di "dispersione della mettendone in dubbio i paradigmi discorsivi fondanti, primo fra popolazione", resa operativa dal cosiddetto "Piano Sharon" tutti l'essenza collettiva ebraica (Tzfadia e Yiftachel, 2003). (1948-52), attraverso cui il nascente stato israeliano si preparava I due autori evidenziano come un gruppo etnico possa fare uso di alla colonizzazione e alla ci che considera essere la "corretta" giudaizzazione del territorio (Tzfadia e identit ed avvantaggiarsene per Yiftachel, 2003). soddisfare i propri interessi. L'identit Le mobilitazioni politiche in queste infatti si caratterizza per una natura aree collocate lontano dai centri di multistratificata, frutto delle potere nazionali, e quindi caratterizzate costruzioni identitarie cristallizzatesi dalla marginalit geografica, la nel tempo e nello spazio all'interno di persistente deprivazione e l'instabilit una specifica comunit, e ci sembra demografica, hanno assunto negli essere particolarmente vero per quei ultimi anni tratti sempre pi radicali a gruppi di migranti la cui identit vista seguito di ulteriori fattori di pressione come segno di un basso status sociale sociale quali le recenti e massicce o, aggiungono gli autori, la cui identit ondate migratorie dalle ex-repubbliche "intrappolata" ai margini di una sovietiche, il cui afflusso stato in gran societ coloniale (Yuval-Davis, 2000 parte direzionato verso queste citt, Tzfadia e Yiftachel, 2003). L'identit nonch le ripetute crisi economiche "intrappolata" solitamente occupa dovute alla svolta neo-liberista e un'area incolore collocata fra i centri di globalizzante dell'economia israeliana potere e benessere, in cui le possibilit (Giorgio, 2000 - Ramadan, 2004). di mobilit sono estremamente scarse. Tuttavia, va sottolineato come, La principale opzione percorribile nonostante la loro marginalit socioresta infatti l'inclusione nella struttura politica, le "citt di sviluppo", con una centralizzatrice nazionale, che viene popolazione attuale di circa 800.000 tuttavia pagata con una inferiorit unit (su 5 milioni circa di abitanti), strutturale all'interno della societ stiano diventando sempre pi una (Tzfadia e Yiftachel, 2003). Questa la componente significativa della politica strada percorsa fino ad alcuni decenni nazionale e della formazione fa dalla comunit Mizrahi, quando ha Gerusalemme identitaria. adottato l'opzione nazionale di Erez Tzfadia e Oren Yiftachel dell'Universit "Ben Gurion" di bypassare il sistema politico esistente con la nascita e il costante Be'er Sheva, partendo dall'assunto che gli obiettivi etnici ed rafforzamento dei gruppi ultra-ortodossi (Sha'as) (Guolo,1997). identitari sono costantemente rimodellati dal materiale e dal Diversa la situazione (nella dimensione) a livello locale, dove discorso politico dominante, hanno studiato le campagne di l'immediatezza e la concretezza degli interessi strettamente mobilitazione politica dei Mizrahim dislocati nelle "citt di interrelata alla difesa di uno spazio percepito come "nostro" dalla sviluppo" prendendo in considerazione due arene fondamentali popolazione, possono favorire piccole ma paradigmatiche rotture entro cui essa si esprime: la protesta, diciamo cos, extra- nella egemonia nazionale. Le mobilitazioni degli immigrati, siano parlamentare di respiro nazionale e le campagne per le elezioni esse nazionali o locali, hanno in comune il riconoscersi in una locali. Queste due prospettive danno conto in modo illuminante etno-classe, ovvero rinsaldano ed emotivizzano un legame tra dei modelli di cambiamento della mobilitazione stessa e delle origini etniche, condizioni materiali attuali e mobilitazione forme identitarie che tali modelli sottendono (Tzfadia e Yiftachel, politica (Massey e Jess, 2001). Ciononostante la definizione di 2003). La ricerca, infatti, informa di una sostanziale differenza tra identit immigrate ed identit locali non mai netta perch, nel

tempo, i gruppi immigrati sviluppano un sentimento domestico verso il luogo in cui si sono insediati, sentimento che pu diventare "illusorio" quando il pre-dominio minacciato dall'arrivo e/o della presenza di nuovi gruppi etnici. In questo caso il "luogo" diventa lo spazio di contesa e contestazione, dando vita a mobilitazioni etniche e intensificazioni, anche violente, del conflitto identitario. Dalla ricerca effettuata da Tzfadia e Yiftachel sulle mobilitazioni dei Mizrahim riportate dai due maggiori quotidiani israeliani Ha'aretz e Ma'ariv, in particolare la protesta pubblica e la politica locale nelle citt di sviluppo nel periodo compreso tra il 1960 e il 1998, si evidenzia che, se da una parte le manifestazioni di protesta mettono in luce il carattere di "intrappolamento" del gruppo all'interno del discorso di potere sionista della societ coloniale israeliana, con una conseguente dimensione di collusione, dall'altra a livello locale la protesta si carica del sentimento di possesso identitario del luogo e aderenza spaziale dell'identit, ed in ragione di questa forza, essa in grado di esprimere contrasti pi aperti alle linee fondanti egemoniche, come ad esempio verso l'indiscriminata politica di immigrazione che riguarda il paradigma sionista dell'indiscussa omogeneit e solidariet tra ebrei (Tzfadia e Yiftachel, 2003). Questo diverso carattere della mobilitazione, tra il nazionale e il locale, informa della multistratificazione dell'identit dei Mizrahim periferici, come del resto di gran parte delle identit collettive, nel senso che, come argomenta Nira Yuval-Davis, per spiegare il sentimento di cittadinanza necessario tenere presente come, all'interno della collettivit, esso appaia una costruzione a pi strati: locale, etnico, nazionale, statale, intra/sovra-statale e come sia influenzato, ed in fin dei conti costruito, dalle relazioni e dai posizionamenti di ogni strato in specifici contesti storici (Yuval-Davis, 2000). Cos l'identit Mizrahi viene giocata su pi piani, anche contraddittori tra loro, ma ugualmente espressivi delle dinamiche cui sono sottoposti i gruppi etnici deprivati: nel gioco nazionale il sentimento prevalente sembra essere quello di un'attiva e leale partecipazione al progetto sionista Ashkenazi, quasi a voler offuscare le differenze tra la periferia (le citt di sviluppo) e il centro (la societ dominante), anche se ci perpetua "l'intrappolamento" del gruppo ai margini di quella societ che ne ha favorito la deprivazione, ma dalla quale dipendono; mentre nel gioco locale il carattere di etno-classe si fa pi preciso ed aggressivo, ed il gruppo appare in grado di costruire anche una contro-narrazione al discorso dominante della solidariet ebraica. Tzfadia e Yiftachel concludono sottolineando come la condizione e i movimenti di resistenza dei Mizrahim periferici, la nuova e crescente identificazione con il partito/movimento Sha'as e l'incremento dell'uso delle categorie religiose ( in particolare contro i russi "atei e forse nemmeno ebrei"), siano immagini delle

"fratture" che cominciano a delinearsi nel predominio della etnocrazia secolare Ashkenazi, a partire dalle sue periferie ma con una reale potenzialit di diffusione verso la dimensione nazionale (Tzfadia e Yiftache, 2003 - Galili, 2004). Conclusioni Oren Yiftachel utilizza una suggestiva ma quanto mai esplicita metafora per spiegare la contraddizione dello stato israeliano e il paradosso del discorso che ha costruito attorno alla sua contemporanea natura di stato ebraico e democratico. Esso come la torre di Pisa: dall'interno non possibile coglierne le distorsioni geometriche perch tutto perfettamente in asse, ma da uno sguardo esterno si nota immediatamente la sostanziale differenza con quanto la circonda e con strutture architettoniche simili (Yiftachel, 1999). Allo stesso modo, la maggior parte degli ebrei accetta il carattere ebraico dello stato e lo giustifica quale paradigma fondante del discorso sionista che alla base del progetto di giudaizzazione del paese e della societ, anche se questo invece di favorire una reale integrazione delle diverse anime culturali israeliane, produce una frammentazione ed una segregazione delle minoranze pi marginalizzate, dando luogo ad una forma statuale fondata sull'ethnos piuttosto che sul demos. Come si cercato di evidenziare, gli ebrei Mizrahi hanno assolto ed assolvono a quella funzione tipica dei gruppi deprivati nei contesti egemonici descritti da Gramsci, dove la verit dominante viene diffusa con l'uso di narrazioni diverse sull'intera societ da parte delle elite di potere al fine di prevenire il sorgere di voci alternative e di riprodurre in tal modo le relazioni di dominio sociale e politico (Gramsci, 1975). Ma altrettanto evidente che la mobilitazione sta assumendo, seppur a partire dagli spazi periferici, una connotazione sempre pi oppositiva e dirompente. Vorrei sottolineare come l'etnicizzazione della societ israeliana e le sue numerose implicazioni, oltre ad essere un argomento poco trattato in lingua italiana, permetta di visualizzare le complesse dinamiche che sottendono la costituzione e costruzione identitaria dello Stato d'Israele, una realt mediaticamente a noi cos vicina eppure tanto sconosciuta. L'attuale riproporsi del discorso coloniale, dove l'immagine e il costrutto percettivo forniti dal discorso dominante hanno un valore essenziale, non riguarda solo quelle minoranze arabo/palestinesi che siamo abituati a considerare in rapporto dicotomico/antinomico con Israele, ma riguarda soprattutto gli stessi gruppi ebraici che hanno reso possibile l'esistenza spazio-culturale della nazione. La caduta dei miti fondanti nazionali sui quali si sono costruite le politiche e le istituzioni, e la lotta per egemonizzare l'israelianit aperta in tempi recenti, fanno intravedere probabili scenari di grandi trasformazioni socio-culturali, dove i Mizrahim insieme con la comunit russa giocheranno sicuramente un ruolo determinante.

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Una ricerca etnomusicologica nell'ambito delle cure 'alternative': tre pratiche musicali di guarigione
di Patrizia Santoro

Tra il 2003 e il 2004, in occasione della tesi1 , ho realizzato una ricerca etnomusicologica con l'obiettivo di studiare alcuni metodi di guarigione con musica utilizzati nell'ambito delle cure non convenzionali della medicina olistica. Ho focalizzato l'attenzione su tre performance praticate in prevalenza nell'area milanese che utilizzano la musica, la danza, il canto e stati alterati di coscienza, con finalit terapeutiche: la Trance Dance, il Vocal Harmonics in Motion e l'Arpeincoro in Meditazione. Queste tre pratiche evidenziano e riassumono un fenomeno che si molto sviluppato e diffuso negli ultimi anni e che consiste nella reinterpretazione e reintroduzione sincretica di concetti, comportamenti, aspetti rituali e simbolici, tecniche musicali e terapeutiche desunte da contesti culturali "altri". Nella mia ricerca ho tentato di comprendere l'uso e la funzione dei procedimenti tecnico-musicali e di fare emergere le connessioni con la prassi terapeutica. L'analisi degli eventi ha rivelato l'esistenza di una rete di significati che cercher di riassumere in queste pagine.

Premesse La medicina ufficiale non riconosce l'efficacia terapeutica delle cure olistiche che quindi restano relegate su un terreno di confine con l'ufficialit. Si qualificano comunque come terapie, ma il loro campo di intervento si limita ad una pi generica proposta di benessere psico-somatico o spirituale. Una convinzione comune che collega tra loro le diverse discipline "alternative" l'idea che esista una unit di corpo, psiche, emozioni e mente e il presupposto che solo l'integrit dell'essere, data dal riconoscimento e dall'accettazione di tutte le sue componenti, garantisca una buona 'salute olistica'. L'uomo contemporaneo strutturalmente 'scisso' in quanto la mente e la razionalit predominano e controllano il piano emozionale e spirituale. I sintomi somatici sono l'espressione e la rappresentazione simbolica del malessere pi profondo e sottile dell'anima. La strada per reintegrare le parti separate passa dall'esclusione del predominio della componente razionale. Nel silenzio della mente si ritrova il contatto con il proprio s e la comunione con l'universale. Il fondamento, che pu essere definito metafisico, delle cure olistiche si basa sul concetto di "energia". L'energia una grande forza che presiede alla vita, la vita stessa. E' presente nell'universo e nell'essere umano in una sorta di identit tra aspetto soggettivo e universale. La sua essenza rimanda all'idea di movimento e di trasformazione. In quest'ottica la malattia si verifica quando il libero fluire dell'energia ostacolato. Un altro tratto distintivo delle cure olistiche la convinzione che i poteri di guarigione siano frutto di concentrazione e di consapevolezza, condizioni psichiche che si raggiungono attraverso la sperimentazione di stati di coscienza fuori dall'ordinario. L'agente curativo, qualunque esso sia, non ha potere di guarigione in s. La sua capacit quella di risvegliare le energie di autoguarigione latenti. L'alterazione di coscienza, che pu andare dallo stato contemplativo o meditativo, alla trance

vera e propria, funzionale al raggiungimento di questo obiettivo. Questi metodi di guarigione si collocano su una sottile linea di demarcazione tra aspetti terapeutici e sfera del sacro. Convivono teorie derivate da correnti della psicologia contemporanea, suggestioni religiose e spirituali, tecniche corporee orientali, medicine cinesi, miti pagani, informazioni scientifiche e tecnologie informatiche. Collaborano categorie concettuali e simboliche dalle origini diverse - sia temporali che geografiche che, estrapolate dai loro contesti tradizionali originari e riassemblate a mosaico, danno origine a nuovi universi di significato. All'interno di questo contenitore si attuano dinamiche di trasformazione e di ricontestualizzazione in cui alcune pratiche connesse alla musica, alla danza e a stati modificati di coscienza hanno trovato una nuova collocazione significante. I criteri di formazione e di fruizione delle pratiche terapeutiche rispondono ad esigenze di utilit e di esperienza. Quando una pratica terapeutica non pi ritenuta utile viene abbandonata e sostituita. L'esperienza la prima verifica dell'utilit. Il loro denominatore comune si pu individuare in una ricerca di senso che dia risposte integrative o sostitutive a quelle della medicina ufficiale, ritenute inefficaci, quindi inutili. Gli informatori e le tecniche d'indagine L'indagine preliminare si basata sulla consultazione di riviste specializzate nel settore del benessere e delle tecniche alternative e del web, che si rivelato essere un enorme serbatoio di informazioni riguardanti le offerte di medicina olistica presenti sul mercato ed un efficace mezzo di pubblicit e di diffusione delle stesse. Ho preso contatto con alcuni terapeuti che hanno accettato di divenire gli informatori per la ricerca. Essi sono: Tiziana Dainotto detta Anand Nirava2 per la Trance Dance, Lorenzo Pierobon per il Vocal Harmonics in Motion e Cristina Ruffino per Arpeincoro in Meditazione. La ricerca sul campo si

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basata sulla tecnica delle interviste strutturate agli informatori e sull'osservazione degli eventi che avvenuta, il pi delle volte, durante la partecipazione agli stessi. 'L'osservazione partecipante' di malinowskiana memoria si dovuta trasformare in 'partecipazione osservante' a causa della struttura fortemente ritualizzata degli eventi che impedisce l'accesso a qualsiasi osservatore: se si all'interno dello spazio riservato al rituale per partecipare al rituale stesso, altrimenti non si ammessi. Le interviste sono state strutturate in modo da rilevare alcuni elementi socio-anagrafici degli informatori e le dinamiche personali e familiari connesse all'esercizio delle attivit terapeutico-musicali. Le domande si proponevano di chiarire gli obiettivi degli interventi terapeutico-musicali, i concetti e i comportamenti sottesi ai procedimenti tecnico-musicali, gli aspetti rituali e simbolici delle pratiche e degli strumenti utilizzati, le tradizioni di riferimento. Ho cercato di fare emergere l'orizzonte ideologico e culturale relativo ai concetti di cura e di guarigione ed i loro rapporti con la medicina ufficiale. La loro attivit si svolge prevalentemente a Milano e provincia, dove abitano. Spesso, per, le sessioni terapeutico-musicali si svolgono fuori Milano, e a volte anche fuori dell'Italia. Infatti, le performance scelte per questa ricerca, non si praticano in una sede fissa e i conduttori si definiscono dei "professionisti itineranti". Quest'aspetto fa parte di un modello culturale e professionale. Le occasioni di lavoro devono essere create di continuo attraverso forme di pubblicit costituite da conferenze di presentazione, distribuzione di materiale a stampa, presenza nella rete Internet3. Le strutture che di solito accolgono proposte nell'ambito del benessere e delle tecniche alternative sono costituite da: palestre, istituti di medicina olistica, centri culturali, agriturismi. In un'occasione ho seguito una conferenza in un ospedale4. Gli eventi hanno caratteristiche in grado di adattarsi agli ambienti in cui si realizzano. Pu essere valorizzato l'aspetto di performance musicale o coreutica in contesti di svago ed intrattenimento, oppure fatto risaltare quello terapeutico fino ad assumere una dimensione specificatamente medica5. Tra i partecipanti nessuno ha assunto il ruolo di informatore perci le informazioni provengono prevalentemente dalle interviste ai terapeuti. Durante la partecipazione agli eventi ho fatto qualche "chiacchierata" informale per capire le motivazioni del ricorso alla medicina alternativa ed in particolare alle pratiche oggetto della ricerca, il livello di adesione ideologica all'orizzonte culturale e operativo proposto dai conduttori e l'efficacia delle pratiche in relazione agli obiettivi enunciati e alle aspettative riposte. Una prima considerazione si pu fare sul genere dei partecipanti: la maggioranza costituita da donne. Gli informatori danno un'interpretazione che fa riferimento ad una pi alta consapevolezza ed autonomia femminile nel riconoscere il proprio malessere psico-fisico e ad una maggiore determinazione nella ricerca di soluzioni efficaci e alternative per affrontarlo e risolverlo. Un'altra considerazione riguarda il primato della pratica in questi eventi, ossia la partecipazione e il coinvolgimento attivo dei pazienti. Gli utenti sostengono la necessit, prioritaria rispetto alla credenza, di fare l'esperienza;

affermano che uno stato modificato di coscienza, come quello meditativo, non pu essere spiegato, pu solo essere provato. Attraverso l'azione agita in prima persona si verifica l'utilit, si sperimentano gli stimoli positivi per il corpo e la salute e si accede all'espansione di coscienza che consente di prendere contatto con le proprie emozioni, i propri sentimenti ed i comportamenti ripetitivi che ostacolano l'autorealizzazione. "C' un'antropologia della musica, e si colloca in ambito musicologico e antropologico [] poich la musica non altro che un elemento che si aggiunge alla complessit del comportamento umano."6 Alan P. Merriam Tre metodi di guarigione 'alternativi': prassi terapeutica e musicale La musica "in grado di emozionare"7 gli stati modificati di coscienza, il movimento e la danza, attraverso i quali scoprire, esprimere ed esteriorizzare sentimenti ed emozioni, sono gli strumenti fondamentali di molte pratiche di guarigione 'alternative'. La Trance Dance, il Vocal Harmonics in Motione e Arpeincoro in Meditazione sono caratterizzate da alcuni tratti comuni: esibiscono una struttura formale fortemente ritualizzata, utilizzano tecniche per l'induzione di stati modificati di coscienza che vanno dalla meditazione alla trance, si basano sul principio delle terapie di gruppo secondo il quale le manifestazioni individuali si inseriscono in un contesto aggregativo, partecipativo e di condivisione che garantisce l'espressione e il contenimento. Dal punto di vista della prassi musicale questi metodi presentano alcuni aspetti peculiari, individuabili nel ritmo e nella danza per la Trance Dance, nel canto corale per Vocal Harmonics in Motion e nella pratica strumentale del suonare insieme per Arpeincoro in Meditazione. La Trance Dance una terapia coreutico-musicale compresa in un percorso neo-sciamanico8 che fa riferimento soprattutto alla tradizione degli indiani nord americani. Si serve del ritmo delle percussioni, di tecniche respiratorie e della danza rituale attraverso la quale si accede ad uno stato di trance, che rappresenta l'agente curativo di questa tecnica terapeutica. Alcuni oggetti rivestono il valore di paraphernalia, ossia di oggetti liturgici che, nel particolare contesto cerimoniale, assumono un carattere sacro. In particolare una 'bandana' da collocare sugli occhi per escludere l'esterno e concentrare l'attenzione su se stessi. L'esclusione della vista, senso prevalente nella nostra 'cultura', induce un potenziamento della capacit percettiva degli altri sensi, altera la mappa delle rappresentazioni sensoriali e di conseguenza modifica le rappresentazioni della realt. Erbe ed incensi, bruciati durante il rituale, concorrono ad un'alterazione in senso iperestesico delle percezioni dei partecipanti. Alcuni strumenti, come il tamburo sciamanico e il sonaglio sciamanico, per la loro valenza simbolico-rituale, devono essere annoverati piuttosto tra gli oggetti 'sacri' che tra gli strumenti musicali. Il

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primo rappresenta "il battito del cuore di madre terra", il secondo "la voce dello spirito". Entrambi sono considerati "strumenti di potere sciamanico" e vengono suonati dalla guaritrice per facilitare la risoluzione di blocchi che si possono verificare nella danza terapeutica. Secondo la conduttrice durante la danza si accede sempre ad uno stato di trance, nella quale lo "spirito" si incarna nel danzatore. Attraverso questo stato possibile modificare i comportamenti condizionati che bloccano l'espansione creativa e prendere contatto con il proprio vero s. L'etnomusicologo Gilbert Rouget ha studiato la trance religiosa di molti riti tradizionali e ha analizzato i rapporti tra la musica e la trance. Confrontando questo rituale contemporaneo con quelli osservati in contesti tradizionali da Rouget, si pu affermare che la Trance Dance strutturata formalmente come un rito di possessione. Dal punto di vista musicale i partecipanti non sono i musicanti della propria trance, ruolo tipico dello sciamano, bens i posseduti, ovvero i "musicati", secondo la definizione usata da Rouget. Le similitudini si limitano per a questi elementi. Nel contenuto della terapia sono rilevabili connessioni con alcune correnti della psicologia contemporanea mescolate con la spiritualit 'non convenzionale' espressa dai movimenti neo-sciamanici. Di fatto questa pratica neo-sciamanica estranea a qualsiasi implicazione religiosa e l'entit chiamata "spirito" non una divinit, ma piuttosto assimilabile al concetto di energia. E' una forza presente nell'universo ed una delle componenti che, insieme a corpo, mente ed emozioni, costituisce l'integrit dell'essere umano, condizione imprescindibile per la buona "salute olistica". La trance, indotta dalla musica e dalla danza, una strada per reintegrare le parti separate, o, per dirlo con le parole della terapeuta, per "riportare a casa i pezzi di anima mancante", quindi l'orizzonte concettuale dell'evento si colloca nell'ambito dei principi della medicina olistica. Per quanto riguarda la prassi musicale la Trance Dance utilizza strumenti a percussioni, suonati dal vivo. Si tratta di vari tipi di membranofoni (tamburo sciamanico, congas, bongos, djembe, tam del Kenia), di idiofoni (sekere, maracas, diversi tipi di sonagli) e il mixer. Qualche volta, quando sono disponibili strumentisti in grado di suonarli, vengono usati il didgeridoo, la tampura e le cristal bowls9, tutti strumenti con un forte valore simbolico dal punto di vista terapeutico. Gli esecutori sono musicisti professionisti, il loro ruolo molto importante ai fini del buon esito della performance perch si occupano di organizzare, attraverso il ritmo, le diverse fasi della terapia coreutico-musicale. La guaritrice, oltre a condurre la sessione terapeutica, interpreta un ruolo musicale attraverso la scelta e il mixaggio delle sonorit e dei ritmi adatti alle varie fasi dell'evento. Suona anche alcuni strumenti a percussione caratterizzati soprattutto da una valenza simbolico-rituale, come il tamburo sciamanico e il sonaglio sciamanico. Le percussioni agiscono su una base musicale costituita, di solito, da CD ideati per questo tipo di rito, ma pu essere utilizzato qualsiasi pezzo musicale debitamente mixato. L'analisi musicale di alcuni brani contenuti nei CD ha rilevato elementi di

globalizzazione culturale nei timbri, che propongono percussioni europee, orientali, sudamericane ed un uso rilevante della tastiera e di suoni campionati, come la voce e il respiro. Sono presenti tratti del minimalismo americano, sonorit mediate da musica etnica, ma anche dalla discomusic e dalla techno. I canoni sono assolutamente occidentali per quanto riguarda gli aspetti formali, ma soprattutto per l'utilizzo della tecnologia musicale. Un prodotto senza anomalie interne, molto professionale, che utilizza alcuni elementi di nota utilit comunicativa, adatto all'obiettivo terapeutico per il quale pensato. Il Vocal Harmonics in Motion un metodo che fa riferimento alle teorie che derivano dalla visione energetica della medicina cinese. Utilizza un tipo di canto tradizionale, movimenti e tecniche respiratorie ripresi dalle arti marziali orientali, procedure sperimentali della musicoterapia contemporanea, per ottenere uno stato meditativo funzionale al raggiungimento del benessere psico-fisico. E' l'atto stesso del cantare, ascoltando i propri suoni e quelli del gruppo, che induce l'alterazione dello stato di coscienza in cui si sperimenta una dimensione di sospensione della realt spazio-temporale. I partecipanti alle sessioni di Vocal Harmonics in Motion vengono istruiti e messi in grado di produrre suoni armonici vocali che, secondo questa pratica terapeutica, procurano un effetto salutare sull'equilibrio emotivo. Dal punto di vista musicale il canto si chiama 'canto difonico'. Viene utilizzata una tecnica che enfatizza i suoni armonici vocali e rende percepibili chiaramente due voci: un suono bordone di altezza fissa e una seconda voce dal timbro penetrante che esegue una linea melodica in armonici. Le tradizioni di riferimento sono quella del canto armonico tibetano, ma soprattutto quella del canto xmij, una parola mongola che significa faringe. Il canto di gola xmij, un canto tradizionale praticato in Asia Centrale (a Bashkiria, vicino ai monti Urali, in Kazakhstan e Uzbekistan, in Mongolia e Khakassia, ad Altai e Tuva10, due repubbliche autonome della federazione Russa, a nord del confine mongolo) principalmente in ambito sciamanico e animista, ma anche con finalit estetiche ed artistiche. Il Vocal Harmonics in Motion prevalentemente una pratica di libera improvvisazione corale con l'emissione di armonici vocali, durante la quale tutti i partecipanti assumono un ruolo musicale. L'organizzazione del canto non ha norme esecutive e questo consente solo descrizioni probabilistiche. Non si pu parlare di esecuzione musicale, ma di un insieme di suoni organizzati secondo una finalit terapeutica dove il contesto, definito dalla natura terapeutica dell'evento nell'ambito della visione olistica della cura, a rendere significativa e comunicativa la prassi canora. Questo metodo prevede anche l'uso di alcuni strumenti musicali. I pi adatti sono quelli che producono suoni ricchi di armonici, in particolare alcuni idiofoni (gong, campane tubolari, cimbali, singing bowls), alcuni cordofoni (sitr, vn, tampura)11 e tra gli aerofoni soprattutto il didgeridoo. Tutti gli strumenti utilizzati sono accomunati dal fatto di possedere un forte valore simbolico in quanto si ritiene che vengano utilizzati tradizionalmente nel corso di cerimonie sacre o di guarigione. L' Arpeincoro in Meditazione ' una pratica strumentale in cui la

