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CAPIRE DANIELE
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Titolo: Capire Daniele


Autore: Antonio Caracciolo
Redazione: Vittorio Fantoni
Grafica e impaginazione: Valeria Cesarale

Editore: Edizioni ADV snc - Falciani - Impruneta - FI


Tel. 055/2326291 - Fax 055/2326241
Stampatore: Legoprint srl - Trento

© 1998 Edizioni ADV


Tutti i diritti sono riservati all’editore. Ogni riproduzione
anche parziale con qualsiasi mezzo è vietata
senza preventiva autorizzazione scritta dell’editore.

Prima edizione: 1998 - Tiratura: 1.500 copie


Finito di stampare nel mese di ottobre 1998
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Antonio Caracciolo
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Presentazione
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G li studenti di teologia dell’Istituto Avventista hanno sempre lamentato la


mancanza di un testo in lingua italiana per lo studio del libro di Daniele.
Adesso il testo c’è. C’è perché qualcuno lo ha redatto e perché altri si sono premu-
rati di preparare il manoscritto per la stampa.
Lo scrivente insegnava esegesi di Daniele da oltre vent’anni nell’Istituto Avven-
tista «Villa Aurora» quando il suo direttore, il dottor Vittorio Fantoni, gli rivolse la
richiesta di produrre un manuale per il proprio corso così come altri docenti ave-
vano fatto per i loro. Non senza esitazione egli accolse l’invito. Determinante è
stato il concorso del dottor Fantoni, sia per l’incoraggiamento ed il sostegno che ha
dato allo scrivente, sia per quanto attiene al trasferimento del testo nel computer.
Assai valida è stata poi l’opera di Valeria Cesarale, grafico della Casa Editrice
ADV, che ha realizzato l’impaginazione del volume. All’amico Salvatore Vilardo
l’autore esprime gratitudine per aver egli aggiunto, nelle citazioni bibliche origi-
nali, il testo ebraico alla sua traslitterazione in caratteri latini. Un vivo ringrazia-
mento agli apprezzati collaboratori. Particolare riconoscenza lo scrivente deve a
Manuela Casti per avere riveduto e corretto ove necessario le citazioni testuali e le
parole in caratteri ebraici. L’autore non può tralasciare di menzionare la propria
moglie Milena, la cui pazienza e tolleranza per sei lunghi anni gli hanno per-
messo di condurre a buon fine il lavoro intrapreso.
A prescindere dalla sua destinazione primaria, il libro potrà essere letto da
chiunque, con un piccolo sforzo di attenzione. Esso infatti è stato scritto col pen-
siero rivolto anche ai «non iniziati». Costoro potranno trovare ostici alcuni ap-
profondimenti, specie nei punti in cui si fa riferimento al testo ebraico. Saltino
tranquillamente quei paragrafi, che più che altro interessano gli studenti di teolo-
gia. Il resto non sarà difficile da capire.
Una parola sulle metodologie che si sono applicate nella stesura del com-
mento. La forma espositiva è quella analitica: un modo di commentare che ri-
sulta più minuzioso e penetrante dell’esposizione tematica. Il testo biblico è spie-
gato versetto per versetto, dal primo all’ultimo capitolo. Questa particolarità for-
male fa del libro un vero e proprio commentario.
Il metodo interpretativo applicato alle visioni è quello storico-continuo; oltre a
essere il più antico e a essere stato il più seguito nella lunga storia dell’esegesi di
Daniele, questo modo di comprenderne le profezie trova legittimazione nel libro
che è oggetto di studio.
Benché nel presente volume l’ispirazione divina del testo danielico e le conse-
guenze che ne derivano siano tenute per presupposti irrinunciabili, l’attendibilità
storica dei racconti e l’autenticità delle profezie non si danno sempre per scontati;
quand’è possibile, anzi, gli uni si cerca di illuminare attraverso l’apporto della

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PRESENTAZIONE

documentazione storica e archeologica esistente, e le altre di leggere alla luce dei


grandi eventi della Storia Universale.
Potrà essere utile un accenno alla strutturazione del volume. Un’introduzione
precede il testo esegetico. Vi si evidenziano prima di tutto i caratteri formali della
letteratura apocalittica, di quella canonica come di quella apocrifa. Quindi vi si
espone, in un quadro succinto, la storia dell’interpretazione del libro in esame,
dall’antichità fino ai nostri giorni, Infine vi si elencano gli aspetti problematici
che il testo presenta – quegli aspetti che hanno fatto nascere dubbi sulla sua au-
tenticità – e se ne propongono le soluzioni.
Segue l’esposizione preceduta, capitolo per capitolo, da una breve introdu-
zione. Il testo biblico è riprodotto integralmente a monte del commento, secondo
la versione del prof. Giovanni Luzzi. Note supplementari sono aggiunte al com-
mento stesso quando i versetti sotto esame lo richiedono, poste a piè di pagina le
più brevi, raggruppate in fondo ai capitoli le più lunghe.
Chiude il volume un’ampia appendice nella quale sono raccolte estese note
storiche a cui si rimanda nel commento laddove laconici riferimenti richiedono
approfondimenti ulteriori.
Prima e durante la stesura del commento si sono consultati testi specializzati
di varia tendenza; tuttavia, data la particolare scelta esegetica, si sono privilegiati
i lavori di biblisti ed esegeti di scuola conservatrice e storicista, e fra questi in
primo luogo quelli di autori avventisti dai quali, anzi, si è molto attinto. Un’op-
zione, questa, suggerita da due considerazioni ugualmente valide e importanti.
La prima è che l’autore del presente volume, per convinzione personale, salvo
qualche rara riserva, è allineato sulle posizioni esegetiche degli espositori avventi-
sti; la seconda attiene al fatto che il libro sarà utilizzato come testo di studio in
una scuola teologica avventista.
Forse un chiarimento sul titolo che si è voluto dare a questo manuale non
sarà fuori luogo, tanto più che esso potrebbe dare adito a un fraintendimento.
Capire le Scritture fu per l’estensore di queste righe un vivo desiderio fin dall’ado-
lescenza. Nella maturità divenne poi una necessità, incombendogli il compito di
far capire.
Capire e far capire – una formula che idealmente lega insieme l’aspirazione
giovanile e la missione dell’età adulta dello scrivente – è stato qualcosa che ha se-
gnato con forza un aspetto importante del suo ministero e della sua vita. È stato
questo che gli ha suggerito il titolo del libro. Un titolo, oltretutto, che ne mette a
fuoco la destinazione.
L’autore, per quanto abbia cercato di lavorare con scrupolo, non è certo di
non essere incorso in qualche inesattezza. Pertanto fin d’ora si dichiara grato
verso quei lettori che, rilevandone qualcuna, gliela vorranno segnalare. E
nient’altro egli desidera di più se non che divenga realtà per essi tutti quanto il ti-
tolo esprime, e che da ciò sia accresciuta e consolidata la loro fiducia nella profe-
zia biblica.

Firenze, 25 febbraio 1998 Antonio Caracciolo

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Introduzione
____________________________

I. COMPRENSIONE DELLA PROFEZIA


BIBLICA APOCALITTICA

Ermeneutica ed esegesi profetiche

1. Quanto maggiore è l’arco di tempo che separa uno scrittore dai suoi lettori,
tanto più è difficile comprendere la sua opera e tanto più è necessario ap-
plicare norme di interpretazione adeguate.

2. La scienza che studia i criteri da applicare per comprendere un’opera lette-


raria antica si chiama ermeneutica (dal greco e(rmeneu/w, “interpreto” ).
Questo vocabolo nella Bibbia si trova in Luca 24:27 (diermh/neusen
“spiegò”).

3. L’applicazione del metodo ermeneutico per spiegare un testo antico prende


il nome di esegesi (dal greco e)chge/omai, “guido”).
Non vanno dunque confuse tra loro ermeneutica e esegesi: la prima è un
metodo, la seconda è l’applicazione di tale metodo e i suoi risultati.

4. La ermeneutica biblica è l’insieme delle norme applicate per interpretare


la Bibbia. La esegesi biblica è l’applicazione delle norme della ermeneutica
biblica ed il risultato di tale applicazione.

5. La ermeneutica biblica si avvale di un insieme di dati oggettivi come: le


lingue originali (l’ebraico e l’aramaico per l’Antico Testamento, il greco per
il Nuovo), i generi letterari (ovvero le forme espressive caratteristiche in uso
nel tempo in cui vide la luce lo scritto da interpretare), i contesti storico e
socio-culturale in cui visse e operò lo scrittore. I dati linguistici, letterari,
storici e socio-culturali sono elementi comuni all’ermeneutica biblica e a
quella letteraria comune.

6. Poiché la Bibbia in quanto documento della Rivelazione divina occupa un


posto unico nella letteratura di ogni tempo e luogo, l’ermeneutica biblica ri-
chiede fondamentalmente delle norme speciali che scaturiscono appunto
dalla sua divina ispirazione (2Tm 3:16; 2Pie. 1:21).

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INTRODUZIONE

7. La divina ispirazione della Bibbia non è verificabile scientificamente: è una


verità di fede.

8. Per l’influenza dell’Illuminismo, nel XVIII secolo è sorta una nuova erme-
neutica biblica che non tiene conto dell’ispirazione: la ermeneutica razio-
nalistica o liberale.

9. Alla ermeneutica biblica liberale e alla esegesi biblica che ne risulta s’op-
pone la ermeneutica biblica conservatrice con la sua esegesi.

10. La Bibbia come prima interprete di sé stessa è il principio basilare dell’erme-


neutica biblica conservatrice.

Profezia classica e apocalittica

1. Fra i 66 libri che la compongono, la Bibbia annovera due scritti apocalittici:


Daniele 7-12 nell’Antico Testamento e l’Apocalisse di Giovanni nel Nuovo.

2. Sotto il profilo formale, profezia classica e profezia apocalittica si distin-


guono per il diverso genere letterario.

a) Nei libri profetici ordinari (Isaia, Geremia, Ezechiele e i Dodici profeti mi-
nori) predomina la forma discorsiva (predizioni, promesse, rimproveri, in-
vettive, esortazioni, appelli). Il senso è per lo più letterale.

b) I libri apocalittici (Daniele e l’Apocalisse) si distinguono per l’uso costante


di un linguaggio figurato che conferisce loro un carattere di oscurità. La vi-
sione simbolica costituisce l’elemento fondamentale del genere apocalittico.

3. Profezia classica e profezia apocalittica si diversificano anche sotto il pro-


filo dei contenuti.

a) Nella profezia classica la parenesi (cioè l’esortazione) s’intreccia con la pre-


dizione (ossia l’annuncio di eventi futuri), e la predizione per lo più ha ca-
rattere contingente (limitata portata spazio-temporale). Ad eccezione delle
profezie messianiche, le predizioni si spingono generalmente nel futuro im-
mediato (i prossimi anni o decenni) e si rivolgono a una nazione (in genere
Giuda o Israele, ma anche nazioni pagane), ad una classe sociale (il sacer-
dozio, la borghesia, la dirigenza politica) o ad una singola persona (il re, un
funzionario dello stato, il sommo sacerdote, un falso profeta). Sono comun-
que presenti anche spunti apocalittici.

b) Nelle apocalissi, mentre è scarsa la parenesi, predomina l’elemento predit-

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tivo. La notevole ampiezza spazio-temporale conferisce alle predizioni una


dimensione universale: le profezie apocalittiche si proiettano nel futuro lon-
tano, hanno per oggetto il popolo di Dio e le potenze secolari ad esso ostili
(l’Anticristo) e come punto finale d’arrivo gli eventi escatologici (il giudizio,
la risurrezione dei morti, il regno di Dio).

4. Profeti classici e profeti apocalittici si distinguono anche per specificità di


funzioni. Il profeta classico possiede il carisma profetico e ne esercita le
funzioni: vive fra il suo popolo, si dedica a esso, ne condivide le vicissitu-
dini e si rivolge quasi sempre alla sua generazione. Il profeta apocalittico
pure possiede il dono profetico, ma non ne esercita le funzioni: vive isolato
dal suo popolo (in esilio come Daniele in Babilonia e Giovanni a Patmos) e
si rivolge per lo più alle generazioni future.
Libera traduzione e adattamento dell’articolo “History of the Interpretation
of Daniel” in Seventh-day Adventist Bible Commentary, vol. IV, pp. 39-44.

5. Da quel che si è detto sopra risulta evidente che la ermeneutica apocalittica


richiede norme proprie di interpretazione che si differenziano dalle nor
dell’ermeneutica profetica in generale.

II. PROFILO DI STORIA DELLA


INTERPRETAZIONE PROFETICA

Comprensione progressiva della profezia

La comprensione della profezia di Daniele si è sviluppata progressivamente nel


corso del tempo. Daniele stesso ne fu il primo interprete seppure limitatamente
ad alcune parti essenziali delle rivelazioni a lui consegnate.
Via via che si svolsero nella storia i grandi eventi anticipati dalla profezia,
uomini pii e versati negli studi profetici furono in grado di discernere nelle
grandi linee gli sviluppi futuri della storia stessa. Alterazioni sostanziali, ripudio
di retti principi e di risultati acquisiti, periodi di negligenza, disinteresse e sfidu-
cia nei riguardi delle profezie non bastarono a determinare la perdita definitiva
delle conquiste autentiche.
Un patrimonio che sembrava perduto per sempre è stato gradualmente ri-
cuperato, rivalorizzato, approfondito per una comprensione sempre più piena
della parola profetica. La storia dell’interpretazione di Daniele è la storia della
tensione umana verso la comprensione del grandioso disegno profetico tracciato
in questo libro ispirato (2Pie 1:19-21).

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INTRODUZIONE

Daniele può essere compreso. La dichiarazione di Gesù in Mt 24:15 ri-


guardo a Daniele: “chiunque legge pongavi mente”, giustifica lo sforzo profuso
per capire le sue profezie e la certezza che esse sono comprensibili.

Un libro parzialmente sigillato. E.G. White scrive: “il libro che fu sigil-
lato non è l’Apocalisse, ma è quella porzione della profezia di Daniele che si ri-
ferisce agli ultimi tempi”1. La comprensione progressiva di Daniele convalida
questa affermazione. Solo agli inizi del XIX secolo, quando cominciarono effetti-
vamente i “tempi della fine”, si moltiplicarono simultaneamente gli studi sul più
esteso periodo profetico del libro di Daniele, quello delle 2300 sere-mattine.
Questo momento fu comunque preceduto da un lungo periodo preparatorio.

Il punto d’inizio del disegno profetico danielico. Il vasto disegno pro-


fetico rivelato a Daniele doveva esordire nella storia con l’affermazione dell’im-
pero neo-babilonese. Daniele stesso fissa questo momento cruciale, accolto
come verità assiomatica da tutta una schiera di interpreti, quando dice al re di
Babilonia: “Tu (l’impero neo-babilonese con Nabucodonosor come suo sovrano)
sei la testa d’oro” (Dn 2:38). Poi: “dopo di te (dell’impero neo-babilonese) sorgerà
un altro regno inferiore al tuo” (v. 39). In Dn 5:28; 6:12-15, 28 e 8:20,21 sono in-
dicati il secondo ed il terzo regno universale che dovevano succedere a Babilo-
nia: gl’imperi medo-persiano e greco-macedone. È dunque l’ispirazione stessa
che fissa in modo inequivocabile l’inizio del compimento della profezia danielica
nella storia e ne traccia le fasi successive. Daniele fu dunque il primo interprete
delle profezie che gli furono rivelate. Dopo di lui, degli uomini animati da un
vivo interesse per questo aspetto del messaggio biblico confrontarono con i vati-
cini danielici gli eventi del loro tempo per modo che venne formandosi un dise-
gno progressivo di realizzazione della profezia nella storia.

Studiosi eminenti fra gli interpreti di Daniele. Sugl’inizi e gli sviluppi


dell’interpretazione profetica non ci sono incertezze essendo essi ben documen-
tati. Figurano fra gli espositori di Daniele uomini di grande cultura e genialità,
oltre che di fervente pietà religiosa.

Visione pluralista sul compimento della profezia nella storia. Le con-


vergenze più significative della profezia e della storia sono state viste e ricono-
sciute non da una singola persona, ma da tutta una schiera di uomini vissuti in
tempi e luoghi differenti i quali hanno consegnato ai posteri, ciascuno nella pro-
pria lingua, il frutto delle loro indagini.

Rettifica di inesattezze e approssimazioni col progredire degli


studi. Il tempo e gli eventi che nel corso di esso sono nati e si sono sviluppati,
hanno imposto via via di verificare le interpretazioni profetiche precedenti con le
loro inevitabili limitazioni e di rettificarne le comprensibili inesattezze e approssi-

1 - Acts of the Apostles, p. 585.

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mazioni. I pionieri dell’interpretazione profetica meritano comunque il massimo


plauso per il ruolo che svolsero nella formazione di quel patrimonio esegetico
che oggi costituisce la nostra eredità. La conoscenza di questo background è in-
dispensabile nell’ambito dello studio moderno della profezia in generale e di
Daniele in particolare.

Comprensione delle profezie cronologiche. La profezia delle 70 setti-


mane fu compresa e spiegata in base al principio giorno-anno fin dagli albori
della storia dell’interpretazione di Daniele, ma il tempo di capire le 2300 sere-
mattine e il loro rapporto con le 70 settimane era ancora lontano. Né si sareb-
bero potuti comprendere i 1260 giorni-anni (e i corrispettivi 3 anni e mezzo e 42
mesi) prima che si fosse manifestata l’apostasia in seno alla cristianità e fosse
sufficientemente avanzato da essere chiaramente discernibile il processo di cor-
ruzione della verità rivelata. Perciò l’entità storica rappresentata dal “piccolo
corno” non fu riconosciuta che secoli dopo il suo sorgere.

Tramonto dell’interpretazione della Chiesa antica. Con l’avanzare


dell’apostasia venne via via distorta e applicata in modo errato l’interpretazione
profetica lineare della Chiesa antica. Sotto l’influenza perniciosa di ORIGENE (circa
185-254) si cominciò ad allegorizzare e spiritualizzare non solo le profezie ma
tutta la Scrittura.
Dopo la presunta conversione di Costantino ed i favori eccezionali da lui
elargiti alla Chiesa (riconoscimento ufficiale, protezione e arricchimento mate-
riale), EUSEBIO (circa 260-340), vescovo di Cesarea e primo storico della Chiesa,
storicizzò il concetto di Regno di Dio.
Alle innovazioni fuorvianti introdotte da Origene ed Eusebio seguì una vi-
sione escatologica rivoluzionaria promossa da AGOSTINO (354-430), l’influente ve-
scovo di Ippona. Agostino, spiritualizzandola, spiegò la prima risurrezione come
la conversione delle anime “morte” nel peccato e identificò il Regno di Dio con
la Chiesa cattolica in forte espansione: essa, secondo lui, era la “pietra” di Dn
2:34,45 che stava diventando la montagna destinata a riempire la terra. Infine
Agostino affermò che il diavolo era ormai incatenato e che l’umanità già viveva
nel millennio apocalittico. Le idee di Agostino si affermarono e dominarono la
teologia della Chiesa medievale. Queste dottrine deviate nate da una lettura alle-
gorizzata e misticizzata della Scrittura finirono per intorbidire la limpida interpre-
tazione profetica della Chiesa antica, interpretazione che per secoli restò pratica-
mente dimenticata.

Ricupero dell’antica interpretazione profetica. Non furono né i val-


desi né altri gruppi dissidenti medievali a riscoprire e ricuperare l’antica interpre-
tazione storica delle profezie, ma bensì dei vigili figli della Chiesa che si erano
visti costretti a protestare contro gli abusi ed i sovvertimenti della Chiesa stessa;
nel farlo essi applicarono a lei certi simboli profetici della Scrittura.
Dalle profezie di Daniele e dell’Apocalisse, dal Rinascimento in poi, trassero
ispirazione i dissidenti, sempre più numerosi, per formulare le loro critiche all’in-

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INTRODUZIONE

dirizzo della Chiesa. Cosicché le profezie vennero gradualmente riacquistando


credito presso gli spiriti più illuminati.

Il ruolo della profezia nello sviluppo della Riforma. La Riforma prote-


stante nacque dalla riscoperta delle verità del Vangelo che erano state patrimo-
nio della Chiesa antica. Nei secoli prima di Lutero uomini di grande sensibilità
spirituale avevano enfatizzato con sempre maggior chiarezza il tema della sal-
vezza per grazia in Gesù Cristo e contestato le grossolane distorsioni operate da
Roma nell’ambito della dottrina, pur restando nel seno della Chiesa. Dall’enfasi
che era stata posta sulle profezie relative all’Anticristo, la Riforma trasse forti mo-
tivi per una presa di posizione coerente.
Quando Lutero scoprì l’identità della figura profetica dell’Anticristo trovò la
forza di rompere con Roma, e molti altri compirono il medesimo passo per lo
stesso motivo. Tutti costoro, di fronte alle limpide indicazioni e agli ammoni-
menti reiterati della Parola profetica, sentirono l’obbligo morale di uscire dalla
Babilonia papale. Essi avrebbero affrontato il carcere e il martirio piuttosto che
scendere a compromessi sulle verità divine ormai chiaramente comprese.

Una controinterpretazione delle profezie, arma insidiosa della Con-


troriforma. Di fronte al rifiuto virtualmente unanime e all’identificazione del
papato con l’Anticristo della profezia da parte di tutti i gruppi protestanti, il cat-
tolicesimo romano corse ai ripari: esso cercò infatti di distrarre l’attenzione dei
protestanti dall’ermeneutica profetica del cattolicesimo antico, e vi riuscì. I gesuiti
spagnoli FRANCISCO RIBERA nel 1590 e LUIS DE ALCAZAR nel 1614 escogitarono insi-
diose controinterpretazioni delle profezie apocalittiche. Ribera insinuò che l’Anti-
cristo era una figura individuale, un capo di stato infedele, che da Gerusalemme,
nel tempo della fine, avrebbe agito empiamente contro i cristiani durante tre
anni e mezzo letterali.
Il cardinale Roberto Bellarmino, famoso controversista, sostenne con grande
energia le vedute di Ribera che divennero, e sono tuttora, la posizione ufficiale
del cattolicesimo sulla figura profetica dell’Anticristo. L’espediente esegetico del
Ribera prese il nome di ermeneutica futurista. Luis de Alcazar dal canto suo pro-
pose un’interpretazione agli antipodi rispetto a quella di Ribera. Secondo questa
chiave di lettura tutte le predizioni dei due libri apocalittici finirono di adem-
piersi tra il tempo del tramonto della nazione giudaica e l’epoca della caduta
dell’impero romano, e l’Anticristo non è altri che uno degli imperatori che perse-
guitarono i cristiani: Nerone, Domiziano o Diocleziano.
Questo modo di spiegare Daniele e l’Apocalisse è noto col nome di erme-
neutica preterista o semplicemente preterismo. L’interpretazione futurista e
quella preterista, questi due criteri ermeneutici contrapposti e contraddittori,
espressi dalla Chiesa cattolica - spettacolo davvero sconcertante! - sorprendente-
mente raggiunsero lo scopo di confondere l’esegesi profetica protestante.

Le conquiste della Riforma frustrate. Alcuni esegeti protestanti, come


l’olandese HUGO GROTIUS (1583 - 1645) e l’inglese HENRY HAMMOND (1605 - 1660),

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cominciarono ad adottare le controinterpretazioni del gesuita Alcazar gettando


confusione e provocando divisioni tra i protestanti che iniziarono a perdere fidu-
cia e interesse per le profezie.
I protestanti abbandonarono gradualmente l’interpretazione ortodossa (sto-
ricista). Non tutti però: ci furono alcuni espositori, come JOSEPH MEDE, che non si
lasciarono influenzare dall’ermeneutica fuorviante di Alcazar e ristudiarono l’in-
tero ambito della profezia, reintrodussero, contro le vedute di Agostino, il mil-
lennio nel futuro e rivalutarono l’ermeneutica storica.
Il preterismo si insinuò nella scuola razionalistica dei teologi liberali tede-
schi nel XVIII secolo, di cui furono rappresentanti eminenti JOHAN SALOMON SEM-
LER (m. nel 1791) e JOHAN DAVID MICHAELIS (m. pure nel 1791). H.CORRODI iniziò la
critica sistematica di Daniele nel 1783. Nel XIX secolo JOHAN GOTTFRIED EICHHORN
(m. nel 1827) condusse a fondo l’offensiva contro Daniele.
Il futurismo conquistò gradualmente le frange conservatrici del protestante-
simo e nel secolo XX si è diffuso ampiamente anche tra i fondamentalisti.

L’attacco di Porfirio all’autenticità di Daniele. La collocazione del


quarto regno di Dn 2 e 7 nel periodo ellenistico e la conseguente identificazione
del “piccolo corno” con Antioco Epifane, ampiamente sostenute dalla moderna
esegesi liberale, risalgono a PORFIRIO (233 - circa 304).
Il filosofo neoplatonico, allarmato per la straordinaria diffusione del cristia-
nesimo, e informato sull’importanza che aveva per i cristiani la profezia, cercò di
screditarla insinuando che il libro di Daniele non era stato affatto scritto nel VI
secolo a.C., ma era semplicemente un mendace profilo storico tracciato da uno
scrittore vissuto nel tempo dei Maccabei. Porfirio, in ultima analisi, sostenne che
il libro fu “fabbricato” posteriormente agli eventi descritti e fu scritto coi tempi
verbali al futuro per farlo passare per una profezia.
I cristiani dell’Occidente latino respinsero all’unanimità la teoria di Porfirio;
solo pochi cristiani d’Oriente l’accolsero. Comunque la critica di Porfirio cadde
nell’oblio entro breve tempo e rimase ignorata fino a dopo la Riforma. Sul finire
del secolo XVI la rimise in auge l’inglese HUG BROUGHTON (1549-1612) e da al-
lora, senza dubbio ignorandosi da chi e perché era stata escogitata, essa fu adot-
tata in circoli sempre più ampi sia nel Vecchio mondo che nel Nuovo, allo
scopo di contrastare la scuola d’interpretazione storica della profezia, la quale
vedeva nel “piccolo corno” di Dn 7 una figura del papato storico sorto fra le 10
frazioni del quarto regno. Oggi la teoria su Antioco Epifane è ampiamente dif-
fusa tra gli espositori di Daniele e la si ritrova in numerosi commentari di orien-
tamento liberale.

L’esegesi profetica del Nuovo Mondo. I protestanti europei che appro-


darono nel Nuovo Mondo nel XVII secolo portarono con sé, fra gli altri valori
spirituali della vecchia Europa, il sistema d’interpretazione profetica ancora se-
guito dalla maggior parte dei protestanti inglesi e di altre parti d’Europa. Fin da-
gli inizi dell’emigrazione oltre Atlantico il messaggio profetico della Scrittura oc-
cupò una posizione preminente nel pensiero dei coloni. EPHRAIM HUIT nel 1644

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INTRODUZIONE

pubblicò il primo commentario americano su Daniele: The Hole Prophecy of Da-


niel Explained. Nel Nuovo Continente si mantenne autonoma per lungo tempo
la linea interpretativa delle profezie del primo protestantesimo europeo, non
avendo curato i coloni i contatti culturali col Vecchio Continente. Spesso l’ese-
gesi profetica americana in quest’epoca, non ancora influenzata dal Preterismo e
dal Razionalismo europei, fu più limpida e più coerente dell’esegesi europea.

Il risveglio religioso del XIX secolo. Mentre il preterismo veniva conqui-


stando la scienza critica quando il futurismo non era ancora diffuso tra i prote-
stanti, ed il post-millennarismo predominava nelle chiese riformate, in certi set-
tori del protestantesimo fiorì il pre-millennarismo storicista.
L’ermeneutica profetica storica conobbe tre momenti di lustro: i primi secoli
del cristianesimo, il tempo della Riforma e della post-Riforma ed il primo Otto-
cento. Su questo background globale si proiettano il risveglio dell’avvento nella
vecchia Europa ed il movimento dell’avvento nel Nuovo Mondo durante il XIX
secolo. Numerosi espositori indipendenti della parola profetica, specie in Eu-
ropa, precorsero con le loro interpretazioni parallele il risveglio europeo ed il
movimento americano.

Radici lontane della posizione avventista sull’interpretazione profe-


tica. Il ruolo della Chiesa Avventista del Settimo Giorno, erede di venticinque se-
coli di interpretazione profetica, è quello di ricuperare e continuare l’esposizione
ortodossa del passato, oggi restaurata, rivalorizzata e perfezionata alla luce delle
conquiste odierne nel campo dell’esegesi profetica. Nel tempo presente gli studi
profetici in ambito avventista privilegiano a ragione quei segmenti escatologici
della profezia che non erano stati compresi e valorizzati nel passato perché non
era ancora giunto il tempo del loro adempimento e di conseguenza erano prema-
turi il loro riconoscimento, la loro valorizzazione e la loro applicazione storica.

Un nucleo essenziale ereditato dal passato. Le conclusioni a cui è ap-


prodata l’esegesi avventista riguardo alle profezie cronologiche - l’inizio sincro-
nico delle 70 settimane di Dn 9:25 e delle 2300 sere-mattine di Dn 8:14, e lo sca-
dere di quest’ultimo periodo nel 1844 - sono riconducibili a eminenti espositori
del passato. L’esegesi profetica avventista si mantiene dunque sulla linea degli
accorti interpreti di ieri e con gratitudine si riconosce debitrice nei loro confronti.
Erede di un nucleo di verità messe in luce dagli espositori dei secoli trascorsi,
l’esegesi profetica avventista nel medesimo tempo si riconosce annunciatrice de-
gli eventi escatologici preconizzati dalla parola profetica.
Con questo ampio panorama davanti agli occhi, siamo pronti ad intrapren-
dere lo studio delle grandi profezie danieliche: la visione della statua metallica
del cap. 2; la visione delle 4 bestie, le 10 corna, il “piccolo corno” e i 3 tempi e
mezzo del cap. 7; la visione del montone e del capro, delle loro corna e del
lungo periodo profetico del cap. 8; la rivelazione delle 70 settimane che condu-
cono al Messia-Principe del cap. 9, e infine le rivelazioni letterali parallele dei ca-
pitoli 11-12. (Da S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, Introduzione).

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III. L’INTERPRETAZIONE E LO STUDIO DI DANIELE


DALL’ANTICHITÀ FINO AI NOSTRI GIORNI

1. La lettura di Daniele nell’età precristiana

A. L’attestazione più antica riguardo all’interpretazione di Daniele risale al III-II


secolo a.C., ovvero all’epoca dell’origine della versione alessandrina
dell’Antico Testamento. La traduzione greca di Daniele nei LXX è libera e
divergente dal Testo Masoretico. In 9:24-27 sono evidenti le alterazioni in-
trodotte per adattare il testo alla figura di Antioco Epifane. In 11:30 l’espres-
sione “le navi di Kittim” del T.M. è tradotta “i Romani”. È significativo che
già nel II secolo a.C. i Giudei alessandrini riconoscessero la presenza di
Roma nelle profezie di Daniele.

B. Nel I Libro dei Maccabei, che vide la luce sul finire del II secolo a.C., l’al-
tare pagano nel tempio è definito “l’abominazione della desolazione” (I
Maccabei 1:54) con evidente riferimento a Dn 8:13 e 11:31. Nel cap. 2:55-60
Daniele e i compagni sono menzionati accanto ad altri personaggi dell’An-
tico Testamento, segno che in quell’epoca Daniele era già riconosciuto ispi-
rato nell’ambiente giudaico.

C. Un riferimento a Daniele si trova in un’altra composizione della letteratura


tardo-giudaica, I Testamenti dei Dodici Patriarchi, risalente pure al II secolo
a.C. Il Testamento di Levi cita ed estende fino all’età romana le 70 settimane
di Dn 9:24-27. Ancora un segno che il tardo giudaismo interpretava Daniele
in chiave storica riconoscendovi ovviamente il valore profetico.

D. Riferimenti alle profezie di Daniele si sono trovati nei testi di Qumran. Nel
Rotolo della Guerra, del I secolo a.C., Dn 11:40 a 12:3 sono applicati alla
guerra escatologica tra i “figli della luce” e i “figli delle tenebre”. Il Docu-
mento di Melchisedec (11Q Ps.Ez.), di data incerta, applica a eventi futuri lo
schema cronologico di Dn 9:24-27. I riferimenti a Daniele nella letteratura
tardo-giudaica attestano che i Giudei, negli ultimi due secoli dell’era precri-
stiana, tennero in debita considerazione questo libro profetico.

2. La lettura di Daniele nell’età cristiana antica

L’interesse del mondo giudaico per il libro di Daniele non si estinse nell’era cristiana.

A. Nel primo secolo lo storico GIUSEPPE FLAVIO si riferì ripetutamente a Daniele


nei suoi scritti, massimamente in Antichità Giudaiche. Nel libro X (275)

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INTRODUZIONE

identifica il re di Siria, Antioco IV Epifane, nel “piccolo corno” di Daniele 8;


sempre nel libro X (208-210) vede Roma nel 4° regno di Dn 2. Ancora nel
X libro di Antichità Giudaiche (276), come pure in Guerre Giudaiche (VI,
212-213), riferisce alla sua epoca gli eventi finali della profezia danielica
delle settanta settimane (Dn 9:24-27).

B. L’apocrifo IV Libro di Esdra, quasi contemporaneo degli scritti di Flavio,


identifica i 4 regni danielici alla stessa maniera di Giuseppe: Babilonia, Per-
sia, Macedonia, Roma. L’aquila come simbolo di Roma è l’equivalente della
4 bestia di Dn 7.

C. Nel secondo secolo l’apologista giudeo Trifone, che dialoga col cristiano
Giustino, allo stesso modo che quest’ultimo vede il “piccolo corno” di Dn
7:25 come un potere persecutorio futuro che dovrà dominare per tre tempi
e mezzo, da Trifone interpretati come tre secoli e mezzo.

D. Sempre nel II secolo il Seder ‘Olam, attribuito generalmente a RABBI JOSE BEN
HALAFTA, nei capitoli 29 e 30 si richiama a Dn 9:24-27 (in pratica è una spe-
cie di midrash di questo passo). La cronologia della distruzione del primo e
del secondo tempio è fatta coincidere coi numeri sabbatici di Dn 9: si so-
stiene che da Nabucodonosor fino a Tito trascorsero 10 giubilei, equivalenti
a 70 cicli sabbatici, a loro volta equivalenti a 490 anni.

E. Nel IV secolo RABBI JOSEF in uno dei suoi scritti identifica i Persiani nell’orso
di Dn 7:5. I rabbini di quest’epoca vedono concordemente la Persia e Roma
rispettivamente nel secondo e nel quarto regno di Dn 2 e 7.

È evidente l’interesse del giudaismo per il libro di Daniele nei primi secoli
dell’era cristiana. Più documentato ancora è l’interesse dei cristiani.

A. Il Nuovo Testamento ha due riferimenti diretti al libro di Daniele come pro-


fezia in Mt 24:15 e in Mr 13:14, e un riferimento indiretto come fonte storica
in Eb 11:33-34. Evidenti contatti col libro di Daniele si scorgono in altri
punti del Nuovo Testamento. L’Anticristo preannunciato in 2Te 2:3-8 è una
figura parallela del “piccolo corno” di Dn 7 e 8. Le 4 bestie di Dn 7 ricom-
paiono riunite in un’unica figura in Ap 13:2. In Ap 12:14 ritornano i 3 tempi
e mezzo di Dn 7:25, e ricompaiono ancora enunciati in termini diversi in
Ap 11:3; 12:6 e 13:5.

B. I riferimenti alle profezie di Daniele sono frequenti nella letteratura patri-


stica dei primi 4 secoli dell’era cristiana.
a) Il riferimento più antico fuori del libro di Daniele lo si coglie nell’ Epistola di
Barnaba. In questo documento cristiano risalente al 130 circa la quarta bestia
di Dn 7 e le sue 10 corna sono viste come figure di eventi presenti e futuri
b) GIUSTINO, morto martire intorno al 165, nel Dialogo col giudeo Trifone vede

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nel futuro l’apparizione del piccolo corno di Dn 7:25 e pensa che il suo do-
minio durerà 3 anni e mezzo letterali.
c) Ancora nel II secolo IRENEO vescovo di Lione (circa 130-200) in uno scritto
apologetico (Adversus Haereses) identifica Roma nel quarto regno di Dn 2 e
7 e pensa che essa sarà divisa in 10 parti. Per Ireneo il “piccolo corno”,
identificato con l’Anticristo, deve ancora manifestarsi, e quando si sarà ma-
nifestato regnerà per 3 anni e mezzo letterali.
d) Fra il II e il III secolo, TERTULLIANO (160-240) usa Dn 9:24-27 per convincere
i Giudei che essi debbono riconoscere Gesù di Nazareth come il Messia
predetto da Daniele.
e) CLEMENTE, il dotto filosofo cristiano di Alessandria (circa 150-220), usa Dn
9:24-27 nel contesto di un’ampia cronologia fra l’epoca israelitica e l’età ro-
mana. Clemente fa decorrere dall’anno II di Dario I re di Persia le 70 setti-
mane di Dn 9 ed estende le 62 settimane fino al tempo del battesimo di
Gesù. La 70° settimana la colloca fra Nerone, secondo Clemente il respon-
sabile della “abominazione della desolazione”, e Vespasiano, il distruttore di
Gerusalemme.
f) Delle 70 settimane s’interessa pure il cronografo cristiano GIULIO AFRICANO
(160-240). Egli pone nel 444 a.C., sotto Artaserse I di Persia e Nehemia,
l’inizio di questo periodo profetico e lo fa terminare nell’anno 31 con la
crocifissione di Cristo.
g) Daniele attrasse anche l’attenzione di ORIGENE (185-254), lo scrittore alessan-
drino responsabile di avere introdotto nel pensiero cristiano concetti fuor-
vianti con la sua esegesi allegorica della Scrittura. Commentando Dn 8, Ori-
gene applica i vv. 23-25 ad un ipotetico anticristo futuro. Le 70 settimane di
Dn 9:24-27 le equipara fantasiosamente a 4900 anni che estende da Adamo
fino alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 d.C..
h) Per quanto riguarda l’esposizione cristiana antica di Daniele, IPPOLITO RO-
MANO (m. nel 235) merita una menzione speciale come autore del più
esteso commentario del libro pervenutoci dall’antichità cristiana.
Composto tra il 202 e il 204 in greco, il commentario di Ippolito comprende
4 libri. “Storicista” (ante litteram) su Dan 2 e 7, Ippolito si rivela “futurista”
(ante litteram) sul cap. 9 e sui periodi profetici dei capitoli 7 e 8 che
estende fino al tempo della fine. Nei 4 regni danielici Ippolito vede Babilo-
nia, Medio-Persia, Grecia e Roma; nella “pietra” che distrugge la statua
(cap.2) ravvisa il Cristo, e nel “piccolo corno” del cap.8, primo fra i cristiani,
identifica Antioco Epifane. Questo antico commentatore cristiano applica
storicamente anche l’ultima fase della quarta bestia di Dn 7: le 10 corna
sono 10 regni che debbono ancora sorgere; il “piccolo corno” è l’Anticristo
che dovrà nascere tra i 10 regni e sarà vinto e giudicato da Gesù Cristo alla
sua venuta. Ippolito identifica con Cristo anche la “pietra” del cap.2 che di-
strugge la statua dai 4 metalli. Le 62 settimane di Dn 9:26 le colloca tra il
tempo dell’esilio e la nascita di Cristo. La settantesima settimana la stacca
dal contesto e la proietta nel tempo della fine precorrendo i moderni di-
spensazionalisti.

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INTRODUZIONE

C. Nella seconda metà del III secolo un duro attacco contro Daniele venne dal
mondo pagano suscitando la viva reazione degli ambienti cristiani.
a) PORFIRIO DI TIRO (233-304), un filosofo neoplatonico che contestava aspra-
mente il cristianesimo, compose un’opera accusatoria in 15 libri contro i cri-
stiani. Il 12° libro era dedicato alla refutazione del libro di Daniele, uno
scritto inviso al pagano perché sulle sue profezie i cristiani fondavano al-
cune importanti posizioni teologiche. Per screditarlo, Porfirio insinuò che
esso era una falsa profezia (vaticinium ex eventu) scritta da un ignoto giu-
deo all’epoca dei Maccabei. Nel “piccolo corno” dei capitoli 7 e 8 il filosofo
pagano identificò il re di Siria Antioco IV Epifane.
b) Seguirono Porfirio, limitatamente all’identificazione del “piccolo corno” del
cap.7 di Daniele, alcuni interpreti della Chiesa sira. AFRAHAT DI MOSSUL (290-
350) vide Antioco Epifane nell’undicesimo corno di Dn 7. Per il resto si at-
tenne all’interpretazione tradizionale della Chiesa.
c) EFREM SIRO (306-373) pure identificò il “piccolo corno” di Dn 7 con Antioco
Epifane. Questo esegeta orientale credette che l’Impero romano sarebbe
scomparso con la venuta dell’Anticristo. Nelle 10 corna della quarta bestia
del cap.7 vide 10 regnanti seleucidi.
d) POLICRONIO DI APAMEA (374-430) su Dn 2 e 7 seguì Porfirio (vide nei 4 regni
Babilonia, la Persia, la Grecia I e la Grecia II ovvero i regni ellenistici, e
scorse nelle 10 corna dieci re seleucidi tra Alessandro e Antioco IV e nel
“piccolo corno” quest’ultimo sovrano). Policronio, primo fra gli interpreti
cristiani, applicò ad Antioco i 3 tempi e mezzo di Dn 7 e le 2300 sere-mat-
tine di Dn 8. Sul cap. 9 si mantenne cristocentrico.

D. Gli interpreti cristiani latini e greci di Daniele tra il III e il IV secolo segui-
rono la tradizione esegetica della Chiesa.
a) LATTANZIO (250-330) nei suoi scritti si riferì sporadicamente alle profezie di
Daniele. Allude alla caduta futura di Roma e al sorgere di 10 regni dopo di
essa e colloca nel futuro l’Anticristo che sarà distrutto da Dio alla risurre-
zione dei santi. Non ha nessun riferimento ad Antioco.
b) EUSEBIO DI CESAREA (260-340), storico della Chiesa, identifica i 4 regni danie-
lici con l’Assiria (Babilonia), la Persia, la Macedonia e Roma. Dopo Roma
intravede l’instaurarsi del Regno di Dio. Pone in rapporto reciproco Dn 2 e
7, applica Dn 7:9-14 alla seconda venuta di Cristo e Dn 9:24-27 alla prima.
Non fa menzione di Antioco.
c) CIRILLO, vescovo di Gerusalemme (315-386), su Dn 7 segue lo schema tradi-
zionale che definisce “la tradizione degli interpreti della Chiesa”. Anch’egli
pensa che Roma sarà divisa in 10 regni minori tra i quali sorgerà l’Anticristo
(il “piccolo corno”) che alla fine dei tempi sarà distrutto dal Cristo che ritor-
nerà. In Dn 9:24-27 Cirillo scorge una profezia messianica che si è adem-
piuta nel I secolo.
d) CRISOSTOMO di Antiochia e Costantinopoli (347-407), in parte contempora-
neo di Girolamo, segue l’interpretazione tradizionale della Chiesa su Dn 2 e
7. Pensa che quando si dissolverà l’Impero romano sorgerà l’Anticristo e

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CAPIRE DANIELE

sarà il segno che la Parusia è vicina.


e) TEODORETO DI CIRO (386-457) appartiene al gruppo di ecclesiastici che reagi-
rono contro l’attacco di Porfirio a Daniele. Gli scritti di Teodoreto sono in
gran parte posteriori a Girolamo cosicché le sue vedute su Daniele possono
essere state influenzate dal pensiero del grande dottore latino. Teodoreto
vede nei 4 metalli della statua di Dn 2 i regni di Babilonia, Persia, Macedo-
nia e Roma e nell’amalgama ferro-argilla il declino dell’Impero romano.
Nella pietra che distrugge la statua ravvisa una figura del regno eterno di
Cristo che si instaurerà alla sua seconda venuta. Anche sul cap. 7 Teodoreto
segue lo schema tradizionale. Al tramonto dell’Impero romano sorgeranno
10 regni, poi verrà l’Anticristo che regnerà per 3 anni e mezzo. Le 70 setti-
mane sono interpretate da questo esegeta in chiave messianico-cristologica.

E. Confutarono il neoplatonico di Tiro vari Padri del IV e V secolo, fra i quali


ricordiamo EUSEBIO DI CESAREA, APOLLINARE e METODIO. Il maggior rap-presen-
tante della reazione cristiana contro Porfirio resta comunque GIROLAMO.
a) Il commentario su Daniele di GIROLAMO (340-420) è una pietra miliare nella
storia dell’interpretazione cristiana di questo libro profetico. Il commentario
di Girolamo è più completo di quello di Ippolito (rappresenta pure la prin-
cipale fonte d’informazione sulle idee di Porfirio riguardo a Daniele). Su Dn
2 Girolamo segue lo schema standard: Babilonia, Medo-Persia, Macedonia,
Roma. Nel miscuglio ferro-argilla scorge una realtà contemporanea: i Ro-
mani che cercano l’aiuto dei Barbari per sostenere le guerre civili e quelle
contro altre nazioni. Girolamo applica a Cristo e al suo regno la “pietra” che
devasta la statua. Su Dn 7 l’illustre dottore della Chiesa latina ricalca lo
schema applicato al cap. 2. Le 4 teste della terza bestia rappresentano Tolo-
meo, Seleuco, Filippo e Antigono tra i quali fu diviso l’impero di Alessan-
dro. La quarta bestia è figura dell’Impero romano “che ora domina il
mondo”. Le sue 10 corna simbolizzano 10 re che si spartiranno l’impero alla
fine del mondo e tra cui dovrà sorgere l’Anticristo finale. In Dn 8 Girolamo
scorge i re di Media e di Persia nella figura del montone, Alessandro e i Ma-
cedoni nel simbolo del capro, Alessandro nel gran corno del capro e i suoi
successori nelle 4 corna. Nel piccolo corno vede Antioco IV come tipo
dell’Anticristo finale ma incontra notevole difficoltà nell’applicare al re di Si-
ria le 2300 sere-mattine. Su Dn 9 Girolamo non esprime vedute personali,
ma si fa portavoce degli interpreti che l’hanno preceduto: Giulio Africano,
Eusebio, Ippolito, Apollinare, Clemente, Origene, Tertulliano e “gli Ebrei”.
Nessuno di questi interpreti ha scorto nel cap.9 Antioco Epifane. Sul cap.
11 Girolamo concorda con Porfirio fino al v. 21. Diverge dal v. 22, ma solo
perché vede insieme Antioco e l’Anticristo finale.
b) GIROLAMO in Occidente e TEODORETO in Oriente furono praticamente gli ul-
timi rappresentanti della tradizione della Chiesa antica sull’interpretazione di
Daniele. Dopo il V secolo andò affievolendosi fra i cattolici l’interesse per
Daniele e per gli studi profetici in generale, e questo come conseguenza
dell’affermarsi dell’escatologia storicizzata di Agostino nel pensiero teolo-

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INTRODUZIONE

gico cattolico. Col propagarsi del cattolicesimo nel mondo il Regno di Dio
si stava già realizzando, che bisogno c’era di studiare ancora le profezie?

F. Nell’età cristiana antica - a parte la contestazione di Porfirio fuori dell’area


cristiana - non furono mai messi in discussione la data antica (VI secolo
a.C.), l’autenticità e il valore profetico del libro di Daniele. Anche sull’inter-
pretazione delle profezie ci fu una sostanziale convergenza.
Salvo sporadiche eccezioni i regni dei capitoli 2 e 7 furono identificati con
Babilonia, Medo-Persia, Macedonia e Roma, e nella pietra del cap. 2 si vide
il regno eterno del Cristo. Una presenza di Antioco Epifane fu generalmente
ammessa nei capitoli 8 e 11 da alcuni esegeti, soprattutto da Girolamo
come tipo dell’Anticristo finale. Il cap. 9 fu interpretato quasi unanime-
mente in chiave messianico-escatologica.

3. Studio di Daniele nel Medioevo

La fine del V secolo segnò il trapasso dall’Età Antica al Medioevo. In questa


epoca storica Daniele fu oggetto di studio e di commenti sia nella sinagoga che
in seno alla Chiesa.

a) L’esegesi giudaica di Daniele nel Medioevo fu meno entusiastica che


nell’evo antico e ciò, secondo J.A.Montgomery, per due ragioni: la prima
era che nel canone ebraico delle Scritture Daniele era posto fuori dai Pro-
feti; la seconda che i cristiani enfatizzavano la portata messianica del libro.
Nondimeno si occuparono di Daniele fra il X e il XIII secolo i maggiori
maestri dell’ebraismo.
b) Nel Medioevo in seno all’ebraismo commentarono Daniele: SAADIA BEN-JOSEF
(m. nel 941), JAFET BEN-ALI (attorno all’anno 1000), SALOMON BEN-ISAAC (m.
nel 1105), ABRAHAM BEN-MAIMON, detto Maimonide (m. nel 1204), DAVID KIM-
CHI (m. nel 1240).
c) In seguito ci fu nell’ebraismo una reazione contro l’interpretazione messia-
nica di Daniele. L’esponente principale di questa posizione fu ISAAC ABARBA-
NEL, o Abrabanel, (m. nel 1508): egli, contro il rabbinismo ufficiale, anno-
verò Daniele tra i Profeti ma ne avversò l’interpretazione messianica.
d) Anche in ambito cattolico ci fu un certo interesse per Daniele durante il Me-
dioevo. Fra i teologi più ragguardevoli della Chiesa che si occuparono di
questo libro in tale periodo sono da annoverare: ALBERTO MAGNO (m. nel
1280), ARNOLDO DA VILLANOVA (m. nel 1313), NICOLA DA LIRA O LYRANUS (m.
nel 1340), PIETRO ARCIDIACONO (m. nel 1362). L’antica esegesi storica fu co-
munque generalmente trascurata.

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CAPIRE DANIELE

4. Lo studio di Daniele nell’età rinascimentale

A. Nel XVI secolo nuovi stimoli allo studio di Daniele scaturirono dalla
Riforma luterana. I Riformatori ebbero un rapporto particolare con Daniele.
Il dato più significativo nell’ambito di questo rinnovato interesse per le pro-
fezie danieliche fu il ripristino dell’antica esegesi storica.
a) MARTIN LUTERO (1483-1546) non produsse un commentario di Daniele, ma
stimò questo libro una fonte di consolazione per la fede dei cristiani. Fau-
tore dell’esegesi storica, Lutero vide nell’Anticristo una figura storica e non
escatologica come i Padri antichi. La novità dirompente dell’esegesi profe-
tica del padre della Riforma fu l’aver identificato nell’Anticristo il papato sto-
rico (anche se prima di lui EBERARDO, arcivescovo di Salisburgo nel 1240 e
JOHN WYCLIFF poco più di cento anni dopo avevano visto un simbolo del
papato nel “piccolo corno” di Dn 7).
b) Fra i primi esponenti della Riforma luterana si occuparono volentieri di Da-
niele FILIPPO MELANTONE (m. nel 1560), GIOVANNI ECOLAMPADIO (m. nel 1531),
SEBASTIANO MUNSTER (m. nel 1552), UGO DE GROOT o Grotius (m. nel 1545).
c) GIOVANNI CALVINO (1509-1564) produsse una serie originale di letture su Da-
niele.

B. La Chiesa cattolica reagì all’interpretazione delle profezie in funzione anti-


papale promossa vigorosamente dai riformatori cercando di screditare l’er-
meneutica storica.
a) La Controriforma cattolica introdusse una innovazione rivoluzionaria
nell’ambito dell’esegesi profetica, un’innovazione che malauguratamente in
seguito avrebbe influito sull’esegesi profetica protestante. Promotori di que-
sta svolta furono i gesuiti spagnoli FRANCISCO RIBERA e LUIS DE ALCAZAR. Ri-
bera intorno al 1585 divulgò un suo sistema interpretativo dell’Apocalisse
che relegava nel futuro escatologico il compimento delle profezie di Gio-
vanni (ermeneutica futurista).
Alcazar nel 1614 introdusse un metodo esegetico che all’opposto del futuri-
smo di Ribera limitava ai primi quattro secoli dell’era cristiana la portata
delle suddette profezie (ermeneutica preterista). In verità l’Alcazar aveva
avuto un lontano precursore in Porfirio, ma il preterismo del neoplatonico
applicato a Daniele non aveva avuto seguito. Invece le ermeneutiche
dell’Alcazar e del Ribera - queste due chiavi di lettura contraddittorie ed en-
trambe riduttive di Daniele e dell’Apocalisse - ebbero largo seguito fra cat-
tolici e protestanti.
b) Fra i cattolici che scrissero su Daniele nel periodo della Controriforma ricor-
deremo: GIOVANNI MALDONADO (m. nel 1583), EMMANUELE SA (m. nel 1596),
BENEDETTO PEREYRA (m. nel 1610), GIOVANNI MARIANA (m. nel 1624). Dall’anti-
chità pre-cristiana fino al tempo della Riforma e della Controriforma - attra-
verso la Sinagoga, la Chiesa antica e quella medievale - una catena ininter-
rotta di studiosi e esegeti di Daniele, pur divergendo sull’interpretazione

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INTRODUZIONE

delle sue profezie, hanno riconosciuto l’autenticità, la data antica ed il va-


lore profetico del libro. Una svolta si sarebbe però prodotta con l’avvento
dei tempi moderni.

5. Lo studio e l’interpretazione di Daniele nell’età moderna

A. Nella storia dell’interpretazione di Daniele i primi accenni razionalistici


dopo Porfirio si scorgono nel XVII secolo, e sorprendentemente presso au-
tori ebrei e protestanti.
a) URIEL ACOSTA (m. nel 1640) di origine ebraica (conosciuto anche come Ga-
briel da Costa), negò che Daniele fosse stato composto nel VI secolo a.C. e
attribuì la composizione del libro ai circoli farisaici.
b) BENEDETTO SPINOZA, filosofo di estrazione ebraica (m. nel 1677), respinse
anch’egli l’origine antica di Daniele definendolo opera tardiva con aggiunte
redazionali finali ad opera dei sadducei.
c) Sulla stessa posizione negativa ma con più radicalità si tenne il deista in-
glese ANTHONY COLLINS (m. nel 1717). Quest’autore, riesumati gli antichi ar-
gomenti di Porfirio, sostenne che le visioni del libro di Daniele risalivano al
tempo di Antioco Epifane e non erano altro che vaticinia ex eventu.

B. Il razionalismo nato in Inghilterra dal deismo, nella seconda metà del XVIII
secolo si trapiantò e mise salde radici in Germania.
a) GIOVANNI SALOMONE SEMLER (m. nel 1791) elevò a sistema il razionalismo
come criterio di valutazione della Scrittura.
b) GIOVANNI DAVIDE MICHAELIS (m. nel 1791) rappresentò la scienza biblica a ca-
vallo fra l’ortodossia e l’Illuminismo. Michaelis propose una teoria su Da-
niele che sarebbe stata sviluppata dal suo discepolo H.CORRODI.
c) H.CORRODI, rifiutata l’interpretazione ortodossa di Daniele, nel 1783 iniziò la
critica sistematica del libro.
d) L. BERTHOLDT fra il 1806 e il 1808 sviluppò la critica sistematica di Daniele.
e) GIOVANNI GOFFREDO EICHHORN (m. nel 1827) nel 1824 allargò le vedute di
Bertholdt e condusse a fondo l’offensiva contro Daniele, seguito a metà del
XIX secolo da FERDINANDO HITZIG.

C. La reazione degli ambienti conservatori protestanti e cattolici alle intempe-


ranze razionaliste non si fece attendere.
a) In tali ambienti pubblicarono studi specializzati sul libro di Daniele:
E.W.HENGSTENBERG (1831), H.A.C. HAVERNICK (1832-1838), D. ZUNDEL (1861),
O. ZOCKLER (1876), il cattolico R. CORNELY (1887), F. DUSTERWALD (1890).
b) Più numerosi furono i commentari composti da autori conservatori e mode-
rati, protestanti e cattolici, per difendere i valori del libro di Daniele e con-
trobattere le tesi razionaliste. Fra gli autori più ragguardevoli ricordiamo: L.
GAUSSEN (1850), C.A. AUBERLEN (1854), E.B. PUSEY (1864), T. KLIEFOTH (1868),

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CAPIRE DANIELE

R. KRANICHFELD (1868), C.F. KEIL (1869), FULLER (1876) e i cattolici H. ROHLING


(1876), J. FABRE D’ENVIEU (1888), J. KNABENBAUER (1891)

D. La linea conservatrice fu portata avanti ancora nel corso del secolo XX.
a) Nel primo quarantennio del secolo furono pubblicati numerosi studi di au-
tori conservatori. Fra i più notevoli: A.C. GAEBELEIN (1911), R.D. WILSON
(1917-1918), C. BOUTFLOWER (1927), W. MOLLER, (1934), G.C. AELDERS (1935),
M.A. BECK (1935), K. HARTENSTEIN (1936), il cattolico J. LINDER (1939).
b) Dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto grazie alle nuove scoperte
archeologiche, si ravvivò negli ambienti conservatori l’interesse per la data
tradizionale di Daniele e per l’esegesi storica. Sono da segnalare fra gli ot-
timi commentari apparsi in tale periodo negli ambienti ortodossi quelli di:
E.J. YOUNG (1949), H.C. LEUPOLD (1949), R.D. CULVER (1954, 1962), J. WAL-
VOORD (1971), L. WOOD (1973), J.G. BALDWIN (1978), C. MAYER (1982), J.L.
ARCHER jr. (1985).
c) Studi specializzati su Daniele che hanno fornito validi apporti all’ermeneu-
tica storica sono stati pubblicati fra gli anni ‘60 e ‘80. Ricordiamo fra gli altri
i lavori di: D.J. WISEMAN (1965), B. WALTKE (1976), A.R. MILLARD (1977), G.L.
ARCHER (1979), J. MC DOWELL (1979), S.J. SCHWANTES (1980), D.W. GOODING
(1981), F. HASEL (1981), A.J. FERCH (1983), W.H. SHEA (1986).

E. La critica e l’esegesi liberali di Daniele ebbero tuttavia più successo e s’im-


posero nell’ambito della scienza biblica ufficiale. “Le obiezioni contro la sto-
ricità di Daniele sono passate da un libro all’altro. Nel secondo decennio
del ventesimo secolo nessuno studioso di formazione liberale a cui pre-
messe la propria reputazione accademica avrebbe osato sfidare il ‘trend’
della critica corrente”2.
a) Mantennero la data tardiva di Daniele e in generale gli altri argomenti con-
tro la sua autenticità: G. HOLSCHER (1919-1920), M. HALLER (1925), M. NOTH
(1926), R.H. CHARLES (1929), il cattolico H. JUNKER (1932), N.W. PORTEUS
(1936), W. BAUMGARTNER (1939), A. JEPSEN (1961), K. KOCH (1961), F. DEXIN-
GER (1969), A. ROBERT - A. FEUILLET (1970), R.J. CLIFFORD (1975), J.J. COLLINS
(1981), P.A. VIVIANO (1983).
b) Riprendendo un’ipotesi enunciata DA S.R. DRIVER agl’inizi del secolo, hanno
optato per la tesi di uno scrittore-redattore che avrebbe rielaborato antiche
tradizioni scritte e/o orali: S.B. FROST (1962), O. EISSFELDT (1965), H.H. ROW-
LEY (1965).
c) M. NOTH (1926), H.L. GINSBERG (1948, 1954), J.G. GAMMIE (1981) hanno imma-
ginato vari stadi di sviluppo del libro dal tempo di Alessandro fino al 165 a.C.
d) J.J. COLLINS, HARTMANN - DI LELLA (1977), P.A. PORTER (1983), J.A. SOGGIN
(1980) fanno risalire le narrazioni del libro (capitoli 1-6) ad un’età pre-mac-

2 - R.K. HARRISON, Introduction to the Old Testament, 1969, p. 1111.

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INTRODUZIONE

cabea, e le visioni (capitoli 7-12) al tempo di Antioco Epifane con materiale


più antico d’origine mitologica.

F. L’unità di Daniele era stata messa in discussione da BENEDETTO SPINOZA nel


1674 e alcuni decenni più tardi da Sir ISAAC NEWTON. Poi questa contesta-
zione era caduta nell’oblio per rifiorire cento anni dopo.
a) La dissezione del libro in diverse unità letterarie di varia provenienza ebbe
il suo momento di gloria nel primo ottocento con L. BERTHOLDT che postulò
ben 9 autori diversi! Nel 1822 con F. BLEEK, che difese l’unità sostanziale del
libro, la teoria entrò in crisi e per quasi un secolo prevalse la tesi dell’unità
di Daniele.
b) La battaglia contro l’unità del libro fu ripresa nel 1926 da M. NOTH e ancora
nel 1948 con H.L. GINSBERG, ma ebbe scarsa fortuna. Difesa da H.H. ROWLEY
(che nondimeno mantenne la data bassa del libro), l’unità di Daniele è stata
mantenuta dalla maggioranza degli autori della scuola liberale.
c) Oggi sembra prevalere tra i criteri d’orientamento liberale la tendenza a far
risalire la serie dei racconti (capitoli 1-6) ad un’epoca anteriore al II secolo
(III secolo e qualche autore anche prima) e a collocare nel II secolo la ste-
sura delle visioni. Un ignoto giudeo vissuto al tempo dei Maccabei avrebbe
rielaborato del materiale antico e vi avrebbe poi aggiunto di proprio le vi-
sioni. Secondo altri critici che si ostinano a negare l’unità di Daniele, la se-
zione narrativa del libro sarebbe opera di più autori mentre un solo autore
avrebbe composto le visioni al tempo di Antioco Epifane. Un redattore, che
potrebbe anche essere l’estensore delle visioni, avrebbe riunito le due por-
zioni nel II secolo a.C.
d) È giusto segnalare il contributo positivo a sostegno del valore storico di al-
cune parti del libro apportato da alcuni critici moderati, come J.A. MONTGO-
MERY (1927), R.P. DAUGHERTY (1929), H.H. ROWLEY (1932). La battaglia in di-
fesa di Daniele è sostenuta dagli Avventisti del Settimo Giorno su due fronti
paralleli ed è condotta con le armi ad essi fornite da aree specifiche del sa-
pere contemporaneo. Sul fronte propriamente apologetico la lotta è portata
avanti con l’ausilio dei risultati positivi acquisiti da scienze come la Storia e
l’Archeologia. Sul fronte dell’esegesi, il confronto è sostenuto mediante
un’analisi molto attenta del testo su base filologica e secondo il metodo er-
meneutico storico che 25 secoli d’interpretazione profetica hanno affinato e
collaudato. Nella sezione che segue, un esame critico delle obiezioni mosse
contro l’antichità e l’autenticità di Daniele chiuderà questa introduzione allo
studio di Daniele. L’esposizione dei capitoli profetici secondo il metodo sto-
rico occuperà la parte più voluminosa del presente manuale.

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CAPIRE DANIELE

IV. ARGOMENTI DELLA CRITICA CONTRO


L’AUTENTICITÀ DI DANIELE E LORO VALORE

1. Argomenti contro Daniele

La critica moderna scorge in Daniele anacronismi, inesattezze storiche, notizie


leggendarie e altre incongruenze.

A. Anacronismi

In Daniele 1:1 si sincronizza il primo anno di regno di Nabucodonosor col


terzo di Gioiachim re di Giuda, mentre è noto da Geremia 25:1 che il primo
anno di Nabucodonosor corrispose al quarto di Gioiachim.

B. Inesattezze storiche

a) In Dn 5:2,11,13,18 Nabucodonosor è detto “padre” di Belsazar e nel v. 22


questi è detto “suo figlio”, mentre sappiamo dai testi babilonesi (“Cronaca
di Babilonia”, ecc...) che Belsazar fu figlio di Nabonide.
b) In Dn 5:31 e nel cap. 6 figura come primo re di Babilonia dopo la caduta
della dinastia caldea un certo Dario il Medo, una figura ignorata da tutte le
fonti storiche antiche.
c) In Daniele 2:2,5,10 ricorre il termine “caldei” (kasdim) come designazione
di una classe di sapienti babilonesi, un uso del termine che divenne co-
mune soltanto in epoca tarda. Anticamente “caldei” si adoperava soltanto in
senso etnico, per designare una popolazione.
d) Nel cap. 5 Daniele menziona Belzasar come ultimo re caldeo di Babilonia,
mentre le liste reali, i documenti amministrativi e la “Cronaca di Babilonia”
conoscono soltanto Nabonide come ultimo re caldeo di Babilonia.

C. Notizie leggendarie

In Dn 4 si allude a una follia di Nabucodonosor di cui non si trova traccia


nei documenti contemporanei.

D. Altre incongruenze

a) In Dn 3 compaiono 3 parole greche, segno che il libro fu scritto nell’età el-


lenistica.

b) L’autore di Daniele enuncia concetti dottrinali, come il giudizio, la risurre-


zione e il ministero degli angeli, che appartengono al tardo giudaismo.

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INTRODUZIONE

c) Le visioni di Daniele appartengono al genere “apocalittico”, una forma lette-


raria che fiorì nel giudaismo in età tarda (II, I secoli a.C.).

d) L’autore del libro rivela una conoscenza esatta degli avvenimenti del II se-
colo a.C.

e) L’autore dell’Ecclesiastico (il Siracide), che redasse il suo libro verso il 180
a.C., non menziona Daniele tra le figure eminenti della storia d’Israele.

f) Il libro di Daniele nel canone ebraico non si trova nella raccolta dei Profeti
ma in quella degli Agiografi, segno che al tempo della sua redazione il ca-
none dei Profeti era già chiuso.

I fatti reali o presunti sopra elencati, secondo la ricerca storico-critica, sono suffi-
cienti per postulare una data tardiva per il libro di Daniele. Le sue profezie, sem-
pre secondo la critica, sono vaticinia ex eventu e le sue visioni un artificio lette-
rario. Il libro è un prodotto delle aspirazioni irredentistiche dei giudei durante la
persecuzione del re di Siria Antioco IV Epifane tra gli anni 167 e 164 a.C.

2. Valore degli argomenti contro l’autenticità di Daniele

Un esame critico degli argomenti su esposti rivela in alcuni casi la loro fragilità,
in altri la loro insufficiente forza probativa.

A. Presunti anacronismi

a) La “Cronaca di Babilonia”, pubblicata da D.J. Wiseman nel 1956, ha rivelato


che i babilonesi contavano gli anni di regno a decorrere dall’inizio
dell’anno civile successivo a quello in cui il re era salito al trono.3 I mesi o i
giorni tra l’ascesa al trono del nuovo re e la fine dell’anno civile in corso
erano denominati “anno di intronizzazione” e non venivano calcolati nel
conteggio degli anni di regno La menzione dell’anno d’intronizzazione si
trova anche nei documenti amministrativi di Babilonia (le tavolette commer-
ciali di Nippur).
Nel regno di Giuda invece era in uso il sistema egiziano, il quale calcolava
come primo anno di regno del nuovo sovrano il periodo di tempo tra la
sua ascesa al trono e la fine dell’anno civile, cosicché gli anni di regno di
un certo sovrano computati in base ai due sistemi (babilonese ed egiziano)
risultavano sfalsati di 1 anno come si vede dal grafico seguente:

3- D.J. WISEMAN, Chronicle of Chaldaean Kings 626-556 B.C., in the British Museum, London,
1956.

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CAPIRE DANIELE

Sistema babilonese (postdatazione) Daniele 1:1

anno di intronizzazione 1° anno 2° anno 3° anno

Sistema egiziano-giudaita (predatazione) Geremia 25:1

1° anno 2° anno 3° anno 4° anno

I due sistemi di datazione si rispecchiano nel cap. 52 del libro di Geremia


dove lo stesso evento (la caduta di Gerusalemme e la deportazione dei su-
perstiti) è datata all’anno 19° di Nabucodonosor nel v. 12 e all’anno 18° nel
v. 29. Probabilmente Gr 52:28-34 è un’appendice storica redatta in Babilo-
nia, in parte (i vv. 31-33) aggiunta in appendice anche al II Libro dei Re
(2Re 25:27-30). Il fatto che questa “appendice”, in riferimento all’inizio del
regno di Evil-merodac, successore di Nabucodonosor, parli dell’anno stesso
che cominciò a regnare (2Re 25:27; Gr. 52:31) e non del primo anno di re-
gno come si sarebbe detto in Palestina, avvalora l’ipotesi che l’appendice
sia stata scritta in Babilonia. L’espressione “l’anno stesso che cominciò a re-
gnare” è l’equivalente della formula babilonese “l’anno di intronizza-
zione”(o di “accessione”). Sembra ovvio che Daniele, inserito nella cultura
babilonese (Dan. 1:4), calcolasse gli anni di regno di Gioiachim secondo il
sistema babilonese ed è altrettanto ovvio che Geremia che visse e scrisse in
Palestina li contasse in base al sistema ivi in uso. Dunque nessun anacroni-
smo tra Dn 1:1 e Gr 25:1.

B. Presunte inesattezze storiche

a) Nell’uso semitico gli appellativi di “padre” e “figlio” erano comunemente


estesi agli ascendenti e ai discendenti (nel nostro linguaggio diremmo “avo”
e “nipote”). Gli esempi relativi a questo modo di applicare i termini “padre”
(ebr ‘ab) e “figlio” (ben) abbondano nella Bibbia. Il termine “Padre” col si-
gnificato di “avo” ricorre in De 26:15; Gs 24:3; 1Re 15:11; 2Re 14:3; 22:2; 2Cr
17:3; 21:12; 29:2; 34:2. “Figlio” nel senso di “nipote”, “discendente”, è usato
in 2Cro 22:9. In 1Re 15:10 la regina Maaca è detta “madre” di Asa, in realtà
era una sua nonna. “Padre” e “figlio” col significato di “avo” e “discendente”
erano ancora in uso nei tempi del Nuovo Testamento: Lc 1:32; Gv. 4:12; Mt.
20:30-31; 22:41. Conformemente a quest’uso dei termini “padre” e “figlio”,
diffuso in tutto l’Oriente semitico, in Dn. 5:11,13 “tuo padre”, “mio padre”
significano “tuo avo”, “mio avo”, e nel v. 22 “suo figliolo” equivale a “suo
discendente”. È dunque ingiusto accusare Daniele di disinformazione. Da
vari indizi significativi risulta che Nabonide, il padre effettivo di Belzasar,
avesse sposato una figlia di Nabucodonosor per legittimare l’usurpazione
del trono; Erodoto le dà il nome di Notocris.

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INTRODUZIONE

b) Dario il Medo, che secondo Daniele assunse la reggenza di Babilonia alla


caduta della dinastia caldea (Dn 5:30,31; 9:1), per la storia è tuttora una fi-
gura enigmatica in quanto il suo nome non figura in nessuna delle fonti
storiche antiche conosciute. Il silenzio delle fonti non è però un argomento
decisivo per negare l’esistenza storica di un personaggio. È noto che
nell’Oriente i re, oltre al nome comune, assumevano a volte un secondo
nome, “il nome del trono”, all’atto dell’incoronazione. I re d’Egitto spesso
solevano fregiarsi di tutta una sfilza di nomi. I documenti assiri ci informano
che Tiglath-Pileser assunse il secondo nome di Pulu quando cinse la corona
di Babilonia. Il doppio nome di questo sovrano assiro è documentato an-
che nell’Antico Testamento (cfr. 2Re 15:19, 29; 1Cr 5:6,26; l’ultimo verso
sembra sdoppiare il personaggio, ma il verbo al singolare indica che si sta
parlando di un’unica persona).
Esistono analogie significative tra il Dario di Dn 5 e un personaggio di
nome Gubaru di cui parla la “Cronaca di Nabonide”, un documento babilo-
nese. Gubaru, governatore del Gutium e valoroso generale di Ciro, fu il
conquistatore di Babilonia. Sebbene la “Cronaca” non lo dica esplicita-
mente, è assai verosimile che Gubaru fosse nominato da Ciro re vassallo di
Babilonia. Sta di fatto che Ciro nei documenti amministrativi babilonesi è
designato col titolo di “re di Babilonia” soltanto a partire dal 14° mese dopo
la conquista persiana della città.
Qualcun altro deve aver esercitato questa funzione in Babilonia in quei 13
mesi. Gubaru deve comunque essere morto poco più di un anno dopo la
conquista di Babilonia. Daniele dice che Dario il Medo “ricevette il regno
all’età di 62 anni” (5:31). Il profeta menziona soltanto l’anno primo di Dario
il Medo (9:1 e 11:1), e in 10:1 data all’anno terzo di Ciro la rivelazione rice-
vuta dopo quella dell’anno primo di Dario il Medo (9:1). Evidentemente il
regno di Dario il Medo deve essere stato di breve durata. In 9:1 Daniele
precisa che Dario il Medo “fu fatto re del regno dei caldei”; ciò non può si-
gnificare altro che un’autorità superiore gli aveva conferito questo titolo.
Non si può escludere che Dario fosse il secondo nome di Gubaru, proba-
bilmente il “nome del trono”.
c) Sebbene Daniele usi il termine “caldei” in senso sociale, vale a dire per de-
signare una classe di sapienti babilonesi, egli conosce anche l’uso etnico del
termine, cioè per indicare un popolo, una razza (1:4 e 9:1). Oltretutto non è
dimostrato che “caldei” in senso sociale fosse adoperato soltanto in epoca
tarda. Erodoto (Le Storie, I. 181,183), verso il 440 a.C., menziona i Caldei
come una casta sacerdotale e ne parla in modo da lasciar supporre che
quest’uso risalisse ad un’epoca anteriore.
d) In effetti i testi babilonesi così come la storiografia antica (Berosso, ecc...)
non conoscono che Nabonide come ultimo re caldeo di Babilonia. Sap-
piamo però dal “racconto in versi di Nabonide” che quest’ultimo conferì al
figlio Belzasar (Bel-shar-usur) la regalità (sharrutim) prima di partire per
Teima, nel nord Arabia, dove, secondo la stele di Harran, rimase 10 anni.
Perciò tra il 549 e il 539 a.C. Belzasar esercitò di fatto i poteri reali in Babi-

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CAPIRE DANIELE

lonia come reggente del trono sebbene suo padre continuasse ad essere il
re di diritto4.

C. Presunte notizie leggendarie

Che gli scribi di corte babilonesi stendessero un velo di silenzio su un avve-


nimento inglorioso per il regno come la follia del sovrano, non dovrebbe
destare meraviglia. Ancora in tempi recentissimi in paesi a regime totalitario
una grave malattia o altro serio impedimento di un dittatore sono stati ta-
ciuti. Lo storico Abideno (circa 200 a.C.), citato da Eusebio di Cesarea, ha
raccolto una notizia più antica secondo la quale Nabucodonosor, invasato
da una divinità, sarebbe salito sul tetto della reggia e avrebbe profetizzato la
fine del suo regno5. Un testo cuneiforme pubblicato nel 1975 da A.K. GRAY-
SON menziona i nomi di Nabucodonosor e di suo figlio Awel-Marduk e al-
lude a comportamenti anomali di un personaggio illustre che non può es-
sere identificato con sicurezza a causa della frammentarietà del testo, ma
che non può essere che uno dei due personaggi menzionati per nome.

