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CAPIRE DANIELE
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CAPIRE DANIELE
Antonio Caracciolo
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Presentazione
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PRESENTAZIONE
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Introduzione
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1. Quanto maggiore è l’arco di tempo che separa uno scrittore dai suoi lettori,
tanto più è difficile comprendere la sua opera e tanto più è necessario ap-
plicare norme di interpretazione adeguate.
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8. Per l’influenza dell’Illuminismo, nel XVIII secolo è sorta una nuova erme-
neutica biblica che non tiene conto dell’ispirazione: la ermeneutica razio-
nalistica o liberale.
9. Alla ermeneutica biblica liberale e alla esegesi biblica che ne risulta s’op-
pone la ermeneutica biblica conservatrice con la sua esegesi.
a) Nei libri profetici ordinari (Isaia, Geremia, Ezechiele e i Dodici profeti mi-
nori) predomina la forma discorsiva (predizioni, promesse, rimproveri, in-
vettive, esortazioni, appelli). Il senso è per lo più letterale.
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Un libro parzialmente sigillato. E.G. White scrive: “il libro che fu sigil-
lato non è l’Apocalisse, ma è quella porzione della profezia di Daniele che si ri-
ferisce agli ultimi tempi”1. La comprensione progressiva di Daniele convalida
questa affermazione. Solo agli inizi del XIX secolo, quando cominciarono effetti-
vamente i “tempi della fine”, si moltiplicarono simultaneamente gli studi sul più
esteso periodo profetico del libro di Daniele, quello delle 2300 sere-mattine.
Questo momento fu comunque preceduto da un lungo periodo preparatorio.
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B. Nel I Libro dei Maccabei, che vide la luce sul finire del II secolo a.C., l’al-
tare pagano nel tempio è definito “l’abominazione della desolazione” (I
Maccabei 1:54) con evidente riferimento a Dn 8:13 e 11:31. Nel cap. 2:55-60
Daniele e i compagni sono menzionati accanto ad altri personaggi dell’An-
tico Testamento, segno che in quell’epoca Daniele era già riconosciuto ispi-
rato nell’ambiente giudaico.
D. Riferimenti alle profezie di Daniele si sono trovati nei testi di Qumran. Nel
Rotolo della Guerra, del I secolo a.C., Dn 11:40 a 12:3 sono applicati alla
guerra escatologica tra i “figli della luce” e i “figli delle tenebre”. Il Docu-
mento di Melchisedec (11Q Ps.Ez.), di data incerta, applica a eventi futuri lo
schema cronologico di Dn 9:24-27. I riferimenti a Daniele nella letteratura
tardo-giudaica attestano che i Giudei, negli ultimi due secoli dell’era precri-
stiana, tennero in debita considerazione questo libro profetico.
L’interesse del mondo giudaico per il libro di Daniele non si estinse nell’era cristiana.
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C. Nel secondo secolo l’apologista giudeo Trifone, che dialoga col cristiano
Giustino, allo stesso modo che quest’ultimo vede il “piccolo corno” di Dn
7:25 come un potere persecutorio futuro che dovrà dominare per tre tempi
e mezzo, da Trifone interpretati come tre secoli e mezzo.
D. Sempre nel II secolo il Seder ‘Olam, attribuito generalmente a RABBI JOSE BEN
HALAFTA, nei capitoli 29 e 30 si richiama a Dn 9:24-27 (in pratica è una spe-
cie di midrash di questo passo). La cronologia della distruzione del primo e
del secondo tempio è fatta coincidere coi numeri sabbatici di Dn 9: si so-
stiene che da Nabucodonosor fino a Tito trascorsero 10 giubilei, equivalenti
a 70 cicli sabbatici, a loro volta equivalenti a 490 anni.
E. Nel IV secolo RABBI JOSEF in uno dei suoi scritti identifica i Persiani nell’orso
di Dn 7:5. I rabbini di quest’epoca vedono concordemente la Persia e Roma
rispettivamente nel secondo e nel quarto regno di Dn 2 e 7.
È evidente l’interesse del giudaismo per il libro di Daniele nei primi secoli
dell’era cristiana. Più documentato ancora è l’interesse dei cristiani.
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nel futuro l’apparizione del piccolo corno di Dn 7:25 e pensa che il suo do-
minio durerà 3 anni e mezzo letterali.
c) Ancora nel II secolo IRENEO vescovo di Lione (circa 130-200) in uno scritto
apologetico (Adversus Haereses) identifica Roma nel quarto regno di Dn 2 e
7 e pensa che essa sarà divisa in 10 parti. Per Ireneo il “piccolo corno”,
identificato con l’Anticristo, deve ancora manifestarsi, e quando si sarà ma-
nifestato regnerà per 3 anni e mezzo letterali.
d) Fra il II e il III secolo, TERTULLIANO (160-240) usa Dn 9:24-27 per convincere
i Giudei che essi debbono riconoscere Gesù di Nazareth come il Messia
predetto da Daniele.
e) CLEMENTE, il dotto filosofo cristiano di Alessandria (circa 150-220), usa Dn
9:24-27 nel contesto di un’ampia cronologia fra l’epoca israelitica e l’età ro-
mana. Clemente fa decorrere dall’anno II di Dario I re di Persia le 70 setti-
mane di Dn 9 ed estende le 62 settimane fino al tempo del battesimo di
Gesù. La 70° settimana la colloca fra Nerone, secondo Clemente il respon-
sabile della “abominazione della desolazione”, e Vespasiano, il distruttore di
Gerusalemme.
f) Delle 70 settimane s’interessa pure il cronografo cristiano GIULIO AFRICANO
(160-240). Egli pone nel 444 a.C., sotto Artaserse I di Persia e Nehemia,
l’inizio di questo periodo profetico e lo fa terminare nell’anno 31 con la
crocifissione di Cristo.
g) Daniele attrasse anche l’attenzione di ORIGENE (185-254), lo scrittore alessan-
drino responsabile di avere introdotto nel pensiero cristiano concetti fuor-
vianti con la sua esegesi allegorica della Scrittura. Commentando Dn 8, Ori-
gene applica i vv. 23-25 ad un ipotetico anticristo futuro. Le 70 settimane di
Dn 9:24-27 le equipara fantasiosamente a 4900 anni che estende da Adamo
fino alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 d.C..
h) Per quanto riguarda l’esposizione cristiana antica di Daniele, IPPOLITO RO-
MANO (m. nel 235) merita una menzione speciale come autore del più
esteso commentario del libro pervenutoci dall’antichità cristiana.
Composto tra il 202 e il 204 in greco, il commentario di Ippolito comprende
4 libri. “Storicista” (ante litteram) su Dan 2 e 7, Ippolito si rivela “futurista”
(ante litteram) sul cap. 9 e sui periodi profetici dei capitoli 7 e 8 che
estende fino al tempo della fine. Nei 4 regni danielici Ippolito vede Babilo-
nia, Medio-Persia, Grecia e Roma; nella “pietra” che distrugge la statua
(cap.2) ravvisa il Cristo, e nel “piccolo corno” del cap.8, primo fra i cristiani,
identifica Antioco Epifane. Questo antico commentatore cristiano applica
storicamente anche l’ultima fase della quarta bestia di Dn 7: le 10 corna
sono 10 regni che debbono ancora sorgere; il “piccolo corno” è l’Anticristo
che dovrà nascere tra i 10 regni e sarà vinto e giudicato da Gesù Cristo alla
sua venuta. Ippolito identifica con Cristo anche la “pietra” del cap.2 che di-
strugge la statua dai 4 metalli. Le 62 settimane di Dn 9:26 le colloca tra il
tempo dell’esilio e la nascita di Cristo. La settantesima settimana la stacca
dal contesto e la proietta nel tempo della fine precorrendo i moderni di-
spensazionalisti.
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C. Nella seconda metà del III secolo un duro attacco contro Daniele venne dal
mondo pagano suscitando la viva reazione degli ambienti cristiani.
a) PORFIRIO DI TIRO (233-304), un filosofo neoplatonico che contestava aspra-
mente il cristianesimo, compose un’opera accusatoria in 15 libri contro i cri-
stiani. Il 12° libro era dedicato alla refutazione del libro di Daniele, uno
scritto inviso al pagano perché sulle sue profezie i cristiani fondavano al-
cune importanti posizioni teologiche. Per screditarlo, Porfirio insinuò che
esso era una falsa profezia (vaticinium ex eventu) scritta da un ignoto giu-
deo all’epoca dei Maccabei. Nel “piccolo corno” dei capitoli 7 e 8 il filosofo
pagano identificò il re di Siria Antioco IV Epifane.
b) Seguirono Porfirio, limitatamente all’identificazione del “piccolo corno” del
cap.7 di Daniele, alcuni interpreti della Chiesa sira. AFRAHAT DI MOSSUL (290-
350) vide Antioco Epifane nell’undicesimo corno di Dn 7. Per il resto si at-
tenne all’interpretazione tradizionale della Chiesa.
c) EFREM SIRO (306-373) pure identificò il “piccolo corno” di Dn 7 con Antioco
Epifane. Questo esegeta orientale credette che l’Impero romano sarebbe
scomparso con la venuta dell’Anticristo. Nelle 10 corna della quarta bestia
del cap.7 vide 10 regnanti seleucidi.
d) POLICRONIO DI APAMEA (374-430) su Dn 2 e 7 seguì Porfirio (vide nei 4 regni
Babilonia, la Persia, la Grecia I e la Grecia II ovvero i regni ellenistici, e
scorse nelle 10 corna dieci re seleucidi tra Alessandro e Antioco IV e nel
“piccolo corno” quest’ultimo sovrano). Policronio, primo fra gli interpreti
cristiani, applicò ad Antioco i 3 tempi e mezzo di Dn 7 e le 2300 sere-mat-
tine di Dn 8. Sul cap. 9 si mantenne cristocentrico.
D. Gli interpreti cristiani latini e greci di Daniele tra il III e il IV secolo segui-
rono la tradizione esegetica della Chiesa.
a) LATTANZIO (250-330) nei suoi scritti si riferì sporadicamente alle profezie di
Daniele. Allude alla caduta futura di Roma e al sorgere di 10 regni dopo di
essa e colloca nel futuro l’Anticristo che sarà distrutto da Dio alla risurre-
zione dei santi. Non ha nessun riferimento ad Antioco.
b) EUSEBIO DI CESAREA (260-340), storico della Chiesa, identifica i 4 regni danie-
lici con l’Assiria (Babilonia), la Persia, la Macedonia e Roma. Dopo Roma
intravede l’instaurarsi del Regno di Dio. Pone in rapporto reciproco Dn 2 e
7, applica Dn 7:9-14 alla seconda venuta di Cristo e Dn 9:24-27 alla prima.
Non fa menzione di Antioco.
c) CIRILLO, vescovo di Gerusalemme (315-386), su Dn 7 segue lo schema tradi-
zionale che definisce “la tradizione degli interpreti della Chiesa”. Anch’egli
pensa che Roma sarà divisa in 10 regni minori tra i quali sorgerà l’Anticristo
(il “piccolo corno”) che alla fine dei tempi sarà distrutto dal Cristo che ritor-
nerà. In Dn 9:24-27 Cirillo scorge una profezia messianica che si è adem-
piuta nel I secolo.
d) CRISOSTOMO di Antiochia e Costantinopoli (347-407), in parte contempora-
neo di Girolamo, segue l’interpretazione tradizionale della Chiesa su Dn 2 e
7. Pensa che quando si dissolverà l’Impero romano sorgerà l’Anticristo e
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gico cattolico. Col propagarsi del cattolicesimo nel mondo il Regno di Dio
si stava già realizzando, che bisogno c’era di studiare ancora le profezie?
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A. Nel XVI secolo nuovi stimoli allo studio di Daniele scaturirono dalla
Riforma luterana. I Riformatori ebbero un rapporto particolare con Daniele.
Il dato più significativo nell’ambito di questo rinnovato interesse per le pro-
fezie danieliche fu il ripristino dell’antica esegesi storica.
a) MARTIN LUTERO (1483-1546) non produsse un commentario di Daniele, ma
stimò questo libro una fonte di consolazione per la fede dei cristiani. Fau-
tore dell’esegesi storica, Lutero vide nell’Anticristo una figura storica e non
escatologica come i Padri antichi. La novità dirompente dell’esegesi profe-
tica del padre della Riforma fu l’aver identificato nell’Anticristo il papato sto-
rico (anche se prima di lui EBERARDO, arcivescovo di Salisburgo nel 1240 e
JOHN WYCLIFF poco più di cento anni dopo avevano visto un simbolo del
papato nel “piccolo corno” di Dn 7).
b) Fra i primi esponenti della Riforma luterana si occuparono volentieri di Da-
niele FILIPPO MELANTONE (m. nel 1560), GIOVANNI ECOLAMPADIO (m. nel 1531),
SEBASTIANO MUNSTER (m. nel 1552), UGO DE GROOT o Grotius (m. nel 1545).
c) GIOVANNI CALVINO (1509-1564) produsse una serie originale di letture su Da-
niele.
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INTRODUZIONE
B. Il razionalismo nato in Inghilterra dal deismo, nella seconda metà del XVIII
secolo si trapiantò e mise salde radici in Germania.
a) GIOVANNI SALOMONE SEMLER (m. nel 1791) elevò a sistema il razionalismo
come criterio di valutazione della Scrittura.
b) GIOVANNI DAVIDE MICHAELIS (m. nel 1791) rappresentò la scienza biblica a ca-
vallo fra l’ortodossia e l’Illuminismo. Michaelis propose una teoria su Da-
niele che sarebbe stata sviluppata dal suo discepolo H.CORRODI.
c) H.CORRODI, rifiutata l’interpretazione ortodossa di Daniele, nel 1783 iniziò la
critica sistematica del libro.
d) L. BERTHOLDT fra il 1806 e il 1808 sviluppò la critica sistematica di Daniele.
e) GIOVANNI GOFFREDO EICHHORN (m. nel 1827) nel 1824 allargò le vedute di
Bertholdt e condusse a fondo l’offensiva contro Daniele, seguito a metà del
XIX secolo da FERDINANDO HITZIG.
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D. La linea conservatrice fu portata avanti ancora nel corso del secolo XX.
a) Nel primo quarantennio del secolo furono pubblicati numerosi studi di au-
tori conservatori. Fra i più notevoli: A.C. GAEBELEIN (1911), R.D. WILSON
(1917-1918), C. BOUTFLOWER (1927), W. MOLLER, (1934), G.C. AELDERS (1935),
M.A. BECK (1935), K. HARTENSTEIN (1936), il cattolico J. LINDER (1939).
b) Dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto grazie alle nuove scoperte
archeologiche, si ravvivò negli ambienti conservatori l’interesse per la data
tradizionale di Daniele e per l’esegesi storica. Sono da segnalare fra gli ot-
timi commentari apparsi in tale periodo negli ambienti ortodossi quelli di:
E.J. YOUNG (1949), H.C. LEUPOLD (1949), R.D. CULVER (1954, 1962), J. WAL-
VOORD (1971), L. WOOD (1973), J.G. BALDWIN (1978), C. MAYER (1982), J.L.
ARCHER jr. (1985).
c) Studi specializzati su Daniele che hanno fornito validi apporti all’ermeneu-
tica storica sono stati pubblicati fra gli anni ‘60 e ‘80. Ricordiamo fra gli altri
i lavori di: D.J. WISEMAN (1965), B. WALTKE (1976), A.R. MILLARD (1977), G.L.
ARCHER (1979), J. MC DOWELL (1979), S.J. SCHWANTES (1980), D.W. GOODING
(1981), F. HASEL (1981), A.J. FERCH (1983), W.H. SHEA (1986).
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A. Anacronismi
B. Inesattezze storiche
C. Notizie leggendarie
D. Altre incongruenze
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d) L’autore del libro rivela una conoscenza esatta degli avvenimenti del II se-
colo a.C.
e) L’autore dell’Ecclesiastico (il Siracide), che redasse il suo libro verso il 180
a.C., non menziona Daniele tra le figure eminenti della storia d’Israele.
f) Il libro di Daniele nel canone ebraico non si trova nella raccolta dei Profeti
ma in quella degli Agiografi, segno che al tempo della sua redazione il ca-
none dei Profeti era già chiuso.
I fatti reali o presunti sopra elencati, secondo la ricerca storico-critica, sono suffi-
cienti per postulare una data tardiva per il libro di Daniele. Le sue profezie, sem-
pre secondo la critica, sono vaticinia ex eventu e le sue visioni un artificio lette-
rario. Il libro è un prodotto delle aspirazioni irredentistiche dei giudei durante la
persecuzione del re di Siria Antioco IV Epifane tra gli anni 167 e 164 a.C.
Un esame critico degli argomenti su esposti rivela in alcuni casi la loro fragilità,
in altri la loro insufficiente forza probativa.
A. Presunti anacronismi
3- D.J. WISEMAN, Chronicle of Chaldaean Kings 626-556 B.C., in the British Museum, London,
1956.
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lonia come reggente del trono sebbene suo padre continuasse ad essere il
re di diritto4.
4 - Vedi G. RINALDI, Daniele, pp. 87-88; ANDRÉ PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, pp. 98-99
5 - Vedi G. RINALDI, ibidem, p. 86.
6 - Vedi W. ALBRIGHT, From the Stone Age to Christianity, p. 337.
7 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 13; A. PARROT, op. cit., p. 27.
8 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.
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F. Nel capitolo cinque del suo libro Daniele descrive la fine repentina della
sovranità caldea su Babilonia con la caduta subitanea della città. Questo ra-
pido trapasso di poteri si rispecchia nella “Cronaca di Babilonia”, pubblicata
da D.J. WISEMAN nel 1956, e nei testi amministrativi di Nippur. Il racconto di
Daniele inoltre ha stretta affinità con notizie parallele nella Ciropedia di Se-
nofonte e nelle Storie di Erodoto. Il prof. R.P. DAUGHERTY scrive: “Di tutte le
fonti non babilonesi che c’informano sugli avvenimenti collegati con la fine
del regno neo-babilonese, il cap.5 di Daniele è la più vicina ai testi cu-
neiformi”15. E conclude: “Resta screditata l’opinione che il capitolo cinque
di Daniele risalga all’epoca dei Maccabei”16. Non è credibile che uno scrit-
tore del II secolo a.C. fosse così bene informato sugli usi, i costumi e la sto-
ria dei babilonesi, addirittura meglio informato degli storiografi greci del V e
IV secolo a.C.!
G. Per motivi che ignoriamo il libo di Daniele comincia in ebraico (1:1 fino a
2:4a), prosegue in aramaico (2:4b fino a 7:28) e finisce in ebraico (8:1 fino a
12:13). Per lungo tempo il bilinguismo del libro, e soprattutto il lessico e la
morfologia delle due lingue, furono invocati come indizi di una data tardiva
del libro stesso. Oggi la situazione si è capovolta soprattutto grazie agli ul-
timi studi nell’ambito della lingua aramaica17. In realtà l’aramaico di Daniele
si allontana dall’aramaico recente quanto si avvicina a quello antico;
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H. Almeno due degli 8 titoli ufficiali elencati in Dn 3:2 sono d’origine persiana,
e nella forma in cui si leggono nel libro di Daniele non li si riscontra più
dopo il III secolo a.C. È più facile ammettere che una terminologia tecnica
in lingua persiana fosse conosciuta ed usata in Babilonia all’inizio dell’età
persiana piuttosto che in Giudea in piena età ellenistica.
Militano ancora a favore dell’origine antica di Daniele varie circostanze
esterne al libro.
a) Nell’elogio dei padri che il vecchio sacerdote Mattatia, padre dei Maccabei,
fa nel suo testamento (1Maccabei 2:51-60), accanto ad altre figure illustri,
come Abramo, Giuseppe, Fineas, Giosuè, Caleb, Davide ed altri, figurano
Daniele e i suoi tre compagni. Il sacerdote era un rappresentante ufficiale
della cultura ebraica. Pertanto se il sacerdote Mattatia pone Daniele e i suoi
compagni tra i protagonisti della storia patria, vuol dire che questi perso-
naggi nel II secolo a.C. erano accreditati in Israele come figure storiche.
b) GIUSEPPE FLAVIO in Antichità Giudaiche (libro II, 8,5) dice che Alessan-
dro Magno dopo la conquista di Gaza fece visita a Gerusalemme dove il
sommo sacerdote gli mostrò le profezie di Daniele che lo concernevano.
Molti studiosi influenzati dal pregiudizio sull’età recente di Daniele, riten-
gono leggendaria questa notizia, altri, fra i quali il LINDER, la giudicano au-
tentica.
c) Gesù Cristo, nel citare Daniele, lo riconosce esplicitamente come “profeta”
(Mt 24:15). Per ogni cristiano che crede all’autenticità dei Vangeli e all’auto-
rità di Cristo, questo è l’argomento principe a favore dell’autenticità del li-
bro di Daniele, l’argomento decisivo. Il peso della documentazione storica,
archeologica e biblica, è nettamente a favore dell’antichità e perciò dell’au-
tenticità del libro di Daniele. Su questa posizione si sono schierati studiosi
seri e preparati come PUSEY, KEIL, ROHLING, FULLER, AUBERLEN, FABRE D’ENVIEU,
KNABENBAUER nel secolo XIX, e PHILIPPE, DAUGHERTY, MOELLER, HARTENSTEIN,
LINDER, YOUNG, WALVOORD, ARCHER, HASEL, SHEA ed altri nel secolo XX. L’insi-
gne assiriologo francese LENORMANT ha scritto: “Quanto più leggo e rileggo il
libro di Daniele e lo confronto coi dati dei documenti cuneiformi, tanto più
mi colpisce la veridicità del quadro della corte babilonese descritto nei sei
capitoli... e tanto più vedo l’impossibilità di far risalire la redazione originale
del libro all’epoca di Antioco Epifane”19.
18 - Vedi G. HASEL, “Quelques éléments d’ordre historique dans le livre de Daniel” in Daniel,
questions débattues, pp. 36-39.
19 - Citato da H. HEINZ in Daniel, questions débattues, p. 21.
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Capitolo 1
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La notizia con la quale esordisce il libro ci pone subito di fronte a tre problemi.
Il primo nasce dall’accenno a un assedio di Gerusalemme da parte di Nabu-
codonosor20 nell’anno terzo del re di Giuda Gioiachim.
Questo personaggio fu posto sul trono di Giuda come vassallo dell’Egitto
dal faraone Neco II (2Re 23: 34-35) il quale nel 609 a.C. aveva vinto e ucciso a
Meghiddo re Giosia, padre di Gioiachim (2Re 23: 29). Neco spadroneggiò sul
20 - Il nome del re di Babilonia nell’Antico Testamento compare in due forme lievemente va-
rianti: Nebukadne’zzar [raC)ånd : ka Ubºn] (in Daniele, nei libri storici e poche volte in Geremia) e Ne-
bukadre’zzar [raC)erd
: ka Ubºn] (29 volte in Geremia e 4 volte in Ezechiele). La forma con la r è più
corretta rispecchiando meglio la dizione babilonese Nabu-kudurri-uzur (“Nabu protegge il figlio”
o “Nabu protegga l’erede”). Le fonti greche attestano sia la forma con la n: Nabouchodonosor
[Nabouxodonosor] (i LXX e Giuseppe Flavio), sia la forma con la r: Nabokodrosoros [Na-
bokodrosoroj] (Strabone e, come variante, in un manoscritto di Giuseppe Flavio). Giovanni
Luzzi, nella Versione Riveduta della Bibbia, usa una forma italiana derivata dall’ebraico, Nebu-
cadnetsar. In questo commentario si preferisce la forma derivata dal greco, Nabucodònosor.
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territorio di Giuda per circa quattro anni (2Re 23:33-35), finché Nabucodonosor,
erede del trono di Babilonia, non lo ebbe sconfitto a Carchemish, nella Siria su-
periore, e non lo ebbe respinto entro i confini dell’Egitto, divenendo di fatto egli
stesso il nuovo padrone del territorio (2Re 24: 7).
Geremia (46:2) pone questo avvenimento nell’anno quarto di Gioiachim
(605 a.C.) che in 25: 1 sincronizza con l’anno primo di Nabucodonosor.
È stato osservato che è storicamente impossibile una presenza armata di
Nabucodonosor in Palestina nel 606 a.C., come sembra suggerire Dn 1: 1, giac-
ché in quell’anno il paese era ancora sotto il controllo dell’Egitto. Se ne è de-
dotto che l’autore del libro è disinformato sulla storia e perciò le notizie che for-
nisce sono inattendibili. Dal versante opposto, si è ribattuto che è possibile met-
tere d’accordo Daniele e Geremia sulla data della campagna militare di Nabuco-
donosor nella regione siro-palestinese alla quale entrambi fanno riferimento.
Varie ipotesi sono state proposte21 per appianare la divergenza cronologica
su accennata. La più attendibile è quella che suppone l’uso nei due libri di si-
stemi di datazione differenziati22.
Nell’antichità gli avvenimenti si datavano generalmente in base agli anni di
regno dei sovrani in carica, ma il modo di calcolare detti anni non era uniforme.
In Babilonia li si contava dal principio dell’anno civile successivo a quello in cui
il sovrano aveva cinto la corona. La frazione dell’anno precedente, dal momento
dell’assunzione del potere regale sino alla fine dell’anno, era detta “anno di ac-
cessione” e non veniva calcolata nel computo degli anni di regno. In Egitto in-
vece si calcolava come primo anno di regno l’intervallo di tempo fra l’ascesa al
trono del nuovo sovrano e l’ultimo giorno dell’anno civile in corso. È evidente
che quello che in Babilonia era “l’anno di accessione” del nuovo re, in Egitto era
considerato il primo anno di regno23.
Abbiamo indizi significativi nella Scrittura - lo si documenterà più avanti -
per poter dire che gli scrittori giudaiti dell’ultimo periodo dei re adottarono il si-
stema egiziano di conteggio degli anni di regno. È ovvio che la data di un avve-
nimento qualunque fissata in ambiente egiziano o giudaita in base agli anni di
regno di un certo sovrano risultasse spostata in avanti di un anno rispetto alla
data del medesimo avvenimento calcolata in Babilonia con riferimento agli stessi
anni di regno.
È del tutto verosimile che Daniele, educato in Babilonia fin dalla giovinezza
(Dn 1: 4), calcolasse gli anni di regno di Gioiachim (Dn 1:1) secondo il sistema
babilonese di postdatazione e che Geremia, che visse e scrisse in terra di Giuda,
computasse gli stessi anni di regno in base al sistema giudaita di predatazione.
Questa ipotesi è confortata da almeno due casi di datazione parallela sfalsata di
un anno che si riscontrano nell’Antico Testamento, uno nel libro di Geremia e
uno nel raffronto tra Geremia e il Secondo Libro dei Re. In Gr 52 uno stesso av-
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per cui l’informazione di Dn 1:1 parrebbe rimanere isolata. In realtà non è così.
Infatti un intervento militare babilonese contro Gerusalemme durante il regno di
Gioiachim è documentato nei libri storici.
Il Secondo Libro dei Re (24: 1) ci ragguaglia su una irruzione di Nabucodo-
nosor a Gerusalemme per reprimere una ribellione di Gioiachim, e 2Cro 36:6, ri-
ferendo probabilmente lo stesso episodio, aggiunge che il sovrano caldeo inca-
tenò Gioiachim “per portarlo a Babilonia”. Purtroppo nessuna delle due fonti
data l’episodio, ma è già notevole che esse ci informino su una campagna mili-
tare del re di Babilonia contro Giuda durante il regno di Gioiachim (i tentativi di
riferire l’episodio accennato a un’epoca diversa congetturando che i libri di Se-
condo Re e Secondo Cronache confondono Sedechia con Gioiachim appaiono
pretestuosi e inconcludenti). Resta comunque documentato nella Scrittura al di
fuori del libro di Daniele, che le irruzioni bellicose di Nabucodonosor nel territo-
rio di Giuda fra i regni di Gioiachim e di Sedechia furono tre e non due. Questo
fatto risulta pure dai riferimenti ai saccheggi del Tempio riportati in 2Cro 36:7-18.
Il v. 7 dà notizia di una prima asportazione di oggetti sacri da Gerusalemme
effettuata da Nabucodonosor in un momento imprecisato del regno di Gioia-
chim: “Nebucadnetsar portò pure a Babilonia parte degli utensili della casa
dell’Eterno”. Si trattò evidentemente di un’asportazione parziale dei sacri vasi del
Tempio.
Una seconda asportazione avvenne all’inizio del regno effimero di Gioia-
chin (597 a.C.) quando, come c’informano i vv. 9 e 10, il re di Babilonia fece pri-
gioniero il neoincoronato re di Giuda “e lo fece menare a Babilonia con gli uten-
sili preziosi della casa dell’Eterno”. In questa occasione ci fu con ogni evidenza
un saccheggio selettivo del Tempio.
Una terza e ultima spogliazione del sacro edificio prima della sua distru-
zione fu portata a termine l’anno undicesimo di Sedechia (587 a.C.) allorché,
come ci ragguaglia il v. 18, il sovrano caldeo “portò a Babilonia tutti gli utensili
della casa di Dio”. Stavolta ci fu chiaramente un saccheggio totale del Tempio:
tutto quello che vi era rimasto fu portato via24.
Significativamente la notizia di Dan 1:2 circa l’entità del bottino prelevato
dal Tempio, coincide con l’informazione di 2Cro 36:7: in entrambi i testi si dice
infatti che Nabucodonosor portò via una parte degli utensili della casa di Jahvé.
È una coincidenza dalla quale ci sentiamo autorizzati a concludere che Dn 1:1-2
e 2Cro 36:6-7 si riferiscono a uno stesso avvenimento accaduto sotto il regno di
Gioiachim.
La notizia parallela dei Re e delle Cronache su una invasione caldea di
Giuda sotto Gioiachim e le informazioni dell’ultimo capitolo di II Cronache sulle
spogliazioni del Tempio, convergono per dirci che l’accenno di Dn 1:1 a un in-
tervento babilonese in Gerusalemme nei primi anni di regno di Gioiachim non è
affatto una notizia isolata.
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contare sull’aiuto dell’Egitto, non restava che aprire le porte della città ai nuovi
padroni. Una resa spontanea di Gerusalemme a Nabucodonosor otto anni più
tardi, è documentata in 2Re 24:11-12.
Lo storico babilonese Berosso, citato da Giuseppe Flavio, riferisce che Na-
bucodonosor, dovendo rientrare in fretta in Babilonia per la via più breve,
quella attraverso il deserto, affidò ad alcuni dei suoi generali perché li conduces-
sero a Babilonia, “i prigionieri che aveva catturato fra i Giudei, i Fenici e i Siri”30.
Questa informazione di fonte extrabiblica concorda significativamente con
quanto scrive Dn 1:1-3. I prigionieri giudei ai quali accenna Berosso possono be-
nissimo essere stati Daniele e i suoi compagni catturati dai soldati di Nabucodo-
nosor. Daniele, è vero, attribuisce direttamente al condottiero caldeo la conqui-
sta di Gerusalemme, ma non si deve dimenticare che è comune nella storiografia
antica, e moderna, ascrivere un’impresa a colui che l’ha voluta e preparata, an-
che se a realizzarla sono stati altri.
Concludendo questa parte della nostra discussione, diciamo che non è af-
fatto impossibile risolvere i problemi cronologici e storici che si presentano al
lettore attento nei primi versetti del libro di Daniele.
2 Il Signore gli diede nelle mani Joiakim, re di Giuda, e una parte de-
gli utensili della casa di Dio; e Nebucadnetsar portò gli utensili nel
paese di Scinear, nella casa del suo dio, e li mise nella casa del te-
soro del suo dio.
Non fu per caso che Gioiachim cadde in potere del re di Babilonia; come tutti
gli scrittori ispirati, Daniele interpreta in chiave teologica gli avvenimenti seco-
lari. Gli utensili sacri di cui si fa menzione erano vasi metallici di varie dimen-
sioni, palette, attizzatoi ecc... (cfr. 2Cro 4:16) che i sacerdoti adoperavano per i
vari servizi del Tempio. Se Nabucodonosor ne portò via solo una parte, fu pro-
babilmente perché volle soltanto mostrare ad un vassallo poco affidabile che egli
aveva il potere di imporgli la sua sovranità. Se avesse voluto spogliare il Tempio,
nessuna autorità terrena avrebbe potuto impedirglielo.
Il paese di Scinear (cfr. Ge 11:2; Is 11:11; Za 5:11) è la Babilonide, o Caldea
ossia la pianura alluvionale delimitata a est dal Tigri e a ovest dall’Eufrate nella
Bassa Mesopotamia. La città di Babilonia, che Nabucodonosor ricostruì e rese
splendida, sorgeva sull’Eufrate nella parte alta della regione. Nel cuore della
città, entro i recinti dell’area sacra, l’Esagila, si trovavano la grande torre tem-
plare o ziggurat (l’Etemenanki) e, più a sud, il superbo tempio dedicato a Mar-
duk, la divinità suprema di Babilonia nota popolarmente anche col nome di Bel
(da un termine accadico che significa “signore”). All’inizio dei festeggiamenti per
l’anno nuovo (Akitu) il primo di Nisan, il nuovo sovrano entrava nel tempio di
Bel e stringeva le mani di Bel-Marduk; si credeva che a seguito di questo rito
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CAPITOLO 1
egli era dal dio investito dell’autorità sovrana. Da quel giorno si cominciava a
contare i suoi anni di regno.
I testi cuneiformi babilonesi menzionano frequentemente i tesori dell’Esa-
gila. Uno degli ambienti del grande complesso templare riportato alla luce dagli
archeologi deve avere custodito i tesori suddetti. Quivi Nabucodonosor deve
avere posto i sacri utensili asportati dal tempio di Yahweh in Gerusalemme.
Insieme con gli utensili sacri del Tempio, Nabucodonosor portò via da Gerusa-
lemme, forse come ostaggi, un imprecisato numero di giovani ({yidl f yº yeladîm)
appartenenti a famiglie altolocate. Il capo degli eunuchi (wyfsyirsf bar rav sarîsayu),
al quale il re conferì l’incarico di condurgli nel palazzo alcuni dei giovani giudei
deportati, era un alto funzionario del palazzo il cui ufficio corrispondeva pres-
sappoco a quello del maggiordomo. Il titolo equivale probabilmente al babilo-
nese rav sha reshi (letteralmente “il capo di colui che sta alla testa”) documentato
nei testi cuneiformi.
Il nome del funzionario, Ashpenaz, tradisce un’origine persiana. In una
forma leggermente variante, Ashpazanda, esso è stato letto nei testi di Nippur
del V secolo a.C., e nella forma Aspenaz nei testi magici aramaici pure di
Nippur31.
La presenza in Babilonia di stranieri al servizio dei Caldei durante il regno
di Nabucodonosor è documentata32. Inoltre è noto che Babilonesi e Medi - que-
sti ultimi parenti prossimi dei Persiani - furono alleati nella guerra contro l’Assiria
sul finire del secolo VII a.C. Si sa infine che degli stranieri al servizio di Babilo-
nia furono promossi a incarichi di prestigio.
Non era poco quello che si richiedeva ai candidati per essere ammessi nelle
scuole reali. Il curriculum di studi non era lieve e il servizio nel palazzo richie-
deva resistenza alla fatica. Perciò occorrevano prestanza fisica e non comuni doti
intellettuali e morali. Nel gruppo dei “figli d’Israele” deportati in Babilonia si
scelsero i giovani che possedevano questi requisiti.
L’appellativo “figli d’Israele” in quest’epoca designava i sudditi del regno di
Giuda. Il termine ebraico yeladîm non significa necessariamente “fanciulli”,
come traduce qualche versione, tale termine applicandosi a una fascia di età va-
riabile tra i dieci e i venti anni. “Giovinetti” è la traduzione che conviene meglio
qui (vedi Ec 4:13).
Daniele e i suoi tre compagni dovevano essere formati in vista di un inca-
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CAPIRE DANIELE
Come candidati della scuola reale i giovani debbono essere mantenuti a spese
della corte. Il re in persona dispone che ad essi sia corrisposta una porzione
giornaliera (path-bag) delle vivande della mensa reale e sia servito il vino della
sua cantina. L’usanza è documentata per il tardo periodo persiano del quale esi-
stono attestazioni più abbondanti che per il periodo neo-babilonese34.
L’ebraico path significa “pezzo”, “porzione”, ma la forma composta path-
bag dalla maggioranza dei commentatori è fatta derivare dal persiano antico pa-
tibaga, “cibo reale”, ovvero “cibo prelibato”35.
La durata del curriculum di studi deve essere di tre anni, un costume questo
diffuso nell’Oriente antico e attestato ancora in età cristiana36. Daniele e i suoi
compagni figurano nel novero dei savi di Babilonia (Dn. 2:12, 13) già nell’anno
secondo di Nabucodonosor (Dn. 2:1). Non esiste comunque contraddizione con
1:5 giacché in questo luogo la durata della permanenza dei giovani nella scuola
reale è calcolata secondo il metodo inclusivo in base al quale sono conteggiati
come anni interi le frazioni dell’anno iniziale e dell’anno finale di un determinato
periodo di tempo. L’educazione babilonese dei giovani ebrei cominciò nell’anno
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CAPITOLO 1
di accessione del re e fu il primo anno, proseguì per tutto il primo anno di re-
gno e fu il secondo anno, e terminò in un momento imprecisato del secondo
anno di regno di Nabucodonosor e fu il terzo anno.
Fra i giovani deportati prescelti per essere educati nella scuola reale di Babilonia
c’era un numero imprecisato di sudditi del regno di Giuda (“figli di Giuda”). Il
testo ne nomina quattro: Daniele, che sarà la figura centrale del libro, e Hanania,
Mishael e Azaria che saranno con Daniele protagonisti della parte iniziale
dell’episodio riportato nel capitolo due, e da soli della vicenda narrata nel capi-
tolo tre.
Daniele [l)¢Yné D f ] “Dio è il mio giudice”, per altri “Dio è il mio giudice”, è un
nome abbastanza comune fra i Semiti. Esso si ritrova presso i Babilonesi, i Sabei
del sud-Arabia, i Palmiregni del nord-Arabia e i Nebatei. In Israele tale nome fu
portato da un figlio di Davide (1Cro 3:1) e da un sacerdote del periodo post-esi-
lico (Ed 8:2; Ne 10:6)37. Il nome del protagonista principale del nostro libro è ri-
cordato tre volte dal profeta Ezechiele (Ez 14:14, 20 e 28:3). È puramente con-
getturale, e discutibile, l’identificazione del personaggio ricordato da Ezechiele
col leggendario re Dan’el nominato nei testi nord-cananei di Ugarit del II millen-
nio a.C.
Hanania [hæynº ná x A ] (“misericordioso è Yahweh”). È un nome che ricorre una
quindicina di volte nell’Antico Testamento, più frequentemente nei libri post-esi-
lici. Nella forma accadica Hananiyama è il nome di un giudeo vissuto a Nippur
nel V secolo a.C. Nella forma aramaica il nome è stato letto in uno dei papiri di
Elefantina (V secolo a.C.).
Mishael [l")$ f yim] (“chi è ciò che Dio è?”), è un nome piuttosto raro nell’An-
tico Testamento trovandosi solo tre volte fuori del libro di Daniele: nell’Esodo,
nel Levitico e in Nehemia.
Azaria [hæyr: zá (A ] (“Yahweh ha aiutato”), è un nome portato da ventitré perso-
naggi dell’Antico Testamento (oltre che da uno dei compagni di Daniele) fra cui
tre re di Giuda, due sommi sacerdoti e un profeta. Fuori della Bibbia il nome è
stato trovato in alcune anse di giare, e nella forma Azriau nei testi cuneiformi as-
siri, riferito a un re di Giuda.
7 e il capo degli eunuchi diede loro altri nomi: a Daniele pose nome
Beltsatsar; ad Hanania, Shadrac; a Mishael, Meshac, e ad Azaria,
Abed-nego.
Secondo una mentalità diffusa nell’Oriente antico e riscontrabile anche nel An-
tico Testamento, il nome esprime la realtà e l’essenza della persona o della cosa
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CAPIRE DANIELE
che lo porta. Nel caso di una persona ne indica anche il destino, per cui il cam-
biamento del nome comporta un mutamento della sua sorte (vedi Ge 17:4-5, 15-
16; 32:27-28). Imporre un nome a qualcuno equivale a imporgli il proprio domi-
nio. Questo probabilmente è il senso che si deve cogliere nell’imposizione di un
nome nuovo ai quattro ostaggi giudei da parte del funzionario babilonese. La
cosa può anche essere vista come un’intenzione di snazionalizzare questi stra-
nieri che dovranno servire alla corte di Babilonia.
Casi analoghi nella Bibbia si riscontrano in Ge 41:45 (Giuseppe-Tsafnath-Pa-
neach) e in Et 2:7 (Hadassa-Ester). Fuori della Bibbia ci sono noti dai testi assiri
il caso del re Tiglath Pileser III, il quale assunse il nome di Pulu quando cinse la
corona di Babilonia, e qualche altro caso.
Belteshazzar [raC)a$+ : l " ] il nome babilonese imposto a Daniele da molti è
: B
considerato traslitterazione di un nome comune in Babilonia, Balatsu-usur, “la
sua vita proteggi”, o Balat-sharri-usur, “la vita del re proteggi”. Da altri questa
tesi è respinta, giacché Nabucodonosor fa derivare il nome babilonese di Da-
niele dal nome del suo dio Bel (Dn 4: 8). Da questi autori più disposti a ricono-
scere il valore storico di Daniele (H.Leopold, D.J.Wiseman, S.H.Horn) si condi-
vide la tesi che il nuovo nome di Daniele sia fatto derivare, per contrazione,
dall’accadico Bel-balatsu-usur, “Bel la sua vita (del re) proteggi”, col nome della
divinità pagana omesso per evitare di offendere un pio giudeo col nome di una
divinità a lui estranea. È la tesi che soddisfa di più.
Shadrac [\ard a ] il nuovo nome imposto ad Hanania, è di oscura etimolo-
: $
gia. È improbabile che sia corruzione di Marduk, il nome della suprema divinità
di Babilonia, o di Shutruk, il nome di una divinità elamitica, come da alcuni è
stato proposto. Né è certo che derivi dall’accadico Shudur-aku, “comando di
Aku”, divinità lunare sumerica (H.Leupold, G.Sarrò). Per alcuni Shadrac sembra
riflettere un nome babilonese attestato nelle fonti cuneiformi, Mishaaku, proba-
bilmente “Chi è come (il dio) Aku?” (Intenational Standard Bible Encycl.).
Meshac [\a$y"m] è il secondo nome di Mishael; non è documentato nei testi
babilonesi. L’etimologia è assai incerta. D.J.Wiseman pensa a un probabile ara-
maismo ibrido, mi-sha, “chi è costui?” costruito a somiglianza del nome ebraico
(“che è ciò che Dio è?”). Altri (H.Leupold, J.Carreras, G.Rinaldi) ipotizzano una
derivazione ibrida da Mi-sha-aku, “chi è ciò che è (il dio) Aku? ”.
Abed-nego [Ogºn d"b(A ] è il nome imposto ad Azaria; è sconosciuto alle fonti
cuneiformi note. Generalmente lo si accosta all’accadico Arad-nebo, “servo di
Nebo” (il dio babilonese della sapienza), con intenzionale alterazione di Nebo in
Nego per evitare di associare una divinità babilonese al nome di un pio figlio
d’Israele.
I giovani ebrei debbono fare i conti con una terza e più pericolosa intromissione
del potere dispotico della corte nella loro vita privata, dopo l’educazione babilo-
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CAPIRE DANIELE
Daniele non disarma di fronte al timore e alla titubanza dell’alto funzionario alle
cui cure lui e i suoi compagni sono affidati. Rivolgerà la stessa richiesta a un fun-
zionario subalterno. L’ebraico melzar, che Luzzi traduce “maggiordomo” e Ri-
naldi “sorvegliante”, è fatto derivare dall’accadico mazzaru, “economo”, “dispen-
siere”.
Meno che formulare una richiesta, Daniele propone una sorta di esperi-
mento per un periodo limitato di tempo, solo dieci giorni, e stavolta vi coinvolge
i compagni: “Ci siamo dati de’ legumi ({yi(or¢Zah hazzero‘îm) per mangiare e
dell’acqua per bere. Letteralmente l’ebraico zero‘îm significa: “cose seminate”,
comprende i cereali e i legumi ma anche i vegetali freschi (vedi Is 61:11). “Se-
condo la tradizione giudaica il termine comprende anche le bacche e i datteri. E
poiché i datteri costituiscono il principale prodotto alimentare della Mesopota-
mia, è verosimile che questo frutto debba qui essere incluso”38.
Al termine dell’esperimento - propone ancora Daniele - si faccia un con-
fronto coi giovani che consumano i pasti della mensa reale: l’economo deciderà
sulla base del risultato se dovrà sospendere la loro dieta frugale o se potrà pro-
lungarla indefinitamente (“secondo quello che vedrai, ti regolerai coi tuoi servi”).
Evidentemente Daniele ripone una fiducia quasi illimitata nell’esito felice della
prova, in parte per la sua fede in Dio, in parte come risultato di un’esperienza
vissuta in prima persona.
La proposta non comporta rischi: in un lasso di tempo così breve gli effetti nega-
tivi sullo stato di salute dei giovani di un regime alimentare strettamente vegeta-
riano saranno appena percettibili, comunque sufficientemente avvertibili perché
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15 E alla fine de’ dieci giorni, essi avevano migliore aspetto ed erano
più grassi di tutti i giovani che aveano mangiato le vivande del re. 16
Così il maggiordomo portò via il cibo e il vino ch’eran loro destinati,
e dette loro de’ legumi.
Certo non senza meraviglia l’economo deve constatare, allo scadere dei dieci
giorni, che il risultato della prova è stato tale da dare pienamente ragione ai gio-
vani stranieri. Il loro ricupero fisico dopo le fatiche e i disagi del lungo viaggio
dalla Giudea fino a Babilonia è stato sorprendentemente rapido, come si vede
chiaramente dall’aspetto florido delle loro persone. È stato più rapido che per i
giovani nutriti coi cibi prelibati della mensa reale.
“Dio onorò questi giovani per il loro fermo proposito di fare ciò che è giu-
sto. L’approvazione divina era a loro più cara dei favori dei più potenti signori di
questo mondo, più cara, persino, della loro vita. Né la loro ferma risoluzione
nacque sotto la pressione di circostanze repentine. Fin dalla fanciullezza questi
giovani erano stati educati secondo rigorosi principi di temperanza.
Essi non ignoravano gli effetti nocivi di una dieta malsana e da lungo
tempo avevano deciso di non indebolire le loro energie fisiche e mentali con
l’indulgere all’appetito”39. Dal testo non è chiaro se l’economo prendesse per sé
le vivande e il vino destinati ai giovani oppure li riponesse nella dispensa del
palazzo. La forma grammaticale dell’ebraico si adatta ad esprimere una sistema-
zione permanente40. Daniele e i suoi compagni potranno d’ora in poi tranquilla-
mente attenersi alle regole alimentari prescritte dalla legge di Dio.
L’avere scelto di attenersi senza esitazioni e cedimenti alla legge di Dio, ha reso
approvati davanti a Lui i quattro giovani ebrei, e i favori speciali del cielo non si
sono fatti attendere.
Non solo la floridezza della loro salute e del loro aspetto fisico, ma anche
l’eccellenza del loro vigore intellettuale è apparsa evidente a tutti. Commenta
H.Leupold: “I doni singoli compresi in questo dono maggiore elargito da Dio
39 - Ibidem.
40 - H.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 72.
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CAPIRE DANIELE
18 E alla fine del tempo fissato dal re perché quei giovani gli fossero
menati, il capo degli eunuchi li presentò a Nebucadnetsar. 19 Il re
parlò con loro; e fra tutti quei giovani non se ne trovò alcuno che
fosse come Daniele, Hanania, Mishael e Azaria; e questi furono am-
messi al servizio del re.
I giorni fissati dal re nell’arco dei quali doveva essere impartita ai selezionati pri-
gionieri giudei un’educazione babilonese sono trascorsi, e così come il sovrano
aveva disposto (v. 5) essi debbono ora essere assunti al suo servizio.
Prima però dovrà essere saggiato il loro curriculum culturale, ed è per que-
sto che il capo degli eunuchi li conduce in presenza del sovrano. Dal colloquio
che Nabucodonosor ha con Daniele, Hanania, Mishael e Azaria risulta evidente
la superiorità culturale dei giovani ebrei sui loro coetanei di altre stirpi.
41 - Ibidem, p. 73.
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CAPIRE DANIELE
scienza nel vero senso della parola. Così come nel Medioevo uomini realmente
eruditi praticavano l’alchimia e astronomi che per altri versi lavoravano scientifi-
camente e traevano oroscopi, gli esorcisti e gli indovini dell’antichità erano an-
che dediti allo studio di discipline strettamente scientifiche. Le loro conoscenze
astronomiche avevano raggiunto un grado di sviluppo sorprendentemente ele-
vato, per quanto l’astronomia babilonese pervenisse al livello più alto dopo la
conquista persiana. Gli astronomi di Babilonia erano in grado di predire me-
diante il calcolo le eclissi di luna e di sole ed era notevole la loro abilità nel
campo della matematica. Essi adoperavano formule la cui scoperta è general-
mente, ed erroneamente, attribuita ai matematici greci. Erano inoltre buoni archi-
tetti e costruttori, nonché medici accettabili che con metodi empirici curavano
non poche malattie. Deve essere stato in questi campi dello scibile che Daniele
e i suoi tre compagni eccelsero in conoscenza e capacità sui maghi, gli astrologi
e i sapienti di Babilonia”46.
I Greci “non costruirono dal nulla il loro concetto di scienza da noi eredi-
tato, ma furono tributari sia su questo punto capitale sia su molti altri, degli anti-
chi Mesopotamici”47.
L’anno primo di Ciro è l’anno della caduta di Babilonia, il 539 a.C. Probabil-
mente Daniele vuol far sapere ai suoi lettori che egli visse durante tutto il tempo
dell’esilio, cominciato appunto con la sua deportazione nel 605 a.C. L’anno
primo di Ciro comunque non segna il limite estremo della durata della vita di
Daniele giacché egli vive ancora nell’anno terzo di Ciro, il 537 a.C. (Dn 10:1).
Altrove (Dn 6:28) si dice che “Daniele prosperò sotto il regno di Dario, e
sotto il regno di Ciro, il Persiano”. Dal capitolo 6 veniamo a sapere che Daniele
non solo non è stato deposto dal suo incarico ufficiale dopo la caduta della di-
nastia caldea, ma che il nuovo signore di Babilonia pensa addirittura di promuo-
verlo ad un più alto incarico (v. 3).
Il regno, o meglio il governatorato di Dario il Medo (la cui identità storica
sarà discussa più avanti), deve essere stato assai breve, se Daniele in 10:1 pone
l’ultima visione sotto il regno di Ciro e non più sotto il regno di Dario come
aveva fatto (per la visione di 9:1). Il servizio di Daniele alla corte persiana di Ba-
bilonia all’inizio del regno di Ciro, a cui sembra alludere Dn 6:28, deve essere
stato di breve durata. Comunque il profeta visse abbastanza sotto l’amministra-
zione persiana (come minimo due anni) perché sia spiegabile l’uso di vocaboli
persiani nel suo libro48.
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Capitolo 2
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49 - GEORGES CONTENAU, La Civiltà degli Assiri e dei Babilonesi, Ginevra 1976, p. 141.
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CAPIRE DANIELE
Nabucodonosor convoca nel suo palazzo gli indovini perché gli spieghino i so-
gni (tOmolx
A chalomôth) che lo hanno turbato; nel v. 3 si dice però che il re vuole
comprendere il sogno, al singolare (chalom).
Nabucodonosor deve avere avuto vari sogni, ma uno in modo particolare
deve avere colpito la sua immaginazione. Nel racconto si rispecchia con reali-
smo lo spirito religioso dell’antica Mesopotamia, una terra dove la divinazione in
tutte le sue forme, e specialmente nella forma oniromantica (vedi sopra) è stata
sempre in grande voga. Il Mesopotamico è convinto che gli dèi possono man-
dare agli uomini, attraverso canali diversi, avvertimenti e premonizioni e che la
divinazione è il mezzo per venirne a conoscenza52.
L’esercizio delle pratiche divinatorie in quest’area dell’Oriente antico è atte-
stato ininterrottamente dagli inizi del secondo millennio a.C. fino all’epoca seleu-
cidica.
Sono numerosi i testi cuneiformi che ne fanno fede. Si conoscono più di un
centinaio di “trattati” divinatori con oltre trentamila oracoli53. La divinazione ha
poi un ruolo di primo piano negli affari di stato. “Nessuna decisione importante
- citiamo ancora il prof. Contenau - era presa senza che il re interrogasse gli in-
dovini”54. Questi prestigiosi personaggi costituiscono una sorta di corporazione
al servizio del re. “Gli indovini regali sono addetti a ogni specie di interpreta-
50 - Idem, p. 153.
51 - Idem, p. 139.
52 - Vedi G.CONTENAU, ibidem, p. 138.
53 - Vedi JEAN BATTÉRO, Mesopotamia, p. 134.
54 - La Mesopotamia prima di Alessandro, p. 320
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CAPITOLO 2
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CAPIRE DANIELE
Bassa Mesopotamia, i Caldei, sul finire del VII secolo a.C., con Nabopolassar oc-
cuparono Babilonia e fondarono la dinastia neo-babilonese di cui Nabucodono-
sor II, figlio e successore di Nabopolassar, fu il rappresentante più illustre. I Cal-
dei e i Medi, alleatisi insieme, attaccarono il decadente impero assiro nel 614
a.C. e due anni dopo presero e distrussero la capitale Ninive.
Nall’Antico Testamento “caldei” come designazione etnica si trova sia nei li-
bri storici (2Re 25:6, 10; 2Cro 36:19; Ed 5:12) sia nei profeti dei periodi assiro (Is
23:13, ecc...) e babilonese (Gr 52:12, ecc.; Ez 12:13, ecc...). Daniele conosce que-
sta accezione corrente del termine (Dn 1:4; 9:1), tuttavia, unico fra gli scrittori bi-
blici, usa il vocabolo anche come denominazione di una categoria sociale (Dn
2:2; 4:7,10; 5:7,11). “Caldei” con questo significato, fuori del libro di Daniele, è
documentato per la prima volta negli scritti di Erodoto (circa 450 a.C.)59. Lo scrit-
tore greco parla dei “caldei” come di una casta sacerdotale babilonese. Circa
quattro secoli più tardi usano il sostantivo “caldei” come designazione sociale
due altri storiografi greci, Strabone e Diodoro Siculo.
Per spiegare l’origine di questa seconda accezione del termine il S.D.A. Bi-
ble Commentary avanza l’ipotesi assai verosimile che i Caldei quando conqui-
starono Babilonia occupassero gli incarichi ufficiali di maggior prestigio, com-
preso il sacerdozio, così che la denominazione etnica finisse per designare l’uffi-
cio sacerdotale con le attività divinatorie accessorie60.
“Con l’introduzione crescente dell’aramaico ‘Caldei’ divenne un termine per
designare i ‘maghi, gli incantatori e gli indovini’, dato che questi aspetti dei testi
religiosi babilonesi sopravvissero più a lungo nell’immaginazione popolare”61.
R.W. Wilson, citato da H.C.Leupold62, accosta l’aramaico kasday’ all’acca-
dico galdu, un termine che ricorre spesso nei testi di Babilonia come designa-
zione di una categoria di funzionari addetti al controllo dei progetti pubblici e
nelle cui mansioni dovevano rientrare anche l’astrologia e altre pratiche divinato-
rie, dato che simili progetti non venivano intrapresi o inaugurati in Babilonia
senza il responso favorevole dei pronosticatori.
Secondo le credenze dei Mesopotamici, numerosi erano i canali attraverso i
quali le divinità potevano comunicare con gli uomini, perciò erano altrettanto
numerose le pratiche divinatorie destinate a cogliere e interpretare le presunte ri-
velazioni divine.
I presagi potevano essere tratti dai sogni (oniromanzia), dalle stelle (astro-
logia), dal fegato delle vittime sacrificate (epatoscopia), dal volo degli uccelli (or-
nitomanzia), dalla direzione di caduta di una freccia dalla feretra scossa (belo-
manzia), dalle gocce d’olio lasciate cadere in un bacino d’acqua
(lecanomanzia), dai movimenti istintivi di individui sani e malati (palmomantica
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CAPITOLO 2
Fino alla drammatica conclusione del concitato scontro verbale, gli interlocutori
del re sono i Caldei. Essi parlano a nome di tutti perché evidentemente sono il
gruppo più rappresentativo. I Caldei dicono al re in aramaico di descrivere il so-
gno e si dichiarano pronti a darne l’interpretazione. Molti commentatori moderni
considerano le parole “in aramaico” una glossa, cioè una nota posta in margine
al testo da un ignoto copista e che un copista posteriore avrebbe inavvertita-
mente introdotto nel testo.
L’avvertenza che da quel punto i Caldei avrebbero parlato in aramaico ci
sembra talmente futile che non ce la sentiamo di condividere l’ipotesi della
glossa. Qualunque lettore si sarebbe reso conto da sé del cambiamento di lin-
gua. Per di più non solo il discorso dei Caldei, ma l’intero testo del libro prose-
gue in aramaico sino alla fine del capitolo settimo. Ci pare più logico pensare
che i Caldei parlano al re in aramaico invece che in babilonese - la lingua della
popolazione autoctona - perché l’aramaico è la lingua originaria della famiglia
reale e della classe dirigente, l’una e l’altra di stirpe caldea come sappiamo.
La frase: “O re, possa tu vivere in perpetuo!” è un saluto augurale in uso
nelle antiche corti orientali. La formula è attestata altrove nella Bibbia e in Da-
niele stesso (cfr. 1Re 1:39; Ne 2:3; Dn 3:10; 6:6,21) e anche fuori della Bibbia: un
saluto formulato in termini molto simili si è trovato nei testi babilonesi contem-
poranei: “Possano Nabu e Marduk concedere al re mio signore lunghi giorni e
anni interminabili”.
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CAPIRE DANIELE
che i particolari del sogno sono svaniti dalla mente di Nabucodonosor, una cir-
costanza che pare essere in armonia col tenore generale del racconto. I moderni,
leggendo con la maggior parte delle versioni contemporanee ’azda’ come agget-
tivo (“certo”, “sicuro”), pensano che Nabucodonosor celasse di proposito il so-
gno ai Caldei per saggiarne le capacità divinatorie.
Il re è irremovibile nell’esigere che gli indovini gli descrivano i particolari
del sogno che si sono dileguati nella sua memoria. Per noi moderni è una pre-
tesa assurda, non lo è per un despota orientale del sesto secolo a.C., tanto più
che i suoi indovini vantano poteri che consentono loro di penetrare misteri
profondi.
Se costoro falliranno, la loro punizione sarà delle più crudeli: i loro corpi
saranno smembrati (in aramaico }yimD a haddamîn, “pezzi”, “frammenti”) e le loro
f h
abitazioni saranno demolite e ridotte in letamai. I tiranni orientali erano capaci di
simili atrocità (cfr. 2Maccabei 1:16). Il re assiro Assurbanipal si vanta nelle sue
iscrizioni di avere fatto tagliare a pezzi i principi vassalli che gli si sono ribellati.
Il despota babilonese alterna minacce agghiaccianti e promesse allettanti: i
Caldei e i loro colleghi saranno ricompensati con regale munificenza se si deci-
deranno a descrivergli il sogno prima di dargliene l’interpretazione.
55
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CAPITOLO 2
egli saprà che essi sono sinceri e che l’interpretazione che ne daranno sarà
conforme a verità.
A nulla è valsa l’abilità dialettica dei caldei: il re è inflessibile, per loro e per i
loro colleghi non c’è scampo. La collera montante del sovrano è descritta con ef-
ficacia mediante due proposizioni di cui la seconda rafforza la prima: “e il re
s’adirò, montò in furia”. Nella sua ira implacabile Nabucodonosor ordina che
siano messi a morte tutti i sapienti di Babilonia (per la prima volta sono chiamati
“sapienti” - aramaico y"myiKx
a chakîmê - i professionisti della divinazione).
Il re promulga seduta stante il decreto che sentenzia la morte di tutti i sa-
pienti di Babilonia: da monarca assoluto, egli esercita un potere illimitato che
niente e nessuno è in grado di contrastare. Difficile dire se la sentenza riguardi
solo gli indovini residenti nella città o se coinvolge anche quelli dispersi nella
provincia, Babel essendo designazione tanto dell’una che dell’altra.
La proposizione subordinata: “e i savi dovevano essere uccisi” (Luzzi), è
resa da altri: “e i savi erano uccisi” (Diodati), “e già i saggi venivano uccisi” (Ver-
sione CEI). L’aramaico consente quest’ultima traduzione, tuttavia dal confronto
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CAPIRE DANIELE
con altri casi di proposizioni coordinate nel testo aramaico di Daniele nelle quali
è presente un rapporto di subordinazione, si può evincere che la prima tradu-
zione è migliore della seconda64.
Daniele e i suoi amici alla fine dei tre anni di studio nella scuola reale sono stati
ammessi al servizio del re (Dn 1:19). Se ora li si cerca per metterli a morte in-
sieme coi sapienti di Babilonia vuol dire che essi fanno parte della categoria.
Questo in ogni caso non implica che essi pratichino l’esorcismo e la divinazione
(dei fedeli israeliti affronterebbero la morte piuttosto che scendere a patti col pa-
ganesimo, vedi Dn 3:16-18).
Nella scuola reale Daniele e i suoi compagni hanno acquisito la conoscenza
della lingua e della letteratura dei Caldei (Dn 1:4), Caldei essendo qui designa-
zione di nazionalità, non di ufficio. A proposito della cultura di questo popolo, il
Prof. D.J.Wiseman spiega: “I Caldei mantennero le scuole tradizionali babilonesi
in Babilonia, Borsippa, Sippar, Uruk e Ur. In queste scuole la ‘letteratura dei Cal-
dei’ (Dn 1:4; 2:2; 4:7; 5:7,11) comprendeva lo studio delle lingue sumerica, acca-
dica e aramaica (già ‘caldaica’) e di altre lingue ancora, nonché delle vaste let-
terature in queste lingue.
Facevano parte del curriculum specializzato la storiografia, l’astronomia, la
matematica e le medicina”65. Se i quattro giovani ebrei non sono stati convocati
nel palazzo insieme con i sapienti, è stato perché, pur facendo parte della cate-
goria, essi sono ancora dei novizi. Il re ha voluto sollecitare il responso dei rap-
presentanti più autorevoli della cultura magica e divinatoria.
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CAPITOLO 2
ignora il motivo. Perciò domanda una spiegazione ad Arioc “ufficiale del re” (in
aramaico) )fKl
: m a shallîta’ dî-malka’, un attributo che sottolinea il potere
a -yid )f+yiL$
eccezionale di cui l’alto funzionario è rivestito). L’aramaico hfpc : x
: h : mehachzfah
a m
giustamente è tradotto “perentorio”, che è più che “urgente”. In sostanza Daniele
vuole sapere perché il decreto del re non ammette dilazione. Arioc, col quale
probabilmente il profeta intrattiene un buon rapporto di amicizia, fornisce al suo
interlocutore la spiegazione richiesta e verosimilmente, fidando nella capacità di
Daniele di sciogliere l’enigma del re, sospende l’esecuzione dei savi di Babilonia.
16 E Daniele entrò dal re, e gli chiese di dargli tempo; che avrebbe
fatto conoscere al re l’interpretazione del sogno.
17 Allora Daniele andò a casa sua, e informò della cosa Hanania, Mi-
shael e Azaria, suoi compagni, 18 perché implorassero la misericordia
dell’Iddio del cielo, a proposito di questo segreto, onde Daniele e i suoi
compagni non fossero messi a morte col resto dei savi di Babilonia.
I quattro giovani giudei fanno parte della categoria sociale sulla quale grava
come una spada di Damocle la spietata sentenza di Nabucodonosor. Il pensiero
del giovane profeta si volge all’“Iddio del cielo” da cui soltanto può venire la sal-
vezza. Daniele è certo che l’Iddio del cielo risponderà alle preghiere sue e dei
suoi compagni, come avrebbe potuto altrimenti farsi introdurre alla presenza del
re e dichiarargli in termini perentori che gli avrebbe svelato il sogno?
Non per questo però reputa superfluo cercare nella preghiera l’aiuto di Dio.
Per quanto Daniele e i suoi compagni nella corte pagana abbiano sempre ono-
rato la loro fede con una condotta limpida e senza mai scendere a compromessi
col paganesimo (cfr. 1:8, 11-12), essi non pensano affatto di avere per questo dei
meriti personali da far valere davanti a Dio.
Come è nel suo stile (cfr. 9:18), Daniele si affida soltanto alla misericordia
dell’Iddio del cielo (l’espressione “Iddio del cielo” suona polemica nei confronti
della religione astrale babilonese). Daniele dice candidamente e onestamente
58
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CAPIRE DANIELE
che è per avere salva la vita che lui e i suoi amici domandano a Dio di rivelare
loro il segreto che Nabucodonosor vuole conoscere. Non è viltà per un uomo
retto cercare di scampare alla morte quando non sia messa in gioco la fedeltà a
Dio e alla sua legge. La vita dei figli di Dio è servizio e missione: accettarne su-
pinamente il sacrificio quando non sia necessario farebbe soltanto il gioco del
nemico dell’Iddio del cielo perché la sua opera sulla terra sarebbe privata di
energie e talenti di cui essa ha tanto bisogno.
La rivelazione che Daniele riceve in una visione notturna è la risposta alla pre-
ghiera sua e dei suoi compagni. La visione (in aramaico )æw: zehB
: bechezwah, forma
enfatica di chezû, corrispondente all’ebraico chazôn) è la via per la quale il Si-
gnore si rivela ai profeti del suo popolo.
Il sogno (in aramaico chalôm) è una via di rivelazione divina secondaria at-
traverso la quale Dio talvolta fa pervenire avvertimenti e premonizioni a uomini
alieni dal suo popolo. Daniele non dimentica di ringraziare Dio dopo avere rice-
vuto quanto aveva domandato a Lui in preghiera.
Questa pericope in versi è stata definita “il salmo di Daniele”66. In effetti sia la
forma letteraria che il tenore del contenuto fanno pensare a un salmo laudativo.
Dalle analogie con espressioni poetiche parallele nel salterio, in Giobbe e in
Isaia, l’autore citato sopra deduce una vasta conoscenza delle Scritture da parte
di Daniele.
In questa bella preghiera il profeta anzitutto benedice il nome di Dio
()fhl
f ) : shemeh dî-’elaha’). Il nome tra i Semiti sta per la persona che lo
E -yiD H"m$
porta. Jahvé è il sacro Nome col quale Dio si è rivelato ai padri per mezzo di
Mosè (Es 3:15), il Nome ineffabile che esprime la totale alterità e atemporalità
del Dio d’Israele. A Lui Daniele ascrive gli attributi della sapienza e della forza e
riconosce il potere di mutare tempi e stagioni (“tempi”, )æYná Df (i ‘iddanayya’ equi-
vale probabilmente ad anni, “stagioni”, )æYná m
: zé zimnayya’, a periodi di più breve
durata). “In questa espressione - nota Montgomery citato da Leupold - c’è una
59
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CAPITOLO 2
25 Allora Arioc menò in tutta fretta Daniele davanti al re, e gli parlò
così: “Io ha trovato, fra i Giudei che sono in cattività, un uomo che
darà al re l’interpretazione”.
60
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CAPIRE DANIELE
La fretta (hflhf B
: t
: h : behithbehalah) con cui Arioc conduce Daniele dal re è moti-
i B
vata dalla contentezza che sia stato scoperto il segreto che preme al sovrano,
come suppone il S.D.A. Bible Commentary, oppure dal fatto che incombe una
scadenza improrogabile, forse la dilazione che il re ha concesso a Daniele (v.
16)? A noi sembra più probabile questa seconda ipotesi.
Se essa è corretta, si può immaginare con quanto sollievo Arioc possa avere
accolto la richiesta dell’esule giudeo. Una carneficina, che oltretutto coinvolge gli
uomini più illustri del paese e forse anche degli amici personali del capo della
guardia non deve essere un compito facile neppure per un uomo duro e abi-
tuato a ubbidire ciecamente come quest’ultimo.
Arioc vuole avere un ruolo di protagonista nella drammatica vicenda: si at-
tribuisce il merito di avere scoperto lui fra i Giudei deportati in Babilonia, un
uomo che potrà svelare il segreto del re. Il dettaglio sembra incongruente. Infatti
Nabucodonosor sa che questo giudeo gli fornirà l’interpretazione del sogno (v.
16). L’incongruenza comunque cade se si ammette che Arioc possa avere igno-
rato tale circostanza.
Il v. 16, come si è visto, sottintende che qualcuno abbia introdotto Daniele
in presenza del sovrano la prima volta, ma questi può non essere stato il capo
della guardia del re.
Il nome originario del profeta evoca le sue radici giudaiche, il nome babilonese
ricorda realisticamente che egli è sottoposto alla sovranità ed è al servizio del re
di Babilonia.
Sorvolando i preliminari, Nabucodonosor menziona subito il problema che
lo assilla: “Sei tu capace di farmi conoscere il sogno...?” La domanda sembra sug-
gerire in primo luogo che la rivelazione del sogno prema al re quanto la sua in-
terpretazione se non più, secondariamente che Nabucodonosor sia tuttora con-
vinto che un uomo dotato di vere virtù divinatorie debba essere capace di indo-
vinare il sogno di un altro uomo (“Sei tu capace...?”), e infine che un’ombra di
scetticismo attenui le aspettative del re, cosa peraltro comprensibile dopo il falli-
mento dei celebrati sapienti di Babilonia.
27 Daniele rispose in presenza del re, e disse: “Il segreto che il re do-
manda, né savi, né incantatori, né magi, né astrologi possono sve-
larlo al re; 28 ma v’è nel cielo un Dio che rivela i segreti, ed egli ha
fatto conoscere al re Nebucadnetsar quello che avverrà negli ultimi
giorni...
“Daniele rispose in presenza del re...”. Colui alla cui presenza è stato condotto
questo deportato giudeo, e alla cui domanda deve adesso rispondere, non è un
mortale qualunque, è il re di Babilonia, il potente signore che domina su una va-
61
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CAPITOLO 2
sta area del mondo abitato (cfr. v. 38), il despota crudele che dispone a suo ta-
lento della vita e della morte dei suoi sudditi (cfr. v. 12).
Al contrario dell’interpellante, che viene subito al sodo, l’interpellato esordi-
sce con un breve preambolo. Le parole introduttive del profeta tradiscono la sua
preoccupazione dominante che è di rendere onore e gloria all’Iddio Unico da-
vanti a questo dominatore pagano la cui visione religiosa è popolata di una mol-
titudine di divinità.
Prima di tutto Daniele dichiara la totale impotenza umana di fronte alla ri-
chiesta del re, preparando in tal modo il terreno per la glorificazione di Dio: “Il
segreto che il re domanda, né savi, né incantatori, né magi, né astrologi possono
svelarlo al re”. Alle categorie di indovini già menzionate (v. 2) se ne aggiunge
una nuova, quella dei gazrîn, termine che viene correttamente tradotto “astro-
logi” (vedi il commento ai vv. 2 e 3).
La premessa ha aperto la via ad un’affermazione ardita che occupa il centro
dei pensieri di Daniele: “v’è nel cielo un Dio che rivela i segreti…”
Quello che Daniele ha detto fin qui in sostanza non differisce da quello che
avevano detto i Caldei. Costoro infatti avevano dichiarato: “Non c’è uomo sulla
terra che possa far conoscere quello che il re domanda tranne gli dèi la cui di-
mora non è fra i mortali” (vv. 10,11). La sola differenza - e non certo di poco
conto - sta nella contrapposizione radicale tra la visione monoteistica di Daniele
(“un Dio”) e la concezione politeistica degli indovini pagani (“gli dèi”).
Daniele, dunque, ha sostanzialmente ribadito un concetto già noto a Nabu-
codonosor, un concetto che aveva eccitato l’ira violenta del re (v. 12). Ma adesso
giunge la rivelazione che appagherà la sua aspettativa. L’Iddio del cielo che ri-
vela i segreti “ha fatto conoscere al re Nebucadnetsar quello che avverrà negli
ultimi giorni”. L’espressione aramaica )æYm a Oy tyirx
A ) : be‘acharîth yomayya‘ indica
a B
lo scadere di un periodo futuro di tempo la cui estensione sarà determinata dalla
successione degli eventi rivelati nel sogno.
Non Bel-Marduk, il signore supremo del pantheon babilonese, non suo fi-
glio Nebo, il dio della scienza il cui nome è incorporato nel nome del re, ma l’Id-
dio del cielo, il vero e unico conoscitore dei segreti, è Quegli che ha voluto far
conoscere al re Nabucodonosor il corso futuro degli eventi fino alla consuma-
zione dei secoli (è già delineato il significato fondamentale della rivelazione).
28b ... Ecco quali erano il tuo sogno e le visioni della tua mente
quand’eri a letto. 29 I tuoi pensieri, o re, quand’eri a letto, si riferi-
vano a quello che deve avvenire da ora innanzi; e colui che rivela i
segreti t’ha fatto conoscere quello che avverrà.
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CAPIRE DANIELE
dere sonno e i suoi pensieri vagavano nell’oscurità impenetrabile che cela agli
uomini il futuro. Con un seguito di rapide e fortunate campagne militari, il so-
vrano della nuova Babilonia ha creato un impero che si estende dalle rive del
Golfo Persico alle sponde del Mediterraneo e raccoglie entro i suoi confini etnie
differenziate per linguaggi e tradizioni culturali e religiose.
Quanto a Babilonia, egli ha in mente progetti ambiziosi per farne la metro-
poli più splendida del mondo. Ma quali sorprese riserba il futuro immediato? E
quale sorte sarà riservata al vasto impero e alla sua superba capitale dopo di lui?
L’Iddio del cielo, sconosciuto a Nabucodonosor ma che Daniele serve e adora, si
è degnato di far conoscere al re tutto questo e ancora più di questo. Lo ha fatto
per una via che tocca particolarmente la sensibilità del re come di ogni mesopo-
tamico: il sogno.
Una forma oscura di rivelazione, sicuramente, ma appunto per questo tale
da richiedere l’intervento dei professionisti della divinazione, col risultato, impre-
vedibile per Nabucodonosor, che si paleseranno da una parte l’impotenza degli
indovini pagani e quindi delle divinità che essi evocano, e dall’altra l’illumina-
zione di Daniele e conseguentemente il potere del Dio che egli serve.
30 E quanto a me, questo segreto m’è stato rivelato, non per una sa-
pienza ch’io possegga superiore a quella di tutti gli altri viventi, ma
perché l’interpretazione ne sia data al re, e tu possa conoscere quel
che preoccupava il tuo cuore.
Con umiltà e onestà Daniele mette da parte la sua persona e di nuovo glorifica
pur senza nominarlo l’Iddio del cielo che ha risposto all’invocazione sua e dei
suoi compagni.
Se egli conosce il segreto del re - dice Daniele in perfetta coerenza con
quanto aveva premesso al v. 27 - è perché gli è stato rivelato, e non perché egli
sia in possesso di una sapienza che sopravanzi ogni umana conoscenza.
Il segreto gli è stato rivelato al solo scopo di far conoscere al re Nabucodo-
nosor la giusta interpretazione del sogno e con esso la risposta del cielo agli in-
terrogativi che lo avevano turbato prima di addormentarsi.
Nel sogno era parso a Nabucodonosor che una statua di smisurata grandezza si
ergesse davanti a lui. L’imponenza della figura plastica è enfatizzata dall’inter-
prete con un duplice riferimento alla sua dimensione: “una grande statua”
()yiGa& dax {"l:c tzelem chad sagghî’), e: “questa statua che era immensa”
(bar }"KD
i )fml a tzalma’ diken rav). Abbaglianti riflessi metallici conferivano alla gi-
: c
gantesca figura un aspetto se possibile ancor più terrificante. Si può immaginare
lo stupore ammirato del sovrano mentre Daniele gli descrive con precisione il
sogno che era svanito dalla sua mente.
63
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CAPITOLO 2
32 La testa di questa statua era d’oro fino; il suo petto e le sue brac-
cia eran d’argento; il suo ventre e le sue cosce, di rame; 33 le sue
gambe, di ferro; i suoi piedi, in parte di ferro e in parte d’argilla.
La scena, finora statica, d’un colpo si fa movimentata. Una pietra non mossa da
mano umana si stacca da un monte che fiancheggia la statua e va a colpirla nella
parte più fragile. Immediatamente il colosso, che pareva indistruttibile, si afflo-
scia su se stesso riducendosi in minuti frammenti d’oro, d’argento, di bronzo, di
ferro e di terracotta subito dispersi dal vento. La totale sparizione dei frammenti
è sottolineata con l’espressione: “non se ne trovò più traccia” (letteralmente “non
si trovò più posto per essi”).
Il sasso che provocò tanto sfacelo crebbe a dismisura fino a diventare una
montagna grande quanto la terra (la “terra”, )f(r a ’ar‘a’ in aramaico, è l’area cir-
: )
costante la statua che il soggetto sognante poteva abbracciare con lo sguardo).
I metalli (v. 35) sono nominati in ordine inverso rispetto ai vv. 32 e 33 per-
ché la statua comincia a disintegrarsi dal basso, dove la pietra l’ha colpita.
64
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CAPIRE DANIELE
Proprio come il re aveva voluto, Daniele distingue nettamente il sogno dalla sua
interpretazione: prima descrive la scena, poi la interpreta. Nabucodonosor sem-
bra convinto che la capacità di svelare il sogno garantisca la giustezza della sua
interpretazione (vedi v. 9 u.p.).
La forma plurale del verbo: “ne daremo l’interpretazione”, esprime l’umiltà
di Daniele che ha voluto dividere coi compagni quello che il re avrebbe consi-
derato come un merito eccezionale. In fondo la rivelazione del segreto che Da-
niele aveva ricevuto in visione (vv. 17, 18) era stata la risposta del Cielo alla pre-
ghiera sua e dei suoi compagni.
37 Tu, o re, sei il re dei re, al quale l’Iddio del cielo ha dato l’impero,
la potenza, la forza e la gloria; 38 e dovunque dimorano i figlioli degli
uomini, le bestie della compagna e gli uccelli del cielo, egli te li ha dati
nelle mani, e t’ha fatto dominare sopra essi tutti. La testa d’oro sei tu.
“Tu, o re, sei il re dei re”. Con questo superlativo aramaico Daniele ha voluto
esprimere la deferenza dovuta a un grande monarca, non certo un complimento
adulatorio.
Del resto questo titolo, che anche Ezechiele riconosce al re di Babilonia (Ez
26:7), si addice bene a Nabucodonosor.
Nel contesto politico dell’epoca, nessun sovrano ha potuto rivaleggiare col
signore di Babilonia, nessun regno ha potuto eguagliare il suo per potenza e
splendore. Tutto questo però non era soltanto né primariamente il risultato di
fattori puramente umani.
È stato l’Iddio del cielo - l’Iddio che ha voluto rivelare a Nabucodonosor il
gran “segreto”- che gli ha conferito l’impero (cioè la sovranità, l’autorità regale),
la potenza (vale a dire la capacità di governare), la forza (ovvero l’energia con
cui far fronte ai problemi esterni) e la gloria (ossia il prestigio che viene da un
esercizio illuminato della sovranità), e ha ridotto sotto la sua signoria le masse
umane e la moltitudine di creature selvatiche che popolano le regioni del suo
vastissimo dominio.
“Tu sei la testa d’oro”. La testa è la parte più nobile del corpo umano e
l’oro è il più nobile dei metalli. Questa parte di maggior pregio della statua che
Nabucodonosor vide in sogno, dunque una raffigurazione dell’impero neo-babi-
lonese che Daniele identifica per metonimia col suo sovrano.
Nell’antichità il re era visto come l’incarnazione del regno e questa conce-
zione si rispecchia anche nel nostro libro dove in più di un luogo (cfr. v. 39a e
7:17, 23) i termini “re” e “regno” sono equivalenti e intercambiabili. Nel caso di
Nabucodonosor tale identificazione tanto più gli si addice essendo stato lui l’ar-
tefice dell’impero sul quale regna.
Per molti aspetti l’epoca di Nabucodonosor fu davvero un’epoca aurea. A
parte l’esercizio dispotico dell’autorità regale - caratteristica peraltro comune a
tutti i regnanti dell’epoca, e non soltanto di quell’epoca - Nabucodonosor fu per
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altri versi un sovrano illuminato68. Della nuova Babilonia, così come lui la volle
e la realizzò, si può dire che nessuna città del mondo contemporaneo fu in
grado di competere con lei quanto a splendore materiale e culturale.
Sul piano dell’arte, basta ricordare alcune delle sue splendide opere archi-
tettoniche, come i favolosi giardini pensili, come la stupenda porta di Ishtar e la
grande via processionale che si apriva dietro di essa, come gli imponenti edifici
sacri dell’Esagila... Tutte opere che testimoniano l’abilità eccezionale degli archi-
tetti che le eseguirono.
Sul piano della cultura letteraria e scientifica, è sufficiente menzionare i testi
mitologici e le opere di matematica, di astronomia e di medicina che si custodi-
vano nelle biblioteche dei templi e del palazzo reale e che l’archeologia ha ricu-
perato in buona parte. Sono opere che rivelano l’alto livello culturale a cui erano
pervenuti i letterati e gli scienziati di Babilonia. L’oro è davvero un simbolo ap-
propriato per raffigurare la civiltà neo-babilonese!
L’aggettivo indefinito “altro”, quando è usato come lo usa qui Daniele, stabilisce
un rapporto di uguaglianza tra la cosa a cui è riferito e la cosa nominata prima.
“Un altro” (in aramaico yirx f ’acharî) in questo passo è riferito a “regno” (in ara-
F )
maico Uk:lma malkû), e la cosa nominata prima è la persona del re (“e dopo di te”,
in aramaico uvathrak). Pertanto “dopo di te” non significa “dopo la tua per-
sona”, ma “dopo il tuo regno”.
Difatti il regno di Persia non sorse dopo Nabucodonosor, ma dopo Babilo-
nia. Trascorsero 23 anni e si succedettero sul trono di Babilonia quattro re fra la
scomparsa di Nabucodonosor e l’avvento di Ciro, fondatore dell’impero per-
siano. In definitiva in questo passo danielico la persona del re appare come il
simbolo e l’incarnazione vivente del regno, il che è perfettamente conforme allo
spirito dell’Antico Oriente.
Daniele dunque predice il trapasso del dominio universale da Babilonia a
un regno successivo (in aramaico: yirFxf) Uk:lam {Uq:T \fr:tfbU uvathrak theqûm
malkû ’acharî, alla lettera: “e dopo di te sorgerà un regno un altro”). L’aggettivo
indeterminato ’acharî (“un altro”) che accompagna il sostantivo malkû (“re-
gno”), significa in sostanza “un secondo uguale”; dunque “re” e “regno” in que-
sta frase sono concetti equivalenti. In altre parole, quel “dopo di te” equivale a
dopo il tuo regno.
L’avvento del regno di Persia alla caduta di Babilonia ventitrè anni dopo la
morte di Nabucodonosor convalida, se ve ne fosse bisogno, questa tesi lapalis-
siana. Cfr. il commento di 7:3. L’avverbio temporale bathar, una volta espresso e
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CAPIRE DANIELE
(1) essa separa arbitrariamente la Media e la Persia, due nazioni affini etni-
camente e culturalmente le quali nel periodo storico a cui si riferisce la profezia
formavano uno stato unitario, come le considera correttamente Daniele (5:28;
69 - EMANUELE TESTA, Messaggio della salvezza, vol. III, nota 7, pp. 142-143.
70 - Vedi E.TESTA, op. cit., G.RINALDI, Daniele.
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6:8,12,15; 8:20)71.
(2) Questa teoria lascia un vuoto abissale fra il quarto regno e il regno di Dio.
71 - Talvolta Daniele usa isolatamente i termini “medo/medi” e “persiano” (5:31; 6:28; 9:1;
11:1), ma li usa come designazioni di nazionalità e non di stati. Varie volte il nome della Persia
compare isolato verso la fine del libro (10:1,13,20 e 11:2), ma poiché senza eccezioni esso è
associato al nome di Ciro - l’unificatore di stirpe persiana dei due regni - o ad anonimi succes-
sori di Ciro, l’inclusione della Media è implicita. Daniele non nomina mai la Media come stato
autonomo e in effetti essa non lo fu più da quando Ciro II l’ebbe ridotta sotto la sovranità degli
Achemenidi nove anni prima della conquista di Babilonia.
72 - Vedi G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, IV ediz., vol. II, pp. 59, 60.
73 - G.RICCIOTTI, ibidem, p. 62.
74 - Vedi G.RICCIOTTI, ibidem, p. 321.
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CAPIRE DANIELE
75 - Vedi J.ZURCHER, “Le quatre empires universels” in Daniel, questions débattues, p. 153.
76 - Adv. Haer., V, 26.
77 - Girolamo su Daniele, pp. 48, 49
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CAPIRE DANIELE
Come nel corpo umano i piedi sono il prolungamento naturale delle gambe,
così in questo simulacro d’uomo le parti inferiori rappresentano la continuazione
del regno del ferro, ma nella fase discendente della sua parabola storica. Infatti
al duro e compatto metallo delle gambe si è sostituito quell’assurdo miscuglio di
ferro e terracotta dei piedi.
La durezza del ferro e la fragilità della terracotta sono una plastica imma-
gine del coesistere di elementi di forza e di debolezza nel tessuto vivo di questo
regno che avrà perso la sua monolitica compattezza: “quel regno sarà in parte
forte e in parte fragile” (v. 42). E come i piedi si suddividono nelle dita
(anch’esse di ferro e terracotta) così, in questa fase decadente della sua storia, il
quarto regno si frazionerà in una moltitudine di regni minori (“quel regno sarà
diviso”, v. 41) caratterizzati anch’essi da elementi di forza e debolezza.
I fautori della teoria “greca” scorgono i successori di Alessandro nei piedi di
ferro e terracotta e invocano come argomento a sostegno la divisione in quattro
dell’impero macedone alla morte del suo fondatore (Dn 7:6; 8:8,22). Anche que-
sta interpretazione è resa fragile dalle difficoltà segnalate nel commento del ver-
setto precedente, ovvero dall’impossibilità di colmare il vuoto fra il quarto regno
e il regno di Dio.
Con più coerenza, i difensori dell’interpretazione “romana” scorgono nei
piedi di ferro e terracotta un’immagine dell’Impero latino decadente all’epoca
delle invasioni barbariche. I due materiali così diversi rappresentano con molta
verosimiglianza le due razze tanto differenti per cultura e civiltà che convissero
gomito a gomito in questo momento critico della storia dell’Impero: la forte
stirpe romana e le più “plastiche” etnie germaniche suscettibili di essere pla-
smate in qualche misura dalla superiore cultura latina (Leupold).
Numerosi commentatori hanno ravvisato nelle dieci corna della quarta bestia
(Dn 7:7) una replica delle dieci dita della statua (2:41)78. Poiché le dieci corna
rappresentano “dieci re” (Dn 7:24) e in Daniele i termini “re” e “regno” sono
equivalenti (cfr. 7:17 e 23), gli interpreti conservatori hanno scorto generalmente
nelle dita della statua un’allusione ai regni romano-barbarici nati dalla disintegra-
zione dell’Impero latino79.
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Se Daniele riferendosi alle dita parla di “regno” al singolare (“così quel re-
gno sarà in parte forte e in parte fragile”), è perché sta ancora descrivendo gli
sviluppi del quarto regno in una fase successiva alla sua esistenza unitaria. Nel v.
41, alludendo ancora alle dita, il profeta usa la forma plurale: “e al tempo di que-
sti re”. In definitiva Daniele sta parlando del quarto regno in una fase di trasfor-
mazione in seguito alla quale esso sarà diviso e sarà in parte forte e in parte fra-
gile. Il S.D.A. Bible Commentary accosta questa forza e fragilità delle dita alla no-
tevole disparità dei regni romano-barbarici sul piano militare: “Questi regni bar-
barici furono molto diversi fra loro quanto allo spirito guerriero, come nota Gib-
bon quando parla delle potenti monarchie dei Franchi e dei Visigoti e dei regni
vassalli degli Svevi e dei Burgundi”80. Quantificare i regni barbarici, come ha
tentato di fare qualche commentatore (p.e. L.Gaussen), è un’impresa disperata.
In questo contesto simbolico, anche il numero deve essere valutato come
elemento simbolico; dieci qui denota pluralità in contrasto con l’unità di par-
tenza. Del resto ciò che il testo enfatizza non è il numero, che non viene nean-
che menzionato, ma il fatto che gli stessi materiali che compongono i piedi si ri-
trovano nelle dita.
Chi sono “quelli” che “si mescoleranno mediante connubi umani”? L’antecedente
a cui può collegarsi questo pronome è il sostantivo “dita” al principio del v. 42.
I fautori della teoria “siriana”, ammettendo un parallelismo col cap. 11, ve-
dono nel v. 43 un’allusione alle fragili alleanze fra Lagidi e Seleucidi raggiunte
mediante matrimoni dinastici81. Con più verosimiglianza C.H.Leupold (p. 120) e
altri conservatori hanno pensato alla mescolanza della razza latina con quella
germanica attraverso matrimoni incrociati. Il S.D.A. Bible Commentary propende
per la tesi dei matrimoni dinastici tra le monarchie europee eredi del dissolto Im-
pero romano (vol. IV, p. 775).
Il miscuglio ferro-terracotta è interpretato in vari modi da Daniele. Nel v. 41
questa eterogenea composizione appare come simbolo della frammentazione
del regno del ferro in una pluralità di unità minori (“così quel regno sarà di-
viso”); nel v. 42 l’immagine viene ripresa ed è riferita alla coesistenza nel quarto
regno di elementi di forza e di debolezza (“così quel regno sarà in parte forte e
in parte fragile”); nel v. 43 essa ritorna per la terza volta ed è interpretata come
fallimentari tentativi di ricongiungimento mediante connubi umani delle parti di-
verse, (“quelli si mescoleranno mediante connubi umani”). Non siamo davanti a
un quadro confuso e contraddittorio, bensì ci confrontiamo con una visione uni-
taria in cui uno stesso simbolo esprime tre aspetti di una stessa situazione. La si-
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44 E al tempo di questi re, l’Iddio del cielo farà sorgere un regno, che
non sarà mai distrutto, e che non passerà sotto la dominazione d’un
altro popolo; quello spezzerà e annienterà tutti quei regni; ma esso
sussisterà in perpetuo, 45 nel modo che hai visto la pietra staccarsi
dal monte, senz’opera di mano, e spezzare il ferro, il rame, l’argilla,
l’argento e l’oro.
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il mondo. AFRAHAT SIRO (m. c.ca nel 350) vede nella “pietra” un’immagine dell’in-
staurazione del futuro regno di Dio. Lo storico ecclesiastico SULPICIO SEVERO (m.
nel 420) pensa che la “pietra” che frantuma la statua prefiguri il Cristo e il suo
regno futuro; lo stesso pensiero esprime il suo illustre contemporaneo GIROLAMO
(m. nel 420) nel commentario su Daniele.
Da questa linea concorde diverge EUSEBIO DI CESAREA (m. nel 340) che rav-
visa nella “pietra” il primo avvento di Cristo. TEODORETO DI CIRO (m. nel 457) con-
testa Eusebio e identifica la “pietra” col Cristo che colpirà le nazioni al suo se-
condo avvento.
La mutata condizione della Chiesa con l’avvento al potere di Costantino in-
fluì in maniera rilevante sul pensiero escatologico cristiano. Le persecuzioni
erano cessate e la Chiesa, favorita dallo Stato e non più ostacolata dal pagane-
simo, venne acquistando prestigio e affermandosi nelle province dell’Impero.
Parve ad alcuni pensatori cristiani che si stesse realizzando l’evento preconizzato
da Daniele con l’immagine della “pietra”, insomma che si stesse instaurando
sulla terra il regno di Cristo.
Nel V secolo TICONIO si fece paladino di questa ipotesi già avanzata da Eu-
sebio e la sviluppò ulteriormente. L’ermeneutica di Ticonio influenzò notevol-
mente il pensiero di AGOSTINO (m. nel 430). In De Civitate Dei il vescovo di Ip-
pona sostenne che il regno di Dio inaugurato da Cristo - e che egli identificò
con la Chiesa - durerà in eterno, mentre i regni del mondo saranno distrutti. Per
Agostino la “pietra” era già diventata un monte che ricopriva la terra.
Sotto il peso di tanta autorità, questa concezione storicizzata del regno di
Dio s’impose nella Chiesa e dominò incontrastata la teologia cattolica nei secoli
seguenti82.
Si iniziò a mettere in discussione il pensiero di Agostino sul regno di Dio
soltanto nel XII secolo. Intorno al 1158, ANSELMO DI HAVELBERG, restaurando l’an-
tica ermeneutica storica, preparò il terreno per una vera rivoluzione nel campo
dell’esegesi apocalittica. Sulla scorta dell’ermeneutica anselmiana, GIOACCHINO DA
FIORE (c.ca 1130-1202), spiegò le profezie apocalittiche come sviluppo continuo
della storia della Chiesa e, contro la tesi agostiniana, proiettò nel futuro il regno
di Dio, come avevano fatto i Padri antichi. Per Gioacchino la “pietra” devasta-
trice rappresenta il regno che Cristo instaurerà sulla terra alla fine dei tempi83.
LUTERO (1483-1546) concorda con la visione gioachimita: Cristo al suo av-
vento distruggerà i regni nati dall’antico Impero e fonderà il suo regno sulla
terra. Sono sulla linea di Lutero MELANTONE (1497-1560), ANDREAS OSIANDER (1498-
1552), DAVID CYTRAEUS (1530-1600), TOBIAS STIMMER (1539-1584) e JEORGE JOYE (m.
nel 1553). CALVINO invece si attesta sulle posizioni di Agostino84.