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sonorit dell'arpa celtica, una selezione di melodie della tradizione nordica con valenze simboliche ed una prassi esecutiva di gruppo vengono usate per indurre una condizione di concentrazione attiva e lo stato meditativo. La teoria alla base di questa tecnica di benessere che il distacco dal contingente ed il ritrovamento di se stessi nel silenzio interiore, consentano di riappropriarsi della gestione della propria vita e della propria salute. Si fonda sul presupposto che ogni strumento sia capace di entrare in risonanza con un certo tipo di energia. L'arpa, ed in particolare quella celtica, rappresenta il femminile, aiuta a sciogliere le emozioni, a ritrovare la creativit ed in grado di riequilibrare l'energia del chakra12 del cuore. La sua sonorit rappresenta una via per ritrovare il benessere. L'aggettivo 'celtico' adottato in questo ambito si deve intendere come un concetto, un'idea, pi che come una tradizione culturale reale, esistente e collocabile in un'area storico-geografica. La 'celtitudine' pu considerarsi come una condizione umana, una predisposizione della mente e dell'anima, un modo di rapportarsi alla vita e alla morte che non prevede solchi profondi, ma un'interazione continua. Dal punto di vista musicale la performance si basa sulla riproduzione, estemporanea ed in gruppo, di alcune melodie tradizionali insegnate secondo un modello di trasmissione orale della pratica musicale. La conduttrice e le partecipanti13 hanno un ruolo attivo nel 'fare musica', l'insegnamento basato su tecniche imitative e non prevede alcuna conoscenza della scrittura musicale. Il repertorio musicale costituito da brani caratterizzati da una struttura strofica regolare, da un alto livello di ridondanza di ogni strofa e dall'utilizzo di riferimenti ricorrenti e prevedibili, che rendono le melodie facili da memorizzare. L'uso prevalente della scala minore naturale conferisce ai brani un carattere che appare intrinsecamente malinconico. Queste melodie assumono un forte valore affettivo in quanto divengono un linguaggio delle emozioni. Ogni sequenza musicale, ogni nota assume il valore di segno o di simbolo che rinvia a significati extra-musicali. Le figure musicali vengono usate per meditare e per evocare sentimenti ed emozioni, in questo modo l'intero repertorio si carica di valenze simboliche ed affettive che coinvolgono l'aspetto formale e ci che le forme significano in termini di esperienza umana e relazionale. E' una musica che pu essere considerata l'espressione della solidariet del gruppo in cui anche le strutture sonore diventano segni di appartenenza alla comunit. "Comunit immaginate" Come gi detto, le informazioni relative ai partecipanti provengono dalle interviste ai terapeuti, i quali hanno definito la maggior parte di loro come persone che "sono alla ricerca", individui che integrano un percorso di guarigione con diverse pratiche 'alternative'. Durante la 'partecipazione osservante' emerso che gli elementi musicali e coreutici, distintivi delle pratiche analizzate, costituiscono discriminanti di scelta da parte dei partecipanti. Risulta abbastanza evidente, per fare solo un esempio, che decidere di meditare con l'arpa presuppone un

interesse specifico nei confronti dello strumento musicale. Qualcuno ha manifestato un interesse prevalente per le tecniche musicali, canore o coreutiche, piuttosto che l'obiettivo di un percorso di guarigione. Le adesioni, pur rispondendo a motivazioni pi eterogenee rispetto a quanto emerge dalle interviste agli terapeuti, rivelano un livello di condivisione piuttosto elevato dell'orizzonte culturale e operativo proposto dai conduttori. Spesso queste attivit coprono un fondo di esperienze e sofferenze che derivano da una condizione generalizzata di malessere, considerato tipico della societ contemporanea. Alcuni esprimono motivazioni legate a storie personali difficili, al senso di solitudine o ad episodi di depressione. I terapeuti stessi sono approdati alle cure alternative in seguito ad eventi dolorosi o luttuosi accaduti a familiari o a loro stessi, in seguito ai quali hanno sentito di dover trovare un senso alla loro vita. Nei momenti di condivisione di gruppo i partecipanti hanno raccontato storie di attacchi di panico, di cure mediche classiche senza fine e senza soluzioni durature, di frustrazione, di abbandono a loro stessi in situazioni di debolezza e di paura a causa della malattia. L'opinione espressa pi comunemente che le terapie olistiche siano in grado di ripristinare un rapporto di partecipazione attiva nei confronti della propria salute e che esprimano il loro valore 'alternativo' soprattutto nel superamento delle limitazioni tipiche della medicina ufficiale, relative alla considerazione parcellizzata dell'essere umano. In questo ambito si realizzano strutture di significato stabilite socialmente nei cui termini sono prodotti, percepiti ed interpretati pratiche e comportamenti. Un aspetto che diviene subito evidente ad un estraneo che si avvicini a questo ambiente il fatto che i partecipanti si immaginano come parti di un insieme, una comunit. Essi, nell'ambito della 'filosofia alternativa', condividono credenze, conoscenze, ideali, comportamenti, pratiche salutistiche, linguaggio e il sentimento comune di utilizzare le tecniche e i rimedi proposti per conservare o ritrovare il proprio benessere psico-somatico. In particolare le comunit frequentate nel corso della ricerca sono risultate piuttosto omogenee in quanto i tre eventi osservati, oltre l'obiettivo connesso al benessere e alla salute psico-fisica, avevano caratteristiche comuni quali l'uso della musica, o del suono, del movimento e degli stati modificati di coscienza. Si pu adottare per queste formazioni comunitarie la denominazione di "comunit immaginate" proposta da Benedict Anderson nel suo saggio sui nazionalismi. Secondo Anderson le comunit immaginate sono entit costituite da un certo numero di individui che, pur non conoscendosi personalmente, sono caratterizzati dal fatto che "nella mente di ognuno [di loro] vive l'immagine del loro essere comunit"14. Queste comunit esprimono il desiderio di distinguersi dai modelli socio-culturali rappresentati dalla medicina ufficiale e dalla societ contemporanea, verso i quali esprimono critiche. Le pratiche collettive offrono ai partecipanti supporto e contenimento in quanto si realizzano nell'ambito di un'atmosfera di coinvolgimento emozionale collettivo, una fonte di rassicurazione

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e di immediata comunicazione e sperimentabilit. Le tecniche di modificazione dello stato di coscienza, la creazione di situazioni rituali e l'accesso alla conoscenza e alla sperimentazione di pratiche, considerate non comuni e di antiche origini, rafforzano il senso di appartenenza e di collaborazione. Il codice linguistico Benedict Anderson sottolinea l'importanza della diffusione e dell'utilizzo di una lingua condivisa nella formazione di "comunit immaginate". E' ovvio che in questo contesto non si possa parlare di una lingua diversa dall'italiano comune, si pu, per, affermare l'esistenza di un codice linguistico caratterizzante che, come i metodi osservati, accoglie termini provenienti dalle diverse lingue del globo e del tempo presente e passato. Le parole definiscono tal volta pratiche religiose orientali o degli indiani americani. Altre volte denominano tecniche terapeutiche cinesi o indiane. In alcuni casi designano fenomeni di nuova formazione risultanti dalla combinazione, revisione o riadattamento contemporaneo di tecniche diverse, religiose o terapeutiche, della pi varia provenienza culturale. Alcune parole sono il risultato di neo composizioni provenienti da qualche autorevole lingua antica. Per citare solo alcuni esempi: Rebirthing, in lingua inglese significa rinascita una tecnica terapeutica basata sulla respirazione; Respirazione Olotropica, termine composto derivante dal greco olos tutto, l'intero, la totalit e trepein volgersi verso, una tecnica terapeutica basata sulla respirazione; Reiki termine giapponese composto da rei universo e ki energia: tecnica terapeutica corporea ad indirizzo energetico; Meditazione Tibetana: tipo di meditazione che fa riferimento alla pratica religiosa dei monaci tibetani e si colloca a met strada tra l'aspetto sacro e il contesto terapeutico. I segni verbali sono conosciuti, compresi e utilizzati dai membri della comunit. La terminologia fa riferimento a precisi contenuti e la condivisione avviene sia sul piano linguistico, sia nel contenuto significante. Non considerato importante che le tecniche designate o le tradizioni richiamate siano ancora utilizzate nei luoghi di provenienza. E' significativo, invece, rilevare la suggestione che questo linguaggio riesce a creare: un senso di origini antiche e di efficacia di terapie che affondano le loro radici in un passato fuori dal tempo e dalla storia. Il segno linguistico assume un valore insolito e riporta in luce qualcosa che gi stato presente. Accanto al senso immediato, in cui viene accoppiato un suono ad un significato, emerge il senso dell'unione, della continuit del passato con il presente, l'attualizzazione di qualcosa che avveniva e sta avvenendo ancora. La parola richiama nell'immaginario tradizioni millenarie e la loro riattivazione nell'esperienza del presente contiene implicitamente una importante continuit con quel passato antico. Per fare ancora un esempio: quando nel corso di una sessione viene proposto di lavorare sull'energia di un chakra i membri della comunit riconoscono il termine e sono in grado di renderlo significante. Sanno cogliere le implicazioni simboliche e fisiologiche connesse allo squilibrio chakra in questione. La parola, inoltre, richiama nell'immaginario la millenaria tradizione orientale, contenuta nei

Veda, e la sua riattivazione nell'esperienza del presente contiene implicitamente una continuit con quel passato antico e importante. Un linguaggio con queste caratteristiche sicuramente adatto a svolgere una funzione unificatrice della comunit attraverso il sentimento della condivisione di una tradizione comune e antica, inoltre definisce il confine tra i membri della comunit e gli estranei. Alcune riflessioni sugli eventi Dalla ricerca emersa l'applicazione di un criterio di creativit adattiva, rilevabile sia nelle storie personali dei terapeuti, sia nelle peculiarit dei metodi elaborati. A questa caratteristica, riconducibile al concetto di "rottura di schemi mentali convenzionali e limitanti", gli terapeuti attribuiscono una valenza positiva, anche dal punto di vista del recupero della salute. E' un atteggiamento che viene adottato sia nella scelta del modello professionale, ritenuto gratificante in quanto consente loro di esprimere una maggiore coerenza tra piano degli ideali e piano del reale, sia nella struttura delle pratiche di guarigione, basata su un alto livello di flessibilit e adattabilit che rende gli eventi convertibili a situazioni di natura diversa da quella prettamente terapeutica. Il loro orizzonte ideologico, culturale e operativo, relativo ai concetti di cura e di guarigione si colloca senz'altro all'interno dei principi delle medicine olistiche, anche se forse pi corretto parlare di una 'filosofia alternativa' della quale condividono principi e ideali. E' in questo ambito che i conduttori hanno elaborato i metodi terapeutici che propongono e al quale si sono rivolti essi stessi per trovare sollievo ai loro malesseri. Tutti e tre i conduttori hanno posto l'accento sulla necessit di recuperare dai modelli tradizionali i concetti di appartenenza, condivisione, collaborazione, partecipazione, da loro espressi con le dizioni: "cerchio", "trib", "radici", "mettersi intorno a qualcosa per farla insieme". Le tre performance, infatti, si basano sul principio della terapia di gruppo. All'interno del gruppo le manifestazioni psicologiche individuali acquistano importanza e valore. La condizione di aggregazione comunitaria e la struttura partecipativa, offrono un contesto di condivisione e propongono un sistema di valori nel quale possibile trovare una motivazione appagante e il riconoscimento di identit, dignit e significato personale. Esse, inoltre, presentano nella loro struttura formale alcuni elementi centrali che le designano come eventi ritualizzati e che specificano la loro funzione particolare nel campo della guarigione. Nel momento in cui i partecipanti si collocano nello 'spazio sacro' si trasformano in attori di una drammatizzazione, condizione funzionale alla creazione di una situazione evocativa adatta all'esperienza degli stati modificati di coscienza attraverso i quali si realizzano le aspettative di benessere. La struttura contrassegnata dalle regole delle forme ritualizzate - che ritenuta dai terapeuti una prerogativa delle culture tradizionali - utilizzata anche nella moderna psicoterapia. Il setting psicoterapico ortodosso si distingue proprio per una serie di connotazioni rituali: di saluto, di commiato, di distanza, di posizione, di cadenze temporali della seduta, ecc., in quanto una

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struttura che risulta efficace al contenimento, utile al coinvolgimento emozionale e al rafforzamento del senso di appartenenza e di supporto del gruppo. La ritualizzazione degli eventi d forma ad un reale 'altro', si definisce cos un nuovo codice condiviso all'interno del quale si esplicano nuove modalit di comunicazione. Attraverso la connotazione rituale e la valorizzazione dell'aspetto sacrale, si crea una suggestione; diviene possibile superare una logica meramente strumentale, legata a procedure razionali e l'azione sul mondo si realizza con mezzi che trasfigurano il reale permettendo l'entrata nell'immaginario. Si realizza in questo modo la partecipazione ad una dimensione esistenziale che va oltre il banale e l'ovvio dell'universo umano quotidiano. L'etnomusicologo Francesco Giannattasio, nell'introduzione ad un seminario di studi sui rapporti tra musica e stati alterati di coscienza, ha ipotizzato che alcune questioni studiate dagli antropologi si sono paradossalmente riverberate al di fuori degli ambiti scientifici. L'interesse delle nuove generazioni occidentali per alcune pratiche coreutico-musicali tradizionalmente connesse alla trance o all'estasi ha favorito il proliferare di nuovi fenomeni, come lo sviluppo di tecniche terapeutiche con musica. Tra queste cita ad esempio la respirazione olotropica sperimentata a partire dagli anni '70 dal medico praghese Stanislav Grof in California. L'antropologo Vittorio Lanternari nei risultati di un'inchiesta sulle terapie carismatiche ha sostenuto che negli ultimi due decenni, in occidente, si osservato l'incremento rapido e la diffusione estensiva delle medicine alternative. Ritiene che questo non sia altro che "una delle risposte della societ contemporanea alle illusioni mitizzanti di una razionalit scientifica e tecnologica che, nel suo assolutismo dogmatico, rischia di obliterare alcune tra le pi pressanti istanze psicologiche avverse all'alienazione e alla disautenticazione"15. Queste stesse considerazioni sono state espresse di frequente dai terapeuti nel corso delle interviste. L'idea di base che la prassi medica ufficiale abbia perduto il senso dell'unit soma-psiche e il rapporto di fiducia tra medico e paziente per privilegiare gli aspetti tecnologici e le sofisticate procedure specialistiche di cura. L'obiettivo delle nuove pratiche 'alternative' la riconquista dell'unit perduta dell'individuo attraverso la mediazione o del corpo o della psiche. La persona spirito, mente, emozioni, corpo, e quindi bisogna usare per ogni individuo un approccio olistico ed integrato delle quattro sfere. Il rapporto tra malattia e guarigione assume un significato che trascende l'ambito strettamente medico-fisiologico e assume connotati quasi metafisici, riconducibili al concetto di "equilibrio energetico". La malattia viene vissuta come una particolare manifestazione di un "male dell'anima" e la guarigione o la salute sono segno di una coerenza tra la realizzazione materiale e la spinta ideale. La considerazione del nesso tra la salute corporea e il benessere spirituale un elemento essenziale. Questo nesso si ritiene rispettato nelle societ tradizionali, nelle medicine orientali e nelle nuove pratiche terapeutiche che si rifanno a queste tradizioni. Accanto ai limiti rilevati nella medicina ufficiale i terapeuti esprimono critiche anche nei confronti delle

degenerazioni della civilt occidentale e di denuncia verso le contraddizioni aperte dal modello socio-culturale contemporaneo. Il recupero, la trasformazione e l'adattamento di concetti e valori, definiti tradizionali, rappresentano una risposta elaborata in funzione di un obiettivo di presa di distanza e differenziazione da condizioni socio-culturali criticate. L'ipotesi percorribile che attraverso le prassi elaborate vengano valorizzati ideali di equilibrio etico-sociale e di significativit esistenziale che si ritengono prerogative appartenenti alle culture tradizionali dalle quali vengono desunte le tecniche di guarigione. Subculture La Trance Dance, il Vocal Harmonics in Motion e l'Arpeincoro in Meditazione si rifanno ai metodi della moderna medicina psicosomatica, alla quale vengono unite pratiche musicali, mistiche, spirituali e di guarigione ispirate a criteri extrascientifici, riprese da tradizioni diverse. Le componenti ideologiche riscoperte, rivalorizzate e reintrodotte sincreticamente risultano essere di varia origine etnica e storicoculturale. Dal punto di vista strutturale si realizzata la creazione di 'nuove forme' che sono state rielaborate in modo da essere "digerite" da individui occidentali dell'epoca contemporanea. Si possono considerare nuovi sistemi significanti, ricontestualizzati nell'attualit contemporanea, condivisi dagli ideatori-conduttori e dai partecipanti, che esibiscono una logica interna che rende leggibili ed interpretabili i fatti ed i comportamenti agiti e conferisce loro anche una certa efficacia rispetto agli obiettivi di benessere che si propongono. Fabietti, Malighetti e Matera affermano che all'interno di un contesto culturale si possono organizzare forme di resistenza e di adattamento nei confronti di forze esterne, anche attraverso l'elaborazione di sincretismi: "i sincretismi e i profetismi possono costituire la risposta che una certa cultura elabora in funzione di un discorso di "resistenza" e di "adattamento" nei confronti di forze esterne"16. Questo tipo di risposte e di forme di resistenza culturale "non sono solo espressione delle singole culture, ma anche della dialettica - talvolta conflittuale - che le pu caratterizzare al loro interno"17. Quando si tratta di una dialettica conflittuale che si manifesta all'interno della cultura pi generale di appartenenza si deve parlare di subculture. "Le subculture sono "reti" di significati condivisi da determinati individui (e non da altri) all'interno di un contesto significante pi vasto (la "cultura") a cui pur tuttavia quegli stessi individui appartengono"18 e per le quali si realizzano le stesse risposte di resistenza e adattamento a forze esterne, osservate nelle culture. Alcuni esempi di subculture riportati dai suddetti antropologi sono il sistema delle confraternite religiose nell'Italia e nella Spagna, gli Hooligans, gli intellettuali progressisti, i massoni, i cinofili, ecc. Tra questi ritengo che si debba inserire anche la comunit costituita dai 'fedeli' alle cure alternative. E' in questo contesto subculturale che prende forma l'universo immaginativo condiviso, all'interno del quale il sistema di simboli pu essere interpretato e descritto in modo intelligibile. E' la 'subcultura alternativa' l'ambito in cui si pu rintracciare il filo conduttore che riguarda la tematica della

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decontestualizzazione di pratiche, comportamenti, azioni simboliche riprese da contesti "altri", della loro trasformazione e del riadattamento in nuove forme significative ai fini delle particolari concezioni relative all'integrit dell'essere umano, ai concetti di salute, di equilibrio etico-sociale e di significativit esistenziale. La riproduzione delle pratiche, ritenute proprie di tradizioni culturali delle quali gli individui appartenenti alla 'subcultura alternativa' condividono i valori e gli obiettivi, funzionale alla riattivazione simbolica di quegli stessi valori ed obiettivi. Processi mimetici La circolazione di simboli e di modelli di comportamento, di valori e di stili di pensiero, e anche la loro ri-significazione in contesti diversi da quelli originari, possono attivare dei processi mimetici che consistono in manifestazioni di "adeguamento e di imitazione simbolica e pratica, da parte dei componenti di una cultura, nei confronti dei simboli e delle pratiche degli appartenenti a una cultura 'altra'"19. La mimesi, che costituisce un meccanismo inerente al processo di traffico culturale, si pu definire come la ripresa di forme culturali 'altre' da parte dei soggetti di una determinata cultura. La riattivazione simbolica e pratica di valori ritenuti tradizionali che si manifesta nell'ambito osservato nel corso della ricerca, si pu considerare un processo mimetico in cui "il piano del comportamento e quello del senso non sono distinguibili in maniera assoluta"20 e il livello pratico e quello simbolico sono strettamente collegati, come sempre avviene nell'agire umano. Questo processo mimetico consente di esprimere l'opposizione ai valori e ai modelli rappresentati dalla cultura di appartenenza e rende concreta la possibilit di riconoscersi in un modello ritenuto valido e di apprenderne i principi. Conclusioni La prassi musicale non pu essere analizzata al di fuori dell'ambito delle terapie alternative in cui si inscrive. Strumenti, repertorio, occasioni e modalit esecutive sono elementi che concorrono alla definizione del contesto ritualizzato e rivelano significati se vengono interpretati all'interno dello stesso. Spiega Clifford Geertz che per comprendere i comportamenti delle persone non ci si pu limitare ad un'osservazione meramente fenomenica, perch altrimenti non possibile "distinguere un tic da un ammiccamento"21. Infatti, dal punto di vista esclusivamente comportamentale, in entrambi i casi, si contrae una palpebra. La sostanziale differenza tra un tic e un ammiccamento definita dall'esistenza di un codice comunicativo, pubblico e socialmente condiviso. Queste considerazioni si possono estendere agli eventi trattati. In questa luce assumono senso i comportamenti musicali, l'uso e la funzione della musica, i richiami ai concetti ripresi dai contesti tradizionali "altri". E' l'esistenza di questa rete di significati, conosciuta dai terapeuti e dai partecipanti, che rende la prassi efficace, in relazione agli obiettivi di modificazione dello stato di consapevolezza, al raggiungimento di un migliore equilibrio psico-fisico e di

recupero del benessere. Per fare qualche esempio, l'osservazione fenomenica di una sessione di Arpeincoro in Meditazione, o di una fase di movimento di Vocal Harmonics in Motion, consentirebbe solo di vedere persone che suonano l'arpa o che fanno ginnastica. Saper interpretare questi comportamenti come "fare meditazione con l'arpa" o "eseguire una procedura di riequilibrio energetico", presuppone la conoscenza del codice che informa tali gesti, agito e condiviso all'interno della comunit. Lo stesso discorso si pu estendere agli strumenti musicali, che sono stati sottoposti ad un processo di ricontestualizzazione e di riadattamento immaginativo alla funzione di guarigione alla quale sono dedicati. Essi, inseriti nei particolari contesti rituali, ancor prima di essere 'oggetti con i quali fare musica', sono simboli, 'oggetti liturgici' dotati di potere. Se fossero sconnessi dall'ambito delle pratiche di guarigione contemporanee in cui vengono utilizzati, apparirebbero completamente fuori luogo. Il loro uso acquisisce senso se interpretato alla luce delle credenze relative ad ogni pratica e se si considera l'apparato simbolico di cui sono caricati. E' proprio il loro valore simbolico che giustifica la loro applicazione e la rende efficace sia per i conduttori che per i partecipanti agli eventi. Ad esempio il didgeridoo, utilizzato per la sua caratteristica sonorit ricca di armonici, deriva il suo potere simbolico soprattutto dal fatto di essere considerato uno strumento da sempre usato dagli sciamani aborigeni nelle cerimonie di guarigione. Il tamburo sciamanico, strumento a percussione, funzionale in una pratica in cui l'agente curativo costituito dal ritmo che sollecita la danza di guarigione, assume maggior valore in quanto rappresenta il "battito del cuore di madre terra" e "l'oggetto di potere dello sciamano per richiamare lo spirito". La pratica strumentale con l'arpa celtica funziona nel contesto terapeutico soprattutto perch considerata un oggetto in grado di riequilibrare "l'energia del cuore". L'analisi dei repertori musicali ha rilevato che si tratta di prodotti dai canoni occidentali e contemporanei per l'uso degli elementi formali e per l'impiego della tecnologia musicale nella produzione e, talvolta, anche nella fruizione. I richiami ad aspetti tradizionali si riferiscono in alcuni casi alle tecniche musicali, in altri al contenuto sonoro. Nel complesso le situazioni musicali osservate possiedono una capacit evocativa che si pu attribuire alla ricombinazione e all'applicazione di elementi formali eterogenei capaci di richiamare sonorit "altre", al loro valore simbolico e all'uso ritualizzato adottato nelle pratiche di guarigione osservate. In tutti i metodi si in presenza di un 'nuovo prodotto musicale', rielaborato in modo da essere funzionale all'uso che ne viene fatto. Bisogna ricordare che la musica, la danza e il canto, in queste pratiche, sono considerati gli elementi essenziali per aprire l'accesso a quegli stati modificati di coscienza, attraverso i quali si ritiene possibile la guarigione. Il suo ruolo deve essere valutato all'interno del sistema ed 'contesto' la parola chiave per comprenderne la funzione e l'uso. La valutazione esclusiva delle caratteristiche estetico-musicali non consentirebbe di considerare gli aspetti simbolici che essa assolve.