D. Altre presunte incongruenze

a) In Dn 3:5,7,9,15 compaiono i nomi greci di tre strumenti musicali (sOr:tyiq,


kitros, }yirT" nº sa P: , pesanterin, hæynº oPm
: Us, sumfoneya). L’archeologia ha documen-
tato un’influenza culturale greca nell’antico Vicino Oriente ben prima
dell’epoca neobabilonese6. È stata anche documentata la presenza greca in
Babilonia al tempo di Nabucodonosor: nella sala del trono della reggia gli
archeologi hanno rinvenuto una colonna ionica e una decorazione di stile
greco7. Inoltre testi cuneiformi dell’epoca di Nabucodonosor informano che
fra gli stranieri che lavoravano alla realizzazione delle opere edilizie in Ba-
bilonia figuravano artigiani ionii e lidii8. Non è affatto inverosimile che in
Babilonia in quest’epoca circolassero strumenti musicali importati dalla Gre-
cia e conservassero i nomi di origine.
b) È vero che l’escatologia e l’angeologia ebbero uno sviluppo notevole nella
letteratura del tardo giudaismo, ma le dottrine sulla risurrezione, il giudizio
e il ministero degli angeli non furono sconosciute agli scrittori biblici più
antichi. Sulla risurrezione cfr. Gb 19:25-27; Is 26:19; Ez 37:13; sul giudizio:
Sl 9:8; Ec 3:17; Is 24:19-22; 25:8,9; Gl 3:12-15; sul ministero degli angeli: Ge
19:1; Nu 22:32-35; Gc 6:11,12; 13:3 e segg.; Is 6:1-7; Ez cap.1; Za 3:1-7; 4:1-
6; 5:1-11; 6:1-8; Ml 3:1. L’argomento della presenza di queste dottrine in Da-

4 - Vedi G. RINALDI, Daniele, pp. 87-88; ANDRÉ PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, pp. 98-99
5 - Vedi G. RINALDI, ibidem, p. 86.
6 - Vedi W. ALBRIGHT, From the Stone Age to Christianity, p. 337.
7 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 13; A. PARROT, op. cit., p. 27.
8 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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INTRODUZIONE

niele come prova della sua origine tardiva è un argomento pretestuoso.


c) È incontestabile che il genere apocalittico conobbe una fioritura straordina-
ria in seno al tardo giudaismo (II secolo a.C. - II secolo d.C.). Ciò non signi-
fica tuttavia che questa forma letteraria fosse sconosciuta nelle epoche pre-
cedenti. Lo stile apocalittico, caratterizzato dalla visione simbolica, è pre-
sente negli scritti profetici dei periodi assiro (VIII secolo a.C.), come in
Amos 7:1,2,4,7-9; babilonese (VI secolo a.C.), come in Gr. 1:11-14; Ez 1:4-
28; 2:9 - 3:3; 9:1-6, e persiano (VI-V secolo a.C.), come in Za. 3:1-7; 4:1-6;
5:1-11; 6:1-8.
d) Il valore profetico del libro di Daniele è attestato nei Vangeli: Mt 24:15; Mr
13:14. Se Daniele è autenticamente profetico, non fa meraviglia che vi siano
predetti dettagliatamente gli eventi del periodo più tragico della storia fu-
tura d’Israele, cioè gli eventi del III e II secolo a.C. (Dn 11:5 e segg).
e) È molto probabile che Daniele sia stato inserito nella raccolta degli Agio-
grafi all’epoca del concilio giudaico di Jamnia, agl’inizi del II secolo d.C. Di
certo “dal secolo I a.C. importanti testimonianze pongono Daniele tra i pro-
feti, a cominciare dagli Alessandrini”9. Nella versione greca dei LXX infatti
Daniele figura tra i Profeti. Il prof. EDWARD YOUNG ha proposto una spiega-
zione assai plausibile del motivo per cui Daniele fu inserito nel canone de-
gli agiografi. Egli dice: “Gli autori dei libri profetici avevano lo status di pro-
feti, cioè di uomini suscitati in modo speciale da Dio per agire da mediatori
fra lui e la nazione riferendo al popolo le esatte parole ricevute da Dio. Da-
niele però non fu profeta in questo senso ristretto del termine. Uomo di
stato in una corte pagana, ebbe il dono profetico, ma non esercitò l’ufficio
profetico, ed è evidentemente in questo senso che il Nuovo Testamento
parla di lui come profeta (Mt 24:15)”10.
f) Quanto al silenzio del Siracide su Daniele nell’“elogio dei padri” (Ecclesia-
stico, cc. 44-50), si deve dire che non solo il nome di Daniele vi è omesso,
ma anche il nome di altre figure eminenti della storia d’Israele, come i re
riformatori Asa e Giosafat, l’eroe nazionale Mardocheo e la figura premi-
nente del dopo-esilio, il sacerdote e scriba Esdra. È evidente che Giosuè
ben Sirac non ebbe l’intenzione di inserire nel suo libro un elenco completo
delle glorie d’Israele. Il meno che si possa dire a conclusione di questa
breve disamina di argomenti contro l’autenticità di Daniele è che essi non
sono decisivi11.

9 - G. RINALDI, op.cit., p.9.


10- Citato in The New Bible Commentary, Londra, p. 688.
11 - Cfr. G. RINALDI, op.cit, p. 10.

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CAPIRE DANIELE

3. Argomenti a sostegno dell’autenticità di Daniele

Si possono citare un buon numero di argomenti che depongono a favore della


data antica e quindi dell’autenticità di Daniele.

A. Se Daniele fosse stato redatto effettivamente al tempo di Antioco Epifane,


sarebbe logico aspettarsi di cogliervi accenni espliciti o impliciti alle epiche
lotte dei Maccabei, come si può riscontrare nella IV sezione del libro di
Enoc che risale realmente al II secolo. In Daniele invece non c’è il minimo
accenno agli avvenimenti tragici che vissero i Giudei nel II secolo a.C.

B. La concezione universalista, che permea tutto il libro di Daniele, contrasta


fortemente con lo spirito nazionalistico radicale del tardo giudaismo che si
riflette nella letteratura contemporanea.

C. Daniele mostra una conoscenza dell’ambiente babilonese e della storia pri-


mitiva dell’impero persiano più accurata di qualunque storico posteriore al
VI secolo a.C. Infatti:
a) egli sa che Nabucodonosor fu l’artefice della nuova Babilonia (4:30). Questa
circostanza ha messo in imbarazzo i critici di Daniele. R. PFEIFFER ha dovuto
ammettere: “Forse non sapremo mai come il nostro autore abbia potuto es-
sere a conoscenza del fatto che la nuova Babilonia fu una creazione di Na-
bucodonosor”12.
b) Daniele sa che Nabucodonosor promulga e modifica le leggi a suo talento
(Dn 2:12,13,48) e che le leggi dei Medi e dei Persiani sono irrevocabili (Dn
6:8,15). Nell’antico Oriente il dispotismo regio non aveva limiti. Sulla infles-
sibilità delle leggi dei medo-persiani, lo storico Diodoro Siculo riferisce che
Dario III dopo avere pronunciato una sentenza di morte a carico di un sud-
dito di nome Charidemos, si accorse che il verdetto era ingiusto, se ne ram-
maricò ma non poté revocarlo. Daniele è al corrente che i Babilonesi puni-
vano col fuoco i nemici dello Stato (vedi cap.3) e che i Persiani li davano in
pasto alle belve (cap.6). Il supplizio babilonese è conosciuto anche da Gr
(29:23). Nella pianura caldea abbondavano le fornaci da mattoni. I Persiani
aborrivano questo tipo di supplizio perché il fuoco era un elemento sacro a
Zoroastro13.
c) Daniele sa che nel regno di Babilonia la dignità più alta dopo quella di Bel-
zasar viene al terzo e non al secondo posto (Dn 5:16). Egli è dunque al cor-
rente del fatto che Belzasar esercita le funzioni regie come correggente e
che al di sopra di lui c’è un’autorità più alta.

12 - R. PFEIFFER, Introduction to the Old Testament, p. 578.


13 - A.T. OLMSTEAD, The History of the Persian Empire, p. 473.

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INTRODUZIONE

d) Daniele conosce il linguaggio aulico in uso nelle corti orientali. La frase: “O


re, possa tu vivere in perpetuo” (Dn 2:4; 3:9; 5:10) è una formula cortigiane-
sca tipica dell’Oriente antico. Una formula simile è attestata in 1Re 1:39 e
Nehemia 2:3 e in testi cuneiformi del periodo neo-babilonese.

D. In Dn 4:10-12 Babilonia, personificata nel suo re, è paragonata ad un albero


grande e rigoglioso che estende i suoi rami in tutte le direzioni e sotto la
cui chioma trovano riparo e nutrimento tutte le creature. In un testo di Na-
bucodonosor trovato a Wadi Brissa, nella Mesopotamia centro-meridionale,
Babilonia è paragonata a un grande albero che estende la sua ombra a tutti
i popoli14.

E. Nella visione riportata in Dn 7, Babilonia è raffigurata da un leone. Il leone


era effigiato 120 volte in mattonelle smaltate policrome lungo la via proces-
sionale di Babilonia. Un grande leone di basalto fu rinvenuto dagli archeologi
fra le rovine di Babilonia. Il leone era l’emblema della superba città caldea.

F. Nel capitolo cinque del suo libro Daniele descrive la fine repentina della
sovranità caldea su Babilonia con la caduta subitanea della città. Questo ra-
pido trapasso di poteri si rispecchia nella “Cronaca di Babilonia”, pubblicata
da D.J. WISEMAN nel 1956, e nei testi amministrativi di Nippur. Il racconto di
Daniele inoltre ha stretta affinità con notizie parallele nella Ciropedia di Se-
nofonte e nelle Storie di Erodoto. Il prof. R.P. DAUGHERTY scrive: “Di tutte le
fonti non babilonesi che c’informano sugli avvenimenti collegati con la fine
del regno neo-babilonese, il cap.5 di Daniele è la più vicina ai testi cu-
neiformi”15. E conclude: “Resta screditata l’opinione che il capitolo cinque
di Daniele risalga all’epoca dei Maccabei”16. Non è credibile che uno scrit-
tore del II secolo a.C. fosse così bene informato sugli usi, i costumi e la sto-
ria dei babilonesi, addirittura meglio informato degli storiografi greci del V e
IV secolo a.C.!

G. Per motivi che ignoriamo il libo di Daniele comincia in ebraico (1:1 fino a
2:4a), prosegue in aramaico (2:4b fino a 7:28) e finisce in ebraico (8:1 fino a
12:13). Per lungo tempo il bilinguismo del libro, e soprattutto il lessico e la
morfologia delle due lingue, furono invocati come indizi di una data tardiva
del libro stesso. Oggi la situazione si è capovolta soprattutto grazie agli ul-
timi studi nell’ambito della lingua aramaica17. In realtà l’aramaico di Daniele
si allontana dall’aramaico recente quanto si avvicina a quello antico;

14 - Vedi G. RINALDI, op. cit., pp. 78-79.


15 - R.P. DAUGHERTY, Nabonidus and Belshazar, p. 199.
16 - Ibidem.
17 - Cfr. G. RINALDI, op.cit., p. 8.

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CAPIRE DANIELE

l’ebraico è molto vicino a quello di Ezechiele, delle Cronache e di Esdra18.

H. Almeno due degli 8 titoli ufficiali elencati in Dn 3:2 sono d’origine persiana,
e nella forma in cui si leggono nel libro di Daniele non li si riscontra più
dopo il III secolo a.C. È più facile ammettere che una terminologia tecnica
in lingua persiana fosse conosciuta ed usata in Babilonia all’inizio dell’età
persiana piuttosto che in Giudea in piena età ellenistica.
Militano ancora a favore dell’origine antica di Daniele varie circostanze
esterne al libro.
a) Nell’elogio dei padri che il vecchio sacerdote Mattatia, padre dei Maccabei,
fa nel suo testamento (1Maccabei 2:51-60), accanto ad altre figure illustri,
come Abramo, Giuseppe, Fineas, Giosuè, Caleb, Davide ed altri, figurano
Daniele e i suoi tre compagni. Il sacerdote era un rappresentante ufficiale
della cultura ebraica. Pertanto se il sacerdote Mattatia pone Daniele e i suoi
compagni tra i protagonisti della storia patria, vuol dire che questi perso-
naggi nel II secolo a.C. erano accreditati in Israele come figure storiche.
b) GIUSEPPE FLAVIO in Antichità Giudaiche (libro II, 8,5) dice che Alessan-
dro Magno dopo la conquista di Gaza fece visita a Gerusalemme dove il
sommo sacerdote gli mostrò le profezie di Daniele che lo concernevano.
Molti studiosi influenzati dal pregiudizio sull’età recente di Daniele, riten-
gono leggendaria questa notizia, altri, fra i quali il LINDER, la giudicano au-
tentica.
c) Gesù Cristo, nel citare Daniele, lo riconosce esplicitamente come “profeta”
(Mt 24:15). Per ogni cristiano che crede all’autenticità dei Vangeli e all’auto-
rità di Cristo, questo è l’argomento principe a favore dell’autenticità del li-
bro di Daniele, l’argomento decisivo. Il peso della documentazione storica,
archeologica e biblica, è nettamente a favore dell’antichità e perciò dell’au-
tenticità del libro di Daniele. Su questa posizione si sono schierati studiosi
seri e preparati come PUSEY, KEIL, ROHLING, FULLER, AUBERLEN, FABRE D’ENVIEU,
KNABENBAUER nel secolo XIX, e PHILIPPE, DAUGHERTY, MOELLER, HARTENSTEIN,
LINDER, YOUNG, WALVOORD, ARCHER, HASEL, SHEA ed altri nel secolo XX. L’insi-
gne assiriologo francese LENORMANT ha scritto: “Quanto più leggo e rileggo il
libro di Daniele e lo confronto coi dati dei documenti cuneiformi, tanto più
mi colpisce la veridicità del quadro della corte babilonese descritto nei sei
capitoli... e tanto più vedo l’impossibilità di far risalire la redazione originale
del libro all’epoca di Antioco Epifane”19.

18 - Vedi G. HASEL, “Quelques éléments d’ordre historique dans le livre de Daniel” in Daniel,
questions débattues, pp. 36-39.
19 - Citato da H. HEINZ in Daniel, questions débattues, p. 21.

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Capitolo 1
____________________________

I l libro di Daniele si apre con la notizia di un assedio di Gerusalemme ad opera


del re di Babilonia (vv. 1 e 2) e prosegue col descrivere l’impatto di quattro gio-
vani deportati giudei con la dura realtà di un ambiente ostile ai loro principi reli-
giosi (vv. 8-10). Sono messi in risalto la fedeltà dei giovani alla fede dei padri (vv.
7-13) e la ricompensa che ne segue (vv. 17-20).
Quanto veniamo a sapere sulla intransigenza del signore di Babilonia (v.10)
e sulla tempra morale di Daniele, Hanania, Mishael e Azaria (vv. 8, 11-12), offre
una base logica alle vicende narrate nei cinque capitoli seguenti e nello stesso
tempo prelude alle tensioni che verranno via via svelandosi in questi capitoli.
L’eroica resistenza dei compagni di Daniele (cap. 3) e di Daniele stesso (cap.
6) alla invadente intrusione del paganesimo nella loro vita religiosa, l’accortezza
e prudenza di Daniele in situazioni di pericolo (2: 14-16; 4: 19), la sua capacità
di interpretare sogni (cc. 2 e 4) e svelare segreti (cap. 5), il suo carisma profetico e
le straordinarie rivelazioni di cui egli è fatto mediatore per le generazioni future
(cc. 7-12), tutto questo si spiega e si comprende alla luce di quanto è narrato in
questo capitolo. Si può ben dire, dunque, che il capitolo primo di Daniele costitui-
sce un’adeguata introduzione a tutto il libro.

1 Il terzo anno del regno di Joiakim, re di Giuda, Nebucadnetsar, re


di Babilonia, venne contro Gerusalemme, e l’assediò.

La notizia con la quale esordisce il libro ci pone subito di fronte a tre problemi.
Il primo nasce dall’accenno a un assedio di Gerusalemme da parte di Nabu-
codonosor20 nell’anno terzo del re di Giuda Gioiachim.
Questo personaggio fu posto sul trono di Giuda come vassallo dell’Egitto
dal faraone Neco II (2Re 23: 34-35) il quale nel 609 a.C. aveva vinto e ucciso a
Meghiddo re Giosia, padre di Gioiachim (2Re 23: 29). Neco spadroneggiò sul

20 - Il nome del re di Babilonia nell’Antico Testamento compare in due forme lievemente va-
rianti: Nebukadne’zzar [raC)ånd : ka Ubºn] (in Daniele, nei libri storici e poche volte in Geremia) e Ne-
bukadre’zzar [raC)erd
: ka Ubºn] (29 volte in Geremia e 4 volte in Ezechiele). La forma con la r è più
corretta rispecchiando meglio la dizione babilonese Nabu-kudurri-uzur (“Nabu protegge il figlio”
o “Nabu protegga l’erede”). Le fonti greche attestano sia la forma con la n: Nabouchodonosor
[Nabouxodonosor] (i LXX e Giuseppe Flavio), sia la forma con la r: Nabokodrosoros [Na-
bokodrosoroj] (Strabone e, come variante, in un manoscritto di Giuseppe Flavio). Giovanni
Luzzi, nella Versione Riveduta della Bibbia, usa una forma italiana derivata dall’ebraico, Nebu-
cadnetsar. In questo commentario si preferisce la forma derivata dal greco, Nabucodònosor.

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CAPIRE DANIELE

territorio di Giuda per circa quattro anni (2Re 23:33-35), finché Nabucodonosor,
erede del trono di Babilonia, non lo ebbe sconfitto a Carchemish, nella Siria su-
periore, e non lo ebbe respinto entro i confini dell’Egitto, divenendo di fatto egli
stesso il nuovo padrone del territorio (2Re 24: 7).
Geremia (46:2) pone questo avvenimento nell’anno quarto di Gioiachim
(605 a.C.) che in 25: 1 sincronizza con l’anno primo di Nabucodonosor.
È stato osservato che è storicamente impossibile una presenza armata di
Nabucodonosor in Palestina nel 606 a.C., come sembra suggerire Dn 1: 1, giac-
ché in quell’anno il paese era ancora sotto il controllo dell’Egitto. Se ne è de-
dotto che l’autore del libro è disinformato sulla storia e perciò le notizie che for-
nisce sono inattendibili. Dal versante opposto, si è ribattuto che è possibile met-
tere d’accordo Daniele e Geremia sulla data della campagna militare di Nabuco-
donosor nella regione siro-palestinese alla quale entrambi fanno riferimento.
Varie ipotesi sono state proposte21 per appianare la divergenza cronologica
su accennata. La più attendibile è quella che suppone l’uso nei due libri di si-
stemi di datazione differenziati22.
Nell’antichità gli avvenimenti si datavano generalmente in base agli anni di
regno dei sovrani in carica, ma il modo di calcolare detti anni non era uniforme.
In Babilonia li si contava dal principio dell’anno civile successivo a quello in cui
il sovrano aveva cinto la corona. La frazione dell’anno precedente, dal momento
dell’assunzione del potere regale sino alla fine dell’anno, era detta “anno di ac-
cessione” e non veniva calcolata nel computo degli anni di regno. In Egitto in-
vece si calcolava come primo anno di regno l’intervallo di tempo fra l’ascesa al
trono del nuovo sovrano e l’ultimo giorno dell’anno civile in corso. È evidente
che quello che in Babilonia era “l’anno di accessione” del nuovo re, in Egitto era
considerato il primo anno di regno23.
Abbiamo indizi significativi nella Scrittura - lo si documenterà più avanti -
per poter dire che gli scrittori giudaiti dell’ultimo periodo dei re adottarono il si-
stema egiziano di conteggio degli anni di regno. È ovvio che la data di un avve-
nimento qualunque fissata in ambiente egiziano o giudaita in base agli anni di
regno di un certo sovrano risultasse spostata in avanti di un anno rispetto alla
data del medesimo avvenimento calcolata in Babilonia con riferimento agli stessi
anni di regno.
È del tutto verosimile che Daniele, educato in Babilonia fin dalla giovinezza
(Dn 1: 4), calcolasse gli anni di regno di Gioiachim (Dn 1:1) secondo il sistema
babilonese di postdatazione e che Geremia, che visse e scrisse in terra di Giuda,
computasse gli stessi anni di regno in base al sistema giudaita di predatazione.
Questa ipotesi è confortata da almeno due casi di datazione parallela sfalsata di
un anno che si riscontrano nell’Antico Testamento, uno nel libro di Geremia e
uno nel raffronto tra Geremia e il Secondo Libro dei Re. In Gr 52 uno stesso av-

21 - Cfr. H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, pp. 51-55.


22 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. II, pp. 138-139 e vol. IV, pp. 745-746.
23 - Vedi J.FINEGAN, Handbook of Biblical Chronology, pp. 208-209.

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CAPITOLO 1

venimento è datato all’anno diciannovesimo di Nabucodonosor nel v. 12 e


all’anno diciottesimo nel v. 29.
Un altro avvenimento che 2Re 24:12 pone nell’anno ottavo di Nabucodono-
sor, in Gr 52:28 è datato all’anno settimo. Si può pensare che una delle due data-
zioni in entrambi i casi non sia di Geremia, e in effetti è così. Per la sua forma
redazionale, e per il fatto che in buona parte la pericope si ripete quasi identica
in 2Re 25:27-30, Gr 52:28-34 si presenta come un’appendice storica aggiunta al
libro del profeta. Il “pezzo” o fu scritto in Babilonia o rispecchia un documento
redatto in Babilonia. Questo si evince dal fatto che due delle date ivi citate (Gr
52:28, 29) presentano una differenza in meno di un anno rispetto alle stesse date
riportate in Gr 52:12 e 2Re 24:12, e soprattutto dalla menzione dell’anno di ac-
cessione di Evil-merodac “l’anno stesso che cominciò a regnare” (Gr 52:31; cfr.
2Re 25:27). Uno scrittore giudaita avrebbe detto “l’anno primo” (Gr 25:1). Tutto
sommato, è ragionevole concludere che gli anni terzo e quarto di Gioiachim ci-
tati in Dn 1:1 e Gr 25:1 si riferiscono alla stessa data, il 605 a.C.
È parso problematico l’attributo “re di Babilonia” aggiunto al nome di Na-
bucodonosor in Dn 1:1.
In effetti se l’assedio di Gerusalemme a cui accenna questo versetto av-
venne dopo la battaglia di Carchemish, in quest’epoca Nabucodonosor non era
ancora re di Babilonia, essendo tuttora in vita suo padre Nabopolassar. È un in-
dice di ignoranza della storia?
A quel che sembra Daniele raccolse le sue memorie oltre una sessantina di
anni dopo la sua deportazione (Dn 1: 21). Egli sta dunque riferendo un fatto
oramai lontano nel tempo.
È comprensibile che riconsiderando l’episodio a distanza di tempo, egli
chiami Nabucodonosor “re di Babilonia” per ovvia anticipazione. È come se uno
storico della fine degli anni ’50, scrivendo la storia della seconda guerra mon-
diale, annoverasse “il Presidente Eisenhower” fra gli artefici della vittoria alleata.
Per un procedimento mentale analogo, pur se opposto, si continuò a chiamare
Sandro Pertini “il Presidente” finché fu in vita.
Del resto Geremia stesso, il cui libro non è sospettato di inautenticità, esat-
tamente come fa Daniele chiama Nabucodonosor “re di Babilonia” riferendo un
episodio avvenuto prima che egli avesse assunto il trono (vedi Gr 46:2).
Più complesso è il problema che pone la notizia dell’occupazione di Geru-
salemme da parte di Nabucodonosor nel 605 a.C.
Geremia ed Ezechiele sono a conoscenza di due occupazioni di Gerusa-
lemme per mano di Nabucodonosor: l’una all’inizio del regno di Gioiachim (597
a.C.): Ge 22:24-26 ed Ez 17:12, l’altra alla fine del regno di Sedechia (587 a.C.):
Gr 39:1-2; 52:4-5, 12-13 ed Ez 24:1-2; 33:21.
Per la verità Gr 52:30 ricorda una terza incursione di Nabucodonosor nel
territorio di Giuda verso il 581 a.C. ignorata da Ezechiele e dai libri storici e co-
munque ininfluente ai fini della nostra discussione.
I libri storici registrano, datandoli, entrambi gli avvenimenti riferiti da Gere-
mia ed Ezechiele (2Re 24:8-12 e 2Cro 36:9-10; 2Re 25:1-2 e 2Cro 36:17-20), ma
sembrano ignorare una precedente presenza armata babilonese in Gerusalemme,

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CAPIRE DANIELE

per cui l’informazione di Dn 1:1 parrebbe rimanere isolata. In realtà non è così.
Infatti un intervento militare babilonese contro Gerusalemme durante il regno di
Gioiachim è documentato nei libri storici.
Il Secondo Libro dei Re (24: 1) ci ragguaglia su una irruzione di Nabucodo-
nosor a Gerusalemme per reprimere una ribellione di Gioiachim, e 2Cro 36:6, ri-
ferendo probabilmente lo stesso episodio, aggiunge che il sovrano caldeo inca-
tenò Gioiachim “per portarlo a Babilonia”. Purtroppo nessuna delle due fonti
data l’episodio, ma è già notevole che esse ci informino su una campagna mili-
tare del re di Babilonia contro Giuda durante il regno di Gioiachim (i tentativi di
riferire l’episodio accennato a un’epoca diversa congetturando che i libri di Se-
condo Re e Secondo Cronache confondono Sedechia con Gioiachim appaiono
pretestuosi e inconcludenti). Resta comunque documentato nella Scrittura al di
fuori del libro di Daniele, che le irruzioni bellicose di Nabucodonosor nel territo-
rio di Giuda fra i regni di Gioiachim e di Sedechia furono tre e non due. Questo
fatto risulta pure dai riferimenti ai saccheggi del Tempio riportati in 2Cro 36:7-18.
Il v. 7 dà notizia di una prima asportazione di oggetti sacri da Gerusalemme
effettuata da Nabucodonosor in un momento imprecisato del regno di Gioia-
chim: “Nebucadnetsar portò pure a Babilonia parte degli utensili della casa
dell’Eterno”. Si trattò evidentemente di un’asportazione parziale dei sacri vasi del
Tempio.
Una seconda asportazione avvenne all’inizio del regno effimero di Gioia-
chin (597 a.C.) quando, come c’informano i vv. 9 e 10, il re di Babilonia fece pri-
gioniero il neoincoronato re di Giuda “e lo fece menare a Babilonia con gli uten-
sili preziosi della casa dell’Eterno”. In questa occasione ci fu con ogni evidenza
un saccheggio selettivo del Tempio.
Una terza e ultima spogliazione del sacro edificio prima della sua distru-
zione fu portata a termine l’anno undicesimo di Sedechia (587 a.C.) allorché,
come ci ragguaglia il v. 18, il sovrano caldeo “portò a Babilonia tutti gli utensili
della casa di Dio”. Stavolta ci fu chiaramente un saccheggio totale del Tempio:
tutto quello che vi era rimasto fu portato via24.
Significativamente la notizia di Dan 1:2 circa l’entità del bottino prelevato
dal Tempio, coincide con l’informazione di 2Cro 36:7: in entrambi i testi si dice
infatti che Nabucodonosor portò via una parte degli utensili della casa di Jahvé.
È una coincidenza dalla quale ci sentiamo autorizzati a concludere che Dn 1:1-2
e 2Cro 36:6-7 si riferiscono a uno stesso avvenimento accaduto sotto il regno di
Gioiachim.
La notizia parallela dei Re e delle Cronache su una invasione caldea di
Giuda sotto Gioiachim e le informazioni dell’ultimo capitolo di II Cronache sulle
spogliazioni del Tempio, convergono per dirci che l’accenno di Dn 1:1 a un in-
tervento babilonese in Gerusalemme nei primi anni di regno di Gioiachim non è
affatto una notizia isolata.

24 - Cfr. C.O. JONSSON, I Tempi dei Gentili..., pp. 199-200.

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CAPITOLO 1

A questo proposito c’è da aggiungere che le informazioni reperibili nelle


fonti extrabibliche coincidono con quelle desunte dalle fonti bibliche e consen-
tono di formulare un’ipotesi parallela a quella basata su queste ultime.
Dalla Cronaca di Babilonia siamo informati che nell’anno ventunesimo di
Nabopolassar, re di Babilonia (605 a.C.), suo figlio Nabucodonosor marciò su
Carchemish nell’Alta Siria, allora in mano agli Egiziani, e inflisse a questi ultimi
una dura sconfitta. Successivamente Nabucodonosor raggiunse presso Hamat
sull’Oronte i resti del disfatto esercito egiziano e li sbaragliò. D.J.Wiseman consi-
dera come verosimile che dopo questa vittoria Nabucodonosor occupasse Ribla,
a sud di Hamat, e vi stabilisse un posto di comando25.
Giuseppe Flavio dice che a seguito della vittoria sugli Egiziani Nabucodo-
nosor “occupò tutta la Siria fino a Pelusio”26. Poiché Pelusio si trovava sul con-
fine orientale dell’Egitto, è intuitivo che l’espressione “tutta la Siria” nell’intendi-
mento dello storiografo giudeo dovesse abbracciare l’intero territorio fra il corso
superiore dell’Eufrate e le frontiere orientali dell’Egitto, compresa la Palestina.
Giuseppe concorda con la Cronaca di Babilonia la quale informa che “in quel
tempo Nabucodonosor conquistò tutta la regione di Hatti”, un’area geografica
che comprendeva appunto la Siria e la Palestina27.
Giuseppe Flavio dice ancora che Nabucodonosor, essendosi impadronito di
tutta la Siria, non penetrò nel territorio di Giuda28. Non è però escluso che il ge-
nerale caldeo abbia potuto spedire contro Gerusalemme un reparto armato per
garantirsi la sottomissione di Gioiachim. La cosa appare tanto più verosimile se
si consideri che il re di Giuda era vassallo di Neco il quale, di certo non a caso,
lo aveva posto sul trono in luogo del deposto Gioachaz (2Re 23:31-34).
Si è obiettato che comunque a Nabucodonosor sarebbe mancato il tempo
materiale per una puntata offensiva su Gerusalemme dopo la vittoria sugli Egi-
ziani, dovendo egli rientrare precipitosamente a Babilonia a causa della morte
del padre. Una considerazione attenta delle diverse fasi di questa campagna mili-
tare babilonese nella Siria e dei tempi connessi, consente di trarre una dedu-
zione diversa.
Assai verosimilmente le operazioni militari a Carchemish si svolsero a mag-
gio-giugno del 605 a.C.29. La morte di Nabopolassar avvenne a metà agosto,
come ci informa la Cronaca di Babilonia, ma la notizia non poté pervenire a
Nabucodonosor in Siria che verso la fine del mese. Dunque il conquistatore cal-
deo dopo avere battuto Neco si trattenne nella regione un paio di mesi prima di
mettersi in marcia per Babilonia. Gerusalemme era raggiungibile in pochi giorni
di marcia da Ribla o da Hamat, sicché ci fu tutto il tempo per una rapida incur-
sione contro la capitale del regno giudaita; a Gioiachim, che non poteva più

25 - D.J.WISEMAN, Chronicles of Chaldean Kings, p. 26.


26 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, X. 86.
27 - Vedi D.J.WISEMAN, op. cit., p. 25.
28 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, X, 86.
29 - Vedi D.J.WISEMAN, op. cit., p. 25.

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CAPIRE DANIELE

contare sull’aiuto dell’Egitto, non restava che aprire le porte della città ai nuovi
padroni. Una resa spontanea di Gerusalemme a Nabucodonosor otto anni più
tardi, è documentata in 2Re 24:11-12.
Lo storico babilonese Berosso, citato da Giuseppe Flavio, riferisce che Na-
bucodonosor, dovendo rientrare in fretta in Babilonia per la via più breve,
quella attraverso il deserto, affidò ad alcuni dei suoi generali perché li conduces-
sero a Babilonia, “i prigionieri che aveva catturato fra i Giudei, i Fenici e i Siri”30.
Questa informazione di fonte extrabiblica concorda significativamente con
quanto scrive Dn 1:1-3. I prigionieri giudei ai quali accenna Berosso possono be-
nissimo essere stati Daniele e i suoi compagni catturati dai soldati di Nabucodo-
nosor. Daniele, è vero, attribuisce direttamente al condottiero caldeo la conqui-
sta di Gerusalemme, ma non si deve dimenticare che è comune nella storiografia
antica, e moderna, ascrivere un’impresa a colui che l’ha voluta e preparata, an-
che se a realizzarla sono stati altri.
Concludendo questa parte della nostra discussione, diciamo che non è af-
fatto impossibile risolvere i problemi cronologici e storici che si presentano al
lettore attento nei primi versetti del libro di Daniele.

2 Il Signore gli diede nelle mani Joiakim, re di Giuda, e una parte de-
gli utensili della casa di Dio; e Nebucadnetsar portò gli utensili nel
paese di Scinear, nella casa del suo dio, e li mise nella casa del te-
soro del suo dio.

Non fu per caso che Gioiachim cadde in potere del re di Babilonia; come tutti
gli scrittori ispirati, Daniele interpreta in chiave teologica gli avvenimenti seco-
lari. Gli utensili sacri di cui si fa menzione erano vasi metallici di varie dimen-
sioni, palette, attizzatoi ecc... (cfr. 2Cro 4:16) che i sacerdoti adoperavano per i
vari servizi del Tempio. Se Nabucodonosor ne portò via solo una parte, fu pro-
babilmente perché volle soltanto mostrare ad un vassallo poco affidabile che egli
aveva il potere di imporgli la sua sovranità. Se avesse voluto spogliare il Tempio,
nessuna autorità terrena avrebbe potuto impedirglielo.
Il paese di Scinear (cfr. Ge 11:2; Is 11:11; Za 5:11) è la Babilonide, o Caldea
ossia la pianura alluvionale delimitata a est dal Tigri e a ovest dall’Eufrate nella
Bassa Mesopotamia. La città di Babilonia, che Nabucodonosor ricostruì e rese
splendida, sorgeva sull’Eufrate nella parte alta della regione. Nel cuore della
città, entro i recinti dell’area sacra, l’Esagila, si trovavano la grande torre tem-
plare o ziggurat (l’Etemenanki) e, più a sud, il superbo tempio dedicato a Mar-
duk, la divinità suprema di Babilonia nota popolarmente anche col nome di Bel
(da un termine accadico che significa “signore”). All’inizio dei festeggiamenti per
l’anno nuovo (Akitu) il primo di Nisan, il nuovo sovrano entrava nel tempio di
Bel e stringeva le mani di Bel-Marduk; si credeva che a seguito di questo rito

30 - GIUSEPPE FLAVIO, Contra Apionem, I. 19, 137

39
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CAPITOLO 1

egli era dal dio investito dell’autorità sovrana. Da quel giorno si cominciava a
contare i suoi anni di regno.
I testi cuneiformi babilonesi menzionano frequentemente i tesori dell’Esa-
gila. Uno degli ambienti del grande complesso templare riportato alla luce dagli
archeologi deve avere custodito i tesori suddetti. Quivi Nabucodonosor deve
avere posto i sacri utensili asportati dal tempio di Yahweh in Gerusalemme.

3 E il re disse a Ashpenaz, capo de’ suoi eunuchi, di menargli alcuni


de’ figliuoli d’Israele di stirpe reale e di famiglie nobili, 4 giovani
senza difetti fisici, belli d’aspetto, dotati d’ogni sorta di talenti,
istruiti e intelligenti, tali che avessero attitudine a stare nel palazzo
del re; e d’insegnare loro la letteratura e la lingua de’ Caldei.

Insieme con gli utensili sacri del Tempio, Nabucodonosor portò via da Gerusa-
lemme, forse come ostaggi, un imprecisato numero di giovani ({yidl f yº yeladîm)
appartenenti a famiglie altolocate. Il capo degli eunuchi (wyfsyirsf bar rav sarîsayu),
al quale il re conferì l’incarico di condurgli nel palazzo alcuni dei giovani giudei
deportati, era un alto funzionario del palazzo il cui ufficio corrispondeva pres-
sappoco a quello del maggiordomo. Il titolo equivale probabilmente al babilo-
nese rav sha reshi (letteralmente “il capo di colui che sta alla testa”) documentato
nei testi cuneiformi.
Il nome del funzionario, Ashpenaz, tradisce un’origine persiana. In una
forma leggermente variante, Ashpazanda, esso è stato letto nei testi di Nippur
del V secolo a.C., e nella forma Aspenaz nei testi magici aramaici pure di
Nippur31.
La presenza in Babilonia di stranieri al servizio dei Caldei durante il regno
di Nabucodonosor è documentata32. Inoltre è noto che Babilonesi e Medi - que-
sti ultimi parenti prossimi dei Persiani - furono alleati nella guerra contro l’Assiria
sul finire del secolo VII a.C. Si sa infine che degli stranieri al servizio di Babilo-
nia furono promossi a incarichi di prestigio.
Non era poco quello che si richiedeva ai candidati per essere ammessi nelle
scuole reali. Il curriculum di studi non era lieve e il servizio nel palazzo richie-
deva resistenza alla fatica. Perciò occorrevano prestanza fisica e non comuni doti
intellettuali e morali. Nel gruppo dei “figli d’Israele” deportati in Babilonia si
scelsero i giovani che possedevano questi requisiti.
L’appellativo “figli d’Israele” in quest’epoca designava i sudditi del regno di
Giuda. Il termine ebraico yeladîm non significa necessariamente “fanciulli”,
come traduce qualche versione, tale termine applicandosi a una fascia di età va-
riabile tra i dieci e i venti anni. “Giovinetti” è la traduzione che conviene meglio
qui (vedi Ec 4:13).
Daniele e i suoi tre compagni dovevano essere formati in vista di un inca-

31 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 757.


32 - ibidem, p. 781.

40
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CAPIRE DANIELE

rico da svolgere nel palazzo. “Tal uso è largamente documentato nell’Oriente


(vedi la minaccia d’Is 39:7) e più tardi a Roma, ove esso rivela più chiaramente il
fine politico di prepararsi futuri fidati vassalli nei paesi d’origine”33.
Le lettere, o meglio la scrittura (reps" sefer) e la lingua (}O$fl lashon) dei Cal-
dei di cui si doveva impartire la conoscenza ai giovani deportati, erano in so-
stanza la scrittura cuneiforme in uso nella Mesopotamia e la lingua accadica
nella quale sono redatti tutti i documenti del periodo neo-babilonese.
I Caldei ({yiD&: Ka kasdîm) erano un’etnia di stirpe e di lingua aramaiche da
lungo tempo stanziata nella Bassa Mesopotamia. Con Nabopolassar, fondatore
della dinastia neo-babilonese, i Caldei assunsero il dominio in Babilonia e lo
mantennero per ottantasette anni (626-539 a.C.).
Il termine “Caldei” si applicava anche a una classe di sapienti che coltiva-
vano accanto a discipline come l’astronomia, la matematica, le scienze naturali,
anche l’astrologia e la magia. Secondo alcuni, Daniele e i suoi compagni sareb-
bero stati avviati allo studio di queste discipline nonché della lingua aramaica. In
questo commentario si propende per l’altra ipotesi confortati dal presupposto
che i giovani giudei dovevano soprattutto conoscere ed essere in grado di usare
la scrittura e la lingua ufficiale dello stato che avrebbero dovuto poi servire.

5 Il re assegnò loro una porzione giornaliera delle vivande della


mensa reale, e del vino ch’egli beveva; e disse di mantenerli per tre
anni, dopo i quali sarebbero passati al servizio del re.

Come candidati della scuola reale i giovani debbono essere mantenuti a spese
della corte. Il re in persona dispone che ad essi sia corrisposta una porzione
giornaliera (path-bag) delle vivande della mensa reale e sia servito il vino della
sua cantina. L’usanza è documentata per il tardo periodo persiano del quale esi-
stono attestazioni più abbondanti che per il periodo neo-babilonese34.
L’ebraico path significa “pezzo”, “porzione”, ma la forma composta path-
bag dalla maggioranza dei commentatori è fatta derivare dal persiano antico pa-
tibaga, “cibo reale”, ovvero “cibo prelibato”35.
La durata del curriculum di studi deve essere di tre anni, un costume questo
diffuso nell’Oriente antico e attestato ancora in età cristiana36. Daniele e i suoi
compagni figurano nel novero dei savi di Babilonia (Dn. 2:12, 13) già nell’anno
secondo di Nabucodonosor (Dn. 2:1). Non esiste comunque contraddizione con
1:5 giacché in questo luogo la durata della permanenza dei giovani nella scuola
reale è calcolata secondo il metodo inclusivo in base al quale sono conteggiati
come anni interi le frazioni dell’anno iniziale e dell’anno finale di un determinato
periodo di tempo. L’educazione babilonese dei giovani ebrei cominciò nell’anno

33 - GIOVANNI RINALDI, Daniele, p. 40.


34 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 758.
35 - Vedi W. GESENIUS, Hebrew-Chaldee Lexicon to the Old Testament, p. 696.
36 - Vedi G.RINALDI, op. cit., p. 41.

41
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CAPITOLO 1

di accessione del re e fu il primo anno, proseguì per tutto il primo anno di re-
gno e fu il secondo anno, e terminò in un momento imprecisato del secondo
anno di regno di Nabucodonosor e fu il terzo anno.

6 Or fra questi c’erano, di tra i figliuoli di Giuda, Daniele, Hanania,


Mishael e Azaria;

Fra i giovani deportati prescelti per essere educati nella scuola reale di Babilonia
c’era un numero imprecisato di sudditi del regno di Giuda (“figli di Giuda”). Il
testo ne nomina quattro: Daniele, che sarà la figura centrale del libro, e Hanania,
Mishael e Azaria che saranno con Daniele protagonisti della parte iniziale
dell’episodio riportato nel capitolo due, e da soli della vicenda narrata nel capi-
tolo tre.
Daniele [l)¢Yné D f ] “Dio è il mio giudice”, per altri “Dio è il mio giudice”, è un
nome abbastanza comune fra i Semiti. Esso si ritrova presso i Babilonesi, i Sabei
del sud-Arabia, i Palmiregni del nord-Arabia e i Nebatei. In Israele tale nome fu
portato da un figlio di Davide (1Cro 3:1) e da un sacerdote del periodo post-esi-
lico (Ed 8:2; Ne 10:6)37. Il nome del protagonista principale del nostro libro è ri-
cordato tre volte dal profeta Ezechiele (Ez 14:14, 20 e 28:3). È puramente con-
getturale, e discutibile, l’identificazione del personaggio ricordato da Ezechiele
col leggendario re Dan’el nominato nei testi nord-cananei di Ugarit del II millen-
nio a.C.
Hanania [hæynº ná x A ] (“misericordioso è Yahweh”). È un nome che ricorre una
quindicina di volte nell’Antico Testamento, più frequentemente nei libri post-esi-
lici. Nella forma accadica Hananiyama è il nome di un giudeo vissuto a Nippur
nel V secolo a.C. Nella forma aramaica il nome è stato letto in uno dei papiri di
Elefantina (V secolo a.C.).
Mishael [l")$ f yim] (“chi è ciò che Dio è?”), è un nome piuttosto raro nell’An-
tico Testamento trovandosi solo tre volte fuori del libro di Daniele: nell’Esodo,
nel Levitico e in Nehemia.
Azaria [hæyr: zá (A ] (“Yahweh ha aiutato”), è un nome portato da ventitré perso-
naggi dell’Antico Testamento (oltre che da uno dei compagni di Daniele) fra cui
tre re di Giuda, due sommi sacerdoti e un profeta. Fuori della Bibbia il nome è
stato trovato in alcune anse di giare, e nella forma Azriau nei testi cuneiformi as-
siri, riferito a un re di Giuda.

7 e il capo degli eunuchi diede loro altri nomi: a Daniele pose nome
Beltsatsar; ad Hanania, Shadrac; a Mishael, Meshac, e ad Azaria,
Abed-nego.

Secondo una mentalità diffusa nell’Oriente antico e riscontrabile anche nel An-
tico Testamento, il nome esprime la realtà e l’essenza della persona o della cosa

37 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 759.

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CAPIRE DANIELE

che lo porta. Nel caso di una persona ne indica anche il destino, per cui il cam-
biamento del nome comporta un mutamento della sua sorte (vedi Ge 17:4-5, 15-
16; 32:27-28). Imporre un nome a qualcuno equivale a imporgli il proprio domi-
nio. Questo probabilmente è il senso che si deve cogliere nell’imposizione di un
nome nuovo ai quattro ostaggi giudei da parte del funzionario babilonese. La
cosa può anche essere vista come un’intenzione di snazionalizzare questi stra-
nieri che dovranno servire alla corte di Babilonia.
Casi analoghi nella Bibbia si riscontrano in Ge 41:45 (Giuseppe-Tsafnath-Pa-
neach) e in Et 2:7 (Hadassa-Ester). Fuori della Bibbia ci sono noti dai testi assiri
il caso del re Tiglath Pileser III, il quale assunse il nome di Pulu quando cinse la
corona di Babilonia, e qualche altro caso.
Belteshazzar [raC)a$+ : l " ] il nome babilonese imposto a Daniele da molti è
: B
considerato traslitterazione di un nome comune in Babilonia, Balatsu-usur, “la
sua vita proteggi”, o Balat-sharri-usur, “la vita del re proteggi”. Da altri questa
tesi è respinta, giacché Nabucodonosor fa derivare il nome babilonese di Da-
niele dal nome del suo dio Bel (Dn 4: 8). Da questi autori più disposti a ricono-
scere il valore storico di Daniele (H.Leopold, D.J.Wiseman, S.H.Horn) si condi-
vide la tesi che il nuovo nome di Daniele sia fatto derivare, per contrazione,
dall’accadico Bel-balatsu-usur, “Bel la sua vita (del re) proteggi”, col nome della
divinità pagana omesso per evitare di offendere un pio giudeo col nome di una
divinità a lui estranea. È la tesi che soddisfa di più.
Shadrac [\ard a ] il nuovo nome imposto ad Hanania, è di oscura etimolo-
: $
gia. È improbabile che sia corruzione di Marduk, il nome della suprema divinità
di Babilonia, o di Shutruk, il nome di una divinità elamitica, come da alcuni è
stato proposto. Né è certo che derivi dall’accadico Shudur-aku, “comando di
Aku”, divinità lunare sumerica (H.Leupold, G.Sarrò). Per alcuni Shadrac sembra
riflettere un nome babilonese attestato nelle fonti cuneiformi, Mishaaku, proba-
bilmente “Chi è come (il dio) Aku?” (Intenational Standard Bible Encycl.).
Meshac [\a$y"m] è il secondo nome di Mishael; non è documentato nei testi
babilonesi. L’etimologia è assai incerta. D.J.Wiseman pensa a un probabile ara-
maismo ibrido, mi-sha, “chi è costui?” costruito a somiglianza del nome ebraico
(“che è ciò che Dio è?”). Altri (H.Leupold, J.Carreras, G.Rinaldi) ipotizzano una
derivazione ibrida da Mi-sha-aku, “chi è ciò che è (il dio) Aku? ”.
Abed-nego [Ogºn d"b(A ] è il nome imposto ad Azaria; è sconosciuto alle fonti
cuneiformi note. Generalmente lo si accosta all’accadico Arad-nebo, “servo di
Nebo” (il dio babilonese della sapienza), con intenzionale alterazione di Nebo in
Nego per evitare di associare una divinità babilonese al nome di un pio figlio
d’Israele.

8 E Daniele prese in cuor suo la risoluzione di non contaminarsi con


le vivande del re e col vino che il re beveva; e chiese al capo degli eu-
nuchi di non obbligarlo a contaminarsi;

I giovani ebrei debbono fare i conti con una terza e più pericolosa intromissione
del potere dispotico della corte nella loro vita privata, dopo l’educazione babilo-

43
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CAPITOLO 1

nese e il cambiamento del nome. L’acquisizione coatta della cultura babilonese e


l’imposizione di un nome pagano, per quanto siano circostanze indesiderate,
non interferiscono tuttavia con le convinzioni e i costumi religiosi dei giovani
deportati, ma l’obbligo di nutrirsi delle vivande e delle bevande della dispensa
reale sì, e questo per almeno quattro ragioni.
La prima è che fra le pietanze che sono servite al sovrano figurano carni
che la legge ebraica proscrive perché impure (Le 11); la seconda consiste
nell’uso invalso fuori d’Israele di non dissanguare le carni macellate, una pratica
che contrasta con un principio fondamentale della legge d’Israele (Le 17:11-14);
la terza risiede nel costume pagano di offrire in sacrificio agli dèi parte delle
carni destinate all’alimentazione: consumare quelle carni equivarrebbe per la co-
scienza di un pio ebreo a rendere omaggio alle divinità pagane, cosa che anche
a costo della vita egli rifiuterebbe di fare. L’ultimo motivo di contrasto con la di-
sposizione del re nasce dalle frugali abitudini alimentari di Daniele e dei suoi
compagni le quali mal s’accordano con il menu ed i vini della mensa reale.
Con ferma determinazione Daniele - i suoi amici non sono nominati -
prende posizione di fronte a questa situazione minacciosa per la sua fede
(“prese in cuor suo la risoluzione di non contaminarsi”). Tuttavia agisce con pru-
denza e accortezza. Non oppone un rifiuto categorico (non ci tiene a sollevare
contro di sé e i suoi compagni una persecuzione non necessaria). Con fine tatto
cerca di farsi dispensare dall’obbligo di nutrirsi coi cibi della mensa reale.

9 e Dio fece trovare a Daniele grazia e compassione presso il capo


degli eunuchi. 10 E il capo degli eunuchi disse a Daniele: “Io temo il
re, mio signore, il quale ha fissato il vostro cibo e le vostre bevande;
e perché vedrebb’egli il vostro volto più triste di quello dei giovani
della vostra medesima età? Voi mettereste in pericolo la mia testa
presso il re”.

La divina Provvidenza interviene in modi imprevedibili per trarre da una situa-


zione difficile un essere umano che ha deciso di restare fedele alla propria co-
scienza e agisce con ponderazione e avvedutezza. Così avviene per Daniele.
L’uomo potente del palazzo alle cui cure il re ha affidato i giovani depor-
tati, potrebbe ravvisare nella richiesta di Daniele una sottile volontà di insubordi-
nazione e di conseguenza potrebbe reagire con tutto il peso della sua autorità.
Non solo potrebbe opporre un diniego categorico alla domanda di Daniele, ma
potrebbe d’ora in poi mostrarsi mal disposto verso di lui e i suoi compagni. Non
avviene nulla di tutto questo, al contrario il capo degli eunuchi si mostra bene-
volo e comprensivo verso il prigioniero. La ragione è che Dio ha agito
nell’animo dell’influente cortigiano. Nondimeno, Ashpenaz non se la sente di as-
sumersi la responsabilità di cambiare la dieta di Daniele e dei suoi compagni.
Non oppone però un rifiuto reciso e rude, come potrebbe fare, ma a sua volta si
appella alla comprensione del richiedente. La cosa dalla quale costui domanda
di essere dispensato è stata disposta dal re in persona. Come potrebbe lui, un
suo fido funzionario, non tenerne conto? Il pallore del volto e il dimagrimento

44
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CAPIRE DANIELE

tradirebbero immancabilmente gli effetti di un’alimentazione frugale (ingiustifi-


cato pregiudizio di tutti i tempi!) e questo comprometterebbe la sua reputazione
presso il sovrano (“voi mettereste in pericolo la mia testa”: non già “mi esporre-
ste a un pericolo mortale”, ma piuttosto “mettereste a repentaglio la mia posi-
zione presso il re”).

11 Allora Daniele disse al maggiordomo, al quale il capo degli eunu-


chi aveva affidato la cura di Daniele, di Hanania, di Mishael e
d’Azaria: 12 “Ti prego, fa’ coi tuoi servi una prova di dieci giorni, e
ci siano dati de’ legumi per mangiare, e dell’acqua per bere; 13 poi ti
si faccia vedere l’aspetto nostro e l’aspetto de’ giovani che mangiano
le vivande del re; e secondo quel che vedrai, ti regolerai coi tuoi
servi”.

Daniele non disarma di fronte al timore e alla titubanza dell’alto funzionario alle
cui cure lui e i suoi compagni sono affidati. Rivolgerà la stessa richiesta a un fun-
zionario subalterno. L’ebraico melzar, che Luzzi traduce “maggiordomo” e Ri-
naldi “sorvegliante”, è fatto derivare dall’accadico mazzaru, “economo”, “dispen-
siere”.
Meno che formulare una richiesta, Daniele propone una sorta di esperi-
mento per un periodo limitato di tempo, solo dieci giorni, e stavolta vi coinvolge
i compagni: “Ci siamo dati de’ legumi ({yi(or¢Zah hazzero‘îm) per mangiare e
dell’acqua per bere. Letteralmente l’ebraico zero‘îm significa: “cose seminate”,
comprende i cereali e i legumi ma anche i vegetali freschi (vedi Is 61:11). “Se-
condo la tradizione giudaica il termine comprende anche le bacche e i datteri. E
poiché i datteri costituiscono il principale prodotto alimentare della Mesopota-
mia, è verosimile che questo frutto debba qui essere incluso”38.
Al termine dell’esperimento - propone ancora Daniele - si faccia un con-
fronto coi giovani che consumano i pasti della mensa reale: l’economo deciderà
sulla base del risultato se dovrà sospendere la loro dieta frugale o se potrà pro-
lungarla indefinitamente (“secondo quello che vedrai, ti regolerai coi tuoi servi”).
Evidentemente Daniele ripone una fiducia quasi illimitata nell’esito felice della
prova, in parte per la sua fede in Dio, in parte come risultato di un’esperienza
vissuta in prima persona.

14 Quegli accordò loro quanto domandavano, e li mise alla prova


per dieci giorni.

La proposta non comporta rischi: in un lasso di tempo così breve gli effetti nega-
tivi sullo stato di salute dei giovani di un regime alimentare strettamente vegeta-
riano saranno appena percettibili, comunque sufficientemente avvertibili perché

38 - S.D.A. Bible Commentary, IV, 761.

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CAPITOLO 1

l’economo se ne accorga, e allora potrà sospenderlo senza indugi.


In tutti i casi egli è tenuto a rendere conto del suo operato al capo degli eu-
nuchi e non al re, e questo comporta meno rischi. La proposta è accolta con fa-
vore dall’economo, il quale deve comunque avere pensato che l’esito finale della
prova avrebbe dato torto ai giovani.

15 E alla fine de’ dieci giorni, essi avevano migliore aspetto ed erano
più grassi di tutti i giovani che aveano mangiato le vivande del re. 16
Così il maggiordomo portò via il cibo e il vino ch’eran loro destinati,
e dette loro de’ legumi.

Certo non senza meraviglia l’economo deve constatare, allo scadere dei dieci
giorni, che il risultato della prova è stato tale da dare pienamente ragione ai gio-
vani stranieri. Il loro ricupero fisico dopo le fatiche e i disagi del lungo viaggio
dalla Giudea fino a Babilonia è stato sorprendentemente rapido, come si vede
chiaramente dall’aspetto florido delle loro persone. È stato più rapido che per i
giovani nutriti coi cibi prelibati della mensa reale.
“Dio onorò questi giovani per il loro fermo proposito di fare ciò che è giu-
sto. L’approvazione divina era a loro più cara dei favori dei più potenti signori di
questo mondo, più cara, persino, della loro vita. Né la loro ferma risoluzione
nacque sotto la pressione di circostanze repentine. Fin dalla fanciullezza questi
giovani erano stati educati secondo rigorosi principi di temperanza.
Essi non ignoravano gli effetti nocivi di una dieta malsana e da lungo
tempo avevano deciso di non indebolire le loro energie fisiche e mentali con
l’indulgere all’appetito”39. Dal testo non è chiaro se l’economo prendesse per sé
le vivande e il vino destinati ai giovani oppure li riponesse nella dispensa del
palazzo. La forma grammaticale dell’ebraico si adatta ad esprimere una sistema-
zione permanente40. Daniele e i suoi compagni potranno d’ora in poi tranquilla-
mente attenersi alle regole alimentari prescritte dalla legge di Dio.

17 E a tutti questi quattro giovani Iddio dette conoscenza e intelli-


genza in tutta la letteratura, e sapienza; e Daniele s’intendeva d’ogni
sorta di visioni e di sogni.

L’avere scelto di attenersi senza esitazioni e cedimenti alla legge di Dio, ha reso
approvati davanti a Lui i quattro giovani ebrei, e i favori speciali del cielo non si
sono fatti attendere.
Non solo la floridezza della loro salute e del loro aspetto fisico, ma anche
l’eccellenza del loro vigore intellettuale è apparsa evidente a tutti. Commenta
H.Leupold: “I doni singoli compresi in questo dono maggiore elargito da Dio

39 - Ibidem.
40 - H.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 72.

46
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CAPIRE DANIELE

erano, prima di tutto, la ‘conoscenza’, ((fDm a madda‘, cioè la facoltà di penetrare


le nebbie dell’incertezza pagana e scoprirvi quanto vi era di realmente vero; in
secondo luogo la ‘intelligenza di tutta la letteratura o scrittura’, cioè una padro-
nanza di tutti gli scritti esistenti basata su un’acuta intuizione (l"K& a haskel, “avere
: h
intuito”); e finalmente ‘sapienza’, hfmk: xf chokhmah, cioè capacità di applicare ret-
tamente la conoscenza acquisita e applicarla nel timore di Dio. Si deve ricono-
scere che non si trattava di doni banali, erano, anzi, doni che qualificavano que-
sti giovani per posizioni di responsabilità”41.
Oltre ai doni avuti in comune con i tre compagni, Daniele riceve in più da
Dio lo speciale carisma profetico che farà di lui il portavoce del suo Signore alla
corte del signore di Babilonia: “e Daniele s’intendeva d’ogni sorta di visioni e di
sogni” o, come traduce la Versione della C.E.I.: “e (Dio) rese Daniele interprete
di visioni e di sogni”. La visione (}Ozfx chazôn) è una delle vie per le quali Dio si
rivela ai suoi profeti. Per questa via Egli farà conoscere a Daniele, e per mezzo
di Daniele al suo popolo, le grandi svolte della storia futura fino all’apparire del
messia (cc. 7-9) e ancora oltre, fino al levarsi del Principe Michael per la salvezza
del suo popolo nel giorno della finale retribuzione (cap. 12).
Il sogno (tOmolx
A chalomôth) è un’altra delle vie per le quali può pervenire la
rivelazione di Dio ai suoi profeti e in via eccezionale a uomini non dotati del ca-
risma profetico (Ge 41:1-7,25; Dn 2:1, 27,28). Non si tratta di certo dell’ordinario
fenomeno onirico che in Babilonia era creduto un mezzo di comunicazione de-
gli dèi con gli uomini, ma di un fenomeno del tutto eccezionale, un fenomeno
d’origine sovrannaturale.
Per mezzo di esso, e con l’intermediazione di Daniele come interprete ispi-
rato, l’Iddio del cielo farà sapere al re Nabucodonosor che è Lui il re dei re della
terra, Colui che li stabilisce sul trono e li depone (cc. 2 e 4).

18 E alla fine del tempo fissato dal re perché quei giovani gli fossero
menati, il capo degli eunuchi li presentò a Nebucadnetsar. 19 Il re
parlò con loro; e fra tutti quei giovani non se ne trovò alcuno che
fosse come Daniele, Hanania, Mishael e Azaria; e questi furono am-
messi al servizio del re.

I giorni fissati dal re nell’arco dei quali doveva essere impartita ai selezionati pri-
gionieri giudei un’educazione babilonese sono trascorsi, e così come il sovrano
aveva disposto (v. 5) essi debbono ora essere assunti al suo servizio.
Prima però dovrà essere saggiato il loro curriculum culturale, ed è per que-
sto che il capo degli eunuchi li conduce in presenza del sovrano. Dal colloquio
che Nabucodonosor ha con Daniele, Hanania, Mishael e Azaria risulta evidente
la superiorità culturale dei giovani ebrei sui loro coetanei di altre stirpi.

41 - Ibidem, p. 73.

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CAPITOLO 1

20 E su tutti i punti che richiedevano sapienza e intelletto, e sui quali


il re li interrogasse, il re li trovava dieci volte superiori a tutti i magi
ed astrologi ch’erano in tutto il suo regno.

Il sovrano stesso fa da esaminatore. Le domande alle quali i candidati debbono


rispondere investono questioni che richiedono “sapienza e intelligenza”. La con-
giunzione “e” fra i due sostantivi in molte traduzioni moderne è mutuata dalle
antiche versioni.
L’ebraico ha: “sapienza di intelligenza” (hænyiB tam:kfx chokmath-bînah). Il
S.D.A. Bible Commentary condivide il parere dei commentatori che hanno per-
cepito nella costruzione ebraica l’intenzione dell’autore di riferirsi a una forma di
sapienza delle più alte, una sapienza determinata o regolata dall’intelligenza.
“Ciò farebbe pensare che Daniele e i suoi compagni eccelsero sugli uomini eser-
citanti la loro stessa professione sia nel campo delle scienze esatte, come l’astro-
nomia e la matematica, sia in materia linguistica: essi dominavano la scrittura cu-
neiforme e le lingue babilonese e aramaica nonché la scrittura quadrata ara-
maica”42.
Dalle risposte dei candidati su qualsiasi argomento il re li interroghi, questi
scopre che essi superano di dieci volte (tOdæy re&(e ‘eser yadôth, letteralmente
“dieci mani”) “tutti i magi e gli astrologi” del regno (l’espressione “dieci volte”
non va presa alla lettera, “dieci” essendo qui un numero tondo con valore con-
venzionale e cioè significante una quantità indefinita superiore a “pochi”).
I “maghi” sono dei sapienti ai quali si riconoscono poteri divinatori e tau-
maturgici. Il vocabolo applicato da Daniele ai maghi di Babilonia, {yiM+ u r
: x a char-
a h
tummîm, è sconosciuto in questa regione. Esso deriva da un termine egiziano
che designa una classe di sacerdoti versati nella sacra scrittura geroglifica43 e
nelle arti magiche44. Daniele verosimilmente prende il termine del Pentateuco
ove esso ricorre ripetutamente (Ge 41:8, 24; Es 7:22; 9: 11; De 18:10).
Gli “astrologi” sono dei sacerdoti dediti in modo particolare alla pratica
dell’esorcismo. Il termine adoperato da Daniele, {yip< f ) f ha’ashshafîm, dipende
a h
sicuramente dall’accadico ashipu. In Babilonia, e in generale nella Mesopotamia,
gli ashipu costituiscono una classe di sacerdoti il cui compito principale è quello
di allontanare, mediante la recitazione di formule di scongiuro e di incantesimo,
gli spiriti malvagi che, secondo le credenze dell’epoca, tormentano gli uomini
con malattie e altri malanni; gli ashipu offrono anche i sacrifici agli dèi e cele-
brano i riti di purificazione45.
“È erroneo pensare che i sapienti di Babilonia fossero soltanto indovini e
maghi. Quantunque fossero versati in queste arti, essi erano anche uomini di

42 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, 762-763.


43 - Vedi W. GESENIUS, op. cit., p. 304.
44 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, 763.
45 - Cfr. G.CONTENAU, La Civiltà degli Assiri e dei Babilonesi, 181-182.

48
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CAPIRE DANIELE

scienza nel vero senso della parola. Così come nel Medioevo uomini realmente
eruditi praticavano l’alchimia e astronomi che per altri versi lavoravano scientifi-
camente e traevano oroscopi, gli esorcisti e gli indovini dell’antichità erano an-
che dediti allo studio di discipline strettamente scientifiche. Le loro conoscenze
astronomiche avevano raggiunto un grado di sviluppo sorprendentemente ele-
vato, per quanto l’astronomia babilonese pervenisse al livello più alto dopo la
conquista persiana. Gli astronomi di Babilonia erano in grado di predire me-
diante il calcolo le eclissi di luna e di sole ed era notevole la loro abilità nel
campo della matematica. Essi adoperavano formule la cui scoperta è general-
mente, ed erroneamente, attribuita ai matematici greci. Erano inoltre buoni archi-
tetti e costruttori, nonché medici accettabili che con metodi empirici curavano
non poche malattie. Deve essere stato in questi campi dello scibile che Daniele
e i suoi tre compagni eccelsero in conoscenza e capacità sui maghi, gli astrologi
e i sapienti di Babilonia”46.
I Greci “non costruirono dal nulla il loro concetto di scienza da noi eredi-
tato, ma furono tributari sia su questo punto capitale sia su molti altri, degli anti-
chi Mesopotamici”47.

21 Così continuò Daniele fino al primo anno del re Ciro.

L’anno primo di Ciro è l’anno della caduta di Babilonia, il 539 a.C. Probabil-
mente Daniele vuol far sapere ai suoi lettori che egli visse durante tutto il tempo
dell’esilio, cominciato appunto con la sua deportazione nel 605 a.C. L’anno
primo di Ciro comunque non segna il limite estremo della durata della vita di
Daniele giacché egli vive ancora nell’anno terzo di Ciro, il 537 a.C. (Dn 10:1).
Altrove (Dn 6:28) si dice che “Daniele prosperò sotto il regno di Dario, e
sotto il regno di Ciro, il Persiano”. Dal capitolo 6 veniamo a sapere che Daniele
non solo non è stato deposto dal suo incarico ufficiale dopo la caduta della di-
nastia caldea, ma che il nuovo signore di Babilonia pensa addirittura di promuo-
verlo ad un più alto incarico (v. 3).
Il regno, o meglio il governatorato di Dario il Medo (la cui identità storica
sarà discussa più avanti), deve essere stato assai breve, se Daniele in 10:1 pone
l’ultima visione sotto il regno di Ciro e non più sotto il regno di Dario come
aveva fatto (per la visione di 9:1). Il servizio di Daniele alla corte persiana di Ba-
bilonia all’inizio del regno di Ciro, a cui sembra alludere Dn 6:28, deve essere
stato di breve durata. Comunque il profeta visse abbastanza sotto l’amministra-
zione persiana (come minimo due anni) perché sia spiegabile l’uso di vocaboli
persiani nel suo libro48.

46 - S.D.A. Bible Commentary, IV, 763.


47 - J. BOTTERO. Mesopotamia, p. 133.
48 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, IV, 764.

49
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Capitolo 2
____________________________

U n sogno ha interrotto il riposo notturno del re Nabucodonosor e ne ha tur-


bato lo spirito. Per il Mesopotamico il sogno è un messaggio premonitore, e
Nabucodonosor è un mesopotamico. È perciò conforme allo spirito della cultura
cui egli appartiene che il re di Babilonia convochi nel palazzo i professionisti
dell’arte divinatoria perché gli svelino il significato del sogno. L’interpretazione
dei sogni rientra infatti nelle competenze ordinarie di questi funzionari dello
stato, ma il re esige più di questo dai suoi indovini, vuole che essi gli svelino il so-
gno prima di fornirgliene l’interpretazione.
L’incapacità degli indovini di rispondere all’assurda richiesta manda in col-
lera il re il quale decreta seduta stante la loro esecuzione capitale. In questo
punto di massima tensione del racconto si inserisce l’intervento provvidenziale di
Daniele che con l’aiuto del suo Dio risolve la difficile situazione. Il sogno che Na-
bucodonosor sembra avere dimenticato è rivelato a Daniele in una visione not-
turna, sì che il profeta può a sua volta descriverlo al re prima di dargliene l’inter-
pretazione. Nabucodonosor riconosce la superiorità di Daniele su tutti i sapienti
di Babilonia, esalta l’Iddio di Daniele e promuove a più alti incarichi il rivelatore
e interprete del sogno e i suoi amici.
Il racconto - che come si è visto s’inquadra bene nella cornice dell’ambiente
culturale mesopotamico - mira nello stesso tempo ad esaltare la fede di Daniele e
la superiorità di una sapienza che discende dalla fede monoteistica sulla sa-
pienza dei cultori del politeismo pagano.
Il capitolo secondo di Daniele presenta una peculiarità linguistica difficile
da spiegare: l’ebraico s’interrompe a un terzo del v. 4 e il racconto prosegue in
lingua aramaica per tutto il capitolo, anzi fino a tutto il capitolo settimo.

1 Il secondo anno del regno di Nebucadnetsar, Nebucadnetsar ebbe


dei sogni; il suo spirito ne fu turbato, e il suo sonno fu rotto.

L’anno secondo di Nabucodonosor corrisponde al 604/603 a.C. se Daniele, come


pare logico, computa gli anni di regno secondo il sistema babilonese (vedi com-
mento a 1:1). I tre anni di studio nella scuola reale di Babilonia sono trascorsi
(vedi commento a 1:5) e Daniele e i suoi compagni sono già al servizio del re.
In Babilonia, come in tutta la Mesopotamia antica, si ravvisava nei sogni
delle premonizioni divine49 e si crede che solo agli specialisti della divinazione

49 - GEORGES CONTENAU, La Civiltà degli Assiri e dei Babilonesi, Ginevra 1976, p. 141.

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CAPIRE DANIELE

potevano capire e svelare il significato dei sogni. Di qui il favore particolare di


cui gode l’oniromanzia (cioè la divinazione per mezzo dei sogni) fra tutte le pra-
tiche divinatorie50.
L’attenzione che i re di questa parte del mondo antico rivolsero ai sogni è
abbondantemente documentata dall’età sumerica fino ai periodi assiro e babilo-
nese. L’assiriologo Georges Contenau, al quale ci siamo testé riferiti, scrive che
“sino alla fine della storia mesopotamica il numero dei sovrani che furono gratifi-
cati dagli dèi di sogni premonitori non si conta”51.
L’episodio narrato da Daniele non è dunque un caso isolato nella storia reli-
giosa del Vicino Oriente antico e meno ancora è un racconto fantasioso. Il turba-
mento di Nabucodonosor potrebbe spiegarsi con la vaga intuizione di una pre-
monizione nefasta.

2 Il re fece chiamare i magi, gli astrologi, gl’incantatori e i Caldei,


perché gli spiegassero i suoi sogni. Ed essi vennero e si presenta-
rono al re. 3 E il re disse loro: “Ho fatto un sogno; e il mio spirito è
turbato, perché vorrei comprendere il sogno”.

Nabucodonosor convoca nel suo palazzo gli indovini perché gli spieghino i so-
gni (tOmolx
A chalomôth) che lo hanno turbato; nel v. 3 si dice però che il re vuole
comprendere il sogno, al singolare (chalom).
Nabucodonosor deve avere avuto vari sogni, ma uno in modo particolare
deve avere colpito la sua immaginazione. Nel racconto si rispecchia con reali-
smo lo spirito religioso dell’antica Mesopotamia, una terra dove la divinazione in
tutte le sue forme, e specialmente nella forma oniromantica (vedi sopra) è stata
sempre in grande voga. Il Mesopotamico è convinto che gli dèi possono man-
dare agli uomini, attraverso canali diversi, avvertimenti e premonizioni e che la
divinazione è il mezzo per venirne a conoscenza52.
L’esercizio delle pratiche divinatorie in quest’area dell’Oriente antico è atte-
stato ininterrottamente dagli inizi del secondo millennio a.C. fino all’epoca seleu-
cidica.
Sono numerosi i testi cuneiformi che ne fanno fede. Si conoscono più di un
centinaio di “trattati” divinatori con oltre trentamila oracoli53. La divinazione ha
poi un ruolo di primo piano negli affari di stato. “Nessuna decisione importante
- citiamo ancora il prof. Contenau - era presa senza che il re interrogasse gli in-
dovini”54. Questi prestigiosi personaggi costituiscono una sorta di corporazione
al servizio del re. “Gli indovini regali sono addetti a ogni specie di interpreta-

50 - Idem, p. 153.
51 - Idem, p. 139.
52 - Vedi G.CONTENAU, ibidem, p. 138.
53 - Vedi JEAN BATTÉRO, Mesopotamia, p. 134.
54 - La Mesopotamia prima di Alessandro, p. 320

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CAPITOLO 2

zioni; sono veri e propri funzionari”55. La convocazione degli indovini di cui


parla Daniele non è dunque un fatto inusitato nell’antica Mesopotamia.
Il testo danielico nomina quattro categorie di professionisti della divina-
zione fatti venire alla corte reale per ordine di Nabucodonosor: chartummîm,
’ashshafîm, mekhashshfîm e kasdîm. Di questi termini ebraici è nota con cer-
tezza o con approssimazione la provenienza.
Chartummîm [{yiM+ u r
: xa ]a (in aramaico }yiM+u r a chartummîn; )æYm
: x a +
u r a chartum-
: x
maya’ in 4:4), tradotto solitamente “maghi”, non è accostabile a nessun vocabolo
accadico conosciuto. Lo si fa derivare dall’egiziano antico cheridem, “capo dei
maghi”56, o dal demotico egiziano chr-tp, “sacerdote che proferisce l’oracolo”,
“sacerdote-mago”57. In Ge 41:2 e 24 sono chiamati chartummîm gli interpreti
egiziani dei sogni, e in Es 7:11, 22 e 9:11 lo stesso termine è applicato ai maghi
che contrastano Mosè e Aaronne. Daniele che ha con sé una collezione di libri
sacri (9:2) e che comunque da pio giudeo deve conoscere il Pentateuco, verosi-
milmente da questa fonte trae il vocabolo col quale designa la prima categoria di
indovini babilonesi in 2:2.
’Ashshafîm [{yip< a ] (in aramaico }yip$
f ) f ’ashfîn; e)Yæ pa $
: ) af ’ashfaya’ in 2:27, 4:4
: )
e 5:7,11) nelle versioni moderne della Bibbia è tradotto ora “astrologi”, ora “in-
dovini”, ora “incantatori”. L’incertezza della traduzione dipende dal fatto che
l’esatto significato del nome sfugge. Di certo si sa che esso viene dall’accadico
ashshipu, termine che in Babilonia indicava una classe di sacerdoti dediti princi-
palmente all’esorcismo e agli scongiuri58. Nei passi del testo aramaico sopra citati
compare una quinta categoria di indovini nominati hartummîn gazrîn. Il ter-
mine viene dal verbo gâzar, “dividere”, e poiché in Babilonia gli astrologi sole-
vano dividere il cielo in settori per trarre i loro auspici dalle stelle, sembra cor-
retto tradurre gazrîn con “astrologi”.
Mekhashshfîm [{yip< : ka m: ] (il singolare mekhashshef si trova in De 18:10)
viene dalla radice ebraica ph<k kshf la quale a sua volta si fa derivare dall’acca-
dico kashshapu, un vocabolo che nell’antica Mesopotamia designava i professio-
nisti nell’incantesimo e della stregoneria. Il verbo ebraico khashaf significa “pra-
ticare l’incantesimo”. La traduzione di mekhashshfîm con “incantatori”, frequente
nelle versioni moderne della Bibbia, sembra dunque essere appropriata.
Kasdîm [{yiD& : Ka ]a (kaldu in accadico) era il nome di una tribù aramea stan-
ziata nella Bassa Mesopotamia la cui menzione più antica compare negli annuali
assiri del tempo di Assurnasirpal II (884-859 a.C.).
Se “Ur dei Caldei” in Ge 11:28 e 15:7 non è la forma recente di un nome
più antico, la presenza dei Caldei nella Mesopotamia del sud è attestata fin dai
tempi patriarcali. Dopo avere contrastato a lungo la dominazione assira nella

55 - G. CONTENAU, ibidem, p. 314.