82 - Per maggiori approfondimenti sulla teologia del regno nei Padri antichi, vedi L.E. FROOM, The
Prophetic Faith of Our Fathers, 1950, vol. I, pp. 401-464
83 - Vedi L.E. FROOM, op. cit., p. 565.
84 - Vedi D. BENNET, “The Stone Kingdom of Daniel 2” in Symposium on Daniel, p. 339.
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CAPIRE DANIELE
profezia del cap. 7 è una replica della rivelazione del cap. 2. Ora, poiché nel
cap. 7 la serie dei regni terreni culmina col giudizio (vv. 9, 10, 26) e l’avvento
del regno eterno dell’Altissimo (vv. 14 e 27), anche nel cap. 2 la successione
dei regni deve avere uno sbocco escatologico.
● La “pietra” si stacca dal monte “senz’opera di mano” (Dn 2: 34). Que-
sto significa che l’evento che essa prefigura non dipenderà da interventi
umani ma sarà determinato interamente da Dio.
● Il regno raffigurato dalla “pietra” non potrà coesistere coi regni terreni
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Concludendo la spiegazione del sogno, prima di tutto Daniele ribadisce due cir-
costanze sulle quali già aveva richiamato l’attenzione del re: la prima è che la ri-
velazione viene dall’Iddio che svela i segreti (v. 28a), la seconda che essa con-
cerne il futuro (v. 28b); poi il profeta garantisce l’autenticità del sogno come ri-
velazione divina (“il sogno è verace”) e la correttezza dell’interpretazione che ne
ha data (“l’interpretazione è sicura”).
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Nabucodonosor riconosce la superiorità del Dio dei giovani ebrei (“il vostro
Dio”). L’espressione “l’Iddio degli dèi” è una forma superlativa che equivale a
“l’Iddio supremo”. Inoltre il sovrano di Babilonia pone il Dio di Daniele e dei
suoi compagni al di sopra di tutti i potentati terreni col riconoscerlo “Signore dei
re”. LEUPOLD osserva con ragione che nulla poteva dimostrare meglio quale fosse
l’intenzione di Nabucodonosor nell’offrire oblazioni e profumi davanti a Daniele:
94 - Vedi W.GENESIUS, Hebrew-Chaldee Lexicon..., alla voce segid; vedi anche S.D.A. Bible Com-
mentary, vol. IV, pp. 776-777.
95 - Girolamo su Daniele, p. 50.
96 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudiache, XI. 8, 5.
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CAPITOLO 2
Daniele non dimentica i compagni. Essi hanno diviso con lui i momenti di ansia
e di preghiera, è giusto che ne condividano gli onori. Domanda per ciascuno di
loro, e ottiene dal re, un incarico amministrativo nella “provincia di Babilonia”,
verosimilmente la regione caldea, che il re aveva posto sotto l’amministrazione
di Daniele. Quanto a lui, Daniele, egli svolgerà il suo alto incarico dal palazzo
reale (letteralmente della “porta del re”) per essere pronto a qualsiasi richiesta
del sovrano.
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CAPIRE DANIELE
Capitolo 3
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CAPITOLO 3
sul trono posta in uno dei santuari di Babilonia. Non ne dà le misure, ma riferi-
sce un’informazione avuta dai sacerdoti secondo la quale erano occorsi 800 ta-
lenti d’oro (circa 24 tonnellate!) per realizzare la statua col trono e il basamento.
Se ne deduce che le dimensioni dovevano essere ragguardevoli.
DIODORO SICULO (2, 9) c’informa su tre immagini d’oro poste sulla sommità
del tempio di Bel in Babilonia, la più alta delle quali misurava 40 piedi (poco
più di 13 metri) e pesava 1000 talenti babilonesi.
Il primato per quanto concerne le antiche statue gigantesche spetta comun-
que al Colosso di Rodi. Era questo una figura di guerriero alta 70 cubiti (circa 32
metri) eretta verso il 304 a.C. all’entrata del porto dell’isola. Le lamine di bronzo
che ne ricoprivano il supporto ligneo erano state ricavate dalle armi e dagli scudi
lasciati sul terreno da Demetrio Poliorcete dopo un vano tentativo di impadronirsi
dell’isola nel 305 a.C. Annoverata fra le sette meraviglie del mondo antico, la
grande statua eretta in onore del dio Elios fu distrutta da un terremoto nel 224 a.C.
In Egitto si possono ancora ammirare, nella necropoli di Tebe, due statue di
pietra alte circa 20 metri, i cosiddetti Colossi di Memnon, raffiguranti Amenofi III,
e più a sud, ad Abu-Simbel, dominano la pianura antistante quattro figure di
Ramses II alte quanto le precedenti, scolpite sulla parete rocciosa del tempio fu-
nerario di questo faraone.
Le dimensioni della grande statua che, secondo Daniele, Nabucodonosor
fece erigere nella Piana di Dura, non debbono comunque destare meraviglia. Le
misure che ce ne dà il nostro libro (60 x 6 cubiti) rispecchiano il sistema metrico
sessagesimale che come è noto nacque in Mesopotamia e fu d’uso corrente in
Babilonia97.
Il rapporto fra l’altezza e la larghezza della statua su cui ci ragguaglia Da-
niele (10 a 1) è chiaramente sproporzionato se le misure si riferiscono alla sola
figura umana. Infatti le proporzioni normali della figura umana sono di circa 5 a
1. È intuitivo però che la misura dell’altezza indicata da Daniele deve compren-
dere anche quella della base. In un’iscrizione aramaica del VII secolo a.C. rinve-
nuta a Nerab, presso Aleppo, il vocabolo {"lc : tzelem tradotto “statua” in Dn 3:1
indica una stele recante nella parte alta un busto umano in rilievo98. In Daniele
zelem può benissimo designare la figura umana col suo piedistallo, il che giusti-
ficherebbe il rapporto 10 a 1 fra l’altezza e la larghezza.
Si è obiettato che sono inverosimili sia l’altezza della statua (circa 27 metri)
che la sua composizione aurea. Per quanto riguarda l’altezza, si è visto che
quella del Colosso di Rodi, posteriore di circa due secoli, la superava di circa 5
metri. Il genitivo di materia (“statua d’oro”) non implica necessariamente che
l’immagine fosse fatta d’oro massiccio. Le grandi statue metalliche nell’antichità,
come si è visto a proposito del Colosso di Rodi, consistettero di un supporto li-
gneo o di altro materiale rivestito di lamine metalliche. Ricorre altrove nell’Antico
Testamento questa forma genitivale per indicare che un oggetto era fatto par-
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CAPIRE DANIELE
zialmente di un certo materiale. “L’altare d’oro” (Es 39:38) e “l’altare di rame” (Es
39:39) del santuario mosaico in realtà erano fatti di legno d’acacia rivestito d’oro
nel primo caso (Es 37:25, 26) e di rame nel secondo (Es 38:1, 2).
Le “case d’avorio” a cui allude Am 3:14 (vedi anche 1Re 22:39) erano edifici
in muratura con le pareti delle sale ornate di pannelli d’avorio, come hanno rive-
lato gli scavi di Samaria e di Nimrud99.
Sebbene oggi non sia possibile individuare con sicurezza il luogo della fa-
stosa cerimonia di cui parla Daniele, è certo che il toponimo menzionato, Dura,
è d’origine babilonese (l’accadico duru significa circonferenza, muro o luogo
cinto da mura). Nella regione di Babilonia “Dura” si applicava a qualsiasi luogo
circondato da mura100. Il toponimo antico sopravvive tuttora nel nome di un
emissario dell’Eufrate (Nahr Dûra) che scorre a una decina di chilometri a sud di
Babilonia, come pure nel nome delle colline adiacenti. Inoltre Tolûl Dûra è il
nome di una pianura a circa 8 chilometri a sud-est di Babilonia, ove un rialzo di
pietre di 14 metri di lato per 6 di altezza potrebbe essere stato la base dello ze-
lem di cui parla Daniele101.
Sulla data dell’episodio il testo aramaico non offre alcuna indicazione; i testi
greci dei LXX e di Teodozione invece - e non si sa su quale base - datano l’avve-
nimento nell’anno 18° di Nabucodonosor, un anno prima della conquista e di-
struzione di Gerusalemme.
Qualche commentatore ha opinato, sulla base di Gr 51:59 che allude a un
viaggio di Sedechia a Babilonia nell’anno IV del suo regno (594/93 a.C.), che il
re giudaita possa essere stato convocato da Nabucodonosor come principe vas-
sallo per partecipare alla cerimonia descritta nel capitolo terzo di Daniele102. È
soltanto una possibilità.
99 - Vedi S. H. HORN, Pietre che parlano, Firenze 1963, pp. 81, 82.
100 - Vedi LEUPOLD, op. cit., p. 137.
101 - Idem, p. 138.
102 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, pp. 779, 780.
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106 - Un’iscrizione fa dire a Nabucodonosor a proposito del tempio di Merodac: “vi accumulai
argento e oro e pietre preziose ... e vi posi la casa del tesoro del mio regno” (cfr. Ed 1:8). Per-
spicacia nello studio delle Scritture, p. 1102.
107 - S.D.A. Bible Commentary, p. 780.
108 - LEUPOLD, op. cit., p. 140.
109 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 61.
110 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.
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CAPITOLO 3
Sono invece quasi certamente d’origine greca i nomi di tre dei sei strumenti
musicali ricordati nel v. 5 e ripetuti nei vv. 7, 10 e 15. Essi sono: sort : yaq qaythros
(“cetra”), molto simile al greco kiqa/raj. kitharas; }yirT" nº sa P: pesanterin (“salterio”),
somigliante al greco yalthri¿on psalterion, e hæynº oPm: Us sumponeya’ (“zampogna”),
affine al greco sumfwni¿aj symfonias.
La presenza di queste tre parole greche nel testo di Daniele non è necessa-
riamente indizio di un’origine tardiva del libro. Se questo fosse stato composto
in età ellenistica, dovremmo aspettarci di trovarvi un numero ben maggiore di
vocaboli greci.
Dai ritrovamenti archeologici è risultato sempre più evidente che la cultura
greca penetrò nel Vicino Oriente semitico assai prima dell’epoca di Nabucodo-
nosor111. Contatti commerciali e culturali fra il mondo greco e quello semitico
avvennero fin dal II millennio a.C. (è noto che i Greci mutuarono dai Fenici il
loro alfabeto).
Trattando della distribuzione linguistica nel Vicino Oriente, il prof. Pelio
Fronzaroli osserva che i Greci micenei parteciparono alle vicende culturali di
quest’area geografica già nella seconda metà del II millennio a.C.112. Dalla docu-
mentazione archeologica risulta che insediamenti commerciali ionii erano pre-
senti a Sinope, sul Mar Nero, quando questa località era già un avamposto com-
merciale e militare assiro prima del periodo imperiale113.
La presenza greca lungo le coste dell’Anatolia e della Siria settentrionale è
segnalata in documenti dell’VIII secolo a.C. Dai testi di Sargon II (722-705 a.C.)
veniamo a sapere che una generazione prima di questo sovrano, navigatori greci
frequentavano le coste della Cilicia, e i ritrovamenti archeologici a Tarso hanno
confermato questa notizia114. Sappiamo pure da fonti contemporanee che mer-
cenari greci militavano nell’esercito di Assarhaddon (681-669 a.C.).
La presenza greca in Babilonia è documentata per l’epoca di Nabucodono-
sor. Negli scavi di Carchemish, per esempio, il ritrovamento di uno scudo greco
ha convalidato una notizia di Strabone secondo cui mercenari greci combatte-
vano al fianco dei Babilonesi contro gli Egiziani115.
La presenza dell’arte greca in Babilonia è stata attestata grazie agli scavi ese-
guiti in questa località a partire dalla fine del secolo scorso. Colonne sormontate
da capitelli di stile ionico sono state rinvenute fra le rovine della fortezza meridio-
nale di Babilonia116. Infine, testi cuneiformi del tempo di Nabucodonosor c’infor-
mano che fra gli stranieri che concorsero alla realizzazione dei progetti edilizi di
questo sovrano in Babilonia figuravano carpentieri e altri artigiani ionii e lidii117.
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CAPIRE DANIELE
I Babilonesi a quel che sembra furono amanti della musica. Ammontano in-
fatti a 53 gli strumenti musicali a corde, a fiato e a percussione menzionati nei
testi cuneiformi, raffigurati nell’iconografia o di cui si sono rinvenuti degli esem-
plari. Tutti gli strumenti dell’orchestra di Nabucodonosor sono attestati in docu-
menti scritti o in ritrovamenti archeologici del VI secolo a.C.118.
Esistono dunque attestazioni più che sufficiente per sostenere che è del
tutto verosimile che strumenti musicali importati dalla Grecia fossero usati in Ba-
bilonia al tempo di Nabucodonosor e fossero conosciuti coi nomi di origine.
L’identificazione degli strumenti musicali nominati da Daniele è abbastanza
sicura. Il corno ()ænr : qa qarna’) era uno strumento a fiato tipicamente semitico ri-
cavato dal corno di qualche animale. Il flauto ()ftyiqOr:$m a mashroqitha’) era uno
strumento a fiato con diverse canne molto in uso fra i semiti. La cetra (sort : yaq
qaythros) era uno strumento a corde d’origine greca col quale di solito si accom-
pagnava la danza. La lira ()fkB : sa sabbeka’), strumento di forma triangolare con 4
corde, era nota rispettivamente coi nomi di sambuke e sambuca presso i Greci e
i Latini i quali la adottarono dai Fenici, come attesta STRABONE spiegando che il
vocabolo è di origine “barbarica”119. Il saltèro (}yirT" nº sa P: pesanterin) era uno stru-
mento a corde di forma triangolare molto usato dai Greci. La zampogna
(hæynº oPm
: Us sumponeya’) era uno strumento a fiato, pure di origine greca, consi-
stente di un certo numero di canne inserite in un involucro gonfiabile di pelle
animale120.
7 Non appena quindi tutti i popoli ebbero udito il suono del corno,
del flauto, della cetra, della lira, del saltèro e d’ogni sorta di stru-
menti, tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue si prostrarono e adora-
rono la statua d’oro, che il re Nebucadnetsar aveva eretta.
Le misure intimidatorie messe in atto con prontezza hanno avuto un effetto im-
mediato. Al suono dell’orchestra “tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue” (cioè a
dire i rappresentanti di tutte le unità nazionali e i gruppi linguistici dell’impero)
si sono prostrati e hanno reso omaggio alla statua.
Questa prostrazione servile è tanto segno di sottomissione al sovrano
quanto riconoscimento della supremazia degli dèi di Babilonia sulle divinità di
tutti i raggruppamenti nazionali rappresentati nella colorita assemblea.
118 - Vedi D.J. WISEMAN in The International Standard Bible Encyclopedia, vol. I, p. 401.
119 - STRABONE, Geografia, X, 3.17.
120 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.
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CAPITOLO 3
L’intervento di alcuni caldei a danno dei giovani giudei motivato da invidia e ge-
losia professionale piuttosto che da antagonismo razziale e nazionalistico (ciò
sembra evidente dall’appunto velato che muovono al re: “degli uomini giudei
che tu hai preposti agli affari di Babilonia...”)121. Per alcuni quindi questi uomini
apparterrebbero alla casta dei maghi e astronomi-astrologi piuttosto che all’etnia
caldea122 mentre altri sono di parere contrario123.
L’espressione figurata aramaica )¢yd
f Uhºy yiD }Ohy"cr A ’akalu qarzehôn dî
: qa Ulak)
yehûdâye’, letteralmente “divorarono i brandelli dei giudei”, significa “calunnia-
rono”, “accusarono i Giudei”. La formula augurale “O re, possa tu vivere in per-
petuo!” era di prammatica nelle antiche corti orientali (vedi commento a 2: 4).
Prima di formulare i capi d’accusa, i delatori si appellano al decreto che il re ha
appena fatto proclamare e alla sanzione penale che esso prevede per i trasgres-
sori. Shadrac, Meshac e Abed-nego sono accusati di tre gravi delitti contro il so-
vrano, e cioè: di lesa maestà (“non ti tengono in alcun conto”), di insubordina-
zione (“non servono i tuoi dèi”, quindi rifiutano la tua autorità) e di rifiuto del
giuramento di fedeltà attraverso l’omaggio reso alla statua (“non adorano la sta-
tua d’oro che tu hai eretta”).
Le accuse sono calunniose: i giovani giudei non hanno certamente voluto
venire meno alla loro lealtà verso il sovrano, ma poiché questa lealtà doveva ve-
nire espressa attraverso un atto di omaggio alle divinità pagane, essi hanno pre-
ferito lasciarlo credere a costo di sfidare l’ira del re piuttosto che venire meno
alla loro fedeltà al Dio che servono.
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CAPIRE DANIELE
di fuoco ardente; e qual è quel dio che vi libererà dalle mie mani?”
Noi non conosciamo tutte le formule di rito in uso nella corte imperiale di Babi-
lonia, non siamo dunque in grado di sapere se il vocativo con l’omissione del ti-
tolo regale (semplicemente “O Nebucadnetsar”) sia o non sia conforme all’eti-
chetta di palazzo.
L’atteggiamento dei giovani accusati (“noi non abbiamo bisogno di darti ri-
sposta su questo”) non è segno di arroganza come potrebbe sembrare. È stato
dimostrato attraverso analogie con altre lingue semitiche che il verbo aramaico
tradotto “darti risposta” ha il senso giuridico di “difenderci”, “giustificarci”124.
I giovani dunque dicono semplicemente che rinunciano all’autodifesa. Il
non avere ottemperato all’ordine del re è stato in effetti un atto consapevole e
deliberato, ma del quale Nabucodonosor non potrebbe in alcun modo capire la
ragione.
Il v. 17 nell’aramaico comincia con un “se” che la versione Riveduta omette.
G. BERNINI traduce, conformemente all’aramaico: “Se il Dio che noi serviamo è
capace di liberarci, ci salverà dalla fornace...”125. Così com’è la frase esprime in-
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CAPITOLO 3
certezza sulla capacità di Dio di salvare dalla fornace, ma certamente non era
questo il sentimento dei giovani giudei. G. RINALDI traduce più coerentemente:
“Se ciò avverrà, il nostro Dio, che noi serviamo, è capace di liberarci...” È una re-
plica ferma e convinta alla sfida di Nabucodonosor: “...e qual è quel dio che vi
libererà dalle mie mani?” (v. 15). Shadrac, Meshac e Abed-nego non dubitano
che il loro Dio è potente da salvarli dal fuoco della fornace, ma non sanno se
vorrà farlo. Se Dio nella sua sovrana libertà avesse deliberato di non salvarli, essi
non desisteranno comunque dal rimanergli fedeli: “Se no (ovvero: Se Dio non
vorrà salvarci), sappi, o re, che noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la
statua d’oro che tu hai eretto (è evidente che l’omaggio reso alla statua equiva-
leva a un atto di venerazione e di sottomissione agli dèi di Babilonia). In ogni
tempo l’eroica determinazione dei compagni di Daniele ha suscitato commo-
zione e ammirazione.
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CAPIRE DANIELE
alla morte gli avversari e i ribelli”126. Anche Geremia ci dà notizia di un fatto si-
mile in 29:22, dove fa riferimento a due pseudo-profeti giudei “che il re di Babi-
lonia ha fatti arrostire al fuoco”.
Nabucodonosor prende tutte le precauzioni per sventare qualunque tenta-
tivo di fuga dei condannati o, addirittura, per prevenire un intervento sopranna-
turale: fa riscaldare la fornace sette volte più di quanto si era pensato e consegna
i malcapitati ai soldati più robusti della sua milizia. E come se non bastasse, li fa
legare per modo che non possano muoversi. “Sette volte di più...”, cioè al mas-
simo grado possibile, probabilmente, secondo qualche commentatore, bruciando
un quantitativo di combustibile sette volte maggiore del consueto. Ancora di più
queste misure precauzionali faranno risaltare il prodigio che sta per avere luogo.
21 Allora questi tre uomini furono legati con le loro tuniche, le loro
sopravvesti, i loro mantelli e tutti i loro vestiti, e furon gettati in
mezzo alla fornace del fuoco ardente. 22 E siccome l’ordine del re
era perentorio e la fornace era straordinariamente riscaldata, la
fiamma del fuoco uccise gli uomini che vi avevan gettato dentro Sha-
drac, Meshac e Abed-nego. 23 E quei tre uomini, Shadrac, Meshac e
Abed-nego, caddero legati in mezzo alla fornace del fuoco ardente.
I condannati sono gettati nella fornace incandescente e con tutti i loro vestiti ad-
dosso perché l’ordine del re deve essere eseguito con la massima rapidità, e
forse anche affinché l’effetto del fuoco sia se possibile ancora più drastico con la
combustione dei panni.
Non è facile oggi tradurre i termini aramaici con i quali sono indicati i capi
di vestiario dei condannati. Il significato più probabile del primo (}Ohy"lfB:ras:B
besarbalêhôn) sembra essere “calzari”; il secondo (}Ohy"$y:=Pa pateyshêhôn) può
tradursi “calzoni”; il terzo (}OtflB : ka karbelathôn), d’origine accadica (karballatu)
: r
significa con molta probabilità “copricapo”, e il quarto (}Ohy"$b : levushehôn) desi-
u l
gna gli indumenti in generale.
Un incidente repentino e imprevisto segna drammaticamente l’esecuzione
dell’ordine di Nabucodonosor: una vampa di calore erompe dalla bocca della
fornace e investe i soldati che vi hanno gettato i condannati, e in un attimo essi
bruciano come torce. È un primo smacco per il re.
Tra i vv. 23 e 24, i manoscritti greci dei LXX e di Teodozione inseriscono
un’aggiunta apocrifa di 67 versetti (24-90) contenente una preghiera in versi
messa sulla bocca di Azaria (Abed-nego) (vv. 24-25), un breve interludio narra-
tivo in prosa (vv. 46-50) e un cantico in versi attribuito ai tre giovani (vv. 51-90).
È la prima di tre aggiunte apocrife al nostro libro le quali, insieme con altri scritti
apocrifi, furono dichiarate deuterocanoniche dal Concilio di Trento nel 1546 e
sono tuttora accolte nel canone anticotestamentario delle versioni cattoliche della
Bibbia. Girolamo tradusse in latino questo lungo brano ma avvertì di non averlo
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CAPITOLO 3
trovato nei testi ebraici. Effettivamente esso non figura nel Testo Masoretico di
Daniele e, significativamente, non si trova nei frammenti aramaici del nostro li-
bro rinvenuti nelle grotte di Qumrân (anteriori di quasi 1.000 anni al Testo Maso-
retico) uno dei quali contiene i vv. 22-30 del capitolo terzo. È incerto se il brano
aggiuntivo, che da vari studiosi è fatto risalire all’inizio del I secolo a.C., sia stato
composto originariamente in aramaico.
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CAPIRE DANIELE
che se non hanno reso omaggio alla statua secondo l’ordine del sovrano, non è
stato per avere voluto sfidare la sua autorità, come li si era accusati, ma per mo-
tivi di ben altra natura che adesso Nabucodonosor sembra avere capito e di vo-
lere riconoscere chiamandoli “servi dell’Iddio Altissimo”.
“L’avere Nabucodonosor riconosciuto che il dio dei tre giudei è ‘l’Iddio Al-
tissimo’, non implica necessariamente che il re rinunciasse alla sua mentalità po-
liteista. Il Dio di Shadrac, Meshac e Abed-nego era per lui non l’unico vero Dio,
ma semplicemente il Dio più alto, il Dio supremo sopra tutti gli dèi (i Greci chia-
mavano il loro supremo Zeus, ho hupsistos theos, ‘il dio più alto’). Con questo
senso il termine è attestato anche in Fenicia e più tardi nelle iscrizioni di Pal-
mira”127.
È talmente inaudito che degli uomini escano vivi da una fornace infuocata, che
tutti vogliono osservare da vicino i tre giovani oggetto di un simile prodigio. I di-
gnitari fanno ressa intorno a loro e possono constatare de visu che il fuoco non
li ha neanche sfiorati: la capigliatura, la prima parte del corpo a soffrire gli effetti
del calore, è intatta, le tuniche (o meglio, i calzari, come traducono altri) non re-
cano tracce di combustione, i loro corpi non odorano di bruciato.
L’Iddio che essi servono li ha prodigiosamente salvati, manifestando il suo
gran potere davanti gli occhi dei rappresentanti di tutte le province imperiali.
Certo, non tutti hanno potuto osservare da vicino i loro corpi indenni, infatti il
narratore menziona solo tre delle sette categorie di funzionari menzionati nel v.
2: ’achashdarpenayya’ (sàtrapi), sighnayya’ (prefetti) e pachawatha’ (governa-
tori), più una quarta categoria, quella )fKl : m
a y" rb
: D a haddavrê malka’ (consiglieri
f h
del re) nominata per la seconda volta dopo il v. 24. Tutti, comunque, hanno vi-
sto i giovani uscire vivi dalla fornace.
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CAPITOLO 3
Il rifiuto di ubbidire all’ordine del re nella piana di Dura aveva fatto decadere
automaticamente dai loro incarichi ufficiali Shadrac, Meshac e Abed-nego. Ora
essi sono reintegrati in quegli incarichi, dopo che per l’intervento del Dio che
servono sono scampati ad una morte atroce.
Il verbo xalc a hatzlach, “fece prosperare”, “promosse”, fa pensare che i gio-
: h
vani siano stati posti dal re nelle condizioni più favorevoli per svolgere le loro
mansioni amministrative con pieno successo. L’esito felice della vicenda è enfa-
tizzato per mostrare che Dio rimunera i suoi figli che lo servono con fedeltà.
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CAPIRE DANIELE
Capitolo 4
____________________________
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CAPITOLO 4
2 M’è parso bene di far conoscere i segni e i prodigi che l’Iddio altis-
simo ha fatto nella mia persona. 3 Come son grandi i suoi segni!
Come son potenti i suoi prodigi! Il suo regno è un regno eterno, e il
suo dominio dura di generazione in generazione.
Nabucodonosor ha voluto rendere di pubblico dominio nei territori del suo im-
pero una drammatica vicenda personale che riconosce come un giudizio dell’Id-
dio Altissimo. Dichiarato lo scopo del proclama, il re pronuncia una dossologia
per esaltare in vibranti versi lirici la potenza di questo Dio, che si è resa manife-
sta nella sua persona, e la sua signoria imperitura.
Poiché non si conoscono casi paralleli nei documenti antichi, vari autori
moderni hanno definito storicamente assurdo questo proclama che Daniele attri-
buisce al re Nabucodonosor. Il S.D.A. Bible Commentary131 ribatte giustamente
che gli argomenti basati sul silenzio delle fonti non sono decisivi. La Scrittura de-
scrive avvenimenti che non hanno riscontri nei documenti coevi che sono a no-
stra conoscenza (si pensi per esempio alla distruzione di Gerusalemme per
mano di Nabucodonosor), eppure nessuno ne contesta l’attendibilità. “Questo
tipo di approccio - osserva Leupold - fa della storia extra-biblica il criterio per
decidere che cosa sia o non sia credibile e ragionevole nell’ambito della rivela-
zione”132.
Su radicali riforme religiose promosse da qualche sovrano del mondo an-
tico siamo comunque informati dalle fonti storiche. Si sa, per esempio, che il fa-
raone Amenofi IV nel secolo XIV a.C. ripudiò la religione politeistica degli avi e
istituì nell’Egitto una sorta di culto monoteistico rivolto all’antica divinità solare
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CAPIRE DANIELE
Aton in onore della quale eresse un tempio nella nuova capitale Aketaton e
mutò il proprio nome in Ikhnaton.
Un’analoga rivoluzione religiosa pare essere avvenuta in Mesopotamia cin-
que secoli più tardi: indizi concreti fanno pensare che durante il regno di Adad-
nirari III (810-782 a.C.) Nabu, dio di Borsippa, fosse proclamato unica o princi-
pale divinità di Ninive133.
Il fallimento di cui si dà notizia nel cap. 2 non sembra avere scosso la fiducia di
Nabucodonosor nei poteri dell’arte divinatoria babilonese. Sono convocati nel
palazzo i professionisti della mantica, una prima volta designati con un termine
collettivo (lebb
f y"myiKx a chakkîmê bavel, “i sapienti di Babilonia”) e una seconda
volta distinti in 4 categorie: )Yam+ u r a chartummayyâ’, ) Yæ pa $
: x f ’ashfayyâ’, )
: ) " yfD: &Ka ka-
shdday’e e )æYr a º zgf gazraya’ (per i significati vedi commento a 2:2, 3). Ma il re non
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CAPITOLO 4
esige da loro che indovinino il sogno come nell’episodio precedente perché sta-
volta il sogno non lo ha dimenticato (“io dissi loro il sogno”). Tuttavia i profes-
sionisti della divinazione ancora una volta rimangono muti davanti alla richiesta
del re. Essi avranno certamente intuito il significato infausto del sogno, ma non
avrebbero saputo dire più di questo. Oltretutto non era piacevole, e poteva an-
che essere pericoloso per loro, annunciare al sovrano un presagio nefasto, sia
pure senza poterne precisare la natura.
Daniele riappare per la prima volta sulla scena dopo l’episodio del cap. 2. Non è
chiaro se sia stato convocato dal re o se si sia presentato di sua iniziativa. Se è
valida la prima ipotesi, che effettivamente sembra la più verosimile, Nabucodo-
nosor può aver voluto prima ascoltare il responso degli specialisti nazionali della
divinazione, poi, visto il silenzio di questi, avrebbe consultato l’esperto straniero.
Ma si può anche supporre che Daniele fosse stato convocato insieme con
gli altri sapienti, ma che qualche motivo a noi sconosciuto gli abbia impedito di
ottemperare subito all’ordine del re. L’ipotesi di una presentazione spontanea di
Daniele sembra la meno probabile. Bisognerebbe ammettere che il re Nabuco-
donosor lo avesse messo da parte dopo averlo investito di un alto incarico che
tuttora riconosceva (cfr. 2:48 con 4:9).
Nabucodonosor prima nomina Daniele col suo nome giudaico, poi col
nome babilonese che egli stesso gli ha imposto (vedi commento a 1:7). Osserva
giustamente Leupold135 che dopo la lezione che gli era stata impartita attraverso
l’esperienza narrata in questo capitolo, è comprensibile che Nabucodonosor si
preoccupasse di non dire e fare nulla che potesse apparire come un’offesa verso
il Dio di Daniele, ciò che appunto avrebbe significato il non tenere conto del
nome originale di quest’uomo (Dani’el = “Dio è il mio giudice”) dopo averlo
sostituito con un nome che onorava la sua divinità personale.
La forma plurale dell’espressione aramaica }yi $yiDqa }yi hl E ’elahîn qaddîshîn,
f )
“gli dèi santi”, può anche tradursi al singolare, “l’iddio santo” come rileva il
S.D.A. Bible Commentary136, il quale propende per questa traduzione tanto più
che la versione greca di Teodozione rende la frase: “il quale ha in sé lo spirito
santo di Dio”. Leupold, Rinaldi e altri, come il Luzzi, preferiscono la forma plu-
rale, la quale in effetti, oltre ad attenersi alla letteralità dell’aramaico, tiene conto
del fatto che chi parla è un politeista, anche se rispetta il Dio di Daniele.
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CAPIRE DANIELE
10 Ed ecco le visioni della mia mente quand’ero sul mio letto. Io guar-
davo, ed ecco un albero in mezzo alla terra, la cui altezza era
grande.
“Io guardavo...” La forma aramaica del verbo esprime azione progressiva (“io
stavo guardando”) e attenta considerazione di ciò che si sta guardando137.
Anche Ezechiele e Isaia usano l’immagine dell’albero per raffigurare una na-
zione (Ez 17:22, 23; 19: 10-14; 31: 3-14; Is 10: 33, 34). In una delle iscrizioni rin-
venute a Wadi Brissa, nel Libano, e pubblicata da F. H. WEISSBACH nel 1906, Ba-
bilonia è paragonata a un grande albero che fa ombra a tutti i popoli138.
Erodoto, in Storie I, 108, riporta un fatto che ha qualche somiglianza con la
storia narrata da Daniele. Egli dice che Astiage re dei Medi sognò che sua figlia
Mandane, andata in sposa a Cambise, principe persiano, partorì una vite che
crebbe fino a coprire tutta l’Asia.
Sollecitato il responso degli interpreti dei sogni, costoro gli predissero che il
figlio di sua figlia avrebbe regnato in vece sua. L’albero visto in sogno da Nabu-
codonosor, l’albero che si erge forte e maestoso nel bel mezzo della terra e
estende i suoi rami in tutte le direzioni potrebbe essere una figura idonea della
nuova Babilonia creata da Nabucodonosor.
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CAPITOLO 4
13 Nelle visioni della mia mente, quand’ero sul mio letto, io guar-
davo, ed ecco uno dei santi Veglianti scese dal cielo, 14 gridò con
forza, e disse così: - Abbattete l’albero, e tagliatene i rami; scotetene
il fogliame, e dispergetene il frutto; fuggano gli animali di sotto a lui,
e gli uccelli di tra i suoi rami!
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CAPIRE DANIELE
Un essere sovrumano compare sulla scena mentre il re contempla nel sogno l’al-
bero maestoso. Questo essere è designato con un termine che non ha riscontri
nell’Antico Testamento (non si deve dimenticare che chi lo usa non appartiene
alla cultura ebraica). L’aramaico ryi( - dal verbo ‘ur, “vigilare” - significa “vigi-
lante”, “uno che sta sempre all’erta”. I LXX lo traducono angelos “angelo”, men-
tre Teodozione si limita a traslitterarlo in caratteri greci [ir]. Nell’apocalittica giu-
daica (Enoch, Giubilei) aggeloi designa gli esseri celesti che eseguono i decreti
divini, vale a dire gli angeli. È improbabile che i Caldei conoscessero la nozione
giudaica espressa da questo termine, come suggerirebbe la versione dei LXX.
Nondimeno l’attributo “santo” aggiunto a “vigilante” (aramaico $yiDqa wº ryi( ‘ir we-
qaddêsh, letteralmente “un vigilante e santo”) e la natura sovrumana (“scese dal
cielo”) di questo essere cui nulla sfugge, fanno pensare che Nabucodonosor
debba avere riconosciuto il lui un messaggero della divinità.
Una sentenza a carico dell’albero è stata emanata in cielo; il “vigilante e
santo” che ne è disceso ha il compito non di eseguirla ma di comandare che
venga eseguita. Egli “gridò con forza”, questa frase sottolinea l’autorità di cui è
stato investito l’essere sovrumano. Non uno ma più giustizieri eseguiranno la
sentenza (gli imperativi sono tutti al plurale: “abbattete... tagliate... scuotete... di-
sperdete...”). L’identità dei giustizieri non è rivelata, ma si può presumere che
appartengano alla stessa natura e al medesimo rango del “vigilante e santo” (il v.
17 menziona i “vigilanti”, al plurale, ‘irîn).
L’azione punitiva a carico dell’albero deve essere severa: non questo ha da
essere abbattuto, ma i suoi rami dovranno essere tagliati, il suo fogliame scosso
e il suo frutto disperso sì che le creature che si riparavano in esso e di esso si
nutrivano se ne fuggano lontano. Il significato nefasto del sogno è evidente.
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CAPITOLO 4
16 Gli sia mutato il cuore; e invece d’un cuor d’uomo, gli sia dato un
cuore di bestia; e passino si di lui sette tempi.
Nabucodonosor deve sapere che l’ordine di abbattere l’albero non è una frase
banale. È un “decreto”, una “sentenza” e nello stesso tempo una “richiesta” che
procedono dai “vigilanti e santi” (a ragione identificati con gli angeli da molti
commentatori).
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CAPIRE DANIELE
Esposto il sogno in ogni dettaglio, il re si aspetta che Daniele, designato col suo
nome babilonese, ne dia l’interpretazione. Il riconoscimento esplicito dell’incapa-
cità degli interpreti ufficiali del regno (“giacché i savi del mio regno non me lo
possono interpretare”) equivale a un’implicita ammissione del fallimento della
scienza ufficiale di Babilonia.
Nabucodonosor dichiara ancora una volta (cfr. v. 8) la sua convinzione che
non ci sono segreti impenetrabili per Daniele, “perché lo spirito degli dèi santi”
è in lui (sul senso di quest’ultima frase vedi il commento del v. 8).
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CAPITOLO 4
Daniele esordisce con l’evocare la figura centrale del sogno quasi con gli stessi
termini con cui l’ha descritta Nabucodonosor, senza trascurare alcun dettaglio
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CAPIRE DANIELE
(cfr. vv. 11, 12), segno che il profeta ha seguito con estrema attenzione l’esposi-
zione del sovrano. Quindi, senza prolungare oltre l’attesa ansiosa del suo regale
interlocutore, identifica nel modo più esplicito e diretto il sovrano di Babilonia
nell’albero forte e maestoso: “L’albero... sei tu, o re !”
La prima parte del sogno - e conseguentemente della sua spiegazione - ri-
veste carattere decisamente positivo, riferendosi alla grandezza e potenza di Na-
bucodonosor evidenti a tutti fino al momento presente, nonché alla vastità dei
suoi domini territoriali che Daniele vede in una dimensione iperbolica confor-
memente all’uso orientale (“... il cui dominio si estende fino alle estremità della
terra”). In effetti il prestigio politico (la grandezza) e la potenza militare (la forza)
del grande sovrano di Babilonia si accrebbero considerevolmente, e di pari
passo si dilatarono i confini del suo impero, a mano a mano che egli in un se-
guito di campagne militari fortunate, vinse e sottomise gli staterelli della regione
siro-palestinese e le popolazioni dell’Alta Mesopotamia dopo la sua vittoria sugli
Egiziani nel 605 a.C. Il fasto e lo splendore di Babilonia sono spesso celebrati
con grande enfasi nelle iscrizioni di Nabucodonosor. Questo quadro di potenza
e grandezza senza eguali esaspera il contrasto con la seconda parte del sogno.
23 E quanto al santo Vegliante che hai visto scendere dal cielo e che
ha detto: - Abbattete l’albero e distruggetelo, ma lasciate in terra il
ceppo delle radici, in catene di ferro e di rame, fra l’erba de’ campi,
e sia bagnato dalla rugiada del cielo, e abbia la sua parte con gli
animali della campagna finché sian passati sopra di lui sette tempi -
24 eccone l’interpretazione, o re; è un decreto dell’Altissimo, che sarà
eseguito sul re mio signore:
Daniele introduce l’interpretazione della seconda parte del sogno - come ha fatto
delucidandone la prima parte - ripetendo la descrizione fattane dal re, ma sta-
volta in forma sintetica: riunisce in uno solo i primi dettagli (“distruggetelo” in
luogo di “tagliatene i rami, scuotetene il fogliame, disperdetene il frutto”) e altri
ne omette (“fuggano gli animali di sotto a lui, e gli uccelli di tra i suoi rami” e
“gli sia mutato il cuore; e invece di un cuor d’uomo gli sia dato un cuore di be-
stia”, cfr. vv. 14-16 e relativo commento). Il santo e vigilante che sentenzia l’ab-
battimento dell’albero (v. 23) esercita in sostanza un potere delegato, giacché di
fatto il decreto procede dall’Altissimo (v. 24 u.p.).
25 tu sarai cacciato di fra gli uomini e la tua dimora sarà con le be-
stie dei campi; ti sarà data a mangiare dell’erba come ai buoi; sarai
bagnato dalla rugiada del cielo, e passeranno su di te sette tempi,
finché tu non riconosca che l’Altissimo domina sul regno degli uo-
mini, e lo dà a chi vuole. 26 E quanto all’ordine di lasciare il ceppo
delle radici dell’albero, ciò significa che il tuo regno ti sarà ristabi-
lito, dopo che avrai riconosciuto che il cielo domina.
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sono non avere intuito che una grande sventura incombe sul sovrano, ma non
saprebbero precisare di più. Daniele invece può delucidare con precisione la na-
tura di questo malanno.
Annunciare eventi calamitosi deve essere sempre stato per i profeti uno dei
compiti più ingrati, e lo fu certamente anche per Daniele. Nondimeno questo in-
carico sgradito egli lo assolve con assoluta fedeltà, senza nulla omettere di
quanto gli è stato rivelato e senza attenuarne la portata funesta. Il fato che in-
combe sulla persona del re è descritto con una schiettezza che può perfino sem-
brare rudezza. Nabucodonosor sarà bandito dal consorzio umano, vivrà come
un selvaggio nella natura selvaggia nutrendosi alla maniera degli animali selvatici
e come gli animali selvatici sarà esposto alle intemperie.
Il quadro fosco è tuttavia illuminato da un raggio di speranza: questo stato
di cose non durerà indefinitamente. L’albero del sogno è stato tagliato, non sra-
dicato. Dopo che saranno passati “sette tempi” (vedi commento al v. 16), cioè,
probabilmente, dopo che sia trascorso tutto il tempo necessario finché il re abbia
imparato la lezione che deve essergli impartita (ovvero “che l’Altissimo domina
sul regno degli uomini, e lo dà a chi vuole”), la sua sorte muterà. Quando avrà
riconosciuto che “il cielo domina”, allora Nabucodonosor tornerà alla vita nor-
male e gli sarà restituito il potere sovrano.
Il “cielo” per metonimia sta ad indicare Colui che dal cielo domina sul re-
gno degli uomini, cioè l’Iddio Altissimo.
27 Perciò, o re, ti sia gradito il mio consiglio! Poni fine ai tuoi pec-
cati con la giustizia, e alle tue iniquità con la compassione verso gli
afflitti; e, forse, la tua prosperità potrà esser prolungata”.
L’interprete si muta in consigliere senza che gli sia stato richiesto. Sulla linea dei
profeti che lo hanno preceduto, Daniele unisce la parenesi alla predizione.
Dopo avergli annunciato il giudizio di Dio, esorta il suo interlocutore alla peni-
tenza affinché il giudizio sia scongiurato (è notevole questo accento etico in un
discorso predittivo!). Daniele sa infatti che così come le promesse, le minacce di-
vine sono condizionate (Gr 18:7-10), onde se Nabucodonosor, la cui sorte non
lo lascia indifferente, emenderà le sue vie, la presente condizione di prosperità
potrà prolungarsi.
Perché ciò avvenga, dunque, non sarà sufficiente che il re receda dal suo or-
goglio e riconosca l’autorità suprema dell’Altissimo, sarà anche necessario che egli
sia equanime verso tutti nell’amministrare la giustizia ed usi compassione nei ri-
guardi dei diseredati del suo regno (l’aramaico }éynæ (A ‘anayîn, tradotto “afflitti”, se-
condo il Leupold designa persone senza alcuna influenza sociale e vittime di ogni
sorta di abusi per non avere nessuno che prenda a cuore la loro causa).
Se per certi versi, come ricordato prima, Nabucodonosor fu un sovrano illu-
minato, sollecito del benessere dei suoi sudditi, per altri versi fu un dominatore
dispotico e crudele che non esitò ad usare il pugno di ferro per affermare la pro-
pria autorità, come attestano gli episodi narrati nei capp. 2 e 3 del nostro libro
(vedi pure Gr 29:22). Tuttavia in questo frangente sono messi a nudo piuttosto la
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CAPIRE DANIELE
“Il Signore, l’Eterno, non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i pro-
feti”, dichiara Amos (3:7). È la norma, il principio al quale si attiene l’Iddio del
cielo nei suoi rapporti con le creature terrene. Tramite i suoi portavoce, i profeti,
Egli rimprovera agli uomini i loro peccati, minaccia il castigo, esorta alla conver-
sione, offre perdono e salvezza (Is 1:10-20; 58:1-7; Gioe 2:11-13; Am 5:11-15,
ecc...). Al tempo di Giona i Niniviti erano stati avvertiti che essi avevano quaranta
giorni di tempo per emendare la loro malvagia condotta, pena la totale distruzione
(Giona 3: 4). I Niniviti si ravvidero e il castigo fu scongiurato (Giona 3:5-10).
A Nabucodonosor è stato concesso un anno intero per riformare i suoi
comportamenti quale garante della giustizia nel suo regno, ma a nulla sono valsi
l’avvertimento di Dio e il consiglio del suo profeta: apparentemente tutto è conti-
nuato come prima nella sua vita.
“In capo a dodici mesi egli passeggiava sul palazzo reale di Babilonia”, pro-
babilmente il grandioso palazzo meridionale o i suoi favolosi giardini pensili le
cui rovine sono state riportate alla luce da Koldevey tra la fine dell’800 e i primi
del ‘900. Dall’alto del tetto del palazzo o dei terrazzi dei giardini pensili Nabuco-
donosor può dominare con lo sguardo tutta la città che si allarga verso est, sud e
ovest. Pervaso da smisurato orgoglio, si esalta nell’autoglorificazione: “Non è
questa la gran Babilonia che io ho edificata come residenza reale...?”
Cento o più anni prima, antivedendo con profetica illuminazione i tempi di
Nabucodonosor, Isaia aveva definito Babilonia “lo splendore dei regni, la su-
perba bellezza dei Caldei” (Is 13:19).
Gli storici moderni volentieri fanno riferimento a Isaia e a Daniele quando
parlano di Babilonia. Dice il Prof. Pettinato: “Adesso, dopo che gli scavi archeo-
logici ci hanno restituito parte dei monumenti fatti edificare da Nabucodonosor e
le iscrizioni reali che sottolineano continuamente l’intensa attività di architetto
del sovrano di Babilonia, siamo in grado di valutare tutta la portata dell’espres-
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sione del profeta Isaia e possiamo ben immaginare quanto giustificato fosse l’or-
goglio del re, che traspare dalle parole messegli in bocca da Daniele”145.
La storiografia antica, da Erodoto a Ctesia a Berosso, si è compiaciuta di tra-
mandare ai posteri l’immagine di grandezza e di splendore di questa metropoli
orientale con i suoi palazzi superbi, i suoi templi maestosi, le sue vie spaziose, le
sue mura possenti.
Il vanto che ne trae Nabucodonosor: “... la gran Babilonia che io ho edifi-
cata... con la forza della mia potenza...” non è ingiustificato sul piano della realtà
storica. Poche cose si potevano vedere in Babilonia che non fossero opera del
grande sovrano e si dice che quasi non c’è mattone che affiora dalla sabbia
nell’area dell’antica metropoli che non rechi l’impronta di Nabucodonosor. Non-
dimeno le sue parole trasudano arroganza e vanagloria!146.
Nabucodonosor, proseguendo i lavori di restaurazione iniziati da suo padre
Nabopolassar, ingrandì Babilonia raddoppiandone le dimensioni, circondò la
città di un secondo muro di cinta, l’arricchì di pregevoli opere architettoniche;
tuttavia non ne fu il fondatore. L’origine di Babilonia quasi si perde nella notte
dei tempi. Per Berosso essa fu il primo dei centri urbani sorti prima del dilu-
vio147, per la Bibbia fu la prima città fondata dopo il diluvio (Ge 11:1-9).
“... per la gloria della mia maestà”, fu questo il movente di fondo che spinse
Nabucodonosor a realizzare i suoi faraonici progetti edilizi: esaltare, dare lustro
alla sua maestà regale. Vari testi di questo sovrano quasi riecheggiano le parole
che Daniele mette sulla sua bocca.
Uno di essi dice: “Poi edificai il palazzo, sede della mia regalità, legame
della razza degli uomini, dimora dell’esultanza e della gioia”148.
Un altro testo recita: “In Babilonia, la mia città prediletta, la città che io
amo, ha sede il palazzo, la meraviglia dei popoli, il legame del paese, il palazzo
splendente, la sede della maestà sul suolo di Babilonia”149.
Gli storici greci parlano della grandezza e magnificenza di Babilonia ma
non sanno che Nabucodonosor ne fu l’artefice. Questa circostanza è venuta in
luce nei tempi moderni a seguito degli scavi archeologici. Di fronte a tale evi-
denza un critico contemporaneo che pone la composizione di Daniele nel II se-
colo a.C., il prof. Pfeiffer, ammette onestamente: “Forse non sapremo mai come
il nostro autore sia venuto a conoscenza del fatto che la nuova Babilonia fu una
creazione di Nabucodonosor come hanno attestato gli scavi”150.
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crescita del pelo e delle unghie). Bandito dal consorzio umano (non è detto se
dai suoi stessi ministri o dall’Iddio del cielo che lo ha punito) Nabucodonosor è
segregato fra le bestie selvatiche di cui divide le condizioni di vita: si nutre
dell’erba dei campi come loro e a somiglianza di esse rimane esposto alle intem-
perie. Non avendo più alcuna cura per la sua persona, i capelli, la barba, il pe-
lame del corpo gli crescono incolti “come alle aquile” (la parola “penne” manca
nel testo aramaico) e sotto l’azione combinata del sole e dell’umidità si fanno
ispidi; le unghie divengono simili agli artigli dei rapaci. L’abbrutimento è com-
pleto. L’aspetto è quello di un selvaggio.
È certo che Nabucodonosor fu colto da un improvviso attacco di follia (per
due volte, nei vv. 34 e 36, si allude a un ricupero della ragione), ma data l’esi-
guità dei dettagli rilevabili nel testo, è impossibile dire che genere di malattia
mentale lo avesse ridotto in uno stato così miserevole. Molti commentatori
hanno pensato a una forma di zoomania, una condizione di inanità mentale in
cui il malato si crede un animale e come tale si comporta (la fantasia popolare
ha dato il nome di “lupi mannari” agli alienati afflitti da una forma particolare di
zoomania, la licantropia, che spinge il malato a imitare il comportamento dei
lupi151. Un caso di zoomania sembra essere attestato nella letteratura antica. Un
testo non pubblicato del British Museum fa menzione di un uomo che mangiava
l’erba come un bue152. Uno psichiatra contemporaneo, il dottor Bless, cita la ma-
lattia di Nabucodonosor come caso tipico di psicosi maniaco-depressiva153.
Sull’autenticità dell’episodio sono stati espressi forti dubbi, dato che manca
qualsiasi riferimento esplicito a un incidente del genere nei testi babilonesi che
ci sono noti. Per quanto l’annalistica babilonese fosse meno adulatoria e più
obiettiva di quella assira, sembra ovvio che gli scribi di corte si guardassero bene
dal tramandare ai posteri un fatto che avrebbe gettato un’ombra sulla figura di
un grande monarca come Nabucodonosor. Comunque, sia nella storiografia
greca che nell’annalistica babilonese, si colgono allusioni a qualche avvenimento
insolito e anomalo che ebbe per protagonista Nabucodonosor o che si produsse
alla corte di Babilonia durante il suo regno.
Il prof. Rinaldi riporta una notizia riguardante Nabucodonosor riferita dallo
storico greco MEGASTENE (IV secolo a.C.) e raccolta da ABIDENO, altro storico
greco (III secolo a.C.), a sua volta citato da EUSEBIO in Praeparatio Evangelica, 9,
41, 6. Secondo questa informazione Nabucodonosor “salì sulla reggia e, preso
all’improvviso da ispirazione divina, pronunziò questo vaticinio (...). Dette que-
ste parole - conclude lo storico antico - all’improvviso (Nabucodonosor) scom-
parve dalla vista degli uomini”154
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Fin qui il testo babilonese. L’interpretazione non è facile dato lo stato fram-
mentario dello stesso. Da esso comunque appare abbastanza chiaro questo: che
la persona della quale si parla (Nabucodonosor o Amel-Marduk) (1) reputa priva
di valore la propria vita, (2) dà ordini contraddittori, (3) non ha progetti per i fi-
gli e trascura la famiglia, (4) non si cura dell’Esagila, l’area sacra che circonda la
torre templare Etemenanki e il grande tempio di Marduk, (5) piange amaramente
davanti al suo dio. Sono comportamenti del tutto anomali riconducibili o a uno
stato di insanità mentale o a incapacità di governo. Alcuni156 riferiscono a Nabu-
codonosor questi strani comportamenti e li collegano con l’episodio narrato in
Dn 4, Pettinato li rapporta ad Amel-Marduk, il biblico Evil-Merodac (2Re 25: 27;
Gr 52: 31).
Diversi autori moderni hanno supposto che l’estensore del racconto danie-
lico abbia confuso Nabucodonosor con Nabonide, l’ultimo re di Babilonia, di cui
un testo dice che trascorse sette anni nell’Arabia per curarsi di una malattia cuta-
nea; ma le differenze sostanziali tra i due fatti tolgono credibilità a questa
ipotesi157.
Inquadrare cronologicamente l’episodio narrato da Daniele non è agevole,
mancando nel testo riferimenti precisi a questo riguardo. Tuttavia dalle parole di
autocompiacimento di Nabucodonosor: “Non è questa la gran Babilonia che io
ho edificata...?” si può dedurre che all’epoca i grandiosi lavori di ampliamento e
abbellimento della città fossero compiuti o quasi, onde l’episodio può essere
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34 “Alla fine di que’ giorni, io, Nebucadnetsar, alzai gli occhi al cielo,
la ragione mi tornò, e benedissi l’Altissimo, e lodai e glorificai colui
che vive in eterno, il cui dominio è un dominio perpetuo, e il cui re-
gno dura di generazione in generazione. 35 Tutti gli abitanti della
terra sono da lui reputati un nulla; egli agisce come vuole con l’eser-
cito del cielo e con gli abitanti della terra; e non v’è alcuno che possa
fermare la sua mano o dirgli: - Che fai? -
Lo stile cambia ancora una volta, verbi e pronomi tornano alla prima persona: “
io, Nabucodonosor, alzai gli occhi al cielo...” Su questa particolarità stilistica si è
già discusso.
“Alla fine di quei giorni”, cioè allo scadere dei “sette tempi” mentovati nei
vv. 16, 25 e 32. Come si è visto i pareri sul valore dell’espressione “sette tempi”
non sono unanimi: sette anni, sette stagioni oppure, attribuendosi senso metafo-
rico al numero sette (perfezione, compiutezza), tutto il tempo necessario perché
Nabucodonosor riconoscesse che “l’Altissimo domina sul regno degli uomini e
lo dà a chi vuole”. Il S.D.A. Bible Commentary propende per la prima ipotesi,
questo commentario per la terza. Ad ogni modo non è la durata del castigo in-
flitto al re di Babilonia il dato che conta, ma la motivazione di quel castigo.
Può essere interessante citare il lavoro recente di un autore svedese, CARL
JONSSON, il quale ha raccolto tutti i riferimenti alle attività militari e civili di Nabu-
codonosor durante il suo lungo regno e i relativi dati cronologici che sono docu-
mentati nei testi babilonesi, nella Bibbia e in qualche storiografo posteriore. Il
quadro che ne è risultato mostra due sole lacune, fra il 33° e il 37° e fra il 37° e
il 43° anno di regno159. Uno di quei vuoti potrebbe essere messo in relazione
con la demenza di Nabucodonosor a cui allude Daniele.
Nabucodonosor ricupera il senno quando alza lo guardo al cielo. Qualche
autore ha creduto di dovere ribaltare l’ordine dei due eventi: prima il re deve es-
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sere tornato in sé, poi deve avere rivolto il pensiero all’Altissimo che ha umiliato
la sua alterigia. Ma non era necessario ricorrere a questa inversione delle frasi
per avere una successione logica dei fatti. Un barlume di lucidità sufficiente a far
prendere coscienza a Nabucodonosor del suo stato miserevole e a far nascere in
lui il bisogno di supplicare quel Dio del cielo che lo ha umiliato, può avere pre-
ceduto il ritorno pieno della ragione. Risulta comunque abbastanza chiaro che il
riconoscimento della sovranità eterna dell’Altissimo da parte del re viene dopo il
ricupero delle facoltà psichiche. A tale riconoscimento fa seguito l’esaltazione e
la glorificazione, con accenti lirici, di “Colui che vive in eterno, il cui dominio è
un dominio perpetuo”.
A sue spese e attraverso un’esperienza durissima, giova ribadirlo, Nabuco-
donosor ha dovuto imparare una lezione che avrebbe potuto e non ha voluto
acquisire pacificamente nello stato della prosperità.
“Tutti gli abitanti della terra sono da lui reputati come un nulla...”: non si-
gnifica che Dio non abbia alcuna considerazione per gli esseri umani, vuol dire
semplicemente che di fronte alla sua infinita grandezza gli uomini appaiono insi-
gnificanti.
“Egli agisce come vuole con l’esercito del cielo e con gli abitanti della
terra...”, ciò che equivale a dire che non v’è alcuna creatura né in cielo né in
terra che possa frustrare i suoi disegni. Il riconoscimento della supremazia
dell’Altissimo è totale e incondizionato.
Col ricupero delle facoltà psichiche, Nabucodonosor rientra in possesso del suo
fasto (“la gloria del mio regno”), della dignità regale (“la mia maestà”) e del suo
lustro (“il mio splendore”), ma non per sua virtù personale (“mi furono restituiti”:
il re ha imparato la lezione).
“In quel tempo la ragione mi tornò”. Con la ripetizione di questa osserva-
zione viene a stabilirsi un nesso con ciò che è detto nel v. 34 dopo la stessa
frase. Dunque la dignità regale e la grandezza sono stati restituiti a Nabucodono-
sor perché egli si è umiliato davanti all’Iddio del cielo e ne ha riconosciuto il po-
tere illimitato e imperituro.
Durante la vacanza del trono il governo di Babilonia è stato retto verosimil-
mente da un consiglio di reggenza. In questo periodo tuttavia il re non deve es-
sere stato abbandonato a se stesso; i suoi ministri debbono averlo seguito sia
pure a distanza, nell’attesa che egli tornasse alla vita normale (Daniele aveva
predetto che quella triste condizione sarebbe durata per un tempo determinato).
Adesso che il sovrano è tornato in sé, gli ufficiali che compongono il suo
consiglio privato (“i miei consiglieri”) e gli alti funzionari dello stato (“i miei
grandi”) lo avvicinano, lo riconducono nel palazzo e lo reintegrano nei suoi
pieni poteri sovrani (“fui ristabilito nel mio regno”).
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CAPITOLO 4
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CAPITOLO 5
stauro della ziqqurat. In quella preghiera per la prima volta compariva il nome
di Belsazar. Le righe 24-28 del testo recitano:
In uno dei testi delle stele di Harran pubblicato nel 1958, Nabonide stesso con-
ferma questa notizia:
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blicata la prima volta da F. G. PINCHES nel 1882 e in seguito da SIDNEY TAYLOR nel
1924, riferisce che la festa dell’Anno nuovo non fu celebrata a partire dall’anno
settimo di Nabonide perché questi non tornò più a Babilonia da Tema163. Dai
documenti citati si evince:
● che nell’anno settimo del suo regno Nabonide partì per Tema, lontano da
Babilonia,
● che prima di partire conferì la regalità al figlio primogenito, il quale da
uno dei testi dei cilindri di Ur pubblicati da H. F.TALBOT nel 1861 sappiamo
essere Bel-sar-usur (Belsazar),
● che a Tema rimase ininterrottamente per 10 anni.
Chi può avere gestito il potere in Babilonia durante questo decennio di va-
canza del trono se non Belsazar a cui Nabonide aveva conferito la regalità? Altre
circostanze attestate dai documenti confermano che in quel tempo Belsazar, seb-
bene non gli fosse mai stato attribuito ufficialmente il titolo di “re”, esercitò di
fatto l’autorità regia.
È significativo che i nomi di Nabonide e Belsazar compaiano affiancati nelle
formule di giuramento e nei testi di fondazione164
“Il potere regale di Belsazar - sottolinea il prof. E. J. YOUNG - è ancora atte-
stato dalla facoltà che egli aveva di concedere affitti, di emanare ordini, di ese-
guire un atto amministrativo riguardante il tempio di Erech”165. Dunque, pur se
nei documenti ufficiali Nabonide figura come re di Babilonia sino alla caduta
della città nel 539 a.C., sta di fatto che chi tenne le redini del governo negli ul-
timi 10 anni fu suo figlio Belsazar. Niente di strano che Daniele, il quale segue
gli sviluppi politici dall’interno della città, gli attribuisca il titolo di “re”.
Poiché Daniele in 5:30 chiama Belsazar “re dei Caldei”, è possibile che co-
stui governasse la Caldea, che era il centro e il cuore dell’impero, e che suo pa-
dre Nabonide regnasse su tutto l’impero da Tema divenuta quasi una seconda
capitale.
Gli storiografi antichi, da Erodoto a Berosso a Senofonte a Ctesia... hanno to-
talmente ignorato che un reggente di nome Belsazar esercitasse le prerogative della
regalità in Babilonia fino alla caduta della città. Ciò ha fatto dire a uno studioso libe-
rale, il prof. R. H. PFEIFFER: “Probabilmente non sapremo mai come il nostro autore
(l’autore di Daniele)... fosse venuto a conoscenza del fatto che Belsazar, ricordato
soltanto nelle fonti babilonesi, in Daniele e in Baruc 1:1, peraltro dipendente da
Daniele, esercitasse funzioni regali quando Ciro conquistò Babilonia”166.
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CAPITOLO 5
Il numero degli ospiti di Belsazar non è affatto iperbolico come può sem-
brare, se si pensa che i monarchi di allora avevano il gusto delle riunioni convi-
viali oceaniche. Una stele trovata a Nimrud, nell’antica Assiria, riferisce che il re
Assurnasirpal II offrì cibo, vino e alloggio per 10 giorni a una folla di 69.574 per-
sone in occasione dell’inaugurazione di un nuovo palazzo, e lo storico greco
Ctesia dice che i re di Persia nutrivano ogni giorno 15.000 persone e che al ban-
chetto di nozze di Alessandro il Grande presero parte 10.000 ospiti. Di fronte a
queste cifre i 1.000 ospiti di Belsazar appaiono davvero un numero modesto! Di
uno sfarzoso banchetto regale alla corte persiana abbiamo notizie in Et 1:3-7.
IBabilonesi, come gli Assiri (cfr. Nahum 1:10), erano noti per essere forti bevi-
tori. Peraltro nei banchetti delle corti orientali il vino era servito con regale muni-
ficenza (cfr. Et 1:7).
Non fa dunque meraviglia che il re Belsazar e i suoi ospiti bevano abbon-
dantemente durante il banchetto. Questo è precisamente il senso della frase ara-
maica tradotta da LUZZI “mentre stava assaporando il vino”. LEUPOLD la rende:
“quando cominciava a gustare il vino”, ovvero quando Belsazar ne aveva bevuto
abbastanza per cominciare ad apprezzarne il gusto. Più esplicitamente la Ver-
sione della C.E.I. traduce: “Quando Beltassar ebbe molto bevuto”, e RINALDI: “Un
po’ brillo per il vino, Baldassarre ecc...”
Con la mente annebbiata dal vino, dunque, Belsazar decide di compiere un
gesto d’inaudita provocazione verso l’Iddio d’Israele: comandò che siano portati
nella sala i sacri vasi del tempio di Yahweh, trasferiti molti anni prima da Geru-
salemme a Babilonia, per profanarli.
Accadeva spesso nell’antichità che nelle città espugnate durante le guerre ri-
manessero distrutti anche i templi, ma i simulacri delle divinità erano general-
mente rispettati. Così si era comportato Nabucodonosor, “padre” di Belsazar,
quando aveva parzialmente spogliato il tempio di Gerusalemme una prima volta
nel 605 a.C. (Dn 1:2), una seconda volta nel 598 (2Cr 36:7) e una terza nel 587
(2Cr 36:18) prima di distruggere il sacro edificio. Il gran re aveva trattato con ri-
guardo i sacri utensili riponendoli in un santuario di Babilonia (Dn 1:2).
Secondo l’inventario riportato in Ed 1:10, 11 erano custoditi in Babilonia
5.400 utensili vari d’oro e d’argento già appartenuti al tempio gerosolimitano, fra
i quali figuravano 440 calici. Quei calici mai sfiorati da labbra impure Belsazar ha
deciso di profanare. “Il bere nei vasi consacrati a una divinità straniera - osserva
G.RINALDI - ... ha un significato particolare sullo sfondo cortigianesco come affer-
mazione di dominio”167.
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CAPIRE DANIELE
per il fatto che quest’ultimo si è seduto sul suo trono. L’uso del termine “fi-
glio” col significato di successore è documentato in un testo assiro come si
vedrà più avanti.
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CAPITOLO 5
3 Allora furono recati i vasi d’oro ch’erano stati portati via dal tem-
pio, dalla casa di Dio, ch’era in Gerusalemme; e il re, i suoi grandi,
le sue mogli e le sue concubine se ne servirono per bere. 4 Bevvero
del vino e lodarono gli dèi d’oro, d’argento, di rame, di ferro, di le-
gno e di pietra.
L’ordine del re è eseguito con prontezza. Nella sala del palazzo, dove si sta svol-
gendo un’orgia pagana, vengono portati i calici d’oro e d’argento (v. 2) che
erano stati portati via dal tempio di Gerusalemme, “dalla casa di Dio”,
()fhl E ty"b-yiD di-veth ’elaha’) aggiunge Daniele come volendo sottolineare la gra-
f )
vità del sacrilegio perpetrato da Belsazar.
Quei vasi consacrati al culto di Jahvé che nessuno aveva più rimossi dal
luogo dove rispettosamente li aveva custoditi Nabucodonosor, quei vasi mai
prima d’ora profanati, adesso vengono usati come volgari vasi da tavola per una
chiassosa libagione.
E come se fosse poco, mentre si beve si esaltano in dispregio dell’Iddio im-
materiale che domina dall’alto del cielo gli dèi terreni e materiali che non ve-
dono, non odono e non parlano. È difficile immaginare una sfida più audace !
“È curioso - osserva J.DOUKHAN - che siano menzionati gli stessi metalli che for-
mavano la statua vista in sogno da Nabucodonosor, e siano menzionati nello
stesso ordine, come se il banchetto offerto da Belsazar avesse indirettamente di
mira il sogno del suo avo con l’intenzione di contraddirlo”169.
“In quel momento...” La risposta dell’Iddio offeso alla sfida dell’incauto Belsazar
non si fa attendere. È una risposta enigmatica, indecifrabile e perciò tanto più in-
quietante.
Quelle dita senza mano, senza braccio, senza corpo che compaiono tutt’a
un tratto alla luce incerta del grande candelabro, quei segni incomprensibili che
esse tracciano sulla parete prima di scomparire, debbono essere parsi subito a
Belsazar, che per primo se ne avvede (“il re vide quel mozzicone di mano...”)
come un presagio nefasto, chissà, forse come la risposta severa del Dio che egli
ha appena oltraggiato.
È menzionato il “palazzo reale”. All’inizio del secolo, Robert KOLDEWEY ri-
portò alla luce nella parte settentrionale dell’area dell’antica Babilonia le rovine
di un vasto complesso edilizio che l’archeologo interpretò correttamente come il
palazzo reale. Una sala lunga 52 metri e larga 17, che KOLDEWEY chiamò “la sala
del trono”, si affacciava su un ampio cortile al centro della grande struttura. Sulla
parete di fronte alla porta d’ingresso c’era una nicchia dove molto verosimil-
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CAPIRE DANIELE
mente si trovava il trono sul quale prendeva posto il re nelle feste e le cerimonie
ufficiali. Gli scavatori tedeschi notarono anche tracce di stucco bianco su un
tratto di muro170. Con tutta probabilità, fu quella la sala del palazzo reale di Ba-
bilonia dove si svolse il sontuoso ricevimento descritto in questo capitolo del li-
bro di Daniele.
Sono descritti con grande realismo i segni esteriori di un violento shock emotivo
che ha colto il re Belsazar alla vista di quelle dita-fantasma e di quello scritto
pieno di mistero che esse hanno lasciato sulla parete: il volto si scolora, le mem-
bra si accasciano, gli arti inferiori sono scossi da un tremito convulso. Quello
che Belsazar ha visto ha fatto nascere nella sua mente pensieri angoscianti (“i
suoi pensieri lo spaventarono...”).
“Che spettacolo pietoso - commenta LEUPOLD - questo re che pochi istanti
prima aveva avuto l’ardire di sfidare l’Onnipotente!”171.
La gran paura ha fatto perdere a Belsazar il controllo dei nervi. In condi-
zioni normali egli avrebbe semplicemente dato ordine di convocare i sapienti
(cfr. 2:2 e 4:6). Invece grida con forza, come in preda a un forte turbamento
emotivo. Il re nomina tre categorie di esperti della divinazione: gli incantatori, i
caldei e gli astrologi (vedi commento a 2:2) nel seguito indicati sempre colletti-
vamente come “i savi di Babilonia”. Belsazar promette a chi scioglierà l’enigma:
(1) la porpora ()ænwæ G: r a ’argewana’), il colore che contraddistingue la regalità
: )
o una posizione prossima alla dignità regale (cfr. Ether 8:15);
(2) la collana d’oro ()fkyénm a hamnîka’), ancora un’insegna della regalità o di
: h
un incarico di alta responsabilità (cfr. Ge 41:42);
(3) la posizione di terzo ((yiTl a taltî‘ ) nel governo del regno. Si è obiettato
: t
che “terzo” si dice in aramaico telîthî e che taltî‘ doveva piuttosto designare un
titolo onorifico. Sta di fatto che quasi tutti i traduttori di Daniele hanno reso
“terzo” l’aramaico talti (qualcuno ha preferito traslitterare pari pari la parola ara-
maica: “sarà talti”). W.GESENIUS nel suo Lessico ebraico e aramaico dell’Antico Te-
stamento dà come significato di taltî‘ “terzo” e spiega che talîthî è una forma più
comune.
Prima che fossero noti dalle fonti cuneiformi il ruolo vero di Belsazar nel
governo del regno e il suo grado di parentela con Nabonide, ritenendosi che
170 - Vedi A. PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, pp. 6, 27; G.RINALDI, op. cit., p. 88.
171 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 88.
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CAPITOLO 5
La presenza dei professionisti della divinazione nella sala del convito sembra es-
sere presupposta già nel verso precedente ove si dice che il re, dopo avere gridato
forte che si facessero entrare “gli incantatori, i caldei e gli astrologi” “prese a dire ai
savi ecc...” Ma secondo il v. 8 costoro entrano nella sala dopo che il re ha fatto “ai
savi di Babilonia” (v. 7) la promessa di ambite onorificenze se qualcuno di loro
avesse risolto l’enigma. Una incongruenza? Solo in apparenza se si ammette che
nel v. 7 Belsazar si rivolgesse ad alcuni sapienti già presenti fra gli ospiti173. L’en-
trata successiva di “tutti i savi del re” sembra corroborare questa tesi.
Dunque per la terza volta entrano in scena gli specialisti babilonesi dell’arte
divinatoria (cfr. 2:2 e 4:6, 7) e per la terza volta si deve prendere atto di un loro
completo fallimento: non ce n’è uno che riesca a decifrare lo scritto consegnato
all’intonaco della parete dalla mano-fantasma. Il silenzio degli indovini delude le
aspettative di Belsazar e ne accresce lo sgomento che traspare nel pallore del
volto; una grande costernazione si diffonde tra i suoi mille ospiti.
Sul perché gli indovini non riuscissero a decifrare lo scritto si può solo fare
congetture dato il silenzio del testo. Le tre parole erano sicuramente aramaiche
(vedi commento al v. 25) e poiché il caldaico era molto affine all’aramaico, non
doveva essere difficile per i sapienti leggere quelle parole. Si è pensato che esse
fossero scritte con gli antichi caratteri ebraici sconosciuti in Babilonia, un’ipotesi
che sembra verosimile, ma che il S.D.A. Bible Commentary scarta ritenendo
poco probabile che gli uomini colti di Babilonia non conoscessero l’antica scrit-
tura ebraica usata dai Fenici e da altri popoli dell’Asia occidentale oltre che dagli
Ebrei. Il commentario avventista pensa piuttosto che le tre parole formassero
una sorta di criptogramma per cui anche leggendole sarebbe stato impossibile
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CAPIRE DANIELE
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CAPITOLO 5
Daniele, introdotto seduta stante nella sala del banchetto, è sottoposto a interro-
gatorio da parte di Belsazar che sembra volere accertarsi della sua identità: “Sei
tu Daniele...?”
Pur trattandosi di una procedura formale, è tuttavia probabile che Belsazar
non avesse avuto rapporti ufficiali con Daniele. Sosterrebbe questa tesi la possi-
bilità concreta di tradurre la frase interrogativa aramaica: “Sei tu quel
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CAPIRE DANIELE
Belsazar dice a Daniele di aver “sentito dire” (e da chi se non dalla regina di cui
quasi ripete le parole?) che in lui è “lo spirito degli dèi” (omette l’aggettivo
“santi” usato dalla regina, forse perché pensa al Dio d’Israele?), e che lui pos-
siede facoltà eccezionali (luce, intelligenza e sapienza straordinaria - in ara-
maico chokmâh yattîrah, hfryiTyá hfmk: x
f ). Non sembra però ancora convinto che ciò
sia vero.
Per la terza volta un monarca babilonese (cfr. 2:11 e 4:18) deve constatare l’im-
potenza dei rappresentanti ufficiali della scienza di Babilonia (“i savi e gli incan-
tatori”) di fronte a un enigma che era importante e urgente sciogliere (“non
hanno potuto darmi l’interpretazione della cosa...”).
179 - Vedi H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 28; S.D.A. Bible Commentary, ivi, p. 804.
180 - S.D.A. Bible Commentary, ivi.
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CAPITOLO 5
“... ho sentito dire di te...”. Non è una ripetizione superflua di quanto Belsazar
ha detto nel v. 14. Lì il re si riferiva a un insieme di facoltà straordinarie posse-
dute dal suo interlocutore secondo quanto gli era stato riferito, qui allude alle
cose che egli sarebbe stato in grado di fare attraverso l’esercizio di quelle facoltà:
“dare interpretazioni e risolvere questioni difficili”.
Belsazar però non ha la stessa convinzione della regina circa la capacità
reale di Daniele di “risolvere questioni difficili”. La regina aveva detto del pro-
feta: “... egli darà l’interpretazione...” (v. 12 u.p.); lui, Belsazar, dice a Daniele:
“se puoi leggere questo scritto...”. Il re ripete a Daniele la promessa fatta prima ai
sapienti (v. 7): egli riceverà la porpora, la collana d’oro e la posizione di terza
autorità nel governo del regno se decifrerà e interpreterà lo scritto (vedi com-
mento al v. 7).
17 Allora Daniele prese a dire in presenza del re: “Tieniti i tuoi doni
e da’ a un altro le tue ricompense; nondimeno io leggerò lo scritto al
re e gliene farò conoscere l’interpretazione.
I doni di Dio sono gratuiti, così deve essere il loro esercizio. Del resto Daniele
non ambisce i beni e gli onori terreni: “Tieni per te i tuoi doni e dai a un altro le
tue ricompense !”
Può sembrare una risposta brusca e scortese. Si è detto, a ragione, che non
era il caso per il profeta di introdurre la sua risposta alla richiesta del re con una
formula di cortesia dal momento che questi non ha avuto alcun riguardo verso il
suo Dio.
Daniele dunque rifiuta l’altissima onorificenza che gli viene offerta (quanto
è diverso lo spirito di questo autentico uomo di Dio da quello del mago-profeta
Balaam! Vedi Nu 22:7,8; De 23:4); nondimeno risponderà alla richiesta del re.
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CAPIRE DANIELE
tato se stesso anziché l’Iddio altissimo dal quale proveniva la sua fortuna: Egli
“aveva dato a Nabucodonosor... regno, grandezza, gloria e maestà” (vedi 2:37 e
relativo commento).
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CAPITOLO 5
scenza di sorta, e non hai glorificato l’Iddio che ha nella sua mano il
tuo soffio vitale, e da cui dipendono tutte le tue vie. 24 Perciò è stato
mandato, da parte sua, quel mozzicone di mano, che ha tracciato
quello scritto.
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CAPIRE DANIELE
Il profeta procede alla lettura dello scritto. Sono tre parole aramaiche: la prima è
ripetuta due volte e la terza è alla forma plurale. Difficile dire con che tipo di
scrittura fossero state tracciate. Con quella cuneiforme certamente no, altrimenti
il re e i suoi dignitari le avrebbero lette. Probabilmente le parole erano scritte
con i caratteri aramaici (non sconosciuti ai sapienti di Babilonia) o con i più anti-
chi caratteri ebraici.
Di certo erano formate di sole consonanti: MN’ MN’ TKL FRSN (la vocaliz-
zazione del testo attuale di Daniele come di tutta la Bibbia ebraica risale a non
oltre il IX secolo della nostra era). Si deve comunque notare che alla luce dell’in-
terpretazione di Daniele, la vocalizzazione masoretica delle tre parole aramaiche
appare più che plausibile, come si vedrà più avanti. È stata rilevata un’affinità
delle parole lette da Daniele con dei termini del vocabolario commerciale: )¢nm :
MENE’ = mina, l"qT: TEKEL = siclo (shekel in ebraico), }yisr : pa U UFARSIN, plurale di
PERES = mezzo siclo (la terza parola è preceduta dalla congiunzione aramaica
“u” (= “e”) la quale, per una legge fonetica, muta in “f” la “p” della parola a cui
di unisce).
Se i tre vocaboli si leggono come sostantivi, si hanno questi tre valori ponde-
rali e monetari decrescenti: MINA (2 volte), SICLO, MEZZI SICLI (il gruppo conso-
nantico PRS compare col significato di “mezzo siclo” nell’Iscrizione di Senchirli).
Se il primo dei due MENE’ si interpreta come imperativo del verbo menã’,
lo scritto si può leggere: “Conta una mina, un siclo, mezzo siclo.” I sapienti del
re, non sappiamo per quale ragione, non possono leggere lo scritto. Ad ogni
buon conto, anche se ne fossero stati capaci, non avrebbero potuto interpretarlo,
giacché non disponevano di un contesto logico in cui inserirlo perché avesse
senso. In tempi recenti, degli studiosi che hanno letto i tre vocaboli aramaici
come sostantivi hanno tentato di rapportare i valori monetari così desunti a dei
re babilonesi che regnarono consecutivamente.
Sono riportate di seguito, attinte da The New Bible Dictionary, le proposte
più interessanti:
● C.S.CLERMONT GANNEAU: NABUCODONOSOR (mina’), BELSAZAR (siclo),
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CAPITOLO 5
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CAPIRE DANIELE
con effetto immediato. Il riferimento alla Media e alla Persia come entità politica
unitaria (cfr. 6:8, 12, 15; 8:20) mostra che il nostro autore ha una conoscenza
esatta della storia.
Fino al 550 a.C. le tribù persiane erano rimaste sotto la sovranità dei Medi ,
ma in quell’anno esse ebbero il sopravvento sui loro dominatori avendo Ciro,
principe persiano, vinto e deposto Astiage loro re. Ciro però non impose ai vinti
la sua sovranità, al contrario li associò nel governo del nuovo stato unendo di
fatto le due etnie in un’unica nazione. È difficile credere che un giudeo palesti-
nese del II secolo a.C. fosse così bene informato sulla composizione etnica e la
struttura politica di un impero che non esisteva più da oltre 160 anni!
L’uomo che si è rivelato superiore a tutti i sapienti di Babilonia col decifrare e in-
terpretare lo scritto misterioso, riceve le onorificenze che il re ha promesso. Da-
niele le aveva rifiutate, ma gli ordini del re non si discutono ed egli deve suo mal-
grado vestire l’abito di porpora, indossare la collana d’oro (cfr. Ge 44:42) e farsi
proclamare la terza autorità del regno, un regno che ha peraltro le ore contate.
Anche SENOFONTE (ca. 430-354 a.C.) è informato che Belsazar cadde in po-
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CAPITOLO 5
tere dei Persiani durante una notte di bagordi. Lo storico ateniese riferisce che i
soldati di Ciro penetrarono di notte nella città e, avuta facilmente ragione delle
guardie ubriache, entrarono nel palazzo dove si svolgeva un festino e vi uccisero
il re che tentò di opporre resistenza182. Secondo la Cronaca di Babilonia era il
14 di tishratu dell’anno 17° di Nabonide, il 10 ottobre del 539 a.C. secondo il ca-
lendario giuliano183.
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CAPIRE DANIELE
Capitolo 6
____________________________
D aniele non è stato travolto dagli avvenimenti che hanno cambiato la fisiono-
mia politica della pianura mesopotamica. Nonostante che avesse svolto man-
sioni di governo sotto la passata amministrazione, il nuovo re di Babilonia, Da-
rio il medo, lo vuole accanto a sé mentre procede alla riforma amministrativa
dello Stato. Pensa addirittura di affidargli la supervisione di tutta l’amministra-
zione statale. Ciò suscita la gelosia dei funzionari subalterni che non esitano a
tramare un complotto contro di lui, ma la competenza e la correttezza di Daniele
vanificano il loro malvagio disegno.
I nemici di Daniele però non demordono: escogitano un piano diabolico per
volgere in violazione della legge dello Stato la fedeltà di Daniele alla legge del suo
Dio. Stavolta l’ignobile progetto va a buon fine con la complicità inconsapevole
del sovrano. Quando Dario si accorge di essere caduto in un tranello, è troppo
tardi per tornare indietro: non può fare nulla per sottrarre il suo fedele ministro
alla pena capitale. A questo punto interviene l’evento miracoloso.
Come tanti anni prima un angelo del Signore aveva protetto dall’ardore del
fuoco Shadrac, Meshac e Abed-nego, così adesso un angelo del Signore rende
inoffensive le belve alle quali Daniele è stato dato in pasto. Per ordine del re Da-
rio, Daniele è tratto fuori dalla fossa dei leoni e i suoi accusatori vi finiscono den-
tro con le mogli e i figli; e stavolta le belve non rimangono inoperose.
Il racconto si chiude con un proclama reale rivolto a tutti i sudditi del regno,
un proclama nel quale si impone il rispetto del Dio di Daniele e si esaltano la sua
sovranità eterna e il suo potere di salvare.
Il nuovo signore di Babilonia come primo atto di governo attua una riforma am-
ministrativa dello Stato, che si identifica non con l’impero di Persia sul quale
Ciro esercita la sovranità, ma con la provincia di Caldea (cfr. 9:1) nella Mesopo-
tamia inferiore.
R.H.CHARLES osserva che “una sorta di divisione di Babilonia è documentata
nelle tavolette annalistiche di Ciro ove si dice che Gubaru, governatore di Babi-
lonia sotto Ciro, ‘nominò dei governatori in Babilonia’”185. Si è osservato che du-
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CAPITOLO 6
precisare che quegli appartiene alla stirpe dei Medi (9:1), mentre questi è di
estrazione persiana, e che occupa il trono di Babilonia all’età di 62 anni,
mentre Dario I cominciò a regnare sulla Persia in età più giovanile;
● Daniele mostra di conoscere bene la successione dei primi regnanti di
Persia dopo la caduta di Babilonia. Infatti in 11:2 allude a tre re che deb-
bono sorgere in Persia (dopo Ciro) e a un quarto che sarà più ricco e “sol-
leverà tutti contro il regno di Grecia”. Poiché è trasparente in questo quarto
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CAPIRE DANIELE
re la figura di Serse, è ovvio che i tre che dovevano precederlo sono Dario
I, il falso Smerdis e Cambise il figlio di Ciro.
● Daniele sa infine che Ciro regna sulla Persia (10:1) e che Dario il Medo
governa soltanto la Caldea e con potere subordinato (9:1): “fu fatto re dei
Caldei”.
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CAPITOLO 6
2. Ciassàre II, figlio di Astiage. Come ultimo re dei Medi è noto soltanto a
SENOFONTE192. Nell’antichità è stato identificato col Dario di Daniele da GIUSEPPE
FLAVIO193. GIROLAMO194 cita questa opinione dello storico giudaico e sembra con-
dividerla. Ai nostri giorni hanno mantenuto tale identificazione un buon numero
di autori. H.H. ROWLEY195 ricorda LOWTH, HENGSTENBERG, ROSENMULLER, HÄVERNICK,
KRANICHFELD, KLIEFOTH, ZÖKLER, KNABENBAUER. In ambito avventista questa tesi ha
raccolto il consenso del S.D.A. Bible Commentary196 e più recentemente di G.H.
HASEL197. Fra i cattolici di lingua italiana è condivisa da E.TESTA198. Effettivamente
si riscontrano vari punti di contatto fra Ciassàre II e il Dario di Daniele. Ciassàre
appartenne alla stirpe dei Medi, fu zio, e secondo SENOFONTE anche suocero di
Ciro, ebbe rapporti amichevoli con lui; la sua età all’epoca della caduta di Babi-
lonia coincideva su per giù con quella di Dario il Medo, indicata da Daniele. In-
fine Senofonte non dà più notizie di lui in rapporto agli anni che seguirono di
poco la caduta di Babilonia. Tuttavia altre circostanze rendono problematica
questa identificazione.
a) Le notizie di Senofonte su Ciassàre non sempre sono attendibili, specie
laddove le contraddicono le fonti cuneiformi;
b) il nome del padre di Ciassàre era Astiage, non Assuero;
c) una presenza di Ciassàre II in Babilonia come successore di Belsazar-Na-
bonide non è attestata nelle fonti storiche.
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CAPIRE DANIELE
200 - HASEL, op. cit., p. 113 nota 176, ricorda H.WINKLER, P.RIESSLER e C.BOUTFLOWER.
201 - Vedi HASEL, op. cit., p. 114.
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CAPITOLO 6
dei Paesi”.
● Dopo la rivolta antipersiana di Babilonia, repressa da Serse I nel 482 a.C.,
Sembra tuttavia opporsi a questa tesi il fatto già segnalato che Ugbaru non sa-
rebbe vissuto abbastanza da poter gestire gli affari di governo, come vuole Da-
niele. La Cronaca di Nabonide informa che Babilonia fu conquistata dai Persiani
il 16 di Tishratu e che Ciro vi entrò da trionfatore 17 giorni appresso, il 3 di Ara-
shamnu. Poi riferisce che fra i mesi di Kislimu e Addaru le immagini degli dèi fu-
rono riportate nelle loro sedi, e subito dopo segnala che Gubaru (Ugbaru) morì
l’11 di Arashamnu.
Si è creduto che la notizia del trasferimento delle divinità nelle loro sedi in-
serita fra il 3 e l’11 di Arashamnu fosse cronologicamente fuori posto, ed è stato
in base a questa supposizione che si è pensato che Ugbaru fosse morto circa tre
settimane dopo la presa di Babilonia. William H.Shea non condivide questa opi-
nione. Egli è convinto che tutti gli avvenimenti riportati nella Cronaca si susse-
guono nell’ordine cronologico naturale, e crede di poterlo dimostrare. Avendo
verificato accuratamente gli avvenimenti datati dal tempo di Nabonassar (VIII se-
colo a.C.) fino al tempo della Cronaca di Nabonide (VI secolo a.C.), egli ha po-
tuto notare che su 318 osservazioni cronologiche contenute nei testi presi in
esame, 313 si susseguivano secondo l’ordine naturale e solo 5 secondo un or-
dine anomalo. Shea conclude che i 313 casi in cui l’ordine degli avvenimenti è
quello consecutivo debbono riflettere la regola corrente, e che i 5 casi nei quali
l’ordine è diverso debbono ritenersi una deroga da questa. È parso legittimo a
questo autore applicare la regola corrente ai fatti riportati nella terza colonna
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CAPIRE DANIELE
supporre che egli non fosse giovane, per quanto la Cronaca non ne indichi
l’età. Dario il Medo secondo Dn 5:31 aveva 62 anni quando divenne re di
Babilonia.
● Combinando la cronologia della Cronaca con quella dei titoli reali nei te-
sti amministrativi, si deduce che Ugbaru morì 14 mesi circa dopo la caduta
di Babilonia. Daniele - come già notato - ricorda solo il primo anno di Da-
rio il Medo (9:1; 11:1) e in 10:1 menziona l’anno III di Ciro. La spiegazione
più logica è che Dario fosse scomparso prima del terzo anno di Ciro.
● La distinzione che fa Daniele fra i regni di Ciro e di Dario corrisponde
bene alla situazione che descrivono i testi cuneiformi. Il titolo di “Re di Per-
sia” che Dan 10:1 dà a Ciro concorda col titolo che gli attribuiscono i testi
amministrativi, “Re dei Paesi”, e la notizia di Dn 9:1 secondo la quale Dario
il Medo regnò sul “regno dei Caldei” coincide col titolo di “Re di Babilonia”
che Ciro cominciò a portare dopo la morte di Ugbaru.
● La condizione di vassallo di Ugbaru concorda bene con l’informazione di
202 - Per ragguagli più esaurienti vedi gli articoli di W.H.SHEA su Andrews University Seminary
Studies, n. 20, 1982, e Daniel, questions débattues, specialmente da p. 94. Vedi anche la
nota 1 a pg. 244 e segg. nel presente volume.
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CAPITOLO 6
2 E sopra questi, tre capi, uno dei quali era Daniele, perché questi
satrapi rendessero loro conto, e il re non avesse a soffrire alcun
danno.
Dario ha creato una burocrazia statale più sofisticata di quella babilonese. Non
solo ha istituito 120 distretti amministrativi e ha posto a capo di ciascuno un fun-
zionario governativo, ma ha nominato tre alti commissari col compito di soprin-
tendere all’operato di questi amministratori locali.
Si direbbe che Dario avesse alle spalle una consumata esperienza di go-
verno (se è corretta l’identificazione con Ugbaru, come è assai probabile che lo
sia, è appena necessario ricordare che costui fu governatore di una provincia del
regno di Persia prima di occupare Babilonia per conto di Ciro).
Dal testo parrebbe che il “re” i cui interessi economici debbono essere sal-
vaguardati sia lo stesso Dario; in realtà, come dice giustamente Leupold204, “Da-
rio sta salvaguardando gli interessi di Ciro”. I regnanti achemenidi dedicarono
un’attenzione particolare all’economia di Stato.
Dario il Medo, che governa la Caldea come vassallo del re di Persia, si pre-
mura di tutelare gli interessi del gran sovrano. Questo fu il compito più rilevante
e la preoccupazione costante dei funzionari che amministrarono le province
dell’impero persiano (cfr. Ed 4:13-16).
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CAPIRE DANIELE
“...questo Daniele...”, vale a dire il Daniele già noto al lettore dai racconti prece-
denti. L’autore del libro parla di sé con distacco, come se stesse parlando di
un’altra persona. È ancora un indice di umiltà e modestia. “Questo Daniele” su-
pera i funzionari pari grado e i subalterni per competenza e abilità nell’ammini-
strare la cosa pubblica.
Fin dalla giovinezza Daniele si era distinto per le non comuni doti naturali
che possedeva (1:4), doti che una sapienza ricevuta in dono da Dio aveva esal-
tato (1:17). Il re Nabucodonosor, e dopo di lui la innominata regina del tempo di
Belsazar, avevano riconosciuto quei talenti straordinari come manifestazione di
un principio sovrumano (cfr. 4:18 e 5:11, 12).
Questo giudizio trova conferma nelle parole stesse di Daniele il quale usa
un’espressione quasi identica (“c’era in lui uno spirito straordinario”, aramaico
)fryiTyá xa Ur ruach yattîra’) per spiegare che il suo eccellere come uomo di Stato
non dipende da innate virtù personali ma è il risultato di un dono sovrannatu-
rale. Egli vi accenna dunque non per dare lustro alla sua persona, ma al contra-
rio per glorificare il suo Dio.
Il re Dario si è accorto della perizia ineguagliabile del suo venerabile mini-
stro e si è convinto che egli potrà servire meglio lo Stato da una posizione di go-
verno più elevata, perciò ha deciso di porlo al vertice della burocrazia ammini-
strativa del regno.
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CAPITOLO 6
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CAPITOLO 6
Questo versetto è più comprensibile nella traduzione del Prof. G.Rinaldi: “In se-
guito a ciò il re Dario fece scrivere il documento col divieto”. La vile congiura a
danno di Daniele ha funzionato. Senza sospettare quello che sta dietro la propo-
sta dei suoi ministri, il re Dario ha fatto redigere il divieto che diventa subito
legge irrevocabile. Presto scatterà per Daniele una trappola mortale.
Come sia venuto a conoscenza del decreto la vittima designata, il racconto
non lo dice. Certo è che il divieto ha messo Daniele in una situazione estrema-
mente difficile. Quale sarebbe stata la sua scelta non c’era da dubitarne, si trat-
tava comunque di una scelta sofferta. Fin dai tempi della sua attività di governo
alla corte di Nabucodonosor, quest’uomo di Dio aveva tenuto un contegno di
assoluto rispetto verso il re e la legge del paese che serviva. Tanto più gli sarà
premuto rispettare la volontà di un sovrano come Dario che gli è amico. Co-
munque Dio occupa e occuperà sempre il primo posto nella considerazione di
Daniele. La severità e inflessibilità delle leggi di Media e di Persia gli sono note
per cui egli è ben consapevole della sorte a cui va incontro, ma non modifica le
sue abitudini religiose: “Come soleva fare per l’addietro”, tre volte al giorno si
genuflette davanti alle finestre della sua camera superiore spalancate in direzione
di Gerusalemme e prega il suo Dio, verosimilmente a voce alta. Il principio: “Bi-
sogna ubbidire a Dio anziché agli uomini” (At 5:29) è stato applicato cinque se-
coli prima che fosse enunciato.
Le case nell’Oriente antico avevano generalmente il tetto piatto e non di
rado in un angolo del tetto avevano una piccola stanza dove ci si poteva isolare
per il riposo o la preghiera. Le finestre probabilmente erano munite di una grata.
Daniele dunque prega davanti alle finestre della sua stanza superiore che guar-
dano a ponente.
Per gli israeliti lontani dalla loro terra volgersi in direzione di essa nel mo-
mento della preghiera doveva essere una consuetudine molto antica se ne allude
Salomone nella cerimonia di dedicazione del Tempio (1Re 8:44, 48).
Sull’attitudine corporale durante la preghiera, il S.D.A. Bible Commentary
nota: “La Bibbia allude a svariate posizioni nella preghiera. Incontriamo dei servi
di Dio che pregano seduti, come Davide (1Sam 7:18), inchinati, come Eliezer
(Ge 24:26) ed Elia (1Re 18:42) e spesso in piedi, come Anna (1Sam 1:26). L’atti-
tudine più comune nella preghiera sembra essere stata la genuflessione, come
attestano gli esempi seguenti: Esdra (9:25), Gesù (Lc 22:41), Stefano (At 7:60)”211.