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Note [1] La tesi intitolata Concetti, comportamenti e tecniche musicali nella pratica delle cure alternative. Analisi di tre realt dell'area milanese, stata discussa il 2 dicembre 2004 presso la facolt di Lettere Moderne, indirizzo Etnomusicologico, Universit agli Studi di Milano. Relatore prof. Nicola Scaldaferri, correlatore prof. Stefano Allovio. Le parole o le frasi poste tra virgolette in questo lavoro, se non diversamente indicato, provengono dalle interviste agli informatori. [2] Tiziana Dainotto il nome legale dell'informatrice. Dal 1995 lo ha mutato in Anand Nirava che in lingua hindi significa beatitudine nel silenzio. L'attribuzione di un nuovo nome parte del rituale di iniziazione di coloro che "chiedono il sannya" e scelgono di considerare Baghwan Raijneesh (1931-1990), detto Osho come maestro spirituale. Divengono cos "sannyasi", ossia discepoli. L'informatrice racconta di avere deciso di diventare una "sannyasi" dopo avere sperimentato una sessione di meditazione dinamica ed aver provato una intensa "energia d'amore". Spiega che la procedura di iniziazione prevede l'invio della richiesta a Puna, in India, dove ha sede il Centro fondato da Osho, per tramite di una sede italiana intermediaria. Dopo qualche tempo si riceve un attestato con il nuovo nome. Il nome "sannyasi" rappresentativo delle caratteristiche che il discepolo deve sviluppare e fare emergere nel suo percorso evolutivo. Intervista del 26 Maggio 2004. [3] Delle tre performance trattate in questa tesi Arpeincoro in Meditazione di Cristina Ruffino non presente nel web. L'informazione stata reperita sulla rivista "Guida al Ben-Essere" editore Organizzazione Due G., Milano. Trance Dance di Tiziana Dainotto e Vocal Harmonics in Motion di Lorenzo Pierobon si trovano nella rete rispettivamente agli indirizzi: www.altropensiero.com; www.laviadeglienergizzatori.com, e www.musicoterapia.monza.net, Consultazione del 24 giugno 2004. [4] La conferenza dal titolo: Il suono dell'anima stata condotta da Lorenzo Pierobon a Villa Serena, ospedale S. Gerardo di Monza, con lo scopo di presentare il metodo terapeutico da lui ideato, Vocal Harmonics in Motion, e di promuovere seminari rivolti ai gruppi di volontari che operano nell'ospedale. Il loro lavoro consiste nel dare sostegno ai parenti dei malati con patologie gravi o incurabili o alle persone che hanno perduto una persona cara. In sala era presente un medico dell'ospedale. Lorenzo Pierobon, conferenza Il suono dell'anima, Villa Serena, Ospedale S. Gerardo - Monza, Conferenza del 17 maggio 2004. [5] Lorenzo Pierobon collabora con alcuni medici psicoterapeuti che integrano le tecniche propriamente psicanalitiche di gruppo con sessioni musicali col metodo del Vocal Harmonics in Motion. Per la specificit terapeutica di questi interventi non mi hanno autorizzato all'osservazione delle sessioni. [6] Merriam Alan P., Antropologia della musica, Sellerio Editore, Palermo, 2000, Trad. it. Elio Di Piazza, pref. Diego Carpitella, Ed. or. The Anthropology of Music, Northwestern University, Evanston, Illinois (U.S.A), 1964, p. 16. [7] Gilbert Rouget, Musica e Trance, Einaudi, Torino, 1986, ed. or. La musique et la trance, Gallimard, Paris, 1980, p. 436. [8] I movimenti neo-sciamanici perseguono ideali ispirati ad un ambientalismo naturista e manifestano una spiritualit 'non convenzionale', combinando pratiche di guarigione derivate dallo sciamanesimo di diverse tradizioni, con aspetti di alcune correnti contemporanee della psicologia, come quella transpersonale. Sono sorti intorno agli anni novanta negli Stati Uniti e successivamente si sono diffusi anche in Europa e in Italia. Si propongono l'obiettivo di soddisfare le richieste e le aspettative degli uomini contemporanei. La loro nascita stata influenzata da alcune pubblicazioni, che hanno ottenuto grande risonanza di massa, relative alle tecniche dell'estasi, al viaggio sciamanico nel mondo degli spiriti e ai metodi di guarigione tramite la trance, la danza ed il suono, come ad esempio il libro sui nativi americani dell'antropologo Piers Vitebsky, The Shaman, Duncan Baird Publishers Ltd, Londra, 1995, Ed. It. Gli sciamani. Viaggi dell'anima. Trance, estasi e rituali di guarigione. EDT, Torino, 1998, trad. it. Maria Nicola; il libro dell'antropologo Georges Lapassade, Essai sur la transe, Iean-Pierre Delarge, Paris, 1976, Ed. It. Saggio sulla transe, Feltrinelli, Milano, 1980; la tesi di dottorato in antropologia di Carlos Castaneda sugli stregoni indiani Yaqui e l'universo conoscitivo degli sciamani dell'antico Messico, che si trasformata in una lettura di consumo dei giovani degli anni '80: The Teachings of Don Juan a Yaqui way of Knowledge, Baror International, Inc., Armonk, New York, 1968, Ed. It. A scuola dallo stregone, gli insegnamenti di don Juan, RCS Libri, Milano, 1999, trad. it. Roberta Garbarini. La Trance Dance fa parte del metodo terapeutico neo-sciamanico ideato da Frank Natale, musicista, terapeuta e presidente del Natale Institute for Experiential Education (Amsterdam). Ha scritto Trance Dance The Dance of Life, 1995, Great Britain. [9] Il didgeridoo una tromba naturale, si suona utilizzando la tecnica della respirazione circolare che consente di produrre un flusso d'aria ininterrotto. La tampura un grande liuto a manico lungo, di origine indiana, la cui cassa ricavata da una zucca e la tastiera non tastata. Ha quattro corde che vengono pizzicate. Il suono ronzante e penetrante si presta bene a creare una vibrazione che rimane di sfondo. Le cristal bowls sono bocce cave di cristallo, intonate. Si suonano con un bastone, che ha un'estremit rivestita in pelle, mediante sfregamento sull'imboccatura o leggera percussione. [10] "Secondo la tradizione di Tuva, ogni cosa animata o abitata da entit spirituali. Le leggende narrano che gli abitanti di Tuva hanno imparato il canto xmij per stabilire un contatto con queste entit e assimilare il loro potere attraverso l'imitazione dei suoni naturali. Il popolo di Tuva crede infatti che il suono sia il modo preferito dagli spiriti della natura per rivelarsi e comunicare con gli altri esseri viventi", Piero Cosi, Graziano Tisato, On The Magic of Overtone Singing, in Voce, canto, parlato, a cura di Piero Cosi, Emanuela Magno Caldonegnetto, Alberto Zamboni, Unipress, Padova, 2003, p. 84 (t.d.a.).

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[11] I gong sono dischi in metallo. Vengono suonati mediante percussione con un bastone; le campane tubolari sono una serie di tubi metallici di uguale diametro, ma diversa lunghezza, si suonano mediante percussione con un mazzuolo; i cimbali sono costituiti da due campane solo leggermente cave, tenute insieme da un cordino. Si suonano mediante percussione reciproca; le singing bowls o campane tibetane o nepalesi hanno forma di ciotola, sono in lega metallica a prevalenza bronzea e si suonano mediante percussione o strofinamento lungo il bordo con un bastone di legno. Il sitr un grande liuto di origine indiana, tastato. La sua particolarit di avere corde simpatiche che vengono messe in risonanza dalla vibrazione delle corde principali; la vn uno strumento usato nella musica classica indiana. E' derivato dalla cetra a bastone con l'aggiunta di risuonatori costituiti da zucche cave. Ha quattro corde per la melodia e tre corde per il bordone. [12] Dal sanscrito cakra: cerchio, ruota, disco, che gira intorno. Secondo la teoria contenuta nei Veda il chakra un centro di attivit che riceve, assimila ed esprime l'energia della forza vitale. Sono disposti sul corpo lungo la colonna vertebrale in corrispondenza dei gangli nervosi. I pi importanti sono sette che controllano ed influenzano ghiandole, funzioni e organi corporei. Ogni chakra ha una sua 'zona di competenza' a livello fisico, mentale, emozionale. Se il chakra armonico l'energia fluisce e scorre liberamente, assicurando uno stato di salute olistica. Il chakra del cuore il quarto, situato al centro del petto, controlla la ghiandola del timo, corrisponde al sentimento dell'amore puro, senza vincoli. E' considerato il chakra fondamentale per la presa di coscienza e l'evoluzione personale. Anodea Judith, Il libro dei chakra. Il sistema dei chakra e la psicologia, Neri Pozza Editore, Vicenza, 1998, Trad. It. Francesca Diano, ed. or. Eastern Body, Western Mind. Psychology and the Chakra System as a Path to the Self, Celestial Arts Publishing, Berkeley, 1996. [13] L'utenza di questa pratica di benessere esclusivamente femminile. [14] Benedict Anderson, Comunit immaginate, Manifestolibri, I ed. discount, Roma, 2000 (I ed. 1996), Trad. it. Marco Vignale. [15] Vittorio Lanternari, "Le terapie carismatiche, Medicina popolare e scienza moderna", La Ricerca Folklorica, anno 2002. n. 8. [16] Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera, 2002, p. 127. [17] Ibidem, p. 127. [18] Ibidem, p. 127. [19] Ibidem, pp. 112. [20] Ibidem, p. 111. [21] Clifford Geertz, op. cit., p. 12. Bibliografia Anderson Benedict, Comunit immaginate, Manifestolibri, I ed. discount, Roma, 2000 (I ed. 1996), Trad. it. Marco Vignale, Ed. or. Imagined Communities, Verso, London-New York, 1991. Bellinzaghi Roberta, "La storia dei Celti", allegato al disco Patrick Ball, Magia dell'Arpa Celtica, Edizioni Red, Como, 1996. Combi Mariella, Corpo e tecnologie, Meltemi editore, Roma, 2000. Cosi Piero, Tisato Graziano "On the Magic of Overtone Singing", in Voce, canto, parlato, a cura di Piero Cosi, Emanuela Magno Caldonegnetto, Alberto Zamboni, Unipress, Padova, 2003. Fabietti Ugo, Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Gius. Laterza & figli, Roma-Bari, 2001 (I ed. 1999). Fabietti Ugo, Malighetti Roberto, Matera Vincenzo, Dal tribale al globale, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002. Geertz Clifford, "Verso una teoria interpretativa della cultura", in Interpretazione di culture, Soc. Editrice Il mulino, Bologna, Nuova Ed. 1998, (I ed. 1988), Trad. it. Eleonora Bona, Ed. or. The Interpretation of cultures, Basic Books Inc., New York, 1973. Giannattasio Francesco, "Musica e stati alterati di coscienza: una questione ancora aperta", Relazione introduttiva Seminario Internazionale di Studi, Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati, Fondazione Cini, Venezia, gennaio 2002, www.cini.it. Giannattasio Francesco, Il concetto di musica. Contributi e prospettive della ricerca etnomusicologica. Bulzoni Editore, Roma, 1998, (I ed. Nuova Italia Scientifica, 1992). Hornbostel Erich M.v. e Curt Sachs, "Sistematica degli strumenti musicali. Un tentativo" (1914), Trad. it. Febo Guizzi, in Febo Guizzi, in Gli strumenti della musica popolare in Italia, Lim, Lucca, 2002. Judith Anodea, Il libro dei Chakra. Il sistema dei chakra e la psicologia, ed. Pozza, Vicenza, 1998, Trad. It. F. Diano, ed or. Eastern Body, Western Mind. Psychology and the Chakra System as a Path to the Self, Celestial Arts Publishing, Berkeley, 1996. Lanternari Vittorio, "Le terapie carismatiche, Medicina popolare e scienza moderna", La Ricerca Folklorica, anno 2002. n. 8 Merriam Alan P., Antropologia della musica, Sellerio Editore, Palermo, 2000, Trad. it. Elio Di Piazza, pref. Diego Carpitella, Ed. or. The Anthropology of Music, Northwestern University, Evanston, Illinois (U.S.A), 1964. Natale Frank, Trance Dance. La danza della vita, Edizioni l'et dell'acquario, 1997, Trad. It. Chiara Bosio e Isabella Bresci, Ed. or. Trance Dance - The Dance of Life, Element Books Limited, Great Britan, 1995. Rouget Gilbert, Musica e trance, Einaudi, Torino, 1986, ed.or. La musique et la trance, Gallimard, Paris, 1980.

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Dialogo sulla guerra


Nelle pagine che seguono Achab accoglie i contributi di Pietro Clemente e Valerio Fusi sul tema della guerra. Il testo di Clemente nasce come spunto di riflessione per una serie di conferenze tenute tra marzo e maggio di quest'anno sotto il titolo di "Violenza, corpo, emozioni". Il seminario si tenuto tra Siena, Firenze e Roma e ha coinvolto e messo a confronto antropologi, scrittori, fotografi, cooperanti, studenti... su un tema sempre pi centrale, non solo per la sua drammatica attualit ma anche per il rilievo teorico che molti cominciano a riconoscergli. Il contributo di Fusi, come ha modo di precisare lo stesso autore nell'introduzione al suo articolo, nasce come risposta "informale" al testo di Clemente ed qui presentato nella sua forma originaria di lettera aperta. Achab segue con interesse tale dibattito e spera di incentivare nei suoi lettori ulteriori riflessioni che possano venire riprese nei prossimi numeri. La Redazione

Siamo in guerra
di Pietro Clemente
Pieve e Riondino "Siamo in guerra", lo ha detto Davide Riondino, chiamato ad esprimersi a suo modo sul palco piovoso di una Piazza di Pieve Santo Stefano. Era il ventesimo anniversario della nascita dell'Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano (Arezzo), la grande banca di scrittura personale della gente comune che reca la firma del suo inventore Saverio Tutino, che l'anno passato abbiamo festeggiato per gli ottant'anni. Riondino era sul palco della premiazione dei dieci diari finalisti scelti da una giuria popolare della Val Tiberina, e della proclamazione del vincitore scelto da una giuria nazionale di esperti. Avevano parlato alcuni dei diaristi, intervistati da una quipe di Radio tre, e gi delle storie dolorose erano emerse all'ascolto. Una donna, Antonina Azoti, poi risultata vincitrice, ha raccontato di come a 4 anni, poco prima di Natale (aveva intravisto gi "il dono che la vecchia Natala, la befana, mi avrebbe portato per il Natale ormai imminente" ha scritto nella prima pagina della sua memoria) le fu ucciso il padre dalla mafia, e di aver passato la giovinezza sentendo rimproverare quel padre sindacalista che, per non aver voluto accettare le regole vigenti , aveva lasciato la figlia orfana. La storia scritta da questa donna era la storia del riscatto della memoria paterna contro il senso comune, fino all'orgoglio di sentirsi vicina a Falcone e Borsellino come testimone e vittima di mafia. Nell'intermezzo la parola era andata a Riondino, erano le 18 dell'11 settembre (una data ormai indimenticabile con migliaia di morti visti e rivisti morire in pochi istanti). Riondino si alzato ed ha preso la chitarra, il microfono non funzionava bene, dietro di lui c'era Saverio Tutino che aveva gi raccontato il suo perdurante amore e stupore per le memorie scritte dalla gente. Doveva Riondino introdurre con parole una canzone assai bella che aveva scelto di cantare e che riguardava un uccello che dorme e sogna in volo, visto in un viaggio a vela sull'oceano. Prima di farlo ci ha spiegato in che tempo siamo, in che mondo siamo, cosa lo caratterizza con quelle semplici parole: "siamo in guerra". La guerra il principale argomento delle memorie di Pieve Santo Stefano, quelle memorie che, depositate in Archivio, hanno pian piano superato il numero degli abitanti, che sono 3.500 mentre i testi sono 4.792, quasi 5.000. A Pieve la guerra soprattutto la seconda guerra mondiale, ed anche la prima. Che impressionante continuit. Uno che avesse alzato la testa dai diari immerso nel tempo di quelle pagine in Albania, in Yugoslavia, sotto i bombardamenti americani, in mezzo agli invasori tedeschi, sentendo Riondino avrebbe potuto pensare: allora la guerra non mai finita! Dunja, Diana, Simona "Siamo in guerra", forse pensava all'Irak, o alla Cecenia, o al trattato di Kyoto, ma Riondino diceva che un po' che gli capita di dirlo, tanto per collocare se stesso e il suo pubblico in una cornice che riconnetta lo spettacolo con il mondo. In effetti eravamo in guerra anche quando lo era, a pochi passi da casa, la Yugoslavia, quel paese che ora non c' pi, ed chiamato come un ex -paese. Io sono un ottimista e poi, nato nel 1942, ho potuto credere di avere vissuto tutta la mia vita (salvo i primi tre anni che per in Sardegna non si sentivano come in Toscana o in Emilia) in un mondo di pace e non mi rassegno all'idea che siamo in guerra. Ho bisogno non tanto che mi pizzichino n di guardare la televisione, quanto piuttosto di avere quelle dolorose guide ermeneutiche nel mondo, esterno ai nostri sogni, che sono le persone che conosci, cui vuoi bene, e che stanno fisicamente dentro l'innominabile pantano di disperazione che la guerra. Per la ex-Yugoslavia fu l'amicizia di Dunja Rihtman a coinvolgermi. Ora Dunja non c' pi, e la sua storia di donna di

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Fiume, ex partigiana, poi militante nel mondo socialista, poi critica verso il regime titino insieme al marito Drago, giornalista, e quindi di nuovo nella guerra, di nuovo nei rifugi antiaerei, a condividere la lotta contro la Serbia vista come nemico dell'Europa e residuo di violenza antidemocratica, e quindi il nazionalismo, che poi fu esaltato dal governo di Trudman, cos da farla essere di nuovo contro, una storia che aiuta a capire il mondo in cui viviamo. Dunja si era messa a studiare le forme del simbolismo nei processi di impetuosa trasformazione politica, voleva legarsi all'attualit, non voleva concedere nulla a quell'ottimismo colpevole di cui accusava i suoi colleghi antropologi. C' ancora, a ricordarlo, l'articolo-lettera che scrisse per la rivista Ossimori nel dicembre del 1991: "Anche altrove la vita non rosea, ma qui, nel sangue di Vukovar, nella distruzione e nello spopolamento di Dubrovnik e di tanti villaggi, i simboli stanno acquistando delle connotazioni nuove." Forse da allora che siamo 'in guerra', da 13 anni. Da poco ho sentito P.Matveievic che, alla radio, ricordava che l'assedio di Serajevo stato il pi lungo della storia del primo millennio. Incredibile. In questo mondo brancolo nel buio. Vado per paradossi. Non avrei mai pensato da giovane che un giorno avrei avuto come riferimenti in politica internazionale un presidente di destra come Chirac, e il Papa. Vedo nero il futuro e sono preoccupato per i miei nipoti. Ma far conto sulle relazioni personali, gli allievi, mi aiuta ad essere meno dogmatico e pi problematico. Da quando una mia allieva romana vive a Gerusalemme ho rivisto alcuni stereotipi filopalestinesi della mia formazione, ed a lei che penso quando sento parlare dell'incomprensibile intreccio di ammazzamenti che diventato lo spazio israelo-palestinese. L'Irak per me la storia delle due 'Simone', e in particolare quella di Simona Torretta, studentessa romana della quale ho un forte ricordo di impegno, ma anche di mio disagio verso un'esperienza dell'alterit che si faccia dedizione e rischio di vita. Quando ho visto sugli schermi quel volto familiare, intenso, mediterraneo, ho sentito che la guerra ci aveva raggiunto, ci era saltata addosso e non potevamo pi non vedere che ce la avevamo in casa. Ho vissuto il doloroso periodo del silenzio con l'angoscia dei genitori. Essere in guerra anche questo, com'era nella seconda guerra mondiale, chiedersi dove sar un figlio, vivere con la possibilit della morte vicina. Ma ora che le due simone sono felicemente tornate ma che la guerra e la morte continuano in Irak e altrove, e che la morte innocente di Jessica e di Sabrina, poco pi che adolescenti in vacanza, ha reso ancora pi odioso e spaventoso quel mondo di guerra a tutto campo, la domanda che mi faccio e che molti ci fanno che cosa l'antropologia pu dire di questo nuovo scenario di conflitti in cui gli aspetti religiosi, culturali ed etnici sono sempre pi marcati. Cosa sappiamo dell'Irak, dell'Afghanistan, dell'Europa baltica, della ex Yugoslavia, del Pakistan, che serva a capire. E pu l'antropologia vivere come attivit conoscitiva, senza doversi confondere con la cooperazione, con il volontariato, con la dedizione, il coraggio, la solidariet? Forse se siamo in guerra non possibile pi farlo. L'antropologo deve tornare ad essere intellettuale, uomo che fa politica, padre o nonno

preoccupato per i figli, che si interroga su un futuro dove l'Occidente rischia di diventare un mondo opulento blindato e minacciato di vendetta da tanti popoli della terra? La guerra spinge ad economizzare le distinzioni di sfere, a riconnettere tutto. Il ponte di Mostar Non so come si possa farlo, faccio parte di una generazione che ha peccato di dogmatismo e di semplificazione, due cose di cui proprio non abbiamo bisogno oggi, perch la guerra ci coglie in un mondo di estrema complessit, in cui ogni semplificazione perdita di comprensione. Ma credo che dobbiamo provare, anche per non essere costretti a tacere come finora capitato troppo spesso. Forse dobbiamo farci pi europei e prendere le distanze dal gigante imperiale che riduce le differenze culturali dei popoli con eserciti e bombe? L'antropologia in ritardo anche su questo fronte europeo. Dobbiamo di nuovo guardare alla generazione dei padri fondatori, alla capacit di dare voce alla gente, al mondo non ufficiale, che hanno avuto un Nuto Revelli, un Saverio Tutino, Zavattini, il neorealismo, Dolci, Scotellaro, Gianni Bosio e tanti che furono antropologi anche se non lo facevano di mestiere? Anche per i beni culturali vederli entro il mondo in guerra ci aiuta a relativizzare, a riconoscere i valori che ci costruiamo intorno e la precariet di essi. Ricordo che ero a Pieve Santo Stefano quando crollava il ponte di Mostar, un evento inimmaginabile per me, dopo la seconda guerra mondiale. Mi fu di grande conforto allora che a Pieve si potesse parlare dell'amore raggiunto da una donna dall'infanzia infelice, e della lunga e

sofferta subordinazione a un marito di una donna costretta dai familiari a sposarsi, storie oggetto di memoriali che avevano avuto il premio ad ex aequo, e pensavo che vale la pena di darsi da fare perch nel mondo abbiano senso le storie di vita di ciascuno, i dolori e gli amori, e non prenda il centro della scena sempre la morte e l'orrore, il nazionalismo e l'odio, il terrorismo e la vendetta. E' paradossale che a 60 anni dal 1944 che fu in Italia e in Europa sia inizio di libert che inasprimento di sofferenze sia ripreso un dibattito sul significato dell'odio razziale e della violenza, sul

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valore del ricordo e del perdono. E' paradossale il ritardo, che per segnala che ci sono traumi che hanno bisogno di tempi lunghissimi per dischiudersi, e che ci sono state condizioni politiche che hanno impedito di farlo prima, ma ancora pi paradossale che questi temi si adeguino a un presente in cui le stragi, gli assassini, di stato o di banda, sono tornati all'ordine del giorno e in cui la stessa distinzione tra civili e belligeranti non ha pi senso. So che dobbiamo parlare, indagare, domandarci di pi su questo inquieto presente, non so bene come e con quali risorse che non

siano trite ideologie, paradigmi rimasticati. Bisogna ritrovare percorsi comuni con storici delle religioni, politologi, economisti e giuristi che abbiano voglia di vedere il mondo da vicino nelle sua grande variet. Ci vuole una grande fantasia e audacia di pensiero e una forte connessione con il mondo, approfittando della rete, dei contatti e delle voci che possiamo attivare. Cose che oggi non abbiamo, ma in guerra bisogna tirare fuori tutte le risorse e sentire la responsabilit del futuro.

Spade e crisantemi. Antropologi in tempo di guerra


di Valerio Fusi
Il testo che segue stato scritto come contributo informale ad una discussione su guerra e antropologia promossa da Pietro Clemente, in occasione di alcuni seminari organizzati tra Prato e Roma. L'ho lasciato cos come nato, nella forma di un dialogo a distanza con Pietro, e con il bel testo che lui aveva preparato per il dibattito (vedi sopra). Non si tratta di un contributo accademico, che non ho titoli n dottrina sufficiente per produrre. Piuttosto una riflessione a mente fredda su alcuni temi di interesse antropologico che mi stanno a cuore; un poco ridondante, forse, a tratti declamatoria, ma non cos tanto da invogliarmi a correggerla ora. Una perorazione sentimentale ed emotiva contro l'ingerenza dell'emotivit e del sentimento nell'approccio professionale e politico degli antropologi ai temi della guerra: uno di quegli ossimori che dovrebbero piacere a Pietro. Vorrei che il lettore non si lasciasse trarre in inganno dal tenore retorico, che qualcuno ha ritenuto - a torto, credo - troppo giocato sul registro dell'invettiva, del cinismo e del paradosso, e che soltanto l'involucro di una argomentazione che spero di aver reso invece crudamente realistica, cos come appare a me. Il titolo, naturalmente, allude al libro di Ruth Benedict sulla cultura giapponese, che le fu commissionato dal governo americano durante la seconda guerra mondiale per scopi che non avevano molto a che fare con la promozione della fratellanza tra i popoli. Mi sembrato un esempio interessante del modo di intendere il ruolo degli antropologi in tempo di guerra: un esempio che dovrebbe renderci meno ottimisti sull'uso, sugli effetti e sulla reputazione del nostro sapere in questo momento della storia..