56 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 763.
57 - International. Standandard. Bible Encyclopaedia, vol. III, p. 214.
58 - Vedi G.CONTENAU, La Civiltà degli Assiri e dei Babilonesi, pp. 225-226; J.BOTTÉRO, La reli-
gione babilonese, p. 141.

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CAPIRE DANIELE

Bassa Mesopotamia, i Caldei, sul finire del VII secolo a.C., con Nabopolassar oc-
cuparono Babilonia e fondarono la dinastia neo-babilonese di cui Nabucodono-
sor II, figlio e successore di Nabopolassar, fu il rappresentante più illustre. I Cal-
dei e i Medi, alleatisi insieme, attaccarono il decadente impero assiro nel 614
a.C. e due anni dopo presero e distrussero la capitale Ninive.
Nall’Antico Testamento “caldei” come designazione etnica si trova sia nei li-
bri storici (2Re 25:6, 10; 2Cro 36:19; Ed 5:12) sia nei profeti dei periodi assiro (Is
23:13, ecc...) e babilonese (Gr 52:12, ecc.; Ez 12:13, ecc...). Daniele conosce que-
sta accezione corrente del termine (Dn 1:4; 9:1), tuttavia, unico fra gli scrittori bi-
blici, usa il vocabolo anche come denominazione di una categoria sociale (Dn
2:2; 4:7,10; 5:7,11). “Caldei” con questo significato, fuori del libro di Daniele, è
documentato per la prima volta negli scritti di Erodoto (circa 450 a.C.)59. Lo scrit-
tore greco parla dei “caldei” come di una casta sacerdotale babilonese. Circa
quattro secoli più tardi usano il sostantivo “caldei” come designazione sociale
due altri storiografi greci, Strabone e Diodoro Siculo.
Per spiegare l’origine di questa seconda accezione del termine il S.D.A. Bi-
ble Commentary avanza l’ipotesi assai verosimile che i Caldei quando conqui-
starono Babilonia occupassero gli incarichi ufficiali di maggior prestigio, com-
preso il sacerdozio, così che la denominazione etnica finisse per designare l’uffi-
cio sacerdotale con le attività divinatorie accessorie60.
“Con l’introduzione crescente dell’aramaico ‘Caldei’ divenne un termine per
designare i ‘maghi, gli incantatori e gli indovini’, dato che questi aspetti dei testi
religiosi babilonesi sopravvissero più a lungo nell’immaginazione popolare”61.
R.W. Wilson, citato da H.C.Leupold62, accosta l’aramaico kasday’ all’acca-
dico galdu, un termine che ricorre spesso nei testi di Babilonia come designa-
zione di una categoria di funzionari addetti al controllo dei progetti pubblici e
nelle cui mansioni dovevano rientrare anche l’astrologia e altre pratiche divinato-
rie, dato che simili progetti non venivano intrapresi o inaugurati in Babilonia
senza il responso favorevole dei pronosticatori.
Secondo le credenze dei Mesopotamici, numerosi erano i canali attraverso i
quali le divinità potevano comunicare con gli uomini, perciò erano altrettanto
numerose le pratiche divinatorie destinate a cogliere e interpretare le presunte ri-
velazioni divine.
I presagi potevano essere tratti dai sogni (oniromanzia), dalle stelle (astro-
logia), dal fegato delle vittime sacrificate (epatoscopia), dal volo degli uccelli (or-
nitomanzia), dalla direzione di caduta di una freccia dalla feretra scossa (belo-
manzia), dalle gocce d’olio lasciate cadere in un bacino d’acqua
(lecanomanzia), dai movimenti istintivi di individui sani e malati (palmomantica

59 - ERODOTO, Le Storie I, 181, 183.


60 - S.D.A. Bible Dictionary, p. 185.
61 - D.J.WISEMAN, in International. Standandard. Bible Encyclopaedia, vol. I, p. 632.
62 - H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, pp. 85-86

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CAPITOLO 2

e iatromantica); e ancora: dalle nascite multiple o mostruose, dal luogo di cre-


scita spontanea di un albero, dal suo stato di rigoglio o di avvizzimento. Ez 21:26
allude alle pratiche della belomanzia e della epastocopia.

4 Allora i Caldei risposero al re, in aramaico: “O re, possa tu vivere


in perpetuo! Racconta il sogno ai tuoi servi, e noi ne daremo la inter-
pretazione”.

Fino alla drammatica conclusione del concitato scontro verbale, gli interlocutori
del re sono i Caldei. Essi parlano a nome di tutti perché evidentemente sono il
gruppo più rappresentativo. I Caldei dicono al re in aramaico di descrivere il so-
gno e si dichiarano pronti a darne l’interpretazione. Molti commentatori moderni
considerano le parole “in aramaico” una glossa, cioè una nota posta in margine
al testo da un ignoto copista e che un copista posteriore avrebbe inavvertita-
mente introdotto nel testo.
L’avvertenza che da quel punto i Caldei avrebbero parlato in aramaico ci
sembra talmente futile che non ce la sentiamo di condividere l’ipotesi della
glossa. Qualunque lettore si sarebbe reso conto da sé del cambiamento di lin-
gua. Per di più non solo il discorso dei Caldei, ma l’intero testo del libro prose-
gue in aramaico sino alla fine del capitolo settimo. Ci pare più logico pensare
che i Caldei parlano al re in aramaico invece che in babilonese - la lingua della
popolazione autoctona - perché l’aramaico è la lingua originaria della famiglia
reale e della classe dirigente, l’una e l’altra di stirpe caldea come sappiamo.
La frase: “O re, possa tu vivere in perpetuo!” è un saluto augurale in uso
nelle antiche corti orientali. La formula è attestata altrove nella Bibbia e in Da-
niele stesso (cfr. 1Re 1:39; Ne 2:3; Dn 3:10; 6:6,21) e anche fuori della Bibbia: un
saluto formulato in termini molto simili si è trovato nei testi babilonesi contem-
poranei: “Possano Nabu e Marduk concedere al re mio signore lunghi giorni e
anni interminabili”.

5 Il re replicò, e disse ai Caldei: “La mia decisione è presa: se voi non


mi fate conoscere il sogno e la sua interpretazione, sarete fatti a pezzi;
e le vostre case saran ridotte in tanti immondezzai; 6 ma se mi dite il
sogno e la sua interpretazione, riceverete da me doni, ricompensa e
grandi onori; ditemi dunque il sogno e la sua interpretazione”.

Le traduzioni antiche, leggendo l’aramaico )fDzº )


a ’azda’ come voce verbale (da
’azal, “andar via”, “partire”), rendono le parole di Nabucodonosor ai Caldei: “La
cosa mi è fuggita (di mente)” (Diodati), “La chose m’est échappèe” (Ostervald),
“The thing is gone from me” (King’s James Version).
Questa comprensione della frase aramaica ha l’appoggio dei LXX e di Rabbi
Rashi che traducono ’azda’ “è sfuggito”63. Letto così, il testo sembra suggerire

63 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, p. 768.

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CAPIRE DANIELE

che i particolari del sogno sono svaniti dalla mente di Nabucodonosor, una cir-
costanza che pare essere in armonia col tenore generale del racconto. I moderni,
leggendo con la maggior parte delle versioni contemporanee ’azda’ come agget-
tivo (“certo”, “sicuro”), pensano che Nabucodonosor celasse di proposito il so-
gno ai Caldei per saggiarne le capacità divinatorie.
Il re è irremovibile nell’esigere che gli indovini gli descrivano i particolari
del sogno che si sono dileguati nella sua memoria. Per noi moderni è una pre-
tesa assurda, non lo è per un despota orientale del sesto secolo a.C., tanto più
che i suoi indovini vantano poteri che consentono loro di penetrare misteri
profondi.
Se costoro falliranno, la loro punizione sarà delle più crudeli: i loro corpi
saranno smembrati (in aramaico }yimD a haddamîn, “pezzi”, “frammenti”) e le loro
f h
abitazioni saranno demolite e ridotte in letamai. I tiranni orientali erano capaci di
simili atrocità (cfr. 2Maccabei 1:16). Il re assiro Assurbanipal si vanta nelle sue
iscrizioni di avere fatto tagliare a pezzi i principi vassalli che gli si sono ribellati.
Il despota babilonese alterna minacce agghiaccianti e promesse allettanti: i
Caldei e i loro colleghi saranno ricompensati con regale munificenza se si deci-
deranno a descrivergli il sogno prima di dargliene l’interpretazione.

7 Quelli risposero una seconda volta, e dissero: “Dica il re il sogno ai


suoi servi, e noi ne daremo l’interpretazione”.

I sapienti si rendono conto che non hanno scampo e cercano di prendere


tempo. Con grande cautela (la forma verbale è diversa rispetto al v. 4) essi rin-
novano al sovrano l’invito ad esporre il sogno dicendosi pronti ad interpretarlo.

8 Il re replicò, e disse: “Io m’accorgo che di certo voi volete guada-


gnar tempo, perché vedete che la mia decisione è presa; 9 se dunque
non mi fate conoscere il sogno, non c’è che un’unica sentenza per
voi; e voi vi siete messi d’accordo per dire davanti a me delle parole
bugiarde e perverse, aspettando che mutino i tempi. Perciò ditemi il
sogno, e io saprò che siete in grado di darmene l’interpretazione”.

Non sfugge a Nabucodonosor che gli indovini stanno cercando di guadagnare


tempo (in aramaico }yénb : zæ ...)ænD
f (i ‘iddâna’... zavnîn, “comprare tempo”). Il S.D.A.
Bible Commentary ipotizza che la rinnovata richiesta dei Caldei suscitasse nel re
il sospetto che temporeggiando essi pensassero di cavarsela in qualche modo,
chissà, forse sperando che il sovrano concedesse una dilazione e nel frattempo
dimenticasse tutto.
Nabucodonosor, che come ogni mesopotamico è convinto che gli dèi co-
municano con gli uomini tramite i professionisti della divinazione, forse crede
ancora che costoro siano in grado di rispondere alla sua richiesta, ma che esitino
a farlo a causa di qualche oscuro complotto tramato a suo danno (“vi siete messi
d’accordo per dire davanti a me delle parole bugiarde e perverse”).
Perciò insiste nella sua richiesta: se gli indovini gli dichiareranno il sogno,

55
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CAPITOLO 2

egli saprà che essi sono sinceri e che l’interpretazione che ne daranno sarà
conforme a verità.

10 I Caldei risposero in presenza del re, e dissero: “Non c’è uomo


sulla terra che possa far conoscere quello che il re domanda; così
non c’è mai stato re, per grande e potente che fosse, il quale abbia
domandato una cosa siffatta a un mago, a un astrologo, o a un Cal-
deo. 11 La cosa che il re domanda è ardua; e non v’è alcuno che la
possa far conoscere al re, tranne gli dèi, la cui dimora non è fra i
mortali”.

I Caldei e i loro colleghi hanno vantato il possesso di poteri straordinari: ora si


vedono costretti a riconoscere le loro umanissime limitazioni: “La cosa che il re
domanda è ardua”. Con comprensibile cautela cercano di far comprendere al ti-
ranno signore di Babilonia che la cosa che egli pretende da loro è al di là delle
possibilità umane, è un segreto nascosto a tutti i mortali e non a loro soltanto:
“non c’è uomo sulla terra che possa far conoscere quello che il re domanda”. Né
vi fu mai sulla terra sovrano, per quanto grande e potente, che avesse preteso
una cosa simile dai suoi indovini.
In fondo è una forma sottile di adulazione: lui, Nabucodonosor, è implicita-
mente incluso nella categoria dei re grandi e potenti. Forse sperando che il re di-
venti ragionevole e rinunci alla sua pretesa nei loro riguardi, i Caldei aggiungono
che quello che il re esige (in aramaico hfLm
i millah, “cosa”, “parola”) è di dominio
degli dèi “la cui dimora non è fra i mortali” (in aramaico )fr& i bisra’, “carne”),
: B
cioè delle divinità superiori che non hanno rapporti con l’umanità, mentre loro,
gli indovini, possono soltanto ricevere le comunicazioni delle divinità inferiori.

12 A questo, il re s’adirò, montò in furia, e ordinò che tutti i savi di


Babilonia fossero fatti perire. 13 E il decreto fu promulgato, e i savi
dovevano essere uccisi...

A nulla è valsa l’abilità dialettica dei caldei: il re è inflessibile, per loro e per i
loro colleghi non c’è scampo. La collera montante del sovrano è descritta con ef-
ficacia mediante due proposizioni di cui la seconda rafforza la prima: “e il re
s’adirò, montò in furia”. Nella sua ira implacabile Nabucodonosor ordina che
siano messi a morte tutti i sapienti di Babilonia (per la prima volta sono chiamati
“sapienti” - aramaico y"myiKx
a chakîmê - i professionisti della divinazione).
Il re promulga seduta stante il decreto che sentenzia la morte di tutti i sa-
pienti di Babilonia: da monarca assoluto, egli esercita un potere illimitato che
niente e nessuno è in grado di contrastare. Difficile dire se la sentenza riguardi
solo gli indovini residenti nella città o se coinvolge anche quelli dispersi nella
provincia, Babel essendo designazione tanto dell’una che dell’altra.
La proposizione subordinata: “e i savi dovevano essere uccisi” (Luzzi), è
resa da altri: “e i savi erano uccisi” (Diodati), “e già i saggi venivano uccisi” (Ver-
sione CEI). L’aramaico consente quest’ultima traduzione, tuttavia dal confronto

56
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CAPIRE DANIELE

con altri casi di proposizioni coordinate nel testo aramaico di Daniele nelle quali
è presente un rapporto di subordinazione, si può evincere che la prima tradu-
zione è migliore della seconda64.

...e si cercavano Daniele e i suoi compagni per uccidere anche loro

Daniele e i suoi amici alla fine dei tre anni di studio nella scuola reale sono stati
ammessi al servizio del re (Dn 1:19). Se ora li si cerca per metterli a morte in-
sieme coi sapienti di Babilonia vuol dire che essi fanno parte della categoria.
Questo in ogni caso non implica che essi pratichino l’esorcismo e la divinazione
(dei fedeli israeliti affronterebbero la morte piuttosto che scendere a patti col pa-
ganesimo, vedi Dn 3:16-18).
Nella scuola reale Daniele e i suoi compagni hanno acquisito la conoscenza
della lingua e della letteratura dei Caldei (Dn 1:4), Caldei essendo qui designa-
zione di nazionalità, non di ufficio. A proposito della cultura di questo popolo, il
Prof. D.J.Wiseman spiega: “I Caldei mantennero le scuole tradizionali babilonesi
in Babilonia, Borsippa, Sippar, Uruk e Ur. In queste scuole la ‘letteratura dei Cal-
dei’ (Dn 1:4; 2:2; 4:7; 5:7,11) comprendeva lo studio delle lingue sumerica, acca-
dica e aramaica (già ‘caldaica’) e di altre lingue ancora, nonché delle vaste let-
terature in queste lingue.
Facevano parte del curriculum specializzato la storiografia, l’astronomia, la
matematica e le medicina”65. Se i quattro giovani ebrei non sono stati convocati
nel palazzo insieme con i sapienti, è stato perché, pur facendo parte della cate-
goria, essi sono ancora dei novizi. Il re ha voluto sollecitare il responso dei rap-
presentanti più autorevoli della cultura magica e divinatoria.

14 Allora Daniele si rivolse in modo prudente e sensato ad Arioc,


capo delle guardie del re, il quale era uscito per uccidere i savi di
Babilonia.15 Prese la parola e disse ad Arioc, ufficiale del re: “Per-
ché questo decreto così perentorio da parte del re?” Allora Arioc
fece sapere la cosa a Daniele.

In Babilonia l’esecuzione delle pene capitali spetta al capo della guardia


reale (in aramaico) )æYxa B a tabbachayya’, un ufficio paragonabile grosso modo a
f +
quello dell’odierno capo della polizia. Evidentemente il capo della guardia reale
ricopre anche l’incarico di capo dei carnefici. Arioc si dà subito da fare per ese-
guire la sentenza del re di cui Daniele viene a conoscenza per esserne coinvolto
insieme coi suoi compagni. Daniele interviene senza indugio, forse prima che
cominci la strage. Deve usare un tatto non comune per farsi ascoltare dal po-
tente personaggio. Egli ha saputo che una sentenza di morte è stata pronunciata
a carico di tutti i savi di Babilonia e deve essere eseguita con rapidità, ma ne

64 - Cfr. H.C.LEUPOLD, op. cit., pp. 93-94.


65 - D.J.WISEMAN, International Standard Bible Encyclopedia, vol. I, p. 632.

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CAPITOLO 2

ignora il motivo. Perciò domanda una spiegazione ad Arioc “ufficiale del re” (in
aramaico) )fKl
: m a shallîta’ dî-malka’, un attributo che sottolinea il potere
a -yid )f+yiL$
eccezionale di cui l’alto funzionario è rivestito). L’aramaico hfpc : x
: h : mehachzfah
a m
giustamente è tradotto “perentorio”, che è più che “urgente”. In sostanza Daniele
vuole sapere perché il decreto del re non ammette dilazione. Arioc, col quale
probabilmente il profeta intrattiene un buon rapporto di amicizia, fornisce al suo
interlocutore la spiegazione richiesta e verosimilmente, fidando nella capacità di
Daniele di sciogliere l’enigma del re, sospende l’esecuzione dei savi di Babilonia.

16 E Daniele entrò dal re, e gli chiese di dargli tempo; che avrebbe
fatto conoscere al re l’interpretazione del sogno.

Nessuno può presentarsi davanti al sovrano senza esserne stato convocato o


quanto meno senza farsi annunciare (Et 4:11). Questa procedura, omessa forse
per motivo di concisione stilistica, deve darsi per scontata (cfr. v. 24).
Daniele non sa ancora niente sul sogno e sul suo significato quando af-
ferma con sicurezza davanti a Nabucodonosor che gli svelerà il segreto. Non è il
gesto avventato di un uomo in pericolo di vita che cerca disperatamente di gua-
dagnare tempo; Daniele crede a quello che dice perché crede all’onnipotenza e
alla bontà del suo Dio. La fede di Daniele è davvero “certezza di cose che si
sperano e dimostrazione di cose che non si vedono! (Eb 11:1).
Nabucodonosor verosimilmente accorda la proroga richiesta dal giovane sa-
piente giudeo, perché a differenza dei Caldei (v.7) costui non ha posto come
precondizione la conoscenza del sogno per darne l’interpretazione, ma ha di-
chiarato con risolutezza che fornirà al re quella interpretazione.

17 Allora Daniele andò a casa sua, e informò della cosa Hanania, Mi-
shael e Azaria, suoi compagni, 18 perché implorassero la misericordia
dell’Iddio del cielo, a proposito di questo segreto, onde Daniele e i suoi
compagni non fossero messi a morte col resto dei savi di Babilonia.

I quattro giovani giudei fanno parte della categoria sociale sulla quale grava
come una spada di Damocle la spietata sentenza di Nabucodonosor. Il pensiero
del giovane profeta si volge all’“Iddio del cielo” da cui soltanto può venire la sal-
vezza. Daniele è certo che l’Iddio del cielo risponderà alle preghiere sue e dei
suoi compagni, come avrebbe potuto altrimenti farsi introdurre alla presenza del
re e dichiarargli in termini perentori che gli avrebbe svelato il sogno?
Non per questo però reputa superfluo cercare nella preghiera l’aiuto di Dio.
Per quanto Daniele e i suoi compagni nella corte pagana abbiano sempre ono-
rato la loro fede con una condotta limpida e senza mai scendere a compromessi
col paganesimo (cfr. 1:8, 11-12), essi non pensano affatto di avere per questo dei
meriti personali da far valere davanti a Dio.
Come è nel suo stile (cfr. 9:18), Daniele si affida soltanto alla misericordia
dell’Iddio del cielo (l’espressione “Iddio del cielo” suona polemica nei confronti
della religione astrale babilonese). Daniele dice candidamente e onestamente

58
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CAPIRE DANIELE

che è per avere salva la vita che lui e i suoi amici domandano a Dio di rivelare
loro il segreto che Nabucodonosor vuole conoscere. Non è viltà per un uomo
retto cercare di scampare alla morte quando non sia messa in gioco la fedeltà a
Dio e alla sua legge. La vita dei figli di Dio è servizio e missione: accettarne su-
pinamente il sacrificio quando non sia necessario farebbe soltanto il gioco del
nemico dell’Iddio del cielo perché la sua opera sulla terra sarebbe privata di
energie e talenti di cui essa ha tanto bisogno.

19 Allora il segreto fu rivelato a Daniele in una visione notturna. E


Daniele benedisse l’Iddio del cielo.

La rivelazione che Daniele riceve in una visione notturna è la risposta alla pre-
ghiera sua e dei suoi compagni. La visione (in aramaico )æw: zehB
: bechezwah, forma
enfatica di chezû, corrispondente all’ebraico chazôn) è la via per la quale il Si-
gnore si rivela ai profeti del suo popolo.
Il sogno (in aramaico chalôm) è una via di rivelazione divina secondaria at-
traverso la quale Dio talvolta fa pervenire avvertimenti e premonizioni a uomini
alieni dal suo popolo. Daniele non dimentica di ringraziare Dio dopo avere rice-
vuto quanto aveva domandato a Lui in preghiera.

20 Daniele prese a dire: “Sia benedetto il nome di Dio, d’eternità in


eternità! Poiché a lui appartengono la sapienza e la forza. 21 Egli
muta i tempi e le stagioni; depone i re e li stabilisce, dà la sapienza
ai savi, e la scienza a quelli che hanno intelletto. 22 Egli rivela le cose
profonde e occulte; conosce ciò ch’è nelle tenebre, e la luce dimora
con lui. 23 O Dio de’ miei padri, io ti rendo gloria e lode, perché
m’hai dato sapienza e forza, e m’hai fatto conoscere quello che t’ab-
biam domandato, rivelandoci la cosa che il re vuole”.

Questa pericope in versi è stata definita “il salmo di Daniele”66. In effetti sia la
forma letteraria che il tenore del contenuto fanno pensare a un salmo laudativo.
Dalle analogie con espressioni poetiche parallele nel salterio, in Giobbe e in
Isaia, l’autore citato sopra deduce una vasta conoscenza delle Scritture da parte
di Daniele.
In questa bella preghiera il profeta anzitutto benedice il nome di Dio
()fhl
f ) : shemeh dî-’elaha’). Il nome tra i Semiti sta per la persona che lo
E -yiD H"m$
porta. Jahvé è il sacro Nome col quale Dio si è rivelato ai padri per mezzo di
Mosè (Es 3:15), il Nome ineffabile che esprime la totale alterità e atemporalità
del Dio d’Israele. A Lui Daniele ascrive gli attributi della sapienza e della forza e
riconosce il potere di mutare tempi e stagioni (“tempi”, )æYná Df (i ‘iddanayya’ equi-
vale probabilmente ad anni, “stagioni”, )æYná m
: zé zimnayya’, a periodi di più breve
durata). “In questa espressione - nota Montgomery citato da Leupold - c’è una

66 - LEUPOLD, op. cit.

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CAPITOLO 2

sfida al fatalismo della religione astrale babilonese”. Dio, in effetti, ha il controllo


del tempo: è Lui che determina la durata dei regni e delle dinastie, è Lui che sta-
bilisce i re sul trono e li depone. È la filosofia della storia che soggiace a tutto il
libro di Daniele (cfr. 4:17,25,32; 5:21).
Da Dio - riconosce ancora Daniele - discende la vera sapienza ()ft:m:kfx
chokhmetha’) che rende gli uomini savi (}yimyiKx a chakhîmîn), e da Lui procede la
vera scienza (hænyiB bhinah). Ma soprattutto Daniele esalta il potere di Dio di rive-
lare agli uomini cose che altrimenti resterebbero a loro per sempre occulte e im-
penetrabili, e questo potere precisamente Egli ha esercitato in favore dei suoi
servi fedeli.
Daniele chiude la sua bella preghiera col rendere lode e gloria all’Iddio dei
padri che lo ha dotato di sapienza e di forza (l’aramaico gevurtha’ secondo Leu-
pold si tradurrebbe meglio “abilità”: si tratterebbe della capacità di risolvere il
problema del momento) e gli ha fatto conoscere il segreto per il quale egli e i
suoi compagni lo hanno invocato, svelando a lui, Daniele, “la cosa” (aramaico
millâh) che il re vuole.

24 Daniele entrò quindi da Arioc, a cui il re aveva dato l’incarico di


far perire i savi di Babilonia; entrò, e gli disse così: “Non far perire i
savi di Babilonia! Conducimi davanti al re, e io darò al re l’interpre-
tazione”.

Daniele non può presentarsi davanti al re se non accompagnato e introdotto da


qualcuno che sia preposto a tale ufficio. Questo dettaglio, sottaciuto nel v. 16,
qui è dichiarato in modo esplicito. Daniele contatta Arioc per farsi introdurre alla
presenza del sovrano. Ancora una volta è sottolineato l’incarico crudele di cui è
stato investito il capo della guardia reale.
È da notare la nobile premura di Daniele verso i condannati a morte. La
prima richiesta che rivolge al potente funzionario che ha nelle mani la loro vita è
di non farli perire.
Se Daniele e i suoi compagni si fossero trovati essi soltanto in una situa-
zione siffatta ci sarebbe stato qualcuno disposto a intercedere per la loro vita?
“Gli empi non sanno quanto siano debitori ai giusti. Eppure quante volte i mal-
vagi non hanno messo in ridicolo e perseguitato coloro ai quali dovettero la
vita”67. Daniele dunque domanda ad Arioc di risparmiare la vita dei savi di Babi-
lonia e di condurlo dal re al quale svelerà il significato del sogno (è perché ha la
certezza di possedere questo segreto che egli sa di potere osare tanto).

25 Allora Arioc menò in tutta fretta Daniele davanti al re, e gli parlò
così: “Io ha trovato, fra i Giudei che sono in cattività, un uomo che
darà al re l’interpretazione”.

67- S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 770

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CAPIRE DANIELE

La fretta (hflhf B
: t
: h : behithbehalah) con cui Arioc conduce Daniele dal re è moti-
i B
vata dalla contentezza che sia stato scoperto il segreto che preme al sovrano,
come suppone il S.D.A. Bible Commentary, oppure dal fatto che incombe una
scadenza improrogabile, forse la dilazione che il re ha concesso a Daniele (v.
16)? A noi sembra più probabile questa seconda ipotesi.
Se essa è corretta, si può immaginare con quanto sollievo Arioc possa avere
accolto la richiesta dell’esule giudeo. Una carneficina, che oltretutto coinvolge gli
uomini più illustri del paese e forse anche degli amici personali del capo della
guardia non deve essere un compito facile neppure per un uomo duro e abi-
tuato a ubbidire ciecamente come quest’ultimo.
Arioc vuole avere un ruolo di protagonista nella drammatica vicenda: si at-
tribuisce il merito di avere scoperto lui fra i Giudei deportati in Babilonia, un
uomo che potrà svelare il segreto del re. Il dettaglio sembra incongruente. Infatti
Nabucodonosor sa che questo giudeo gli fornirà l’interpretazione del sogno (v.
16). L’incongruenza comunque cade se si ammette che Arioc possa avere igno-
rato tale circostanza.
Il v. 16, come si è visto, sottintende che qualcuno abbia introdotto Daniele
in presenza del sovrano la prima volta, ma questi può non essere stato il capo
della guardia del re.

26 Il re prese a dire a Daniele, che si chiamava Beltsatsar: “Sei tu ca-


pace di farmi conoscere il sogno che ho fatto e la sua interpreta-
zione?”

Il nome originario del profeta evoca le sue radici giudaiche, il nome babilonese
ricorda realisticamente che egli è sottoposto alla sovranità ed è al servizio del re
di Babilonia.
Sorvolando i preliminari, Nabucodonosor menziona subito il problema che
lo assilla: “Sei tu capace di farmi conoscere il sogno...?” La domanda sembra sug-
gerire in primo luogo che la rivelazione del sogno prema al re quanto la sua in-
terpretazione se non più, secondariamente che Nabucodonosor sia tuttora con-
vinto che un uomo dotato di vere virtù divinatorie debba essere capace di indo-
vinare il sogno di un altro uomo (“Sei tu capace...?”), e infine che un’ombra di
scetticismo attenui le aspettative del re, cosa peraltro comprensibile dopo il falli-
mento dei celebrati sapienti di Babilonia.

27 Daniele rispose in presenza del re, e disse: “Il segreto che il re do-
manda, né savi, né incantatori, né magi, né astrologi possono sve-
larlo al re; 28 ma v’è nel cielo un Dio che rivela i segreti, ed egli ha
fatto conoscere al re Nebucadnetsar quello che avverrà negli ultimi
giorni...

“Daniele rispose in presenza del re...”. Colui alla cui presenza è stato condotto
questo deportato giudeo, e alla cui domanda deve adesso rispondere, non è un
mortale qualunque, è il re di Babilonia, il potente signore che domina su una va-

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CAPITOLO 2

sta area del mondo abitato (cfr. v. 38), il despota crudele che dispone a suo ta-
lento della vita e della morte dei suoi sudditi (cfr. v. 12).
Al contrario dell’interpellante, che viene subito al sodo, l’interpellato esordi-
sce con un breve preambolo. Le parole introduttive del profeta tradiscono la sua
preoccupazione dominante che è di rendere onore e gloria all’Iddio Unico da-
vanti a questo dominatore pagano la cui visione religiosa è popolata di una mol-
titudine di divinità.
Prima di tutto Daniele dichiara la totale impotenza umana di fronte alla ri-
chiesta del re, preparando in tal modo il terreno per la glorificazione di Dio: “Il
segreto che il re domanda, né savi, né incantatori, né magi, né astrologi possono
svelarlo al re”. Alle categorie di indovini già menzionate (v. 2) se ne aggiunge
una nuova, quella dei gazrîn, termine che viene correttamente tradotto “astro-
logi” (vedi il commento ai vv. 2 e 3).
La premessa ha aperto la via ad un’affermazione ardita che occupa il centro
dei pensieri di Daniele: “v’è nel cielo un Dio che rivela i segreti…”
Quello che Daniele ha detto fin qui in sostanza non differisce da quello che
avevano detto i Caldei. Costoro infatti avevano dichiarato: “Non c’è uomo sulla
terra che possa far conoscere quello che il re domanda tranne gli dèi la cui di-
mora non è fra i mortali” (vv. 10,11). La sola differenza - e non certo di poco
conto - sta nella contrapposizione radicale tra la visione monoteistica di Daniele
(“un Dio”) e la concezione politeistica degli indovini pagani (“gli dèi”).
Daniele, dunque, ha sostanzialmente ribadito un concetto già noto a Nabu-
codonosor, un concetto che aveva eccitato l’ira violenta del re (v. 12). Ma adesso
giunge la rivelazione che appagherà la sua aspettativa. L’Iddio del cielo che ri-
vela i segreti “ha fatto conoscere al re Nebucadnetsar quello che avverrà negli
ultimi giorni”. L’espressione aramaica )æYm a Oy tyirx
A ) : be‘acharîth yomayya‘ indica
a B
lo scadere di un periodo futuro di tempo la cui estensione sarà determinata dalla
successione degli eventi rivelati nel sogno.
Non Bel-Marduk, il signore supremo del pantheon babilonese, non suo fi-
glio Nebo, il dio della scienza il cui nome è incorporato nel nome del re, ma l’Id-
dio del cielo, il vero e unico conoscitore dei segreti, è Quegli che ha voluto far
conoscere al re Nabucodonosor il corso futuro degli eventi fino alla consuma-
zione dei secoli (è già delineato il significato fondamentale della rivelazione).

28b ... Ecco quali erano il tuo sogno e le visioni della tua mente
quand’eri a letto. 29 I tuoi pensieri, o re, quand’eri a letto, si riferi-
vano a quello che deve avvenire da ora innanzi; e colui che rivela i
segreti t’ha fatto conoscere quello che avverrà.

“Sogno” (in aramaico chelem) si riferisce probabilmente all’oggetto globale


dell’esperienza onirica, “visioni” (in aramaico chezwê) ai particolari. Il sogno che
ha suscitato inquietudine nell’animo del re non è stato un fatto accidentale. Per
illuminazione divina Daniele conosce, e svelerà al re, non solo il sogno e la sua
interpretazione, ma finanche la circostanza che lo ha preceduto e in qualche
modo determinato. Disteso nel suo letto regale, Nabucodonosor stentava a pren-

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CAPIRE DANIELE

dere sonno e i suoi pensieri vagavano nell’oscurità impenetrabile che cela agli
uomini il futuro. Con un seguito di rapide e fortunate campagne militari, il so-
vrano della nuova Babilonia ha creato un impero che si estende dalle rive del
Golfo Persico alle sponde del Mediterraneo e raccoglie entro i suoi confini etnie
differenziate per linguaggi e tradizioni culturali e religiose.
Quanto a Babilonia, egli ha in mente progetti ambiziosi per farne la metro-
poli più splendida del mondo. Ma quali sorprese riserba il futuro immediato? E
quale sorte sarà riservata al vasto impero e alla sua superba capitale dopo di lui?
L’Iddio del cielo, sconosciuto a Nabucodonosor ma che Daniele serve e adora, si
è degnato di far conoscere al re tutto questo e ancora più di questo. Lo ha fatto
per una via che tocca particolarmente la sensibilità del re come di ogni mesopo-
tamico: il sogno.
Una forma oscura di rivelazione, sicuramente, ma appunto per questo tale
da richiedere l’intervento dei professionisti della divinazione, col risultato, impre-
vedibile per Nabucodonosor, che si paleseranno da una parte l’impotenza degli
indovini pagani e quindi delle divinità che essi evocano, e dall’altra l’illumina-
zione di Daniele e conseguentemente il potere del Dio che egli serve.

30 E quanto a me, questo segreto m’è stato rivelato, non per una sa-
pienza ch’io possegga superiore a quella di tutti gli altri viventi, ma
perché l’interpretazione ne sia data al re, e tu possa conoscere quel
che preoccupava il tuo cuore.

Con umiltà e onestà Daniele mette da parte la sua persona e di nuovo glorifica
pur senza nominarlo l’Iddio del cielo che ha risposto all’invocazione sua e dei
suoi compagni.
Se egli conosce il segreto del re - dice Daniele in perfetta coerenza con
quanto aveva premesso al v. 27 - è perché gli è stato rivelato, e non perché egli
sia in possesso di una sapienza che sopravanzi ogni umana conoscenza.
Il segreto gli è stato rivelato al solo scopo di far conoscere al re Nabucodo-
nosor la giusta interpretazione del sogno e con esso la risposta del cielo agli in-
terrogativi che lo avevano turbato prima di addormentarsi.

31 Tu, o re, guardavi, ed ecco una grande statua; questa statua,


ch’era immensa e d’uno splendore straordinario, si ergeva dinanzi
a te, e il suo aspetto era terribile.

Nel sogno era parso a Nabucodonosor che una statua di smisurata grandezza si
ergesse davanti a lui. L’imponenza della figura plastica è enfatizzata dall’inter-
prete con un duplice riferimento alla sua dimensione: “una grande statua”
()yiGa& dax {"l:c tzelem chad sagghî’), e: “questa statua che era immensa”
(bar }"KD
i )fml a tzalma’ diken rav). Abbaglianti riflessi metallici conferivano alla gi-
: c
gantesca figura un aspetto se possibile ancor più terrificante. Si può immaginare
lo stupore ammirato del sovrano mentre Daniele gli descrive con precisione il
sogno che era svanito dalla sua mente.

63
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CAPITOLO 2

32 La testa di questa statua era d’oro fino; il suo petto e le sue brac-
cia eran d’argento; il suo ventre e le sue cosce, di rame; 33 le sue
gambe, di ferro; i suoi piedi, in parte di ferro e in parte d’argilla.

Dopo una sommaria presentazione d’insieme dell’immagine onirica, il profeta


passa a descriverla nei dettagli. Quattro metalli di valore e lucentezza decrescenti
si susseguivano dall’alto verso il basso. D’oro fino parevano essere fatti il capo e
il collo, e di argento lucido il torace con le spalle e le braccia.
Il ventre e le cosce sembravano essere di rame (l’aramaico $fxnº nechâsh può
anche tradursi “bronzo”, e forse questa è la traduzione che si addice meglio,
giacché nell’antichità questa lega metallica era più comune del rame puro come
è attestato dall’abbondanza di oggetti di bronzo rinvenuti dagli archeologi). In-
fine le gambe della grande statua sembravano essere di ferro, un metallo che nel
Vicino Oriente si diffuse a partire dal XIII secolo a.C. fin quasi a soppiantare il
bronzo.
L’impressione poteva essere quella di una formidabile solidità, stante la du-
rezza e la compattezza dei metalli; in realtà l’incoerente amalgama di ferro e ar-
gilla su cui il colosso poggiava rendeva quest’ultimo estremamente fragile. G.Ri-
naldi (op. cit., pp. 52, 54) suppone che i piedi fossero di creta con un rivesti-
mento esterno di ferro (“in parte di ferro e in parte d’argilla”), ma l’espressione
del v. 41: “il ferro mescolato con la molle argilla (rfxpe -yiD vasx
A “argilla da vasaio”),
(Rinaldi: “creta fangosa”), fa pensare piuttosto a un miscuglio di argilla e pezzetti
di ferro. Il termine aramaico tradotto “argilla”, vasx
A chasaf, denota piuttosto il ma-
nufatto che non la materia con cui lo si modella. “Terracotta” sarebbe una tradu-
zione più appropriata.

34 Tu stavi guardando, quand’ecco una pietra si staccò, senz’opera


di mano, e colpì i piedi di ferro e d’argilla della statua, e li frantumò.
35 Allora il ferro, l’argilla, il rame, l’argento e l’oro furon frantumati
insieme, e diventarono come la pula sulle aie d’estate; il vento li
portò via, e non se ne trovò più traccia; ma la pietra che aveva col-
pito la statua diventò un gran monte, che riempì tutta la terra.

La scena, finora statica, d’un colpo si fa movimentata. Una pietra non mossa da
mano umana si stacca da un monte che fiancheggia la statua e va a colpirla nella
parte più fragile. Immediatamente il colosso, che pareva indistruttibile, si afflo-
scia su se stesso riducendosi in minuti frammenti d’oro, d’argento, di bronzo, di
ferro e di terracotta subito dispersi dal vento. La totale sparizione dei frammenti
è sottolineata con l’espressione: “non se ne trovò più traccia” (letteralmente “non
si trovò più posto per essi”).
Il sasso che provocò tanto sfacelo crebbe a dismisura fino a diventare una
montagna grande quanto la terra (la “terra”, )f(r a ’ar‘a’ in aramaico, è l’area cir-
: )
costante la statua che il soggetto sognante poteva abbracciare con lo sguardo).
I metalli (v. 35) sono nominati in ordine inverso rispetto ai vv. 32 e 33 per-
ché la statua comincia a disintegrarsi dal basso, dove la pietra l’ha colpita.

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CAPIRE DANIELE

36 Questo è il sogno; ora ne daremo l’interpretazione davanti al re.

Proprio come il re aveva voluto, Daniele distingue nettamente il sogno dalla sua
interpretazione: prima descrive la scena, poi la interpreta. Nabucodonosor sem-
bra convinto che la capacità di svelare il sogno garantisca la giustezza della sua
interpretazione (vedi v. 9 u.p.).
La forma plurale del verbo: “ne daremo l’interpretazione”, esprime l’umiltà
di Daniele che ha voluto dividere coi compagni quello che il re avrebbe consi-
derato come un merito eccezionale. In fondo la rivelazione del segreto che Da-
niele aveva ricevuto in visione (vv. 17, 18) era stata la risposta del Cielo alla pre-
ghiera sua e dei suoi compagni.

37 Tu, o re, sei il re dei re, al quale l’Iddio del cielo ha dato l’impero,
la potenza, la forza e la gloria; 38 e dovunque dimorano i figlioli degli
uomini, le bestie della compagna e gli uccelli del cielo, egli te li ha dati
nelle mani, e t’ha fatto dominare sopra essi tutti. La testa d’oro sei tu.

“Tu, o re, sei il re dei re”. Con questo superlativo aramaico Daniele ha voluto
esprimere la deferenza dovuta a un grande monarca, non certo un complimento
adulatorio.
Del resto questo titolo, che anche Ezechiele riconosce al re di Babilonia (Ez
26:7), si addice bene a Nabucodonosor.
Nel contesto politico dell’epoca, nessun sovrano ha potuto rivaleggiare col
signore di Babilonia, nessun regno ha potuto eguagliare il suo per potenza e
splendore. Tutto questo però non era soltanto né primariamente il risultato di
fattori puramente umani.
È stato l’Iddio del cielo - l’Iddio che ha voluto rivelare a Nabucodonosor il
gran “segreto”- che gli ha conferito l’impero (cioè la sovranità, l’autorità regale),
la potenza (vale a dire la capacità di governare), la forza (ovvero l’energia con
cui far fronte ai problemi esterni) e la gloria (ossia il prestigio che viene da un
esercizio illuminato della sovranità), e ha ridotto sotto la sua signoria le masse
umane e la moltitudine di creature selvatiche che popolano le regioni del suo
vastissimo dominio.
“Tu sei la testa d’oro”. La testa è la parte più nobile del corpo umano e
l’oro è il più nobile dei metalli. Questa parte di maggior pregio della statua che
Nabucodonosor vide in sogno, dunque una raffigurazione dell’impero neo-babi-
lonese che Daniele identifica per metonimia col suo sovrano.
Nell’antichità il re era visto come l’incarnazione del regno e questa conce-
zione si rispecchia anche nel nostro libro dove in più di un luogo (cfr. v. 39a e
7:17, 23) i termini “re” e “regno” sono equivalenti e intercambiabili. Nel caso di
Nabucodonosor tale identificazione tanto più gli si addice essendo stato lui l’ar-
tefice dell’impero sul quale regna.
Per molti aspetti l’epoca di Nabucodonosor fu davvero un’epoca aurea. A
parte l’esercizio dispotico dell’autorità regale - caratteristica peraltro comune a
tutti i regnanti dell’epoca, e non soltanto di quell’epoca - Nabucodonosor fu per

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CAPITOLO 2

altri versi un sovrano illuminato68. Della nuova Babilonia, così come lui la volle
e la realizzò, si può dire che nessuna città del mondo contemporaneo fu in
grado di competere con lei quanto a splendore materiale e culturale.
Sul piano dell’arte, basta ricordare alcune delle sue splendide opere archi-
tettoniche, come i favolosi giardini pensili, come la stupenda porta di Ishtar e la
grande via processionale che si apriva dietro di essa, come gli imponenti edifici
sacri dell’Esagila... Tutte opere che testimoniano l’abilità eccezionale degli archi-
tetti che le eseguirono.
Sul piano della cultura letteraria e scientifica, è sufficiente menzionare i testi
mitologici e le opere di matematica, di astronomia e di medicina che si custodi-
vano nelle biblioteche dei templi e del palazzo reale e che l’archeologia ha ricu-
perato in buona parte. Sono opere che rivelano l’alto livello culturale a cui erano
pervenuti i letterati e gli scienziati di Babilonia. L’oro è davvero un simbolo ap-
propriato per raffigurare la civiltà neo-babilonese!

39 e dopo di te sorgerà un altro regno, inferiore al tuo; poi un terzo


regno, di rame, che dominerà sulla terra; 40 poi vi sarà un quarto re-
gno, forte come il ferro; poiché, come il ferro spezza ed abbatte ogni
cosa, così, pari al ferro che tutto frantuma, esso spezzerà ogni cosa.

L’aggettivo indefinito “altro”, quando è usato come lo usa qui Daniele, stabilisce
un rapporto di uguaglianza tra la cosa a cui è riferito e la cosa nominata prima.
“Un altro” (in aramaico yirx f ’acharî) in questo passo è riferito a “regno” (in ara-
F )
maico Uk:lma malkû), e la cosa nominata prima è la persona del re (“e dopo di te”,
in aramaico uvathrak). Pertanto “dopo di te” non significa “dopo la tua per-
sona”, ma “dopo il tuo regno”.
Difatti il regno di Persia non sorse dopo Nabucodonosor, ma dopo Babilo-
nia. Trascorsero 23 anni e si succedettero sul trono di Babilonia quattro re fra la
scomparsa di Nabucodonosor e l’avvento di Ciro, fondatore dell’impero per-
siano. In definitiva in questo passo danielico la persona del re appare come il
simbolo e l’incarnazione vivente del regno, il che è perfettamente conforme allo
spirito dell’Antico Oriente.
Daniele dunque predice il trapasso del dominio universale da Babilonia a
un regno successivo (in aramaico: yirFxf) Uk:lam {Uq:T \fr:tfbU uvathrak theqûm
malkû ’acharî, alla lettera: “e dopo di te sorgerà un regno un altro”). L’aggettivo
indeterminato ’acharî (“un altro”) che accompagna il sostantivo malkû (“re-
gno”), significa in sostanza “un secondo uguale”; dunque “re” e “regno” in que-
sta frase sono concetti equivalenti. In altre parole, quel “dopo di te” equivale a
dopo il tuo regno.
L’avvento del regno di Persia alla caduta di Babilonia ventitrè anni dopo la
morte di Nabucodonosor convalida, se ve ne fosse bisogno, questa tesi lapalis-
siana. Cfr. il commento di 7:3. L’avverbio temporale bathar, una volta espresso e

68 - Cfr. G. PETTINATO, Babilonia, centro dell’universo, cap. IX.

66
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CAPIRE DANIELE

due volte sottinteso, denota una successione di eventi consecutivi. In sostanza il


sogno di Nabucodonosor anticipa, in una mirabile sintesi allegorico-profetica, il
mutevole panorama politico del mondo futuro.
La sequenza oro/argento/bronzo/ferro-argilla rappresenta il succedersi delle
potenze terrene dal tempo di Daniele fino all’avvento del regno di Dio. La serie
dei regni si apre con Babilonia, all’apice della sua grandezza al tempo di questa
rivelazione (l’Assiria non conta più nel panorama profetico appartenendo oramai
alla storia).
Questa parte del commento si limita a una sommaria disamina delle ipotesi
principali riguardo all’identità dei regni. Sulla loro storia si dilungherà di più il
commento del capitolo settimo.
L’identità del primo regno è rivelata senza possibilità di fraintendimenti (vv.
37 e 38). Sugli altri regni gli espositori sono divisi.
Merita appena un cenno l’ipotesi isolata di qualche studioso che ha visto
nei metalli raffigurazioni di personaggi piuttosto che di nazioni (ROWLEY: 1. Na-
bucodonosor, 2. Belsazar, 3. Dario, 4. Alessandro; VAN HOONACKER: 1. Nabucodo-
nosor, 2, Evil-merodac, 3. Neriglissar, 4. Nabonide).
Dall’antichità fino ai nostri giorni, gli interpreti ebrei e cristiani di Daniele
hanno scorto quasi unanimemente le grandi monarchie universali da Babilonia
in avanti nelle quattro parti della statua. Sull’identità dei regni nell’antichità ci fu
una sostanziale convergenza. Oggi sussiste una notevole divergenza.
Con EMANUELE TESTA69 distinguiamo tre principali indirizzi interpretativi
nell’esegesi moderna di Daniele capitoli due e sette:
(1) la teoria greca, che identifica Babilonia con l’oro, la Media con l’ar-
gento, la Persia col bronzo e la Grecia col ferro;
(2) la teoria siriana che propone la sequenza Babilonia/Medo-Persia/Ales-
sandro e i Diadochi/la Siria dei Seleucidi;
(3) la teoria romana che scorge nei quattro metalli Babilonia, Medo-Persia,
Grecia e Roma.
La teoria “romana” è la più antica ed è quella che ha raccolto i maggiori
consensi nel passato. Oggi è mantenuta dai conservatori, per lo più protestanti.
Le teorie “greca” e “siriana” sono adottate dai commentatori di tendenza critico-
liberale, che sono i più numerosi (i cattolici di lingua italiana si attengono di pre-
ferenza alla spiegazione siriana)70.

La teoria greca appare fragile principalmente per due ragioni:

(1) essa separa arbitrariamente la Media e la Persia, due nazioni affini etni-
camente e culturalmente le quali nel periodo storico a cui si riferisce la profezia
formavano uno stato unitario, come le considera correttamente Daniele (5:28;

69 - EMANUELE TESTA, Messaggio della salvezza, vol. III, nota 7, pp. 142-143.
70 - Vedi E.TESTA, op. cit., G.RINALDI, Daniele.

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CAPITOLO 2

6:8,12,15; 8:20)71.
(2) Questa teoria lascia un vuoto abissale fra il quarto regno e il regno di Dio.

La teoria siriana non è molto più coerente dell’ipotesi “greca”. Intanto


non meglio di quella essa riesce a colmare il “gap” tra il quarto regno e il regno
di Dio. Inoltre i fatti la contraddicono. Daniele attribuisce al quarto regno straor-
dinaria compattezza (“forte come il ferro”) e schiacciante pressione militare
(“esso spezzerà ogni cosa”). Il regno dei Seleucidi non ebbe né l’una né l’altra.
Dal tempo di Antioco III in poi il suo territorio venne riducendosi a causa
di perdite dovute a sconfitte militari o defezioni. Misurandosi con l’Egitto dei To-
lomei la Siria collezionò più sconfitte che successi, e se infine Antioco III riuscì
ad avere ragione di Tolomeo IV, sottraendogli Cipro, la Celesiria e la Palestina,
soccombette poi a Magnesia, nel 190 a.C., di fronte alle forti legioni di Roma e
dovette accettare le dure condizioni di pace imposte da Lucio Cornelio Scipione:
abbandono delle isole egee, cessione dei possedimenti in Asia Minore, consegna
di gran parte della flotta e di venti ostaggi fra cui uno dei suoi figli - il futuro An-
tioco IV - e pagamento di un’indennità di 15.000 talenti entro dodici anni72. Non
migliore fortuna ebbe il figlio e successore di Antioco III, Antioco IV Epifane che
i Romani costrinsero nel 168 a.C. a sgombrare l’Egitto e a rinunciare alla sua an-
nessione73. I successori dell’Epifane dovettero persino abbandonare la Palestina
a seguito delle epiche lotte dei Maccabei74. Può mai essere stata la Siria seleu-
cida il regno del ferro che tutto frantuma?

La spiegazione romana è la più coerente. Non ci sono dubbi che


all’epoca del declino dei regni ellenistici, ultimi eredi dell’impero di Alessandro
(I secolo a.C.), ci fosse una sola potenza nel bacino del Mediterraneo che po-
tesse rispondere alle caratteristiche del quarto regno di Dn 2, e questa potenza
era Roma. Roma che, sbaragliata la forte rivale Cartagine, si affaccia con prepo-
tenza sulle terre bagnate dal Mediterraneo orientale.
Si è detto più sopra che la spiegazione “romana” di Dn 2 e 7 è la più an-
tica. In effetti essa fu adottata dall’esegesi ebraica di Daniele prima dell’era cri-
stiana. L’identificazione di Roma nel quarto regno danielico doveva già essere

71 - Talvolta Daniele usa isolatamente i termini “medo/medi” e “persiano” (5:31; 6:28; 9:1;
11:1), ma li usa come designazioni di nazionalità e non di stati. Varie volte il nome della Persia
compare isolato verso la fine del libro (10:1,13,20 e 11:2), ma poiché senza eccezioni esso è
associato al nome di Ciro - l’unificatore di stirpe persiana dei due regni - o ad anonimi succes-
sori di Ciro, l’inclusione della Media è implicita. Daniele non nomina mai la Media come stato
autonomo e in effetti essa non lo fu più da quando Ciro II l’ebbe ridotta sotto la sovranità degli
Achemenidi nove anni prima della conquista di Babilonia.
72 - Vedi G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, IV ediz., vol. II, pp. 59, 60.
73 - G.RICCIOTTI, ibidem, p. 62.
74 - Vedi G.RICCIOTTI, ibidem, p. 321.

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CAPIRE DANIELE

nota ai Giudei della diaspora alessandrina se i traduttori in greco di Daniele re-


sero “i Romani” l’espressione ebraica “le navi di Kittim” in Dn 11:30. Questa in-
terpretazione divenne la norma dell’ebraismo posteriore. Nel primo secolo della
nostra era essa fu applicata dagli ignoti autori del IV Esdra (11:1 e 12:10 e segg.)
e dell’Apocalisse di Baruc. GIUSEPPE FLAVIO non si pronuncia sull’identità del
quarto regno, e si può capirlo avendo egli intrattenuto rapporti di amicizia coi
Romani, ma in Antichità Giudaiche (lib. IX, I, 329) lo storico giudeo interpreta
come compimento della profezia di Daniele la tragica fine di Gerusalemme
nell’anno 70 riconoscendo di fatto Roma nel quarto regno di Dn 2 e 7.
Questa linea interpretativa fu mantenuta in seno all’ebraismo posteriore,
come fanno fede il Talmud, i Midrashim e il Targum, e nei secoli seguenti (dal
IX al XVII) i rabbini che hanno commentato Daniele75.
L’esegesi cristiana antica condivise l’interpretazione tradizionale ebraica sui
quattro regni danielici. Nella seconda metà del secondo secolo IRENEO interpretò
Dn 2 secondo il modello ebraico. Il vescovo di Lione, sebbene non nomini mai
Roma per comprensibili ragioni di prudenza, era conscio di vivere sotto il quarto
impero76.
Invece TERTULLIANO al principio del secolo seguente menziona Roma senza
reticenze in rapporto alle profezie danieliche. Nello stesso periodo IPPOLITO RO-
MANO conferma l’identificazione tradizionale dei quattro regni.
Nel secolo seguente EUSEBIO DI CESAREA vede anch’egli l’Impero Romano
nell’ultimo dei regni terreni di cui parla Daniele, e al principio del V secolo GI-
ROLAMO, il principe degli antichi espositori cristiani di Daniele, scrive testual-
mente riguardo al quarto regno che esso “chiaramente concerne quello dei Ro-
mani”77. Sempre nel V secolo, TEODORETO DI CIRO scorge nel regno del ferro
un’immagine di Roma.
I primi riformatori nel secolo XVI interpretarono secondo il modello
ebraico-cristiano antico Dn 2 e 7.
LUTERO e MELANTONE identificarono con Babilonia, Medo-Persia, Grecia e
Roma le quattro parti della statua.
Nel secolo XVIII però l’ermeneutica biblica protestante si allontanò dalla li-
nea ortodossa dei primi riformatori. Sotto l’influenza del razionalismo illumini-
stico, i biblisti protestanti trattarono la Scrittura alla stregua di un libro comune.
Negato il valore della profezia, essi sostituirono all’interpretazione storicistica di
Daniele quella preteristica escogitata sul finire del XVI secolo dal gesuita L.DE AL-
CAZAR e di conseguenza, ripudiata la tesi romana su Dn 2 e 7, adottarono l’ipo-
tesi “greca” o quella “siriana”.
Oggi questa linea interpretativa, come si è detto, è seguita dall’esegesi libe-
rale protestante e da gran parte dell’esegesi cattolica.

75 - Vedi J.ZURCHER, “Le quatre empires universels” in Daniel, questions débattues, p. 153.
76 - Adv. Haer., V, 26.
77 - Girolamo su Daniele, pp. 48, 49

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CAPITOLO 2

In polemica con gli interpreti liberali, i conservatori hanno difeso e mante-


nuto fino ai nostri giorni il valore profetico del libro di Daniele. Sono stati nume-
rosi gli autori protestanti, e meno quelli cattolici, che hanno adottato la spiega-
zione “romana” di Dn 2 e 7.
Fra i primi ricorderemo C. A. AUBERLEN (1854), L. GAUSSEN (1850), C. BOUT-
FLOWER (1923), R. D. WILSON (1938), E. J. YOUNG (1949), H. C. LEUPOLD (1949), G.
L. ARCHER Jr. (1985); e fra i secondi J. FABRE D’ENVIEU (1888), E. PHILIPPE (1927) E J.
LINDER (1939). Gli autori avventisti che hanno commentato Daniele (U. SMITH, R.
A. ANDERSON, J. VUILLEUMIER, A. F. VAUCHER, A. J. FERCH e altri) si sono attenuti
unanimemente alla tesi “romana”.
Nel testo danielico una o più note individuali caratterizzano ciascuno dei
quattro regni. Del primo si sottolinea la dimensione spaziale: “dovunque dimo-
rano i figlioli degli uomini... egli (l’Iddio del cielo) te li ha dati nelle mani” (v.
38). In effetti Nabucodonosor riunì sotto il suo scettro tutti i popoli della Meso-
potamia (tranne gli Assiri), della Siria e della Palestina, dalle rive del Golfo Per-
sico alle frontiere dell’Egitto.
Del secondo regno si evidenzia l’inferiorità rispetto al primo: “e dopo di te
sorgerà un altro regno inferiore al tuo” (v. 39a). Si è pensato a torto a un’inferio-
rità spaziale; l’impero degli Achemenidi superò per vastità territoriale quello
creato da Nabucodonosor. L’inferiorità dei Persiani rispetto ai Babilonesi fu ma-
nifesta principalmente sul piano culturale.
Del terzo regno si enfatizza l’egemonia universale: esso “dominerà sulla
terra” (v. 36b). Invero l’impero creato da Alessandro non ebbe eguali per vastità
territoriale. Agli sterminati domini della Media e della Persia il Macedone ag-
giunse le province ad est dell’Iran fino alle sponde dell’Indo e oltre, senza con-
tare le terre ad ovest e a sud dell’Eufrate.
Del quarto regno, infine, il profeta mette il risalto la forza e la compattezza:
“poi vi sarà un quarto regno forte come il ferro” (v. 40). Il paragone calza alla
perfezione: lo storico EDWARD GIBBON definì lo stato romano “la monarchia di
ferro” per la sua coesione interna, la sua disciplina e la forza delle sue armi.
Il ferro, nota il LEUPOLD, è anche un simbolo appropriato della durezza cru-
dele con cui i Romani trattarono i nemici.
C. BOUTFLOWER ha colto relazioni significative fra i metalli e i regni che essi
rappresentano. L’oro, profuso nelle immagini delle divinità, negli altari e nelle
decorazioni dei templi, distinse effettivamente la città di Babilonia.
L’argento, sinonimo di denaro in ebraico e in altre lingue antiche, esprime
adeguatamente lo spirito mercantilistico dei Medi e dei Persiani (a questi ultimi
si deve fra l’altro il conio delle prime monete, le famose dariche d’argento).
Il bronzo fu usato largamente dai Greci per produrre armi e scudi.
Il ferro, infine, fu il metallo con cui i romani forgiarono le loro spade, i loro
elmi e i loro scudi.
Merita attenzione la circostanza che Daniele, mentre è laconico sul primo,
secondo e terzo regno, sul quarto si dilunga molto di più, e questo sia nel capi-
tolo due che nel settimo. Si consideri che dal quarto regno prendono l’avvio de-
gli sviluppi che condurranno fino all’avvento del Regno di Dio.

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CAPIRE DANIELE

41 E come hai visto i piedi e le dita, in parte d’argilla di vasaio e in


parte di ferro, così quel regno sarà diviso; ma vi sarà in lui qual-
cosa della consistenza del ferro, giacché tu hai visto il ferro mesco-
lato con la molle argilla.

Come nel corpo umano i piedi sono il prolungamento naturale delle gambe,
così in questo simulacro d’uomo le parti inferiori rappresentano la continuazione
del regno del ferro, ma nella fase discendente della sua parabola storica. Infatti
al duro e compatto metallo delle gambe si è sostituito quell’assurdo miscuglio di
ferro e terracotta dei piedi.
La durezza del ferro e la fragilità della terracotta sono una plastica imma-
gine del coesistere di elementi di forza e di debolezza nel tessuto vivo di questo
regno che avrà perso la sua monolitica compattezza: “quel regno sarà in parte
forte e in parte fragile” (v. 42). E come i piedi si suddividono nelle dita
(anch’esse di ferro e terracotta) così, in questa fase decadente della sua storia, il
quarto regno si frazionerà in una moltitudine di regni minori (“quel regno sarà
diviso”, v. 41) caratterizzati anch’essi da elementi di forza e debolezza.
I fautori della teoria “greca” scorgono i successori di Alessandro nei piedi di
ferro e terracotta e invocano come argomento a sostegno la divisione in quattro
dell’impero macedone alla morte del suo fondatore (Dn 7:6; 8:8,22). Anche que-
sta interpretazione è resa fragile dalle difficoltà segnalate nel commento del ver-
setto precedente, ovvero dall’impossibilità di colmare il vuoto fra il quarto regno
e il regno di Dio.
Con più coerenza, i difensori dell’interpretazione “romana” scorgono nei
piedi di ferro e terracotta un’immagine dell’Impero latino decadente all’epoca
delle invasioni barbariche. I due materiali così diversi rappresentano con molta
verosimiglianza le due razze tanto differenti per cultura e civiltà che convissero
gomito a gomito in questo momento critico della storia dell’Impero: la forte
stirpe romana e le più “plastiche” etnie germaniche suscettibili di essere pla-
smate in qualche misura dalla superiore cultura latina (Leupold).

42 E come le dita dei piedi erano in parte di ferro e in parte d’argilla,


così quel regno sarà in parte forte e in parte fragile.

Numerosi commentatori hanno ravvisato nelle dieci corna della quarta bestia
(Dn 7:7) una replica delle dieci dita della statua (2:41)78. Poiché le dieci corna
rappresentano “dieci re” (Dn 7:24) e in Daniele i termini “re” e “regno” sono
equivalenti (cfr. 7:17 e 23), gli interpreti conservatori hanno scorto generalmente
nelle dita della statua un’allusione ai regni romano-barbarici nati dalla disintegra-
zione dell’Impero latino79.

78 - Vedi C.A.AUBERLEN, Le prophète Daniel..., Losanna 1880, p. 56.


79 - Vedi per es. H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 122.

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CAPITOLO 2

Se Daniele riferendosi alle dita parla di “regno” al singolare (“così quel re-
gno sarà in parte forte e in parte fragile”), è perché sta ancora descrivendo gli
sviluppi del quarto regno in una fase successiva alla sua esistenza unitaria. Nel v.
41, alludendo ancora alle dita, il profeta usa la forma plurale: “e al tempo di que-
sti re”. In definitiva Daniele sta parlando del quarto regno in una fase di trasfor-
mazione in seguito alla quale esso sarà diviso e sarà in parte forte e in parte fra-
gile. Il S.D.A. Bible Commentary accosta questa forza e fragilità delle dita alla no-
tevole disparità dei regni romano-barbarici sul piano militare: “Questi regni bar-
barici furono molto diversi fra loro quanto allo spirito guerriero, come nota Gib-
bon quando parla delle potenti monarchie dei Franchi e dei Visigoti e dei regni
vassalli degli Svevi e dei Burgundi”80. Quantificare i regni barbarici, come ha
tentato di fare qualche commentatore (p.e. L.Gaussen), è un’impresa disperata.
In questo contesto simbolico, anche il numero deve essere valutato come
elemento simbolico; dieci qui denota pluralità in contrasto con l’unità di par-
tenza. Del resto ciò che il testo enfatizza non è il numero, che non viene nean-
che menzionato, ma il fatto che gli stessi materiali che compongono i piedi si ri-
trovano nelle dita.

43 Tu hai visto il ferro mescolato con la molle argilla, perché quelli si


mescoleranno mediante connubi umani; ma non saranno uniti l’uno
all’altro, nello stesso modo che il ferro non s’amalgama con l’argilla.

Chi sono “quelli” che “si mescoleranno mediante connubi umani”? L’antecedente
a cui può collegarsi questo pronome è il sostantivo “dita” al principio del v. 42.
I fautori della teoria “siriana”, ammettendo un parallelismo col cap. 11, ve-
dono nel v. 43 un’allusione alle fragili alleanze fra Lagidi e Seleucidi raggiunte
mediante matrimoni dinastici81. Con più verosimiglianza C.H.Leupold (p. 120) e
altri conservatori hanno pensato alla mescolanza della razza latina con quella
germanica attraverso matrimoni incrociati. Il S.D.A. Bible Commentary propende
per la tesi dei matrimoni dinastici tra le monarchie europee eredi del dissolto Im-
pero romano (vol. IV, p. 775).
Il miscuglio ferro-terracotta è interpretato in vari modi da Daniele. Nel v. 41
questa eterogenea composizione appare come simbolo della frammentazione
del regno del ferro in una pluralità di unità minori (“così quel regno sarà di-
viso”); nel v. 42 l’immagine viene ripresa ed è riferita alla coesistenza nel quarto
regno di elementi di forza e di debolezza (“così quel regno sarà in parte forte e
in parte fragile”); nel v. 43 essa ritorna per la terza volta ed è interpretata come
fallimentari tentativi di ricongiungimento mediante connubi umani delle parti di-
verse, (“quelli si mescoleranno mediante connubi umani”). Non siamo davanti a
un quadro confuso e contraddittorio, bensì ci confrontiamo con una visione uni-
taria in cui uno stesso simbolo esprime tre aspetti di una stessa situazione. La si-

80 - Vol. IV, p. 775.


81 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 54; G. BERNINI, Daniele, pp. 116, 117.

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CAPIRE DANIELE

tuazione è il deterioramento del quarto regno, gli aspetti differenziati sono la


frammentazione del regno già compatto, il coesistere in esso e nei suoi fram-
menti di elementi di forza e di fragilità e i vani tentativi di ricompattazione.
Su quest’ultimo punto il S.D.A. Bible Commentary osserva: “La profezia non
dice in modo specifico che non potrà esserci una riunificazione delle parti sepa-
rate raggiunta magari col ricorso alle armi o attraverso il predominio politico.
Essa afferma che qualora una siffatta riunificazione fosse tentata o attuata, le na-
zioni coinvolte non sarebbero organicamente fuse tra loro ma continuerebbero
ad essere diffidenti e ostili le une verso le altre. Una federazione di stati fondata
su simili presupposti sarebbe votata allo sfacelo. Il successo temporaneo di un
dittatore o di una nazione non smentirebbe la profezia di Daniele” (ibidem, p.
776). Si consideri che queste parole furono scritte più di quarant’anni prima del
collasso dell’impero Sovietico!
Ai giorni nostri, l’Unione Economica Europea non costituisce una sfida alla
profezia. Istituzioni europee sovrannazionali come il Mercato Comune Europeo
e il Consiglio d’Europa sono il risultato di compromessi concordati fra i capi di
stato, non certo espressione di un reale desiderio di unificazione da parte dei
popoli europei. Al di là degli accordi tra i governi, restano vivi all’interno della
comunità gli egoismi nazionali. Peraltro i conflitti di interesse e i dissensi all’in-
terno degli stessi organi comunitari tradiscono continuamente il persistere di forti
tendenze conservatrici e separatiste in seno agli stati membri. Un futuro stato fe-
derativo europeo che riunisca sotto un governo e una legge comuni italiani,
francesi, tedeschi, inglesi, danesi, spagnoli... è davvero una visione utopistica !
D’altro canto il dissolvimento recente di stati federativi europei, come l’Unione
Sovietica e la Federazione Jugoslava, coi sanguinosi conflitti etnici che ne sono
seguiti, dimostra a sufficienza quanta poca disponibilità a convivere insieme vi
sia tra le differenti etnie che popolano il nostro continente!

44 E al tempo di questi re, l’Iddio del cielo farà sorgere un regno, che
non sarà mai distrutto, e che non passerà sotto la dominazione d’un
altro popolo; quello spezzerà e annienterà tutti quei regni; ma esso
sussisterà in perpetuo, 45 nel modo che hai visto la pietra staccarsi
dal monte, senz’opera di mano, e spezzare il ferro, il rame, l’argilla,
l’argento e l’oro.

L’epoca, che si apre con lo smembramento dell’Impero latino, deve prolungarsi


fino al tempo in cui “l’Iddio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai di-
strutto”. Sulla natura di questo regno non possono esserci dubbi, è un regno spi-
rituale. Sulla sua identità invece le opinioni appaiono divergenti fin dall’antichità
cristiana.
I Padri che hanno interpretato Daniele sono stati quasi unanimi fino al V
secolo nel riconoscere un evento escatologico nella pietra distruttrice. Per IRENEO
(m. c.ca nel 200 ) la “pietra” rappresenta Cristo che alla sua venuta distruggerà i
regni della terra. IPPOLITO ROMANO (m. c.ca nel 235) sottolinea il parallelismo fra
Daniele 2 e 7 e identifica la “pietra” con Cristo che viene dal cielo per giudicare

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CAPITOLO 2

il mondo. AFRAHAT SIRO (m. c.ca nel 350) vede nella “pietra” un’immagine dell’in-
staurazione del futuro regno di Dio. Lo storico ecclesiastico SULPICIO SEVERO (m.
nel 420) pensa che la “pietra” che frantuma la statua prefiguri il Cristo e il suo
regno futuro; lo stesso pensiero esprime il suo illustre contemporaneo GIROLAMO
(m. nel 420) nel commentario su Daniele.
Da questa linea concorde diverge EUSEBIO DI CESAREA (m. nel 340) che rav-
visa nella “pietra” il primo avvento di Cristo. TEODORETO DI CIRO (m. nel 457) con-
testa Eusebio e identifica la “pietra” col Cristo che colpirà le nazioni al suo se-
condo avvento.
La mutata condizione della Chiesa con l’avvento al potere di Costantino in-
fluì in maniera rilevante sul pensiero escatologico cristiano. Le persecuzioni
erano cessate e la Chiesa, favorita dallo Stato e non più ostacolata dal pagane-
simo, venne acquistando prestigio e affermandosi nelle province dell’Impero.
Parve ad alcuni pensatori cristiani che si stesse realizzando l’evento preconizzato
da Daniele con l’immagine della “pietra”, insomma che si stesse instaurando
sulla terra il regno di Cristo.
Nel V secolo TICONIO si fece paladino di questa ipotesi già avanzata da Eu-
sebio e la sviluppò ulteriormente. L’ermeneutica di Ticonio influenzò notevol-
mente il pensiero di AGOSTINO (m. nel 430). In De Civitate Dei il vescovo di Ip-
pona sostenne che il regno di Dio inaugurato da Cristo - e che egli identificò
con la Chiesa - durerà in eterno, mentre i regni del mondo saranno distrutti. Per
Agostino la “pietra” era già diventata un monte che ricopriva la terra.
Sotto il peso di tanta autorità, questa concezione storicizzata del regno di
Dio s’impose nella Chiesa e dominò incontrastata la teologia cattolica nei secoli
seguenti82.
Si iniziò a mettere in discussione il pensiero di Agostino sul regno di Dio
soltanto nel XII secolo. Intorno al 1158, ANSELMO DI HAVELBERG, restaurando l’an-
tica ermeneutica storica, preparò il terreno per una vera rivoluzione nel campo
dell’esegesi apocalittica. Sulla scorta dell’ermeneutica anselmiana, GIOACCHINO DA
FIORE (c.ca 1130-1202), spiegò le profezie apocalittiche come sviluppo continuo
della storia della Chiesa e, contro la tesi agostiniana, proiettò nel futuro il regno
di Dio, come avevano fatto i Padri antichi. Per Gioacchino la “pietra” devasta-
trice rappresenta il regno che Cristo instaurerà sulla terra alla fine dei tempi83.
LUTERO (1483-1546) concorda con la visione gioachimita: Cristo al suo av-
vento distruggerà i regni nati dall’antico Impero e fonderà il suo regno sulla
terra. Sono sulla linea di Lutero MELANTONE (1497-1560), ANDREAS OSIANDER (1498-
1552), DAVID CYTRAEUS (1530-1600), TOBIAS STIMMER (1539-1584) e JEORGE JOYE (m.
nel 1553). CALVINO invece si attesta sulle posizioni di Agostino84.

82 - Per maggiori approfondimenti sulla teologia del regno nei Padri antichi, vedi L.E. FROOM, The
Prophetic Faith of Our Fathers, 1950, vol. I, pp. 401-464
83 - Vedi L.E. FROOM, op. cit., p. 565.
84 - Vedi D. BENNET, “The Stone Kingdom of Daniel 2” in Symposium on Daniel, p. 339.

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CAPIRE DANIELE

Identificando il papa con l’Anticristo, Lutero aveva scardinato la concezione


agostiniana del regno di Dio. Per demolire la tesi luterana la Controriforma at-
taccò l’ermeneutica storica ed escogitò nuove chiavi di lettura delle profezie apo-
calittiche. Il gesuita FRANCISCO RIBERA (1537-1591) sviluppò il metodo futurista per
proiettare nel lontano futuro escatologico quanto Lutero applicava ai suoi tempi.
Poco tempo dopo un altro gesuita, LUIS DE ALCAZAR (1554-1613), ideò l’ermeneu-
tica preterista in base alla quale egli credette di poter circoscrivere entro i primi
secoli dell’era cristiana gran parte delle profezie apocalittiche. I due metodi, pur
muovendo da presupposti contrari, arrivavano allo stesso risultato: escludevano
dalla visuale profetica i secoli di mezzo tra la prima e la seconda venuta di Cristo.
Nel XVIII e nel XIX secolo il futurismo fu adottato da una parte dell’esegesi
protestante conservatrice. Il preterismo divenne ed è tuttora il metodo ermeneu-
tico preferito dai Protestanti liberali e da gran parte dell’esegesi cattolica85.
Per cogliere correttamente il significato della “pietra” in Dn 2 non si può
prescindere dall’analogia con la profezia parallela del cap. 7, né si può ignorare
il testo circa l’origine della “pietra” stessa e gli effetti della sua caduta. Si conside-
rino i fatti seguenti:

● Fin dall’antichità gli interpreti di Daniele hanno riconosciuto che la

profezia del cap. 7 è una replica della rivelazione del cap. 2. Ora, poiché nel
cap. 7 la serie dei regni terreni culmina col giudizio (vv. 9, 10, 26) e l’avvento
del regno eterno dell’Altissimo (vv. 14 e 27), anche nel cap. 2 la successione
dei regni deve avere uno sbocco escatologico.
● La “pietra” si stacca dal monte “senz’opera di mano” (Dn 2: 34). Que-

sto significa che l’evento che essa prefigura non dipenderà da interventi
umani ma sarà determinato interamente da Dio.
● Il regno raffigurato dalla “pietra” non potrà coesistere coi regni terreni

che lo avranno preceduto, poiché questi saranno totalmente scomparsi (“non


se ne trovò traccia”, v. 35) quando il regno di Dio si sarà instaurato. La “pie-
tra” non può dunque essere un’immagine della Chiesa storica la quale è sem-
pre coesistita coi regni terreni. Il regno della “pietra” che “l’Iddio del cielo
farà sorgere” non è un’entità storica e terrena, sarà un evento escatologico e
cosmico.