La consuetudine degli israeliti di pregare tre volte al giorno è attestata al-
trove nella Bibbia (vedi Sl 55:17). Nel tardo giudaismo tale consuetudine di-
211 - Ibidem.
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CAPIRE DANIELE
venne una norma quotidiana per i pii giudei. I tre momenti della preghiera
erano l’ora terza, l’ora sesta e l’ora nona a partire dal sorgere del sole (grosso
modo le 9 a.m., mezzodì e le 3 p.m.). La prima e la terza preghiera erano fatte in
coincidenza con l’offerta del sacrificio del mattino e della sera212.
Ci si potrebbe chiedere se non sarebbe stata una ragionevole misura di pru-
denza da parte di Daniele pregare in segreto finché non fossero trascorsi i trenta
giorni, e se il non averlo fatto non sia stata un’inutile sfida al potere e un’altret-
tanta inutile esposizione della propria vita.
Niente di tutto questo. Se Daniele in quel frangente avesse agito diversa-
mente di come agì, avrebbe dato modo ai pagani di credere che i servi dell’Id-
dio Altissimo in fondo non credono nel suo potere salvifico e di conseguenza lo
servono finché non corrono grossi rischi.213 Con la sua scelta coraggiosa e coe-
rente Daniele ha dimostrato tutto il contrario!
12 Poi s’accostarono al re, e gli parlarono del divieto reale: “Non hai
tu firmato un divieto, per il quale chiunque entro lo spazio di trenta
giorni farà qualche richiesta a qualsivoglia dio o uomo tranne che
a te, o re, deve essere gettato nella fossa de’ leoni?” Il re rispose e
disse: “La cosa è stabilita, conformemente alla legge dei Medi e de’
Persiani, che è irrevocabile”.
Gli avversari di Daniele procedono con sottile scaltrezza per prevenire un tenta-
tivo in extremis del re di sottrarre alla pena capitale il loro odiato ‘concorrente’.
Non denunciano subito l’accaduto di cui sono stati spettatori, ma interpellano il
sovrano sul decreto che ha promulgato, in modo da ottenere da lui una piena
conferma del divieto che esso impone e della sanzione che prevede per i tra-
sgressori. L’intrigo è stato tramato con cura per modo che Daniele non abbia
scampo.
Questi ignobili individui recitano davanti al re la parte di zelanti tutori della
legge e dell’autorità del sovrano. E ancora una volta il re Dario li asseconda in
perfetta buona fede, stavolta col confermare solennemente il decreto e la sua ir-
revocabilità. Senza rendersene conto, Dario convalida una sentenza di morte a
carico del più fidato e stimato dei suoi ministri.
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CAPITOLO 6
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CAPIRE DANIELE
con la massima pena, come il decreto stesso prescrive. Dario però ha deciso in
cuor suo di salvare Daniele, pur se non sa ancora come. Intanto prende tempo.
Rinvia l’esecuzione della sentenza e per tutto il giorno cerca un modo di sot-
trarre Daniele dalle fauci dei leoni; chissà, forse fruga anche nelle pieghe della
legge con la speranza di trovare un cavillo per poter salvare Daniele senza abo-
lire il decreto. Ma è tutto inutile. Dario è fatalmente prigioniero di una sua legge-
rezza.
Trascorsa la giornata e constatato che Daniele non è stato ancora giusti-
ziato, i suoi nemici accorrono eccitati dal re per manifestare il loro dissenso. Te-
mono forse che col favore delle tenebre, e magari con la complicità del sovrano,
il loro avversario si renda irreperibile e scampi alla morte ? È possibile.
Insistono che presso i Medi e i Persiani i decreti emanati dall’autorità so-
vrana non si possono in alcun modo revocare. È evidente la pretesa che la sen-
tenza venga eseguita senza ulteriore indugio.
Con la loro vivace rimostranza gli accusatori di Daniele hanno vinto la riluttanza
del re. Dario non ha potuto sottrarsi alla sua responsabilità di supremo garante
della legge. Per quanto se ne dolga, non ha altra scelta che fare arrestare Daniele
e consegnarlo alle guardie preposte all’esecuzione delle sentenze capitali.
Egli stesso si porta sul luogo del supplizio insieme con i suoi dignitari per
verificare, come vuole la prassi, l’applicazione della pena.
Il serraglio delle belve è una cavità naturale o artificiale a cielo chiuso, che
in origine può essere stata utilizzata per raccogliere l’acqua piovana. Dire di più
non è possibile giacché a tutt’oggi non è stata rinvenuta nessuna caverna come
quella a cui si accenna in questo racconto. Di certo la fossa aveva un’apertura
sul cielo dalla quale si introducevano le carni per sfamare le belve.
Prima che Daniele sia dato in pasto alle fiere, il re Dario, sinceramente ad-
dolorato per non avere potuto sottrarlo a quel supplizio crudele, e quasi scusan-
dosene, lo rincuora dicendogli che il suo Dio, l’Iddio al quale egli è rimasto fe-
dele in ogni circostanza, sarà quegli che proteggerà la sua vita.
Sarebbe eccessivo pensare che Dario si stia convertendo alla fede monotei-
stica di Daniele. Da buon pagano, egli crede nel potere sovrannaturale degli dèi
ed è persuaso che l’Iddio dei Giudei non è da meno delle divinità che egli venera.
Dopo avere calato Daniele nella fossa, gli addetti ne ricoprono l’apertura con
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CAPITOLO 6
una pesante lastra di pietra e contornano la lastra con dell’argilla fresca sulla
quale il re e i suoi dignitari imprimono i loro sigilli allo scopo di impedire qual-
siasi manomissione.
Nell’antichità le persone importanti avevano sempre con sé il proprio si-
gillo. Il nome e il simbolo del proprietario erano incisi su una pietra dura inca-
stonata in un anello, o più comunemente su un cilindretto d’osso o di pietra fo-
rato longitudinalmente e attraversato da un cordoncino annodato alle estremità
in modo da potersi portare al collo. Difficile dire se il re Dario e i suoi dignitari
in questa circostanza facessero uso dell’anello o del cilindretto, giacché il ter-
mine aramaico )fqzº (i ‘izqa’ significa genericamente “sigillo”, come traducono cor-
rettamente varie versioni. Sta di fatto che il sigillo cilindrico si affermò e si dif-
fuse in tutta l’area dell’Oriente antico214.
Ufficialmente i sigilli apposti su quella che doveva divenire la tomba di Da-
niele servivano a impedire che essa venisse manomessa per sottrarre alla morte
il condannato. Ma se Dario, come pare certo, ha creduto davvero che Daniele
non sarebbe morto, allora nella sua intenzione il sigillamento del luogo del sup-
plizio doveva mirare al duplice scopo di: a) rendere evidente il carattere miraco-
loso dell’evento, e b) impedire che i nemici facessero morire Daniele in altro
modo.
Mentre l’uomo di dio rimane tranquillo nell’antro freddo e buio in compa-
gnia dei leoni che sembrano avere perso il fiuto, il potente re di Babilonia tra-
scorre la notte insonne ed agitato nel suo splendido palazzo. Lo tormenta il dub-
bio se Daniele scamperà davvero alle zanne dei leoni, e lo coglie insieme l’ango-
scia per la perdita possibile di un amico e uomo di valore e il senso di colpa per
esserne in qualche modo responsabile.
Nella pianura mesopotamica il pasto principale si consumava la sera, giac-
ché a mezzodì la gran calura del giorno affievoliva l’appetito. Ma quella sera il re
Dario non tocca cibo perché il tormento dell’animo gli ha tolto l’appetito.
La seconda parte del v. 18 è resa variamente dai traduttori:
“non gli fu introdotta alcuna donna...” (C.E.I., molto simile alla Luzzi);
“senza farsi portar cibi...” (G.Rinaldi);
“non gli fu recato alcuno svago...” (H.C.Leupold);
“né furono portati davanti a lui strumenti musicali...” (King’s James Vers.).
214 - Vedi S.MOSCATI, L’alba della Civiltà, vol. III, pp. 265, 266.
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CAPIRE DANIELE
Alla fine di una giornata carica di emozioni il re Dario si è disteso sul letto ma
non ha chiuso occhio per tutta la notte. Ansioso di sapere quale sia la sorte del
suo fido ministro, non attende che sia giorno chiaro per accertarsene: alle prime
luci dell’alba si alza e si affretta verso il luogo del supplizio combattuto fra la
speranza che Daniele sia ancora in vita e la paura che le belve lo abbiano fatto a
pezzi. “E come fu vicino alla fossa, chiamò Daniele...”
Nell’ansia di sciogliere il dubbio tormentoso Dario chiama Daniele prima
ancora che sia giunto sopra la fossa nella quale è stato rinchiuso. Lo chiama
“con voce dolorosa” (“con voce angosciata” secondo un’altra traduzione;
nell’aramaico: byic(A lfqB
: beqol ‘atzîv, “con voce afflitta, dolorosa”). La voce tradi-
sce l’affanno e il rimorso che agitano l’animo del re.
“Daniele, servo dell’Iddio vivente!” Sorprende l’attributo “vivente” riferito da
un pagano al Dio dei Giudei. Così avevano talvolta designato l’Altissimo i profeti
d’Israele (vedere Gr 10:10; Os 1:10), così lo avrebbero ancora designato i disce-
poli di Cristo (vedi Mt.16:16; At 14:15; Rm 9:26; Ap 7:2). “... l’Iddio vivente” sulla
bocca di Dario tradisce forse un concetto più alto rispetto alla nozione che egli
aveva delle divinità pagane? Può darsi. In ogni caso è segno che il rapporto con
Daniele non è stato ininfluente.
Purnondimeno Dario tentenna fra la speranza e il dubbio: “Il tuo Dio... t’ha
egli potuto liberare dai leoni?” Sembra dubitare del miracolo nel quale il giorno
avanti aveva professato di credere.
Probabilmente qualche feritoia per l’areazione consente una sia pur precaria co-
municazione fra l’esterno e l’interno della caverna e viceversa. Sta di fatto che
Daniele può udire la voce del re e il re la sua. Con tono calmo e rispettoso
l’uomo di Dio rivolge al sovrano il saluto augurale (“... possa tu vivere in perpe-
tuo !”), come se si trovasse nella sala di udienze del palazzo e non in un antro
buio e tra voraci felini. Si vede chiaramente che egli non nutre alcun rancore
verso l’uomo potente che, seppure a malincuore, lo ha fatto relegare in quel
luogo orribile.
Al saluto deferente, il prigioniero fa seguire la spiegazione del perché egli
sia rimasto in vita in una situazione in cui nessun uomo sarebbe potuto scam-
pare alla morte. E la spiegazione è un prodigio sovrannaturale: il suo Dio ha
mandato il suo angelo per tenere chiuse le fauci dei leoni. È stato lo stesso an-
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CAPITOLO 6
gelo che in un’altra circostanza (vedi 3:24, 25) ha neutralizzato l’ardore di una
fornace ?... Certo è che ancora una volta l’Iddio del cielo ha spiegato la sua forza
irresistibile per impedire che fosse stroncata la vita di un innocente il cui “torto”
era stato di avere anteposto il Creatore alla creatura.
Il primo pensiero di Daniele è stato dunque di testimoniare la potenza e la
benevolenza di Dio a suo riguardo. Soltanto dopo egli manifesta la sua serenità
interiore per sentirsi assolto da Lui: “Perché io sono stato trovato innocente nel
suo cospetto”. Come dire che non sarebbe certamente sopravvissuto se il Giu-
dice supremo degli uomini avesse riconosciuto giusta la pena severa che gli è
stata inflitta. Per conseguenza egli è netto di qualsiasi colpa pure nei confronti
del re: “Anche davanti a te, o re, non ho fatto alcun male”. È insieme una pacata
protesta d’innocenza e un garbato rimprovero al sovrano che non ha saputo sca-
gionarlo dall’imputazione infamante di non aver voluto tenere conto della sua
persona e della sua autorità.
Può sembrare privo di senso che Daniele si discolpi dopo che è stato con-
dannato e non lo abbia fatto prima. Invece c’è una logica in questa postuma ri-
vendicazione d’innocenza. I nemici lo avevano accusato di ribellione contro il
sovrano e la sua legge (v. 13), e tutto faceva credere che avessero ragione giac-
ché in effetti Daniele aveva contravvenuto al decreto reale. L’accusa però era ca-
lunniosa perché si fondava su una interpretazione distorta dei fatti, ma Daniele
non aveva alcun modo di dimostrarlo. La sua protesta d’innocenza sarebbe dun-
que stata vana; egli non aveva altra scelta che accettare di subire l’iniqua con-
danna e rimettere la sua sorte nelle mani di Dio (e non era poco!).
Adesso la prova della sua innocenza c’è ed è irrefutabile: è la sua sopravvi-
venza. In Babilonia come nel resto dell’Oriente antico nei casi di dubbia colpe-
volezza si faceva ricorso all’ordalia giudiziaria o giudizio degli dèi215. L’accusato
veniva gettato nelle acque di un fiume e la sua colpevolezza o innocenza veniva
stabilita secondo che il suo corpo sprofondasse o galleggiasse.
Nel caso di Daniele c’è stato un normale giudizio del sovrano, non un’orda-
lia giudiziaria, comunque ha funzionato quello che si credeva essere il principio
su cui si fondava questa pratica. L’essere Daniele scampato miracolosamente alla
morte cui era stato legalmente condannato, non poteva non essere interpretato
come il giudizio favorevole della divinità e dunque come una prova della sua in-
nocenza.
La benevolenza di Dario verso Daniele e la sincerità del suo dolore per non
avere potuto evitare la sua condanna, si palesano nella sua intensa reazione
215 - Vedi F.PINTORE, L’alba della Civiltà, vol. I, pp. 490, 491; R.DE VAUX, Le Istituzioni dell’Antico
Testamento, pp. 164, 165.
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CAPIRE DANIELE
24 E per ordine del re furon menati quegli uomini che avevano accu-
sato Daniele, e furon gettati nella fossa dei leoni, essi, i loro figliuoli
e le loro mogli; e non erano ancora giunti in fondo alla fossa, che i
leoni furono loro addosso, e fiaccaron loro tutte le ossa.
L’oscuro disegno dei capi e dei satrapi quando costoro hanno denunciato Da-
niele si è svelato in tutta la sua nefandezza. Il re si è accorto che col falso prete-
sto di salvaguardare la sua autorità essi gli hanno estorto un decreto iniquo,
giacché mirava soltanto a colpire senza motivo il più fidato e capace dei suoi mi-
nistri. Il complotto contro un uomo incolpevole ha dunque un risvolto non
meno grave: esso ha offeso la dignità del sovrano poiché lo ha coinvolto a sua
insaputa in un atto di suprema ingiustizia. Allora però Dario non ha potuto rea-
gire in conformità della legge, giacché nessuno sarebbe stato in grado di scagio-
nare Daniele dall’imputazione di ribellione.
Ma ora che il giudizio divino ha messo in piena luce l’innocenza dell’accu-
sato (vedi commento al v. 22), nulla potrà impedire al re di agire col massimo ri-
gore nei confronti dei cospiratori. Saranno loro a sperimentare l’inflessibile du-
rezza della legge dei Medi e dei Persiani che avevano invocata contro Daniele
(vedi v. 15). Saranno loro, e i loro familiari purtroppo, a subire la pena atroce
che avevano preparato per il loro avversario.
Più o meno come sarebbe accaduto ad Haman, l’implacabile nemico di
Mardocheo e dei Giudei (vedi Et 6:9, 10). È proprio vero che “chi scava una
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CAPITOLO 6
fossa vi cadrà, e la pietra torna addosso a chi la rotola” (Pr 26:27). È raccapric-
ciante che siano coinvolti mogli e figli nelle colpe dei mariti e padri e nelle san-
zioni loro riservate. Ma tant’è: nell’antichità era molto vivo il sentimento di soli-
darietà e corresponsabilità familiare (vedi Gs 7:24, 25).
Su questa pratica crudele presso i Persiani ci dà notizia anche Erodoto.
Narra lo storico greco che essendosi un tale Intafrene reso reo di grave colpa
verso il re Dario (da non confondersi col Dario del nostro racconto), il sovrano
facesse arrestare lui, i suoi figli e altri parenti, e li mandasse a morte tutti tranne
due, risparmiati grazie all’intercessione appassionata di una donna che era ma-
dre dell’uno e sorella dell’altro (III, 118, 119).
Per la seconda volta Dario promulga un decreto indirizzato a tutti i sudditi del
regno che sono espressamente distinti nei gruppi etnici, nazionali e linguistici
che lo compongono (vedi comm. a 4:1).
La frase “su tutta la terra” aggiunge il concetto di universalità spaziale a
quello di universalità sociale già enunciato con le espressioni “tutti i popoli” e
“tutte le nazioni e lingue”. L’aggettivo kol (“tutta”, “tutti”, “tutte”) ha una portata
limitata all’ambito territoriale del regno, e il sostantivo “terra” è usato nell’acce-
zione ristretta di “paese” (anche noi diciamo, per es., “la terra dei padri” vo-
lendo significare il paese dove siamo nati, la patria). Il senso dell’espressione
aramaica )f(r : ) : bekol-’ar‘a’ è dunque “in tutto il paese”, e non “in tutto il
a -lfkB
mondo”.
L’editto di Dario si apre col saluto augurale di prammatica nei proclami reali
dell’epoca (vedi 4:1 e relativo commento).
La frase: “in tutto il dominio del mio regno”, chiarisce e ridimensiona l’espres-
sione: “su tutta la terra” nel v. 25, a conferma di quanto si è detto in proposito
nel commento si quel versetto.
Il nuovo editto di Dario si differenzia in modo sostanziale dal precedente,
anzi si colloca agli antipodi: quello poneva in primo piano la persona del re, ne
faceva oggetto esclusivo di religiosa riverenza; questo esalta l’Iddio del cielo e
prescrive che Lui si tema e si riverisca. Non sarebbe stato di certo emanato que-
sto secondo decreto reale se Daniele si fosse lasciato intimorire dal primo: an-
cora una volta si è visto come l’avere anteposto a rischio della vita l’imperativo
della coscienza alle dispotiche esigenze del potere, in definitiva abbia sortito
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CAPIRE DANIELE
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Capitolo 7
____________________________________________________
217 - Appare spesso nella letteratura apocalittica una figura angelica (l’angelus interpres) che
spiega e interpreta la profezia. L’angelus interpres richiamandosi esplicitamente al discernimento
sapienziale proveniente da Dio, ricorda alla comunità cristiana il compito di propagatrice delle ve-
rità divine che le spetta. Infatti la figura angelica nell’apocalittica, quando è implicata a vari livelli e
con diversi ruoli nel dinamismo della storia della salvezza, è un segno positivo. In questo caso
l’angelo diventa un simbolo che esprime il rapporto fra la realtà umana e quella divina. L’angelo
diventa l’entità celeste che mette in un rapporto particolare e diretto col trascendente.
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CAPIRE DANIELE
218 - raC$ " Belshatsar era probabilmente il figlio di Nitocri, figlia di Nabucodonosor (Vedi R.P.
a ):lb
DOUGHERTY, Nabonidus and Belshazzar, 1926).
219 - Una tavoletta con un’iscrizione cuneiforme che risale all’anno di accessione di Neriglissar
sul trono babilonese, menziona un certo “Belshazzar, il principale funzionario del re”, in rela-
zione a un’operazione finanziaria. Nel 1924 è stata pubblicata la decifrazione del testo cu-
neiforme detto Storia in versi di Nabonide, grazie al quale sono state portate alla luce preziose
informazioni che avvalorarono senz’altro la posizione regale che Baldassar aveva a Babilonia e
spiegano in che modo divenne corregente di Nabonide. A proposito della conquista di Tema da
parte di Nabonide nel terzo anno del suo regno, parte del testo dice: “Egli affidò l’accampa-
mento al [figlio] maggiore, il primogenito [Baldassar] le truppe ovunque nel paese sottopose al
suo [comando]. Lasciò andare [ogni cosa], a lui affidò il regno e, lui stesso [Nabonide] partì per
un lungo viaggio, e le forze [militari] di Akkad marciarono con lui; egli si volse verso Tema, [molto
più ad ovest]” (J. B. PRITCHARD, Ancient Near Eastern Texts, 1974, p. 313). Nella Cronaca di Babi-
lonia, a proposito del settimo, nono, dicimo e undicesimo anno del regno di Nabonide, viene ri-
petuta questa dichiarazione: “Il re [era] a Tema [mentre] il principe, gli ufficiali e il suo esercito
[erano] in Akkad [Babilonia]” (A.K. GRAYSON, Assyrian and Babylonian Chronicles, 1975, p. 108).
Un altro documento, una delle stele di Harran (NABON H1, B) il cui testo è stato pubblicato da
J.C. GADD in Anatolian Studies, “The Harran Inscriptions of Nabonidus”, vol VIII, 1958, ci informa
che Nabonide trascorse nell’Arabia, a Tema, 10 anni dei suoi 17 anni di regno. Quindi Baldassar
esercitò senz’altro l’autorità regale dal terzo anno di Nabonide (549 a.C.) in poi, e questo avveni-
mento corrisponde al riferimento “primo anno di Baldassar” (Dan 7:1).
220 - Nel 1979 venne riportata alla luce una statua a grandezza naturale di un governatore
dell’antica Gozan. Sul lembo della veste c’erano due iscrizioni, una in lingua assira, l’altra in
aramaico: la lingua in cui Daniele scrisse di Baldassar. Le due iscrizioni quasi identiche differi-
vano in un punto significativo. Il testo nella lingua imperiale assira dice che si tratta della sta-
tua del “governatore di Gozar”. Il testo in aramaico, la lingua della popolazione locale, lo defini-
sce “re”. “Alla luce delle fonti babilonesi e delle nuove iscrizioni su questa statua, poteva es-
sere del tutto appropriato per un documento non ufficiale come il Libro di Daniele chiamare Bal-
dassar re. Agiva in qualità di re, in rappresentanza del padre, per quanto non fosse legalmente
re. Infatti le iscrizioni ufficiali Baldassar ha il titolo di “principe ereditario”, mentre in Daniele ha
il titolo di re. (ALAN MILLARD, Biblical Archaeology Review, maggio-giugno 1985, p. 77).
221 - Vedi Introduzione, IV.
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CAPITOLO 7
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CAPIRE DANIELE
tezza delle nazioni. Il fatto che le ‘quattro bestie’ sembrano sorgere dal mare in-
dica chiaramente che dallo stato agitato del mondo hanno origine le potenze
mondiali che compaiono l’una dopo l’altra sullo scenario del storia umana”225.
L’espressione aramaica ()æYm a $
: y"xUr (aBr a ) “i quattro venti del cielo” nel lin-
: )
guaggio biblico denota in generale le quattro direzioni dello spazio (anche uni-
versalità spaziale: cfr. Ez 37:9; Dn 8:8; 11:4; Za 6:5; Ap 7:1). Qui però si vuole al-
ludere al vento come fenomeno fisico. Nei profeti il vento con senso metaforico
indica la guerra: Geremia descrive come un vento impetuoso l’immi-nente inva-
sione caldea (Gr 4:13; vedi anche Ez 13:12,13; 24:32,33).
Nella visione danielica i “quattro venti del cielo” che si scatenano sul mar
grande evocano non un singolo evento bellico, ma il flagello della guerra in ge-
nerale che coinvolge popoli e nazioni e sconvolge l’assetto politico del mondo
cancellando nazioni potenti e facendone sorgere di nuove226.
Fin dall’antichità si è riconosciuto che il “sogno” del cap. 2 e la “visione” del cap.
7 sono rivelazioni parallele.
Le quattro grandi bestie del cap. 7 sono il corrispettivo dei quattro metalli
della statua. Colpisce il contrasto fra le due figurazioni parallele: un simulacro
umano di grande splendore nell’una, una serie di bestie selvagge nell’altra. Si
consideri che la prima rivelazione fu data a un monarca pagano, la seconda a un
profeta dell’Altissimo. La statua di metalli pregiati rispecchia la concezione
umana del potere (la concezione di Nabucodonosor); le bestie selvagge evocano
il punto di vista di Dio: il potere raggiunto e mantenuto con l’uso della forza
bruta, con l’inganno, con la sopraffazione è paragonabile al dominio delle belve
nella foresta. Una belva come figura è quanto di più attinente per mettere a
nudo l’anima vera del potere terreno.
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CAPITOLO 7
In natura queste bestie non esistono. Di loro viene detto che sono simili, ma non
uguali. Sono degli animali particolari perché rispetto agli animali del nostro mondo
che uccidono per mangiare, essi uccidono per uccidere, non mangiano per vivere,
ma vivono per mangiare. Essi raffigurano il potere umano separato da Dio.
“La prima era come un leone” (aramaico h¢y :ra)k: ke’aryeh), cioè somigliante a
un leone. Il parallelismo tra i capitoli 2 e 7 consente, anzi obbliga a identificare
Babilonia nel grande leone alato. A un leone che balza sulla preda Geremia pa-
227 - Le bestie rappresentano dei re e una successione di re o, in altri termini delle domina-
zioni, dei regimi, dei regni o degli imperi idolatri, opposti o indifferenti al regno di Dio. Questi im-
peri sono rappresentati sotto l’immagine di bestie, per far notare che le passioni ne sono il
principale movente. È da rivelare che queste bestie indicano le sovranità o monarchie univer-
sali. Daniele le considera tanto nel loro capo quanto nell’insieme dei loro successori. In tal
modo, le quattro bestie rappresentano quattro re e la serie dei re, che continuano la loro domi-
nazione o il loro regno. Chiaramente nel testo di Dn 7:17, le bestie indicano dei re. L’interprete
della visione dice a Daniele: “Queste quattro grandi bestie sono quattro re [malkin]”. Ma le tra-
duzioni antiche o moderne hanno tradotto per “quattro regni”. Esse hanno compreso, in effetti,
che si tratta qui, non solamente di un individuo, ma della serie dei re che si riallacciano a lui. È
così che l’angelo ci fa comprendere che, con la parola “re”, intende il seguito dei successori di
questi regni: “La quarta bestia è un quarto regno” (Dn 7:23). Le bestie rappresentano dunque,
non solamente il primo re indicato dalla visione, ma anche successivamente dagli altri re. Ogni
regno è così rappresentato come una unica bestia, sebbene comprenda più persone diverse,
poiché tutte queste persone sono considerate come membri di uno stesso corpo, che concor-
rono a una specie di unità, mossi da uno stesso spirito, per uno stesso regime nazionale (J. FA-
BRE D’ENVIEU, Le livre du prophète Daniel, Paris 1880, t. II, p. 565). “In queste profezie, il re rap-
presenta il regno, e il regno è concentrato nel re” (PUSEY, Lectures on Daniel, p. 78).
228 - La differenza di queste bestie non consiste nel grado di potere che è loro accordato, - poi-
ché tutte simboleggiono delle monarchie universali, - bensì nel carattere della loro potenza.
Come ogni bestia ha la sua organizzazione e le sue caratteristiche proprie, così ognuno di que-
sti imperi ha uno spirito e un modo di agire particolare (Bible Annotée, Ancien Testament, Les
prophètes, t. II, Daniel, p. 285).
Ognuna di questi imperi universali ha i suoi tratti distintivi: c’è la regale Babilonia e la Persia vo-
luttuosa. la Grecia colta e Roma imperiale e vittoriosa (H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 286).
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CAPIRE DANIELE
ragona i Caldei che stanno per aggredire il regno di Giuda (Gr 4:7). La figura del
leone apparteneva all’iconografia ufficiale babilonese. Il leone, insieme col toro
e il drago, era riprodotto a sbalzo 575 volte sui mattoni smaltati che ricoprivano
le strutture murarie della splendida porta di Ishtar in Babilonia229.
Il leone della visione danielica aveva due ali d’aquila sul dorso. Il re della
foresta e la regina delle vette inviolate riuniti in un unico simbolo rappresentano
la regalità di Babilonia con la stessa efficacia dell’oro230, il re dei metalli, nella vi-
sione parallela del cap. 2. Le ali evocano anche la rapidità con cui Nabucodono-
sor avrebbe esteso l’egemonia di Babilonia verso ovest e verso sud231.
La perdita delle ali e l’umanizzazione del leone232 (la belva si rizza sulle
zampe posteriori o meglio fu sollevata da terra e fu fatta stare in piede come un
uomo, e riceve un cuore umano) possono simbolizzano la decadenza dell’im-
pero babilonese dopo la morte di Nabucodonosor233. Anche se al tempo in cui
Daniele scrive, la monarchia babilonese era già apparsa ed era giunta alla sua
fine; lo scrittore sacro si esprime ugualmente al futuro a causa delle altre tre, che
appariranno in avvenire (vedi Dn 7:3)234.
229 - Cfr. C.J. DU RY, L’arte nell’Antico Oriente, Firenze 1965, p. 113
230 - Il leone è il più nobile degli animali selvatici e l’aquila il più nobile degli uccelli: queste ca-
ratteristiche ricordano l’immagine della testa d’oro, il più nobile dei metalli, immagine applicata
espressamente a Nanucodonosor (A. CRAMPON, op. cit., p. 686).
231 - Simile all’aquila che trasporta lontano la sua preda, Babilonia planava sulle popolazioni.
S’abbatteva come dall’alto delle nuvole sulle loro città più forti, e quando le aveva prese era
contemporaneamente un’aquila e un leone sulla sua preda. L’esercito babilonese portava via
dalle città conquistate tutto ciò che era possibile trasportare quello che non poteva essere tra-
sferito nelle città babilonesi veniva distrutto.
232 - Queste ali d’aquila che vengono strappate, indicano un atto violento, col quale si suole
designare il periodo in cui Nabucodonosor cessò le sue conquiste per darsi alle arti e alla
pace, dando al suo regno un carattere più umano. Il cuore d’uomo raffigura il cambiamento reli-
gioso che si operò in lui negli ultimi anni del suo regno nel riconoscere la sovranità del Dio
d’Israele (Dn 4:16, 34; 3:28-29).
233 - Le ali che vengono strappate e l’offerta del cuore simile a quello di un uomo possono rife-
rirsi anche agli ultimi anni dell’impero babilonese, indebolito e cadente sotto i colpi dei Medo-
Persiani; non è più un leone vigoroso, né un aquila rapida che tocca appena terra, ma l’uomo
debole e mortale, incapace di difendersi contro la seconda bestia (A. CRAMPON, op. cit., p. 686).
Già da quando Nabucodonosor fu tolto dalla scena, prima con la sua malattia mentale e poi
con la morte che lo seguì da vicino, i suoi eserciti cessarono di volare come aquile; essi subbi-
rono sconfitte una dopo l’altra e le sue conquiste gli vennero rapite una dopo l’altra (LOUIS GAUS-
SEN, Daniel le Prophète, t. II, Paris 1848, p. 30-31).
234 - Vedi A. CRAMPON, op. cit., p. 689.
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CAPITOLO 7
5 Poi vidi una seconda bestia, simile ad un orso; essa stava eretta
sopra un fianco, teneva tre costole in bocca fra i denti e le fu detto:
“Alzati, mangia molta carne!”
235 - L’orso animale tozzo, lento nei movimenti e di grande ferocia rappresenta bene l’Impero
Medo-Persiano che corrisponde, nella statua, al petto e alle braccia d’argento (A PELLEGRRINI,
op. cit., p. 169).
236 - Gli imperi universali vengono presi in considerazione solo a partire dal momento in cui
conquistano il precedente. Per questo datiamo la Medo-Persia dal 539/38 (presa di Babilonia)
al 331 a.C. (anno in cui fu annessa all’impero di Alessadro Magno): 207 anni in tutto.
237 - Gli storici dicono che i Persiani furono i più barbari di tutti i popoli conquistatori. Nulla ca-
ratterizza meglio la nazione persiana delle sue leggi criminali. Esse si distinguevano per la cru-
deltà delle pene: i colpevoli erano scorticati e seppelliti vivi. C’era più crudeltà ancora nelle mu-
tilazioni che i Persiani si compiacevano d’infliggere. Il persiano Ciro che, secondo la testimo-
nianza di Senofonte, aveva tutte le virtù di un grande re, esercitava la giustizia con tale zelo
che - narra sempre lo storico greco - le grandi strade erano affollate d’uomini mutilati nei piedi,
nelle mani, agli occhi. Dopo la presa di Babilonia, Dario fece mettere in croce tremila abitanti
tra i più distinti della città. Serse sorpassò Dario in crudeltà. Seneca riporta che un re persiano
fece tagliare il naso a tutto un popolo (E. LAURENT, Histoire du Droit des gens, t. I, p. 176).
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CAPIRE DANIELE
238 - Uno, il lato medo, resta a riposo; l’altro, il lato persiano, si alza e diventa più alto del
primo (A. CRAMPON, op. cit., p. 686).
239 - Le tre costole in bocca rappresentano le conquiste della parte occidentale, della parte
settentrionale e della parte meridionale (Bible Annotée, op. cit., t. II, p. 286).
240 - Idem.
241 - Inoltre, non si capisce in quali particolari l’orso corrisponderebbe alle caratteristiche del
popolo medo: perchè esso dovrebbe avere un lato più alto dell’altro, perchè le tre costole in
bocca, dal momento che le conquiste sopra elencate furono compiute insieme ai Persiani. Di
conseguenza, in che modo il leopardo a quattro teste e quattro ali rappresenterebbe i Persiani,
mentre sembra così bene adattarsi all’impero Greco-Macedone (anche in analogia con il capi-
tolo 8 di Daniele). E dove andrebbero a finire i Romani, dal momento che il mostro seguente
dovrebbe rappresentare i Greci?!...
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CAPITOLO 7
Il contrasto tra il leopardo e l’orso è ancora più forte che tra l’orso e il leone.
La velocità e l’agilità del leopardo suggeriscono che il terzo impero univer-
sale243 doveva crescere più rapidamente del secondo244.
Le quattro ali sul dorso dell’animale (il doppio rispetto al leone) accentuano
questa impressione. Ci vollero 35 anni di guerre e l’impegno militare di tre re-
gnanti (Ciro II, Cambise II e Dario I) perché l’Impero Medo-Persiano giungesse
alla sua massima estensione territoriale.
Ai Macedoni, che si celano sotto il simbolo del leopardo, bastarono 11 anni
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CAPIRE DANIELE
Gran parte dell’esegesi moderna di Daniele scorge in questo mostro senza nome
245 - Alessandro, come il felino che lo designa, era senza posa, inquieto, agitato, intrattabile,
insoddisfatto; e questo carattere si è trovato in quasi tutti i suoi successori. Non aveva ancora
21 anni quando tutti gli Stati della Grecia lo nominarono generale dei Greci, per attaccare il po-
tente impero dei Medo-Persiani. Nell’anno successivo passa in Asia e rovescia tutto sul suo
cammino, marcia, o piuttosto vola come una tempesta; la potente Tiro è bruciata; Gaza è an-
nientata; l’Egitto è conquistato in qualche settimana; Babilonia cade in mano sua: in cinque
anni di guerra rapida e vittoriosa come non si vide mai, questo giovane principe, appena all’età
di 26 anni, sale sul trono di Nabucodonosor e di Ciro, si vede monarca del mondo e si fa chia-
mare “il padrone della terra e del mare”.
246 - Alessandro muore giovane, a trent’anni circa, prima di riuscire ad organizzare il suo vasto
impero. Sul letto di morte, aveva detto ai suoi generali che gli avrebbero preparato dei funerali
sanguinosi. Infatti, vent’anni dopo, le sue conquiste furono divise fra i suoi quattro generali: Se-
leuco, Cassandro, Tolomeo e Lisimaco, che avevano trucidato tutti i suoi legittimi discendenti.
Questi quattro regni che si formarono furono quelli di Macedonia, Tracia, Egitto e Siria. Ecco
che cosa stavano a significare le quattro teste del leopardo: una divisione del territorio geogra-
fico del regno greco-macedone. Questa interpretazione è certa, anche perché assolutamente
analoga alla rappresentazione che, al cap. 8 di Daniele, si fa dello stesso impero. Qui esso è
simboleggiato da un caprone avente un grande corno fra gli occhi che poi si spezzerà e verrà
rimpiazzato da altre quattro corna. É l’angelo stesso a spiegare al profeta Daniele che si tratta
di una divisione dell’ impero in quattro regni distinti, aventi però minore potenza di prima (Dn
8:5-8,21,22).
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CAPITOLO 7
(1) La Siria dei Seleucidi è stata già prefigurata con una delle quattro
teste del leopardo.
(2) Il carattere universale della quarta monarchia è espressamente sotto-
lineato nel testo: “...divorerà tutta la terra” (v. 23). Il regno dei Seleucidi fu
soltanto una frazione dell’Impero macedone. Alessandro, e prima di lui i re
di Persia e di Babilonia, esercitarono un dominio universale, i Seleucidi mai.
(3) Il testo danielico differenzia espressamente le bestie-simbolo l’una
dall’altra: “...una diversa dall’altra” (v. 3). Marcate differenze etniche, lin-
guistiche, politiche e culturali distinsero fra loro i Babilonesi, i Persiani e i
Macedoni. Il regno dei Seleucidi fu un prolungamento ridotto dell’Impero
macedone del quale condivise la lingua, la cultura e l’appartenenza etnica
dei suoi dinasti. La diversità della quarta bestia è enfatizzata con insistenza
nel testo: “era diversa da tutte le bestie che l’avevano preceduta” (v. 7);
“...era diversa da tutte le altre...” (v. 19); “...un quarto regno ... che diffe-
rirà da tutti i regni” (v. 23).
(4) Le formule di transizione tra una bestia e l’altra nei vv. 4-7 presup-
pongono un distacco netto tra i regni che quelle bestie rappresentano: “ed
ecco un’altra bestia...” (v. 5); “dopo questo...eccone un’altra” (v. 6);
“dopo questo... ecco una quarta bestia...” (v. 7). Questo modo di rappor-
tare i regni fra loro suggerisce che ognuno di essi debba sorgere dopo che
il precedente sia caduto. I regni ellenistici, di cui uno fu la Siria dei Seleu-
cidi, non succedettero all’Impero macedone, ne furono la naturale conti-
nuazione.
(5) Gli aggettivi e i verbi che descrivono l’aspetto e l’attività della
quarta bestia (“spaventevole”, “terribile”, “straordinariamente forte”, “divo-
rava”, “sbranava”, “calpestava”), evocano una potenza politica e militare for-
midabile e invincibile quale non fu storicamente la Siria dei Seleucidi (cfr. il
commento a 2:39-40).
(6) L’identificazione del regno di Siria nella quarta bestia è una forza-
tura a cui obbliga l’aprioristica identificazione di Antioco Epifane nell’undi-
cesimo corno di quella bestia.
247 - Cfr. E. TESTA, “Daniele” in Il messaggio della salvezza a cura di G. CANFORA - P. ROSSANO - S.
ZEDDA, Torino-Leumann, 1965-69, vol. III, nota 7 alle pp. 142-143; C. SCHEDL, Storia del Vecchio
Testamento, Roma, 1959-66, vol. IV, p. 75; G. RINALDI, Daniele, Torino 1962, p. 111; G.
BERNINI, Daniele, Roma 1976, p. 215
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CAPIRE DANIELE
(1) La quarta bestia è una delle quattro grandi bestie (vv. 3 e 17). L’im-
ponenza del mostro risponde alla dimensione mondiale dello stato romano
nell’età imperiale.
(2) La diversificazione della quarta bestia sottolineata con insistenza ha
riscontro nei caratteri peculiari della stirpe e della civiltà romana. Diversa fu
l’indole dei latini rispetto ai Greci e agli asiatici, diverse furono le strutture
di governo dei Romani, diverse le loro strategie militari, diversa la loro
struttura politica, diversa l’organizzazione amministrativa dell’Impero (si noti
che Alessandro aveva improntato a quelle dei Persiani le strutture di go-
verno e l’organizzazione amministrativa del suo impero mentre i Romani
mantennero le loro proprie strutture di governo e amministrative).
(3) All’entrata in scena della quarta bestia dopo l’uscita del leopardo,
risponde bene, storicamente, l’affermarsi di Roma nel Vicino Oriente dopo
che essa ebbe “fagocitato” ad uno ad uno i regni ellenistici eredi dell’Im-
pero di Alessandro.
(4) L’aspetto aggressivo della quarta belva, la sua forza, la sua voracità
e ferocia, la sua tracotanza evocano adeguatamente l’indole guerriera dei
Romani, la loro indomabile volontà di dominio, la potenza delle loro le-
gioni, la durezza verso i nemici sconfitti (“guai ai vinti !”): mai nel mondo si
erano visti tanti schiavi come nell’età imperiale romana.
Le 10 corna sulla testa della mostruosa creatura sono l’equivalente delle 10 dita
in cui si suddividono i piedi della statua nel cap. 2. Le corna sono interpretate
come “dieci re che sorgeranno da questo regno” (v. 24).
I moderni identificano nelle 10 corna 10 sovrani seleucidi e nell’undicesimo
Antioco Epifane. Su questa interpretazione torneremo più avanti. Nei capitoli 7 e
8 di Daniele sia le bestie che le corna appaiono ora come simboli di “re” (vedi
7:17,24), ora come simboli di “regni” (vedi 7:23; 8:32).
In Dn 7:19 e 23, 2:39 e 8:21 il termine “re”, o un pronome personale che sta
per esso, sono adoperati al posto del termine “regno”.
“Dieci re” in 7:24, come mostra la struttura grammaticale della frase, va in-
248 - Cfr. A. WIKENHAUSER, L’Apocalisse di Giovanni, Brescia 1968, nota 6 alle pp. 150-151; vedi
pure Introduzione, III, 1, 2.
249- G. RINALDI, op.cit., nota VI, p. 113.
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CAPITOLO 7
teso in senso collettivo (“regni”) e non in senso individuale. Il testo dice: “Le
dieci corna sono dieci re che sorgeranno da questo regno” (v. 24). La preposi-
zione aramaica min, come la corrispondente preposizione italiana “da”, denota
derivazione. Da uno stato unitario che si fraziona derivano stati minori, non re-
gnanti.
Quando Daniele vuole riferirsi al sorgere di regnanti individuali in una na-
zione, usa una preposizione aramaica diversa da min, come in Dn 11:2: “Ecco,
sorgeranno ancora in Persia tre re” (“in”, aramaico le).
Con una schiera numerosa di espositori antichi e moderni250, l’esegesi av-
ventista sostiene che le 10 corna, alla stregua delle 10 dita nel cap. 2, rappresen-
tano i regni romano-barbarici che s’instaurarono nei territori dell’Impero latino
quando venne meno la sua unità nel V secolo (vedi commento a 2:41-43).
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CAPIRE DANIELE
Sullo scanno centrale prende posto il Giudice dell’universo che Daniele de-
scrive come un “vegliardo” (aramaico }yimOy qyiT(a ’attîq yomîn, letteralmente “un
antico di giorni”). Il candore dei capelli (“come lana pura”) è indice di età vene-
randa. Non è una descrizione letterale della Maestà del cielo, ma una sua figura-
zione antropomorfica. Nessun occhio umano ha mai visto Dio nella realtà (1Tm
6:16; Gn 6:46; Es 33:20). Il biancore niveo delle vesti è simbolo di purezza,
quindi di equità assoluta.
Il “trono” sul quale siede l’”antico di giorni” è composto di sostanza eterea:
“fiamme di fuoco” (Leupold). Le “ruote” (cfr. Ez 1:16,26) evocano l’idea di movi-
mento rapido e cotinuo, quindi di onnipresenza e onniveggenza (in Ez 1:18 le
“ruote” del trono di Dio sono “piene di occhi”). Lo splendore insostenibile che
irradia dalla maestosa Figura centrale è descritto dal profeta come un accecante
torrente di fuoco. Daniele non identifica la moltitudine di esseri che stanno da-
vanti all’ìantico di giorni”, ma è chiaro che questi esseri sono angeli. Delle due
cifre “mille migliaia” (}yipl : )
a vel)e ’elef ‘alfîn) e “diecimila miriadi” (}fw: br
i OBir ribbô
rivwan), la seconda sembra voler rettificare la prima stimata al di sotto della
realtà, oppure si tratta semplicemente di parallelismo poetico.
Gli angeli stanno in presenza dell’Onnipotente pronti ad eseguire i suoi or-
dini. “Il giudizio si tenne e i libri furono aperti” (così la versione Riveduta). L’ara-
maico UxyitP: }yirp: si wº bityº )æ nyiD dinâ’ yetîv wesifrîn petîchîn è resa dalla versione
TOB: “ La corte sedette e i libri furono aperti” (lo stesso G. Rinaldi). Questa tra-
duzione è migliore: ddinâ’ è un pronome dimostrativo (“questi”, “costoro”), e
yetîv è un verbo che significa “sedettero”. Il testo descrive precisamente una
grande assise giudiziaria nella quale gli angeli fungono insieme da testimoni e
da giurati251. Quello che descrive Daniele in questo punto è il giudizio che pre-
cede il secondo avvento di Cristo, ovvero la prima fase del giudizio finale, la
quale per gli eletti di Dio costituirà un’azione liberatoria.
La seconda fase sarà rappresentata dal giudizio esecutivo il quale avrà per
oggetto la punizione dei reprobi252.
Quando siede la corte i libri si aprono (una scena analoga è descritta in
Apocalisse 20:12 dove pure si dice: “ed i libri furono aperti”).
Le Scritture alludono a tre libri celesti nei quali sono accuratamente regi-
strati i nomi e le azioni degli uomini:
1) Il libro della vita, dove sono scritti i nomi degli eletti di Dio (Es 32:32;
Sl 69:28). Nel libro della vita resteranno scritti i nomi degli eletti che avranno
perseverato fino alla fine (Ap 3:5). I nomi degli eletti che avranno apostatato sa-
ranno cancellati e la sorte di costoro sarà “lo stagno di fuoco” (Ap 20:15).
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CAPITOLO 7
2) Il libro delle memorie, nel quale sono registrate con cura le azioni giu-
ste dei santi (Ml 3:16), ovvero le opere della fede (Ga 5:6).
3) Il libro della morte, sul quale sono riportate le opere malvage degli uo-
mini che si chiusero all’appello di Dio. Questo “libro” è presupposto in Ap 20:12
dove il giudizio e la sorte finale degli uomini sono fatti dipendere “dalle cose
scritte nei libri” in base alle loro azioni.
Poiché il destino finale degli uomini sarà la vita eterna o la morte eterna
(cfr. Dn 12:2; Mt 25:46; Gn 5:28,29; Rm 2:6-8), i “libri” debbono contenere le me-
morie delle opere giuste dei santi (il libro delle memorie) e il ricordo delle azioni
perverse dei ribelli (il libro della morte) I libri celesti non debbono essere imma-
ginati come oggetti materiali253..
A metà dell’interludio celeste si apre una parentesi. Lo sguardo del veggente ri-
torna sullo scenario terreno, dove si svolge l’atto finale del dramma cominciato
con l’uscita delle bestie dal mare agitato. Echeggiano ancora, nelle orecchie di
Daniele, le parole arroganti proferite dal “piccolo corno” e sono esse che lo
spingono a rivolgere di nuovo lo sguardo verso quella figura nefanda.
“Guardai finché...” (aramaico da( ty¢wh A hawêth ‘ad): questa frase presuppone
una continuazione dell’azione riferita precedentemente, ossia del parlare traco-
tante del corno. Probabilmente, Daniele ha visto anche l’attività devastante del
corno descritta nel v. 25 e può avere omesso di menzionarla volendo subito mo-
strare l’intervento risolutivo della giustizia divina.
Il corno agisce e la bestia viene punita. Evidentemente c’è una solidarietà
organica fra i due per cui la distruzione dell’una comporta quella dell’altro. La
bestia incarna più specificamente il potere secolare ostile a Dio ed al suo po-
polo, il corno rappresenta un’entità politico-ecclesiastica.
L’incenerimento della bestia con le sue corna, compreso l’undicesimo, ri-
chiama l’attenzione sull’annientamento radicale e definitivo del sistema di potere
che questi simboli rappresentano (Ap 19:20). E’ lo stesso sistema che Paolo in
2Te 2:3-4 designa con le espressioni “l’uomo del peccato”, “il figlio della perdi-
zione”, “ l’avversario”; è l’Anticristo che il Signore Gesù annienterà alla sua ve-
253 - Sui libri celesti vedi S.D.A.B.C., ibidem, p. 329; E.G.WHITE, The Great Controversy, pp.
480-481.
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CAPIRE DANIELE
nuta (2Te 2:8). Anche Giovanni predice la distruzione di questo sistema me-
diante il fuoco (Ap 19:20), e d’accordo con Paolo la associa alla seconda venuta
di Cristo (vv. 11-16). La quarta bestia dunque è annientata nel giudizio finale. E
delle altre che ne sarà? Con una rapida proiezione retrospettiva Daniele le rin-
traccia e nota che ad esse è stato dato di sopravvivere per un certo tempo dopo
che hanno perso il dominio.
Difatti se gli imperi di Babilonia, di Medo-Persia e di Macedonia scompar-
vero l’uno dopo l’altro, non scomparvero i popoli che ad essi avevano dato vita:
i Babilonesi, i Persiani ed i Greci continuarono ad esistere ciascuno con la pro-
pria lingua, le proprie tradizioni, la propria cultura, dopo il tramonto dell’entità
politica dentro la quale erano vissuti. Per Roma fu diverso. Ad essa non succe-
dette un quinto impero universale. Roma, sia pure sotto una forma diversa, ha
continuato e continua a imperare.
“Io guardavo nelle visioni notturne...” Questa formula nelle visioni apocalittiche
introduce un cambiamento di scena. La “parentesi” terrena si è chiusa, si apre di
nuovo lo scenario celeste e appare un quadro diverso dal precedente: “...ecco
venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figliol d’uomo” (aramaico $æn) E rabK:
kevar ‘enash, letteralmente “come un figlio d’uomo”). Gli espositori della scuola
storica sono unanimi nell’identificare in questa figura celeste dall’aspetto umano
il Figlio di Dio.
L’espressione “un figlio d’uomo” è indeterminata. Il S.D.A.B.C. (vol. IV, p.
829) osserva che l’aramaico, alla stregua di altre lingue antiche, omette l’articolo
davanti al nome quando l’enfasi è posta sulla qualità, e lo adopera quando si
vuole sottolineare l’identità. Su questa enfatizzazione differenziata il Commenta-
rio avventista offre vari esempi: “ quattro bestie” in Dn 7:3, “tutte le bestie” nel v.
7; “un antico di giorni” (7:9), “ l’antico di giorni” nei verss. 13 e 22. Se la figura
che viene sulle nuvole fosse stata nominata una seconda volta, probabilmente
sarebbe comparsa preceduta dall’articolo.
“... ecco venire sulle nuvole del cielo...”. Nell’Antico Testamento le nuvole
sono spesso collegate alla presenza divina (Es 13:21; 14:24; 16:10; Le 16:2; Sl
97:2; 104:3).
Nel Nuovo Testamento la nuvola è associata al Cristo glorificato in terra (Mt
17:5; At 1:8) e più sovente al Cristo che viene dal cielo (Mt 21:27; 26:64; Mr
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CAPITOLO 7
13:26; 1Te 4:17; Ap 1:7; 14:4). In Dn 7:13 il simile a un figlio d’uomo non di-
scende sulla terra, si ferma presso l’Antico di giorni.
Non si descrive qui, dunque, il secondo avvento di Cristo, ma la sua investi-
tura regale al termine del ministero sacerdotale nel santuario del cielo (Eb 9:
11,12).
Questo evento celeste si compirà tra la fine del giudizio pre-avvento de-
scritto in Dn 7:9-10 e il giudizio esecutivo quando Cristo tornerà “per rendere a
ciascuno secondo l’opera sua” (Mt 16:27; Rm 16:6).
Il dominio di cui sarà investito il Figlio di Dio tra le due fasi del giudizio
sarà un dominio universale (“tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue” lo servi-
ranno) e la sua signoria sarà eterna (il suo regno sarà “un regno che non sarà di-
strutto”; non ci sarà più un “dopo” come nel caso dei regni terreni).
Con questo colpo d’occhio sull’eternità si chiude la stupenda visione del
cap.7 di Daniele.
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Daniele torna col pensiero sulla visione e ne evoca due dettagli che aveva
omesso nella descrizione di essa. Il primo riguarda l’oggetto contro il quale si ri-
volse l’ira dell’undicesimo corno, il secondo concerne l’esito finale del conflitto.
Il “corno” perverso non solo parlava con arroganza, ma combatteva “i santi”
e li vinceva. Questo particolare deve avere suscitato nel profeta perplessità e an-
goscia. Per la seconda volta compaiono nelle rivelazioni danieliche “i santi”, e
qui compaiono come vittime e non come protagonisti.
Il riferimento precedente è stato fatto dall’angelo-interprete nel vers. 18
dove se ne anticipa la vittoria finale.
Qaddîshîn (“santi”) nell’aramaico è privo dell’articolo, il che implica che
l’accento è posto sulla qualità di questi esseri umani, non sulla loro identità. Chi
sono i “santi”? Sono i “separati”, secondo il senso fondamentale del termine
nell’aramaico come nell’ebraico. Sono il popolo di Dio (“i santi dell’Altissimo”).
La loro aspirazione è di servire il loro Signore: è questo che li mette in conflitto
con le potestà secolari.
I “santi” non saranno lasciati indefinitamente alla mercè del corno: essi sa-
ranno vendicati quando siederà in giudizio il Giudice delle nazioni: “e fu resa
giustizia ai santi” (versione T.O.B.). Allora saranno resi pertecipi della signoria
eterna (“e venne il tempo che i santi possedettero il regno”).
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CAPITOLO 7
Il desiderio di Daniele di conoscere “la verità” sui dettagli finali della visione è
appagato. La quarta bestia raffigura un regno che sarà diverso da tutti i regni che
lo avranno preceduto, e tutti li supererà per la vastità dei territori conquistati
(“divorerà tutta la terra”), per l’attitudine sprezzante (“la calpesterà”), per la po-
tenza e la durezza (“la frantumerà”). Sulla identità storica di questo regno vedi il
commento del v. 7.
Le dieci corna sono interpretate come altrettanti “re” che sorgeranno dal quarto
regno (è presupposta la dissoluzione di quest’ultimo). Come si è già detto (vedi
commento al v. 7) “re” in questo punto deve comprendersi nel senso collettivo
di “regni” (anche le bestie interpretate come “re” nel vers. 17 sono identificate
come “regni” nel v. 24, ‘da questo regno’, e nel precedente ‘la quarta bestia è un
quarto regno’. Sull’identità dei 10 regni vedi il commento al v.7.
Il corno sorto per ultimo è identificato anch’esso come un “re” (“dopo
quelli ne sorgerà un altro”). Per questo corno vale quanto detto sopra riguardo
alle altre. Il carattere di questo re-regno e gli obiettivi che esso perseguirà sono
definiti attraverso una serie di caratteristiche e attribuzioni che gli vengono rife-
rite e che si possono così elencare:
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Gli interpreti moderni vedono nel “piccolo corno” un simbolo del re di Siria An-
tioco IV Epifane (175-164 a.C.) oppressore dei Giudei.
Per quanto ci sia qualche analogia fra l’attività vessatoria di Antioco IV con-
tro il popolo giudaico (cfr. 1Maccabei 1:41-61), macroscopiche discrepanze fra il
simbolo profetico e la figura storica a cui si è voluto accostarlo rendono molto
problematica questa identificazione.
(1) Il “piccolo corno” sorge dopo le dieci (v. 24 u.p.). Esso si configure-
rebbe dunque come un undicesimo “re”. Antioco IV fu l’ottavo dinasta se-
leucide, non l’undicesimo, avendo avuto sette e non dieci predecessori.
Dieci corna non possono rappresentare sette regnanti.
(2) Il “piccolo corno” nella sua crescita fa cadere tre delle corna preesi-
stenti. Antioco IV passò sopra i diritti dinastici di due nipoti, Demetrio e An-
tioco, figli del defunto Seleuco IV fratello dell’Epifane254. L’esistenza di un
terzo figlio di Seleuco IV, ipotizzata per far coincidere la storia col testo da-
nielico, non è stata mai dimostrata255.
(3) Antioco Epifane non tentò di cambiare le sacre istituzioni dei Giu-
dei (i “tempi” e la “legge”) come si dice in Dn 7:25 a proposito del “piccolo
corno”, semplicemente ne decretò la soppressione (cfr. 1Maccabei 1:44,45).
(4) Daniele fa durare tre tempi e mezzo, ovvero, come si spiegherà più
avanti, tre anni e mezzo, la persecuzione del “piccolo corno” contro i “santi
dell’Altissimo”. La persecuzione antigiudaica di Antioco Epifane si colloca
fra il 15 Dicembre 167 a.C. (la data della erezione di una statua di Giove ca-
pitolino nel tempio di Yahweh in Gerusalemme) e il 25 Dicembre 164 a.C.,
quando fu celebrata la dedicazione del tempio purificato256. La durata della
persecuzione fu dunque di tre anni e dieci giorni. Il divario di quasi sei
mesi rispetto al tempo indicato da Daniele è davvero inspiegabile se la
composizione del libro risale, come si dice, esattamente a quell’epoca.
(5) L’attività del “piccolo corno” copre uno spazio temporale che su-
pera di gran lunga il breve arco di tempo di una vita umana, estendendosi
fino al tempo del giudizio e dell’instaurazione del regno eterno di Dio (Dn
7:26,27). La persecuzione dei “santi” rappresentò soltanto una parte di tale
attività. Ne consegue una impossibilità logica di identificare questo simbolo
con una figura storica individuale.
254 - Cfr. G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, Torino 1947, vol.II, pp. 266-267.
255 - Cfr. G. RINALDI, op.cit., p. 112.
256 - Cfr. G.RICCIOTTI, op.cit., pp. 270 e 292.
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CAPITOLO 7
gnarono da veri sovrani fino al 1870. Ma la supremazia universale della sede ro-
mana sulla cristianità in realtà era stata riconosciuta ufficialmente con un editto
imperiale due secoli prima.263
2. Secondo Dn 7:8 l’undicesimo corno cresce (aramaico silqath) fra le dieci
corna. Girolamo traduce meglio l’aramaico beneheon: “de medio eorum”; così
pure varie versioni moderne: “in mezzo a quelle” (TOB), “in mezzo ad esse”
(Bernini), “in mezzo a queste” (G.Rinaldi). La locuzione avverbiale orienta in
senso spaziale. Il potere di cui è simbolo il “piccolo corno” doveva sorgere e
crescere in un punto geografico centrale rispetto ai regni germanici sparsi nei
territori dell’ex impero latino, ovvero nel cuore stesso di quei territori, a Roma. E
in Roma si sviluppò e si affermò il papato storico.264
3. Il “piccolo corno” crescendo si fa spazio con l’abbattere tre delle corna
precednti (vv. 8a e 20a). Ciò sta a significare che il potere che esso raffigura nel
corso del suo sviluppo storico avrebbe fatto cadere tre dei regni preesistenti (v.
24 u.p.). È noto dalla storia che le popolazioni germaniche che si insediarono
nei territori dell’Impero latino, a parte i Franchi, abbracciarono via via la fede
ariana invisa ai cattolici. La presenza di forti regni ariani in Italia e nell’Africa del
nord, dove il cattolicesimo era fiorente, era una circostanza assai sgradita per il
vescovo di Roma. L’intervento diretto o indiretto di Bisanzio, che allora si ergeva
a paladina della fede cattolica, determinò la caduta, uno dopo l’altro, di tre regni
germanici ariani che riducevano la libertà d’azione di Roma papale: degli Eruli in
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Italia nel 493, dei Vandali nell’Africa del nord nel 534, degli Ostrogoti ancora in
Italia fra il 535 e il 553.265 In questi tre avvenimenti storici gli espositori avventisti
hanno ravvisato all’unanimità il compimento di ciò che raffigurava la caduta
delle tre corna al crescere del “piccolo corno”.
4. L’undicesimo corno, insignificante al suo nascere (aramaico hfry"(zº zê’irah,
“minuscolo”, v. 8 u.p.), cresce fino a superare le altre corna (“appariva maggiore
delle altre corna”, v. 20 u.p.). Dal tempo di Leone I (V secolo) l’influenza ed il
prestigio del papato crebbero grandemente fino a giungere alla massima po-
tenza nei secoli XI e XIII con i pontificati di Gregorio VII (1073-1085) e Inno-
cenzo III (1198-1216). Le Crociate, l’Inquisizione, le lotte sostenute contro l’Im-
pero furono tra le espressioni più significative del potere enorme dei papi nel
Medioevo. In questo periodo storico l’autorità dei pontefici romani spesso sovra-
stò quella dei potentati secolari.
5. Il “piccolo corno” si presenta agli occhi del veggente con insoliti carat-
teri umani (“aveva degli occhi simili a occhi d’uomo e una bocca che proferiva
grandi cose”, v. 8 u.p.). Questi particolari evidenziano una diversificazione ed
una singolarità dell’undicesimo corno rispetto alle altre che il testo sottolinea
espressamente: “ne sorgerà un altro, che sarà diverso dai precedenti” (v. 24 u.p.).
Il potere dei papi si differenziò dal potere dei sovrani secolari per essere stato
nel medesimo tempo spirituale e secolare, ecclesiastico e politico; i pontefici ro-
mani furono sovrani teocratici. Gli “occhi simili a occhi d’uomo” nel “piccolo
corno” evocano chiaroveggenza e lungimiranza non comuni.
La storia dei papi mostra come gli uomini che hanno occupato nei secoli il
trono pontificio siano stati fra i più sagaci e perspicaci che la Chiesa cattolica ab-
bia saputo esprimere: uomini che hanno visto chiaro nelle cose e lontano nel
tempo, che hanno espresso una rara capacità di prevedere e provvedere con
tempestività. La “bocca che proferisce cose grandi” (aramaico }fbr : b
: r
a liLm
a m
: {upU
ufum memallil revrevân, vv. 8 e 20b) fa pensare a pronunciamenti che avreb-
bero avuto un impatto enorme nella storia ecclesiastica e politica. Tali furono in
effetti le bolle, in specie quelle di scomunica, e le encicliche dei papi nei secoli.
Il v. 25 spiega ulteriormente: “proferirà parole contro l’Altissimo” (aramaico liLm a yº
)
f yfL(i dacl: }yiLmi U umillîn letzad ‘illay’a yemallil ). Il S.D.A.B.C. osserva: “Letzad si
può tradurre ‘in alto contro’, con l’implicazione che il piccolo corno nell’opporsi
all’Altissimo si esalti al punto di eguagliarsi a Dio (vedi su II Te 2:4; cfr. Is 14:12-
14)”266.
Il passo parallelo di Ap 13:5 recita: “E le fu data una bocca che proferiva
parole arroganti e bestemmie”. Certe rivendicazioni inaudite dei pontefici romani
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268 - Vedi S.BACCHIOCCHI, Un esame dei testi biblici e patristici..., tesi di laurea, 1974.
269 - Cfr. S.D.A.B.C., vol. IV, p. 833.
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Dn 12:11 e 8:14. Altri studiosi ebrei nei secoli X, XI, XII e XIII applicarono lo
stesso principio d’interpretazione ai “giorni” delle profezie danieliche270.
Fra i cristiani l’abate Gioacchino da Fiore, nel XII secolo, fu il primo esposi-
tore delle profezie apocalittiche ad eguagliare ad anni solari i giorni profetici271.
Da allora fino ai nostri giorni sono stati numerosi, in particolare fra gli acattolici,
gli espositori di Daniele e dell’Apocalisse di Giovanni che hanno seguito questo
criterio esegetico272. Gli avventisti, da William Miller in poi, lo hanno applicato
senza eccezioni.
Dunque per 1260 anni i santi dell’Altissimo dovevano essere alla mercé di
un potere autoritario e persecutore, quel potere che abbiamo identificato nel pa-
pato storico.
Come delimitare nella storia questo ampio arco di tempo? Vari espositori
protestanti avevano proposto prima di Miller gli anni 538 e 1798 come terminus
a quo e terminus ad quem di questo periodo temporale. Vediamo come si giusti-
ficano sul piano della storia queste date.
Nel 533 l’imperatore Giustiniano introdusse nel Corpus iuris civilis un de-
creto col quale poneva tutte le chiese e tutti i vescovi d’Oriente, fino ad allora
indipendenti da Roma, sotto l’autorità del pontefice romano, e conferiva a lui
l’ufficio ed il potere di “correttore degli eretici”, in pratica lo investiva del diritto
e dell’autorità di perseguitare i cristiani dissidenti. Solo 5 anni dopo, però,
quando gli Ostrogoti abbandonarono l’assedio di Roma strenuamente difesa dai
Bizantini, il papa fu in grado di esercitare i poteri che gli conferiva l’editto impe-
riale. Dunque dal 538 il pontefice romano fu di fatto e non soltanto di diritto il
capo universale della Chiesa e il correttore degli “eretici”.
Milleduecentosessanta anni dopo, nel 1798, un evento che allora parve in-
credibile mise fine al potere temporale dei papi: le truppe francesi agli ordini del
generale Berthier, vittoriose nella campagna d’Italia, occuparono Roma, e il loro
comandante supremo per incarico del Direttorio depose Pio VI e lo mandò in
esilio a Valence, nella Francia del sud, proclamando solennemente la fondazione
della Repubblica Romana.
“Con la morte di Pio VI a Valence il papato sembrò annientato. Tant’è vero
che in Francia papa Braschi veniva chiamato Pio Sesto ed Ultimo”273.
Con la deposizione e l’esilio di Pio VI ad opera del Direttorio, finivano per
la Chiesa romana dodici secoli e mezzo di influenza sui potentati secolari per re-
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26 Poi si terrà il giudizio e gli sarà tolto il dominio, che verrà di-
strutto ed annientato per sempre. 27 E il regno e il dominio e la gran-
dezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno dati al popolo dei
santi dell’Altissimo; il suo regno è un regno eterno, e tutti i domini lo
serviranno e gli ubbidiranno”.
Nell’aramaico le prime due parole del v. 26 sono identiche alle prime due parole
dell’ultima frase del v.10: dinâ’ yittiv. La traduzione di G.Rinaldi è più conforme
all’originale di quanto non lo sia la traduzione della Riveduta: “La corte poi s’as-
siderà”. Questo versetto dunque (il 26) non fa che interpretare i vv. 10 e 11, ma
avendo in più un riferimento al dominio che verrà tolto al corno.
Finalmente il “piccolo corno” (e non il dominio come sembra suggerire la
Riveduta) sarà “distrutto e annientato per sempre” (è un’allusione al giudizio ese-
cutivo che avrà luogo alla fine dei mille anni dei quali si parla in Ap 20:7,10. La
fine del sistema anti-divino rappresentato dal corno, decretato nel giudizio pre-
avvento (“la corte poi s’assiderà”), sarà radicale e definitiva.
Mentre nel v. 11 è la bestia che viene distrutta, secondo il v. 26 lo è il
corno. Segno evidente, come si è osservato nel commento del v.11, che la bestia
e il corno formano una unità organica: essi che hanno in comune la responsabi-
lità morale dell’opposizione contro Dio, divideranno infine la sorte finale.
Il v. 27 riprende e amplifica la rivelazione stringata che era stata fatta nel
v.18 circa l’attribuzione del regno ai santi dell’Altissimo: Lì si diceva laconica-
mente che “i santi dell’Altissimo riceveranno il regno...”, qui si annuncia che “il
regno e il dominio e la grandezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno
dati al popolo dei santi dell’Altissimo”.
Tre espressioni di senso affine: “il regno”, “il dominio” e “la grandezza dei
regni”, sottolineano la pienezza del potere che sarà conferito ai santi; una quarta:
“che sono sotto tutti i cieli”, ne evidenzia l’universalità spaziale. L’ultima frase: “è
un regno eterno”, enfatizza la durata senza fine del regno dei “santi”.
Secondo il v.14 è il “figlio dell’uomo” ad essere investito del dominio e del
regno eterni dopo la sessione della corte celeste; i vv. 18 e 27 invece li attribui-
scono ai santi dopo la distruzione del corno, mentre l’ultima parte del v. 27 li ag-
giudica all’Altissimo (“il suo regno”).
La triplice attribuzione non è contraddittoria. Il Nuovo Testamento cita 19
volte il Sl 101:1, direttamente o implicitamente, riferendolo al Messia (Mt. 22:44;
26:64;At 2:34; Rm 8:34; Ef 1:20; Cl. 3:1; Eb 1:13; 13:12; 1Pie 3:22, ecc...). Lo stare
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CAPITOLO 7
seduto e l’essere stato esaltato alla destra del Padre indicano lo status regale del
Figlio di Dio274. La reggenza di Dio Padre sul mondo e la co-reggenza del Figlio
furono per così dire una reggenza e una co-reggenza di diritto ma non di fatto
giacché di fatto quaggiù regnarono la bestia e il suo undicesimo corno quali
strumenti di potere del “principe di questo mondo” (Gv 14:30). Soltanto alla vigi-
lia del suo ritorno in gloria, dopo il giudizio pre-avvento, quando sarà stata pro-
nunciata la sentenza definitiva sul “principe di questo mondo” e sui suoi emis-
sari terreni, Gesù Cristo riceverà l’investitura del regno tolto al diavolo e ai suoi
accoliti umani. È anche scritto che Gesù Cristo renderà partecipi i suoi eletti glo-
rificati della sovranità universale che Egli a sua volta dividerà col Padre: “ed essi
tornarono in vita e regnarono con lui mille anni” (Ap 20:4; cfr. 2Tm 2:12).
274 - Cfr. Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento a cura di L.COENEN - E.BEYREUTHER -
H.BRETENHARD, Bologna 1980, pp. 973, 974
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CAPITOLO 7
881) incoronò imperatore Carlo il Calvo di Nel 1095, papa URBANO II (1088 -
Francia senza tenere conto dei diritti legittimi 1099) colpì di scomunica il re di Francia Fi-
del fratello maggiore Ludovico il Germanico. lippo I per avere ripudiato la moglie Bertha e
Oramai “il papato appariva come l’autorità sposato in seconde nozze Berthrada. Sotto il
che poteva disporre della corona e darla a chi pontificato di PASQUALE II (1099 - 1118), nel
riteneva degno e rifiutarla all’indegno” (S.HEL- 1103, Filippo I dovette implorare il perdono
LMAN, Storia del Medioevo, Genova 1990, p. del papa a piedi nudi e col saio di penitente
111). per essere riammesso nella Chiesa.
Nel 1054 il conflitto di potere tra il pa- L’imperatore Enrico V di Germania nel
triarca di Costantinopoli e papa LEONE IX 1111 ricevette la corona imperiale dai piedi di
(1049 - 1054) per il primato universale, pro- papa PASQUALE II assiso sul trono pontificio.
vocò la rottura fra la Chiesa Orientale e la Federico I Barbarossa, scomunicato per
Chiesa Occidentale. avere voluto imporre al papato l’autorità impe-
GREGORIO VII (1073 - 1085) fu uno dei riale, nel 1177, dopo essere stato battuto a
più grandi pontefici del Medioevo. Papa Gre- Legnano dalla Lega Lombarda, si vide co-
gorio concepì il progetto di porre tutta la so- stretto a stipulare la pace con papa ALES-
cietà umana sotto la completa direzione della SANDRO III (1159 - 1181) per ricevere l’asso-
Chiesa. luzione.
“Egli vagheggiò uno stato mondiale teo- Enrico II Plantageneto re d’Inghilterra fu
cratico sotto la direzione del sommo sacer- duramente avversato dall’arcivescovo di Can-
dote della chiesa cristiana” (S. HELLMAN, op. tenbury, Thomas Becket, per avere sottopo-
cit., p. 252). sto il clero alla giurisdizione del tribunale re-
Nella lotta con l’Impero per la questione gio con le Costituzioni di Clarendon del 1164.
delle investiture ecclesiastiche, Gregorio ebbe A seguito dell’assassinio di Thomas Becket,
la meglio. Nel 1075 l’energico pontefice de- di cui la curia romana accusò il re, questi fu
pose e scomunicò Enrico IV sciogliendone i colpito di anatema da papa ALESSANDRO III.
sudditi dal giuramento di fedeltà. Abbando- Per ottenere la sospensione della pena il re
nato dai principi vassalli e dai sudditi in ri- dovette sottoporsi pubblicamente alla fustiga-
volta, l’Imperatore nel 1077 si vide costretto zione sulla tomba del suo mortale nemico.
a recarsi a Canossa in veste di penitente per INNOCENZO III (1198 - 1216), un ponte-
chiedere al papa l’assoluzione. Gregorio lo ri- fice della statura morale di un Gregorio VII, si
cevette nel castello di Matilde di Toscana batté con grande energia per l’affermazione
dopo tre giorni di attesa a piedi nudi in pieno assoluta dei pontefici all’esterno come all’in-
inverno e gli concesse la revoca della scomu- terno della Chiesa. Nel 1201 papa Innocenzo
nica. Nel 1075 Gregorio VII promosse una scagliò l’interdetto sul regno di Francia per co-
riforma radicale del papato che si compendiò stringerne il re Filippo Augusto a riprendere la
nelle 27 massime del Dictatus Papae fra le moglie ripudiata, Ingerburge. Nel 1213, Inno-
cui inaudite rivendicazioni figurava la procla- cenzo III mise sotto interdetto il regno d’In-
mazione del potere assoluto del papa di de- ghilterra il cui sovrano, Giovanni Senza Terra,
porre i sovrani temporali sottoposti all’auto- era entrato in conflitto col pontefice. Giovanni,
rità della Chiesa. abbandonato dai sudditi, fu costretto a de-
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porre la corona ai piedi del pontefice per rice- pontificio che sempre più venne assumendo il
verla dalle sue mani come vassallo della carattere di un vero e proprio principato.
Chiesa. Per volere di papa Innocenzo il IV Con- Sotto il pontificato di LEONE X (1513 -
cilio Lateranense riunitosi nel 1215 istituì i tri- 1521) una crisi ancora più grave scosse la
bunali ecclesiastici per la repressione delle Chiesa di Roma. Nel 1517 il frate agostiniano
eresie dando origine a quella istituzione sini- Martin Lutero in Germania attaccò duramente
stra che prese il nome di Inquisizione. Inno- il commercio delle indulgenze con le famose
cenzo III fu il promotore della sanguinosa cro- 95 tesi di Wittenberg. Nel 1519 Lutero rifiutò
ciata contro gli Albigesi della Francia del Sud. di riconoscere il primato papale e la tradi-
BONIFACIO VIII (1294 - 1303) fu l’ultimo zione della Chiesa romana. Nel 1520 con
grande papa del Medioevo. Papa Bonifacio ri- l’abbruciamento pubblico della bolla di sco-
lanciò con grande energia la politica teocra- munica Exsurge Domine ruppe definitiva-
tica perseguita dai suoi illustri predecessori mente con Roma. Era nata la riforma prote-
Innocenzo III e Gregorio VII, pretendendo per stante.
la Chiesa romana la supremazia temporale. PAOLO III (1534 - 1549), per combat-
Con la bolla Unam Sancta papa Bonifacio riaf- tere il protestantesimo, nel 1542 reintro-
fermò la supremazia dei pontefici romani su dusse l’Inquisizione e nel 1545 indisse il
tutti i principi temporali mediante la tesi delle Concilio di Trento, massima espressione di
due chiavi e delle due spade, simboli dei po- quel vasto movimento di reazione della
teri temporale ed ecclesiastico. Chiesa di Roma alla Riforma luterana che
Con la morte di Bonifacio VIII cominciò prese il nome di Controriforma. Per merito dei
un periodo di declino del papato. Nel 1309 Gesuiti, i veri paladini della Controriforma,
per l’influenza preponderante del clero fran- trionfò e si affermò il centralismo papale.
cese, la Santa Sede fu trasferita ad Avignone, PAOLO IV (1555 - 1559), Pio IV (1559 -
nella Francia del sud. Era l’inizio della Catti- 1565) e Pio V (1566 - 1572) dettero grande
vità avignonese del papato. Il diffondersi della impulso all’Inquisizione in Italia (Inquisizione
corruzione e del nepotismo nella corte papale Romana).
di Avignone determinò una caduta di autorità GREGORIO XIII (1572- 1585) fece co-
della Chiesa. niare una medaglia-ricordo e indisse un
Nel 1376 GREGORIO XI (1370 - 1378) grande giubileo per celebrare il massacro de-
riportò a Roma la sede papale. Due anni gli Ugonotti in Francia del 1572.
dopo i cardinali francesi elessero papa CLE- Sisto V (1585 - 1590) e Gregorio XIV
MENTE VII (1378 - 1394) che si insediò nella (1590 - 1591) interferirono nella politica in-
ripristinata corte di Avignone, e fu l’inizio del terna della Francia e della Spagna per stron-
Grande Scisma d’Occidente. Due papi, uno a care la candidatura al trono di Francia di En-
Roma ed uno ad Avignone, si contesero il rico di Navarra amico degli Ugonotti.
pontificato legittimo anatemizzandosi a vi- La Pace di Westfalia (1648), che mise
cenda. Con la elezione di MARTINO V a Co- fine alla Guerra dei Trent’anni, segnò il falli-
stanza nel 1417 finì lo Scisma d’Occidente. mento della restaurazione cattolica in Europa
Ripristinata l’unità della Chiesa, i ponte- e rappresentò un notevole passo avanti sulla
fici si adoperarono per consolidare lo Stato via delle libertà religiosa, civile e politica in
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CAPITOLO 7
Europa. Il potere papale, già scosso dall’affer- Nepote a sua volta esautorato nel 475 da
marsi della Riforma in gran parte dell’Europa Oreste, un romano della Pannonia, già mini-
del nord e in Inghilterra, nel secolo XVIII stro di Attila, al quale l’Imperatore d’Oriente
venne ad essere ulteriormente indebolito per Zenone aveva conferito il titolo di “Patrizio Ro-
l’impatto che ebbero sulla cultura europea le mano”. Non avendo osato assumere egli
idee innovatrici dell’Illuminismo. Sul finire del stesso la porpora imperiale, Oreste fece ac-
secolo la Rivoluzione Francese assestò al po- clamare imperatore il proprio figlio Romolo
tere papale quello che allora sembrò il colpo che per la giovanissima età fu soprannomi-
di grazia. nato Augustolo.
Il 25 febbraio 1798 le truppe francesi agli I barbari (Eruli, Sciri, Turingi) che forma-
ordini del generale Louis Alexandre Berthier oc- vano la parte preponderante dell’esercito,
cuparono Roma per mandato del generale Bo- non avendo ricevuto da Oreste le terre che
naparte che aveva invaso i territori dello Stato avevano richieste, si ribellarono ed elessero
pontificio. Berthier depose Pio VI (1775 - 1798) loro capo Odoacre, un barbaro che era sceso
e proclamò la Repubblica Romana. Il deposto in Italia qualche anno prima alla testa di una
pontefice, deportato a Valence, nel sud della banda di avventurieri.
Francia, vi morì l’anno seguente. “Con la morte Oreste fuggì e riparò a Pavia. Odoacre
di Pio VI a Valence il papato sembrò annien- lo inseguì ma non riuscì a catturarlo sebbene
tato” (I. GELMI, I Papi da Pietro a Giovanni Paolo avesse espugnato la città. Oreste fuggì an-
II, Milano 1987, p. 215). cora una volta e si rinchiuse in Piacenza dove
La caduta definitiva del potere tempo- lo raggiunse il suo avversario e stavolta lo uc-
rale dei pontefici romani avvenne il 2 ottobre cise. Poi Odoacre corse a Ravenna e depose
1870 quando un plebiscito sanzionò il fatto Romolo Augustolo. Era il 28 agosto del 476.
compiuto dell’occupazione di Roma da parte Tramontava l’Impero d’Occidente e comin-
delle truppe di Vittorio Emanuele II il 20 set- ciava la storia d’Italia; finiva l’Età antica e si
tembre di quello stesso anno. apriva il Medioevo.
Odoacre non osò neppure lui assumere
il governo dell’Impero. Nel 478 spedì a Co-
APPENDICE 7B stantinopoli le insegne imperiali e chiese per
sé, ottenendolo, il titolo di “Patrizio Romano”.
Dopo la morte di Valentiniano III nel 455, si Di fatto però governò l’Italia da principe indi-
verificò nell’Impero d’Occidente una crisi di pendente.
potere. Ne approfittò Ricimero, un generale di A causa della sua ingerenza nell’ele-
origine svevo-gotica che era salito ai massimi zione del nuovo vescovo di Roma alla morte
onori sotto Valentiniano, per nominare e de- di Simplicio nel 483, Odoacre, che per giunta
porre gli imperatori a suo talento: ben 5 impe- era di fede ariana, si attirò la profonda avver-
ratori si succedettero l’uno all’altro fra il 455 sione della Chiesa.
e il 472. Intanto l’Imperatore, insospettito della
Morto Ricimero nel 473, fu messo sul condotta insubordinata del barbaro, sollecitò a
trono imperiale a Ravenna Glicerio che in scendere in Italia Teodorico che appena ven-
capo a qualche mese fu deposto da Giulio tenne gli Ostrogoti della Pannonia avevano
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CONOSCERE DANIELE
eletto loro capo. Nel 488 un popolo intero, va- neo-Imperatore si mise a perseguitare i mono-
lutato dagli storici fra i 200 e i 300 mila indivi- fisiti. Il nuovo corso che s’instaurò a Costanti-
dui, varcò le Alpi con alla sua testa Teodorico. nopoli favorì un riavvicinamento fra il papa e
Battuto ripetutamente dai Goti, Odoacre l’Imperatore a cui non fu estranea l’azione di
raggiunse Roma, ma la città gli chiuse le Teodorico. Presto però l’accordo fra Roma e
porte. Le popolazioni del Centro Italia gli si Costantinopoli si volse a danno del re ostro-
mostrarono ostili sia per le sue razzie che per goto. Essendo entrambi ortodossi, il papa e
i suoi contrasti col papa. Infine una vasta co- l’Imperatore si trovarono uniti contro l’ariano
spirazione organizzata dal clero lo costrinse a Teodorico.
tornare coi suoi uomini verso il nord. Giustino verso il 524 cominciò a perse-
L’11 agosto del 490 sulle rive dell’Adda guitare gli ariani in Oriente. Teodorico reagì
ci fu la battaglia decisiva. Duramente scon- perseguitando a sua volta i cattolici in Italia.
fitto dagli Ostrogoti, Odoacre riparò a Ra- L’urto col papa fu inevitabile. Per giunta es-
venna. La città si arrese a Teodorico il 27 feb- sendo morto papa Giovanni I nel 526, Teodo-
braio del 493 dopo 3 anni di assedio. Odoa- rico volle ingerirsi nell’elezione del suo suc-
cre sul momento ebbe salva la vita, ma meno cessore e questo sollevò contro di lui grande
di un mese dopo fu ucciso a tradimento da e generale malcontento. Il re ostrogoto morì
Teodorico e così ebbe termine il suo regno pochi mesi dopo mentre si preparava alla
durato 17 anni. guerra che sembrava inevitabile. Aveva re-
Subito dopo la vittoria su Odoacre nel gnato in Italia per 32 anni.
490, Teodorico chiese all’Imperatore Zenone A Teodorico succedette in giovanissima
l’investitura della dignità regia. Morto Zenone età il nipote Atalarico con la reggenza della
nel 491, il suo successore, Anastasio, lasciò madre Amalasunta. Intanto, morto Giustino a
senza risposta la rinnovata istanza di Teodo- Costantinopoli nel 527, salì sul trono impe-
rico. Finalmente nel 498, essendo divenuto riale il nipote Giustiniano. Il nuovo Imperatore
assai potente, l’Ostrogoto rinnovò la richiesta riconobbe la successione di Atalarico e la reg-
e stavolta ottenne da Anastasio le insegne genza di Amalasunta.
imperiali a condizione che il suo potere fosse La morte prematura di Atalarico nel 534
subordinato a quello dell’Imperatore. In so- portò sul trono degli Ostrogoti un cugino di lui
stanza Teodorico esercitò una sorta di go- di nome Teodato il quale si sbarazzò subito
verno militare sotto l’egida dell’Imperatore. della zia, deciso a regnare da solo. Fu un
Romani e Ostrogoti convissero a lungo buon pretesto per Giustiniano per attuare il
in Italia ma non si fusero mai. Tutto sommato proposito che meditava da tempo di cacciare
comunque quello di Teodorico fu un buon go- i Goti dall’Italia.
verno. Restaurare l’unità dell’Impero e resti-
Intanto i rapporti tra il papa l’Imperatore tuirgli l’antico splendore fu uno degli obiettivi
si deteriorarono. Teodorico, con non comune primari della politica di Giustiniano. Prima di
abilità politica, riuscì a mantenere buoni rap- liberare l’Italia dal dominio dei Goti era però
porti con l’uno e con l’altro. necessario, per avere le spalle coperte, an-
Nel 518 salì sul trono imperiale di Co- nientare il potere dei Vandali nell’Africa del
stantinopoli Giustino. Ortodosso fervente, il nord. Il pretesto per un intervento militare fu
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CAPITOLO 7
offerto a Giustiniano dalle lotte interne e i di- rale bizantino, per dare attuazione alla vo-
sordini che travagliavano il regno dei Vandali. lontà dell’Imperatrice Teodora di deporre
Alla decisione di Giustiniano certo non papa Silverio a lei inviso e fare eleggere in
fu estranea la persecuzione dei cattolici ad sua vece il diacono Vigilio incline a favorire i
opera dei Vandali ariani. monofisiti che l’Imperatrice aveva preso sotto
Nel 531 fu deposto a Cartagine, la capi- la sua protezione. Belisari,o con un pretesto,
tale del regno vandalo, Ilderico, nipote di Va- depose Silverio - che morì esule nell’isola di
lentiniano III per parte di madre, che non na- Palmarola nel 538 - e fece eleggere al suo po-
scondeva le sue simpatie romane e cattoli- sto Vigilio come l’Imperatrice aveva voluto.
che. A succedergli fu chiamato Gelimero, Intanto l’assedio di Roma si protraeva;
uomo bellicoso e di tutt’altri sentimenti. Fu il nuovi tentativi di assalto da parte di Vitige fal-
casus belli che permise a Giustiniano di inter- lirono. I Goti cominciarono a manifestare se-
venire legittimamente. gni di stanchezza e intanto marciava verso
Nel 533 una grande flotta partita da Co- Roma dal sud un corpo di spedizione bizan-
stantinopoli sbarcò in Africa, a 9 giorni di mar- tino per prendere i nemici alle spalle. Vitige
cia da Cartagine, 10.000 fanti e 5.000 cava- decise di ritirarsi: era il 12 marzo del 538.
lieri agli ordini del valoroso generale Belisario. Roma era salva, ma la guerra coi Goti non era
La prima battaglia, il 13 settembre, fu vinta finita.
dagl’Imperiali nonostante la loro inferiorità nu- Morto Vitige, i Goti nel 541 elessero
merica. Due giorni dopo Belisario entrò da come loro capo Totila, uno dei più valorosi ca-
trionfatore a Cartagine. Gelimero fuggì in Nu- pitani ostrogoti. Totila dette del filo da torcere
midia e in seguito contrattaccò ma senza for- ai Bizantini: nel 543 tolse loro Napoli e mar-
tuna e uscì definitivamente di scena. I Vandali ciò alla volta di Roma. Nel 546 gli Ostrogoti ri-
che avevano portato tanto terrore e tante ro- presero la “città eterna” ma fu un successo
vine nell’Impero scomparvero dalla storia. effimero. L’anno seguente dovettero abban-
L’assassinio di Amalasunta nel 535 of- donarla a seguito di un forte contrattacco bi-
frì a Giustiniano il pretesto per intervenire in zantino. Il destino dei Goti in Italia era ormai
Italia. Quello stesso anno Belisario sbarcò in segnato. Nel 551 Giustiniano richiamò in pa-
Sicilia con 7000 uomini e in 7 mesi l’isola fu tria Belisario e lo sostituì con Narsete per pro-
conquistata. Gl’Imperiali avanzarono verso seguire la guerra contro i Goti.
Roma senza quasi incontrare resistenza, Il nuovo generale impegnò in battaglia il
tranne che a Napoli. Teodato temporeggiò e nemico in Umbria, presso Gualdo Tadino, e
venne deposto. In sua vece fu eletto Vitige, gl’inflisse una tremenda sconfitta. Totila
uomo deciso ed energico. Non potendo difen- cadde in combattimento. Il suo successore,
dere Roma Vitige si ritirò e gli Imperiali vi en- Teja, non ebbe più fortuna di lui. Costretto da
trarono trionfalmente il 10 dicembre del 536. Narsete ad accettare battaglia in condizioni
I Goti contrattaccarono a varie riprese sfavorevoli presso Nocera nel 553, ebbe
senza successo nonostante la schiacciante l’esercito quasi distrutto ed egli stesso cadde
superiorità numerica. nella pugna.Finì per sempre non solo il domi-
Intanto - correva l’anno 537 - giunse a nio dei Goti in Italia, che durava da 60 anni,
Roma Antonina, l’energica moglie del gene- ma anche la stessa nazione gotica.
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CAPITOLO 7
“Così grandi sono l’autorità ed il potere mano, alla luce della dottrina del Nuovo Te-
del papa che egli può modificare, spiegare e stamento sono indebitamente attribuiti ad un
interpretare le leggi divine... essere umano sia pure rivestito di autorità re-
“Il papa può modificare la legge divina ligiosa. Tali titoli evocano e presuppongono
perché il suo potere discende da Dio e non un’autorità ed una dignità sovrumane.
dall’uomo e dato che egli agisce da vicege- Col titolo di Sommo Sacerdote (Sommo
rente di Dio sulla terra col più ampio potere di Pontefice) l’Epistola agli Ebrei indica la dignità
legare e di sciogliere... e la funzione di Cristo in cielo: Eb 4:15,16;
“Tutto ciò che il Signore Iddio e il Reden- 6:20; 8:1,2; 9:11; 10:21.
tore fanno lo fa anche il suo vicario, purché non Padre Santo è l’appellativo col quale
faccia alcunché che sia contrario alla fede” (LUCIO Gesù si rivolse a Dio nella preghiera di inter-
FERRARIS, art. “Papa” in Prompta Bibliotheca, vol. cessione per i suoi apostoli alla vigilia della
VI, pp. 25-29, cit. in S.D.A.B.C., vol. IV, p. 831). crocefissione: Gv 17:11.
I cardinali del sacro collegio offrono il La funzione di Vicario di Cristo secondo
loro omaggio e la sottomissione al pontefice il Vangelo di Giovanni spetta allo Spirito
neo eletto nel corso di una cerimonia che Santo (“vicario” significa “facente le veci
prende il nome di “triplice adorazione del sa- di...”, “supplente”, “sostituto”).
cro collegio”. Gesù Cristo ha indicato lo Spirito Santo
Nella cerimonia d’incoronazione del come suo supplente e sostituto fra gli uomini:
nuovo pontefice il cardinale-diacono gli dice Gv 14:16; 17:26; 16:7,12,13.
mentre gli pone sul capo il “triregno”: “Ricevi Infine il Nuovo Testamento riconosce
la tiara ornata di tre corone e sappi che tu sei Gesù Cristo soltanto come Capo della
il padre dei principi, l’arbitro del mondo e il vi- Chiesa: Ef 1:22; Cl 1:18.
cario del Salvatore nostro Gesù Cristo sulla La rivendicazione dei titoli suddetti da
terra” (J.VUILLEUMIER, op.cit., p. 211). parte di una creatura umana, o la loro attribu-
Titoli quali “Sommo Pontefice”, “Santo zione ad essa da parte di terze persone, se-
Padre”, “Vicario di Cristo”, “Capo della condo lo spirito del Nuovo Testamento si confi-
Chiesa” riferiti correntemente al pontefice ro- gura come una usurpazione e una “blasfemia”.
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Capitolo 8
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I n questo capitolo l’autore del libro narra la seconda visione che gli è stata rive-
lata. E’ una visione parallela alla precedente, ma solo in parte, giacché qui la
serie dei regni dei quali la profezia anticipa l’esistenza inizia con la Persia (Babi-
lonia, oramai prossima al tramonto, è rimasta fuori dal campo visuale della rive-
lazione); inoltre la nuova visione si arricchisce di dettagli inesistenti in quella che
l’ha preceduta.
I simboli provengono ancora dal regno animale ma, a differenza del capi-
tolo 7, qui tengono il campo bestie domestiche anziché belve selvagge.
La diversa natura delle figure animalesche orienta a un oggetto diverso
come tema centrale della seconda profezia. In entrambe le visioni la lotta per
l’egemonia politica, raffigurata dall’attività delle bestie simboliche dalla quale si
sviluppano condizioni che portano alla persecuzione del popolo santo, costituisce
un motivo comune.
Ma nella seconda sul tema della persecuzione s’innesta quello della prevari-
cazione contro il santuario del Signore (il quale sarà tuttavia giustificato e purifi-
cato in capo a un arco di tempo determinato con precisione); è la novità della se-
conda rivelazione alla quale ha già orientato la natura singolare degli animali
simbolici: il montone e il capro, entrambi animali sacrificali, hanno infatti evo-
cato l’ambiente del santuario e la sua liturgia.
1 Il terzo anno del regno del re Belsatsar, io, Daniele, ebbi una vi-
sione, dopo quella che avevo avuta al principio del regno.
Tutte le visioni di Daniele sono datate (cfr. 7:1; 9:1; 10:1). La visione narrata nel
cap. 8 è del “terzo anno del regno del re Beltsazar” ovvero della sua co-reggenza
col padre Nabonide (vedi Introduzione, parte IV). Questa data corrisponde al
546 a.C.
“...dopo quella che avevo avuto al principio del regno”: è un’allusione alla
visione delle quattro bestie avuta appunto l’anno primo di Beltsazar (7:1). Da-
niele declina il suo nome per attestare l’autenticità di quanto verrà esponendo.
“...ebbi una visione”, ebr. yal) : né }Ozfx chazôn nir’ah ’êlay, letteralmente
" hf)r
“una visione apparve a me”. Chazôn è il termine con cui i profeti (ad eccezione
di Ezechiele) designano correntemente le rivelazioni ricevute in visione. (cfr. Is
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1:1, 21:2; Lam 2:9; Ad 1:1; Aba 2:23 ecc...). Dalla radice verbale chzh, “vedere”,
châzôn evoca con immediatezza la modalità di questa forma di rivelazione.