Caro Pietro, non so se quella che offro qui sia - come chiedi - una testimonianza esperta. Certo ho molto poco da testimoniare, e la mia esperienza quella che . Forse sono finito per errore sulla tua lista di indirizzi, ma ormai ci sono, e tanto vale dire come la penso. Potrebbe anche servire a qualcosa, dopotutto. Questa volta, per, per tanto che mi piaccia leggere quello che scrivi - l'intensit, la densit, il pathos, ma anche lo sguardo lucido e sofisticato - non riesco a trovarmi d'accordo. Non mi ritrovo in primis nel tuo sgomento epistemico davanti alla incomprensibilit del mondo contemporaneo. A me pare invece che il mondo sia cos spaventosamente prevedibile. Lo sentiamo incomprensibile ora solo perch abbiamo passato la vita a pensare che non lo fosse, e ci siamo gingillati con l'idea titanica che tutto potesse essere spiegato, che per quanto difficile, complessa, opaca fosse la realt, c'era un

pensiero - per quanto difficile e complesso - che ce l'avrebbe mostrata per quello che . L'ontologia arrogante di chi immagina un mondo che l per essere compreso, la pretesa che lo scopo dell'uomo su questa terra, il valore della sua vita stia nel capire, nell'estrarre una regola, una cifra, un algoritmo, una ragione, un senso, una lex abscondita che stavano l prima dell'uomo - o che erano nati con lui -, e che il possesso di questa ragione, di questo senso, fosse un bene in s, che avrebbe reso il mondo migliore, e dato un senso a sua volta al nostro esserci dentro. Una pretesa del genere, per quanto generosa (ma anche non priva di qualche torbido risvolto) era destinata alla fine desolante che oggi lamentiamo. Mi sembra semplicistico, e inutile, chiedersi quale formula abbiamo sbagliato, quale errore abbiamo commesso nel decifrare la cabala della cosa in s, illudendoci ancora che basti raddrizzare la rotta, mettere in sesto la bussola, e ritornare al punto in cui abbiamo perso di vista la verit perch sia possibile

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afferrarla di nuovo. Condivido il tuo disincanto, ma lo trovo ancora troppo ottimista, troppo poco disincantato, come quello di un innamorato tradito che maledice il suo amore, ma non riesce ad impedirsi di amare. Forse il mondo che abbiamo conosciuto era troppo semplice, troppo seducente il suo invito ad essere decifrato, troppo facili, e ingannevoli, i successi delle nostre traduzioni. Le cose che ci sgomentano oggi, e che ci fanno dubitare della ragionevolezza, della compresibilit del mondo, c'erano gi allora, c'erano state. Sapevamo che c'erano: la guerra, i campi di sterminio, la morte, le atrocit. Alcuni di noi c'erano passati attraverso. Ma tutto era previsto nella Grande Spiegazione. I buoni avevano vinto la guerra, e questo aveva rimesso in sesto l'universo. Il male c'era ancora, eccome. Con il nostro potente telescopio lo vedevamo in tutta la sua minaccia, laggi, ai confini del nostro mondo. Alcuni si erano spinti fino a l, al seguito di certi compaesani armati fino ai denti che aderivano ad ontologie meno sofisticate delle nostre, e ne avevano riportato referti terrificanti. Ma era come andare al cinema, in un certo senso. Sistemiamo le contraddizioni principali, e il resto si metter a posto da solo, in qualche modo. Prima o poi saremmo arrivati anche laggi, noi o qualcuno come noi, o qualcuno per noi. Oggi per il male bussa direttamente alla nostra porta, anzi, come dice quella canzone, scuote i muri e fa tremare i vetri delle finestre. Forse gi riuscito ad entrare dalla finestra sul retro, e si seduto sulla nostra poltrona preferita senza che ce ne accorgessimo. Ci rendiamo conto che niente pi come credevamo che fosse, che niente, forse, lo mai stato veramente. E' successo ad altri, prima di noi, in momenti storici di altrettanta sgomentevole incertezza. Non c' niente di nuovo in questi sentimenti di dubbio, di sconcerto, di impotenza, anche se del tutto nuovo - del tutto - il contesto, e la misura, e la potenza del male. Su questo nel 1941 ha scritto una poesia Wystan H. Auden alla quale non c' niente da aggiungere: Fino ad ieri non sapevamo d'altro, e credevamo Di avere quanto ci occorreva - l'adrenalinico coraggio della tigre, La discrezione del camaleonte, la modestia della daina, O la devozione della felce alla necessit spaziale Esercitare la propria virt civica non era Cos impossibile dopo tutto; ridurre le nostre perdite E seppellire i nostri morti era davvero facile... Ma allora eravamo bambini: questo era un momento fa, Prima che una novit offensiva fosse introdotta Nelle nostre vite. Perch non siamo stati messi in guardia? Forse lo siamo stati Forse quel misterioso ronzio dietro il cervello Che sentivamo a volte - sedendo soli Nella sala d'aspetto di una stazione di campagna, guardando in alto la finestra della latrina - non era indigestione ma questo Orrore che cominciava gi a farsi strada? Come e quando avvenne non lo sapremo mai:

Possiamo solo dire che presente, e che nulla Di quanto imparammo ora ci serve minimamente, Perch nulla di simile era accaduto mai. E' come se Avessimo lasciato la casa cinque minuti appena per spedire una lettera E nel frattempo la stanza di soggiorno avesse cambiato posto Con quella dietro lo specchio del caminetto; come se, svegliandoci all'improvviso, ci trovassimo Sdraiati sul pavimento, ad osservare la nostra ombra Pigramente stirarsi alla finestra. Intendo dire che il mondo dello spazio in cui gli eventi si ripetono c' sempre Ora soltanto non pi reale; quello reale non in alcun luogo, dove il tempo permane immobile e niente pu accadere; Intendo dire che per quanto ci sia una persona di cui sappiamo tutto, che ancora porta il nostro nome e ama se stessa come prima quella persona divenuta una finzione; la nostra vera esistenza decisa dal caso e non ha importanza l'amore. Ecco perch disperiamo; ecco perch vorremmo dare il benvenuto Al babau della nursery o allo spettro della cantina, perch anche L'ululato violento dell'inverno e della guerra divenuto come un motivo da juke-box che non si osa fermare. Temiamo il dolore, ma temiamo di pi il silenzio; Perch nessun incubo di oggetti ostili potrebbe essere terribile come questo vuoto. Questa l'Abominazione. Questa l'ira di Dio. Spade e crisantemi La guerra, allora. E' la guerra, con tutto il suo seguito di lutti, atrocit, distruzioni e sangue, che ci fa dubitare di tutto. Ci spaventa, ci atterrisce, certo, ci sconvolge, ma sconvolge soprattutto la consolatoria architettura razionale del futuro in cui avevamo ottimisticamente riposto la nostra fiducia, su cui contavamo di costruire le nostre vite, le nostre e quelle dei nostri figli e nipoti. Devasta l'idea che ci eravamo fatti del mondo e di noi stessi, e ci obbliga a rimettere tutto in discussione. Dobbiamo capire, ripetiamo a noi stessi. Ma capire che cosa? Capire per che cosa? Perch tutto torni come prima, e il male venga di nuovo respinto in quei territori lontani che esploravamo con il telescopio, in attesa di annetterli ai nostri possedimenti? E in base a quale ragionamento associamo il progresso del bene all'incremento delle nostre conoscenze? Cosa ci fa credere con tanto ottimismo che la sconfitta del male sia conseguenza necessaria della sconfitta dell'ignoranza, della superstizione, della confusione mentale, dell'entropia concettuale di cui ci sentiamo vittime? Vogliamo capire. E poich la guerra guerra con l'altro, soprattutto l'altro che vogliamo capire. Finalmente un lavoro adatto a me, pensa l'antropologo, che ha passato la vita a cercare di capire l'altro, che ha costruito su questo la propria professione, seppure con esiti ambigui. Ma anche concedendo la praticabilit epistemologica di una conoscenza del genere, siamo davvero certi che conoscere l'altro

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sia di per s uno strumento per appianare i conflitti? O non serve semmai al contrario, come sanno bene i servizi di intelligence di tutti i paesi, che da sempre - come gli antropologi, e qualche volta anche con l'aiuto degli antropologi - studiano e cercano di capire il nemico perch sia possibile colpirlo meglio? In fondo per questo che si chiamano come si chiamano, no?: intelligence. " dovevamo bombardare il palazzo dell'imperatore? Che cosa dovevamo dire nella nostra propaganda che servisse a salvare vite americane e indebolisse la determinazione dei Giapponesi di combattere fino all'ultimo uomo? Doveva prendersi in esame anche l'eventualit di un annientamento del popolo giapponese?" Queste le domande che il governo americano rivolse a Ruth Benedict nel 1944. Non saprei dire se la preferenza che fu poi accordata all'ultima opzione di quella lista sia stata propiziata anche dal lavoro della Benedict, ma trovo comunque la circostanza piuttosto inquietante. Mi pare allora che non tanto offrendo la sua presunta (e tutta da dimostrare) competenza nella comprensione dell'altro che l'antropologia potrebbe dare un contributo alla riduzione del conflitto (o almeno alla riduzione del nostro proprio sconcerto cognitivo), quanto piuttosto riproponendo la consapevolezza - che sta all'inizio ed alla fine di ogni antropologia rispettabile - della relativit delle culture e della impossibilit di ricondurne la variet (e la comprensione) ad una struttura invariante di principi e di valori. Paradossalmente, cio, esibendo non i suoi successi come disciplina, ma il proprio intrinseco scacco epistemologico. Giudizi di valore Accettare un punto di vista relativistico (eh, s: questa la parola, per quanto dubbia sia la sua reputazione nel senso comune come presso gli ambienti accademici, e susciti invariabilmente sdegno e ripulsa) significa per prima cosa diffidare dei giudizi di valore. Qui la parola chiave diffidare. Non possibile (non ha senso) escludere i giudizi di valore dall'orizzonte conoscitivo di ciascuno. Il rifiuto stesso dei giudizi di valore nasce peraltro esso pure da un giudizio di valore. Ogni passo della nostra vita quotidiana e ogni parola del nostro sapere di antropologi gronda di giudizi di valore. La nostra vita costruita sui valori, sono i valori l'impalcatura del nostro mondo, sulla quale appoggiamo le nostre convinzioni minute, la percezione del nostro essere al mondo, alla quale affidiamo il senso della nostra esistenza. Se si d il caso, siamo anche disposti ad uccidere per i nostri valori. Qualche rara volta persino a morire. Non potremmo mai farne a meno. Possiamo per tentare di amministrarli con una maggiore consapevolezza: diffidare - appunto - delle formulazioni troppo assertive, degli universalismi e dei fondamentalismi. Un requisito di buon senso, prima ancora che una premessa metodologica; ma anche qualcosa di pi del frusto elogio liberale della tolleranza che tutti abbiamo visto naufragare cos miseramente alla prova di questi anni di fuoco. Questo importante soprattutto per la guerra: la guerra per l'appunto anche e principalmente un conflitto di valori. Sicuri

come siamo dei nostri, ci sembra sempre talmente evidente che quelli dei nostri nemici siano sbagliati, nonostante che loro si ostinino a considerarli valori, nonostante che anche loro siano disposti (qualche rara volta, ma sempre pi spesso di quanto non accada a noi) a morire (e uccidere) per loro. C' sempre una lotta tra il bene e il male, e tra il giusto e l'ingiusto, ma il problema che immancabilmente entrambi i contendenti ritengono di stare dalla parte del bene, e che essere collocati in tale posizione privilegiata renda sacro il loro compito: ne santifica il fine e rende lecite pratiche che in altri contesti sono considerate inaccettabili. In questo contesto, se uno dei nostri ad uccidere, sar esentato dall'esecrazione universale che si riserva a chi sopprime una vita umana. Se invece si fa uccidere, diventer un eroe, o un martire, o tutte e due le cose insieme. Al contrario i nostri nemici, nelle stesse circostanze, saranno rispettivamente assassini e fanatici. Lo stesso vale, simmetricamente, anche per loro, anche se gli aggettivi possono cambiare. E possono cambiare anche le modalit di esercizio: si pu essere assassini e fanatici barricandosi dietro una cortina di armi potenti, non diversamente da quelli che invece scelgono di legarsele al corpo con una cintura, lasciando che Sansone muoia con i filistei, piuttosto che sterminarli tutti a distanza, fumando il sigaro in uno studio ovale. Non che tutte le ragioni siano uguali, che tutti i valori siano uguali. Non , come dice la critica rozza del relativismo (ma non si ha idea di quanti sofisticati pensatori vi si affidino) che tutto indifferente, che una cosa vale l'altra, che un valore vale l'altro. Il vero relativismo, non lo spauracchio da operetta con cui si confrontano gli antropologi a corto di argomenti, non sostiene l'inesistenza o l'impraticabilit, o l'assenza di senso degli assoluti, ma piuttosto l'esistenza di assoluti relativi, validi per ciascun relativo ambito culturale, e in esso assolutamente cogenti. Personalmente sono molto affezionato ai miei valori assoluti, che non cambierei con quelli di nessun altro. Per alcuni di essi sarei disposto (forse) anche a morire, o almeno ad accettare di subire (o infliggere) una quantit ragionevole di sofferenza. La consapevolezza della loro relativit non me li rende meno cari, meno cogenti, meno assoluti nella mia vita. Dal mio punto di vista relativo sono assolutamente convinto, per esempio, che la ragione e il torto non possano mai essere divisi in parti uguali, e che qualche volta accade persino che la ragione stia tutta da una parte (per dirne una, io non accetterei mai di chiamare la Palestina come fa Pietro salomonicamente - lo spazio israelo-palestinese). Ma come posso pensare che solo la mia vita sia illuminata dalla luce della verit, e che tutti gli altri siano condannati all'errore? Come posso non riconoscere che il mio vicino (e a fortiori il mio lontano simile, e il mio potenziale nemico) possa averne di diversi e altrettanto assoluti, e che ami conformare ad essi la sua vita e le sue aspettative, cos come accade a me? I nemici. Ci saranno sempre i nemici. Li possiamo (qualche volta dobbiamo) combattere, e uccidere, anche, per affermare la bont dei nostri valori, per garantirne la sopravvivenza (e la nostra, insieme a loro). Ma possiamo combattere meglio (e forse uccidere meno) non se tentiamo di capire i loro valori (impresa dagli esiti

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quanto mai incerti), ma se ci rendiamo conto che anche i nostri nemici, come noi, agiscono sulla base di valori, e che anche loro, come noi, non accetterebbero di vivere secondo altri valori che non siano quelli, per quanto a noi sembrino assurdi, infondati, ridicoli, malvagi. I nostri valori Vediamo i nostri valori come leggi, attribuiamo loro tutta l'autorit delle leggi, ci aspettiamo che diano legalit al nostro mondo. Ma qualche volta diventa necessario proteggersi, difendersi dal rigore delle leggi, dal principio primordiale dell'eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ci deve essere comunque sempre un modo di aggirare la legge, una via laterale d'uscita, e legulei esperti in cavilli che siano in grado di far assolvere chi la infrange. Non c' tab pi grande di quello posto sulla vita umana. Ma tutti accettiamo da sempre che sotto certe condizioni possa essere lecito, o giusto, o inevitabile, sopprimere una vita. E' una cosa che non sanno solo i cappellani militari, o il boia di Alcatraz, ma fa parte del nostro senso comune. Il trucco, naturalmente, sta tutto in quel 'sotto certe condizioni'. Basta stabilire quali sono le condizioni che si possono accettare, e quelle inaccettabili, e avremo un confine entro cui trasgredire tranquillamente i nostri tab. La guerra un buon affare, sotto questo punto di vista, perch offre un salvacondotto onnicomprensivo rispetto alle proibizioni pi cogenti. Quasi tutto quello che si fa in una guerra, ogni sopruso, ogni strazio, ogni tortura, ogni strage diventa in una certa misura accettabile e legittimo, perch la guerra un valore cos totalitario che relativizza a se stessa tutti gli altri. Allora - con il cuore che sanguina - si pu ammettere di poter torturare (sotto certe condizioni), colpire per sbaglio civili innocenti, colpire con premeditazione civili innocenti (quando sia strettamente necessario), arrostire mezzo milione di giapponesi con una bomba atomica, ecc. ecc. Perch cos che si fa: la guerra si fa con le torture, con il dolore, con la morte parossistica, con il terrore, senza nessuna regola. Abu Ghraib e Guantanamo non sono eccezioni, degenerazioni. Sono il nostro modo di sgozzare con il coltellaccio, per arrivare l dove non arriva la bomba intelligente, o la missione chirurgica. In questo contesto un altro principio che sembrerebbe marginale si dimostra invece fondamentale: entrambi i contendenti devono indossare una divisa riconoscibile, ed entrambi ricorrere allo stesso tipo di armi. Vanno benissimo i carri armati, fucili con la baionetta, bombe di tutti i tipi, portaerei, satelliti spia, bombardieri atomici, parecchi tipi di gas. Tutti bene. Chi li possiede pu partecipare alla guerra, essere accreditato come un combattente regolare. Ma se non ti puoi permettere questo tipo di armi, meglio che ti tenga alla larga dalla guerra. E' meglio, per dirlo con parole chiare, che tu ti sottometta direttamente, come se la guerra l'avessi gi persa. Se non vorrai accettare questa condizione, e pensi di farti saltare in aria in una gelateria sul lungomare, o in una metropolitana, o rapire qualche innocente giornalista, sei solo un terrorista. Parola terribile: letteralmente:

uno che semina terrore, a differenza dei bombardieri e dei tank, che invece suscitano tenerezza e allegria. E se sei un terrorista, sar comunque costretto a combatterti, ma questa volta anch'io sar un po' pi lasco nelle mie regole. Sar costretto a torturarti, a sbatterti in galera senza garanzie, a ucciderti subito, senza lasciarti neanche parlare, a radere al suolo la casa dei tuoi familiari, a spezzarti le braccia, e umiliarti, ecc. ecc. Sei un terrorista, soprattutto, perch te la prendi con vittime innocenti, e con i civili. Certo, anche io, con la mia guerra regolare, faccio vittime innocenti, forse cento o pi volte di quanto ne faccia tu nelle gelaterie e nelle metropolitane. Per venire a prendere te nei tuoi introvabili nascondigli, mi sentir autorizzato a radere al suolo il quartiere dove ti nascondi, ad assediarlo togliendo a migliaia di civili ogni mezzo di sussistenza, ad imbottire di mine le tue strade, a lasciar morire per embargo i tuoi torpidi concittadini che non si decidono a liberarsi di te. Per scoprire le tue armi proibite potr seminare morte e terrore con le mie armi certificate. Ma tu sei un terrorista, e se sei un terrorista, in fondo, te la sei cercata, e se la sono cercata i tuoi familiari, i tuoi vicini di casa, i tuoi connazionali. Ma noi non odiamo solo i terroristi. Aborriamo, per esempio, anche i popoli che vorrebbero praticare la pulizia etnica. Ma non tutti allo stesso modo. Alcuni di questi ci piace bombardarli, ad altri preferiamo rivolgere un invito educato a non esagerare. Anche qui vige la regola delle 'certe condizioni'. Abbiamo fatto a pezzi i serbi per difendere i Kossovari, ma abbiamo lasciato senza battere ciglio che i kossovari facessero a loro volta a pezzi quello che restava dei serbi. Processiamo Milosevic come un criminale di guerra, ma invitiamo alla nostra tavola, con tutti gli onori, il macellaio di Sabra e Chatila. Abbiamo esaltato come un eroe del nostro secolo lo studente cinese che ferm i carri armati sulla piazza Tien an Men, ma consideriamo gli adolescenti palestinesi che combattono a sassate i tank israeliani, al meglio, come illusi, se non come fastidiosi fanatici che non si vogliono rassegnare realisticamente al destino che il mondo libero ha riservato per loro. Il nostro senso universale di giustizia molto tollerante con i nostri propri comportamenti e con quelli dei nostri amici e compari, ma possiamo ragionevolmente sperare che la stessa tolleranza sia condivisa da quelli che ne fanno le spese? Cuius regio, eius religio Cuius regio, eius religio: la saggezza degli antichi. Purtroppo facile essere tolleranti con una religio, finch la sua regio se ne sta tranquilla laggi, a distanza di sicurezza. Ma a differenza delle religiones, le regiones hanno la fastidiosa tendenza, soprattutto di questi tempi, a mutare continuamente i propri confini, l'una a danno dell'altra, essendo lo spazio disponibile sempre lo stesso. In particolare, la regio dell'occidente, indipendentemente dai confini delle carte geografiche, ha finito per espandersi indefinitamente, e per espandere indefinitamente la portata della sua religio, e si determinato di fatto un problema per la sopravvivenza delle altre religiones, quando non anche molto concreti problemi di

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sopravvivenza tout court per i relativi credenti. Il conflitto diventa allora inevitabile: una lotta per la sopravvivenza che non pu conoscere mezze misure o sincretismi. E' solo un'illusione, un wishful thinking, una stucchevole ipocrisia l'idea che le culture, e le etnie, possano precedere mano nella mano, imparando l'una dall'altra in un clima di conciliazione e di reciproco rispetto, cantando a turno i rispettivi inni sacri, ognuna indossando il suo costume tradizionale, come nei sussidiari delle elementari, senza che i loro rapporti siano condizionati dalla molto concreta contabilit del dare e dell'avere culturale, degli interessi reali dei popoli e della loro affezione ai propri valori. L'occidente diverso, certo. Lo riteniamo diverso intanto perch in quanto occidentali siamo in grado di apprezzare quel tipo di diversit (come naturalmente ogni cultura fa per la sua propria diversit). Ma anche diverso, oggi, a causa della sua incomparabile, spropositata potenza, che si accompagna ad una altrettanto terribile fragilit. Noi conosciamo bene questa diversit, e la conoscono altrettanto bene i nostri nemici, che hanno imparato col tempo a sperimentare la nostra potenza, e stanno imparando ora a colpire la nostra fragilit. Questa consapevolezza ci obbliga ad una responsabilit. Ma ancora, non necessariamente, non prioritariamente ad una responsabilit etica, che individui un dovere altruistico. E' innanzitutto una responsabilit verso noi stessi. La supremazia di potere che abbiamo conquistato nei secoli non ci impone il rispetto degli altri come valore morale. Ce lo impone essenzialmente come condizione ormai indispensabile di stabilit del sistema che abbiamo costruito, per la semplice ragione che l'equilibrio del sistema di cui siamo padroni ora minacciato dalla sproporzione intollerabile del nostro dominio, e che la moderazione non pi tanto una virt, quanto una strategia irrinunciabile per proteggerlo. E' per questo che la scelta di fare la guerra stata una scelta sbagliata. Non voglio dire che sia stata una scelta amorale, o ingiusta (questo lo penso io, ma non lo pensavano, forse (forse) quelli che hanno deciso di farla, e di sicuro non lo pensano quelli che l'hanno approvata). Sarei ingenuo se credessi di poter convincere queste persone che la loro guerra amorale e ingiusta, convincerli cio della bont dei miei valori. Anche con i valori si dovrebbe usare il rasoio di Occam: se non possiamo condividere gli stessi principi etici, forse potremo trovarci d'accordo sulla misura della ragionevolezza e utilit di una guerra come questa, condividere una logica, piuttosto che un ideale (pur sapendo che anche la logica un valore, e di quelli pi a rischio in caso di guerra). Posso sperare, cos, di trovare un punto di incontro con i miei interlocutori sui parametri per valutare l'efficacia della guerra, o la corrispondenza tra gli esiti reali e gli intenti proclamati. E argomentare, con qualche speranza in pi di farmi capire, che stata sbagliata perch ha preteso ingenuamente (o stupidamente, o furbescamente) di compensare con un atto di forza una situazione ben diversamente complessa di squilibrio, ed ha rovinosamente sbagliato nell'individuare i suoi nemici. E' stata sbagliata cio

perch ha contraddetto alla sua stessa logica, ai suoi principi, ai suoi intenti, e ha prodotto risultati opposti a quelli che si era ripromessa di raggiungere (ammesso naturalmente che fossero davvero quelli dichiarati). Quello che mi sento di criticare innanzitutto della guerra americana, la sua inefficacia. Non la sua ingiustizia, la sopraffazione, la violenza parossistica, non la sua crudelt, non la sua odiosa pretesa imperiale, non tutte quelle cose disgustose che mi ripugnano in questa guerra, e che contraddicono e feriscono i miei valori. Quello che non posso accettare che questa guerra non produca risultati. Che dimostri cos vistosamente la sua inadeguatezza rispetto ai fini che si prefissa, ed ai costi morali che si assunta. Che sia diventata - come prevedibile - non la cura, ma ormai la causa principale della nostra insicurezza e della nostra angoscia per il futuro. Non pretendo che gli americani realizzino la democrazia in medio oriente (tutti sanno che non lo vogliono davvero e non lo faranno mai), e non mi interessa, e non credo di volere che lo facciano. Mi aspetto per che gli americani e chi li sostiene garantiscano (oltre alla loro) anche la mia sicurezza e quella della mia famiglia. Il mio cuore di sinistra sanguiner un poco se per fare questo gli americani dovessero fare del male agli arabi, ma del resto quello che noi occidentali abbiamo sempre fatto con gli arabi nell'ultimo secolo, e per secoli ad una quantit di altri popoli. Non stato cos con gli indios, gli indiani d'america, gli indiani dell'India, con i maori, con tutti senza eccezione gli africani? Cattivi. Eccome se siamo stati cattivi! Ma per fortuna gli indiani, e i maori, e gli aborigeni australiani, e i dannati dell'Africa non hanno imparato a farsi saltare con la dinamite nelle metropolitane, o non avevano metropolitane dove farsi saltare, e tutto andato per il verso giusto. Ora si contentano di premere alle nostre porte, a spingere alle frontiere con la sola forza della moltitudine, e anche questo ci coster qualcosa. Questa guerra non li terr lontani, li spinger anzi sempre pi verso di noi, sempre pi contro di noi. La guerra giusta un ossimoro. Esistono guerre che qualche volta, e sotto certe condizioni, possono essere utili, o inevitabili, o servire a uno scopo, essere il male minore. Non questo il caso. Ma gli argomenti pacifisti non sono abbastanza efficaci per dimostrarlo. Il pacifismo come ideologia altrettanto vacuo, fondamentalista ed ipocrita del suo opposto, come tutte le ideologie, appunto. L'ipocrisia qui sta nell'assumere una visione ecumenica di fratellanza che falsa dall'inizio alla fine. Una illusione di comunicabilit, di convivenza pacifica, di universalit del bene, di naturale socievolezza delle etnie e dei popoli che non mai esistita se non nei compitini degli antropologi politicamente corretti, e nelle favole che si raccontano ai bambini per farli addormentare. E' il conflitto, il sangue, la morte, la sopraffazione che hanno sempre funzionato, e funzionano perch servono a qualcosa, hanno uno scopo, una dinamica, una logica, una inerzia terribile ed inevitabile. Il problema che oggi l'impazzimento occidentale ha reso pazzo