Diversi studiosi moderni, liberali e conservatori, hanno tenuto conto delle


circostanze che affiorano nel testo.
GERHARD VON RAD scrive: “Nei suoi elementi essenziali... il testo è perfetta-
mente chiaro: con l’avvento dell’ultimo terribile rampollo del quarto impero la
storia universale sarà giunta al suo epilogo. La pietra che si distaccherà ‘non per
mano d’uomo’ per infrangere l’impero ed ergersi essa stessa a grande montagna
è immagine del regno di Dio che tutto riempie”86.

85 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 39-45.


86 - GERHARD VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, Brescia 1974, vol. II, p. 377.

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CAPITOLO 2

ARNO C.GAEBELEIN (1911) commenta: “Chiunque può vedere che la pietra


che colpisce non può significare l’estensione pacifica di un regno spirituale, né
la predicazione dell’Evangelo, ma una grande catastrofe. E non si dimentichi che
solo dopo aver fatto la sua opera distruttiva, dopo che la statua sarà stata frantu-
mata, la pietra si trasformerà in un gran monte che ricopre tutta la terra. La pietra
che cade dall’alto è la seconda venuta del nostro Signore Gesù Cristo, la sua ve-
nuta con ‘gran potenza e gloria’ 87.
SILVERIO ZEDDA puntualizza: “Il regno viene dopo e al posto dei regni del
mondo (cfr. Dan 12:1-4). Esso è presentato come celeste, dalle dimensioni cosmi-
che, come appartenente al tempo della fine. Il regno che Dio innalzerà, il regno
messianico, non sarà mai distrutto (cfr. Dn 2:44), a differenza degli altri quattro
regni della terra che l’uno dopo l’altro saranno annientati...”88.
Oltre agli autori citati sopra riconoscono nella “pietra” il regno finale di Dio:
J. A. MONTGOMERY89, J.WALVOORD90, L.WOOD91, A.LACOCQUE92, J.BALDWIN93 e altri.

45b Il grande Iddio ha fatto conoscere al re ciò che deve avvenire


d’ora innanzi; il sogno è verace, e la interpretazione n’è sicura”.

Concludendo la spiegazione del sogno, prima di tutto Daniele ribadisce due cir-
costanze sulle quali già aveva richiamato l’attenzione del re: la prima è che la ri-
velazione viene dall’Iddio che svela i segreti (v. 28a), la seconda che essa con-
cerne il futuro (v. 28b); poi il profeta garantisce l’autenticità del sogno come ri-
velazione divina (“il sogno è verace”) e la correttezza dell’interpretazione che ne
ha data (“l’interpretazione è sicura”).

46 Allora il re Nebucadnetsar cadde sulla sua faccia, si prostrò da-


vanti a Daniele, e ordinò che gli fossero presentati offerte e profumi.

Nel mondo semitico la prostrazione era un gesto riverenziale. In Israele ci si pro-


strava davanti alla Divinità (1Sam. 1:28) ma anche davanti al re (1Sam. 24:9;
2Sam. 14:22) e talvolta davanti al profeta (1Re 18:7).
Tale è stata l’impressione suscitata in Nabucodonosor dalla rivelazione e in-
terpretazione del sogno, che egli vede in Daniele quasi un essere sovrumano.
Eppure Daniele aveva detto tutto quello che si poteva dire (v. 30) per distogliere
l’attenzione del re dalla sua persona e volgerla verso l’Iddio del cielo.

87 - ARNO C.GAEBELEIN, Il profeta Daniele, Rivoli 1989, pp. 42-43.


88 - SILVERIO ZEDDA, L’escatologia biblica, Brescia 1972, vol. I, p. 84.
89 - J. A. MONTGOMERY, “The Book of Daniel” in International Critical Commentary, 1927.
90 - J.WALVOORD, Daniel, 1971.
91 - L.WOOD, Daniel, 1973.
92 - A.LACOCQUE, Daniel, 1976.
93 - J.BALDWIN, Daniel, 1978.

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CAPIRE DANIELE

La prostrazione di Nabucodonosor davanti a Daniele è più che un gesto ri-


verenziale. L’espressione aramaica ûledaniêl segid si può tradurre, come fa G.
Bernini (Nuovissima Versione Della Bibbia): “e adorò Daniele”94. Il seguito del v.
46 rafforza questa comprensione del vocabolo aramaico: il re ordina che siano
offerti a Daniele oblazioni (aramaico minchah) e profumi, come a una divinità.
Il testo si limita a riferire l’ordine del re senza specificare se esso fosse stato ese-
guito. Ripugna l’idea che Daniele, che ha rifiutato le pietanze e le bevande della
mensa reale (1:8) in obbedienza alla legge del suo Dio, possa avere accettato
che la sua persona, sia pure contro la sua volontà, fosse fatta oggetto di culto in
violazione del primo comandamento del Decalogo.
Girolamo, seguito da molti commentatori moderni, ha opinato che Nabuco-
donosor “in Daniele adora il Dio che ha svelato i misteri” e cita un episodio ana-
logo che ebbe a protagonista Alessandro il Macedone95. L’episodio è riferito da
Giuseppe Flavio. Lo storico giudeo riporta che Alessandro in visita a Gerusa-
lemme si genuflette davanti al sommo sacerdote Jaddua, e al suo generale Par-
menio che lo interroga sul significato di quel gesto risponde: “Io non adoro lui,
ma il Dio che lo ha onorato col sommo sacerdozio”96.
Il S.D.A Bible Commentary commenta: “Finora Nabucodonosor ha avuto sol-
tanto una scarsa conoscenza del vero Dio e una conoscenza ancora più ridotta
del modo di adorarlo. Fino a questo momento la sua nozione di Dio si è limitata
al riflesso del suo carattere che si poteva cogliere nella vita di Daniele, e a ciò che
questi aveva detto di Lui. È del tutto possibile che Nabucodonosor, scorgendo in
Daniele il rappresentante vivente degli dèi la cui dimora non è coi mortali’ (v.
11), intendesse rivolgere al Dio di Daniele gli atti di culto offerti a Daniele. Certa-
mente Nabucodonosor con la sua limitata conoscenza del Dio vero fece del suo
meglio per esprimere la sua riconoscenza e onorare Colui la cui sapienza e po-
tenza si erano manifestate in modo così straordinario” (vol. IV, p. 777).

47 Il re parlò a Daniele, e disse: “In verità il vostro Dio è l’Iddio degli


dèi, il Signore dei re, e il rivelatore dei segreti, giacché tu hai potuto
rivelare questo segreto”.

Nabucodonosor riconosce la superiorità del Dio dei giovani ebrei (“il vostro
Dio”). L’espressione “l’Iddio degli dèi” è una forma superlativa che equivale a
“l’Iddio supremo”. Inoltre il sovrano di Babilonia pone il Dio di Daniele e dei
suoi compagni al di sopra di tutti i potentati terreni col riconoscerlo “Signore dei
re”. LEUPOLD osserva con ragione che nulla poteva dimostrare meglio quale fosse
l’intenzione di Nabucodonosor nell’offrire oblazioni e profumi davanti a Daniele:

94 - Vedi W.GENESIUS, Hebrew-Chaldee Lexicon..., alla voce segid; vedi anche S.D.A. Bible Com-
mentary, vol. IV, pp. 776-777.
95 - Girolamo su Daniele, p. 50.
96 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudiache, XI. 8, 5.

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CAPITOLO 2

la sconfinata ammirazione del re è rivolta non a Daniele, ma al Dio di Daniele.


Nel mito babilonese della creazione, “Signore dei re” è il titolo dato a Mar-
duk, la suprema divinità del pantheon babilonese, e Nabucodonosor certamente
non lo ignora, giacché al principio di ogni anno, durante i solenni festeggiamenti
dell’akitu egli entra nel tempio di Marduk per essere reinvestito dal dio dell’au-
torità regale. Il re sa anche che il figlio di Marduk, Nebo, di cui egli porta il
nome, è la divinità che redige le Tavole del Destino. Ora è costretto a ricono-
scere che il Dio di Daniele e dei suoi compagni è più grande o quanto meno al-
trettanto grande che Marduk e Nebo, poiché conosce e svela i segreti come gli è
stato dimostrato attraverso il suo servo Daniele.

48 Allora il re elevò Daniele in dignità, lo colmò di numerosi e ricchi


doni, gli diede il comando di tutta la provincia di Babilonia, e lo sta-
bilì capo supremo di tutti i savi di Babilonia.

Non una bramosia di ricompensa e onorificenze ha spinto Daniele a presentarsi


davanti al re per svelargli e interpretargli il sogno, ma soltanto il desiderio di
esaltare il suo Dio davanti al re di Babilonia e al suo popolo (vv. 28, 29, 37, 45),
pur se l’occasione era stata, come sappiamo, il decreto di sterminio dei sapienti
del regno. Eppure il servo di Dio riceve cose che non ha desiderato e ricercato.
Nabucodonosor aveva promesso “doni, ricompense e grandi onori” a chiunque
gli avesse svelato e interpretato il sogno (v. 6).
Adesso, fedele alla sua promessa, tratta Daniele con regale munificenza. “Il
re elevò Daniele in dignità”, vale a dire lo promosse a un rango sociale supe-
riore; “lo colmò di numerosi e ricchi doni”, consistenti verosimilmente in abiti
pregiati e oggetti preziosi; “gli diede il comando di tutta la provincia di Babilo-
nia”, cioè, probabilmente, gli conferì il governatorato della regione caldea; e fi-
nalmente “lo stabilì capo supremo (piuttosto capo dei prefetti) di tutti i savi di
Babilonia” rispetto ai quali Daniele aveva, in effetti, mostrato una sapienza supe-
riore, anche se egli, con molta umiltà, non si riconoscesse più saggio degli altri
viventi (v. 30). Come capo dei prefetti dei sapienti, Daniele deve esercitare la su-
pervisione sulle attività di questi uomini influenti, ma questo non implica affatto
che egli debba condividerne le credenze e le pratiche religiose.

49 E Daniele ottenne dal re che Shadrac, Meshac e Abed-nego fossero


preposti agli affari della provincia di Babilonia; ma Daniele stava
alla corte del re.

Daniele non dimentica i compagni. Essi hanno diviso con lui i momenti di ansia
e di preghiera, è giusto che ne condividano gli onori. Domanda per ciascuno di
loro, e ottiene dal re, un incarico amministrativo nella “provincia di Babilonia”,
verosimilmente la regione caldea, che il re aveva posto sotto l’amministrazione
di Daniele. Quanto a lui, Daniele, egli svolgerà il suo alto incarico dal palazzo
reale (letteralmente della “porta del re”) per essere pronto a qualsiasi richiesta
del sovrano.

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CAPIRE DANIELE

Capitolo 3
____________________________

U na statua è il tema comune dei capitoli 2 e 3 di Daniele. Elemento figurativo


nel sogno-rivelazione del capitolo secondo, essa compare come concreto og-
getto materiale nel capitolo terzo. Nel sogno l’immagine pareva avere la testa
d’oro e le altre parti del corpo, dal busto in giù, di metalli di valore decrescente.
Nella realtà essa è d’oro dalla testa ai piedi. Nell’interpretare il sogno del re,
Daniele aveva identificato con Nabucodonosor la testa d’oro della statua, ovvero
con l’impero di Babilonia di cui il sovrano era come l’incarnazione vivente. E
aveva aggiunto che dopo Babilonia sarebbe sorto un altro regno.
La realizzazione da parte di Nabucodonosor di una grande statua d’oro -
probabile raffigurazione dell’impero e della divinità suprema di Babilonia sotto
la cui tutela esso era posto - e la sua solenne dedicazione alla presenza dei
grandi dell’impero, hanno tutta l’apparenza di una sfida ai decreti dell’Iddio del
cielo: una statua tutta d’oro è contrapposta ad una sola testa d’oro, come a signi-
ficare che non ci sarà un dopo Babilonia.
I tre compagni di Daniele, oramai inseriti nell’apparato amministrativo
dello stato babilonese, figurano tra i dignitari convocati per la dedicazione della
statua (Daniele è assente per motivi che il testo non spiega).
Il racconto giunge presto a una tensione drammatica. Poiché è una cerimo-
nia pagana quella che sta per avere luogo, la presenza dei giovani giudei prelude
a un conflitto sicuro. È certo che Shadrac, Meshac e Abed-Nego non compiranno
un atto che ripugna alla loro coscienza, e d’altra parte l’ordine del re non am-
mette disattenzioni e la pena minacciata ai trasgressori è delle più atroci. I com-
pagni di Daniele sono pronti a subire il supplizio del fuoco piuttosto che tradire la
fede dei padri. Inaspettatamente per il re e i suoi funzionari, il dramma si risolve
con la liberazione miracolosa dei tre giovani che hanno reso una splendida testi-
monianza di fede nel potere illimitato del Dio che essi servono. L’episodio è stato
giudicato leggendario dalla critica liberale, mentre la ricerca biblica conserva-
trice ne ha sempre difeso l’autenticità. In effetti, come si vedrà nel commento, ri-
scontri biblici, letterari e archeologici conferiscono credibilità al racconto.

1 Il re Nebucadnetsar fece una statua d’oro, alta sessanta cubiti e


larga sei cubiti, e la eresse nella pianura di Dura, nella provincia di
Babilonia.

Sull’esistenza di statue gigantesche nel mondo antico ci ragguagliano le fonti sto-


riche. ERODOTO (Storia, I, 183), ci dà notizia di una grande statua di Zeus assiso

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CAPITOLO 3

sul trono posta in uno dei santuari di Babilonia. Non ne dà le misure, ma riferi-
sce un’informazione avuta dai sacerdoti secondo la quale erano occorsi 800 ta-
lenti d’oro (circa 24 tonnellate!) per realizzare la statua col trono e il basamento.
Se ne deduce che le dimensioni dovevano essere ragguardevoli.
DIODORO SICULO (2, 9) c’informa su tre immagini d’oro poste sulla sommità
del tempio di Bel in Babilonia, la più alta delle quali misurava 40 piedi (poco
più di 13 metri) e pesava 1000 talenti babilonesi.
Il primato per quanto concerne le antiche statue gigantesche spetta comun-
que al Colosso di Rodi. Era questo una figura di guerriero alta 70 cubiti (circa 32
metri) eretta verso il 304 a.C. all’entrata del porto dell’isola. Le lamine di bronzo
che ne ricoprivano il supporto ligneo erano state ricavate dalle armi e dagli scudi
lasciati sul terreno da Demetrio Poliorcete dopo un vano tentativo di impadronirsi
dell’isola nel 305 a.C. Annoverata fra le sette meraviglie del mondo antico, la
grande statua eretta in onore del dio Elios fu distrutta da un terremoto nel 224 a.C.
In Egitto si possono ancora ammirare, nella necropoli di Tebe, due statue di
pietra alte circa 20 metri, i cosiddetti Colossi di Memnon, raffiguranti Amenofi III,
e più a sud, ad Abu-Simbel, dominano la pianura antistante quattro figure di
Ramses II alte quanto le precedenti, scolpite sulla parete rocciosa del tempio fu-
nerario di questo faraone.
Le dimensioni della grande statua che, secondo Daniele, Nabucodonosor
fece erigere nella Piana di Dura, non debbono comunque destare meraviglia. Le
misure che ce ne dà il nostro libro (60 x 6 cubiti) rispecchiano il sistema metrico
sessagesimale che come è noto nacque in Mesopotamia e fu d’uso corrente in
Babilonia97.
Il rapporto fra l’altezza e la larghezza della statua su cui ci ragguaglia Da-
niele (10 a 1) è chiaramente sproporzionato se le misure si riferiscono alla sola
figura umana. Infatti le proporzioni normali della figura umana sono di circa 5 a
1. È intuitivo però che la misura dell’altezza indicata da Daniele deve compren-
dere anche quella della base. In un’iscrizione aramaica del VII secolo a.C. rinve-
nuta a Nerab, presso Aleppo, il vocabolo {"lc : tzelem tradotto “statua” in Dn 3:1
indica una stele recante nella parte alta un busto umano in rilievo98. In Daniele
zelem può benissimo designare la figura umana col suo piedistallo, il che giusti-
ficherebbe il rapporto 10 a 1 fra l’altezza e la larghezza.
Si è obiettato che sono inverosimili sia l’altezza della statua (circa 27 metri)
che la sua composizione aurea. Per quanto riguarda l’altezza, si è visto che
quella del Colosso di Rodi, posteriore di circa due secoli, la superava di circa 5
metri. Il genitivo di materia (“statua d’oro”) non implica necessariamente che
l’immagine fosse fatta d’oro massiccio. Le grandi statue metalliche nell’antichità,
come si è visto a proposito del Colosso di Rodi, consistettero di un supporto li-
gneo o di altro materiale rivestito di lamine metalliche. Ricorre altrove nell’Antico
Testamento questa forma genitivale per indicare che un oggetto era fatto par-

97 - Vedi G.CONTENAU, La Mesopotamia prima di Alessandro, p. 249.


98 - J. A. MONTGOMERY, “The Book of Daniel” in International Critical Commentari, 1927.

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CAPIRE DANIELE

zialmente di un certo materiale. “L’altare d’oro” (Es 39:38) e “l’altare di rame” (Es
39:39) del santuario mosaico in realtà erano fatti di legno d’acacia rivestito d’oro
nel primo caso (Es 37:25, 26) e di rame nel secondo (Es 38:1, 2).
Le “case d’avorio” a cui allude Am 3:14 (vedi anche 1Re 22:39) erano edifici
in muratura con le pareti delle sale ornate di pannelli d’avorio, come hanno rive-
lato gli scavi di Samaria e di Nimrud99.
Sebbene oggi non sia possibile individuare con sicurezza il luogo della fa-
stosa cerimonia di cui parla Daniele, è certo che il toponimo menzionato, Dura,
è d’origine babilonese (l’accadico duru significa circonferenza, muro o luogo
cinto da mura). Nella regione di Babilonia “Dura” si applicava a qualsiasi luogo
circondato da mura100. Il toponimo antico sopravvive tuttora nel nome di un
emissario dell’Eufrate (Nahr Dûra) che scorre a una decina di chilometri a sud di
Babilonia, come pure nel nome delle colline adiacenti. Inoltre Tolûl Dûra è il
nome di una pianura a circa 8 chilometri a sud-est di Babilonia, ove un rialzo di
pietre di 14 metri di lato per 6 di altezza potrebbe essere stato la base dello ze-
lem di cui parla Daniele101.
Sulla data dell’episodio il testo aramaico non offre alcuna indicazione; i testi
greci dei LXX e di Teodozione invece - e non si sa su quale base - datano l’avve-
nimento nell’anno 18° di Nabucodonosor, un anno prima della conquista e di-
struzione di Gerusalemme.
Qualche commentatore ha opinato, sulla base di Gr 51:59 che allude a un
viaggio di Sedechia a Babilonia nell’anno IV del suo regno (594/93 a.C.), che il
re giudaita possa essere stato convocato da Nabucodonosor come principe vas-
sallo per partecipare alla cerimonia descritta nel capitolo terzo di Daniele102. È
soltanto una possibilità.

2 E il re Nebucadnetsar mandò a radunare i satrapi, i prefetti, i go-


vernatori, i giudici, i tesorieri, i giureconsulti, i presidenti e tutte le
autorità delle province, perchè venissero all’inaugurazione della
statua che il re Nebucadnetsar aveva eretta. 3 Allora i satrapi, i pre-
fetti e i governatori, i giudici, i tesorieri, i giureconsulti, i presidenti
e tutte le autorità delle province s’adunarono per la inaugurazione
della statua, che il re Nebucadnetsar aveva eretta; e stavano in pié
davanti alla statua che Nebucadnetsar aveva eretta.

Il re convoca per la cerimonia di dedicazione della statua i rappresentanti delle


province e dei poteri dell’impero. “Lo spettacolo della folla dei funzionari grandi
e piccoli, civili, militari e della giurisprudenza che si prostrano all’unisono da-

99 - Vedi S. H. HORN, Pietre che parlano, Firenze 1963, pp. 81, 82.
100 - Vedi LEUPOLD, op. cit., p. 137.
101 - Idem, p. 138.
102 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, pp. 779, 780.

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CAPITOLO 3

vanti all’immagine, deve aver prodotto un effetto irresistibile quale imponente


esibizione della potenza dell’impero. Ma soprattutto la cerimonia fu per i convo-
cati un’occasione per rinnovare un corale giuramento di fedeltà all’impero e al
suo sovrano invitto”103.
Daniele menziona sette categorie di funzionari statali: ’achashdarpenayya’,
sàtrapi; sighnayya,’ prefetti, governatori; pachawatha’, governatori, luogotenenti,
prefetti; ’adargazrayya’, giudici, generali, consiglieri; ghedovrayya’, tesorieri; de-
tovrayya’, giureconsulti, giudici; tiftaye’, presidenti, questori, magistrati.
Il significato e la derivazione di parte di questi termini aramaici sono ancora
incerti. Si possono però ricavare le seguenti spiegazioni sul significato dei voca-
boli aramaici sopra elencati:
’Achashdarpenayya’ [)æYná P: r : D
a $
: x A ] Nel periodo persiano era il titolo con cui
a )
si designavano i funzionari posti a capo delle satrapie che erano le divisioni
maggiori dell’impero104.
“Per quanto riguarda ’achashdarpenayya’, oggi non si insiste più su una
sua origine persiana, dato che il termine, nella forma satarpanu, è stato trovato
in testi cuneiformi dell’epoca di Sargon II (VIII secolo a.C.). Si propende per una
sua origine hurrita”105.
Sighnayya’ [)æYná g: si ] è fatto derivare dall’accadico shaknu. Erano così chia-
mati i funzionari che amministravano le province, cioè i distretti amministrativi
inferiori nei quali erano suddivise le satrapie, quindi le traduzioni “governatori” e
“prefetti” sono entrambe corrette).
La LXX traduce con strathgo¿j. Nell’antica Atene era così chiamato la su-
prema magistratura militare, il comandante delle armate, lo statega. Presso i Per-
siani era il governatore militare di una provincia. Nel Nuovo Testamento era il
capitano delle guardie del tempio.
Pachawatha’ [)ftwæ x A pa ] è sinonimo di sighnayya’, quindi si traduce “gover-
natori” o “prefetti” come fanno tutte le versioni.
’Adargazrayya’ [)æYr a zº Gf r
: d A ] è traducibile con “giudici”, ma il vocabolo per-
a )
siano-medio da cui deriva, andarzaghar, significa “consigliere”.
La LXX traduce con tu¿rannoi, da túrannos che significa: “che avanza ga-
gliardamente”, quindi imperioso, dominante.

103 - LEUPOLD, op. cit., p. 138.


104 - Ciascuna provincia era retta da un satrapo il cui titolo lettermente significa “protettore del
regno”. Succeduto a un precedente re e preposto a un territorio davvero immenso, in effetti era
egli stesso un monarca ed era circondato da una piccola corte. Non solo era responsabile della
amministrazione civile, ma comandava anche i militari reclutati nella satrapia. Quando questa
carica diventò ereditaria, costituì per l’autorità centrale una minaccia che non poteva essere
ignorata. Per far fronte a questa minaccia furono istituiti certi controlli: il segretario, il principale
funzionario amministrativo e il generale che comandava la guarnigione di stanza nella cittadella
della capitale di ciascuna satrapia erano direttamente agli ordini del gran re in persona, e dove-
vano far rapporto a lui. A. T. OLMSTEAD, History of the Persian Empire, 1948, p. 59.
105 - S.D.A. Bible Commentary, p. 781.

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CAPIRE DANIELE

Ghedovrayya’ [)æYr a b: df g: ] ha un significato abbastanza sicuro: “tesoriere”. La


sua origine però non è stata ancora determinata. Una forma accadica di deto-
vrayya’, databari, è attestata nelle fonti cuneiformi. È possibile che i babilonesi
avessero tesorerie in diverse parti dell’impero106. I persiani le avevano, e in que-
ste tesorerie provinciali si custodiva parte del denaro raccolto sotto forma di
tasse dai satrapi.
Detovrayya’ [)æYr a b
: tf D: ] significa propriamente “giudice”; tiftaye’ “capo della
polizia”. Tiftaye’ si trova nei papiri aramaici di Elefantina con identica forma e si-
gnificato (“funzionario di polizia”). Shiltoney, tradotto “autorità” nella Riveduta,
designa i funzionari subalterni di qualunque categoria (da questo vocabolo de-
riva il titolo tuttora in uso di “sultano”)107.
La possibile origine persiana dei titoli ufficiali che ricorrono in Daniele cap.
3 non costituirebbe un problema, dal momento che l’autore del libro visse gli ul-
timi anni della sua vita nel periodo persiano.108 È conforme alla retorica semitica
ripetere le cose nominate, come fa Daniele nel v. 3.

4 E l’araldo gridò forte: “A voi, popoli, nazioni e lingue è imposto


che, 5 nel momento in cui udrete il suono del corno, del flauto, della
cetra, della lira, del saltèro, della zampogna e d’ogni sorta di stru-
menti, vi prostriate per adorare la statua d’oro che il re Nebucad-
netsar ha eretta; 6 e chiunque non si prostrerà per adorare, sarà
immantinente gettato in mezzo ad una fornace di fuoco ardente”.

L’apparato predisposto da Nabucodonosor mira evidentemente a creare


un’atmosfera di intimidazione per modo che la partecipazione al rito sia corale.
La sanzione penale minacciata ha lo scopo di ottenere una dimostrazione una-
nime di sottomissione al sovrano attraverso l’omaggio reso alla divinità da cui il
sovrano ha ricevuto l’investitura.
“Popoli, nazioni e lingue” è un’espressione convenzionale con cui si indica
la totalità delle genti sottoposte all’autorità del sovrano. “Popoli”, aramaico
)æYm : (a ‘ammayya’, designa le unità nazionali maggiori, “nazioni”, aramaico )æYM
a m a )
u
’ummayya’, i gruppi tribali, e “lingue”, aramaico )æYná < i lishshanayya’, i gruppi
f l
etnici parlanti una lingua comune.
L’aramaico )æzOrfk karôza’, “araldo”, “banditore”, nel passato è stato accostato
al greco keryx di eguale significato. Oggi non si riconosce più una relazione fra i
due termini109, essendo stata dimostrata l’origine iranica del vocabolo ara-
maico110.

106 - Un’iscrizione fa dire a Nabucodonosor a proposito del tempio di Merodac: “vi accumulai
argento e oro e pietre preziose ... e vi posi la casa del tesoro del mio regno” (cfr. Ed 1:8). Per-
spicacia nello studio delle Scritture, p. 1102.
107 - S.D.A. Bible Commentary, p. 780.
108 - LEUPOLD, op. cit., p. 140.
109 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 61.
110 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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CAPITOLO 3

Sono invece quasi certamente d’origine greca i nomi di tre dei sei strumenti
musicali ricordati nel v. 5 e ripetuti nei vv. 7, 10 e 15. Essi sono: sort : yaq qaythros
(“cetra”), molto simile al greco kiqa/raj. kitharas; }yirT" nº sa P: pesanterin (“salterio”),
somigliante al greco yalthri¿on psalterion, e hæynº oPm: Us sumponeya’ (“zampogna”),
affine al greco sumfwni¿aj symfonias.
La presenza di queste tre parole greche nel testo di Daniele non è necessa-
riamente indizio di un’origine tardiva del libro. Se questo fosse stato composto
in età ellenistica, dovremmo aspettarci di trovarvi un numero ben maggiore di
vocaboli greci.
Dai ritrovamenti archeologici è risultato sempre più evidente che la cultura
greca penetrò nel Vicino Oriente semitico assai prima dell’epoca di Nabucodo-
nosor111. Contatti commerciali e culturali fra il mondo greco e quello semitico
avvennero fin dal II millennio a.C. (è noto che i Greci mutuarono dai Fenici il
loro alfabeto).
Trattando della distribuzione linguistica nel Vicino Oriente, il prof. Pelio
Fronzaroli osserva che i Greci micenei parteciparono alle vicende culturali di
quest’area geografica già nella seconda metà del II millennio a.C.112. Dalla docu-
mentazione archeologica risulta che insediamenti commerciali ionii erano pre-
senti a Sinope, sul Mar Nero, quando questa località era già un avamposto com-
merciale e militare assiro prima del periodo imperiale113.
La presenza greca lungo le coste dell’Anatolia e della Siria settentrionale è
segnalata in documenti dell’VIII secolo a.C. Dai testi di Sargon II (722-705 a.C.)
veniamo a sapere che una generazione prima di questo sovrano, navigatori greci
frequentavano le coste della Cilicia, e i ritrovamenti archeologici a Tarso hanno
confermato questa notizia114. Sappiamo pure da fonti contemporanee che mer-
cenari greci militavano nell’esercito di Assarhaddon (681-669 a.C.).
La presenza greca in Babilonia è documentata per l’epoca di Nabucodono-
sor. Negli scavi di Carchemish, per esempio, il ritrovamento di uno scudo greco
ha convalidato una notizia di Strabone secondo cui mercenari greci combatte-
vano al fianco dei Babilonesi contro gli Egiziani115.
La presenza dell’arte greca in Babilonia è stata attestata grazie agli scavi ese-
guiti in questa località a partire dalla fine del secolo scorso. Colonne sormontate
da capitelli di stile ionico sono state rinvenute fra le rovine della fortezza meridio-
nale di Babilonia116. Infine, testi cuneiformi del tempo di Nabucodonosor c’infor-
mano che fra gli stranieri che concorsero alla realizzazione dei progetti edilizi di
questo sovrano in Babilonia figuravano carpentieri e altri artigiani ionii e lidii117.

111 - Vedi W. ALBRIGHT, From the Stone Age to Christianity, p. 337.


112 - P. FRONZAROLI, L’alba della Civiltà, a cura di S. MOSCATI, Torino 1976, vol. III, p. 42.
113 - Vedi H. C.LEUPOLD, op. cit., p. 143
114 - Vedi E. CASSIN, Storia Universale Feltrinelli, Milano 1969, vol. 4, p. 123.
115 - Vedi G. PETTINATO, Babilonia centro dell’Universo, Milano 1988, p. 75.
116 - Vedi A. PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, Roma 1973, p. 27.
117 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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CAPIRE DANIELE

I Babilonesi a quel che sembra furono amanti della musica. Ammontano in-
fatti a 53 gli strumenti musicali a corde, a fiato e a percussione menzionati nei
testi cuneiformi, raffigurati nell’iconografia o di cui si sono rinvenuti degli esem-
plari. Tutti gli strumenti dell’orchestra di Nabucodonosor sono attestati in docu-
menti scritti o in ritrovamenti archeologici del VI secolo a.C.118.
Esistono dunque attestazioni più che sufficiente per sostenere che è del
tutto verosimile che strumenti musicali importati dalla Grecia fossero usati in Ba-
bilonia al tempo di Nabucodonosor e fossero conosciuti coi nomi di origine.
L’identificazione degli strumenti musicali nominati da Daniele è abbastanza
sicura. Il corno ()ænr : qa qarna’) era uno strumento a fiato tipicamente semitico ri-
cavato dal corno di qualche animale. Il flauto ()ftyiqOr:$m a mashroqitha’) era uno
strumento a fiato con diverse canne molto in uso fra i semiti. La cetra (sort : yaq
qaythros) era uno strumento a corde d’origine greca col quale di solito si accom-
pagnava la danza. La lira ()fkB : sa sabbeka’), strumento di forma triangolare con 4
corde, era nota rispettivamente coi nomi di sambuke e sambuca presso i Greci e
i Latini i quali la adottarono dai Fenici, come attesta STRABONE spiegando che il
vocabolo è di origine “barbarica”119. Il saltèro (}yirT" nº sa P: pesanterin) era uno stru-
mento a corde di forma triangolare molto usato dai Greci. La zampogna
(hæynº oPm
: Us sumponeya’) era uno strumento a fiato, pure di origine greca, consi-
stente di un certo numero di canne inserite in un involucro gonfiabile di pelle
animale120.

7 Non appena quindi tutti i popoli ebbero udito il suono del corno,
del flauto, della cetra, della lira, del saltèro e d’ogni sorta di stru-
menti, tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue si prostrarono e adora-
rono la statua d’oro, che il re Nebucadnetsar aveva eretta.

Le misure intimidatorie messe in atto con prontezza hanno avuto un effetto im-
mediato. Al suono dell’orchestra “tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue” (cioè a
dire i rappresentanti di tutte le unità nazionali e i gruppi linguistici dell’impero)
si sono prostrati e hanno reso omaggio alla statua.
Questa prostrazione servile è tanto segno di sottomissione al sovrano
quanto riconoscimento della supremazia degli dèi di Babilonia sulle divinità di
tutti i raggruppamenti nazionali rappresentati nella colorita assemblea.

8 Allora, in quello stesso momento, alcuni uomini Caldei si fecero


avanti, e accusarono i Giudei; 9 e, rivolgendosi al re Nebucadnetsar,
gli dissero: “O re, possa tu vivere in perpetuo! 10 Tu, o re, hai ema-
nato un decreto, per il quale chiunque ha udito il suono del corno,
del flauto, della cetra, della lira, del saltèro, della zampogna e d’ogni

118 - Vedi D.J. WISEMAN in The International Standard Bible Encyclopedia, vol. I, p. 401.
119 - STRABONE, Geografia, X, 3.17.
120 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 781.

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CAPITOLO 3

sorta di strumenti deve prostrarsi per adorare la statua d’oro; 11 e


chiunque non si prostra e non adora, dev’esser gettato in mezzo a
una fornace di fuoco ardente. 12 Or vi sono degli uomini giudei, che
tu hai preposti agli affari della provincia di Babilonia: Shadrac, Me-
shac, e Abed-nego; codesti uomini, o re, non ti tengono in alcun
conto; non servono i tuoi dèi, e non adorano la statua d’oro che tu
hai eretta”.

L’intervento di alcuni caldei a danno dei giovani giudei motivato da invidia e ge-
losia professionale piuttosto che da antagonismo razziale e nazionalistico (ciò
sembra evidente dall’appunto velato che muovono al re: “degli uomini giudei
che tu hai preposti agli affari di Babilonia...”)121. Per alcuni quindi questi uomini
apparterrebbero alla casta dei maghi e astronomi-astrologi piuttosto che all’etnia
caldea122 mentre altri sono di parere contrario123.
L’espressione figurata aramaica )¢yd
f Uhºy yiD }Ohy"cr A ’akalu qarzehôn dî
: qa Ulak)
yehûdâye’, letteralmente “divorarono i brandelli dei giudei”, significa “calunnia-
rono”, “accusarono i Giudei”. La formula augurale “O re, possa tu vivere in per-
petuo!” era di prammatica nelle antiche corti orientali (vedi commento a 2: 4).
Prima di formulare i capi d’accusa, i delatori si appellano al decreto che il re ha
appena fatto proclamare e alla sanzione penale che esso prevede per i trasgres-
sori. Shadrac, Meshac e Abed-nego sono accusati di tre gravi delitti contro il so-
vrano, e cioè: di lesa maestà (“non ti tengono in alcun conto”), di insubordina-
zione (“non servono i tuoi dèi”, quindi rifiutano la tua autorità) e di rifiuto del
giuramento di fedeltà attraverso l’omaggio reso alla statua (“non adorano la sta-
tua d’oro che tu hai eretta”).
Le accuse sono calunniose: i giovani giudei non hanno certamente voluto
venire meno alla loro lealtà verso il sovrano, ma poiché questa lealtà doveva ve-
nire espressa attraverso un atto di omaggio alle divinità pagane, essi hanno pre-
ferito lasciarlo credere a costo di sfidare l’ira del re piuttosto che venire meno
alla loro fedeltà al Dio che servono.

13 Allora Nebucadnetsar, irritato e furioso, ordinò che gli fossero


menati Shadrac, Meshac e Abed-nego; e quegli uomini furon menati
in presenza del re. 14 Nebucadnetsar, rivolgendosi a loro, disse:
“Shadrac, Meshac, Abed-nego, lo fate deliberatamente di non servire
i miei dèi e di non adorare la statua d’oro che io ho eretto? 15 Ora,
se non appena udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della
lira, del saltèro, della zampogna e d’ogni sorta di strumenti, siete
pronti a prostrarvi per adorare la statua che io ho fatto, bene; ma
se non l’adorate, sarete immantinente gettati in mezzo a una fornace

121 - S.D.A. Bible Commentary, p. 783.


122 - Vedi LEUPOLD, op. cit., vol. IV, p. 147.
123 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 62.

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CAPIRE DANIELE

di fuoco ardente; e qual è quel dio che vi libererà dalle mie mani?”

È immaginabile quanto possa avere inasprito l’animo di un monarca dispotico il


rifiuto di obbedienza da parte di alcuni suoi funzionari che oltretutto erano stati
da lui favoriti col conferimento di alti incarichi. Quel gesto deve essere stato vi-
sto come incomprensibile segno di ingratitudine oltre che come intollerabile ri-
bellione.
Nabucodonosor ha raccolto la denuncia dei Caldei: l’interrogatorio cui sot-
topone Shadrac, Meshac e Abed-nego verte precisamente sui loro capi d’accusa.
Sembra, tuttavia, che il re stenti a credere che ci siano uomini talmente temerari
da sfidare deliberatamente la sua autorità, e che piuttosto propenda ad ammet-
tere che gli accusati possano non avere compreso il suo proclama (non lo sfiora
il pensiero che il loro atteggiamento possa essere stato dettato da solide motiva-
zioni religiose). Di conseguenza si mostra conciliante verso di loro. Ai giovani
sarà accordata una seconda “chance”, ma guai a loro se persisteranno nel loro
atteggiamento provocatorio! Non sorprendono più di tanto le parole di sfida irri-
verente che Nabucodonosor proferisce all’indirizzo del Dio di Shadrac, Meshac e
Abed-nego del quale aveva riconosciuto la superiorità rispetto a tutti gli dèi.

16 Shadrac, Meshac e Abed-nego risposero al re, dicendo: “O Nebu-


cadnetsar, noi non abbiam bisogno di darti risposta su questo. 17
Ecco, il nostro Dio che noi serviamo, è potente da liberarci, e ci libe-
rerà dalla fornace del fuoco ardente, e dalla tua mano, o re. 18 Se no,
sappi o re, che noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la sta-
tua d’oro che tu hai eretto”.

Noi non conosciamo tutte le formule di rito in uso nella corte imperiale di Babi-
lonia, non siamo dunque in grado di sapere se il vocativo con l’omissione del ti-
tolo regale (semplicemente “O Nebucadnetsar”) sia o non sia conforme all’eti-
chetta di palazzo.
L’atteggiamento dei giovani accusati (“noi non abbiamo bisogno di darti ri-
sposta su questo”) non è segno di arroganza come potrebbe sembrare. È stato
dimostrato attraverso analogie con altre lingue semitiche che il verbo aramaico
tradotto “darti risposta” ha il senso giuridico di “difenderci”, “giustificarci”124.
I giovani dunque dicono semplicemente che rinunciano all’autodifesa. Il
non avere ottemperato all’ordine del re è stato in effetti un atto consapevole e
deliberato, ma del quale Nabucodonosor non potrebbe in alcun modo capire la
ragione.
Il v. 17 nell’aramaico comincia con un “se” che la versione Riveduta omette.
G. BERNINI traduce, conformemente all’aramaico: “Se il Dio che noi serviamo è
capace di liberarci, ci salverà dalla fornace...”125. Così com’è la frase esprime in-

124 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 783.


125 - G. BERNINI, Daniele, p.129.

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CAPITOLO 3

certezza sulla capacità di Dio di salvare dalla fornace, ma certamente non era
questo il sentimento dei giovani giudei. G. RINALDI traduce più coerentemente:
“Se ciò avverrà, il nostro Dio, che noi serviamo, è capace di liberarci...” È una re-
plica ferma e convinta alla sfida di Nabucodonosor: “...e qual è quel dio che vi
libererà dalle mie mani?” (v. 15). Shadrac, Meshac e Abed-nego non dubitano
che il loro Dio è potente da salvarli dal fuoco della fornace, ma non sanno se
vorrà farlo. Se Dio nella sua sovrana libertà avesse deliberato di non salvarli, essi
non desisteranno comunque dal rimanergli fedeli: “Se no (ovvero: Se Dio non
vorrà salvarci), sappi, o re, che noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la
statua d’oro che tu hai eretto (è evidente che l’omaggio reso alla statua equiva-
leva a un atto di venerazione e di sottomissione agli dèi di Babilonia). In ogni
tempo l’eroica determinazione dei compagni di Daniele ha suscitato commo-
zione e ammirazione.

19 Allora Nebucadnetsar fu ripieno di furore, e l’aspetto del suo viso


fu mutato verso Shadrac, Meshac e Abed-nego. Egli riprese la pa-
rola, e si ordinò che si accendesse la fornace sette volte più di quello
che s’era pensato di fare; 20 Poi comandò ad alcuni uomini de’ più
vigorosi del suo esercito di legare Shadrac, Meshac e Abed-nego, e
di gettarli nella fornace del fuoco ardente.

Nabucodonosor aveva mantenuto un atteggiamento conciliante verso Shadrac,


Meshac e Abed-nego. Ma ora il rifiuto esplicito dei giovani di conformarsi alle
sue disposizioni fa esplodere la sua collera ()fmxE chema’, “ira infuocata”). Il mu-
tamento repentino di atteggiamento del re verso i tre giovani è descritto con effi-
cacia: “l’aspetto del suo volto fu mutato” (i lineamenti del suo viso si contrag-
gono e il colore si fa paonazzo).
Nella pianura mesopotamica non esistono cave di pietra, ma lungo il corso
dell’Eufrate abbonda l’argilla. I Babilonesi ne fecero largo uso per produrre mat-
toni. Le fornaci da mattoni in quest’epoca non dovevano essere rare nella pia-
nura di Babilonia e dovettero lavorare a pieno ritmo, stante i vasti progetti edilizi
di Nabucodonosor nella città di Babilonia. Fatte di mattoni cotti, queste fornaci
avevano probabilmente forma tronco-conica con un’apertura in alto per lo sfogo
dei fumi ed una laterale per l’introduzione del combustibile e dei laterizi da cuo-
cere. Per riscaldare le fornaci si adoperava della paglia o del legno sminuzzato
mescolato con bitume (fin da epoca immemorabile il bitume affiora spontanea-
mente nella pianura mesopotamica, notoriamente una delle regioni del mondo
più ricca di giacimenti petroliferi). Questo tipo di combustibile, come è facile ca-
pire, sviluppava un calore molto intenso.
Sulla pratica barbara del supplizio del fuoco in Babilonia ci ragguagliano al-
cuni documenti antichi. Intanto la pena del fuoco per certi delitti era prevista nel
Codice di Hammurabi (25. 110). Questa pena è minacciata a certi servi infedeli
in un testo cuneiforme del II millennio a.C. (il vocabolo per “fornace”, utûnum,
è affine al termine aramaico usato da Daniele, }UTa) ‘attûn). Il genero di Nabuco-
donosor, Nergal-shar-usur, si vanta in una sua iscrizione di avere “bruciato fino

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CAPIRE DANIELE

alla morte gli avversari e i ribelli”126. Anche Geremia ci dà notizia di un fatto si-
mile in 29:22, dove fa riferimento a due pseudo-profeti giudei “che il re di Babi-
lonia ha fatti arrostire al fuoco”.
Nabucodonosor prende tutte le precauzioni per sventare qualunque tenta-
tivo di fuga dei condannati o, addirittura, per prevenire un intervento sopranna-
turale: fa riscaldare la fornace sette volte più di quanto si era pensato e consegna
i malcapitati ai soldati più robusti della sua milizia. E come se non bastasse, li fa
legare per modo che non possano muoversi. “Sette volte di più...”, cioè al mas-
simo grado possibile, probabilmente, secondo qualche commentatore, bruciando
un quantitativo di combustibile sette volte maggiore del consueto. Ancora di più
queste misure precauzionali faranno risaltare il prodigio che sta per avere luogo.

21 Allora questi tre uomini furono legati con le loro tuniche, le loro
sopravvesti, i loro mantelli e tutti i loro vestiti, e furon gettati in
mezzo alla fornace del fuoco ardente. 22 E siccome l’ordine del re
era perentorio e la fornace era straordinariamente riscaldata, la
fiamma del fuoco uccise gli uomini che vi avevan gettato dentro Sha-
drac, Meshac e Abed-nego. 23 E quei tre uomini, Shadrac, Meshac e
Abed-nego, caddero legati in mezzo alla fornace del fuoco ardente.

I condannati sono gettati nella fornace incandescente e con tutti i loro vestiti ad-
dosso perché l’ordine del re deve essere eseguito con la massima rapidità, e
forse anche affinché l’effetto del fuoco sia se possibile ancora più drastico con la
combustione dei panni.
Non è facile oggi tradurre i termini aramaici con i quali sono indicati i capi
di vestiario dei condannati. Il significato più probabile del primo (}Ohy"lfB:ras:B
besarbalêhôn) sembra essere “calzari”; il secondo (}Ohy"$y:=Pa pateyshêhôn) può
tradursi “calzoni”; il terzo (}OtflB : ka karbelathôn), d’origine accadica (karballatu)
: r
significa con molta probabilità “copricapo”, e il quarto (}Ohy"$b : levushehôn) desi-
u l
gna gli indumenti in generale.
Un incidente repentino e imprevisto segna drammaticamente l’esecuzione
dell’ordine di Nabucodonosor: una vampa di calore erompe dalla bocca della
fornace e investe i soldati che vi hanno gettato i condannati, e in un attimo essi
bruciano come torce. È un primo smacco per il re.
Tra i vv. 23 e 24, i manoscritti greci dei LXX e di Teodozione inseriscono
un’aggiunta apocrifa di 67 versetti (24-90) contenente una preghiera in versi
messa sulla bocca di Azaria (Abed-nego) (vv. 24-25), un breve interludio narra-
tivo in prosa (vv. 46-50) e un cantico in versi attribuito ai tre giovani (vv. 51-90).
È la prima di tre aggiunte apocrife al nostro libro le quali, insieme con altri scritti
apocrifi, furono dichiarate deuterocanoniche dal Concilio di Trento nel 1546 e
sono tuttora accolte nel canone anticotestamentario delle versioni cattoliche della
Bibbia. Girolamo tradusse in latino questo lungo brano ma avvertì di non averlo

126 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 782.

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CAPITOLO 3

trovato nei testi ebraici. Effettivamente esso non figura nel Testo Masoretico di
Daniele e, significativamente, non si trova nei frammenti aramaici del nostro li-
bro rinvenuti nelle grotte di Qumrân (anteriori di quasi 1.000 anni al Testo Maso-
retico) uno dei quali contiene i vv. 22-30 del capitolo terzo. È incerto se il brano
aggiuntivo, che da vari studiosi è fatto risalire all’inizio del I secolo a.C., sia stato
composto originariamente in aramaico.

24 Allora il re Nebucadnetsar fu spaventato, si levò in gran fretta, e


prese a dire ai suoi consiglieri: “Non abbiam noi gettato in mezzo al
fuoco tre uomini legati?” quelli risposero e dissero al re: “Certo, o
re!” 25 Ed egli riprese a dire: “Ecco, io vedo quattro uomini, sciolti,
che camminano in mezzo al fuoco, senz’aver sofferto danno alcuno;
e l’aspetto del quarto è come quello d’un figlio degli dèi”.

Il re si era avvicinato al luogo del supplizio e si era posto a sedere a distanza di


sicurezza per controllare di persona che i suoi ordini fossero eseguiti rigorosa-
mente. Dal suo punto d’osservazione egli può vedere agevolmente, attraverso
l’apertura della fornace, quello che avviene all’interno di essa, e quello che vede
lo fa trasalire. Non solo i tre giovani si muovono a loro agio tra i riverberi acce-
canti, come se il calore terrificante non procurasse loro né danni né fastidio, ma
insieme a loro c’è un quarto personaggio che ha un aspetto sovrumano.
Alcune versioni antiche (la King’s James, per esempio), hanno reso “il Figlio
di Dio” l’aramaico }yihl E -rab bar-’elahîn, ma generalmente l’espressione è tra-
f )
dotta, come fa la Riveduta, “un figlio degli dèi”. Il S.D.A. Bible Commentary pre-
ferisce la prima traduzione, la seconda però è più consona alla mentalità del pa-
gano Nabucodonosor. Era comune fuori d’Israele la credenza che esistessero fi-
gli di dèi generati con divinità femminili o con umanissime donne.
Quasi non credendo ai suoi occhi, il re si alza di scatto dal suo scanno e
corre a interpellare i suoi consiglieri per accertarsi che siano stati gettati nella for-
nace soltanto tre uomini.

26 Poi Nebucadnetsar s’avvicinò alla bocca della fornace del fuoco


ardente, e prese a dire: “Shadrac, Meshac, Abed-nego, servi dell’Id-
dio altissimo, uscite, venite!” E Shadrac, Meshac e Abed-nego usci-
rono di mezzo al fuoco.

“Shadrac, Meshac e Abed-nego... uscite...!” È una revoca implicita della con-


danna e un implicito riconoscimento della sconfitta subita. L’Iddio Altissimo che
Shadrac, Meshac e Abed-nego servono ha raccolto la sfida temeraria di Nabuco-
donosor (“e qual è quel dio che vi libererà dalle mie mani?”) e ha risposto come
Egli sa rispondere.
Il quarto personaggio è scomparso dopo che i giovani sono usciti dalla for-
nace, una prova ulteriore della sua appartenenza all’ordine sovrannaturale.
Liberi dai legami e assolutamente indenni, i tre giovani sarebbero potuti
uscire dalla fornace prima che il re lo ordinasse loro. Con ciò hanno dato prova

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CAPIRE DANIELE

che se non hanno reso omaggio alla statua secondo l’ordine del sovrano, non è
stato per avere voluto sfidare la sua autorità, come li si era accusati, ma per mo-
tivi di ben altra natura che adesso Nabucodonosor sembra avere capito e di vo-
lere riconoscere chiamandoli “servi dell’Iddio Altissimo”.
“L’avere Nabucodonosor riconosciuto che il dio dei tre giudei è ‘l’Iddio Al-
tissimo’, non implica necessariamente che il re rinunciasse alla sua mentalità po-
liteista. Il Dio di Shadrac, Meshac e Abed-nego era per lui non l’unico vero Dio,
ma semplicemente il Dio più alto, il Dio supremo sopra tutti gli dèi (i Greci chia-
mavano il loro supremo Zeus, ho hupsistos theos, ‘il dio più alto’). Con questo
senso il termine è attestato anche in Fenicia e più tardi nelle iscrizioni di Pal-
mira”127.

27 E i satrapi, i prefetti, i governatori e i consiglieri del re, essendosi


adunati, guardarono quegli uomini, e videro che il fuoco non aveva
avuto alcun potere sul loro corpo, che i capelli del loro capo non
erano stati arsi, che le loro tuniche non erano alterate, e ch’essi non
avevano odor di fuoco.

È talmente inaudito che degli uomini escano vivi da una fornace infuocata, che
tutti vogliono osservare da vicino i tre giovani oggetto di un simile prodigio. I di-
gnitari fanno ressa intorno a loro e possono constatare de visu che il fuoco non
li ha neanche sfiorati: la capigliatura, la prima parte del corpo a soffrire gli effetti
del calore, è intatta, le tuniche (o meglio, i calzari, come traducono altri) non re-
cano tracce di combustione, i loro corpi non odorano di bruciato.
L’Iddio che essi servono li ha prodigiosamente salvati, manifestando il suo
gran potere davanti gli occhi dei rappresentanti di tutte le province imperiali.
Certo, non tutti hanno potuto osservare da vicino i loro corpi indenni, infatti il
narratore menziona solo tre delle sette categorie di funzionari menzionati nel v.
2: ’achashdarpenayya’ (sàtrapi), sighnayya’ (prefetti) e pachawatha’ (governa-
tori), più una quarta categoria, quella )fKl : m
a y" rb
: D a haddavrê malka’ (consiglieri
f h
del re) nominata per la seconda volta dopo il v. 24. Tutti, comunque, hanno vi-
sto i giovani uscire vivi dalla fornace.

28 E Nebucadnetsar prese a dire: “Benedetto sia l’Iddio di Shadrac,


di Meshac e di Abed-nego, il quale ha mandato il suo angelo, e ha li-
berato i suoi servi che hanno confidato in lui, hanno trasgredito
l’ordine del re, e hanno esposto i loro corpi, per non servire e non
adorare altro dio che il loro! 29 Perciò, io faccio questo decreto: che
chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, dirà
male dell’Iddio di Shadrac, Meshac e Abed-nego, sia fatto a pezzi, e
la sua casa sia ridotta in un immondezzaio; perché non v’è alcun al-
tro dio che possa salvare a questo modo”.

127 - Idem, p. 785.

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CAPITOLO 3

I pagani in genere rispettavano le divinità straniere, tanto più se ad esse si po-


teva accreditare, a torto o a ragione, un qualche prodigio (in questo caso, evi-
dentemente, il fatto portentoso è accreditato a ragione!).
Ammettere nel pantheon nazionale una divinità straniera, o quanto meno
riconoscerne il potere, non era poi un problema. L’atteggiamento di Nabucodo-
nosor verso il Dio dei Giudei è conforme a questa mentalità. Il prodigio di cui è
stato spettatore ha suscitato nel re timore e riverenza verso questo Dio talmente
potente. Egli non può non ammettere che sia stato lui a liberare dal fuoco, con
la mediazione di un suo inviato, i giovani che hanno avuto fiducia in lui. Questo
non significa però - sia detto ancora una volta - che egli rinunci alla sua menta-
lità politeistica.
Adesso Nabucodonosor ha capito e riconosce che non è stato per temeraria
rivolta contro la sua autorità che i giovani giudei hanno trasgredito il suo ordine,
ma soltanto “per non servire e non adorare altro dio che il loro”.
Il re emana seduta stante un decreto col quale si fa obbligo a tutti i gruppi
etnici e linguistici del suo impero di rispettare e riverire il Dio di Shadrac, Me-
shac e Abed-nego. La sanzione che dovranno subire i trasgressori di questo de-
creto è identica a quella che doveva abbattersi sui sapienti di Babilonia rei di
non avergli saputo rivelare il sogno (vedi commento a 2: 5).

30 Allora il re fece prosperare Shadrac, Meshac e Abed-nego nella


provincia di Babilonia.

Il rifiuto di ubbidire all’ordine del re nella piana di Dura aveva fatto decadere
automaticamente dai loro incarichi ufficiali Shadrac, Meshac e Abed-nego. Ora
essi sono reintegrati in quegli incarichi, dopo che per l’intervento del Dio che
servono sono scampati ad una morte atroce.
Il verbo xalc a hatzlach, “fece prosperare”, “promosse”, fa pensare che i gio-
: h
vani siano stati posti dal re nelle condizioni più favorevoli per svolgere le loro
mansioni amministrative con pieno successo. L’esito felice della vicenda è enfa-
tizzato per mostrare che Dio rimunera i suoi figli che lo servono con fedeltà.

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CAPIRE DANIELE

Capitolo 4
____________________________

I l racconto di questo capitolo ha qualche somiglianza con la storia narrata nel


capitolo 2. Anche in questo episodio Nabucodonosor ha un sogno che i maghi
di Babilonia non sanno interpretare. E anche qui l’intervento di Daniele è risolu-
tivo. Ma se vi sono analogie fra le due storie, vi sono anche differenze. Nel cap. 4
il sogno non è stato dimenticato e non c’è minaccia di morte a carico dei maghi
reticenti. E ancora, a differenza del primo episodio, nel secondo il sogno prean-
nuncia un evento infausto per il re di Babilonia. Evento che si compie puntual-
mente perché Nabucodonosor ha esaltato se stesso anziché l’Iddio Altissimo.
Ridotto in uno stato di abbrutimento a causa di una rara malattia mentale,
il sovrano vaga per i campi come una bestia selvatica. Trascorso il tempo predetto
da Daniele, Nabucodonosor, forse in un momento di lucidità, prende coscienza
della sua condizione miserevole, benedice l’Iddio Altissimo, ne esalta la signoria
eterna e riacquista le facoltà mentali così come Daniele aveva detto.
Singolare è la forma letteraria del racconto. Prima di tutto perché si apre e
prosegue nella forma di un proclama rivolto a tutti i popoli dell’impero, poi perché
i verbi e i pronomi sono alla prima persona fino al v. 18, passano alla terza per-
sona nel v. 19 e ritornano alla prima persona nel v. 34.
Nella versione italiana della Bibbia utilizzata in questo commentario,
conformemente ad alcuni codici di versioni antiche, il cap. 4 si apre col pream-
bolo del proclama di Nabucodonosor.
Nel Testo Masoretico invece, seguito da numerosi codici di versioni antiche e
da molte versioni moderne, questo capitolo esordisce col racconto di Nabucodono-
sor in prima persona; in altre parole i primi 3 versetti del cap. 4 nella versione Ri-
veduta di Giovanni Luzzi, figurano nel testo Masoretico come gli ultimi 3 (31-33)
del capitolo terzo. Non v’è dubbio che questi tre versetti stanno al loro posto al prin-
cipio del cap. 4. Infatti la vicenda del cap. 3 è già conclusa nel v. 30 con l’osserva-
zione che i compagni di Daniele scampati al giudizio del fuoco sono stati reinte-
grati nei loro incarichi pubblici, mentre il proclama che il re rivolge a tutti i popoli
del suo impero per far conoscere i segni e i prodigi che l’Iddio del cielo ha fatto
nella sua persona, introduce in modo del tutto naturale il racconto del cap. 4.

1 “Il re Nebucadnetsar a tutti i popoli, a tutte le nazioni e le lingue,


che abitano su tutta la terra. La vostra pace abbondi.

La narrazione comincia e prosegue fino a un certo punto nella forma di un pro-


clama che il re Nabucodonosor ha rivolto alle genti dei suoi vasti domini (“po-

93
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CAPITOLO 4

poli... nazioni e lingue”, vedi commento a 3:4) le cui dimensioni geografiche


sono iperbolicamente enfatizzate (“su tutta la terra”).
Il proclama si apre con un preambolo redatto nell’antica forma epistolare,
con l’indicazione del mittente (“il re Nabucodonosor”) e dei destinatari (“a tutti i
popoli, a tutte le nazioni e lingue”) seguita dal saluto augurale (“la vostra pace
abbondi”). “L’indirizzo a tutto il mondo civile era abituale (cfr. 6:26) nei docu-
menti usciti dalle cancellerie dell’antico Oriente”128.
Forme varianti di saluti augurali si trovano anche in decreti imperiali e in un
documento epistolare di età persiana riportati nel libro di Esdra (4:17; 7:12, [BG,
5:7]). Una formula augurale si legge nei Papiri aramaici di Elefantina del V secolo
a.C.: “Possa l’Iddio del cielo procacciare la salute di...”129. Un editto reale rinve-
nuto da Rawlinson in Mesopotamia si chiude con la formula: “Possa il mio saluto
rallegrare il vostro cuore”130.

2 M’è parso bene di far conoscere i segni e i prodigi che l’Iddio altis-
simo ha fatto nella mia persona. 3 Come son grandi i suoi segni!
Come son potenti i suoi prodigi! Il suo regno è un regno eterno, e il
suo dominio dura di generazione in generazione.

Nabucodonosor ha voluto rendere di pubblico dominio nei territori del suo im-
pero una drammatica vicenda personale che riconosce come un giudizio dell’Id-
dio Altissimo. Dichiarato lo scopo del proclama, il re pronuncia una dossologia
per esaltare in vibranti versi lirici la potenza di questo Dio, che si è resa manife-
sta nella sua persona, e la sua signoria imperitura.
Poiché non si conoscono casi paralleli nei documenti antichi, vari autori
moderni hanno definito storicamente assurdo questo proclama che Daniele attri-
buisce al re Nabucodonosor. Il S.D.A. Bible Commentary131 ribatte giustamente
che gli argomenti basati sul silenzio delle fonti non sono decisivi. La Scrittura de-
scrive avvenimenti che non hanno riscontri nei documenti coevi che sono a no-
stra conoscenza (si pensi per esempio alla distruzione di Gerusalemme per
mano di Nabucodonosor), eppure nessuno ne contesta l’attendibilità. “Questo
tipo di approccio - osserva Leupold - fa della storia extra-biblica il criterio per
decidere che cosa sia o non sia credibile e ragionevole nell’ambito della rivela-
zione”132.
Su radicali riforme religiose promosse da qualche sovrano del mondo an-
tico siamo comunque informati dalle fonti storiche. Si sa, per esempio, che il fa-
raone Amenofi IV nel secolo XIV a.C. ripudiò la religione politeistica degli avi e
istituì nell’Egitto una sorta di culto monoteistico rivolto all’antica divinità solare

128 - G. RINALDI, op. cit., p. 77.


129 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 788.
130 - H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 168.
131 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV , p. 788.
132 - H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 168.

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CAPIRE DANIELE

Aton in onore della quale eresse un tempio nella nuova capitale Aketaton e
mutò il proprio nome in Ikhnaton.
Un’analoga rivoluzione religiosa pare essere avvenuta in Mesopotamia cin-
que secoli più tardi: indizi concreti fanno pensare che durante il regno di Adad-
nirari III (810-782 a.C.) Nabu, dio di Borsippa, fosse proclamato unica o princi-
pale divinità di Ninive133.

4 Io, Nebucadnetsar, stavo tranquillo in casa mia, e fiorente nel mio


palazzo. 5 Ebbi un sogno, che mi spaventò; e i pensieri che m’assali-
vano sul mio letto, e le visioni del mio spirito m’empiron di terrore.

Il proclama prosegue col racconto di Nabucodonosor in prima persona. “Stavo


tranquillo in casa mia...”. L’episodio sembra potersi situare nell’ultimo scorcio del
lungo regno di Nabucodonosor quando, terminate le guerre di conquista, il
grande sovrano assicurò lunghi anni di pace e prosperità al paese. “... Fiorente
nel mio palazzo...”: l’aramaico }án(: r
a ra‘anan, lett. “essere verdeggiante”, era usato
metaforicamente per indicare la condizione di qualcuno che prosperava in circo-
stanze particolarmente fortunate (W. GESENIUS).
L’espressione, nello stesso tempo che enfatizza l’opulenza di Babilonia, an-
ticipa l’argomento della prima parte del sogno descritto nei versetti seguenti.
Ancora un sogno dunque, un sogno che turba la tranquillità del re, anzi che
lo terrorizza (si tenga presente l’importanza che si annetteva ai sogni in Babilo-
nia - vedi commento a 2:1). Nabucodonosor sembra che colga nel sogno una
vaga premonizione infausta. “La repentinità con cui è introdotto questo versetto -
commenta Leupold - è un artificio letterario per indicare che il sogno soprav-
venne in modo del tutto inaspettato”134. L’emozione che il re ha provato durante
il sogno si rinnova e intensifica al risveglio mentre egli riflette sulle cose viste e
le parole udite nel sogno stesso (“le visioni del mio spirito”).

6 Ordine fu dato da parte mia di condurre davanti a me tutti i savi


di Babilonia, perché mi facessero conoscere l’interpretazione del so-
gno. 7 Allora vennero i magi, gl’incantatori, i Caldei e gli astrologi; io
dissi loro il sogno, ma essi non poterono farmene conoscere l’inter-
pretazione.

Il fallimento di cui si dà notizia nel cap. 2 non sembra avere scosso la fiducia di
Nabucodonosor nei poteri dell’arte divinatoria babilonese. Sono convocati nel
palazzo i professionisti della mantica, una prima volta designati con un termine
collettivo (lebb
f y"myiKx a chakkîmê bavel, “i sapienti di Babilonia”) e una seconda
volta distinti in 4 categorie: )Yam+ u r a chartummayyâ’, ) Yæ pa $
: x f ’ashfayyâ’, )
: ) " yfD: &Ka ka-
shdday’e e )æYr a º zgf gazraya’ (per i significati vedi commento a 2:2, 3). Ma il re non

133 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, ivi p. 996.


134 - H. C. LEUPOLD, op. cit., pp. 172, 173.

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CAPITOLO 4

esige da loro che indovinino il sogno come nell’episodio precedente perché sta-
volta il sogno non lo ha dimenticato (“io dissi loro il sogno”). Tuttavia i profes-
sionisti della divinazione ancora una volta rimangono muti davanti alla richiesta
del re. Essi avranno certamente intuito il significato infausto del sogno, ma non
avrebbero saputo dire più di questo. Oltretutto non era piacevole, e poteva an-
che essere pericoloso per loro, annunciare al sovrano un presagio nefasto, sia
pure senza poterne precisare la natura.

8 Alla fine si presentò davanti a me Daniele, che si chiama Beltsat-


sar, dal nome del mio dio, e nel quale è lo spirito degli dèi santi; e io
gli raccontai il sogno.

Daniele riappare per la prima volta sulla scena dopo l’episodio del cap. 2. Non è
chiaro se sia stato convocato dal re o se si sia presentato di sua iniziativa. Se è
valida la prima ipotesi, che effettivamente sembra la più verosimile, Nabucodo-
nosor può aver voluto prima ascoltare il responso degli specialisti nazionali della
divinazione, poi, visto il silenzio di questi, avrebbe consultato l’esperto straniero.
Ma si può anche supporre che Daniele fosse stato convocato insieme con
gli altri sapienti, ma che qualche motivo a noi sconosciuto gli abbia impedito di
ottemperare subito all’ordine del re. L’ipotesi di una presentazione spontanea di
Daniele sembra la meno probabile. Bisognerebbe ammettere che il re Nabuco-
donosor lo avesse messo da parte dopo averlo investito di un alto incarico che
tuttora riconosceva (cfr. 2:48 con 4:9).
Nabucodonosor prima nomina Daniele col suo nome giudaico, poi col
nome babilonese che egli stesso gli ha imposto (vedi commento a 1:7). Osserva
giustamente Leupold135 che dopo la lezione che gli era stata impartita attraverso
l’esperienza narrata in questo capitolo, è comprensibile che Nabucodonosor si
preoccupasse di non dire e fare nulla che potesse apparire come un’offesa verso
il Dio di Daniele, ciò che appunto avrebbe significato il non tenere conto del
nome originale di quest’uomo (Dani’el = “Dio è il mio giudice”) dopo averlo
sostituito con un nome che onorava la sua divinità personale.
La forma plurale dell’espressione aramaica }yi $yiDqa }yi hl E ’elahîn qaddîshîn,
f )
“gli dèi santi”, può anche tradursi al singolare, “l’iddio santo” come rileva il
S.D.A. Bible Commentary136, il quale propende per questa traduzione tanto più
che la versione greca di Teodozione rende la frase: “il quale ha in sé lo spirito
santo di Dio”. Leupold, Rinaldi e altri, come il Luzzi, preferiscono la forma plu-
rale, la quale in effetti, oltre ad attenersi alla letteralità dell’aramaico, tiene conto
del fatto che chi parla è un politeista, anche se rispetta il Dio di Daniele.

135 - Ibidem, pp. 175, 176.


136 - Vol. IV, p. 789.

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CAPIRE DANIELE

9 Beltsatsar, capo dei magi, siccome io so che lo spirito degli dèi


santi è in te, e che nessun segreto t’è difficile, dimmi le visioni che ho
avuto nel mio sogno, e la loro interpretazione.

“Capo dei magi” ()æYM a +


u r a bar rav chartummayyâ’), traducibile anche “capo degli
: x
indovini” (vedi commento a 2:2-3), deve essere l’equivalente di “capo supremo
di tutti i savi di Babilonia” (cfr. 2:48). Nabucodonosor si rivolge a Daniele quale
suo eminente ministro. Per la seconda volta riconosce la presenza in lui dello
“spirito degli dèi santi”, ed esprime la convinzione che non ci sono per lui se-
greti impenetrabili.
“Dimmi la visione che ho avuto...” Poiché nei versetti seguenti Nabucodo-
nosor descrive il sogno, non si capisce il motivo di questa richiesta rivolta a Da-
niele. Teodozione traduce: “Ascolta la visione del sogno che ho avuto...” Questa
lezione è senz’altro più coerente. Varie versioni ed espositori moderni seguono
Teodozione. La Bible de Jérusalem corregge l’aramaico y¢wzº x e hezwê, “visioni”, in
hazî, “ecco”, e traduce: “Ecco il sogno che ho avuto...” Il testo italiano della
C.E.I., Rinaldi, Bernini e altri si attengono a questo modo di leggere il passo.

10 Ed ecco le visioni della mia mente quand’ero sul mio letto. Io guar-
davo, ed ecco un albero in mezzo alla terra, la cui altezza era
grande.

“Io guardavo...” La forma aramaica del verbo esprime azione progressiva (“io
stavo guardando”) e attenta considerazione di ciò che si sta guardando137.
Anche Ezechiele e Isaia usano l’immagine dell’albero per raffigurare una na-
zione (Ez 17:22, 23; 19: 10-14; 31: 3-14; Is 10: 33, 34). In una delle iscrizioni rin-
venute a Wadi Brissa, nel Libano, e pubblicata da F. H. WEISSBACH nel 1906, Ba-
bilonia è paragonata a un grande albero che fa ombra a tutti i popoli138.
Erodoto, in Storie I, 108, riporta un fatto che ha qualche somiglianza con la
storia narrata da Daniele. Egli dice che Astiage re dei Medi sognò che sua figlia
Mandane, andata in sposa a Cambise, principe persiano, partorì una vite che
crebbe fino a coprire tutta l’Asia.
Sollecitato il responso degli interpreti dei sogni, costoro gli predissero che il
figlio di sua figlia avrebbe regnato in vece sua. L’albero visto in sogno da Nabu-
codonosor, l’albero che si erge forte e maestoso nel bel mezzo della terra e
estende i suoi rami in tutte le direzioni potrebbe essere una figura idonea della
nuova Babilonia creata da Nabucodonosor.

137 - Cfr. LEUPOLD, op. cit., p. 178.


138 - Cfr. G. RINALDI, op. cit., pp. 78, 79 e G. PETTINATO, op. cit., p. 17.

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CAPITOLO 4

11 l’albero era cresciuto e diventato forte, e la sua vetta giungeva al


cielo, e lo si vedeva dalle estremità di tutta la terra. 12 Il suo fogliame
era bello, il suo frutto abbondante, c’era in lui nutrimento per tutti; le
bestie dei campi si riparavano sotto la sua ombra, gli uccelli del cielo
dimoravano fra i suoi rami, e ogni creatura si nutriva d’esso.

L’immagine è imponente. Le dimensioni dell’albero, il suo vigore, la sua flori-


dezza, tutto è superlativo e tutto sembra potersi riferire alla gran città che do-
minò il mondo tra il 605 e il 539 a.C.
“... ecco un albero in mezzo alla terra”. Spesso nelle iscrizioni reali di que-
sto periodo Babilonia è descritta come il centro del mondo.
“... L’albero era cresciuto e diventato forte”. Sotto la guida energica e illumi-
nata di Nabucodonosor i confini dell’impero di Babilonia si erano dilatati fino a
incorporare tutta la Mesopotamia, la Siria e la Palestina.
“Il suo fogliame era bello, il suo frutto abbondante...” Immagine eloquente
della prosperità e dell’opulenza della nuova Babilonia creazione di Nabucodo-
nosor.
“... c’era in lui nutrimento per tutti...” Nulla potrebbe commentare questa
frase meglio delle parole dello stesso Nabucodonosor che si leggono in una
delle sue numerose iscrizioni: “Nabucodonosor, il re di giustizia, sono Io. La
moltitudine della gente che Marduk, mio signore, ha dato nelle mie mani, go-
verno io con bontà... [...] ... sotto la sua eterna protezione radunai tutti i popoli
per il loro bene. Un governo pieno di abbondanza, anni pieni di benedizioni ga-
rantii al mio paese”139.
Gli storici riconoscono senza riserve a Nabucodonosor i meriti che questo
sovrano ascrive a se stesso. Scrive il prof. Pettinato: “anche se può sembrare
noioso, non mi stancherò di ripetere che la vera grandezza del sovrano Nabuco-
donosor non consiste nel fatto che egli abbia creato un impero e abbia costruito
una degna capitale, quanto piuttosto all’aver regnato con giustizia ed equità,
nell’essere stato, in poche parole, un ‘pastore fedele’ per il suo popolo”140.
Bisogna dire che nell’intento della Rivelazione l’albero grande e maestoso
visto in sogno da Nabucodonosor, vuole raffigurare piuttosto lui stesso che non
la città e l’impero di Babilonia, quantunque nell’antichità il re venisse conside-
rato l’incarnazione vivente del regno e fosse quindi con esso identificato.

13 Nelle visioni della mia mente, quand’ero sul mio letto, io guar-
davo, ed ecco uno dei santi Veglianti scese dal cielo, 14 gridò con
forza, e disse così: - Abbattete l’albero, e tagliatene i rami; scotetene
il fogliame, e dispergetene il frutto; fuggano gli animali di sotto a lui,
e gli uccelli di tra i suoi rami!

139 - G. PETTINATO, op. cit., pp. 182/183.


140 - Ibidem, p. 185.

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CAPIRE DANIELE

Un essere sovrumano compare sulla scena mentre il re contempla nel sogno l’al-
bero maestoso. Questo essere è designato con un termine che non ha riscontri
nell’Antico Testamento (non si deve dimenticare che chi lo usa non appartiene
alla cultura ebraica). L’aramaico ryi( - dal verbo ‘ur, “vigilare” - significa “vigi-
lante”, “uno che sta sempre all’erta”. I LXX lo traducono angelos “angelo”, men-
tre Teodozione si limita a traslitterarlo in caratteri greci [ir]. Nell’apocalittica giu-
daica (Enoch, Giubilei) aggeloi designa gli esseri celesti che eseguono i decreti
divini, vale a dire gli angeli. È improbabile che i Caldei conoscessero la nozione
giudaica espressa da questo termine, come suggerirebbe la versione dei LXX.
Nondimeno l’attributo “santo” aggiunto a “vigilante” (aramaico $yiDqa wº ryi( ‘ir we-
qaddêsh, letteralmente “un vigilante e santo”) e la natura sovrumana (“scese dal
cielo”) di questo essere cui nulla sfugge, fanno pensare che Nabucodonosor
debba avere riconosciuto il lui un messaggero della divinità.
Una sentenza a carico dell’albero è stata emanata in cielo; il “vigilante e
santo” che ne è disceso ha il compito non di eseguirla ma di comandare che
venga eseguita. Egli “gridò con forza”, questa frase sottolinea l’autorità di cui è
stato investito l’essere sovrumano. Non uno ma più giustizieri eseguiranno la
sentenza (gli imperativi sono tutti al plurale: “abbattete... tagliate... scuotete... di-
sperdete...”). L’identità dei giustizieri non è rivelata, ma si può presumere che
appartengano alla stessa natura e al medesimo rango del “vigilante e santo” (il v.
17 menziona i “vigilanti”, al plurale, ‘irîn).
L’azione punitiva a carico dell’albero deve essere severa: non questo ha da
essere abbattuto, ma i suoi rami dovranno essere tagliati, il suo fogliame scosso
e il suo frutto disperso sì che le creature che si riparavano in esso e di esso si
nutrivano se ne fuggano lontano. Il significato nefasto del sogno è evidente.