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liva dopo”. Quando nel VII secolo a.C. le tribù persiane unificate da Teispe - il
trisavolo di Ciro II - formarono il piccolo regno di Anshan, la Media era già da
molti anni un regno forte e temuto; i Persiani ne divennero tributari. Ma con la
vittoria di Ciro II su Astiage a metà del secolo VI a.C., questi ultimi prevalsero
sui loro antichi dominatori. Il corno “salito dopo” rappresenta precisamente que-
sto evento.
Il montone sta “ritto davanti al fiume”, cioè sulla sua sponda orientale, guar-
dando davanti a sé, ovvero a occidente, in atteggiamento di sfida. Ciro volse su-
bito la sua attenzione verso l’Anatolia giusto a occidente della Media e della Persia.
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“E com’io stavo considerando...” Le cose che Daniele vede nella visione cattu-
rano la sua attenzione e stimolano la sua riflessione (i profeti di Yahweh non
sono stati strumenti passivi dell’ispirazione profetica).
“...ecco venire dall’occidente...”. Con i rovesci subiti in Grecia da Dario I
negli ultimi anni di regno e da suo figlio Serse I, cominciò il declino lento ma
inarrestabile dell’Impero persiano. Il capro che viene dall’occidente è identificato
espressamente col regno di Iawan (v. 21), cioè con la Grecia (Iawan, da Ionia,
era il nome con cui i Semiti designavano i Greci).
La corsa frenetica del capro verso oriente anticipa con sorprendente reali-
smo la marcia rapida e travolgente delle falangi di Alessandro lungo le fasce co-
stiere dell’Asia Minore, della Siria e della Palestina fino all’antica terra dei faraoni
fra il 334 e il 332 a.C. Il gran corno fra i due occhi del capro è il simbolo del
“primo re” di Iawan (v. 21), ovvero di Alessandro Magno, il secondo ed ultimo
rappresentante della dinastia macedone.
6 Esso venne fino al montone dalle due corna che avevo visto ritto
davanti al fiume, e gli s’avventò contro, nel furore della sua forza. 7
E lo vidi giungere vicino al montone, pieno di rabbia contro di lui, in-
vestirlo, e spezzargli le due corna; il montone non ebbe la forza di te-
nergli fronte, e il capro lo atterrò e lo calpestò; e non ci fu nessuno
che potesse liberare il montone dalla potenza d’esso.
Quello che descrive il v. 6 non è un duello fra due avversari mossi dalla stessa
determinazione di abbattere l’altro, ma l’assalto impetuoso di uno degli avversari
contro l’altro. Tale fu in effetti la guerra fra Alessandro e Dario III.
“(Il capro) gli s’avventò contro nel furore della sua forza... il montone non
ebbe la forza di tenergli fronte, e il capro lo atterrò e lo calpestò”. Con estrema
sinteticità e con precisione sono anticipati la folgorante campagna militare di
Alessandro in Oriente ed il crollo dell’Impero persiano.
Nel 334, Alessandro sbarcò con le sue falangi e la sua cavalleria sulla costa
dell’Asia Minore; sulle rive del Granico attaccò e travolse le truppe dei satrapi
persiani dell’Asia Minore e avanzò incontrastato lungo la costa fino alla Cilicia,
accolto come liberatore dalle città della Ionia.
Presso Isso, nell’autunno del 333, battè per la seconda volta l’armata per-
siana nell’occasione agli ordini del re Dario in persona. Poi volse a mezzogiorno:
Sidone e Biblo lungo la costa fenicia si sottomisero spontaneamente; Tiro resi-
stette e fu distrutta. La stessa sorte toccò a Gaza, sulla costa palestinese, per
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CAPITOLO 8
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Il v. 9 introduce con la parte finale della visione una nuova tematica che si svi-
lupperà dalla precedente nei 5 versetti successivi. Questi versetti formano un
blocco unitario e costituiscono il centro tematico dell’intero capitolo ottavo.
“E dall’una di esse uscì un piccolo corno...”. Questa traduzione modifica il
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FEMMINILE MASCHILE
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275 - Vedi P.JOÜON, Grammaire de l’hebreu biblique, p. 412; L.KOHLER e W.BAUMGARTNER, Lexicon
in Veteris Testamenti Libros, p. 877.
276 - Daniel and the Judjement, p. 85.
277 - Symposium on Daniel, p. 378.
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done. Come vedremo in seguito, col simbolo del “piccolo corno” Daniele volle
rappresentare una realtà del tutto diversa.
Il nostro autore indica con chiarezza le direzioni dello spazio nelle quali si
espanse il dominio del “piccolo corno”: verso il sud (’el hannegev), verso l’est
(’el hammizrach) e verso lo splendore (we’el hatztzevî).
Antioco tentò caparbiamente di estendere il suo dominio a mezzogiorno,
cioè di impadronirsi dell’Egitto, ma non vi riuscì per l’intervento risoluto di
Roma. Pertanto egli non s’ingrandì enormemente verso il sud.
L’Epifane intervenne militarmente nelle province alte e orientali del regno
(l’Armenia, la Persia, l’Elimaide, la Sogdiana), ma non per conquistarle, giacché
esse facevano parte dello stato seleucide fin dalla sua nascita, intervenne bensì
per mantenerle dato che le popolazioni locali - e in particolare i potentissimi
Parti - minacciavano di riprendersele280. Dunque nessuna estensione del potere
di Antioco verso oriente.
Veniamo all’espressione finale del v. 9, ’el hatztzevî.
Le versioni moderne aggiungono alla fine del versetto un vocabolo che
nell’originale non c’è. È il termine “paese” (Riveduta, Bernini, Rinaldi) o “terra”
(Bibbia Concordata). La TOB non traduce il vocabolo ebraico (zevi) ma lo inter-
preta dando per scontato che esso si riferisca alla Palestina.
Che ’el hatztzevî “verso lo splendore” designi la Palestina è soltanto una
congettura.
Nel v. 10 si dice che il corno s’ingrandì “fino all’esercito del cielo” e fece ca-
dere in terra delle stelle. È un riferimento evidente al firmamento. Nel v. 9 Da-
niele dopo avere descritto un’espansione orizzontale del corno (verso il sud e
verso l’est) ha voluto alludere ad una sua estensione in verticale (verso lo splen-
dore, cioè verso il firmamento). Quale possa essere il senso di questa sua proie-
zione verso l’alto si vedrà subito.
“S’ingrandì fino a giungere all’esercito del cielo...” HASEL281 osserva che il termine
“esercito” (ebr.)fbc: tzeva’) nell’Antico Testamento è applicato anche al popolo di
Dio (Es 7:4: “...farò uscire dal paese d’Egitto le mie schiere”, ebr. tziv’othay).
Se in Dn 8:10 il termine è applicato alla stessa maniera, esso si riferisce al
popolo di Dio sulla terra sul quale si estende sinistramente il potere del corno.
In effetti il v. 24 interpreta l’azione descritta nel v. 10 come la distruzione “dei
280 - Vedi F.A. ARBORIO MELLA, L’Impero Persiano, Milano 1979, p. 217.
281 - Op.cit., p. 398.
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potenti e dei santi dell’Altissimo” per mano del “corno” (i “santi dell’Altissimo” in
7:27 sono i fedeli di Dio che ricevono il regno dopo il giudizio).
“L’attacco mosso ai ‘potenti ed al popolo dei santi’ - commenta Hasel - è
un’allusione alla persecuzione del popolo di Dio. In breve l’attività del ‘piccolo
corno’ consiste: (1) in una espansione orizzontale (possibilmente mirata a un
rafforzamento di sé stesso mediante l’adozione del culto idolatrico) e (2) nella
persecuzione dei santi di Dio sulla terra”282. Dio e Gesù Cristo s’identificano col
popolo eletto perseguitato: “chi tocca voi tocca la pupilla dell’occhio suo” (Za
2:8); “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9:4). Combattendo il suo popolo, il
corno si aderge contro Dio.
È stato notato un significativo cambiamento del genere dei verbi tra i vv. 9-10 e
il v. 11. Nei vv. 9 e 10 ricorrono quattro forme verbali che a parte la prima sono
tutte di genere femminile come si può vedere dallo specchietto sotto:
vv. 9-10
)fcyæ yaza’ (“uscì”) m.
laDg: Ti thigddal (“s’ingrandì”) f.
laDg: Ti thigddal (“s’ingrandì”) f.
l”PaT thafal (“fece cadere”) f.
{“s:mr : Ti thirmesem (“calpestò”) f.
Nel v. 11 ci sono 3 forme verbali tutte di genere maschile come mostra lo spec-
chietto che segue sotto:
v. 11
lyiDg: hi higddîl (“s’ingrandì”) m.
{yir”h hurayîm (“tolse”) m.
\al$: hu hushlak (“abbattuto”) m.
Svariate opinioni - tutte poco convincenti - sono state formulate per spiegare
questo singolare cambiamento del genere dei verbi tra i vv. 9-10 ed il v. 11. Da
ultimo si è ipotizzata - senza fondati motivi – un’interpolazione nel testo.
Gli esegeti della scuola storicista hanno ravvisato in siffatto mutamento di
genere il trapasso da una prima ad una seconda fase di sviluppo dell’entità rap-
282 - Ibidem.
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presentata dal simbolo unico del corno, vale a dire Roma. Qualcuno di loro -
G.M. PRICE per esempio - ha visto in 8:9-12 uno svolgimento simultaneo delle
fasi politico-pagana ed ecclesiastico-papale. G.H.HASEL283 propende per uno
svolgimento consecutivo: nei vv. 9-10 egli scorge Roma nella fase politico-pa-
gana (premedievale) e nei vv. 11-12 la stessa entità storica nella fase ecclesia-
stico-papale (medievale e post-medievale).
Il commento che segue, improntato al pensiero di questo autore, fornirà ar-
gomenti validi (filologici soprattutto) a supporto di questa visione, in particolare
per quanto attiene al v. 11.
“S’elevò fino al capo di quell’esercito...”, ebr. lyiDg: h
i )fbC a -ra& da(wº we ‘ad sar
f h
hazzavâ’ higgdîl, letteralmente: “fino al principe dell’esercito s’ingrandì”. Hasel
facendo riferimento a R. MOSIS284, osserva che usato in questa forma (cioè nella
forma hifil) il verbo gadâl esprime l’idea che farsi grande “è un atto arrogante,
presuntuoso e illegale”. Il “piccolo corno” si appropria in modo illegale, arro-
gante e presuntuoso le prerogative che appartengono in maniera esclusiva al
“Principe dell’esercito”285.
Chi è il “Principe dell’esercito” (sar hazzavâ’)? I commentatori che appli-
cano ad Antioco Epifane Dn 8:9-14 vi identificano il sommo sacerdote Onia III
assassinato nel 171 a.C. HASEL286 osserva con ragione che sebbene il termine sar
(“principe”) nell’Antico Testamento sia talvolta riferito al sommo sacerdote (vedi
1Cr 24:5; Ed 8:24,29), l’espressione sar hazzavâ (“principe dell’esercito”) in nes-
sun caso è applicata ad un sommo sacerdote.
In Gs 5:14 è un Essere sovrumano che si presenta al leader delle tribù israe-
litiche con l’attributo di “Principe dell’esercito di Yahweh” (sar zevâ’ YHWH). In
Dn 10:13 Micael è chiamato “uno dei primi principi” (’achad hassârîm hari’sh-
shonîm) e 11:1 menziona “Micael vostro principe” (mîkâ’el sarkem), principe
cioè del popolo di Dio. In 12:1 si annuncia il levarsi di “Micael, il gran principe”
(mika’el hassar haggâdôl), in difesa del suo popolo (qui il principe Micael ap-
pare rivestito di potere giudiziale e lo si può con fondati motivi identificare con
la figura del Figlio dell’uomo che esercita lo stesso potere in 7:13,14,26).
Nel Nuovo Testamento Micael riceve il titolo di “arcangelo” (archangelos)
ed è identificato con Gesù Cristo (Gd 9; 1Te 4:16; Ap 12:7,8).
In Daniele tutto lascia credere che Mika’el e il sar hazzavâ siano la stessa
figura celeste. È dunque contro il Figlio di Dio e non contro un sacerdote giu-
daico che si fa grande il “piccolo corno”.
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287 - Vedi I Maccabei capitolo 1; G. RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, pagg. 270-271.
288 - Cfr. G. HASEL, op.cit., pp. 410-411.
289 - Ibidem, p. 412.
290 - Ibidem, pp. 412-413.
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L’azione ostile del corno è diretta precisamente contro questa attività divina.
“Ma l’atto del corno di abbattere il mekôn (‘fondamento’) del santuario celeste -
osserva ancora il nostro autore - è una interferenza nell’atto di Dio di ascoltare le
preghiere dei suoi devoti e di offrire il perdono, base/fondamento del santuario
di Dio nei cieli. L’atto del corno implica dunque un’intromissione nel senso che
esso rende inefficace il ‘fondamento’ o la ‘base’ (mekôn) del santuario celeste dal
quale procede la giustizia divina”291.
Secondo la cristologia del Nuovo Testamento il Figlio di Dio, esaltato alla
destra del Padre dopo la risurrezione (At 5:55-56; Rm 8:34; Eb 1:3,8), svolge nel
suo celeste santuario (Eb 8:1-2; 9:11-12) un ministero continuo di mediazione e
intercessione a favore nostro (1Tm 2:5; Rm 8:34; Eb 7:25; 1Gv. 2:1).
“Questo ‘abbattere’ è un modo di trasmettere in un linguaggio grafico me-
taforico, l’idea che il potere del ‘piccolo corno’ giunge, per così dire, al centro
stesso dell’attività divina nel santuario del cielo, un’attività che comporta il per-
dono del peccato. Siffatta azione tocca il cuore dell’intercessione e del ministero
continui del ‘Principe dell’esercito’ (il Cristo) che ministra nel santuario celeste.
In altri termini il potere del corno anti-divino attacca la base stessa dell’interces-
sione del celeste santuario con le sue attività mediatoria e salvifica a beneficio
dell’uomo fedele”292.
Mekôn miqdashô è il complemento del verbo hushlak, è ciò che il corno ha
abbattuto. Miqdash, dal verbo qadâsh, “essere santo”, è il termine col quale il
Pentateuco designa il santuario mosaico (cfr. Es 25:8; Le 12:4; 21:12; Nu 10:21;
18:1 ecc.) e con cui il cronista indica il tempio di Yahweh in Gerusalemme (1Cr
22:19; 2Cr 29:21).
“Santuario” è dunque la traduzione corretta di miqdash e non “oblazione”
come nella versione del Bernini. La TOB traduce miqdashô “la santa dimora”,
non tenendo conto del suffisso di terza persona maschile unito a miqdâsh. Da-
niele ha voluto dire che fu il santuario del “Principe dell’esercito”, e non il san-
tuario in senso indefinito, che il corno empio abbatté.
“La dimensione cosmica del rovesciamento della base celeste del santuario -
citiamo ancora Hasel - esprime la realtà del tentativo di vanificare il ministero di
Cristo in cielo mediante l’instaurazione di un rivale sistema mediatorio che disto-
glie l’attenzione degli uomini dall’opera sommo-sacerdotale di Cristo, privandoli
così dei benefici continui del suo ministero nelle corti celesti”293.
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CAPIRE DANIELE
Nei primi 7 versetti del cap. 8 s’incontrano 6 riferimenti che hanno attinenza con
l’uso della facoltà visiva: 3 volte (vv. 1 e 2) si ripete la parola “visione” (chazôn),
2 volte (vv. 4 e 7) ricorre la voce verbale “io vidi” (ra’îthî) e 1 volta (v. 3) si
legge l’espressione “alzai gli occhi e guardai” (wa’essa’ ’enay wa’er’eh). È evi-
dente che l’attenzione di Daniele in questa parte della visione è concentrata sulle
figure simboliche che scorrono davanti ai suoi occhi.
Nel v. 12, con un attacco mosso alla “continuità” e un oltraggio inflitto alla
“verità”, si conclude l’attività del “corno” contro il “Principe”, il suo “esercito” e il
suo tamîd (“continuità”), e con essa si chiude anche la parte “visiva” della rivela-
zione.
Nelle versioni moderne della Bibbia la prima parte del v. 12 è resa con no-
tevoli differenze di senso. Si confrontino le seguenti traduzioni italiane:
“L’esercito gli fu dato in mano col sacrificio perpetuo a motivo della ribel-
lione; e il corno gettò a terra la verità e prosperò nelle sue imprese” (Luzzi).
“Una stele fu collocata nel luogo del sacrificio perpetuo con empietà e fu get-
tata a terra la verità. Così fece ed ebbe successo” (Bibbia Concordata)
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CAPITOLO 8
L’interpretazione del passo che sarà data di seguito si attiene all’analisi che ne fa
Hasel nell’opera citata alle pagine 416-420.
Il sostantivo tzava’, “esercito”, può essere tenuto come il soggetto della pro-
posizione perché precede il verbo (tinnaten, “dato”). Detto sostantivo essendo
indeterminato (non è preceduto dall’articolo) si dovrebbe mantenerlo distinto
dallo stesso sostantivo nei vv. 10 e 11. In altre parole, “l’esercito” che agisce in
questo versetto non è lo stesso “esercito” contro il quale si volge l’attacco del
“corno” nel v. 10.
“La continuità” (hattamid) è la stessa entità menzionata nel v. 11 (il sostan-
tivo è preceduto dall’articolo).
“Esercito dunque nel v. 12 designa qualcosa che va contro ‘la continuità’ e
deve essere messo in relazione col ‘corno’, in definitiva è l’esercito del ‘corno’
che si pone contro la ‘continuità’ del ‘Principe’. In questo contesto l’azione de-
scritta nel v. 12 sembra suggerire l’idea che un esercito del piccolo corno nella
forma di Roma ecclesiastica (questo simbolo può essere riferito al clero) sia inve-
stito del potere di opporsi alla continuità, cioè al ministero ininterrotto di media-
zione e intercessione del celeste Principe dell’esercito. L’intercessione, la media-
zione ed altri benefici connessi col tamîd sono completamente in potere
dell’esercito del ‘piccolo corno’”294.
Tinnaten è la forma passiva (nifal) femminile del verbo natan, “dare”. La
preposizione ‘al (“sopra”), che nel testo in esame segue il verbo tinnaten,
spesso, alla stessa stregua della preposizione be (“in”), ha il senso peggiorativo
di “contro”295. Il verbo natan, “dare”, associato alla preposizione ‘al (o alla pre-
posizione be), acquista il senso negativo di “porre contro”, “far ricadere su”296.
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CAPIRE DANIELE
13 Poi udii un santo che parlava; e un altro santo disse a quello che
parlava: “Fino a quando durerà la visione del sacrifizio continuo e
la ribellione che produce la desolazione, abbandonando il luogo
santo e l’esercito ad essere calpestati?”
È stata notata nel libro di Daniele una correlazione costante fra cielo e terra. Nel
cap. 2 i quattro metalli che compongono la statua vista in sogno dal re di Babilo-
nia evocano realtà “orizzontali”, terrene; mentre la pietra che cade dall’alto e
frantuma la statua richiama ad una realtà “verticale”, celeste.
Nel cap. 7 il giudizio e l’instaurazione del Regno eterno di Dio (realtà “verti-
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CAPITOLO 8
cale”) fanno seguito alle attività delle 4 bestie e del “piccolo corno” (realtà “oriz-
zontale”).
Nei capp. 11 e 12 da una successione di eventi terreni che coinvolgono di
volta in volta le potenze del mondo (la Medo-Persia, la Macedonia, i regni elleni-
stici e l’Impero romano), realtà “orizzontali”, si passa all’entrata in scena di Mi-
cael che redime i giusti alla risurrezione dei morti (realtà “verticale”).
Il cap. 8 non fa eccezione: prende l’avvio dall’ambito delle cose terrene, poi
si eleva in “verticale” svelandoci una violenta aggressione portata dal “corno”
contro il “Principe” del cielo e culmina con l’audizione che introduce piena-
mente nella realtà celeste.
Nel v. 12, come abbiamo visto, si è conclusa la fase “visiva” della rivela-
zione. Col v. 13 ha inizio una nuova fase nella quale il profeta deve impegnare
soprattutto la facoltà auditiva. Due volte (vv. 13 e 16) egli dice: “e udii” (hf(m
: $
: )
e wæ
wa’eshme‘ah), e 3 volte (vv. 14, 17 e 18) usa l’espressione “e disse” (wayy’omer).
Attonito per le cose sconvolgenti che ha visto nella parte finale della visione,
Daniele assiste adesso a un dialogo fra due esseri celesti. Il dialogo verte precisa-
mente su quelle attività dissacratorie del “corno” che hanno scosso il profeta.
La maggior parte delle versioni moderne della Bibbia traduce il passo in
modo da lasciar capire che la domanda dell’uno dei “santi” rivolta all’altro ri-
guardi la durata dell’attività maligna del “corno”:
“Poi udii un santo che parlava; e un altro santo disse a quello che parlava:
‘Fino a quando durerà la visione del sacrificio continuo e la ribellione che pro-
duce la desolazione abbandonando il luogo santo e l’esercito ad esser calpe-
stati?” (così la versione di Luzzi).
“Udii un santo parlare e un altro santo dire a quello che parlava: ‘Fino a
quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la desola-
zione dell’iniquità, il santuario e la milizia calpestati?” (TOB)
“Udii parlare un santo e un altro santo disse a quel tale che parlava: ‘Fino a
quando durerà la visione, vale a dire, fino a quando il sacrificio perpetuo
sarà abolito, l’iniquità devastatrice sussisterà, e il santuario con il suo eser-
cito sarà calpestato?” (Concordata)
“Allora intesi un santo che parlava e un alto santo disse a quel tale che par-
lava: ‘Fino a quando durerà la visione: il sacrificio perpetuo rimosso, l’em-
pietà devastatrice che vi è stata installata e la milizia conculcata?” (Bernini)
In queste traduzioni sono aggiunte delle parole che nel testo originale non ci
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CAPIRE DANIELE
sono (le forme verbali durerà, abolito o rimosso, sussisterà ed il sostantivo sacri-
ficio). S’avvicina un po’ di più all’ebraico la traduzione di G.Rinaldi:
“Or io udii un santo parlare, e un altro santo disse a quel tale, che parlava:
‘Fino a quando la visione: il sacrificio quotidiano abolito e il peccato deva-
statore posto là e il santuario e il celeste esercito oggetto di conculcazione?”
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CAPITOLO 8
nostro Autore - avvalora il senso di fine di un tempo che abbiamo dato al dia-
logo in forma di domanda/risposta nei vv.13 e 14”299.
La comprensione del responso dell’interpellato nel v. 14 ovviamente ri-
chiede a monte la comprensione dei termini con i quali l’interpellanza è stata
formulata nel v. 13. I termini su accennati, ricordiamolo ancora una volta, sono:
“continuità” (tamîd), “trasgressione” (peshâ‘), “desolazione” (shomem) e “santua-
rio” (qodesh) (il senso di “esercito” - tzeva‘ - è già stato chiarito).
Si è già osservato come l’aggiunta del vocabolo “sacrificio” a “continuità”
letta come aggettivo (“continuo”), sia un’operazione non autorizzata dal contesto
né - aggiungiamo qui - dai manoscritti.
Nell’ebraico non c’è alcun aggettivo che qualifichi il termine tamîd e i nu-
merosi manoscritti masoretici di Daniele esistenti hanno tutti l’identica forma.
Thamîd nel v. 13 ha lo stesso significato che nei vv. 11 e 12: il vocabolo si riferi-
sce al ministero sacerdotale ininterrotto di Gesù Cristo nel santuario celeste.
Il termine ebraico per “trasgressione”, peshâ‘, è “la parola più profonda
usata nel Antico Testamento per esprimere il concetto di ‘peccato’”300. Fonda-
mentalmente questa parola significa “ribellione” nel senso di azione mediante
cui “uno interrompe ogni rapporto con Dio sottraendogli ciò che è suo, deru-
bandolo, appropriandosi fraudolentemente di ciò che gli appartiene”301.
Il nostro Autore ha studiato le connessioni terminologiche e teologiche fra
pesha‘ e vari contesti scritturali. In Dn 9:24 il vocabolo compare nella frase: “per
porre fine alla trasgressione (pesha‘)”. Dio ha fissato un tempo entro il quale
Israele dovrà far cessare la “trasgressione”.
In Le 16:16 e 21 pesha‘ è usato nel contesto della purificazione del santua-
rio nel giorno dell’espiazione. Sia in Dn 9:24 che in Le 16:16,21 questo vocabolo
è usato in relazione col popolo di Dio (in Le 16 l’enfasi cultico-giudiziale è ine-
quivocabile ed un contesto cultico è evidente in Dn 8:11-14). La “trasgressione”
a cui si allude in Dn 8:11-14 può essere la trasgressione alla quale il popolo di
Dio è stato trascinato mediante l’attività del “piccolo corno”.
Il participio shomem in certe versioni della Bibbia è tradotto “causante or-
rore”, in altre è reso “che produce la desolazione” (Luzzi) e da certi espositori è
stato accostato all’espressione “abominazione della desolazione” ricorrente in Dn
9:27, 11:31 e 12:11. In realtà in questi 3 passi l’unico elemento comune è il ter-
mine shomen; a parte questo “non ci sono due espressioni che siano identi-
che”302.
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Nelle forme verbali e nominali derivate dalla radice rms manca qualunque idea
di contaminazione o dissacrazione. Mirmas in 8:13 esprime il concetto di preva-
ricazione a danno del “santuario” e dell’ “esercito”.
“Abbiamo condotto con accuratezza la nostra indagine in merito alla do-
manda formulata in 8:13 - conclude Hasel - con l’intento di farne emergere il si-
gnificato dal testo stesso letto alla luce del contesto del capitolo, del libro di Da-
niele e della Bibbia in generale.
Da questa indagine è risultato chiaro che il tenore della interpellanza
orienta alle cose che dovranno accadere al termine della visione. L’espressione
temporale in 8:13 non è incentrata su quello che avverrà durante il lasso di
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tempo contemplato nella visione, dirige bensì l’attenzione verso il punto termi-
nale di questo lasso di tempo ed oltre”306.
Il responso dell’essere celeste è rivolto non all’altro essere celeste che lo ha sol-
lecitato con la sua domanda, ma al profeta che ha assistito al dialogo fra i due:
“Ed egli mi disse...”, yal)" rem)oYwá wayy’omer ’elay... L’angelo-rivelatore parla a Da-
niele come se avesse letto nel suo pensiero un intenso desiderio di conoscere il
tempo futuro in cui terminerebbe infine la guerra accanita del “corno” contro il
celeste “Principe”, il suo “santuario” ed il suo “esercito”.
La rivelazione dell’angelo è diretta e concisa: “Fino a duemilatrecento sere-
mattine...”, tO)"m $ol$: U {éyPa l a reqoB ber(e da( ‘ad ‘erev boqer ’alpaym ûshelosh
: )
me’oth... Interpellanza e responso iniziano con la stessa parola: ‘ad, “fino a”. Se-
gno che interpellante e interpellato hanno in mente la stessa cosa: un punto di ar-
rivo, una scadenza (non una durata come interpretano generalmente le versioni).
Questo punto d’arrivo è posto al termine di un periodo di “2300 sere-mattine”.
Gli studiosi di Daniele - e non soltanto quelli contemporanei - che abbas-
sano al II secolo a.C. la data di composizione del libro, sono concordi nel dire
che l’espressione del testo ebraico ‘erev-boqer ’alpaym ûshelosh me’ôth, “due-
mila-trecento sere-mattine” indica il numero totale di sacrifici tamîd (“continui”)
che furono soppressi nel tempio di Gerusalemme durante la persecuzione di An-
tioco Epifane tra il 167 e il 164 a.C. Poiché ogni giorno si immolavano nel tem-
pio gerosolimitano due olocausti - uno al mattino e uno la sera - 2300 sacrifici si
offrivano in 1150 giorni (così A.BENTZEN, K.MARTI, J.A.MONTGOMERY, N.W. POR-
TEOUS, O.PLÖGGER, M.DELCOR, A.LACOCQUE ed altri seguiti quasi senza eccezioni
dai commentatori e dai compilatori delle note delle versioni)307.
Contro il dimezzamento delle 2300 sere-mattine militano però serie diffi-
coltà che gli espositori conservatori non hanno mancato di rilevare. Hasel le ha
riassunte nei punti seguenti:
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308 - “Questo è il sacrificio mediante il fuoco che offrirete all’Eterno: degli agnelli dell’anno,
senza difetti, due al giorno come olocausto perfetto (‘olath thamîd)”. Nu 28:3. In Nu 28 e 29
l’espressione ‘olath thamîd (“olocausto continuo”, al singolare), è riferita 15 volte al doppio
olocausto quotidiano (28:3,4,10,15,31; 29:11,16,19,22,25,28,31,34,38). L’unica eccezione
in 28:23 non invalida quest’uso costante.
309 - Vedi S.J. SCHWANTES, “‘Ereb Boqer of Daniel 8:14 Re-examined” in Symposium on Daniel,
pp. 462 e seguenti
310 - Vedi Es 29:39; Le 6:12,13; Nu 28:4, II Re 16:15; 1Cr 16:40; 23:30; 2Cr 2:4; 13:11; Ed 3:3.
311 - Biblical Commentary on the Book of Daniel, Grand Rapids 1949, p. 630, citato da
G.HASEL, op. cit., p. 432.
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313 - Agl’inizi del IX secolo il dotto giudeo Nahawendi eguagliò ad altrettanti anni i 1290 e i
2300 giorni delle profezie di Daniele. Nel secolo X utilizzarono lo stesso principio per interpre-
tare le 70 settimane e uno o più di uno dei periodi di 1290, 1335 e 2300 giorni del libro di Da-
niele, i dotti giudei Saadia ben-Josef, Jeroham, Hakohen, Iefet ibn-Alì e Rashi. Nei secoli XI e XII
applicarono questo criterio esegetico ai più lunghi periodi profetici di Daniele i rabbi Hanasi e
Eliezer, e nel secolo XIII lo studioso giudeo Nahmanides (vedi LEROY EDWIN FROOM, The Prophetic
Faith of Our Fathers, Washington DC 1946,1950, vol. I, p. 713. Vedi anche ALFRED-FELIX
VAUCHER, Lacunziana I, 1949, pp. 54-56). Fra i cristiani l’abate calabrese Gioacchino da Fiore
(circa 1130-1202) fu il primo espositore delle profezie apocalittiche ad utilizzare il principio
giorno-anno per interpretare i lunghi periodi profetici di Daniele (i 1260, i 1335 e i 2300 giorni).
Lo seguirono il teologo laico spagnolo Arnoldo da Villanova (circa 1235- circa 1313), il france-
scano della Linguadoca Pierre Jean d’Olivi (1248-1298) e l’italiano Ubertino da Casale nato nel
1259 (vedi L.E.FROOM, op. cit., pp. 750-751; 772-773; 780).
L’escatologo ALFRED-FELIX VAUCHER nel suo saggio Les prophécies apocalyptiques et leur interpre-
tation (Collonges-sous-Salève 1972, p. 9) cita lo studioso William Bell Dawson (nato nel 1854)
il quale ha scritto: “Che un giorno nella profezia corrisponda ad un anno lo hanno riconosciuto i
principali esegeti dalla Riforma in poi” (“Solar and Lunar Cycles implied in the prophetical Num-
bers in the Book of Daniel” in Transactions of the Royal Soc. of Canada, 2d Series, XI, III, Ot-
tawa 1905, p.51).
A.F.Vaucher dice che “non basterebbero parecchie pagine per menzionare tutti gli autori prote-
stanti che si sono occupati dei 2300 giorni compresi come altrettanti anni” e ne nomina alcuni
fra i più noti: il fisico inglese Isaac Newton (1643-1727), l’astronomo valdese Jean Philippe
Loys de Cheseaux (1718-1751), il vescovo anglicano Thomas Newton (1704-1782), il crono-
logo William Hales (1747-1831), l’espositore Edward Bishop Elliott (1793-1853) (Les prophé-
cies apocalyptiques et leur interpretation, p. 10).
Fra gli autori cattolici che hanno interpretato i 2300 giorni di Dn 8:14 in termini di anni il Vau-
cher ricorda il canonico Claude Lesquevin (seconda metà del XVIII secolo), l’ebraicista Francois
Houbigant (1686-1783), il canonico giansenista Pierre Jourdan, morto nel 1746, il giurista
messicano José Maria Rosas-Gutierrez (1769-1848), Pierre Lacheze (1840), William Palmer
(1811-1879), Salvatore Di Pietro (1830-1898) ed altri (ibidem, p. 11).
314 - Vedi Appendice 8A a fine capitolo.
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portare la loro causa davanti a dei testimoni in una corte di giustizia. Il processo
deve, per così dire, stabilire il diritto di Yahweh di assolvere in giudizio: “Io son
quegli che per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni (pesha‘) e non mi
ricorderò più dei tuoi peccati (v. 25).
In Is 45:25 il Signore promette: “Nell’Eterno sarà giustificata (tzadaq, forma
qal) e si glorierà tutta la progenie d’Israele”. L’ambiente della corte giudiziaria
appare ancora in Is 50:8, nel “terzo canto del Servo di Yahweh”, dove si dice:
“Vicino è colui che mi giustifica (tzadaq nella forma hifil); chi contenderà meco?
Compariamo assieme! Chi è il mio avversario? Mi venga vicino!”
Hasel osserva che il verbo tzadaq, che appare in questi passi in un linguag-
gio giudiziario, non deve sorprendere giacché l’uso di tutta una varietà di forme
della radice tzdq - e in particolare delle forme nominali - appartiene al linguag-
gio forense e alla prassi giudiziaria dell’Antico Testamento. Infine riassume nei
punti seguenti i risultati della sua analisi:
a) L’uso che fa la Bibbia delle forme verbali e aggettivali della radice zdq
le colloca nel contesto del linguaggio della corte di giustizia e del processo giu-
diziario.
b) Diverse forme derivate da tzdq appartengono alla terminologia del
linguaggio forense.
c) Yahweh è colui che scagiona l’accusato ristabilendo il diritto col fargli
giustizia.
d) La questione su chi cancellerà “le... trasgressioni” (Is 43:25) deve es-
sere inquadrata in uno scenario che vede contrapposti Yahweh e le divinità
pagane.
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16 E udii la voce d’un uomo in mezzo all’Ulai, che gridò, e disse: “Ga-
briele, spiega a colui la visione”.
Come la figura angelica ha un aspetto umano, così anche la voce che risuona “in
mezzo all’Ulai” sembra voce umana. È certamente la voce di Dio perché Dio sol-
tanto può impartire un ordine a un angelo celeste.
L’Altissimo si adatta, per così dire, alla condizione umana per farsi capire da
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una creatura umana. La voce proveniente dall’Ulai chiama per nome la figura
che sta di fronte a Daniele: “Gabriele...!”
Il primo elemento del nome angelico è lo stesso vocabolo che usa Daniele
per “uomo” quando definisce l’aspetto dell’angelo: gaver, “eroe”. “Dio è potente”
(gavri’el) sembra essere il significato del nome angelico.
Questo messaggero celeste compare ancora in Dn 9:21. Nel Nuovo Testa-
mento ritorna due volte: in Lc 1:19, dove si annuncia al sacerdote Zaccaria, il fu-
turo padre del precursore del Messia, con le parole: “Io son Gabriele, che sto da-
vanti a Dio; e sono stato mandato a parlarti e recarti questa buona notizia”; e an-
cora in Lc 1:26 dove Gabriele annuncia alla vergine Maria la divina maternità.
ELLEN WHITE321 dice che Gabriele occupa in cielo la posizione che fu del de-
caduto Lucifero. La voce che viene dall’Ulai comanda a Gabriele di fare da inter-
prete al profeta: “Gabriele, spiega a lui la visione !” (versione CEI), ebraico:
he)r
: M
a h
a -te) zfLh
a l
: }"bh : Ga gavrî’el haven lehallaz ’eth hammar’eh.
f l")yirb
Daniele qui non usa il vocabolo abituale per “visione”, chazôn, ma ado-
pera, e per la prima volta, un termine diverso: mar’eh. Dalla radice verbale r’h,
“vedere”, mar’eh ha lo stesso significato generale di chazôn, ma con alcune spe-
cifiche sfumature di senso delle quali si dirà più avanti. Non è certo senza mo-
tivo che Daniele usa qui per “visione” mar’eh anziché chazôn. Sembra ragione-
vole supporre che i due termini siano applicati a due aspetti distinti della rivela-
zione. Che sia così lo si dimostrerà nel commento del v. 26.
17 Ed esso venne presso al luogo dove io stavo; alla sua venuta io fui
spaventato, e caddi sulla mia faccia; ma egli mi disse: “Intendi bene,
o figliuol d’uomo! perché questa visione concerne il tempo della
fine”. 18 E com’egli mi parlava, io mi lasciai andare con la faccia a
terra, profondamente assopito; ma egli mi toccò, e mi fece stare in
piedi.
Si deve supporre che Gabriele sia apparso di fronte a Daniele a una certa di-
stanza da lui, verosimilmente sulla riva opposta del fiume-canale, altrimenti non
sarebbe comprensibile la frase: “Ed esso venne presso al luogo dove io stavo”.
Per quanto in sembianze umane, Gabriele è pur sempre un essere celeste, e la
presenza di un essere siffatto ha sempre suscitato grande inquietudine nel cuore
dei mortali. Nel cap. 10 per tre volte (vv. 9,15 e 17) Daniele esterna il suo
profondo malessere per la presenza vicino a lui di un Essere divino. La stessa
sconvolgente emozione provarono i profeti Isaia ed Ezechiele in circostanze
identiche (cfr. Is 6:5; Ez 1: 28).
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l’Impero di Alessandro che si affermò nella storia a seguito della vittoria defini-
tiva dei Macedoni sui Persiani nel 331 a.C. (vedi il commento del v. 4).
Che la frase: “è il re di Grecia” (malkê - yawan) debba intendersi “è il regno
di Grecia”, si vede dalla frase seguente: “e il gran corno fra i suoi due occhi è il
primo re”. Se il corno, che è una parte del capro, rappresenta un “re”, il capro
stesso non può rappresentare anch’esso un re; non può raffigurare che un
regno. Un regno sul quale il re rappresentato dal gran corno esercita la sua so-
vranità. Dn 8:21a è uno di quei casi in cui in questo libro “re” equivale a “regno”
(vedi il commento di 2:38). Il “primo re” di cui è figura il gran corno fra gli occhi
del capro, con tutta evidenza è Alessandro Magno, il fondatore dell’Impero Ma-
cedone (vedi commento del v. 5).
23 E alla fine del loro regno, quando i ribelli avranno colmato la mi-
sura delle loro ribellioni, sorgerà un re dall’aspetto feroce, ed
esperto in stratagemmi.
Dopo avere svelato le realtà che si nascondono nelle figure delle 4 corna, Ga-
briele perviene alla spiegazione del simbolo seguente, il “piccolo corno”.
Come già rilevato (vedi il commento del v. 9) l’identificazione del re di Siria
Antioco IV Epifane in questo simbolo è quasi unanime324.
324 - Per una esposizione delle ragioni di questa identificazione valga per tutte la n. VII a p.
120 del commentario del prof. Giovanni Rinaldi.
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CAPITOLO 8
Antioco Epifane regnò dal 175 al 163 a.C. Dopo la sua morte il regno di Siria
durò ancora 100 anni.
Fu infatti nel 63 a.C. che Pompeo ridusse la Siria a provincia romana dopo
avere deposto l’ultimo seleucide. Trentatré anni dopo divenne possedimento ro-
mano l’Egitto dei Tolomei. Il regno di Macedonia era stato annesso ai possedi-
menti romani nel 148 a.C. Dunque fra il 148 e il 30 a.C. scomparvero l’uno dopo
l’altro tutti i regni ellenistici eredi dell’Impero di Alessandro. Pertanto è intorno
all’anno 30 a.C. che si deve collocare storicamente il sorgere della potenza raffi-
gurata dal “piccolo corno”. Fu proprio in quest’epoca, con la conquista
dell’Egitto, che Roma concluse la sua espansione verso Oriente proponendosi di
fatto al mondo come l’ultima erede del dominio universale di Alessandro.
Gabriele interpreta il “piccolo corno” come “un re dall’aspetto feroce ed
esperto in stratagemmi” (traduzione di Luzzi). L’ebraico ha: tOdyix }yibm" U {yénPf -za(
e melek ‘atz panîm ûmevîn chîdôth, meglio tradotto dalla Versione della CEI:
\elm
“un re audace, sfacciato e intrigante”. L’espressione ebraica significa letteral-
mente: “un re sfrontato e abile negli enigmi” (cioè nell’ambiguità, nella dop-
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CAPIRE DANIELE
piezza). Se questo re sfrontato non è Antioco, chi è allora? A noi sembra più
conforme ai fatti della storia identificarvi l’astuto e intrigante Ottaviano come
simbolo vivente e personificazione di Roma stessa che con lui abbatté l’ultimo
dei regni ellenistici, si vide elevata a entità divina e iniziò la fase imperiale della
sua storia.
Secoli prima Daniele aveva visto Babilonia personificata nel suo illustre so-
vrano quando aveva dichiarato a Nabucodonosor: “La testa d’oro sei tu”
(2:38)325.
Il trapasso dal regno delle quattro corna a quello del “piccolo corno” sa-
rebbe stato segnato dal culminare dell’empietà: “...quando l’empietà avrà rag-
giunto il colmo” (v. 23, versione della CEI). I sovrani tolemaici alla stessa ma-
niera degli antichi faraoni avevano ricevuto onori divini dai sacerdoti egiziani.
Ottaviano Augusto sulla falsariga di questa pratica egiziana istituì il culto di
Roma divinizzata e consentì che si erigessero nelle provincie dell’impero dei
templi in onore del divo imperatore. Il popolo romano gli tributò onori divini
dopo la morte, e in seguito furono fatti oggetto di culto gli imperatori viventi. La
sensibilità religiosa ebraica non avrebbe potuto immaginare nulla di più empio.
Si è visto nel commento del v. 11 che nel testo ebraico tra i vv. 9-10 e i vv.
11-12 interviene un cambiamento della struttura della frase. Nei vv. 9-10 le forme
verbali, tranne la prima, sono di genere femminile, mentre nel v. 11 sono di ge-
nere maschile. Siffatto mutamento del genere dei verbi secondo Hasel326 riflette
il trapasso da una prima a una seconda fase di sviluppo dell’entità storica che il
“corno” rappresenta. Questo autore vede Roma nella fase storica politico-pagana
nei vv. 9 e 10 e nella fase ecclesiastico-papale nei vv. 11 e 12.
In effetti Roma come centro del mondo antico occidentale non scomparve
con la fine dell’impero, soltanto assunse un volto nuovo: da centro politico ne
divenne il centro religioso.
“Gli elementi di romanità che i barbari e gli Ariani lasciarono sopravvivere -
scrive l’illustre storico ADOLF HARNACK - ... furono... posti sotto la protezione del
vescovo di Roma, la più alta personalità dopo la scomparsa dell’Imperatore... Fu
così che la Chiesa Romana si sostituì all’Impero Romano universale di cui rappre-
sentò realmente la continuità; l’impero non è perito, soltanto si è trasformato...
Non è una mera osservazione intelligente, è il riconoscimento della realtà storica,
è la maniera più idonea e feconda di rappresentare il carattere di questa Chiesa.
Essa ancora governa le nazioni... Essa è una creazione politica imponente
325 - La frase che segue: “e dopo di te sorgerà un altro regno” (v. 39), presuppone che in pre-
cedenza Daniele avesse già fatto allusione ad un regno. L’espressione: “La testa d’oro sei tu”,
significa in effetti: “La testa d’oro è il tuo regno”.
326 - Op. cit., p. 401.
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CAPITOLO 8
24 La sua potenza sarà grande, ma non sarà potenza sua; egli farà
prodigiose ruine, prospererà nelle sue imprese, e distruggerà i po-
tenti e il popolo dei santi.
25 A motivo della sua astuzia farà prosperare la frode nelle sue
mani; s’inorgoglirà in cuor suo, e in piena pace distruggerà molta
gente; insorgerà contro il principe de’ principi, ma sarà infranto,
senz’opera di mano.
Gli atti qui attribuiti al sistema di potere raffigurato dal “piccolo corno” non deb-
bono intendersi come azioni individuali isolate e occasionali, ma debbono ca-
pirsi come lo svolgimento di un disegno volto al mantenimento e al consolida-
mento della supremazia, giacché il “re sfrontato” non è una figura umana indivi-
duale, come si è visto, ma rappresenta una successione di figure individuali, una
sorta di dinastia, un sistema di potere. Otto segni caratterizzano il “curriculum” di
questo formidabile sistema di potere.
1. “La sua potenza sarà grande, ma non sarà potenza sua”, ebraico:
: )olwº OxoK {ac(f wº we‘atzam kochô welo’ vekochô, alla lettera: “Grande
Oxokb
(sarà) la sua potenza ma non per potenza sua”.
Sarebbe un’assurdità affermare che Roma repubblicana e imperiale
non avesse in sé stessa la potenza che le consentì di estendere su gran
parte del mondo antico il suo dominio. Come sarebbe fuori della realtà sto-
rica asserire che venisse da altri e non da sé medesimo il potere che An-
tioco IV esercitò con grande energia nei 12 anni del suo governo sulla Siria.
È invece esatto che il potere immenso che esercitò la Chiesa romana
nel Medioevo le venne dal sostegno politico delle monarchie d’Europa. Gli
eserciti dei ducati, dei principati e dei regni europei furono messi al servizio
della Chiesa per difenderne non solo la dottrina, ma anche gli interessi poli-
tici ed economici, quando i papi lo richiesero. Bonifacio VIII nel XIII secolo
327 - ADOLF HARNACK, What is Christianity? New York 1903, pp. 269 -270, cit. in S.D.A. Bible
Commentary, vol. IV, p. 846. Il corsivo è dell’Autore.
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CAPIRE DANIELE
rivendicò la supremazia assoluta della Chiesa con la famosa teoria delle due
spade: la spada spirituale e la spada temporale che doveva esserle sotto-
messa.
4. “...e distruggerà i potenti ed il popolo dei santi”, ebraico: {yi$ odq: -{a(wº
{yimUcA( tyix$ i wº wehishchîth ‘atzumîm we‘am qedoshim (la traduzione che
: h
precede è quasi letterale).
Nel Medioevo i potenti d’Europa che osarono sfidare l’autorità del pa-
pato dovettero pagare un prezzo molto alto per averlo fatto. Nel secolo XI
Roberto II il Pio re di Francia, colpito di anatema dal papa per avere disat-
teso una legge canonica della Chiesa, dopo 3 anni di lotte inutili dovette
piegarsi e confessare pubblicamente i suoi “errori“ per essere reintegrato
nell’autorità regia.
Enrico IV imperatore di Germania, deposto e scomunicato da papa
Gregorio VII nel 1077 a motivo della investitura regia dei vescovi in Germa-
nia, si vide costretto ad andare a Canossa col saio di penitente per ottenere
dal pontefice la revoca della scomunica.
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CAPITOLO 8
5. “...a motivo della sua astuzia farà prosperare la frode nelle sue
mani”, ebraico: OdæyB: hfmr: m
i xa yilc
: h i -la(wº we‘al siklô wehitzlîcha mirmah
i wº Ol:k&
beyadô, alla lettera: “e con la sua astuzia farà prosperare l’inganno nelle sue
mani”.
La storia registra non rari casi di legittimazione, ad opera di pontefici
romani, di azioni illegittime perpetrate da uomini potenti. Nel 751 papa Zac-
caria approvò l’usurpazione del trono dei Franchi da parte di Pipino il Breve
e consacrò l’usurpatore re dei Franchi dopo avere sciolto dal giuramento di
fedeltà i sudditi di Childerico, l’ultimo legittimo sovrano merovingio.
Papa Stefano II nell’VII secolo, dopo che Pipino aveva fatto dono alla
Chiesa dei territori tolti ai Longobardi, pretese una sovranità territoriale indi-
pendente fondando tale rivendicazione su un presunto documento costanti-
niano (Donatio Constantini) che avrebbe fatto risalire al primo imperatore
cristiano l’autonomia di Roma nei confronti dell’Impero. Che quel docu-
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CAPIRE DANIELE
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CAPITOLO 8
Attenendosi all’ordine con cui si susseguono i fatti nei vv. 9-14, Gabriele, avendo
concluso la spiegazione della visione (}Ozfxh
e hechazôn), accenna per ultimo al di-
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CAPIRE DANIELE
329 - Si può ammettere che in Dn 8 chazôn e mar’eh non siano usati come vocaboli sinonimi, ma come
termini tecnici specifici riferiti ad aspetti distinti della profezia. In 8:16 mar’eh (apparizione) deve riferirsi
in modo specifico alla comparsa nella visione di due esseri personali (i “santi”) e al dialogo intercorso
tra loro. Ulteriore sostegno a questa tesi viene dal v. 26 dove ritorna il vocabolo mar’eh: “la visione
(mar’eh, apparizione) delle sere e mattine di cui è stato detto è verace, ma tu suggella la visione
(chazôn), poiché essa si riferisce a giorni lontani”.
La prima circostanza da sottolineare è la menzione del mar’eh delle sere e mattine nominato per la
prima volta nella conversazione fra i due “santi” nella quale l’uno dice all’altro che dovranno trascorrere
2300 sere e mattine prima che il santuario sia purificato. Mar’eh nel v. 16 dovrebbe quindi collegarsi di-
rettamente con l’apparizione (mar’eh) dei due “santi” che avevano parlato fra loro delle sere-mattine (v.
14). Il secondo fatto da rilevare nel v. 16 è che mar’eh è qualcosa che fu detta (ne’emar, forma nifal o
passiva del verbo ’amar, “dire”), e non udita. Chazôn è qualcosa che può vedersi soltanto, mar’eh è
qualcosa che può sia vedersi che udirsi. Infatti Daniele vide l’essere personale che gli apparve e lo udì
parlare. Così anche in 10:8-9: “E io rimasi solo, ed ebbi questa grande apparizione (mar’eh)... udii il
suono delle sue parole...”
In 8:16 Gabriele riceve da Dio l’ordine di far comprendere a Daniele il mar’eh (apparizione), ma quando
l’angelo conclude l’interpretazione, Daniele non ha ancora capito il mar’eh. Perciò Gabriele fu mandato
una seconda volta presso Daniele per istruirlo riguardo al mar’eh. L’angelo non fece menzione del
chazôn (visione in senso generico), ma si riferì in modo specifico al mar’eh che Daniele non aveva ca-
pito. Probabilmente ciò che era rimasto oscuro a Daniele e l’aveva lasciato talmente turbato, era il fatto
che fosse permesso al potere raffigurato dal “piccolo corno” di calpestare per un tempo così lungo -
2300 sere-mattine - l’esercito di Dio ed il suo santuario. Esiste dunque un rapporto diretto tra le rivela-
zioni di Dn 8 e 9 per quanto riguarda la terminologia profetica, la quale nel cap. 9 è applicata ad un
aspetto specifico della rivelazione del cap. 8, quello emerso nel dialogo fra i due “santi” apparsi a Da-
niele nella visione. Poiché in un caso mar’eh è applicato anche a Gabriele (Dn 10:18), si dovrebbe con-
siderare la possibilità che i riferimenti a mar’eh in 8:26 e 9:23 comprendano la spiegazione data a Da-
niele sia in occasione dell’apparizione dei due “santi” nella visione di 8:13-14, sia in occasione dell’ap-
parizione di Gabriele a Daniele in 8:15-25. Ad ogni modo, comunque si rapportino tra loro le suddette
due apparizioni, è chiaro che mar’eh in 8:16 può riferirsi unicamente all’apparizione dei due “santi” in
8:13-14, data la posizione di quel riferimento nel contesto del capitolo. La distinzione importante da
farsi è che il contenuto dei versetti 3-12, nei quali si descrivono le attività delle due bestie e del “piccolo
corno”, dovrebbero definirsi chazôn (visione), mentre l’apparizione dei due “santi” e di Gabriele (o la
prima o entrambe) per contrasto dovrebbero definirsi con la parola mar’eh. Condensato da W.H. SHEA,
“The Relationship Between the Prophecies of Daniel 8 and Daniel 9” in The Sanctuary and the Atone-
ment a cura del Comitato per la ricerca biblica della Conferenza Generale degli Avventisti del 7° Giorno,
Washington DC, 1981, p. 228s.
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CAPITOLO 8
27 E io, Daniele, svenni, e fui malato vari giorni; poi m’alzai, e feci gli
affari del re. Io ero stupito della visione, ma nessuno se ne avvide.
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CONOSCERE DANIELE
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CAPITOLO 8
della genealogia di Ge 5, si ritrova nel capitolo “Ricordati dei giorni antichi, considera
successivo dove, nel v. 3, Dio dice in riferi- gli anni delle età passate, interroga tuo pa-
mento alla malvagità degli antidiluviani: “Il mio dre, ed egli te lo farà conoscere,i tuoi vecchi,
spirito non dimorerà per sempre con l’uomo; ed essi te lo diranno” (De 32:7)
perché nel suo traviamento egli non è che Un paio di esempi si possono cogliere
carne; e i suoi giorni saranno quindi cento- nel libro dei Salmi:
venti anni”. Questa è la prima cronoprofezia “Ripenso ai giorni antichi,agli anni da
della Bibbia in cui “giorni” ed “anni” sono lungo tempo passati” (Sl 77:5)
messi in parallelo. “Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo
“Da questa breve rassegna - osserva cruccio, noi finiamo gli anni nostri come un
Shea - si può vedere come dal nesso che soffio. I giorni de’ nostri anni, arrivano a set-
venne stabilendosi fra le parole ‘giorno’ ed tant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni; e
‘anno’ si sviluppassero un uso linguistico ed quel che ne fa l’orgoglio non è che travaglio e
un modello mentale dai quali in seguito si vanità; perché passa presto, e noi ce ne vo-
trassero specifici rapporti quantitativi da ap- liam via” (Sl 90:9,10)
plicare in contesti profetici”. E conclude: “È “Questa lista di passi biblici nient’af-
evidente che il principio anno-giorno nella pro- fatto esaustiva - precisa l’Autore - è proposta
fezia sui generis non apparve repentina- a puro titolo esemplificativo. ‘Giorni’ ed ‘anni’
mente, ma vi fu introdotto derivandolo da un nei parallelismi dei testi citati non indicano
modello che già faceva parte del pensiero periodi di tempo brevi e lunghi, ma periodi di
ebraico” (op. cit. p. 67). Come la narrativa tempo di uguale lunghezza, calibrati però en-
storica in prosa - dice ancora il prof. Shea - la tro unità di tempo più brevi e più lunghe.
letteratura poetica dell’Antico Testamento, se L’identico processo mentale si rispecchia
non offre un criterio metodologico da appli- nelle cronoprofezie con la differenza che in
care nell’interpretazione dei periodi profetici, queste ultime l’equivalenza è specificata nu-
fornisce comunque degli esempi di associa- mericamente”.
zione fianco a fianco di due unità di tempo la Due paragrafi più sotto conclude:
cui stretta relazione reciproca è messa in luce “Il nesso stretto e particolare fra ‘giorni’
dall’uso del parallelismo poetico. Ecco alcuni ed ‘anni’ che si scorge nella prosa e nella poe-
esempi: sia dell’A.T., fornisce una base per applicare in
“I tuoi giorni son essi come i giorni del modo specifico alle cronoprofezie apocalittiche
mortale, i tuoi anni son essi come gli anni de- questo modello di pensiero” (op. cit., p. 69).
gli umani...?” (Gb 10:5) La legislazione levitica nell’ambito della
“L’empio è tormentato tutti i suoi giorni, più ampia legislazione mosaica - facciamo
e pochi son gli anni riservati al prepotente” sempre riferimento all’argomentazione del
(Gb 15:20) prof. Shea - contemplava fra altre un’istitu-
“Se l’ascoltano, se si sottomettono, fi- zione attinente all’economia agricola dell’an-
niscono i loro giorni nel benessere, e i loro tico Israele la quale prendeva il nome di anno
anni nella gloria” (Gb 36:11) sabatico (cfr. Le 25:1-7). Per sei anni, in forza
Altri esempi si possono trarre dal cap. 2 di questa istituzione, il contadino israelita do-
del Deuteronomio: veva seminare il suo campo, potare la sua vi-
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CAPIRE DANIELE
gna, raccoglierne i frutti, ma il settimo anno ‘solenne riposo’ per la terra (Le 24: 4,5).
doveva astenersene: i prodotti spontanei del “Esiste dunque un rapporto diretto fra il
campo e della vigna erano di tutti: dello stra- ‘giorno’ e l’anno’ dal momento che l’identica
niero, del povero, dello schiavo e del proprie- terminologia è applicata all’uno e all’altro; il
tario stesso del campo e della vigna. L’anno posteriore anno sabatico fu modellato sull’an-
sabatico cadeva alla fine di ogni settennio. La teriore giorno sabatico. Tale rapporto appare
legge relativa a questa istituzione esordiva quantitativamente più chiaro quando si consi-
con queste parole (v. 2): “ Quando sarete en- deri la parte successiva della legislazione
trati nel paese che io vi dò, la terra dovrà contenuta in Le 25, ovvero quella relativa al
avere il suo tempo di riposo consacrato Giubileo” (ibidem, p. 71).
all’Eterno”, letteralmente “sabatizzerà la terra Anche se Le 25:8 è un testo legislativo
un Sabato per Jahvé” (weshavthâh ha’arez - osserva Shea - il principio giorno-anno fun-
shabbath leyehowa). Il “Sabato” menzionato ziona alla stessa maniera che nel libro di Da-
qui ovviamente non è il Sabato settimanale, è niele, ovvero i ‘giorni’ proiettati nel futuro se-
l’ultimo anno di un settennio. Nel v. 4 la pre- gnano gli anni del futuro. Il passo riguarda la
scrizione è ripetuta in una forma lievemente celebrazione dell’anno giubilare e recita lette-
variente: “il settimo anno sarà un Sabato... ralmente:
per la terra, un Sabato in onore dell’Eterno” “Conterai per te sette Sabati d’anni (we-
(shabbath shabbathôn). Replicata ancora nel safartha leka sheva‘ shabthoth shanîm),
v. 5, la disposizione levitica ha la parola sette anni sette volte (sheva‘ shanîm sheva‘
“anno” nell’identica posizione in cui nel v. 4 pe‘amîm) e saranno per te i giorni dei sette
c’è la parola “Sabato”: Sabati d’anni quarantanove anni (wehayû leka
“sarà un Sabato, un completo riposo yemê sheva‘ shabthoth hashshanîm thesha‘
per la terra” (v. 4) we’arba‘im shana).
Il settimo anno La spiegazione dell’espressione nume-
“sarà un anno di completo riposo per la rica della prima frase del passo (“sette Sa-
terra” (v. 5) bati d’anni”) che viene data nella seconda
In questo parallelismo si coglie con na- frase (“sette volte sette anni”), mostra che
turalezza una identità tra Sabato dedicato alla un ‘Sabato d’anni’ deve comprendersi come
terra e anno dedicato alla terra. un periodo di sette anni. Il Sabato, settimo
“In Le 25:1-7 - osserva Shea - è chiara- giorno della settimana, è equiparato ad un
mente implicito che l’anno sabatico è model- settimo anno; l’ultimo giorno della settimana,
lato sul giorno sabatico vale a dire sul Sabato insomma, sta per l’ultimo anno di un setten-
settimanale. nio, cosicché ciascun giorno di ogni setti-
Sei giorni di lavoro erano seguiti dal set- mana terminante col Sabato equivale ad un
timo giorno di riposo sabatico: così sei anni di anno del ciclo giubilare.
lavori agricoli dovevano essere seguiti da un “Che la terminologia ‘sabatica’ - dice te-
settimo anno di riposo per la terra. Il settimo stualmente il nostro Autore - fosse inoltre uti-
giorno doveva essere un Sabato di ‘solenne lizzata per designare la ‘settimana’, risulta
riposo’ (Le 23:3); similmente il settimo anno, evidente dalla fraseologia parallela usata due
l’anno sabatico, doveva essere un Sabato di capitoli più avanti. Quivi si fa riferimento alla
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CAPITOLO 8
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CAPIRE DANIELE
l’uno con l’altro... Non è detto che l’apocalit- tro, rappresentano il progressivo degrado mo-
tica debba usare i giorni profetici della profe- rale e spirituale della società israelitica du-
zia classica alla stessa maniera di quest’ul- rante il tempo della monarchia divisa. I giorni
tima, e tuttavia l’utilizzo posteriore di siffatti durante i quali il profeta doveva “portare” i
elementi temporali è tratto dal modello-base peccati del popolo - dice W. Shea - corrispon-
fornito dalla profezia classica” (pp. 72-73). dono al tempo che Dio impiegò per giudicare
La considerazione fatta sopra vale an- il suo popolo nel tempio, come si vede dai cc.
che per quanto attiene alla divergenza fra il 1, 9 e 10 del libro di Ezechiele. Gli elementi
“modus operandi” del principio giorno-anno temporali di questa profezia giustificano il
nel Levitico e l’applicazione di esso nel libro confronto con gli elementi temporali di Nu
dei Numeri. Vale altresì nel caso di Ez 4:6 - 14:34. Da un siffatto confronto emergono si-
del quale si tratterà più avanti - ove lo stesso gnificative analogie che si apprezzano meglio
principio è applicato con una modalità ancora attraverso un raffronto delle traduzioni lette-
differente rispetto a Nu 14 e Le 25. rali dei due passi:
L’uso del principio nel libro di Daniele - Numeri 14:34: “Secondo il numero dei
posteriore rispetto a quello di Ezechiele - si giorni (bemispar hayyamîm) nei quali avete
rifà al modello più antico, quello di Le 25. In spiato il paese, quaranta giorni (’arba‘îm yôm),
sostanza si può parlare di un uso continuo giorno per anno, giorno per anno (yôm lashsha-
del principio. “Come l’uso linguistico di nah yôm lashshanah) porterete la vostra ini-
‘giorni’ accoppiati ad ‘anni’ in passi in prosa quità (this’û ‘awônothêkem) quarant’anni
e in poesia nell’Antico Testamento forma il (’arba‘îm shanah)”.
background dal quale si sviluppa il principio, Ezechiele 4:4-6: “... per il numero di
così i testi nei quali il principio anno-giorno è giorni (mispar hayyamîm) che starai sdraiato
utilizzato in maniera differente forniscono una su quel lato, tu porterai la loro iniquità (thissa’
base per l’applicazione specifica che se ne fa ’eth ‘awonam). E io ti conterò gli anni della
nell’apocalittica” (p. 73). loro iniquità (shne ‘awônam) in numero pari a
W. Shea prende ancora in esame il quello dei giorni (lemî spar yamîm): trecento-
passo di Ez 4:6. novanta giorni.
In Ez 4 si descrive un’azione simbolica Tu porterai così l’iniquità della casa
con 3 elementi principali che sono: (1) il signi- d’Israele... e porterai l’iniquità della casa di
ficato dell’azione mimata; (2) l’elemento Giuda per quaranta giorni (’arba‘îm yôm), un
crono-profetico che vi è implicato e (3) il back- giorno per un anno, un giorno per un anno
ground storico attinente all’elemento tempo- (yôm lashshanah yôm lashshanah) che io t’im-
rale. Dal contesto - osserva l’Autore - risulta pongo”.
evidente che lo scopo della parabola mimata Nella lingua originale l’uno e l’altro te-
era quello di predire l’assedio e la conquista sto presentano aspetti linguistici paralleli. In
di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi e la entrambi i passi l’atto di “portare” e l’“ini-
susseguente deportazione dei suoi abitanti. quità” portata sono espressi alla stessa ma-
I 430 anni (390 + 40), che costitui- niera; tutti e due sono introdotti con la stessa
scono la motivazione per la quale il profeta frase: “il numero dei giorni”, e tutti e due
dovrà giacere prima su un fianco poi sull’al- esprimono lo stesso concetto con l’identica
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CAPITOLO 8
frase replicata: “giorno per anno, giorno per scono i giudizi negativi degli esploratori).
anno”. Nei Numeri, insomma, il principio è ap-
Da questo raffronto - osserva il prof. plicato secondo l’ordine: un giorno per un
Shea - si vede che il secondo dei due passi anno, e in Ezechiele secondo il criterio in-
(Ez 4) dipende direttamente dal primo (Nu 14) verso, un anno per un giorno. Ma il principio
per vari aspetti significativi: il principio anno- operante nei due casi è lo stesso, come si
giorno applicato in Ez 4:6 è dunque, linguisti- vede dai raffronti linguistici.
camente, lo stesso principio oprante in Nu “Ezechiele - osserva Shea - non è che
14:34. dica ‘anno per il giorno’ e Numeri ‘giorno per
Tuttavia si nota una differenza nella mo- l’anno’. La fraseologia (‘un giorno per un
dalità di applicazione del principio. I “giorni” anno un giorno per un anno’) compare nei
futuri in senso profetico in Ezechiele sono due passi nell’identica forma. Non c’è alcuna
fatti derivare da un eguale numero di “anni” differenza fra di essi sebbene differisca nei
storici passati, inversamente di quel che av- due casi l’applicazione storico-cronologica.
viene in Nu 14 dove gli “anni” di giudizio Ciò significa che lo stesso principio poteva
fanno seguito ad un egual numero di “giorni” applicarsi con modalità diversificate in situa-
di trasgressione (i 40 giorni ai quali si riferi- zioni differenti” (op. cit., p. 74).
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CAPIRE DANIELE
Capitolo 9
____________________________________________________
D iversi anni sono trascorsi dal giorno in cui era stata rivelata a Daniele la vi-
sione del montone e del capro quando un evento epocale ha mutato l’assetto
politico del mondo orientale e ha riacceso la speranza nel cuore dei giudei che vi-
vono nell’esilio in Babilonia.: la nazione che ha distrutto Gerusalemme e il tem-
pio del Dio d’Israele, la nazione che ha devastato il paese di Giuda e ne ha sradi-
cato gli abitanti, la potente e crudele Babilonia è caduta nelle mani dei Persiani.
Si è così compiuto il suo fato, annunciato sessantasei anni prima dal profeta Ge-
remia. La Caldea, dove vivono dispersi gli esuli di Giuda, è divenuta una provin-
cia della nuova potenza egemone: la governa Dario il Medo, luogotenente e re-
vassallo di Ciro, il gran re di Persia. Che sia spuntato il giorno agognato del ri-
torno in patria? Che sia giunto per la città santa e per il suo santuario il tempo fe-
lice della rinascita? - debbono aver pensato i deportati. Daniele dovrebbe esultare,
invece è inquieto.
Lo turba il pensiero che l’infedeltà degli esuli possa ritardare la loro libera-
zione. E allora prega. Prega il suo Dio affinchè Egli voglia perdonare il peccato
del suo popolo ed esso torni libero nella terra dei padri e Gerusalemme e il tempio
del Signore risorgano dalle macerie. La risposta del Cielo giunge immediata, re-
cata da Gabriele, l’angelo della rivelazione che sette anni prima ha spiegato al
profeta la visione del montone e del capro. Si illumina un particolare essenziale
che allora era rimasto nell’oscurità e si annuncia l’avvento di una nuova èra di
restaurazione e di salvezza per Israele e per tutte le nazioni della terra.
Com’è sua abitudine, Daniele apre con l’indicazione della data il racconto di una
nuova esperienza rivelatoria. È l’anno primo di Dario il Medo figlio di Assuero
quando riceve per la terza volta una rivelazione divina. Il nome di Dario il Medo
figlio di Assuero è sconosciuto a tutte le fonti antiche di cui si è a conoscenza.
Questo però non significa necessariamente che il personaggio sia una figura leg-
gendaria.
Anche il nome del suo predecessore sul trono di Babilonia, Beltsasar, era
ignoto a tutte le fonti greche e babilonesi note fino al 1861. Poi comparve ina-
spettatamente in un documento e si vide che la funzione pubblica della persona
che lo portava concordava con la funzione che Daniele attribuisce a Beltsasar
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CAPITOLO 9
nel cap. 5 del suo libro330. Una fra le diverse proposte di identificazione del Da-
rio danielico con un personaggio storico dell’epoca, appare più verosimile delle
altre. È quella che accosta questa figura a un personaggio eminente dell’entou-
rage di Ciro il Grande, Gubaru, o Ugbaru, governatore del Gutium e conquista-
tore di Babilonia per conto del sovrano persiano 331.
330 - Nel 1861 H.F.TALBOT pubblicò i testi di alcuni cilindri di terracotta rinvenuti 7 anni prima da
J.E.Taylor presso la torre templare di Ur. Uno dei testi suddetti riportava una preghiera che il re
Nabonide rivolgeva al dio Sin in occasione del restauro della ziqqurat. In quella preghiera per la
prima volta compariva il nome di Beltsasar. Nelle righe 24-28 del documento cuneiforme si po-
teva leggere la seguente richiesta alla divinità:
“... e quanto a Bel-sar-usur (Beltsasar), il figlio primogenito, il rampollo del mio cuore, il ti-
more della tua grande divinità nel suo cuore fa’ esistere.
Il nome di Beltsasar appariva così in una fonte babilonese contemporanea e questo personag-
gio vi compariva come il figlio primogenito di Nabonide. Poi il nome di Bel-sar-usur comparve in
diversi documenti venuti in luce negli anni successivi”.
Nel 1944 fu ripubblicato in una versione più corretta un testo babilonese conservato nel Mu-
seo Britannico (BM 38299) dove si trova tuttora, noto col nome di Racconto in versi di Nabo-
nide (il testo suddetto era stato pubblicato vari decenni prima da Sidney Taylor). Questo docu-
mento a un certo punto informa:
La notizia è confermata direttamente da Nabonide in uno dei testi di Harran pubblicato nel 1958:
“Io mi recai molto lontano dalla mia città di Babilonia in direzione di Tema... Per dieci anni
io mi trattenni in mezzo a loro e non feci ritorno alla mia città di Babilonia”. (Riportato da G.
PETTINATO in Babilonia, centro dell’universo, p. 231)
Un quarto documento noto come la Cronaca di Nabonide, pubblicato la prima volta da F.G.PIN-
CHES nel 1882 e ripubblicato da S. TAYLOR nel 1924, riferisce che la festa dell’Akitu o dell’Anno
Nuovo, non fu celebrata in Babilonia dall’anno settimo di Nabonide perché il re non tornò più
da Tema (il testo si trova in ANET, p. 306).
Dai documenti citati si evince quanto segue:
1. che Nabonide nell’anno settimo del suo regno partì per Tema (nell’Arabia del nord);
2. che prima di partire conferì la regalità al figlio primogenito;
3. che il nome del figlio primogenito di Nabonide era Bel-sar-usur (Beltsasar);
4. che a Tema Nabonide rimase 10 anni, praticamente fino alla caduta di Babilonia nel 539 a.C.
Tutto sembra concordare con le notizie che ci fornisce Daniele su questo personaggio.
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CAPIRE DANIELE
Si è sentenziato con troppa fretta che Daniele in 5:31, nel cap. 6 e in 9:1
confonda il successore di Beltsasar sul trono di Babilonia con Dario I figlio
d’Istaspe. L’illazione è gratuita perché:
2) Daniele conosce bene la serie dei primi sovrani che regnarono sulla Per-
sia dopo la caduta di Babilonia. Infatti nell’anno terzo di Ciro un angelo gli
svela che “sorgeranno ancora in Persia tre re” (dopo Ciro che regna già al
momento della rivelazione), “poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti
gli altri; e quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti
contro il regno di Yawan” (Dn 11:2). Nel quarto re che solleva tutti contro il
regno di Yawan è trasparente la figura di Serse I, l’invasore della Grecia e
distruttore di Atene. I tre che lo precedono sono nell’ordine: Cambise II
successore di Ciro, l’usurpatore Gaumata e Dario I figlio di Istaspe e padre
di Serse.
3) Daniele sa infine che Ciro regna sulla Persia (10:1) e che Dario il Medo go-
verna soltanto la Caldea e con potere subordinato: “fu fatto re dei Caldei” (9:1).
2 il primo anno del suo regno, io, Daniele, meditando sui libri, vidi
che il numero degli anni di cui l’Eterno avea parlato al profeta Gere-
mia, e durante i quali Gerusalemme doveva essere in ruine, era di
settant’anni.
Il regno di Dario il Medo (vedi nota 2) deve essere cominciato nell’autunno del
539 a.C., subito dopo la caduta di Babilonia nelle mani dei medo-persiani. Col
tramonto di Babilonia un evento epocale si è consumato: la potente nazione me-
sopotamica che ha fatto tremare il Vicino Oriente, la nazione pagana che ha de-
vastato Giuda e Gerusalemme e distrutto il tempio di Yahweh, Babilonia che ha
deportato e mantenuto nell’esilio il popolo di Dio è crollata di schianto.
Daniele non è certo rimasto indifferente di fronte al mutato quadro politico.
Egli ha con sé alcuni dei venerati libri (sefarîm) della tradizione canonica
d’Israele. Non possiamo sapere quanti e quali, ma certamente più d’uno e fra di
essi un rotolo di Geremia. Indagando nei “libri” il profeta cerca di capire il signi-
ficato di quel numero di anni - settanta - che secondo la parola rivelata da
Yahweh a Geremia dovevano trascorrere sulle rovine di Gerusalemme: hænf$
{yi(b
: $ i i{al$
f Urºy tOb:rx f l
: tw)oLm
a l
: )yibNæ h
a hæym
i r
: yé -le) hæwhºy-rabd
: hæyh
f re$)
A {yén<
f h
a raPs: m
i
{yirpf S: B
a yitonyiB l)¢Yné D A ’ani danî’el bînothî bassefarîm mispar hashshanîm ’asher
f yén)
hayah devar yehowah ’el yirmyâh hannavî’ lemallo’wth lecharvôth yerûshalaim
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CAPITOLO 9
shiv‘îm shânâh, alla lettera: “io, Daniele, (cercavo) di capire dai libri il numero
degli anni nei quali secondo la parola di Yahweh a Geremia il profeta, (dove-
vano compiersi) le desolazioni di Gerusalemme: settant’anni” (l’uso del verbo
bîn, “comprendere”, denota ancora una volta la tensione continua di Daniele a
comprendere quanto gli viene rivelato in modo sovrannaturale o quanto il corso
degli eventi temporali sembra indicare). In due punti del suo libro Geremia fissa
in 70 anni la durata del castigo di Giuda: in 25:11-12 e in 29:30332.
Nel primo passo il profeta annuncia la desolazione del paese e l’asservi-
mento dei suoi abitanti al re di Babilonia per la durata di 70 anni, nel secondo
preconizza il ritorno dei deportati dopo che avranno trascorso un settantennio in
Babilonia. Il riferimento di Daniele a Geremia in 9:2 si rapporta piuttosto alla
prima delle due predizioni di questo profeta riguardo all’esilio, sebbene en-
trambe inquadrino sostanzialmente la stessa prospettiva. S’intravede un collega-
332 - La cronologia del settantennio differisce secondo che questo periodo temporale si appli-
chi alla durata dell’esilio o alla durata della desolazione del tempio. Nel primo caso i 70 anni
decorrono dall’inizio della deportazione, nel secondo dalla distruzione del tempio. Secondo Dn
1:1 la prima deportazione di cittadini di Giuda in Babilonia avvenne nell’anno terzo del re Gioia-
chim (gli anni di regno essendo calcolati in base al criterio babilonese della post-datazione) o
nell’anno quarto secondo Gr 25:1 (con gli anni di regno computati in base al criterio della pre-
datazione in uso in Giuda).
Era comunque il 605 a.C. a prescindere dal sistema di conteggio degli anni. Se si contano 70
anni a partire da questa data, si perviene al 636 a.C., tenendo conto del calcolo inclusivo del
tempo in forza del quale si calcolavano come anni interi le frazioni dell’anno iniziale e dell’anno
finale del periodo considerato.
Il decreto di Ciro che consentiva il rimpatrio degli esuli deve essere stato promulgato agl’inizi
del 538 a.C., Babilonia essendo stata conquistata nell’autunno del 539.
Nel 537 debbono essere stati portati a termine i complessi preparativi in vista del rimpatrio e
nell’estate del 536 debbono essere arrivati a Gerusalemme i primi contingenti dei rimpatriandi,
tenendo conto che ci volevano almeno 5 mesi (Ed 7:9) ad una schiera di gente appiedata per
coprire la distanza fra Babilonia e Gerusalemme. Che non sia un’impresa semplice stabilire le
date di avvenimenti dell’era pre-cristiana si comprende quando si tenga presente che i crono-
logi moderni calcolano gli anni avanti Cristo in base al calendario giuliano con l’inizio dell’anno
il 1° gennaio, mentre gli Ebrei li contavano in base al loro calendario luni-solare con l’inizio
dell’anno in settembre/ottobre (Tishri) e i Babilonesi in base allo stesso tipo di calendario ma
con l’inizio dell’anno in marzo/aprile (Nisan).
Riferiti alla desolazione del tempio i 70 anni debbono decorrere dall’anno undicesimo di Sede-
chia, il 587 a.C. quando il sacro edificio fu distrutto dai Babilonesi (cfr. 2Re 25:2,8-10, Gr
52:5, 12-14). Il tempio ricostruito fu dedicato al culto l’anno sesto del regno di Dario I (Esd
6:15) corrispondente al 516 a.C., esattamente 70 anni dopo la sua distruzione. Tanto l’esilio
quanto la desolazione del tempio durano 70 anni, pur se i due segmenti di tempo di identica
lunghezza appaiono sfalsati di una ventina d’anni l’uno rispetto all’altro.
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CAPIRE DANIELE
3 E volsi la mia faccia verso il Signore Iddio, per dispormi alla pre-
ghiera e alle supplicazioni, col digiuno, col sacco e con la cenere.
333 - L’estensore del libro delle Cronache nel riferire i fatti tragici dell’anno undicesimo di Sede-
chia (587 a.C.), coglie un nesso fra Gr 25:9-13 e Le 26:34-43. Egli puntualizza che la sciagura
che si abbatté su Gerusalemme ed i suoi abitanti avvenne “affinché s’adempiesse la parola
dell’Eterno pronunciata per bocca di Geremia, fino a che il paese avesse goduto dei suoi Sa-
bati, difatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono com-
piuti i settant’anni” (2Cr 36:19-21).
Si evidenzia in questo passo una terza conseguenza della catastrofe del 587 a.C. oltre a quelle
preannunciate da Geremia (la desolazione del paese e la deportazione dei suoi abitanti), cioè il
riposo della terra per tutta la durata della desolazione. Il cronista sembra voler dire che fu ri-
dato alla terra il riposo prescritto dalla legge dell’anno sabbatico enunciata in Le 25:2-7, riposo
del quale essa era stata defraudata per tanti anni (70 anni corrispondono a 10 anni sabbatici).
È significativo che Gesù, secondo Lc 4:17-19, definisse la natura e lo scopo del suo ministero
messianico col richiamarsi ad un passo di Isaia (61:1-2) ove sono tramutati profeticamente in
future benedizioni messianiche i benefici sociali dell’anno giubilare (Le 25:13-16, 39-41, 54), a
sua volta collegato con l’anno sabbatico (Le 25:8).
Letti alla luce di Lc 4:18-19, Le 25:8 e 25:10-13, 39-41 sembrano additare al futuro riscatto
messianico, il tema centrale della rivelazione di Dn 9:24-27.
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CAPITOLO 9
A Colui che porta il nome ineffabile (hæwhy Yahweh) cui lo legano forti vincoli af-
fettivi (yahol)
E ’Elohay, “il mio Dio”), Daniele presenta la sua supplicazione e la sua
confessione (heDwá t e ’ethwaddeh).
: )
Supplicazioni e confessione sono dunque i contenuti della preghiera, ma
nel presentarle al Signore Daniele ne inverte l’ordine: prima confessa, poi sup-
plica. L’esordio: “Ah! Signore, il Dio grande e tremendo...” ()frONahwº lOdfGh a l")h
f
yænod) f ’anna’ ’adonay ha’el haggadol wehannôra’...) fa trasparire i sentimenti
A )æN)
di riverente timore del peccatore penitente davanti alla grandezza e alla maestà
di Dio. La sua fedeltà indefettibile (“che mantieni il patto”) e la sua ininterrotta
benevolenza (“e continui la benignità”) verso coloro che lo amano e osservano i
suoi comandamenti, sono i presupposti sui quali l’implorante fonda la sua fidu-
cia (cfr. Es 20:6).
Nel confessare i peccati del suo popolo Daniele non si estranea, non
prende le distanze: “Noi abbiamo peccato...” Anche nel peccato il profeta si fa
solidale con la sua gente. Una confessione è sincera quando la colpa è messa a
giorno senza attenuanti e giustificazioni. Così è la confessione di Daniele: non
vaga e generica, non attenuata e parziale, ma definita e completa.
Con 5 forme verbali sono enumerate altrettante colpe specifiche: Un)f+fx
chata’nû, “noi abbiamo peccato” (da chata’, “mancare lo scopo”); Unyéw(f ‘awînû,
“noi abbiamo agito perversamente” (da ‘awah, un verbo che implica allontana-
mento dalla retta via); Un:($ a r i hirsha’nû, “noi abbiamo agito malvagiamente” (da
: h
râshâ‘, “condursi malvagiamente”); Un:dr f maradenû, “ci siamo ribellati” (da ma-
f m
rad, “insorgere”, “rivoltarsi”); rOs “deviare”, “stornarsi” (all’infinito). L’orante -
commenta H.C.Leupold - “riconosce che tutte le forme di espressione che carat-
terizzano il peccato sono applicabili a Israele, e questo è un segno essenziale
della genuinità del pentimento: la colpa non è stata sminuita” 334.
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CAPIRE DANIELE
Al Signore (yænod)
A ’Adonay) Daniele ascrive la giustizia (hfqd f C a hatztzadaqah), a
: h
sé medesimo e alla sua gente “la vergogna sul volto” ({yénPf h a te$oB bosheth hap-
panîm) che la presente condizione di gente senza patria rende manifesta a tutti.
La confessione coinvolge nella loro totalità gli appartenenti al popolo di
Dio, tanto i più avvantaggiati cittadini di Giuda e Gerusalemme quanto gli abi-
tanti del più lassista regno di Samaria, deportati e dispersi prima di loro, giacché
quelli non furono meno colpevoli di questi. La vergogna dunque copre il volto
di tutti i dispersi, quelli di Giuda - i vicini - e quelli di Samaria - lontani - tutti
ugualmente puniti perché tutti alla stessa maniera colpevoli di infedeltà verso
Dio. La giustizia divina è pienamente rivendicata e la colpa del popolo è messa
a nudo senza attenuanti. Il contrasto è radicale.
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CAPITOLO 9
colpe del presente: “Poiché (tutti) abbiamo (ugualmente) peccato conto di te”.
11 Sì, tutto Israele ha trasgredito la tua legge, s’è sviato per non ub-
bidire alla tua voce; e così su noi si sono riversate le maledizioni e
imprecazioni che sono scritte nella legge di Mosè, servo di Dio, per-
ché noi abbiam peccato contro di lui.
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CAPIRE DANIELE
nosce nella sciagura che si è abbattuta sul suo popolo l’avverarsi delle maledi-
zioni annunciate nella legge di Mosè contro i suoi trasgressori. Probabilmente
egli pensa a quei passi ammonitori del Levitico e del Deuteronomio nei quali la
desolazione del paese e la deportazione in terre lontane dei suoi abitanti sono
prospettate come il castigo di Dio sui trasgressori delle sue leggi (vedi Le 26:32-
34, 45; De 28: 49-52; 64,65).
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CAPITOLO 9
mento intenso pervade un discorso, come avviene con tutta evidenza in questo
caso, facilmente l’emozione respinge dietro le quinte la logica”336.
15 Ed ora, o Signore, Iddio nostro, che traesti il tuo popolo fuori del
paese d’Egitto con mano potente, e ti facesti il nome che hai oggi, noi
abbiamo peccato, abbiamo operato malvagiamente.
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CAPIRE DANIELE
Dalla richiesta al Signore di porre fine allo sdegno, Daniele passa alla domanda
di volgersi propizio verso il suo santuario: “Ed ora ascolta o nostro Dio la pre-
ghiera del tuo servo e la sua supplica...” (wyænUnAxTa -le)wº !:Db
: (a taLpi T: -le) Uny"hol) E (am$:
hfT(a wº we‘attah shema‘ ’elohênû ’el tefillath ‘avdeka we’el tachanûnâyw...).
Da questo punto la preghiera di Daniele si fa supplicazione: “... fa risplen-
dere il tuo volto verso il tuo desolato santuario...” ({"m< f ha !:$D f q: m
i -la( !yånPf r")hf wº
weha’er paneykâ ‘al miqdashka hashshomem...).
Gerusalemme in rovine, il popolo esposto al vituperio, il santuario desolato:
sono questi i motivi per i quali il profeta implora la misericordia di Dio in nome
dell’amor suo.
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CAPITOLO 9
L’incalzare delle richieste sembra tradire un senso di urgenza. La forza della sup-
plicazione è comunque accresciuta dall’aggiunta della finale âh ai primi tre
verbi: shem‘âh, selachâh, haqshivâh.
Questa particella ebraica ha una funzione paragonabile a quella dell’interie-
zione italiana “deh” ! Il prof. Giovanni Rinaldi, molto attento al testo originale, ha
tradotto il v. 19: “Signore, deh, ascolta! Signore, deh, perdona ! Signore, deh,
presta attenzione, agisci...!”. L’ultimo verbo, ’achar (“indugiare”, “ritardare”) pre-
ceduto dall’avverbio di negazione ’al, “non”, sembra tradire il timore che la fine
delle angustie dei deportati e l’inizio della restaurazione nazionale allo scadere
dei 70 anni predetti da Geremia (vedi il commento del v. 3) possano essere dif-
feriti a causa del persistere del peccato in seno alla comunità degli esuli. Daniele
invoca il perdono confidando nella bontà del signore: “per amore di te stesso”,
cioè: perché perdonare è conforme alla tua natura. “Lo spirito di questa pre-
ghiera - osserva Boutflower - è ciò che deve guidare alla retta comprensione
della rivelazione da cui venne ad essa la risposta”.337
Ancora una volta l’orante ricorda il duplice scopo della sua preghiera: confessare
e supplicare. Nella confessione collettiva Daniele si è sempre coinvolto nel pec-
cato del suo popolo. Da questo versetto si capisce che non è stato un atto for-
male: “...confessando il mio peccato e il peccato del mio popolo”.
Riferendosi al Signore il profeta usa il nome proprio della Divinità: Yahweh,
Colui che è, che ha in sé medesimo la causa della sua esistenza, che esiste fuori
dal tempo. Al nome proprio aggiunge l’appellativo familiare “mio Dio” (’Elohay).
E alludendo a Gerusalemme, in modo pertinente usa l’espressione “il monte
santo del mio Dio” perché effettivamente della città e del santuario non è rima-
sto che un monte cosparso di rovine.
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CAPIRE DANIELE
Alla fine del cap. 8 abbiamo lasciato Daniele stupito a motivo della visione per-
ché non la intendeva. Era l’anno terzo di Beltsasar di Babilonia (8:1), il 546 a.
C. Ora, nell’anno primo di Dario il Medo (9:1), il 539 a.C., Gabriele ritorna e gli
annuncia che è venuto per dargli intendimento (hænyib !:lyiK:&ah:l lehaskîlkâ
vînâh). L’uso della stessa terminologia evidenzia un collegamento fra i due mo-
menti: l’angelo è venuto per rendere intendente Daniele che non aveva inteso.
Sette anni sono trascorsi prima che si cominciasse a far luce su un enigma
che aveva turbato lo spirito del profeta. Il perché di questo lungo intervallo di
tempo non è detto.
Possiamo solo cercare di ipotizzarlo. È probabile, anzi sembra certo, che
all’epoca della visione fosse prematuro sciogliere un enigma di cui gli eventi de-
gli anni futuri avrebbero agevolato la comprensione. Nell’anno primo di Dario il
Medo qualcosa è accaduto che ha fatto compiere una svolta al corso degli
eventi. Babilonia che ha tenuto nell’esilio il popolo di Dio è scomparsa e una
nuova potenza egemone si è affacciata alla ribalta.
Comincia ad avverarsi la visione di otto anni prima: il montone medo-per-
siano già domina lo scenario politico. Il dettaglio della visione rimasto nell’om-
bra riguardava qualcosa che doveva avere attinenza col regno dei Medi e dei
Persiani.
Nell’audizione (8: 26,27) Daniele aveva capito che allo scadere di 2300
“sere e mattine” sarebbe finita l’aggressione del “corno” contro la “perpetuità” e
sarebbero cessati il “peccato che produce la desolazione” e l’oltraggio fatto al
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CAPITOLO 9
“santuario” e all’“esercito”. Ma non gli era stato rivelato né il tempo dal quale bi-
sognava contare le “2300 sere e mattine” né che cosa significasse la frase “poi il
santuario sarà purificato”.
Nella visione Daniele aveva visto il “corno” abbattere il “fondamento del
suo santuario”, ma non lo aveva visto contaminare il santuario stesso. Perchè
dunque esso doveva essere purificato?
Quando torna Gabriele con una nuova rivelazione, già domina la nazione
che lascerà liberi gli esuli giudei di tornare in patria e permetterà che essi rico-
struiscano il santuario distrutto.
In seguito questa nazione decreterà anche che Gerusalemme sia ricostruita,
e questo evento fornirà un elemento cronologico di base (9:25) per calcolare il
tempo profetico. Infine non sarà il tempio ricostruito nell’età persiana il “santua-
rio” che sarà “purificato” in capo alle 2300 “sere e mattine”, ma sarà un “santua-
rio” che il Messia consacrerà alla fine di 70 settimane di anni dopo avere com-
piuto l’espiazione del peccato (9:24-27). Sono dunque maturi i tempi perché Da-
niele possa cominciare ad “intendere”.
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CAPIRE DANIELE
Ora Gabriele rivela il tenore della decisione che è stata presa in cielo: “Settanta
settimane sono fissate riguardo al tuo popolo e alla tua santa città” (!e$d : qf ryi(-
la(wº !:M(a -la( \aTx
: nå {yi(b
: $
i {yi(b f shavu‘îm shiv‘îm nechttak ‘al ‘ammeka we‘al ‘îr
u $
qodsheka...).
C’è una relazione tra i 70 anni della cattività (v. 2) e le 70 settimane annun-
ciate dall’angelo per il popolo e la santa città; esiste pure un rapporto di questi
due segmenti temporali con l’anno sabbatico e l’anno giubilare. Osserva
Doukhan: “I settant’anni (7X10) conducono a un messia dell’anno sabbatico
(Ciro), mentre le settanta settimane (7 X 7 X 10) portano a un Messia del giubi-
leo”338. Ciro, re di Persia, il futuro liberatore del popolo di Dio tenuto nell’esilio
da Babilonia, è designato come l’unto del Signore (messia) in Is 45:1.
Anche Boutflower ha visto un nesso fra i 70 anni e le 70 settimane: “ Ora in
questa visione caratteristicamente cronologica, quei settant’anni d’un tratto si di-
latano e diventano settanta settimane d’anni, e questo affinché dal loro espan-
dersi e dall’uso del sacro numero sette come moltiplicatore, fosse allertata l’atten-
zione dei santi verso qualcosa di gran lunga più gloriosa, verso una liberazione
infinitamente più grande dell’emancipazione dal giogo di Babilonia”339.
Daniele era nell’angustia a motivo del “vituperio” (l’esilio) cui era esposto il
popolo di Dio: il Signore farà finire il vituperio e farà molto più di questo. Come
alla fine del settennio sabbatico si ricominciava a coltivare la terra lasciata incolta
per un anno (Le. 25:3,4), così allo scadere di 10 anni sabbatici (70 anni) finirà la
desolazione della terra di Giuda perché i deportati ritorneranno.
Come nell’anno giubilare ricorrente ogni 49 anni tornavano liberi gli schiavi
(Le 25:30-41), così in capo a 10 anni giubilari (490 anni) il Signore accorderà al
suo popolo la liberazione dalla schiavitù del peccato.
“Daniele aveva cercato di capire i 70 anni di Geremia; la spiegazione gli fu
fornita attraverso la profezia delle 70 settimane di anni. Egli aveva implorato il
perdono dei peccati del suo popolo; gli fu detto che in 70 settimane sarebbe
stata compiuta l’espiazione perfetta. Aveva pregato affinché si compisse la pro-
messa di Geremia: in 70 settimane d’anni cominceranno ad avverarsi tutte le
profezie. Aveva invocato il ristabilimento del santuario: in 70 settimane d’anni
sarà unto il santuario dei santuari. Tutto ciò ch’egli ha domandato si compirà in
misura sovrabbondante. Quello che avverrà allo scadere dei 70 anni, alla fine
della cattività, ne sarà solo una pallida immagine”340.
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CAPITOLO 9
341- “Lo studio esegetico del cap. 9 di Daniele rivela che differenti testimonianze linguistiche
convergenti indicano che il vocabolo shavû‘a (adoperato in questa profezia come unità di
tempo) dovrebbe tradursi ‘settimane’ e non ‘settenario’.
Procedendo da questa considerazione, ci si può domandare che tipo di settimane siano quelle
di cui si parla in questo capitolo. Il vocabolo ebraico per ‘settiman’ si può usare in due modi
differenti:
1) per indicare un insieme di sette giorni successivi indipendentemente dal giorno iniziale;
2) oppure per riferirsi specificamente a una settimana sabbatica con inizio la Domenica e fine il
Sabato. Nel primo caso si può parlare di settimana non sabbatica, nel secondo di settimana
sabbatica.
“La questione è se le 70 settimane simboliche di tempo profetico in Daniele debbano interpre-
tarsi secondo il modello della settimana sabbatica o quello della settimana non-sabbatica. Se
si tratta di settimane non-sabbatiche, queste unità temporali si riferiscono semplicemente a un
periodo globale di 490 giorni. Ma se si ha a che fare con settimane sabbatiche, questo periodo
di 490 anni consecutivi deve essere divisibile per anni sabbatici, ovvero per cicli di sette anni
(vedi Le 25:1-7).