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il sistema della guerra, e da modalit fisiologica delle relazioni interetniche ne ha fatto l'unico linguaggio praticabile, un linguaggio totalitario troppo facile da somministrare avendo alle spalle carri armati invulnerabili e bombardieri invisibili, e davanti moltitudini di barbari male in arnese. E' questo che produce un senso generalizzato, incurabile di disperazione e di ingiustizia. Omeostasi L'ingiustizia: reagiamo all'ingiustizia perch sentiamo violato, offeso un imperativo morale. Ma non solo questo. Non soprattutto questo. Perch quella che noi chiamiamo giustizia che altri chiamano utu, dike, voor, drast - essenzialmente un principio intrinseco di equilibrio, un valore termodinamico che ha a che fare pi con la biofisica che con i sentimenti e con l'etica. Se la natura ha orrore del vuoto, le culture aborrono lo squilibrio. E' per questo che l'ingiustizia si paga, e si paga anche a distanza di centinaia di anni. E' per questo che le colpe dei padri ricadono sui figli. Perch ogni ingiustizia compromette la bilancia sensibile dei campi di forza, inserisce una frattura nella continuit e nella stabilit delle energie locali, impone un salto nella natura delle culture che non ammette salti. E' la morte che fa la differenza. La morte che dissolve permanentemente ogni equilibrio, che giustifica qualunque vendetta. E' la mimesi reciprocante della morte - come dice con la solita sofisticata ovviet Rene Girard - che finisce inevitabilmente per produrre una spirale crescente di violenza e ritorsioni. Alla morte non si pu che rispondere con la morte. Al di l del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. La morte produce una mutilazione che chiede di essere risarcita ad un prezzo equivalente: chi d la morte sar ripagato, se e non appena possibile, con la morte. Ma appunto quello che l'occidente, oggi, non pu fare, quello che non pu permettersi di fare, proprio perch le energie di cui dispone sono esorbitanti, e ogni sua vendetta, ogni cieco tentativo di ristabilire col sangue l'equilibrio perduto apre un ciclo inarrestabile di reazioni che non possono essere sostenute senza che ne escano danneggiate permanentemente le condizioni stesse della nostra esistenza. Non quando la vita quotidiana di ognuno di noi pu essere devastata da pochi chilogrammi di tritolo in una metropolitana a mille miglia da casa nostra. La morte produce un danno. Si pu discutere in eterno su come siano stati cattivi gli occidentali nell'impossessarsi del mondo. Ma questo non ha importanza. Chiunque si fosse impossessato del mondo sarebbe stato altrettanto malvagio, e noi occidentali non possiamo che rallegrarci di aver avuto la meglio alle porte di Vienna, o a Poitiers, a Kartoum o a Tenochtitlan a suo tempo. Ha importanza per avere consapevolezza che questo processo ha prodotto un danno, ed il danno prima o poi chiede di essere compensato. Chi l'ha subito, magari venti generazioni dopo, cercher in qualche modo (in tutti i modi) di ottenere il suo risarcimento. Nella modernit il dominio occidentale aveva imposto una

condizione temporanea di equilibrio alle tensioni tra le culture, assestando le dinamiche interculturali su un livello di stabilit omeostatica garantito dalla sua inarrivabile superiorit tecnologica ed energetica. Ma c' una soglia critica oltre la quale non conviene, non saggio spingere il proprio vantaggio, l'estensione del proprio dominio. Non si pu vivere per secoli comprimendo le condizioni di vita dell'altro; non senza offrire qualcosa in cambio. E non perch sia immorale, ma perch non funzioner. Non necessario sentirsi in colpa. Forse non ha neanche senso. Il conflitto e la sopraffazione, insieme con la morte, la tortura, gli stupri, gli strazi, gli sgozzamenti col coltellaccio stanno tutti nel palinsesto dei rapporti tra le culture. Si vince o si perde. Ma conviene a chi vince di adottare strategie sensate perch le sue vittorie non conoscano soste, perch il suo dominio sia duraturo. C' una necessit di condivisione, di ragionevole compensazione che non ha niente a che vedere con la carit o con il risarcimento. Siamo arrivati al punto in cui l'occidente deve decidersi a risarcire quelli che ha stuprato non perch sia giusto farlo, ma perch ormai questo l'unico modo per tenerli a bada. Non perch etico, non perch e doveroso, ma perch conveniente, perch indispensabile Bisogna venire a patti, perch i nostri nemici (per quanta simpatia possa avere per loro, per quanta piet, comprensione, amore possa avere per loro, loro sono i miei nemici, non ci posso fare niente, per il semplice fatto che io sono il loro nemico) hanno armi altrettanto potenti delle nostre - pi potenti, forse - anche se di un genere diverso, ed hanno in pi dalla loro l'aver superato la soglia dell'interesse alla propria sopravvivenza. Davvero vogliamo credere che i kamikaze si fanno esplodere perch sognano le ventiquattro vergini del paradiso coranico, o perch qualche malvagio sceicco capitalista, o qualche fanatico imam li plagia o compra le loro famiglie, o paga per l'educazione dei loro figli? Certo non sono i disperati delle baraccopoli che si fanno saltare. Non sempre, almeno, e non certo guidando aerei contro i grattacieli. Ma questo non ha importanza. Sarebbe ingenuo cercare una linearit cos banale in questo scenario complesso di azioni e reazioni, di debiti e crediti storici e culturali vecchi di secoli, di sangue sedimentato e di ingiustizie, di contrasti voraginosi nelle condizioni di vita. Non fa differenza se sono i ricchi sceicchi a finanziare i kamikaze, per i propri interessi, o se solo fanatismo religioso quello che li spinge, o il desiderio di vendicare un fratello, un figlio assassinato: lo scenario che conta, l'intreccio insuperabile di interessi, credenze, sofferenze individuali, fanatismi, ingiustizie occidentali ed orientali, di sangue mai redento, di famiglie straziate. In questa contabilit, soltanto la somma finale che ha la sua terribile evidenza, un significato inequivocabile. Dobbiamo venire a patti, allora. Se quei poveri pezzenti dei palestinesi che vivono da quaranta anni nelle tende ai margini della loro terra occupata stessero buoni e calmi, o si sterminassero tra di loro, o si lasciassero disciplinatamente morire di fame come tutti quei disperati in Africa, senza venirsene a casa mia a far saltare le gelaterie sul lungomare, i miei grattacieli e le mie metropolitane - o senza che qualcuno decida di farlo con la scusa

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della loro sofferenza - continuerei a piangere sinceramente per loro, la mattina presto, mentre sorbisco il mio cappuccino caldo con croissant, come ho fatto per i curdi, per gli africani, come altri hanno fatto prima di me per gli ebrei, per gli armeni. E poi continuerei - com' giusto - ad occuparmi dei casi miei. Quello che oggi rende tutto diverso - pi preoccupante, e pericoloso, e angoscioso - la spaventosa contiguit dei nostri mondi rispettivi. Alziamo gli occhi dal telescopio, e ce li vediamo davanti, i nostri nemici, i barbari, a grandezza naturale. E non una vista piacevole. Che cosa ho fatto per meritare tutto questo? Siamo davvero cos ingenui - o ipocriti - da non vedere come il nostro benessere, le condizioni stesse di esercizio della nostra vita quotidiana, la possibilit stessa di coltivare i nostri valori nascono dalla sofferenza altrui, dalla rinuncia che gli altri hanno dovuto fare alle cose che noi abbiamo avuto, che noi ci siamo presi? Non so, non credo che dovrei sentirmi in colpa per questo. Non l'ho fatto io questo mondo. Non c'ero, io quando tutte queste brutte cose sono accadute. Sono condannato a raccoglierne i frutti, e non potrei fare diversamente. Lo dice bene il poeta: "chi disposto ad affrontare la disperata catabasi nel ringhio dell'abisso che sempre giace sotto il nostro allegro picnic nella brughiera del dilettevole, dove ci sdraiamo, avendo gi deciso ci che non chiederemo, miti, scaldati dal sole, assuefatti alla luce della menzogna accettata" (ancora Auden: il cuore fino dei poeti arriva molto pi in l, e prima, dei cervelli ben temperati degli antropologi e degli scienziati in genere). E' per questo che non sono affatto d'accordo con Pietro quando dice che il nostro rischia di divenire un mondo opulento e blindato. Il nostro un mondo opulento e blindato, lo sempre stato. Il rischio, oggi, proprio del contrario: che non sia pi abbastanza opulento, e abbastanza blindato. E questo fa paura, vero? E' solo un'illusione infantile l'idea che il nostro giardino di principi felici possa espandersi indefinitamente, e che solo l'ignoranza, la pazzia, la stoltezza degli altri - o la malvagit di alcuni dei nostri per la quale ci rifiutiamo di assumere responsabilit - abbia impedito e ancora impedisca loro di diventare come noi, l'ingenuo e confortante accecamento sul dato di fatto incontrovertibile che la nostra felicit, il nostro benessere, il nostro sistema di vita si reggano su un debito infame e spropositato di sangue, di morte e di sofferenza. Ci piace mangiare la nostra bistecca allegramente seduti al tavolo del ristorante, ma non vogliamo pensare alla sofferenza della vacca, a ciascuna delle fasi durante le quali stata ingrassata forzosamente, e poi sanguinosamente soppressa, squartata, eviscerata, fatta a pezzi, da uomini con un coltellaccio tra le mani e il grembiule sporco di sangue. Ci rifiutiamo vedere l'animale nella bistecca, ci rifiutiamo di vedere il macellaio, e rifiutiamo di riconoscere il debito che abbiamo contratto con uno come lui, che non inviteremmo mai alla nostra tavola. D'altra parte non

accetteremmo di nutrirci staccando a morsi la carne dal corpo vivo dell'animale. Ma a conti fatti siamo solo noi che poniamo in valore questa differenza, e agli atti pratici, crudamente biologici, non c' molta differenza (non ce n' alcuna) tra il sussiegoso gourmet seduto al tavolo del Ritz, e la iena della savana che si guadagna senza ipocrisie la propria colazione. Uno, nessuno e centomila Senza ipocrisie. Piangiamo la ragazzina di Tel Aviv che viene fatta a pezzi sul lungomare mentre mangia il suo gelato, e allo stesso modo soffriamo per il piccolo pezzente della tendopoli palestinese ucciso (per errore!) dai militari israeliani. Ma proprio allo stesso modo? In realt quella ragazzina troppo simile a nostro figlio, con le sue scarpe di marca identiche alle nostre, con il portatile e le cuffie alle orecchie. Veste come lui, ascolta la stessa musica, si aspetta dal mondo le stesse cose. Nella sua morte vediamo morire qualcosa anche di nostro figlio. L'altro solo un poveraccio, uno dei tanti che abbiamo imparato a compiangere nelle parrocchie e sui banchi delle elementari, con un misto di compassione e retorica. Quella morte, quel tipo di morte sta nel conto, fa parte del suo destino. Centinaia di migliaia di africani, milioni di asiatici, milioni e milioni, morti senza piet, allora e ancora. Troppi, per averne piet: la piet occidentale ama i piccoli numeri, l'individuo, esalta e cura la sofferenza individuale. Le morti cumulative gli fanno orrore, ma l'orrore un sentimento tutto particolare: prendiamo atto del conteggio con un senso di tiepida, torpida ripugnanza, perch non siamo in grado di rappresentarcene davvero l'enormit. Un milione di persone morte, di africani morti, non sono come un milione di individui, uno per uno i nostri vicini di casa. Per questo tremila americani andati a fuoco in un grattacielo ci hanno sconvolto, perch in quel caso abbiamo dovuto moltiplicare per tremila il nostro dolore, la nostra individuale piet, e soprattutto le nostre paure private. Sono tremila Frank, Alan, Rose, Valerio, Pietro, ognuno con la sua faccia, ognuno con la sua storia, come noi, come ciascuno di noi. Come ciascuno di noi che potrebbe trovarsi nelle stesse circostanze. Non come quella montagna indistinta di cadaveri neri che ingombra tutta l'Africa, non come la massa sterminata di morti che la nostra civilt si lascia dietro da sempre. Quelli si possono contare solo tutti assieme: massa, appunto. Ci commuovono, ci fanno pena, la loro sorte ci fa indignare, ma pazienza. Stasera dormiremo tranquilli, come ieri, come il giorno prima. Non siamo stati noi, e prima o poi faremo qualcosa; di sicuro, faremo qualcosa. Ma tutto questo ha una sua tragica naturalezza. E' cos che vanno le cose: ogni cultura riconosce solo il proprio simile, gli altri sono comunque inumani, o comunque meno umani. Non c' niente di cui dovremo scandalizzarci. La sorte ci ha riservato di stare dalla parte di chi ha vinto, noi abbiamo solo ereditato una fortuna accumulata con mezzi equivoci. Ma quello che stato stato, e comunque certo che i nostri nemici non si sarebbero comportati diversamente da noi, nelle stesse circostanze.

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Perplessit essenziali Resta da vedere cosa possibile fare in uno scenario del genere. Che cosa possono fare gli antropologi, come chiede Pietro. Una domanda impegnativa, ma anche ambigua. Non si capisce se ci pu essere qualcosa che gli antropologi possono fare proprio in quanto antropologi, in quanto amministratori di una conoscenza specifica che pu essere utilizzata per comprendere la sostanza di questa guerra - o addirittura per difendersene - oppure se si chiede loro di fare qualcosa come lo chiederemmo ai professori di storia antica, o ai dentisti, agli idraulici, qualcosa che li riguarda come uomini, come parte in gioco, come portatori di interessi. Pietro sembrerebbe - com' ovvio - interessato alla prima di queste opzioni, ma le sue domande, subito dopo, i suoi interrogativi, sembrano soprattutto riguardare la seconda. Il classico dubbio dei chierici, com' riassunto nella presentazione dei seminari: "che ne del confine tra scienza e politica, fra l'istanza, cio, di una conoscenza criticamente distaccata e quella di una partecipazione attiva e militante al corso degli eventi?" Bella domanda. Una volta sapevamo come rispondere, vero Pietro? Tutti quei discorsi sulla non-neutralit della scienza, il posto degli intellettuali, la "battaglia delle idee". Allora s che avevamo idee chiare da mandare in battaglia, e alcune hanno fatto egregiamente il loro dovere. Ora invece quello che prevale il dubbio e l'incertezza, ed questo soprattutto che ci sgomenta. La lettera di Pietro pullula di espressioni di dubbio e di incertezza: "incredibile","brancolo nel buio", "vedo nero", "innominabile pantano", "incomprensibile intreccio", "evento inimmaginabile", "non so bene come", ecc. Tutto il suo testo intessuto di sconcerto e di amarezza, di ansia, e a poco vale, mi pare, quell'invito finale ad essere "pi problematici", ad usare una "grande fantasia ed audacia di pensiero". Messo l dove si trova, suona pi come un fervorino consolatorio per non finire in tristezza, qualcosa che in mancanza di meglio ha dovuto prendere il posto di una ormai impraticabile proposta di metodo scientifico. La chiave di questo sta in quel "faccio parte di una generazione che ha peccato di dogmatismo e semplificazione". Un peccato: un modo di dire, certo, ma rivelatore. Sembra che dobbiamo

pentirci di qualcosa, vero? Certo, se il mondo va cos, in questo momento, siamo noi che abbiamo perso (qualsiasi cosa si intenda con questo 'noi'). Ma abbiamo perso perch eravamo dogmatici e semplificatori? E abbiamo perso perch i nostri nemici hanno saputo essere problematici e laici? I carri armati, le portaerei: sono queste le cose pi dogmatiche e semplificatrici che conosco. Non sarei cos severo con il nostro passato: il dogmatismo e la semplificazione di allora erano la forma che aveva preso il nostro impegno, la nostra voglia di combattere, la ragione per cui abbiamo amato la nostra vita, e vi abbiamo riconosciuto un senso, ed ora invece ci sentiamo persi ed imbelli, e pretendiamo di lenire questa sofferenza ontologica con una risanatrice onnipotenza conoscitiva che deve pur essere da qualche parte, una conoscenza che pure perseguiamo, ancora una volta, con dogmatismo e con semplificazione. La storia, anche quella buona, anche quella in cui ci riconosciamo, l'ha fatta gente che non ha avuto paura di semplificare, davanti a scelte che andavano fatte. Quelli che la sapevano lunga, quelli che non seguivano dogmi, quelli che non semplificavano, quelli che volevano capire hanno continuato ad interrogarsi per tutto il tempo con i piedi al caldo nelle loro ciabatte, mentre qualcun altro faceva il lavoro per conto loro. Caro Pietro, non saprei davvero dove tracciare quel confine che si diceva, quella tranquillizzante linea retta "fra l'istanza di una conoscenza criticamente distaccata e quella di una partecipazione attiva e militante al corso degli eventi". Sono stanco, molto stanco e incattivito. In queste condizioni la mia fantasia si inaridita, per non parlare dell'audacia di pensiero. In queste condizioni anch'io, come te, provo "disagio verso un'esperienza dell'alterit che si faccia dedizione e rischio di vita" (anche se temo che sia il disagio di chi viene messo davanti alle proprie paure ed alla propria vilt). In queste condizioni, immagina, non mi sento neanche di condannare quelli che scelgono di tagliare il nodo con la spada, e mettono in gioco la propria vita con una esplosione semplificatrice.

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che segue, frutto del lavoro sociale e dinamica, e L articolo alcune questioni centrali del di un docente in psicologia Benini ed Erba cercanodidiuna counselor sistemico relazionale, affronta discorso psico-terapeutico. riconsiderare la riflessione teoricometodologica che riguarda il rapporto terapeuta-paziente, alla luce della rottura epistemologica segnata dall'avvento della "teoria della complessit" e del "costruttivismo". Secondo gli autori, l'apporto dei modelli socio-costruzionisti ha portato ad intrecciare la riflessione sulla conoscenza terapeutica con la riflessione sui processi comunicativi in cui si genera tale conoscenza, spostando l'attenzione sugli aspetti relazionali, dialogici e riflessivi che strutturano la relazione terapeuta-paziente, la quale viene nei loro termini a configurarsi come "conversazione terapeutica" e "narrazione". In questa ottica essi propongono una metodologia di intervento che intende ridefinire in senso orizzontale le relazioni di forza e potere che tradizionalmente caratterizzano il contesto clinico, per allontanare la pratica biomedica dai rischi di perpetuare un "colonialismo della salute mentale" e lasciare invece spazio alla narrazione interindividuale e biografica terapeuta-paziente, quale pratica di "non potere" e "antioppressiva". Pur non liberandosi completamente da una tradizione di sapere che riduce il disagio ad un problema individuale del "paziente", senza inserirlo nel quadro di una pi ampia serie di fattori sociali, economici e politici, ci pare che l'articolo di Benini ed Erba costituisca un prezioso contributo ed un interessante spunto di riflessione che cerca di mettere in discussione dall'interno le pretese egemoniche del sapere biomedico. Anche l'antropologia medica da tempo si dedica alla riconsiderazione critica dei presupposti bio-medici, che comprendono quindi anche l'ambito psico-terapeutico. In questo contesto, gli antropologi hanno prodotto un intenso dibattito che, intrecciandosi agli sviluppi delle teorie pedagogiche e psicologiche, ha permesso di ripensare alcune categorie fondamentali quali quella di terapeuta, paziente, malattia, salute, etc. In questa prospettiva, la pratica medica va considerata un terreno in cui il complementarismo diviene necessit. Per comprendere a fondo la natura dei suoi presupposti e delle sue implicazioni necessario superare le barriere disciplinari ed affrontarne i temi da diversi punti di vista: politico, sociologico, antropologico ed anche dal punto di vista di coloro che in tale ambito agiscono come attori principali, quindi medici, psico-terapeuti, educatori, etc, e soprattutto, dal punto di vista di quelle categorie di attori che comprende tutti e nessuno, i cosiddetti pazienti, utenti, malati. La Redazione

Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione e riflessivit*


di Paolo Benini e Gabriella Erba
Premessa Questo lavoro nasce come elaborazione di una serie di conversazioni che ci hanno condotto a riflettere sulla nostra esperienza di counseling e sulla nostra stessa formazione. E' un lavoro a due mani, o meglio sarebbe dire a "due voci", che sconta la fatica di rendere per iscritto la trama conversativa. Il motivo di questa difficolt probabilmente da ricondurre ai nostri limiti come autori, ma per noi stata anche l'indicazione delle potenzialit che i processi comunicativi dialogici hanno nel generare e coordinare significati. Nella bibliografia di riferimento e nel discorso complessivo, si sono spesso sovrapposti due insiemi di significanti, uno riferito all'ambito della terapia familiare, da cui i significanti di terapeuta, conversazione terapeutica, etc., l'altro riferito al nuovo ambito di Counseling, in cui i significati citati sono, per cos dire, sostituiti e/o ricollocati da termini quali counselor, colloquio d'aiuto, etc. In questo lavoro, abbiamo deciso di optare prevalentemente per i significati suggeriti dalla pratica sociale denominata "terapia familiare". Questa scelta, non corrisponde a una assimilazione concettuale tra counseling e terapia, ma dal nostro interesse per la pratica del "counseling psicologico" e dall'opportunit di far riferimento a risorse teoriche gi piuttosto consolidate, come la riflessione teorico-metodologica che ha accompagnato lo sviluppo della terapia familiare dalla seconda met del Novecento. L'ambito del counseling si trova in una fase iniziale, in cui vanno lentamente definendosi le premesse per discorsi metodologici e teorici capaci di reggere sviluppi differenti e coordinamenti di significato tra le diverse scuole e tra i "nuovi" counselor. Sul piano pratico, il riconoscimento sociale di questa pratica solo all'inizio. Per questi motivi ci sembra proficuo appoggiare la riflessione sui contributi di terapeuti/studiosi che gi da molto tempo praticano e ricercano in un campo di intervento che, da una prospettiva d'insieme, appare accomunare terapia e counseling: il sostegno, la facilitazione, la mediazione con persone e famiglie, in un contesto in cui la conversazione il principale "strumento" di lavoro. Le principali risorse teoriche sono state: alcuni lavori riconducibili alla "Scuola di Milano", le proposte teoriche sulla costruzione sociale delle forme comunicative e sociali avanzate

*L'articolo gi apparso sulla rivista elettronica "la rete" (http://www.terapiasistemica.info/larete/2003/itinerari.htm). Si ringraziano gli autori per averne concesso la pubblicazione.