15 Però, lasciate in terra il ceppo delle sue radici, ma in catene di


ferro e di rame, fra l’erba de’ campi, e sia bagnato dalla rugiada del
cielo, e abbia con gli animali la sua parte d’erba della terra.

Il castigo decretato a carico dell’albero sarà severo ma non radicale. L’ordine di


lasciare in terra il ceppo con le sue radici contiene l’annuncio implicito di una ri-
fioritura (cfr. Gb 14: 7; Is 11: 1). La metafora è riferita a Nabucodonosor, non
alla sua dinastia. La pratica di stringere con catene o legami metallici i ceppi
delle piante tagliate è sconosciuta alle fonti antiche né si comprende quale
scopo potrebbe avere avuto (è da rifiutare, perché non ha alcun fondamento nel
testo, qualunque relazione fra il ferro e il rame mentovati in questo passo e gli
stessi metalli di cui si parla nel cap. 2).
Secondo Girolamo, le catene che cingono il ceppo nel sogno sarebbero un
riferimento alla persona di Nabucodonosor immobilizzata con catene vere negli
accessi di follia (è un’ipotesi poco probabile). Più verosimile appare il riferi-
mento alle restrizioni che le alterate condizioni mentali avrebbero imposto al so-
vrano. Il Commentario biblico avventista ritiene più motivato rapportare le ca-
tene soltanto all’elemento figurativo, ossia al ceppo dell’albero abbattuto, e ravvi-
sare in esse un segno della cura che si sarebbe avuta per preservarlo.

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CAPITOLO 4

I commentatori, che applicano le “catene” alla persona di Nabucodonosor,


pensano che a lui si debba anche applicare l’essere bagnato dalla rugiada e que-
sto significherebbe che nel suo vagare per i campi il re colpito da alienazione
mentale non avrebbe alcun riparo per la notte. Quanti invece applicano ancora
al ceppo l’essere bagnato dalla rugiada ravvisano in questo un segno della cura
che si avrà per garantirne la sopravvivenza. Se ci si attiene alla prima ipotesi, la
realtà si sovrappone all’immagine già nella prima frase del v. 15 dopo il punto e
virgola (“e sia bagnato dalla rugiada del cielo”). Se invece è giusta la seconda
ipotesi, allora il trapasso dalla figura alla realtà interviene nella seconda frase (“e
abbia con gli animali la sua parte d’erba della terra”). Che in questo caso il riferi-
mento sia a una persona umana e non al ceppo di una pianta e alla sua radice è
fin troppo ovvio.

16 Gli sia mutato il cuore; e invece d’un cuor d’uomo, gli sia dato un
cuore di bestia; e passino si di lui sette tempi.

Il sovrapporsi dell’oggetto reale alla figura si fa più chiaro e deciso. È evidente


che il riferimento è direttamente alla persona di Nabucodonosor. Secondo la
mentalità semitica il cuore è la sede dell’intelligenza nell’uomo e dell’istinto nella
bestia. Togliere il cuore a un uomo e introdurre in lui un cuore di bestia è una
metafora che significa privarlo dell’intelligenza e abbandonarlo in balia di istinti
animaleschi. È questo che succederà a Nabucodonosor se non si umilierà da-
vanti all’Altissimo e non ne riconoscerà l’eterna signoria.
“Tempi” (aramaico }yénDf (i ‘iddanîn) è reso generalmente “anni” dagli antichi
(i LXX, Giuseppe Flavio, Girolamo, Rashi, Ibn Ezra, Jefet...). Tra i moderni pre-
vale la traduzione letterale “tempi”. Così Luzzi, Rinaldi, Bernini, la Bibbia di Ge-
rusalemme, Osterwald ecc...). Anche Leupold preferisce l’espressione “sette
tempi”, pur riconoscendo che l’aramaico è traducibile anche “sette anni”. Questo
autore propende per un valore simbolico del numero sette (perfezione, compiu-
tezza), quindi opina che dovrà trascorrere tutto il tempo necessario perché Dio
compia la sua opera nell’animo del re141. Lo stesso Rinaldi: “...‘sette’ è indetermi-
nato per ‘molti’, o è numero perfetto, per dire ‘tanti quanti saranno necessari’”142.

17 La cosa è decretata dai Veglianti, e la sentenza emana dai santi,


affinché i viventi conoscano che l’Altissimo domina sul regno degli
uomini, ch’egli lo dà a chi vuole, e vi innalza l’infimo degli uomini.

Nabucodonosor deve sapere che l’ordine di abbattere l’albero non è una frase
banale. È un “decreto”, una “sentenza” e nello stesso tempo una “richiesta” che
procedono dai “vigilanti e santi” (a ragione identificati con gli angeli da molti
commentatori).

141 - Vedi H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 185.


142 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 80.

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CAPIRE DANIELE

Il fato che si abbatterà sul re di Babilonia è stato dunque decretato in un’as-


semblea celeste (ad un’assemblea nel cielo si riferiscono Gb 1:1; 2:6 e 1Re 22:19-
22). La sorte degli uomini è dunque fissata dagli angeli e non da Dio? Non è
questo che vuole dire il passo danielico.
Nel v. 24 il profeta spiega al re di Babilonia che quanto è rivelato nel sogno
“è un decreto dell’Altissimo”. Gli angeli tuttavia non sono esecutori passivi dei
decreti divini: Dio li coinvolge attivamente nelle decisioni solenni che riguardano
i figli degli uomini. Così farà Dio con gli eletti risorti nel giudizio finale (vedi Ap
20: 4).
Nabucodonosor non ha voluto riconoscere che la sovranità che egli esercita
su un vasto impero gli è stata conferita dall’Iddio Altissimo. L’annunciato castigo
gli servirà da lezione, e non a lui soltanto (“affinché i viventi conoscano...”).
Quello che accadrà all’illustre sovrano di Babilonia se non si ravvederà farà co-
noscere a tutti gli uomini che v’è nel cielo un Sovrano più grande del più grande
dei dominatori di questo mondo, e che da Lui ricevono il potere i regnanti di
quaggiù (“il regno... egli lo dà a chi vuole...”). Non è dunque solo per le loro in-
trinseche virtù e capacità che i re della terra acquisiscono ed esercitano il potere:
l’Altissimo “vi innalza (anche) l’infimo degli uomini”. L’elezione del pastorello
Davide a futuro re d’Israele (1Sm 16) è uno dei fatti storici che illustrano questa
dichiarazione paradossale.

18 Questo è il sogno che io, il re Nebucadnetsar, ho fatto; e tu, Belt-


satsar, danne l’interpretazione, giacché tutti i savi del mio regno
non me lo possono interpretare; ma tu puoi, perché lo spirito degli
dèi santi è in te”

Esposto il sogno in ogni dettaglio, il re si aspetta che Daniele, designato col suo
nome babilonese, ne dia l’interpretazione. Il riconoscimento esplicito dell’incapa-
cità degli interpreti ufficiali del regno (“giacché i savi del mio regno non me lo
possono interpretare”) equivale a un’implicita ammissione del fallimento della
scienza ufficiale di Babilonia.
Nabucodonosor dichiara ancora una volta (cfr. v. 8) la sua convinzione che
non ci sono segreti impenetrabili per Daniele, “perché lo spirito degli dèi santi”
è in lui (sul senso di quest’ultima frase vedi il commento del v. 8).

19 Allora Daniele il cui nome è Beltsatsar, rimase per un momento


stupefatto, e i suoi pensieri lo spaventarono. Il re prese a dire: “Belt-
satsar, il sogno e la interpretazione non ti spaventino!” Beltsatsar ri-
spose, e disse: “Signor mio, il sogno s’avveri per i tuoi nemici, e la
sua interpretazione per i tuoi avversari!

“Daniele il cui nome è Beltsatsar...” Il nome ebraico del nostro personaggio ne


evoca l’appartenenza al popolo di Dio, il nome babilonese, lo stato di esule al
servizio di un monarca straniero nemico del suo popolo, verso il quale tuttavia
l’uomo di Dio non nutre risentimenti.

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CAPITOLO 4

In questo frangente l’esule giudeo prova un forte turbamento nel cogliere le


implicazioni sinistre per la persona del re del sogno che questi gli ha esposto:
“(Daniele) rimase per un momento stupefatto...”, aramaico ’eshtomam kesha‘ah
chadah [hfdx A hf($
f K: {amOT:$)e ]. Il verbo shamam nella forma in cui compare in
questo passo significa “essere sgomento”, “essere perplesso”, “essere imbaraz-
zato”143. Non è la paura per una possibile reazione violenta del re di fronte a un
annuncio per lui nefasto che rende perplesso Daniele, ma piuttosto l’imbarazzo
e il dispiacere per dovergli porgere un messaggio infausto. L’aramaico kesha‘ah
chadah, letteralmente “circa un’ora”, qui denota uno spazio di tempo indetermi-
nato ma non brevissimo; una traduzione più accettabile potrebbe essere: “per un
certo tempo”.
“Il re prese a dire...”: il passaggio alla terza persona non è da intendersi ne-
cessariamente, alla stregua di certi critici, come un indizio che da questo punto
un’altra persona stia parlando di Nabucodonosor e di conseguenza il brano che
segue debba ritenersi un’interpolazione. Il passaggio dalla prima alla terza per-
sona e viceversa in un medesimo contesto letterario è una particolarità ricorrente
con una certa frequenza in vari libri dell’A.T. (vedi per es. Ed 7: 13-15; Ne 7: 1,
2; 8: 9, 10; Gr 18: 1,5; Ez 1: 3,4; Za 1: 7,8 ecc...).
Dallo sgomento che traspare sul volto di Daniele, Nabucodonosor intuisce
che il sogno non preconizza niente di buono; comunque si mostra disposto ad
accettarne l’interpretazione quale che essa sia, e rassicura il suo fido ministro:
“Beltsatsar, il sogno e la sua interpretazione non ti spaventino”. Il breve pream-
bolo che Daniele premette all’interpretazione (“Signor mio, il sogno si avveri per
i tuoi nemici e la sua interpretazione per i tuoi avversari”) non tradisce affatto
un’intenzione adulatoria nei confronti del sovrano, ma esprime semplicemente i
sentimenti di deferenza verso una persona rivestita d’autorità.
L’augurare la malasorte ai nemici del re è parso non in armonia con la retti-
tudine di un santo uomo di Dio, per cui si è tentata una diversa lettura della
frase aramaica, come ha fatto il Kliefoth: “Il sogno è per i tuoi nemici”, cioè:
questo è il sogno che i tuoi nemici vorrebbero si avverasse nei tuoi confronti”144.

20 L’albero che il re ha visto, che era divenuto grande e forte, la cui


vetta giungeva al cielo e che si vedeva da tutti i punti della terra, 21
l’albero dal fogliame bello, dal frutto abbondante e in cui era nutri-
mento per tutti, sotto il quale si riparavano le bestie dei campi e fra
i cui rami dimoravano gli uccelli del cielo, 22 sei tu, o re; tu, che sei
divenuto grande e forte, la cui grandezza s’è accresciuta e giunge
fino al cielo, e il cui dominio s’estende fino all’estremità della terra.

Daniele esordisce con l’evocare la figura centrale del sogno quasi con gli stessi
termini con cui l’ha descritta Nabucodonosor, senza trascurare alcun dettaglio

143 - Vedi S.D.A. Bible Commentary.


144 - Cfr. H. C. LEUPOLD, op. cit., p. 190.

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CAPIRE DANIELE

(cfr. vv. 11, 12), segno che il profeta ha seguito con estrema attenzione l’esposi-
zione del sovrano. Quindi, senza prolungare oltre l’attesa ansiosa del suo regale
interlocutore, identifica nel modo più esplicito e diretto il sovrano di Babilonia
nell’albero forte e maestoso: “L’albero... sei tu, o re !”
La prima parte del sogno - e conseguentemente della sua spiegazione - ri-
veste carattere decisamente positivo, riferendosi alla grandezza e potenza di Na-
bucodonosor evidenti a tutti fino al momento presente, nonché alla vastità dei
suoi domini territoriali che Daniele vede in una dimensione iperbolica confor-
memente all’uso orientale (“... il cui dominio si estende fino alle estremità della
terra”). In effetti il prestigio politico (la grandezza) e la potenza militare (la forza)
del grande sovrano di Babilonia si accrebbero considerevolmente, e di pari
passo si dilatarono i confini del suo impero, a mano a mano che egli in un se-
guito di campagne militari fortunate, vinse e sottomise gli staterelli della regione
siro-palestinese e le popolazioni dell’Alta Mesopotamia dopo la sua vittoria sugli
Egiziani nel 605 a.C. Il fasto e lo splendore di Babilonia sono spesso celebrati
con grande enfasi nelle iscrizioni di Nabucodonosor. Questo quadro di potenza
e grandezza senza eguali esaspera il contrasto con la seconda parte del sogno.

23 E quanto al santo Vegliante che hai visto scendere dal cielo e che
ha detto: - Abbattete l’albero e distruggetelo, ma lasciate in terra il
ceppo delle radici, in catene di ferro e di rame, fra l’erba de’ campi,
e sia bagnato dalla rugiada del cielo, e abbia la sua parte con gli
animali della campagna finché sian passati sopra di lui sette tempi -
24 eccone l’interpretazione, o re; è un decreto dell’Altissimo, che sarà
eseguito sul re mio signore:

Daniele introduce l’interpretazione della seconda parte del sogno - come ha fatto
delucidandone la prima parte - ripetendo la descrizione fattane dal re, ma sta-
volta in forma sintetica: riunisce in uno solo i primi dettagli (“distruggetelo” in
luogo di “tagliatene i rami, scuotetene il fogliame, disperdetene il frutto”) e altri
ne omette (“fuggano gli animali di sotto a lui, e gli uccelli di tra i suoi rami” e
“gli sia mutato il cuore; e invece di un cuor d’uomo gli sia dato un cuore di be-
stia”, cfr. vv. 14-16 e relativo commento). Il santo e vigilante che sentenzia l’ab-
battimento dell’albero (v. 23) esercita in sostanza un potere delegato, giacché di
fatto il decreto procede dall’Altissimo (v. 24 u.p.).

25 tu sarai cacciato di fra gli uomini e la tua dimora sarà con le be-
stie dei campi; ti sarà data a mangiare dell’erba come ai buoi; sarai
bagnato dalla rugiada del cielo, e passeranno su di te sette tempi,
finché tu non riconosca che l’Altissimo domina sul regno degli uo-
mini, e lo dà a chi vuole. 26 E quanto all’ordine di lasciare il ceppo
delle radici dell’albero, ciò significa che il tuo regno ti sarà ristabi-
lito, dopo che avrai riconosciuto che il cielo domina.

Dalla descrizione fatta dal re Nabucodonosor, i sapienti di Babilonia non pos-

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CAPITOLO 4

sono non avere intuito che una grande sventura incombe sul sovrano, ma non
saprebbero precisare di più. Daniele invece può delucidare con precisione la na-
tura di questo malanno.
Annunciare eventi calamitosi deve essere sempre stato per i profeti uno dei
compiti più ingrati, e lo fu certamente anche per Daniele. Nondimeno questo in-
carico sgradito egli lo assolve con assoluta fedeltà, senza nulla omettere di
quanto gli è stato rivelato e senza attenuarne la portata funesta. Il fato che in-
combe sulla persona del re è descritto con una schiettezza che può perfino sem-
brare rudezza. Nabucodonosor sarà bandito dal consorzio umano, vivrà come
un selvaggio nella natura selvaggia nutrendosi alla maniera degli animali selvatici
e come gli animali selvatici sarà esposto alle intemperie.
Il quadro fosco è tuttavia illuminato da un raggio di speranza: questo stato
di cose non durerà indefinitamente. L’albero del sogno è stato tagliato, non sra-
dicato. Dopo che saranno passati “sette tempi” (vedi commento al v. 16), cioè,
probabilmente, dopo che sia trascorso tutto il tempo necessario finché il re abbia
imparato la lezione che deve essergli impartita (ovvero “che l’Altissimo domina
sul regno degli uomini, e lo dà a chi vuole”), la sua sorte muterà. Quando avrà
riconosciuto che “il cielo domina”, allora Nabucodonosor tornerà alla vita nor-
male e gli sarà restituito il potere sovrano.
Il “cielo” per metonimia sta ad indicare Colui che dal cielo domina sul re-
gno degli uomini, cioè l’Iddio Altissimo.

27 Perciò, o re, ti sia gradito il mio consiglio! Poni fine ai tuoi pec-
cati con la giustizia, e alle tue iniquità con la compassione verso gli
afflitti; e, forse, la tua prosperità potrà esser prolungata”.

L’interprete si muta in consigliere senza che gli sia stato richiesto. Sulla linea dei
profeti che lo hanno preceduto, Daniele unisce la parenesi alla predizione.
Dopo avergli annunciato il giudizio di Dio, esorta il suo interlocutore alla peni-
tenza affinché il giudizio sia scongiurato (è notevole questo accento etico in un
discorso predittivo!). Daniele sa infatti che così come le promesse, le minacce di-
vine sono condizionate (Gr 18:7-10), onde se Nabucodonosor, la cui sorte non
lo lascia indifferente, emenderà le sue vie, la presente condizione di prosperità
potrà prolungarsi.
Perché ciò avvenga, dunque, non sarà sufficiente che il re receda dal suo or-
goglio e riconosca l’autorità suprema dell’Altissimo, sarà anche necessario che egli
sia equanime verso tutti nell’amministrare la giustizia ed usi compassione nei ri-
guardi dei diseredati del suo regno (l’aramaico }éynæ (A ‘anayîn, tradotto “afflitti”, se-
condo il Leupold designa persone senza alcuna influenza sociale e vittime di ogni
sorta di abusi per non avere nessuno che prenda a cuore la loro causa).
Se per certi versi, come ricordato prima, Nabucodonosor fu un sovrano illu-
minato, sollecito del benessere dei suoi sudditi, per altri versi fu un dominatore
dispotico e crudele che non esitò ad usare il pugno di ferro per affermare la pro-
pria autorità, come attestano gli episodi narrati nei capp. 2 e 3 del nostro libro
(vedi pure Gr 29:22). Tuttavia in questo frangente sono messi a nudo piuttosto la

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CAPIRE DANIELE

non imparzialità nell’amministrazione della giustizia e la noncuranza verso gli in-


difesi. Daniele non ha paura di mentovare i peccati e le iniquità del gran re di
Babilonia, del resto lo fa con l’intento di sottrarlo ad una sorte durissima. Porre
fine ai peccati con la giustizia e alle iniquità con la compassione non equivale ad
autogiustificarsi davanti a Dio, acquisire il merito della propria salvezza (ciò sa-
rebbe in contrasto con l’insegnamento unanime della Scrittura!). Il discorso di
Daniele ha una portata etica, non teologica.
Non ci è detto nulla circa la reazione di Nabucodonosor alle parole di esorta-
zione del suo interprete. Qualche commentatore ha opinato che la non menzione
nel racconto di una ricompensa accordata o di particolari onorificenze tributate a
Daniele, possa essere un segno che il re non abbia gradito il suo consiglio.

28 Tutto questo avvenne al re Nebucadnetsar. 29 In capo a dodici


mesi egli passeggiava sul palazzo reale di Babilonia. 30 Il re prese a
dire: “Non è questa la gran Babilonia che io ho edificata come resi-
denza reale con la forza della mia potenza e per la gloria della mia
maestà?”

“Il Signore, l’Eterno, non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i pro-
feti”, dichiara Amos (3:7). È la norma, il principio al quale si attiene l’Iddio del
cielo nei suoi rapporti con le creature terrene. Tramite i suoi portavoce, i profeti,
Egli rimprovera agli uomini i loro peccati, minaccia il castigo, esorta alla conver-
sione, offre perdono e salvezza (Is 1:10-20; 58:1-7; Gioe 2:11-13; Am 5:11-15,
ecc...). Al tempo di Giona i Niniviti erano stati avvertiti che essi avevano quaranta
giorni di tempo per emendare la loro malvagia condotta, pena la totale distruzione
(Giona 3: 4). I Niniviti si ravvidero e il castigo fu scongiurato (Giona 3:5-10).
A Nabucodonosor è stato concesso un anno intero per riformare i suoi
comportamenti quale garante della giustizia nel suo regno, ma a nulla sono valsi
l’avvertimento di Dio e il consiglio del suo profeta: apparentemente tutto è conti-
nuato come prima nella sua vita.
“In capo a dodici mesi egli passeggiava sul palazzo reale di Babilonia”, pro-
babilmente il grandioso palazzo meridionale o i suoi favolosi giardini pensili le
cui rovine sono state riportate alla luce da Koldevey tra la fine dell’800 e i primi
del ‘900. Dall’alto del tetto del palazzo o dei terrazzi dei giardini pensili Nabuco-
donosor può dominare con lo sguardo tutta la città che si allarga verso est, sud e
ovest. Pervaso da smisurato orgoglio, si esalta nell’autoglorificazione: “Non è
questa la gran Babilonia che io ho edificata come residenza reale...?”
Cento o più anni prima, antivedendo con profetica illuminazione i tempi di
Nabucodonosor, Isaia aveva definito Babilonia “lo splendore dei regni, la su-
perba bellezza dei Caldei” (Is 13:19).
Gli storici moderni volentieri fanno riferimento a Isaia e a Daniele quando
parlano di Babilonia. Dice il Prof. Pettinato: “Adesso, dopo che gli scavi archeo-
logici ci hanno restituito parte dei monumenti fatti edificare da Nabucodonosor e
le iscrizioni reali che sottolineano continuamente l’intensa attività di architetto
del sovrano di Babilonia, siamo in grado di valutare tutta la portata dell’espres-

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CAPITOLO 4

sione del profeta Isaia e possiamo ben immaginare quanto giustificato fosse l’or-
goglio del re, che traspare dalle parole messegli in bocca da Daniele”145.
La storiografia antica, da Erodoto a Ctesia a Berosso, si è compiaciuta di tra-
mandare ai posteri l’immagine di grandezza e di splendore di questa metropoli
orientale con i suoi palazzi superbi, i suoi templi maestosi, le sue vie spaziose, le
sue mura possenti.
Il vanto che ne trae Nabucodonosor: “... la gran Babilonia che io ho edifi-
cata... con la forza della mia potenza...” non è ingiustificato sul piano della realtà
storica. Poche cose si potevano vedere in Babilonia che non fossero opera del
grande sovrano e si dice che quasi non c’è mattone che affiora dalla sabbia
nell’area dell’antica metropoli che non rechi l’impronta di Nabucodonosor. Non-
dimeno le sue parole trasudano arroganza e vanagloria!146.
Nabucodonosor, proseguendo i lavori di restaurazione iniziati da suo padre
Nabopolassar, ingrandì Babilonia raddoppiandone le dimensioni, circondò la
città di un secondo muro di cinta, l’arricchì di pregevoli opere architettoniche;
tuttavia non ne fu il fondatore. L’origine di Babilonia quasi si perde nella notte
dei tempi. Per Berosso essa fu il primo dei centri urbani sorti prima del dilu-
vio147, per la Bibbia fu la prima città fondata dopo il diluvio (Ge 11:1-9).
“... per la gloria della mia maestà”, fu questo il movente di fondo che spinse
Nabucodonosor a realizzare i suoi faraonici progetti edilizi: esaltare, dare lustro
alla sua maestà regale. Vari testi di questo sovrano quasi riecheggiano le parole
che Daniele mette sulla sua bocca.
Uno di essi dice: “Poi edificai il palazzo, sede della mia regalità, legame
della razza degli uomini, dimora dell’esultanza e della gioia”148.
Un altro testo recita: “In Babilonia, la mia città prediletta, la città che io
amo, ha sede il palazzo, la meraviglia dei popoli, il legame del paese, il palazzo
splendente, la sede della maestà sul suolo di Babilonia”149.
Gli storici greci parlano della grandezza e magnificenza di Babilonia ma
non sanno che Nabucodonosor ne fu l’artefice. Questa circostanza è venuta in
luce nei tempi moderni a seguito degli scavi archeologici. Di fronte a tale evi-
denza un critico contemporaneo che pone la composizione di Daniele nel II se-
colo a.C., il prof. Pfeiffer, ammette onestamente: “Forse non sapremo mai come
il nostro autore sia venuto a conoscenza del fatto che la nuova Babilonia fu una
creazione di Nabucodonosor come hanno attestato gli scavi”150.

145 - G. PETTINATO, op. cit., p. 99.


146 - Vedi S.D.A. Bible Commentary. vol. IV, p. 793.
147 - G. PETTINATO, op. cit., p. 149.
148 - Cilindro di Grotefend in E. SCHRADE, Keilinschriftliche Bibliotheke, vol. III, parte II, p. 39.
149 - Ibidem, p. 25, da S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 793.
150 - R. H. PFEIFFER, Introduction to the Old Testament, New York, 1941, pp. 758, 759; citato
da S.D.A. Bible Commentary, ibidem, p. 807.

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CAPIRE DANIELE

31 Il re aveva ancora la parola in bocca, quando una voce discese


dal cielo: “Sappi, o re Nebucadnetsar, che il tuo regno t’è tolto; 32 e tu
sarai cacciato di fra gli uomini, la tua dimora sarà con le bestie de’
campi; ti sarà data a mangiare dell’erba come ai buoi, e passeranno
su di te sette tempi, finché tu non riconosca che l’Altissimo domina
sul regno degli uomini e lo dà a chi vuole”.

In Dio giustizia e misericordia sono indissolubilmente congiunte (cfr. Es 34:6, 7),


onde in ogni circostanza Egli sceglie il momento giusto per intervenire coi suoi
giudizi: al peccatore è lasciato tutto il tempo per ravvedersi (cfr. 2Pie 3:9 u.p.).
Dio attese centoventi anni prima di mandare il diluvio sulla terra ai giorni di Noè
(Ge 6:3) e nel tempo dei Patriarchi sopportò per 430 anni l’iniquità degli Amor-
rei prima di punirli (Ge 15:13,16).
Non si può però sfidare indefinitamente la pazienza di Dio! Viene per tutti il
momento della resa dei conti in cui ognuno raccoglie quel che ha seminato (Ga
6:7). Allora non ci saranno più indugi e dilazioni da parte del Giudice celeste.
Così avvenne per il re di Babilonia sordo all’appello di Dio: “Il re aveva an-
cora la parola in bocca” quando in quel medesimo istante quella parola (la sen-
tenza divina) “si adempì su Nebucadnetsar”.
“Una voce discese dal cielo...”. In altre circostanze ancora fu dato a dei
mortali di udire la voce discendente dal cielo. Al battesimo di Cristo, per esem-
pio (Mt 3:17), o quando per la prima volta dei pagani vollero vedere Gesù (Gv
12:28-30), o ancora nel tempo della prima persecuzione dei cristiani (At 9: 4).
La voce che discende dal cielo avverte Nabucodonosor che è giunta per lui
l’ora della resa dei conti. La lezione che l’orgoglioso re di Babilonia non ha vo-
luto trarre dal sogno mandatogli dall’Iddio del cielo, dovrà impararla attraverso
un’esperienza dura e umiliante.
La voce celeste ripete parola per parola quanto Nabucodonosor aveva udito
un anno prima dalla bocca di Daniele, non più però come un avvertimento e un
appello, bensì come una sentenza irrevocabile che già si attua: “Sappi, o re Ne-
bucadnetsar, che il tuo regno t’è tolto”. Non appartiene più al vanaglorioso mo-
narca quanto egli aveva appena vantato di possedere in virtù della propria forza
e potenza!

33 In quel medesimo istante quella parola si adempì su Nebucadnet-


sar. Egli fu cacciato di fra gli uomini, mangiò l’erba come i buoi, e il
suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, finché il pelo gli
crebbe come le penne alle aquile, e le unghie come agli uccelli.

La parola, annunciata un anno prima da Daniele, si compie. In un istante la sorte


del superbo signore di Babilonia si capovolge: dal sommo della potenza e della
gloria terreni egli precipita nell’abisso di un’esistenza miserevole che non ha più
niente di umano. La descrizione del tragico evento segue passo passo il quadro
profetico che ne aveva tracciato Daniele dodici mesi prima (v. 25), tranne che
per un dettaglio omesso (la dimora con le bestie dei campi) ed uno aggiunto (la

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CAPITOLO 4

crescita del pelo e delle unghie). Bandito dal consorzio umano (non è detto se
dai suoi stessi ministri o dall’Iddio del cielo che lo ha punito) Nabucodonosor è
segregato fra le bestie selvatiche di cui divide le condizioni di vita: si nutre
dell’erba dei campi come loro e a somiglianza di esse rimane esposto alle intem-
perie. Non avendo più alcuna cura per la sua persona, i capelli, la barba, il pe-
lame del corpo gli crescono incolti “come alle aquile” (la parola “penne” manca
nel testo aramaico) e sotto l’azione combinata del sole e dell’umidità si fanno
ispidi; le unghie divengono simili agli artigli dei rapaci. L’abbrutimento è com-
pleto. L’aspetto è quello di un selvaggio.
È certo che Nabucodonosor fu colto da un improvviso attacco di follia (per
due volte, nei vv. 34 e 36, si allude a un ricupero della ragione), ma data l’esi-
guità dei dettagli rilevabili nel testo, è impossibile dire che genere di malattia
mentale lo avesse ridotto in uno stato così miserevole. Molti commentatori
hanno pensato a una forma di zoomania, una condizione di inanità mentale in
cui il malato si crede un animale e come tale si comporta (la fantasia popolare
ha dato il nome di “lupi mannari” agli alienati afflitti da una forma particolare di
zoomania, la licantropia, che spinge il malato a imitare il comportamento dei
lupi151. Un caso di zoomania sembra essere attestato nella letteratura antica. Un
testo non pubblicato del British Museum fa menzione di un uomo che mangiava
l’erba come un bue152. Uno psichiatra contemporaneo, il dottor Bless, cita la ma-
lattia di Nabucodonosor come caso tipico di psicosi maniaco-depressiva153.
Sull’autenticità dell’episodio sono stati espressi forti dubbi, dato che manca
qualsiasi riferimento esplicito a un incidente del genere nei testi babilonesi che
ci sono noti. Per quanto l’annalistica babilonese fosse meno adulatoria e più
obiettiva di quella assira, sembra ovvio che gli scribi di corte si guardassero bene
dal tramandare ai posteri un fatto che avrebbe gettato un’ombra sulla figura di
un grande monarca come Nabucodonosor. Comunque, sia nella storiografia
greca che nell’annalistica babilonese, si colgono allusioni a qualche avvenimento
insolito e anomalo che ebbe per protagonista Nabucodonosor o che si produsse
alla corte di Babilonia durante il suo regno.
Il prof. Rinaldi riporta una notizia riguardante Nabucodonosor riferita dallo
storico greco MEGASTENE (IV secolo a.C.) e raccolta da ABIDENO, altro storico
greco (III secolo a.C.), a sua volta citato da EUSEBIO in Praeparatio Evangelica, 9,
41, 6. Secondo questa informazione Nabucodonosor “salì sulla reggia e, preso
all’improvviso da ispirazione divina, pronunziò questo vaticinio (...). Dette que-
ste parole - conclude lo storico antico - all’improvviso (Nabucodonosor) scom-
parve dalla vista degli uomini”154

151 - Per un ulteriore approfondimento di questa problematica vedi J. DOUKHAN, Le soupir de la


terre, Dammarie-les-Lys, Francia, 1993, pp. 94-96.
152 - F.M. Th. de Liagre Böhl, Opera Minora (1953), p. 527, citato dal S.D.A. Bible
Commentary, vol. IV, p. 792.
153 - H. BLESS, Manuale di Psichiatria Pastorale, Torino, 1952, p. 128.
154 - G. RINALDI, Daniele, nota XI, p. 165.

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CAPIRE DANIELE

Nel 1975 l’assiriologo A. K.GRAYSON pubblicò un testo cuneiforme frammen-


tario che si trova nel British Museum (BM 34113) nel quale sono nominati Nabu-
codonosor e suo figlio Amel-Marduk. Ecco la traduzione italiana effettuata dal
prof. Pettinato155:

Nabucodonosor ponderava... la sua vita non era di alcun valore


per lui... e Babilonia [...] Ad Amel-Marduk egli dice ciò che non...; egli
allora dà ordine differente, ma... questi non presta attenzione alle sue
disposizioni; un cortigiano... Egli cambiò ma non oppose resistenza
davanti... Sulle sorti dell’Esagila e di Babilonia e di... centri di culto dei
grandi dèi essi riflettono. Egli non aveva nessun piano per il figlio o fi-
glia, per lui non esisteva né famiglia né clan... nel suo cuore per ogni
cosa che fosse abbondan[te...]. La sua attenzione non era rivolta alla
promozione dell’Esagila [e Babilonia]. Con le orecchie arricciate egli
entrò attraverso la Porta Santa... egli rivolse la sua preghiera al signore
degli dèi, alzando la mano [supplice]. Egli piange amaramente davanti
al suo dio, ai grandi dèi. Le sue preghiere si innalzano...

Fin qui il testo babilonese. L’interpretazione non è facile dato lo stato fram-
mentario dello stesso. Da esso comunque appare abbastanza chiaro questo: che
la persona della quale si parla (Nabucodonosor o Amel-Marduk) (1) reputa priva
di valore la propria vita, (2) dà ordini contraddittori, (3) non ha progetti per i fi-
gli e trascura la famiglia, (4) non si cura dell’Esagila, l’area sacra che circonda la
torre templare Etemenanki e il grande tempio di Marduk, (5) piange amaramente
davanti al suo dio. Sono comportamenti del tutto anomali riconducibili o a uno
stato di insanità mentale o a incapacità di governo. Alcuni156 riferiscono a Nabu-
codonosor questi strani comportamenti e li collegano con l’episodio narrato in
Dn 4, Pettinato li rapporta ad Amel-Marduk, il biblico Evil-Merodac (2Re 25: 27;
Gr 52: 31).
Diversi autori moderni hanno supposto che l’estensore del racconto danie-
lico abbia confuso Nabucodonosor con Nabonide, l’ultimo re di Babilonia, di cui
un testo dice che trascorse sette anni nell’Arabia per curarsi di una malattia cuta-
nea; ma le differenze sostanziali tra i due fatti tolgono credibilità a questa
ipotesi157.
Inquadrare cronologicamente l’episodio narrato da Daniele non è agevole,
mancando nel testo riferimenti precisi a questo riguardo. Tuttavia dalle parole di
autocompiacimento di Nabucodonosor: “Non è questa la gran Babilonia che io
ho edificata...?” si può dedurre che all’epoca i grandiosi lavori di ampliamento e
abbellimento della città fossero compiuti o quasi, onde l’episodio può essere

155 - G. PETTINATO, op. cit., p. 179.


156 - Vedi G. HASEL, in Daniel, questions débattues, p. 30.
157 - Per più ampi ragguagli in merito vedi G.HASEL, “Quelques éléments d’ordre historique
dans le livre de Daniel” in Daniel, questions débattues, pp. 28-29.

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CAPITOLO 4

ascritto agli ultimi anni di regno del grande monarca.


Ci si è domandati come mai Nabucodonosor, che certo deve avere avuto i
suoi nemici, non fosse stato soppresso durante la follia. Nell’antichità non furono
rare le congiure di corte. Nella stessa Babilonia, e nel periodo storico a cui
stiamo facendo riferimento, due regnanti perirono di morte violenta per mano
dei congiurati: Evil-Merodac, figlio e successore di Nabucodonosor, e Labashi-
Marduk, figlio e successore del capo della congiura che soppresse Evil-Merodac.
Il fatto è che nell’antichità gli alienati mentali erano creduti posseduti da spiriti
cattivi, per cui ci si guardava bene dal mettere loro le mani addosso, credendosi
che gli spiriti cattivi prendessero possesso dei loro assassini. Con uno strata-
gemma fondato su queste credenze Davide salvò la vita quando tra i Filistei fu
riconosciuto come il loro grande nemico (1Sm 21:10-15)158.

34 “Alla fine di que’ giorni, io, Nebucadnetsar, alzai gli occhi al cielo,
la ragione mi tornò, e benedissi l’Altissimo, e lodai e glorificai colui
che vive in eterno, il cui dominio è un dominio perpetuo, e il cui re-
gno dura di generazione in generazione. 35 Tutti gli abitanti della
terra sono da lui reputati un nulla; egli agisce come vuole con l’eser-
cito del cielo e con gli abitanti della terra; e non v’è alcuno che possa
fermare la sua mano o dirgli: - Che fai? -

Lo stile cambia ancora una volta, verbi e pronomi tornano alla prima persona: “
io, Nabucodonosor, alzai gli occhi al cielo...” Su questa particolarità stilistica si è
già discusso.
“Alla fine di quei giorni”, cioè allo scadere dei “sette tempi” mentovati nei
vv. 16, 25 e 32. Come si è visto i pareri sul valore dell’espressione “sette tempi”
non sono unanimi: sette anni, sette stagioni oppure, attribuendosi senso metafo-
rico al numero sette (perfezione, compiutezza), tutto il tempo necessario perché
Nabucodonosor riconoscesse che “l’Altissimo domina sul regno degli uomini e
lo dà a chi vuole”. Il S.D.A. Bible Commentary propende per la prima ipotesi,
questo commentario per la terza. Ad ogni modo non è la durata del castigo in-
flitto al re di Babilonia il dato che conta, ma la motivazione di quel castigo.
Può essere interessante citare il lavoro recente di un autore svedese, CARL
JONSSON, il quale ha raccolto tutti i riferimenti alle attività militari e civili di Nabu-
codonosor durante il suo lungo regno e i relativi dati cronologici che sono docu-
mentati nei testi babilonesi, nella Bibbia e in qualche storiografo posteriore. Il
quadro che ne è risultato mostra due sole lacune, fra il 33° e il 37° e fra il 37° e
il 43° anno di regno159. Uno di quei vuoti potrebbe essere messo in relazione
con la demenza di Nabucodonosor a cui allude Daniele.
Nabucodonosor ricupera il senno quando alza lo guardo al cielo. Qualche
autore ha creduto di dovere ribaltare l’ordine dei due eventi: prima il re deve es-

158 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 792..


159 - Vedi C. JONSSON, I tempi dei Gentili, Roma 1989, p. 207.

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CAPIRE DANIELE

sere tornato in sé, poi deve avere rivolto il pensiero all’Altissimo che ha umiliato
la sua alterigia. Ma non era necessario ricorrere a questa inversione delle frasi
per avere una successione logica dei fatti. Un barlume di lucidità sufficiente a far
prendere coscienza a Nabucodonosor del suo stato miserevole e a far nascere in
lui il bisogno di supplicare quel Dio del cielo che lo ha umiliato, può avere pre-
ceduto il ritorno pieno della ragione. Risulta comunque abbastanza chiaro che il
riconoscimento della sovranità eterna dell’Altissimo da parte del re viene dopo il
ricupero delle facoltà psichiche. A tale riconoscimento fa seguito l’esaltazione e
la glorificazione, con accenti lirici, di “Colui che vive in eterno, il cui dominio è
un dominio perpetuo”.
A sue spese e attraverso un’esperienza durissima, giova ribadirlo, Nabuco-
donosor ha dovuto imparare una lezione che avrebbe potuto e non ha voluto
acquisire pacificamente nello stato della prosperità.
“Tutti gli abitanti della terra sono da lui reputati come un nulla...”: non si-
gnifica che Dio non abbia alcuna considerazione per gli esseri umani, vuol dire
semplicemente che di fronte alla sua infinita grandezza gli uomini appaiono insi-
gnificanti.
“Egli agisce come vuole con l’esercito del cielo e con gli abitanti della
terra...”, ciò che equivale a dire che non v’è alcuna creatura né in cielo né in
terra che possa frustrare i suoi disegni. Il riconoscimento della supremazia
dell’Altissimo è totale e incondizionato.

36 In quel tempo la ragione mi tornò; la gloria del mio regno, la mia


maestà, il mio splendore mi furono restituiti; i miei consiglieri e i
miei grandi mi cercarono, e io fui ristabilito nel mio regno, e la mia
grandezza fu accresciuta più che mai.

Col ricupero delle facoltà psichiche, Nabucodonosor rientra in possesso del suo
fasto (“la gloria del mio regno”), della dignità regale (“la mia maestà”) e del suo
lustro (“il mio splendore”), ma non per sua virtù personale (“mi furono restituiti”:
il re ha imparato la lezione).
“In quel tempo la ragione mi tornò”. Con la ripetizione di questa osserva-
zione viene a stabilirsi un nesso con ciò che è detto nel v. 34 dopo la stessa
frase. Dunque la dignità regale e la grandezza sono stati restituiti a Nabucodono-
sor perché egli si è umiliato davanti all’Iddio del cielo e ne ha riconosciuto il po-
tere illimitato e imperituro.
Durante la vacanza del trono il governo di Babilonia è stato retto verosimil-
mente da un consiglio di reggenza. In questo periodo tuttavia il re non deve es-
sere stato abbandonato a se stesso; i suoi ministri debbono averlo seguito sia
pure a distanza, nell’attesa che egli tornasse alla vita normale (Daniele aveva
predetto che quella triste condizione sarebbe durata per un tempo determinato).
Adesso che il sovrano è tornato in sé, gli ufficiali che compongono il suo
consiglio privato (“i miei consiglieri”) e gli alti funzionari dello stato (“i miei
grandi”) lo avvicinano, lo riconducono nel palazzo e lo reintegrano nei suoi
pieni poteri sovrani (“fui ristabilito nel mio regno”).

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CAPITOLO 4

Come a Giobbe (42: 10) accade a Nabucodonosor, per essersi umiliato e


avere esaltato l’Iddio del cielo, di ricevere in misura maggiore quanto gli era
stato tolto (“la mia grandezza fu accresciuta più che mai”).

37 Ora, io, Nebucadnetsar, lodo, esalto e glorifico il Re del cielo, per-


ché tutte le sue opere sono, verità, e le sue vie, giustizia, ed egli ha il
potere di umiliare quelli che camminano superbamente.

Il lungo proclama di Nabucodonosor si chiude con un inno di lode al “Re del


cielo” del quale lui, il re di Babilonia, riconosce la giustizia nell’avere umiliato il
suo orgoglio: “tutte le sue opere sono verità, e le sue vie, giustizia” (è più forte
che dire: “sono veraci, e sono giuste”).
Chiamando l’Iddio Altissimo “Re del cielo”, Nabucodonosor ammette che
c’è nel cielo un Re che lo sovrasta e al quale deve rendere conto delle sue
azioni di governo.
“Egli ha il potere di umiliare quelli che camminano superbamente”: Nabu-
codonosor lo ha sperimentato sulla propria pelle!

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CAPIRE DANIELE

Capitolo 5
____________________________

I l re Belsazar ha offerto nel palazzo di Babilonia un fastoso ricevimento ai


grandi dignitari del regno. Quando lui e i suoi ospiti, eccitati dal vino, inneg-
giano rumorosamente agli dèi e accostano alle labbra i sacri vasi del tempio giu-
daita che sono stati portati per ordine di Belsazar, una mano senza braccio e
senza corpo compare sulla parete di fondo della grande sala e muovendosi da de-
stra a sinistra traccia alcuni segni incomprensibili con uno stilo che stringe fra le
dita. Poi svanisce, ma i segni rimangono.
I sapienti di corte, convocati immediatamente, non sanno decifrare la
scritta che spicca sull’intonaco bianco, e la costernazione fra i partecipanti al
banchetto aumenta. Su istanza della regina madre viene convocato Daniele. Il
vecchio profeta rifiuta il ricco compenso promesso dal re e, non senza stigmatiz-
zare l’atto sacrilego che è stato appena consumato, decifra la scritta e ne inter-
preta il significato. È una sentenza dell’Iddio Altissimo contro Belsazar che ha
osato sfidarlo col profanare i simboli della sua santità. Il potere regale sarà tolto a
Belsazar e passerà nelle mani di dominatori stranieri. Quella stessa notte Belsa-
zar muore di morte violenta e Babilonia cade sotto la sovranità dei Medi e dei
Persiani.

1 Il re Belsatsar fece un gran convito a mille dei suoi grandi; e bevve


del vino in presenza dei mille.

Il grande Nabucodonosor è scomparso da 23 anni e quattro successori hanno


occupato l’uno dopo l’altro il trono di Babilonia. Sono: Amel-Marduk (il biblico
Evil-Merodac), figlio di Nabucodonosor; Nergal-sar-usur (Neriglissar per i Greci),
usurpatore; Labashi-Marduk (il Labosordach dei Greci), figlio di Neriglissar, e
Nabu-naid (Nabonide), usurpatore anche lui. Nabonide porta il titolo di re di Ba-
bilonia da 17 anni, quando accadono i fatti narrati in questo capitolo del libro di
Daniele (Belsazar è ignorato dalle liste reali e dai testi amministrativi come re di
Babilonia).
Fino al 1861, anzi, il nome di questo personaggio fu sconosciuto sia alle
fonti greche che a quelle babilonesi note. Questo silenzio delle fonti antiche su
Belsazar offriva un forte argomento per screditare il libro di Daniele.
Nel 1861 H. F.TALBOT pubblicò i testi di alcuni cilindri di terracotta rinvenuti
sette anni prima da J. E.TAYLOR presso la torre templare di Ur. Uno di quei testi
era una preghiera che il re Nabonide aveva rivolto al dio Sin in occasione del re-

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CAPITOLO 5

stauro della ziqqurat. In quella preghiera per la prima volta compariva il nome
di Belsazar. Le righe 24-28 del testo recitano:

... e quanto a Bel-sar-usur (Belsazar), il figlio primogenito, il rampollo del


mio cuore, il timore della tua grande divinità nel suo cuore fa esistere!160.

Il nome di Belsazar era dunque documentato per la prima volta in una


fonte babilonese contemporanea, non solo, ma in essa questo personaggio com-
pariva come figlio primogenito di Nabonide! Altri documenti venuti in luce nei
decenni seguenti attestarono ancora il nome di Belsazar. Con ciò perdeva consi-
stenza uno degli argomenti della critica contro l’attendibilità storica dei racconti
di Daniele. Rimaneva tuttavia un problema, ed era che nella storiografia babilo-
nese e greca (Berosso, Erodoto, Abideno), così come nelle liste reali, nelle cro-
nache e nei testi amministrativi babilonesi, compariva sempre e soltanto Nabo-
nide come ultimo re di Babilonia. In nessun caso il titolo di “re” era riferito a
Belsazar nei testi cuneiformi che lo menzionavano.
Nel 1944 fu pubblicata a Londra una versione più corretta di un testo babi-
lonese già reso noto vari decenni prima da S. TAYLOR. Il testo suddetto, conser-
vato nel British Museum (BM 38, 299), è conosciuto come il “Racconto in versi
di Nabonide”. A un certo punto questo documento storico riferisce che il re Na-
bonide, partendo per l’Arabia, affidò il governo di Babilonia al figlio primoge-
nito. Ma lasciamo parlare il documento:

Egli [Nabonide] affidò il “Campo” al [figlio] più


anziano, il primogenito,
le truppe in [tutto] il paese pose sotto il suo [comando]
Si [disinteressò] di tutto, conferì la regalità
(sharrûtim) a lui
ed egli stesso partì per un lungo viaggio
........
si diresse verso Tema [lontano] nell’occidente161.

In uno dei testi delle stele di Harran pubblicato nel 1958, Nabonide stesso con-
ferma questa notizia:

Io mi recai molto lontano dalla mia città di Babilonia in direzione di


tema... Per dieci anni io mi trattenni in mezzo a loro e non feci ritorno nella
mia città di Babilonia162.

Un altro documento contemporaneo, la cosiddetta “Cronaca di Nabonide” pub-

160 - Riportato da G. RINALDI, in op. cit., nota XI, f, p. 165.


161 - ANET, p. 313
162 - G. PETTINATO, op. cit., p. 231.

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CAPIRE DANIELE

blicata la prima volta da F. G. PINCHES nel 1882 e in seguito da SIDNEY TAYLOR nel
1924, riferisce che la festa dell’Anno nuovo non fu celebrata a partire dall’anno
settimo di Nabonide perché questi non tornò più a Babilonia da Tema163. Dai
documenti citati si evince:

● che nell’anno settimo del suo regno Nabonide partì per Tema, lontano da
Babilonia,
● che prima di partire conferì la regalità al figlio primogenito, il quale da

uno dei testi dei cilindri di Ur pubblicati da H. F.TALBOT nel 1861 sappiamo
essere Bel-sar-usur (Belsazar),
● che a Tema rimase ininterrottamente per 10 anni.

Chi può avere gestito il potere in Babilonia durante questo decennio di va-
canza del trono se non Belsazar a cui Nabonide aveva conferito la regalità? Altre
circostanze attestate dai documenti confermano che in quel tempo Belsazar, seb-
bene non gli fosse mai stato attribuito ufficialmente il titolo di “re”, esercitò di
fatto l’autorità regia.
È significativo che i nomi di Nabonide e Belsazar compaiano affiancati nelle
formule di giuramento e nei testi di fondazione164
“Il potere regale di Belsazar - sottolinea il prof. E. J. YOUNG - è ancora atte-
stato dalla facoltà che egli aveva di concedere affitti, di emanare ordini, di ese-
guire un atto amministrativo riguardante il tempio di Erech”165. Dunque, pur se
nei documenti ufficiali Nabonide figura come re di Babilonia sino alla caduta
della città nel 539 a.C., sta di fatto che chi tenne le redini del governo negli ul-
timi 10 anni fu suo figlio Belsazar. Niente di strano che Daniele, il quale segue
gli sviluppi politici dall’interno della città, gli attribuisca il titolo di “re”.
Poiché Daniele in 5:30 chiama Belsazar “re dei Caldei”, è possibile che co-
stui governasse la Caldea, che era il centro e il cuore dell’impero, e che suo pa-
dre Nabonide regnasse su tutto l’impero da Tema divenuta quasi una seconda
capitale.
Gli storiografi antichi, da Erodoto a Berosso a Senofonte a Ctesia... hanno to-
talmente ignorato che un reggente di nome Belsazar esercitasse le prerogative della
regalità in Babilonia fino alla caduta della città. Ciò ha fatto dire a uno studioso libe-
rale, il prof. R. H. PFEIFFER: “Probabilmente non sapremo mai come il nostro autore
(l’autore di Daniele)... fosse venuto a conoscenza del fatto che Belsazar, ricordato
soltanto nelle fonti babilonesi, in Daniele e in Baruc 1:1, peraltro dipendente da
Daniele, esercitasse funzioni regali quando Ciro conquistò Babilonia”166.

163 - ANET, p. 306.


164 - Vedi A. J. FERCH, Daniel on Solid Ground, Washington D.C., 1988, p. 39.
165 - E. J. YOUNG, The Prophecy of Daniel: A Commentary, cit. da G. H. HASEL in Symposium on
Daniel, p. 100.
166 - R. H. PFEIFFER, Introduction to the Old Testament, pp. 758, 759, cit. da S.D.A. Bible Com-
mentary, ivi. p. 807.

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CAPITOLO 5

Il numero degli ospiti di Belsazar non è affatto iperbolico come può sem-
brare, se si pensa che i monarchi di allora avevano il gusto delle riunioni convi-
viali oceaniche. Una stele trovata a Nimrud, nell’antica Assiria, riferisce che il re
Assurnasirpal II offrì cibo, vino e alloggio per 10 giorni a una folla di 69.574 per-
sone in occasione dell’inaugurazione di un nuovo palazzo, e lo storico greco
Ctesia dice che i re di Persia nutrivano ogni giorno 15.000 persone e che al ban-
chetto di nozze di Alessandro il Grande presero parte 10.000 ospiti. Di fronte a
queste cifre i 1.000 ospiti di Belsazar appaiono davvero un numero modesto! Di
uno sfarzoso banchetto regale alla corte persiana abbiamo notizie in Et 1:3-7.

2 Belsatsar, mentre stava assaporando il vino, ordinò che si recas-


sero i vasi d’oro e d’argento che Nebucadnetsar suo padre aveva
portati via dal tempio di Gerusalemme, perché il re, i suoi grandi, le
sue mogli e le sue concubine se ne servissero per bere.

IBabilonesi, come gli Assiri (cfr. Nahum 1:10), erano noti per essere forti bevi-
tori. Peraltro nei banchetti delle corti orientali il vino era servito con regale muni-
ficenza (cfr. Et 1:7).
Non fa dunque meraviglia che il re Belsazar e i suoi ospiti bevano abbon-
dantemente durante il banchetto. Questo è precisamente il senso della frase ara-
maica tradotta da LUZZI “mentre stava assaporando il vino”. LEUPOLD la rende:
“quando cominciava a gustare il vino”, ovvero quando Belsazar ne aveva bevuto
abbastanza per cominciare ad apprezzarne il gusto. Più esplicitamente la Ver-
sione della C.E.I. traduce: “Quando Beltassar ebbe molto bevuto”, e RINALDI: “Un
po’ brillo per il vino, Baldassarre ecc...”
Con la mente annebbiata dal vino, dunque, Belsazar decide di compiere un
gesto d’inaudita provocazione verso l’Iddio d’Israele: comandò che siano portati
nella sala i sacri vasi del tempio di Yahweh, trasferiti molti anni prima da Geru-
salemme a Babilonia, per profanarli.
Accadeva spesso nell’antichità che nelle città espugnate durante le guerre ri-
manessero distrutti anche i templi, ma i simulacri delle divinità erano general-
mente rispettati. Così si era comportato Nabucodonosor, “padre” di Belsazar,
quando aveva parzialmente spogliato il tempio di Gerusalemme una prima volta
nel 605 a.C. (Dn 1:2), una seconda volta nel 598 (2Cr 36:7) e una terza nel 587
(2Cr 36:18) prima di distruggere il sacro edificio. Il gran re aveva trattato con ri-
guardo i sacri utensili riponendoli in un santuario di Babilonia (Dn 1:2).
Secondo l’inventario riportato in Ed 1:10, 11 erano custoditi in Babilonia
5.400 utensili vari d’oro e d’argento già appartenuti al tempio gerosolimitano, fra
i quali figuravano 440 calici. Quei calici mai sfiorati da labbra impure Belsazar ha
deciso di profanare. “Il bere nei vasi consacrati a una divinità straniera - osserva
G.RINALDI - ... ha un significato particolare sullo sfondo cortigianesco come affer-
mazione di dominio”167.

167 - Op. cit., p. 87.

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CAPIRE DANIELE

Al banchetto prendono parte anche le donne dell’harem reale, non si pre-


cisa dall’inizio o dal momento della libagione (sembra più probabile questa se-
conda evenienza: cfr. Et 1:3, 9).
Il riferimento a Nabucodonosor come “padre” di Belsazar è stato uno degli
argomenti utilizzati contro Daniele. È notorio, infatti, che Nabonide e non Nabu-
codonosor fu il padre di Belsazar. Si consideri però che nell’ambiente semitico
“padre” aveva altri significati secondari oltre a quello principale di “genitore”.
Nell’Antico Testamento “padre” significa in certi casi capostipite (vedi Ge 36:43;
De 26:5), in altri antenato (I Re 2:10; Lamentazioni 5:7); qualche volta è un ap-
pellativo riverenziale (cfr. Gc 17:20, II Re 2:12).
Nulla obbliga a prendere nel senso primitivo di “genitore” l’aramaico ’av in
Dn 5:2. Fra le varie traduzioni possibili del termine in questo passo segnaliamo
le seguenti:

● Avo. Nabonide può essere stato genero di Nabucodonosor per averne


sposato una figlia. In questo caso il grande sovrano sarebbe stato nonno di
Belsazar dalla parte della madre.
Oppure: Nabucodonosor può essere stato considerato padre di Nabonide
(quindi nonno di Belsazar) in quanto la madre dell’uno e nonna dell’altro
avrebbe fatto parte dell’harem del re di Babilonia.
● Successore. Nabucodonosor può essere stato chiamato padre di Belsazar

per il fatto che quest’ultimo si è seduto sul suo trono. L’uso del termine “fi-
glio” col significato di successore è documentato in un testo assiro come si
vedrà più avanti.

Dalle fonti cuneiformi si sa che Nabonide era figlio di un principe di Haran di


nome Nabû-balazû-iqbi e di una sacerdotessa del tempio di Sin nella stessa
città. Vari indizi fanno pensare che quando Haran fu presa dai Medi e dai Babi-
lonesi nel 610 a.C. la madre di Nabonide, Adda-guppi, fu portata in Babilonia
come prigioniera di riguardo e introdotta nell’harem reale. Nabonide, allora fan-
ciullo, sarebbe cresciuto alla corte di Nabucodonosor.
Questo personaggio viene generalmente identificato con quel Labynetus
che secondo ERODOTO (1, 74) svolse il ruolo di intermediario nella guerra fra Lidi
e Persiani nel 585 a.C. L’essere stato prescelto per un incarico diplomatico cosi
rilevante denota che il giovane Nabonide alla corte di Babilonia dovette godere
del favore particolare del re.
È probabile che la moglie di lui - quella Notocris che ERODOTO (I, 185, 188)
descrive come donna scaltra e avveduta - fosse figlia di Nabucodonosor, come
ha proposto R. P.DAUGHERTY168. In questo caso, come già rilevato, Belsazar sa-
rebbe stato nipote di Nabucodonosor attraverso la linea materna.

168 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 807.

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CAPITOLO 5

3 Allora furono recati i vasi d’oro ch’erano stati portati via dal tem-
pio, dalla casa di Dio, ch’era in Gerusalemme; e il re, i suoi grandi,
le sue mogli e le sue concubine se ne servirono per bere. 4 Bevvero
del vino e lodarono gli dèi d’oro, d’argento, di rame, di ferro, di le-
gno e di pietra.

L’ordine del re è eseguito con prontezza. Nella sala del palazzo, dove si sta svol-
gendo un’orgia pagana, vengono portati i calici d’oro e d’argento (v. 2) che
erano stati portati via dal tempio di Gerusalemme, “dalla casa di Dio”,
()fhl E ty"b-yiD di-veth ’elaha’) aggiunge Daniele come volendo sottolineare la gra-
f )
vità del sacrilegio perpetrato da Belsazar.
Quei vasi consacrati al culto di Jahvé che nessuno aveva più rimossi dal
luogo dove rispettosamente li aveva custoditi Nabucodonosor, quei vasi mai
prima d’ora profanati, adesso vengono usati come volgari vasi da tavola per una
chiassosa libagione.
E come se fosse poco, mentre si beve si esaltano in dispregio dell’Iddio im-
materiale che domina dall’alto del cielo gli dèi terreni e materiali che non ve-
dono, non odono e non parlano. È difficile immaginare una sfida più audace !
“È curioso - osserva J.DOUKHAN - che siano menzionati gli stessi metalli che for-
mavano la statua vista in sogno da Nabucodonosor, e siano menzionati nello
stesso ordine, come se il banchetto offerto da Belsazar avesse indirettamente di
mira il sogno del suo avo con l’intenzione di contraddirlo”169.

5 In quel momento apparvero delle dita d’una mano d’uomo, che si


misero a scrivere di faccia al candelabro, sull’intonaco della parete
del palazzo reale. E il re vide quel mozzicone di mano che scriveva.

“In quel momento...” La risposta dell’Iddio offeso alla sfida dell’incauto Belsazar
non si fa attendere. È una risposta enigmatica, indecifrabile e perciò tanto più in-
quietante.
Quelle dita senza mano, senza braccio, senza corpo che compaiono tutt’a
un tratto alla luce incerta del grande candelabro, quei segni incomprensibili che
esse tracciano sulla parete prima di scomparire, debbono essere parsi subito a
Belsazar, che per primo se ne avvede (“il re vide quel mozzicone di mano...”)
come un presagio nefasto, chissà, forse come la risposta severa del Dio che egli
ha appena oltraggiato.
È menzionato il “palazzo reale”. All’inizio del secolo, Robert KOLDEWEY ri-
portò alla luce nella parte settentrionale dell’area dell’antica Babilonia le rovine
di un vasto complesso edilizio che l’archeologo interpretò correttamente come il
palazzo reale. Una sala lunga 52 metri e larga 17, che KOLDEWEY chiamò “la sala
del trono”, si affacciava su un ampio cortile al centro della grande struttura. Sulla
parete di fronte alla porta d’ingresso c’era una nicchia dove molto verosimil-

169 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 106.

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CAPIRE DANIELE

mente si trovava il trono sul quale prendeva posto il re nelle feste e le cerimonie
ufficiali. Gli scavatori tedeschi notarono anche tracce di stucco bianco su un
tratto di muro170. Con tutta probabilità, fu quella la sala del palazzo reale di Ba-
bilonia dove si svolse il sontuoso ricevimento descritto in questo capitolo del li-
bro di Daniele.

6 Allora il re mutò di colore, e i suoi pensieri lo spaventarono; le


giunture de’ suoi fianchi si rilassarono, e i suoi ginocchi comincia-
rono ad urtarsi l’uno contro l’altro. 7 Il re gridò forte che si faces-
sero entrare gl’incantatori, i Caldei e gli astrologi; e il re prese a
dire ai savi di Babilonia: “Chiunque leggerà questo scritto e me ne
darà l’interpretazione sarà rivestito di porpora, avrà al collo una
collana d’oro, e sarà terzo nel governo del regno”.

Sono descritti con grande realismo i segni esteriori di un violento shock emotivo
che ha colto il re Belsazar alla vista di quelle dita-fantasma e di quello scritto
pieno di mistero che esse hanno lasciato sulla parete: il volto si scolora, le mem-
bra si accasciano, gli arti inferiori sono scossi da un tremito convulso. Quello
che Belsazar ha visto ha fatto nascere nella sua mente pensieri angoscianti (“i
suoi pensieri lo spaventarono...”).
“Che spettacolo pietoso - commenta LEUPOLD - questo re che pochi istanti
prima aveva avuto l’ardire di sfidare l’Onnipotente!”171.
La gran paura ha fatto perdere a Belsazar il controllo dei nervi. In condi-
zioni normali egli avrebbe semplicemente dato ordine di convocare i sapienti
(cfr. 2:2 e 4:6). Invece grida con forza, come in preda a un forte turbamento
emotivo. Il re nomina tre categorie di esperti della divinazione: gli incantatori, i
caldei e gli astrologi (vedi commento a 2:2) nel seguito indicati sempre colletti-
vamente come “i savi di Babilonia”. Belsazar promette a chi scioglierà l’enigma:
(1) la porpora ()ænwæ G: r a ’argewana’), il colore che contraddistingue la regalità
: )
o una posizione prossima alla dignità regale (cfr. Ether 8:15);
(2) la collana d’oro ()fkyénm a hamnîka’), ancora un’insegna della regalità o di
: h
un incarico di alta responsabilità (cfr. Ge 41:42);
(3) la posizione di terzo ((yiTl a taltî‘ ) nel governo del regno. Si è obiettato
: t
che “terzo” si dice in aramaico telîthî e che taltî‘ doveva piuttosto designare un
titolo onorifico. Sta di fatto che quasi tutti i traduttori di Daniele hanno reso
“terzo” l’aramaico talti (qualcuno ha preferito traslitterare pari pari la parola ara-
maica: “sarà talti”). W.GESENIUS nel suo Lessico ebraico e aramaico dell’Antico Te-
stamento dà come significato di taltî‘ “terzo” e spiega che talîthî è una forma più
comune.
Prima che fossero noti dalle fonti cuneiformi il ruolo vero di Belsazar nel
governo del regno e il suo grado di parentela con Nabonide, ritenendosi che

170 - Vedi A. PARROT, Babilonia e l’Antico Testamento, pp. 6, 27; G.RINALDI, op. cit., p. 88.
171 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 88.

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CAPITOLO 5

Belsazar stesso fosse la prima autorità di Babilonia, si poteva solo ipotizzare


l’identità della seconda presupposta dalla nomina a terza promessa a chi avesse
letto e interpretato lo scritto. Le congetture andavano dalla madre alla moglie al
figlio di Belsazar.
Oggi, conoscendosi con precisione il ruolo politico di Belsazar quale cor-
reggente col padre Nabonide, non ci sono dubbi che era lui, Belsazar, la se-
conda autorità nel governo del regno, per cui egli non poteva conferire altro
grado di autorità che il terzo172.
Vari espositori hanno supposto che Nabonide pensasse a un governo a tre,
o triumvirato, ma la tesi precedente ci sembra preferibile; essa è condivisa fra al-
tri da DOUGHERTY, uno specialista nell’ambito degli studi danielici.

8 Allora entrarono tutti i savi del re; ma non poteron leggere lo


scritto, né darne al re l’interpretazione. 9 Allora il re Belsatsar fu
preso da grande spavento, mutò di colore, e i suoi grandi furono co-
sternati.

La presenza dei professionisti della divinazione nella sala del convito sembra es-
sere presupposta già nel verso precedente ove si dice che il re, dopo avere gridato
forte che si facessero entrare “gli incantatori, i caldei e gli astrologi” “prese a dire ai
savi ecc...” Ma secondo il v. 8 costoro entrano nella sala dopo che il re ha fatto “ai
savi di Babilonia” (v. 7) la promessa di ambite onorificenze se qualcuno di loro
avesse risolto l’enigma. Una incongruenza? Solo in apparenza se si ammette che
nel v. 7 Belsazar si rivolgesse ad alcuni sapienti già presenti fra gli ospiti173. L’en-
trata successiva di “tutti i savi del re” sembra corroborare questa tesi.
Dunque per la terza volta entrano in scena gli specialisti babilonesi dell’arte
divinatoria (cfr. 2:2 e 4:6, 7) e per la terza volta si deve prendere atto di un loro
completo fallimento: non ce n’è uno che riesca a decifrare lo scritto consegnato
all’intonaco della parete dalla mano-fantasma. Il silenzio degli indovini delude le
aspettative di Belsazar e ne accresce lo sgomento che traspare nel pallore del
volto; una grande costernazione si diffonde tra i suoi mille ospiti.
Sul perché gli indovini non riuscissero a decifrare lo scritto si può solo fare
congetture dato il silenzio del testo. Le tre parole erano sicuramente aramaiche
(vedi commento al v. 25) e poiché il caldaico era molto affine all’aramaico, non
doveva essere difficile per i sapienti leggere quelle parole. Si è pensato che esse
fossero scritte con gli antichi caratteri ebraici sconosciuti in Babilonia, un’ipotesi
che sembra verosimile, ma che il S.D.A. Bible Commentary scarta ritenendo
poco probabile che gli uomini colti di Babilonia non conoscessero l’antica scrit-
tura ebraica usata dai Fenici e da altri popoli dell’Asia occidentale oltre che dagli
Ebrei. Il commentario avventista pensa piuttosto che le tre parole formassero
una sorta di criptogramma per cui anche leggendole sarebbe stato impossibile

172 - S.D.A. Bible Commentary, ivi, p. 803.


173 - Ibidem.

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CAPIRE DANIELE

coglierne il messaggio celato in una loro sconosciuta combinazione. La com-


prensione di questo messaggio sarebbe stata possibile solo per illuminazione di-
vina. Sembra l‘ipotesi più plausibile.

10 La regina, com’ebbe udito le parole del re e dei suoi grandi, entrò


nella sala del convito. La regina prese a dire: “O re, possa tu vivere
in perpetuo! I tuoi pensieri non ti spaventino, e non mutar di colore!
11 C’è un uomo nel tuo regno, in cui è lo spirito degli dèi santi; e al
tempo di tuo padre si trovò in lui una luce, un intelletto e una sa-
pienza, pari alla sapienza degli dèi; e il re Nebucadnetsar tuo pa-
dre, il padre tuo, o re, lo stabilì capo dei magi, degli incantatori, de’
Caldei e degli astrologi, 12 perché in lui, in questo Daniele, a cui il re
avea posto nome Beltsatsar, fu trovato uno spirito straordinario,
conoscenza, intelletto, facoltà d’interpretare i sogni, di spiegare
enigmi, e di risolvere questioni difficili. Si chiami dunque Daniele ed
egli darà l’interpretazione”.

La “regina” ()ftK: l a malketha’) non ha preso parte al banchetto giacché entra


: m
nella sala dopo avere udito “le parole del re e dei suoi grandi”. Quelle parole o
le sono state riferite da qualcuno - possibilmente da qualche inserviente uscito
dalla sala - o le ha udite da una sala attigua (ipotesi meno probabile). Sull’iden-
tità di questa figura femminile si possono fare solo congetture perché il testo
non precisa niente di più oltre al suo rango.
La congettura meno probabile è che fosse la moglie di Belsazar (la moglie
di primo rango evidentemente), giacché vigeva nelle antiche corti il divieto rigo-
roso imposto alla moglie del re, come a chiunque altro tranne che alla madre, di
presentarsi davanti al sovrano senza esserne stata convocata (cfr. Ether 4:11,16).
Non si può neanche identificare questa “regina” con la nonna di Belsazar, Adda-
guppi, perché questa era deceduta 8 anni prima. Resta la possibilità che si trat-
tasse della madre di Belsazar. In effetti la regina-madre era oggetto di grande de-
ferenza in tutte le corti dell’Oriente antico (nelle Scritture ebraiche ciò è reso evi-
dente dalla citazione della regina-madre nei passi in cui si ricorda l’inizio del re-
gno dei re giudaiti: vedi per es. 1Re 14:21; 15:2; 22:42 ecc...).
Le fonti cuneiformi attestano l’elevato prestigio della regina-madre nell’am-
biente mesopotamico. Si conoscono lettere di regnanti alla madre dal tono alta-
mente deferente174. Una stele della già ricordata Adda-guppi informa che alla
morte di questo notevole personaggio femminile l’anno nono del regno di suo
figlio Nabonide (547 a.C.), costui fece venire gente da Babilonia e Borsippa e
persino da paesi lontani (“dall’Egitto fino al Mare Superiore - il Mediterraneo -
e... al Mare Inferiore - il Golfo Persico -”) per le solenni esequie ufficiali durate
sette giorni. L’ipotesi più verosimile sembra dunque essere che la “regina” men-

174 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 803.

121
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CAPITOLO 5

zionata in questo v. 10 fosse la madre di Belsazar e moglie di Nabonide. La sag-


gia Notocris figlia di Nabucodonosor ricordata da Erodoto? È possibile175. LEU-
POLD176 propende per la moglie di Nabucodonosor; così pure DOUKHAN177. A noi
sembra preferibile l’altra identificazione.
Fra l’agitazione generale, la “regina” sembra essere la sola persona che ab-
bia mantenuto i nervi saldi. Ella si rivolge al re con la formula di rito (vedi com-
mento a 2:4). Il suo intervento mira a placare il grande turbamento di Belsazar.
La “regina” è convinta che soltanto dal vecchio ministro giudeo di Nabucodono-
sor potrà venire la soluzione del mistero che ha provocato nel palazzo scompi-
glio e costernazione, e propone che Daniele sia convocato subito. Ella sa tutto
su Daniele: sa che in lui “è lo spirito degli dèi santi” (usa l’identica espressione
di Nabucodonosor in 4:8 e 18); sa che al tempo di Nabucodonosor, “padre” di
lui (di Belsazar), si trovarono in Daniele “luce” (in aramaico nahîrû, Uryihná ossia
capacità di penetrare le cose occulte), “intelletto” (in aramaico sokletânû, Unftl f ,
: k: &
ovvero facoltà di comprendere le cose difficili) e “sapienza” (in aramaico chok-
f vale a dire capacità di applicare al meglio la conoscenza acquisita);
mah, hfmk: x
sa che Nabucodonosor gli conferì l’alto incarico di capo supremo dei sapienti di
Babilonia (cfr. 2:48; 4:9); sa che gli ha mutato il nome in Beltsha’zzar (cfr. 4:8);
sa che Daniele ha “facoltà di interpretare i sogni” (cfr. 1:17; 2:36 e 4: 24), di
“spiegare enigmi” (cfr. 4:9), di “risolvere questioni difficili” (cfr. cc. 2 e 4), in ara-
maico qitrîn, }yir+: qi letteralmente “nodi”, un termine che comparirà più tardi in
testi siriaci e arabici come vocabolo della magia. Appoggiandosi al Beek, uno
studioso di Daniele, 178 pensa a nodi letterali adoperati in determinati riti magici.
La perfetta conoscenza di Daniele da parte della “regina” fa presupporre che
questa fosse vissuta alla corte di Babilonia durante il regno di Nabucodonosor
quando appunto Daniele esercitò ivi funzioni pubbliche (2:49); e questo a sua
volta rafforza l’ipotesi di uno stretto rapporto di parentela di lei col grande mo-
narca.

13 Allora Daniele fu introdotto alla presenza del re; e il re parlò a


Daniele, e gli disse: “Sei tu Daniele, uno dei Giudei che il re mio pa-
dre menò in cattività da Giuda?

Daniele, introdotto seduta stante nella sala del banchetto, è sottoposto a interro-
gatorio da parte di Belsazar che sembra volere accertarsi della sua identità: “Sei
tu Daniele...?”
Pur trattandosi di una procedura formale, è tuttavia probabile che Belsazar
non avesse avuto rapporti ufficiali con Daniele. Sosterrebbe questa tesi la possi-
bilità concreta di tradurre la frase interrogativa aramaica: “Sei tu quel

175 - Vedi G.RINALDI, op. cit., p. 89.


176 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 225.
177 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 109.
178 - G.RINALDI, op. cit., p. 90; vedi anche S.D.A. Bible Commentary, ivi, p. 804.

122
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CAPIRE DANIELE

Daniele?”179. Comunque Belsazar sa che Daniele fu deportato in Babilonia dal


paese di Giuda da suo “padre” Nabucodonosor.
È molto probabile che dopo la morte di Nabucodonosor Daniele non eser-
citasse più l’alto incarico cui era stato chiamato dal grande sovrano. Il S.D.A. Bi-
ble Commentary dice al riguardo: “Pare che dopo la scomparsa di Nabucodono-
sor, la politica a cui Daniele aveva dato il suo sostegno non godesse più il fa-
vore della corte di Babilonia, onde Daniele stesso si sarebbe ritirato dal suo inca-
rico pubblico.
Belsazar e i suoi predecessori evidentemente erano del tutto al corrente del
modo di procedere di Dio verso Nabucodonosor (5:22), ma avevano deliberata-
mente ripudiato la sua politica di riconoscimento del vero Dio e di cooperazione
con la sua volontà (4:28-37; 5:23).
Il fatto che Daniele più tardi fosse al servizio della Persia (6:1-3) implica che
il suo ritiro dalla vita pubblica negli ultimi anni dell’impero babilonese non fosse
dovuto a cattiva salute o all’età avanzata. La censura severa di Daniele nei con-
fronti di Belsazar (5:22, 23) mette in evidenza l’ostilità del re verso i princìpi e la
politica statale che Daniele rappresentava.
La disapprovazione della politica ufficiale di Babilonia da parte di Daniele
potrebbe essere stato uno dei motivi che indussero i primi governanti dell’im-
pero persiano a mostrarsi a lui più favorevoli”180.

14 Io ha sentito dire di te che lo spirito degli dèi è in te, e che in te si


trova luce, intelletto, e una sapienza straordinaria.

Belsazar dice a Daniele di aver “sentito dire” (e da chi se non dalla regina di cui
quasi ripete le parole?) che in lui è “lo spirito degli dèi” (omette l’aggettivo
“santi” usato dalla regina, forse perché pensa al Dio d’Israele?), e che lui pos-
siede facoltà eccezionali (luce, intelligenza e sapienza straordinaria - in ara-
maico chokmâh yattîrah, hfryiTyá hfmk: x
f ). Non sembra però ancora convinto che ciò
sia vero.