“Il testo non fornisce nessuna indicazione esplicita a questo riguardo. L’unico modo per ve-
nirne a capo è di applicare un test pragmatico, cioè esaminare le date applicate alla profezia
per verificare se esse coincidano con anni sabbatici conosciuti.
“Fonti extrabibliche ci hanno fornito negli anni recenti informazioni che ci consentono di datare
gli anni sabbatici del periodo post-esilico considerandoli come un’unità di sette ogni settimo
anno (l’Autore rinvia a un lavoro di B. Z. WACHOLDER, “The Calendar of Sabbatical Cycles During
the Second Temple and the Early Rabbinic Period” in HUCA 44, 1973, 153-196).
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CAPIRE DANIELE
“Il chiasmo - spiega Doukhan - chiarisce la natura delle settimane; come ‘set-
tanta’ è in parallelo con ‘settanta’, così ‘anni’ è in parallelo con ‘settimane’ ”342.
Le settanta settimane sono un tempo di grazia che il Signore ha accordato a
Israele e a Gerusalemme. La richiesta di Daniele è stata esaudita molto al di là di
quanto egli potesse desiderare. Egli aveva invocato la clemenza divina riguardo
a Gerusalemme e al popolo esposti al vituperio (v. 16): gli è stato risposto che al
suo popolo e alla sua santa città sono stati concessi settanta volte sette anni di
clemenza (7 anni per ciascuno dei 70 anni di sdegno) nei quali l’iniquità sarà in-
fine rimossa.
Le 70 settimane sono state “fissate” per il popolo e per la santa città. “Fis-
sate” nell’originale è \aTx
: nå nechttak, forma passiva (nifal) del verbo chatak, che
oltre a “fissare”, “determinare”, significa anche “tagliare”, “dividere”,
“separare”343.
Nechttak, dunque, si può anche tradurre “tagliate”, “separate”. Questo è il
“Oggi si può dimostrare che gli anni 457 a.C., 27 a.D. e 34 a.D. (le date relative ad eventi fon-
damentali della profezia di Dn 9), furono anni sabbatici. Possiamo dunque rispondere alla do-
manda formulata al principio che le ‘settimane’ della profezia di Dn 9 sono settimane sabbati-
che le quali implicano a loro volta anni sabbatici.
“La teologia che soggiace all’anno sabbatico può dunque arricchire di significato gli eventi pre-
detti in Dn 9. Nell’anno sabbatico gli schiavi dovevano tornare liberi e la terra alienata doveva
tornare al proprietario originale. Si scorge un nesso con gli eventi del 457 a.C., all’inizio delle
70 settimane, quando molti degli esiliati in Babilonia tornarono nelle terre che erano apparte-
nute a loro e ai loro padri.
“Un altro collegamento si può cogliere in quell’episodio evangelico in cui Gesù legge Is 61 nella
sinagoga di Nazareth (Lc 4:16, 21). questo episodio acquista ulteriore significato se si tiene
conto del fatto che Gesù lesse quel passo attinente in senso tipologico all’anno sabbatico ap-
punto in un anno sabbatico, il 27 a.D., e lo applicò a sé stesso al principio del suo ministero.
Così facendo Egli si annunciò come il Grande Liberatore dei Giudei e di tutto il genere umano.
Non fu per caso che Egli fece questo annuncio proprio in quel tempo. Dati i collegamenti col Le-
vitico , con Isaia e con Daniele sembra evidente che la coincidenza tradisce un disegno divino”.
- W. H. SHEA, “ Unity of Daniel - The 70 Weeks as Sabbatical Years” in Symposium on Daniel,
pp. 225 - 227.
342 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 205. Il chiasmo, dalla lettera greca “chi” (c) è una “figura gramma-
ticale consistente in due concetti tra loro intimamente legati i cui termini sono disposti in or-
dine reciprocamente invertito, cioè in posizione incrociata”. - ALDO GABRIELLI, Grande dizionario il-
lustrato della lingua italiana, Milano 1989, voce “chiasmo”.
343 - Cfr. B. DAVIDSON, The Analytical Hebrew and Chaldee Lexicon, voce “chatak”.
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CAPITOLO 9
344 - “Il verbo che adopera Gabriele nella dichiarazione iniziale sulle 70 settimane è una forma
passiva (nifal) della radice chatak. La radice significa chiaramente ‘tagliare’ o ‘determinare, de-
cretarè. Poiché questo è l’unico punto del testo biblico ebraico in cui il termine ricorre, si è di-
scusso circa l’esatta sfumatura di senso che gli si dovrebbe riconoscere in questo passo. Il
senso di ‘decretare’ o ‘determinare’ è stato mutuato dall’ebraico mishnaico, posteriore di un
millennio rispetto al tempo di Daniele (sesto secolo a.C.). Comunque nell’ebraico mishnaico il
vocabolo è stato usato correntemente col significato di ‘tagliare’.
“I sensi lati delle radici verbali semitiche si sono sviluppati a partire dai loro significati concreti
per una tendenza verso l’astratto (in base a queste linee di sviluppo essi sono elencati nei di-
zionari ebraici). È dunque ragionevole ritenere che il significato primitivo della radice di questa
parola racchiudesse l’idea di tagliare e che da questa idea di base derivasse il concetto di ta-
gliare un decreto, determinare qualcosa. Conseguentemente all’epoca di Daniele questo voca-
bolo doveva già significare ‘tagliare’. Oggi è impossibile accertare se i sensi lati ‘decretare’ e
‘determinare’ si siano o no sviluppati in quell’epoca, mancando testimonianze idonee a stabi-
lire dei confronti.
“La principale testimonianza di questo tipo proviene dall’ugaritico del tredicesimo secolo a.C.;
essa accredita questa nozione di tagliare (un figlio tagliato da un padre), ma non le idee poste-
riori di decretare e determinare. Pertanto queste tre linee di testimonianza (il significato primi-
tivo della radice che sovrasta il senso lato; il caso isolato di una parola appartenente alla
stessa famiglia linguistica, e il significato predominante in fonti più tardive), favoriscono, anche
se non possono provarla in modo assoluto, la tesi che questo verbo dovrebbe tradursi ‘ta-
gliare’ nel passo in questione. Il senso primitivo del verbo indicherebbe che le 70 settimane
debbano essere ‘tagliatè dai 2300 giorni.
“In sintesi: i periodi temporali di queste due profezie possono direttamente rapportarsi fra loro
in base: 1) alla loro collocazione nella struttura letteraria di Daniele, 2) al periodo storico nel
quale ambedue hanno avuto il loro momento iniziale, 3) alla terminologia profetica che li acco-
sta l’uno all’altro e 4) al significato del verbo iniziale della seconda profezia. Sulla base di que-
ste linee di testimonianze è legittimo concludere che le 70 settimane furono direttamente con-
nesse con i 2300 giorni e furono tagliate da essi. Inoltre la specifica data iniziale del primo pe-
riodo si dovrebbe utilizzare per fissare la data dell’inizio del secondo”. WILLIAM H. SHEA, ibidem,
pp. 229-230.
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CAPIRE DANIELE
Alla conversione che avrà nella penitenza suggellata dal battesimo d’acqua (cfr.
Mt 3:1,2,11; Mr 1:5; Lc 3:3) la sua espressione genuina, farà seguito l’opera infini-
tamente grande del Messia. Egli verrà:
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CAPITOLO 9
Gesù. La sua nascita verginale, gli aspetti variegati del suo ministero salvi-
fico, la sua morte cruenta, la sua risurrezione gloriosa erano stati predetti
con stupefacente realismo dai profeti antichi. Matteo soltanto ha non meno
di una quindicina di riferimenti alle Scritture che collegano direttamente i
vari momenti della vita di Cristo con le profezie dell’Antico Testamento346.
Sulla via di Emmaus il Risorto, dopo avere rimproverato l’incredulità dei
due anonimi discepoli, “spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo con-
cernevano” (Lc 24:27, 44). La serie degli atti messianici che segneranno la
fine delle 70 settimane si chiuderà con un rito di consacrazione:
346 - Mt 1:23; 2:5,17; 3:3; 4:14,16; 8:17; 11:10; 12:17-21; 13:14, 15, 35; 21:4,5,42;
22:43,44; 26:31; 27:9,10.
347 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 416.
348 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 183, 184.
349 - G. BERNINI, Daniele, p. 259.
350 - G. RINALDI, op. cit., p. 128.
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CAPIRE DANIELE
a) in senso storico-preterista,
b) in senso messianico indiretto,
c) in senso messianico diretto.
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CAPITOLO 9
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CAPIRE DANIELE
di Nabucodonosor nel 587 a.C.353 ed il decreto di Ciro a favore dei Giudei nel
538 a.C. (l’intervallo di tempo fra i due eventi è di 49 anni). Ciro, il re di Persia
che permise ai Giudei nell’esilio di rimpatriare, è identificato col messia del v. 25
(in Is 45:1 questo monarca orientale è effettivamente qualificato come l’unto del
Signore).
Fin qui l’interpretazione storico-critica fa coincidere in modo ineccepibile il
dato numerico danielico con le date della storia. Ma non vi riesce quando tenta
di applicare storicamente il secondo periodo temporale della profezia. Le 62 set-
timane successive (434 anni), in capo alle quali sarebbe stato soppresso l’unto
(v. 26), sono fatte terminare nell’anno 171, quando fu assassinato il sommo sa-
cerdote Onia III identificato con l’“unto” del v. 26. I 7 anni dell’ultima settimana,
a metà della quale sono soppressi i sacrifici (v. 27a), sono posti fra il 171 e il 165
a.C. Nel 167 (non proprio a metà dei 7 anni !) Antioco IV abolì il sacrificio quoti-
diano.
Fra il 538 a.C., l’anno dell’apparizione dell’“unto” del v. 25 secondo i critici,
ed il 171 a.C., l’anno della soppressione violenta dell’ “unto” del v. 26 secondo la
stessa fonte, c’è un intervallo di 367 anni. Ma 69 settimane di anni (l’intervallo di
tempo che separa l’“unto” menzionato nel v. 25 da quello nominato nel v. 26)
fanno 434 anni. La differenza rispetto al calcolo dei critici è di 65 anni, e non è
poca ! A questo punto evidentemente i calcoli non tornano più.
I fautori di questa interpretazione cercano di cavarsela dicendo che l’autore
di Daniele eseguì un calcolo sbagliato, perché un giudeo palestinese del II se-
colo a.C. non poteva disporre dei dati cronologici esatti per stabilire la cronolo-
gia fra la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. e la fissazione dell’era seleuci-
dica nel 312 a.C.
“In fin dei conti - contesta Boutflower - perché mai dovremmo pensare che
uno scrittore palestinese del 165 a.C. fosse talmente disinformato sulla cronolo-
gia del periodo fra il 586 e il 312 a.C. e in particolare sui due secoli di governo
persiano fra il 539 e il 331 a.C.?
ìSe i Giudei non ebbero sovrani nazionali in base ai quali poter calcolare gli
anni, ebbero però una successione ininterrotta di sommi sacerdoti i cui anni di
servizio dovevano certamente essere registrati”354. Tale autore osserva poi che i
Giudei del periodo persiano non furono affatto trascurati nell’uso delle date,
come si evince chiaramente dai libri di Aggeo, Zaccaria, Esdra e Nehemia nei
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CAPITOLO 9
quali sono riferiti eventi accaduti nel primo e secondo anno di Ciro, nel se-
condo, quarto e sesto anno di Dario I e nel settimo, ventesimo e trentaduesimo
anno di Artaserse I, in non pochi casi riportando persino il giorno e il mese.
I papiri di Elefantina, poi, riferiscono fatti privati datati al quattordicesimo e
ventesimo anno di Serse, al sesto, nono e ventitreesimo anno di Artaserse I e al
terzo, settimo e tredicesimo anno di Dario II Noto; una lettera reca la data del 20
di Marcheshvan dell’anno diciassettesimo di Dario II. Questi documenti regi-
strano tutta una serie di eventi datati fra il 539 e il 408 a.C.
“Non è verosimile - conclude Boutflower - che fosse disponibile abbastanza
materiale documentario da permettere ad uno scrittore intelligente del 165 a.C.
che lo avesse voluto di costruire un corretto schema cronologico sugli ultimi
quattrocento anni? Se i documenti di famiglia di Elefantina, tutti accuratamente
datati, sono sopravvissuti fino al ventesimo secolo, certamente deve esserci stata
abbondanza di documenti datati, sia pubblici che privati, giunti fino all’epoca del
presunto autore del libro di Daniele, documenti che gli avrebbero consentito di
calcolare con precisione l’intervallo di tempo trascorso fra il decreto di Ciro e la
morte del sommo sacerdote Onia III”355.
La comprensione del passo danielico richiede una lettura molto attenta. In-
tanto si deve osservare che la maggior parte delle traduzioni di Dn 9:25 sepa-
rano le 7 dalle 62 settimane. Ecco un piccolo campionario di traduzioni in tre
lingue moderne diverse:
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CAPIRE DANIELE
Know therefore and discern, that from the going forth of the commandment
to restore and to build Jerusalem unto the anointed one, the prince, shall be
seven weeks; and threescore and two weeks, it shall be built again, with
street, and moat, even in troublous time. REVISED VERSION.
Learn, therefore, and understand: “From the going forth of the word to re-
store and rebuilt Jerusalem, till there comes a prince, an anointed one, there
shall be seven weeks; then for sixty-two weeks it shall be rebuilt with its squa-
res and streets. AMERICAN TRANSLATION.
Sappi adunque, e intendi, che da che sarà uscita la parola che Gerusa-
lemme sia riedificata, infino al Messia, Capo dell’esercito, vi saranno sette
settimane, e altre sessantadue settimane, nelle quali saranno di nuovo edi-
ficate le piazze, e le mura, e i fossi; e ciò in tempi angosciosi. G. DIODATI.
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CAPITOLO 9
Ecco quel che tu devi sapere e comprendere: dal momento in cui è stato pro-
nunziato il messaggio che riguarda il ritorno dall’esilio e la ricostruzione di
Gerusalemme fino all’apparizione di un condottiero consacrato devono pas-
sare sette periodi di sette anni e sessantadue periodi di sette anni; e questo ri-
torno dall’esilio e questa ricostruzione della città e delle fortificazioni si fa-
ranno in tempi difficili. TILC.
Tu saurais donc, et tu l’entendrais, que depuis que la parole sera sortie pour
s’en retourner et pour rebâtir Jérusalem, jusqu’au CHRIST le Conducteur, il y
a sept semaines et soixante-deux semaines; et les places et la brèche seront
rebâties dans un temps facheux. OSTERVALD.
Know therefore and understand, that from the going forth of the command-
ment to restore and built Jerusalem, unto the Prince, shall be seven and th-
reescore and two weeks: the street shall be built, and the wall, even in trou-
blous time. KING’S JAMES VERSION.
hf(b
: $
i {yi(b u $
f dyignæ x
a yi$m
f -da( i{al$
f Urºy tOn:bl i wº byi$h
f l
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f )fcom-}im l"K& : t
a wº (adt " wº
;{yi T i ( f h qOc: b U jUrf x º w bOx: r hf t º n : b é n º w bU$f T {é y á n : $ U {yi < i $ {yi ( u b f $ º w
weteda‘ wethaskel min-motzâ’ davar lehashîv welivnôth yerûshalaim ‘ad
mashîach nagîd shavu‘îm shiv‘ah weshavu‘îm shishshîm ûshnaîm tashûv
wenivnetâ rechôv wecharutz ûvtzôq ha‘ittîm.
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CAPIRE DANIELE
“Il rame delle offerte ammontava a settanta talenti (atnach) e duemila quat-
trocento sicli” (Es. 38:29).
Esattamente come nei passi citati sopra, in Dn 9:25 l’atnach è posto tra due parti
di un numero:
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CAPITOLO 9
kaiìì gnw¯sv kaiìì sunh/seij a)po\ e)co/dou lo/gou tou= a)pokriqh=nai kaiìì
tou= oi )kodomh=sai Ierousalhm eÀwj xristou= h(goume/nou e(bdoma/dej
e(pta\ kaiìì e(bdoma/dej e(ch/konta du/o kaiìì e)pistre/yei kaiìì oi )ko-
domhqh/setai plateiÍa kaiìì teiÍxoj kaiìì e)kkenwqh/sontai oi ( kairoi¿
Kaì gnose kaì sunéseis ’apò ’exòdou lògou tou ’apokrithenai, kaì tou oiko-
domèsai ‘Ierousalèm ’eos Christou ‘egouménou ’ebdomades ‘eptà kai ‘ebdo-
mades ‘exekountadùo kaì ’epistréfei kaì oikodomethésetai plateìa, kaì tei-
chos, kaì ekkenothésontai oi kairoì.
“Il primo anno del suo regno io, Daniele, meditando sui libri (atnach) vidi
che il numero degli anni ecc...” (9:2).
“Or questo Daniele si distingueva più dei capi e dei satrapi (atnach) perché
c’era in lui uno spirito straordinario ecc...” (6:3).
Il testo ebraico dei tre versetti citati ha questo segno sotto la parola prece-
duta dall’indicazione “atnach” tra parentesi:
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CAPIRE DANIELE
“Le sette settimane sono collegate con le ‘piazze e le mura che saranno ri-
costruite, onde in capo a quarantanove anni Gerusalemme sarà di nuovo
una città. Le sessantadue settimane sono in rapporto con gli avvenimenti in-
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CAPITOLO 9
dicati nei vv. 26 e 27. Ogni inciso ha così il suo inizio preciso e il suo ter-
mine sicuro. Abbiamo tre drammi, ciascuno col suo punto iniziale ed il suo
punto finale nettamente indicati.
L’intero periodo conduce fino ad un’ultima settimana, all’ultimo dramma
che comprende il ministero e la morte del Messia”359.
L’opera di C.A. Auberlen apparve in Germania nel 1854. Nel 1880 ne fu pubbli-
cata a Losanna un’edizione in lingua francese a cura di H.De Rougemont. Da
essa traiamo il commento che segue su 9:25:
“La prima spiegazione aggiunta a questa profezia del tutto generica conte-
nuta nel v. 24 è che l’apparizione del Messia (stavolta designato espressa-
mente) non avrà luogo - come certamente Daniele aveva sperato - subito
dopo la cattività, e non coinciderà con la restaurazione del popolo e la rico-
struzione della città, ma al contrario fra questi avvenimenti e l’affermazione
del Messia dovrà esserci un intervallo di sette e sessantadue settimane di
anni (69 in tutto). Nelle prime sette Gerusalemme sarà, sì, ricostruita, ma non
ancora con quella gloria messianica e divina promessa da Geremia (31:38-40)
o da Isaia (54:11 e ss; 40-62)...
“Così l’angelo distoglie lo sguardo di Daniele dalla fine della cattività e lo fa
volgere verso la fine della sessantanovesima settimana, quando il Messia
dovrà comparire”360.
Più vicino a noi altri espositori cattolici e protestanti hanno compreso e spiegato
Dn 9:24-27 in chiave messianica diretta. Tra i cattolici citiamo E. Philippe:
“Alle date e ai fatti del testo rispondono le date e i fatti della vita di Gesù ed
essi soltanto. Le settanta settimane (490 anni) terminano con l’apparizione
dei beni messianici...
“La città è riedificata nelle prime sette settimane (49 anni), e fra quali angu-
stie come sappiamo da Esdra ! Sessantadue settimane dopo (434 anni) il
Cristo è messo a morte. Poi il popolo che lo ha rinnegato è reietto a sua
volta. Infine, in un tempo successivo, la città e il Tempio vengono distrutti
dall’esercito di Tito e la rovina e le devastazioni continuano. Nella settante-
sima settimana Gesù inaugura la sua alleanza con gli Apostoli, prima di
tutto, poi i sacrifici antichi sono aboliti e poco tempo appresso nel Tempio
sono perpetrati misfatti orrendi dagli idolatri e dagli stessi Zeloti, e una
guerra devastante provoca una desolazione irreparabile”361.
359- J. FABRE D’ENVIEU, Le livre du Prophète Daniel, tomo II, parte seconda, p. 942.
360 - C.A. AUBERLEN, Le prophète Daniel et l’Apocalypse de Saint Jean, a cura di H.DE ROUGEMONT
1880, pp. 128-129.
361 - E. PHILIPPE, “Daniel” in Dictionnaire de la Bible a cura di F. VIGOUROUX, Parigi 1926, tomo II,
colonna 1281.
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CAPIRE DANIELE
362 - E.J. YOUNG, The New Bible Commentary, Londra 1970. commento a Dn 9:27, p. 700.
363 - Vedi Appendice B a fine capitolo.
364 - Cfr. C.BOUTFLOWER, op. cit., p. 187.
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CAPITOLO 9
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CAPIRE DANIELE
fino all’anno ventesimo del regno di Artaserse I, il 444 a.C. (Ne 5:14; 6:15),
quando erano trascorsi 94 anni dal primo decreto e 76 dal secondo.
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CAPITOLO 9
Che sia così lo si vede se si tiene conto della struttura letteraria del v. 25,
una struttura rispondente allo schema A1 - B1, A2 - B2 :
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CAPIRE DANIELE
l’erezione del muro di cinta nel 444. All’interno del muro bisognava ancora rico-
struire le case tuttora in rovina (Ne 7:4). Su questa seconda fase del riassetto
della città non abbiamo notizie. È comunque difficile ammettere che Sanballat si
fosse dato per vinto dopo l’erezione del muro, è anzi verosimile che questa cir-
costanza avesse accresciuto il suo livore verso i Giudei. I tempi di angustia per
costoro dunque non erano finiti con la ricostruzione del muro di Gerusalemme e
non potevano finire finché Sanballat fosse in vita o comunque contasse in Sama-
ria. Ma nel 408 a.C., esattamente 49 anni dopo l’editto di Artaserse I Longimane
(408 + 49 = 457), Sanballat non era più governatore di Samaria.
Le 7 settimane della tormentata ricostruzione della santa città erano finite ed
erano finiti per i Giudei i tempi di angustia. Restavano le 62 settimane (434 anni)
che dovevano trascorrere fino alla venuta dell’Unto-Principe. L’editto sulla re-
staurazione di Gerusalemme era stato emanato nella primavera del settimo anno
di Artaserse I (Ed 7:8-9), vale a dire nel mese di marzo quando il 457 a.C. calco-
lato sul calendario giuliano era cominciato da 3 mesi. Poiché nel computo cro-
nologico storico non esiste l’anno zero (il 31 dicembre dell’1 a.C. fu seguito dal
1° gennaio dell’1 d.C.), 457 anni pieni dalla emanazione del decreto di Artaserse
scaddero nel mese di marzo dell’anno 1 dopo Cristo. Aggiungendo i 26 anni
completi avanzati dopo avere sottratto 434 anni da 457, si arriva al mese di
marzo dell’anno 27 d.C. Con molta verosimiglianza nell’autunno di questo
anno367 Gesù di Nazareth fu battezzato nel Giordano da Giovanni Battista.
Tutti e quattro gli evangelisti testimoniano il prodigio della discesa visibile
dello Spirito Santo sulla persona di Gesù nel momento del battesimo (Mt 3:16;
Mr 1:10; Lc 3:20-21; Gv 1:32). Luca soltanto aggiunge al racconto del battesimo e
della tentazione del Signore nel deserto l’episodio dell’inaugurazione del suo mi-
nistero pubblico nella sinagoga di Nazareth quando Egli annunciò la sua mis-
sione applicando a sé la profezia di Is 61:1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra me;
per questo egli mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato a bandir
liberazione ai prigionieri, ed ai ciechi ricupero della vita; a rimettere in libertà gli
oppressi, e a predicare l’anno accettevole del Signore” (Lc 4:18-19).
Nel libro degli Atti, Luca ricorda la missione di Pietro a Cesarea quando
l’apostolo annunciò al centurione Cornelio e ai suoi familiari la salvezza in Cristo
col volgere la loro attenzione al ministero messianico di Gesù: “Voi sapete
quello che è avvenuto per tutta la Giudea: vale a dire la storia di Gesù di Naza-
reth; come Iddio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato at-
torno facendo del bene...” (At 10:37-38). Dalle notizie di Luca sull’inizio del mini-
stero messianico di Gesù a Nazareth e sull’evangelizzazione dell’ufficiale romano
a Cesarea, si evince che il Signore ricevette la consacrazione messianica con
l’unzione dello Spirito Santo, e dai quattro evangeli citati prima sappiamo che
ciò avvenne durante il suo battesimo nel Giordano.
I sinottici associano un prodigio audibile alla discesa visibile dello Spirito
Santo: “Ed ecco una voce dai cieli che disse: -Questo è il mio diletto Figliolo nel
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CAPITOLO 9
quale mi sono compiaciuto -” (Mt 3:17; cfr. con Mr 1:11 e Lc 3: 22b). Così Gio-
vanni e tutti i Giudei che si trovavano lì quando Gesù ricevette il battesimo, fu-
rono testimoni oculari e auricolari della consacrazione messianica di Gesù di Na-
zareth. “Principe della pace” (sar shalôm) era stato uno dei titoli con cui Isaia
aveva caratterizzato il Messia venturo (Is 9:5 u.p.).
Nell’anno 27 E.V. - 483 anni dopo l’editto di Artaserse I Longimane su Ge-
rusalemme - comparve in Israele l’Unto-Principe che Daniele aveva preannun-
ciato. Nei vv. 26 e 27 di Dn 9 culmina e si conclude la mirabile profezia delle
settanta settimane. Sono qui anticipati profeticamente gli eventi verso i quali do-
vevano convergere i dettagli preliminari della profezia, ovvero la morte violenta
del Messia, la sua alleanza “con molti” e la fine del sistema tipico dei sacrifici. In-
fine, dopo le 70 settimane, sarebbero sopravvenute la fine tragica di Gerusa-
lemme e del santuario e la desolazione del paese. A leggere l’uno dopo l’altro i
vv. 25-27 si ha l’impressione che la successione degli eventi ivi predetti sia con-
fusa, specie nei vv. 26 e 27. Ciò dipende dalla particolare struttura letteraria che
ha dato Daniele a questo brano.
Il professor JACQUES DOUKHAN ha evidenziato nei tre versetti un parallelismo
incrociato o chiastico che si può illustrare mediante il diagramma sottostante.
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CAPIRE DANIELE
Il prof. Doukhan spiega: “La distribuzione (delle frasi) qui illustrata non è
artificiosa, la richiede la doppia corrente di pensiero che attraversa tutto il capi-
tolo: 1) popolo - peccato e 2) Gerusalemme - santuario. Essa si giustifica altresì
dall’appello che mediante un’espressione comune ogni emistichio rivolge
all’emistichio corrispondente, così che i tre emistichi che riguardano Gerusa-
lemme (B1, B2, B3) hanno in comune la radice chrtz, mentre i tre che concer-
nono il Messia (A1, A2, A3) si riferiscono sistematicamente a un tempo espresso
in settimane”.
“I due temi Messia e Gerusalemme - spiega ancora Doukhan - sono utiliz-
zati alternativamente in modo da conferire al versetto la sua struttura intercro-
ciata:
A1 Messia
B1 Gerusalemme
A2 Messia
B2 Gerusalemme
A3 Messia
B3 Gerusalemme
Primo chiasmo
A1 Costruzione B1 Costruzione
mashiach - nagîd
(Messia - Principe)
A2 Distruzione B2 Distruzione
‘am nagîd
(popolo del principe)
Secondo chiasmo
A2 Distruzione B2 Distruzione
mashiach nagîd
A3 Distruzione B3 Distruzione
(‘am nagîd)
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CAPITOLO 9
v. 25a. - Il Messia verrà alla fine di 7 e 62 settimane di anni (contati dal mo-
mento in cui sarà stato emanato un editto che autorizzerà la ricostruzione di
Gerusalemme).
368 - Da “The Seven Weeks of Daniel 9” in The Sanctuary and the Atonement, Washington D.C.
1981, pp. 260-263.
369 - Le Soupir de la Terre, p. 268
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CAPIRE DANIELE
v. 27a. - Nel corso degli ultimi 7 anni (prima di essere soppresso) il Messia
stabilirà una salda alleanza con molti e a metà del settennio porrà fine ai sa-
crifici e alle oblazioni che si offrono nel santuario.
370 - Se è impresa ardua datare i fatti della narrazione evangelica non lo è di meno assegnare
date certe agli avvenimenti del racconto lucano nel libro degli Atti. La ragione sta ancora nel
prevalere dell’interesse per i fatti e le idee sull’interesse per i dati cronologici in colui che ha
steso il racconto. Questo dato di fatto è comprensibile, ciò non toglie però che il cronologo sia
privato della possibilità di fissare con sicurezza nel tempo le tappe più significative della storia
della chiesa primitiva. Sulla scorta degli scarsi e vaghi dati cronologici reperibili nel libro degli
Atti, si è tentato di costruire una cronologia approssimativa del periodo fra la Pentecoste e l’ar-
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CAPITOLO 9
rivo di Paolo a Roma integrando con informazioni tratte dalle epistole quelle attinte dagli Atti. In
questa nota interessano soltanto i tempi del martirio di Stefano e della conversione di Saulo. Il
fariseo Saulo da Tarso, dopo avere abbracciato la fede cristiana, dovette fuggire da Damasco
perché il governatore del re Areta vi aveva messo delle guardie per farlo arrestare (cfr. 2Co
11:32 e seguenti). Questa circostanza lascia credere che in quest’epoca Damasco, già posse-
dimento romano, fosse sotto la sovranità del tetrarca dei Nebatei Areta IV e che il funzionario
menzionato da Paolo fosse il suo viceré. Si è potuto stabilire in base a delle monete dell’epoca
che nell’anno 33 E.V. Damasco era ancora sotto la sovranità di Roma. Nel 37, quando Vitellio,
governatore della Siria, mosse contro Areta, il funzionario romano si diresse a sud, verso Petra,
senza sostare a Damasco; ciò farebbe pensare che in quest’epoca Damasco non fosse più
sotto il controllo dei Romani. Areta IV, che morì nell’anno 40, deve avere preso possesso di
Damasco fra il 37 e il 40. Di conseguenza Saulo, che fuggì da Damasco controllata da Areta 3
anni dopo la conversione (Gal 1:18), deve avere abbracciato la fede di Cristo fra il 34 e il 37,
verosimilmente nel 35. Stefano subì il martirio in Gerusalemme prima della conversione di
Saulo (At 8:1), quindi non dopo il 34 e probabilmente non prima.
371 - Cfr. E.G.WHITE, Desire of Ages, pp. 165, 757, nell’edizione italiana - La Speranza
dell’uomo, pp. 108 e 541; S.D.A. Bible Commentary, vol. V, p. 550; G.STEWART, Commentario
esegetico pratico del Nuovo Testamento, Matteo, p. 298.
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CAPIRE DANIELE
maritani, la loro missione era di andare dalle “pecore perdute della casa
d’Israele” (Mt 10: 5-6). Ma prima di tornare in cielo, Egli conferì ai suoi apostoli
un mandato universale (Mt 28: 18-20) cfr. con At 1:8). Rifiutando il suo Messia
Israele aveva segnato il proprio destino. Gesù lo aveva previsto: “Gerusalemme,
Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante
volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli come la gallina raccoglie i suoi pulcini
sotto le ali; e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata
deserta”.
“Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a una gente
che ne faccia i frutti” (Lc 13: 34-35; cfr. con 21: 20-24 e Mt 21: 43).
Tre anni e mezzo dopo la crocifissione di Gesù, nell’anno 34 morì martire a
Gerusalemme per mano dei Giudei il diacono Stefano (At 6:5). Il discorso che
aveva pronunciato davanti al Sinedrio prima di essere lapidato ricorda i discorsi
dei profeti antichi. Come quei fedeli portavoce di Dio Stefano aveva ricordato ai
connazionali dal cuore indurito i benefici che i padri avevano ricevuto dal Si-
gnore e l’ingratitudine con cui lo avevano ripagato (At 7: 2-50); e come i veg-
genti antichi ebbero delle visioni, anche lui ebbe una visione: prima di spirare
vide aprirsi il cielo e lassù vide il Signore Gesù glorificato alla destra del Padre
(At 7: 55-56). Quella di Stefano fu l’ultima voce profetica che si fece udire in
Israele, e Israele la fece tacere per sempre. Scaddero le 70 settimane di anni ac-
cordati a Israele per convertirsi e Israele mancò la sua ultima occasione !
Non passò molto tempo che il fariseo Saulo da Tarso, che di quel delitto
era stato testimone consenziente (At 7:58; 8:1; 22:20), fu fermato da Gesù Cristo
alle porte di Damasco dove si recava per devastare la comunità cristiana (At 9: 1-
6; 22: 3-8; 26: 9-15). Al discepolo damasceno riluttante ad andargli incontro
come gli era stato comandato da Gesù - credendolo egli ancora un persecutore
implacabile (At 9: 13-14) - il Signore rivelò che invece quell’uomo era uno stru-
mento ch’Egli aveva eletto per portare il suo nome davanti ai Gentili (At 9:15;
cfr. con Ga 1:15-16; 2:2, 7-8).
In Antiochia di Pisidia, durante il primo viaggio missionario, Paolo, il perse-
cutore di un tempo divenuto ardente testimone di Cristo, comprese che era
giunto per lui il momento di votarsi all’evangelizzazione dei Gentili.
Ciò avvenne dopo la reazione ostile dei Giudei ad una sua predicazione
nella sinagoga locale - una predicazione che nella prima parte tanto era somi-
gliata al discorso di Stefano ai sinedriti (At 13: 15-22). Fu in quella circostanza
che Paolo e Barnaba decisero di volgersi al mondo pagano: “Era necessario che
a voi per i primi si annunziasse la Parola di Dio; ma poiché la respingete e non
vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili” (At 13:46).
Era il crepuscolo d’Israele cui stava per seguire l’aurora di un tempo nuovo per
il mondo dei Gentili.
Considerate le circostanze che condussero alla reiezione d’Israele come po-
polo eletto di Dio, rimane da vedere come si realizzarono nella storia giudaica
gli eventi tragici predetti in 9: 26b e 27b riguardo a Gerusalemme e al santuario.
Il “popolo di un principe” (‘am nagîd) che avrebbe distrutto la città e il santuario
non può essere identificato coi Romani, perché 1) non il popolo romano fu coin-
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CAPITOLO 9
372 - Nell’Antico Testamento nagîd indica ora la dignità regale (2Cr 11:22), ora il comando mili-
tare (1Cr 13:1), ora la sovraintendenza in ambito amministrativo (1Cr 26:24; 2Cr 28:7).
Ma al di là di questi usi profani, il termine è adoperato con una connotazione religiosa per desi-
gnare l’eletto di Yahweh per condurre il suo popolo (1Sm 9:16), e con un senso più stretta-
mente religioso per indicare il sacerdote (1Cr 9: 11). In questi casi nagîd è posto in relazione
con un ufficio particolare di cui Dio investe un uomo da lui scelto, mediante il rito dell’unzione.
Con l’unzione Samuele consacrò Saul nagîd dell’eredità di Yahweh (1Sm 10:1; cfr. con 9:16).
E in seguito gli annunciò che il Signore lo aveva riprovato per la sua indegnità e si era scelto un
uomo “secondo il suo cuore” per farlo nagîd del suo popolo (1Sm 13: 14). Vari anni dopo, gli
anziani delle tribù convenuti a Hebron per riconoscere Davide re di tutto Israele, rammentarono
che a lui il Signore aveva promesso di farlo pastore del suo popolo, nagîd d’Israele (2Sm 5:2).
Il profeta Natan pure ricordò a Davide che Yahweh lo aveva preso dall’ovile per fare di lui il
nagîd d’Israele (2Sm 7:8). Molti anni dopo, Ahija, un profeta del nord, rinfacciò all’indegno Ge-
roboamo che governava le tribù secessioniste che dal Signore egli era stato fatto nagîd del suo
popolo (1Re 14:7); lo stesso peccato di apostasia rimproverò più tardi al re di Samaria Baasa
un altro profeta del nord, Jehu, ricordandogli che Dio lo aveva stabilito come nagîd del suo po-
polo (2Re 20:5). 1Cr 29:22 dice, alludendo all’accessione al trono di Salomone, che egli era
stato unto e consacrato a Yahweh come nagîd del popolo.
I passi citati attestano l’uso continuo del termine nagîd durante il periodo della monarchia
israelitica per indicare i re davidici, e talvolta i re di Samaria, come gli eletti di Dio per condurre
il suo popolo. Rileva giustamente Claus Schedl che, dall’elezione di Saul in poi, il titolo di nagîd
sarebbe aureolato di una luce religiosa mentre melek indicherebbe l’aspetto profano del regno.
“ Così - scrive testualmente - Saul sarà il nagîd, il pastore consacrato, designato e proclamato
da Jahvè, e solo dal riconoscimento del popolo gli verrà il titolo regio di melek”. - Storia del Vec-
chio Testamento, Roma 1961, vol. II, p. 68 (vedi anche R. DE VAUX, Le Istituzioni dell’Antico Te-
stamento, Torino 1964, p. 101). Una pagina prima C. Schedl collega la parola ebraica nagîd
alla radice ugaritica noked, “pastore”, e aggiunge che con questo senso il termine si ritrova an-
che nell’accadico nakid. In modo significativo l’accostamento alla pastorizia del termine nagîd
è fatto anche in due dei passi citati prima: 2Sm 5:2 e 7:8. Tale accostamento suggerisce che
il re d’Israele fosse considerato il pastore scelto da Dio per custodire il suo gregge. In due libri
post-esilici il titolo di nagîd con un’implicazione particolare è applicato all’ufficio sacerdotale.
In 1Cr 9:11 e Ne 11:11 è riferito al sacerdote Ahitub il titolo di “nagîd della casa di Dio”; in 2Cr
31:13 lo stesso titolo è attribuito al sacerdote Azaria. Quest’uso particolare del termine nagîd
nell’Antico Testamento ne attesta un senso speciale che si discosta dalle accezioni comuni di
“principe”, “capo”, “conduttore”, “sovrintendente” che il termine ha in altri casi. Questo senso
particolare mette in luce l’idea di una investitura sacra conferita da Dio a uomini scelti per svol-
gere un compito che al di là degli aspetti secolari e profani, aveva un alto significato religioso
sottolineato dalla consacrazione mediante l’unzione (cfr. R. DE VAUX, op. cit. p. 389). Is 55:4 ap-
plica il titolo di nagîd al re Davide come tipo del Messia.
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CAPIRE DANIELE
Giudei furono la causa della catastrofe che spazzò via la loro nazione. Dice lo
storico giudeo Giuseppe Flavio riferendosi a Gerusalemme assediata dai Romani:
“una città che non meritava simili sofferenze se non per avere dato vita a una
generazione come quella che ne causò la rovina” (Guerra Giudaica, VI 8,5).
I Romani non avrebbero intrapreso di loro iniziativa in Giudea una guerra
talmente dispendiosa per loro e rovinosa per il paese se i Giudei non li avessero
costretti a farlo. Furono gli Zeloti fanatici e truculenti e i molti connazionali che
li assecondarono la causa vera della rovina immane che si abbatté su Giuda, su
Gerusalemme e sul tempio in quell’infausto anno 70 dell’Era Volgare.
La guerra giudaica, di cui Giuseppe Flavio ci ha lasciato una documenta-
zione impressionante nei sette libri dell’opera omonima, cominciò con l’insurre-
zione antiromana di Gerusalemme a maggio dell’anno 66, e non finì prima che
tutto il paese fosse ridotto in uno stato di completa desolazione. Proprio come
l’angelo rivelatore aveva predetto a Daniele. Simile a un’inondazione che tutto
travolge, le legioni e le truppe ausiliarie di Roma condotte da Vespasiano prima
e da suo figlio Tito poi, si riversarono nella Galilea, la Samaria e la Giudea e in-
fine espugnarono Gerusalemme e rasero al suolo la città e il tempio373.
Dn 9:27b ha un’espressione che a prima vista sembra incomprensibile: “... e
sull’ala delle abominazioni (vi sarà) desolazione...” ({"mo$m: {yicUQi$ vánK: la(wº we ‘al
kenaf shiqqûtzîm meshômem...).
I LXX traducono questa espressione: kaì ’epì tò ’ieron bdelígma, “e sopra il
tempio (vi sarà) un’abominazione di desolazione” (C. Boutflower). Questa antica
versione greca del Vecchio Testamento traduce dunque “tempio” il vocabolo
ebraico kanaf che ordinariamente significa “ala”. Come prima accezione secon-
daria di kanaf W.Genesius dà: “margine”, “estremità”. Con questo preciso signifi-
cato il termine compare in diversi passi dell’Antico Testamento. In 1Sam 24:5, 12
esso è tradotto “il lembo (del mantello)”, in Nu 15:38 “angoli (delle vesti)”, in De
22:12 “canti (del mantello)”. Za 8:23 ha l’espressione kenaf ’ish yehûde, “il lembo
(del mantello) di un uomo di Giuda” (vedi anche Ez 5:3 e Ag 2:12). In De 23:1,
27:20; Ez 16:8 e Ruth 3:9 kanaf indica il lembo di una coperta.
L’autorevole lessicografo tedesco dà come ulteriore significato secondario di
kanaf, “estremità”. Con questa accezione il vocabolo è presente nell’espressione
“l’estremità o le estremità della terra” (miknaf ha’arez) in Is 24:16, Gb 37:3,
38:13, Is 11:12.
Infine come terza accezione secondaria di kanaf Gesenius segnala: “la som-
mità più alta del tempio, Dn 9:27” e raffronta questa espressione con quella
greca pterìgion tou ‘ierouí, “il pinnacolo (letteralmente ‘la piccola ala’) del tem-
pio”, in Mt 4:5374.
373 - Nel mese di maggio dell’anno 66 E.V., a Gerusalemm,e si manifestò in aperta rivolta l’in-
sofferenza dei Giudei verso il governo romano esasperata negli ultimi tempi dai soprusi del pre-
potente e corrotto procuratore Gessio Floro.
374 - Gesenius’ Hebrew - Chaldee Lexicon to the Old Testament, voce “kanaf”; cfr. B. DAVIDSON,
The analytical Hebrew and Chaldee Lexicon, stessa voce; C. BOUTFLOWER, In and Around the
Book of Daniel, pp. 202, 203.
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fiamme, per ordine di Tito i soldati spianarono i ruderi della città e del tempio. I
capi della rivolta scontarono duramente le sofferenze che fecero patire al po-
polo. Giovanni di Ghiscala, arresosi per fame, fu dai Romani condannato al car-
cere a vita. Simone Bar-Ghiora si consegnò al vincitore dopo avere invano ten-
tato la fuga; portato a Roma, subì l’esecuzione capitale durante la celebrazione
del trionfo di Tito377. Dice di lui lo storico giudeo: “Così Dio, per punirlo della
sua crudeltà contro i concittadini, che aveva tiranneggiato senza compassione, lo
diede in balia dei nemici che più l’odiavano...”378. Fu così che il giudizio divino
si abbatté sui responsabili della catastrofe che cancellò la città santa col santuario
del Signore e provocò un’ecatombe fra il popolo e sofferenze inenarrabili ai so-
pravvissuti.Come era stato predetto, quel che era decretato si riversò infine sul
desolatore (shomem).Con questa immagine cupa di desolazione e di castigo si
chiude la rivelazione delle settanta settimane che ho avuto al centro la figura ec-
celsa del Messia-Redentore.
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comprensione della sequenza degli avveni- morte di Ugbaru avvenne dopo i fatti menzio-
menti in questa parte della Cronaca (III co- nati a monte, vale a dire la conquista di Babi-
lonna), riportiamo sotto la successione con- lonia il 16 di Tishratu, l’entrata di Ciro nella
secutiva dei mesi dell’anno secondo il calen- città il 3 di Arashamnu e il trasferimento degli
dario babilonese con l’indicazione degli eventi déi nelle sedi loro pertinenti fra i mesi di Ki-
ai quali si è accennato sopra. slimu e Addaru. Se invece si dà un’interpreta-
Se le notizie della Cronaca si susse- zione retrospettiva alla menzione dell’ottavo
guono nell’ordine cronologico consecutivo, la mese dopo il dodicesimo (cosa che appare
anni a.C. mesi calendario mesi calendario Notizie della Cronaca di Nabonide
GIULIANO BABILONESE
1 (marzo/aprile) NISANU
2 (aprile/maggio) AIRARU
3 (maggio/giugno) SIMANU
4 (giugno/luglio) DUMUZU
5 (luglio/agosto) ABU
6 (agosto/settembre) ULULU
7 (settembre/ottobre) TISHRATU 16° giorno: Babilonia cade
nelle mani dei Persiani
8 (ottobre/novembre) ARASHAMNU 3° giorno: Ciro entra in Babilonia
9 (novembre/dicembre) KISLIMU
10 (dicembre/gennaio) TEBBETU le immagini delle divinità
sono riportate nelle
loro sedi abituali
11 (gennaio/febbraio) SHABBATU
12 (febbraio/marzo) ADDARU
1 (marzo/aprile) NISANU 11° giorno di ARASHAMNU
(verosimilmente dell’anno
successivo): muore Ugbaru.
2 (aprile/maggio) AIRARU
3 (maggio/giugno) SIMANU
4 (giugno/luglio) DUMUZU
5 (luglio/agosto) ABU
6 (agosto/settembre) ULULU
7 (settembre/ottobre) TISHRATU
8 (ottobre/novembre) ARASHAMNU
9 (novembre/dicembre) KISLIMU
10 (dicembre/gennaio) TEBBETU Ciro assume il titolo reale
di “Re di Babilonia” accanto
a quello di “Re dei Paesi”
(testi amministrativi)
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CAPIRE DANIELE
poco verosimile), allora Ugbaru sarebbe biamento del titolo reale di Ciro dal 14° mese
morto tre settimane dopo la conquista per- dopo la caduta di Babilonia debba porsi in re-
siana di Babilonia. lazione con un avvenimento importante ripor-
William H. Shea, autore dello studio al tato nella Cronaca stessa, cioè con la morte
quale facciamo riferimento in queste pagine, di Ugbaru. Se gli avvenimenti registrati in que-
sostiene l’ordine consecutivo delle notizie ri- sto documento lo sono nell’ordine cronologico
portate nella III colonna della Cronaca di Na- consecutivo, il titolo reale di “Re di Babilonia”
bonide, avendo dimostrato, come diremo su- fu aggiunto al titolo corrente di Ciro, “Re dei
bito, che questo fu il criterio seguito abitual- Paesi”, circa 6 settimane dopo la morte del
mente dai cronisti babilonesi fin dall’VIII se- conquistatore di Babilonia. Sembra logico de-
colo a.C. durne che Ugbaru debba avere svolto la fun-
Il prof. Shea ha proceduto ad un esame zione di “re” o vicerè di Babilonia fino al mo-
accurato di tutti gli avvenimenti datati mento della sua scomparsa.
dall’epoca di Nabonassar (VIII secolo a.C.) Concludendo il suo studio il prof. Shea
fino al tempo della Cronaca. In questo modo segnala 6 maggiori linee di convergenze fra il
ha scoperto che su 318 avvenimenti datati ri- personaggio danielico e l’ex governatore del
portati nei testi presi in esame, 313 si susse- Gutium.
guono nell’ordine cronologico consecutivo. Lo 1) Ugbaru comandò le truppe medo-per-
studioso ha giustamente concluso che i 313 siane che si impadronirono di Babilonia; Dn
casi di datazione consecutiva degli avveni- 5:31 sembra presupporre lo stesso ruolo per
menti debbono riflettere la regola, mentre i 5 Dario il Medo.
casi anomali debbono rappresentare una de- 2) Secondo la Cronaca di Nabonide Ug-
roga della regola (in un altro studio Shea ha baru costituì dei governatori sulla provincia di
fornito la spiegazione di tale deroga). È parso Babilonia. Dario il Medo fece la stessa cosa
legittimo a questo ricercatore applicare la re- secondo 6:1-2.
gola alla successione dei fatti riportati nella III 3) Ugbaru scomparve poco più di un
colonna della Cronaca di Nabonide. anno dopo la conquista persiana di Babilonia,
Altre circostanze aggiungono peso alla il che può far supporre che egli non fosse gio-
tesi della identificazione del Dario di Daniele vane. Dario il Medo, secondo 5:31 aveva 62
con Ugbaru generale di Ciro e conquistatore anni quando “fu fatto” re di Babilonia.
di Babilonia. Per esempio il fatto stesso che il 4) Combinando la cronologia della Cro-
suo nome figura nella Cronaca; questo fatto naca di Nabonide con quella dell’assunzione
lo fa annoverare fra i personaggi di rango re- dei titoli reali nei testi amministrativi, si de-
gale. In 10 testi amministrativi - osserva Shea duce che Ugbaru morì 14 mesi circa dopo la
- 58 re sono nominati 177 volte, mentre le caduta di Babilonia. Daniele, come già ricor-
cronache registrano 7 nomi di personaggi non dato, cita solo il primo anno di regno di Dario
di rango reale, oltre ai nomi dei sovrani. Un’al- il Medo (9:1; 11:1) e in 10:1 menziona l’anno
tra circostanza significativa è la menzione terzo di Ciro. La spiegazione più naturale è
della data del decesso di Ugbaru. Nelle crona- che Dario fosse scomparso prima dell’anno
che, su 22 personaggi di cui si dà la data terzo di Ciro.
della morte, 20 erano re o regine e 2 soltanto 5) La distinzione che fa Daniele fra i re-
non rivestivano dignità regale. gni di Ciro e di Dario il Medo corrisponde
La deduzione più significativa che ha bene alla situazione che descrivono i testi cu-
tratto Shea dal confronto dei testi amministra- neiformi babilonesi. Il titolo di “Re di Persia”
tivi con la Cronaca di Nabonide è che il cam- che Daniele dà a Ciro in 10:1 concorda col ti-
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CAPITOLO 9
tolo di “Re dei Paesi” che gli attribuiscono i come re di Babilonia (op. cit., p. 47). I testi
testi amministrativi, e la notizia che Dario il amministrativi di Borsippa del periodo per-
Medo regnò sul “regno dei Caldei” riportata in siano menzionano un re di nome Akshimaksu
9:1, coincide con la notizia della Cronaca se- sconosciuto alle altre fonti storiche. Si è sco-
condo la quale Ciro cominciò a portare il titolo perto che questo nome era una variante del
di “Re di Babilonia” dopo la morte di Ugbaru. nome del noto re persiano Serse I (Xsayarsan
6) La condizione di vassallo di Ugbaru nel persiano antico).
concorda bene con l’informazione di 9:1 se- Dario potrebbe essere il “nome del
condo la quale Dario “fu fatto re”. trono” del personaggio che assunse il trono
Le fonti cuneiformi e classiche tacciono di Babilonia dopo la morte di Beltsasar. Per
sulla famiglia di Ugbaru, cosicchè non ab- informazioni più ampie intorno alla problema-
biamo modo di sapere se il padre di costui si ticità della figura di Dario il Medo vedi WILLIAM
chiamasse Assuero o altro. Ugbaru, secondo H. SHEA, “Darius le Mède et Daniel son Gou-
la Cronaca, prima di conquistare Babilonia fu verneur” in Daniel question dèbattues a cura
governatore del Gutium. Era, questa, una pro- di P. WINANDY, Sèminaire Adventiste Collon-
vincia del regno di Ciro che confinava con la ges-sous-Salève 1980, p. 91ss.
Media.
Secondo il prof. R.D.Wilson, citato da
H.C.Leupold, il Gutium “era una contrada di APPENDICE 9B
estensione indefinita che probabilmente ab-
bracciava tutto il territorio tra Babilonia da Oggi un buon numero di studiosi
una parte e le montagne dell’Armenia a nord- dell’Antico Testamento, aderendo ad un’ipo-
est dall’altra, e forse anche il paese al di là tesi proposta dal belga ALBIN VAN HOONACKER
dei monti Zagros che aveva Ecbatana per ca- nel 1890, antepone cronologicamente Nehe-
pitale”. L’identificazione di Dario il Medo con mia a Esdra, contrariamente all’ordine biblico.
Ugbaru ha un aspetto problematico nella di- Tale inversione è stata giustificata in base ad
versità del nome. Non è però questa una diffi- una serie di illazioni tratte dai libri di Esdra e
coltà insormontabile. Nehemia, alle quali sono state opposte paral-
Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche, lele controdeduzioni. Vediamo.
X. 11,4 asserisce che il Dario di Daniele “era 1) Si è osservato che Nehemia sembra
chiamato dai Greci con un altro nome”. Ab- avere una scarsa conoscenza di Esdra. In ef-
biamo notizie su regnanti dell’Antico Oriente fetti Esdra è assente nel libro di Nehemia fino
che adottarono un secondo nome all’atto di a tutto il cap. 7. Ciò però si spiega se si am-
assumere le prerogative reali, il cosiddetto mette che vi sia stato un calo di popolarità
“nome del trono”. del sacerdote-scriba dopo la riforma sui matri-
Il re assiro Tiglat-Pileser III (745-727 moni misti (Ed c. 10) la quale, se riscosse
a.C.), per esempio, assunse il nuovo nome di ampia adesione fra il popolo, ebbe anche de-
Pulu quando cinse la corona di Babilonia (vedi gli oppositori (Ed 10:15). Il rinvio delle donne
E.CASSIN - J. BOTTERO - J. VERCOUTTER, Gl’imperi straniere (Ed 10:10-12) sicuramente scom-
dell’Antico Oriente, Storia Universale Feltri- binò parecchi nuclei familiari (v. 44) ed è an-
nelli, vol. 4, p. 54). Anche la Bibbia conosce il che verosimile che provocasse attriti e ten-
doppio nome di questo sovrano (cfr. 1Re sioni con le popolazioni circostanti.
15:19, 29; 1Cr 5:26). Con l’arrivo di Nehemia Esdra può avere
Suo figlio Salmanassar V (727-722 pensato che fosse saggio mettersi in disparte
a.C.) pure adottò un secondo nome, Ululaya, per lasciare al nuovo arrivato il compito di pro-
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CAPIRE DANIELE
seguire le riforme. Una volta portata a ter- i leviti che prima della partenza avevano rice-
mine la ricostruzione del muro di cinta (Ne vuto in consegna i preziosi offerti per il tem-
6:15), Nehemia deve aver pensato che fosse pio dal re di Persia, dai suoi ministri e dai giu-
giunto per Esdra il momento di uscire dall’om- dei rimasti in Babilonia (Ed 8:24-29), conse-
bra e riprendere la posizione che gli compe- gnarono i detti preziosi al sacerdote Mere-
teva nella vita nazionale. Sta di fatto che alla moth che li ricevette dalle loro mani in pre-
solenne dedicazione del muro appena rico- senza di un secondo sacerdote e di due leviti
struito, Esdra condusse una delle due proces- (Ed 8:33). In questo passo non si dice che i
sioni corali che presero parte alla cerimonia sacerdoti e i leviti che ricevettero in custodia
(l’altra era condotta da Nehemia: Ne l’oro e l’argento per il tempio costituissero
12:36,38). Esdra comparve ancora come lea- una commissione preesistente né, tanto
der religioso di punta poco tempo dopo meno, che essa fosse stata insediata da
quando fu celebrata la Festa delle Capanne Nehemia. Fra il primo e il secondo governato-
(Ne 8:1-6). rato di Nehemia (Ne 13:6) era accaduto che il
2) Si è dedotto che Nehemia non fosse personale del culto aveva abbandonato il tem-
al corrente del rimpatrio avvenuto con Esdra, pio per procacciarsi i mezzi di sostentamento,
perché nel promuovere il censimento della po- giacché le decime non erano più state portate
polazione si valse delle liste genealogiche del (Ne 13:6-7, 10). Nehemia ripristinò i servizi
primo rimpatrio. I reduci da Babilonia al del tempio e il principio sacro della decima, e
tempo di Esdra furono molto meno numerosi affidò a un sacerdote e a uno scriba coadiu-
di quelli che erano tornati 80 anni prima con vati da altre due persone l’incarico di sovrin-
Giosuè e Zorobabele (5 o 6.000 contro tendere all’ammasso nei magazzini del tem-
50.000: cfr. Ed 8:3-20 con 2:64-65). Doven- pio delle derrate portate come decime e alla
dosi procedere ad un nuovo censimento sem- loro distribuzione al personale sacro (Ne 13:
bra naturale che si prendesse per base un re- 11-13). Non si dice però se questa commis-
gistro demografico con un numero cospicuo sione di amministratori delle decime fosse
di famiglie censite a preferenza di uno con un permanente né se essa avesse anche l’inca-
numero esiguo. Del resto l’espressione rico di custodire il tesoro del tempio.
“quelli ch’eran tornati dall’esilio la prima 4) Si è creduto di cogliere in Ed 9:9 la
volta” in Ne 7:5 presuppone che vi sia stato prova che il muro di cinta di Gerusalemme
un secondo rimpatrio dopo quello di Zoroba- fosse già stato costruito quando il sacerdote
bele, e questo non poteva essere che quello Esdra arrivò a Gerusalemme. Sappiamo che
di Esdra (Ed 7 e 8), visto che né Esdra né appena giunto da Babilonia, Esdra dovette
Nehemia accennano ad altri rimpatri oltre a confrontarsi con un problema religioso dai
questi due. Il rimpatrio di Nehemia nel 444 complessi risvolti sociali, il problema dei ma-
a.C. fu solitario (Ne 2:9-11). Dunque l’arrivo trimoni misti (Ed 9:1-2). Egli pensò di risol-
di Nehemia a Gerusalemme nel 444 a.C. fu verlo in modo radicale. Prima però volle avere
preceduto e non seguito da quello di Esdra. un convegno penitenziale coi notabili (Ed 9: 3-
3) Si è voluto dedurre da Ed 8:33 che 4). Confessando in preghiera la colpa del po-
questo personaggio, arrivato a Gerusalemme, polo il pio uomo di Dio riconobbe che nono-
trovasse quivi una commissione di tesorieri stante tutte le infedeltà remote e recenti Dio
del tempio che sarebbe stata istituita da non aveva abbandonato i deportati, anzi
Nehemia. Ed 8:33 documenta un fatto contin- aveva fatto volgere in loro favore la benevo-
gente. Dopo che la carovana condotta da lenza dei re di Persia per tornare in vita come
Esdra fu giunta a Gerusalemme, i sacerdoti e popolo, per riedificare il tempio del loro Dio,
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CAPITOLO 9
per concedere ad essi un muro sicuro “in Giu- a.C., poté essere ancora in vita e in carica 47
dea e in Gerusalemme” (Ed 9:9). Non si può anni dopo il 457 a.C., avendo un’età fra i 70
concludere perentoriamente da questo passo e gli 80 anni.
che il “muro” per il quale Esdra fu ricono- Non c’è motivo per ritenere che in
scente a Dio fosse già ricostruito; egli aveva quest’epoca il sommo sacerdozio non fosse
in mano un decreto del re che lo autorizzava a più un incarico a vita (vedi Nu 20:28; De
ricostruire la città, come si vedrà più avanti, e 20:6). I sommi sacerdoti, se vivevano a
può essere stato per questo che il sacerdote- lungo, arrivavano alla fine del loro incarico
scriba espresse gratitudine verso Dio. con un’età molto avanzata. Aaronne fu
Ad ogni modo l’ebraico gader, “muro”, sommo sacerdote fino ai 123 anni (Nu
nelle versioni è generalmente tradotto “rico- 33:39), Eli fino ai 98 (1Sm 4:15) e Jehoiada
vero”, “riparo”, “rifugio”, “asilo sicuro”, il chè fino ai 130 (2Cr 24:14-15).
sembra essere legittimato dalla menzione di È curioso, ma gli studiosi che antepon-
Giuda accanto a Gerusalemme in rapporto al gono Nehemia ad Esdra incappano nella
gader: non è immaginabile un territorio di stessa difficoltà che tentano di risolvere con
Giuda circondato da un muro di cinta ! Come questa inversione cronologica. Ed 8:33 dice
hanno inteso molti traduttori, gader può avere che il personaggio con questo nome rimise
qui un senso figurato e non letterale. nelle mani del sacerdote Meremoth figlio di
5) I fautori dell’inversione cronologica Uria i preziosi per il tempio portati da Babilo-
tra Esdra e Nehemia fanno notare: a) che il nia. Questo Meremoth figlio di Uria è ricor-
sacerdote Johanan, figlio di Eliashib, aveva dato in Ne 3:4 e 21 fra i costruttori del muro
una stanza nel tempio quando Esdra giunse a di cinta di Gerusalemme.
Gerusalemme (Ed 10:6); b) che suo padre Ora, se Esdra fosse giunto a Gerusa-
Eliashib fu sommo sacerdote 13 anni dopo, lemme nell’anno 7° di Artaserse II, cioè nel
al tempo di Nehemia (Ne 3:1, 20; 13:4,7); c) 397 a.C., posto che nel tempo della ricostru-
che Johanan è ricordato come sommo sacer- zione del muro della città Meremoth avesse
dote in una lettera di Elefantina del 410 a.C. avuto una trentina di anni, ne avrebbe avuti
Da tutto questo si è dedotto che Joha- più di 70 quando ricevette dai reduci di Babi-
nan menzionato in Ed 10:6, e lo stesso lonia l’oro e l’argento per il tempio. Cosa non
Esdra, debbono collocarsi cronologicamente impossibile, solo che a questo personaggio
fra il tempo del sommo sacerdozio di Eliashib sarebbe giocoforza assegnare un’età che è ri-
padre di Johanan, sotto Nehemia, e l’epoca tenuta inammissibile per Johanan! Ma c’è
in cui lo stesso Johanan esercitò il sommo una contraddizione ancora più grave.
sacerdozio attestato nel documento di Elefan- Se si ammette che il sacerdote e scriba
tina. Posto che non ci sono motivi per dubi- Esdra rimpatriasse da Babilonia l’anno 7° di
tare che i due Johanan menzionati in Esdra e Artaserse II (397 a.C.), allora resta un enigma
nel papiro di Elefantina siano la stessa per- senza soluzione la sua presenza in Gerusa-
sona, c’è da aggiungere che questa circo- lemme 47 anni prima per la dedicazione del
stanza non obbliga a ritardare l’arrivo di Esdra muro di cinta (Ne 12:13) e la Festa delle Ca-
a Gerusalemme rispetto alla data tradizio- panne (Ne 8:1-6).
nale. Se Johanan era un giovane sacerdote Di fronte a queste difficoltà insormonta-
sui trent’anni quando Esdra giunse a Gerusa- bili alcuni studiosi hanno creduto di dover
lemme nel 457 a.C. e divenne sommo sacer- cancellare il nome di Esdra dal libro di Nehe-
dote alla morte del padre Eliashib in un anno mia (qualcuno ha pensato addirittura di do-
imprecisato della seconda metà del V secolo verlo cancellare dalla storia !). Altri meno radi-
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CAPIRE DANIELE
cali hanno ritenuto di dovere trasformare in nati”. - Breve storia d’Israele, Brescia 1985,
37° l’anno 7° di Artaserse I per fare comun- p. 176.
que arrivare Esdra a Gerusalemme dopo Sulla scorta delle informazioni sia pure
Nehemia, nel 427 a.C. anziché nel 457 a.C. frammentarie reperibili nei libri di Esdra e
(una critica sensata sulla cronologia invertita Nehemia è possibile ricostruire il corso degli
di Esdra-Nehemia - alla quale in parte si ri- eventi di quest’epoca secondo l’ordine crono-
chiamano le note che precedono - si trova nel logico biblico (Esdra prima di Nehemia)
III volume del S.D.A. Bible Commentary, pp. nell’assoluto rispetto dell’integrità del testo.
370-374). Ed 6:14 dice che i Giudei finirono i loro
Vari studiosi moderni si sono mostrati lavori di ricostruzione (in Gerusalemme) “se-
propensi a riconoscere come più verosimile condo il comandamento dell’Iddio d’Israele e
l’ordine cronologico Esdra-Nehemia che secondo gli ordini di Ciro, di Dario e di Arta-
quello contrario, o quanto meno ad ammet- serse re di Persia”. I lavori condotti a termine
tere come più probabile l’identificazione in Gerusalemme col consenso di Ciro e di Da-
dell’Artaserse di Esdra 7 con Artaserse I Lon- rio si riferiscono senza dubbio alla ricostru-
gimane. Martin Noth, per esempio, ritiene zione del tempio autorizzata da Ciro (Ed 1:2-
probabile che l’Artaserse di Esdra sia Arta- 4) e conclusa nell’anno sesto di Dario (Ed
serse I Longimane e non Artaserse II Mne- 6:15). Ma quali furono i lavori intrapresi col
mone, e stima molto verosimile, anche se consenso di Artaserse? I libri di Esdra e di
non del tutto sicura, l’attribuzione di Esdra a Nehemia hanno due soli riferimenti a lavori di
questo Artaserse I (Storia d’Israele, Brescia ricostruzione condotti in Gerusalemme du-
1975, p. 390). rante il regno di Artaserse: 1) la ricostruzione
SIEGFRIED HERRMANN scrive che “conside- del muro cittadino nell’anno ventesimo (444
rato lo stato globale di questi testi (Esdra e a.C.) sotto la direzione di Nehemia (Ne 2:1;
Nehemia) si può anche dire... che il corso de- 5:15); 2) un principio di ricostruzione della
gli eventi nella forma attuale in cui si presen- città e del muro (Ed 4:12) in un anno impreci-
tano è in linea di principio giusta, che cioè l’at- sato del regno di Artaserse (sicuramente l’Ar-
tività di Esdra e Nehemia non sono state un taserse primo, giacchè quando cominciò a re-
puro e chiaro succedersi dell’una all’altra, ma gnare il secondo nel 405/04 a.C. il muro era
che molto probabilmente si sono incrociate. In ricostruito da 40 anni).
questo senso già Alt ammise che Esdra con Secondo Ed 4:7-12 i Samaritani infor-
tutta probabilità non ha raggiunto i suoi scopi marono il re Artaserse che i Giudei riedifica-
subito con i suoi primi provvedimenti”. - Storia vano la “città ribelle”, ne rialzavano le mura e
d’Israele, Brescia 1977, p. 409. ne restauravano le fondamenta. Tutto questo,
Anche MARTIN METZGER è del parere che come si è notato in altro luogo, non poteva
non sia necessario far precedere Esdra da essere fatto senza un ordine espresso del re.
Nehemia. Egli scrive: “Il fatto che Nehemia “Quando a Gerusalemme si doveva fare qual-
abbia dovuto prendere provvedimenti anche in cosa - scrive Siegfried Herrmann - allora evi-
campo cultuale ha fatto supporre che la sua dentemente i circoli locali non erano in grado
missione sia avvenuta anteriormente a quella di fare: la spinta doveva venire dall’esterno,
di Esdra (...). Questa argomentazione non è c’era bisogno di autorizzazioni; c’era bisogno
tuttavia del tutto convincente; si può pensare, di interposte persone, personalità energiche
infatti, che anche dopo la riorganizzazione del che sapessero introdurre conoscenze e rela-
culto da parte di Esdra non tutti gli inconve- zioni per persuadere le autorità e ricevere do-
nienti in questo campo fossero stati elimi- cumenti, senza i quali non si faceva nulla an-
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CAPITOLO 9
che allora” (op. cit., p. 413). fatto, come già accennato, che la riedifica-
L’ordine di riedificare la città e rialzarne zione della città e delle sue mura fu intra-
il muro di cinta fu concesso a Esdra da Arta- presa dai reduci dall’esilio in un momento
serse I Longimane l’anno settimo del suo re- non specificato del regno di Artaserse I, ma
gno. In quell’anno il sacerdote Esdra ricevette dovette essere interrotta dietro ordine
dal re il permesso di rimpatriare con “alcuni espresso del re (Ed 4:23) allarmato per le
figli d’Israele, dei sacerdoti, dei Leviti, dei gravi accuse mosse ai costruttori dal governa-
cantori, dei portinai e dei Netinei” (Ed 7:7). La tore di Samaria e dai suoi colleghi (Ed 4:12-
carovana lasciò Babilonia il 1° giorno del 1° 16). Con una lettera ai funzionari governativi
mese (Nisan) e arrivò a Gerusalemme il 1° di Samaria Artaserse ordinò l’interruzione dei
giorno del 5° mese (Elul): Ed 4:9. lavori lasciando tuttavia aperta la possibilità
Lungo il tragitto attraverso la vasta sa- di una ripresa (Ed 4:21).
trapia transeufratica i conduttori della caro- Una crisi politica a metà del secolo V
vana esibirono alle autorità persiane locali “i a.C. suggerisce un motivo plausibile per spie-
decreti del re” (Ed 8: 36). Il testo del decreto gare la revoca da parte di Artaserse dell’auto-
di Artaserse I, che Esdra aveva con sè, ci è rizzazione di ricostruire Gerusalemme.
stato conservato nella originale lingua ara- Intorno al 450 a.C. la stabilità dell’im-
maica in Ed 7:12-26 (è comprovato che l’ara- pero fu messa in pericolo dalla rivolta di Me-
maico fu la lingua ufficiale della cancelleria gabizo, il potente satrapo della provincia tran-
reale persiana). seufratica di cui faceva parte la Giudea. In
Questo editto in primo luogo autorizzava questo clima politico s’inquadra bene la mi-
il capo-carovana a raccogliere tra i connazio- sura adottata dal sovrano persiano nei con-
nali rimasti in Babilonia dei donativi per il fronti di Gerusalemme, questa città che nel
tempio di Gerusalemme (Ed 4:16), oltre a passato si era fatta notare per la sua indoci-
quelli offerti dal re e dai suoi ministri (v. 15). lità (Ed 4:19).
Inoltre ordinava ai tesorieri delle province per- Gli zelanti funzionari samaritani, inter-
corse dai reduci di fornire loro tutto il neces- pretando a modo loro il decreto reale, proba-
sario per proseguire il viaggio verso Gerusa- bilmente distrussero quanto era stato rico-
lemme (Ed 4:21). struito. Sta di fatto che alcuni anni dopo
Infine decretava l’esenzione dalle impo- Nehemia trovò Gerusalemme distrutta, le sue
ste per tutto il personale del tempio (v. 24). porte bruciate e le mura tutte da ricostruire
Ma la concessione più sorprendente riguar- (Ne 2:17).
dava l’istituzione di un ordinamento giudizia- Gli anni di regno di Artaserse I sono
rio autonomo per l’amministrazione della giu- stati fissati in modo sicuro grazie ai testi am-
stizia secondo il diritto nazionale, cioè se- ministrativi di Babilonia e a 14 papiri di Ele-
condo la legge di Mosè. fantina datati secondo il calendario civile giu-
Con questi privilegi in ambito ammini- daico post-esilico (con l’inizio dell’anno in au-
strativo e giudiziario Giuda poteva conside- tunno) e in base al calendario solare egiziano.
rarsi ormai quasi un piccolo stato dentro l’im- L’anno settimo di Artaserse I Longimane si è
pero persiano. così potuto calcolare con precisione scienti-
Non è azzardato postulare che come co- fica (vedi SIEGFRIED H.HORN E LYNN H. WOOD,
ronamento di siffatte larghe concessioni, mai The Chronology of Ezra 7, Washington D.C.,
fatte prima d’allora dai re di Persia alla comu- 1953).
nità dei rimpatriati, Artaserse autorizzasse la Si deve considerare che gli anni storici
ricostruzione materiale della città. Sta di avanti Cristo si calcolano in base al calenda-
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CAPIRE DANIELE
Gennaio Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen.
CALENDARIO 465 a.C. 464 463 462 461 460 459 458 457 456
GIULIANO Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan
COMPUTO
acc. 1° anno 2° anno 3° anno 4° anno 5° anno 6° anno 7° anno 8° anno
PERSIANO
COMPUTO
acc. 1° anno 2° anno 3° anno 4° anno 5° anno 6° anno 7° anno
GIUDAICO
Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri
Accessione al trono
di Artaserse I
Dicembre 465 a.C. Partenza di Esdra
da Babilonia
Arrivo di Esdra
Luglio 457 a.C.
a Gerusalemme
Marzo 457 a.C.
rio solare giuliano con l’inizio dell’anno il 1° Artaserse I a Susa, Nehemia, nel mese di Ki-
gennaio, e che i calendari lunari persiano e sleu dell’anno ventesimo del re, fu informato
giudaico post-esilici facevano decorrere l’anno da alcuni giudei giunti da Gerusalemme sullo
rispettivamente dalla primavera e dall’au- stato miserevole dei reduci dall’esilio (Ne 1:1-
tunno. 4). Nel mese di Nisan dello stesso anno
Il regno di Artaserse I cominciò il 17 di- Nehemia domandò e ottenne dal re Artaserse
cembre del 465 a.C. L’anno settimo cadde il permesso di recarsi a Gerusalemme e, con
tra il 458 e il 457. Il 1° di Nisan, data della un’autorizzazione scritta, di rialzarne le mura
partenza di Esdra da Babilonia, coincise con e ricostruirne le porte (Ne 2:1-8). Considerato
la fine di marzo del 457, e il 1° di ’Ab, data che le cattive notizie dalla madrepatria giun-
dell’arrivo della carovana a Gerusalemme, sero il nono mese (Kisleu) e che Nehemia
con la fine di luglio (vedi diagramma sopra). partì da Susa il primo mese (Nisan) dello
Che il calendario in uso tra i Giudei del stesso anno, si deve concludere che in questi
dopo-Esilio fosse un calendario con l’inizio due capitoli del libro le date sono riferite ad
dell’anno in autunno, si ricava dai primi due un calendario con l’inizio dell’anno in autunno
capitoli del libro di Nehemia. Al servizio del re (vedi grafico nella pagina seguente).
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dopo vari secoli l’Era Cristiana come scala corpo celeste reale. L’unica spiegazione plau-
cronologica per datare gli eventi storici di- sibile del fenomeno rimane quella che esso
venne di uso generale nel mondo cristiano. sia stato un evento soprannaturale (cfr. E.G.
Oggi sappiamo che l’anno da cui comincia WHITE, The Desire of Ages, p. 60, nell’edizione
l’Era Cristiana (o Era Volgare) ha soltanto un italiana - La speranza dell’uomo – p. 33).
valore convenzionale come data della natività Come per la natività del Signore, così per altri
di Cristo, giacché questo evento accadde eventi della sua vita è impossibile fissare una
prima dell’anno 754 di Roma. data certa sulla base di circostanze concomi-
Dionigi il Piccolo aveva inavvertitamente tanti ricordate nei Vangeli. I riferimenti di Luca
calcolato con un errore di alcuni anni la data al mandato di un funzionario pubblico romano
della Natività. Il margine approssimativo è ed ai tetrarcati di tre piccoli sovrani palesti-
stato valutato in tempi relativamente recenti nesi, e più ancora il riferimento all’anno 15°
grazie al calcolo astronomico. Lo storico giu- di Tiberio (Lc 3:1-3), parrebbero elementi va-
deo Giuseppe Flavio informa in Antichità Giu- lidi per fissare l’inizio del ministero di Gio-
daiche (XVII. 6.4,5) che un’eclisse di luna si vanni Battista e quindi della missione pub-
produsse pochi giorni prima della morte di blica di Gesù. Purtroppo non è così. Il man-
erode il Grande. Gli astronomi moderni hanno dato pubblico ed i tetrarcati su accennati si
calcolato che quell’eclisse ebbe luogo la possono porre fra il 26 e il 34 (vedi articolo
notte del 13 marzo dell’anno 750 di Roma “Chronology” in S.D.A. Bible Dictionary, vol.V,
corrispondente al 4 a.C. (cfr. G. RICCIOTTI, Sto- p. 202), un arco di tempo troppo esteso per-
ria d’Israele, vol. II, p. 415). E poiché Erode ché si possa fissare al suo interno una data
era ancora in vita quando Gesù nacque a Be- con margine di incertezza accettabile.
tlemme (Vedi Mt 2:3, 13-16), è evidente che La menzione dell’anno 15° di Tiberio è
la Natività avvenne prima del 4 a.C., probabil- anch’essa di relativa utilità perché non è noto
mente nell’anno 5 o nell’anno 6 (qualche cro- in base a quale criterio Luca calcolasse gli
nologo ha proposto l’anno 7 o l’anno 8). anni del principato di questo imperatore, né si
Alcuni eventi concomitanti con la na- conoscono fonti giudaiche sugli anni dei prin-
scita di Gesù Cristo ricordati nei vangeli sono cipati romani per fare un confronto. Nelle pro-
di scarsa utilità per fissare la data della na- vince orientali dell’Impero gli eventi si data-
scita di Cristo. Uno di tali eventi è il censi- vano abitualmente in base ad anni di regno,
mento ordinato da Quirinio, governatore della ma in modo diverso da provincia a provincia
Siria, di cui dà notizia Luca (Lc 2:2). Due iscri- secondo che nel computo si calcolasse op-
zioni che nominano Quirinio sembrano allu- pure no l’anno di accssione; in più l’inizio
dere ad un censimento sotto il suo governato- dell’anno cadeva in primavera in alcune re-
rato avvenuto il 4 o il 6 a.C., ma l’interpreta- gioni e in autunno in altre.
zione di dette iscrizioni è incerta (cfr. S.D.A. A Roma gli eventi si datavano in base
Bible Commentary, vol. V, p. 241). Né si può agli anni di consolato o di tribunato, perciò la
prendere in considerazione la “stella” dei cronologia romana, di solito accurata, non
magi come un reale fenomeno astronomico. serve per datare in anni dell’Era Volgare
L’astro misterioso guidò i sapienti orientali l’anno 15° di Tiberio secondo Luca.
fino a Gerusalemme, poi si mosse nel cielo in In ogni modo se Luca, come sembra as-
direzione sud e infine si fermò sopra “il luogo sai probabile, adottò il computo degli anni di
dov’era il fanciullino” (Mt 2:1-2, 9). Gli strani regno che in quel tempo era d’uso corrente
spostamenti della “stella dei Magi” nella nel Vicino Oriente, egli dovette contare come
volta celeste non corrispondono a quelli di un anno primo l’anno di calendario nel quale Ti-
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berio cominciò a regnare. In tal caso l’anno poteva essere scorta due o anche tre giorni
15° del principato di Tiberio, calibrato sul ca- dopo la luna nuova. Se poi l’osservazione era
lendario civile giudaico, fu il 27/28 E.V. co- impedita per vari giorni di seguito dalla coper-
minciato nell’autunno. È l’ipotesi che oggi tura del cielo, allora l’inizio del mese doveva
gode di maggior credito fra gli studiosi (vedi essere stabilito su base congetturale.
GIULIO FIRPO, Il problema cronologico della na- Ora chi può dire quali fossero le condi-
scita di Gesù, Brescia 1983, p. 84). zioni del cielo sopra la Palestina quando fu
Si deve convenire che “la data del bat- fissato il 1° di Nisan dell’anno in cui Gesù fu
tesimo che meglio conviene ai dati cronologici crocifisso? Se dette condizioni fossero state
della narrazione biblica sulla vita di Cristo, e sfavorevoli allora ci sarebbe uno scarto di 1,
in particolare sulla durata del suo ministerio e 2 o 3 giorni fra il 15 di Nisan giudaico
sulla sua crocifissione (...) è l’autunno del 27 dell’anno della crocifissione e il 15 di Nisan
A.D.”. (S.D.A. Bible Dictionary, art. cit.). Le dello stesso anno calcolato oggi astronomica-
stesse incertezze che regnano riguardo alle mente. Uno scarto da scalare, ovviamente,
date della nascita e del battesimo di Cristo, nell’arco della settimana di Passione.
sussistono sulla data della sua crocifissione. Si capisce quindi come non sia possi-
La scelta di un anno in cui la Pasqua cadde di bile determinare con sicurezza mediante il
Venerdì è alquanto aleatoria. calcolo astronomico l’anno della crocifissione
L’inizio del mese nella Giudea veniva di Cristo. Altri capitoli, basati su criteri che
fissato di volta in volta in base alla comparsa non possiamo discutere qui, permettono di
della sottile falce lunare a ponente dopo il tra- stabilire che ci sono due anni possibili nei
monto del sole, e questo evento astronomico quali la crocifissione può avere avuto luogo in
apprezzabile a vista se le condizioni atmosfe- giorno di Venerdì: sono gli anni 30 e 31
riche sono favorevoli, si produce regolar- dell’Era Volgare. La scelta dovrebbe cadere
mente 24 ore dopo la luna nuova. In condi- sull’alternativa che meglio s’accorda con le
zioni di osservazione non ottimali, per esem- indicazioni bibliche, e questa alternativa è
pio col cielo offuscato a ponente, la “falce” l’anno 31.
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storia il nuovo astro persiano (8:20 si è avve- siano posti alla fine dei 490 come dei 2300
rato). La fine di Babilonia ed il sorgere dell’im- anni. Allo scadere del periodo più breve
pero persiano erano stati indicati dalla profe- (9:26a e 27a) sarà offerto il vero sacrificio
zia come il preludio della rinascita d’Israele espiatorio il quale porrà fine ai sacrifici che lo
(cfr. Gr 25:12-14; 29:10; Is 44:28; 45:1, 4, prefiguravano nel santuario di Gerusalemme.
13). È dunque giunto il tempo di rivelare a Da- Allo scadere dei 2300 anni sarà posta fine
niele cose che sarebbe stato prematuro an- alla prevaricazione contro il ministero conti-
nunciare sette anni prima. nuo di Cristo (thamîd) nel santuario dei cieli
4. L’espressione “sere-mattine” (‘erev- per il perdono dei peccati e sarà rimossa l’of-
boqer) in 8:14 è improntata al linguaggio del fesa recata al santuario (il santuario “sarà pu-
racconto della Creazione del capitolo primo rificato”). È pure significativo il parallelismo
della Genesi, dove 6 volte la frase “fu sera e tra il santuario che sarà purificato in 8:14
fu mattina” (wayehî ‘erev wayehî voqer) desi- u.p. ed il santuario che sarà consacrato
gna un giorno pieno. Come è stato ricordato (“unto”) in 9:24 u.p. Così, allo scadere dei
nel commento di questo passo (8:14), 490 anni iniziati con la promulgazione di un
l’espressione “sere-mattine” non va, comun- decreto autorizzante la restaurazione di Geru-
que, presa alla lettera, poichè essa compare salemme, si concluderà in Gerusalemme re-
in un contesto simbolico. “Sere - mattine” staurata, con la morte cruenta del Messia, un
non significa dunque “giorni di calendario” rituale ciclico che era “ombra e figura delle
ma “giorni profetici” che sono equivalenti ad cose celesti” (Eb 8:5), ovvero di eventi ultra-
anni storici (cfr. il commento a 8:14 e la nota terreni; e lassù nel cielo quegli eventi comin-
relativa). Questo elemento temporale inserito ceranno ad aver corso con l’inizio del mini-
nella visione-audizione del cap. 8 ha un ri- stero sacerdotale del Messia risorto e glorifi-
scontro nella rivelazione-audizione del cap. 9 cato (Eb 8:1-2), un ministero continuo di me-
la quale esordisce precisamente con un riferi- diazione per il perdono dei peccati (1Tm 2:5;
mento ad un elemento temporale: settanta Eb 8:6; 9:15; 12:24; 1Gv 2:1) che si conclu-
settimane (di anni) “sono tagliate” (nechthak) derà in capo a 2300 anni con un solenne
per il popolo e per la santa città (cfr. il com- “kippur” celeste (“il santuario sarà purifi-
mento a 9:24). Il passivo nechthak associato cato”) di cui era figura il “kippur” che il
alle settanta settimane fa pensare ad una sommo sacerdote d’Israele celebrava nel
estrapolazione dei 490 anni da un periodo di santuario di Gerusalemme alla fine di ogni ci-
tempo più esteso. E quale potrebbe essere clo liturgico annuale. Dunque i due periodi
questo periodo se non quello dei 2300 anni a profetici annunciati in 8:14 e 9:24 si giustap-
cui si allude in 8:14 ? Rafforza questa tesi la pongono, così che il più breve viene a formare
designazione di entrambi i periodi, in 8:26a e la prima “tranche” del più esteso ed entrambi
in 9:23 u.p., con lo stesso vocabolo: mar’eh. hanno in comune la data d’inizio380. Questa
È inoltre significativo che eventi di data è l’anno 457 a.C. (vedi il commento a
grande portata in rapporto con la redenzione 9:25 e la nota relativa).
380 - Esemplificando: supponiamo di volere misurare due lunghezze: una di 30, l’altra di 100
centimetri. Per delimitare la prima useremo i primi 30 centimetri del nostro metro, e per deter-
minare la seconda utilizzeremo il metro intero; ma nell’uno e nell’altro caso inizieremo la misu-
razione dal primo centimetro. Così, poiché i 490 anni costituiscono il primo segmento dei
2300, è chiaro che l’uno e l’altro arco di tempo hanno in comune la data iniziale.
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381 - La Mishnah (letteralmente “Ripetizione”) - la prima e più corposa porzione del Talmud - è
un’ampia collezione di norme e regolamenti formulati durante vari secoli dal Sinedrio e dai più
autorevoli rabbini. Codificata e messa per iscritto sul finire del II secolo d. C., si compone di 6
“ordini” (sedarîm), ciascuno suddiviso a sua volta in un numero variabile di “trattati” per un to-
tale di 63. “Yoma” è il titolo di uno dei 12 trattati dell’ordine Mo‘ed, “Feste stabilite”.
382 - Sebbene il digiuno (ebr. tzôm) non sia menzionato in modo esplicito nelle prescrizioni rela-
tive alle osservanze del giorno dell’Espiazione (Le 16:29, 31; 23: 27, 32; Nu 29:7), esso è pre-
supposto nell’espressione “affliggerete le anime vostre” (ebr. ‘inniten ’eth nafshotêkem) che si
ripete cinque volte nei passi indicati sopra (cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. II, p. 779; The
New Bible Dictionary, voce “Fast”). Secondo il lessicografo B. Davidson il verbo ‘ânâh, “afflig-
gersi”, “umiliarsi”, seguito dal sostantivo nefesh, “anima”, prende il senso di “digiunare” (The
Analytical Hebr. and Chald. Lex., voce “‘anah”). Il “Digiuno” che Luca menziona in Atti 27:9 è
senza dubbio un riferimento al Giorno dell’Espiazione (cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. VI,
pag. 445; G. LUZZI, Fatti degli Apostoli, pag. 257; C.M. MARTINI, Atti degli Apostoli, pag. 316; A.
WIKENHAUSER, Atti degli Apostoli, p. 357).
383 - Descritti in Es 28:4-39.
384 - Cfr. S.D.A. Commentary, vol. I, p. 774.
385 - Cfr. The Great Controversy, pp. 421- 422; Ed. italiana, Il Gran Conflitto, pp. 308-309.
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386 - Versione aramaica parafrastica dell’Antico Testamento sorta nella sinagoga e messa per
iscritto intorno al II secolo a.D.
387 - Cfr. R.DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, p. 488.
388 - “Studies in Biblical Atonement II: The Day of Atonement”, in The Sanctuary and the Atone-
ment, p. 122.
389 - Cfr. C. SCHEDL, Storia del Vecchio Testamento, vol. I, p. 406.
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erano in completa antitesi, e si avrà una dimo- esso (Le 16:14). Con questo rito egli aveva
strazione ulteriore che essi non potevano raffi- fatto l’espiazione per la sua persona e “per la
gurare un’unica e medesima realtà. L’uno dei sua casa” (v. 17) ovvero per corpo sacerdo-
due animali era immolato, l’altro no; dell’uno tale (v. 33).
si aspergeva il sangue, dell’altro no; il sangue “Esente da peccato, egli adesso rappre-
del capro espiatorio purificava (Le 16:15-16), sentava adeguatamente Gesù Cristo, Colui
il capro emissario contaminava (v. 26). che è senza peccato, ed era perciò in grado
Il sommo sacerdote doveva prima fare di mediare a beneficio degli altri”391.
l’espiazione per sé stesso onde essere ido- Pronunciata una breve preghiera mentre
neo a fare l’espiazione per il popolo. Perciò, la congregazione attendeva con ansia la sua
concluso il sorteggio e la presentazione al Si- ricomparsa, il sommo sacerdote tornava
gnore dei due capri nell’atrio del Santuario nell’atrio del Santuario, faceva accostare il
(vv. 7 e 8), egli faceva accostare presso l’al- capro “del sacrificio per il peccato che è per il
tare dell’olocausto il giovenco e lo immolava popolo” (Le 16:15a) e lo immolava senza im-
come vittima espiatoria per sé e per “la sua porre le mani sul suo capo. Quindi, recando
casa” (v.. 6). Poi con l’incensiere d’oro in una una bacinella col sangue dell’animale, en-
mano e nell’altra un vaso pure d’oro con due trava per terza volta nel Santo dei Santi e con
manciate di resine odorose polverizzate, en- quel sangue ripeteva esattamente, per la con-
trava tutto solo nel Luogo Santo (Le 16:17) gregazione, le aspersioni già fatte per sé e
giacché egli era l’unica persona del popolo per il corpo sacerdotale col sangue del gio-
idonea a presentarsi alla presenza di Dio nel venco (v. 15b). Con questo rito era fatta
Santo dei Santi. Davanti al velo che lo sepa- “l’espiazione per il santuario a motivo delle
rava dall’Arca santa col suo propiziatorio390, impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgres-
egli spargeva le resine odorose sulle braci sioni e di tutti i loro peccati” (Le 16:16a). “Il
dell’incensiere prelevate in precedenza dall’al- Santo dei Santi ha ormai ricuperato il suo
tare dell’olocausto (Le 16:12) sì che il fumo, splendore: né i peccati del sacerdozio né
penetrando dall’alto, invadeva il Luogo Santis- quelli dei fedeli offuscano più gli sguardi di
simo (vv. 12 e 13). Yahweh. Il ‘propiziatorio’ ha svolto il suo
Spostato da un lato il velo e deposto ruolo, ha concretizzato il suo nome procu-
l’incensiere fumante davanti all’Arca già offu- rando la propiziazione agli adoratori di
scata dalla nuvola d’incenso, il sommo sacer- Yahweh”392.
dote tornava nell’atrio camminando a ritroso Riportato il velo nella posizione abituale
(Talmud), vi prelevava una bacinella d’oro col in modo da occultare di nuovo l’Arca col suo
sangue del giovenco immolato ed entrava per propiziatorio, il celebrante ungeva col sangue
la seconda volta nel Santo dei Santi. Quivi del capro e del giovenco i corni dell’altare che
aspergeva col dito di quel sangue una volta il stava davanti al velo e ne aspergeva sette
propiziatorio e sette volte il suolo davanti ad volte il disopra (Le 16:18-19).
390 - Il propiziatorio (ebr. kapporeth) era una lastra d’oro massiccio sormontata da due figure di
cherubini, anche essi d’oro, la quale fungeva da coperchio dell’Arca (Es 37: 6-9).
391 - S.D.A. Bible Commentary, vol. I, p. 776.
392 - ALÉXIS MÉDEBIELLE, L’Expiation dans l’Ancien et le Nouveau Testament, vol. I, pp. 97-98.
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Col rituale precedente sul propiziatorio l’espiazione era un giovenco (vv. 3 e 14) e il
e quello susseguente sull’altare del profumo rito espiatorio si svolgeva all’interno del San-
era compiuta “l’espiazione per il santuario tuario, davanti al velo al di là del quale si tro-
(ovvero per il Santo dei Santi) 393, per la vava l’Arca dell’Alleanza contenente le tavole
tenda di convegno (vale a dire per il Luogo del Decalogo (cfr. Es 25:16; 40:20; De 10: 2,
Santo) e per l’altare” (v. 20). Infine il Sommo 5; 1Re 8:9; 2Cr 5:10; Eb 9:4). Il sacerdote of-
Sacerdote usciva nell’atrio e versava tutto il ficiante portava il sangue della vittima nel
sangue residuo alla base dell’altare dell’olo- Luogo Santo e ne aspergeva sette volte il
causto (un canale sotterraneo, secondo la Mi- suolo davanti al velo (Le 4: 5, 6, 16, 17), poi
shnah, lo faceva scorrere fin nella sottostante ne ungeva i corni dell’altare del profumo (vv.
Valle del Cedron). “Il Santo dei Santi, il Santo 16a e 17a); il resto lo spargeva alla base
e l’altare risplendono di nuovo della loro pu- dell’altare dell’olocausto nell’atrio del Santua-
rezza primitiva, sacerdoti e laici hanno rice- rio. Con questo rito era espiato e perdonato il
vuto il perdono di tutti i loro peccati: l’espia- peccato collettivo della comunità d’Israele (Le
zione è perfetta”394. 4:20, 35 u.p.); simbolicamente esso era
La purificazione del Santuario mediante stato trasferito dal popolo sul giovenco, e dal
il rituale annuale dell’Espiazione era resa ne- giovenco nel santuario, davanti al propiziato-
cessaria dalla contaminazione che vi avevano rio, per mezzo del suo sangue. Una ripara-
prodotto i peccati d’Israele - laici e sacerdoti- zione era stata offerta alla santa legge di Dio
confessati ed espiati mediante i prescritti sa- - espressione del carattere e della santità di
crifici durante l’anno liturgico. Dio stesso - che era stata violata.
Le diverse modalità del rituale espiato- L’espiazione del peccato individuale,
rio giornaliero sono descritte nel cap. 4 del che ne fosse responsabile un leader o una
Levitico. In tutti i casi si richiedeva l’immola- persona comune del popolo (Le 4:22, 27), av-
zione di una vittima preceduta dall’imposi- veniva nell’atrio del santuario (vv. 25 e 30).
zione della mano sulla sua testa da parte del L’animale sacrificale prescritto era un capro
penitente che con questo atto trasferiva su di se l’espiazione si faceva per un leader (v. 23,
essa il suo peccato. Quindi egli stesso sgoz- era una capra o un’agnella se si faceva per
zava l’animale (Le 4:4, 24, 29, 33). una persona comune del popolo (vv. 28 e
Se il peccato che si doveva espiare era 32). La differenza probabilmente teneva
stato consumato dall’intera congregazione, al- conto della diversa posizione dei penitenti
lora erano gli anziani che la rappresentavano nella comunità e quindi del diverso grado di
che imponevano le mani sul capo della vit- responsabilità sociale. In entrambi i casi, co-
tima sacrificale (Le 4:15) trasferendo simboli- munque, il confessante era tenuto ad imporre
camente su di essa il peccato della comunità. una mano sul capo della vittima prima di
In questo caso, come nel caso in cui un sgozzarla (vv. 24, 29, 33), dichiarando la sua
sacerdote avesse peccato coinvolgendo, colpa e trasferendola sull’animale. Poi il sa-
come suo rappresentante davanti a Dio, tutta cerdote compiva il rito espiatorio ricoprendo
la congregazione, l’animale prescritto per del sangue della vittima i corni dell’altare
393 - Santuario (ebr. qodesh) nell’Antico Testamento designa la struttura sacra adibita al culto
nel suo insieme, ma a volte il termine è usato con un’accezione ristretta per indicare il Luogo
Santissimo.