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da Pearce, alcuni lavori di terapeuti/studiosi come Lynn Hoffman, Harlene Anderson, Harold Goolishian, Tom Andersen che sono tra i principali fautori di quello che definito "approccio narrativo" in terapia familiare. Sicuramente, tante altre fonti precedenti o trasversali ci hanno orientato a scrivere queste cose piuttosto che altre. Introduzione I fili conduttori di questo lavoro sono essenzialmente due: la narrazione e la riflessivit, che appaiono essere ricorsivamente una l'espansione dell'altra. L'ottica narrativa, che connota la conversazione terapeutica come contesto di costruzione e condivisione di discorsi e storie, e la posizione riflessiva, che porta a beneficiare dei processi di co-costruzione innescati da relazioni aperte e paritarie. Nel campo della terapia familiare degli ultimi decenni, le due prospettive si richiamano a vicenda e tendono a comporsi in un copione di "utilit terapeutica" che guarda alle possibilit di far emergere le risorse delle persone e delle famiglie, piuttosto che alle opportunit di "cura". Nel primo capitolo cerchiamo di comporre, a grandi linee, una mappa dei cambiamenti teorici e metodologici avvenuti in conseguenza dell'intreccio tra il mondo della terapia familiare e il pensiero costruttivista e costruzionista. Possiamo dire che in questa parte esplicitiamo le nostre premesse teoriche, o, per utilizzare un termine di Cecchin (1997), i nostri "pregiudizi" teorici. Nel secondo capitolo focalizziamo l'attenzione sui processi comunicativi nei contesti terapeutici o di counseling. La terapia come narrazione, la riflessivit sui propri pregiudizi, l'idea di "innesto nella situazione emotiva", il colloquio filosofico, sono i temi messi a fuoco. Per certi aspetti, facciamo solo un accenno a queste tematiche. Non abbiamo cercato un'analisi articolata e estesa, per noi stato importante soprattutto riuscire a collocarle su un piano di riflessione. Seguono tre capitoli su altrettante connessioni che ci sono sembrate significative. La prima riguarda le persone e il linguaggio, vale a dire la doppia faccia di una conversazione terapeutica: una dell'incontro tra persone e l'altra del fluire del linguaggio. La seconda connessione riguarda il potere e il contesto terapeutico o di counseling. L'idea che si debbano ricercare "pratiche antiopressive" la premessa (o il pregiudizio) della riflessione su questo tema. La terza connessione tra biografia e lavoro sociale. In questa parte non potevano mancare alcuni riferimenti autobiografici. L'accenno a questi ci ha guidati in una breve riflessione su ci che scaturisce dall'intricata trama che si crea tra storie di vita e professioni sociali. 1. Sistemi e cambiamento "Nella cultura terapeutica molto difficile non farsi sedurre dal pensiero di come le cose dovrebbero essere, piuttosto che concentrarsi maggiormente su come sono" (Cecchin e coll. 1997) Una prima possibile domanda, parlando di sistemi umani nell'ambito terapeutico quale sistema interessa osservare. Il

sistema familiare o il sistema terapeutico? Le implicazioni di questa scelta non sono da poco. Scegliendo la prima opzione l'attenzione si focalizzerebbe sulla famiglia e il discorso prenderebbe probabilmente la forma di una riflessione sul suo disagio. Facilmente, questa scelta ci condurrebbe a costruire un discorso sulla sofferenza simile ai discorsi terapeutici connotati da una "centrazione sulla patologia" (Barbetta 1990), nei quali il processo terapeutico e in modo particolare il ruolo del terapeuta restano sullo sfondo. La seconda possibilit, ci appare pi impegnativa ma anche pi interessante, poich chiama nel discorso anche il "terapeuta", mettendo quindi in discussione quella posizione per cos dire di "osservatore esterno" che orienta dall'alto di una "professionalit" un discorso esplicativo e prescrittivo sul disagio delle persone; una posizione quest'ultima che ci appare una sorta di "messa in sicurezza" delle proprie risorse (Pearce 1989), a scapito dell'ammissione di un proprio coinvolgimento nella definizione di un disagio. Vorremmo scegliere questa seconda opzione, consapevoli che non tanto questa scelta preliminare, quanto ci che riusciremo a sviluppare in termini di riflessione e, in termini di lavoro con famiglie e persone, che potr dire della nostra capacit di rimanere coerenti con questa prospettiva. Cibernetica e altre "perturbazioni" Focalizzato il "sistema" cui guardare, una seconda domanda potrebbe essere: come concepire i sistemi umani e quindi anche il sistema umano specifico che si crea in un contesto terapeutico? Non si tratta ovviamente di trovare una risposta esaustiva a questo quesito, ma piuttosto di rendere esplicite le premesse teoriche da cui la nostra riflessione prende le mosse. La "rivoluzione" epistemologica denominata variamente secondo i contesti teorici e le scuole di pensiero "cibernetica di secondo ordine", "teoria della complessit", "costruttivismo", ha avuto riflessi estremamente significativi nel campo della terapia familiare, a partire dagli anni '80. I dubbi e gli interrogativi che si generarono dall'incontro tra l'emergente pensiero epistemologico e il campo della terapia familiare non riguardavano tanto i modelli esplicativi del disagio della famiglia (come era successo con i cambiamenti suggeriti dalla nozione di sistema introdotta della "prima cibernetica"), quanto la dimensione epistemologica dell'agire terapeutico. L'idea racchiusa nella famosa frase di Varela "Tutto ci che detto detto da un osservatore" e il complesso quadro di riflessione epistemologica che attravers quest'idea posero sostanzialmente la questione della responsabilit dei terapeuti rispetto alle possibili conseguenze del loro agire conoscitivo e relazionale nei confronti delle persone in terapia. Ci che venne messo in discussione, secondo un intricato piano di de-costruzione e ricostruzione teorica e metodologica, fu sia la pretesa di conoscenza "oggettiva", sia l'idea della possibilit di distinguere il "conoscere" e l'"agire", cio il momento diagnostico e il momento terapeutico. L'azione di "conoscere" cominci ad essere interpretata in stretta e indissolubile relazione con l'azione di

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"intervenire" e la conoscenza che poteva scaturire dal contesto terapeutico si connot sempre pi come un'estensione delle risorse di senso del terapeuta, piuttosto che la rappresentazione esperta delle caratteristiche "oggettive" che le famiglie e le persone manifestavano. A partire da questa prospettiva, il sapere terapeutico comincia a perdere la caratteristica di "imparzialit" e "oggettivit", per connotarsi come un'azione che contribuisce a creare ci che denomina, con la conseguente possibilit che esso possa dare avvio sia a processi di evoluzione positiva, sia a processi nocivi. L'idea "strutturale" di famiglia va in crisi e molti terapeuti cominciano a pensare che non esista un modello unico di famiglia e a mettere in discussione l'idea che i problemi siano sempre e comunque necessariamente individuabili nella famiglia. In un certo senso, i cambiamenti cui abbiamo accennato hanno posto fortemente l'attenzione sulla figura del terapeuta, sul suo modo di comunicare e sui suoi sistemi di significato, non riducibili per ai soli riferimenti teorici. Emblematico di questo spostamento di attenzione la messa a fuoco della questione dei pregiudizi (Cecchin e coll. 1997). In questa riflessione, la consapevolezza dei propri pregiudizi auspicata non con la finalit di combatterli e neutralizzarli, ma bens di conoscerli e poterli utilizzare in modo responsabile nella relazione terapeutica. La responsabilit corrisponde all'impegno di "presentare" al cliente le proprie opinioni non come la "verit" che necessariamente lui deve apprendere per vivere bene con gli altri e con se stessi, ma come costruzioni personali di significato. I sistemi umani come sistemi linguistici Se la riflessione epistemologica sulla qualit costruttiva della conoscenza ha condotto a una profonda revisione del modo di intendere la figura del terapeuta, un'altra riflessione, interconnessa alla prima, ha contribuito a svelare la natura sociale di tali processi costruttivi. Il riferimento in questo caso alla prospettiva teorica denominata socio-costruzionismo e, in particolare, a alcuni modelli in campo sociologico che hanno avuto una notevole influenza in terapia familiare. Tra questi, il modello della CMM (Coordinated Management of Meaning) di Pearce. Lo sviluppo in senso costruzionista della svolta costruttivista ha condotto a intrecciare la riflessione sulla conoscenza terapeutica con la riflessione sui processi comunicativi in cui si genera tale conoscenza e a orientare l'attenzione verso la negoziazione e il coordinamento, verso gli scambi linguistici, conversazionali e dialogici interni al sistema terapeutico. Lo stesso linguaggio ha registrato significativi cambiamenti. Il termine "terapia" viene preferibilmente sostituito con "conversazione terapeutica", si preferisce pensare ai problemi in termini di "narrazioni" piuttosto che di "diagnosi" e al posto del termine "cura" si preferiscono espressioni come "dissoluzione dei problemi". In questa prospettiva a pi facce, diversi studiosi impegnati a conoscere e a lavorare con i sistemi familiari danno un impulso decisivo in direzione di una "svolta interpretativa" (Hoffman L., 1998), vale a dire "ermeneutica" della terapia familiare,

proponendo la conversazione come metafora e strumento centrale della terapia stessa. In altre parole, si registra una "svolta linguistica" nella terapia familiare. La conversazione terapeutica si colloca al centro dell'attenzione, a scapito della direttivit che viene messa da parte. Nei lavori di studiosi come Lynn Hoffman (1998), Harold Goolishian e Harlene Anderson (1988), Tom Andersen (1992), si rintraccia un comune riferimento all'idea dei sistemi umani come sistemi linguistici che co-costruiscono significati e si coglie un invito a concepire la conversazione come momento saliente della terapia. In questi approcci, la terapia acquista una dimensione "narrativa", si delinea cio come un contesto comunicativo entro cui terapeuti e persone in terapia cercano di costruire copioni conversazionali diversi da quelli in cui i "problemi" si sono originati e dai quali invece si possano generare nuovi modi di narrarsi e quindi anche di essere. La finalit della terapia si configura non tanto come scoperta dei modi "disfunzionali" di essere e relazionarsi delle persone e delle conseguenti "giuste" contromosse, ma piuttosto quanto la costruzione delle possibilit per le persone di crearsi liberamente altri copioni narrativi per raccontare e raccontarsi. Gli sviluppi in senso costruttivista e sociocostruzionista della terapia familiare ci appaino come una sorta di doppio invito. Da una parte l'invito a "mettersi in gioco" nelle relazioni terapeutiche, dall'altra un invito a assumere un atteggiamento culturale di moderazione nel definire le situazioni di disagio e il proprio ruolo. Per noi estremamente utile avere questi riferimenti. Non facile imparare a "guardare" le persone attraverso lo spiraglio dell'apertura comunicativa. Ci che ci sembra di dover imparare e re-imparare continuamente soprattutto dare alla conversazione un carattere "aperto"; nel doppio senso di essere in grado di vivere forme comunicative che non si interrompono e di stare in esse senza appoggiarsi necessariamente su una gerarchia "espertopaziente". 2. La comunicazione e le "regole del gioco" "ci che prendiamo per vero o giusto largamente prodotto da testi narrativi Se vogliamo operare per il cambiamento sociale, dovremo quindi utilizzare i linguaggi condivisi e, nel contempo, cercare di trasformarli. Ma questa trasformazione non pu essere attivata dalla volont individuale, da un esperto che tutto vede e conosce. La trasformazione invece intrinsecamente relazionale." (Hoffman 1981) " il fatto di pensare in termini di storie non fa degli esseri umani qualcosa di isolato e distinto dagli anemoni e dalle stelle di mare, dalle palme e dalle primule. Al contrario, se il mondo connesso, se in ci che dico ho sostanzialmente ragione, allora pensare in termini di storie deve essere comune a tutta la mente, a tutte le menti, siano esse le nostre o quelle delle foreste di sequoie e degli anemoni di mare." (Bateson 1984) "La terapia avviene nell'interazione dei pregiudizi del terapeuta e

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del cliente. Essa implica inevitabilmente uno scambio costante tra terapeuta e cliente, in cui le azioni e le espressioni dell'uno sono costantemente ispirate, assumono significato, vengono modellate e modellano quelle dell'altro. Il processo cibernetico in quanto sono i suoi risultati a determinare il comportamento di entrambi" (Cecchin 1997). Parlare di regole potrebbe far pensare alla definizione di meccanismi di interazione predeterminati. Non siamo interessati a questo; piuttosto vorremo riflettere su cosa significhi considerare una situazione "terapeutica" come un sistema linguistico che si basa sulla comunicazione e che funziona in base alle "regole" del significato. L'approccio narrativo Le persone nel corso della loro esistenza costruiscono storie. Sin dall'infanzia, agli albori di una memoria linguistica, impariamo a connettere le esperienze in termini di storie. Nella giovinezza prefiguriamo il futuro in termini di storie possibili. Nell'et adulta siamo immersi nelle narrazioni che costruiamo su noi stessi e sul mondo, narrazioni spesso date per scontate e immutabili. Nella vecchiaia, tempo dell'otium tempo di avvicinamento alla morte, la propria storia di vita o le proprie storie di vita diventano il centro dell'esistenza, riacquistano significato nel loro bisogno di narrazione, nell'essere la vita stessa. In un'esistenza che scorre veloce, nella quotidiana occupazione del vivere, il desiderio di narrazione che caratterizza la nostra umanit, trova urgenza narrativa e spazio nelle "esperienze apicali della vita" (Demetrio 2000): la morte, la nascita, la separazione, la malattia, la perdita, il dolore. E' di fronte a questi eventi che cerchiamo l'altro come medium che consenta la narrazione, poich "ognuno di noi costruisce e vive un racconto equesto racconto noi stessi, la nostra identit" (Formenti 2002 p. 32) Melucci (2001) sottolinea come le storie o narrazioni, hanno sempre a che fare con "soggetti parlanti" in relazione. Da questa premessa traccia una mappa possibile dei modi in cui si "creano storie", che si basa sulla dinamica io-altro. Noi raccontiamo a noi stessi prima di tutto e raccontiamo noi stessi; poi raccontiamo agli altri e raccontiamo gli altri. "Raccontiamo a noi stessi", vuol dire che investiamo una parte dei nostri discorsi e delle nostre rappresentazioni a costruire la nostra identit. Ma anche "raccontiamo noi stessi", cio investiamo una parte altrettanto importante delle nostre risorse a chiedere riconoscimento, a domandare agli altri che confermino la nostra costruzione di noi. Esiste una circolarit tra i due aspetti: nel costruire noi stessi attraverso i discorsi, identifichiamo degli interlocutori cio ci "raccontiamo agli altri". In ogni caso, che gli altri ci riconoscano o no, nel nostro raccontare storie noi sempre "raccontiamo gli altri", ce li rappresentiamo e ci costruiamo quell'immagine di loro che ci serve per stare in relazione, una immagine congruente con quella rappresentazione di noi stessi e della relazione che rende l'identit sostenibile per noi (Melucci, 2001, 127). Per Hannah Arendt il "s narrabile" postula sempre l'altro come necessario, un "altro" che pu essere

incarnato nel dialogo interiore ma soprattutto un altro da s poich il significato dell'identit personale sempre affidato al racconto altrui. Alla corte dei feaci Ulisse scopre il senso della propria storia grazie al racconto dell'altro e ascoltando la propria storia si commuove, il dolore acquista un significato, il proprio desiderio di narrazione emerge nella sua umanit, evidenziando la sua umanit. "Fra identit e narrazione c' infatti un tenace rapporto di desiderio Per questo, davanti all'inatteso realizzarsi del suo desiderio di narrazione, Ulisse - alla corte dei feaci - piange. Il racconto gli ha infatti svelato, all'un tempo la sua identit narrabile e il suo desiderio di sentirla narrare" (Cavarero 2001 p. 46) Questo desiderio non solo degli eroi ma presente, troppo spesso sottaciuto, in ognuno di noi e vede peraltro nel contesto famigliare un ambito che consente di inserire le singole esistenze in un tempo relazionale, condiviso, comune, storico, in continuo divenire. "Poich proprio dicendo "noi" che paradossalmente, possiamo arrivare ad affermare l'"io"" (Formenti 2000) Chiunque abbia vissuto separazioni dolorose sa quanto il non poter dire pi "noi" produca una mutilazione dell"io. Diverse e fondamentali sono le funzioni del narrare, della memoria famigliare: essa garantisce la continuit sia nel ricordare che nell'obliare, connette alle proprie origini, coltiva la riviviscenza, attiva la riflessivit, produce retroazioni, genera identit. "Senza narrazioni, senza storie non c' famiglia", non c' individualit (Formenti 2002), esse costruiscono un ponte, un orizzonte ermeneutico tra la concretezza del presente e le dimensioni simboliche del passato, del futuro e dello stesso presente in una costante relazione ricorsiva. Nella contemporaneit gli spazi di narrazione famigliare si contraggono sempre pi trovando all'esterno contesti di narrazione. Talvolta questi sono rappresentati dalle realt sociosanitarie, terapeutiche, assistenziali, educative troppo spesso parcellizzanti, centrate sull'oggetto, sul problema, sulla diagnosi, sul bisogno percepito pi che sulla domanda. Un ampliamento (una maggiore o diversa qualificazione) dell'offerta di interventi a favore della famiglia e della singola persona nell'area del sostegno e della facilitazione (Formenti 2000) e quindi del counseling, e un approccio multidiscilinare, potrebbero essere un utile strumento di confronto, crescita, prevenzione e soprattutto benessere. E' chiaro che l'assunzione di un approccio narrativo implica una significativa rimessa in gioco professionale e personale da parte dell'operatore psico, socio, educativo. L'attenzione alla propria storia, il coltivare capacit autoriflessive, l'ascolto dell'altro-s e dell'altro-da-s, (Previtali 1995), la cura del contesto, una metodologia accorta, la tensione all'"utilit", al "bene", l'agire pratiche antiopressive, l'adozione di pensieri deboli, capaci di cambiamento rappresentano alcune coordinate dell'intervento terapeutico, educativo, sociale e al contempo tratteggiano sfide professionali ineludibili. Nell'ambito della terapia famigliare negli ultimi anni diversi contributi teorici hanno rimesso al centro dell'attenzione l'approccio narrativo e le storie di vita. Per Michel White "le

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persone conferiscono senso alla loro vita attraverso il racconto delle proprie esperienze" (White 1992, pag. 20) e il contesto terapeutico rappresenta uno dei possibili contesti nei quali le persone possono decostruire e ricostruire nuove narrative. Gianfranco Cecchin (1987) ricolloca i fondamentali concetti di neutralit, ipotizzazione e circolarit all'interno di una cornice pi ampia, indicando la curiosit come forma mentis che apre alla molteplicit, alla polifonia di storie ed capace di abbandonare la naturale pulsione di spiegare in termini scientifici, lineari, per assumere una prospettiva estetica "basata sulla nozione che ciascun sistema ha una sua logica. Questa logica non n buona n cattiva, n giusta n sbagliata Poich non conosciamo ancora quale particolare copione avr successo per quella famiglia, non possiamo che interagire in un modo che forse perturber il sistema cos che esso trovi da s (o riscriva) il suo copione" (Cecchin G. 1987 p. 34). Implicitamente Cecchin riconosce alla famiglia l'essere l'unica esperta di s stessa, poich essa sola pu scrivere e riscrivere la propria storia, accompagnata in questa ricerca narrativa dal terapeuta che si colloca come l'"altro necessario" perch una o pi narrazioni emergano. Anderson e Goolishian, invece, mettono in risalto l'aspetto dialogico della conversazione che "E' una ricerca ed esplorazione congiunta attraverso il dialogo, uno scambio bidirezionale, un intrecciarsi di idee in cui nuovi significati emergono continuamente" (1998 p. 41). La conversazione terapeutica implica cos il parlare con l'altro e non il parlare all'altro, implica il rinunciare ad una posizione strategica dove le domande, la ricerca dei giochi nascosti, le interpretazioni vengano messe da parte per lasciare spazio alle narrazioni ai significati del cliente che "in tal modo pu muoversi liberamente nello spazio della conversazione, dato che non deve pi cercare di affermare e proteggere la propria visione del mondo" (ivi p. 44). In generale, l'ottica "narrativa" che ha esteso la "svolta" linguistica avvenuta a partire soprattutto dagli anni '80 nelle scienze sociali, prefigura il dialogo come il processo costitutivo del sistema terapeutico. Un sistema che si costruisce attorno a qualche "problema" e che, attraverso lo sviluppo di scambi comunicativi, tende a creare nuovi significati che possano essere utili alla dissoluzione del problema (Anderson H., Goolishian H. 1988). La posizione del terapeuta resa da un atteggiamento di ascolto, partecipazione e facilitazione del dialogo. Partendo dalle premesse sociocostruzioniste sulla natura linguistica delle forme sociali e sulla dimensione costruttiva degli scambi comunicativi che generano linguaggio e significati, l'approccio "narrativo" in campo terapeutico ha aperto uno spiraglio che, utilizzando la terminologia di Pearce (1989), potremmo definire di "eloquenza sociale", cio un'intenzionalit terapeutica orientata a mantenere aperta la conversazione e a comporre e mantenere aperti contesti comunicativi anche tra persone che "non si conoscono" e magari esprimono differenze significative sul modo di intendere le relazioni, i problemi e la vita in generale. Questa prospettiva ha significato uno spostamento di attenzione verso la possibilit di creare spazi di

dialogo aperto, partecipato e libero da relazioni egemoniche e direttive. L'impostazione e le punteggiature di tale prospettiva riconfigurano costantemente l'incontro terapeutico in termini di conversazioni tra persone "alla pari" non regolate da rapporti asimmetrici e gerarchici. L'atteggiamento di "non sapere" (Hoffman L. 1998) si definito come un modo rispettoso e responsabile di interpretare il ruolo di terapeuta Riconoscendo ai sistemi umani una natura linguistica e quindi costruttiva, molti terapeuti/studiosi si sono impegnati a essere utili a tante persone nel costruire l'uscita da situazioni problematiche, senza far ricorso a letture e prescrizioni ricavabili da un discorso esperto che definisce regolarit e invarianze del disagio e dei modi per uscirne. I pregiudizi fanno parte delle storie? Mentre l'approccio narrativo riconducibile a autori come Lynn Hoffman, Harlene Anderson, Harold Goolishiam, Tom Andersen, Michel White, Rwnos K. Papadopulos ha alimentato un interesse crescente per la terapia come creazione di storie e una tensione verso l'arte di non interferire con le proprie idee nella costruzione delle storie da parte delle persone, l'approccio sviluppato dalla "Scuola di Milano" ha elaborato l'idea dell'impossibilit di "neutralizzare" il proprio punto di vista, individuando il "cuore" della terapia proprio nella relazione tra pregiudizi della persona e del terapeuta. Metaforicamente, la Scuola di Milano pone l'attenzione sui "mattoni" che terapeuti e persone utilizzano per co-costruire storie. I due approcci ci appaiono condividere un'analoga intenzionalit: riconoscere i limiti del terapeuta e rispettare la libert delle persone. La questione posta dalla nozione di "pregiudizi" corrisponde alla necessit di riflettere sui nostri punti di vista e sul modo in cui consideriamo quelli delle persone che con noi parlano. Troviamo avvincente, a riguardo, il termine "pregiudizi" per indicare il "punto di vista" di una persona. Siamo quindi riconoscenti a Cecchin e coll. (1997) per averci suggerito questo modo "intuitivo" (e come loro stessi lo qualificano, anche un po' "irriverente"), di considerare la questione. Troviamo una corrispondenza tra l'approccio di Cecchin e coll. e la teoria di Pearce (1989) sulle forme di comunicazione. Cecchin parla di pregiudizi in termini di opinioni, pensieri, valori, convinzioni, emozioni da cui una persona, pi o meno consapevolmente, prende le mosse per tessere relazioni comunicative; Pearce fa riferimento alle "risorse di senso" come strutture di significato che contestualizzano e quindi rendono possibile la comunicazione. Per entrambi, le regole costitutive della comunicazione sono quelle dei significati portati dalle persone in gioco e la questione del cambiamento da ricondurre alla "disponibilit" dei partecipanti a riconoscere come proprie (e quindi non assolute) le costruzioni di significato a cui si fa riferimento e a considerare come altrettanto plausibili quelle dell'altro. In altre parole possiamo dire che in entrambi gli approcci, le relazioni comunicative mettono in campo il punto di vista dei partecipanti e si sviluppano in modo pi o meno aperto in base alla capacit dei dialoganti di scoprire insieme le

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implicazioni dell'incontro di punti di vista differenti. Ci sono storie e storie Un aspetto significativo del cambiamento che pu avvenire nel contesto di relazioni "terapeutiche" espresso dal tema della risonanza emotiva della conversazione. Si detto che la dimensione "narrativa" della terapia consiste nella possibilit di far emergere le narrazioni delle persone e di dare loro la possibilit di confrontarsi con altri copioni che ripunteggiano le loro storie in modo diverso. Ma quali sono le "nuove narrazioni" che producono cambiamento? Gabriela Gaspari parla di "innesto nella situazione emotiva delle persone". Non tanto la "differenza" della narrazione con cui la persona si confronta che pu innescare il cambiamento, quanto la possibilit che questa "differenza" sia percepita dalla persona come potenzialmente utile e significativa in relazione al suo modo di vivere e intendere il "problema", divenendo cos "una differenza che d la differenza". Per molti aspetti, ci che si pu innestare nella situazione emotiva delle persone non prevedibile; per questo diventa importante accorgersi, nel dialogo in essere, quali siano le parti della conversazione che colpiscono e possono generare una ridefinizione. Costruire questa capacit di individuazione richiede esperienza, ma soprattutto curiosit e apertura. Se, durante la conversazione, ci si costruisce copioni alternativi ma rigidi e si rimane ligi ad essi, difficilmente ci si accorge di eventuali sfumature che indicano l'interesse delle persone verso direzioni o punteggiature diverse. Filosofia e dintorni In questo paragrafo vorremmo solo accennare alla possibilit di leggere la conversazione terapeutica o almeno alcuni momenti di essa in termini di colloquio filosofico. Metaforicamente parlando, filosofare significa affrontare ad occhi aperti il proprio destino; significa auto-domandarsi, trovare s stessi, interrogare l'esistenza e accorgerci che stiamo esistendo. Nella pratica come counselor, ma molto pi nel corso della nostra esistenza ci siamo sentiti soli di fronte agli interrogativi dell'esistere, del dolore, della vita e della morte, dell'ingiustizia. Scoprire a volte nella filosofia, nella letteratura e nell'arte gli stessi interrogativi ci ha aiutati, a volte, se non a superare questi sentimenti (forse non ha nemmeno senso parlare di superamento), a sentire di appartenere a un'umanit che in ci si accomuna. E allora se la filosofia, l'arte e la letteratura hanno aiutato noi a sentire che i nostri interrogativi, i nostri disagi non erano solo nostri e che perci stesso potevano farsi sentire meno gravosi e pi carichi si significato (perch altri ancor meglio di noi erano riusciti a, esprimerli) allora ci chiediamo se in un contesto terapeutico non abbia senso provare ad esplorare strade che portino a connette la riflessione "terapeutica" con la riflessione "filosofica". L'idea del "colloquio filosofico" ci stata suggerita da Pietro Barbetta. Il contesto della riflessione era l'attinenza della "psicoterapia" a un campo pi vasto. Sono molti a ritenere che l'ambito terapeutico sia un ambito "clinico" e quindi, in un certo

senso "medico", cio atto a "riparare" qualcosa che non funziona nei sistemi umani. Ma se vero che le persone cercano di dare senso all'esistenza e se vero che il disagio configurabile come una perdita o un occultamento di questo senso, perch non pensare anche a un'attinenza della terapia al campo filosofico? Cosa possa significare dare una risposta positiva a questa domanda non lo sappiamo bene. Pensiamo che questa idea pi che un nuovo modo di conversare con le persone, suggerisca da una parte di tenere aperto nella conversazione un orizzonte di senso che va al di l della lettura (sia pur sistemica) dei problemi attorno ai quali si costruisce il contesto terapeutico e delle relazioni che in esso avvengono; dall'altra di riconoscere la portata di "verit" di esperienze conoscitive come quelle estetiche, letterarie e filosofiche. Pain -expand the time Ages coil within The minute Circumference Or a single Brain Pain expand - the Time Occupied with Shot Gammuts of Eternities Are as they where not E. Dickinson (Il dolore allunga il tempo Aggomitola secoli all'interno Della circonferenza irrilevante Di un singolo cervello Il dolore abbrevia il tempo Schiantate da uno sparo Scale di eternit Come mai esiste) 3. Ascoltare persone? Ascoltare linguaggi? "L'altro sempre un s narrabile a prescindere dal testo Pur essendo immerso in questo racconto, il s narrabile non comunque il prodotto della storia di vita che la memoria gli racconta non una costruzione del testoEsso coincide piuttosto con l'impadroneggiabile pulsione narrativa della memoria che produce il testo e nel testo medesimo lo cattura.. L'effetto di una storia di vita consiste sempre in una reificazione del s che cristallizza l'imprevedibilit dell'esistente" (Cavarero 2001) "Noi vorremmo riflettere sul linguaggio e soltanto su di esso. Il linguaggio linguaggio e nient'altro. Il linguaggio il linguaggio. L'intelletto educato alla logica, uso a tutto sottoporre il processo calcolante, e perci appunto il pi delle volte presuntuoso, chiama questa proposizione una vuota tautologia. Dire due volte nient'altro che la stessa cosa: linguaggio linguaggio, come possibile che questo ci porti avanti? Ma noi non vogliamo andare avanti. Vorremmo soltanto ci fosse dato di