15 Ora, i savi e gl’incantatori sono stati introdotti alla mia presenza,


per leggere questo scritto e farmene conoscere l’interpretazione; ma
non hanno potuto darmi l’interpretazione della cosa.

Per la terza volta un monarca babilonese (cfr. 2:11 e 4:18) deve constatare l’im-
potenza dei rappresentanti ufficiali della scienza di Babilonia (“i savi e gli incan-
tatori”) di fronte a un enigma che era importante e urgente sciogliere (“non
hanno potuto darmi l’interpretazione della cosa...”).

179 - Vedi H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 28; S.D.A. Bible Commentary, ivi, p. 804.
180 - S.D.A. Bible Commentary, ivi.

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CAPITOLO 5

16 Però, ho sentito dire di te che tu puoi dare interpretazioni e risol-


vere questioni difficili; ora, se puoi leggere questo scritto e farmene
conoscere l’interpretazione, tu sarai rivestito di porpora, avrai al
collo una collana d’oro, e sarai terzo nel governo del regno”.

“... ho sentito dire di te...”. Non è una ripetizione superflua di quanto Belsazar
ha detto nel v. 14. Lì il re si riferiva a un insieme di facoltà straordinarie posse-
dute dal suo interlocutore secondo quanto gli era stato riferito, qui allude alle
cose che egli sarebbe stato in grado di fare attraverso l’esercizio di quelle facoltà:
“dare interpretazioni e risolvere questioni difficili”.
Belsazar però non ha la stessa convinzione della regina circa la capacità
reale di Daniele di “risolvere questioni difficili”. La regina aveva detto del pro-
feta: “... egli darà l’interpretazione...” (v. 12 u.p.); lui, Belsazar, dice a Daniele:
“se puoi leggere questo scritto...”. Il re ripete a Daniele la promessa fatta prima ai
sapienti (v. 7): egli riceverà la porpora, la collana d’oro e la posizione di terza
autorità nel governo del regno se decifrerà e interpreterà lo scritto (vedi com-
mento al v. 7).

17 Allora Daniele prese a dire in presenza del re: “Tieniti i tuoi doni
e da’ a un altro le tue ricompense; nondimeno io leggerò lo scritto al
re e gliene farò conoscere l’interpretazione.

I doni di Dio sono gratuiti, così deve essere il loro esercizio. Del resto Daniele
non ambisce i beni e gli onori terreni: “Tieni per te i tuoi doni e dai a un altro le
tue ricompense !”
Può sembrare una risposta brusca e scortese. Si è detto, a ragione, che non
era il caso per il profeta di introdurre la sua risposta alla richiesta del re con una
formula di cortesia dal momento che questi non ha avuto alcun riguardo verso il
suo Dio.
Daniele dunque rifiuta l’altissima onorificenza che gli viene offerta (quanto
è diverso lo spirito di questo autentico uomo di Dio da quello del mago-profeta
Balaam! Vedi Nu 22:7,8; De 23:4); nondimeno risponderà alla richiesta del re.

18 O re, l’Iddio altissimo aveva dato a Nebucadnetsar tuo padre, re-


gno, grandezza, gloria e maestà;

Daniele fa precedere la lettura e l’interpretazione dello scritto da una considera-


zione di ordine religioso e morale. Il discorso preliminare ne ricalca nello
schema e nei contenuti un altro fatto molti anni prima davanti all’avo di Belsa-
zar, il re Nabucodonosor (vedi 4:21-25).
Con tutta evidenza è la drammatica vicenda della follia di Nabucodonosor
che il profeta rievoca in questa premessa. Esattamente come aveva fatto al
tempo di quella vicenda prima di interpretare il sogno dell’albero (cfr. 4:21-25),
Daniele pone in contrasto la grandezza superlativa dell’allora sovrano di Babilo-
nia e l’estrema miseria fisica e morale nella quale egli precipitò per avere esal-

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CAPIRE DANIELE

tato se stesso anziché l’Iddio altissimo dal quale proveniva la sua fortuna: Egli
“aveva dato a Nabucodonosor... regno, grandezza, gloria e maestà” (vedi 2:37 e
relativo commento).

19 e a motivo della grandezza ch’Egli gli aveva dato, tutti i popoli,


tutte le nazioni e lingue temevano e tremavano alla sua presenza;
egli faceva morire chi voleva, lasciava in vita chi voleva; innalzava
chi voleva, abbassava chi voleva.

Colpisce la preoccupazione costante di Daniele di porre in cima ad ogni succes-


siva considerazione l’Iddio altissimo (cfr. 2:28, 29; 4:25).
Fu per la grandezza che aveva ricevuto da Lui - puntualizza Daniele - che
furono ridotti sotto il dominio di Nabucodonosor, l’avo di Belsazar, gli svariati
gruppi etnici, nazionali e linguistici che formarono il suo impero (cfr. Gr 28:14),
e fu per la stessa ragione che i suoi sudditi lo temettero e tremarono in sua pre-
senza (cfr. l’oracolo sul re di Babilonia in Is 14:16, 17), e che egli poté esercitare
sugli uomini un potere illimitato (“faceva morire chi voleva...” cfr. 2Re 25:6, 7; Gr
29:21, 22).

20 Ma quando il suo cuore divenne altero e il suo spirito s’indurò


fino a diventare arrogante, fu deposto dal suo trono reale e gli fu
tolta la sua gloria; 21 fu cacciato di tra i figliuoli degli uomini, il suo
cuore fu reso simile a quello delle bestie, e la sua dimora fu con gli
asini selvatici; gli fu data a mangiare dell’erba come ai buoi, e il suo
corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, finché non riconobbe che
l’Iddio altissimo, domina sul regno degli uomini, e ch’egli vi stabili-
sce sopra chi vuole.

Dopo avere rievocato la grandezza di Nabucodonosor quale segno del favore


dell’Iddio altissimo, Daniele ne ricorda la perdita repentina del potere (il “trono
reale”) e del prestigio (la “gloria”) a seguito della follia che lo ha ridotto in uno
stato di abbrutimento, e questo per essersi egli fatto altero e arrogante in dispre-
gio dell’avvertimento ricevuto attraverso il sogno dell’albero (cfr. 4:25, 27).
La rievocazione della cupa vicenda è fatta dal profeta quasi con le stesse
parole del suo preannuncio e della sua descrizione in 4: 16, 25, 33, con qualche
omissione e qualche variante (per es. in 5: 21 “asini selvatici” anziché “bestie dei
campi” come in 4:25). I verbi alla forma passiva denotano la provenienza so-
vrannaturale della sciagura che si abbatté su Nabucodonosor.

22 E tu, o Belsatsar, suo figliuolo, non hai umiliato il tuo cuore,


quantunque tu sapessi tutto questo; 23 ma ti sei innalzato contro il
Signore del cielo; ti sono stati portati davanti i vasi della sua casa, e
tu, i tuoi grandi, le tue mogli e le tue concubine ve ne siete serviti per
bere; e tu hai lodato gli dèi d’argento, d’oro, di rame, di ferro, di le-
gno e di pietra, i quali non vedono, non odono, non hanno cono-

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CAPITOLO 5

scenza di sorta, e non hai glorificato l’Iddio che ha nella sua mano il
tuo soffio vitale, e da cui dipendono tutte le tue vie. 24 Perciò è stato
mandato, da parte sua, quel mozzicone di mano, che ha tracciato
quello scritto.

Belsazar non è all’oscuro dello sconvolgente avvenimento che Daniele ha rievo-


cato, e sebbene esso sia lontano nel tempo, l’impatto su quanti vissero nel pa-
lazzo in quei giorni fu tale che esso non poteva essere dimenticato nemmeno
dopo tanti anni. Ma Belsazar, il “figlio” del protagonista di quella storia alluci-
nante, pur rammentandola, non ne ha tenuto conto (“quantunque tu sapessi
tutto questo... ti sei innalzato contro il Signore del cielo...”). È proprio vero che
“la storia insegna che gli uomini non imparano niente dalla storia”!
Nel v. 18 Daniele aveva alluso a un rapporto di paternità di Nabucodonosor
con Belsazar (“Nabucadnetsar tuo padre”), qui accenna a una relazione di filglio-
lanza di Belsazar con Nabucodonosor (“E tu, Belsatsar, suo figliolo...”). Sui signi-
ficati possibili del termine “padre” (’av, in aramaico ed ebraico) si è detto nel
commento al v. 2. Qui si può aggiungere che nell’Antico Testamento “figlio”
(bar in aramaico, ben in ebraico), allo stesso modo che “padre”, può rivestire
una varietà di sensi. Può significare discendente (Es 32:26; Ml 3:6), e in qualche
caso uno che domanda aiuto e protezione a un’autorità spirituale (1Sm 25:8). In
1Sm 26:17 Saul si rivolge a Davide con l’appellativo di “figlio”, mentre sappiamo
che in realtà ne era genero. Sensi traslati del vocabolo “figlio” sono documentati
anche fuori d’Israele.
Per esempio un testo assiro del IX secolo a.C. chiama Jehu, il generale ri-
belle di Joram di Samaria, “figlio di Omri”, benché non ci fosse tra i due alcun
rapporto di parentela, anzi Jehu fu lo sterminatore della discendenza di Omri
(2Re 10:17). Nel documento assiro “figlio di Omri” ha il significato evidente di
successore dell’ultimo discendente di Omri. Nell’ambiente semitico, dunque, suc-
cessore è un altro significato del vocabolo “figlio”. In Dn 5:22 “suo figlio” può
leggersi “suo discendente” o anche “suo successore”.
Torniamo a Belsazar. L’offesa che costui ha recato all’Iddio del cielo è più
grave ancora di quella di cui si rese colpevole il suo avo. Nabucodonosor non
aveva voluto riconoscere la sovranità universale dell’Iddio altissimo (4:25); il suo
discendente gli si è levato contro, lo ha oltraggiato profanando le sue cose sacre
e lodando in dispregio di Lui gli idoli ciechi, sordi e privi di conoscenza. Eppure
l’Iddio che Belsazar ha offeso è Colui dal quale egli ha ricevuto la vita e da cui
dipende ad ogni istante la conservazione di essa. L’Iddio del cielo ha raccolto la
sfida insensata e vi ha risposto prontamente. Ecco il significato di quel mozzi-
cone di mano e di quello scritto che hanno atterrito Belsazar. “Questa spiega-
zione preliminare - commenta LEUPOLD - in un cero senso era più necessaria per
Belsazar che la stessa interpretazione dello scritto”181.

181 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 233.

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CAPIRE DANIELE

Daniele prima denuncia con chiarezza e grande coraggio il gesto sacrilego


di Belsazar, poi svela il messaggio nascosto nello scritto misterioso.

25 Questo e lo scritto ch’è stato tracciato: MENE, MENE, TEKEL,


UFARSIN.

Il profeta procede alla lettura dello scritto. Sono tre parole aramaiche: la prima è
ripetuta due volte e la terza è alla forma plurale. Difficile dire con che tipo di
scrittura fossero state tracciate. Con quella cuneiforme certamente no, altrimenti
il re e i suoi dignitari le avrebbero lette. Probabilmente le parole erano scritte
con i caratteri aramaici (non sconosciuti ai sapienti di Babilonia) o con i più anti-
chi caratteri ebraici.
Di certo erano formate di sole consonanti: MN’ MN’ TKL FRSN (la vocaliz-
zazione del testo attuale di Daniele come di tutta la Bibbia ebraica risale a non
oltre il IX secolo della nostra era). Si deve comunque notare che alla luce dell’in-
terpretazione di Daniele, la vocalizzazione masoretica delle tre parole aramaiche
appare più che plausibile, come si vedrà più avanti. È stata rilevata un’affinità
delle parole lette da Daniele con dei termini del vocabolario commerciale: )¢nm :
MENE’ = mina, l"qT: TEKEL = siclo (shekel in ebraico), }yisr : pa U UFARSIN, plurale di
PERES = mezzo siclo (la terza parola è preceduta dalla congiunzione aramaica
“u” (= “e”) la quale, per una legge fonetica, muta in “f” la “p” della parola a cui
di unisce).
Se i tre vocaboli si leggono come sostantivi, si hanno questi tre valori ponde-
rali e monetari decrescenti: MINA (2 volte), SICLO, MEZZI SICLI (il gruppo conso-
nantico PRS compare col significato di “mezzo siclo” nell’Iscrizione di Senchirli).
Se il primo dei due MENE’ si interpreta come imperativo del verbo menã’,
lo scritto si può leggere: “Conta una mina, un siclo, mezzo siclo.” I sapienti del
re, non sappiamo per quale ragione, non possono leggere lo scritto. Ad ogni
buon conto, anche se ne fossero stati capaci, non avrebbero potuto interpretarlo,
giacché non disponevano di un contesto logico in cui inserirlo perché avesse
senso. In tempi recenti, degli studiosi che hanno letto i tre vocaboli aramaici
come sostantivi hanno tentato di rapportare i valori monetari così desunti a dei
re babilonesi che regnarono consecutivamente.
Sono riportate di seguito, attinte da The New Bible Dictionary, le proposte
più interessanti:
● C.S.CLERMONT GANNEAU: NABUCODONOSOR (mina’), BELSAZAR (siclo),

MEDI e PERSIANI (mezzi sicli).


● E.G. KRAELING: EVIL-MERODAC e NERIGLISSAR (mina’, mina’), LABASHI

MARDUK (siclo), NABONIDE e BELSAZAR (mezzi sicli).


● N.L. GINSBERG: NABUCODONOSOR (mina’), EVIL-MERODAC (siclo), BEL-

SAZAR (messi sicli).


● D.N. FREEDMAN: NABUCODONOSOR (mina’), NABONIDE (siclo), BELSA-

ZAR (mezzi sicli).


Sono proposte allettanti ma tutto sommato inconcludenti.
I tre gruppi consonantici possono leggersi come radici verbali e così in effetti le

127
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CAPITOLO 5

lesse Daniele stando all’interpretazione che ne fornì. Per la maggioranza degli


espositori moderni le tre parole hanno la forma di participi passivi (dissente il
S.D.A.Bible Commentary che riconosce questa forma soltanto alla prima).

26 E questa è l’interpretazione delle parole: MENE: Dio ha fatto il


conto del tuo regno, e vi ha posto fine. 27 TEKEL: tu sei stato pesato
con la bilancia, e sei stato trovato mancante. 28 PERES: il tuo regno è
diviso, e dato ai Medi e ai Persiani”.

Decifrato lo scritto, la frase criptica che ne risulta ha bisogno di essere interpre-


tata, e questo solo Daniele può farlo perché solo lui è illuminato dallo spirito
dell’Iddio altissimo da cui il messaggio proviene. Da ciascuna delle tre parole
l’interprete ispirato trae una doppia proposizione, la seconda consecutiva ri-
spetto alla prima. Esaminiamole una dopo l’altra.
MENE’, dal verbo aramaico menã’, “contare”, “numerare”, come participio
passivo “contato”, “numerto”. Dio ha contato i giorni assegnati alla durata del re-
gno di Belsazar e ha decretato che essi sono giunti alla fine. Secondo LEUPOLD la
ripetizione di mene’ nella lettura potrebbe essere indice di un doppio senso del
vocabolo: “contato” la prima volta, “fissato il limite” la seconda.
TEKEL, dal verbo tekãl, forma aramaica del verbo ebraico shakal (lo “sh”
ebraico si muta in “t” nell’aramaico). Altrove nell’Antico Testamento “pesare” in
senso metaforico significa “giudicare”: cfr. 1Sm 2:3; Gb 31:6; Pr 24:12. Dio ha fis-
sato per ogni individuo uno “standard” di crescita e di maturità a seconda dei ta-
lenti, della posizione e del grado di responsabilità nella vita. Il re Belsazar è stato
pesato sulla bilancia di Dio ed è risultato al di sotto dello “standard” che corri-
sponde alla sua posizione. Egli è colpevole per questo, allo stesso modo che nel
commercio è reato di frode un peso inferiore a quello pattuito fra venditore e
compratore.
PERES, dal verbo aramaico paras, “dividere”, “spezzare”. È la forma singo-
lare di parsîn che preceduta dalla congiunzione “u” diventa farsin. Il regno di
Belsazar è diviso e assegnato ai Medi e ai Persiani. Non metà agli uni e metà agli
altri, giacché Daniele considera sempre la Media e la Persia come un regno uni-
tario (con un unico simbolo le rappresenta nel capitoli. 2, 7 e 8: il petto d’ar-
gento, l’orso e il montone).
È ben vero tuttavia che una provincia dell’impero babilonese (la Caldea) sa-
rebbe governata d’ora innanzi da un medo (9:1) investito di tale potere (“rice-
vette il regno”) da un’autorità superiore (verosimilmente il re “di Media e di Per-
sia” - 8:20 - che governa il resto dell’impero).
Forse si allude a questo dicendosi che il regno di Belsazar sarebbe diviso e
dato ai Medi e ai Persiani. Il regno di Dario in tutti i casi è una porzione ben
modesta dell’immenso impero medo-persiano.
Vocalizzata in modo che suoni paras la radice prs significa “Persia” (e “per-
siani” nella forma plurale prsn, perasin): Daniele vi coglie i due sensi: “il tuo re-
gno è DIVISO e dato ai Medi e ai PERSIANI”.
Il senso globale del messaggio è quello di un giudizio e di una sentenza

128
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CAPIRE DANIELE

con effetto immediato. Il riferimento alla Media e alla Persia come entità politica
unitaria (cfr. 6:8, 12, 15; 8:20) mostra che il nostro autore ha una conoscenza
esatta della storia.
Fino al 550 a.C. le tribù persiane erano rimaste sotto la sovranità dei Medi ,
ma in quell’anno esse ebbero il sopravvento sui loro dominatori avendo Ciro,
principe persiano, vinto e deposto Astiage loro re. Ciro però non impose ai vinti
la sua sovranità, al contrario li associò nel governo del nuovo stato unendo di
fatto le due etnie in un’unica nazione. È difficile credere che un giudeo palesti-
nese del II secolo a.C. fosse così bene informato sulla composizione etnica e la
struttura politica di un impero che non esisteva più da oltre 160 anni!

29 Allora, per ordine di Belsatsar, Daniele fu rivestito di porpora, gli


fu messa al collo una collana d’oro, e fu proclamato che egli sarebbe
terzo nel governo del regno.

L’uomo che si è rivelato superiore a tutti i sapienti di Babilonia col decifrare e in-
terpretare lo scritto misterioso, riceve le onorificenze che il re ha promesso. Da-
niele le aveva rifiutate, ma gli ordini del re non si discutono ed egli deve suo mal-
grado vestire l’abito di porpora, indossare la collana d’oro (cfr. Ge 44:42) e farsi
proclamare la terza autorità del regno, un regno che ha peraltro le ore contate.

30 In quella stessa notte, Belsatsar, re de’ Caldei, fu ucciso;

Si compie inesorabilmente e in brevissimo tempo il pesante verdetto su Belsazar


che Daniele ha tratto dall’ultima delle tre parole scritte sulla parete. Il testo de-
dica poche parole all’evento tragico e repentino, ma alla sua laconicità suppli-
scono le notizie più dettagliate che ne forniscono gli storiografi greci. ERODOTO
(ca. 480-420 a.C.) descrive così la conquista persiana di Babilonia:

... per mezzo di un canale, avendo immesso le acque dell’Eufrate


nel bacino scavato che era allo stato di palude, (Ciro) fece sì che, ab-
bassandosi il livello del fiume, il vecchio letto diventasse guadabile.
Ottenuto un tale risultato, i Persiani che avevano ricevuto l’ordine
proprio in vista di questo, quando l’Eufrate si fu abbassato tanto da
non giungere nemmeno a metà coscia d’un uomo, ne seguirono il
corso ed entrarono in Babilonia. (...)
... i persiani si trovarono loro davanti all’improvviso.
Data la grande estensione della città... erano già in mano dei ne-
mici i quartieri estremi della città, quando i Babilonesi che abitavano il
centro non sapevano ancora di essere presi; ma in quel momento si
davano alla danza (capitava infatti, che per loro fosse giorno di festa) e
alla pazza gioia...
In questo modo allora fu presa Babilonia per la prima volta.

Anche SENOFONTE (ca. 430-354 a.C.) è informato che Belsazar cadde in po-

129
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CAPITOLO 5

tere dei Persiani durante una notte di bagordi. Lo storico ateniese riferisce che i
soldati di Ciro penetrarono di notte nella città e, avuta facilmente ragione delle
guardie ubriache, entrarono nel palazzo dove si svolgeva un festino e vi uccisero
il re che tentò di opporre resistenza182. Secondo la Cronaca di Babilonia era il
14 di tishratu dell’anno 17° di Nabonide, il 10 ottobre del 539 a.C. secondo il ca-
lendario giuliano183.

31 e Dario il Medo, ricevette il regno, all’età di sessantadue anni.

“... dopo di te sorgerà un altro regno, inferiore al tuo”, aveva sentenziato


Daniele molti anni prima al re Nabucodonosor (2:39). La profezia si avvera, tra-
monta il dominio babilonese, sorge il dominio dei Medi e dei Persiani: “Dario il
Medo ricevette il regno”. È il trapasso dall’oro all’argento nel sogno di Nabuco-
donosor (2:30, 36-39); dal leone all’orso nella visione di Daniele (7:4, 5).
Sull’identità di Dario il medo si discuterà nel commento al v. 1 del capitolo
seguente. Per concludere il commento del cap. 5 ci sembra pertinente la se-
guente osservazione del prof. R.P.DAUGHERTY: “Fra tutte le fonti non babilonesi
che parlano della situazione vigente alla fine dell’impero neo-babilonese, il capi-
tolo quinto di Daniele è la più vicina ai documenti letterari cuneiformi per
quanto attiene agli eventi più importanti. Il resoconto biblico può considerarsi
una fonte di grande valore, perché cita il nome di Belsazar, perché attribuisce
potere regale a Belsazar e perché riconosce l’esistenza di una doppia autorità nel
governo del regno. I documenti cuneiformi babilonesi del sesto secolo a.C. for-
niscono prove ineccepibili sulla correttezza di questi tre nuclei storici basilari,
contenuti nella narrazione biblica sulla caduta di Babilonia”184.

182 - SENOFONTE, Ciropedia, VII, 5, 15-31.


183 - R.A.PARKER e W.H.DUBBERSTEIN, Babylon Chronology... p. 13
184 - R.P.DAUGHERTY, Nabonidus and Belshazzar, p. 216, citato da S.D.A.Bible Commentary,
ivi, p. 808.

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CAPIRE DANIELE

Capitolo 6
____________________________

D aniele non è stato travolto dagli avvenimenti che hanno cambiato la fisiono-
mia politica della pianura mesopotamica. Nonostante che avesse svolto man-
sioni di governo sotto la passata amministrazione, il nuovo re di Babilonia, Da-
rio il medo, lo vuole accanto a sé mentre procede alla riforma amministrativa
dello Stato. Pensa addirittura di affidargli la supervisione di tutta l’amministra-
zione statale. Ciò suscita la gelosia dei funzionari subalterni che non esitano a
tramare un complotto contro di lui, ma la competenza e la correttezza di Daniele
vanificano il loro malvagio disegno.
I nemici di Daniele però non demordono: escogitano un piano diabolico per
volgere in violazione della legge dello Stato la fedeltà di Daniele alla legge del suo
Dio. Stavolta l’ignobile progetto va a buon fine con la complicità inconsapevole
del sovrano. Quando Dario si accorge di essere caduto in un tranello, è troppo
tardi per tornare indietro: non può fare nulla per sottrarre il suo fedele ministro
alla pena capitale. A questo punto interviene l’evento miracoloso.
Come tanti anni prima un angelo del Signore aveva protetto dall’ardore del
fuoco Shadrac, Meshac e Abed-nego, così adesso un angelo del Signore rende
inoffensive le belve alle quali Daniele è stato dato in pasto. Per ordine del re Da-
rio, Daniele è tratto fuori dalla fossa dei leoni e i suoi accusatori vi finiscono den-
tro con le mogli e i figli; e stavolta le belve non rimangono inoperose.
Il racconto si chiude con un proclama reale rivolto a tutti i sudditi del regno,
un proclama nel quale si impone il rispetto del Dio di Daniele e si esaltano la sua
sovranità eterna e il suo potere di salvare.

1 Parve bene a Dario di stabilire sul regno centoventi satrapi, i quali


fossero per tutto il regno;

Il nuovo signore di Babilonia come primo atto di governo attua una riforma am-
ministrativa dello Stato, che si identifica non con l’impero di Persia sul quale
Ciro esercita la sovranità, ma con la provincia di Caldea (cfr. 9:1) nella Mesopo-
tamia inferiore.
R.H.CHARLES osserva che “una sorta di divisione di Babilonia è documentata
nelle tavolette annalistiche di Ciro ove si dice che Gubaru, governatore di Babi-
lonia sotto Ciro, ‘nominò dei governatori in Babilonia’”185. Si è osservato che du-

185 - Citato da H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 248.

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CAPITOLO 6

rante la dominazione persiana i “satrapi” governavano le vaste unità territoriali in


cui era suddiviso l’impero, le “satrapie”, mentre i 120 “satrapi” nominati da Dario
il Medo amministravano aree geografiche di ben modesta entità. Se ne è dedotto
che Daniele deve essere incorso in una inesattezza, ma poiché la stessa “inesat-
tezza”, come ha notato R.D. WILSON, si riscontra nella storiografia greca, LEUPOLD
giustamente conclude che il termine “satrapi” doveva essere usato sia in riferi-
mento a funzionari di alto grado, sia per designare funzionari di grado infe-
riore186.
Sappiamo da ERODOTO (III. 89) che Dario I divise l’impero in 20 satrapie e
suddivise queste ultime in unità amministrative minori. Nei testi di Dario le satra-
pie figurano essere più numerose (da 21 a 29), probabilmente perché più volte
questo sovrano modificò il numero e le dimensioni di codeste vaste regioni am-
ministrative durante il suo regno. Secondo Ether 1:1 il re Assuero (il Serse della
storia) regnò su 127 province (ebr. medînâh), verosimilmente il numero totale
dei distretti in cui erano suddivise le satrapie. Ma le “satrapie” di cui parla Ero-
doto e le “province” ricordate in Ether 1:1 non hanno niente a che vedere con i
distretti amministrativi istituiti da Dario il Medo: quelle riguardavano tutto l’im-
pero, queste il solo territorio del “regno dei Caldei” (9:1) sul quale si esercitava
la sovranità subordinata del Dario di Daniele.
Chi è Dario il Medo? Per Daniele è una persona concreta. È figlio di As-
suero (9:1), succede a Belsazar (5:31), precede Ciro (6:28), riforma l’amministra-
zione dello stato (6:1). Ma per la storia rimane tuttora una figura avvolta nel mi-
stero. Nessuna delle fonti greche e babilonesi che documentano la fine dell’im-
pero caldeo conosce il suo nome. Certi studiosi di scuola liberale hanno liqui-
dato la questione affermando che Dario il Medo è una figura leggendaria parto-
rita dalla fantasia dell’autore del libro; altri hanno insinuato che lo scrittore giu-
deo confonda Dario il medo con Dario I, terzo successore di Ciro. Non solo, ma
fa di Serse (Assuero) il padre di Dario mentre in realtà ne era figlio. Sono giudizi
affrettati e in buona parte ingiustificati. Infatti:

● è accaduto e potrebbe ancora accadere che il nome di un personaggio bi-


blico sconosciuto alla storia (il caso di Belsazar è emblematico) riaffiori
dalla sabbia dopo millenario oblio grazie a uno scavo archeologico;
● Daniele distingue il successore di Belsazar da Dario I figlio di Istaspe col

precisare che quegli appartiene alla stirpe dei Medi (9:1), mentre questi è di
estrazione persiana, e che occupa il trono di Babilonia all’età di 62 anni,
mentre Dario I cominciò a regnare sulla Persia in età più giovanile;
● Daniele mostra di conoscere bene la successione dei primi regnanti di

Persia dopo la caduta di Babilonia. Infatti in 11:2 allude a tre re che deb-
bono sorgere in Persia (dopo Ciro) e a un quarto che sarà più ricco e “sol-
leverà tutti contro il regno di Grecia”. Poiché è trasparente in questo quarto

186 - Vedi H.C. LEUPOLD, op. cit., pp. 247-248.

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CAPIRE DANIELE

re la figura di Serse, è ovvio che i tre che dovevano precederlo sono Dario
I, il falso Smerdis e Cambise il figlio di Ciro.
● Daniele sa infine che Ciro regna sulla Persia (10:1) e che Dario il Medo

governa soltanto la Caldea e con potere subordinato (9:1): “fu fatto re dei
Caldei”.

Comunque, sull’identità di Dario il medo, mancando riferimenti diretti nelle fonti


storiche note, possiamo solo fare congetture. Intanto possiamo ipotizzare con
verosimiglianza che questo personaggio fosse conosciuto anche sotto un nome
diverso. A dire il vero, è più che un’ipotesi se dobbiamo credere a GIUSEPPE FLA-
VIO il quale asserisce che il Dario di Daniele era “chiamato dai Greci con un altro
nome”187.

Abbiamo effettivamente notizie su regnanti dell’Antico Oriente che adotta-


rono un secondo nome.
Il re assiro Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.), per esempio, assunse il nuovo
nome di Pûlû quando cinse la corona di Babilonia188. Anche la Bibbia conosce il
doppio nome di questo sovrano (vedi 2Re 15:19, 29; 1Cr 5:26). Suo figlio Salma-
nassar V (727-722 a. C.) pure adottò un secondo nome, ululãya, come re di Babi-
lonia189. I testi amministrativi di Borsippa del periodo persiano menzionano un re
di nome Akshimakshu sconosciuto alle altre fonti antiche. Si è accertato che Ak-
shimakshu era una variante del nome di un noto regnante persiano, Serse I190.
Dario potrebbe dunque essere una variante del nome del re medo che fu
posto sul trono di Babilonia dopo la morte di Belsazar. Gli espositori che danno
come attendibili i racconti danielici hanno cercato di far coincidere la figura di
Dario il Medo con quella di un personaggio noto della storia. Vediamo quali
sono stati i personaggi coi quali si è tentato di identificarlo.

1. Astiage, ultimo re dei Medi. Proposto da B. ALFRINK e altri studiosi come


il possibile equivalente storico del Dario danielico. Secondo ERODOTO (I,107,108)
Ciro nacque da una sua figlia e dal principe persiano Cambise I. A parte l’origine
etnica non si riscontrano altre attribuzioni comuni ad Astiage e Dario il Medo.
a) Il padre di Astiage fu Ciassare I, non Assuero (Serse).
b) Dario il medo aveva 62 anni quando fu fatto re dei caldei (5:31), Astiage,
se era ancora in vita, era molto più anziano nel 539 a.C., avendo cominciato
a regnare quasi 50 anni prima.

187 - GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, X. 11. 4.


188 - Vedi E. CASSIN - J. BOTTERO - J. VERCOUTTER, Gli imperi dell’Antico Oriente, St. Univers. Feltri-
nelli, vol.4, p. 54.
189 - Ibidem, p. 47.
190 - Vedi C.O. JONSSON, I tempi dei Gentili..., p. 246.

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CAPITOLO 6

c) Astiage cercò di sopprimere Ciro fin dalla nascita191; da adulto Ciro lo


vinse e, secondo alcune fonti, lo relegò in Ircania, secondo altre lo uccise. È
difficile ammettere che Ciro possa averlo fatto re di Babilonia.

2. Ciassàre II, figlio di Astiage. Come ultimo re dei Medi è noto soltanto a
SENOFONTE192. Nell’antichità è stato identificato col Dario di Daniele da GIUSEPPE
FLAVIO193. GIROLAMO194 cita questa opinione dello storico giudaico e sembra con-
dividerla. Ai nostri giorni hanno mantenuto tale identificazione un buon numero
di autori. H.H. ROWLEY195 ricorda LOWTH, HENGSTENBERG, ROSENMULLER, HÄVERNICK,
KRANICHFELD, KLIEFOTH, ZÖKLER, KNABENBAUER. In ambito avventista questa tesi ha
raccolto il consenso del S.D.A. Bible Commentary196 e più recentemente di G.H.
HASEL197. Fra i cattolici di lingua italiana è condivisa da E.TESTA198. Effettivamente
si riscontrano vari punti di contatto fra Ciassàre II e il Dario di Daniele. Ciassàre
appartenne alla stirpe dei Medi, fu zio, e secondo SENOFONTE anche suocero di
Ciro, ebbe rapporti amichevoli con lui; la sua età all’epoca della caduta di Babi-
lonia coincideva su per giù con quella di Dario il Medo, indicata da Daniele. In-
fine Senofonte non dà più notizie di lui in rapporto agli anni che seguirono di
poco la caduta di Babilonia. Tuttavia altre circostanze rendono problematica
questa identificazione.
a) Le notizie di Senofonte su Ciassàre non sempre sono attendibili, specie
laddove le contraddicono le fonti cuneiformi;
b) il nome del padre di Ciassàre era Astiage, non Assuero;
c) una presenza di Ciassàre II in Babilonia come successore di Belsazar-Na-
bonide non è attestata nelle fonti storiche.

3. Ciro II, re di Persia. D.J. WISEMAN ha proposto di identificarlo col Dario


danielico supponendo che Dario fosse un altro nome di Ciro e che la congiun-
zione aramaica “u” in Dn 6:28 abbia funzione esplicativa (“cioè”) e non congiun-
tiva (“e”), cosa possibile secondo i grammatici. WISEMAN ha letto così il passo in
questione: “E questo Daniele prosperò sotto il regno di Dario, cioè sotto il regno
di Ciro il persiano.” J.N. BULMAN e J.D. DOUGLAS hanno appoggiato questa propo-
sta dell’assiriologo inglese e altri studiosi, come J.G. BALDWIN, A.R. MILLARD e G.
WENHAM l’hanno condivisa199. Questa tesi nondimeno ha contro di sé non minori
difficoltà che le precedenti.

191 - Cfr. ERODOTO I, 108.


192 - Vedi, Ciropedia, 1.5, 2, ecc...
193 - Antichità Giudaiche, X. 11, 4
194 - Cfr. Girolamo su Daniele, p. 89
195 - Citato da G.H. HASEL in Symp. On Daniel, p. 113, nota 173.
196 - Vedi Vol IV, pp. 816, 817.
197 - Vedi Daniel, questions débattues, p. 33.
198 - Vedi Il messaggio della Salvezza, vol. III, p. 140.
199 - Vedi HASEL, op. cit., pp. 113, 114.

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CAPIRE DANIELE

a) Ciro aveva meno i 62 anni all’epoca della conquista di Babilonia;


b) Daniele distingue i due personaggi notando che l’uno è persiano (6:28) e
l’altro medo (5:30; 9:1; 11:1);
c) Ciro regna sulla Persia (10:1), Dario sui Caldei (9:1);
d) il padre di Ciro fu Cambise, Dario fu figlio di Assuero (9:1).

4. Cambise II figlio di Ciro. Da una trentina di testi cuneiformi si evince


che Ciro nominò suo figlio Cambise re-vassallo di Babilonia per il periodo di un
anno, mentre lui continuò a regnare sulla Persia. Sulla base di questo dato docu-
mentato vari autori moderni hanno proposto di identificare il Dario danielico col
figlio di Ciro200. Si deve dire che questo tentativo pure urta contro non lievi diffi-
coltà.
1) Non si sa in quale dei 10 anni del regno di Ciro dopo la conquista di Ba-
bilonia Cambise abbia regnato come re-vassallo;
2) Cambise era persiano, non medo;
3) era figlio di Ciro, non di Assuero;
4) aveva meno di 62 anni nel 539 a.C.

5. Gubaru. Per vari decenni si è tentato di identificare il Dario di Daniele


con Gubaru governatore di Babilonia secondo la Cronaca di Nabonide. È stato
E.BABELON il primo a proporre, nel 1881, questa identificazione poi condivisa da
studiosi come F.DELITZSCH, F.W.ALBRIGTH, G.PINCHES, R.D.WILSON, MÖLLER e altri201.
Ma poiché le notizie di fonte babilonese e greca su questo personaggio sembra-
vano contraddittorie, H.H.ROWLEY, seguito da altri, rifiutò questa identificazione.
Fu merito di J.C.WHITCOMB l’avere dimostrato nel 1959, sulla base di uno studio
comparato di tutti i documenti antichi che facevano riferimento a Gubaru, che
dalla caduta di Babilonia fino all’anno V di Cambise ci furono due personaggi
che portarono questo nome: il governatore di Babilonia di cui si è detto sopra e
il generale di Ciro, che conquistò Babilonia, ricordato nella stessa Cronaca di
Babilonia, anche col nome di Ugbaru, e da Senofonte col nome di Gobryas.
Whitcomb ha mantenuto l’identificazione di Dario il Medo col primo Gubaru - il
governatore di Babilonia - in quanto il secondo sembrava essere vissuto troppo
poco dopo la presa di Babilonia per poter avere svolto il ruolo attribuitogli da
Daniele. Due fatti però rendono problematica l’identificazione proposta da Whit-
comb. Il primo è che Gubaru fu governatore di Babilonia mentre Dario il Medo
occupò secondo Daniele una posizione più elevata (“fu fatto re”, 9:1). Il secondo
è che Gubaru cominciò a governare nell’anno IV di Ciro e rimase in carica fino
all’anno V di Cambise, mentre Dario il Medo fu posto sul trono di Babilonia su-
bito dopo la morte di Belsazar e il suo regno finì prima dell’anno III di Ciro (cfr.
Dn 9:1 con 10:1). W.H.SHEA, dopo uno studio accurato dei testi babilonesi, è
giunto alla conclusione che Ugbaru governatore del Gutium e generale di Ciro

200 - HASEL, op. cit., p. 113 nota 176, ricorda H.WINKLER, P.RIESSLER e C.BOUTFLOWER.
201 - Vedi HASEL, op. cit., p. 114.

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CAPITOLO 6

risponde meglio di Gubaru governatore di Babilonia alle attribuzioni del Dario


danielico. Ecco in sintesi l’argomentazione del nostro autore:

● In tutti i documenti datati dei re neobabilonesi, da Nabopolassar a Nabo-


nide, il titolo reale è “Re di Babilonia”.
● Nel periodo persiano, da Ciro a Dario I, a questo titolo si aggiunge “Re

dei Paesi”.
● Dopo la rivolta antipersiana di Babilonia, repressa da Serse I nel 482 a.C.,

questo sovrano abolì il titolo di “Re di Babilonia” e mantenne soltanto


quello di “Re dei Paesi”. Tale uso continuò fino ad Alessandro il Macedone.
● I testi economici e amministrativi di Babilonia rivelano che Ciro, contraria-

mente ai suoi predecessori neo-babilonesi, non assunse il titolo di “Re di


Babilonia” durante i 4 mesi dell’anno di accessione e i primi 10 mesi
dell’anno seguente. Il titolo che gli danno questi documenti è “Re dei
Paesi”.
● Ciò può significare soltanto una cosa, e cioè che Ciro, nei primi 14 mesi

dopo la caduta di Babilonia, non fu re di questa città.


● La spiegazione più verosimile è che durante questo periodo un re vassallo

di Ciro svolgesse in Babilonia le funzioni di re, o meglio di viceré.


● Questo spazio di tempo coincide abbastanza bene con la durata del regno

di Dario il Medo deducibile dalle informazioni di Daniele. Infatti il nostro


autore menziona soltanto il primo anno di regno di Dario (9:1 e 11:1) e ci
fa capire che nell’anno III di Ciro egli era scomparso dalla scena (10:1).

Sembra tuttavia opporsi a questa tesi il fatto già segnalato che Ugbaru non sa-
rebbe vissuto abbastanza da poter gestire gli affari di governo, come vuole Da-
niele. La Cronaca di Nabonide informa che Babilonia fu conquistata dai Persiani
il 16 di Tishratu e che Ciro vi entrò da trionfatore 17 giorni appresso, il 3 di Ara-
shamnu. Poi riferisce che fra i mesi di Kislimu e Addaru le immagini degli dèi fu-
rono riportate nelle loro sedi, e subito dopo segnala che Gubaru (Ugbaru) morì
l’11 di Arashamnu.
Si è creduto che la notizia del trasferimento delle divinità nelle loro sedi in-
serita fra il 3 e l’11 di Arashamnu fosse cronologicamente fuori posto, ed è stato
in base a questa supposizione che si è pensato che Ugbaru fosse morto circa tre
settimane dopo la presa di Babilonia. William H.Shea non condivide questa opi-
nione. Egli è convinto che tutti gli avvenimenti riportati nella Cronaca si susse-
guono nell’ordine cronologico naturale, e crede di poterlo dimostrare. Avendo
verificato accuratamente gli avvenimenti datati dal tempo di Nabonassar (VIII se-
colo a.C.) fino al tempo della Cronaca di Nabonide (VI secolo a.C.), egli ha po-
tuto notare che su 318 osservazioni cronologiche contenute nei testi presi in
esame, 313 si susseguivano secondo l’ordine naturale e solo 5 secondo un or-
dine anomalo. Shea conclude che i 313 casi in cui l’ordine degli avvenimenti è
quello consecutivo debbono riflettere la regola corrente, e che i 5 casi nei quali
l’ordine è diverso debbono ritenersi una deroga da questa. È parso legittimo a
questo autore applicare la regola corrente ai fatti riportati nella terza colonna

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CAPIRE DANIELE

della Cronaca di Nabonide. Se l’ordine degli avvenimenti in questo documento è


quello consecutivo, come sembra ragionevole, allora Gubaru-Ugbaru morì un
anno e tre settimane dopo l’occupazione persiana di Babilonia202.
La deduzione più significativa che trae Shea dal confronto dei testi ammini-
strativi con la Cronaca è che il cambiamento del titolo reale di Ciro nei testi sud-
detti dal 14° mese dopo la caduta di Babilonia, debba rapportarsi a un avveni-
mento importante della Cronaca stessa, e a quale se non alla morte di Ugbaru?
Se ci si attiene all’interpretazione consecutiva degli avvenimenti della Cro-
naca di Babilonia, il titolo di “Re di Babilonia” fu aggiunto al titolo corrente di
Ciro, “Re dei Paesi”, circa 6 settimane dopo la morte del conquistatore di Babilo-
nia. Poiché Ciro assunse il titolo suddetto a così breve distanza di tempo dalla
morte di Ugbaru, sembra logico dedurne che quest’ultimo debba avere svolto
tale funzione fino alla sua scomparsa. Sei settimane - osserva Shea - era più o
meno il tempo occorrente perché la notizia della morte di Ugbaru arrivasse fino
a Ciro e le disposizioni di questi sulla successione giungessero a Babilonia.
Il prof. Shea segnala sei linee di convergenza fra il personaggio danielico e
l’ex-governatore del Gutium:

● Ugbaru comandò le truppe medo-persiane che si impadronirono di Babi-


lonia. Dn 5:31 sembra presupporre lo stesso ruolo per Dario il Medo;
● Secondo la Cronaca di Nabonide Ugbaru costituì dei governatori su Babi-

lonia. Dario il Medo fece la stessa cosa secondo Dn 6:1,2.


● Ugbaru morì a un anno circa dalla conquista persiana di Babilonia, ciò fa

supporre che egli non fosse giovane, per quanto la Cronaca non ne indichi
l’età. Dario il Medo secondo Dn 5:31 aveva 62 anni quando divenne re di
Babilonia.
● Combinando la cronologia della Cronaca con quella dei titoli reali nei te-

sti amministrativi, si deduce che Ugbaru morì 14 mesi circa dopo la caduta
di Babilonia. Daniele - come già notato - ricorda solo il primo anno di Da-
rio il Medo (9:1; 11:1) e in 10:1 menziona l’anno III di Ciro. La spiegazione
più logica è che Dario fosse scomparso prima del terzo anno di Ciro.
● La distinzione che fa Daniele fra i regni di Ciro e di Dario corrisponde

bene alla situazione che descrivono i testi cuneiformi. Il titolo di “Re di Per-
sia” che Dan 10:1 dà a Ciro concorda col titolo che gli attribuiscono i testi
amministrativi, “Re dei Paesi”, e la notizia di Dn 9:1 secondo la quale Dario
il Medo regnò sul “regno dei Caldei” coincide col titolo di “Re di Babilonia”
che Ciro cominciò a portare dopo la morte di Ugbaru.
● La condizione di vassallo di Ugbaru concorda bene con l’informazione di

Dan 9:1 secondo cui Dario “fu fatto re”.

202 - Per ragguagli più esaurienti vedi gli articoli di W.H.SHEA su Andrews University Seminary
Studies, n. 20, 1982, e Daniel, questions débattues, specialmente da p. 94. Vedi anche la
nota 1 a pg. 244 e segg. nel presente volume.

137
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CAPITOLO 6

Le fonti cuneiformi e classiche tacciono sulla famiglia di Ugbaru, cosicché non


abbiamo modo di sapere se il padre di costui si chiamasse Assuero o altro. Se-
nofonte definisce “assiro” il generale Gobryas che conquistò Babilonia per conto
di Ciro (“assiro” fra i Greci equivaleva a “babilonese”). Ma nei racconti di questo
storico ci sono tante inesattezze e approssimazioni che non si può prendere alla
lettera ogni sua informazione.
La Cronaca riferisce che Gubaru-Ugbaru prima della conquista di Babilonia
fu governatore del Gutium, una provincia dell’impero di Ciro che confinava con
la Media. Secondo il prof. R.D.WILSON203, il Gutium “era una contrada di esten-
sione indefinita che probabilmente abbracciava tutto il territorio tra la Babilonia
da una parte e le montagne dell’Armenia a nord e i Monti Zagros a nord-est
dall’altra, e forse anche il paese al di là dei Monti Zagros che aveva Ecbatana per
capitale”, cioè la Media.
Riassumendo la sua analisi il prof. Shea conclude che sei attribuzioni riferite
da Daniele a Dario il Medo coincidono con le notizie su Gubaru-Ugbaru fornite
dalle fonti cuneiformi mentre due - la paternità e l’origine etnica - non possono
essere verificate per la mancanza di informazioni nelle fonti storiche esistenti. È
questo che non consente di identificare con sicurezza Dario il Medo con Ugbaru
il conquistatore di Babilonia; comunque il peso dell’evidenza favorisce decisa-
mente questa identificazione.

2 E sopra questi, tre capi, uno dei quali era Daniele, perché questi
satrapi rendessero loro conto, e il re non avesse a soffrire alcun
danno.

Dario ha creato una burocrazia statale più sofisticata di quella babilonese. Non
solo ha istituito 120 distretti amministrativi e ha posto a capo di ciascuno un fun-
zionario governativo, ma ha nominato tre alti commissari col compito di soprin-
tendere all’operato di questi amministratori locali.
Si direbbe che Dario avesse alle spalle una consumata esperienza di go-
verno (se è corretta l’identificazione con Ugbaru, come è assai probabile che lo
sia, è appena necessario ricordare che costui fu governatore di una provincia del
regno di Persia prima di occupare Babilonia per conto di Ciro).
Dal testo parrebbe che il “re” i cui interessi economici debbono essere sal-
vaguardati sia lo stesso Dario; in realtà, come dice giustamente Leupold204, “Da-
rio sta salvaguardando gli interessi di Ciro”. I regnanti achemenidi dedicarono
un’attenzione particolare all’economia di Stato.
Dario il Medo, che governa la Caldea come vassallo del re di Persia, si pre-
mura di tutelare gli interessi del gran sovrano. Questo fu il compito più rilevante
e la preoccupazione costante dei funzionari che amministrarono le province
dell’impero persiano (cfr. Ed 4:13-16).

203 - Citato da H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 44.


204 - Op. cit, p. 249.

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CAPIRE DANIELE

I tre commissari nominati da Dario, uno dei quali è Daniele, debbono in


primo luogo vigilare affinché il servizio di raccolta delle imposte nei distretti del
regno sia svolto correttamente, ma essi formano anche una sorta di consiglio
della corona per cui hanno notevole autorità e prestigio. Osserva il S.D.A. Bible
Commentary a proposito di Daniele: “È bastata a Dario una conoscenza somma-
ria di questo venerabile uomo di Stato, di questo superstite dell’aurea età impe-
riale babilonese per convincersi che la sua scelta come amministratore-capo
dell’impero e consigliere della corona sarebbe stata una scelta saggia”205.
Il verbo aramaico qéznæ nazîq, “subire danno”, da qualche autore contempora-
neo (G.Rinaldi, G.Bernini) è stato tradotto “essere molestato”. Secondo questa
comprensione del termine Dario avrebbe nominato i tre commissari per essere
tenuto al corrente della gestione generale del servizio delle imposte senza do-
vere esaminare i rendiconti particolari. L’interpretazione può accordarsi abba-
stanza bene col contesto immediato del racconto, tuttavia ci sembra sia preferi-
bile mantenere il senso proprio del verbo, come fanno la versione di G.Luzzi e
quella della C.E.I.

3 Or questo Daniele si distingueva più dei capi e dei satrapi, perché


c’era in lui uno spirito straordinario; e il re pensava di stabilirlo so-
pra tutto il regno.

“...questo Daniele...”, vale a dire il Daniele già noto al lettore dai racconti prece-
denti. L’autore del libro parla di sé con distacco, come se stesse parlando di
un’altra persona. È ancora un indice di umiltà e modestia. “Questo Daniele” su-
pera i funzionari pari grado e i subalterni per competenza e abilità nell’ammini-
strare la cosa pubblica.
Fin dalla giovinezza Daniele si era distinto per le non comuni doti naturali
che possedeva (1:4), doti che una sapienza ricevuta in dono da Dio aveva esal-
tato (1:17). Il re Nabucodonosor, e dopo di lui la innominata regina del tempo di
Belsazar, avevano riconosciuto quei talenti straordinari come manifestazione di
un principio sovrumano (cfr. 4:18 e 5:11, 12).
Questo giudizio trova conferma nelle parole stesse di Daniele il quale usa
un’espressione quasi identica (“c’era in lui uno spirito straordinario”, aramaico
)fryiTyá xa Ur ruach yattîra’) per spiegare che il suo eccellere come uomo di Stato
non dipende da innate virtù personali ma è il risultato di un dono sovrannatu-
rale. Egli vi accenna dunque non per dare lustro alla sua persona, ma al contra-
rio per glorificare il suo Dio.
Il re Dario si è accorto della perizia ineguagliabile del suo venerabile mini-
stro e si è convinto che egli potrà servire meglio lo Stato da una posizione di go-
verno più elevata, perciò ha deciso di porlo al vertice della burocrazia ammini-
strativa del regno.

205 - S.D.A. Bible Commentary,vol. IV, p. 818.

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CAPITOLO 6

4 Allora i capi e i satrapi cercarono di trovare un’occasione d’accu-


sar Daniele circa l’amministrazione del regno; ma non potevano tro-
vare alcuna occasione, né alcun motivo di riprensione, perch’egli
era fedele, e non c’era da trovare in lui alcunché di male o da ri-
prendere.

I “capi” sono i due colleghi di Daniele, i “satrapi” sono i funzionari in subordine.


Non è presupposta una partecipazione generale dei “satrapi” al complotto. È dif-
ficile ammettere una presenza simultanea in Babilonia di tutti gli amministratori
pubblici locali, dal momento che non v’è accenno ad una convocazione ufficiale
da parte del re. Alla congiura contro Daniele deve dunque avere preso parte un
numero limitato di ufficiali statali. Del resto un loro intervento massiccio avrebbe
potuto far nascere dei sospetti nella mente di Dario. Quando si sparge la voce
che il re intende promuovere a un più alto incarico di governo l’anziano mini-
stro giudeo, la gelosia latente di questi amministratori pubblici meno capaci di
lui si tramuta in aspro malanimo e decisa volontà di nuocergli.
Costoro - uomini di nobile stirpe meda e persiana - non permetteranno che
uno straniero, un ex deportato giudeo, li superi per autorità e prestigio; e
nell’ombra tramano la sua rovina, poi passano alle vie di fatto. Senza farsi notare
sottopongono a minuzioso controllo gli atti amministrativi del rivale, certi di po-
tervi cogliere una qualche irregolarità - è facile per un uomo di età avanzata in-
correre in una dimenticanza! - onde poterlo accusare di incompetenza o infe-
deltà. Gli inquisitori però restano delusi, “perché egli (Daniele) era fedele, e non
c’era da trovare in lui alcunché di male o da riprendere”. Splendido esempio di
integrità morale e raro caso di perfetta efficienza professionale alla bella età di
ottant’anni e passa!

5 Quegli uomini dissero dunque: “Noi non troveremo occasione al-


cuna d’accusar questo Daniele, se non la troviamo in quel che con-
cerne la legge del suo Dio”.

La perfidia umana non conosce limiti quando il cuore è dominato da sentimenti


di invidia e gelosia. Gli avversari di Daniele, che non hanno potuto cogliere ne-
gli atti amministrativi del rivale un pretesto plausibile per accusarlo di ineffi-
cienza o infedeltà, escogitano un piano diabolico per ritorcere contro di lui
quella sua indefettibile linearità di condotta che ha frustrato il loro malvagio di-
segno. Conoscendo tutte le pieghe del potere ed essendo loro noto che la fe-
deltà dell’anziano ministro di Dario verso il suo Dio è pari alla sua lealtà verso
gli uomini, non sarà difficile per loro far nascere un aspro conflitto fra la fede di
Daniele e la ragion di Stato. La frase “questo Daniele” sulla bocca dei suoi avver-
sari tradisce il disprezzo che nutrono verso di lui. Osserva Girolamo nel suo
commentario su Daniele: “È una bella condotta di vita quella in cui i nemici non
trovano alcun capo d’accusa che non sia la fedeltà alle prescrizioni di Dio”206.

206 - Op. cit., p. 91.

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CAPIRE DANIELE

6 Allora quei capi e quei satrapi vennero tumultuosamente presso ai


re, e gli dissero: “O re Dario, possa tu vivere in perpetuo! 7 Tutti i
capi del regno, i prefetti e i satrapi, i consiglieri e i governatori si
sono concertati perché il re promulghi un decreto e pubblichi un se-
vero divieto, per i quali chiunque, entro lo spazio di trenta giorni, ri-
volgerà qualche richiesta a qualsivoglia dio o uomo tranne che a te,
o re, sia gettato nella fossa dei leoni.

“...quei capi e quei satrapi...”, cioè i funzionari di grado superiore e inferiore


che hanno congiurato contro Daniele. Come si è notato prima, non è presuppo-
sta una partecipazione totale degli ufficiali pubblici del regno.
L’aramaico U$iGr a hargishû (dal verbo ragash, “tumultuare”) è tradotto alla
: h
lettera dal Luzzi: “vennero tumultuosamente presso il re”. Poiché è parso invero-
simile che dei funzionari statali ardissero irrompere “tumultuosamente” alla pre-
senza di un potente sovrano, vari traduttori hanno attenuato il senso del voca-
bolo originale. Ecco come rendono la frase aramaica alcune versioni moderne:

“... si radunarono presso il re...” (versione della C.E.I)


“... si recarono insieme dal re...” (G.Rinaldi)
“... si recarono subito dal re...” (TILC)
“... si precipitarono dal re...” (G.Bernini)
“... vennero dal re accalcandosi...” (H.C.Leupold)

L’ultima ci sembra la traduzione più accettabile.


Il saluto originale al re è espresso con la formula cortigianesca di rito. “O
re, possa tu vivere in perpetuo!” (vedi 3:9 e relativo commento, e 5:10). L’ara-
maico }yiml : le‘almîn, “in perpetuo”, si può tradurre anche, come l’equivalente
: (f l
ebraico, “per un lungo tempo”. In sostanza con questa formula si augura al re
lunga vita, non vita eterna.
Può sembrare una procedura insolita che degli amministratori pubblici sot-
topongono alla più alta autorità dello stato un decreto perché lo approvi. “Il na-
scere del decreto com’è qui rappresentato - nota il prof. Rinaldi - non è semplici-
smo da narratore popolare, ma corrisponde al procedimento vigente nell’antica
Persia, ove le cricche di corte erano solitamente molto influenti e furono in qual-
che caso arbitre dello stato”207.
In apparenza il decreto mira a consolidare l’autorità del sovrano in un mo-
mento delicato qual è l’inizio del regno, ma nella realtà, come sappiamo, esso è
motivato da ben altra intenzione.
Non deve meravigliare, quasi appaia cosa improbabile, che in questo episo-
dio del libro di Daniele si imponga per legge ai sudditi di una nazione di rivol-
gere atti di culto alla persona del re. Nell’antichità non era una pratica insolita. In
Egitto da lungo tempo si tributavano onori divini alla persona del sovrano, e si
continuò a farlo anche quando a regnare sul paese furono dei monarchi stra-

207 - Op. cit., pp. 96, 97.

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CAPITOLO 6

nieri. In tempi di poco posteriori ai giorni di Daniele, per esempio, i sacerdoti


egiziani attribuirono titoli divini a due monarchi persiani, Cambise e Dario I,
come attestano alcune iscrizioni geroglifiche.
È comunque risaputo che i re di Persia - circostanza piuttosto insolita
nell’antichità - furono generalmente tolleranti e rispettosi verso i culti e le divi-
nità stranieri.
Per il S.D.A. Bible Commentary208, è impensabile che un uomo come Ciro
potesse approvare un decreto sul tipo di quello che fu sottoposto a Dario il
Medo. Sui Medi però siamo assai poco informati. Si conosce tuttavia un episodio
di violenta intolleranza religiosa. Le fonti greche informano che il mago Gau-
mata, di stirpe meda al dire di Erodoto (III, 73), quando usurpò il trono degli
Achemenidi mentre Cambise combatteva in Egitto, nei pochi mesi di regno si
dette a distruggere con furore i templi dedicati a divinità straniere. Erodoto (I,
99) narra di un altro personaggio della stessa etnia, Deioce re dei Medi, il quale
decretò che nessuno dovesse vederlo onde gli uomini non meno valenti di lui
“lo potessero ritenere di un’altra natura”.
Non deve dunque sorprendere che il medo Dario acconsentisse che lo si
onorasse come una divinità, fosse pure per un tempo limitato. Infatti, il decreto
che gli avversari di Daniele gli estorcono implica praticamente una sua divinizza-
zione o quanto meno una sua elevazione a unico rappresentante della divinità
(Montgomery): per lo spazio di trenta giorni in tutto il paese non si rivolgeranno
richieste a qualsivoglia divinità o autorità umana tranne che a lui.
Il divieto non sembra riferirsi alle richieste in rapporto con le necessità della
vita quotidiana - chi avrebbe potuto garantirne l’osservanza? - ma piuttosto alle
suppliche e alle preghiere che si rivolgono alle divinità nei templi. Una severa
disposizione di legge che interferisse con la vita religiosa era ciò che ci voleva
per mettere Daniele con le spalle al muro. Gli intriganti, per agire con maggiore
incisività sull’animo del re, dichiarano, mentendo, di essere i portavoce di tutte
le autorità dello Stato, quelle della città e del palazzo (i capi del regno e i consi-
glieri) e quelle delle province (i prefetti, i satrapi e i governatori). Si sottopone
all’approvazione del sovrano anche la sanzione penale da applicarsi a carico de-
gli eventuali trasgressori del decreto: costoro dovranno essere dati in pasto alle
belve rinchiuse nella fossa.
È documentato che i Babilonesi punivano col fuoco i delitti contro la per-
sona del re, come la ribellione o la congiura (vedi commento a 3:19, 20). I Per-
siani non praticavano questa forma di supplizio, perché il fuoco era l’elemento
sacro per eccellenza nel culto mazdeico209. Sebbene non sia attestato nei docu-
menti noti che i Medo-persiani punissero i delitti di lesa maestà facendo sbra-
nare i colpevoli dalle belve affamate, è ben documentato in dipinti murali e bas-
sorilievi che in Egitto e in Assiria i sovrani praticavano la caccia di animali sel-
vaggi: leoni, leopardi, ippopotami, elefanti. Gli esemplari catturati vivi venivano

208 - Vol. IV, p. 811.


209 - Vedi E.MEYNIER, Storia delle Religioni, p. 109; F.A. ARBORIO MELLA, L’impero persiano, p. 15.

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CAPIRE DANIELE

rinchiusi in sicuri serragli affinché i sudditi, osservandoli, potessero ammirare la


forza e il coraggio del re.
Da questa pratica Ezechiele trae un’immagine significativa che applica ai
principi d’Israele (Ez 19:1-9).
La “fossa dei leoni”, nella quale si sarebbero gettati gli eventuali trasgressori
del decreto reale, era un serraglio sotterraneo la cui apertura era probabilmente
ricoperta con una grata metallica.

8 Ora, o re, promulga il divieto e firmane l’atto perché sia immuta-


bile, conformemente alla legge dei Medi e de’ Persiani, che è irrevo-
cabile”.

La frase aramaica )fbt f K: {u$r


: t
i wº )frsf )
E {yiqT: )fKl a }a(K: ke‘an malka’ teqîm ’esara’
: m
wetirshum ketava’..., che Luzzi traduce: “Ora, o re, promulga il divieto e firmane
l’atto...”, ci sembra sia resa meglio da Rinaldi: “Ora, o re, emana il divieto e
fanne mettere in iscritto il documento...”
I congiurati, insomma, domandano al re di tramutare in decreto seduta
stante il divieto che essi hanno proposto e di farlo mettere per iscritto per modo
che esso diventi subito legge vincolante per tutti i sudditi del regno. E si premu-
rano di sottolineare che il decreto ha da essere inalterabile “conformemente alla
legge dei Medi e dei Persiani che è irrevocabile”.
Preme ai malvagi funzionari mettere l’accento sulla non revocabilità delle
leggi dei Medi e dei Persiani, cosicché il sovrano, quando si accorga del tranello,
non possa fare nulla per sottrarre Daniele alla pena capitale.
Sulla irrevocabilità delle leggi emanate dai re di Persia ci ragguagliano an-
che il libro di Ether (1:19 e 8:8) e un episodio tramandatoci da Diodoro Siculo.
Narra lo storico greco (XVII, 30) che Dario III, accortosi di avere emanato un’in-
giusta sentenza capitale a carico di un certo Charidemos risultato poi innocente,
se ne rammaricasse molto ma non potesse revocare il verdetto.
Il riferimento alla legge “dei Medi e dei Persiani” nel v. 8 ha fatto storcere il
naso ai critici moderni i quali contestano che in quest’epoca l’antico regno dei
Medi fosse sotto il controllo dei Persiani oramai dominatori della scena politica.
Il S.D.A. Bible Commentary respinge quest’accusa di disinformazione rivolta a
Daniele appellandosi a documenti contemporanei venuti in luce in epoca più re-
cente. “Tali documenti - spiega il Commentario - parlano dei Persiani chiaman-
doli ‘medi’, e dei Medi chiamandoli ‘persiani’, alla stessa maniera della Bibbia.
Anche i documenti cuneiformi menzionano diversi re persiani col titolo di ‘re dei
Medi’ oltre che con quello abituale di ‘re di Persia’.
Poiché Dario era un medo, è del tutto naturale che dei cortigiani riferentisi
alla legge del paese in sua presenza ne parlassero come della ‘legge dei Medi e
dei Persiani’”210.

210 - Vol IV, p. 812.

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CAPITOLO 6

9 Il re Dario quindi firmò il decreto e il divieto. 10 E quando Daniele


seppe che il decreto era firmato, entrò in casa sua; e, tenendo le fine-
stre della sua camera superiore aperte verso Gerusalemme, tre
volte al giorno si metteva in ginocchi, pregava e rendeva grazie al
suo Dio, come soleva fare per l’addietro.

Questo versetto è più comprensibile nella traduzione del Prof. G.Rinaldi: “In se-
guito a ciò il re Dario fece scrivere il documento col divieto”. La vile congiura a
danno di Daniele ha funzionato. Senza sospettare quello che sta dietro la propo-
sta dei suoi ministri, il re Dario ha fatto redigere il divieto che diventa subito
legge irrevocabile. Presto scatterà per Daniele una trappola mortale.
Come sia venuto a conoscenza del decreto la vittima designata, il racconto
non lo dice. Certo è che il divieto ha messo Daniele in una situazione estrema-
mente difficile. Quale sarebbe stata la sua scelta non c’era da dubitarne, si trat-
tava comunque di una scelta sofferta. Fin dai tempi della sua attività di governo
alla corte di Nabucodonosor, quest’uomo di Dio aveva tenuto un contegno di
assoluto rispetto verso il re e la legge del paese che serviva. Tanto più gli sarà
premuto rispettare la volontà di un sovrano come Dario che gli è amico. Co-
munque Dio occupa e occuperà sempre il primo posto nella considerazione di
Daniele. La severità e inflessibilità delle leggi di Media e di Persia gli sono note
per cui egli è ben consapevole della sorte a cui va incontro, ma non modifica le
sue abitudini religiose: “Come soleva fare per l’addietro”, tre volte al giorno si
genuflette davanti alle finestre della sua camera superiore spalancate in direzione
di Gerusalemme e prega il suo Dio, verosimilmente a voce alta. Il principio: “Bi-
sogna ubbidire a Dio anziché agli uomini” (At 5:29) è stato applicato cinque se-
coli prima che fosse enunciato.
Le case nell’Oriente antico avevano generalmente il tetto piatto e non di
rado in un angolo del tetto avevano una piccola stanza dove ci si poteva isolare
per il riposo o la preghiera. Le finestre probabilmente erano munite di una grata.
Daniele dunque prega davanti alle finestre della sua stanza superiore che guar-
dano a ponente.
Per gli israeliti lontani dalla loro terra volgersi in direzione di essa nel mo-
mento della preghiera doveva essere una consuetudine molto antica se ne allude
Salomone nella cerimonia di dedicazione del Tempio (1Re 8:44, 48).
Sull’attitudine corporale durante la preghiera, il S.D.A. Bible Commentary
nota: “La Bibbia allude a svariate posizioni nella preghiera. Incontriamo dei servi
di Dio che pregano seduti, come Davide (1Sam 7:18), inchinati, come Eliezer
(Ge 24:26) ed Elia (1Re 18:42) e spesso in piedi, come Anna (1Sam 1:26). L’atti-
tudine più comune nella preghiera sembra essere stata la genuflessione, come
attestano gli esempi seguenti: Esdra (9:25), Gesù (Lc 22:41), Stefano (At 7:60)”211.
La consuetudine degli israeliti di pregare tre volte al giorno è attestata al-
trove nella Bibbia (vedi Sl 55:17). Nel tardo giudaismo tale consuetudine di-

211 - Ibidem.

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CAPIRE DANIELE

venne una norma quotidiana per i pii giudei. I tre momenti della preghiera
erano l’ora terza, l’ora sesta e l’ora nona a partire dal sorgere del sole (grosso
modo le 9 a.m., mezzodì e le 3 p.m.). La prima e la terza preghiera erano fatte in
coincidenza con l’offerta del sacrificio del mattino e della sera212.
Ci si potrebbe chiedere se non sarebbe stata una ragionevole misura di pru-
denza da parte di Daniele pregare in segreto finché non fossero trascorsi i trenta
giorni, e se il non averlo fatto non sia stata un’inutile sfida al potere e un’altret-
tanta inutile esposizione della propria vita.
Niente di tutto questo. Se Daniele in quel frangente avesse agito diversa-
mente di come agì, avrebbe dato modo ai pagani di credere che i servi dell’Id-
dio Altissimo in fondo non credono nel suo potere salvifico e di conseguenza lo
servono finché non corrono grossi rischi.213 Con la sua scelta coraggiosa e coe-
rente Daniele ha dimostrato tutto il contrario!

11 Allora quegli uomini accorsero tumultuosamente, e trovarono Da-


niele che faceva richieste e supplicazioni al suo Dio.

“... accorsero tumultuosamente” o “vennero accalcandosi” (Leupold). Daniele


non si è lasciato intimidire dall’iniquo decreto. Per i suoi avversari non è stato
difficile coglierlo in flagrante violazione di esso.

12 Poi s’accostarono al re, e gli parlarono del divieto reale: “Non hai
tu firmato un divieto, per il quale chiunque entro lo spazio di trenta
giorni farà qualche richiesta a qualsivoglia dio o uomo tranne che
a te, o re, deve essere gettato nella fossa de’ leoni?” Il re rispose e
disse: “La cosa è stabilita, conformemente alla legge dei Medi e de’
Persiani, che è irrevocabile”.

Gli avversari di Daniele procedono con sottile scaltrezza per prevenire un tenta-
tivo in extremis del re di sottrarre alla pena capitale il loro odiato ‘concorrente’.
Non denunciano subito l’accaduto di cui sono stati spettatori, ma interpellano il
sovrano sul decreto che ha promulgato, in modo da ottenere da lui una piena
conferma del divieto che esso impone e della sanzione che prevede per i tra-
sgressori. L’intrigo è stato tramato con cura per modo che Daniele non abbia
scampo.
Questi ignobili individui recitano davanti al re la parte di zelanti tutori della
legge e dell’autorità del sovrano. E ancora una volta il re Dario li asseconda in
perfetta buona fede, stavolta col confermare solennemente il decreto e la sua ir-
revocabilità. Senza rendersene conto, Dario convalida una sentenza di morte a
carico del più fidato e stimato dei suoi ministri.

212 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, ivi.


213 - Osserva J.DOUKHAN: “... quando la preghiera è di moda, è tempo di pregare in segreto, ma
quando è proscritta, pregare di nascosto significherebbe temere il re più di Dio” (op. cit., p. 128).

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CAPITOLO 6

13 Allora quelli ripresero a dire in presenza del re: “Daniele, che è


fra quelli che sono stati menati in cattività da Giuda, non tiene in al-
cun conto né te, o re, né il divieto che tu hai firmato, ma prega il suo
Dio tre volte al giorno”.

Dopo che hanno fatto dichiarare al re la conferma incondizionata del decreto e


della sanzione penale che esso prescrive, i malvagi funzionari denunciano la
“violazione” commessa da Daniele. Le parole che usano trasudano disprezzo
verso il loro rivale. In primo luogo usano il suo nome ebraico, come a volere
sottolineare la sua origine straniera.
Poi, ignorandone volutamente la dignità di alto funzionario dello Stato, lo
caratterizzano come uno dei deportati dalla Giudea, questo paese che già in
quel tempo era visto in una luce negativa (vedi Ed 4:12-15). Infine insinuano
malignamente che questo straniero non ha avuto riguardo per la persona del re
e ha sfidato sfrontatamente la sua autorità: “non tiene in alcun conto né te, o re,
né il decreto che tu hai firmato...” È l’interpretazione calcolatamente distorta di
un atto che ha tutt’altro significato nell’intenzione di chi lo ha compiuto. L’atto
da cui muove l’imputazione gravissima (e calunniosa) di lesa maestà e ribellione
è questo: “...prega il suo Dio tre volte al giorno”.
Senza volerlo e senza saperlo questi loschi personaggi di fatto hanno ono-
rato Daniele. I delatori non hanno bisogno di esibire delle prove: sono funzio-
nari dello Stato e perciò testimoni attendibili; in ogni caso il delitto di cui accu-
sano l’avversario potrà essere verificato in qualunque momento poiché è nota la
fedeltà di Daniele alla legge del suo Dio (v. 5).

14 Quand’ebbe udito questo, il re ne fu dolentissimo, e si mise in


cuore di liberar Daniele; e fino al tramonto del sole fece di tutto per
salvarlo.15 Ma quegli uomini vennero tumultuosamente al re, e gli
dissero: “Sappi, o re, che è legge dei Medi e de’ Persiani che nessun
divieto o decreto promulgato dal re possa essere mutato”.

Troppo tardi Dario si è accorto di essere caduto in un tranello. A nessuno fa pia-


cere di essere gabbato, tanto meno a un uomo potente. Grande deve dunque
essere stato lo sdegno del re quando ha scoperto l’inganno. Avrebbe potuto rea-
gire con tutto il peso della sua autorità; non lo ha fatto. Forse perché avrebbe
dovuto ammettere, non senza pregiudizio per la sua regale dignità, di avere
agito con leggerezza nel promulgare il decreto, o, più semplicemente, perché
non sarebbe servito a salvare Daniele.
Ha quindi dovuto fare buon viso a cattivo giuoco. Il dolore per la sorte cru-
dele riservata al suo fedele ministro è più forte dell’indignazione verso i perfidi
funzionari che quel decreto gli hanno estorto: “il re ne fu dolentissimo”.
Non può comunque ignorare la loro denuncia, visto che lo si pone di
fronte al fatto inoppugnabile che è stato violato un decreto da lui stesso promul-
gato e solennemente ratificato in presenza degli stessi delatori; né può ignorare
che formalmente si tratta di un atto di ribellione che non può non essere punito

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CAPIRE DANIELE

con la massima pena, come il decreto stesso prescrive. Dario però ha deciso in
cuor suo di salvare Daniele, pur se non sa ancora come. Intanto prende tempo.
Rinvia l’esecuzione della sentenza e per tutto il giorno cerca un modo di sot-
trarre Daniele dalle fauci dei leoni; chissà, forse fruga anche nelle pieghe della
legge con la speranza di trovare un cavillo per poter salvare Daniele senza abo-
lire il decreto. Ma è tutto inutile. Dario è fatalmente prigioniero di una sua legge-
rezza.
Trascorsa la giornata e constatato che Daniele non è stato ancora giusti-
ziato, i suoi nemici accorrono eccitati dal re per manifestare il loro dissenso. Te-
mono forse che col favore delle tenebre, e magari con la complicità del sovrano,
il loro avversario si renda irreperibile e scampi alla morte ? È possibile.
Insistono che presso i Medi e i Persiani i decreti emanati dall’autorità so-
vrana non si possono in alcun modo revocare. È evidente la pretesa che la sen-
tenza venga eseguita senza ulteriore indugio.

16 Allora il re diede l’ordine, e Daniele fu menato e gettato nella fossa


dei leoni. E il re parlò a Daniele, e gli disse: “L’Iddio tuo, che tu servi
del continuo, sarà quegli che ti libererà”.

Con la loro vivace rimostranza gli accusatori di Daniele hanno vinto la riluttanza
del re. Dario non ha potuto sottrarsi alla sua responsabilità di supremo garante
della legge. Per quanto se ne dolga, non ha altra scelta che fare arrestare Daniele
e consegnarlo alle guardie preposte all’esecuzione delle sentenze capitali.
Egli stesso si porta sul luogo del supplizio insieme con i suoi dignitari per
verificare, come vuole la prassi, l’applicazione della pena.
Il serraglio delle belve è una cavità naturale o artificiale a cielo chiuso, che
in origine può essere stata utilizzata per raccogliere l’acqua piovana. Dire di più
non è possibile giacché a tutt’oggi non è stata rinvenuta nessuna caverna come
quella a cui si accenna in questo racconto. Di certo la fossa aveva un’apertura
sul cielo dalla quale si introducevano le carni per sfamare le belve.
Prima che Daniele sia dato in pasto alle fiere, il re Dario, sinceramente ad-
dolorato per non avere potuto sottrarlo a quel supplizio crudele, e quasi scusan-
dosene, lo rincuora dicendogli che il suo Dio, l’Iddio al quale egli è rimasto fe-
dele in ogni circostanza, sarà quegli che proteggerà la sua vita.
Sarebbe eccessivo pensare che Dario si stia convertendo alla fede monotei-
stica di Daniele. Da buon pagano, egli crede nel potere sovrannaturale degli dèi
ed è persuaso che l’Iddio dei Giudei non è da meno delle divinità che egli venera.