394 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., vol. I, p. 98.
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dell’olocausto. Il resto lo spandeva alla base sacrificio annuale. Compiuto dunque il rito di
di esso (vv. 25, 30, 34). purificazione del Luogo Santissimo e del
Il grasso e le interiora delle vittime in Luogo Santo (Le 16:16, 17), il sommo sacer-
tutti i tipi di sacrifici espiatori venivano bru- dote si portava di nuovo nell’atrio del Taber-
ciati sull’altare dell’olocausto (Le 4: 8-10, 19, nacolo (in seguito del Tempio) e faceva acco-
26, 31, 35), ma le carni erano trattate in stare a sé il capro che la sorte aveva asse-
modo diverso secondo che l’espiazione avve- gnato ad Azazel. Imposte le mani sulla testa
nisse nell’atrio del Santuario (per la colpa in- dell’animale confessava sopra di esso le
dividuale) o nel Luogo Santo (per la colpa col- colpe del popolo.
lettiva). Nel primo caso le carni erano consu- Con questo atto simbolico erano depo-
mate dai sacerdoti (Le 4:26) i quali in questo sti sul capro emissario “tutte le iniquità dei fi-
modo assumevano su di sé i peccati dei figli gli d’Israele, tutte le loro trasgressioni, tutti i
d’Israele per espiarli “davanti al Signore” (Le loro peccati” (Le 16:21)395 rimossi dal San-
10:17); nel secondo caso le carcasse erano tuario; non per espiarli, giacché a ciò si era
bruciate fuori del campo (Le 4:12; 6:30) giac- provveduto in precedenza, ma per
ché l’eliminazione definitiva dei peccati della allontanarli: “l’espulsione del capro ‘per Aza-
comunità aveva luogo il 10 di Tishri. Questo zel’ - scrive Médebielle - non produce l’espia-
particolare trattamento dei resti delle vittime zione, soltanto ne raffigura gli effetti”396.
offerte per il peccato collettivo nel servizio Descrivendo il rito centrale del Giorno
giornaliero e nel Giorno del Kippur, secondo dell’Espiazione, abbiamo notato che la mano
Eb 13:11-12, prefigurava l’immolazione di Cri- del celebrante non si posava sul capo del ca-
sto “fuori della porta” (della città santa) “per pro espiatorio. L’imposizione della mano sulla
santificare il popolo col proprio sangue”. vittima - quest’atto, ricordiamolo ancora una
Ogni cosa sacra raggiunta dal sangue volta, che implicava trasferimento di colpa -
dei sacrifici espiatori quotidiani era divenuta era stata compiuta ad ogni sacrificio espiato-
impura perché quel sangue era carico di pec- rio giornaliero. Non occorreva ripeterla nel
cato. Tutte le colpe d’Israele per le quali era Giorno dell’Espiazione, perché i peccati della
stata fatta l’espiazione col sangue delle vit- comunità erano già stati “rimossi” dai peni-
time erano simbolicamente passate nel san- tenti e “posti” nel santuario, come abbiamo
tuario ed erano venute “accumulandosi” du- detto. L’aspersione del sangue del capro “per
rante dodici mesi. Bisognava perciò rimuo- il Signore” non mirava dunque ad espiare di
verle onde ripristinare l’originale stato di pu- nuovo peccati individuali e collettivi già
rezza del propiziatorio e dell’altare per ren- espiati, ma era intesa precisamente a fare
derli degni della santità del Signore. “l’espiazione per il Santuario a motivo delle
A ciò appunto mirava e provvedeva il ri- impurità dei figli d’Israele...” (Le 16:16),
tuale dello Yom Kippur che abbiamo de- come spiega il v. 19, sia pure limitatamente
scritto. Dovunque si era posato il sangue con- all’altare: “E farà (il sommo sacerdote) sette
taminante dei molti sacrifici quotidiani, do- volte l’aspersione del sangue col dito, sopra
veva passare il sangue purificatore dell’unico l’altare, e così lo purificherà e lo santificherà
395 - Secondo il Talmud il primo dei tre termini indica i delitti volontari, il secondo il delitto di ri-
bellione e l’ultimo i peccati involontari.
396 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., p. 111.
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a motivo delle impurità dei figli d’Israele...”. Il popolo aveva vissuto il Giorno
Il versetto seguente allarga la portata dell’Espiazione nella consapevolezza di es-
del rito: “... l’espiazione per il santuario (il sere sottoposto al giudizio di Dio.
Luogo Santissimo), per la tenda di convegno Secondo la tradizione tardo-giudai-
(il Luogo santo) e per l’altare (l’atrio).”. ca398, tutti passano al vaglio del giudizio di-
Il capro col “carico” dei peccati vino nel giorno dell’Anno Nuovo, tuttavia
d’Israele (Le 16:22) era condotto nel deserto chiunque si renda conto di non essere in re-
da un uomo a cui era stato affidato questo in- gola con Dio, ha ancora nove giorni di tempo
carico (v. 21 u.p.). Col bastone che aveva in per rimediare, prima che la sua sorte sia se-
mano l’uomo punzecchiava l’animale per farlo gnata in modo irrevocabile nello Yom hakkip-
correre. Alcune fonti riferiscono che i più faci- purîm. I nove giorni tra la festa del Capo-
norosi fra il popolo gli correvano dietro ur- danno e il Giorno dell’Espiazione erano per i
lando e strappandogli il pelame per impau- Giudei giorni di revisione introspettiva della
rirlo: si voleva impedire in ogni maniera che propria vita e di penitenza: chi nel Gran
l’animale potesse tornare indietro: se fosse Giorno si fosse trovato impreparato, cioè non
accaduto, i peccati già espiati sarebbero tor- afflitto per i propri peccati e non penitente,
nati addosso al popolo e sarebbe stata una sarebbe stato eliminato dalla congregazione
sciagura! d’Israele, come è scritto nella Thorah (Le
Secondo la tradizione rabbinica il capro 23:28). Era convinzione dei Giudei che nello
emissario veniva abbandonato dall’uomo che Yom hakkippurîm era “deciso il destino di chi
lo conduceva in un luogo desolato presso l’at- deve vivere e di chi deve morire”399.
tuale Khirbet Khareidan a circa 6 chilometri Tramontato il sole, come il luccichio
da Gerusalemme397 dove probabilmente di- delle prime stelle annunciava la fine del di-
veniva preda degli sciacalli ancor prima di mo- giuno e dell’afflizione, ci si abbandonava a
rire di fame e di sete. In altri momenti si pre- gioiosi festeggiamenti. “Tutto il popolo - dice
ferì precipitare l’animale in un burrone, e per Médebielle - nella gioia di sentirsi riconciliato
un certo numero di anni addirittura lo si fece col suo Dio e di nuovo l’oggetto dei suoi fa-
a pezzi prima che fosse giunto al luogo di de- vori, dava libero sfogo al suo entusiasmo con
stinazione. banchetti e con danze”400. Cinque giorni
Partito il capro emissario, il sommo sa- dopo cominciava la Festa dei Tabernacoli (Le
cerdote svestiva la semplice tunica di lino e, 23:34; Nu 29:12). Non conosceva la gioia,
indossati di nuovo i paramenti splendidi dopo secondo i rabbini, chi non avesse assistito al
un ennesimo lavaggio del corpo, offriva per sé trasporto del popolo durante gli otto giorni
e per il popolo l’olocausto della sera (Le della Festa dei Tabernacoli.
16:23-24). Con questo rito terminava la Il Nuovo Testamento riconosce l’esi-
grande festa. stenza di un nesso tipologico fra il servizio li-
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CAPIRE DANIELE
turgico nel santuario d’Israele e l’opera reden- termini distinti che sembrano voler designare
tiva del Messia, tra l’ufficio del sommo sacer- l’una il Luogo Santissimo, l’altra il Luogo
dote terreno e il ministero di Gesù Cristo in Santo del tempio israelitico come raffigura-
cielo dopo il sacrificio della croce. La Lettera zioni rispettivamente del santuario celeste e
agli Ebrei fa di siffatto rapporto il cardine della della sua controfigura terrena). In definitiva il
sua teologia: “Ora, il punto capitale delle Tempio di Dio in cielo non avrebbe assunto la
cose che stiamo dicendo è questo: che ab- sua funzione prima che il sacrificio della croce
biamo un tal Sommo Sacerdote, che si è po- avesse realizzato ciò che la liturgia sacrificale
sto a sedere alla destra del trono della Mae- nel Santuario dell’Antica Alleanza prefigurava
stà nei cieli, ministro del santuario e del vero e preannunciava.
tabernacolo che il Signore e non un uomo, ha Come sappiamo, questo evento co-
eretto” (Eb 8:1-2). Il v. 5, poi, col caratteriz- smico - l’inaugurazione in cielo del Santuario
zare come “ombra e figura delle cose celesti” della Nuova Alleanza - fu anticipato profetica-
il santuario giudaico, ne esplicita ulterior- mente a Daniele dall’angelo Gabriele nel con-
mente la funzione prefigurativa. testo della rivelazione delle settanta setti-
Il nesso esistente fra l’ombra terrena e mane. In 9:24, la consacrazione di un “luogo
la realtà celeste è ulteriormente sviluppato e santissimo” (ebr. qodesh qodashîm) appare
chiarito nel cap. 9 della Lettera agli Ebrei. come il coronamento dell’opera espiatoria
Ad una descrizione sommaria del san- che il Messia avrebbe compiuto401.
tuario dell’Antica Alleanza e dei suoi arredi Proseguendo, nel cap. 9, il suo ragiona-
(vv. 1-5) e ad un accenno al servizio liturgico mento fondato sul parallelismo fra il vecchio
giornaliero (v. 6) e a quello annuale (v. 7) che e il nuovo, l’autore della Lettera agli Ebrei
in esso si svolgevano, Eb 9 fa seguire un’ap- dice nel v. 12 che Cristo - definito “Sommo
plicazione del suddetto servizio liturgico Sacerdote di futuri beni” nel v. 11 - “mediante
all’opera sacerdotale di Gesù Cristo nel San- il proprio sangue, è entrato una volta per
tuario del cielo. Spiega il v. 8 che “Lo Spirito sempre nel santuario, avendo acquistato una
Santo voleva con questo significare che la via redenzione eterna”. Gesù Cristo dunque
al santuario non era ancora manifestata fin- svolge ad un tempo il ruolo di sacerdote e
ché sussisteva ancora il primo tabernacolo”. quello di vittima sacrificale, e in questa du-
Come nel tempio giudaico il Luogo Santis- plice funzione realizza quanto il ministero del
simo restava coperto dal velo per tutto il sacerdozio aronnico prefigurava, ovverosia la
tempo in cui nel Santo si svolgeva il servizio nostra riconciliazione con Dio e l’affranca-
sacro diuturno, così il Tempio di Dio in cielo mento dal peccato. Come sacerdote, Egli me-
doveva rimanere inaccessibile fintantoché dia fra noi e il Padre (1Tm 2:5), come vittima
fosse in funzione la sua controfigura terrena. sacrificiale compie il nostro riscatto (v. 6).
È questo, secondo Eb 9:8, il senso che lo Il sacrificio di Cristo non solo procura a
Spirito Santo intese dare al servizio cultuale noi il perdono dei peccati (come per anticipa-
giornaliero e annuale nel santuario giudaico zione lo procurava agli israeliti il sacrificio
(le parole “santuario”, greco ‘aghion, e espiatorio), ma ne realizza la totale e defini-
“primo tabernacolo, greco pròtes skenes, in tiva rimozione dalla presenza di Dio, come av-
questo versetto non sono sinonimi, sono due veniva simbolicamente sotto l’Antica Alleanza
401 - Vedi il commento di Dn 9:24; cfr. con S.D.A. Bble Commentary, vol. IV, p. 852.
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CAPITOLO 9
con l’immolazione del capro espiatorio nel del giudizio pre-avvento che determinerà la
giorno del Kippur. Come il sangue di quel ca- purificazione di quelle “cose”.
pro fatto cadere sul propiziatorio, davanti ad I peccati confessati della comunità della
esso e sopra l’altare del profumo rimuoveva Nuova Alleanza saranno “cancellati” dai regi-
simbolicamente i peccati d’Israele avendo stri celesti perché Gesù li ha espiati col suo
come effetto immediato la purificazione del sangue (è evidente il nesso col rituale ebraico
sacro luogo, così il sacrificio di Gesù Cristo dell’Espiazione).
da Lui stesso, in veste di Sommo Sacerdote Si è visto che la congregazione d’Israele
immortale, offerto nel Santo dei Santi del visse il giorno del Kippur con la consapevo-
cielo, allontanerà per sempre da esso la me- lezza di essere sottoposta al giudizio divino. Il
moria dei peccati confessati del nuovo Kippur celeste sarà anch’esso un tempo nel
Israele, restituendo così al Tempio di Dio il quale il popolo della Nuova Alleanza sarà pas-
suo stato di perfetta purezza402. sato al vaglio del giudizio di Dio (quel giudizio
Dice ancora la Lettera agli Ebrei (9:22- che il profeta Daniele descrive in 7:10). Sarà,
23): “E secondo la legge, quasi ogni cosa è come si è accennato sopra, il giudizio che
purificata con sangue; e senza spargimento di precederà la venuta del Signore (vedi il com-
sangue non c’è remissione. Era dunque ne- mento di Dn 7:10), il giudizio nel quale av-
cessario che le cose raffiguranti quelle nei verrà la rimozione dai “libri” celesti dei pec-
cieli (cioè il santuario giudaico e i suoi sacri cati espiati da Gesù Cristo e conseguente-
arredi) fossero purificati con questi mezzi (ov- mente sarà purificato il tempio di Dio in cielo
vero con sangue di giovenchi e di capri), ma come fu annunciato a Daniele (Dn 8:14)403.
le cose celesti stesse dovevano esserlo con Come gli indegni figli d’Israele che il
sacrifici più perfetti di questi” (vale a dire col gran Giorno dell’Espiazione avesse colto im-
sacrificio perfetto del Figlio di Dio). Se le penitenti sarebbero stati “sterminati” dalla
“cose celesti” debbono essere purificate, comunità purificata (Le 23:29), così saranno
vuol dire che qualcosa deve averne prodotto “cancellati” dal “libro della vita” nel tempo
una contaminazione. Ap 20:12 descrivendo il del giudizio preliminare (Ap 3:5; 20:15) i
giudizio finale dice che “i morti furono giudi- membri della nuova comunità d’Israele i cui
cati dalle cose scritte nei libri, secondo le peccati, per il perseverare nella trasgres-
opere loro”. Sono stati i peccati dei fedeli re- sione, non saranno stati espiati da Gesù Cri-
gistrati in cielo, dove li ha trasferiti la confes- sto. E.G.White ha colto assai bene il nesso ti-
sione in virtù del sacrificio della croce, che pologico fra il rituale sacrificale quotidiano e
hanno prodotto la contaminazione delle “cose annuale nel Santuario terreno e l’opera sacer-
celesti”, e sarà la loro rimozione nel tempo dotale di Cristo nel Tempio celeste. Ella
402 - Scrive S. Paolo nella Lettera ai Romani (3:25) che Dio ha prestabilito Gesù Cristo “come
propiziazione mediante la fede nel sangue di lui”. Il termine greco tradotto “propiziazione”, ‘ila-
sterion, è lo stesso vocabolo che nei LXX traduce l’ebraico kapporet, “propiziatorio”, usato
nell’Esodo e nel Levitico (con identico significato ‘ilasterion è adoperato in Eb 9:5). Nondimeno
in Rm 3:25 ‘ilasterion non ha il senso di “propiziatorio”, come pensarono gli esegeti più anti-
chi, ma piuttosto quello di “sacrificio di espiazione”, con implicito riferimento al sacrificio dello
Yom Kippur (vedi Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento a cura di L. KOENEN, E.
BEYREUTHER E H. BIETENHARD, pp. 1150-1151).
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CAPIRE DANIELE
scrive: “Come anticamente i peccati del po- seco la sua ricompensa per dare a ciascuno
polo venivano deposti per fede sulla vittima secondo che sarà stata l’opera sua (Ap
espiatoria, e per mezzo del sangue trasferiti 22:12)”404.
simbolicamente nel santuario terrestre, così Come l’annuale purificazione del San-
nel nuovo patto i peccati della persona pen- tuario d’Israele si concludeva con la partenza
tita sono posti per fede su Cristo e trasferiti del capro emissario carico dei peccati del po-
nel santuario celeste. polo, così la finale purificazione del celeste
Come nella purificazione tipica del san- tempio di Dio sarà completa quando i peccati
tuario terrestre avveniva la rimozione dei pec- del popolo del Nuovo Patto, di cui Satana fu
cati che lo avevano contaminato, così la puri- l’istigatore, saranno posti su di lui ed egli li
ficazione tipica del santuario celeste avviene sconterà con l’essere distrutto per sempre
con la rimozione o cancellazione dei peccati dopo un millennio di forzato esilio in un
che vi sono stati registrati. Ma prima che que- mondo ridotto in un desolato deserto (Ap
sto possa essere fatto deve esserci un 20:1-3; 20:10)405.
esame dei libri del cielo per stabilire chi, me- Il tripudio con cui l’antico Israele cele-
diante il pentimento e la fede in Cristo, può brava la Festa dei Tabernacoli a cinque giorni
beneficiare della sua espiazione. La purifica- dalla solennità severa del kippur, sembra an-
zione del santuario include, perciò, un’opera ticipare il gaudio dei redenti nel Regno eterno
di indagine o giudizio. Essa deve avvenire di Dio dopo il giudizio purificatore del kippur
prima della venuta di Cristo per redimere il celeste e la distruzione definitiva del peccato
suo popolo, perché quando egli viene avrà e del suo istigatore.
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Capitolo 10
___________________________________________________
C ol cap. 10 inizia la parte finale del libro di Daniele. Il racconto che si svolge
in questo capitolo precede e introduce l’ultima delle quattro rivelazioni che
Daniele ha raccolto nella seconda sezione del suo libro. È una profezia proiettata
nel futuro prossimo e lontano, una profezia che attraverso complessi sviluppi in-
termedi congiunge l’epoca del profeta e il remoto tempo della fine. La grande pro-
fezia comincia al v. 2 del cap. 11 e termina al v. 3 del capitolo seguente. Gli ul-
timi versetti hanno tutta l’apparenza di un post-scriptum.
Poiché la narrazione si svolge senza soluzione di continuità dal principio
del cap. 10 fino alla fine del libro, gli ultimi tre capitoli formano di fatto un cor-
pus unico.
Una circostanza avversa non specificata, ma che non è difficile intuire, ha
fatto nascere una gran pena nel cuore del vecchio profeta. Dopo tre settimane di
duolo e di parziale digiuno, egli ha assistito ad una sfolgorante teofania dalla
sponda del Tigri. La straordinaria manifestazione lo ha lasciato in uno stato di
grande prostrazione fisica. Poi gli è apparso un angelo celeste e gli ha preannun-
ciato un gran conflitto nel quale il suo popolo sarà coinvolto.
Come è sua consuetudine (7:1; 8:1; 9:1), Daniele indica la data della nuova rive-
lazione: “l’anno terzo di Ciro re di Persia”. Gli anni di regno di Ciro sono qui fatti
decorrere dalla data della conquista di Babilonia, il 539 a.C. L’anno terzo cadde
dunque nel 536 o nel 535, secondo che gli anni di regno siano computati sul ca-
lendario con l’inizio dell’anno in primavera o in autunno406.
Posto che all’epoca della deportazione nel 605 a.C. Daniele avesse intorno
ai 18 anni, adesso doveva essere un vegliardo quasi novantenne, essendo tra-
scorsi da allora 69 anni.
Per la terza ed ultima volta Daniele fa riferimento al regno di Ciro. Alla fine
del cap. 1 ha menzionato il suo primo anno di regno come il termine ultimo del
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CAPIRE DANIELE
suo incarico ufficiale, e in 6:28 ha incluso in modo generico “il regno di Ciro il
Persiano” nell’arco di tempo della sua lunga e onorata attività pubblica. In 10:1
per la prima e unica volta riferisce al regno di questo monarca un episodio im-
portante dell’esperienza di profeta.
È stato osservato che il titolo di “re di Persia” che Daniele attribuisce a Ciro
non è conforme all’uso antico, giacché su 1560 contratti babilonesi datati agli
anni di regno dei re persiani soltanto uno reca l’espressione “re di Persia”. Ri-
sponde con ragione H.C.Leupold: “Quando l’eccezione compare nelle tavolette
amministrative babilonesi non la si giudica immediatamente anacronistica. Per-
ché mai non dovrebbe essere consentito a uno scrittore biblico di usare tale co-
struzione eccezionale, tanto più se egli scrive in un’altra lingua...?”407.
Anche se il titolo “re di Persia” non era d’uso comune ai suoi giorni, Da-
niele col riferirlo a Ciro ne riconosce, d’accordo con la Storia, la sovranità su
tutto l’impero persiano (si confronti il titolo subalterno di “re del regno dei Cal-
dei” che egli dà a Dario il Medo in 9:1).
“Emerso da una relativa oscurità quale principe del minuscolo stato di An-
shan, sull’altopiano iranico, in pochi anni Ciro rovesciò l’uno dopo l’altro i regni
di Media, di Lidia e di Babilonia e li riunì sotto la sua sovranità fondando l’im-
pero più vasto che si fosse mai visto. Con un monarca di siffatta levatura do-
vranno adesso confrontarsi Daniele e il suo popolo...”408.
Ancora una volta Daniele parla di sé in terza persona409 (“una parola fu ri-
velata a Daniele”) e fa seguire al suo nome d’origine il nome babilonese (Beltsa-
sar), quasi a voler rilevare ancora una volta il persistere della sua condizione di
esule in terra straniera. Con un’espressione inconsueta, davar, “una parola” (da-
var può anche tradursi “una cosa”), il profeta ha voluto designare l’ampia rivela-
zione che verrà esponendo nel capitolo seguente e nei primi 3 versetti del cap.
12. Egli ha anche voluto testimoniare la sua convinzione riguardo alla veracità
della profezia che gli è stata rivelata (“la parola è verace”, rfbD f h E wå we’emeth
a tem)
haddavar) e della quale ha compreso la tematica centrale: “essa predice una
gran lotta” (lOdf g )fbc
f wº wetzava’ gâdôl). Tzava’, il termine corrente per “esercito”
(vedi 8:10-12), può anche significare “guerra”, “lotta”, e con tale accezione il vo-
cabolo è usato in questo contesto.
A differenza delle profezie che sono state rivelate a Daniele con i simboli
enigmatici delle visioni (vedi i cc. 7 e 8), la rivelazione riportata in questa parte
finale del libro, come quella del cap. 9, gli è stata recata da un angelo con lin-
guaggio piano e letterale, ond’egli può dire di avere capito la “parola” (rfbD f ha -te)
}yibU ûvîn ’eth haddavar) ed avere avuto intelligenza della visione (he)r : M
a Ba Ol
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CAPITOLO 10
hænyibU ûvîna lô bammar’eh), in altre parole di non avere avuto bisogno d’una in-
terpretazione. Allo stesso modo che in 9:26 è qui adoperato il termine mar’eh
per indicare l’apparizione di un angelo che viene a recare a viva voce una rivela-
zione divina.
2 In quel tempo, io, Daniele, feci cordoglio per tre settimane intere.
“In quel tempo”: letteralmente “in quei giorni” ({"hh a bayyamîm hâhem),
f {yimYæ B
cioè nei giorni che precedettero la rivelazione che sta per narrare. In quei giorni
l’anziano profeta è stato colto da una gran pena della quale non spiega il mo-
tivo. Ma avendoci egli indicato con precisione l’epoca dei fatti che verrà espo-
nendo, non è difficile indovinarlo.
Correva dunque l’anno terzo di Ciro - il 536/35 a.C. - quando il primo e più
cospicuo scaglione dei rimpatriati da Babilonia da pochissimo tempo era giunto
nella desolata terra di Giuda col sommo sacerdote Giosuè e con Zorobabele. Il
libro di Esdra ci ragguaglia su un aspro conflitto fra i giudei rimpatriati e i vicini
samaritani sorto dal rifiuto dell’offerta di collaborazione fatta da questi ultimi ai
capi dei Giudei mentre ponevano mano alla ricostruzione del Tempio410.
Le vicissitudini dei reduci erano seguite con viva partecipazione dai conna-
zionali che avevano scelto di rimanere nei luoghi dell’esilio (vedi Ne 1:1-4).
La notizia dei momenti difficili che stavano vivendo i rimpatriati nella lon-
tana Gerusalemme certamente giunse alle orecchie di Daniele in Babilonia e non
poté non suscitare ansia nell’animo del vecchio profeta. Non tanto il conflitto in
sé stesso, tuttavia, deve avere provocato la pena di Daniele, quanto piuttosto i ri-
flessi negativi che tale conflitto poteva avere sui rapporti dei reduci dall’esilio
con le autorità centrali persiane. Poteva accadere - come di fatto avvenne411 -
che la situazione agitata in quella provincia periferica dell’impero inducesse il
sovrano di Persia a revocare o quanto meno a sospendere l’editto favorevole ai
Giudei (vedi Ed 1: 1-4). Era messa a repentaglio più che la ripresa della vita so-
ciale ed economica della comunità dei rimpatriati; era esposto a serio pericolo il
ripristino della vita religiosa intorno al tempio ricostruito. Questa fosca prospet-
tiva deve avere cagionato l’afflizione di Daniele412 che si è protratta per tre setti-
mane (letteralmente “tre settimane di giorni”, {yimæy {yi(ubf$ hf$ol:$ sheloshah
shavu‘îm yâmîm).
Il termine “settimane” è comparso 4 volte nel cap. 9 (ai vv. 24, 25 e 26)
nella usuale forma femminile (shavu‘oth). In questo versetto (10:2) compare
nella inconsueta forma maschile (shavu‘îm) e per di più seguito dalla specifica-
zione “di giorni”. “Giorni” in apposizione rispetto a “settimane” conferisce alla
410 - Vedi Esdra 4:1-5; cfr. col commento di Dn 9:25 e con le note relative.
411 - Vedi Esdra 4: 24.
412 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 857-858; J. DOUKHAN, Le Soupîr de la terre, p.
225; H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 445.
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CAPIRE DANIELE
È l’unica volta in cui Daniele riporta una data indicando con precisione il giorno
e il mese. Purtroppo non c’è modo di sapere se egli facesse riferimento al calen-
dario babilonese-persiano con l’inizio dell’anno in primavera (Nisan) o al calen-
dario in uso in Giudea col capodanno in autunno (Tishri). Nel primo caso il
primo mese dell’anno terzo di Ciro sarebbe corrisposto al periodo marzo-aprile
del 536 a.C., nel secondo allo stesso periodo dell’anno seguente, il 535 a.C.
Poiché i 21 giorni di digiuno di Daniele finirono con la visione sul bordo
dell’Hiddekel il 24° giorno del primo mese, quel periodo di 3 settimane era co-
minciato il quarto giorno dello stesso mese.
413 - Piantare la vigna ed usarne il prodotto erano parte dei beni promessi nella prospettiva
della restaurazione dopo il castigo dell’esilio (Am 9:14). Non sono infrequenti tuttavia, specie
nei testi profetici e sapienziali, le rampogne all’indirizzo dei bevitori (cfr. Is 5:11, 22; Abac 2:5,
15; Pv 20:1) e la messa in guardia contro le bevande alcoliche (Pv 23: 29-35). E’ sempre ripro-
vato l’uso smodato del vino e della carne (Pv 23: 20-21).
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CAPITOLO 10
E dato che nel dopo-esilio i giudei numeravano i mesi allo stesso modo a
prescindere dal tipo di calendario utilizzato (vedi il diagramma in fondo alla nota
365), nel periodo del duolo di Daniele cadde la festività pasquale (il 14 di Nisan
si celebrava la Pasqua e i 7 giorni seguenti erano i giorni degli Azzimi). Questa
coincidenza, per quanto fortuita, era certamente significativa.
Mentre fra i Giudei rimpatriati o rimasti nell’esilio si celebrava il ricordo
della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, Daniele è stato in pena per le angustie
del suo popolo nella madrepatria e ha pregato perché ne fosse liberato. Allo
stesso modo che nel capitolo ottavo, sarà sul bordo di un fiume che Daniele ri-
ceverà una visione, con la differenza, tuttavia, che stavolta la sua presenza sulla
sponda dello Hiddekel sarà una presenza fisica e non “in ispirito”. Gli ebrei chia-
mavano Hiddekel il gran fiume che scorreva a oriente dell’Eufrate e che gli as-
siro-babilonesi nominavano Idiglat e i persiani Tigra (dal nome persiano deriva il
nome odierno, Tigri).
5 alzai gli occhi, guardai, ed ecco un uomo, vestito di lino, con at-
torno ai fianchi una cintura d’oro d’Ufaz.
“Alzai gli occhi e guardai” (o più semplicemente “io guardavo”) è la formula con
cui Daniele introduce di solito la descrizione di una visione (cfr. 8:3; 7:2) o di un
suo dettaglio importante (7:4,6,9,11,13). Daniele vede, ritta sul fiume, una figura
dall’apparenza umana (“guardai, ed ecco un uomo”).
Dalla descrizione che segue è chiaro che si tratta di un Essere sovrannatu-
rale. La tunica di lino di cui è rivestita la maestosa figura e la cintura d’oro che
gliela stringe alla vita caratterizzano la dignità sacerdotale (cfr. Es 28:4,8,39).
L’immagine richiama alla mente la figura del Sommo Sacerdote nel Gran Giorno
dell’Espiazione, un’immagine perfettamente idonea a introdurre la rivelazione
che seguirà, giacché essa culminerà con una scena di giudizio-salvezza per i
membri del suo popolo “che saran trovati iscritti nel libro”, e di giudizio-perdi-
zione per il resto degli uomini (Dn 12:1-2). Ufaz, ricordata anche in Gr 10:9, era
il nome di una regione oggi ignota dalla quale proveniva dell’oro sopraffino. Da
alcuni viene identificata con Ofir, rinomata nell’antichità per l’oro di gran pregio
che vi si esportava (cfr. 1Re 9:28). È da notare che le parole Ufaz e Ofir scritte in
caratteri ebraici si somigliano alquanto.
Con paragoni tratti dall’esperienza dei sensi il profeta tenta di descrivere l’aspetto
della figura che gli è apparsa sullo Hiddekel. Cinque volte usa il prefisso ke,
“come”, “simile a” (la seconda volta unito a mar’eh: qfrb f h")r a K: kemar’eh varaq,
: m
letteralmente “come l’aspetto del fulmine”).
Una luce chiara come la luce riflessa da una gemma purissima irradia dal corpo
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CAPIRE DANIELE
7 Io solo, Daniele, vidi la visione; gli uomini ch’erano meco non la vi-
dero, ma un gran terrore piombò su loro, e fuggirono a nascondersi.
Si noti ancora una volta la cura dell’autore di attestare la propria identità: “Io...,
Daniele, vidi la visione” (hf)r
: M a -te) ... l)¢Yné d
a h f yén) f wº wera’itî ’anî dani’el... ’eth
A yityi)r
hammar’ah).
Sulla riva dello Hiddekel Daniele non era solo quando gli apparve il divino
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CAPITOLO 10
Personaggio. Dei comuni mortali erano con lui (sul loro numero, la loro identità
e il motivo della loro presenza in quel tempo, il testo tace). Quegli uomini - dice
Daniele - “non videro la visione”. Non si può percepire il divino con le comuni
facoltà naturali. Occorre una facoltà sovrannaturale, un carisma, per vivere
un’esperienza così alta, un’esperienza che trascende ogni e qualsiasi umana
esperienza.
L’uomo di Dio soltanto ne è dotato, i comuni mortali no. Daniele è un
uomo di Dio. Gli uomini che erano in compagnia di Daniele non videro dunque
quello che Daniele vide, e tuttavia avvertirono una presenza impalpabile, ebbero
la sensazione che una manifestazione misteriosa e minacciosa stava avendo
luogo. Ne furono terrorizzati e d’istinto corsero a nascondersi come per proteg-
gersi da un pericolo incombente.
Un fenomeno analogo avverrà secoli dopo e sarà l’occasione della conver-
sione a Cristo del persecutore Saulo da Tarso (At 9:3-7; 22: 6-9).
9 Udii il suono delle sue parole; e, all’udire il suono delle sue parole,
caddi profondamente assopito, con la faccia a terra.
Tale è l’impatto della potenza emanante dalla maestà divina sul fisico del vec-
chio profeta che egli perde totalmente le forze e si accascia al suolo privo di
sensi ({fD:rén yityéyfh hayiytî nirdam, dal verbo radam, “cadere in un sonno
profondo”: cfr. con Giud 4:21; Sl 76:6; Gion 1:5,6.
In Dn 10:9, come in 8:18, tale voce verbale esprime perdita totale della co-
scienza, cfr. con Ez 1:28 u.p.; 3:23). L’Essere divino che è apparso a Daniele
parla, ma il profeta non distingue le parole che proferisce, soltanto ode “il suono
delle sue parole” (wyfrb : lOq qôl devaraiw, letteralmente “la voce delle sue pa-
f D
role”). Egli è ancora in sé, ma la sua percezione sensoriale si è affievolita, come
quando uno è in stato di dormiveglia. È in quegli istanti che perde conoscenza e
si accascia al suolo.
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CAPIRE DANIELE
Tornato in sé, Daniele sente che una mano è posata sul suo corpo e capisce che
è stato grazie al contatto di quella mano che egli ha ripreso conoscenza, come
se quel contatto gli avesse trasfuso una carica di energia vitale (si confrontino le
esperienze parallele di Ezechiele e di Giovanni: Ez 2:1,2; 3:24; Ap 1:17). Steso
bocconi, il profeta non può ancora scorgere il corpo a cui appartiene la mano
che lo ha toccato, ma si rende conto che un essere sovrumano gli sta accanto.
Le forze ritornano gradualmente come gradualmente erano svanite. Ora egli
è in grado di sollevarsi dalla posizione prona, ma non ancora di rizzarsi sulle
gambe. Per alcuni istanti deve rimanere appoggiato sulle palme delle mani e
sulle ginocchia, gattoni, come i bambini che non camminano ancora.
Adesso può scorgere davanti a sé la figura che lo ha toccato con la mano. È
proprio un essere sovrannaturale, ma non è la Figura sfolgorante che gli ha fatto
perdere i sensi. È un angelo; è l’angelo Gabriele?416
Una voce familiare saluta Daniele con parole affettuose e rassicuranti: “uomo
grandemente amato...”, letteralmente “uomo di delizie”, tOdumAx-$yi) ’îsh cha-
mudôth (chamudôth è lo stesso vocabolo che nel v. 3 è tradotto “desiderabili” o
“deliziosi”). È l’identica espressione con cui Gabriele ha salutato il profeta 3 anni
prima (cfr. 9:23).
Come nell’episodio del cap. 9, la ricerca intensa e perseverante di Dio
nell’umiltà e nella preghiera è stata premiata. Ma in più rispetto a quell’episodio,
stavolta la venuta dell’angelo con un messaggio speciale da parte di Dio è stata
preceduta da una manifestazione personale della Divinità.
Nella prima manifestazione Daniele ha udito il suono di una voce possente
come il rumoreggiare di una moltitudine, ma non ha potuto distinguere le parole
che quella voce ha proferite. Ora è essenziale che egli intenda quanto il messo
celeste sta per rivelargli, perché si tratta di un messaggio di estrema importanza:
“presta attenzione alle parole che io ti dirò” (!yel)
" r"bod yikon)
f re$)
A {yirb
f D
: B f hâ-
a }"bh
ven baddevarîm ’asher ’anokî dover ’eleyka).
Il comando: “rizzati in piedi”, sembra trasfondere nel profeta ulteriori energie:
“ E quando m’ebbe detta questa parola, io mi rizzai in piedi...” Il vegliardo rias-
sume la posizione eretta davanti all’angelo, ma è ancora malfermo sulle gambe.
Quanto è spossante per un essere umano il confronto con la Maestà divina!
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CAPITOLO 10
12 Ed egli mi disse: “Non temere, Daniele; poiché dal primo giorno che
ti mettesti in cuore d’intendere e d’umiliarti nel cospetto del tuo Dio,
le tue parole furono udite, e io son venuto a motivo delle tue parole.
Un uomo di Dio quanto più sia cosciente della propria imperfezione e indegnità
tanto più prova sgomento e confusione nel confrontarsi con la perfezione divina
(vedi Is 6:5). L’angelo deve avere notato il grande disagio del vecchio profeta nel
trovarsi in sua presenza, perciò lo rincuora e lo rassicura chiamandolo per
nome: “Non temere, Daniele...!”.
“Dal primo giorno...”. È di certo un riferimento all’inizio dei 21 giorni di
duolo e di umiliazione (vedi il v. 2). Come abbiamo detto nel commento del v.
2, eventi inquietanti stavano accadendo in quei giorni nella patria lontana dove
da poco erano giunti i primi reduci dall’esilio. Daniele ne era rimasto scosso e
aveva cercato di capire perché succedevano quelle cose. Come già tre anni
prima (cfr. 9:3), si era umiliato davanti al suo Dio - forse confessando ancora
una volta i peccati del suo popolo dei quali si sentiva in qualche modo corre-
sponsabile - e aveva rivolto al Signore fervide suppliche per la sua gente.
Ora egli è messo al corrente dal messaggero di Dio che le sue suppliche
sono state accolte in cielo fin dalle prime battute: “dal primo giorno... le tue pa-
role furono udite...”. “Dio - osserva J.Doukhan - esaudisce anche la preghiera
inespressa, o piuttosto non ancora espressa. Perché non è la preghiera in sé
stessa che è vana, ma è l’illusione che l’intervento dall’alto sia stato provocato
dal peso magico delle parole con le quali la preghiera è stata espressa”417 (La
supplica di Daniele era dunque stata esaudita fin dalle prime parole, ma per tre
settimane intere non era successo nulla che lo facesse supporre. Solo dopo 21
lunghi giorni l’angelo del Signore è venuto per portargli la risposta. Perché que-
sto prolungato indugio?
La risposta è data nel versetto seguente.
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CAPIRE DANIELE
L’inviato del cielo prima di visitare Daniele aveva dovuto svolgere una missione
di grande importanza presso la suprema autorità del regno di Persia le cui deci-
sioni o mancate decisioni avevano inciso negativamente sulle vicende dei Giudei
rimpatriati con Zorobabele determinando quello stato di cose che aveva susci-
tato la perplessità di Daniele.
La spiegazione del ritardo fornita dall’angelo (“Ma il capo del regno di Per-
sia m’ha resistito ventun giorni”) fa supporre che la sua missione si rivelasse più
ardua del previsto. Chi è “il capo del regno di Persia” che si è opposto con tanta
tenacia al messaggero celeste? È da scartare subito la supposizione che sia uno
dei re di Persia ai quali si fa riferimento alla fine del versetto (sfrpf y"kl a malkê
: m
paras). L’angelo dà una qualifica diversa al personaggio misterioso che gli ha re-
sistito: sarPf tUk:lm
a ra& sar malkûth paras, “capo”, o meglio “principe del regno di
Persia”. È pure da respingere l’opinione che il sar malkûth paras fosse un perso-
naggio persiano di sangue reale sconosciuto alla storia. Un essere umano, sia
pure rivestito di autorità, non poteva opporsi con successo a un angelo di Dio,
se si pensa ai poteri sovrumani di cui sono dotati questi agenti celesti (cfr. Is
37:36; At 12:6-10). Solo un essere sovrannaturale può opporre resistenza a un es-
sere sovrannaturale.
Posto che lo stesso termine (sar) qualifica tanto il personaggio celeste che
venne in aiuto dell’angelo ({yéno$)irhf {yir>
f h a l")kf yim mîka’el ’achad hassarîm
a dax)
harishonîm..., “Micael, uno dei primi principi...”) quanto il personaggio che gli
ha resistito 21 giorni, quest’ultimo deve essere stato anch’egli un essere sovran-
naturale. Alcuni commentatori vi hanno visto un angelo celeste protettore del re-
gno di Persia418 e, anche in base a quanto si dice in seguito (v. 20), hanno con-
cluso che i regni della terra sono posti sotto la tutela di angeli buoni. Se fosse
così, bisognerebbe dedurre da questo passo di Daniele che c’è rivalità e contrap-
posizione fra gli angeli di Dio, un’idea che non è suffragata dalla Scrittura e che,
anzi, contrasta con la visione biblica sugli angeli celesti. Si deve perciò conclu-
dere che il sar del regno di Persia che ha contrastato per tre settimane l’angelo
di Dio, fosse un emissario di Satana, un angelo decaduto.
Sar - spiega il S.D.A: Bible Commentary (vol. IV, p. 589) è un “termine che
si ripete 420 volte nell’A.T., mai però col significato di ‘re’. Esso viene riferito ora
a un funzionario reale (Ge 40:2, tradotto ‘capo’), ora a un’autorità locale (1Re
22:20, tradotto ‘governatori’), anche ai capi subalterni di Mosè (Es 18:21, tradotto
appunto ‘capi’). Con quest’ultimo significato il termine compare nell’espressione
sar hassaba’, ‘comandante dell’esercito’ (la stessa espressione tradotta ‘principe
dell’esercito’ in 8:11) in uno degli ostraca di Lakis, una lettera scritta da un uffi-
ciale dell’esercito giudaico al suo superiore, probabilmente all’epoca della con-
quista di Giuda ad opera di Nabucodonosor nel 588-586 a.C., quando Daniele si
trovava in Babilonia...”.
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CAPITOLO 10
“L’essere celeste che apparve a Giosuè presso Gerico è chiamato ‘il capo
(ebr. sar) dell’esercito del Signore’ (Gs 5:14, 15).
ìDaniele usa spesso questo vocabolo con riferimento ad esseri sovrannatu-
rali (Dn 8:11, 25; 10:13, 21; 12:1).
ìSi è supposto, sulla base di queste considerazioni, che sar denoti un essere
sovrannaturale che in quel tempo si contrappose agli angeli di Dio e tentò di
volgere la politica del regno di Persia contro gli interessi superiori del popolo di
Dio. La questione fondamentale era il benessere di questo popolo contrastato
dai vicini pagani. Poiché si dice in appresso che Micael è il ‘principe (sar) che
sta per i figli del tuo popolo’ (12:1), non sembra irragionevole concludere che ‘il
principe del regno di Persia’ fosse un sedicente angelo guardiano di questo po-
polo appartenente in realtà alle milizie dell’avversario” (ibidem, p. 859).
Il punto di vista di H.C.Leupold sull’identità del ‘principe del regno di Per-
sia’ in 10:13, concorda sostanzialmente col commento del S.D.A. Bible Commen-
tary. Scrive questo espositore che in quel punto del libro di Daniele “il riferi-
mento è senza dubbio agli angeli malvagi detti dèmoni nel Nuovo Testamento.
Tali potenze demoniache - aggiunge - nel corso del tempo hanno sviluppato
una forte influenza su certe nazioni e i loro governi fino ad averne il controllo.
Esse hanno messo in atto tutte le risorse possibili allo scopo di ostacolare l’opera
e frustrare i piani di Dio”419. Il conflitto ultraterreno descritto in 10:13 apre una
finestra su un universo spirituale in gran parte sconosciuto che sovrasta il
mondo sensibile e in una certa misura ne influenza gli eventi. Un conflitto tita-
nico che oppone le forze del Bene e del Male in una dimensione cosmica si
svolge al di là e al disopra dei contrasti umani condizionandone in parte gli esiti
specie laddove questi abbiano ripercussioni sull’opera e sul popolo di Dio420.
Nel caso in esame è assai verosimile che l’angelo di Satana, arbitrario “prin-
cipe” spirituale del regno di Persia, esercitasse la sua nefasta influenza sul so-
vrano di questa nazione - Ciro II - allo scopo di impedire la realizzazione del di-
segno divino riguardo alla nazione santa, ovvero il ripristino della vita religiosa
in seno ad essa. La lotta fra l’angelo di Dio e l’emissario di Satana si protrasse
per tutto il tempo del duolo di Daniele, del tutto all’oscuro su questo conflitto fra
angeli: “il capo (sar) del regno di Persia- dice al profeta l’inviato del cielo - m’ha
resistito ventun giorni”. Solo l’intervento di una potestà superiore al fianco
dell’angelo buono ha potuto vincere l’opposizione caparbia dell’angelo malva-
gio: “però, ecco, Micael, uno dei primi capi (o principi), è venuto in mio soc-
corso...” (yénr
" zº (f l
: )fB {yéno$)irh
f {yir&
f h
a dax) i wº wehinneh mîka’el ’achad has-
a l")kf yim h¢Nh
sarîm hari’shonîm ba’le‘azrenî...).
J.Doukhan segnala una possibile traduzione alternativa di questo passo la
quale pone Mika’el al vertice della dignità celeste. Egli dice testualmente: “Il v.
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CAPIRE DANIELE
10 lascia anche capire attraverso l’uso di un superlativo che egli (Micael) è ‘il
primo dei primi capi’ (traduzione letterale), e non ‘uno dei primi capi’ (versione
Ségond). La parola ’achad che si traduce comunemente col numero cardinale
‘uno’ è usata ugualmente col significato del numero ordinale ‘primo’. Quest’ul-
timo senso conviene assai meglio al contesto di questa frase in particolare e del
libro di Daniele in generale”421. -
È la prima volta che compare nel libro di Daniele, e nella Bibbia intera, il
nome proprio Mika’el. Chi è questo personaggio potente che ha piegato la resi-
stenza di un emissario del diavolo?
Per prima cosa si deve volgere l’attenzione al titolo con cui lo di designa
(sar, “capo” o “principe”) non solo in questo punto ma anche in 11:1 (“Micael
vostro capo”) e in 12:1 (“Micael il gran capo”).
Sar, lo abbiamo visto prima, nell’Antico Testamento il più delle volte è ado-
perato per indicare una dignità politica (“principe”) o una carica militare (“capo”,
“comandante”) o un’autorità locale (“governatore”). Ma talvolta è riferito a entità
personali sovrannaturali, come in questo punto del libro di Daniele. Sempre in
Daniele tre volte, come si è appena detto, il titolo “sar” è dato al personaggio
Micael.
In Is 9:5 sar shalom, “principe della pace”, è uno dei titoli riconosciuti al
Messia venturo. Infine in Ap 12:7 si riconosce in Micael che combatte e vince il
gran dragone, il Cristo risorto vittorioso su Satana. I rabbini antichi identificarono
Micael col Messia venturo e col sommo sacerdote officiante nella Sion celeste.422
(Ribadiamo quindi che il principe Micael che ha infranto la resistenza del “prin-
cipe del regno di Persia” altri non è che il Cristo, l’eterno Figlio di Dio423. Mi-ka-
’el nella lingua ebraica è una proposizione interrogativa: “chi è come Dio?” Si co-
glie una sfida in questa interrogazione. Una sfida che nessuno nell’universo è in
grado di raccogliere .
Il senso sembra essere questo: Nessuno è come Dio se non Colui che porta
questo nome, appunto Mika’el. Vinto grazie all’intervento di Micael, l’angelo-av-
versario ha dovuto battere in ritirata. Adesso la corte persiana è sotto il controllo
dell’inviato del cielo: “e io sono rimasto là presso i re di Persia”. Così il Testo
Masoretico. I LXX, seguiti da Teodozione, hanno: “e io l’ho lasciato là (Mi-
cael)...”. Questa espressione è più coerente col contesto immediato.
Infatti dopo l’intervento efficace di Micael, l’angelo ha lasciato la corte per-
siana ed è andato da Daniele il ventunesimo giorno del suo cordoglio. Per que-
sto motivo varie versioni moderne hanno preferito seguire il testo greco. Così,
fra altre, le anglosassoni Revised Standard Version, Moffatt e Goodspeed, e fra le
italiane le versioni della C.E.I., della Bibbia Concordata e di G.Bernini.
Ellen G.White accredita in un manoscritto inedito questa versione del parti-
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CAPITOLO 10
colare del racconto. Ella dice testualmente: “... Michael venne in suo aiuto, poi
rimase presso il re di Persia per tenere in scacco le forze del male opponendo
buoni consigli ai cattivi”424
H.C.Leupold, sulla scorta del testo ebraico che recita alla fine del v. 13: “e
io sono rimasto là presso i re di Persia (malkê parâs)”, osserva che è implicita-
mente assicurata per gli anni a venire la presenza attiva degli agenti celesti
presso la corte persiana onde il popolo di Dio goda anche in futuro il favore dei
sovrani di quella nazione425.
14 E ora sono venuto a farti comprendere ciò che avverrà al tuo po-
polo negli ultimi giorni; perché è ancora una visione che concerne
l’avvenire”.
L’emissario del cielo (con tutta probabilità l’angelo Gabriele) rivela adesso a
Daniele lo scopo della sua venuta. Egli ha l’incarico di fargli capire (!ºnyibAhal
lehavîneka) quel che avverrà al suo popolo “negli ultimi giorni” ({yimYæ h a tyirx
A )
a B
:
be’acharith hayyamîm, la frase può anche tradursi “alla fine dei giorni” o “nella
parte estrema dei giorni”). Frequente negli oracoli dei profeti, e presente anche
negli scritti neotestamentari, l’espressione indica ora la parte finale di un periodo
di tempo o di un’epoca (cfr. Is 2:2; Gr 30:24; 48: 47; 49: 39; Os 3:5; At 2:17; Eb
1:2), ora il tempo del secondo avvento di Cristo e del giudizio (cfr. Os 2:28;
2Tm. 3:1; 2Pie 3:3, e al singolare Gv 6:40; 11:24; 12:48). In Dn 10:14 l’espres-
sione “gli ultimi giorni” si riferisce all’ultimo periodo della storia umana prima
del giudizio.
Per “farti comprendere ciò che avverrà al tuo popolo...”: con questa precisa-
zione è fissato il contenuto della rivelazione che Daniele sta per ricevere (“tuo
popolo” sulla bocca dell’angelo si riferisce all’Israele storico nell’immediato, e al
popolo di Dio della Nuova Alleanza nella prospettiva escatologica). La vicenda
storica del popolo di Dio presente e futuro sarà il centro focale della profezia,
una profezia proiettata molto in avanti nel tempo: “è ancora una visione che
concerne l’avvenire”, letteralmente “è ancora una visione per i giorni” ({yimYæ l
a }Ozfx
dO( ‘od chazôn layyamîm) o, come traducono varie versioni (C.E.I., T.O.B., Con-
cordata) “per quei giorni”, cioè per “gli ultimi giorni”. L’enfasi è posta sulla parte
finale del tempo futuro che sarà oggetto di rivelazione.
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CAPIRE DANIELE
Il piegarsi del capo verso il basso e la perdita della favella sono i segni di
un forte malessere fisico: un nuovo deliquio sta per cogliere il vecchio profeta.
La forte emozione che le parole dell’angelo gli hanno procurato (“mentr’egli mi
rivolgeva queste parole”) sta fiaccando la sua già provata resistenza fisica.
Con tipico stile orientale, Daniele parla all’inviato del cielo con la deferenza
dovuta al suo rango, e gli spiega la ragione per la quale non aveva potuto arti-
colare parola: le forze lo hanno quasi del tutto abbandonato al punto che egli
non è stato più in grado di far funzionare con regolarità i muscoli toracici per in-
trodurre aria nei polmoni ed espellerla (i sintomi del grave malessere sono de-
scritti con precisione).
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CAPITOLO 10
Col precedente tocco delle labbra l’inviato di Dio aveva reso al profeta la
capacità di articolare di nuovo le parole, ma la sofferenza e la grande debolezza
fisica permangono. Adesso l’angelo posa ancora una volta la mano su di lui ed
egli sente che le forze ritornano (“mi toccò di nuovo e mi fortificò”), come se da
quel contatto egli ricevesse una carica di energia vitale. Daniele vede tuttora l’an-
gelo nell’aspetto umano: “colui che aveva la sembianza d’uomo”, nell’originale
{fd)
f h")r a K: yiB bî kemar’eh ’adam, “colui che aveva apparenza d’uomo” (mar’eh
: m
appare chiaramente nell’accezione di “aspetto”, “apparenza”).
Per la seconda volta l’inviato del Signore rivolge all’uomo Daniele il saluto affet-
tuoso e rassicurante: “O uomo grandemente amato, non temere!” (tOdumx A $yi)
)fryiT-la) ’al tîra’ ’îsh chamudôth, “non temere o uomo prediletto”, letteralmente
“di predilezione”); e aggiunge l’augurio di pace: |fl {Olf$ shalôm lake, e un inco-
raggiamento ripetuto due volte: qæzx A chazaq wachazaq, che alcune versioni
A wá qázx
traducono con due verbi distinti “fortificati e rinfrancati !”.
Nelle parole dell’angelo - osserva H.C.Leupold - c’è una triplice enfasi:
“Non temere”, “Pace a te”, “Sii forte”, rafforzata dal saluto affettuoso già rivolto in
precedenza: “O uomo prediletto”. “In aggiunta al tocco fisico che fortificò il
corpo - commenta questo autore - ci fu la parola confortante che fortificò il
cuore e la mente”427.
L’effetto delle parole incoraggianti dell’angelo è stato immediato: il ricupero
delle forze è stato rapido e completo: “E quand’egli ebbe parlato meco, io ripresi
forza”. Ora Daniele è pienamente in grado di ascoltare la rivelazione che il
messo celeste ha da fargli: “Il mio signore parli, perché tu mi hai fortificato”.
“Animato da un forte interesse per la rivelazione, Daniele era tanto ansioso
di ascoltare quanto l’angelo di istruire” (Leupold).
Il racconto particolareggiato del malessere di Daniele tra l’interruzione e la
ripresa delle spiegazioni dell’angelo, così come i ripetuti riferimenti agli inter-
venti di costui per mettere il profeta in condizione di ascoltare, sono indici della
estrema importanza di ciò che sta per essere rivelato al profeta.
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CAPIRE DANIELE
La domanda può sembrare fuori luogo, giacché il soggetto parlante aveva già
dato due motivazioni alla sua venuta: una prima nel v. 12: “sono venuto a mo-
tivo delle tue parole”, e una seconda nel v. 14: “sono venuto per farti compren-
dere ciò che avverrà al tuo popolo”. Può anche sembrare strano che alla do-
manda non segua né una risposta dalla parte di chi ascolta, né una spiegazione
dalla parte di chi parla. In realtà non c’è niente di strano in tutto questo.
Data la condizione di crescente sofferenza e debolezza fisica dell’ascoltante,
era del tutto possibile che questi non avesse potuto seguire fino in fondo quanto
gli era stato detto. Una domanda intesa a sincerarsene, da parte di chi ha par-
lato, era perciò assolutamente logica e appropriata, tanto più che a quel discorso
interrotto quasi appena iniziato doveva adesso collegarsi la rivelazione vera e
propria. Un cenno di assenso dell’ascoltante può avere rassicurato l’interrogante
che adesso può riprendere tranquillamente il discorso interrotto. L’angelo (v. 14)
stava parlando della sua missione presso la corte di Persia per contrastare l’in-
fluenza su quella corte dell’angelo di Satana, un’influenza nefasta per il popolo
di Daniele; e stava accennando all’intervento risolutivo di Micael in questo con-
flitto ultraterreno quando ha dovuto interrompersi per il malore che ha colto il
suo interlocutore. Ora che Daniele è in condizione di ascoltare, riprende il di-
scorso da questo punto.
Col sostegno del Principe Micael, dunque, l’estenuante confronto con l’an-
gelo del male si era risolto felicemente, ma l’avversario, temporaneamente bat-
tuto, di certo non si darà per vinto. Urge pertanto che colui che parla a Daniele
ritorni presso il re di Persia per riprendere la lotta: “Ora torno a combattere col
principe di Persia”, sfrPf ra&-{i( {"xL
f h : bU$f) hfT(a wº we‘attah ’ashûv lehillachem ‘im
i l
sar paras428. Chiaramente si prospetta un nuovo conflitto con l’emissario di Sa-
tana, un conflitto destinato a prolungarsi molto al di là del tempo nel quale Da-
niele riceve questa rivelazione (sui riflessi di siffatto conflitto nella storia poste-
riore d’Israele, vedi Ed 4: 4-5, 24; 6-23).
In sostanza l’angelo rivelatore fa capire a Daniele che la lotta durerà finché
la Persia non sarà soppiantata dalla Grecia: “e quando uscirò a combattere ecco
che verrà il capo di Javan” (ossia il principe di Grecia).
428 - Il testo ebraico può sembrare ambiguo, giacché la preposizione ‘im (“con”) può essere
compresa sia nel senso di un’alleanza (“al fianco di”) sia nel senso di una contrapposizione
(“contro”). Alla stessa incertezza può dar luogo la preposizione meta nella versione greca del
passo (su meta nel senso di “insieme con”, “accanto a” vedi Gv 1:3 e Ap 2:16). Il verbo
ebraico lâchâm, “combattere”, seguito dalla preposizione ‘im, come in questo passo di Da-
niele, ritorna 28 volte nell’Antico Testamento col senso evidente di “combattere contro” che
emerge dal contesto (cfr. De 20:4; 2Re 13:12; Gr 41:12; Dn 11:11). In Dn 10:20 lehillachem
‘im ha sicuramente questo senso (vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 861).
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CAPITOLO 10
L’ebraico recita: )fB }æwyæ -ra& h¢Nh A wá wa’anî yotze’ wehinneh sar yawan
i wº )"cOy yén)
ba’, letteralmente: “quando uscirò, il principe di Yavan verrà” (è sottinteso
“quando uscirò dal conflitto”, cioè “quando avrò abbandonato la lotta”).
La Concordata rende bene il senso dell’originale: “... e quando sarò uscito
da questa lotta, ecco che verrà il principe di Grecia”. In sostanza l’angelo sta di-
cendo a Daniele che quando egli avrà abbandonato la lotta col “principe di Per-
sia”, allora si farà avanti un altro avversario, un nuovo angelo di Satana, un sedi-
cente protettore del regno di Grecia. È implicito che anche questi agirà sui nuovi
egemoni del mondo per ostacolare il cammino del popolo di Dio.
“L’angelo - commenta il S.D.A. Bible Commentary - aveva notificato a Da-
niele che sarebbe tornato a riprendere la lotta contro le forze tenebrose che agi-
vano con l’intento di dominare la mente del re di Persia. Poi spinse lo sguardo
nel futuro e anticipò che quando infine egli abbandonerebbe la lotta, ne segui-
rebbe uno sconvolgimento nelle vicende politiche del mondo. In effetti finché
l’angelo di Dio trattenne le forze del male intenzionate ad esercitare il loro domi-
nio sul governo persiano, questo impero sussistette. Ma non appena si ritrasse
l’influsso divino e le forze delle tenebre esercitarono il loro dominio incontra-
stato su questa nazione, in breve ne seguì la rovina. Le milizie greche condotte
da Alessandro scorsero la terra e in breve volgere di tempo estinsero l’Impero
Persiano.
“La verità che l’angelo ha dichiarato in questo versetto illumina la rivela-
zione che seguirà. La profezia successiva, la quale prospetta un susseguirsi di
guerre, assume grande significato quando la si comprende alla luce di quello
che l’angelo ha detto in questo punto. Mentre gli uomini si battono tra loro per
la conquista del potere terreno, al di là di siffatto scenario e nascosto agli sguardi
umani, si svolge un conflitto ancora più gigantesco di cui sono un riflesso il
fluire e rifluire degli eventi umani429. Come il popolo di Dio, stando a quel che è
rivelato, è protetto nel corso della sua storia travagliata descritta profeticamente
da Daniele, così è certo che in questo conflitto più gigantesco, le legioni della
luce prevarranno sulle forze delle tenebre”430.
21 Ma io ti voglio far conoscere ciò che è scritto nel libro della verità;
e non v’è nessuno che mi sostenga contro quelli là tranne Micael vo-
stro capo.
Capitolo 11 1 E io, il primo anno di Dario, il Medo, mi tenni presso di lui
per sostenerlo e difenderlo.
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CAPIRE DANIELE
lamentare che una infelice divisione del testo viene a complicare ulteriormente
la difficoltà. In conseguenza di questo taglio malaccorto del testo metà di un di-
scorso continuativo è andata a concludere il cap. 10 e l’altra metà è andata a in-
trodurre il capitolo seguente.
Avendo finora parlato del conflitto invisibile che lo ha opposto al “principe
del regno di Persia”, l’angelo sembra volere adesso lasciare da parte questo di-
scorso, che è secondario rispetto alla rivelazione capitale che ha da fargli: “Ma io
ti voglio far conoscere ciò che è scritto nel libro della verità...” La straordinaria ri-
velazione sarà tratta dal libro di Dio che è assolutamente attendibile (“nel libro
della verità”, tem) i biktav ’emeth).
E bftk: B
H.C.Leupold osserva che l’avversativo ’aval (“nondimeno”) che apre il ver-
setto è più forte del semplice “ma”, e aggiunge che l’uso di esso va notato in
quanto l’ebraico adopera di rado gli avversativi, valendosi correntemente della
congiunzione waw (“e”) con funzione avversativa. Quell’’aval, insomma, sottoli-
neerebbe la maggiore importanza di ciò che resta da dire rispetto a ciò che è
stato detto. E tuttavia è necessario aggiungere un pensiero supplementare a quel
che è stato detto in merito al conflitto tra angeli, allo scopo di prevenire frainten-
dimenti possibili sulla partecipazione di questi esseri celesti a siffatti conflitti. E’
necessario aggiungere che un solo essere celeste, Micael, lo ha sostenuto e lo
sosterrà ancora nel conflitto che incombe. Non perché il cielo se ne disinteressi -
aggiungiamo noi - ma perché le risorse congiunte di Gabriele e Micael sono più
che sufficienti.
Riassumendo: prima dell’annunciata rivelazione (“ti mostrerò ciò che è
scritto nel libro della verità”), l’angelo torna per un momento sul discorso prece-
dente per fare una puntualizzazione necessaria sugli angeli buoni che prendono
parte al conflitto spirituale contro gli angeli cattivi.
“Vostro principe”, {ekr a sarkem: così l’angelo caratterizza Micael parlando
: &
con Daniele. Se i regni pagani di Persia e di Grecia hanno (e avranno) un protet-
tore fraudolento nella persona di un angelo infernale, Israele è posto sotto la tu-
tela dell’augusto Principe del cielo.
Alludendo alla lotta tuttora in corso, l’angelo identifica l’avversario con un
pronome al plurale: heL) " ’elleh, “costoro”. Egli aveva detto a Daniele che finita la
lotta contro il “principe di Persia”, subentrerebbe nel conflitto il “principe di Gre-
cia”. L’avere Gabriele usato il pronome plurale in riferimento alla parte avversa
in un conflitto che non è finito, implica che egli combatterà anche contro il ven-
turo “principe di Grecia” ed avrà ancora il sostegno di Micael.
A questo punto l’emissario del cielo volge verso il passato l’attenzione del
suo attento interlocutore, gli rivela che egli ha già svolto un’azione di sostegno
verso un leader terreno, presumibilmente anche in quell’occasione per proteggere
i santi del Signore: “il primo anno di Dario il Medo, mi tenni presso di lui per so-
stenerlo e per difenderlo”; difenderlo da chi se non da uno spirito malvagio?
Era anche il primo anno di Ciro, il fatto risale dunque a due anni prima.
Grammaticalmente l’espressione “presso di lui”, yidm : (f ‘amdî, come pure le
voci verbali “per sostenerlo e per difenderlo”, zO(fm:lU qyézAxam:l lemachazîq
ulema‘ôz”, possono riferirsi tanto a Dario il Medo quanto a Micael menzionato
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CAPITOLO 10
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CAPIRE DANIELE
Capitolo 11
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CAPITOLO 11
rali vi identificano, sino alla fine del capitolo, la figura storica di Antioco Epifane
(è un punto di vista non recente e non originale giacché, come si è detto altrove
in questo commentario, esso ricalca - e non solo qui - un’opinione (quella del
neoplatonico Porfirio) vecchia di quasi diciotto secoli. Sia pure con qualche va-
riante, questa è in generale la scelta interpretativa della maggioranza dei com-
mentatori contemporanei di Daniele.
Gli antichi interpreti della Chiesa - dei quali si fece portavoce Girolamo nel
suo commentario - videro nella parte centrale di questo cap. 11 “l’Anticristo che
verrà alla fine del tempo”, seppure adombrato tipologicamente nella figura peral-
tro secondaria di Antioco IV.
Nel tempo attuale gli espositori conservatori di Daniele ammettono in gene-
rale la presenza di Antioco nel cap. 11, ma gli assegnano un ruolo limitato.
Alcuni soltanto come personaggio storico, altri come figura storica e nel con-
tempo tipo dell’Anticristo finale. Altri infine - e fra questi i nostri - scorgono nella
figura dominante della seconda metà del capitolo un anticristo storico, come si è
accennato sopra. Si deve comunque dire che fra gli interpreti avventisti di Da-
niele non c’è stata e tuttora non c’è una completa identità di vedute riguardo al
punto del cap. 11 a partire dal quale si dovrebbe identificare l’Anticristo storico
(ne riparleremo nel corso del commento). Intanto, a titolo di esemplificazione, ri-
portiamo di seguito, in una sintesi schematica, i pareri di 4 autori contemporanei
sull’identità dei personaggi storici ai quali alluderebbe Daniele in questo capitolo
undicesimo del suo libro.
v. 2: i re di Persia
vv. 3 e 4: Alessandro Magno e i Diadochi
v. 5: Tolomeo I Sotere e Seleuco I Nicatore
v. 6: Tolomeo II Filadelfo, Antioco I Sotere e Antioco II Theo
v. 7: Tolomeo III Evergete, Seleuco II Callinico, Seleuco III Cerauno
v. 10: Antioco III il Grande e Tolomeo IV Filopatore
v. 14: Tolomeo IV Epifane
v. 20: Seleuco IV Filopatore, Tolomeo VI Filometore
vv. 21-39: Antioco IV Epifane
vv. 40-45: tempo della fine (sulla linea di alcuni Padri)
v. 2: i re persiani
vv. 3 e 4: Alessandro il Grande
v. 5: Tolomeo I Sotere e Seleuco I Nicatore
v. 6: Tolomeo II Filadelfo, Berenice sua figlia e Antioco II Theo
v. 7: Tolomeo III Evergete e Seleuco II Callinico
v. 8: Seleuco II Callinico
v. 9: incerto
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CAPIRE DANIELE
Ora che Daniele ha ricuperato le sue forze ed è in grado di tenersi in piedi da-
vanti all’angelo e di ascoltarlo, questi gli farà conoscere “la verità” (ebr. íemeth)
o, come aveva detto prima (10:21), “ciò che è scritto nel libro della verità”, vale a
dire gli eventi non ancora accaduti che sono registrati nel libro di Dio e che con
infallibile certezza si realizzeranno (è in questo senso, cioè nel senso di qualcosa
che avverrà con assoluta sicurezza, che devesi intendere la “verità” che il mes-
saggero di Dio si appresta a svelare al profeta).
La rivelazione esordisce con un accenno alla successione dinastica nel re-
gno di Persia per i prossimi decenni: “Ecco, sorgeranno ancora in Persia tre re;
poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri...”. Sulla identità di questi
regnanti i pareri dei commentatori non sono concordi, ma i più vi ravvisano gli
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CAPITOLO 11
immediati successori di Ciro431 e noi siamo su questa linea. Quando Daniele ri-
cevette questa rivelazione, da un paio d’anni regnava sulla Persia Ciro il Grande.
I tre primi successori furono suo figlio Cambise II (529-522 a.C.), l’usurpatore
Gaumata, o pseudo Smerdis (522) e Dario I figlio di Istaspe, restauratore della
dinastia (522-585). Il quarto fu Serse I il Grande, figlio di Dario I (485-465). Noi
propendiamo per questo ordine di successione principalmente per il fatto che
nessuno dei re persiani risponde quanto Serse I alla descrizione del quarto re
fatta dall’angelo: “poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri; e
quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti contro il regno di
Javan”.
Sullo splendore della corte imperiale di Serse in Susa ha un accenno il libro
di Ether in 1:1-7 dove questo personaggio eccentrico compare col nome ebrai-
cizzato di Assuero. D’altronde è nota alla storia l’opulenza eccezionale dei re di
Persia. Secondo la tradizione greca Alessandro s’impadronì dei 40.000 talenti
d’oro (pari a 1200 tonnellate!) del tesoro dei re di Persia quando conquistò Susa.
E ancora quantità ingenti di oro portò via dalle altre città reali persiane432.
Erano tali le ricchezze di Serse che quand’egli condusse la poderosa e di-
spendiosissima spedizione militare del 480 a.C. contro la Grecia, secondo quanto
narra Erodoto (VII. 29, 30), non solo rofiutò l’offerta che gli fece un uomo di Li-
dia - un cero Pitio - del suo tesoro privato per concorrere alle ingenti spese di
guerra, ma egli stesso fece dono al generoso ospite lidio di 7000 statèri d’oro per
accrescere quel suo patrimonio.
Ancor più il riferimento dell’angelo rivelatore a una grande campagna mili-
tare contro la Grecia ci sembra avvalorare l’identificazione con Serse il Grande
del quarto re che “solleverà tutti contro il regno di Javan”.
Riguardo alla dimensione dell’esercito mobilitato da Serse per conquistare
la Grecia, lo storico di Alicarnasso dice: “A qual numero ascendesse il contin-
gente di soldati che formavano i singoli popoli, non posso dire con esattezza
(...) ma nel suo insieme l’esercito di terra risultò di 1.700.000 unità” (VII. 60). An-
che se la cifra appare esagerata, è comunque certo che quella di Serse fu un’ar-
mata di tutto rispetto433.
I soldati provenivano dalle contrade più disparate dell’Asia e del Bacino
orientale del Mediterraneo: Erodoto (VII. 72-80) annovera ben 43 etnie, senza
contare i persiani e le popolazioni isolane. Verso le sponde della Grecia veleg-
giò nel contempo una flotta di 1207 triremi che avevano fornito al Gran Re i fe-
431 - Così già Girolamo nel suo commentario (vedi su 11:2). Quanto ai contemporanei, cfr.
S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 864; G. RINALDI, Daniele, p. 141; H.C.LEUPOLD, Exposition of
Daniel, pp. 476-477; A.C.GAEBELEIN, Il profeta Daniele, p. 181.
432 - Cfr. ALAN MILLARD, Archeologia e Bibbia, p. 142.
433 - Gli storici moderni valutano a circa 200.000 il numero dei combattenti dell’esercito di
Serse il Grande in questa circostanza
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nici, i siri, gli egiziani, i ciprioti, i cilici, i dori asiatici, i carii, gli ionii, gli eoli e gli
abitanti delle isole e dell’Ellesponto. Al seguito della flotta da battaglia naviga-
rono 3000 imbarcazioni da carico fra grandi e piccole per trasportare i cavalli e
le vettovaglie” (ibidem, VII. 89-97).
Come non scorgere la realizzazione storica della profezia - “solleverà tutti
contro il regno di Javan”- in questa forza poderosa e multietnica lanciata contro
le città libere della Grecia ? L’esito della spedizione fu disastroso per i Persiani,
come ci hanno tramandato gli storici antichi, ma questo andava al di là degli
scopi della profezia, perciò essa non vi accenna. Il riferimento iniziale ai re di
Persia era un elemento marginale della rivelazione; esso serviva solo da pream-
bolo agli sviluppi successivi.
Sembra di poter cogliere nella laconicità di questa sentenza profetica una premo-
nizione sulla durata effimera dell’impero di Alessandro. In effetti questo si di-
sgregò una ventina d’anni dopo la morte prematura del suo fondatore, quando
quattro generali del Macedone se ne spartirono l’immenso territorio.
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Nel cap. 7 questa circostanza è stata anticipata con la figura di 4 teste sul
corpo di un leopardo che rappresentava appunto la Grecia, e nel cap. 8 col sim-
bolo di 4 corna spuntate sulla fronte di un capro (immagine dell’Impero mace-
done) dopo che era caduto un singolo grande corno (figura di Alessandro).
Nel cap. 11 tale evento è preannunciato per la terza volta e stavolta non più
in simboli ma con linguaggio chiaro: “il suo regno (il regno di Alessandro) sarà
infranto, e sarà diviso verso i quattro venti del cielo” (ritorna l’espressione “verso
i quattro venti del cielo” già apparsa in 8:8, cfr. il commento di 7:6 e di 8:20-22).
In 11:4 si sentenzia, come già era stato detto in 8:22 u.p., che i regni sorti dalla
disgregazione dell’impero non avrebbero avuto la forza di quello. In effetti nes-
suno dei regni ellenistici eguagliò mai l’impero unito sotto la guida di Alessandro
per la forza travolgente delle sue armate.
In questo versetto del cap. 11 compare un dettaglio riguardo al trapasso
della sovranità nell’impero greco che manca nella profezia parallela del capitolo
ottavo: si dice che il dominio passerebbe in altre mani e non in quelle dei diretti
discendenti del re potente mentovato nel versetto che precede. Fu esattamente
quello che avvenne nella Storia. Non il figlio di Alessandro, non il fratello raccol-
sero l’eredità del Macedone, ma i suoi generali.
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Egli fu il capostipite della dinastia dei Lagidi o tolemaica che governò l’Egitto
fino alla conquista romana nel 30 a.C.
“Uno dei suoi capi”, ebr. sarîm, “capi militari”: è Seleuco I Nicatore,
anch’egli generale di Alessandro. Costretto nel 316 da Antigono Monoftalmo (al-
tro comandante militare del gran re scomparso) a lasciare Babilonia dove si era
installato fin dal 321, Seleuco trovò amichevole accoglienza presso Tolomeo di
cui divenne un ufficiale subalterno. Nel 312, con l’appoggio di Tolomeo, Seleuco
sconfisse a Gaza Demetrio, figlio di Antigono. Poco tempo dopo riprese pos-
sesso della Babilonide e nel 305 si autoproclamò re di gran parte del settore
asiatico di quello che era stato lo sterminato impero di Alessandro.
“... ma uno dei suoi capi diventerà più forte di lui”. Il riferimento è ancora a
Seleuco Nicatore. Dopo avere consolidato il suo dominio sui territori dell’Est, ef-
fettivamente Seleuco divenne più forte di Tolomeo. Secondo lo storico Arriano,
Seleuco Nicatore fu “il più grande dei re che succedettero ad Alessandro, fu la
mente più sagace e regnò sul territorio più vasto dopo quello di Alessandro”434.
Alla sua morte avvenuta nel 280 a.C., i domìni sui quali egli aveva regnato si
estendevano dall’Ellesponto fino al nord dell’India.
6 E alla fine di vari anni, essi faranno lega assieme; e la figliuola del
re del mezzogiorno verrà al re del settentrione per fare un accordo;
ma essa non potrà conservare la forza del proprio braccio, né que-
gli e il suo braccio potranno resistere; e lei e quelli che l’hanno con-
dotta, e colui che l’ha generata, e colui che l’ha sostenuta per un
tempo, saran dati alla morte.
434 - Anabasi di Alessandro, VII. 22, da S.D.A. Bible Commentary, vol. VII, p. 866.
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“... ma essa non potrà conservare la forza del proprio braccio...” (ebr.: (a OrºZh a
x a -)olwº welo’ ta‘tzor kôach hazzerôa‘, “ma ella non riterrà la forza del suo
a OK roc(: t
braccio...”). Dopo che nacque un figlio alla nuova coppia ci fu una riconcilia-
zione fra Antioco e Laodice. In seguito Antioco morì repentinamente, sembra av-
velenato da Laodice.
“... né quegli né il suo braccio potranno resistere...” (ebr.: O(orzº U dom(A yá )olwº
welo’ ya’amod uzro‘ô, letteralmente: “e non resisterà il suo braccio...”. Varie ver-
sioni antiche (Teodozione, Simmaco, Vulgata) con un semplice cambio di vocali
hanno letto: “e non sussisterà il suo seme”, ovvero la sua discendenza435. Sta di
fatto che Laodice, dopo la morte di Antioco, fece assassinare il figlio nato da
quest’ultimo e da Berenice.
“... e lei, e quelli che l’hanno condotta, e colui che l’ha generata; e colui
che l’ha sostenuta per un tempo saran dati alla morte” (ebr.: {yiT(i B f Hfqzé x
A m
a U Hfdl
: oYh
a wº
fhye)yib:mU )yih }"tæNitºw wethinnathen hi’ umvî’eyhâ wehayyoldah umachaziqâh
ba‘iththîm, lett.: “e sarà data (a morte) lei e il suo seguito e il suo genitore e co-
lui che l’avrà sostenuta in quel tempo”). Laodice fece mettere a morte la rivale
Berenice e con lei il figlio e le ancelle che l’avevano seguita in Siria. La parola
ebraica yoldah secondo la tradizione masoretica significa “colui che l’ha gene-
rata”. Tolomeo II morì in Egitto dopo gli eventi funesti accaduti in Siria. Non si
capisce perché la sua fine sia fatta risalire a Laodice. Un semplice cambio di vo-
cali consentirebbe di leggere il termine ebraico: “colui che ella ha generato”.
Così traducono varie versioni moderne. Per esempio la TOB: “son enfant”, la
Concordata: “suo figlio”, la CEI: “il figlio”.
La frase finale: “colui che l’ha sostenuta in quel tempo”, si riferisce probabil-
mente ad Antioco Theo.
La seconda parte del versetto nel testo della CEI ci sembra più chiara che in
altre versioni: “... e non resisterà né lei né la sua discendenza e sarà condannata
a morte insieme coi suoi seguaci, il figlio e il marito”. In definitiva il passo dice
che per volere di Laodice sarebbero periti Berenice, il suo seguito egiziano, suo
figlio e suo marito.
L’ebraico dice lett.: “Sorgerà un germoglio dalle sue radici al posto suo...” (ONaK
h
f ye$r
f $ i dam(f wº we‘amad minnetzer sharasheyah kannô...).
f recN¢ m
Il “germoglio” è Tolomeo III Evergete figlio di Tolomeo II Filadelfo (“dalle
sue radici”) e fratello della assassinata Berenice.
“...verrà all’esercito (cioè marcerà contro l’esercito), entrerà nelle fortezze
del re del settentrione...” Salito al trono d’Egitto alla morte del padre nel 246
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a.C., Tolomeo III si precipitò con le sue truppe in Siria per salvare la sorella, ma
vi giunse troppo tardi. Per vendicarla scorrazzò attraverso i vasti territori del re-
gno seleucida, si spinse fino a Babilonia e nella Battriana, occupò la Cilicia e la
città di Seleucia (la “fortezza del re del settentrione”, identificato col giovane Se-
leuco II Callinico figlio di Laodice e di Antioco II Theo).
436 - J.P.MAHAFFY, A History of Egypt Under the Ptolemaic Dynasty, New York, 1899, p. 13, cit.
in S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 867).
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“... i suoi figlioli”, vale a dire i due figli di Seleuco II Callinico, Seleuco III Ce-
rauno e Antioco III il Grande. Alla morte di Seleuco II nel 226, gli succedette il
figlio maggiore Seleuco III il quale però non regnò che per pochi anni, essendo
stato ucciso nel 229 mentre accorreva in Asia Minore per difendere i suoi posse-
dimenti minacciati da Attalo re di Pergamo.
“... l’un d’essi si farà avanti, si spanderà come un torrente e passerà oltre...”.
Costui è Antioco III succeduto al fratello Seleuco III. Nel 219 Antioco III iniziò le
ostilità a sud della Siria. Occupò la Celesiria, assediò Sidone e invase la Palestina
passando successivamente in Transgiordania.
“... e spingerà le ostilità sino alla fortezza del re del mezzogiorno. Nel 217
Antioco il Grande alla testa di un esercito di 60.000 fanti, 6.000 cavalieri e 102
elefanti secondo lo storico Polibio marciò su Rafia, a sud-ovest di Gaza (“la for-
tezza del re del mezzogiorno”).
Fra gli anni 212 e 204 Antioco III dedicò le sue energie al ricupero dei territori
orientali che a seguito della fortunata campagna militare di Tolomeo III (vedi v.
8), erano passati sotto la sovranità dell’Egitto. Antioco portò le sue truppe fino ai
confini dell’India (gli storici antichi hanno chiamato “Anabasi” questa spedizione
del Seleucide nell’Oriente durata 6 o 7 anni).
Conclusa con successo questa campagna nell’est, Antioco III preparò con
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gran cura una nuova spedizione contro l’Egitto. Intorno al 203 a.C. il re Tolomeo
IV e la regina perirono misteriosamente e sul trono dei Làgidi fu posto il loro fi-
glioletto di 5 o 6 anni, Tolomeo V Epifane. Antioco stimò che fosse il momento
giusto per una nuova offensiva al sud.
“... in capo a un certo numero d’anni...”: probabilmente è un riferimento ai
16 anni circa (217-201) che trascorsero tra la disastrosa battaglia di Rafia e la se-
conda spedizione contro l’Egitto.
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437 - Per informazioni più particolareggiate sulle esperienze dolorose dei giudei in quegli anni
infausti, vedi I Maccabei 1 e 2 e GIUSEPPE FLAVIO, Antichità, XII, 6,7; Guerre, I, 1.
438 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 868-869.
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16 E quegli che sarà venuto contro di lui farà ciò che gli piacerà, non
essendovi chi possa stargli a fronte; e si fermerà nel paese splen-
dido, il quale sarà interamente in suo potere.
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Nella caduta e scomparsa del re del nord si ravvisa la morte violenta di Giulio
Cesare avvenuta nel marzo del 44 a.C.
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CAPIRE DANIELE
“...un esattore di tributi...” Il S.D.A. Bible Commentary spiega: “ebr. &" gOn ryib(A m
a
ma‘avîr noges, lett. ‘uno che fa circolare un oppressore’. Il participio noges, dal
verbo nagas, ‘opprimere’, ‘riscuotere’, è usato in Es 3:7 a proposito degli ‘anga-
riatori’ egiziani, e in Is 9:4 è riferito ad oppressori stranieri.
Il passo allude pertanto a un re che avrebbe mandato degli oppressori o
esattori attraverso i suoi domìni. Molti espositori hanno scorto qui un riferimento
a un esattore di tributi, una figura che all’uomo medio antico appariva come l’in-
carnazione dell’oppressione regia. In Lc 2:1 si dice che ‘in quei dì avvenne che
un decreto uscì da parte di Cesare Augusto, che si facesse un censimento di
tutto l’impero...’ Ad Augusto, successore di Giulio Cesare, si attribuisce la fonda-
zione dell’Impero romano; egli morì in pace nel proprio letto nel 14 a.D. dopo
più di 40 anni di regno”440.
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CAPITOLO 11
“...le forze che inonderanno...”, ebr. ve+< a tO(orzº U ûzero’ôth hashshettef, lett. “le
e h
braccia dell’inondazione”. “Braccia” esprime il concetto di “forza”, e in questo
passo in particolare della forza militare (cfr. i vv. 6 e 15).
E’ l’immagine di un esercito che si spande a guisa di un fiume che straripa
(cfr. 9:26). Tiberio condusse vittoriosamente varie campagne militari in Germa-
nia, e nell’Oriente sulle frontiere dell’Armenia e della Partia.
“... un capo dell’alleanza”, tyir:B dyigºn negîd berîth, “un principe dell’al-
leanza”. È identico al Principe (nagîd) che confermerà il patto (berith) in 9:25-27
(cfr. 8:11). È chiaro dal cap. 9 che si tratta del Messia, Gesù Cristo. Fu sotto il re-
gno di Tiberio (14-37 a.D.) e sotto il governo del suo procuratore in Giudea
Ponzio Pilato, che Gesù subì il supplizio della croce nell’anno 31.
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“...per un certo tempo...”, ebr. t"(-da( ‘ad ‘eth, “fino ad un tempo...”. L’espressione
denota un limite di tempo al di là del quale cesserebbero gli espedienti messi in
atto dal potere qui descritto. Il vocabolo ‘eth non sembra riferirsi ad un periodo
temporale specifico o a un arco di tempo profetico. In 4:16 e in 7:25 il termine
tradotto “tempi” è l’aramaico ‘iddanin, e in 12:7 “tempi” traduce l’ebraico
mo‘adîm. La frase ‘ad ‘eth sembra designare un momento indeterminato del fu-
turo rispetto a chi scrive. Il potere malvagio, insomma, avrebbe agito finché non
fosse pervenuto al limite stabilito da Dio (vedi 11:27; cfr. 12:1).
Gli autori che attribuiscono valore profetico al termine “tempo” (‘eth) in
questo versetto, ravvisano nelle vicende in esso narrate un riferimento al periodo
storico durante il quale Roma fu il centro politico e amministrativo dell’Impero.
Essi ritengono che alla vittoria di Ottaviano su Marcantonio e Cleopatra ad Azio
nell’anno 31 seguì l’inizio dell’ascesa di Roma verso l’età imperiale.
Procedendo in avanti di 360 anni (l’equivalente del “tempo” profetico) a de-
correre da questa data, si perviene all’anno 330 a.D. quando la capitale dell’Im-
pero fu spostata da Roma a Bisanzio, chiamata poi Costantinopoli. Altri esposi-
tori scorgono in questo versetto un riferimento alla politica di Roma verso le
terre conquistate e annesse all’Impero. È noto dalla storia che i conquistatori ro-
mani solevano distribuire con prodigalità il bottino di guerra ai nobili e agli uffi-
ciali dell’esercito, e che ai combattenti vittoriosi assegnavano terreni nelle regioni
conquistate.
“Fino ad un tempo” - un tempo considerevolmente lungo - non ci fu “for-
tezza” che poté resistere alla pressione delle invincibili legioni di Roma.
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“... si faranno del male...”. Alcuni autori applicano questa frase agli intrighi di Ot-
taviano contro Marcantonio e di questi ai danni di Ottaviano, l’uno e l’altro aspi-
ranti al governo dell’Impero. Altri vi scorgono un riferimento alla lotta per il po-
tere negli ultimi anni del regno di Diocleziano (284 - 305) e nell’arco di tempo
fra la morte di questo imperatore e l’avvento di Costantino il Grande (306 - 337)
quando l’Impero fu riunificato (323 o 324).
“...la fine non verrà che al tempo fissato” o, come traduce la versione della
CEI, “...li attende la fine, a tempo stabilito”. Gli uomini malvagi e le loro macchi-
nazioni dureranno finché lo consentirà la pazienza divina. Nel libro di Daniele è
annunciata la vera filosofia della storia: Dio “agisce come vuole con l’esercito del
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cielo e con gli abitanti della terra; e non v’è alcuno che possa fermare la sua
mano” (4:35).
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CAPIRE DANIELE
“...quest’ultima volta la cosa non riuscirà come la prima...” Quegli autori che
identificano la figura di Costantino il Grande nel protagonista dell’azione militare
qui descritta, pensano che questo particolare della narrazione profetica evochi la
realizzazione solo parziale del sogno di Costantino di rinverdire l’antica gloria e
potenza dell’Impero.
La seconda impresa non riuscita come la prima, in quest’ottica, è vista quale
allusione al trasferimento della capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio voluto
da Costantino, un evento che, sempre in quest’ottica, avrebbe segnato l’inizio
del declino dell’Impero stesso.
“...delle navi di Kittim...”. Il nome Kittim compare ripetutamente nell’Antico
Testamento, come pure nella letteratura tardo-giudaica, rivestendo una varietà di
sensi. In Ge 10:4 Kittim è il nome del figlio di Yawan e nipote di Jafet (cfr. 1Cr
1:7). L’area geografica nella quale si stanziarono i discendenti di Kittim fu proba-
bilmente l’isola di Cipro, la cui città più importante è nominata Kt nei testi fenici
(Kition dai Greci e Citium dai latini). Balaam in uno dei suoi famosi oracoli (Nu
24:24) annunciò che “delle navi verranno dalle parti di Kittim e umilieranno As-
sur” (l’Assiria).
Si è creduto che questa profezia del mago mesopotamico preannunciasse
l’abbattimento dell’Impero persiano per mano di Alessandro il Macedone giunto
in Asia appunto dai lidi mediterranei.
Un riferimento ai litorali mediterranei si è colto anche nell’espressione geo-
grafica “isole di Kittim” che si trova in Gr 2:10 e in Ez 27:6.
Nella letteratura tardo-giudaica Kittim compare in 1Maccabei 1:1 riferito alla
Macedonia.
Questo nome appare ancora in due dei Manoscritti del Mar Morto. Nelle
forme ktyy ’ashwr, “Kittim di Assur”, e hktyym bmzrym, “il Kittim in Egitto”, si
trova nella Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre, verosimilmente
riferito ai re seleucidi e tolemaici. In questo documento sembra essere assente
l’associazione del vocabolo con le coste del Mediterraneo: Kittim compare qui
come designazione generalizzata dei nemici dei Giudei. Il Commentario di Aba-
cuc pure menziona il Kittim.
L’autore di questo scritto crede che le profezie di Abacuc si stiano avve-
rando ai suoi giorni (probabilmente egli visse verso la metà del I secolo a.C.)
nelle angustie vissute dai Giudei: Ac 1:6-11, dove si descrive un’invasione cal-
dea, dall’ignoto autore del Commentario è applicato ai Kittim che nel suo tempo
spogliavano il popolo giudaico.
Se si tiene conto del contesto storico nel quale vide la luce questo scritto, si
deve pensare che il termine con tutta probabilità designi i Romani.
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CAPITOLO 11
Interpretazione corrente. Nel 168 a.C. Antioco Epifane, irritato per l’ac-
cordo raggiunto dai due fratelli per governare l’Egitto, invase il paese per la se-
conda volta ben determinato a mettere fine alla dinastia dei Làgidi e ad annetter-
sene i territori. Intanto Roma, che in quei giorni concludeva vittoriosamente la
guerra in Macedonia, allarmata per le iniziative provocatorie dell’Epifane, spedì
una legazione ad Alessandria.
Cosicché Antioco, giunto alla testa delle sue truppe a poche miglia dalla
città, trovò la strada sbarrata dalla legazione romana presieduta dal console Caio
Popilio Lenate, che era stato suo amico durante il soggiorno romano. Il legato di
Roma era latore di un messaggio perentorio del Senato con cui gli si intimava di
sgombrare sollecitamente l’Egitto o considerarsi nemico di Roma.
L’Epifane chiese tempo per riflettere, ma il romano, tracciato sul suolo con
un bastone un cerchio intorno alla persona dell’interlocutore tergiversante, re-
plicò che di lì non si sarebbe mosso prima di avere dichiarato la sua intenzione.
Antioco, che ben conosceva la potenza di Roma, non ebbe altra scelta che
sgombrare subito il campo.
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CAPIRE DANIELE
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CAPITOLO 11
salemme, che avvenne nel 70 a.D., Gesù identificò con “l’abominazione della
desolazione di cui ha parlato il profeta Daniele” gli eserciti romani che avreb-
bero circondato la città (Mt 24:15; Lc 21:20)445.
Considerando che 9:27 è parte della spiegazione di 8:11-13, la conclusione
a cui si arriva in modo naturale è che 8:11-13 sia una profezia nella quale sono
fuse insieme due prospettive (un po’ come nel discorso profetico di Gesù in Mt
24)446. La prima prospettiva è quella della distruzione di Gerusalemme e del
Tempio ad opera dei Romani; la seconda concerne l’attività del papato nei secoli
dell’era cristiana. Si noti infine che l’esplicito riferimento di Gesù all’”abomina-
zione della desolazione” come a un evento futuro, esclude Antioco Epifane dalla
visuale della profezia.
“...quelli che agiscono contro il patto...”, vedi il commento del v. 28 in alto. Nel
soggetto della proposizione iniziale si identifica ancora il papato.
“...per via di lusinghe...”, ebr. tOQalx a bachalaqqôth, “blandizie”. Fare appa-
A B
rire le sue vie più praticabili delle vie di Dio è stata sempre la strategia di Satana,
ma il popolo del Signore ha sempre calcato il sentiero indicato da Gesù in Mt
7:14: “angusta (è) la via che mena alla vita”.
445 - A questa spiegazione del S.D.A. Bible Commentary preferiamo quella che ravvisa “l’abo-
minazione” nell’occupazione e profanazione dei sacri recinti del Tempio, e del Tempio stesso,
ad opera degli Zeloti di Eleazaro della primavera-estate del 70 a.D., di cui Giuseppe Flavio ci ha
lasciato ampia relazione in Guerre Giudaiche (vedi il commento di 9:27).
446 - Cfr. Desire of ages, p. 628, in italiano La speranza dell’uomo, pp. 449-450).
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“...per imbiancarli...”. A volte Dio permette che i suoi fedeli siano messi al ci-
mento, e consente persino che sia loro tolta la vita. Lo consente perché nel cro-
giolo della prova il loro carattere si purifica ed essi sono così resi idonei per il
regno dei cieli. Anche il Figlio di Dio fatto uomo “imparò l’ubbidienza dalle cose
che soffrì” (Eb 5:8; cfr. Ap 6:11).
“...sino al tempo della fine...”, ebraico ‘eth qetz. Questa espressione com-
pare altrove in Daniele (in 8:17; 11:40; 12:4,9). Nel contesto di 11:35 ‘eth qetz è
in rapporto con i 1260 anni dei quali segna la scadenza. Se confrontiamo questi
passi con alcune dichiarazioni di E.G.White447, ci rendiamo conto che l’anno
1798 segna l’inizio del “tempo della fine”.