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giungere l dove gi siamo. Per questo facciamo oggetto di riflessione la domanda: che si deve dire intorno al linguaggio? Per questo chiediamo: in che modo e opera il linguaggio come linguaggio? Rispondiamo: il linguaggio parla.." (Heidegger 1959) In questo paragrafo, vorremmo semplicemente "ricordarci" del linguaggio e "ricordarci" che ne facciamo esperienza nel contesto di relazioni umane. Si potrebbe dire che ascoltiamo e parliamo con persone, ma ci che c' dato di sentire e dire il linguaggio. Ascoltare e parlare ha quindi una duplice faccia. Da una parte l'essere rivolti verso qualcuno, dall'altra produrre e sottoporre alla nostra attenzione un testo, una narrazione. Guardando la prima faccia possiamo vedere il riflesso del "coinvolgimento umano" che la relazione terapeutica evoca in s; guardando l'altra s'intravede la possibilit di "prendere le distanze" da chi narra per concentrarsi ci che narrato. E' possibile specchiarsi contemporaneamente nelle due facce? E' possibile "avvicinarsi" alle persone alla ricerca di un'empatia e nello spesso tempo "allontanarsi" da loro per cogliere ci che il loro parlare racconta? Nel campo della terapia familiare, l'approccio non direttivo e l'approccio ermeneutico sembrano tradurre questi due riflessi. Due approcci che non si escludono a vicenda, anzi costituiscono forse l'uno la condizione per l'altro. Avvicinandoci emotivamente in modo paritario alle persone, partendo dalla consapevolezza di "non sapere" (Anderson H. e Goolishiam H. 1998) costruiamo possibilit di meglio comprendere ci che ci raccontano; permanendo nel dominio di ci che detto costruiamo possibilit di riconoscere a noi stessi e all'altro capacit e libert di costruire e cambiare. Siamo propensi a ritenere che la predisposizione all'ascolto forse la maggiore possibilit di "specchiarsi" in entrambe le facce, a ritenere cio fondamentale l'ascolto nel counseling come nella terapia. Un ascolto empatico, partecipativo, curioso, ermeneutico, ma non interpretativo nel senso tradizionale del termine che vede cio l'esperto come colui che solo possiede chiavi di volta. Non forse casuale che il significato del termine "interpretazione" trovi la propria origine in colui che interpreta il volere degli dei, nel sacerdote, nel profeta, trasformato nella modernit in esperto. 4. Narrazioni "forti" e narrazioni "deboli" " Coloro cui sfugge completamente l'idea che possibile aver torto non possono imparare nulla, se non la tecnica" (Bateson 1984) "Come vorrei, lo sento in questo momento, essere una persona che fosse capace di vedere tutto questo come se non avesse con esso altro rapporto se non vederlo: contemplare le cose come se io fossi il viaggiatore adulto arrivato oggi alla superficie della vita! Non avere imparato fino dalla nascita ad attribuire

significati usati a tutte queste cose; poter separare l'immagine che le cose hanno in s dall'immagine che stata loro imposta. Poter scorgere nella pescivendola la sua realt umana a prescindere dal fatto che sia chiamata pescivendola, e dal sapere che esiste e che vende. Guardare un vigile urbano come lo guarda dio. Capire tutto per la prima volta non in modo apocalittico, come se fosse una rivelazione del Mistero, ma direttamente, come una fioritura della realt." (Pessoa 2001) In questo nostro lavoro vogliamo dedicare uno spazio al tema del potere, non del potere all'interno delle relazioni famigliari ma di come il potere possa essere esercitato all'interno del contesto terapeutico o di counseling, di come taluni pratiche possano contribuire a riprodurre situazioni di dominio e sottomissione, e soprattutto desideriamo evidenziare alcuni contributi che in questi anni hanno cercato di porre all'attenzione le "pratiche antiopressive". I fautori dell'approccio narrativo hanno introdotto una importante riflessione sul "colonialismo della salute mentale" (Hoffman L. 1998). L'idea di colonialismo si riferisce alla mentalit di terapeuti e studiosi che, mossi dall'idea di una scienza sociale "oggettiva", hanno costruito discorsi che stabiliscono "a priori" quali siano i modi, gli argomenti e le persone da considerare in terapia. Ci che ne derivato , metaforicamente, un modello di terapia "dall'alto in basso". A riguardo, gli studi di Michel Foucault (1969, 1971) sono stati un riferimento perch, in un certo senso, svelano da quale "potere" derivino le "posizioni di potere". Le sue tesi sulla forza che i discorsi hanno nell'esercitare una funzione concreta nella storia delle idee, delle istituzioni e delle persone hanno delegittimato la visione "oggettiva" della patologia e delle pratiche attuabili e hanno spiegato come i presupposti di tale visione abbiano radici nella storia della cultura e siano in relazione con l'esercizio del potere. Foucault analizza il potere positivo che caratterizza le societ occidentali. Positivo non in senso morale ma in quanto usa la "realt" per assoggettare le persone a "verit" normalizzanti inscritte in una logica di potere "Dobbiamo smettere una volta per tutte di descrivere gli effetti del potere in termini negativi: 'esclude', 'reprime', 'censura', 'maschera', 'nasconde'. Di fatto il potere produce, produce realt; produce interi settori di oggetti e rituali di verit. L'individuo e il sapere che pu essere da lui conquistato appartengono a questa produzione" (Foucault in White 1992 p. 65). In ambito sistemico un fondamentale contributo al tema del potere ci deriva da Bateson che propose il termine schismogenesi definito come: "processo di differenziazione nelle norme di comportamento individuale risultante dall'interazione cumulata tra individui"(Bateson in Hoffman1972 p. 47). Questo processo genera due schemi di relazione reciproca definiti complementare e simmetrico. Bateson ascrive la schismogenesi simmetrica a "tutti quei casi in cui gli individui di due gruppi hanno le stesse aspirazioni e le stesse strutture di comportamento, ma sono differenziati quanto all'orientazione di queste strutture" (ivi p. ).

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Relazione complementare e relazione simmetrica descrivono relazioni di potere, non a caso l'uso della metafora one-up/onedown dichiara l'implicita dimensione di forza non necessariamente sempre agita dall'alto verso il basso. Seguendo le prospettive accennate, ogni pratica sociale, educativa, terapeutica esposta al rischio di essere pratica coloniale, cio una pratica verticale dall'altro al basso. E allora, la capacit di analizzare i propri presupposti teorici, di attuare pratiche sociali riflessive (Pakman 1998), ci consente di individuare azioni di dominio-sottomissione implicite nel contesto e nei discorsi che caratterizzano la relazione terapeutica. Una domanda che a questo punto possiamo porci : quali forme pu assumere il potere o il "non potere" nelle relazioni terapeutiche? A noi sembra che un confronto tra approccio strategico e approccio ermeneutico possa chiarire un po' la questione. Adottare un approccio strategico significa sostanzialmente orientarsi verso la scoperta dei giochi e della "struttura" delle famiglie e delle persone, al fine di individuare e attuare/prescrivere ci che porta una situazione problematica al cambiamento. L'interpretazione diagnostica e prescrittiva non pu che basarsi su modelli predefiniti del funzionamento normale/patologico dei sistemi umani. Un terapeuta potr poi avere una visione pi o meno flessibile e sistemica, ma la sua lettura della situazione si basa comunque su discorsi che ne definiscono "a priori" i confini. Il potere da parte del terapeuta consiste, in questo caso, nel padroneggiare in modo esclusivo il dominio dei discorsi su cui la relazione va strutturandosi. Adottare un approccio ermeneutico significa invece andare alla scoperta dei significati e del senso della vita delle persone. Un senso che emerge attraverso la narrazione della propria storia o meglio attraverso le narrazioni. Se come dice la Cavarero (2001) noi siamo "s narrabili", la narrazione di noi stessi ci che ci restituisce il senso della nostra storia. In quest'ottica il contesto terapeutico diviene uno dei possibili contesti nei quali questa storia pu trovare uno spazio di narrazione, a condizione che il terapeuta lasci spazio al s narrabile. In questo caso, lasciare spazio alla narrazione si configura come una pratica di "non potere", attraverso la costruzione di un contesto nel quale il "s narrante" (ovvero il sapere di essere una storia) trova spazio e pu trasformarsi in un "s narrante autobiografico ". Il senso autobiografico risiede soprattutto nel fatto che il protagonista a narrare le proprie storie, in un contesto relazionale nel quale il terapeuta invitato a non proporre narrazioni forti che rischierebbero di trasformare l'"autobiografia" in "biografia". Bateson con il linguaggio che lo caratterizza ci porge un monito: "Infrangete la struttura che connette gli elementi di ci che si apprende e distruggerete necessariamente ogni qualit" (Bateson 1984 pag. 21). E la qualit di un individuo il proprio essere una storia unica di vita, l'essere s narranti. Nonostante i recenti contributi teorici che hanno messo al centro dell'attenzione il pensiero debole, l'immagine dell'esperto depositario di sapere, di chiavi interpretative, di tecniche e metodologie che pretendono e presumono l'esistenza di "menti

incorporee" strappate da una corporeit (Pakman 1998), resta forte. Il pregiudizio dell'esistenza di una scissione mente/corpo, che vede le proprie origini nel pensiero Platonico e il proprio apice nel positivismo ereditato dal pensiero moderno, rappresenta un'idea di quest'immagine dell' "esperto". E' in un contesto di dominanza del pensiero razionalistico che psicologia e pedagogia, per strappare lo status di scienza, si sono a lungo fossilizzate alla ricerca di metodologie, tecniche, fondamenti scientifici, perdendo di vista le dimensioni teleologiche e axiologiche. Come sostiene Pakman, (1998) l'attaccamento a astratte nozioni di classe sociale e una pratica terapeutica come processo tra menti incorporee consentono e favoriscono "l'instaurarsi della cecit e della razionalizzazione nei confronti dell'ineguaglianza sociale" Questa dominanza, unitamente all'implicita presunzione etnocentrica di sapere come va vissuta una vita, rischia di condurre il terapeuta e in generale gli operatori sociali su un terreno definibile in termini di "abuso di potere"; intendendo quest'ultimo come possibilit di "definire unilateralmente ci che da considerare come "reale" in un certo contesto per tutti i partecipanti" (Pakman1998 p. 37). Un terreno ove le tecniche rischiamo di trasformarsi in tecnicismo, se non accompagnate da una teleologia e da una axiologia che orienti e dia senso all'agire professionale; dove le diagnosi reificano la persona nella patologia, dove anche una psicoterapia o un counseling che non sanno recuperare un pensare filosofico rischiano di non leggere l'inquietudine, il disagio, il dolore, se non in chiave intrapsichica. Andare oltre una lettura prettamente individualistica significa in questo senso riconoscere le istanze, le angosce, che ci accomunano in quanto abitatori della contemporaneit; significa recuperare una "pratica sociale critica", che riconosca e si soffermi ad analizzare i processi di costruzione delle situazioni di potere e privilegio, anche all'interno di contesti sociali e terapeutici; significa attivare una pratica riflessiva che nulla d per scontato. Se riflettiamo sulla nostra esperienza professionale in campo sociale e educativo e come counselor, possiamo faticosamente constatare come spesso utilizziamo le tecniche, le metodologie, i gerghi professionali come strumenti di autolegittimazione e di presa di distanza da storie, persone, dolori che facciamo fatica ad avvicinare o che temiamo; come strumenti di potere a sostegno di professioni che percepiamo come socialmente "deboli" (poco riconosciute). E' necessario un po' di "coraggio" professionale e senz'altro personale, per accantonare un apparato tecnologico e rimettere al centro la "debolezza" come risorsa, per essere consapevoli e responsabili delle nostre "Teorie in uso". Esse inevitabilmente contengono un'idea di uomo e di donna, un'idea di come va vissuta una vita e quindi rischiano di imporre la nostra visione della "realt" se non le assoggettiamo a pratiche riflessive critiche. E allora quali sono le possibili strade? Ci sembrano particolarmente significativi l'approccio narrativo (di cui abbiamo parlato) e una sorta di recupero di un pensare "filosofico", "politico". S. Kraemer, (1999) nel suo contributo in "Voci multiple", sostiene che la terapia non un intervento sociale se

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non in senso molto lato, collocando i bisogni delle persone che richiedono una terapia nell'ambito della sfera personale quasi contrapponendola a quella politica. Forse vale la pena richiamare il concetto aristotelico di politica come scienza orientata al bene, il cui fine ultimo rappresentato dal raggiungimento dell'eudaimonia, della felicit. Se intese in tal senso, allora anche il counseling e la terapia famigliare come "pratiche sociali" finalizzate al benessere non possono discostarsi, seppure con le proprie specificit, da un agire politico. Se possiamo in parte concordare che le persone "non vengono da noi per sanare le ingiustizie del mondo politico" (1999 Kraemer in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p. 59), esse tuttavia non vivono nel vuoto sociale; si pu anzi dire con Aristotele che l'uomo animale politico e che "le identit sono anche inscritte nelle relazioni di status e di potere " (1999C. Burck in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p.71). Lo stesso Campbell, poche pagine prima dell'intervento di Kraemer ce lo ricorda, quando accenna alla fatica di armonizzare il proprio intervento nel caso di famiglie operaie, "il cui linguaggio e le cui aspettative sono pi distanti da quelle del terapeuta" (1999 Campbell in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p. 19). Pi avanti, Anne McFayden ci dice che "il contesto della "persona" rispecchia l'individualit della singola narrazione ma si riferisce anche ai legami che vengono stabiliti tra livelli diversi di significato. Per esempio, le vedute etiche, politiche o religiose di una persona forniscono un contesto ma nello stesso tempo fanno parte di lei a un livello molto personale, cio sono quella persona" (1999 A. McFayden in R. K. Papadopulos, J. Byng-Hall p. 160). 5. La dimensione autobiografica dell'operatore Nel corso di questo lavoro abbiamo pi volte detto che il terapeuta e, in generale, ogni operatore sociale non un osservatore esterno al contesto, bens esso fa parte integrante del sistema nel quale opera, all'interno del quale portatore non solo di conoscenze teoriche, ma di "Teorie in uso", che sono intimamente legate alla sua biografia. Vogliamo accennare brevemente ad alcuni terapeuti che hanno introdotto la dimensione biografica nel loro lavoro clinico, partendo da Lynn Hoffman che introduce nella terapia familiare la propria biografia, le proprie emozioni, come forma di superamento di ci che lei stessa definisce "la freddezza tecnocratica" dell'approccio sistemico. "Mostravo le mie emozioni, fino, talvolta, al pianto. Chiamavo questo mio modo di lavorare "terapia sentimentale"cominciai a cercare nuove strade per far sentire i clienti a proprio agio. Quando era il caso raccontavo loro storie della mia vita se mi sentivo in difficolt, specialmente se qualche mio problema personale sembrava intrufolarsi nel percorso comune, ne parlavo apertamente, e spesso ottenendo buoni risultati"(Hoffman 19921 p.29). In qualche modo Hoffman modifica una relazione clienteterapeuta da una relazione gerarchica verticale ad una relazione orizzontale, trasformando la terapia in un'esperienza dialogica partecipativa dove il termine "esperto" viene completamente annullato o quantomeno sostanzialmente ricollocato. Anche il

termine "riflessivo" si espande, divenendo non solo una modalit del porre domande ma caratteristica della stessa relazione clienteterapeuta. Hoffman propone l'immagine del numero 8, "segno dell'infinito - (dove) c' spazio per il dialogo interno di ogni individuo e un'intersezione che rappresenta la piazza in cui incontrarsi e parlare (Hoffman 1981)". Lynn Hoffman lascia intendere come la manifestazione di emozioni e aspetti autobiografici abbiano rappresentato per lei un importante passaggio verso un nuovo modo di essere in relazione con l'altro, dove la verticalit insita nella relazione d'aiuto viene compensata dall'orizzontalit esistenziale. Salvador Minuchin (1974) rimarca invece la biografia come esperienza di vita, come la condizione necessaria per "potersi permettere di", in qualche modo riprendendo l'antica figura del saggio come colui che sa orientare la propria scelta nell'ambito dell'opportuno, non del vero, del plausibile e non dell'incontrovertibile" (Natoli 1990 p. 11). Pakman, invece, riconnette la dimensione tecnicoprofessionale con la dimensione biografica introducendo il concetto di "Teorie in uso" come prodotto di contaminazione (sintesi) di thecnos e biografia.. Se si accetta l'idea che la professionalit di un operatore sociale rappresentata sia dalla dimensione tecnica sia dalla dimensione personale, allora la biografia rappresenta uno strumento di lavoro, una risorsa potenzialmente utile. Certo difficile, in un contesto scientifico incline al pensiero razionale, dare legittimit a una dimensione, quella personale, che viene comunemente interpretata come "privata", come "interiore", e che in taluni casi viene connotata come negativa ("Per essere professionali, il privato va lasciato fuori dalla porta"). Eppure proprio in questa dimensione, che definiremmo biografica pi che privata, che possiamo rintracciare le radici di ragioni, valori, forme, "sensibilit", stili, vicinanze e lontananze che caratterizzano la nostra pratica professionale. Le rare volte nelle quali ci siamo sentiti dire dai nostri clienti, utenti, allievi che si sentivano compresi, erano anche le volte nelle quali la loro narrazione risuonava profondamente in noi; erano le volte nelle quali, come Gurdul, ci sentivamo immigrati, matti, devianti, marginali, separati, violati, figli incompresi, genitori apprensivi I dubbi che hanno preceduto queste parole, la fatica a trovare un linguaggi adatto, la necessit di definire dentro di noi i confini accettabili di ci che andremo dicendo, la cifra della mancata consuetudine a parlare di noi e della frequentazione di un pensiero e di una certa letteratura psico-educativa che si muovono su un terreno "modernista" e che abbiamo abitato nel corso della nostra formazione e pratica come operatori sociali. Eppure, recentemente, abbiamo scoperto come sia possibile in un testo scrivere di scienza e di s al contempo, come il lavoro sociale/educativo/terapeutico necessiti di questa sintesi per acquisire pregnanza ed incisivit, poich ognuno di noi, tutti noi, siamo "gesti carichi di responsabilit" (Erbetta 2001). Ebbene, con questa fatica che ci accingiamo a fare, a due mani, questo tentativo di ricerca e esplicitazione degli elementi autobiografici che ci accomunano, poich riteniamo che la nostra professionalit, ma soprattutto il nostro essere esistenze, abbia un

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senso se collocato in un vivere appassionato in un progettarsi accorto. Cosa, nella nostra esistenza ci ha condotto ad essere qui, a cercare di "essere utili " agli altri, e in che modo la nostra biografia rappresenta una risorsa? In che modo si esplica questo comprendere, questo prendere l'altro dentro di s? L'infanzia, periodo di vita rappresentato come et del gioco, dell'irresponsabilit della leggerezza, ha significato per noi, in misura e con specificit diverse, una fase di vita a contatto con le fatiche e in un certo senso con il dolore. Una fase assoggettata dal potere positivo di cui Foucault (1969, 1971) parla: "Nulla pi materiale, nulla pi fisico, pi corporeo dell'esercizio del potere" (Foucault, in Natoli 1990 p. 84). Un potere dei servizi, della scuola, dei precetti familiari, un potere che interna, un potere che si esercita sul corpo (nella sua globalit corpo-mente) poich "dispone del senso della vita e della morte" (Natoli 1990 p. 68), di ci che "reale" e di ci che non lo , di come va vissuta una vita. La concreta esperienza del potere, si incontra nella nostra giovinezza, in un epoca che ancor vive l'onda lunga di un movimento giovanile e operaio che fa dello smascheramento e abbattimento del potere l'obiettivo della propria lotta. E' in quegli ambiti, nazionali ed internazionali - dove viviamo l'esperienza del "viaggio iniziatico" (Dallari) - che finalmente intravediamo uno spazio di condivisione di istanze morali, etiche, politiche, assaggiate precedentemente. Una giovinezza vissuta alla ricerca dell'autenticit esistenziale, di moralit assoluta, di fedelt a noi stessi; di viaggi reali e immaginari; spazio nel quale diventare quel che si piuttosto che quello che il mondo ci impone di essere. Paul Nizan , archetipo di giovinezza esistenziale, interpreta in modo esemplare la fatica dell'essere giovani e idealisti. "Avevo vent'anni. Non permetter a nessuno di dire che questa la pi bella et della vita. Tutto congiura a mandare il giovane in rovina: l'amore, le idee, la perdita della famiglia, l'ingresso tra gli adulti. E' duro imparare la propria parte nel mondo". (Nizan 1931, p. 5) Una giovinezza, la nostra, vissuta all'insegna di un intransigenza che non accetta mediazioni. Tuttavia essa non stata, o almeno non completamente, una giovinezza passata dietro i banchi di scuola, al contrario essa guardava questi banchi, questi studenti diligenti come qualcosa di lontano nel loro privilegio, eppure vicino nel comune vivere la giovinezza in modo appassionato, nel rifiuto a candidarsi ad un vita da quarantenni soddisfatti, nel rifiuto di vivere un'"esistenza da larve a balia in attesa di diventare insetti cinquantenni" (Nizan, 1931), nel rifiuto di vedere nella maturit una meta. Gallerano direbbe che ci che in quell'epoca accomuna il giovane proletario con lo studente borghese il comune appartenere a quella che venne definita da Simone Weil la condizione giovanile. Ci prendevamo sin troppo sul serio, Boine direbbe che conoscevamo le leggi e non i casi, le regole e non le eccezioni. E nel vedere oggi questa nostra intransigenza giovanile riconosciamo che forse Boine aveva in qualche modo ragione quando diceva che i giovani sono pi vecchi dei vecchi: "guarda pi a fondo e ti parran pi presso al nulla che all'essere,

pi presso la morte, perch l'essenza il nulla se non corposa di caso. (E perci tu vedi cos spesso un giovane passar di colpo dalle idealit affermate alle imbrogliate brutture della cotidiana vita; vedi cos spesso i giovani scordarsi d'un tratto, come se un soffio solo di vento avesse bastato a spazzarli, a sgombrarli della dorata nebbia. E perci ancora i migliori, i pi delicati, finiscono cos spesso invece che nell'azione, nel sogno. Confinano, chiudono, sperdono come disgustati le aspirazioni intime loro in una specie di perfezione conventuale. Perch l'aspirazione dei giovani molto vicina all'irrealt, alla povert del sognare). E son essi i giovani, dunque, i vecchi davvero, son essi i morituri e gli astratti. Non sanno il peccato: han la purit della morte, non la purit della vita" (Boine in Erbetta p. 49). Tuttavia, la giovinezza ha rappresentato per noi e per molti altri la fase di ricerca di un'autenticit esistenziale. "Archetipo di una moralit che tanto pi esperisce la propria libert quanto pi si avvicina al sentimento tragico della vita". (Erbetta 2001 p. 113) Giovinezza come fase fondamentale della vita, nella quale abbiamo esperito la fatica di imparare il mestiere di vivere, di gestire la totale libert e la responsabilit a cui ci sentivamo chiamati. Che cosa ne abbiamo fatto della nostra giovinezza? E' questo l'interrogativo che a volte ci poniamo e al quale difficile rispondere, tanto pi che ad interrogarci la nostra stessa intransigente giovinezza. Ora, per noi la "maturit" rappresenta il momento di messa alla prova, innanzi tutto nel mantenere viva la nostra immaturit, la nostra capacit di sognare, di emozionarci, di vivere appassionatamente. Maturit per noi significa anche costruire "situazioni privilegiate" nelle quali sentire che stiamo esistendo, che siamo esseri-nel-mondo ed esseri-con-gli-altri, significa "plonger les mains dans la merd e dans le sang", significa fare i conti con il dio che presumevamo di essere. E' a partire da quanto sinora detto che si comprende come, nella nostra maturit, la professione che ci siamo scelti rappresenti uno dei contesti nei quali vorremmo costruire "situazioni privilegiate", nel quale la nostra biografia, oltre che la nostra competenza tecnica, divenga una risorsa. A condizione che, come don Chisciotte, sappiamo inseguire i nostri sogni con coraggio. Serve coraggio per emozionarsi, serve coraggio per vivere appassionatamente, serve coraggio per com-prendere l'altro, serve coraggio per farsi comprendere, serve coraggio per sporcarsi le mani, serve coraggio per rischiare di divenire strumenti di un potere positivo, serve coraggio per amare non le persone ma quell'uomo, quella donna, serve coraggio per vivere con giustizia, servono coraggio e responsabilit per vivere. Certo quello di vivere un "mestiere difficile" e spesso, troppo spesso, nonostante gli sforzi, ci lasciamo vivere, trasformandoci in "insetti quarantenni". (Nizan 1931) E allora chiederci che cosa ne abbiamo fatto della nostra giovinezza risveglia in noi l'energia la capacit di recuperare quell'istanza di idealit e di eticit. Ci rendiamo conto di aver toccato dimensioni "macro biografiche", non avrebbe d'altronde potuto essere altrimenti essendo un lavoro a due mani, tuttavia riteniamo importante esserci presi questo spazio.

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Quale fine per la ricerca etnografica?