17 E fu portata una pietra, che fu messa sulla bocca della fossa; e il


re la sigillò col suo anello e con l’anello dei suoi grandi, perché nulla
fosse mutato riguardo a Daniele. 18 Allora il re se ne andò al suo pa-
lazzo, e passò la notte in digiuno; non si fece venire alcuna concu-
bina e il sonno fuggì da lui.

Dopo avere calato Daniele nella fossa, gli addetti ne ricoprono l’apertura con

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CAPITOLO 6

una pesante lastra di pietra e contornano la lastra con dell’argilla fresca sulla
quale il re e i suoi dignitari imprimono i loro sigilli allo scopo di impedire qual-
siasi manomissione.
Nell’antichità le persone importanti avevano sempre con sé il proprio si-
gillo. Il nome e il simbolo del proprietario erano incisi su una pietra dura inca-
stonata in un anello, o più comunemente su un cilindretto d’osso o di pietra fo-
rato longitudinalmente e attraversato da un cordoncino annodato alle estremità
in modo da potersi portare al collo. Difficile dire se il re Dario e i suoi dignitari
in questa circostanza facessero uso dell’anello o del cilindretto, giacché il ter-
mine aramaico )fqzº (i ‘izqa’ significa genericamente “sigillo”, come traducono cor-
rettamente varie versioni. Sta di fatto che il sigillo cilindrico si affermò e si dif-
fuse in tutta l’area dell’Oriente antico214.
Ufficialmente i sigilli apposti su quella che doveva divenire la tomba di Da-
niele servivano a impedire che essa venisse manomessa per sottrarre alla morte
il condannato. Ma se Dario, come pare certo, ha creduto davvero che Daniele
non sarebbe morto, allora nella sua intenzione il sigillamento del luogo del sup-
plizio doveva mirare al duplice scopo di: a) rendere evidente il carattere miraco-
loso dell’evento, e b) impedire che i nemici facessero morire Daniele in altro
modo.
Mentre l’uomo di dio rimane tranquillo nell’antro freddo e buio in compa-
gnia dei leoni che sembrano avere perso il fiuto, il potente re di Babilonia tra-
scorre la notte insonne ed agitato nel suo splendido palazzo. Lo tormenta il dub-
bio se Daniele scamperà davvero alle zanne dei leoni, e lo coglie insieme l’ango-
scia per la perdita possibile di un amico e uomo di valore e il senso di colpa per
esserne in qualche modo responsabile.
Nella pianura mesopotamica il pasto principale si consumava la sera, giac-
ché a mezzodì la gran calura del giorno affievoliva l’appetito. Ma quella sera il re
Dario non tocca cibo perché il tormento dell’animo gli ha tolto l’appetito.
La seconda parte del v. 18 è resa variamente dai traduttori:

“non gli fu introdotta alcuna donna...” (C.E.I., molto simile alla Luzzi);
“senza farsi portar cibi...” (G.Rinaldi);
“non gli fu recato alcuno svago...” (H.C.Leupold);
“né furono portati davanti a lui strumenti musicali...” (King’s James Vers.).

Questa varietà di traduzioni dipende dall’incertezza riguardo al significato speci-


fico del vocabolo aramaico }æwx a dachawan, reso di volta in volta “concubine”,
A d
“donne”, “danzatrici”, “cibi”, “svaghi”, “strumenti musicali”.
È significativo che la versione greca dei LXX ometta del tutto il vocabolo. Il
senso generico di dachawan sembra essere: “cose deliziose”. Il passo pare voler
dire che i fatti del giorno hanno gettato il re in uno stato di tale costernazione
che in lui è svanito ogni desiderio di godimento.

214 - Vedi S.MOSCATI, L’alba della Civiltà, vol. III, pp. 265, 266.

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CAPIRE DANIELE

19 Poi il re si levò la mattina di buon’ora, appena fu giorno, e si recò


in fretta alla fossa dei leoni. 20 E come fu vicino alla fossa, chiamò
Daniele con voce dolorosa, e il re prese a dire a Daniele: “Daniele,
servo dell’Iddio vivente! Il tuo Dio, che tu servi del continuo, t’ha egli
potuto liberare dai leoni?”

Alla fine di una giornata carica di emozioni il re Dario si è disteso sul letto ma
non ha chiuso occhio per tutta la notte. Ansioso di sapere quale sia la sorte del
suo fido ministro, non attende che sia giorno chiaro per accertarsene: alle prime
luci dell’alba si alza e si affretta verso il luogo del supplizio combattuto fra la
speranza che Daniele sia ancora in vita e la paura che le belve lo abbiano fatto a
pezzi. “E come fu vicino alla fossa, chiamò Daniele...”
Nell’ansia di sciogliere il dubbio tormentoso Dario chiama Daniele prima
ancora che sia giunto sopra la fossa nella quale è stato rinchiuso. Lo chiama
“con voce dolorosa” (“con voce angosciata” secondo un’altra traduzione;
nell’aramaico: byic(A lfqB
: beqol ‘atzîv, “con voce afflitta, dolorosa”). La voce tradi-
sce l’affanno e il rimorso che agitano l’animo del re.
“Daniele, servo dell’Iddio vivente!” Sorprende l’attributo “vivente” riferito da
un pagano al Dio dei Giudei. Così avevano talvolta designato l’Altissimo i profeti
d’Israele (vedere Gr 10:10; Os 1:10), così lo avrebbero ancora designato i disce-
poli di Cristo (vedi Mt.16:16; At 14:15; Rm 9:26; Ap 7:2). “... l’Iddio vivente” sulla
bocca di Dario tradisce forse un concetto più alto rispetto alla nozione che egli
aveva delle divinità pagane? Può darsi. In ogni caso è segno che il rapporto con
Daniele non è stato ininfluente.
Purnondimeno Dario tentenna fra la speranza e il dubbio: “Il tuo Dio... t’ha
egli potuto liberare dai leoni?” Sembra dubitare del miracolo nel quale il giorno
avanti aveva professato di credere.

21 Allora Daniele disse al re: “O re, possa tu vivere in perpetuo! 22 Il


mio Dio ha mandato il suo angelo e ha chiuso la bocca dei leoni che
non m’hanno fatto alcun male, perché io sono stato trovato innocente
nel suo cospetto; e anche davanti a te, o re, non ho fatto alcun male”.

Probabilmente qualche feritoia per l’areazione consente una sia pur precaria co-
municazione fra l’esterno e l’interno della caverna e viceversa. Sta di fatto che
Daniele può udire la voce del re e il re la sua. Con tono calmo e rispettoso
l’uomo di Dio rivolge al sovrano il saluto augurale (“... possa tu vivere in perpe-
tuo !”), come se si trovasse nella sala di udienze del palazzo e non in un antro
buio e tra voraci felini. Si vede chiaramente che egli non nutre alcun rancore
verso l’uomo potente che, seppure a malincuore, lo ha fatto relegare in quel
luogo orribile.
Al saluto deferente, il prigioniero fa seguire la spiegazione del perché egli
sia rimasto in vita in una situazione in cui nessun uomo sarebbe potuto scam-
pare alla morte. E la spiegazione è un prodigio sovrannaturale: il suo Dio ha
mandato il suo angelo per tenere chiuse le fauci dei leoni. È stato lo stesso an-

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CAPITOLO 6

gelo che in un’altra circostanza (vedi 3:24, 25) ha neutralizzato l’ardore di una
fornace ?... Certo è che ancora una volta l’Iddio del cielo ha spiegato la sua forza
irresistibile per impedire che fosse stroncata la vita di un innocente il cui “torto”
era stato di avere anteposto il Creatore alla creatura.
Il primo pensiero di Daniele è stato dunque di testimoniare la potenza e la
benevolenza di Dio a suo riguardo. Soltanto dopo egli manifesta la sua serenità
interiore per sentirsi assolto da Lui: “Perché io sono stato trovato innocente nel
suo cospetto”. Come dire che non sarebbe certamente sopravvissuto se il Giu-
dice supremo degli uomini avesse riconosciuto giusta la pena severa che gli è
stata inflitta. Per conseguenza egli è netto di qualsiasi colpa pure nei confronti
del re: “Anche davanti a te, o re, non ho fatto alcun male”. È insieme una pacata
protesta d’innocenza e un garbato rimprovero al sovrano che non ha saputo sca-
gionarlo dall’imputazione infamante di non aver voluto tenere conto della sua
persona e della sua autorità.
Può sembrare privo di senso che Daniele si discolpi dopo che è stato con-
dannato e non lo abbia fatto prima. Invece c’è una logica in questa postuma ri-
vendicazione d’innocenza. I nemici lo avevano accusato di ribellione contro il
sovrano e la sua legge (v. 13), e tutto faceva credere che avessero ragione giac-
ché in effetti Daniele aveva contravvenuto al decreto reale. L’accusa però era ca-
lunniosa perché si fondava su una interpretazione distorta dei fatti, ma Daniele
non aveva alcun modo di dimostrarlo. La sua protesta d’innocenza sarebbe dun-
que stata vana; egli non aveva altra scelta che accettare di subire l’iniqua con-
danna e rimettere la sua sorte nelle mani di Dio (e non era poco!).
Adesso la prova della sua innocenza c’è ed è irrefutabile: è la sua sopravvi-
venza. In Babilonia come nel resto dell’Oriente antico nei casi di dubbia colpe-
volezza si faceva ricorso all’ordalia giudiziaria o giudizio degli dèi215. L’accusato
veniva gettato nelle acque di un fiume e la sua colpevolezza o innocenza veniva
stabilita secondo che il suo corpo sprofondasse o galleggiasse.
Nel caso di Daniele c’è stato un normale giudizio del sovrano, non un’orda-
lia giudiziaria, comunque ha funzionato quello che si credeva essere il principio
su cui si fondava questa pratica. L’essere Daniele scampato miracolosamente alla
morte cui era stato legalmente condannato, non poteva non essere interpretato
come il giudizio favorevole della divinità e dunque come una prova della sua in-
nocenza.

23 Allora il re fu ricolmo di gioia, e ordinò che Daniele fosse tratto


fuori dalla fossa; e Daniele fu tratto fuori dalla fossa, e non si trovò
su di lui lesione di sorta, perché s’era confidato nel suo Dio.

La benevolenza di Dario verso Daniele e la sincerità del suo dolore per non
avere potuto evitare la sua condanna, si palesano nella sua intensa reazione

215 - Vedi F.PINTORE, L’alba della Civiltà, vol. I, pp. 490, 491; R.DE VAUX, Le Istituzioni dell’Antico
Testamento, pp. 164, 165.

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CAPIRE DANIELE

emotiva all’udire la voce del prigioniero: “Fu ricolmo di gioia” (aramaico


: )yiGa & saggî’ t’ev, letteralmente “fu sommamente felice”).
b")+
Secondo il giudizio del re l’esigenza della legge dei Medi e dei Persiani è
stata soddisfatta con l’aver gettato Daniele nella fossa dei leoni. Il non essere egli
stato assalito dalle belve è un segno inequivocabile del giudizio di Dio favore-
vole al condannato, un giudizio cui nessuna autorità umana può opporsi.
Se prima Dario ha dovuto esercitare con gran pena i suoi poteri regali per
sentenziare la condanna capitale di Daniele, adesso se ne avvale con somma
gioia per ordinarne l’immediata liberazione.
I sigilli che dovevano rimanere intatti a testimoniare l’avvenuta esecuzione
del condannato, ora vengono infranti per ordine di colui stesso che li aveva ap-
posti affinché il condannato sia liberato.
Ora veramente è stata fatta giustizia.
Come al tempo del re Nabucodonosor non era stata riscontrata alcuna
ustione sui corpi di Shadrac, Meshac e Abed-nego usciti vivi dalla fornace, così
ora non si scorge la più piccola lesione sul corpo di Daniele tratto vivo dal serra-
glio delle belve. Il miracolo appare in tutta la sua irrefutabile realtà e concretezza.
Daniele è stato protetto dall’aggressione dei felini perché è innocente e per-
ché si è “confidato nel suo Dio”. Molto tempo dopo, il miracolo che ha fatto ri-
fulgere la potenza di Dio e la fede del suo servo devoto sarebbe stato riproposto
alla riflessione dei cristiani (Eb 11:33), e più in là ancora avrebbe ispirato capola-
vori di arte figurativa.

24 E per ordine del re furon menati quegli uomini che avevano accu-
sato Daniele, e furon gettati nella fossa dei leoni, essi, i loro figliuoli
e le loro mogli; e non erano ancora giunti in fondo alla fossa, che i
leoni furono loro addosso, e fiaccaron loro tutte le ossa.

L’oscuro disegno dei capi e dei satrapi quando costoro hanno denunciato Da-
niele si è svelato in tutta la sua nefandezza. Il re si è accorto che col falso prete-
sto di salvaguardare la sua autorità essi gli hanno estorto un decreto iniquo,
giacché mirava soltanto a colpire senza motivo il più fidato e capace dei suoi mi-
nistri. Il complotto contro un uomo incolpevole ha dunque un risvolto non
meno grave: esso ha offeso la dignità del sovrano poiché lo ha coinvolto a sua
insaputa in un atto di suprema ingiustizia. Allora però Dario non ha potuto rea-
gire in conformità della legge, giacché nessuno sarebbe stato in grado di scagio-
nare Daniele dall’imputazione di ribellione.
Ma ora che il giudizio divino ha messo in piena luce l’innocenza dell’accu-
sato (vedi commento al v. 22), nulla potrà impedire al re di agire col massimo ri-
gore nei confronti dei cospiratori. Saranno loro a sperimentare l’inflessibile du-
rezza della legge dei Medi e dei Persiani che avevano invocata contro Daniele
(vedi v. 15). Saranno loro, e i loro familiari purtroppo, a subire la pena atroce
che avevano preparato per il loro avversario.
Più o meno come sarebbe accaduto ad Haman, l’implacabile nemico di
Mardocheo e dei Giudei (vedi Et 6:9, 10). È proprio vero che “chi scava una

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CAPITOLO 6

fossa vi cadrà, e la pietra torna addosso a chi la rotola” (Pr 26:27). È raccapric-
ciante che siano coinvolti mogli e figli nelle colpe dei mariti e padri e nelle san-
zioni loro riservate. Ma tant’è: nell’antichità era molto vivo il sentimento di soli-
darietà e corresponsabilità familiare (vedi Gs 7:24, 25).
Su questa pratica crudele presso i Persiani ci dà notizia anche Erodoto.
Narra lo storico greco che essendosi un tale Intafrene reso reo di grave colpa
verso il re Dario (da non confondersi col Dario del nostro racconto), il sovrano
facesse arrestare lui, i suoi figli e altri parenti, e li mandasse a morte tutti tranne
due, risparmiati grazie all’intercessione appassionata di una donna che era ma-
dre dell’uno e sorella dell’altro (III, 118, 119).

25 Allora il re Dario scrisse a tutti i popoli, a tutte le nazioni e lingue


che abitavano su tutta la terra: “La vostra pace abbondi!

Per la seconda volta Dario promulga un decreto indirizzato a tutti i sudditi del
regno che sono espressamente distinti nei gruppi etnici, nazionali e linguistici
che lo compongono (vedi comm. a 4:1).
La frase “su tutta la terra” aggiunge il concetto di universalità spaziale a
quello di universalità sociale già enunciato con le espressioni “tutti i popoli” e
“tutte le nazioni e lingue”. L’aggettivo kol (“tutta”, “tutti”, “tutte”) ha una portata
limitata all’ambito territoriale del regno, e il sostantivo “terra” è usato nell’acce-
zione ristretta di “paese” (anche noi diciamo, per es., “la terra dei padri” vo-
lendo significare il paese dove siamo nati, la patria). Il senso dell’espressione
aramaica )f(r : ) : bekol-’ar‘a’ è dunque “in tutto il paese”, e non “in tutto il
a -lfkB
mondo”.
L’editto di Dario si apre col saluto augurale di prammatica nei proclami reali
dell’epoca (vedi 4:1 e relativo commento).

26 Io decreto che in tutto il dominio del mio regno si tema e si tremi


nel cospetto dell’Iddio di Daniele; perch’egli è l’Iddio vivente, che
sussiste in eterno; il suo regno non sarà mai distrutto, e il suo domi-
nio durerà sino alla fine. 27 Egli libera e salva, e opera segni e pro-
digi in cielo e in terra; egli è quei che ha liberato Daniele dalle bran-
che dei leoni”.

La frase: “in tutto il dominio del mio regno”, chiarisce e ridimensiona l’espres-
sione: “su tutta la terra” nel v. 25, a conferma di quanto si è detto in proposito
nel commento si quel versetto.
Il nuovo editto di Dario si differenzia in modo sostanziale dal precedente,
anzi si colloca agli antipodi: quello poneva in primo piano la persona del re, ne
faceva oggetto esclusivo di religiosa riverenza; questo esalta l’Iddio del cielo e
prescrive che Lui si tema e si riverisca. Non sarebbe stato di certo emanato que-
sto secondo decreto reale se Daniele si fosse lasciato intimorire dal primo: an-
cora una volta si è visto come l’avere anteposto a rischio della vita l’imperativo
della coscienza alle dispotiche esigenze del potere, in definitiva abbia sortito

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CAPIRE DANIELE

l’esito di far proclamare a un’intera nazione pagana la supremazia dell’Iddio Al-


tissimo (cfr. con 3:28, 29). Infatti il nuovo decreto del re Dario, a somiglianza
dell’editto di Nabucodonosor nell’episodio della fornace ardente (cfr. 3:29), or-
dina che si tema e si riverisca in tutto il regno l’Iddio di Daniele, sebbene a diffe-
renza di quello sia formulato in termini affermativi e soprattutto non abbia un
tono brutale.
Per l’intonazione lirica della seconda parte, l’editto Dario ricorda un altro
proclama di Nabucodonosor, quello relativo al racconto del sogno dell’albero
(cfr. 4:3). In questa parte del documento Dario riconosce nel Dio d’Israele “l’Id-
dio vivente” (vedi il commento del v. 20) e ne proclama l’eternità (“... sussiste in
eterno”), l’intramontabile dominio (“il suo regno non sarà mai distrutto”) e il
gran potere taumaturgico (“Egli libera e salva, opera segni e prodigi”) che si è
manifestato nella liberazione di Daniele (“ha liberato Daniele dalle bocche dei
leoni”). Questo non significa tuttavia, come si è notato a proposito del v. 16, che
il re Dario si sia convertito all’Iddio d’Israele. In un ambiente pagano il fatto che
si riconoscano gli attributi straordinari di una divinità straniera non implica af-
fatto il rinnegamento degli dèi nazionali.

28 E questo Daniele prosperò sotto il regno di Dario, e sotto il regno


di Ciro, il Persiano.

“Questo Daniele...” Nota C.F.KEIL216 che il pronome “questo” accentua l’identità


del personaggio: colui che prospera è lo stesso Daniele che i nemici volevano
mandare in rovina.
Poiché un evento soprannaturale ne ha dimostrato l’innocenza, Daniele è
subito reintegrato nelle funzioni pubbliche dalle quali era stato destituito a se-
guito della condanna. Così riassume in pieno l’incarico a cui il re lo aveva pro-
mosso e ne svolge con grande competenza e successo le mansioni (“prosperò”)
sino alla fine del regno di Dario, che peraltro non deve essere stato lungo, e an-
cora sotto il regno di Ciro.
Se Dario il Medo si identifica con Ugbaru il conquistatore di Babilonia,
com’è assai verosimile (vedi il commento del v. 1), il suo regno durò poco più
di un anno. Poiché 1:21 c’informa che l’attività pubblica di Daniele durò “fino al
primo anno del re Ciro” (il primo anno come re di Babilonia, vedi il commento
del v. 1), bisogna supporre che egli svolgesse tale attività per almeno due anni
ancora dopo l’episodio qui narrato. Il suo successo durante questo periodo è vi-
sto implicitamente come premio per la fedeltà al suo Dio.
Da 6:28 sappiamo che il profeta ricevette l’ultima rivelazione nell’anno terzo
di Ciro, ma non si dice in quel passo che egli fosse tuttora in carica come uffi-
ciale pubblico del regno di Babilonia.
Col racconto della liberazione miracolosa di Daniele e della sua reintegra-
zione nelle mansioni di governo si chiude la sezione narrativa del libro ma non
si interrompe l’uso della lingua aramaica.

216 - Citato da H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 274.

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Capitolo 7
____________________________________________________

C ol capitolo sette comincia la sezione profetica del libro di Daniele, la quale si


estende fino al capitolo dodici. La sezione precedente (capitoli 1-6) compren-
deva una serie di sei racconti uno dei quali (il secondo, nel capitolo due) conte-
neva una rivelazione profetica.
Nella serie dei racconti tre volte Daniele è stato interprete di messaggi del
cielo inviati a uomini potenti (capitoli 2, 4 e 5). Nella seconda parte del libro egli
stesso sarà il destinatario delle rivelazioni divine, mentre il ruolo di interprete
sarà svolto da un angelo217 (cfr. 7:1,16; 8:2.16,17; 9:21,22; 10:1,14).
Nella visione del capitolo due abbiamo visto uno schizzo profetico della sto-
ria del mondo da un punto di vista politico (il sogno profetico era stato dato a
Nabucodonosor) e per un periodo che va dall’inizio del regno di Babilonia, fino
alla fine del mondo. Nel capitolo sette abbiamo una visione data direttamente a
Daniele che è assolutamente parallela a quella del capitolo due, nel senso che ri-
percorre, tramite l’ausilio di simboli diversi (adattati alla persona che la riceve),
la stessa storia, le stesse tappe, ma con l’aggiunta di altri dettagli di carattere reli-
giosi. Infatti il quadro della visione del capitolo 7 è ricco di maggiori dettagli che
ci permettono di meglio capire l’interferenza di poteri umani politici e religiosi
nella lotta contro il popolo di Dio. Nabucodonosor vede una statua fatta di me-
talli splendenti; ciò perché come re pagano egli è suscettibile all’influenza di cose
facili atte a influenzare i sensi. Il re babilonese è abbagliato dal fasto delle ric-
chezze e vede le cose solo nella loro apparenza, il regno degli uomini è un metallo
brillante e il regno di Dio una pietra insignificante. Daniele invece ha una vi-
sione più complessa in cui entrano in gioco le passioni che muovono i popoli.
Egli come figlio di Dio può penetrare la realtà intima delle potenze del
mondo senza Dio che non hanno nulla della dignità umana e che vengono per
questo descritte per mezzo di simboliche bestie feroci. Daniele riceve questa vi-
sione quando il glorioso impero babilonese sta ormai avviandosi verso la fine.

217 - Appare spesso nella letteratura apocalittica una figura angelica (l’angelus interpres) che
spiega e interpreta la profezia. L’angelus interpres richiamandosi esplicitamente al discernimento
sapienziale proveniente da Dio, ricorda alla comunità cristiana il compito di propagatrice delle ve-
rità divine che le spetta. Infatti la figura angelica nell’apocalittica, quando è implicata a vari livelli e
con diversi ruoli nel dinamismo della storia della salvezza, è un segno positivo. In questo caso
l’angelo diventa un simbolo che esprime il rapporto fra la realtà umana e quella divina. L’angelo
diventa l’entità celeste che mette in un rapporto particolare e diretto col trascendente.

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CAPIRE DANIELE

1 Nel primo anno di Belsatsar, re di Babilonia, Daniele fece un so-


gno, mentre era a letto, ed ebbe delle visioni nella sua mente. Poi
scrisse il sogno, e narrò la sostanza delle cose.

La visione è datata all’anno primo di Belsatsar218 “re di Babilonia”219 (re di


fatto220; di diritto lo era suo padre Nabonide)221. Il primo anno della co-reggenza
di Belzasar corrisponde al 549 a.C.
Daniele introduce la sua relazione parlando di sé in terza persona (vv. .1 e
2a), poi passa alla prima persona (“io guardavo”) e prosegue così fino alla fine
del capitolo. Il cambiamento di persona è un fenomeno letterario non infre-
quente negli scritti dei profeti (cfr. Is 2:1; 6:1; 8:1,2; Gr 11:1; 13:1; 17:19; 18:17;
Ez 1:3,4; Os 1:1; 3:1; Am 1:1; 7:1; Za 1:7; 2:1 ecc...).

218 - raC$ " Belshatsar era probabilmente il figlio di Nitocri, figlia di Nabucodonosor (Vedi R.P.
a ):lb
DOUGHERTY, Nabonidus and Belshazzar, 1926).
219 - Una tavoletta con un’iscrizione cuneiforme che risale all’anno di accessione di Neriglissar
sul trono babilonese, menziona un certo “Belshazzar, il principale funzionario del re”, in rela-
zione a un’operazione finanziaria. Nel 1924 è stata pubblicata la decifrazione del testo cu-
neiforme detto Storia in versi di Nabonide, grazie al quale sono state portate alla luce preziose
informazioni che avvalorarono senz’altro la posizione regale che Baldassar aveva a Babilonia e
spiegano in che modo divenne corregente di Nabonide. A proposito della conquista di Tema da
parte di Nabonide nel terzo anno del suo regno, parte del testo dice: “Egli affidò l’accampa-
mento al [figlio] maggiore, il primogenito [Baldassar] le truppe ovunque nel paese sottopose al
suo [comando]. Lasciò andare [ogni cosa], a lui affidò il regno e, lui stesso [Nabonide] partì per
un lungo viaggio, e le forze [militari] di Akkad marciarono con lui; egli si volse verso Tema, [molto
più ad ovest]” (J. B. PRITCHARD, Ancient Near Eastern Texts, 1974, p. 313). Nella Cronaca di Babi-
lonia, a proposito del settimo, nono, dicimo e undicesimo anno del regno di Nabonide, viene ri-
petuta questa dichiarazione: “Il re [era] a Tema [mentre] il principe, gli ufficiali e il suo esercito
[erano] in Akkad [Babilonia]” (A.K. GRAYSON, Assyrian and Babylonian Chronicles, 1975, p. 108).
Un altro documento, una delle stele di Harran (NABON H1, B) il cui testo è stato pubblicato da
J.C. GADD in Anatolian Studies, “The Harran Inscriptions of Nabonidus”, vol VIII, 1958, ci informa
che Nabonide trascorse nell’Arabia, a Tema, 10 anni dei suoi 17 anni di regno. Quindi Baldassar
esercitò senz’altro l’autorità regale dal terzo anno di Nabonide (549 a.C.) in poi, e questo avveni-
mento corrisponde al riferimento “primo anno di Baldassar” (Dan 7:1).
220 - Nel 1979 venne riportata alla luce una statua a grandezza naturale di un governatore
dell’antica Gozan. Sul lembo della veste c’erano due iscrizioni, una in lingua assira, l’altra in
aramaico: la lingua in cui Daniele scrisse di Baldassar. Le due iscrizioni quasi identiche differi-
vano in un punto significativo. Il testo nella lingua imperiale assira dice che si tratta della sta-
tua del “governatore di Gozar”. Il testo in aramaico, la lingua della popolazione locale, lo defini-
sce “re”. “Alla luce delle fonti babilonesi e delle nuove iscrizioni su questa statua, poteva es-
sere del tutto appropriato per un documento non ufficiale come il Libro di Daniele chiamare Bal-
dassar re. Agiva in qualità di re, in rappresentanza del padre, per quanto non fosse legalmente
re. Infatti le iscrizioni ufficiali Baldassar ha il titolo di “principe ereditario”, mentre in Daniele ha
il titolo di re. (ALAN MILLARD, Biblical Archaeology Review, maggio-giugno 1985, p. 77).
221 - Vedi Introduzione, IV.

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CAPITOLO 7

“Daniele... fece un sogno ed ebbe delle visioni”: le immagini viste durante il


sonno notturno erano una rivelazione divina (y¢wzº xe chezwê, “visione”), pur avendo
l’apparenza di un sogno comune ({elx" chelem).
“...narrò la sostanza delle cose”. L’aramaico $)"r re’sh, letteralmente “capo”,
“principio”, qui è usato nell’accezione secondaria di “somma”, “insieme di cose”
(Gesenius)222. Daniele vuole dire che ha esposto la visione nelle sue linee essen-
ziali tralasciando i particolari non indispensabili per la sua comprensione.

2 Daniele disse: Io guardavo, nella mia visione notturna, ed ecco sca-


tenarsi sul mar grande i quattro venti del cielo.

“Io guardavo nella visione [yéwzº x


e B
: ty¢wh f ]”: la forma imperfetta del verbo ara-
A h¢zx
maico h¢zxf “vedere” esprime un’azione continuata. L’attenzione del veggente è
concentrata senza interruzione sulle immagini che scorrono nella sua mente.
Daniele vede il mare agitarsi sotto l’impeto dei venti che soffiano simulta-
neamente dai quattro punti cardinali. Nella realtà non succede mai che il vento
soffi nel medesimo tempo da direzioni diverse, ma non dobbiamo dimenticare
che qui si tratta di una rivelazione profetica dove tutto ha valore simbolico.
Il “mar grande” (aramaico )fBr a )fMyá yâmma’ rabba’) nel linguaggio ordina-
rio degli ebrei antichi era il Mediterraneo, mare che per molto tempo e quasi
fino al nostro periodo storico fu il centro geografico attorno al quale hanno gra-
vitato i grandi imperi e sulle rive del quale le monarchie universali descritte da
Daniele si sono sedute223. Ma nella visione apocalittica il “mar grande” riveste
sostanzialmente valore simbolico e non geografico. Al “mare” della figurazione
del v. 3 corrisponde nella spiegazione del v. 17 la “terra”. La terra non come en-
tità geografica ma come mondo abitato, consorzio umano (cfr. Ap 17:15).
Nella tradizione profetica ebraica e cristiana le “molte acque” sono simbolo
di moltitudini (cfr. Ap 17:1,15). Geremia paragona al muggito del mare il cla-
more dell’esercito babilonese che marcia contro Gerusalemme (Gr 6:23); Eze-
chiele descrive con la figura del mare agitato il dilagare degli eserciti stranieri
che devasteranno Tiro (Ez 26:3,19; vedi anche Is 8:7,8; Gr 46: 7,8; 47:2).
Quindi il mare o le acque agitate nel linguaggio apocalittico sono il simbolo
naturale della massa umana, specialmente dell’umanità pagana, nel seno della
quale si formano i diversi imperi224.
L’agitazione incessante del mare corrisponde allo stato di perenne irrequie-

222 - Gesenius’ Hebrew-Chaldee Lexicon to the Old Testament. p. 751.


223 - A. PELLEGRINI, Il popolo di Dio e l’anticristo attraverso i secoli, Minigraf, 1980, p. 167
224 - A. CRAMPON, Daniel, t. V, p. 685.

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CAPIRE DANIELE

tezza delle nazioni. Il fatto che le ‘quattro bestie’ sembrano sorgere dal mare in-
dica chiaramente che dallo stato agitato del mondo hanno origine le potenze
mondiali che compaiono l’una dopo l’altra sullo scenario del storia umana”225.
L’espressione aramaica ()æYm a $
: y"xUr (aBr a ) “i quattro venti del cielo” nel lin-
: )
guaggio biblico denota in generale le quattro direzioni dello spazio (anche uni-
versalità spaziale: cfr. Ez 37:9; Dn 8:8; 11:4; Za 6:5; Ap 7:1). Qui però si vuole al-
ludere al vento come fenomeno fisico. Nei profeti il vento con senso metaforico
indica la guerra: Geremia descrive come un vento impetuoso l’immi-nente inva-
sione caldea (Gr 4:13; vedi anche Ez 13:12,13; 24:32,33).
Nella visione danielica i “quattro venti del cielo” che si scatenano sul mar
grande evocano non un singolo evento bellico, ma il flagello della guerra in ge-
nerale che coinvolge popoli e nazioni e sconvolge l’assetto politico del mondo
cancellando nazioni potenti e facendone sorgere di nuove226.

3 Quattro grandi bestie salirono dal mare, una diversa dall’altra.

Fin dall’antichità si è riconosciuto che il “sogno” del cap. 2 e la “visione” del cap.
7 sono rivelazioni parallele.
Le quattro grandi bestie del cap. 7 sono il corrispettivo dei quattro metalli
della statua. Colpisce il contrasto fra le due figurazioni parallele: un simulacro
umano di grande splendore nell’una, una serie di bestie selvagge nell’altra. Si
consideri che la prima rivelazione fu data a un monarca pagano, la seconda a un
profeta dell’Altissimo. La statua di metalli pregiati rispecchia la concezione
umana del potere (la concezione di Nabucodonosor); le bestie selvagge evocano
il punto di vista di Dio: il potere raggiunto e mantenuto con l’uso della forza
bruta, con l’inganno, con la sopraffazione è paragonabile al dominio delle belve
nella foresta. Una belva come figura è quanto di più attinente per mettere a
nudo l’anima vera del potere terreno.

225 - H.C. LEUPOLD, Exposition of Daniel, pp. 284, 285.


226 - I quattro venti del cielo che si precipitano sul gran mare, raffigurano le rivoluzioni politiche
che sollevano i popoli come le onde del mare (A. PELLEGRINI, op. cit., 167).

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CAPITOLO 7

Le bestie della visione danielica227 differiscono l’una dall’altra228 come diffe-


rivano tra loro i metalli della grande statua: riflesso fedele della diversificazione
geografica, etnica, politica, culturale dei regni che quelle belve e quei metalli raf-
figuravano.

4 La prima era simile a un leone, ed avea delle ali d’aquila. Io guar-


dai, finché non le furono strappate le ali; e fu sollevata da terra, fu
fatta stare in piedi come un uomo, e le fu dato un cuor d’uomo.

In natura queste bestie non esistono. Di loro viene detto che sono simili, ma non
uguali. Sono degli animali particolari perché rispetto agli animali del nostro mondo
che uccidono per mangiare, essi uccidono per uccidere, non mangiano per vivere,
ma vivono per mangiare. Essi raffigurano il potere umano separato da Dio.
“La prima era come un leone” (aramaico h¢y :ra)k: ke’aryeh), cioè somigliante a
un leone. Il parallelismo tra i capitoli 2 e 7 consente, anzi obbliga a identificare
Babilonia nel grande leone alato. A un leone che balza sulla preda Geremia pa-

227 - Le bestie rappresentano dei re e una successione di re o, in altri termini delle domina-
zioni, dei regimi, dei regni o degli imperi idolatri, opposti o indifferenti al regno di Dio. Questi im-
peri sono rappresentati sotto l’immagine di bestie, per far notare che le passioni ne sono il
principale movente. È da rivelare che queste bestie indicano le sovranità o monarchie univer-
sali. Daniele le considera tanto nel loro capo quanto nell’insieme dei loro successori. In tal
modo, le quattro bestie rappresentano quattro re e la serie dei re, che continuano la loro domi-
nazione o il loro regno. Chiaramente nel testo di Dn 7:17, le bestie indicano dei re. L’interprete
della visione dice a Daniele: “Queste quattro grandi bestie sono quattro re [malkin]”. Ma le tra-
duzioni antiche o moderne hanno tradotto per “quattro regni”. Esse hanno compreso, in effetti,
che si tratta qui, non solamente di un individuo, ma della serie dei re che si riallacciano a lui. È
così che l’angelo ci fa comprendere che, con la parola “re”, intende il seguito dei successori di
questi regni: “La quarta bestia è un quarto regno” (Dn 7:23). Le bestie rappresentano dunque,
non solamente il primo re indicato dalla visione, ma anche successivamente dagli altri re. Ogni
regno è così rappresentato come una unica bestia, sebbene comprenda più persone diverse,
poiché tutte queste persone sono considerate come membri di uno stesso corpo, che concor-
rono a una specie di unità, mossi da uno stesso spirito, per uno stesso regime nazionale (J. FA-
BRE D’ENVIEU, Le livre du prophète Daniel, Paris 1880, t. II, p. 565). “In queste profezie, il re rap-
presenta il regno, e il regno è concentrato nel re” (PUSEY, Lectures on Daniel, p. 78).
228 - La differenza di queste bestie non consiste nel grado di potere che è loro accordato, - poi-
ché tutte simboleggiono delle monarchie universali, - bensì nel carattere della loro potenza.
Come ogni bestia ha la sua organizzazione e le sue caratteristiche proprie, così ognuno di que-
sti imperi ha uno spirito e un modo di agire particolare (Bible Annotée, Ancien Testament, Les
prophètes, t. II, Daniel, p. 285).
Ognuna di questi imperi universali ha i suoi tratti distintivi: c’è la regale Babilonia e la Persia vo-
luttuosa. la Grecia colta e Roma imperiale e vittoriosa (H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 286).

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CAPIRE DANIELE

ragona i Caldei che stanno per aggredire il regno di Giuda (Gr 4:7). La figura del
leone apparteneva all’iconografia ufficiale babilonese. Il leone, insieme col toro
e il drago, era riprodotto a sbalzo 575 volte sui mattoni smaltati che ricoprivano
le strutture murarie della splendida porta di Ishtar in Babilonia229.
Il leone della visione danielica aveva due ali d’aquila sul dorso. Il re della
foresta e la regina delle vette inviolate riuniti in un unico simbolo rappresentano
la regalità di Babilonia con la stessa efficacia dell’oro230, il re dei metalli, nella vi-
sione parallela del cap. 2. Le ali evocano anche la rapidità con cui Nabucodono-
sor avrebbe esteso l’egemonia di Babilonia verso ovest e verso sud231.
La perdita delle ali e l’umanizzazione del leone232 (la belva si rizza sulle
zampe posteriori o meglio fu sollevata da terra e fu fatta stare in piede come un
uomo, e riceve un cuore umano) possono simbolizzano la decadenza dell’im-
pero babilonese dopo la morte di Nabucodonosor233. Anche se al tempo in cui
Daniele scrive, la monarchia babilonese era già apparsa ed era giunta alla sua
fine; lo scrittore sacro si esprime ugualmente al futuro a causa delle altre tre, che
appariranno in avvenire (vedi Dn 7:3)234.

229 - Cfr. C.J. DU RY, L’arte nell’Antico Oriente, Firenze 1965, p. 113
230 - Il leone è il più nobile degli animali selvatici e l’aquila il più nobile degli uccelli: queste ca-
ratteristiche ricordano l’immagine della testa d’oro, il più nobile dei metalli, immagine applicata
espressamente a Nanucodonosor (A. CRAMPON, op. cit., p. 686).
231 - Simile all’aquila che trasporta lontano la sua preda, Babilonia planava sulle popolazioni.
S’abbatteva come dall’alto delle nuvole sulle loro città più forti, e quando le aveva prese era
contemporaneamente un’aquila e un leone sulla sua preda. L’esercito babilonese portava via
dalle città conquistate tutto ciò che era possibile trasportare quello che non poteva essere tra-
sferito nelle città babilonesi veniva distrutto.
232 - Queste ali d’aquila che vengono strappate, indicano un atto violento, col quale si suole
designare il periodo in cui Nabucodonosor cessò le sue conquiste per darsi alle arti e alla
pace, dando al suo regno un carattere più umano. Il cuore d’uomo raffigura il cambiamento reli-
gioso che si operò in lui negli ultimi anni del suo regno nel riconoscere la sovranità del Dio
d’Israele (Dn 4:16, 34; 3:28-29).
233 - Le ali che vengono strappate e l’offerta del cuore simile a quello di un uomo possono rife-
rirsi anche agli ultimi anni dell’impero babilonese, indebolito e cadente sotto i colpi dei Medo-
Persiani; non è più un leone vigoroso, né un aquila rapida che tocca appena terra, ma l’uomo
debole e mortale, incapace di difendersi contro la seconda bestia (A. CRAMPON, op. cit., p. 686).
Già da quando Nabucodonosor fu tolto dalla scena, prima con la sua malattia mentale e poi
con la morte che lo seguì da vicino, i suoi eserciti cessarono di volare come aquile; essi subbi-
rono sconfitte una dopo l’altra e le sue conquiste gli vennero rapite una dopo l’altra (LOUIS GAUS-
SEN, Daniel le Prophète, t. II, Paris 1848, p. 30-31).
234 - Vedi A. CRAMPON, op. cit., p. 689.

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CAPITOLO 7

5 Poi vidi una seconda bestia, simile ad un orso; essa stava eretta
sopra un fianco, teneva tre costole in bocca fra i denti e le fu detto:
“Alzati, mangia molta carne!”

La locuzione aramaica wa’arû chêwah ‘acharî tinyanah [hænyæ nº t


i yirx f hæwy"x UrA)wá ] è
F )
resa correttamente da un buon numero di versioni: “Ed ecco un’altra bestia, una
seconda”. L’espressione sottolinea la differenza della seconda bestia rispetto alla
prima. Il secondo regno dovrà differire tanto dal primo quanto l’orso differisce
dal leone. Le formule di transizione usate tra una bestia e l’altra chiariscono che
queste sono consecutive e non contemporanee.
Alcuni espositori moderni vedono nell’orso con le tre costole in bocca, un
simbolo del regno di Media. L’esegesi conservatrice vi ha ravvisato unanime-
mente l’Impero medo-persiano235. Questa identificazione è corretta storicamente
ed esegeticamente perché:

(1) furono i Medo-Persiani ad abbattere l’impero neo-babilonese e a


prenderne il posto236;
(2) il contrasto fra le due figure animalesche esprime bene la diffe-
renza tra i Medo-Persiani e i Babilonesi.

La figura massiccia, l’aspetto rude e selvaggio, la voracità insaziabile dell’orso


sono caratteristiche che si adattano bene a raffigurare la rude cultura iranica237,
la mole elefantiaca dell’Impero medo-persiano, le guerre continue di Ciro II,
Cambise II, Dario I e Serse I per accrescere la grandezza dell’impero e dei loro
successori per mantenerla.

235 - L’orso animale tozzo, lento nei movimenti e di grande ferocia rappresenta bene l’Impero
Medo-Persiano che corrisponde, nella statua, al petto e alle braccia d’argento (A PELLEGRRINI,
op. cit., p. 169).
236 - Gli imperi universali vengono presi in considerazione solo a partire dal momento in cui
conquistano il precedente. Per questo datiamo la Medo-Persia dal 539/38 (presa di Babilonia)
al 331 a.C. (anno in cui fu annessa all’impero di Alessadro Magno): 207 anni in tutto.
237 - Gli storici dicono che i Persiani furono i più barbari di tutti i popoli conquistatori. Nulla ca-
ratterizza meglio la nazione persiana delle sue leggi criminali. Esse si distinguevano per la cru-
deltà delle pene: i colpevoli erano scorticati e seppelliti vivi. C’era più crudeltà ancora nelle mu-
tilazioni che i Persiani si compiacevano d’infliggere. Il persiano Ciro che, secondo la testimo-
nianza di Senofonte, aveva tutte le virtù di un grande re, esercitava la giustizia con tale zelo
che - narra sempre lo storico greco - le grandi strade erano affollate d’uomini mutilati nei piedi,
nelle mani, agli occhi. Dopo la presa di Babilonia, Dario fece mettere in croce tremila abitanti
tra i più distinti della città. Serse sorpassò Dario in crudeltà. Seneca riporta che un re persiano
fece tagliare il naso a tutto un popolo (E. LAURENT, Histoire du Droit des gens, t. I, p. 176).

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CAPIRE DANIELE

Per contro il portamento nobile e maestoso del leone, la sua snellezza e


agilità, la sua dieta regolare evocano realisticamente la maestosità di Babilonia,
lo splendore della sua cultura, la snella configurazione territoriale dell’Impero
caldeo, la relativamente breve stagione guerresca di Nabucodonosor II nel corso
della quale praticamente si formò e si consolidò l’Impero neo-babilonese.
L’orso si “rizzava sopra un lato” o “aveva un lato più alto”. Questa imma-
gine indica sicuramente la componente etnica persiana che aveva un ruolo pre-
ponderante rispetto a quella meda. Infatti, come vedremo al capitolo otto di Da-
niele, lo stesso impero viene raffigurato da un montone avente un corno più alto
dell’altro: l’analogia è evidente238.
L’esegesi storica di Daniele ha generalmente ravvisato, nelle tre costole che
l’orso stringe fra i denti, le tre maggiori conquiste dei primi regnanti achemenidi:
il regno di Lidia annesso da Ciro II nel 457 a.C., l’Impero di Babilonia conqui-
stato ancora da Ciro II nel 539 a.C. e il regno d’Egitto occupato da suo figlio
Cambise II nel 525 a.C.239
L’ordine “alzati”, non deve far concludere che l’animale fosse accovacciato,
poiché usciva proprio in quel momento dal mare. Questa apostrofe ha il senso
di “Andiamo! Avanti!” (vedi Gd 8:20).
Mangia molta carne! è l’emblema dell’avidità, tipica dell’orso, con la quale
questo secondo impero si impossesserà delle ricchezze dei popoli conquistati.
L’ordine significa: “Compi il tuo ruolo nella storia! Nessun ostacolo ti arresta!”240.
Mentre i Caldei trasportavano lontano i popoli vinti, i Medo-Persiani senza to-
glierli dalle loro terre, li calpestavano sotto i piedi, dimostrando grande crudeltà
nella loro guerra.
Per un certo numero di esegeti moderni l’Orso rappresenta la potenza
meda e la terza bestia (il leopardo alato) quella persiana. Questa spiegazione
urta contro la realtà storica e del testo biblico241.

238 - Uno, il lato medo, resta a riposo; l’altro, il lato persiano, si alza e diventa più alto del
primo (A. CRAMPON, op. cit., p. 686).
239 - Le tre costole in bocca rappresentano le conquiste della parte occidentale, della parte
settentrionale e della parte meridionale (Bible Annotée, op. cit., t. II, p. 286).
240 - Idem.
241 - Inoltre, non si capisce in quali particolari l’orso corrisponderebbe alle caratteristiche del
popolo medo: perchè esso dovrebbe avere un lato più alto dell’altro, perchè le tre costole in
bocca, dal momento che le conquiste sopra elencate furono compiute insieme ai Persiani. Di
conseguenza, in che modo il leopardo a quattro teste e quattro ali rappresenterebbe i Persiani,
mentre sembra così bene adattarsi all’impero Greco-Macedone (anche in analogia con il capi-
tolo 8 di Daniele). E dove andrebbero a finire i Romani, dal momento che il mostro seguente
dovrebbe rappresentare i Greci?!...

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CAPITOLO 7

La storia biblica non conosce che un impero medo-persiano unico. I Medi


più civilizzati giocarono un ruolo di primo piano finché, più tardi, i Persiani non
ebbero un ruolo di preminenza e furono descritti come predominanti. Il Libro di
Daniele insiste a varie riprese nel presentare questo impero come unico. Al re
Baldassar Daniele annuncia che il regno di Babilonia viene dato ai “Medi e ai
Persiani” (Dn 5:28), l’angelo dice al profeta: “il montone che hai veduto, rappre-
senta il re di Madia e di Persia” (Dn 8:20). Dario il medo promulga un decreto
conformemente alla “legge dei Medi e dei Persiani” (Dn 6:8, 12, 15).
Ai tempi della regina Ester, sebbene la dinastia fosse ormai persiana, si
parla ancora delle “cronache dei re di Media e di Persia” (Et. 10:2) mantenendo
l’antico titolo che poneva i Medi al primo posto secondo l’ordine storico.
Nelle varie iscrizioni di Dario Istarpe i Persiani e i Medi vi sono menzionati
come due popoli uniti in un solo popolo: “L’armata dei Persiani e dei Medi che
erano con me”, “io inviai una armata di Persiani e di Medi”, “nessun uomo, né
Persiano né Medo, l’avrebbe spodestato242.

6 Dopo questo, io guardavo, ed eccone un’altra simile ad un leo-


pardo, che aveva addosso quattro ali d’uccello; questa bestia aveva
quattro teste, e le fu dato il dominio.

Il contrasto tra il leopardo e l’orso è ancora più forte che tra l’orso e il leone.
La velocità e l’agilità del leopardo suggeriscono che il terzo impero univer-
sale243 doveva crescere più rapidamente del secondo244.
Le quattro ali sul dorso dell’animale (il doppio rispetto al leone) accentuano
questa impressione. Ci vollero 35 anni di guerre e l’impegno militare di tre re-
gnanti (Ciro II, Cambise II e Dario I) perché l’Impero Medo-Persiano giungesse
alla sua massima estensione territoriale.
Ai Macedoni, che si celano sotto il simbolo del leopardo, bastarono 11 anni

242 - Cit. da J. FABRE D’ENVIEU, op. cit:, t. II, p. 645.


243 - La durata dell’impero greco-macedone è di meno di due secoli (163 anni per la preci-
sione): dal 331 al 168 a.C., anno in cui il suo territorio viene conquistato dai Romani.
244 - Il terzo animale rappresenta il regno greco-macedone che conquistò il mondo antico con
una rapidità eccezionale. La velocità del felino è rafforzata da quella delle ali d’uccello che
sono ben quattro. Già Teodoreto faceva notare che la visione designa il regno macedone che,
soprattutto al tempo di Alessandro il Grande, suo massimo esponente, si poteva paragonare
ad un leopardo a causa della sua prontezza, della sua rapidità, della mobilità del suo carattere
e delle sue passioni.

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CAPIRE DANIELE

e la leadership di un solo capo, Alessandro245, per costruire l’impero più vasto


che fosse mai esistito nella storia. L’identificazione del leopardo con l’Impero
macedone è quella che ha raccolto il più gran numero di consensi, dai tempi dei
primi espositori cristiani di Daniele fino ai nostri giorni.
L’espressione: “le fu dato il dominio” sottolinea la sconfinata estensione
dell’Impero di Alessandro.
Le quattro teste246 sul corpo del leopardo anticipano la durata effimera
dell’Impero greco-macedone. Ventidue anni dopo la morte del suo fondatore,
l’impero si frazionò in quattro monarchie indipendenti, due di effimera durata (i
regni di Macedonia e di Tracia) e due assai più longevi (i regni di Siria e d’Egitto
rispettivamente sotto i Seleucidi e i Tolomei).

7 Dopo questo, io guardavo, nelle visione notturne, ed ecco una


quarta bestia spaventevole, terribile e straordinariamente forte;
aveva dei denti grandi, di ferro; divorava e sbranava, e calpestava il
resto coi piedi; era diversa da tutte le bestie che l’avevano prece-
duta, e aveva dieci corna.

Gran parte dell’esegesi moderna di Daniele scorge in questo mostro senza nome

245 - Alessandro, come il felino che lo designa, era senza posa, inquieto, agitato, intrattabile,
insoddisfatto; e questo carattere si è trovato in quasi tutti i suoi successori. Non aveva ancora
21 anni quando tutti gli Stati della Grecia lo nominarono generale dei Greci, per attaccare il po-
tente impero dei Medo-Persiani. Nell’anno successivo passa in Asia e rovescia tutto sul suo
cammino, marcia, o piuttosto vola come una tempesta; la potente Tiro è bruciata; Gaza è an-
nientata; l’Egitto è conquistato in qualche settimana; Babilonia cade in mano sua: in cinque
anni di guerra rapida e vittoriosa come non si vide mai, questo giovane principe, appena all’età
di 26 anni, sale sul trono di Nabucodonosor e di Ciro, si vede monarca del mondo e si fa chia-
mare “il padrone della terra e del mare”.
246 - Alessandro muore giovane, a trent’anni circa, prima di riuscire ad organizzare il suo vasto
impero. Sul letto di morte, aveva detto ai suoi generali che gli avrebbero preparato dei funerali
sanguinosi. Infatti, vent’anni dopo, le sue conquiste furono divise fra i suoi quattro generali: Se-
leuco, Cassandro, Tolomeo e Lisimaco, che avevano trucidato tutti i suoi legittimi discendenti.
Questi quattro regni che si formarono furono quelli di Macedonia, Tracia, Egitto e Siria. Ecco
che cosa stavano a significare le quattro teste del leopardo: una divisione del territorio geogra-
fico del regno greco-macedone. Questa interpretazione è certa, anche perché assolutamente
analoga alla rappresentazione che, al cap. 8 di Daniele, si fa dello stesso impero. Qui esso è
simboleggiato da un caprone avente un grande corno fra gli occhi che poi si spezzerà e verrà
rimpiazzato da altre quattro corna. É l’angelo stesso a spiegare al profeta Daniele che si tratta
di una divisione dell’ impero in quattro regni distinti, aventi però minore potenza di prima (Dn
8:5-8,21,22).

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CAPITOLO 7

un simbolo del regno ellenistico della Siria247. Discordanze macroscopiche col


testo danielico, in parte già segnalate e che qui completiamo, rendono proble-
matica questa identificazione.

(1) La Siria dei Seleucidi è stata già prefigurata con una delle quattro
teste del leopardo.
(2) Il carattere universale della quarta monarchia è espressamente sotto-
lineato nel testo: “...divorerà tutta la terra” (v. 23). Il regno dei Seleucidi fu
soltanto una frazione dell’Impero macedone. Alessandro, e prima di lui i re
di Persia e di Babilonia, esercitarono un dominio universale, i Seleucidi mai.
(3) Il testo danielico differenzia espressamente le bestie-simbolo l’una
dall’altra: “...una diversa dall’altra” (v. 3). Marcate differenze etniche, lin-
guistiche, politiche e culturali distinsero fra loro i Babilonesi, i Persiani e i
Macedoni. Il regno dei Seleucidi fu un prolungamento ridotto dell’Impero
macedone del quale condivise la lingua, la cultura e l’appartenenza etnica
dei suoi dinasti. La diversità della quarta bestia è enfatizzata con insistenza
nel testo: “era diversa da tutte le bestie che l’avevano preceduta” (v. 7);
“...era diversa da tutte le altre...” (v. 19); “...un quarto regno ... che diffe-
rirà da tutti i regni” (v. 23).
(4) Le formule di transizione tra una bestia e l’altra nei vv. 4-7 presup-
pongono un distacco netto tra i regni che quelle bestie rappresentano: “ed
ecco un’altra bestia...” (v. 5); “dopo questo...eccone un’altra” (v. 6);
“dopo questo... ecco una quarta bestia...” (v. 7). Questo modo di rappor-
tare i regni fra loro suggerisce che ognuno di essi debba sorgere dopo che
il precedente sia caduto. I regni ellenistici, di cui uno fu la Siria dei Seleu-
cidi, non succedettero all’Impero macedone, ne furono la naturale conti-
nuazione.
(5) Gli aggettivi e i verbi che descrivono l’aspetto e l’attività della
quarta bestia (“spaventevole”, “terribile”, “straordinariamente forte”, “divo-
rava”, “sbranava”, “calpestava”), evocano una potenza politica e militare for-
midabile e invincibile quale non fu storicamente la Siria dei Seleucidi (cfr. il
commento a 2:39-40).
(6) L’identificazione del regno di Siria nella quarta bestia è una forza-
tura a cui obbliga l’aprioristica identificazione di Antioco Epifane nell’undi-
cesimo corno di quella bestia.

247 - Cfr. E. TESTA, “Daniele” in Il messaggio della salvezza a cura di G. CANFORA - P. ROSSANO - S.
ZEDDA, Torino-Leumann, 1965-69, vol. III, nota 7 alle pp. 142-143; C. SCHEDL, Storia del Vecchio
Testamento, Roma, 1959-66, vol. IV, p. 75; G. RINALDI, Daniele, Torino 1962, p. 111; G.
BERNINI, Daniele, Roma 1976, p. 215

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CAPIRE DANIELE

L’esegesi antica di Daniele, sia ebraica che cristiana, ha riconosciuto unanime-


mente l’Impero romano nel mostro indefinibile di Dn 7:7-8248. “Nel quarto regno
la massima parte dell’esegesi ha riconosciuto l’impero romano, a cominciare
dall’autore dell’apocrifo 4 Ed 12,10 ss (sec. I d.C.)249. In effetti si può affermare
che Dn 7:7,23 fotografa l’Impero romano.

(1) La quarta bestia è una delle quattro grandi bestie (vv. 3 e 17). L’im-
ponenza del mostro risponde alla dimensione mondiale dello stato romano
nell’età imperiale.
(2) La diversificazione della quarta bestia sottolineata con insistenza ha
riscontro nei caratteri peculiari della stirpe e della civiltà romana. Diversa fu
l’indole dei latini rispetto ai Greci e agli asiatici, diverse furono le strutture
di governo dei Romani, diverse le loro strategie militari, diversa la loro
struttura politica, diversa l’organizzazione amministrativa dell’Impero (si noti
che Alessandro aveva improntato a quelle dei Persiani le strutture di go-
verno e l’organizzazione amministrativa del suo impero mentre i Romani
mantennero le loro proprie strutture di governo e amministrative).
(3) All’entrata in scena della quarta bestia dopo l’uscita del leopardo,
risponde bene, storicamente, l’affermarsi di Roma nel Vicino Oriente dopo
che essa ebbe “fagocitato” ad uno ad uno i regni ellenistici eredi dell’Im-
pero di Alessandro.
(4) L’aspetto aggressivo della quarta belva, la sua forza, la sua voracità
e ferocia, la sua tracotanza evocano adeguatamente l’indole guerriera dei
Romani, la loro indomabile volontà di dominio, la potenza delle loro le-
gioni, la durezza verso i nemici sconfitti (“guai ai vinti !”): mai nel mondo si
erano visti tanti schiavi come nell’età imperiale romana.

Le 10 corna sulla testa della mostruosa creatura sono l’equivalente delle 10 dita
in cui si suddividono i piedi della statua nel cap. 2. Le corna sono interpretate
come “dieci re che sorgeranno da questo regno” (v. 24).
I moderni identificano nelle 10 corna 10 sovrani seleucidi e nell’undicesimo
Antioco Epifane. Su questa interpretazione torneremo più avanti. Nei capitoli 7 e
8 di Daniele sia le bestie che le corna appaiono ora come simboli di “re” (vedi
7:17,24), ora come simboli di “regni” (vedi 7:23; 8:32).
In Dn 7:19 e 23, 2:39 e 8:21 il termine “re”, o un pronome personale che sta
per esso, sono adoperati al posto del termine “regno”.
“Dieci re” in 7:24, come mostra la struttura grammaticale della frase, va in-

248 - Cfr. A. WIKENHAUSER, L’Apocalisse di Giovanni, Brescia 1968, nota 6 alle pp. 150-151; vedi
pure Introduzione, III, 1, 2.
249- G. RINALDI, op.cit., nota VI, p. 113.

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CAPITOLO 7

teso in senso collettivo (“regni”) e non in senso individuale. Il testo dice: “Le
dieci corna sono dieci re che sorgeranno da questo regno” (v. 24). La preposi-
zione aramaica min, come la corrispondente preposizione italiana “da”, denota
derivazione. Da uno stato unitario che si fraziona derivano stati minori, non re-
gnanti.
Quando Daniele vuole riferirsi al sorgere di regnanti individuali in una na-
zione, usa una preposizione aramaica diversa da min, come in Dn 11:2: “Ecco,
sorgeranno ancora in Persia tre re” (“in”, aramaico le).
Con una schiera numerosa di espositori antichi e moderni250, l’esegesi av-
ventista sostiene che le 10 corna, alla stregua delle 10 dita nel cap. 2, rappresen-
tano i regni romano-barbarici che s’instaurarono nei territori dell’Impero latino
quando venne meno la sua unità nel V secolo (vedi commento a 2:41-43).

8 Io esaminavo quelle corna, ed ecco un altro piccolo corno spuntò


tra quelle, e tre delle prime corna furono divelte dinanzi ad esso; ed
ecco che quel corno avea degli occhi simili a occhi d’uomo, e una
bocca che proferiva grandi cose.

Un fatto nuovo cattura l’attenzione di Daniele mentre osserva le 10 corna: fra di


esse ne spunta un undicesimo. Il nuovo corno cresce rapidamente e si fa spazio
fra le altre abbattendone tre. Presto il veggente si accorge che questo corno è di-
verso dalle altre, ha qualcosa di umano: ha occhi e bocca. E dalla bocca gli
escono “parole grandi”.

9 Io continuai a guardare fino al momento in cui furon collocati de’


troni, e un vegliardo s’assise. La sua veste era bianca come la neve, e
i capelli del suo capo eran come lana pura; fiamme di fuoco erano il
suo trono e le ruote d’esso erano fuoco ardente. 10 Un fiume di fuoco
sgorgava e scendeva dalla sua presenza; mille migliaia lo servivano,
e diecimila miriadi gli stavan davanti. Il giudizio si tenne, e i libri fu-
rono aperti.

Lo scenario cambia repentinamente. Un quadro di dimensione cosmica sovrasta


e fa impallidire la figura del mostro dalle 10 corna col “piccolo corno” cresciuto
che proferisce cose inaudite. Daniele adesso vede “l’aula giudiziaria” del tribu-
nale di Dio nella quale vengono collocati innumerevoli “troni” (aramaico korse’).
Il vocabolo aramaico indica un seggio speciale che era riservato a personaggi di
riguardo e per circostanze eccezionali (H.C. Leupold).

250 - Vedi Introduzione, III

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CAPIRE DANIELE

Sullo scanno centrale prende posto il Giudice dell’universo che Daniele de-
scrive come un “vegliardo” (aramaico }yimOy qyiT(a ’attîq yomîn, letteralmente “un
antico di giorni”). Il candore dei capelli (“come lana pura”) è indice di età vene-
randa. Non è una descrizione letterale della Maestà del cielo, ma una sua figura-
zione antropomorfica. Nessun occhio umano ha mai visto Dio nella realtà (1Tm
6:16; Gn 6:46; Es 33:20). Il biancore niveo delle vesti è simbolo di purezza,
quindi di equità assoluta.
Il “trono” sul quale siede l’”antico di giorni” è composto di sostanza eterea:
“fiamme di fuoco” (Leupold). Le “ruote” (cfr. Ez 1:16,26) evocano l’idea di movi-
mento rapido e cotinuo, quindi di onnipresenza e onniveggenza (in Ez 1:18 le
“ruote” del trono di Dio sono “piene di occhi”). Lo splendore insostenibile che
irradia dalla maestosa Figura centrale è descritto dal profeta come un accecante
torrente di fuoco. Daniele non identifica la moltitudine di esseri che stanno da-
vanti all’ìantico di giorni”, ma è chiaro che questi esseri sono angeli. Delle due
cifre “mille migliaia” (}yipl : )
a vel)e ’elef ‘alfîn) e “diecimila miriadi” (}fw: br
i OBir ribbô
rivwan), la seconda sembra voler rettificare la prima stimata al di sotto della
realtà, oppure si tratta semplicemente di parallelismo poetico.
Gli angeli stanno in presenza dell’Onnipotente pronti ad eseguire i suoi or-
dini. “Il giudizio si tenne e i libri furono aperti” (così la versione Riveduta). L’ara-
maico UxyitP: }yirp: si wº bityº )æ nyiD dinâ’ yetîv wesifrîn petîchîn è resa dalla versione
TOB: “ La corte sedette e i libri furono aperti” (lo stesso G. Rinaldi). Questa tra-
duzione è migliore: ddinâ’ è un pronome dimostrativo (“questi”, “costoro”), e
yetîv è un verbo che significa “sedettero”. Il testo descrive precisamente una
grande assise giudiziaria nella quale gli angeli fungono insieme da testimoni e
da giurati251. Quello che descrive Daniele in questo punto è il giudizio che pre-
cede il secondo avvento di Cristo, ovvero la prima fase del giudizio finale, la
quale per gli eletti di Dio costituirà un’azione liberatoria.
La seconda fase sarà rappresentata dal giudizio esecutivo il quale avrà per
oggetto la punizione dei reprobi252.
Quando siede la corte i libri si aprono (una scena analoga è descritta in
Apocalisse 20:12 dove pure si dice: “ed i libri furono aperti”).
Le Scritture alludono a tre libri celesti nei quali sono accuratamente regi-
strati i nomi e le azioni degli uomini:

1) Il libro della vita, dove sono scritti i nomi degli eletti di Dio (Es 32:32;
Sl 69:28). Nel libro della vita resteranno scritti i nomi degli eletti che avranno
perseverato fino alla fine (Ap 3:5). I nomi degli eletti che avranno apostatato sa-
ranno cancellati e la sorte di costoro sarà “lo stagno di fuoco” (Ap 20:15).

251 - Cfr. S.D.A.B.C., IV, p. 828.


252 - Cfr. S.D.A.B.C., ibidem.

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CAPITOLO 7

2) Il libro delle memorie, nel quale sono registrate con cura le azioni giu-
ste dei santi (Ml 3:16), ovvero le opere della fede (Ga 5:6).

3) Il libro della morte, sul quale sono riportate le opere malvage degli uo-
mini che si chiusero all’appello di Dio. Questo “libro” è presupposto in Ap 20:12
dove il giudizio e la sorte finale degli uomini sono fatti dipendere “dalle cose
scritte nei libri” in base alle loro azioni.
Poiché il destino finale degli uomini sarà la vita eterna o la morte eterna
(cfr. Dn 12:2; Mt 25:46; Gn 5:28,29; Rm 2:6-8), i “libri” debbono contenere le me-
morie delle opere giuste dei santi (il libro delle memorie) e il ricordo delle azioni
perverse dei ribelli (il libro della morte) I libri celesti non debbono essere imma-
ginati come oggetti materiali253..

11 Allora io guardai a motivo delle parole orgogliose che il corno


proferiva; guardai, finché la bestia non fu uccisa, e il suo corpo di-
strutto, gettato nel fuoco per esser arso. 12 Quanto alle altre bestie, il
dominio fu loro tolto; ma fu loro concesso un prolungamento di vita
per un tempo determinato.

A metà dell’interludio celeste si apre una parentesi. Lo sguardo del veggente ri-
torna sullo scenario terreno, dove si svolge l’atto finale del dramma cominciato
con l’uscita delle bestie dal mare agitato. Echeggiano ancora, nelle orecchie di
Daniele, le parole arroganti proferite dal “piccolo corno” e sono esse che lo
spingono a rivolgere di nuovo lo sguardo verso quella figura nefanda.
“Guardai finché...” (aramaico da( ty¢wh A hawêth ‘ad): questa frase presuppone
una continuazione dell’azione riferita precedentemente, ossia del parlare traco-
tante del corno. Probabilmente, Daniele ha visto anche l’attività devastante del
corno descritta nel v. 25 e può avere omesso di menzionarla volendo subito mo-
strare l’intervento risolutivo della giustizia divina.
Il corno agisce e la bestia viene punita. Evidentemente c’è una solidarietà
organica fra i due per cui la distruzione dell’una comporta quella dell’altro. La
bestia incarna più specificamente il potere secolare ostile a Dio ed al suo po-
polo, il corno rappresenta un’entità politico-ecclesiastica.
L’incenerimento della bestia con le sue corna, compreso l’undicesimo, ri-
chiama l’attenzione sull’annientamento radicale e definitivo del sistema di potere
che questi simboli rappresentano (Ap 19:20). E’ lo stesso sistema che Paolo in
2Te 2:3-4 designa con le espressioni “l’uomo del peccato”, “il figlio della perdi-
zione”, “ l’avversario”; è l’Anticristo che il Signore Gesù annienterà alla sua ve-

253 - Sui libri celesti vedi S.D.A.B.C., ibidem, p. 329; E.G.WHITE, The Great Controversy, pp.
480-481.

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CAPIRE DANIELE

nuta (2Te 2:8). Anche Giovanni predice la distruzione di questo sistema me-
diante il fuoco (Ap 19:20), e d’accordo con Paolo la associa alla seconda venuta
di Cristo (vv. 11-16). La quarta bestia dunque è annientata nel giudizio finale. E
delle altre che ne sarà? Con una rapida proiezione retrospettiva Daniele le rin-
traccia e nota che ad esse è stato dato di sopravvivere per un certo tempo dopo
che hanno perso il dominio.
Difatti se gli imperi di Babilonia, di Medo-Persia e di Macedonia scompar-
vero l’uno dopo l’altro, non scomparvero i popoli che ad essi avevano dato vita:
i Babilonesi, i Persiani ed i Greci continuarono ad esistere ciascuno con la pro-
pria lingua, le proprie tradizioni, la propria cultura, dopo il tramonto dell’entità
politica dentro la quale erano vissuti. Per Roma fu diverso. Ad essa non succe-
dette un quinto impero universale. Roma, sia pure sotto una forma diversa, ha
continuato e continua a imperare.

13 Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del


cielo uno simile a un figliuol d’uomo; egli giunse fino al vegliardo, e
fu fatto accostare a lui. 14 E gli furon dati dominio, gloria e regno,
perché tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue lo servissero; il suo do-
minio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno, un regno
che non sarà distrutto.

“Io guardavo nelle visioni notturne...” Questa formula nelle visioni apocalittiche
introduce un cambiamento di scena. La “parentesi” terrena si è chiusa, si apre di
nuovo lo scenario celeste e appare un quadro diverso dal precedente: “...ecco
venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figliol d’uomo” (aramaico $æn) E rabK:
kevar ‘enash, letteralmente “come un figlio d’uomo”). Gli espositori della scuola
storica sono unanimi nell’identificare in questa figura celeste dall’aspetto umano
il Figlio di Dio.
L’espressione “un figlio d’uomo” è indeterminata. Il S.D.A.B.C. (vol. IV, p.
829) osserva che l’aramaico, alla stregua di altre lingue antiche, omette l’articolo
davanti al nome quando l’enfasi è posta sulla qualità, e lo adopera quando si
vuole sottolineare l’identità. Su questa enfatizzazione differenziata il Commenta-
rio avventista offre vari esempi: “ quattro bestie” in Dn 7:3, “tutte le bestie” nel v.
7; “un antico di giorni” (7:9), “ l’antico di giorni” nei verss. 13 e 22. Se la figura
che viene sulle nuvole fosse stata nominata una seconda volta, probabilmente
sarebbe comparsa preceduta dall’articolo.
“... ecco venire sulle nuvole del cielo...”. Nell’Antico Testamento le nuvole
sono spesso collegate alla presenza divina (Es 13:21; 14:24; 16:10; Le 16:2; Sl
97:2; 104:3).
Nel Nuovo Testamento la nuvola è associata al Cristo glorificato in terra (Mt
17:5; At 1:8) e più sovente al Cristo che viene dal cielo (Mt 21:27; 26:64; Mr

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CAPITOLO 7

13:26; 1Te 4:17; Ap 1:7; 14:4). In Dn 7:13 il simile a un figlio d’uomo non di-
scende sulla terra, si ferma presso l’Antico di giorni.
Non si descrive qui, dunque, il secondo avvento di Cristo, ma la sua investi-
tura regale al termine del ministero sacerdotale nel santuario del cielo (Eb 9:
11,12).
Questo evento celeste si compirà tra la fine del giudizio pre-avvento de-
scritto in Dn 7:9-10 e il giudizio esecutivo quando Cristo tornerà “per rendere a
ciascuno secondo l’opera sua” (Mt 16:27; Rm 16:6).
Il dominio di cui sarà investito il Figlio di Dio tra le due fasi del giudizio
sarà un dominio universale (“tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue” lo servi-
ranno) e la sua signoria sarà eterna (il suo regno sarà “un regno che non sarà di-
strutto”; non ci sarà più un “dopo” come nel caso dei regni terreni).
Con questo colpo d’occhio sull’eternità si chiude la stupenda visione del
cap.7 di Daniele.

15 Quanto a me, Daniele, il mio spirito fu turbato dentro di me, e le


visioni della mia mente mi spaventarono. 16 M’accostai a uno degli
astanti, e gli domandai la verità intorno a tutto questo; ed egli mi
parlò, e mi dette l’interpretazione di quelle cose:

Un fugace cenno autobiografico s’interpone fra la descrizione della visione e la


sua interpretazione. Daniele declina il suo nome, quasi a volere attestare l’auten-
ticità di quanto ha esposto finora.
Il profeta confessa il profondo turbamento che ha suscitato in lui la visione
ed esterna il forte desiderio che ha provato di “conoscere la verità” sulle cose
che ha visto. Presso il profeta stanno alcuni personaggi non identificati.
L’aramaico )æYm A qf qa’amayya’ è tradotto “gli astanti” dalla Riveduta, “quelli
a )
che stanno là” da G.Rinaldi, “i vicini” dalla versione della C.E.I. È opinione gene-
rale fra gli espositori che si tratti di angeli.
Non è detto se essi siano stati presenti fin dal principio della visione o se
siano comparsi alla fine di essa. Daniele si avvicina ad uno degli angeli e gli do-
manda “la verità” sulle cose viste nella visione; la sua richiesta è accolta pronta-
mente: “ed egli mi parlò e mi dette l’interpretazione di quelle cose”.

17 “Queste quattro grandi bestie, sono quattro re che sorgeranno


dalla terra; 18 poi i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo pos-
sederanno per sempre, d’eternità in eternità”.

L’interpretazione fornita dall’angelo è estremamente laconica. Le 4 grandi bestie


sono identificate come 4 re (nel vv. 23 sono dette “regni”) che debbono ancora
venire sulla terra (sulla loro identità vedi il commento ai vv. 4-7).

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CAPIRE DANIELE

Nel v. 17 è anticipata con estrema stringatezza e per grandi linee la storia


dei prossimi mille anni a partire da quel momento, e nel v. 18 è accennato il
lontano futuro escatologico, rimanendo in mezzo un vuoto di millenni.

19 Allora desiderai sapere la verità intorno alla quarta bestia, ch’era


diversa da tutte le altre, straordinariamente terribile, che aveva i
denti di ferro e le unghie di rame, che divorava, sbranava, e calpe-
stava il resto con i piedi, 20 e intorno alle dieci corna che aveva in
capo, e intorno all’altro corno che spuntava, e davanti al quale tre
erano cadute: a quel corno che avea degli occhi, e una bocca profe-
renti cose grandi, e che appariva maggiore delle altre corna.

La spiegazione estremamente generica e laconica dell’angelo ha lasciato Daniele


insoddisfatto.
Egli vorrebbe saperne di più sulla quarta bestia, sulle sue dieci corna e so-
prattutto sull’undicesimo tanto diverso dalle altre. Evidentemente sono stati que-
sti i particolari della visione che lo hanno impressionato di più.

21 Io guardai, e quello stesso corno faceva guerra ai santi e aveva il


sopravvento, 22 finché non giunse il vegliardo e il giudicio fu dato ai
santi dell’Altissimo, e venne il tempo che i santi possederono il regno.