“...al tempo stabilito”, ebr. mo‘ed, dal verbo ya‘âd, “fissare”, “stabilire”.
Nell’Antico Testamento è un vocabolo abbastanza comune; lo si applica ai tempi
fissati per le assemblee religiose (Es 23:15) sia in rapporto al tempo (Os 12:9)
che in rapporto al luogo (Sl 74:8). In Dn 11:35 mo‘ed è adoperato in relazione al
tempo: un tempo fissato, determinato. Il “tempo della fine” è un tempo fissato
da Dio nell’ambito del suo programma riguardo agli eventi umani.
447 - Vedi The Desire of Ages, p. 234 (in italiano La Speranza dell’uomo, p. 157), The Great Con-
troversy, p. 356 (in italiano Il Gran Conflitto, pp. 261-262) e in Testimonies, vol. V, pp. 9 e 10.
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Sui vv. 36-39 gli espositori avventisti hanno applicato generalmente due interpre-
tazioni differenti. Gli uni hanno identificato in questi versetti la Francia rivoluzio-
naria nel 1789 ed anni seguenti, gli altri vi hanno scorto ancora il potere apostata
e persecutore descritto nei versetti precedenti.
Coloro che vedono nel “re” la Francia all’epoca della Rivoluzione, sottoli-
neano che questa figura deve rappresentare una nuova entità politica, poiché
essa appare subito dopo la menzione del “tempo della fine” e risponde a carat-
teristiche che non sono quelle riferite all’entità descritta nei versetti precedenti;
deve rappresentare un potere orientato verso l’ateismo. È un fatto noto che la fi-
losofia che ha dato impulso alla Rivoluzione francese fu, non solo anticlericale,
ma anche ateistica e che essa influenzò successivamente il pensiero del XIX e
del XX secolo. Inoltre la Rivoluzione ed i suoi riflessi postumi segnarono la fine
del periodo profetico dei 1260 anni.
Quanti fra i nostri espositori identificano il “re” menzionato in questo ver-
setto con l’entità politico-ecclesiastica descritta nel v. 32, citano il fatto che nel te-
sto ebraico la parola “re” è preceduta dall’articolo, la qual cosa sembra implicare
che il dominatore di cui si sta parlando sia una figura già nota. Essi obiettano
che il riferimento al “tempo della fine” nel v. 35 sembra orientare piuttosto al fu-
turo e non implica necessariamente che i vv. 36-39 debbano collocarsi esclusiva-
mente dopo l’inizio del tempo della fine nel 1798 (vedi il commento del v. 35 in
alto), tanto più che non prima del v. 40 si allude in modo specifico a un evento
che deve aver luogo “nel tempo della fine”. Dal punto di vista di questi nostri
autori, il quadro descritto nei vv. 36-39 delinea non già un orientamento ateistico
ma piuttosto un tentativo di sopprimere ogni altra entità religiosa. I suddetti au-
tori richiamano anche l’attenzione sul parallelismo tra i capitoli 2, 7 e 8-9 e con-
cludono che nel cap. 11 deve essere presente lo stesso parallelismo centrato
sull’ascesa e il culmine del medesimo potere descritto nelle altre profezie del li-
bro di Daniele.
“...si magnificherà...” Secondo l’opinione degli interpreti che ravvisano in
questo versetto la presenza della Francia rivoluzionaria, questa espressione de-
scriverebbe l’ateismo spinto a cui si lasciarono andare i capi più radicali della Ri-
voluzione. Si cita a questo proposito una legge emanata dal governo di Parigi il
26 novembre 1793 la quale decretava l’abolizione di tutte le religioni nella capi-
tale della Francia. Anche se quella legge venne revocata pochi giorni dopo
dall’Assemblea Nazionale, il fatto dimostra comunque fino a che punto l’ateismo
influenzò la politica della Francia in quel periodo.
Gli espositori che applicano questi passi del cap. 11 di Daniele alla grande
potenza apostata della storia del Cristianesimo, considerano il v. 36 parallelo a
Dn 8:11, 25; 2Te 2:4; Ap 13:2, 6; 18:7. Costoro vedono la realizzazione di quanto
è predetto in questo passo di Daniele nella pretesa che il papa sia il vicereg-
gente di Cristo in terra, nella rivendicazione del potere del sacerdozio, nella dot-
trina sul “potere delle chiavi”, ossia sull’autorità di aprire e chiudere il cielo agli
uomini.
“...proferirà cose inaudite...”. Secondo il parere che sia la Francia il soggetto
che agisce in questa parte della profezia, la frase su riportata si riferirebbe alle
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37 Egli non avrà riguardo agli dèi de’ suoi padri; non avrà riguardo
né alla divinità favorita delle donne, né ad alcun dio, perché si ma-
gnificherà al disopra di tutti.
“Non avrà riguardo... alla divinità favorita delle donne...” I commentatori che
identificano nella Francia rivoluzionaria il “re” insolente, riferiscono la frase ri-
portata sopra alla presa di posizione dei capi della Rivoluzione verso il matrimo-
nio. Essi dichiararono che l’unione matrimoniale non era più che un contratto ci-
vile che si poteva sciogliere senza particolari formalità quando uno dei con-
traenti lo avesse voluto.
I fautori dell’interpretazione “papale” applicano al celibato ecclesiastico il ri-
ferimento alla “divinità favorita delle donne”.
“Ma onorerà il Dio delle fortezze nel suo luogo...”, ebr. ONaK-la( ‘al kannô, “in sua
vece”, “al posto di quello”, cioè al posto del dio vero. “...l’Iddio delle fortezze”,
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ebr. {yéZ(u m
f H E ’eloah ma‘ûzzîm.
a ol)
Dai fautori dell’applicazione alla Francia di questi versetti, la frase è riferita
al culto della Ragione istituito a Parigi nel 1793. Alcuni capi della Rivoluzione,
avendo riconosciuto che per estendere in Europa la rivoluzione stessa era neces-
sario mantenere in Francia una parvenza di religione, favorirono l’instaurazione
di una nuova forma di religione imperniata sulla deificazione della ragione.
Essa più tardi fu seguita dal culto dell’Ente Supremo, praticamente il culto
della natura divinizzata la quale può ben considerarsi “un dio delle forze”.
Gli interpreti che applicano invece al papato questa parte della rivelazione,
hanno colto nel v. 38 un riferimento al culto dei santi e di Maria. Altri ancora ap-
plicano questo passo all’alleanza tra il potere religioso e il potere civile e ai ten-
tativi di Roma ecclesiastica di porre le nazioni sotto la sua autorità.
“...con oggetti di valore...”, ebr. tOdumx
A chamudôth, “cose dilettevoli”, oggetti
preziosi”. Un termine derivato dalla stessa radice si trova in Is 44:9 in riferimento
agli ornamenti preziosi coi quali i pagani rivestivano le immagini delle loro divi-
nità. Si è vista la realizzazione di questa predizione nei doni preziosissimi offerti
alle immagini di Maria e dei santi (cfr. Ap 17:4; 18:16).
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dei nobili furono dallo Stato vendute a piccoli proprietari; si è calcolato che i due
terzi della proprietà terriera in Francia furono espropriati dal governo durante la
Rivoluzione. Gli altri scorgono nell’espressione “spartirà fra loro delle terre” un’al-
lusione al dominio papale sui principi temporali ed ai tributi da questi corrisposti
alla curia romana. Si è anche pensato alla spartizione delle terre del Nuovo
Mondo tra Spagna e Portogallo con l’arbitrato di papa Alessandro VI nel 1493.
Dopo i vv. 14 e 15 ritorna per l’ultima volta la menzione dei re del mezzogiorno
e del settentrione. Il riferimento al “tempo della fine” esclude che possa trattarsi
ancora dei re tolemaici e seleucidi. Gli espositori avventisti che hanno visto la
Francia all’epoca della Rivoluzione nei vv. 30-39, hanno ritenuto che “il re del
settentrione” nei vv. 40-45 debba identificarsi con la Turchia; gli altri vi hanno
scorto un quadro profetico del papato al culmine della sua ascesa.
“... poi verrà la sua fine” (v. 45 u.p.). Predizioni simili a questa si trovano
nelle profezie parallele dei capitoli 2 (vv. 34, 35, 44, 45), 7 (vv. 11 e 26), 8 (vv.
19 e 25) e 9 (v. 27), ma anche altrove nella Scrittura (per esempio in Is 14:6;
47:11-15; in Gr 50:32; in 1Te 5:3; in Ap 18:6-8, 19, 21). Gli espositori avventisti in
generale hanno sostenuto che quanto predetto in Dn 11:40 si adempirà nell’ul-
timo tratto del tempo della fine.
James White - uno dei pionieri dell’avventismo del settimo giorno - esortò
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alla prudenza gli uomini della chiesa che tendevano a commentare le profezie di
Daniele sulla scorta degli avvenimenti contemporanei. Egli scrisse nel 1877:
“Lo studioso deve evitare di esprimersi in termini decisamente affermativi
quando espone le profezie che debbono ancora avverarsi e che non hanno
quindi il supporto della storia, e questo per non correre il rischio di perdersi
nella giungla della fantasia.
“Alcuni rivolgono il pensiero più alla verità futura che a quella presente: ve-
dono poca luce sulla via che stanno percorrendo e credono che ve ne sia molta
davanti a loro.
“Certe prese di posizione sulla questione d’Oriente si basano su profezie
che non si sono ancora avverate. Su questo terreno dobbiamo muoverci con
prudenza e prendere posizione con cautela per non rischiare di rimuovere posi-
zioni oramai acquisite in seno al movimento dell’avvento. Si deve dire che su
questa interpretazione c’è stato un consenso generale, e che gli sguardi di tutti
sono puntati sul conflitto in atto tra Turchia e Russia nel quale si crede di scor-
gere l’avverarsi di quella parte della profezia che confermerà la fede nell’immi-
nente proclamazione del grido di mezzanotte e nella rapida conclusione del no-
stro messaggio. Quali conseguenze potranno derivare da tanta fiducia riposta su
profezie non ancora adempiute se il corso degli eventi sarà diverso da quello
previsto, è una domanda che suscita inquietudine”449. Il tempo ha dato ampia
conferma della saggezza di questa osservazione critica.
In tempi più recenti, specie in certi ambienti evangelici anglosassoni, si è
dato molto peso alla minacciosa potenza militare dell’Unione Sovietica vista
come la controfigura storica del profetico “re del nord” descritto in Dn 11: 40-45.
Al presente la fallacia di quella interpretazione è sotto gli occhi di tutti.
È tuttora valido il saggio richiamo di J.White agli espositori avventisti della
parola profetica.
È sempre incauto azzardare interpretazioni appoggiate al panorama interna-
zionale del momento.
La conferma della profezia viene dalla storia, non dalla cronaca, a meno
che l’esegeta non sia egli stesso in possesso del carisma profetico.
Per quanto attiene a Dn 11:40-45, ci pare che l’espositore non disponga an-
cora di elementi certi per capire e spiegare gli eventi ivi predetti.
449 - JAMES WHITE in Review and Herald del 29 novembre 1877. Da S.D.A. Bible Commentary,
vol. IV, p. 877
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CAPITOLO 11
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Capitolo 12
___________________________________________________
I l percorso delle grandi profezie danieliche lungo le vie maestre della storia - con
l’unica eccezione della rivelazione del capitolo nono - conduce invariabilmente
al medesimo punto d’arrivo: il giudizio finale ed il regno eterno di Dio. Così il so-
gno di Nabucodonosor nel cap. 2, così la visione delle quattro fiere nel cap. 7 e
quella del montone e del capro nel cap. 8.
L’ultima rivelazione in 11:2 - 12:3 non ha un epilogo diverso: anch’essa si
arresta sulla soglia dell’eternità.
Il cap. 12 non introduce una nuova rivelazione; esso conclude, nei primi
versetti, quella iniziata nel capitolo precedente. Si assiste in questi primi tre ver-
setti al felice epilogo delle dolorose peripezie dei santi, che parevano interminabili.
Il sorgere in loro difesa del gran Principe Micael, mentre una tribolazione di una
dimensione inaudita flagella la terra, li mette per sempre in salvo.
Il resto del capitolo (vv. 4-13) - con l’ordine dato al profeta di mantenere se-
greta la visione, con un fugace riferimento ai tempi profetici rivelati in prece-
denza, con un accenno all’eredità eterna che è tenuta in serbo per Daniele -
chiude nel medesimo tempo il libro e la vicenda terrena del suo autore.
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CAPITOLO 12
metterà al riparo dalle piaghe, non li sottrarrà tuttavia alla collera della “Bestia”
(Ap 13:15).
In 12:1, la locuzione avverbiale con cui inizia il versetto, “in quel tempo”
()yihh f ba‘eth hahî’) va riferita all’epoca nella quale si svolgeranno gli avveni-
a t"(b
menti convulsi predetti negli ultimi 6 versetti del capitolo precedente, vale a dire
l’assalto furioso “come una tempesta” del “re del nord” contro il “re del sud” ed
il suo dilagare verso il “paese splendido” ed oltre. Non pochi espositori identifi-
cano il metaforico “re del nord” in questi versetti con l’Anticristo finale452, e la
sua violenta aggressione con la guerra che l’Anticristo scatenerà contro il popolo
santo nel tempo della fine453. È in questo tempo (cfr. il v. 40) che Micael sorgerà
in difesa del popolo santo. Questo Personaggio eccelso in 10:13 è stato presen-
tato come “uno dei primi principi”454 e in 11:1 l’angelo portatore della rivela-
zione divina lo aveva caratterizzato come “vostro principe” (principe di Daniele
e del suo popolo in contrasto con gli emissari infernali nel ruolo improprio di
principi-protettori dei regni di Persia e di Jawan).
Se la grande tribolazione “quale non se n’ebbe mai.... fino a quell’epoca” è
da rapportarsi anche all’attività finale del gran persecutore, come sembra natu-
rale, sarà in quel tempo che Micael esplicherà il ruolo di difensore o protettore
del suo popolo455.
L’ultima frase (“tutti quelli cioè che saran trovati iscritti nel suo libro”), in
apposizione alla precedente, spiega e precisa il senso di quella: i salvati nel
tempo della grande tribolazione saranno quelli i cui nomi saranno scritti nel “li-
bro”, di certo il “libro della vita” dove sono registrati i fedeli discepoli di Gesù
Cristo (Lc 10:20; Fl 4:3). Il Signore dichiara in Ap 3:5 che non cancellerà dal libro
della vita il nome dei suoi seguaci che avranno vinto. Si presume che il tempo
della grande tribolazione sarà preceduto da un esame in cielo del “libro della
vita” dovendosene “cancellare” i nomi dei cristiani che non avranno perseverato
sino alla vittoria finale. Questo giudizio discriminatorio è quello al quale sia Da-
niele (Dn 7:9-10) che Giovanni (Ap 20:11-12) assistettero in visione; esso coin-
cide con la giustificazione del santuario del cielo in capo a 2300 sere-mattine
(vedi su Dn 8:14).
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456 - Cfr. 2Re 2:10; Sl 10:3; Mt 27:52; Gv 11:11; 1Co 15:20; 1Te 4:14; 2Pie 3:4.
457 - Cfr. Mt 22:30; Lc 14:14; Gv 5:29; 6:40; At 24:15; 1Co 6:14; 15:42-44, 51-52; 1Te 4:16-
17; Ap 20:5-6.
458 - The Great Controversy, p. 637; nell’edizione italiana Il Gran Conflitto, p. 463.
459 - Vol. IV, p. 878
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giunto il tempo della fine”462. Secondo la stessa fonte463 il “libretto aperto” nella
mano dell’angelo potente descritto in Ap 10:1,2, non è altro che la porzione del
libro di Daniele che dovette essere mantenuta segreta e sigillata sino al tempo
della fine.
“Molti - evidentemente nel tempo della fine - lo studieranno con cura e la
conoscenza aumenterà”, ebr. ta(D f h
a heBr
: t a U+:+o$yº yeshottû rabîm wethirbeh
i wº {yiBr
hadda‘ath, lett. “lo esamineranno con diligenza in molti e si accrescerà la cono-
scenza”464. Osserva H.C.Leupold: “quando l’articolo è adoperato con la parola
‘fine’, questa parola denota palesemente la fine di tutte le cose (...). Allora ‘molti
lo esamineranno con attenzione’. Il verbo shut significa in primo luogo ‘andare
avanti e indietro’, ma con riferimento a un libro ciò significherebbe fare scorrere
lo sguardo avanti e indietro, cioè ‘esaminare’. E poiché il verbo è nella forma in-
tensiva (yeshotetu), abbiamo cercato di rendere questa sfumatura di senso col
tradurlo ‘esamineranno con diligenza’: leggeranno e rileggeranno e controlle-
ranno quello che avranno letto... E a mano a mano che procederanno in questa
seria disamina, ‘la conoscenza si accrescerà’. Alla luce degli accadimenti degli ul-
timi tempi, lo scopo a cui mira il libro ed il suo significato diverranno sempre
più palesi”465.
Il S.D.A. Bible Commentary (vol. IV, p. 879) sottolinea che la frase: “e la co-
noscenza sarà accresciuta” deve considerarsi il seguito logico della precedente. E
commenta testualmente: “Quando il libro sigillato sarà dischiuso nel tempo della
fine, la conoscenza attinente alle verità contenute in queste profezie aumenterà
(...). Sul finire del secolo XVIII e agli inizi del XIX, un insolito interesse verso le
profezie di Daniele e dell’Apocalisse si manifestò in aree geografiche distanti
l’una dall’altra. Lo studio delle suddette profezie condusse alla convinzione dif-
fusa che il secondo avvento di Cristo fosse vicino. Numerosi espositori in Inghil-
terra, Joseph Wolff nel Medio Oriente, Manuel Lacunza nel Sud America e Wil-
liam Miller negli Stati Uniti, insieme con una schiera di altri studiosi delle profe-
zie, dichiararono, sulla base del loro studio delle profezie di Daniele, che era im-
minente il secondo avvento”466.
462 - The Great Controversy, p. 356: (nell’ediz. italiana Il Gran Conflitto, p. 261); vedi anche
Acts of the Apostles, p. 585 (nell’ediz. italiana Gli uomini che vinsero un impero, p. 367) e The
Desire of Ages (nell’ediz. italiana La speranza dell’uomo, p. 157).
463 - Vedi Testimonies to Ministers, p. 115.
464 - Yeshotetu è la forma intensiva (piel) del verbo shut, “andare o correre avanti e indietro”,
e metaforicamente “scorrere un libro”, “esaminare minuziosamente uno scritto”, secondo la
maggioranza dei moderni (B. DAVIDSON). Nell’Antico Testamento shut ritorna 13 volte (Nu 11:8;
2Sm 24:2,8; 2Cr 16:9; Gb 1:7; 2:2; Gr 5:1; 49:3; Ez 27:8, 26; Dn 12:4; Am 8: 12; Za 4:10),
per lo più col senso di “andare attorno”, “girovagare”. In Dn 12:4 i più lo leggono nel senso
metaforico di “indagare con cura nel libro” con un conseguente accrescimento della cono-
scenza delle sue profezie.
465 - H.C.LEUPOLD, op. cit., pp. 534-535.
466 - Per ulteriori approfondimenti sul tema degli studi profetici fra l’ultimo settecento e il primo
ottocento, vedi LE ROY EDWIN FROOM, The Prophetic Faith of our Fathers, vol. III; R.GERBER, Le
Mouvement Adventiste, p. 16-53.
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CAPITOLO 12
5 Poi, io, Daniele, guardai, ed ecco due altri uomini in piedi: l’uno di
qua sulla sponda del fiume, 6 e l’altro di là, sull’altra sponda del
fiume. E l’un d’essi disse all’uomo vestito di lino che stava sopra le
acque del fiume: “Quando sarà la fine di queste maraviglie?”
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e completa restaurazione dei Giudei gravava come un macigno sul cuore del pro-
feta (vedi su Dn 10:2). Invero il decreto di Ciro era già stato promulgato (Ed 1:1;
cfr. Dn 10:1), ma restava ancora molto da fare. Dopo la narrazione lunga ed intri-
cata sugli avvenimenti futuri nel corso dei quali il popolo di Dio avrebbe sofferto,
il profeta era naturalmente ansioso di sapere per quanto tempo ancora si sareb-
bero svolte ‘queste meraviglie’ e quando si sarebbe avverata la promessa ‘il tuo
popolo sarà salvato’ (12:1). Daniele non aveva colto appieno la relazione fra ciò
che gli era stato mostrato ed il futuro. Peraltro una parte della profezia era stata
sigillata e sarebbe stata compresa soltanto ‘nel tempo della fine’”.
7 E io udii l’uomo vestito di lino, che stava sopra le acque del fiume,
il quale, alzata la man destra e la man sinistra al cielo, giurò per co-
lui che vive in eterno, che ciò sarà per un tempo, per dei tempi e la
metà d’un tempo; e quando la forza del popolo santo sarà intera-
mente infranta, allora tutte queste cose si compiranno.
Colui al quale è stata rivolta la domanda è il solo che sia pienamente qualificato
per dare risposte certe su ciò che è incognito agli uomini, perché possiede una
conoscenza del futuro che nessun altro possiede; pertanto “l’uomo vestito di
lino” è interprete autorevole e infallibile della rivelazione.
Fin dall’antichità l’alzare la mano era un gesto che rafforzava il giuramento.
Abramo dice al re di Sodoma: “Ho alzato la mano all’Eterno, l’Iddio Altissimo,
padrone dei cieli e della terra, giurando che non prenderei neppure un filo né
un laccio di sandalo, di tutto ciò che ti appartiene...” (Ge 14: 22-23). Con lo
stesso gesto è espresso metaforicamente l’impegno solenne di Dio di mandare
ad effetto le sue promesse e le sue minacce (cfr. De 32: 40; Sl 106: 26; Ez 20: 5-
6). Alzare entrambe le mani nel giuramento è un gesto che conferisce la più alta
solennità possibile al giuramento stesso. “L’uomo vestito di lino”, alzando al
cielo la mano destra e la mano sinistra, riveste di una solennità incomparabile il
giuramento, già di per sé solenne (“giurò per colui che vive nei secoli dei se-
coli”), sulla veracità della risposta che sta per dare all’interpellante.
La domanda era stata chiara e precisa: “A quando la fine di queste meravi-
glie?” (Concordata).
Si voleva sapere, insomma, entro quanto tempo si sarebbero realizzate le
cose straordinarie anticipate nella rivelazione del cap.11. La risposta è concisa e
diretta ma alquanto ermetica (“ciò sarà per un tempo, per dei tempi e la metà
d’un tempo”)467. L’indicazione cronologica è identica a quella che fissa la durata
della persecuzione del “piccolo corno” contro i “santi dell’Altissimo” in 7:25, ivi
enunciata in aramaico. La coincidenza dell’attività persecutoria contro il popolo
santo ad opera del “re del nord” nel cap. 11 e del “piccolo corno” nel cap. 7,
nonché l’identità della durata della persecuzione, porta a concludere che le due
467 - Ebraico lemo‘ed mo‘adîm wachezi, lett. “per un tempo, tempi e metà tempo”.
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CAPITOLO 12
figure simboliche debbano riferirsi alla stessa entità storica468. E’ da rilevare che il
termine mo‘ed esprime il concetto di tempo fissato, determinato.
Per generale consenso dei traduttori e degli espositori di Daniele (vedi il
commento di 7:25) le forme plurali aramaica ‘iddanîn ed ebraica mo‘adîm do-
vrebbero leggersi nella forma duale (‘iddanayin e mo‘adayim). Pertanto l’indica-
zione temporale in entrambi i casi corrisponde a 3 anni e mezzo o 1260 giorni
(giorni simbolico-profetici, come si è spiegato altrove, eguagliabili ad altrettanti
anni storici).
In definitiva la dichiarazione dell’ “uomo vestito di lino” fatta con solenne
giuramento rivela che le cose straordinarie annunciate nella rivelazione si compi-
ranno nell’arco temporale di 1260 anni.
Tutto sarà compiuto “quando la forza del popolo santo sarà interamente in-
franta” (così la Versione Riveduta). L’ebraico recita: heL) " -lfk hænyelk: Ti $edoq-{a(-dáy
j"Pná tOLakk: U ûkekallôth napez yad ‘am qodesh tikleyna kol ’elleh, tradotto alla let-
tera: “e quando sarà completa (o finita) la dissipazione della forza del popolo
santo, saranno compiute tutte queste cose”469 (yad, lett. “mano”, è usato col
senso traslato di “forza”).
H.C. Leupold opta per la seconda accezione della voce kekalloth, “quando
sarà finita”, e traduce: “e quando sarà posto fine alla dispersione della forza del
popolo santo, allora tutte queste cose saranno finite”. Questa è la traduzione che
preferiamo.
Il periodo storico dei 1260 anni durante i quali furono sottoposti a persecu-
zione i cristiani non cattolici fedeli all’Evangelo, cominciò, come si è detto al-
trove, nel 538 e finì nel 1798 (vedi ancora il commento di 7:25).
Gesù Cristo nella parte del sermone profetico in cui predice il suo ritorno
avverte: “Or subito dopo l’afflizione di quei giorni il sole si oscurerà, e la luna
non darà il suo splendore, e le potenze dei cieli saranno scrollate; e allora appa-
rirà nel cielo il segno del Figliol dell’uomo...” (Mt 24: 29-30; cfr. con Ap 6:12-13).
I segni cosmici indicati dal Signore si realizzarono fra il 1780 e il 1833470.
Le nuove correnti di pensiero e i profondi mutamenti politici che furono in-
nescati dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese tra la metà e la fine del set-
tecento, posero fine alle persecuzioni papali contro i cristiani evangelici. Fu in
questo momento della storia moderna che finì “la dissipazione della forza del
popolo santo”, compiendosi quanto fu annunciato dall’“uomo vestito di lino”
che stava sulle acque del fiume.
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CAPIRE DANIELE
La formula cronologica “un tempo, tempi e metà tempo”, che Daniele non ha
udito enunciare per la prima volta (cfr. 7:25), gli rimane tuttora oscura.
L’uso del pronome personale (“ed io”, we’anî), non sempre necessario nella
lingua ebraica, può far pensare che il profeta si sia accorto che i due angeli ab-
biano capito la dichiarazione dell’ “uomo vestito di lino”, mentre per lui è rima-
sta enigmatica.
Ed egli è ansioso di capire, perché sono coinvolti i destini del suo popolo.
Due anni prima Daniele aveva invocato la sollecita restaurazione del santuario e
della santa città in rovina (9:17-19) e tuttora in stato di desolazione; non riesce
quindi a conciliare la risposta immediata di Dio alla sua supplica (9:23-25) con
questo oscuro periodo di tempo che sembra essere piuttosto lungo. Donde la
sua domanda: “A quando la fine di queste cose?”
L’interrogativo è formulato in termini diversi rispetto all’interpellanza
dell’angelo. Questi aveva detto: “A quando la fine (di queste) meraviglie ?” (‘ad
mathay qetz happela’ôth); Daniele dice in sostanza: “Quale sarà l’esito finale di
queste cose?” (heL) " tyirx a hfm mâh ’acharîth ’elleh). “Esito finale” è il senso di
A )
’acharith, in questo contesto danielico, preferito da diversi studiosi471. Sembra,
insomma, che il profeta sia ansioso di sapere che cosa accadrà dopo che si sa-
ranno compiute le cose straordinarie (pela’ôth) annunciate nella rivelazione. Ma
stavolta non ci sarà una risposta per la sua domanda. L’interpellato gli rammenta
che quelle “parole sono nascoste e sigillate sino al tempo della fine” (j"q t"(-da(
{yirb
f D
: ha {yimt
u x u s: situmîm wachatumîm haddevarîm ‘ad ‘eth qetz). Non gli
A wá {yimt
aveva comandato l’angelo della rivelazione di tenere nascoste quelle parole e di
sigillare il libro sino al tempo della fine ? E’ una disposizione divina, non può es-
sere disattesa.
“L’uomo vestito di lino” che sta “sopra le acque del fiume” predice, per il tempo
della fine (menzionato nell’ultima parte del versetto precedente), un radicaliz-
zarsi delle inverse condizioni morali degli uomini. Sul versante opposto rispetto
ai “molti” che saranno purificati, resi candidi e raffinati, si troveranno gli empi
che agiranno con empietà ({yi($f r
: U(yi$r i wº hirshî‘û resha‘îm).
: h
Gesù pure previde per il tempo della fine un moltiplicarsi dell’iniquità (Mt
24:12). Nella grande tribolazione dell’ultimo tempo (12:1), mentre si purifiche-
ranno e si santificheranno ancora di più i puri ed i santi (Ap 22:11b), gli ingiusti
agiranno sempre più da ingiusti e gli impuri da impuri (Ap 22:11a).
In 12:10 le due prime voci verbali (UrArB : yé yitbararû e Un:Bl
f t : yé weyitlabbenu)
a t
471 - Vedi H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 542; cfr. B.DAVIDSON, The Analytical Hebrew and Chaldee Lexi-
con, voce ’acharith.
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CAPITOLO 12
Come si è detto altrove nel presente volume a proposito delle 2300 sere e mat-
tine (vedi il commento di 7:25 e 8:14), i “giorni a cui si fa riferimento nel v. 12
vanno compresi in termini di anni storici (sono “giorni simbolico-profetici, non
giorni di calendario).
Il prof. J.Doukhan spiega che il modo in cui sono rapportati l’uno con l’al-
tro i due periodi di 1290 e 1335 giorni suggerisce che entrambi questi periodi
sono orientati nella stessa prospettiva, il secondo rappresentando un prolunga-
mento del primo472.
L’inizio dei due periodi è sincrono ed è segnato dalla soppressione della
“perpetuità” (dyimTf h
a hattamîd) e dalla collocazione dell’ “abominazione della de-
solazione” (o “del desolatore”), {"mo$ jUQi$ shiqqûtz shomen.
Il senso di questa espressione è stato spiegato nel commento di 9:27, dove
si trova un’espressione molto simile (we‘al kanaf shiqqûtzîm meshômem, lett. “e
sull’ala delle abominazioni, desolazione”).
Come si è osservato nel commento di 9:27, Gesù Cristo nel Vangelo di Mat-
teo (24:15) cita queste parole di Daniele e le riferisce alla profanazione e desola-
zione del Tempio di Gerusalemme che avvennero al tempo dell’insurrezione
giudaica contro la dominazione romana.
Il tema della desolazione del santuario è presente anche in 8:11-13. Come
nel discorso profetico di Gesù in Mt 24 sono accostati fra loro due eventi futuri
distanti l’uno dall’altro nel tempo – cioè: 1) la profanazione e desolazione del
tempio ad opera degli zeloti e dei Romani e 2) l’avvento di Cristo e la fine
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CAPIRE DANIELE
dell’“età presente” - così in questo passo di Daniele l’attacco mosso dal “piccolo
corno” al tamîd (la “perpetuità”) del Principe celeste e al suo santuario - questa
aggressione che costituisce il “peccato che produce la desolazione” (happesha‘
shomen) - può essere visto su due piani prospettici, e cioè: 1) nella prospettiva
della storia del popolo giudaico, come una predizione della profanazione e di-
struzione del Tempio gerosolimitano nell’anno ’70 (in modo simile che in 9:27) e
2) nella prospettiva della storia del cristianesimo come un’allusione profetica alla
sostituzione del ministero sacerdotale continuo (tamîd) di Cristo nel santuario
del cielo con un ministero sacerdotale terreno ad opera della Chiesa romana473.
Abbiamo visto che l’inizio dei 1290 e dei 1335 giorni è sincrono, cioè contempo-
raneo; ne segue che il secondo periodo termina 45 giorni-anni dopo che è finito
il primo (1335-1290 = 45), (non si deve dimenticare che “giorni” nelle profezie
apocalittiche equivalgono ad anni).
Il commento di J.Doukhan sui due versetti in esame in queste pagine è illu-
minante. Scrive questo studioso nel suo lavoro più volte citato nel presente com-
mentario: “Con i 1335 giorni si arriva a destinazione. È l’ultimo periodo menzio-
nato ed è anche il solo che sia segnato dal senso dell’arrivo alla meta dopo la
tensione dell’attesa impaziente. Pertanto è questo il periodo che risponde vera-
mente alla domanda: ‘fino a quando?’ (v. 7; cfr. il v. 8). Ora questa domanda, si
badi bene, è identica a quella del cap. 8. Non solo è composta dalle stesse pa-
role ebraiche ‘ad mathay (fino a quando?), ma è ugualmente associata allo
stesso motivo dei ‘prodigi’ (pela‘ôth, 8:13, 24) ed è inserita nel medesimo conte-
sto di dialogo fra due esseri celesti (8:13, cfr. 12:6).
Infine il personaggio a cui è rivolta la domanda si presenta con l’abito del
sommo sacerdote nell’esercizio delle funzioni che gli competono nel giorno del
Kippur, un tema dominante nel cap. 8. Tutto concorre a suggerire che le due vi-
sioni traducono la stessa preoccupazione e si applicano al medesimo evento. I
1335 giorni, come le 2300 sere e mattine, rispondono alla stessa domanda, una
domanda che esprime un’identica preoccupazione, e per conseguenza condu-
cono al medesimo tempo della fine, il 1844. “Nella visione delle 2300 sere e mat-
tine, Daniele vede il tempo che inizia nel 1844 come un tempo di Kippur celeste
nel corso del quale Dio procede a giudicare gli uomini e così prepara il regno
che viene.
“Nella visione dei 1335 giorni, Daniele vede lo stesso tempo, ma stavolta il
suo sguardo si volge verso la terra. Il periodo profetico è messo in rapporto con
l’uomo di quaggiù che ‘arriva’ fin lì e la cui felicità si scopre nell’attesa.
“‘Beato chi aspetta e arriva fin lì...’ (v. 12). Il tempo che inizia nel 1844 è
dunque vissuto non solo come un tempo di arrivo a destinazione, ma altresì
come un tempo di attesa e di speranza. È precisamente lo spirito che caratterizza
la psicologia dell’israelita nel giorno del Kippur.
Gli stessi sentimenti di attesa e di speranza animano il Salmo della Festa
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CAPITOLO 12
474 - Questo salmo viene recitato nel corso della liturgia del Kippur (vedi “Le preghiere del
Rosh Hashanah” in Shulchan Aruch, c. CIC, 582). Sembra anche che il salmo abbia tratto ispi-
razione da questa festa, come indica la frase tecnica che lo conclude: “tutte le sue iniquità”
(cfr. Le 16:21, 22) - (Nota dell’Autore)
475 - Il franco Clodoveo ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende che modificarono in modo
significativo l’assetto politico dei territori nord occidentali del defunto Impero romano tra l’ul-
timo quindicennio del V e i primi anni del VI secolo. Unificate le tribù dei Salii e dei Ripuari, Clo-
doveo estese gradatamente il dominio dei Franchi dalla regione renana verso sud-ovest. Nel
486 vinse a Soissons il capo gallo-romano Siagrio, ultimo rappresentante dell’autorità romana
in Gallia, e si annesse la regione fra la Somme e la Loira. Nel 496 il futuro fondatore del regno
dei Franchi sconfisse gli Alamanni a Tolbiac conquistandone i territori. Nello stesso anno si
convertì al cattolicesimo per l’influsso della moglie cattolica, la burgunda Clotilde, e si fece bat-
tezzare a Reims dal vescovo Remigio. Fu questo un evento di notevole significato, sia per il re-
gno franco che per la Chiesa romana.
“La conversione (di Clodoveo) al cattolicesimo - osserva lo storico Pasquale Villari - ... iniziò la
conversione del suo popolo. E la monarchia ne ebbe subito il favore della Chiesa romana che,
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CAPIRE DANIELE
frena lo sviluppo si apre una breccia e da quel momento ‘il papato può attuare
in tutta sicurezza i propri progetti di governo’476.
“Ma si deve attendere fino al 538 perché l’ultimo regno ariano che minaccia
ancora la Chiesa sia finalmente respinto dall’imperatore Giustiniano (527-565).
Come aveva predetto il profeta Daniele (7:27), la comparsa del piccolo corno
avrebbe comportato la caduta di un certo numero di regni già dipendenti dalla
dominazione romana.
“Nel 1798 infine, la potenza politica della Chiesa è spezzata a seguito di una
serie di avvenimenti che condurranno all’arresto e alla deportazione del papa
stesso.
per mezzo dei suoi vescovi, era organizzata ben più fortemente dell’ariana. I Franchi divennero
così il popolo eletto da Dio a difesa del papa e dalla religione”. -Le invasioni barbariche in
Italia, p. 357.
Fu una scelta politicamente oculata quella di Clodoveo. “E fu - scrive lo storico S.Hellmann in ri-
ferimento alla conversione del re franco alla fede cattolica - un avvenimento d’importanza sto-
rica: il contrasto religioso che alcuni decenni dopo doveva essere fatale per i regni ostrogoto e
vandalico e il cui pericolo fu solo scongiurato dai Visigoti e dai Longobardi con una tardiva con-
versione al cattolicesimo, fu subito da lui evitato mediante una politica saggia e lungimirante”.
Storia del Medioevo, pp. 34-35.
La conversione di Clodoveo segnò l’inizio di un processo storico che opportunisticamente asse-
condato dai papi, avrebbe condotto la Chiesa all’acquisizione del potere temporale.
“Meravigliosa addirittura - dice il Villari - è la persistenza con la quale i papi continuarono attra-
verso i secoli, l’opera loro, quasi imponendo ai Franchi la missione voluta, preveduta dalla
Chiesa; e non smisero mai fino a che essa non ebbe il suo adempimento con la coronazione di
Carlo Magno e la formazione del potere temporale”. - Op. cit, p. 358.
Nel 507 Clodoveo con l’aiuto dei Burgundi, sconfisse i Visigoti a Vouillé, nelle pianure del Poi-
tou, e tolse ad essi tutta l’Aquitania fino ai Pirenei. La vittoria di Vouillé spazzò via dalla Gallia i
Visigoti liberando dall’influenza ariana quella vasta regione. Dal 508, un regno franco forte e
unito che si estendeva dalla regione ad est del Reno fino alle coste della Manica ad ovest e ai
Pirenei a sud, avrebbe garantito alla Chiesa protezione e libertà d’azione in quelle terre ove il
cattolicesimo era stato finora avversato, consentendole di intensificare la sua influenza.
Nel corso della sua visita pastorale in Francia nel settembre del 1996, papa Wojtyla non ha
mancato di riproporre ai francesi la figura di Clodoveo di cui ricorreva il millecinquecentesimo
anniversario della conversione al cattolicesimo, “uno degli eventi che hanno formato la Fran-
cia”, ha sottolineato il Pontefice romano durante l’incontro col Presidente Chirac a Tours. In ef-
fetti, come si è visto, la conversione alla fede cattolica valse a Clodoveo l’appoggio della
Chiesa, una circostanza che contribuì in maniera determinante alla sua affermazione politica. E
valse alla Chiesa il sostegno di una nazione destinata a dominare nei prossimi secoli la politica
dell’Europa germanica e latina.
476 - W. ULLMANN, A Short History of the Papacy in the Middle Ages, New York, 1972, p. 37.
“Verso il ‘500, scrive Marcel Pacaut, si libera un’istituzione la cui autorità (...) è incontestabile
(...) Il papa, sommo pontefice (summu pontifex), sommo sacerdote (summus sacerdos), talora
persino chiamato (...) ‘Vicario di Cristo’ (...) gode nella sede apostolica di un prestigio partico-
lare”. - Histoire de la Papautè de l’Origine au Concile di Trente, Parigi 1976, p. 44. (Nota
dell’Autore)
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CAPITOLO 12
Secoli e secoli sarebbero trascorsi prima che si fossero compiute le ultime profe-
zie rivelate a Daniele; esse non potevano dunque riguardare lui e la sua genera-
zione. La vita terrena dell’anziano profeta - una vita intensa, tutta dedita alla mis-
sione alla quale è stato chiamato molti anni prima - volge oramai alla fine.
Essere profeta per le età e per le genti a venire, essere profeta universale,
insomma: fu questa la missione della quale Daniele fu investito ed egli l’ha
svolta con indefettibile fedeltà raccogliendo in forma scritta per consegnarle ai
posteri tutte le straordinarie rivelazioni che gli sono state date.
Adesso Daniele deve prepararsi al trapasso. Nell’immediato lo attende il ri-
poso nel sepolcro, non la gloria del paradiso! L’eredità eterna la riceverà quando
risorgerà “alla fine dei giorni”.
477 - Su questo soggetto vedi H. DESROCHE, Sociologie de l’Esperance, Parigi 1973. (Nota
dell’Autore)
478 - Le soupir de la terre, pp. 264-267.
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CAPIRE DANIELE
Come somiglia a quella che intravide Paolo alla vigilia del martirio la pro-
spettiva che fu posta davanti a Daniele prossimo a lasciare la vita presente.
L’apostolo di Gesù si aspettò anch’egli per l’ultimo giorno la ricompensa riser-
vata ai fedeli del Signore: “... il tempo della mia dipartenza è giunto... del rima-
nente mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi as-
segnerà in quel giorno” (2Tm 4: 6, 8). D’ora fino a “quel giorno” egli riposerà nel
seno della terra, come il santo profeta Daniele.
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CAPIRE DANIELE
Note storiche
_________________________________________________________________
1. BABILONIA
B abilonia sorse in epoca remota (v. Ge 11: 1-9) nella pianura alluvionale per-
corsa dal Tigri e dall’Eufrate. Nella seconda metà del III millennio a.C. essa
divenne, per merito del grande re Sargon di Akkad, il centro di un vasto impero
che si estendeva dal golfo Persico al centro dell’Anatolia. La città decadde circa
cento anni più tardi quando fu occupata dai barbari Gutei scesi dalle montagne
a est del Tigri. Poco più di un secolo dopo, Babilonia entrò nell’orbita politica di
Ur avendo i prìncipi del risorto impero sumerico cacciato dal paese i rudi mon-
tanari.
Nel XIX sec. A.C., dissoltosi l’impero sumerico, Babilonia fu per breve
tempo sotto il controllo degli Elamiti; in seguito fu occupata dai semiti Amorrei
venuti dal deserto della Siria. Sotto la dinastia amorrea, che ebbe in Hammurabi
(c.ca 1728-1686 a.C.) il più illustre dei suoi rappresentanti, la città acquistò
nuovo lustro divenendo ancora una volta la capitale di un grande impero. Estin-
tasi la dinastia amorrea a metà del II millennio, Babilonia decadde di nuovo;
presa e saccheggiata dagli Hittiti dell’Anatolia, fu poi occupata dai Kassiti che la
tennero per vari secoli.
Nel XIII sec. a.C. ai Kassiti subentrarono gli Assiri, e Babilonia rimase per
seicento anni una dipendenza di Ninive, governata per lo più da principi vas-
salli. Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.) e Sargon II (722-705), il distruttore di Sama-
ria, vollero cingere essi stessi la corona di Babilonia. Invece Sennacherib (705-
685), stanco di domare rivolte, distrusse la città nel 689 a.C.
Risorta dalle sue macerie in breve tempo, Babilonia fu governata da locali
principi caldei sottomessi alla sovranità di Ninive, ma anelanti all’indipendenza.
Colui che conseguì questo ambìto risultato fu un capo caldeo di nome Nabopo-
lassar, il quale nel 626 a.C. proclamò la secessione da Ninive. Esausta e deca-
dente, l’Assiria non fu più in grado di ripristinare la sua sovranità sulla città ri-
belle. Fu anzi Nabopolassar che prese l’iniziativa contro i dominatori secolari di
Babilonia. Il principe caldeo combatté gli Assiri con alterna fortuna e finalmente,
alleatosi col re dei Medi Ciassàre, nel 612 a.C., espugnò Ninive e la rase al suolo
ponendo fine per sempre all’egemonia assira nel Vicino Oriente. Babilonia si av-
viò a ripristinare l’antica grandezza e ad assurgere ancora una volta al ruolo di
centro del mondo. Spettò al figlio e successore di Nabopolassar, il grande Nabu-
codonosor II (605-562 a.C.), conseguire questo brillante risultato. È questo il pe-
riodo storico che la profezia danielica anticipa con l’immagine della testa d’oro
nel cap. 2 e descrive con la figura del leone alato emergente dal mare nel cap. 7.
La prima fase del regno di Nabucodonosor fu caratterizzata principalmente
da una intensa attività militare che permise all’energico sovrano di estendere fino
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NOTE STORICHE
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CAPIRE DANIELE
il Mar Nero e il Mar Caspio. Più tardi le tribù mede e parse si stabilirono più a
sud, fra il Lago Urmia e la pianura di Ecbatana. Quivi gli Assiri le sottomisero e
le resero tributarie per un periodo di tempo.
Nel corso dell’VIII secolo a.C., un capo energico di nome Deioce unificò le
tribù mede e fondò Ecbatana, la città dalla quale governò il regno da lui stesso
creato. Suo figlio Fraorte assoggettò le tribù dei Parsi. In seguito i Medi stessi fu-
rono vinti e dominati per una trentina d’anni dagli Sciti.
Ciassàre (653-585 a.C.), il successore di Fraorte, sconfisse gli Sciti e restituì
l’indipendenza al suo popolo, poi strinse alleanza con Nabopolassar di Babilo-
nia. Un matrimonio di stato suggellò il patto fra le due nazioni: Amytis, primoge-
nita di Ciassàre, andò in sposa a Nabucodonosor II figlio di Nabopolassar. Per
lei Nabucodonosor creò in Babilonia i celebrati “giardini pensili”.
Nel 612 a.C. Medi e Babilonesi presero e distrussero Ninive, abbatterono
l’impero assiro e se ne spartirono le spoglie.
Le tribù parse intorno al sec. VIII a.C. mossero dalla regione del Lago Urmia
verso l’altopiano iranico e si insediarono ad est e a sud-est dell’Elam, di là della
costa nord-orientale del Golfo Persico. Verso il 700 a.C. un capo autorevole di
nome Achemène ne riunì insieme una parte dando origine al piccolo regno dei
Parsi e alla dinastia degli Achemènidi con Pasargade come residenza reale. Poi si
unificarono anche le tribù del sud-est e nacque il minuscolo regno di Anshan.
Teispe, succeduto al padre Achemène, riunì insieme e governò i due pic-
coli regni, ma prima di morire spartì il potere fra i due figli Ariaramne (c.ca 640-
590 a.C.) che regnò sui Parsi e Ciro I (c.ca 640-600 a.C.) su Anshan, entrambi
come vassalli dei Medi.
Ariaramne venne a diverbio con Ciassàre, il re dei Medi, e perse la corona
che andò al fratello, cosicchè il doppio regno ebbe di nuovo un solo re.
Morto Ciro I, salì al trono suo figlio Cambise I (c.ca 600-553 a.C.) col titolo
di “re di Anshan”. Dalla sua unione matrimoniale con la principessa meda Man-
dane, figlia di Astiage (il successore di Ciassàre), nacque Ciro II, il futuro fonda-
tore dell’impero persiano.
A Cambise I succedette nel 553 a.C. Ciro II. Vassallo dei Medi, Ciro regnò
da Pasargade col titolo di “re di Anshan”, ma presto si ribellò alla signoria dei
Medi e con l’appoggio della sua gente tenne testa all’esercito di Astiage. Nel 549
a.C., grazie soprattutto alla defezione di Arpago, il capo dell’esercito medo che
passò dalla sua parte, Ciro rimase vittorioso e occupò Ecbatana dopo avere uc-
ciso il nonno Astiage. Così divenne il nuovo signore della Media e dei suoi pos-
sedimenti: l’Assiria, l’Armenia, la Cappadocia e la Siria. Venne in tal modo a ri-
baltarsi l’antico rapporto politico fra i due popoli indo-ariani: i Medi, già domina-
tori dei Persiani, ne divennero sudditi. È questo importante momento storico che
la profezia danielica inquadra con la figura del grande orso emergente dal mare
che si solleva appoggiandosi su un fianco (cioè sulla forza preponderante dei
Persiani, se i due fianchi del bestione, come hanno creduto non a torto vari
espositori, rappresentano le due etnie, la persiana e la meda). Da politico saggio
e lungimirante, Ciro trattò i Medi alla stessa stregua dei Persiani e non da vas-
salli, e fu magnanimo verso le popolazioni sottomesse.
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NOTE STORICHE
Consolidato il potere nei territori acquisiti con la vittoria sui Medi - territori
che si estendevano dalle regioni ad est del Tigri fino al corso dell’Halys nell’Ana-
tolia centrale - Ciro mirò ad espandersi ancora verso ovest. Nel 547 a.C. tolse ai
Babilonesi una provincia che Nabonide aveva sottratto ai Medi e affrontò Creso,
il re dei Lidi, che aveva oltrepassato l’Halys per prevenire un attacco persiano.
Respinti i Lidi, Ciro attaccò di sorpresa Sardi, la loro capitale, e la espugnò dopo
14 giorni di assedio nell’inverno di quello stesso anno, il 547 a.C. Nei tre anni
seguenti il medo Arpago, divenuto uno dei generali più abili di Ciro, sottomise
tutte le città greche della Ionia, sicché l’intera Anatolia, dal Mar Nero all’Egeo,
entrò nell’orbita persiana.
Nell’autunno del 539 a.C., Ciro mosse guerra a Nabonide di Babilonia. Tra-
volte le truppe avversarie presso Opis, sul Tigri, occupò Sippar senza combat-
tere. Il 13 ottobre di quello stesso anno Ugbaru, governatore del Gutium e valo-
roso generale del gran re, occupò Babilonia con uno stratagemma (v.comm. a 5:
29). Con la città passò nelle mani di Ciro quanto era rimasto dei territori dell’im-
pero caldeo. Anche gli esuli di Giuda (v. 2Cr 36: 22, 23 e Ed 1: 1-4) trassero van-
taggio dalla politica magnanima di Ciro verso le popolazioni alienigene depor-
tate nella Babilonide (cfr. Ed 1: 1-4). Otto anni dopo la vittoria sui Babilonesi,
Ciro morì combattendo contro i Massageti nell’Iran orientale.
Cambise II (530-522 a.C.), che aveva già tenuto la reggenza di Babilonia,
salì sul trono di Persia alla morte del padre. Conscio della sua impopolarità,
prima di mettersi in marcia per l’Egitto alla testa delle truppe nel 525 a.C., fece
assassinare in segreto il fratello Bardya (lo Smerdis di Erodoto).
A Pelusio i Persiani batterono le milizie mercenarie di Psammetico III ap-
pena salito al trono come successore di Amasi. Dilagate nel Delta, le truppe di
Cambise, occuparono Menfi, poi, essendosi sottomesse spontaneamente la Libia
e la Cirenaica, volsero a sud verso nuove conquiste. In breve tutta la Valle del
Nilo, fino al confine con la Nubia, fu in saldo possesso dei Persiani. Cadeva così
l’ultimo baluardo della “triplice alleanza” Creso-Nabonide-Amasi che invano
aveva tentato di opporsi all’espansione persiana.
I tre regni importanti vinti e sottomessi da Ciro e da Cambise (la Lidia nel
547 a.C., Babilonia nel 539 a.C. e l’Egitto nel 525 a.C.) da vari espositori sono
stati accostati alle tre costole che nella visione di Daniele l’orso vorace stringeva
fra i denti.
L’ordine dato alla belva di levarsi e mangiare molta carne trova riscontro
nelle estese conquiste territoriali dei Persiani, dopo il loro sopravvento sui Medi.
Nel 522 a.C. Cambise, avuta notizia che un mago della Media - un certo
Gaumata - aveva usurpato il trono spacciandosi per il fratello Bardyia che lui
aveva eliminato in segreto, prese frettolosamente la via del ritorno, ma a Susa
non giunse mai essendo perito in circostanze poco chiare lungo il tragitto.
Intanto nella Persia agitata dalla rivolta un principe discendente dagli Ache-
menidi attraverso un ramo cadetto, Dario figlio di Istaspe, smascherò l’impostore
che regnava da circa 6 mesi, lo combatté e lo uccise.
Dario I (522-486 a.C.) dovette combattere per quasi tre anni prima di avere
ragione dei numerosi pretendenti al trono che avevano alzato la testa dopo la
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CAPIRE DANIELE
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NOTE STORICHE
amici gli staterelli vassalli di Siria e Palestina meno inclini alla ribellione. Favori
particolari elargì ai Giudei nel 457 a.C. (vedi Ed 7: 11-26; Ne 2: 1-8).
L’intervento di Megabise in Egitto con l’appoggio della flotta fenicia nel 456
a.C. riportò l’ordine.
I Greci e gli Egiziani furono battuti, Inaro si arrese e fu spedito in Persia
dove Artaserse, venendo meno ai patti, lo fece uccidere attirandosi il disprezzo
di Megabise.
La guerra lunga e inconcludente con Atene finì nel 448 a.C. con la pace di
Cimone voluta dal re persiano. Poco si sa sugli ultimi vent’anni di regno di que-
sto discusso regnante achemenide. Artaserse I morì nel 423 a.C. dopo 41 anni di
regno lasciando l’impero in uno stato caotico.
Alla morte di Artaserse I, dopo un breve interregno di Serse II e forse di
Sogdiano, il trono di Persia fu occupato da Dario II Noto (423-405/4 a.C.), una
figura piuttosto scialba di regnante.
Negli ultimi 75 anni, con l’impero oramai in declino, si succedettero sul
trono degli Achenemidi Artaserse II Memnone (405/4 - 359/58 a.C.), Artaserse III
Ocho (359/58 - 338/37), Arsete (338/37 - 336/35) e Dario III Codomano (336/35
- 331).
Sconfitto da Alessandro il Macedone sul Granico, a Isso e ad Arbela, Dario
III fu infine assassinato dal satrapo Besso nel 331 a.C. e con lui finì l’impero per-
siano dopo 208 anni di predominio in Asia e nel bacino orientale del Mediterra-
neo.
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NOTE STORICHE
tuti in guerra dai Tebani. Per la seconda volta, nel 362 a.C., Tebe sconfisse
Sparta che aveva fatto lega con Atene. Intanto cresceva a nord-est il potere della
Macedonia e per le città greche in lotta fra loro si profilava una nuova minaccia
dopo quella persiana.
Nel 359 a.C. divenne re dei Macedoni Filippo II. Dotato di non comuni ca-
pacità politiche e militari, il nuovo sovrano unificò la Macedonia, fondò una mo-
narchia militare e inaugurò una nuova tattica di guerra che ebbe il suo punto di
forza nella famosa falange da lui stesso creata. Filippo batté la Lega Ellenica nel
343/42 a.C., sottomise Atene ed estese l’egemonia della Macedonia sulla Tessa-
glia. Progettò una spedizione militare contro la Persia, ma la morte per mano dei
congiurati nel 336 lo colse prima che avesse potuto attuarla.
Il figlio di Filippo, Alessandro, salito al trono appena ventenne, dovette su-
bito far fronte a una insurrezione delle città greche. La rivolta fu domata con un
duro intervento che mise in luce le straordinarie capacità militari del giovane so-
vrano. Tebe, artefice principale dell’insurrezione, fu presa e rasa al suolo.
Consolidato il potere in Macedonia e in Grecia e ricostituita la Lega Panelle-
nica nel 335 dopo la distruzione della ribelle Tebe, Alessandro pensò che fosse
giunto il momento di saldare il conto con la Persia, colpevole di avere calpestato
il sacro suolo ellenico, oppresso i Greci della Ionia e, da ultimo, tentato di solle-
vargli contro le città della Tessaglia.
In nome di tutta la stirpe ellenica Alessandro mosse contro Dario III Codo-
mano alla testa di 6 falangi e un reparto di cavalleria, in tutto 40.000 fanti e 5.000
cavalieri. Nella primavera del 334, lasciato a Pella come reggente il generale An-
tipatro, attraversò l’Ellesponto e sbarcò nella Troade. Dario, allarmato, gli mandò
contro i satrapi dell’Asia Minore con le loro forze. Con un’abile manovra not-
turna il Macedone accerchiò gli avversari presso il fiume Granico e all’alba gettò
lo scompiglio tra le loro file e li costrinse alla fuga. Con una rapida avanzata
lungo la fascia costiera dell’Anatolia le falangi macedoni vittoriose liberarono dal
dominio persiano le città e le isole greche della Ionia e si portarono nella Cilicia.
Dario in persona mosse contro i Macedoni alla testa di un esercito assai più
numeroso di quello avversario. I due schieramenti si fronteggiarono nella stretta
valle del Pinaros, presso Isso. Con un’ampia manovra Dario riuscì ad aggirare i
Macedoni e prenderli alle spalle bloccando loro ogni possibile ritirata: la loro
sorte sembrava segnata. Ma Alessandro con un’azione fulminea scagliò la caval-
leria e due falangi contro l’ala sinistra dello schieramento avversario. Questa ce-
dette e trascinò nella rotta il settore centrale dove si trovava il Gran Re (una tra-
dizione raccolta da Plutarco vuole che i due sovrani si trovassero fugacemente
l’uno di fronte all’altro: l’episodio è raffigurato in un famoso mosaico pompeiano
che si trova nel Museo Nazionale di Napoli).
Fra il panico generale Dario si dette alla fuga; Alessandro però dovette tor-
nare indietro con la cavalleria per soccorrere l’ala sinistra del suo schieramento
contro cui si era lanciato un forte reparto dell’esercito persiano. Il nemico, stretto
tra due fuochi, fuggì lasciando nelle mani dei Macedoni copioso bottino, e la
battaglia di Isso si concluse con una nuova, folgorante vittoria dei Macedoni. Era
il mese di novembre del 333 a.C. Alessandro s’impadronì della tenda abbando-
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nata del Gran Re dove si trovavano, insieme a un cospicuo tesoro, le sue donne:
la madre, la moglie e le figlie con le dame di corte.
Dopo avere messo in rotta l’esercito persiano Alessandro, anziché prose-
guire verso Oriente, marciò in direzione Sud. Damasco, nella Siria, fu conqui-
stata da un suo generale. Cipro, Sidone, Biblo e altre città fenicie si sottomisero
spontaneamente ai Macedoni. Tiro, amica dei Persiani, non oppose resistenza,
ma rifiutò il vassallaggio. La città commerciale sulla costa fu presa in breve
tempo e rasa al suolo. Non fu altrettanto facile per i macedoni prendere l’Acro-
poli, arroccata su un isolotto fortificato a mezzo miglio dalla costa. Fu necessario
costruire un terrapieno con le macerie della città costiera. Dopo 7 mesi di asse-
dio la roccaforte fu espugnata e i difensori furono trattati con inaudita ferocia:
dopo che la fortezza fu saccheggiata e data alle fiamme, i superstiti del massacro
furono venduti come schiavi. Era il mese di luglio del 332 a.C.
Gaza, roccaforte persiana della Filistia , sulla via dell’Egitto, rifiutò la resa.
Dopo due mesi di vano assedio Alessandro ne abbatté le mura a colpi d’ariete e
fece scempio dei difensori. Il generale persiano che aveva resistito con grande
valore, venne ucciso e il suo cadavere, legato al cavallo del vincitore, fu trasci-
nato nella polvere intorno alle rovine della fortezza.
Il satrapo d’Egitto non fu in grado di opporsi agli invasori avendo perso le
sue truppe nella battaglia di Isso. Il Conquistatore entrò trionfalmente nel Paese
dei faraoni salutato dai sacerdoti come il figlio di Horus, e vi rimase per tutto
l’inverno 332-331, il tempo necessario per farsi proclamare faraone e figlio di
Zeus-Ammon e fondare una nuova Alessandria.
Nella primavera del 331 Alessandro si rimise in marcia. Percorsa la Palestina
e la Siria senza combattere, attraversò l’Eufrate e il Tigri, a nord dell’Antica Ni-
nive, e dilagò nella pianura assira. Lì, fra Arbela e Gaugamela, lo attendeva Da-
rio III con un esercito forte di 250.000 combattenti, 200 micidiali carri falcati e un
reparto di elefanti da combattimento. Alessandro disponeva soltanto di 40.000
fanti e 7.000 cavalieri. Il divario delle forze in campo era dunque enorme. Al
centro del suo schieramento, Dario scagliò contro l’avversario l’ala sinistra al co-
mando del satrapo Besso. Alessandro finse di non accorgersene, e al momento
opportuno si avventò sul nemico con la cavalleria e alcune falangi e lo travolse.
Il Gran Re non ebbe altra scelta che la fuga per salvarsi dalla cattura, ma il Mace-
done dovette ancora una volta interrompere l’inseguimento per venire in aiuto
di un’ala del suo schieramento che stava per cedere sotto la pressione dell’ala si-
nistra dell’esercito persiano. Nel frattempo però Mazeo, il satrapo di Babilonia,
ed i suoi uomini che stavano per travolgere i Greco-macedoni, avendo saputo
che il loro re era fuggito, abbandonarono il campo e si dettero alla fuga
anch’essi. Anche stavolta, malgrado la loro notevole inferiorità numerica, i
Greco-macedoni colsero una grande vittoria, anzi la vittoria definitiva.
Dopo lo strepitoso successo di Arbela, Alessandro, su consiglio del satrapo
Mazeo passato dalla sua parte, entrò trionfalmente in Babilonia accoltovi come
liberatore, e prese possesso della città e del favoloso tesoro che vi era custodito.
Durante il breve soggiorno nella superba città caldea, in verità oramai deca-
dente, Alessandro concepì il disegno di conquistare il resto dell’impero persiano
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NOTE STORICHE
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NOTE STORICHE
Spirò il 13 giugno del 323 a soli 33 anni, dopo 13 anni di regno. E con la sua
morte prematura, si avviò verso il tramonto anche l’unità dell’immenso impero
che aveva costruito.
Alla morte di Alessandro i suoi generali si divisero gli alti incarichi di go-
verno e di comando militare. Perdicca, a cui il sovrano morente aveva conse-
gnato l’anello imperiale, assunse la reggenza dell’impero per il figlio appena
nato del defunto sovrano e per il fratellastro Filippo Arrideo seminfermo di
mente; Antipatro prese il comando supremo delle armate d’Europa, Seleuco
quello della cavalleria; Cratéro divenne governatore della Grecia e della Macedo-
nia, Antigono della Frigia, della Licia e della Panfilia, Pitone della Media, Eu-
mene della Cappadocia. Tolomeo fu satrapo dell’Egitto e Lisimaco della Tracia.
Nel 322 Antigono, Antipatro, Cratero, Lisimaco e Tolomeo insorsero contro
Perdicca. Il reggente dell’impero l’anno seguente perì in Babilonia per mano dei
suoi stessi uomini.
Una nuova ripartizione delle cariche fu decisa nel 321 in una conferenza
che si svolse a Triparadiso, nella Siria. Antipatro assunse la reggenza dell’impero;
Antigono e Cassandro, figlio di Antipatro, ebbero rispettivamente il comando
dell’esercito in Asia e quello della cavalleria al posto di Seleuco; Seleuco si inse-
diò nella Babilonia; Tolomeo mantenne il suo potere in Egitto; Filippo Arrideo,
Antigene e Laomedonte ebbero rispettivamente il governo della Frigia Minore,
della Susiana e della Siria.
Nel 320 a.C. Tolomeo occupò la Celesiria (la regione tra la Fenicia e la Si-
ria). L’anno seguente morì Antipatro lasciando la carica a Poliperconte anziché al
figlio Cassandro. Eumene ebbe da Poliperconte il comando delle truppe in Asia.
Nel 318 Antigono attaccò e sconfisse la flotta di Poliperconte davanti a Bi-
sanzio. Eumene riparò nella Susiana da dove per due volte impegnò in battaglia
e sconfisse le truppe di Antigono.
Intanto Cassandro indusse Filippo Arrideo a destituire Poliperconte, l’erede
di Antipatro. Costui trovò rifugio e protezione presso Olimpia, la madre di Ales-
sandro. Olimpia marciò sulla Macedonia alla testa di un esercito che non fu con-
trastato dalle truppe dell’Arrideo, rifiutatosi di combattere contro la madre del
grande sovrano scomparso. Olimpia fece catturare e uccidere Filippo Arrideo, la
regina Euridice e i seguaci di Cassandro, quindi mise sul trono il nipotino Ales-
sandro IV e restituì le cariche a Poliperconte.
Nel 316 a.C. Cassandro imprigionò il re-fanciullo e sua madre, Rossane, e
catturata Olimpia a Pidna la fece giustiziare. Nello stesso anno sposò Tessalo-
nica, sorellastra di Alessandro, e fondò in suo onore la città omonima. Sempre
nel 316, Eumene, tradito dai suoi in Asia, fu consegnato ad Antigono che lo fece
assassinare.
Oramai dominatore assoluto dell’Asia, Antigono si impadronì di Babilonia
costringendo alla fuga Seleuco che trovò accoglienza presso Tolomeo in Egitto.
Lisimaco, Cassandro e Tolomeo si coalizzarono contro Antigono e gli intimarono
di restituire la Babilonide a Seleuco e la Celesiria a Tolomeo nonché di cedere a
Cassandro la ex satrapia di Eumene e di spartire in 4 il tesoro di Susa e di Ecba-
tana. Antigono fece orecchio da mercante e fu la guerra, una guerra generale
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che si combatté dalla Tracia a Cirene, dalla Grecia a Cipro, dalla Macedonia alla
Fenicia.
Nel 312 a.C. Tolomeo sconfisse a Gaza l’esercito di Demetrio, il figlio di An-
tigono Monoftalmo, e rioccupò la Celesiria.
Intanto Seleuco, con un piccolo esercito donatogli da Tolomeo, sconfisse
un paio di generali di Antigono ed entrò fortunosamente in Babilonia. In
quell’anno (312 a.C.) ebbe inizio ufficialmente l’èra seleucidica. Nella Celesiria
un esercito egiziano mandato da Tolomeo per cacciare Demetrio da tutta la re-
gione fu sconfitto dalle truppe di quest’ultimo; Tolomeo dovette sgombrare la
Celesiria per riavere i suoi soldati fatti prigionieri da Demetrio.
Nel 310 a.C. Cassandro fece assassinare Alessandro IV e sua madre Ros-
sane. L’anno seguente Poliperconte si offrì di riconquistare il trono di Macedonia
per Eracle, il primo figlio di Alessandro, nato da Barsine di Rodi, ma avendo ri-
cevuto 100 talenti d’oro da Cassandro tradì il figlio del gran re e sua madre e li
fece uccidere. Poliperconte ricevette ancora dall’ex nemico il governatorato della
Grecia.
Nel 308 a.C., con l’assassinio di Cleopatra, sorella di Alessandro, si estinse la
famiglia del Macedone. Antigono, credendosi investito del compito di tenere
unito l’impero, volle coinvolgervi il figlio Demetrio. Costui nel 307 prese Atene e
Cipro. Nel 304 occupò tutta la Grecia cacciandone Cassandro e il suo governa-
tore Poliperconte. A questo punto Antigono si proclamò re di tutto l’impero ed
esigette obbedienza dai suoi colleghi. Per tutta risposta Seleuco si proclamò re di
Babilonia e Siria, Lisimaco re di Tracia, Cassandro re di Macedonia e Tolomeo
faraone d’Egitto.
Antigono attaccò l’Egitto ma non riuscì a varcarne le frontiere; suo figlio
Demetrio assediò Rodi alleata dell’Egitto (di qui l’appellativo di poliorcete, “l’as-
sediatore”). Tolomeo accorse in soccorso dell’isola costringendo Demetrio ad ab-
bandonare l’assedio (donde l’appellativo di sotère, “salvatore”, attribuito al re egi-
ziano). Con gli scudi e le armi bronzei abbandonati dai soldati di Demetrio, gli
isolani eressero il famoso Colosso (vedi comm. a 3: 1).
Tolomeo, Lisimaco, Cassandro e Seleuco si unirono per farla finita con Anti-
gono Monoftalmo. Lisimaco passò in Asia Minore, Tolomeo rioccupò la Celesi-
ria, Seleuco invase la Cappadocia. L’ultraottantenne Antigono richiamò il figlio
Demetrio dalla Grecia e andò ad attendere i nemici a Isso, nella Cilicia. Intanto
Demetrio, giunto sul posto con la cavalleria, attaccò e mise in fuga le truppe di
Antioco, figlio di Seleuco, ma non riuscì a congiungersi con la fanteria frappo-
nendosi fra lui e quest’ultima gli elefanti di Seleuco. Gran parte dei soldati di An-
tigono passarono dalla parte di Seleuco, il resto fu sbaragliato. Antigono cadde
trafitto dai giavellotti dei nemici, Demetrio si dette alla fuga.
Era l’anno 301 a.C. Con la fine dell’ultimo rappresentante del potere cen-
trale, l’impero di Alessandro restava definitivamente smembrato. I quattro alleati
vittoriosi si spartirono fra loro i resti del regno di Antigono e fondarono 4 nuove
monarchie: la Tracia e l’Asia Minore occidentale fino all’Alys, sotto Lisimaco; la
Babilonide, la Siria e l’Asia Minore orientale, sotto Seleuco; la Grecia e la Mace-
donia sotto Cassandro; l’Egitto, con la Palestina e la Celesiria, sotto Tolomeo.
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NOTE STORICHE
Con l’esito della battaglia di Isso nel 301 a.C. si realizzava la divisione in 4
dell’impero macedone che la profezia aveva preconizzato 248 anni prima con la
figura simbolica delle 4 teste sul corpo del leopardo (Dn 7: 6).
Questo assetto politico del mondo antico non durò a lungo, ma l’unità
dell’impero macedone finì per sempre: era durata soltanto una trentina d’anni.
Demetrio Poliorcete, sconfitto a Isso, riparò a Efeso e già l’anno seguente
attaccò con qualche successo i possedimenti di Lisimaco.
Nel 297 a.C. morirono a distanza di 4 mesi l’uno dall’altro Cassandro e suo
figlio Filippo IV che gli era succeduto. Il regno di Macedonia fu diviso tra i due
fratelli minori di Filippo: Antipatro e Alessandro.
La regina-madre Tessalonica assunse la reggenza.
Nel 295 a.C. Demetrio tolse Atene agli eredi di Cassandro e si espanse nella
Grecia. Nel 293 uccise a tradimento Alessandro, il quale aveva a sua volta elimi-
nato il fratello Antipatro e la madre Tessalonica per regnare da solo. Soppresso
l’ultimo discendente di Cassandro, Demetrio si fece proclamare re di Macedonia.
Nel 285 a.C. Tolomeo e Lisimaco, infastiditi per le provocazioni di Deme-
trio, lo attaccarono in Asia Minore e lo sconfissero. Il Poliorcete si consegnò a
Seleuco che lo relegò sull’Oronte dove morì due anni dopo. In quello stesso
anno - il 283 a.C. - morì in Egitto Tolomeo I Sotere, e due anni dopo fu la volta
di Lisimaco, sconfitto e ucciso da Seleuco a Corupedio (281 a.C.). Seleuco a sua
volta perì assassinato l’anno seguente.
Con la scomparsa di questi personaggi finirono anche le lotte fra i Diadochi
e si formarono tre grandi monarchie: la Macedonia sotto la signoria degli Antigo-
nidi fondata nel 279 da Antigono Gònata figlio di Demetrio Poliorcete; la Siria
sotto i discendenti di Seleuco; l’Egitto sotto gli eredi di Tolomeo.
La Macedonia nel 202 a.C. si alleò con Antioco III di Siria contro l’Egitto.
L’intervento di Roma, sollecitato da Pergamo, Atene e Rodi, diede luogo alla II
guerra macedonica che si concluse con la sconfitta della Macedonia a Cinocefale
nel 197 a.C. L’anno seguente il console romano Tito Quinzio Flaminio proclamò
l’autonomia di tutte le città greche.
Le mire revansciste di Perseo indussero Roma a un nuovo intervento mili-
tare contro la Macedonia, e fu la III guerra macedonica. Nel 168 a.C. il console
romano Paolo Emilio sconfisse Perseo a Pidna e con lui finì il regno degli Anti-
gonidi. La Macedonia fu divisa in 4 territori autonomi. Gli stati macedoni cessa-
rono di esistere nel 148 a.C. quando, a seguito di una rivolta domata dai Ro-
mani, la Macedonia divenne provincia romana.
Quanto ai regni di Egitto e di Siria, interminabili conflitti per questioni terri-
toriali ne determinarono un progressivo logoramento finché Roma pose fine
prima al regno seleucidico nel 64 a.C., quando Cneo Pompeo occupò la Siria,
poi al regno tolemaico nel 30 a.C. allorché le legioni di Ottaviano sottomisero
l’Egitto. Col tramonto dei regni ellenistici eredi dell’impero di Alessandro, si af-
facciava alla ribalta della storia la quarta monarchia universale.
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NOTE STORICHE
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selo. Due anni dopo - lo stesso anno della vittoria dei Romani a Pidna, il 168
a.C. - giunse in Egitto un legato di Roma con un ultimatum per Antioco IV: l’Epi-
fane, che ben conosceva la potenza militare di Roma, non osò sfidarla e sgom-
brò il paese.
Nel 149 a.C. Roma dovette ancora intervenire nella penisola balcanica per
stroncare un tentativo di ricostituzione del regno di Macedonia. L’aspirante suc-
cessore di Perseo fu battuto ancora a Pidna nel 148 a.C. Due anni dopo Roma ri-
dusse a sua provincia la Macedonia.
Cosicché fino al 146 a.C. i Romani si erano annessi uno dei tre regni elleni-
stici superstiti (appunto quello di Macedonia), avevano messo sotto la loro pro-
tezione il secondo (l’Egitto) e avevano rintuzzato le velleità di conquiste del
terzo (la Siria).
Intanto la rinascita di Cartagine dopo la disfatta disastrosa del 202 a.C., met-
teva in allarme Roma. Provocata dal confinante regno di Numidia alleato di
Roma, Cartagine aveva reagito senza tenere conto dell’impegno di non ripren-
dere le armi senza il consenso di Roma. Roma rispose prontamente alla sfida, e
fu la Terza Guerra Punica. Cartagine fu presa e distrutta nel 146 a.C. dopo tre
anni di assedio. Roma non ebbe più rivali nel Mediterraneo.
In politica estera i romani, quando fu possibile, preferirono la diplomazia
alla guerra, comunque sempre cercando di trarre per se stessi i massimi van-
taggi, ora rafforzando gli alleati, ora indebolendo gli avversari. Perseguendo que-
sta politica nell’Oriente essi sostennero gli stati minori (come il regno di Per-
gamo, che grazie all’alleanza con Roma pervenne alla leadership nell’Asia Mi-
nore) e contrastarono l’espansionismo degli stati più forti, come il regno di Ma-
cedonia cui opposero l’alleanza con gli stati greci, o il regno di Siria che imbri-
gliarono alleandosi con l’Egitto. Ma quando la diplomazia non bastò, non esita-
rono a prendere le armi.
Nel 133 a.C., essendo morto senza eredi Attalo III, ultimo re di Pergamo,
questo territorio, che comprendeva buona parte dell’Asia Minore, passò ai citta-
dini di Roma per lascito testamentario, e nel 129 a.C. divenne provincia romana.
Le legioni di Roma intervennero ancora in Africa nel 105 a.C. in risposta alla
sfida di Giugurta re di Numidia.
La vittoria fruttò a Roma il possesso di una parte di questo territorio. In se-
guito le armi romane tornarono in Oriente, stavolta per impedire a Mitridate re
del Ponto di impadronirsi dei possedimenti romani in Asia. Nell’84 a.C. Mitridate
dovette deporre le armi sconfitto.
In parallelo con la crescita territoriale all’esterno, era venuta sviluppandosi
già dal II secolo a.C. all’interno dello Stato romano una rivoluzione politica e so-
ciale che avrebbe alterato in un senso o nell’altro i rapporti di forza all’interno
degli organi di governo e fra le classi sociali. Il potere dell’assemblea popolare
venne restringendosi e in pari tempo si accrebbe il potere del Senato. Notevoli
mutamenti economici e sociali si produssero a seguito dei contatti col mondo
esterno. Il commercio con l’estero da una parte e i tributi delle province dall’altra
avevano fatto affluire in Roma notevoli ricchezze, dando luogo al nascere di
nuovi modelli di vita.
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instabilità politica in cui il trono dei Cesari parve vacillare: ben 4 imperatori si
succedettero fra il 68 e il 69: Galba, Vitellio, Ottone e Vespasiano, l’iniziatore
della dinastia flavia. Vespasiano era impegnato in Giudea da 3 anni nella guerra
di repressione di un’insurrezione quando le sue legioni lo proclamarono impera-
tore nel 69. Suo figlio Tito assunse il comando delle legioni in Giudea e portò a
termine la guerra di repressione con la conquista e la distruzione di Gerusa-
lemme nel 70. Quello di Vespasiano fu un buon governo; fra le sue realizzazioni
va ricordata la costruzione in Roma dell’Anfiteatro Flavio (il Colosseo).
Morto Vespasiano nel 79, divenne imperatore suo figlio Tito. L’inizio del
suo regno fu segnato dalla catastrofica eruzione del Vesuvio che distrusse Erco-
lano, Stabia e Pompei.
Il regno di Tito fu breve. Nell’81 gli succedette il fratello Domiziano, il cui
governo degenerò in dispotismo. Domiziano pretese per sé il titolo di “Dominus
et Deus” (“Signore e Dio”), e sul finire del suo regno scatenò una persecuzione
contro i cristiani (la seconda dopo quella di Nerone), che infierì particolarmente
in Asia Minore. In questo tempo ebbero luogo l’esilio di S.Giovanni a Patmos e
la composizione dell’Apocalisse.
Domiziano perì nel 96 in una congiura di palazzo, e con lui si estinse la
casa dei Flavi.
Seguì una serie di imperatori detti “adottivi”, perché elevati al trono in base
al principio dell’ “adozione del più degno”, sostituito al principio dinastico. Il
primo imperatore “adottivo” fu Cocceio Nerva. Al suo breve regno seguì nel 98
l’elevazione al trono imperiale dello spagnolo Ulpio Traiano. Traiano fu un
grande imperatore: combatté e sottomise i Daci in Europa e i Nebatei in Arabia,
e costituì le nuove province di Dacia e di Arabia; in Oriente vinse i Parti e con-
quistò l’Armenia, cosicché due altre province si aggiunsero all’Impero che rag-
giunse la massima estensione.
Morto Traiano nel 117, divenne imperatore “adottivo” Adriano (117-138), ri-
cordato per avere concluso la pace coi Parti rinunciando alle conquiste del suo
predecessore, e soprattutto per avere realizzato importanti opere fortificate in
Asia (lungo l’Eufrate) e in Europa (sul Reno, sul Danubio e in Inghilterra).
Adriano viaggiò molto per ispezionare l’amministrazione dell’Impero. La sua de-
cisione di ricostruire Gerusalemme come città romana fu la causa della seconda
rivolta giudaica, capeggiata da Bar Kocheba (132-135). L’insurrezione fu soffo-
cata nel sangue e Gerusalemme fu ricostruita come colonia romana col nome di
Aelia Capitolina secondo gli intendimenti dell’imperatore.
Dopo Adriano si succedettero sul trono dei Cesari Antonino Pio (138-161),
Marco Aurelio (161-180), l’imperatore-filosofo sotto il cui regno i romani combat-
terono contro i Parti e i Marcomanni, e Commodo (180-192), che si credette in-
carnazione di Ercole e di Mitra. In quegli anni i cristiani soffrirono severe perse-
cuzioni.
Dopo la morte violenta di Commodo nel 192, l’Impero cadde in potere dei
Pretoriani e l’unità sembrò venirne meno. Nel 193 ci furono 4 imperatori: Didio
Giuliano a Roma, Pescennio Nigro in Siria, Clodio Albino in Britannia e Settimio
Severo in Pannonia.
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NOTE STORICHE
Settimio Severo, iniziatore della dinastia dei severi, sconfitti i rivali e legitti-
mato il potere, ricostituì l’unità imperiale. Gli succedette nel 211 il figlio Caracalla
che regnò fino al 218. Dopo un breve regno di Macrino nel 218, l’esercito, dive-
nuto ancora una volta arbitro della situazione, elevò al trono imperiale Elioga-
balo di Emesa, in Siria (218-222), nipote di Caracalla e sacerdote di Baal in Siria.
Eliogabalo introdusse in Roma il culto di questa divinità orientale.
Caduto Eliogabalo per mano dei suoi soldati, salì al trono imperiale nel 222
Alessandro Severo, morto anche lui assassinato, dopo 3 anni di regno, a seguito
di una rivolta militare.
Seguì una serie di imperatori di nomina militare, quasi tutti periti di morte
violenta dopo un breve periodo di regno. Furono: Massimino Trace (235-238),
Gordiano III (238-244), Filippo Arabo (244-249), Decio (249-251), Trebonio
Gallo (251-253), Valeriano (253-260), Gallieno (260-268), Claudio II (268-270) e
Aureliano (270-275) che nel 274 adottò il titolo di “Dominus et Deus” e intro-
dusse il culto del sole e dell’imperatore come religione di Stato. Ad Aureliano
succedettero l’uno dopo l’altro Claudio Tacito (275-276), Probo (276-282), Caro
(283-284) e Diocleziano (294-305), che nel 303 promosse in tutto l’impero una
severa persecuzione dei cristiani.
Nel 293 Diocleziano introdusse un’importante riforma amministrativa statale:
fu istituito un governo a 4 a termine (Tetrarchia). Diocleziano ottenne l’Oriente
con Nicomedia come capitale, Massimiano l’Italia e l’Africa con Milano come ca-
pitale, Costanzo la Spagna, la Gallia e la Britannia con capitale Treviri e Galerio
l’Illirico e la Macedonia con capitale Sirmio. Gli Augusti - ovvero i reggenti delle
4 parti dell’Impero - si impegnarono a cedere dopo 20 anni il potere ai Cesari -
cioè ai successori da loro stessi nominati - e questi a loro volta a nominare altri 2
Cesari come coadiutori.
Nel 297 il territorio dell’Impero fu diviso in 12 circoscrizioni amministrative
(diocesi) e queste in 101 province. Nel 305 abdicarono Diocleziano e Massi-
miano. Gli altri due Augusti, Galerio e Costanzo, nominarono Cesari Severo e
Massimino Daia. Nel 308 un congresso imperiale nominò Licinio Augusto d’Occi-
dente; Diocleziano rifiutò la dignità imperiale.
L’instaurazione di una politica dinastica da parte dei singoli Augusti fece fal-
lire il sistema della Tetrarchia. Costantino, il figlio di Costanzo, fu insediato a
York, Massenzio, il figlio di Massimiano, a Milano. I due vennero a conflitto e
nel 312 Costantino sconfisse e uccise Massenzio al Ponte Milvio, in Roma, re-
stando unico padrone delle province occidentali. L’anno seguente Licinio vinse
Massimino Daia presso Adrianopoli. In quello stesso anno (313) Costantino
emanò da Milano l’editto di tolleranza favorevole ai cristiani.
Nel 324, avendo battuto Licinio presso Adrianopoli, Costantino divenne
l’unico sovrano di tutto l’impero. Nel 330, in contrasto con Roma pagana, trasferì
a Bisanzio la sede imperiale mutandone il nome in quello di Costantinopoli. Co-
stantino ricevette il battesimo cristiano sul letto di morte nel 337.
Nelle lotte di successione tra i figli di Costantino prevalse Costanzo II, il
quale rimase unico sovrano dell’Impero dopo la morte dei fratelli Costante e Co-
stantino II.
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NOTE STORICHE
Pavia nel 476. Odoacre depose Romolo Augustolo e, non osando rivendicare
per sé la dignità imperiale, rinviò all’imperatore Zenone le insegne relative do-
mandando e ottenendo il titolo di Patrizio. Si estinse così l’Impero Romano d’Oc-
cidente, i cui territori erano oramai sotto il completo controllo dei Barbari.
Questo momento storico segnava il trapasso dalla fase imperiale di Roma
alla fase dei regni barbarici.
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Pressati da est dagli Unni e dai Sarmati, nel 406 oltrepassarono il Reno , attraver-
sarono la Gallia saccheggiando e devastando, e si fermarono nella Spagna (409).
Nel 429, condotti da Genserico (428-477), invasero l’Africa dallo stretto di Gibil-
terra, devastarono le floride province romane e a Cartagine fondarono un regno.
Divenuti abili navigatori, con la flotta percorsero il Mediterraneo orientale assa-
lendo e saccheggiando i litorali italici e balcanici. Nel 455 giunsero a Roma dalla
foce del Tevere e la saccheggiarono. Convertitisi all’arianesimo, osteggiarono e
perseguitarono i cattolici. Nel 534 un esercito bizantino agli ordini di Belisario,
l’abile generale di Giustiniano, prese Cartagine e distrusse il regno dei Vandali.
I Burgundi, originari della Scandinavia, intorno al 400 d.C. si stabilirono
nella regione tra Metz e Magonza. Nella prima metà del V secolo invasero la
provincia belgica dell’Impero e nel 437 furono sconfitti dal generale romano
Ezio. Nel 443 si trasferirono nella regione del lago di Ginevra dove fondarono
un regno autonomo. Nel 490 scesero in Italia in appoggio a Odoacre, capo degli
Eruli, contro Teodorico re degli Ostrogoti, e devastarono la pianura padana. Nel
500 Clodoveo, re dei Franchi, li sconfisse e li rese tributari.
Gli Eruli ebbero la Scandinavia come terra di origine. Verso il 260 d.C. un
gruppo si unì ai Visigoti che invasero le regioni greche dell’Impero. Sulle rive
del Danubio, a nord della Tracia, fondarono un regno. Nel V secolo, sotto la
guida di Odoacre, invasero l’Italia e vi si stabilirono. Nel 476 ebbero un ruolo
determinante nella caduta dell’Impero d’Occidente. Vinti dagli Ostrogoti, in se-
guito furono sterminati dai Longobardi.
Gli Ostrogoti, ramo orientale della popolazione germanica dei Goti, in ori-
gine erano stanziati nell’odierna Ucraina. Nella seconda metà del III secolo d.C.
invasero i territori orientali dell’Impero romano. Sconfitti e sottomessi dagli Unni,
nel 370 si trasferirono nella Pannonia e da lì nella Mesia. Nel 488, sotto la guida
di Teodorico, invasero l’Italia. Sconfitto Odoacre re degli Eruli, fondarono un re-
gno con Ravenna come capitale. Il regno ostrogoto fu distrutto, alla fine della
lunga “guerra gotica” (535-553) dalle truppe bizantine mandate in Italia da Giu-
stiniano sotto il comando di Belisario prima e di Narsete poi.
I Longobardi, insediati lungo il corso inferiore dell’Elba fin dal I secolo
d.C., nella seconda metà del VI secolo emigrarono verso il sud. Nel 568, sotto la
guida di Alboino, dilagarono nella pianura padana e occuparono l’Italia del
nord estromettendo i Bizantini da gran parte del territorio e fondando un loro
regno. Il regno longobardo raggiunse il massimo splendore sotto Liutprando
(712-744), il quale donò al papa il castello di Sutri. Carlomagno pose fine al re-
gno longobardo quando invase l’Italia nel 774.
I Franchi, una confederazione di tribù germaniche divisa in due gruppi (i
Salii e i Ripuari), erano stanziati lungo il corso basso e medio del Reno. Dopo la
caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, i Salii costituirono un regno ro-
mano-barbarico che sotto Clodoveo (481-511), della dinastia dei Merovingi, sot-
tomise i Ripuari, gli Alamanni e i Burgundi e controllò tutta la Gallia. Clodoveo
fu il primo sovrano barbarico che si convertì alla fede cattolica. Alla sua morte,
mentre i successori (i re “fannulloni”) si consumavano in lotte dinastiche, emer-
sero i maestri di palazzo con Pipino Di Heristal. Suo figlio Carlo Martello re-
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NOTE STORICHE
spinse gli Arabi a Poitiers (733) bloccando la loro avanzata verso il cuore
dell’Europa. Il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve (751-768), col consenso di
papa Zaccaria depose nel 751 Childerico, ultimo sovrano merovingio, e si fece
eleggere re dei Franchi, incoronato nel 754 dallo stesso papa Zaccaria. Su richie-
sta di papa Stefano II, Pipino venne in Italia, sconfisse Astolfo III re dei Longo-
bardi e donò al papa l’Esarcato e la Pentapoli tolti ai Longobardi (Donazioni di
Pipino), territori che divennero il nucleo originale dello Stato Pontificio.
Carlomagno, figlio di Pipino il Breve, sconfisse e sottomise definitivamente i
Longobardi nel 774, riconfermando le “donazioni di Pipino” al papa. Sconfitti i
Sassoni fra il Reno e l’Elba nel 772-804, nell’800 fondò il Sacro Romano Impero.
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peratore bastava per l’Oriente e l’Occidente. Quanto a lui, Odoacre, egli poteva
governare l’Italia in nome dell’Imperatore col titolo di patrizio romano. La richie-
sta del barbaro fu accolta; in realtà, però, la sua dipendenza da Costantinopoli fu
nominale; di fatto Odoacre governò l’Italia da principe indipendente. Intanto i
barbari, in ottemperanza a quanto era stato loro promesso dal capo, si insedia-
rono come ospiti imposti nelle case dei Romani e coltivarono per sé e le loro fa-
miglie un terzo delle terre espropriato ai latifondisti romani.
b) Alla morte di papa Simplicio nel 483, Odoacre compì un passo falso. Mi-
rando alla elezione di un papa che gli fosse amico, fece intervenire presso l’as-
semblea elettiva il Prefetto del Pretorio affinché fosse sanzionato un suo decreto
in forza del quale l’elezione sarebbe stata nulla senza la rappresentanza del Re.
Questa ingerenza favorì l’elezione del raccomandato, Felice II (483-492). Osserva
il Villari: “Se non che egli (Odoacre) non era un Imperatore, ma un re barbaro
ed un ariano. Non era quindi sperabile che la Chiesa romana, sempre gelosa
delle sue prerogative, avesse mai potuto approvare il suo procedere, che fu in-
fatti principio di gravi scissure”. Le invasioni barbariche in Italia, Milano 1905,
pp. 136, 137. L’ingerenza di Odoacre nell’elezione del papa, com’era inevitabile,
fece nascere in seno alla Chiesa romana profonda diffidenza e avversione verso
di lui. Per di più l’Imperatore Zenone, insospettito dal suo agire da principe indi-
pendente, pensò di sbarazzarsene e con questo fine mise contro di lui altri bar-
bari. Spinse i Rugi, che abitavano al di là del Danubio, a muovere verso le Alpi.
Odoacre fu costretto ad affrontarli col suo esercito e li vinse nel Norico (487)
catturando il loro re. Ma il figlio di costui sfuggì alla cattura e trovò accoglienza
in Pannonia presso gli Ostrogoti che avevano per capo Teodorico degli Amali.
c) Nel passato recente la massima parte degli Ostrogoti era rimasta unita
agli Unni nella Dacia, ma alla morte di Attila si erano separati e si erano stanziati
appunto nella Pannonia. Venuti a patti con l’Imperatore, avevano mandato a Co-
stantinopoli come ostaggio Teodorico, il giovanissimo figlio del loro capo Teo-
domiro.
In Grecia Teodorico ricevette un’educazione militare romana. Nel 472, ora-
mai diciottenne, il giovane ostrogoto tornò nella Pannonia e in un’azione mili-
tare contro i Sàrmati dette prova di grande valore. Due anni dopo, morto Teodo-
miro, gli Ostrogoti lo nominarono loro capo.
Più tardi Teodorico prese le parti dell’Imperatore Zenone quando il rivale di
costui, Basilisco, tentò di spodestarlo. Avendo vinto grazie all’aiuto del capo
ostrogoto, Zenone per riconoscenza lo colmò di onori e lo nominò Patrizio.
Il comportamento di Teodorico verso l’Impero fu tuttavia ambiguo: ora ren-
deva ad esso importanti servigi - ricevendone adeguato compenso - ora si dava
a saccheggiare per ottenere di più. Onde Zenone si vide nella necessità di libe-
rarsi in qualche modo di lui. Poiché l’Imperatore non era punto soddisfatto di
come andavano le cose in Italia per via della prepotenza di Odoacre, pensò di
mandargli contro Teodorico coi suoi Ostrogoti. Teodorico non desiderava altro.
Intanto la posizione di Odoacre in Italia si era indebolita a motivo dei contrasti
col Papa: il momento per intervenire sembrava propizio.
Nell’autunno del 488 gli Ostrogoti ed altre genti germaniche unite a loro,
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NOTE STORICHE
con Teodorico alla testa, scesero in Italia. Non erano un esercito, ma un popolo
intero con i carri e le masserizie, la cui consistenza numerica è valutata dagli sto-
rici fra i 200 e i 300 mila individui.
Il primo scontro con l’esercito di Odoacre avvenne nell’estate del 489
sull’Isonzo, non lontano da Aquileia. Odoacre, battuto, dovette ritirarsi. Un mese
dopo ci fu un’altra battaglia sull’Adige, presso Verona, e Odoacre fu vinto ancora
una volta ma il suo avversario dovette subire perdite pesanti dal momento che
invece di proseguire verso Roma o Ravenna si rinchiuse in Pavia.
Odoacre coi suoi soldati raggiunse Roma, ma la città gli chiuse le porte, e
anche le popolazioni italiche gli si mostrarono ostili, in parte a motivo dei suoi
contrasti col Papa, in parte a causa delle sue razzie. “E di tutto ciò - dice P.Villari
- la Chiesa aveva saputo profittare per eccitare contro di lui le popolazioni, tanto
che poco dopo si parlò addirittura d’una generale cospirazione, di una specie di
Vespro siciliano organizzato dal clero” (op. cit., pp. 143, 144).
Riorganizzate le proprie forze, Odoacre tornò verso il nord per affrontare il
rivale. Gli vennero in aiuto i Burgundi, che si misero subito a saccheggiare il
paese. In appoggio di Teodorico scesero i Visigoti. Nella battaglia, che si com-
batté sull’Adda l’11 agosto 490, questi si batterono a fianco degli Ostrogoti e in-
sieme inflissero all’avversario una completa disfatta. Odoacre si rinchiuse in Ra-
venna. La città resistette tre anni all’assedio degli Ostrogoti. Alla fine dovette ce-
dere. Le trattative per la resa furono concluse il 27 febbraio 493 con l’intermedia-
zione dell’Arcivescovo di Ravenna. “Altra prova anche questa - nota il Villari -
della straordinaria importanza assunta allora dalla Chiesa, e quindi dal clero in
tutti affari di maggiore gravità” (op. cit., pp. 145, 146).