Alcune osservazioni suscitate dalla lettura di "Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione e riflessivit" di Michele Parodi
Perch l'Occidente si preoccupa tanto delle culture "altre"? Quale il motivo che spinge gli antropologi ad andare sul campo? Esiste una questione etica che riguarda il lavoro etnografico? Se per gli psicologi impegnati nella cura dei propri pazienti il problema della responsabilit e dell'effetto del proprio intervento connaturato all'attivit terapeutica, per l'antropologo sul campo questo problema non scontato. Nonostante il problema della responsabilit sia stato posto anche tra gli antropologi, in ambito accademico per lo pi ha prevalso la volont di considerare prioritaria l'impresa scientifica e gli interessi teorici dei ricercatori, rispetto alle esigenze locali degli interlocutori e degli informatori con cui gli etnografi sono venuti a contatto. Nel caso dell'antropologia applicata, la ricerca sul campo nonostante il nobile fine di teorizzare o proporre un cambiamento, una direzione, uno sviluppo sulla base di una potenziata capacit di comprendere l'"altro" - ha nascosto a volte, dietro una intenzione "filantropica", una volont di dominio che si tradotta spesso in una profonda disattenzione verso le specifiche differenze e i particolari bisogni delle persone che ha preteso aiutare, una "disposizione" in cui l'apparente neutralit del conoscere prelude alla conquista e all'assimilazione culturale1. Come ci ricordano Benini-Erba nell'articolo che qui pubblichiamo, menzionando gli assunti delle teorie costruttiviste, il primo passo per rispondere a queste domande consiste nel riconoscere che l'azione di sapere, di "venire a sapere" in stretta, indissolubile relazione con l'azione di "intervenire". necessario riconoscere la questione della responsabilit rispetto alle conseguenze del proprio agire conoscitivo e relazionale. Autorizzare questa ammissione, citando Gramsci, significa accogliere una filosofia della prassi, "una filosofia liberata in cui lo stesso filosofo non solo cerca di comprendere le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione". Per superare la visione paternalista dell'intervento occorre per che la propria responsabilit corrisponda all'impegno di raggiungere una consapevolezza sempre pi profonda dei propri pregiudizi: "consapevolezza auspicata non con la finalit di combatterli e neutralizzarli, ma bens di conoscerli e poterli utilizzare in modo responsabile"2. necessario riflettere sul proprio ruolo di "esperti", sul ruolo che hanno i codici di comunicazione nel reprimere la possibilit dell'"altro" di esprimersi: "ogni pratica sociale, educativa, terapeutica esposta al rischio di essere pratica coloniale, cio una pratica verticale dall'alto al basso la capacit di analizzare i propri presupposti teorici, di attuare pratiche sociali riflessive ci consente di individuare azioni di dominio-sottomissione implicite nel contesto e nei discorsi che caratterizzano la relazione terapeutica". Ci che conta, come ben noto, non raggiungere una impossibile conoscenza "autentica" del punto di vista nativo, non compromessa dal contatto, ma invece, a mio parere, conoscere, attraverso l'interazione dialogica dell'orizzonte culturale del ricercatore e dei suoi interlocutori, qualcosa dei modi in cui tali orizzonti, incontrandosi, possono affrontare i reciproci vincoli ideologici, vincoli che resistono ai desideri e alle sofferenze che le proprie esistenze esprimono senza ricevere il sollievo di un ascolto e di una parola capace di configurare prospettive utopiche. In questo senso l'attivit etnografica pu essere considerata "terapeutica". Non certo in quanto ricerca di modi culturali "disfunzionali", ma piuttosto in quanto "costruzione delle possibilit per le persone di crearsi liberamente altri copioni narrativi per raccontare e raccontarsi". La dimensione conoscitiva dell'antropologia, lo studio etnografico dei "tratti culturali", delle dinamiche sociali, e persino l'analisi delle strutture economiche e delle contraddizioni interne o globali delle societ dei propri interlocutori, deve essere subordinata ad una seria riflessione sugli effetti, sul campo e altrove, della propria attivit di ricerca. Se gli obiettivi dell'antropologo sono in contrasto con gli obiettivi nativi questo fatto pu essere problematizzato, pu costituire il punto di partenza di un processo di negoziazione che deve avere come sfondo un impegno responsabile e cosciente del proprio ruolo, della propria posizione e delle sue conseguenze. Lo stesso oggetto della ricerca pu essere patteggiato sul campo. L'antropologia deve assumere il carico delle sue responsabilit senza pretendere, in nome della scienza, di poter muoversi alla cieca, disinteressandosi dei suoi effetti. Da qui l'assonanza del lavoro di campo con le pratiche terapeutiche "anti-oppressive" proposte da Benini-Erba e con la loro riflessione sul "colonialismo della salute mentale". Nella loro prospettiva "l'idea di colonialismo si riferisce alla mentalit di terapeuti e studiosi che, mossi dall'idea di una scienza sociale oggettiva, hanno costruito discorsi che stabiliscono a priori quali siano i modi, gli argomenti e le persone da considerare in terapia". Nel caso dell'etnografia l'idea di colonialismo invece associata a discorsi che si arrogano il diritto di stabilire - senza considerare l'opinione, i bisogni e i modi di esprimersi dei propri interlocutori - quali siano i fatti sociali, e le teorie degne di interesse per il lavoro di campo. Il potere da parte dell'esperto consiste, in questo caso, "nel

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padroneggiare in modo esclusivo il dominio dei discorsi su cui la relazione va strutturandosi. Adottare un approccio ermeneutico significa invece andare alla scoperta dei significati e del senso della vita delle persone. Un senso che emerge attraverso la narrazione della propria storia o meglio attraverso le narrazioni". La condizione del campo pu costituire allora "uno dei possibili contesti nei quali le persone possono decostruire e ricostruire nuove narrative", nuove pratiche, nuovi valori, nuove identit. Citando Gianfranco Cecchin, Benini-Erba ci ricordano che assumere la curiosit come forma mentis - che apre alla molteplicit e alla polifonia di storie - ci consente di "abbandonare la naturale pulsione di spiegare in termini scientifici, lineari, per assumere una prospettiva estetica". Naturalmente, l'attenzione per "il punto di vista nativo", non implica l'abbandono dei propri modelli interpretativi, non significa rinunciare ai propri strumenti di analisi. L'analisi sociale, i sistemi di status e di potere, i processi di incorporazione, le relazioni di conflitto e di assoggettamento, devono restare parte dei propri discorsi, ma sul campo e nella successiva testualizzazione del proprio lavoro, dovrebbero confrontarsi dialogicamente con i discorsi che i propri interlocutori ritengono importanti. Bisogna essere cos in grado di riflettere sul ruolo che il potere assume anche all'interno dei contesti sociali dove l'antropologo produce il suo sapere. Senza pretendere di "sanare le ingiustizie del mondo politico", il proprio impegno deve essere in grado di espandersi e ritrarsi in modo da sapersi rivolgere, al medesimo tempo, al particolare e al generale, al locale e al globale. I frammenti del testo di Benini-Erba qui riportati, e ancor pi i numerosi spunti contenuti in tutto il loro articolo, penso racchiudano delle possibili risposte alla domanda sul senso che pu avere oggi un'antropologia "militante" nel momento in cui affronta sul campo i suoi interlocutori.

L'importanza di assumere una metodologia ermeneutica, riflessiva e dialogica, in antropologia, non una novit. Da Geertz a Clifford, a Crapanzano, solo per fare alcuni nomi illustri, questa strada stata percorsa con grande impegno e creativit ormai da pi di trent'anni. Sorprende forse, che un movimento analogo abbia attraversato anche altre discipline con la stessa vitalit. Pur partendo da problemi e riferimenti teorici e tecnici molto diversi, possiamo osservare tra psicologia clinica ed etnografia una convergenza verso la tematizzazione di un problema comune: l'esigenza di assumere una teleologia e una assiologia che, al di l dei diversi tecnicismi disciplinari, orienti e dia senso all'agire professionale sul "campo", seguendo modelli pi partecipativi e dialogici. Rimane per ancora aperta una questione. Se un impegno etico in antropologia possibile, lo solo in quanto capace di riflettere cos in profondit su se stesso da giungere a considerarsi altrettanto ideologico, aprendo cos uno spazio di autocomprensione ancora tutto da esplorare. Vi qui in gioco la possibilit di una critica radicale, capace di riconoscere gli autoinganni e la negativit del pensiero liberale. In questo smascheramento, apparentemente nichilistico, l'irrazionalismo che ne deriva non rappresenta l'abdicare del pensiero. Al contrario, "ci che si oppone alla ragione il pensiero stesso" (G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia). Affermazione di un divenire che non si vuole mediare o conciliare ma assumere nella sua molteplicit. Costruire testi intrinsecamente "deboli", riflessivi, dialogici costituisce allora anche una forma di lotta e di resistenza decentrata al potere, potere pervasivamente inscritto anche nei propri desideri e nel proprio sapere.

Note [1] Su questo tema ormai da anni l'antropologia post-coloniale ha imparato a riflettere. Autori come Wolf, Asad e Said hanno chiarito i modi in cui il contesto di dominio coloniale e neo-coloniale "occidentale" ha dato forma ai resoconti antropologici. [2] Le citazioni quando non indicato diversamente rimandano al testo di Benini/Erba.

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fin dalle origini, ha dovuto interrogarsi sul suo rapporto con altre professionalit presenti sul campo L antropologia moderna,amministratori coloniali, tecnici e successivamente militanti, cooperanti, volontari); consapevole che (quelle di missionari, ognuna di esse era ed portatrice di differenti sguardi, saperi, esigenze, obiettivi. La condivisione forzata di spazi e interlocutori ha spesso generato profondi contrasti e confronti dialettici che hanno assunto nei decenni forme diverse, contribuendo cos a ridefinire ruolo, statuto, finalit, tanto degli antropologi quanto degli altri attori sociali. Oggi il discorso antropologico si delinea anche in relazione al grande e variegato mondo della cooperazione internazionale. E' in questo contesto che Achab pubblica la relazione di Edoardo Occa, capo progetto di un programma di sviluppo dell'ONG Cefa (Comitato Europeo per la Formazione e l'Agricoltura) a Bomalang'ombe (Tanzania). L'intento di fornire ai lettori l'opportunit di sapere cosa pensa chi " l", su un campo sempre pi affollato di sguardi che si incrociano, si interrogano, si manipolano a vicenda, per continuare a riflettere sulla distanza fra intenzioni e risultati, sulle sinergie possibili (e le idiosincrasie) fra antropologia e cooperazione, sull'ambiguo e opaco spazio che separa noi dagli altri. La Redazione

Relazione da Bomalang`ombe, regione di Iringa, Tanzania


di Edoardo Occa
Quello di cui faccio parte, con la qualifica di capo progetto, e` un programma di sviluppo integrato che l`ONG Cefa (Comitato Europeo per la Formazione e l`Agricoltura) ha iniziato nel villaggio di Bomalang`ombe nel 1994. Il villaggio, sede della "kata" (sottodistretto), e` composto da circa 9000 persone ed e` situato a 2000 s.l.m. sugli altipiani meridionali della Tanzania. Il clima e` caratterizzato da frequenti piogge e da una stagione secca piuttosto breve (in media da meta` maggio a meta` ottobre), e presenta un'economia prevalentemente agricola. Le colture prevalenti sono il mais (che rappresenta la maggior parte della dieta alimentare), fagioli, patate; la frutta e` presente in gran quantit. A dispetto del nome della cittadina, (Bomalang`ombe significa "recinto delle mucche", appellativo attribuito dall'amministrazione coloniale tedesca) l'allevamento non costituisce, invece, una delle attivit prevalenti. Il paesaggio e` costituito da ampie valli e colline estremamente rigogliose, grazie soprattutto ai numerosi corsi d'acqua presenti nella zona (siamo molto vicini al fiume Ruaha, che da il nome all'omonimo parco nazionale, distante meno di 200 km). In citt sono presenti una scuola primaria, una secondaria ed un dispensario medico, eredit della storia di villaggio "ujamaa", la filosofia di socialismo africano promulgata dal tuttora venerato Baba ya Taifa, "il padre della patria", Mwalimu J.K. Nyerere.. Il ceppo etnico quello Bantu, la trib quella degli Wahehe (uomini Hehe), la lingua ufficiale, come in tutta la Tanzania e in buona parte dell'East Africa , il Kiswahili (lingua conosciuta da tutta la popolazione, anche se nel villaggio prevale l'utilizzo del "dialetto" Kihehe). Il progetto Cefa ha costruito nel tempo, innanzitutto, una centrale idroelettrica grazie alla quale al momento viene fornita la corrente per l'illuminazione pubblica del villaggio. Da 3 anni e` cominciata la fornitura di corrente alle abitazioni private (attualmente ne beneficiano circa il 15% delle abitazioni, nonche` alcune attivita` quali mulini, una falegnameria ed alcuni piccoli shop). Dopo la realizzazione della centrale, il cui servizio di erogazione dovrebbe passare entro la fine di quest'anno ad una co-gestione Cefa-villaggio, e` stato costruito un acquedotto sfruttando una falda naturale, cosa che ha permesso la realizzazione di 35 fontane pubbliche di acqua prevalentemente potabile, o comunque non inquinata da animali, la cui gestione e manutenzione e` seguita da noi insieme ad un comitato del villaggio. Successivamente e` stato realizzato un centro sociale che viene utilizzato per organizzare seminari su varie tematiche quali la prevenzione all` HIV/AIDS (problema che nel villaggio assume proporzioni decisamente preoccupanti, le statistiche tuttora non sono precise, ma si calcola abbiano contratto il virus circa il 30% degli uomini adulti e una percentuale minore ma altrettanto preoccupante di bambini appena nati), in collaborazione col medico del dispensario locale e con le autorit tanzaniane. Altri seminari formativi hanno per oggetto tecniche per il miglioramento della produttivit agricola, le leggi che regolamentano le varie vicissitudini della quotidianit secondo i diversi codici legali in vigore (attualmente sono ben 3, il diritto ufficiale tanzaniano, di matrice europea, la shari'a islamica, utilizzata sulla costa a prevalenza musulmana ed il diritto consuetudinario, legato all'autorit degli anziani), le tematiche "di genere". Infine stiamo organizzando alcuni incontri sull'igiene domestica. Sempre sul versante igienico-sanitario, la situazione presenta problematiche soprattutto per l'infanzia; la carenza di proteine

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nella dieta alimentare e` un fatto evidente, cosi` come sono Io e mia moglie Laura (che nonostante sia laureata in filosofia frequenti i disturbi derivanti dall'assenza di calzature (varie forme teoretica si sta dimostrando un'ottima contabile; uno dei problemi di verminosi); fortunatamente, data l'altitudine, il villaggio non e` contingenti maggiori riguarda le annose procedure di rendiconto zona malarica, mentre lo e` invece la cittadina di Iringa (e l'ho delle spese ai vari donatori) lavoriamo qui da circa un mese (il constatato di persona), pi in generale, sono presenti varie primo mese di soggiorno tanzaniano l'abbiamo trascorso nella forme di patologie derivanti dalle scarse condizioni igieniche cittadina di Morogoro, per un corso di Kiswahili) e ci resteremo, degli abitati. se tutto va bene, per 2 anniper cui, nonostante si sia veramente Altra attivit che seguiamo l'erogazione di micro-crediti in agli inizi, vorrei comunque proporre alcuni spunti di riflessione su partenariato con una ONG tanzaniana. Il] progetto ha effettive cui ho iniziato a ragionare. ripercussioni positive sulla comunit, in quanto permette di Dopo circa 10 anni che il Cefa presente nel villaggio, le diversificare le fonti di reddito e di riequilibrare in parte, tuttavia problematiche principali riguardano la partecipazione della senza sconvolgere le dinamiche interne, il rapporto tra uomini e comunit nella gestione dei servizi e la reale percezione del nostro donne che ad oggi, secondo una visione prettamente lavoro, questioni causate, crediamo, da una scarsa capacit occidentalizzata, vede le donne decisamente sottoposte comunicativa da parte nostra e dal fatto di aver investito risorse ed all'autorit maschile (sono infatti proprio le donne le maggiori energie prevalentemente in ambito infrastrutturale, tralasciando beneficiarie del progetto). un'adeguata sensibilizzazione ed Qualche anno fa e` partito inoltre il informazione sui motivi della progetto BVC (Bomalang`ombe nostra presenza sul territorio (il Village Company), una microCefa e` in Tanzania dai primi anni industria che produce marmellate, 80, su esplicita richiesta fatta succhi di frutta, miele, salsicce ed dall'allora presidente tanzaniano ha inoltre un'officina ed una Nyerere al fondatore del Cefa, on. falegnameria. Bersani, in un incontro avvenuto Lo scopo di questo progetto nel `79. Il primo progetto e` stato sarebbe quello da fungere da quello nel villaggio di Matembwe, "motore di sviluppo" per l'intero che tutt'ora continua felicemente, al villaggio reinvestendo in esso gli quale si sono aggiunti interventi nei eventuali utili, anche se al momento villaggi di Njombe, Ikondo e non rappresenta ancora una risorsa Bomalang`ombe). in grado di auto sostenersi n In quanto rappresentanti del Cefa economicamente n dal punto di in loco, una delle nostre funzioni Bomalang'ombe vista della progettualit. sar quella di valutare l'effettiva Il villaggio, composto prevalentemente da capanne di argilla e efficacia del progetto nella sua storia e la lungimiranza di alcune tetto di frasche ( da notare che la costruzione di case in mattoni, scelte avvenute in passato; ci riferiamo in particolar modo alla pavimento in cemento e tetto in lamiera requisito indispensabile, scarsa attenzione posta alla traslazione culturale dei significati in base alla legge tanzaniana, per richiedere l'allaccio alla corrente impliciti agli interventi di "sviluppo". elettrica), e` servito unicamente da un pullman che, teoricamente, Essendo passati ormai un certo numero di anni dall'arrivo del dovrebbe arrivare una volta al giorno dalla citt di Iringa, distante Cefa nel villaggio, ci troviamo in una fase fisiologicamente 70 km, ma che in realt, a causa del pessimo stato della viabilit, delicata del progetto; l'atteggiamento assunto dalle autorit locali arriva nel villaggio una volta ogni 2-3 giorni (villaggio, distretto e regione, che ora stiamo cercando di Ovviamente, a Bomalang`ombe non esiste rete telefonica, ne` coinvolgere anche nella fase progettuale degli interventi) quello, fissa ne` mobile, (noi comunichiamo tramite ponte radio con le purtroppo, di una sorta di accettazione passiva di qualsivoglia altre sedi Cefa in Tanzania e con alcune missioni presenti nella proposta che il Cefa possa avanzare, sintomo, forse, di una zona) e l`unico televisore presente nel villaggio e` utilizzato per fragilit endemica delle istituzioni locali e di una malcelata trasmettere VHS (film o documentari che utilizziamo nei dipendenza dagli interventi della cooperazione internazionale seminari) una volta la settimana nelle sale del centro sociale. (nella regione di Iringa operano diverse altre organizzazioni, Nel villaggio sono presenti ben 9 confessioni cristiane differenti, italiane, danesi, giapponesi, inglesi. Sulla effettiva funzione di (chiesa cattolica, luterana, Chiesa del Sabato, Tempio di miriadi di organizzazioni umanitarie, non solo nel contesto Betlemme, Assemblea di Dio, pentecostali, anglicani, avventisti, africano, ormai da qualche anno aperto il dibattito, volto, spero, Nuova Chiesa Apostolica), non sono presenti musulmani ma a rimettere in discussione il paradigma epistemologico degli bisogna considerare che, come recitava un vecchio adagio "interventi di sviluppo" pi che all'ennesima, sterile, opera di "l'Africa al 50% cristiana, al 50% musulmana, e al 100% auto celebrazione). animista", i fenomeni di sincretismo nelle varie liturgie sono Un altro punto critico rappresentato dai modi in cui le opere fin infatti fortemente radicati. qui realizzate hanno agito sui dispositivi che regolano il principio

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di autorit all'interno del villaggio; infatti, data la necessita` di trovare tra gli abitanti del villaggio degli "omologhi" (sull'efficacia di una tale terminologia, che riporto in quanto quella con cui convivo, sarebbe interessante soffermarsi, la matrice del "discorso" mi sembra assolutamente tautologica), nel corso del tempo sono state selezionate un ristretto numero di persone aventi incarichi di responsabilit in ambiti prettamente tecnici, senza che venissero coinvolte le autorita` morali del villaggio, cos in parte delegittimando il loro ruolo politico; questo fatto sta comportando tensioni sociali e l'insorgere di comportamenti ai limiti della legalit tra coloro che godono di tali "benefici". Un ulteriore rischio e` rappresentato dall'approccio di carattere assistenzialistico che tuttora alberga in alcuni di noi operatori; ben noto ormai, come il desiderio di "aiutare i poveri" possa generare comportamenti che, oltre ad avere scarsa efficacia, ignorano gli equilibri propri di una societ gi profondamente scossa da molteplici sollecitazioni esterne difficili da metabolizzare e da ri-tradurre in significati comuni. Lungi dal voler proporre un`immagine "museificata" e statica della societ e della cultura di Bomalang`ombe (anche se gli Wahehe sono noti per l`orgoglio verso la propria storia; furono

loro i protagonisti della celebre rivolta al colonialismo tedesco, guidata dal celeberrimo capo Mkwawa, che duro` dal 1890 al 1898, anno in cui, vedendosi ormai sconfitto dai cannoni teutonici, decise di suicidarsi piuttosto che arrendersi, divenendo cos figura leggendaria tuttora estremamente rispettata nella regione ), ci preme pero` far notare come la difficolt principale rilevata sia proprio l'assenza di filtri adeguati ad arginare la velocit di stimolazioni che agiscono su codici comunicativi estremamente differenti da quelli comunemente utilizzati; su questo registro che credo la pratica antropologica, propria di un sapere che abbia come finalit la declinazione del ventaglio di possibilit a cui si apre lo scenario contemporaneo, possa rivelarsi strumento fondamentale nella lettura e nell'ermeneutica del contesto particolarmente ricco di tematiche di un progetto integrato di sviluppo. Spero dunque di essere in grado di calarmi in questo caleidoscopio di esperienze diverse e di fare, in qualche modo, la "mia parte" per il villaggio di Bomalang`ombe. Per il momento, mi limito a seguire il consiglio che Malinowski diede al giovane Evans-Pritchard in partenza per l'Africa, ossia quello di badare soprattutto a "non fare lo stupido".

Strada di Bomalang'ombe

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Libri e poesie
A cura di Antonio De Lauri
Da questo numero Achab introduce la "Sezione libri e poesie" che si propone con una duplice funzione: presentare alcuni testi particolarmente significativi per la loro capacit di stimolare riflessioni attente alla complessit del mondo contemporaneo ed iniziare una narrazione poetica, pensata come un dialogo tra le forme dell'arte e le forme del sapere, uno spazio per lasciar esprimere, alle semplici parole, il senso dell'esperienza quotidiana.

Chomsky N., Herman E. S. "Bagno di sangue" (1975) Il Formichiere, Milano. Incontrare una persona pu essere un'esperienza formativa ed illuminante. Lo stesso pu accadere con un libro; il testo di Chomsky ed Herman ne un esempio. Che questo libro sia stato sequestrato negli Stati Uniti non sorprende. Chomsky ed Herman hanno raccolto una serie di documenti, la maggior parte rapporti ufficiali, che mostrano come gli Stati Uniti abbiano "amministrato" i pi efferati bagni di sangue degli ultimi decenni. Inoltre - e per questo la loro analisi rimane unica ed esemplare - smontano con implacabile rigore la gigantesca macchina ideologica che ha permesso di legittimare e rendere "accettabile" all'opinione pubblica la politica estera americana. L'attenzione si sposta su vari luoghi del pianeta fino a toccare il punto cruciale: il Vietnam. Ma prima passa per il Guatemala, San Domingo, il Brasile, la Grecia, la Thailandia, le Filippine, la Corea ecc. I bagni di sangue si succedono, "benigni", "costruttivi" e sotto l'egidia della "pacificazione", ma tutti come effetti di un'unica causa, la politica del "mondo libero" costretto a esportare la morte per sopravvivere. Edward S. Herman autore di saggi di economia e libri di analisi critica delle societ occidentali. Noam Chomsky nato a Filadelfia nel 1928 da una famiglia di immigrati russi. Allievo di Roman Jakobson, ha rivoluzionato gli studi di linguistica sviluppando i principi della teoria generativa trasformazionale. Autore di numerosi saggi specialistici e di analisi critiche del mondo contemporaneo, Chomsky uno dei pochi grandi intellettuali capaci di cogliere la complessit della nostra epoca da un punto di vista critico, militante, costruttivo.

Gray J. "Al Qaeda e il significato della modernit" (2004) Fazi editore, Roma Una riflessione attenta e lineare dei nostri tempi, in una prospettiva stimolante e teoricamente impegnata. Attraverso l'esame dettagliato delle conseguenze politiche, militari, economiche e sociali della globalizzazione, il testo, con straordinario acume e capacit di sintesi, getta una luce profondamente nuova sull'esplosione dell'Islam radicale, sugli errori commessi dagli Stati Uniti nel loro ruolo di nuova potenza imperiale - sugli eventi pi tragici e i fenomeni pi preoccupanti della storia dei nostri giorni.

John Gray uno fra i maggiori pensatori inglesi viventi; insegna alla London School of Economics.

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I poeti conclamano il vero, potrebbero essere dittatori e forse anche profeti perch dobbiamo schiacciarli contro un muro arroventato? Eppure i poeti sono inermi, l'algebra dolce del nostro destino. Hanno un corpo per tutti e una universale memoria, perch dobbiamo estirparli come si sradica l'erba impura? [] Lasciamoli al loro linguaggio, l'esempio del loro vivere nudo ci sosterr fino alla fine del mondo quando prenderanno le trombe e suoneranno per noi. (Alda Merini)

Il prossimo Troppo vicino non mi piace il prossimo: che se ne vada in alto e ben lontano! Diverrebbe altrimenti la mia stella? (Friedrich Nietzsche "Le poesie" (2000) Einaudi, Torino)

Vivere una sola vita in una sola citt, in un solo paese, in un solo universo, vivere in un solo mondo prigione. Conoscere una sola lingua un solo lavoro un solo costume una sola civilt conoscere una sola logica prigione. (Ndjock Ngana) 48

Foto di Anna Sambo, (Benin 2004)

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