Odoacre si arrese ed ebbe salva la vita. Sei giorni dopo Teodorico entrò
trionfalmente in Ravenna accolto dall’Arcivescovo e dal clero. Il 15 marzo di
quello stesso anno (il 493), Teodorico trafisse a tradimento Odoacre che si era fi-
dato di lui accettando il suo invito ad un banchetto solenne. Così finì il regno di
Odoacre che durava da 17 anni. A questo evento concorsero in misura non tra-
scurabile, come si è visto, la Chiesa ed il suo clero.
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NOTE STORICHE
d) Alla morte di Teodorico, la figlia Amalasunta era già vedova per la morte
prematura del marito Eutarico. Il figlio di lei, Atalarico, aveva intorno a 10 anni.
Intanto, a Costantinopoli, l’anno seguente (il 527) l’Imperatore Giustino asso-
ciava al trono il nipote Giustiniano che quattro mesi dopo rimase il solo impera-
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f) Non desta affatto meraviglia che in un’epoca in cui sulle questioni reli-
giose regnava ormai una completa identità di vedute fra l’Imperatore e il papa,
Giustiniano, nel 533, scrivesse a Papa Giovanni II (532-535) la famosa lettera di
cui riportiamo di seguito i passi più significativi:
“Giustiniano, vittorioso, pio, beato, illustre, trionfante, sempre augusto; a
Giovanni, patriarca e santissimo Arcivescovo della città di Roma: ‘Poiché ab-
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NOTE STORICHE
biamo sempre cercato di mantenere le sante chiese di Dio nello stato in cui sono
oggi, ovvero nella pace e libere da ogni contrarietà, abbiamo invitato tutto il
clero dell’Oriente ad unirsi e a sottomettersi alla Vostra Santità... Voi che siete il
Capo della Chiesa... Noi domandiamo dunque... che Vostra Santità approvi tutti
coloro che credono a quanto abbiamo sopra esposto e condanni la perfidia di
quanti giudaicamente hanno osato negare la fede legittima... Che la Divinità, o
santo e religiosissimo Padre, Vi conceda lunga vita” (da Jean Vuilleumier, L’Apo-
calypse..., p. 231).
Nella stessa lettera Giustiniano conferma legalmente il vescovo di Roma
“capo di tutte le sante chiese” e “capo di tutti i santi ministri di Dio”. In una se-
conda lettera si complimenta col Papa per la sua solerzia nel “correggere” gli
“eretici” (vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 827). Le due lettere furono
incorporate nel Codex del Corpus Juris (libro I, titolo primo) con piena forza di
editti imperiali.
Ed ecco i brani salienti della lettera con cui Giovanni I rispose all’Impera-
tore l’anno seguente (534):
“Giovanni, vescovo di Roma, al nostro illustrissimo e clementissimo figlio
Augusto Giustiniano: al di là degli elogi meritati che si possono rivolgere alla vo-
stra saggezza e alla vostra dolcezza, voi, il più cristiano fra i principi, vi siete an-
cora distinto come un astro luminoso per l’amore della fede e della carità.
Istruito nella disciplina ecclesiastica, voi avete mantenuto la preminenza della
sede romana; le avete sottoposto ogni cosa e avete ripristinato l’unità della
Chiesa... la pace della Chiesa, l’unità della religione si levino e mantengano la
pace di colui che ne è l’artefice... Abbiamo saputo da costoro (Hippazio e De-
metrio) che avete pubblicato un editto rivolto ai vostri popoli fedeli, dettato
dall’amore e dalla fede e mirato a distruggere gli eretici conforme alla dottrina
apostolica, e confermato dai nostri colleghi e i nostri fratelli i vescovi. Noi lo
confermiamo con la nostra autorità essendo conforme alla dottrina apostolica”
(da J.Vuilleumier, ibidem).
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diritto legittimo e i sentimenti romani e cattolici del deposto Ilderico. Una grande
flotta salpò da Costantinopoli nel 533 e dopo una sosta a Catania sbarcò in
Africa, a 9 giorni di marcia da Cartagine, un esercito di 10.000 fanti e 5.000 cava-
lieri, tutti agli ordini del valoroso generale Belisario.
“Belisario - dice P.Villari - si presentò in Africa non come un conquistatore,
ma come un liberatore dei cattolici, dei Romani, del clero e dei proprietari, tutti
ugualmente oppressi dai Vandali, eretici, stranieri e barbari” (op. cit., p. 184).
La prima battaglia, il 13 settembre 533, fu vinta dagli imperiali nonostante la
loro inferiorità numerica. Due giorni dopo Belisario entrava trionfalmente a Car-
tagine. Ritiratosi in Numidia, Gelimero contrattaccò poco tempo dopo ma perse
anche stavolta. L’anno seguente si arrese e fu trattato da Belisario con umanità.
“Il risultato più notevole di questa guerra - osserva il Villari - fu che i van-
dali, dopo avere portato tanto terrore, tante rovine nell’Impero, scomparvero af-
fatto dalla storia, senza che più se ne sentisse parlare” (op. cit., p. 185).
Molti vandali furono deportati, altri incorporati nell’esercito bizantino; quelli
che rimasero in Africa ebbero confiscati i beni, furono cacciati dalle loro chiese,
imprigionati o resi schiavi. Quando Belisario fece ritorno a Costantinopoli fra le
spoglie che furono fatte sfilare dietro i prigionieri figuravano gli arredi del tem-
pio di Gerusalemme che Tito aveva portato a Roma nel 70 e Genserico da Roma
aveva portato Cartagine nel 455.
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NOTE STORICHE
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mando. Geloso per i successi del generale, Giustiniano nel 539 spedì in Italia
Narsete con l’incarico di dividere il comando con Belisario. Vitige approfittò
della discordia fra i due generali per rialzare la testa. Rafforzò le sue posizioni in
Liguria e fece occupare e radere al suolo Milano i cui 300.000 abitanti furono tru-
cidati. Intanto Teudiberto re dei Franchi faceva scendere in Italia in aiuto degli
Ostrogoti 10.000 Burgundi che si dettero a razziare il paese. Giustiniano, con-
scio delle conseguenze disastrose della sua decisione, richiamò a Costantinopoli
Narsete e l’unità di comandò in Italia fu ripristinata.
Ma i guai non erano finiti per i romani. Centomila franchi scesero dalle Alpi
con alla testa il loro re Teudiberto, con l’apparente intenzione di venire in aiuto
dei goti. In realtà gli invasori si dettero a saccheggiare Pavia, quindi si gettarono
addosso ai goti stessi che si videro obbligati a ritirarsi in Ravenna. Anche gli im-
periali si ritirarono verso le Marche dove Belisario assediava Osimo. Per buona
ventura dei romani una tremenda epidemia diffusasi tra i franchi fece tale strage
di barbari che i superstiti si ritirarono al di là delle Alpi (539). Gli imperiali allora
posero l’assedio alla capitale dei goti mentre da ogni parte aumentavano le loro
diserzioni. Nella primavera del 540 Belisario alla testa dei suoi soldati entrò in
Ravenna che da quel momento divenne bizantina e tale rimase per 212 anni,
cioè finchè i Longobardi non la tolsero ai Bizantini nel 752.
Se il 538 vide la liberazione di Roma dalla morsa in cui l’avevano stretta gli
ostrogoti, in quell’anno si videro pure le conseguenze catastrofiche della lunga
guerra tra i bizantini e i goti. Quattro anni di lotte continue avevavno ridotto
l’Italia in uno stato di desolazione al di là di ogni immaginazione. Da due anni i
campi erano in uno stato di completo abbandono. In Toscana gli abitanti fuggi-
rono ai monti e si nutrirono di ghiande. Nel Piceno 50.000 contadini morirono di
stenti. I corpi di quegli sventurati erano ridotti in tale stato che dopo la morte gli
uccelli predatori rifiutarono di cibarsene.
Gli anni che seguirono il 538 furono segnati non solo da indicibili calamità,
ma anche da un risveglio del sentimento religioso. In quegli anni nell’Occidente
si diffuse straordinariamente il monachesimo. Nel 539 Cassiodoro fondò a Viva-
rium, presso Squillace (in Calabria) un monastero che divenne un centro di cul-
tura oltre che di vita mistica, sul modello del monastero di Montecassino fondato
da Bendetto Da Norcia dieci anni prima.
l) Nel 540 Belisario tornò a Costantinopoli alla testa dei suoi soldati: portava
con sé il tesoro dei Goti e lo stesso Vitige fra altri prigionieri. La gelosia di Giu-
stiniano però lo relegò sempre di più nell’ombra.
Partito Belisario, le sorti dei goti in Italia cominciarono a risollevarsi. Ildi-
baldo riuscì a impadronirsi di buona parte dell’Italia del nord, ma nel 541 venne
ucciso. I goti allora elessero a loro capo Totila, uno dei più valorosi capitani
ostrogoti, dotato anche di non comune capacità strategica e politica.
Mentre i bizantini per sostentarsi spogliavano le popolazioni e favorivano i
latifondisti, suscitando sdegno fra il popolo, Totila al contrario lasciava in pace il
popolo e appesantiva la mano sui latifondisti: “s’impadroniva delle loro rendite -
dice il Villari - e anche di quelle della Chiesa, che era già fin da allora uno dei
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Alla morte di Agilulfo nel 616, seguì una lunga reggenza della regina Teo-
dolinda, data la giovane età del figlio Adaloaldo. La diffusione del cattolicesimo
tra le loro file aveva fatto nascere la discordia fra i Longobardi, e una solleva-
zione popolare costrinse Adaloaldo, di fede cattolica, a fuggire a Ravenna.
Nel 628 morì Teodolinda e il genero di lei, Ariovaldo, assunse la regalità e
la mantenne fino alla morte avvenuta 8 anni dopo. La vedova di Ariovaldo, Gun-
deberga, figlia di Teodolinda, divenne sposa di Rotari, il successore del re de-
funto. Salito al trono nel 636, Rotari regnò con prudenza e si segnalò per avere
dato al suo popolo una legislazione basata fondamentalmente sulle antiche con-
suetudini giuridiche germaniche (Rotari fu il primo legislatore dei Longobardi).
Alla morte di Rotari, avvenuta nel 652, seguì un periodo di disordini e quasi
anarchia durante il quale i duchi tentarono di sottrarsi all’autorità regia. In questo
sessantennio si succedettero sul trono dei Longobardi undici re, tutti di scarso ri-
lievo.
Nel 712 fu elevato al trono Liutprando, figlio di Ansprando, l’ultimo dei re
longobardi insignificanti. Con Liutprando il regno longobardo pervenne al mas-
simo splendore. Approfittando della vivace reazione provocata in Italia da un
editto dell’Imperatore Leone III Isaurico (717-741) contro il culto delle immagini
(lotta iconoclastica), Liutprando nel 726 occupò l’Esarcato e la Pentapoli, scon-
fisse i duchi di Spoleto e di Benevento che parteggiavano per i Bizantini e si
spinse fino al ducato di Roma. Papa Gregorio III (715-731), di fatto signore di
Roma, lo convinse a sospendere il conflitto con l’Imperatore e a ritirarsi dal du-
cato. Venuto a patti col Pontefice, Liutprando nel 728 fece dono al “beato Apo-
stolo San Pietro” (cioè al Papa) del Castello di Sutri che gli storici considerano il
primo nucleo del futuro Stato della Chiesa. Alleato del franco Carlo Martello,
Liutprando nel 737-738 combatté al suo fianco contro gli Arabi.
b) L’unità dei Franchi era stata realizzata da Clodoveo fra il 486 e il 507; con
lui era cominciata la dinastia dei Merovingi. La conversione alla fede cattolica
aveva procurato a Clodoveo l’appoggio dell’episcopato, allora già assai influente
nella Gallia, e questo gli era valso almeno quanto il valore delle armi, se non
più, per conseguire i successi politici e militari che dettero lustro al suo nome.
Alla conversione di Clodoveo fece seguito quella dei Franchi, la prima na-
zione germanica che avesse abbracciato la fede cattolica (gli altri gruppi germa-
nici divennero invece ariani via via che si insediarono nei territori dell’ex Impero
latino). Morto Clodoveo nel 511, il regno fu spartito fra i suoi quattro figli, l’ul-
timo dei quali, Clotario, sopravvissuto ai fratelli e ai nipoti, riunì nelle sue mani
tutti i domìni paterni. Alla morte di Clotario nel 514, il regno fu di nuovo diviso
fra i quattro figli del re defunto. Seguì un periodo di lotte fratricide per la con-
quista dell’intera eredità di Clodoveo, lotte che terminarono con l’affermazione
di un nipote di Clotario, Clotario II (617-629).
Il figlio di Clotario II, Dagoberto I (629-639), fu l’ultimo degno successore di
Clodoveo sul trono dei Merovingi. Durante il suo governo la dinastia conobbe i
tempi più floridi.
Con la morte di Dagoberto nel 639 cominciò per la dinastia franca un pe-
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NOTE STORICHE
riodo di declino dovuto all’inettitudine dei regnanti che gli succedettero. La sto-
ria ha bollato col titolo poco lusinghiero di “re fannulloni” (rois fénéants) gli ul-
timi dinasti merovingi. Il vuoto di potere in questo periodo sempre più fu occu-
pato dai capi dell’aristocrazia franca che ricoprirono nelle maggiori province del
regno l’ufficio di maestri di palazzo o maggiordomi.
Dopo il 683 emerse Pipino di Heristal, maestro di palazzo di Neustria, una
delle grandi province del regno franco. Sebbene Pipino riconoscesse in teoria il
diritto dinastico dei re merovingi, di fatto si fece padrone di tutto il regno.
Alla morte di Pipino di Heristal, avvenuta nel 714, dopo un periodo di di-
sordini e lotte per la successione, l’eredità fu raccolta dal figlio naturale di lui,
Carlo Martello.
Noto alla storia per avere favorito il nascere del Feudalesimo in seno all’ari-
stocrazia franca, Carlo Martello fu soprattutto un valoroso uomo d’armi. Con-
dusse una serie di fortunate operazioni militari, fra le quali rimase celebre nella
storia la vittoriosa battaglia di Poitiers nel 732 che arrestò l’avanzata degli Arabi
verso il cuore dell’Europa.
A Carlo Martello si appellò papa Gregorio III nel 739 sollecitandone l’aiuto
per far fronte alle minacce del longobardo Liutprando. Ma l’appello del Pontefice
in quel frangente non fu raccolto dal re franco che aveva bisogno dell’alleato
longobardo nella lotta contro gli Arabi (vedi sopra).
Alla morte di Carlo Martello nel 741 i due figli di lui, Carlomanno e Pipino
detto il Breve, ereditarono ambedue il titolo e i poteri di maggiordomo d’Austra-
sia, un’altra grande provincia del regno franco. Nel 747 Carlomanno lasciò il po-
tere e abbracciò la vita monastica, sì che Pipino rimase il solo maestro di palazzo
dell’Austrasia. Nel 751 Pipino il Breve chiese e ottenne da papa Zaccaria (741-
752) prima l’assenso alla deposizione di Childerico III, ultimo rappresentante
della dinastia merovingia, poi l’incoronazione come re dei Franchi. Il Pontefice
nel 754 incoronò Pipino e consacrò lui e la sua famiglia facendo in pratica dei
suoi discendenti gli eredi al trono dei Franchi e sanzionando di fatto una fla-
grante usurpazione.
c) Intanto in Italia Liutprando era venuto di nuovo a diverbio col papa e nel
742 aveva occupato Roma. Morì poi a Pavia due anni dopo. Gli succedette il fi-
glio Ildebrando, subito deposto per inettitudine e sostituito con Rachis, duca del
Friuli. Dopo 5 anni di regno, sopraffatto nella contesa col Papa, Rachis si ritirò
nel monastero di Montecassino e in sua vece fu elevato al trono il fratello di lui,
Astolfo (749-756). Astolfo riprese la lotta col papato per il possesso del ducato e
della città di Roma. Nel 752, dopo avere occupato Ravenna ponendo fine
all’Esarcato, Astolfo marciò alla volta di Roma. Papa Stefano II, succeduto a papa
Zaccaria in quello stesso anno, ottenne dal Longobardo una pace che questi in-
franse pochi mesi dopo. Astolfo minacciò di nuovo Roma e il Papa sollecitò
l’Imperatore a intervenire in difesa della città e dell’Italia, ma da Costantinopoli
non venne alcuna risposta. Stefano II si rivolse allora a Pipino, tanto più che a
lui il re franco doveva la sua incoronazione e consacrazione.
Il Pontefice, comunque, tentò ancora di indurre Astolfo a restituire all’Im-
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pero le terre che aveva indebitamente occupato, senza però ottenere alcun risul-
tato. In realtà Stefano II mirava a ottenere per la Chiesa quelle terre: “... nei suoi
discorsi, nelle sue lettere - dice il Villari - invece di restituzione all’Impero, co-
minciò a parlare di restituzione a Roma, a S.Pietro, alla Chiesa” (op. cit., p. 374).
d) Nell’estate del 754, in risposta all’appello del Papa, Pipino scese in Italia
alla testa di un esercito franco, affrontò i Longobardi e inflisse loro una severa
sconfitta; Astolfo, da Pavia dove si era rinchiuso, fu costretto a venire a patti col
Re dei Franchi. Il Longobardo s’impegnò a cedere Ravenna e le altre terre occu-
pate. “Le terre così ottenute vennero da Pipino cedute al Papa, che ormai senza
più esitare cercava di sostituirsi in Italia all’Impero” (P.Villari, op. cit., p. 379).
Partito Pipino col suo esercito però Astolfo non mantenne gli impegni as-
sunti, anzi, alla fine del 755, marciò ancora alla volta di Roma. Papa Stefano si
appellò di nuovo a Pipino e questi nella primavera del 756 venne per la seconda
volta in Italia alla testa dell’esercito franco: Astolfo abbandonò subito l’assedio di
Roma e si rinchiuse ancora a Pavia.
I Franchi batterono l’esercito longobardo che Astolfo aveva mandato contro
di loro e assediarono Pavia che in breve si arrese. Stavolta le condizioni imposte
dal vincitore furono assai più dure: pagamento di un’indennità di guerra e di un
tributo annuo, consegna di un maggior numero di città e di nuovi ostaggi. I
Franchi presero in consegna le città le cui chiavi “furono in Roma consegnate al
Papa insieme con l’atto di donazione a S.Pietro, alla Santa Repubblica romana, e
a tutti i successivi pontefici” (P.Villari, op. cit., p. 380).
e) Pochi mesi dopo Astolfo morì. Suo fratello Rachis uscì dal monastero per
rioccupare il trono, ma Desiderio, duca di Toscana, con generose promesse fatte
al Papa ebbe la meglio. Il Pontefice scrisse a Pipino esaltando i meriti di Deside-
rio e le promesse da lui fatte alla Chiesa. “Si trattava adesso, diceva il Papa, di
condurre a compimento la bene incominciata impresa, facendo restituire a S.Pie-
tro e alla Chiesa anche le terre che prima di Astolfo avevano fatto parte dell’Esar-
cato e della Pentapoli...” (ibidem, p. 381).
“È chiaro - osserva ancora il Villari - che ora non si tratta più della pura e
semplice attuazione delle antiche promesse, più o meno generiche, fatte da Pi-
pino, ma di nuove domande e sempre meglio determinate. Il Papa chiedeva
l’Esarcato e la Pentapoli nella loro primitiva e assai più vasta estensione; chie-
deva inoltre le terre, le proprietà della Chiesa, sparse altrove, che erano state in-
debitamente occupate dai Longobardi o dai Bizantini” (op. cit., p. 382).
Desiderio però non mantenne tutte le promesse; doveva ancora trascorrere
del tempo prima che le aspirazioni territoriali dei papi si attuassero pienamente.
Intanto “la donazione di Pipino rendeva il capo della Chiesa sovrano temporale”
(op. cit., p. 382).
Pipino il Breve morì nel 768; quanto a Desiderio, egli fu vinto e destituito
nel 774 da Carlomagno, figlio e successore unico di Pipino il Breve dopo la
morte del fratello Carlomanno. Con Desiderio tramontò il regno dei Longobardi
in Italia. Era durato 202 anni.
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NOTE STORICHE
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NOTE STORICHE
nacque lo Stato della Chiesa. Papa Stefano pretese una sovranità territoriale indi-
pendente, fondando tale rivendicazione su un presunto documento costanti-
niano (Donatio Constantini) che avrebbe fatto risalire al primo imperatore cri-
stiano l’autonomia di Roma nei confronti dell’Impero con la consegna al Papa di
Roma stessa e della parte occidentale dell’Impero. L’umanista e filologo Lorenzo
Valla nel 1440 dimostrò con inoppugnabili argomenti filologici la falsità delle co-
siddette Donazioni di Costantino.
Il giorno di Natale dell’anno 800 papa Leone III pose la corona imperiale
sul capo di Carlomagno dichiarandolo “piissimo Augusto, imperatore dei Ro-
mani, incoronato da Dio”. I successori di Carlomagno e i sovrani di varie nazioni
europee attribuirono alla consacrazione papale valore di conferimento reale
della dignità imperiale.
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canonica. “Il popolo costernato si sottomise con tanta umiltà agli ordini del
papa, che il re si vide generalmente abbandonato dai cortigiani e dai domestici...
infine dovette cedere... Si vide il re... confessare pubblicamente i suoi errori,
dopo avere lottato per tre anni contro gli anatemi”. Baquol-Schnitzler, Atlas hi-
storique, vol. II, tav. 65, citato da J.Vuilleumier, ibidem, p. 216.
e) Nel 1073 salì sul trono pontificio Gregorio VII, uno dei più grandi ponte-
fici del Medioevo. Già nei primi mesi del suo pontificato si trovò in conflitto col
re Filippo I di Francia per l’intervento di costui nell’elezione dei vescovi, e lo mi-
nacciò di anatema e di deposizione.
Gregorio concepì un progetto che mise in luce le mire del papato in questo
scorcio dell’XI secolo: “affidare alla Chiesa la completa direzione della società
umana”. Scrive lo storico S.Hellmann: “Poiché la politica papale mirava a un do-
minio universale, Gregorio VII non si è contentato di liberare la Chiesa dallo
stato e di subordinarlo più strettamente al papato; egli vagheggiò uno stato mon-
diale teocratico sotto la direzione del sommo sacerdote della chiesa cristiana”
(op. cit., pp. 261-262).
Nel 1074 l’energico pontefice progettò di muovere in aiuto dei cristiani
orientali alla testa di un esercito di cavalieri come Pontifex e Dux. Nel 1075 pro-
mosse una riforma radicale che si compendiò nelle 27 massime del Dictatus Pa-
pae (vedi nota 10) nelle quali , fra altre rivendicazioni, era proclamato il potere
assoluto del Papa in quanto capo della Chiesa universale di deporre i sovrani
temporali, sottoposti all’autorità della Chiesa. In quello stesso anno (1075) papa
Gregorio indisse un concilio che vietò l’investitura degli ecclesiastici da parte dei
sovrani temporali. Si aprì un conflitto assai teso fra il papa e l’imperatore di Ger-
mania Enrico IV, per nulla disposto a rinunciare alla nomina dei vescovi nei suoi
domìni (Lotta per le Investiture). Un sinodo di vescovi tedeschi convocati a
Worms per volontà dell’imperatore depose il Papa. Per tutta risposta Gregorio
VII, in un concilio che si riunì nel Laterano quello stesso anno, depose e scomu-
nicò Enrico IV sciogliendone i sudditi dal giuramento di fedeltà. “Nella potente
sentenza che egli pronunciava - osserva S.Hellmann - era tutta compendiata la
pretesa della Chiesa al dominio del mondo...” (op. cit., p. 264).
“Chi era stato scomunicato dal papa - scrive E.Chastel - veniva abbandonato
dai parenti, dagli amici, dalla servitù, giacchè chiunque avesse relazioni con uno
scomunicato ne condivideva la pena... Nei territori sotto la giurisdizione di un
principe ribelle le chiese dovevano rimanere chiuse, non si doveva più celebrare
il culto: non più benedizione, non più sacramenti, non più riti nuziali, non più
sepolture in terra consacrata; digiuni rigorosi, tristezza, terrore al massimo grado
in luogo di feste, fino a quando i sudditi, vedendo compromessi i loro interessi
eterni e temporali, i loro piaceri e la loro salvazione per colpa di un principe
ostinato, non lo avessero costretto con la ribellione a piegarsi sotto la legge del
capo della Chiesa” (Histoire di Christianisme, vol. III, pp. 229, 231, citato da
J.Vuilleumier, ibidem, pp. 215-216).
Enrico IV, abbandonato dai principi vassalli e dai sudditi in rivolta, nel gen-
naio del 1077 si vide costretto a recarsi a Canossa in veste di penitente per chie-
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NOTE STORICHE
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all’esterno come all’interno della Chiesa. Con questo intento fece decadere la po-
testà dei vescovi e istituì i legati, diretti rappresentanti dei papi. Innocenzo si
proclamò “Vicario di Cristo Re dei re” dal quale i principi laici ricevono come
feudi i loro regni.
Nel 1201 papa Innocenzo III mise l’interdetto sul regno di Francia per co-
stringere il re Filippo-Augusto a riprendere la moglie Ingeburge che aveva ripu-
diato. Sotto il suo pontificato il papato pervenne al culmine della potenza poli-
tica, e quanto fosse illusorio sfidarla si vide allorché Giovanni Senza Terra, fra-
tello e successore di Riccardo Cuor di Leone sul trono d’Inghilterra, protestò per
avere Innocenzo III assegnato all’arcivescovo Stephen Langton, senza consul-
tarlo, la sede episcopale di Canterbury rimasta vacante. Il papa scagliò l’inter-
detto sul regno, scomunicò e dichiarò decaduto il re sciogliendone i sudditi dal
giuramento di fedeltà. Nel 1213 Giovanni si vide costretto a cedere: mise la co-
rona a disposizione del pontefice per riceverla da lui come vassallo della Chiesa.
Il IV Concilio lateranense riunito da Innocenzo III nel 1215 istituì presso le
diocesi i tribunali ecclesiastici per la repressione delle eresie: nasceva quella isti-
tuzione sinistra che prese il nome di Inquisizione.
Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa del medioevo. Egli rilan-
ciò la politica teocratica perseguita da Gregorio VII e Innocenzo III, pretendendo
per la Chiesa romana la supremazia temporale. Il primo Giubileo bandito da Bo-
nifacio VIII nel 1300, segnò il culmine del prestigio papale. Nel 1302 si riaprì il
conflitto fra la Santa Sede e Luigi IV re di Francia sul diritto regio di imporre tri-
buti al clero. Con la bolla Unam Sanctam papa Bonifacio riaffermò, mediante la
tesi delle due chiavi e delle due spade (simboli dei poteri temporale ed ecclesia-
stico) la supremazia dei pontefici romani su tutti i principi terreni.
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NOTE STORICHE
dell’Europa del nord e in Inghilterra tra la seconda metà del ‘500 e il ‘600, nel
XVIII secolo venne ulteriormente declinando in conseguenza dell’impatto che
ebbe sulla cultura europea quel vasto movimento di pensiero che prese il nome
di Illuminismo. Sul finire del secolo, poi, ricevette un colpo durissimo dalla Ri-
voluzione Francese.
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sull’esempio di quelle promulgate nei loro stati da Re Carlo Alberto e dal Gran-
duca di Toscana Leopoldo II. In seguito però Pio IX revocò la costituzione e di-
venne reazionario quanto i sovrani temporali se non più.
L’8 dicembre 1864 il Pontefice pubblicò l’enciclica “Quanta Cura” con la
quale condannava gli “errori” del liberalismo. A breve termine di tempo la
“Quanta Cura” fu seguita dal Sillabo, un elenco di 80 proposizioni inaccettabili
dalla Chiesa cattolica e da essa condannate. Nel Sillabo erano negate tutte le li-
bertà che formano il fondamento della moderna democrazia.
Il 18 luglio 1870 Pio IX proclamò il dogma dell’Infallibilità Papale, non
senza suscitare il dissenso di vari dignitari della Chiesa.
Agli inizi di settembre di quel medesimo anno, essendo crollata nella guerra
con la Prussia la Francia di Napoleone III, protettrice della Santa Sede, si pre-
sentò per il giovane Regno d’Italia l’occasione favorevole per risolvere l’annosa
“questione romana”. Le trattative di Vittorio Emanuele II con Pio IX per un’occu-
pazione pacifica di Roma da parte delle truppe regie fallirono per l’intransigenza
del Papa, e il 20 settembre i soldati di Vittorio Emanuele II entrarono in Roma e
la occuparono. Un plebiscito il 2 ottobre di quello stesso anno sanzionò il fatto
compiuto. Questo evento storico segnò la caduta definitiva del potere temporale
dei papi che durava da 1142 anni.
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NOTE STORICHE
mente a evitare o quanto meno a mitigare le incursioni di barbari sulla città ac-
crebbe il prestigio politico del papato. Inoltre non di rado, in assenza di un go-
verno civile nella città, i papi ne svolsero le funzioni essenziali. (8) Le inva-
sioni arabe posero ostacoli alla Chiesa orientale, eliminando così l’unica rivale
importante di Roma. (9) Nell’Occidente i barbari invasori erano per la massima
parte già cristianizzati, anche se più nominalmente che sostanzialmente; le inva-
sioni liberarono il papa dal controllo imperiale. (10) Con la conversione di Clo-
doveo re dei Franchi nel 496, il papato poté usufruire dell’appoggio di un po-
tente esercito per proteggere i propri interessi e di un aiuto efficace per conver-
tire altre tribù germaniche”. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 835-836.
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esiste al di fuori della sua autorità. Non può essere giudicato da nessuno.
Le cause importanti di ogni chiesa debbono essere sottoposte a lui. La
chiesa romana non ha mai sbagliato, e secondo le promesse della Sacra Scrittura
non sbaglierà mai, e il papa ordinato canonicamente diviene indubbiamente
santo per i meriti di San Pietro”. K.Heussi - G.Miegge, Sommario di storia del
cristianesimo, p. 95.
Col Dictatus è affermato il potere assoluto dei pontefici e la loro superiorità
su ogni autorità terrena.
Gregorio IX (1227-1241) affermò che “il papa... è signore del mondo, tanto
delle cose quanto delle persone”.
Clemente V (1305-1314) dichiarò “in nome della sua autorità apostolica che
ogni imperatore doveva obbedienza al papa e per conseguenza non gli era con-
sentito di stringere alleanza con un principe che fosse sospetto al papa”. Lo
stesso pontefice sostenne ancora che “essendo vacante il trono imperiale, il papa
doveva succedere alla potestà imperiale e che ogni imperatore aveva l’obbligo di
prestargli giuramento di vassallaggio” (vedi Vuilleumier, op. cit., p. 211).
Bonifacio VIII (1294-1303) affermò che spetta al papa conferire il potere
della spada temporale ai re e agli imperatori.
Ecco alcuni estratti da un’opera enciclopedica compilata da un ecclesiastico
cattolico del XVIII secolo: “Così alte sono la dignità e l’eccellenza del Papa che
egli non è semplicemente uomo, ma quasi Dio e vicario di Dio...
“Il Papa cinge la triplice corona in quanto re del cielo, della terra e degli in-
feri...
“Il Papa è quasi Dio in terra, unico sovrano dei fedeli di Cristo, capo dei re,
rivestito della pienezza del potere, investito dall’Iddio Onnipotente del governo
non solo del regno terreno ma anche del regno celeste...
“Così grandi sono l’autorità e il potere del Papa che egli può modificare,
spiegare e interpretare anche le leggi divine...
“Il Papa può modificare la legge divina poiché il suo potere discende da
Dio e non dall’uomo, e dato che egli agisce da viceregente di Dio sulla terra col
più ampio potere di legare e sciogliere le sue pecore...
“Tutto ciò che il Signore Iddio e il Redentore fanno, lo fa anche il suo vica-
rio, purché non faccia alcunché che sia contrario alla fede” (Lucio Ferraris,
“Papa, II”, in Prompta Bibliotheca, vol. VI, pp. 25-29, cit. in S.D.A. Bible Com-
mentary, vol. IV, p. 831).
Jean Vuilleumier, in Apocalypse... (a p. 217) riporta da Fleury, Histoire Ec-
clesiastique (vol. XIV, p. 130), il seguente episodio che si svolse a Roma nel XII
secolo ed ebbe per protagonisti papa Pasquale II ed Enrico V (il figlio dell’impe-
ratore di Germania che andò a Canossa):
“Nostro Signore il papa... condusse Enrico V e la sua consorte nella chiesa e
consacrò lui imperatore e lei imperatrice. Ma nostro Signore il papa assiso sulla
cattedra pontificia, teneva la corona imperiale fra i piedi e l’imperatore e l’impe-
ratrice, curvata la testa, la ricevettero dai piedi di nostro Signore il papa. Nostro
Signore il papa, però, in quello stesso istante colpì col piede la corona dell’impe-
ratore e la fece cadere al suolo, volendo con ciò significare che egli aveva il po-
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NOTE STORICHE
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NOTE STORICHE
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CAPIRE DANIELE
colo II vide la luce l’Adozionismo, un’eresia che considerava Gesù Cristo “figlio
adottivo” di Dio. Nella stessa Roma fiorì nel III secolo una nuova eresia, il Sabel-
lianismo o Modalismo, che ravvisava nelle tre Persone della Trinità altrettante
modalità distinte di manifestazione della Divinità e che suscitò la viva opposi-
zione della Chiesa.
Di gran lunga più seria fu per il cristianesimo ortodosso la sfida dell’Ariane-
simo, un’eresia cristologico-trinitaria che sorse in Egitto nella prima metà del IV
secolo. Il fautore di questa dottrina, il presbitero alessandrino Ario, respinse il
dogma trinitario e negò la natura divina di Gesù Cristo. Le sue idee, da quando
egli cominciò a divulgarle nel 315 da Alessandria, si propagarono verso l’Egeo,
l’Africa nordoccidentale e la stessa Roma. L’enorme diffusione di questa eresia
(basti pensare che divennero ariane quasi tutte le tribù germaniche che invasero
i territori occidentali dell’Impero) mise seriamente in crisi la Chiesa romana. Essa
sostenne una lotta durissima con l’arianesimo e alla fine vinse, ma non senza
avere patito dolorose lacerazioni.
Ancora nel IV secolo una controversia nell’Africa del nord sul battesimo de-
gli eretici fu l’occasione per la nascita di un movimento dissidente, il Donatismo,
che creò nuovi problemi alla Chiesa. Nella stessa epoca in Spagna si sviluppò il
Priscillianismo, un movimento scismatico caratterizzato da un acceso fanatismo e
da un’etica rigorista d’ispirazione montanista.
Mentre in Oriente si continuava a discutere sulle questioni trinitarie e cristo-
logiche, a Roma, agl’inizi del V secolo, si accendeva la controversia pelagiana
sulla grazia. Pelagio privilegiava il libero arbitrio umano nel processo della re-
denzione. Gli fu fiero avversario Agostino, che accentuava la priorità della sovra-
nità divina.
Dalle dispute trinitarie del II e III secolo si svilupparono le controversie cri-
stologiche destinate a provocare nuovi scismi nel corpo della Chiesa. Nella se-
conda metà del IV secolo Apollinare, vescovo di Laodicea e avversario dell’aria-
nesimo, formulò una dottrina sulla natura di Cristo che fu paradossalmente vi-
cina all’eresia ariana. Un’altra dottrina giudicata di ispirazione ariana fu divulgata
nel V secolo da Nestorio vescovo di Costantinopoli. I Nestoriani rifiutarono a
Maria il titolo di teotokos (“madre di Dio”) universalmente riconosciutole nella
Chiesa orientale, sostenendo giustamente che Maria fu “madre di Cristo”, non
“madre di Dio”.
Nel V secolo scosse e divise la cristianità orientale la dottrina Monofisita che
riconosceva a Gesù Cristo la sola natura divina. Secondo alcuni storici del cristia-
nesimo il Monofisismo fu la più potente e più popolare eresia dell’antichità cri-
stiana. Dal monofisismo si sviluppò nel VII secolo il Monotelismo, una dottrina
condannata come ereticale la quale ammetteva in Gesù Cristo una sola energia e
una sola volontà divino-umana. La dottrina monotelista fu formulata da Sergio
patriarca di Costantinopoli nel 619.
Nelle controversie teologiche che travagliarono e divisero soprattutto la cri-
stianità orientale fra il II e il VII secolo - ma che non risparmiarono del tutto la
Chiesa occidentale - intervennero in difesa della dottrina ortodossa i dottori della
Chiesa con eruditi scritti apologetici, mentre la Chiesa stessa di fronte agli inse-
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rico. Nei territori occidentali dell’Impero la Chiesa ebbe in generale una vita più
tranquilla nonostante una forte presenza ariana in Italia fino a metà del VI se-
colo. Solo sul finire del regno di Teodorico i Goti sottoposero a persecuzione i
cattolici e più che altro come ritorsione verso l’Impero avendo Giustino, come si
è visto sopra, cominciato a perseguitare gli ariani in Oriente. Bisogna aggiungere
che in Occidente il dissenso dottrinale fu un fenomeno sporadico, e quando si
manifestò si trovò di fronte alla pronta ed energica reazione di una Chiesa forte
e libera dal controllo imperiale.
Placandosi in seno alla Chiesa orientale le dispute teologiche dopo l’VIII se-
colo, e di conseguenza riducendosi fin quasi a scomparire il fenomeno dell’ere-
sia, cessarono pure le persecuzioni imperiali.
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NOTE STORICHE
tri gruppi emigrarono verso la Spagna e la Germania. La chiesa romana non tol-
lerò il dissenso religioso. Dapprima lo punì con la scomunica e il carcere, tro-
vando consenzienti i sovrani temporali nei loro domini. Al sinodo di Verona del
1184 papa Lucio III e l’imperatore di Germania Federico I Barbarossa stabilirono
di comune accordo di combattere l’eresia con l’esilio e la confisca dei beni. Nel
1197 Pietro d’Aragona decretò il bando degli eretici dalle sue terre e la pena di
morte per quanti vi fossero rimasti a dispetto dell’editto. La stessa sanzione deli-
berò Luigi IX in Francia nel 1270.
Ma non avendo queste misure prodotto effetti apprezzabili, si addivenne
alla decisione di inasprirle. Il papa invocò per i casi più gravi di eresia la pena di
morte e ancora una volta i principi temporali accolsero l’invito della Chiesa. Nel
1224 l’imperatore Federico II ordinò il taglio della lingua o la morte sul rogo per
gli eretici nei suoi domini europei e nel 1238 estese alla Germania queste crudeli
misure repressive. In Inghilterra divenne legge di stato nel 1401 la morte sul
rogo per lo stesso tipo di reato.
Al principio del XII, secolo i catari erano talmente numerosi nel sud della
Francia che l’energico e battagliero papa Innocenzo III (1198-1216) decise di in-
traprendere un’azione vigorosa per sradicarli. Dopo avere inviato una lettera cir-
colare a tutti gli arcivescovi, i conti e i baroni di Francia, spedì nella regione una
delegazione con a capo due monaci cistercensi, ma i legati pontifici tornarono a
Roma senza essere riusciti a convincere gli eretici e rientrare nel grembo della
Chiesa romana. Più clamoroso ancora fu l’insuccesso di una seconda delega-
zione guidata dal cardinale Giovanni di santa Prisca nel 1200. Una terza delega-
zione non ebbe migliore successo delle due precedenti.
Ci voleva un pretesto, un “casus belli”, per giustificare un intervento dra-
stico da parte della Santa Sede. Il pretesto si offrì nel 1208, allorché il legato
pontificio Pierre de Castelnau fu assassinato a quanto si crede da un valletto del
conte di Tolosa incline agli Albigesi. Senza alcuna prova il delitto fu imputato ai
catari. Innocenzo III ruppe gli indugi e decise di scatenare contro di loro una
violenta offensiva. Il pontefice invitò “conti, baroni, cavalieri e fedeli di Cristo” a
una “santa” crociata per sradicare con la spada l’eresia nella Francia del sud, pro-
mettendo a quanti vi avessero preso parte speciali indulgenze e, prospettiva
certo più allettante, i beni e le terre degli “eretici”.
Signori e signorotti di Francia e molta gente del comun popolo risposero
all’appello del pontefice: si formò un esercito di cavalieri e rozzi soldati feudali a
capo dei quali fu posto il conte Simon de Montfort. L’anima nera della crociata
fu comunque il legato papale Arnaud Amaury.
Il territorio dove gli Albigesi avevano messo salde radici fu devastato. Bé-
ziers, la roccaforte del catarismo, fu presa, saccheggiata e distrutta; i suoi abitanti
furono massacrati senza alcun riguardo per l’età e il sesso. “Di Béziers - ha
scritto un autore cattolico - non doveva rimanere che il nome: un nome insoz-
zato di sangue e di vergogna”.
Lo stesso autore, dopo avere alluso alle cifre discordanti riguardo alle vit-
time di questa carneficina, osserva con onestà e obiettività: “Ma ha veramente
importanza discutere sulle cifre ? Ciò che conta è il massacro e i suoi motivi. Ciò
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che scandalizza e rattrista è il fatto che esso sia stato compiuto da soldati bene-
detti dal papa e certi di avere per i loro orrendi delitti la ricompensa di un’eterna
salvezza. Sembra assurdo che il nome di Cristo possa essere stato usato e offeso
in modo così sconvolgente”. Anthony Keller, Gli scismi della cristianità, p. 145.
La guerra contro gli Albigesi nella Francia meridionale fu proseguita con
estrema crudeltà. A nulla valsero gli interventi di Raimondo Conte di Tolosa e di
re Pietro d’Aragona in difesa dei perseguitati. Il primo, fallito il tentativo di soc-
correrli, si sottomise alla Chiesa romana nel 1209; il secondo fu vinto e ucciso
presso Muret, a sud-ovest di Tolosa.
Quando la crociata terminò nel 1229 col patto di Parigi fra Raimondo junior
conte di Tolosa e Luigi IX di Francia, gli Albigesi erano stati in gran parte stermi-
nati. Dice A.Keller: “Quei pochi (superstiti) che riuscirono a sfuggire alle lame
dei crociati si affrettarono ad abbandonare l’inospitale terra di Francia e a cercare
altrove una nuova patria. Ma la Chiesa romana era ormai diventata, per tutti loro,
come una piovra terribile dai lunghissimi tentacoli che potevano raggiungerli
ovunque si fossero rifugiati. E questi tentacoli furono rappresentati dai tribunali
della Santa Inquisizione” (op. cit., p. 172).
Nel 1215 il IV concilio lateranense aveva dettato la procedura da seguirsi
nei riguardi di uomini e donne convinti di eresia. Il III canone stabiliva: “Gli ere-
tici condannati saranno consegnati al potere temporale perché sia loro inflitto il
castigo conveniente. I beni dei laici saranno confiscati... Il signore temporale
che, sufficientemente avvertito, trascurerà di purgare le sue terre dagli eretici
sarà scomunicato... e se non darà soddisfazione entro l’anno, il papa dichiarerà i
suoi vassalli sciolti dal giuramento di fedeltà e le sue terre devolute al primo oc-
cupante cattolico. Ciascun vescovo sceglierà tre uomini di buona fama o di più,
e li farà giurare di denunciare gli eretici” (da E.Meynier, Storia dei papi, p.158).
Innocenzo III, nella sua guerra implacabile contro gli “eretici”, volle dunque va-
lersi come arma di persuasione verso i principi temporali esitanti, della stessa
arma che si era rivelata tanto efficace nelle mani di Gregorio VII 140 anni prima.
Il concilio lateranense del 1215 aveva affidato ai vescovi il compito di sco-
prire e punire gli “eretici” nelle loro diocesi, ma quell’incarico si era rivelato oltre-
modo gravoso per loro. Scrive lo storico A.S.Turberville: “... una lettera molto im-
portante di papa Gregorio IX, dell’aprile 1233, dice che i vescovi sono oppressi
da ‘un turbine di preoccupazioni’ e da ‘schiaccianti ansietà’; e, pertanto, il papa
annuncia di avere, in seguito a ciò, deciso di mandare i Domenicani o Frati Predi-
catori a dar battaglia agli eretici di Francia. Nella misura in cui è legittimo attri-
buire l’origine di una tale istituzione a un solo uomo e a una data precisa - ne de-
duce lo scrittore inglese - l’origine dell’Inquisizione può essere attribuita appunto
a Gregorio IX e fissata in quest’anno, 1233” (L’inquisizione spagnola, p. 5).
The Catholic Encyclopedia, all’articolo “Inquisition” (vol. VIII, p. 34), citando
una bolla di Innocenzo IV (1243-1254), dice quanto segue riguardo al ruolo as-
segnato dal papa all’autorità secolare nei processi inquisitoriali:
“Innocenzo IV dichiara nella bolla ‘Ad extirpanda’: ‘Quanti siano stati giudi-
cati colpevoli di eresia, consegnati che siano dal vescovo o dal suo rappresen-
tante o dall’inquisitore al potere civile, il potestà o il magistrato-capo della città li
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CAPIRE DANIELE
d) L’inquisizione spagnola
Per la ferrea organizzazione e per la severità con cui operò per più di tre-
cento anni, l’Inquisizione spagnola merita di essere ricordata a parte.
Nel primo medioevo i mori e gli ebrei formavano una parte considerevole
della popolazione iberica. Fino a tutto il XIII secolo cattolici, musulmani ed ebrei
convissero nella penisola in condizione di quasi normalità; ma dall’inizio del XIV
secolo i rapporti fra cristiani e non cristiani si deteriorarono per il mutato atteg-
giamento dei primi verso questi ultimi.
“Il popolo - scrive A.S.Turberville - venne eccitato contro gli Ebrei, special-
mente dall’eloquenza di predicatori il cui zelo era dovuto a motivi del tutto sin-
ceri giacché erano convinti che le relazioni fra i Cristiani e gli Ebrei avrebbero
condotto alla contaminazione della fede cristiana” (op. cit., p. 20). Ci furono
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NOTE STORICHE
massacri di Ebrei in varie province spagnole; “il più grave fu quello accaduto a
Siviglia nel 1391, come diretto risultato del fervidissimo zelo antiebraico di un ar-
cidiacono di nome Martinez, ed esteso a Cordova e Toledo, a Burgos e ad altre
città castigliane. Nello stesso anno, vi furono violenze consimili nelle città
dell’Aragona e a Maiorca” (ibidem).
I massacri del 1391 indussero molti ebrei a farsi cattolici prima della fine di
quell’anno. Si formò così una nuova classe di ebrei cristianizzati che in seguito
furono chiamati conversos e talvolta marranos. Si cominciò a sospettare che le
conversioni ispirate dalla paura delle persecuzioni fossero superficiali, e non c’è
da dubitare che lo fossero, almeno in buona parte.
Alla conversione forzata degli ebrei tenne dietro quella dei mori, che fu in-
trapresa per ispirazione dell’arcivescovo di Toledo Francisco Ximenes De Cisne-
ros. Ben presto ci si rese conto che i neoconvertiti, sia ebrei che musulmani, in
segreto mantenevano in tutto o in parte le credenze e le pratiche delle religioni
d’origine. Ciò fu visto come un affronto alla fede cattolica e come un pericolo di
anarchia religiosa.
D’altronde i tribunali ecclesiastici episcopali si erano mostrati incapaci di
preservare l’unità della fede cattolica.
La determinazione di mantenere l’ordine, l’uniformità e l’ubbidienza alle au-
torità sia nella Chiesa che nello Stato, ma anche la cupidigia della corona (i beni
degli ebrei facevano gola), e, non ultime, le pressioni di ecclesiastici eminenti
quali il Mendoza, arcivescovo di Toledo, e il domenicano Torquemada, spinsero
i reali di Castiglia e Aragona a intraprendere un’azione decisiva contro gli Ebrei e
i Mori residenti nei loro domini. Con questo intento nel 1478 Ferdinando e Isa-
bella chiesero a papa Sisto IV di introdurre l’Inquisizione nella Castiglia. Il ponte-
fice concesse l’autorizzazione con una bolla ad hoc e nel 1480 due domenicani
furono nominati inquisitori a Siviglia. Si aprì così quella pagina nefasta dell’inizio
dell’età moderna che la Storia conosce col nome di “Inquisizione Spagnola”.
Le prime vittime dell’Inquisizione spagnola furono gli Ebrei. Il 6 febbraio
1481 si celebrò il primo auto de fe della nuova inquisizione voluta dai reali di
Castiglia: furono bruciati vivi sul rogo 6 conversos ebrei.
Era il “braccio secolare” che bruciava vivi gli “eretici”, ma era la Chiesa, at-
traverso il tribunale dell’Inquisizione, che li consegnava al braccio secolare per-
ché fossero puniti con quell’atroce supplizio. Dice A.S.Turberville “Per i più la
maggiore infamia collegata all’Inquisizione è il rogo. E’ vero che il Sant’Uffizio ri-
pudiava ogni responsabilità per la morte dell’eretico che consegnava al braccio
secolare; ma si trattava di un ripudio meramente formale; gli autori di manuali e
trattati inquisitoriali non esitano infatti a dichiarare che la morte sul rogo è
l’unica pena giusta e adeguata per l’eretico ostinato e recidivo” (op. cit., p. 168).
Al primo tribunale dell’Inquisizione istituito nella città di Siviglia seguirono
ben presto quelli di Cordova, Jaen e Toledo. Sisto IV acconsentì che Torque-
mada, già inquisitore generale per la Castiglia, lo divenisse anche per l’Aragona.
In certi momenti lo zelo fanatico degli inquisitori determinò nelle province
spagnole sotto il controllo dei tribunali inquisitoriali, specie nell’Andalusia, un
vero e proprio regime del terrore. Complotti immaginari e infondati sospetti di
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“ebraismo” portarono davanti agli inquisitori innumerevoli persone che non ave-
vano a che fare con i “delitti” di cui li si sospettava.
“Mediante i suoi Editti di Fede, l’Inquisizione dichiarò sistematicamente che
la delazione era cosa degna di lode; con la soppressione dei nomi dei testimoni,
la rese facile e sicura. Mise l’animo nobile alla mercé del volgare, il coraggioso
alla mercé del vile, il generoso alla mercé del malvagio. Le virtù della fiducia re-
ciproca, della comprensione e della simpatia furono scoraggiate. Per di più, era
un aspetto essenziale del sistema che l’incorrere in sospetto diveniva virtual-
mente un crimine. Era quasi impossibile lasciare il tribunale davanti al quale si
fosse stati calunniati, senza un marchio sul proprio onore. Gli Inquisitori non di-
scutevano neppure se l’accusato fosse colpevole o innocente, ma cercavano di
stabilire in quale misura fosse colpevole”. A.S.Turberville, op. cit., p. 167.
Durante i tre secoli e più di storia dell’Inquisizione spagnola migliaia di
ebrei perirono sui roghi. Meno numerose furono le vittime tra i musulmani.
Carlo I d’Aragona, nipote di Ferdinando e Isabella (divenuto Carlo V come
sovrano del Sacro Romano Impero nel 1519), non fece nulla per mitigare la se-
verità dell’Inquisizione; anzi il suo spirito religioso fino al fanatismo lo portò a
renderla più salda che mai e a estenderla a tutta la Spagna.
Nei primi decenni del ‘500, Erasmo da Rotterdam aveva numerosi ammira-
tori fra gli uomini di cultura della nazione iberica. A Partire dal 1531 anche i de-
voti spagnoli del grande umanista fiammingo si trovarono in pericolo, perché
certe sue dottrine furono sospettate di eresia. Vari intellettuali, e persino un
abate benedettino, furono condotti davanti all’Inquisizione e processati; l’abiura
de vehementi li salvò dal patibolo ma non dal pubblico disprezzo.
La presenza del protestantesimo in Spagna fu un fatto episodico. Il primo
importante riformatore spagnolo, Francisco De San Roman, fu arrestato a Rati-
sbona per ordine di Carlo V; tradotto in Spagna, venne linciato dalla folla mentre
lo si conduceva al patibolo. Juan Jil, un dotto spagnolo che aveva abbracciato le
idee riformate e fondato una comunità luterana in Siviglia, fu arrestato e si salvò
con l’abiura; fu trattato con grande moderazione forse per la stima di cui godeva
presso Carlo V. Quattro anni dopo la morte però le sue ossa furono riesumate e
bruciate. I capi della comunità sivigliana Ponce De La Fuente e Juan Ponce de
Leòn, scoperti furono arrestati e condotti davanti al tribunale inquisitoriale. Juan
Pone de Leòn, benché avesse ritrattato, fu arso vivo insieme con altri 17 luterani
in un auto de fe del 24 settembre 1559, quando sul trono di Spagna sedeva da 3
anni Filippo II, figlio e successore di Carlo V. In quella circostanza 21 persone
accusate di protestantesimo abiurarono e scamparono al rogo. In un successivo
auto de fe del 22 dicembre 1560, 14 riformati furono consegnati al braccio seco-
lare per essere arsi vivi; uno di loro, un certo Hernàndez, rifiutò di tradire i com-
pagni nonostante le più atroci torture inflittegli da quella gestapo antilitteram.
Due altri autos si celebrarono in Siviglia nel 1562 in ciascuno dei quali fu-
rono consegnati al braccio secolare e arsi vivi 9 luterani. Un numero esiguo di
riformati spagnoli furono condannati al rogo in vari autos celebrati nel 1564 e
1565; più numerosi furono invece i prigionieri stranieri di fede luterana catturati
in Spagna, segno che la minuscola comunità di protestanti spagnoli in Siviglia
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NOTE STORICHE
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giurare fedeltà alla Costituzione del 1812 e ad abolire l’Inquisizione. Nel 1823
un’armata francese entrò nel territorio spagnolo per restituire a Ferdinando il
pieno esercizio del potere regio, ma grazie all’atteggiamento fermo dei Francesi
l’Inquisizione non fu più ripristinata. Nel 1868 il principio della tolleranza reli-
giosa fu introdotto nella Costituzione spagnola e la persecuzione religiosa istitu-
zionalizzata - figlia mostruosa dell’ibrido connubio fra il trono e l’altare - cessava
definitivamente dopo secoli di orrori indescrivibili.
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NOTE STORICHE
fuggite sui monti furono raggiunte e massacrate senza pietà; decine di donne e
bambini furono bruciati vivi nella caverna in cui avevano cercato rifugio.
Nel 1532 si compì una svolta significativa nella storia del movimento val-
dese: a Chanforan, nella Val d’Angrogna, si tenne un sinodo storico nel quale i
valdesi decisero di inserirsi nel grande movimento della Riforma. Tre anni dopo
fu loro consegnata una traduzione in francese della Bibbia eseguita da Pietro Ro-
bert detto Olivetano e fatta stampare a loro spese a Neuchâtel.
Nel 1536, crollato il ducato di Savoia i cui territori erano stati invasi dalle
truppe francesi, il movimento valdese si consolidò e la Riforma si propagò nel
Piemonte, ma la prospettiva del carcere e del rogo non si allontanò del tutto.
Uomini di azione e di fede furono imprigionati e messi a morte. Nel 1536 fu an-
negato nell’Isère Martino Gonin, l’anno seguente vennero strangolati e arsi sul
rogo Bartolomeo Hector e Nicolò Sartoris; nel 1538 fu martirizzato Goffredo Va-
raglia.
Il rinnovamento religioso che aveva percorso la Francia nel primo scorcio
del XVI secolo aveva favorito l’affermarsi della fede evangelica nella parte meri-
dionale del paese. Le comunità valdesi del Lubéron, nella Provenza, divennero il
nucleo centrale di una vasta zona a prevalenza evangelica. Ma i parlamenti locali
non tollerarono questo stato di cose e intrapresero una decisa azione repressiva.
Quello di Aix-en-Provence in particolare decretò nel 1540 la condanna a morte
di 19 valdesi provenzali e la distruzione della loro roccaforte, il borgo di Lubé-
ron sui monti omonimi.
L’esecuzione dell’editto fu sospesa per l’intervento di Francesco I sollecitato
dai principi tedeschi a seguito di un memoriale di Melantone; ma 5 anni dopo il
re di Francia mutò atteggiamento e subito le bande mercenarie dell’armata del
papa agli ordini del barone Giovanni Meynier mossero da Avignone e percor-
sero la Provenza devastando le campagne e distruggendo i villaggi. Pochi val-
desi riuscirono a riparare in Svizzera o in Piemonte, i più furono in parte massa-
crati, in parte catturati e condannati a remare nelle galere reali.
Nell’Italia del sud la repressione non fu meno spietata. Il 22 febbraio 1560
fu arrestato in Sicilia Giacomo Bonello, un predicatore piemontese che dalla Ca-
labria si era recato nell’isola in missione esplorativa.
Condannato a morte dall’Inquisizione, fu arso vivo a Palermo. Sette mesi
dopo fu impiccato a Roma un altro predicatore piemontese, Gian Luigi Paschale,
arrestato in Calabria dove si era recato in missione. Nello stesso anno giunsero a
Cosenza, mandati dal cardinale Alessandrino (il futuro Pio V), gli inquisitori
Alfonso Urbino e Valerio Malvicini. Per l’enclave valdese in Calabria, che da più
di un secolo viveva quasi nell’ombra nelle campagne del cosentino, era giunta
l’ora della fine. Gli inquisitori si misero subito all’opera coadiuvati dai soliti dela-
tori anonimi e cominciarono gli arresti e le torture. I frati ebbero l’appoggio in-
condizionato del governatore della regione e nelle campagne popolate da conta-
dini valdesi si sparse il terrore. Chi poté fuggì ai monti o nei boschi. Nella zona
di S.Sisto i perseguitati, braccati, reagirono con la forza della disperazione e gli
assalitori furono respinti con perdite. Gli inquisitori bandirono allora una “santa”
crociata e la repressione fu feroce. Tra maggio e giugno 1561 i fanti di Filippo II
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CAPIRE DANIELE
giunti espressamente dalla Spagna e i galeotti del vicereame liberati per l’occa-
sione invasero il territorio dell’enclave valdese e fu la carneficina. S.Sisto e Guar-
dia Piemontese furono rasi al suolo. Gli scampati al massacro, fatti prigionieri, in
parte furono bruciati vivi, in parte furono venduti schiavi ai mori e in parte fu-
rono gettati nelle fosse e lasciati morire d’inedia. L’11 giugno a Montalto Uffugo
88 valdesi furono sgozzati a uno a uno come bestie da macello sulla scalinata
della chiesa parrocchiale. Così in quella tragica primavera del 1561 la colonia
valdese in terra calabra fu cancellata per sempre.
In quegli anni la caccia all’eretico riprese anche nel Piemonte, dove il duca
Emanuele Filiberto (1553-1580), rientrato in possesso delle sue terre dopo la vit-
toria degli Spagnoli sui Francesi, aveva intrapreso un’azione repressiva contro i
valdesi. Il 21 gennaio 1561 le comunità contadine delle valli, raccolte in assem-
blea sui monti di Bobbio, approvarono un documento - il “patto dell’Unione”-
col quale si impegnavano a opporsi con le armi al potere assoluto del sovrano
in difesa del loro diritto alla dissidenza.
I ducali contrattaccarono ripetutamente, sempre respinti dai valdesi che
avevano incendiato alcuni forti sabaudi. Emanuele Filiberto, dopo due mesi e
mezzo di inutili tentativi di piegare i valdesi, decise di venire a patti con loro. Il
5 giugno 1561 - il giorno in cui in Calabria venivano distrutti S.Sisto e Guardia
Piemontese - una deputazione valdese s’incontrò a Cavour coi plenipotenziari
del duca. Dalle due parti fu firmato un accordo in base al quale veniva condo-
nata ai valdesi l’indennità di guerra, erano loro riconosciuti alcuni diritti e si au-
torizzava la celebrazione pubblica del culto in alcune località scelte. Era la prima
volta in Europa che un principe cattolico non solo rinunciava a distruggere l’ere-
sia nei suoi possedimenti, ma ne riconosceva legalmente l’esistenza, anzi addirit-
tura concedeva agli eretici garanzie giuridiche riguardo al loro culto. La curia ro-
mana naturalmente fece sentire la sua vivace protesta.
Per i riformati del Piemonte seguì un periodo di stabilità e calma relative,
anche grazie all’estendersi dell’influenza francese nelle terre sabaude. Entro la
fine del secolo, però, quando il duca di Savoia ebbe conquistato l’area del mar-
chesato di Saluzzo, la repressione antiprotestante riprese vigore e in gran nu-
mero i valdesi della regione si videro costretti a prendere la via dell’esilio verso il
Delfinato o verso Ginevra.
Agli albori del XVII secolo il cattolicesimo rinnovato uscito dalla Contro-
riforma si avviò a riconquistare l’Europa: la Guerra dei trent’anni (1618-1648) ri-
portò in effetti buona parte dell’area centrale del continente sotto il controllo di
Roma. La ricattolicizzazione forzata delle terre già sotto l’influenza della Riforma
non risparmiò le valli del Piemonte. Sotto il duca Vittorio Amedeo I (1630-1637)
il culto cattolico fu imposto nella Val Pragelato. Nella seconda metà del secolo,
sotto la reggenza di Maria Cristina, vedova di Vittorio Amedeo, e sotto i duchi
Carlo Emanuele II (1638-1675) e Vittorio Amedeo II (1675-1730), le comunità
valdesi del Piemonte vissero momenti tragici. Ai sudditi di un signore cattolico
non era riconosciuto il diritto di professare una fede diversa dalla cattolica; per
tutti gli acattolici dei suoi domini la corte sabauda fu dunque un nemico mortale.
Nei primi mesi del 1655, quando a Torino reggeva il ducato per i figli minori
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NOTE STORICHE
Maria Cristina, un esercito ducale forte di 4.000 armati agli ordini del marchese
di Pianezza invase le valli e si dette al saccheggio. Le popolazioni subirono con
una sorta di fatalistica rassegnazione la violenta aggressione delle bande armate
sabaude. Invano i valdesi fecero conoscere ripetutamente alla corte di Torino la
loro intenzione di accettare le richieste dell’autorità ducale. Per imposizione del
marchese di Pianezza, i soldati furono alloggiati nei comuni valdesi e una volta
insediatisi si dettero a massacrare proditoriamente le popolazioni inermi (il fatto
disgustoso passò alla storia col nome di “Pasque piemontesi”). Gli scampati alla
strage fuggirono sulle alture dove la resistenza armata improvvisata da Giosuè
Gianavello tenne a bada per alcuni giorni le bande ducali. Entro il 24 aprile 1655
tutta la Val Germanasca era sotto il controllo dell’autorità ducale e i capi delle
comunità furono messi al bando.
La notizia della brutale repressione suscitò orrore e indignazione in tutta
l’Europa protestante. Il 17 maggio il Consiglio di Stato inglese giudicò il massa-
cro dei valdesi in Piemonte un evento apocalittico, una manifestazione del po-
tere dell’Anticristo. L’Inghilterra puritana manifestò il suo dolore per il martirio
dei fratelli delle Alpi con un digiuno nazionale: il poeta John Milton evocò l’in-
fausto evento in un sonetto famoso (vedere G.Tourn, I Valdesi, pp. 144, 145). Il
25 maggio l’Inghilterra inviò alla corte di Torino una nota di protesta e sollecitò
l’intervento degli stati europei. Un mese dopo mandò a Torino un ambasciatore
straordinario. Intanto nelle valli devastate i superstiti che erano stati piegati con
la forza si ribellarono e sotto la guida di uomini abili e coraggiosi come Giana-
vello e Jahier (e in seguito anche di ufficiali ugonotti) intrapresero una guerriglia
senza quartiere.
Sotto la pressione della diplomazia internazionale e della guerra partigiana,
la corte sabauda dovette cedere. Il 18 agosto 1655 i delegati valdesi, assistiti da
diplomatici inglesi e svizzeri, si incontrarono a Pinerolo coi rappresentanti della
corte, e dalle due parti fu firmato un accordo che riconosceva formalmente ai
valdesi il diritto di esistere, ma in concreto lo negava, giacché le “Patenti di gra-
zia”, come fu denominato il documento, presupponevano che a essi era con-
cesso di esistere per la grazia del sovrano.
Angherie di ogni genere, in continua violazione delle clausole dell’accordo,
costrinsero i valdesi a riprendere la guerriglia e la corte sabauda ebbe buon
gioco per farli passare come ribelli e banditi.
La revoca dell’Editto di Nantes nel 1685, voluta da Luigi XIV di Francia,
ebbe effetti immediati anche nel ducato di Savoia. Il culto riformato fu proibito
in tutta la valle e furono demoliti i templi valdesi, tranne pochi che vennero re-
quisiti e adibiti al culto cattolico. Nel gennaio del 1686 il duca Vittorio Amedeo II
(1675-1730), cedendo alle pressioni dello zio, Luigi XIV, impose con un editto la
cessazione del culto valdese, l’allontanamento dei pastori e il battesimo cattolico
dei bambini. Parve ancora una volta che ai valdesi non rimanesse altra via che
quella dell’esilio. Ma infervorati da un pastore originario del Delfinato, che sa-
rebbe divenuto una figura di spicco nella storia del valdismo, Enrico Arnaud,
scelsero ancora una volta la via della resistenza armata.
All’inizio di maggio del 1686 le truppe sabaude di Gabriele di Savoia e
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CAPIRE DANIELE
quelle francesi agli ordini del maresciallo Catinat, accerchiarono le posizioni dei
valdesi sulle alture impedendo la ritirata dei difensori. Ci fu una nuova carnefi-
cina dopo quella del 1655; i sopravvissuti che si arresero furono condotti nel
fondovalle per essere avviati alle carceri; gli ultimi resistenti, catturati, furono
precipitati nei burroni o impiccati agli alberi.
Dei 14.000 valdesi che si stima vivessero nella valle prima della guerra,
2.000 perirono, 8.500 vennero rinchiusi nelle carceri del ducato in condizioni di-
sumane e furono decimati dalla fame e dal freddo; circa 3.500 - i più fragili -
scamparono grazie all’abiura. Di 1.400 prigionieri avviati a Carmagnola ne so-
pravvissero 400; un migliaio rinchiusi a Trino si ridussero presto a soli 46. Due-
mila prigionieri furono venduti a Venezia e finirono come rematori nelle galere.
A gennaio del 1687 il Duca concesse ai prigionieri sopravvissuti la facoltà di
espatriare. In pieno inverno centinaia di donne, vecchi e bambini uscirono dalle
orribili carceri sabaude - veri “lager” antilitteram - e intrapresero una lunga mar-
cia verso la libertà. Tra la metà di gennaio e i primi di marzo partirono in 2.700;
arrivarono a Ginevra in 2.490.
La Controriforma aveva vinto ancora una volta lasciandosi dietro una scia di
sangue, di rovine e di indicibili sofferenze. La comunità valdese delle Alpi uscì
ridotta e stremata dalla terribile prova, ma non doma nella sua volontà di conti-
nuare a esistere.
Tornare alle loro valli era l’aspirazione costante degli esuli. Un aiuto inspe-
rato venne ad essi ancora una volta dall’Inghilterra. Nel 1688 il parlamento, a
maggioranza protestante, depose il cattolico Giacomo II Stuart (l’evento passò
alla storia come la “Gloriosa rivoluzione”) e offrì la corona alla figlia del deposto
sovrano, Maria, e al di lei marito, il protestante Guglielmo D’Orange, statolder
d’Olanda.
Stimolati e assistiti dagli emissari del nuovo re d’Inghilterra inviati in Sviz-
zera, gli esuli progettarono una nuova spedizione militare per riprendere la guer-
riglia alle spalle delle truppe franco-sabaude- La notte del 27 agosto 1689 un
corpo di spedizione forte di 900 uomini sbarcò sulla riva meridionale del Lago
Lemano e si avviò a marce forzate verso le Alpi piemontesi (l’evento memoriale
è ricordato dai Valdesi come il “glorioso rimpatrio”).
All’avvicinarsi della piccola armata, le popolazioni cattoliche che si erano
insediate nelle terre valdesi fuggirono al piano: tutta la Val germanasca fu libe-
rata senza combattere. Catinat reagì immediatamente, ma la sua offensiva in gran
parte fallì. Seguì una lunga pausa invernale durante la quale il corpo di spedi-
zione valdese venne del continuo assottigliandosi, sì che a primavera rimane-
vano sulle alture soltanto 300 uomini. Enrico Arnaud, che aveva avuto un ruolo
determinante nell’organizzazione del rimpatrio, assunse il comando militare e la
condotta religiosa della minuscola schiera.
Ai primi di maggio Catinat dispose in ordine di battaglia i suoi 4.000 uo-
mini. E per i 300 disperati arroccati sui monti parve che non ci fosse scampo. Un
evento naturale imprevedibile - una fitta nebbia scesa durante la notte - venne in
soccorso degli accerchiati permettendo loro di ritirarsi e attestarsi su posizioni
più sicure. Pochi giorni dopo un evento politico ancora più imprevedibile li
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NOTE STORICHE
salvò definitivamente: il duca di Savoia ruppe l’alleanza coi Francesi e strinse al-
leanza con l’Inghilterra e l’Austria.
Nel 1694 Vittorio Amedeo II, per compiacere ai nuovi alleati, dovette ema-
nare un editto di tolleranza che riconosceva ai valdesi il diritto di esistenza nelle
loro terre. Due anni dopo però il duca, verosimilmente sotto la pressione del
clero, trovò ancora il modo di colpire indirettamente i riformati dei suoi domini
senza violare l’editto di tolleranza. Rientrato, con la pace di Ryswick, in possesso
di territori già sotto la sovranità della Francia, espulse dai suddetti territori tutti i
sudditi francesi che vi si erano insediati. Di conseguenza dovettero prendere la
via dell’esilio circa 3.000 riformati di nazionalità francese (valdesi e ugon,otti che
si erano rifugiati in quelle terre dopo la revoca dell’Editto di Nantes). Lo stesso
Arnaud dovette andarsene.
Vittorio Amedeo II restrinse di nuovo la libertà di culto nei suoi domìni
dopo la pace di Utrecht del 1715 che gli aveva permesso di recuperare la Savoia.
Nel 1716 il duca proibì le assemblee non cattoliche con più di 10 partecipanti e
nel 1721 impose il battesimo cattolico di tutti i neonati.
Frattanto nella vecchia Francia borbonica e clericale, sotto l’influenza delle
idee innovatrici dell’Illuminismo, maturavano eventi che avrebbero infine spaz-
zato via l’ “Ancien Régime” e instaurato un clima liberale. Il piccolo popolo val-
dese delle Alpi salutò con entusiasmo i tempi nuovi che si annunciavano. I Val-
desi aderirono all’ideale di “libertà”, eguaglianza e fraternità della Rivoluzione e
divennero giacobini moderati.
Dopo la Rivoluzione, con l’estendersi al di qua delle Alpi dell’impero napo-
leonico, finirono le persecuzioni e le angherie della corte ducale contro i valdesi,
ma finì anche il popolo valdese come realtà giuridica e sociale. La libertà di
culto fu garantita, ma furono liquidate le strutture ecclesiastiche realizzate dai
valdesi nei secoli, furono soppressi il Sinodo e la Tavola, furono annullati i rego-
lamenti. Le chiese del Piemonte furono aggregate al Protestantesimo francese e i
loro ministri vennero stipendiati dallo Stato.
La restaurazione post-napoleonica riportò nel Piemonte i Savoia. Nel 1815 il
Congresso di Vienna restituì a Vittorio Emanuele I re di Sardegna (1802-1821)
tutti i possedimenti sabaudi con l’aggiunta della Liguria. Col ritorno dei Savoia
tornarono in vigore i divieti e le restrizioni, non però ai livelli dell’epoca pre-ri-
voluzionaria; i tempi comunque erano cambiati! Lo stato sabaudo, gretto e cat-
tolico, dovette aprirsi alla politica internazionale: gli stati europei a regime mo-
narchico che avevano contribuito a restaurarlo con l’abbattere l’impero napoleo-
nico, aprirono a Torino le loro sedi diplomatiche.
Fra questi stati figuravano l’Inghilterra, l’Olanda e la Prussia, potenze noto-
riamente protestanti . Ora i valdesi delle valli avevano degli interlocutori influenti
a cui rivolgersi in caso di necessità.
Nel 1848 - l’anno fatidico delle rivoluzioni liberali in Europa - i valdesi rivol-
sero a re Carlo Alberto una supplica con la quale domandavano che fossero
aboliti i Decreti che restringevano le loro libertà. L’8 febbraio di quell’anno il so-
vrano rese pubblica la sua intenzione di concedere alla Nazione lo Statuto, e 9
giorni dopo annunciò le “Lettere Patenti” con cui intendeva restituire ai valdesi i
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diritti civili e politici, ma non i diritti religiosi. Le “Lettere Patenti” stabilivano te-
stualmente: “Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto e alle
scuole da essi dirette” (da G.Tourn, I Valdesi, p. 203).
Nel 1852 divenne primo ministro del regno sabaudo Camillo Benso Conte
Di Cavour. Attraverso la madre ginevrina e gli ambienti protestanti inglesi e sviz-
zeri coi quali ebbe stretti contatti, lo statista piemontese subì fortemente l’in-
fluenza del protestantesimo. Liberale convinto, Cavour contribuì alla laicizza-
zione dello Stato, nonostante l’opposizione del clero e di re Vittorio Emanuele II,
applicando nel 1855 la famosa formula “Libera Chiesa in libero Stato”.
La politica liberale cavouriana giovò alla causa della libertà religiosa dei
Valdesi e in generale dei protestanti in Italia. Dopo 3 secoli di persecuzione e
150 anni di segregazione, i valdesi poterono infine vivere da liberi cittadini in
uno stato non più stretto nella morsa del clericalismo !
(Le notizie di questa sezione della nota 11a sono state attinte in massima
parte nell’opera di Giorgio Tourn, I Valdesi).
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NOTE STORICHE
Nel 1367 nacque una controversia fra la curia avignonese e la corona bri-
tannica, avendo il Parlamento londinese respinto la richiesta avanzata da Urbano
V riguardo al pagamento di un tributo non riscosso da vari decenni.
Si trattava di un tributo che la Chiesa esigeva dallo Stato inglese in segno di
sudditanza feudale da quando Innocenzo III aveva tolto l’interdetto a Giovanni
Senza Terra e gli aveva restituito la corona.
Wycliff intervenne in veste di giurista nel conflitto che oppose Urbano V ed
Edoardo III, sostenendo l’indipendenza del potere civile dalla Santa Sede.
La corona lo ricompensò con la nomina a professore di filosofia e teologia
nella prestigiosa Università di Oxford; nel 1375 gli venne anche assegnata la par-
rocchia di Lutterworth. Paladino dei diritti nazionali contro le pretese del papato,
Wycliff riscosse ampi consensi fra i connazionali.
Nel 1376 il professore di Oxford, con la parola e con la penna attaccò dura-
mente la mondanità della Chiesa. Richiamandosi al principio della povertà evan-
gelica a cui la Chiesa deve ispirarsi, sostenne che i beni ecclesiastici dovevano
essere incamerati dallo Stato e che questo doveva provvedere al sostentamento
del clero. Wycliff si spinse tanto innanzi nella sua polemica antipapale da conte-
stare l’autorità spirituale del pontefice.
Gli avversari lo accusarono di eresia presso la curia e il papa si affrettò a
condannare le sue idee. Il “delitto” più grave di Wycliff era stato l’attacco mosso
al capo e ai principi della Chiesa.
Il vescovo di Londra ricevette l’ordine di fare arrestare l’eretico: Wycliff fu
tradotto davanti ai giudici londinesi, ma i nobili ve lo sottrassero a mano armata
e l’opinione pubblica si schierò dalla sua parte.
Lo scisma della Chiesa cominciato nel 1379, a tre anni dal ritorno del ponte-
fice nella sede romana, precipitò la Chiesa stessa in una crisi ancora più
profonda della precedente, con due pontefici che si davano reciprocamente
dell’Anticristo, due curie e due esponenti separati, un ulteriore abbassamento del
livello morale del clero e una cattolicità demoralizzata e disorientata. Lo storico
C.Grimberg cita alcuni fatti che danno la misura del degrado morale del clero
inglese in quegli anni infausti: “... fra il 1378 e il 1408 tre preti londinesi si erano
resi colpevoli di assassinio, altri si davano al brigantaggio e ad altre violenze.
Che i servi della Chiesa vivessero in concubinaggio invece che attenersi alle re-
gole di astinenza sembrava a tutti tanto normale da non trovarsi nulla da ridire:
certi vescovi, anzi, incoraggiavano tali pratiche in quanto vi trovavano ottima
fonte di reddito a causa delle dispense che vendevano ai chierici” (op. cit., p.
343). Non meraviglia che Wycliff nei suoi scritti attaccasse con veemenza il celi-
bato ecclesiastico.
Il riformatore inglese rifiutò le dottrine della Chiesa che non avevano fonda-
mento nella Scrittura, come le messe per i defunti, la teoria delle indulgenze, la
venerazione dei santi e delle reliquie, la confessione auricolare. Sul dogma della
transustanziazione espresse seri dubbi.
In vari scritti sostenne la necessità di una riforma della Chiesa per attuare la
quale l’unica guida doveva essere la Scrittura. Coerente con tale sua convin-
zione, nel 1380 intraprese quella che doveva essere l’opera più importante della
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sua vita, la traduzione della Bibbia nella lingua del popolo dal testo latino della
Vulgata.
L’avere istruito e inviato in missione per tutto il Paese un numero cospicuo
di predicatori col compito di far conoscere agli inglesi le verità rivelate nella
Scrittura fu un altro grande merito di Wycliff. Gli avversari chiamarono sprezzan-
temente “lollards”, “seminatori di zizzanie” (latino “lolium”) questi predicatori iti-
neranti che il popolo accolse comunque con favore.
La rivolta dei contadini nel 1381, della quale ingiustamente gli avversari ad-
dossarono la responsabilità a Wycliff, alienò al riformatore le simpatie di una
parte della nobiltà e rafforzò la posizione dei suoi oppositori.
Nel 1382 l’arcivescovo di Canterbury, l’avversario più accanito di Wycliff,
convocò a Londra un sinodo che condannò come ereticali molte dichiarazioni
del riformatore; gli amici che avevano condiviso e sostenuto le sue idee furono
espulsi dall’Università e mandati in esilio.
Wycliff comunque godette ancora del favore popolare e della protezione di
uomini influenti e poté vivere e lavorare tranquillo fino al giorno della sua
morte, sopravvenuta nel 1384.
Per una di quelle svolte imprevedibili della storia che mutano il corso degli
eventi, con l’ascesa al trono d’Inghilterra di Enrico IV Lancaster alla morte di Ric-
cardo II Plantageneta nel 1399, la sorte dei seguaci di Wycliff cominciò a mutare.
Forse più per ragioni politiche che religiose, il nuovo sovrano d’Inghilterra attuò
una politica intollerante e persecutoria verso i lollardi. Il figlio e successore di
Enrico IV, Enrico V, con l’appoggio della Chiesa, appesantì ancora di più la
mano contro di loro. Numerosi seguaci di Wycliff furono imprigionati, torturati,
arsi sul rogo. L’Inghilterra conobbe anch’essa gli orrori dell’Inquisizione che fi-
nora le erano stati risparmiati.
Gli scritti di Wycliff giunsero in Boemia grazie agli stretti contatti che si sta-
bilirono fra le università di Oxford e di Praga nei primi anni del ‘400. A Praga le
tesi wycliffite suscitarono discussioni appassionate e raccolsero molti consensi
tra i docenti e gli studenti. Si formò un partito di Wycliff a capo del quale venne
a trovarsi Giovanni Huss, professore nell’Università di Praga e predicatore elo-
quente.
Giovanni Huss era nato nel 1369 a Hussinetz, nella Boemia meridionale, da
umile famiglia contadina. Nel 1390 era entrato nell’Università di Praga e sei anni
dopo ne era uscito con un dottorato. Nel 1401 era stato nominato preside della
facoltà di filosofia e nel 1409 rettore dell’Università. Attratto anche dalla vita ec-
clesiastica, nel 1400 era stato ordinato sacerdote e 3 anni dopo l’arcivescovo di
Praga Sbynko lo aveva nominato predicatore del sinodo.
Conquistato dalle dottrine di Wycliff, di cui tradusse in lingua boema il
Trialogus, Giovanni Huss se ne fece entusiasta propagatore favorito dal suo uffi-
cio di predicatore sinodale. Non era dotato di un ingegno personale (le sue pre-
diche e i suoi scritti erano per la massima parte un riflesso degli scritti di Wy-
cliff), ma la sua dialettica appassionata affascinava gli uditori. “Wycliff - scrive
C.Grimberg - era un pensatore dalla schematicità di un sapiente; Huss, col suo
entusiasmo passionale, divenne un profeta” (op. cit., vol. IV, p. 346).
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NOTE STORICHE
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conciliari di non essere un eretico; così, sordo agli appelli degli amici che cerca-
rono in ogni maniera di dissuaderlo, egli partì per Costanza con un salvacon-
dotto del re Sigismondo. Ma appena giunto in città fu arrestato dalle guardie del
re e rinchiuso in prigione: Sigismondo aveva dovuto cedere al ricatto dei prelati
che avevano minacciato di sciogliere il concilio.
Condotto davanti al collegio dei cardinali con l’imputazione di avere soste-
nuto e propagato non meno di 43 “eresie”, il prigioniero, nonostante che avesse
umilmente manifestato la sua disponibilità a ritrattare qualora lo si fosse convinto
di eresia, fu gettato in una piccola cella buia malsana di un monastero sul lago
di Costanza. Dopo più di 6 mesi di durissima prigionia e di sfibranti interrogatori
che avevano irrimediabilmente minato la sua salute, Giovanni Huss il 6 luglio
1415 venne condannato alla pena del rogo. Udita la sentenza (si dice che il re
fosse arrossito mentre la leggeva), l’eretico si genuflesse e invocò dal Signore il
perdono per i suoi persecutori. Quello stesso giorno Huss sopportò con grande
dignità il supplizio atroce che gli venne inflitto. La notizia del suo martirio su-
scitò grande dolore e indignazione in tutta la Boemia.
L’anno seguente fu tradotto davanti agli inquisitori il discepolo di Huss, Gi-
rolamo da Praga. Avendo mantenuto con fermezza le sue convinzioni, come il
suo maestro fu condannato per eresia e arso vivo sul rogo il 30 maggio 1416.
“Se i prelati del concilio avevano sperato che bastasse far salire sul rogo Huss e
Gerolamo per estirpare definitivamente l’eresia dalla Boemia - osserva C.Grim-
berg - si erano grandemente sbagliati; infatti il movimento ussita divenne vera-
mente pericoloso proprio quando ebbe i suoi martiri” (op. cit.. p. 357).
Gli ussiti e tutto il popolo boemo insorsero unanimi contro il re Sigismondo
a cui non perdonarono di avere tratto in inganno Giovanni Huss con un falso
salvacondotto. I contadini cechi trovarono un capo abile e valoroso in Giovanni
Zizka. Quando la cavalleria tedesca per sollecitazione del papa intraprese una
crociata per soffocare l’eresia in Boemia, dovette fare i conti coi patrioti di Zizka.
Fortemente motivati essi affrontarono gli aggressori con grande determinazione e
li sconfissero. In una successiva battaglia che ebbe luogo nel 1421 gli insorti
boemi abilmente guidati dal loro condottiero, sebbene tre volte inferiori di nu-
mero rispetto ai nemici, conseguirono una vittoria ancora più eclatante sulle
truppe di Sigismondo; il re stesso si salvò con la fuga.
Purtroppo gli ussiti finirono per dividersi in due partiti in lotta fra loro: i
moderati calistini che sostenevano l’opinione di Huss secondo cui tutto ciò che
nel culto non era in aperto contrasto con la legge di Dio poteva essere mante-
nuto, e gli intransigenti taboriti, partigiani di una riforma radicale. Nelle lotte che
seguirono alla spaccatura del movimento i taboriti ebbero la peggio e molti di
loro perirono. I superstiti s’unirono ai valdesi boemi e insieme con loro forma-
rono la comunità dei Fratelli boemi e moravi. I calistini, ai quali nel 1433 il con-
cilio di Basilea aveva concesso il calice per i laici, si organizzarono come chiesa
autonoma separata da Roma.
La memoria di Giovanni Huss è ancora viva tra i Cechi, i quali considerano
il riformatore-martire “il maggiore dei loro eroi nazionali, il loro primo campione
della libertà religiosa e politica”.
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stancabile impegno. Tre anni dopo la sua elezione ebbe luogo in Italia la prima
esecuzione di “eretici” del suo pontificato; altre seguirono negli anni successivi.
Fra le vittime illustri dell’Inquisizione sotto Clemente VIII ci fu il filosofo Gior-
dano Bruno che fu arso vivo a Roma nel 1600. Sedici anni dopo, regnando
paolo V (1605-1621), fu convocato a Roma presso il Sant’Uffizio Galileo Galilei
per assistere alla condanna e ricevere una solenne ammonizione. Nel 1633, sotto
Urbano VIII (1623-1644), l’insigne scienziato, oramai settantenne, fu tradotto da-
vanti al tribunale dell’Inquisizione e sotto minaccia di tortura fu costretto a ritrat-
tare le tesi scientifiche che aveva sostenuto nell’ultima sua opera; dovette co-
munque scontare la condanna all’esilio. La Chiesa della Controriforma reputò le-
gittimo combattere col massimo rigore non solo le dottrine religiose, ma anche
le tesi filosofiche e scientifiche che giudicava contrarie alla sua dottrina.
Urbano VIII procedette severamente contro l’eresia luterana in Italia, non
ancora del tutto sradicata per l’atteggiamento benevolo verso di essa tenuto dalle
autorità civili in varie città della penisola. Il pontefice ebbe forti attriti con Lucca,
tollerante verso i protestanti tedeschi che vi risiedevano (nel 1640 scagliò l’inter-
detto sulla coraggiosa città toscana), e più ancora con Venezia, “colpevole” di
avere stretto alleanza coi riformati di Germania, di tollerare il culto luterano e di
porre ostacoli all’attività dell’Inquisizione.
Durante il ‘700 i processi e le condanne per “eresia” in Italia furono assai
meno numerosi che nei due secoli precedenti, sia perché la Controriforma prati-
camente aveva vinto la sua battaglia contro il protestantesimo, sia perché il
diffondersi fra gli uomini di cultura delle idee innovative dell’Illuminismo fecero
apparire intollerabili le misure repressive adottate dall’Inquisizione per soppri-
mere la dissidenza dottrinale. Ma fu solo alla fine del ‘700, quando la tempesta
della Rivoluzione Francese si estese all’Italia con l’irruzione delle truppe napo-
leoniche e il potere del papato crollò di schianto (vedi nota 9 sez. l), che l’Inqui-
sizione romana fu abolita, dopo avere prodotto durante più di due secoli innu-
merevoli martiri illustri e sconosciuti.
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Ma ciò non toglie che il papa ha festeggiato l’atto orrendo che fu, dice il Ricotti,
‘il maggiore assassinio che mai si compiesse nel nome della religione’. Difatti
Gregorio si recò in processione, accompagnato da 33 cardinali, alla chiesa di
S.Luigi. L’iscrizione nel Tempio, fatta dal cardinale di Lorena, benediceva Dio
perché ‘Carlo, re cristianissimo dei Francesi, animato da un santo zelo, aveva
fatto sparire d’un sol colpo tutti gli eretici del regno’. Il Castel Sant’Angelo fu illu-
minato per la circostanza e il papa fece pur coniare una medaglia col motto :
Ugonottorum Strages, 1572. Una bolla dell’11 settembre 1572 prescriveva un
grande giubileo nel quale i fedeli dovevano ringraziare Iddio per la distruzione
degli Ugonotti, e fu dato incarico al Vasari di eternare con un affresco nella Sala
Regia, l’avvenimento”. 3
E’ possibile, anzi molto probabile, che il papa fosse all’oscuro del com-
plotto contro gli Ugonotti in Francia; ma, come osserva giustamente il Meynier, è
difficile credere che potessero esserlo gli altri dignitari della Chiesa. Non lo fu di
certo il cardinale nunzio Salviati, “il quale - dice il nostro storico - sarebbe stato
avvertito dalla stessa Caterina dei Medici del suo progetto, ma sotto condizione
di tenere celata la cosa anche col papa”.
Il nunzio papale Salviati tenne fede alla promessa, “limitandosi a comuni-
care l’11 agosto (dunque c’era già il disegno di trucidare in massa gli Ugonotti)
che egli sperava ‘fra pochi giorni potere annunziare cosa che a Sua Santità re-
cherebbe sicura gioia e tranquillità’ ” (quest’ultima frase virgolettata è dello sto-
rico cattolico L.Pastor).
“E appena giunse a Roma la notizia della strage - riferisce ancora il Meynier
- il cardinale di Lorena, recatosi con altri colleghi presso il papa, gli domandò:
‘Quale novità desidererebbe Vostra Santità più che ogni altra?’ Gregorio rispose:
‘Per l’esaltazione della fede cattolica noi non desidereremmo altro che lo stermi-
nio degli Ugonotti’. ‘Questo sterminio, soggiunse il cardinale, possiamo comuni-
care a Vostra Santità a gloria di Dio e per la grandezza della Santa Chiesa’ ”. 4
Il massacro della notte di S.Bartolomeo però non cancellò il calvinismo
nella Francia, come si erano prefissi il partito dei Guisa e la corona e come ave-
vano sperato Pio V e Gregorio XIII. Anzi gli ugonotti scampati alla strage, sotto
la guida dei loro capi - nel massacro era perito soltanto il Coligny - si riorganiz-
zarono ancor più saldamente e ripresero la lotta per affermare il loro diritto
all’esistenza.
Intanto, morto il re Carlo IX solo due ani dopo l’eccidio di S.Bartolomeo,
salì al trono di Francia il fratello di lui Enrico III di Valois. L’ostilità tra le fazioni
estremiste dei cattolici e degli ugonotti, capitanati rispettivamente da Enrico di
Guisa ed Enrico di Borbone signore di Navarra, minacciava di riacutizzarsi. Nel
1584 morì il duca di Angiò, fratello del re Enrico III, e poiché quest’ultimo non
aveva eredi diretti, la successione al trono si apriva automaticamente al capo
della fazione ugonotta Enrico di Navarra.
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CAPIRE DANIELE
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NOTE STORICHE
in Francia s’inasprì a partire dal 1681. Era la conseguenza della logica assolutista
del potere perseguita dal “re Sole”: tutti i fattori considerati potenzialmente peri-
colosi per la compattezza politico-amministrativa e religiosa dello Stato dove-
vano essere eliminati. In realtà gli ugonotti, dopo che Richelieu li aveva privati
delle loro fortezze, non rappresentavano affatto un pericolo per la monarchia. Al
contrario il loro impegno nella vita civile, soprattutto nella finanza e nel com-
mercio, costituiva un fattore che contribuiva non poco alla prosperità economica
del Paese. Durante il regno di Luigi XIV il numero degli ugonotti in Francia si
aggirava intorno al milione. Raccolti in comunità compatte, con le proprie scuole
, i propri templi e i propri ministri, conducevano una vita pacifica e laboriosa,
conforme ai principi della rigida etica calvinista. Ma continuavano a essere og-
getto di rancore e di invidia.
Quando si scatenò la persecuzione, furono soprattutto le comunità rurali e i
ceti popolari (artigiani e piccoli commercianti) le vittime delle crudeltà dei dra-
goni del re (le “dragonnades”), mentre gli appartenenti ai ceti nobiliari e agli am-
bienti finanziari poterono in qualche modo sottrarsi alla repressione.
Nel 1685 Luigi XIV proclamò da Fontainebleau la revoca dell’Editto di Nan-
tes con cui 87 anni prima Enrico IV aveva riconosciuto libertà religiosa e civile
agli ugonotti. In forza del provvedimento reale tutti i templi protestanti in Fran-
cia furono abbattuti, il culto calvinista, anche nelle case private, fu proibito, a
tutti i ministri delle chiese riformate fu fatto obbligo di convertirsi al cattolice-
simo o lasciare il Paese, i genitori di fede protestante furono costretti a far battez-
zare i neonati secondo il rito cattolico, e ai fedeli fu vietato di espatriare, pena
l’arresto e la confisca dei beni. Dopo il 1685 anche i funzionari delle finanze e i
membri del parlamento di fede calvinista furono obbligati a dimettersi, e la Fran-
cia, per consenso unanime degli storici, fu privata di elementi di prim’ordine.
Per costringere all’abiura il maggior numero di fedeli, furono inasprite le
pene e fu accentuato il ricorso alla violenza. Non pochi ugonotti, intimoriti dalla
durezza della repressione, accettarono l’abiura e la conversione forzata al cattoli-
cesimo; ma nelle regioni centrali della Francia gruppi non molto numerosi rima-
sero tenacemente legati alla fede dei padri; sfidando i rigori del decreto reale, si
raccolsero in luoghi appartati per pregare. “Dopo la revoca dell’Editto di Nantes,
nel 1685 - si legge nel Dictionnaire Larousse Illustré alla voce “Le Désert” - un
certo numero di Protestanti continuarono a celebrare il loro culto in segreto
nelle foreste, nelle caverne, nelle montagne, in luoghi disabitati e difficilmente
accessibili. Siffatte riunioni ricevettero il nome di chiese o assemblee del deserto.
Attraverso mille vicissitudini durarono dal 1685 fino al 1792” (citato da Jean Vuil-
leumier in Apocalypse hier, au jour d’hui, demain, p. 202).
Furono molti gli ugonotti francesi che ripararono all’estero dopo la revoca
dell’Editto di Nantes.
“Il grande flusso migratorio - si legge in Storia Universale Rizzoli-Larousse -
trovò un appoggio nelle potenze protestanti del nord: l’Inghilterra e l’Olanda te-
nevano costantemente navi in crociera nella Manica (dette ‘navi di carità’) per
raccogliere le barche dei fuggiaschi, e si adoperavano per permettere il trasferi-
mento nei paesi vicini dei beni degli ugonotti esuli dalla Francia. Gli ugonotti
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BIBLIOGRAFIA
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