Daniele torna col pensiero sulla visione e ne evoca due dettagli che aveva
omesso nella descrizione di essa. Il primo riguarda l’oggetto contro il quale si ri-
volse l’ira dell’undicesimo corno, il secondo concerne l’esito finale del conflitto.
Il “corno” perverso non solo parlava con arroganza, ma combatteva “i santi”
e li vinceva. Questo particolare deve avere suscitato nel profeta perplessità e an-
goscia. Per la seconda volta compaiono nelle rivelazioni danieliche “i santi”, e
qui compaiono come vittime e non come protagonisti.
Il riferimento precedente è stato fatto dall’angelo-interprete nel vers. 18
dove se ne anticipa la vittoria finale.
Qaddîshîn (“santi”) nell’aramaico è privo dell’articolo, il che implica che
l’accento è posto sulla qualità di questi esseri umani, non sulla loro identità. Chi
sono i “santi”? Sono i “separati”, secondo il senso fondamentale del termine
nell’aramaico come nell’ebraico. Sono il popolo di Dio (“i santi dell’Altissimo”).
La loro aspirazione è di servire il loro Signore: è questo che li mette in conflitto
con le potestà secolari.
I “santi” non saranno lasciati indefinitamente alla mercè del corno: essi sa-
ranno vendicati quando siederà in giudizio il Giudice delle nazioni: “e fu resa
giustizia ai santi” (versione T.O.B.). Allora saranno resi pertecipi della signoria
eterna (“e venne il tempo che i santi possedettero il regno”).

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CAPITOLO 7

23 Ed egli mi parlò così: “La quarta bestia è un quarto regno sulla


terra, che differirà da tutti i regni, divorerà tutta la terra, la calpe-
sterà e la frantumerà.

Il desiderio di Daniele di conoscere “la verità” sui dettagli finali della visione è
appagato. La quarta bestia raffigura un regno che sarà diverso da tutti i regni che
lo avranno preceduto, e tutti li supererà per la vastità dei territori conquistati
(“divorerà tutta la terra”), per l’attitudine sprezzante (“la calpesterà”), per la po-
tenza e la durezza (“la frantumerà”). Sulla identità storica di questo regno vedi il
commento del v. 7.

24 Le dieci corna sono dieci re che sorgeranno da questo regno; e,


dopo quelli, ne sorgerà un altro, che sarà diverso dai precedenti, e
abbatterà tre re. 25 Egli proferirà parole contro l’Altissimo, ridurrà
allo stremo i santi dell’Altissimo, e penserà di mutare i tempi e la
legge; i santi saran dati nelle sue mani per un tempo, dei tempi, e la
metà d’un tempo.

Le dieci corna sono interpretate come altrettanti “re” che sorgeranno dal quarto
regno (è presupposta la dissoluzione di quest’ultimo). Come si è già detto (vedi
commento al v. 7) “re” in questo punto deve comprendersi nel senso collettivo
di “regni” (anche le bestie interpretate come “re” nel vers. 17 sono identificate
come “regni” nel v. 24, ‘da questo regno’, e nel precedente ‘la quarta bestia è un
quarto regno’. Sull’identità dei 10 regni vedi il commento al v.7.
Il corno sorto per ultimo è identificato anch’esso come un “re” (“dopo
quelli ne sorgerà un altro”). Per questo corno vale quanto detto sopra riguardo
alle altre. Il carattere di questo re-regno e gli obiettivi che esso perseguirà sono
definiti attraverso una serie di caratteristiche e attribuzioni che gli vengono rife-
rite e che si possono così elencare:

1. Sarà diverso dagli altri regni.

2. Di quei re-regni ne abbatterà tre.

3. Parlerà contro l’Altissimo.

4. Penserà di sterminare i santi dell’Altissimo.

5. Avrà in animo di mutare i tempi e la legge (stabiliti da Dio).

6. Avrà in suo potere i santi dell’Altissimo per tre tempi e mezzo.

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CAPIRE DANIELE

Gli interpreti moderni vedono nel “piccolo corno” un simbolo del re di Siria An-
tioco IV Epifane (175-164 a.C.) oppressore dei Giudei.
Per quanto ci sia qualche analogia fra l’attività vessatoria di Antioco IV con-
tro il popolo giudaico (cfr. 1Maccabei 1:41-61), macroscopiche discrepanze fra il
simbolo profetico e la figura storica a cui si è voluto accostarlo rendono molto
problematica questa identificazione.

(1) Il “piccolo corno” sorge dopo le dieci (v. 24 u.p.). Esso si configure-
rebbe dunque come un undicesimo “re”. Antioco IV fu l’ottavo dinasta se-
leucide, non l’undicesimo, avendo avuto sette e non dieci predecessori.
Dieci corna non possono rappresentare sette regnanti.
(2) Il “piccolo corno” nella sua crescita fa cadere tre delle corna preesi-
stenti. Antioco IV passò sopra i diritti dinastici di due nipoti, Demetrio e An-
tioco, figli del defunto Seleuco IV fratello dell’Epifane254. L’esistenza di un
terzo figlio di Seleuco IV, ipotizzata per far coincidere la storia col testo da-
nielico, non è stata mai dimostrata255.
(3) Antioco Epifane non tentò di cambiare le sacre istituzioni dei Giu-
dei (i “tempi” e la “legge”) come si dice in Dn 7:25 a proposito del “piccolo
corno”, semplicemente ne decretò la soppressione (cfr. 1Maccabei 1:44,45).
(4) Daniele fa durare tre tempi e mezzo, ovvero, come si spiegherà più
avanti, tre anni e mezzo, la persecuzione del “piccolo corno” contro i “santi
dell’Altissimo”. La persecuzione antigiudaica di Antioco Epifane si colloca
fra il 15 Dicembre 167 a.C. (la data della erezione di una statua di Giove ca-
pitolino nel tempio di Yahweh in Gerusalemme) e il 25 Dicembre 164 a.C.,
quando fu celebrata la dedicazione del tempio purificato256. La durata della
persecuzione fu dunque di tre anni e dieci giorni. Il divario di quasi sei
mesi rispetto al tempo indicato da Daniele è davvero inspiegabile se la
composizione del libro risale, come si dice, esattamente a quell’epoca.
(5) L’attività del “piccolo corno” copre uno spazio temporale che su-
pera di gran lunga il breve arco di tempo di una vita umana, estendendosi
fino al tempo del giudizio e dell’instaurazione del regno eterno di Dio (Dn
7:26,27). La persecuzione dei “santi” rappresentò soltanto una parte di tale
attività. Ne consegue una impossibilità logica di identificare questo simbolo
con una figura storica individuale.

254 - Cfr. G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, Torino 1947, vol.II, pp. 266-267.
255 - Cfr. G. RINALDI, op.cit., p. 112.
256 - Cfr. G.RICCIOTTI, op.cit., pp. 270 e 292.

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CAPITOLO 7

I primi espositori cristiani di Daniele, avendo identificato l’Impero romano nella


quarta bestia e una serie di re o regni minori nelle dieci corna, riconobbero
quasi all’unanimità l’Anticristo futuro nell’undicesimo corno.
Girolamo in particolare difese con energia questo punto di vista contro
l’opinione di Porfirio. Egli scrisse nel suo commentario su Daniele: “ E’ inutile
che Porfirio insinui che il corno piccolo spuntato dopo le dieci corna, sia An-
tioco Epifane...”257. Poche righe più avanti aggiunge: “ Diciamo dunque ciò che
ci hanno tramandato tutti gli scrittori ecclesiastici: verso la fine del mondo,
quando l’Impero romano sarà in completa dissoluzione, verranno dieci re che si
divideranno l’Impero romano, e sorgerà poi un altro piccolo re, l’undicesimo,
che dei dieci re ne abbatterà tre”. Due paragrafi dopo Girolamo identifica l’undi-
cesimo corno con “l’uomo del peccato” preconizzato in 2Te 2:2,3: “è l’uomo del
peccato, il figlio della perdizione, tanto che ha il coraggio di piazzarsi nel tempio
di Dio proclamandosi lui stesso Dio”258.
Sull’interpretazione della parte finale della visione Girolamo si fa dunque
portavoce di una tradizione esegetica ben consolidata nella Chiesa antica: “...di-
ciamo... ciò che ci hanno tramandato tutti gli scrittori ecclesiastici...”. In effetti
prima di lui avevano commentato allo stesso modo Dn 7:7,8: Giustino, Ireneo,
Ippolito (eccezion fatta per il “piccolo corno”), Cipriano, Lattanzio e Cirillo.
Eccettuati i primi tre, questi antichi espositori cristiani di Daniele si aspetta-
vano nel futuro immediato la dissoluzione dell’Impero romano (già in declino al
loro tempo) e l’insorgere dell’Anticristo seguito a breve intervallo di tempo dal
ritorno del Signore, il giudizio dell’Anticristo e la fondazione del regno eterno di
Dio. Non c’era quindi nessuna difficoltà per loro a immaginare il “piccolo corno”
come una figura umana individuale. Nel nostro tempo, con sedici secoli di storia
alle spalle, quel punto di vista è superato. Nel potere antidivino che nasce dopo
lo sfacelo del quarto regno è giocoforza intravedere una successione di “re”, una
sorta di dinastia ininterrotta, un sistema di potere che doveva svilupparsi nella
storia fra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e il tempo ancora futuro del
ritorno di Cristo. Nel rispetto delle opinioni contrarie e senza volere offendere i
sentimenti religiosi dei cattolici, dobbiamo ricordare che fin dal XIII secolo è
stato scorto nel “piccolo corno” di Dn 7 un simbolo del papato storico. Fu Ebe-
rardo II, arcivescovo di Salisburgo (1200-1246), il primo a proporre questa identi-
ficazione nel 1240259. In Inghilterra fece sua questa interpretazione John Wycliff,
il noto professore di Oxford e precursore della Riforma, morto nel 1384. Nel XVI
secolo fu rilanciata dai padri della Riforma e in seguito fu mantenuta dai loro
continuatori (da Cramner a Knox) e applicata praticamente da tutti gli espositori

257 - Girolamo su Daniele, Roma 1966, p. 105,


258 - Ibidem
259 - Cfr. LE ROY EDWIN FROOM, op.cit., pp. 797, 798; S.D.A.B.C., vol. IV, pp. 50,51.

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CAPIRE DANIELE

protestanti conservatori nel Vecchio e nel Nuovo continente260. Un espositore


evangelico contemporaneo osserva: “...le confessioni luterane hanno visto giusto
nell’identificare il papa con l’anticristo, anche se il loro punto di vista è stato ridi-
colizzato o minimizzato. Siffatta svalutazione dipende dal non avere tenuto
conto di quanto i riformatori avessero compreso a fondo il papato. L’odierna
comprensione superficiale di questa realtà non poteva che condurre ad una in-
terpretazione superficiale”261. La chiesa romana reagì a questa presa di posizione
dei protestanti sull’identità dell’Anticristo e, rifiutata l’ermeneutica profetica sto-
rica, stravolse l’esegesi antica e introdusse due sistemi interpretativi rivoluzionari
e contraddittori tra loro: l’ermeneutica futurista e l’ermeneutica preterista (vedi
Introduzione, III, 4).
Gli espositori avventisti di Daniele fin dal principio si sono attestati sulle
posizioni dei primi esegeti cristiani privilegiando l’ermeneutica storica applicata
dai Padri della Chiesa fino al V secolo, ripristinata da Gioacchino da Fiore nell’XI
secolo, ripresa dai Riformatori nel XVI secolo e mantenuta dai continuatori della
Riforma fino alle soglie dei tempi moderni. L’identificazione del persecutore di
Dn 7:8,21-25 deve necessariamente tenere conto di tutte le informazioni che for-
nisce il testo danielico: delle implicazioni spazio-temporali come dei caratteri
distintivi e degli aspetti differenziati della sua attività.
Consideriamo ad una ad una le suddette informazioni e confrontiamole con
lo sviluppo storico del papato.
1. Il potere raffigurato dal “piccolo corno” sarebbe sorto quando già avreb-
bero regnato i “re” simboleggiati dalle dieci corna: “e dopo di quelli ne sorgerà
un altro...” (v. 24). Questa indicazione di ordine temporale orienta al periodo
post-romanico, quando nei territori dell’Impero d’Occidente già dominavano i
regni barbarici. Il potere temporale dei pontefici romani si affermò nel secolo
VIII, quando i re franchi donarono al vescovo di Roma i territori italici tolti ai
Longobardi.262 Nacque così lo Stato della Chiesa sul quale i pontefici romani re-

260 - Cfr. S.D.A.B.C., ibidem.


261 - H.C. LEUPOLD, op.cit., p. 323.
262 - Nel 752 Astolfo re dei Longobardi occupò Ravenna ponendo fine al dominio bizantino
nell’Italia del Nord. Poi marciò alla volta di Roma. Papa Stefano II, dopo avere inutilmente solle-
citato l’intervento di Costantinopoli, si rivolse ai Franchi. Nel 754 Pipino il Breve scese in Italia
alla testa di un esercito franco e sconfisse Astolfo, costringendolo a cedergli Ravenna e le altre
terre occupate. Di quelle terre Pipino fece dono al papa “che ormai senza più esitare cercava di
sostituirsi in Italia all’Impero” (P. VILLARI, Le invasioni barbariche in Italia, Milano 1905, p. 379).
Pipino dovette tornare in Italia due anni dopo, ancora su richiesta di papa Stefano, perché
Astolfo minacciò di nuovo Roma. Sconfitto per la seconda volta il Longobardo dovette conse-
gnare al vincitore un numero maggiore di città di cui il re dei Franchi consegnò le chiavi a Ste-
fano II insieme con l’atto di donazione “a San Pietro, alla santa Repubblica romana ed a tutti i
successivi pontefici” (P. VILLARI, ibidem, p. 374). Nacque così lo Stato della Chiesa sul quale i
pontefici regnarono da veri sovrani.

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CAPITOLO 7

gnarono da veri sovrani fino al 1870. Ma la supremazia universale della sede ro-
mana sulla cristianità in realtà era stata riconosciuta ufficialmente con un editto
imperiale due secoli prima.263
2. Secondo Dn 7:8 l’undicesimo corno cresce (aramaico silqath) fra le dieci
corna. Girolamo traduce meglio l’aramaico beneheon: “de medio eorum”; così
pure varie versioni moderne: “in mezzo a quelle” (TOB), “in mezzo ad esse”
(Bernini), “in mezzo a queste” (G.Rinaldi). La locuzione avverbiale orienta in
senso spaziale. Il potere di cui è simbolo il “piccolo corno” doveva sorgere e
crescere in un punto geografico centrale rispetto ai regni germanici sparsi nei
territori dell’ex impero latino, ovvero nel cuore stesso di quei territori, a Roma. E
in Roma si sviluppò e si affermò il papato storico.264
3. Il “piccolo corno” crescendo si fa spazio con l’abbattere tre delle corna
precednti (vv. 8a e 20a). Ciò sta a significare che il potere che esso raffigura nel
corso del suo sviluppo storico avrebbe fatto cadere tre dei regni preesistenti (v.
24 u.p.). È noto dalla storia che le popolazioni germaniche che si insediarono
nei territori dell’Impero latino, a parte i Franchi, abbracciarono via via la fede
ariana invisa ai cattolici. La presenza di forti regni ariani in Italia e nell’Africa del
nord, dove il cattolicesimo era fiorente, era una circostanza assai sgradita per il
vescovo di Roma. L’intervento diretto o indiretto di Bisanzio, che allora si ergeva
a paladina della fede cattolica, determinò la caduta, uno dopo l’altro, di tre regni
germanici ariani che riducevano la libertà d’azione di Roma papale: degli Eruli in

263 L’imperatore Giustiniano verso la Chiesa si comportò da degno successore di Costantino.


Sulle questioni religiose egli ebbe completa identità di vedute col pontefice romano. Nel 533
annunciò con una lettera a papa Giovanni II (532 - 535) di avere posto sotto l’autorità del pon-
tefice il clero e la chiesa d’Oriente fino ad allora separati da Roma. Ecco i passi più significativi
della lettera di Giustiniano a Giovanni II: “ Giustiniano, vittorioso, pio, beato, illustre trionfante,
sempre augusto; a Giovanni, patriarca e santissimo arcivescovo della città di Roma:... Poiché
abbiamo sempre cercato di mantenere l’unità della Vostra Sede Apostolica e di mantenere le
sante chiese di Dio nello stato in cui sono oggi, ovvero nella pace, e liberarle da ogni contra-
rietà, abbiamo invitato tutto il clero dell’Oriente ad unirsi e a sottomettersi alla Vostra Santità...
Voi che siete il Capo della Chiesa ... Noi domandiamo dunque... che Vostra Santità approvi tutti
coloro che credono a quanto abbiamo sopra esposto e condanni la perfidia di quanti giudaica-
mente hanno osato negare la fede legittima... Che la Divinità, o santo e religiosissimo Padre,
Vi conceda lunga vita” (da JEAN VEULLEUMIER, L’Apocalypse..., Dammarie-les-lys 1948, p. 231).
Nella stessa lettera Giustiniano conferma legalmente il vescovo di Roma “capo di tutte le
sante chiese” e “capo di tutti i santi ministri”. In una seconda lettera si compiace col papa per
la sua solerzia nel “correggere” (leggi “perseguitare”) gli eretici (vedi S.D.A.B.C., vol. IV, p.
827). Le lettere di Giustiniano furono incorporate nel Codex del Corpus Juris Civilis, libro I, ti-
tolo I, con piena forza di editto imperiale. Per la prima volta nella storia l’autorità imperiale rico-
nosceva ufficialmente il vescovo di Roma capo supremo della Chiesa universale e “correttore
degli eretici”.
264 - Vedi Appendice 7A a fine capitolo.

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CAPIRE DANIELE

Italia nel 493, dei Vandali nell’Africa del nord nel 534, degli Ostrogoti ancora in
Italia fra il 535 e il 553.265 In questi tre avvenimenti storici gli espositori avventisti
hanno ravvisato all’unanimità il compimento di ciò che raffigurava la caduta
delle tre corna al crescere del “piccolo corno”.
4. L’undicesimo corno, insignificante al suo nascere (aramaico hfry"(zº zê’irah,
“minuscolo”, v. 8 u.p.), cresce fino a superare le altre corna (“appariva maggiore
delle altre corna”, v. 20 u.p.). Dal tempo di Leone I (V secolo) l’influenza ed il
prestigio del papato crebbero grandemente fino a giungere alla massima po-
tenza nei secoli XI e XIII con i pontificati di Gregorio VII (1073-1085) e Inno-
cenzo III (1198-1216). Le Crociate, l’Inquisizione, le lotte sostenute contro l’Im-
pero furono tra le espressioni più significative del potere enorme dei papi nel
Medioevo. In questo periodo storico l’autorità dei pontefici romani spesso sovra-
stò quella dei potentati secolari.
5. Il “piccolo corno” si presenta agli occhi del veggente con insoliti carat-
teri umani (“aveva degli occhi simili a occhi d’uomo e una bocca che proferiva
grandi cose”, v. 8 u.p.). Questi particolari evidenziano una diversificazione ed
una singolarità dell’undicesimo corno rispetto alle altre che il testo sottolinea
espressamente: “ne sorgerà un altro, che sarà diverso dai precedenti” (v. 24 u.p.).
Il potere dei papi si differenziò dal potere dei sovrani secolari per essere stato
nel medesimo tempo spirituale e secolare, ecclesiastico e politico; i pontefici ro-
mani furono sovrani teocratici. Gli “occhi simili a occhi d’uomo” nel “piccolo
corno” evocano chiaroveggenza e lungimiranza non comuni.
La storia dei papi mostra come gli uomini che hanno occupato nei secoli il
trono pontificio siano stati fra i più sagaci e perspicaci che la Chiesa cattolica ab-
bia saputo esprimere: uomini che hanno visto chiaro nelle cose e lontano nel
tempo, che hanno espresso una rara capacità di prevedere e provvedere con
tempestività. La “bocca che proferisce cose grandi” (aramaico }fbr : b
: r
a liLm
a m
: {upU
ufum memallil revrevân, vv. 8 e 20b) fa pensare a pronunciamenti che avreb-
bero avuto un impatto enorme nella storia ecclesiastica e politica. Tali furono in
effetti le bolle, in specie quelle di scomunica, e le encicliche dei papi nei secoli.
Il v. 25 spiega ulteriormente: “proferirà parole contro l’Altissimo” (aramaico liLm a yº
)
f yfL(i dacl: }yiLmi U umillîn letzad ‘illay’a yemallil ). Il S.D.A.B.C. osserva: “Letzad si
può tradurre ‘in alto contro’, con l’implicazione che il piccolo corno nell’opporsi
all’Altissimo si esalti al punto di eguagliarsi a Dio (vedi su II Te 2:4; cfr. Is 14:12-
14)”266.
Il passo parallelo di Ap 13:5 recita: “E le fu data una bocca che proferiva
parole arroganti e bestemmie”. Certe rivendicazioni inaudite dei pontefici romani

265 - Vedi Appendice 7B a fine capitolo.


266 - Vol. IV, p. 831.

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CAPITOLO 7

nei secoli passati267 rispondono in modo sorprendente a queste anticipazioni


della Parola profetica. Nella nostra cultura la bestemmia è l’insulto verbale all’in-
dirizzo della Divinità, ma nell’ambiente giudaico essa si configurava come l’attri-
buzione indebita di prerogative divine a creature umane o la rivendicazione di
siffatte prerogative da parte di una creatura umana. Il vangelo di Giovanni ri-
corda un episodio in cui Gesù, essendosi eguagliato a Dio, i giudei lo accusa-
rono di bestemmia e tentarono di lapidarlo (Gv 10:30-33).
6. Il potere che s’incarna nel simbolo del “piccolo corno”, dice l’angelo al
profeta, “ridurrà allo stremo i santi dell’Altissimo” (aramaico )"Lb a yº }yénOy:l(e y"$yiDqa l: U
uleqaddîshê ‘elyonîn yevalle’). Il verbo bl’, di cui yevalle’ è la terza persona sin-
golare dell’imperfetto, significa “distruggere”, “sterminare” (la Bibbia TOB tra-
duce letteralmente: “distruggerà i santi dell’Altissimo”). Nel v. 21 la stessa azione
violenta del “piccolo corno” è descritta così: “faceva guerra ai santi e aveva il so-
pravvento”. Come non scorgere in queste parole un riferimento profetico alle
guerre di religione che funestarono la Francia nel XVI secolo, come non vedervi
un’anticipazione delle persecuzioni continue e implacabili contro gli “eretici” ad
opera dei principi e dei sovrani cattolici su istigazione della curia romana? Le
crociate sanguinose contro gli Albigesi e i Valdesi nel Medioevo e contro gli
Hussiti e gli Ugonotti in tempi più recenti, figurano tra le pagine più nere della
storia dell’Europa cattolica.
La Chiesa romana non nega di aver perseguitato gli “eretici” e rivendica la
legittimità di siffatta violenta azione repressiva nell’ambito dell’esercizio di un’au-
torità che essa pretende di avere ricevuto da Gesù Cristo.
7. L’angelo-rivelatore spiega a Daniele che il sinistro persecutore dei santi
penserà anche “di mutare i tempi e la legge” (aramaico tfdwº }yénm : zé hfy næ $
: h
a l
: raBs: yé wº
weyisbar lehashnayah zimnîn wedath).
Il vocabolo sevar (da cui viene l’imperfetto isbar reso dalla Riveduta “pen-
serà”), secondo B.DAVIDSON come verbo significa “sperare” e come sostantivo
“scopo”, “mira”, “intenzione” (The Analythical Hebrew and Chaldee Lexicon). Il
verbo shna’ (da cui deriva l’imperfetto hashnâyah) significa “cambiare”, “alte-
rare”, “rendere diverso” (ibidem). In riferimento all’oggetto dell’intenzione del
“piccolo corno”, Daniele usa il vocabolo zimnîn (forma plurale di zimn’) che ha
il senso di “tempi fissati, tempi stabiliti”. Con questa valenza il termine ricorre in
Dn 2:16; 3:8; 4:36; 6:10,13; 7:12.
Per esprimere il concetto più generico di “tempo” (anche di “anno”) Da-
niele usa un altro vocabolo, ‘iddan (plur. ‘iddanîn): cfr. 2:21; 4:16,23,25,32.
W.Gesenius spiega in Hebrew - Chaldee Lexicon to the Old Testament, alla voce
zimna’, che questo termine “è usato in riferimento ai tempi sacri (giorni festivi)”

267 - Vedi Appendice 7C a fine capitolo.

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CAPIRE DANIELE

e cita come esempio Dn 7:25. L’aramaico dath significa “legge” in generale, ma


in un contesto religioso acquista il senso specifico di “legge divina”, anche di
“religione”, “sistema religioso” (cfr. W.GESENIUS, ibidem, il quale rimanda a Dn
7:25 ove dath ricorre con questa accezione).
Dunque Daniele ha voluto dirci che il potere che si cela nel “piccolo corno”
avrebbe avuto in animo (si sarebbe prefisso) non già di abolire, ma di alterare i
tempi sacri fissati da Dio (i Sabati) e la legge divina, ovverosia il Decalogo base
morale dell’Antica e della Nuova Alleanza (vedi Es 24:3,8; Gr 31:31-33; Eb 10:14-
17; Rm 2:13; 13:8-10).
La Chiesa romana non ha abolito il riposo religioso settimanale prescritto dal
IV comandamento del Decalogo, ne ha alterato il valore e il significato con
l’averlo trasferito arbitrariamente dal settimo al primo giorno della settimana268. Il
cambiamento del giorno di riposo da un lato e l’introduzione del culto delle im-
magini dall’altro hanno condotto all’alterazione della legge divina con la soppres-
sione del secondo comandamento, il cambiamento del quarto e la divisione in due
del decimo per colmare il vuoto lasciato dall’eliminazione del secondo. Quella
legge Gesù Cristo l’aveva dichiarata solennemente inalterabile (Mt 5:17-18).
8. La durata del sopravvento del “piccolo corno” sui santi dell’Altissimo è
fissata con precisione: “i santi saranno dati nelle sue mani per un tempo, dei
tempi e la metà d’un tempo” (aramaico }fD(i galp: U }yénD
f (i wº }fD(i -da( ‘ad ‘iddan we‘id-
danîn ûfelag ‘iddân, letteralmente “fino a un tempo, tempi e la metà di un
tempo”). Per largo consenso dei commentatori in questo contesto ‘iddân - ‘id-
danîn si deve intendere “anno - anni”269.
I massoreti lessero il gruppo consonantico ‘ddnn come una forma plurale e
così lo vocalizzarono, ma è opinione diffusa tra gli studiosi di Daniele che esso
dovrebbe leggersi come un duale (‘iddanaîn). Sta di fatto che lo stesso periodo
profetico ricorrente nell’identica forma in Ap 12:14 (“un tempo, dei tempi e la
metà di un tempo”, greco ’ekei kairòn kaì kairoùs kaì ‘emisu kairou), nel v. 6
dello stesso capitolo compare in una forma diversa che autorizza a leggere kai-
roùs “due tempi”, cioè nella forma “milleduecentosessanta giorni” (greco ‘eméras
chilias diakosìas ‘exekonta). Milleduecentosessanta giorni equivalgono esatta-
mente a tre anni e mezzo calcolando gli anni come formati da 360 giorni (non
sono giorni ed anni di calendario, ma giorni ed anni profetici). In definitiva, la
durata del sopravvento del “piccolo corno” sui santi dell’Altissimo è fissata in Dn
7:25 in tre anni e mezzo profetici.
Espositori ebrei di Daniele equipararono ad anni solari i giorni degli anni
profetici prima ancora dei commentatori cristiani. Agli inizi del IX secolo il dotto
giudeo Nahawendi interpretò come anni solari i 1290 e i 2300 giorni profetici di

268 - Vedi S.BACCHIOCCHI, Un esame dei testi biblici e patristici..., tesi di laurea, 1974.
269 - Cfr. S.D.A.B.C., vol. IV, p. 833.

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CAPITOLO 7

Dn 12:11 e 8:14. Altri studiosi ebrei nei secoli X, XI, XII e XIII applicarono lo
stesso principio d’interpretazione ai “giorni” delle profezie danieliche270.
Fra i cristiani l’abate Gioacchino da Fiore, nel XII secolo, fu il primo esposi-
tore delle profezie apocalittiche ad eguagliare ad anni solari i giorni profetici271.
Da allora fino ai nostri giorni sono stati numerosi, in particolare fra gli acattolici,
gli espositori di Daniele e dell’Apocalisse di Giovanni che hanno seguito questo
criterio esegetico272. Gli avventisti, da William Miller in poi, lo hanno applicato
senza eccezioni.
Dunque per 1260 anni i santi dell’Altissimo dovevano essere alla mercé di
un potere autoritario e persecutore, quel potere che abbiamo identificato nel pa-
pato storico.
Come delimitare nella storia questo ampio arco di tempo? Vari espositori
protestanti avevano proposto prima di Miller gli anni 538 e 1798 come terminus
a quo e terminus ad quem di questo periodo temporale. Vediamo come si giusti-
ficano sul piano della storia queste date.
Nel 533 l’imperatore Giustiniano introdusse nel Corpus iuris civilis un de-
creto col quale poneva tutte le chiese e tutti i vescovi d’Oriente, fino ad allora
indipendenti da Roma, sotto l’autorità del pontefice romano, e conferiva a lui
l’ufficio ed il potere di “correttore degli eretici”, in pratica lo investiva del diritto
e dell’autorità di perseguitare i cristiani dissidenti. Solo 5 anni dopo, però,
quando gli Ostrogoti abbandonarono l’assedio di Roma strenuamente difesa dai
Bizantini, il papa fu in grado di esercitare i poteri che gli conferiva l’editto impe-
riale. Dunque dal 538 il pontefice romano fu di fatto e non soltanto di diritto il
capo universale della Chiesa e il correttore degli “eretici”.
Milleduecentosessanta anni dopo, nel 1798, un evento che allora parve in-
credibile mise fine al potere temporale dei papi: le truppe francesi agli ordini del
generale Berthier, vittoriose nella campagna d’Italia, occuparono Roma, e il loro
comandante supremo per incarico del Direttorio depose Pio VI e lo mandò in
esilio a Valence, nella Francia del sud, proclamando solennemente la fondazione
della Repubblica Romana.
“Con la morte di Pio VI a Valence il papato sembrò annientato. Tant’è vero
che in Francia papa Braschi veniva chiamato Pio Sesto ed Ultimo”273.
Con la deposizione e l’esilio di Pio VI ad opera del Direttorio, finivano per
la Chiesa romana dodici secoli e mezzo di influenza sui potentati secolari per re-

270 - Cfr. LE ROY EDWIN FROOM, op. cit., p. 713.


271 - Ibidem, pp. 712-713.
272 - Cfr. LE ROY EDWIN FROOM, op.cit., voll. II, III e IV.
273 - J.GELMI, I Papi da Pietro a Giovanni Paolo II, Milano 1987, pp. 214-215.

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CAPIRE DANIELE

primere la dissidenza religiosa, e per i cristiani dissidenti terminava un lungo pe-


riodo di vessazioni e persecuzioni sanguinose.
La rispondenza dei fatti storici ai vaticini della profezia avalla nello stesso
tempo la profezia stessa e l’interpretazione storica che se ne è data fin qui.

26 Poi si terrà il giudizio e gli sarà tolto il dominio, che verrà di-
strutto ed annientato per sempre. 27 E il regno e il dominio e la gran-
dezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno dati al popolo dei
santi dell’Altissimo; il suo regno è un regno eterno, e tutti i domini lo
serviranno e gli ubbidiranno”.

Nell’aramaico le prime due parole del v. 26 sono identiche alle prime due parole
dell’ultima frase del v.10: dinâ’ yittiv. La traduzione di G.Rinaldi è più conforme
all’originale di quanto non lo sia la traduzione della Riveduta: “La corte poi s’as-
siderà”. Questo versetto dunque (il 26) non fa che interpretare i vv. 10 e 11, ma
avendo in più un riferimento al dominio che verrà tolto al corno.
Finalmente il “piccolo corno” (e non il dominio come sembra suggerire la
Riveduta) sarà “distrutto e annientato per sempre” (è un’allusione al giudizio ese-
cutivo che avrà luogo alla fine dei mille anni dei quali si parla in Ap 20:7,10. La
fine del sistema anti-divino rappresentato dal corno, decretato nel giudizio pre-
avvento (“la corte poi s’assiderà”), sarà radicale e definitiva.
Mentre nel v. 11 è la bestia che viene distrutta, secondo il v. 26 lo è il
corno. Segno evidente, come si è osservato nel commento del v.11, che la bestia
e il corno formano una unità organica: essi che hanno in comune la responsabi-
lità morale dell’opposizione contro Dio, divideranno infine la sorte finale.
Il v. 27 riprende e amplifica la rivelazione stringata che era stata fatta nel
v.18 circa l’attribuzione del regno ai santi dell’Altissimo: Lì si diceva laconica-
mente che “i santi dell’Altissimo riceveranno il regno...”, qui si annuncia che “il
regno e il dominio e la grandezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno
dati al popolo dei santi dell’Altissimo”.
Tre espressioni di senso affine: “il regno”, “il dominio” e “la grandezza dei
regni”, sottolineano la pienezza del potere che sarà conferito ai santi; una quarta:
“che sono sotto tutti i cieli”, ne evidenzia l’universalità spaziale. L’ultima frase: “è
un regno eterno”, enfatizza la durata senza fine del regno dei “santi”.
Secondo il v.14 è il “figlio dell’uomo” ad essere investito del dominio e del
regno eterni dopo la sessione della corte celeste; i vv. 18 e 27 invece li attribui-
scono ai santi dopo la distruzione del corno, mentre l’ultima parte del v. 27 li ag-
giudica all’Altissimo (“il suo regno”).
La triplice attribuzione non è contraddittoria. Il Nuovo Testamento cita 19
volte il Sl 101:1, direttamente o implicitamente, riferendolo al Messia (Mt. 22:44;
26:64;At 2:34; Rm 8:34; Ef 1:20; Cl. 3:1; Eb 1:13; 13:12; 1Pie 3:22, ecc...). Lo stare

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CAPITOLO 7

seduto e l’essere stato esaltato alla destra del Padre indicano lo status regale del
Figlio di Dio274. La reggenza di Dio Padre sul mondo e la co-reggenza del Figlio
furono per così dire una reggenza e una co-reggenza di diritto ma non di fatto
giacché di fatto quaggiù regnarono la bestia e il suo undicesimo corno quali
strumenti di potere del “principe di questo mondo” (Gv 14:30). Soltanto alla vigi-
lia del suo ritorno in gloria, dopo il giudizio pre-avvento, quando sarà stata pro-
nunciata la sentenza definitiva sul “principe di questo mondo” e sui suoi emis-
sari terreni, Gesù Cristo riceverà l’investitura del regno tolto al diavolo e ai suoi
accoliti umani. È anche scritto che Gesù Cristo renderà partecipi i suoi eletti glo-
rificati della sovranità universale che Egli a sua volta dividerà col Padre: “ed essi
tornarono in vita e regnarono con lui mille anni” (Ap 20:4; cfr. 2Tm 2:12).

28 Qui finirono le parole rivoltemi. Quanto a me, Daniele, i miei pen-


sieri mi spaventarono molto, e mutai di colore; ma serbai la cosa nel
cuore.

Daniele chiude con un rapido cenno autobiografico il racconto della visione e


della sua interpretazione, e ancora una volta declina il suo nome come a voler
confermare l’autenticità di quanto ha riferito.
C’informa sul forte impatto fisico ed emotivo che la visione ha avuto su lui:
“i miei pensieri mi spaventarono molto, e mutai di colore”. Tutto questo è indice
di un forte stress psicofisico. Daniele vuole mantenere vive nella memoria le
cose che gli sono state rivelate (“serbai la cosa nel cuore”).

274 - Cfr. Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento a cura di L.COENEN - E.BEYREUTHER -
H.BRETENHARD, Bologna 1980, pp. 973, 974

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CAPIRE DANIELE

APPENDICE 7A del vescovo di Roma nell’Occidente.


Dal 496 il pontefice romano ebbe dalla
Nel IV secolo si giunse ad un’equiparazione sua parte un potente alleato con la conver-
delle sedi patriarcali della cristianità (Gerusa- sione al cattolicesimo di Clodoveo re dei Fran-
lemme, Antiochia, Alessandria, Roma), poi col chi. Nel 533 l’Imperatore Giustiniano fece
favore dell’Imperatore Costantino la sede ro- pervenire a papa Giovanni II delle lettere nelle
mana acquistò una posizione preminente. La quali riconosceva il pontefice romano capo
Chiesa cercò di adeguarsi alla politica dell’Im- della Chiesa universale. In risposta Giovanni
pero: ne prese a modello la riorganizzazione II si compiacque con l’Imperatore per avere
dell’amministrazione politica attuata da Co- egli mantenuto la preminenza della sede ro-
stantino, per organizzare la propria ammini- mana, ripristinato l’unità della Chiesa e pro-
strazione e la stessa gerarchia ecclesiastica. mosso la persecuzione degli “eretici”. Le let-
DAMASO I (366 - 384) sostenne l’auto- tere di Giustiniano al vescovo di Roma furono
rità preminente del vescovo di Roma in base incorporate nel Corpus Juris con piena forza
alla tradizione sul soggiorno romano dell’apo- di decreti imperiali.
stolo Pietro. GREGORIO MAGNO (590 - 604) fondò di
Nacque il concetto di Sede Apostolica fatto il potere temporale dei papi con l’accen-
ed ebbe inizio l’evoluzione dell’ufficio del ve- trare i fondi della Chiesa e divenne in con-
scovo di Roma verso il papato. creto sovrano temporale della città di Roma.
SIRICIO I (384 - 399) pretese che tutte Papa ZACCARIA (741 - 752) nel 751 ap-
le chiese si uniformassero alla condotta della provò l’usurpazione del trono dei Franchi ad
chiesa di Roma. Ispirandosi alla forma dei de- opera di Pipino e consacrò l’usurpatore re dei
creti imperiali, Siricio redasse le Costituzioni Franchi dopo avere sciolto i sudditi dal giura-
Pontificie (Decretalia constituta) in cui si af- mento di fedeltà a Childerico, ultimo legittimo
ferma l’identità del papa e di Pietro. Sembra sovrano merovingio.
che Siricio sia stato il primo vescovo di Roma STEFANO II (752 - 757) si distaccò da
ad assumere il titolo di papa. Costantinopoli e si legò al regno dei Franchi.
LEONE I MAGNO (440 - 461) è conside- Da Pipino papa Stefano ricevette nel 756 i
rato il fondatore del primato romano. Con territori tolti ai Longobardi (v. nota 1); in se-
l’appoggio dell’Impero, papa Leone si pose al guito il pontefice pretese una sovranità territo-
di sopra dei concili e avocò a sé il diritto di riale indipendente fondando tale rivendica-
definire i dogmi della Chiesa e dettare le deci- zione su un presunto documento di Costan-
sioni importanti. Leone I si proclamò “primo tino (Donatio Constantini) di cui l’umanista
fra tutti i vescovi” e pretese di esercitare “con Lorenzo Valla nel 1440 dimostrò la falsità.
piena potestà” la “cura della Chiesa univer- LEONE III (795 - 816) nell’800 incoronò
sale” (E. MEYNIER, Storia dei papi, Torre Pellice il franco Carlomagno imperatore del sacro Ro-
1932, p. 62). Nel 452 papa Leone acquistò mano Impero. I suoi successori e in seguito
grande prestigio per avere dissuaso a Man- anche i sovrani di varie nazioni europee, attri-
tova il re degli Unni dal saccheggiare Roma. buirono all’incoronazione papale valore di con-
Sotto il pontificato di Leone I l’imperatore VA- ferimento reale della dignità imperiale.
LENTINIANO III, nel 445, confermò il primato Nell’875 papa GIOVANNI VIII (872 -

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CAPITOLO 7

881) incoronò imperatore Carlo il Calvo di Nel 1095, papa URBANO II (1088 -
Francia senza tenere conto dei diritti legittimi 1099) colpì di scomunica il re di Francia Fi-
del fratello maggiore Ludovico il Germanico. lippo I per avere ripudiato la moglie Bertha e
Oramai “il papato appariva come l’autorità sposato in seconde nozze Berthrada. Sotto il
che poteva disporre della corona e darla a chi pontificato di PASQUALE II (1099 - 1118), nel
riteneva degno e rifiutarla all’indegno” (S.HEL- 1103, Filippo I dovette implorare il perdono
LMAN, Storia del Medioevo, Genova 1990, p. del papa a piedi nudi e col saio di penitente
111). per essere riammesso nella Chiesa.
Nel 1054 il conflitto di potere tra il pa- L’imperatore Enrico V di Germania nel
triarca di Costantinopoli e papa LEONE IX 1111 ricevette la corona imperiale dai piedi di
(1049 - 1054) per il primato universale, pro- papa PASQUALE II assiso sul trono pontificio.
vocò la rottura fra la Chiesa Orientale e la Federico I Barbarossa, scomunicato per
Chiesa Occidentale. avere voluto imporre al papato l’autorità impe-
GREGORIO VII (1073 - 1085) fu uno dei riale, nel 1177, dopo essere stato battuto a
più grandi pontefici del Medioevo. Papa Gre- Legnano dalla Lega Lombarda, si vide co-
gorio concepì il progetto di porre tutta la so- stretto a stipulare la pace con papa ALES-
cietà umana sotto la completa direzione della SANDRO III (1159 - 1181) per ricevere l’asso-
Chiesa. luzione.
“Egli vagheggiò uno stato mondiale teo- Enrico II Plantageneto re d’Inghilterra fu
cratico sotto la direzione del sommo sacer- duramente avversato dall’arcivescovo di Can-
dote della chiesa cristiana” (S. HELLMAN, op. tenbury, Thomas Becket, per avere sottopo-
cit., p. 252). sto il clero alla giurisdizione del tribunale re-
Nella lotta con l’Impero per la questione gio con le Costituzioni di Clarendon del 1164.
delle investiture ecclesiastiche, Gregorio ebbe A seguito dell’assassinio di Thomas Becket,
la meglio. Nel 1075 l’energico pontefice de- di cui la curia romana accusò il re, questi fu
pose e scomunicò Enrico IV sciogliendone i colpito di anatema da papa ALESSANDRO III.
sudditi dal giuramento di fedeltà. Abbando- Per ottenere la sospensione della pena il re
nato dai principi vassalli e dai sudditi in ri- dovette sottoporsi pubblicamente alla fustiga-
volta, l’Imperatore nel 1077 si vide costretto zione sulla tomba del suo mortale nemico.
a recarsi a Canossa in veste di penitente per INNOCENZO III (1198 - 1216), un ponte-
chiedere al papa l’assoluzione. Gregorio lo ri- fice della statura morale di un Gregorio VII, si
cevette nel castello di Matilde di Toscana batté con grande energia per l’affermazione
dopo tre giorni di attesa a piedi nudi in pieno assoluta dei pontefici all’esterno come all’in-
inverno e gli concesse la revoca della scomu- terno della Chiesa. Nel 1201 papa Innocenzo
nica. Nel 1075 Gregorio VII promosse una scagliò l’interdetto sul regno di Francia per co-
riforma radicale del papato che si compendiò stringerne il re Filippo Augusto a riprendere la
nelle 27 massime del Dictatus Papae fra le moglie ripudiata, Ingerburge. Nel 1213, Inno-
cui inaudite rivendicazioni figurava la procla- cenzo III mise sotto interdetto il regno d’In-
mazione del potere assoluto del papa di de- ghilterra il cui sovrano, Giovanni Senza Terra,
porre i sovrani temporali sottoposti all’auto- era entrato in conflitto col pontefice. Giovanni,
rità della Chiesa. abbandonato dai sudditi, fu costretto a de-

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CAPIRE DANIELE

porre la corona ai piedi del pontefice per rice- pontificio che sempre più venne assumendo il
verla dalle sue mani come vassallo della carattere di un vero e proprio principato.
Chiesa. Per volere di papa Innocenzo il IV Con- Sotto il pontificato di LEONE X (1513 -
cilio Lateranense riunitosi nel 1215 istituì i tri- 1521) una crisi ancora più grave scosse la
bunali ecclesiastici per la repressione delle Chiesa di Roma. Nel 1517 il frate agostiniano
eresie dando origine a quella istituzione sini- Martin Lutero in Germania attaccò duramente
stra che prese il nome di Inquisizione. Inno- il commercio delle indulgenze con le famose
cenzo III fu il promotore della sanguinosa cro- 95 tesi di Wittenberg. Nel 1519 Lutero rifiutò
ciata contro gli Albigesi della Francia del Sud. di riconoscere il primato papale e la tradi-
BONIFACIO VIII (1294 - 1303) fu l’ultimo zione della Chiesa romana. Nel 1520 con
grande papa del Medioevo. Papa Bonifacio ri- l’abbruciamento pubblico della bolla di sco-
lanciò con grande energia la politica teocra- munica Exsurge Domine ruppe definitiva-
tica perseguita dai suoi illustri predecessori mente con Roma. Era nata la riforma prote-
Innocenzo III e Gregorio VII, pretendendo per stante.
la Chiesa romana la supremazia temporale. PAOLO III (1534 - 1549), per combat-
Con la bolla Unam Sancta papa Bonifacio riaf- tere il protestantesimo, nel 1542 reintro-
fermò la supremazia dei pontefici romani su dusse l’Inquisizione e nel 1545 indisse il
tutti i principi temporali mediante la tesi delle Concilio di Trento, massima espressione di
due chiavi e delle due spade, simboli dei po- quel vasto movimento di reazione della
teri temporale ed ecclesiastico. Chiesa di Roma alla Riforma luterana che
Con la morte di Bonifacio VIII cominciò prese il nome di Controriforma. Per merito dei
un periodo di declino del papato. Nel 1309 Gesuiti, i veri paladini della Controriforma,
per l’influenza preponderante del clero fran- trionfò e si affermò il centralismo papale.
cese, la Santa Sede fu trasferita ad Avignone, PAOLO IV (1555 - 1559), Pio IV (1559 -
nella Francia del sud. Era l’inizio della Catti- 1565) e Pio V (1566 - 1572) dettero grande
vità avignonese del papato. Il diffondersi della impulso all’Inquisizione in Italia (Inquisizione
corruzione e del nepotismo nella corte papale Romana).
di Avignone determinò una caduta di autorità GREGORIO XIII (1572- 1585) fece co-
della Chiesa. niare una medaglia-ricordo e indisse un
Nel 1376 GREGORIO XI (1370 - 1378) grande giubileo per celebrare il massacro de-
riportò a Roma la sede papale. Due anni gli Ugonotti in Francia del 1572.
dopo i cardinali francesi elessero papa CLE- Sisto V (1585 - 1590) e Gregorio XIV
MENTE VII (1378 - 1394) che si insediò nella (1590 - 1591) interferirono nella politica in-
ripristinata corte di Avignone, e fu l’inizio del terna della Francia e della Spagna per stron-
Grande Scisma d’Occidente. Due papi, uno a care la candidatura al trono di Francia di En-
Roma ed uno ad Avignone, si contesero il rico di Navarra amico degli Ugonotti.
pontificato legittimo anatemizzandosi a vi- La Pace di Westfalia (1648), che mise
cenda. Con la elezione di MARTINO V a Co- fine alla Guerra dei Trent’anni, segnò il falli-
stanza nel 1417 finì lo Scisma d’Occidente. mento della restaurazione cattolica in Europa
Ripristinata l’unità della Chiesa, i ponte- e rappresentò un notevole passo avanti sulla
fici si adoperarono per consolidare lo Stato via delle libertà religiosa, civile e politica in

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CAPITOLO 7

Europa. Il potere papale, già scosso dall’affer- Nepote a sua volta esautorato nel 475 da
marsi della Riforma in gran parte dell’Europa Oreste, un romano della Pannonia, già mini-
del nord e in Inghilterra, nel secolo XVIII stro di Attila, al quale l’Imperatore d’Oriente
venne ad essere ulteriormente indebolito per Zenone aveva conferito il titolo di “Patrizio Ro-
l’impatto che ebbero sulla cultura europea le mano”. Non avendo osato assumere egli
idee innovatrici dell’Illuminismo. Sul finire del stesso la porpora imperiale, Oreste fece ac-
secolo la Rivoluzione Francese assestò al po- clamare imperatore il proprio figlio Romolo
tere papale quello che allora sembrò il colpo che per la giovanissima età fu soprannomi-
di grazia. nato Augustolo.
Il 25 febbraio 1798 le truppe francesi agli I barbari (Eruli, Sciri, Turingi) che forma-
ordini del generale Louis Alexandre Berthier oc- vano la parte preponderante dell’esercito,
cuparono Roma per mandato del generale Bo- non avendo ricevuto da Oreste le terre che
naparte che aveva invaso i territori dello Stato avevano richieste, si ribellarono ed elessero
pontificio. Berthier depose Pio VI (1775 - 1798) loro capo Odoacre, un barbaro che era sceso
e proclamò la Repubblica Romana. Il deposto in Italia qualche anno prima alla testa di una
pontefice, deportato a Valence, nel sud della banda di avventurieri.
Francia, vi morì l’anno seguente. “Con la morte Oreste fuggì e riparò a Pavia. Odoacre
di Pio VI a Valence il papato sembrò annien- lo inseguì ma non riuscì a catturarlo sebbene
tato” (I. GELMI, I Papi da Pietro a Giovanni Paolo avesse espugnato la città. Oreste fuggì an-
II, Milano 1987, p. 215). cora una volta e si rinchiuse in Piacenza dove
La caduta definitiva del potere tempo- lo raggiunse il suo avversario e stavolta lo uc-
rale dei pontefici romani avvenne il 2 ottobre cise. Poi Odoacre corse a Ravenna e depose
1870 quando un plebiscito sanzionò il fatto Romolo Augustolo. Era il 28 agosto del 476.
compiuto dell’occupazione di Roma da parte Tramontava l’Impero d’Occidente e comin-
delle truppe di Vittorio Emanuele II il 20 set- ciava la storia d’Italia; finiva l’Età antica e si
tembre di quello stesso anno. apriva il Medioevo.
Odoacre non osò neppure lui assumere
il governo dell’Impero. Nel 478 spedì a Co-
APPENDICE 7B stantinopoli le insegne imperiali e chiese per
sé, ottenendolo, il titolo di “Patrizio Romano”.
Dopo la morte di Valentiniano III nel 455, si Di fatto però governò l’Italia da principe indi-
verificò nell’Impero d’Occidente una crisi di pendente.
potere. Ne approfittò Ricimero, un generale di A causa della sua ingerenza nell’ele-
origine svevo-gotica che era salito ai massimi zione del nuovo vescovo di Roma alla morte
onori sotto Valentiniano, per nominare e de- di Simplicio nel 483, Odoacre, che per giunta
porre gli imperatori a suo talento: ben 5 impe- era di fede ariana, si attirò la profonda avver-
ratori si succedettero l’uno all’altro fra il 455 sione della Chiesa.
e il 472. Intanto l’Imperatore, insospettito della
Morto Ricimero nel 473, fu messo sul condotta insubordinata del barbaro, sollecitò a
trono imperiale a Ravenna Glicerio che in scendere in Italia Teodorico che appena ven-
capo a qualche mese fu deposto da Giulio tenne gli Ostrogoti della Pannonia avevano

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CONOSCERE DANIELE

eletto loro capo. Nel 488 un popolo intero, va- neo-Imperatore si mise a perseguitare i mono-
lutato dagli storici fra i 200 e i 300 mila indivi- fisiti. Il nuovo corso che s’instaurò a Costanti-
dui, varcò le Alpi con alla sua testa Teodorico. nopoli favorì un riavvicinamento fra il papa e
Battuto ripetutamente dai Goti, Odoacre l’Imperatore a cui non fu estranea l’azione di
raggiunse Roma, ma la città gli chiuse le Teodorico. Presto però l’accordo fra Roma e
porte. Le popolazioni del Centro Italia gli si Costantinopoli si volse a danno del re ostro-
mostrarono ostili sia per le sue razzie che per goto. Essendo entrambi ortodossi, il papa e
i suoi contrasti col papa. Infine una vasta co- l’Imperatore si trovarono uniti contro l’ariano
spirazione organizzata dal clero lo costrinse a Teodorico.
tornare coi suoi uomini verso il nord. Giustino verso il 524 cominciò a perse-
L’11 agosto del 490 sulle rive dell’Adda guitare gli ariani in Oriente. Teodorico reagì
ci fu la battaglia decisiva. Duramente scon- perseguitando a sua volta i cattolici in Italia.
fitto dagli Ostrogoti, Odoacre riparò a Ra- L’urto col papa fu inevitabile. Per giunta es-
venna. La città si arrese a Teodorico il 27 feb- sendo morto papa Giovanni I nel 526, Teodo-
braio del 493 dopo 3 anni di assedio. Odoa- rico volle ingerirsi nell’elezione del suo suc-
cre sul momento ebbe salva la vita, ma meno cessore e questo sollevò contro di lui grande
di un mese dopo fu ucciso a tradimento da e generale malcontento. Il re ostrogoto morì
Teodorico e così ebbe termine il suo regno pochi mesi dopo mentre si preparava alla
durato 17 anni. guerra che sembrava inevitabile. Aveva re-
Subito dopo la vittoria su Odoacre nel gnato in Italia per 32 anni.
490, Teodorico chiese all’Imperatore Zenone A Teodorico succedette in giovanissima
l’investitura della dignità regia. Morto Zenone età il nipote Atalarico con la reggenza della
nel 491, il suo successore, Anastasio, lasciò madre Amalasunta. Intanto, morto Giustino a
senza risposta la rinnovata istanza di Teodo- Costantinopoli nel 527, salì sul trono impe-
rico. Finalmente nel 498, essendo divenuto riale il nipote Giustiniano. Il nuovo Imperatore
assai potente, l’Ostrogoto rinnovò la richiesta riconobbe la successione di Atalarico e la reg-
e stavolta ottenne da Anastasio le insegne genza di Amalasunta.
imperiali a condizione che il suo potere fosse La morte prematura di Atalarico nel 534
subordinato a quello dell’Imperatore. In so- portò sul trono degli Ostrogoti un cugino di lui
stanza Teodorico esercitò una sorta di go- di nome Teodato il quale si sbarazzò subito
verno militare sotto l’egida dell’Imperatore. della zia, deciso a regnare da solo. Fu un
Romani e Ostrogoti convissero a lungo buon pretesto per Giustiniano per attuare il
in Italia ma non si fusero mai. Tutto sommato proposito che meditava da tempo di cacciare
comunque quello di Teodorico fu un buon go- i Goti dall’Italia.
verno. Restaurare l’unità dell’Impero e resti-
Intanto i rapporti tra il papa l’Imperatore tuirgli l’antico splendore fu uno degli obiettivi
si deteriorarono. Teodorico, con non comune primari della politica di Giustiniano. Prima di
abilità politica, riuscì a mantenere buoni rap- liberare l’Italia dal dominio dei Goti era però
porti con l’uno e con l’altro. necessario, per avere le spalle coperte, an-
Nel 518 salì sul trono imperiale di Co- nientare il potere dei Vandali nell’Africa del
stantinopoli Giustino. Ortodosso fervente, il nord. Il pretesto per un intervento militare fu

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CAPITOLO 7

offerto a Giustiniano dalle lotte interne e i di- rale bizantino, per dare attuazione alla vo-
sordini che travagliavano il regno dei Vandali. lontà dell’Imperatrice Teodora di deporre
Alla decisione di Giustiniano certo non papa Silverio a lei inviso e fare eleggere in
fu estranea la persecuzione dei cattolici ad sua vece il diacono Vigilio incline a favorire i
opera dei Vandali ariani. monofisiti che l’Imperatrice aveva preso sotto
Nel 531 fu deposto a Cartagine, la capi- la sua protezione. Belisari,o con un pretesto,
tale del regno vandalo, Ilderico, nipote di Va- depose Silverio - che morì esule nell’isola di
lentiniano III per parte di madre, che non na- Palmarola nel 538 - e fece eleggere al suo po-
scondeva le sue simpatie romane e cattoli- sto Vigilio come l’Imperatrice aveva voluto.
che. A succedergli fu chiamato Gelimero, Intanto l’assedio di Roma si protraeva;
uomo bellicoso e di tutt’altri sentimenti. Fu il nuovi tentativi di assalto da parte di Vitige fal-
casus belli che permise a Giustiniano di inter- lirono. I Goti cominciarono a manifestare se-
venire legittimamente. gni di stanchezza e intanto marciava verso
Nel 533 una grande flotta partita da Co- Roma dal sud un corpo di spedizione bizan-
stantinopoli sbarcò in Africa, a 9 giorni di mar- tino per prendere i nemici alle spalle. Vitige
cia da Cartagine, 10.000 fanti e 5.000 cava- decise di ritirarsi: era il 12 marzo del 538.
lieri agli ordini del valoroso generale Belisario. Roma era salva, ma la guerra coi Goti non era
La prima battaglia, il 13 settembre, fu vinta finita.
dagl’Imperiali nonostante la loro inferiorità nu- Morto Vitige, i Goti nel 541 elessero
merica. Due giorni dopo Belisario entrò da come loro capo Totila, uno dei più valorosi ca-
trionfatore a Cartagine. Gelimero fuggì in Nu- pitani ostrogoti. Totila dette del filo da torcere
midia e in seguito contrattaccò ma senza for- ai Bizantini: nel 543 tolse loro Napoli e mar-
tuna e uscì definitivamente di scena. I Vandali ciò alla volta di Roma. Nel 546 gli Ostrogoti ri-
che avevano portato tanto terrore e tante ro- presero la “città eterna” ma fu un successo
vine nell’Impero scomparvero dalla storia. effimero. L’anno seguente dovettero abban-
L’assassinio di Amalasunta nel 535 of- donarla a seguito di un forte contrattacco bi-
frì a Giustiniano il pretesto per intervenire in zantino. Il destino dei Goti in Italia era ormai
Italia. Quello stesso anno Belisario sbarcò in segnato. Nel 551 Giustiniano richiamò in pa-
Sicilia con 7000 uomini e in 7 mesi l’isola fu tria Belisario e lo sostituì con Narsete per pro-
conquistata. Gl’Imperiali avanzarono verso seguire la guerra contro i Goti.
Roma senza quasi incontrare resistenza, Il nuovo generale impegnò in battaglia il
tranne che a Napoli. Teodato temporeggiò e nemico in Umbria, presso Gualdo Tadino, e
venne deposto. In sua vece fu eletto Vitige, gl’inflisse una tremenda sconfitta. Totila
uomo deciso ed energico. Non potendo difen- cadde in combattimento. Il suo successore,
dere Roma Vitige si ritirò e gli Imperiali vi en- Teja, non ebbe più fortuna di lui. Costretto da
trarono trionfalmente il 10 dicembre del 536. Narsete ad accettare battaglia in condizioni
I Goti contrattaccarono a varie riprese sfavorevoli presso Nocera nel 553, ebbe
senza successo nonostante la schiacciante l’esercito quasi distrutto ed egli stesso cadde
superiorità numerica. nella pugna.Finì per sempre non solo il domi-
Intanto - correva l’anno 537 - giunse a nio dei Goti in Italia, che durava da 60 anni,
Roma Antonina, l’energica moglie del gene- ma anche la stessa nazione gotica.

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CAPIRE DANIELE

APPENDICE 7C diti dal giuramento di fedeltà verso sovrani in-


giusti. Nessun sinodo può essere chiamato
Si attribuisce a Costantino una dichiarazione generale senza il suo ordine, nessun testo ca-
che egli avrebbe fatto al concilio di Nicea nel nonico esiste al di fuori della sua autorità.
325. L’Imperatore avrebbe detto che i vescovi Non può essere giudicato da nessuno. Le
sono “dèi”. Storica o leggendaria che sia la cause importanti di ogni chiesa devono es-
notizia, il fatto è che i papi del Medioevo ne sere a lui sottoposte.
fecero il fondamento della supremazia politica La chiesa romana non ha mai sbagliato,
dei pontefici. e secondo le promesse della Sacra Scrittura
Ignaz von Doellinger dice che nella pre- non sbaglierà mai e il papa ordinato canonica-
sunta dichiarazione di Costantino Gregorio VII mente diviene indubbiamente santo per i me-
“vide la prova che lui, il papa, il vescovo dei riti di San Pietro” (K. HEUSSI - G. MIEGGE, Som-
vescovi, dominava nella sua inviolabile mae- mario di Storia del Cristianesimo, Torino
stà al di sopra di tutti i monarchi della terra. 1984, p. 95).
E’ evidente - affermava Ildebrando - che il Gregorio IX (1227-1241) affermò che “il
Pontefice, chiamato dio dal pio Costantino, papa... è signore del mondo, tanto delle cose
non può essere legato o sciolto da nessuna quanto delle persone”.
potestà temporale più di quanto Dio non Clemente V (1305-1314) dichiarò: “in
possa essere giudicato dagli uomini” (La Pa- nome della sua autorità apostolica che ogni
pautè, Parigi 1904, p. 41, n. 57, cit. da J. imperatore doveva obbedire al papa e di con-
VUILLEUMIER in Apocalypse..., p. 210). seguenza non gli era consentito di stringere
Questo papa, dice ancora Doellinger, “il alleanza con un principe che fosse sospetto
primo che depose un monarca e ne sciolse i al papa. Lo stesso pontefice sostenne che
sudditi dal giuramento di fedeltà, dichiarò al “essendo vacante il trono imperiale il papa
Sinodo di Roma nel 1080: ‘ Noi vogliamo mo- doveva succedere alla potestà regia e che
strare al mondo che abbiamo il potere di to- ogni imperatore aveva l’obbligo di prestargli
gliere a chiunque e darli a chi ci par bene i re- giuramento di vassallaggio” (V UILLEUMIER ,
gni, i ducati, le contee, in breve i possedi- op.cit., p. 211).
menti di tutti gli uomini, perché abbiamo il po- Ecco alcuni estratti da un’opera enciclo-
tere di legare e di sciogliere” (op. cit., p. 54, pedica compilata da un ecclesiastico cattolico
n. 154 in VUILLEUMIER, ibidem). del XVIII secolo:
Giovanni Miegge scrive a proposito del “Così alte sono la dignità e l’eccellenza
Dictatus Papae formulato da Gregorio VII: del papa che egli non è semplicemente
“Fondandosi sul De Civitate Dèi di Agostino, uomo, ma quasi Dio e vicario di Dio...
sulle Decretali pseudo-isidoriane e sulle enun- “Il papa cinge la triplice corona come re
ciazioni di Nicola I, il papa afferma la propria del cielo, della terra e degl’inferi...
signoria sulla chiesa universale e sul mondo “Il papa è quasi Dio in terra, unico so-
intero. Egli è il solo uomo di cui si debba ba- vrano dei fedeli di Cristo, capo dei re, rivestito
ciare il piede e che può portare le insegne im- della pienezza del potere, investito dall’Iddio
periali. Egli solo può nominare e deporre i ve- Onnipotente del governo non solo del regno
scovi, deporre gl’imperatori e sciogliere i sud- terreno ma anche del regno celeste...

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CAPITOLO 7

“Così grandi sono l’autorità ed il potere mano, alla luce della dottrina del Nuovo Te-
del papa che egli può modificare, spiegare e stamento sono indebitamente attribuiti ad un
interpretare le leggi divine... essere umano sia pure rivestito di autorità re-
“Il papa può modificare la legge divina ligiosa. Tali titoli evocano e presuppongono
perché il suo potere discende da Dio e non un’autorità ed una dignità sovrumane.
dall’uomo e dato che egli agisce da vicege- Col titolo di Sommo Sacerdote (Sommo
rente di Dio sulla terra col più ampio potere di Pontefice) l’Epistola agli Ebrei indica la dignità
legare e di sciogliere... e la funzione di Cristo in cielo: Eb 4:15,16;
“Tutto ciò che il Signore Iddio e il Reden- 6:20; 8:1,2; 9:11; 10:21.
tore fanno lo fa anche il suo vicario, purché non Padre Santo è l’appellativo col quale
faccia alcunché che sia contrario alla fede” (LUCIO Gesù si rivolse a Dio nella preghiera di inter-
FERRARIS, art. “Papa” in Prompta Bibliotheca, vol. cessione per i suoi apostoli alla vigilia della
VI, pp. 25-29, cit. in S.D.A.B.C., vol. IV, p. 831). crocefissione: Gv 17:11.
I cardinali del sacro collegio offrono il La funzione di Vicario di Cristo secondo
loro omaggio e la sottomissione al pontefice il Vangelo di Giovanni spetta allo Spirito
neo eletto nel corso di una cerimonia che Santo (“vicario” significa “facente le veci
prende il nome di “triplice adorazione del sa- di...”, “supplente”, “sostituto”).
cro collegio”. Gesù Cristo ha indicato lo Spirito Santo
Nella cerimonia d’incoronazione del come suo supplente e sostituto fra gli uomini:
nuovo pontefice il cardinale-diacono gli dice Gv 14:16; 17:26; 16:7,12,13.
mentre gli pone sul capo il “triregno”: “Ricevi Infine il Nuovo Testamento riconosce
la tiara ornata di tre corone e sappi che tu sei Gesù Cristo soltanto come Capo della
il padre dei principi, l’arbitro del mondo e il vi- Chiesa: Ef 1:22; Cl 1:18.
cario del Salvatore nostro Gesù Cristo sulla La rivendicazione dei titoli suddetti da
terra” (J.VUILLEUMIER, op.cit., p. 211). parte di una creatura umana, o la loro attribu-
Titoli quali “Sommo Pontefice”, “Santo zione ad essa da parte di terze persone, se-
Padre”, “Vicario di Cristo”, “Capo della condo lo spirito del Nuovo Testamento si confi-
Chiesa” riferiti correntemente al pontefice ro- gura come una usurpazione e una “blasfemia”.

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Capitolo 8
____________________________________________________

I n questo capitolo l’autore del libro narra la seconda visione che gli è stata rive-
lata. E’ una visione parallela alla precedente, ma solo in parte, giacché qui la
serie dei regni dei quali la profezia anticipa l’esistenza inizia con la Persia (Babi-
lonia, oramai prossima al tramonto, è rimasta fuori dal campo visuale della rive-
lazione); inoltre la nuova visione si arricchisce di dettagli inesistenti in quella che
l’ha preceduta.
I simboli provengono ancora dal regno animale ma, a differenza del capi-
tolo 7, qui tengono il campo bestie domestiche anziché belve selvagge.
La diversa natura delle figure animalesche orienta a un oggetto diverso
come tema centrale della seconda profezia. In entrambe le visioni la lotta per
l’egemonia politica, raffigurata dall’attività delle bestie simboliche dalla quale si
sviluppano condizioni che portano alla persecuzione del popolo santo, costituisce
un motivo comune.
Ma nella seconda sul tema della persecuzione s’innesta quello della prevari-
cazione contro il santuario del Signore (il quale sarà tuttavia giustificato e purifi-
cato in capo a un arco di tempo determinato con precisione); è la novità della se-
conda rivelazione alla quale ha già orientato la natura singolare degli animali
simbolici: il montone e il capro, entrambi animali sacrificali, hanno infatti evo-
cato l’ambiente del santuario e la sua liturgia.

1 Il terzo anno del regno del re Belsatsar, io, Daniele, ebbi una vi-
sione, dopo quella che avevo avuta al principio del regno.

Tutte le visioni di Daniele sono datate (cfr. 7:1; 9:1; 10:1). La visione narrata nel
cap. 8 è del “terzo anno del regno del re Beltsazar” ovvero della sua co-reggenza
col padre Nabonide (vedi Introduzione, parte IV). Questa data corrisponde al
546 a.C.
“...dopo quella che avevo avuto al principio del regno”: è un’allusione alla
visione delle quattro bestie avuta appunto l’anno primo di Beltsazar (7:1). Da-
niele declina il suo nome per attestare l’autenticità di quanto verrà esponendo.
“...ebbi una visione”, ebr. yal) : né }Ozfx chazôn nir’ah ’êlay, letteralmente
" hf)r
“una visione apparve a me”. Chazôn è il termine con cui i profeti (ad eccezione
di Ezechiele) designano correntemente le rivelazioni ricevute in visione. (cfr. Is

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CAPITOLO 8

1:1, 21:2; Lam 2:9; Ad 1:1; Aba 2:23 ecc...). Dalla radice verbale chzh, “vedere”,
châzôn evoca con immediatezza la modalità di questa forma di rivelazione.

2 Ero in visione; e, mentre guardavo, ero a Susan, la residenza reale,


che è nella provincia di Elam; e, nella visione, mi trovavo presso il
fiume Ulai.

Daniele fu presente fisicamente in Susa o lo fu “in ispirito” ? La seconda alterna-


tiva in base al testo appare la più probabile: “ Ero in visione / e mentre guar-
davo / ero a Susa...” L’essere trasportato “in ispirito” durante la visione in luogo
diverso dalla residenza abituale fu un’esperienza comune ad altri veggenti (cfr.
Ez 8:3; 11:1; 37:1; 40:1; 43:1; Ap 17:3; 21:10).
Susa fu la capitale del forte regno elamita. Un testo cuneiforme dell’inizio
dell’età persiana, il “Cilindro di Ciro”, cita Susa fra le città alle quali questo so-
vrano, dopo la presa di Babilonia, restituì le statue delle divinità che i re caldei
avevano trafugato, segno che dopo la caduta dell’Elam la città era passata sotto
la sovranità babilonese.
La menzione di Susa come luogo dal quale il profeta contemplò la visione
non è casuale. Presto Susa sarebbe divenuta la prima fra le città reali del primo
regno di cui la visione avrebbe preconizzato la nascita, l’ascesa ed il tramonto: il
regno di Persia.
“...a Susa, la residenza reale” (ebr. hfryiBh a }a$U$:B beshûshan habbîrah).
È stata notata l’affinità dell’ebraico bîrah con l’assiro birtu che significa “for-
tezza”. Bîrah designa il palazzo reale che sorgeva nell’area fortificata della citta-
della la quale a sua volta si trovava all’interno delle città reali. Le versioni italiane
traducono bîrah “residenza reale”, “palazzo”, “cittadella”, “castello”, “fortezza”. Il
libro di Esther distingue la “cittadella” di Susa (shûshan habbîrah) dalla città vera
e propria (‘îr shûshan): Et 3:15 e 8:14,15. Nella residenza reale, o cittadella di
Susa, cento anni dopo svolse la mansione di coppiere del re Artaserse I il giu-
daita in esilio Nehemia (cfr. Ne. 1 e 2).
Nella visione Daniele riconobbe la “cittadella” (bîrah) di Susa: probabil-
mente c’era stato come funzionario della corte di Babilonia. Non dalla cittadella
comunque contemplò la visione ma dalla riva orientale di un fiume che scorreva
non lontano: “nella visione mi trovavo presso il fiume Ulai” (ebr.
yflU) labU)-la( yityéyh
f yén)
A wá }OzfxB
e he)r e wæ wa’er’eh bechazôn w’anî hayiytî ‘al-’ûval
: )
’ûlai, letteralmente “e mentre guardavo nella visione io mi trovavo presso il
fiume Ulai”).
Il termine corrente per “fiume” nella lingua ebraica è nahar (cfr. Gr 46:6; Ez
1:1; Dn 10:4 ecc...). ’Uval è un termine raro che praticamente è usato solo in
questo versetto in tutto l’Antico Testamento. Secondo C.BOUTFLOWER il termine
deriva da una radice verbale che significa “condurre”. Questo espositore afferma

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CAPIRE DANIELE

che “canale” sarebbe la traduzione più appropriata di ’uval. In effetti presso le


rovine dell’antica Susa, riportate alla luce da Marcel e Jane Dieulafoy e Jacques
de Morgan fra il 1884 e il 1897, sono ancora visibili le tracce di un ampio canale
che nell’antichità congiungeva i fiumi Choaspes e Coprates (oggi Kerka e Abdiz-
ful) che scorrevano ai due lati dell’altura allungata sulla quale sorgeva Susa. Il
Boutflower identifica quel canale con l’Ulai di Daniele (l’Eulaeus degli antichi
scrittori greci).
Come via di traffici fluviali l’Ulai deve essere stato per Susa una fonte di ric-
chezza. L’Ulai appare dunque come un simbolo dell’immensa ricchezza del fu-
turo Impero persiano (BOUTFLOWER).

3 Alzai gli occhi, guardai, ed ecco, ritto davanti al fiume, un montone


che aveva due corna; e le due corna erano alte, ma una era più alta
dell’altra, e la più alta veniva su l’ultima.

Nell’ebraico il sostantivo ’ayil, “montone”, è seguito dall’aggettivo numerale


’echad, “uno” (dfx) e léy) a ), come a voler sottolineare la singolarità della figura che
per prima appare nella visione: un singolo animale ne occupa tutto il campo. Il
montone è dunque il simbolo di una potenza egemone, quale fu appunto l’Im-
pero dei Medi e dei Persiani con cui l’animale è espressamente identificato (v. 20).
A differenza delle visioni parallele dei capitoli 2 e 7, in questo capitolo la
serie dei regni comincia con la Medo-Persia. La ragione è ovvia: Babilonia è in
pieno declino, sette anni la separano dal tracollo. Essa appartiene oramai alla
storia, non è più oggetto di anticipazione profetica.
Mentre nel cap.7 le monarchie universali sono rappresentate da belve sel-
vagge - simboli che evocano il carattere violento della conquista e del dominio -
nel cap. 8 le stesse entità politiche sono raffigurate con animali domestici, segno
che in questa rivelazione esse sono viste da un’ottica diversa.
Il montone e il capro che verrà dopo introducono ad un contesto culturale
ebraico; nell’ordinamento liturgico d’Israele infatti questi animali figuravano fra
le vittime sacrificali (cfr. Le 5:15; 16:5; Nu 28:22,27 ecc...). In effetti il centro fo-
cale della visione è l’offesa che sarà arrecata al culto di Jahvé nel suo santuario e
il ripristino di esso in capo a 2300 “sere-mattine” (vv. 11-14). Gli altri simboli che
compaiono nella visione sono figure di contorno.
Il montone “aveva due corna”. Nella simbologia apocalittica le corna rap-
presentano regni e nazioni (confrontare il commento a 7:24). Poiché il montone
è identificato con “i re di Media e di Persia” (v. 20), le due alte corna dell’ani-
male raffigurano le due nazioni - i Medi e i Persiani - sulle quali regnarono i di-
nasti achemenidi dopo che Ciro II nel 549 a.C. le ebbe unificate.
“...una era più alta dell’altra, e la più alta veniva su l’ultima” (ebr.
hænorx
A )
a B
f hflo(h h a wº wehaggevohah ‘olah ba’acharonah) “il (corno) più alto sa-
f obG: h

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CAPITOLO 8

liva dopo”. Quando nel VII secolo a.C. le tribù persiane unificate da Teispe - il
trisavolo di Ciro II - formarono il piccolo regno di Anshan, la Media era già da
molti anni un regno forte e temuto; i Persiani ne divennero tributari. Ma con la
vittoria di Ciro II su Astiage a metà del secolo VI a.C., questi ultimi prevalsero
sui loro antichi dominatori. Il corno “salito dopo” rappresenta precisamente que-
sto evento.
Il montone sta “ritto davanti al fiume”, cioè sulla sua sponda orientale, guar-
dando davanti a sé, ovvero a occidente, in atteggiamento di sfida. Ciro volse su-
bito la sua attenzione verso l’Anatolia giusto a occidente della Media e della Persia.

4 Vidi il montone che cozzava a occidente, a settentrione e a mezzo-


giorno; nessuna bestia gli poteva tener fronte, e non c’era nessuno
che la potesse liberare dalla sua potenza; esso faceva quel che vo-
leva, e diventò grande.

Il montone carica con impeto irresistibile verso occidente, settentrione e mezzo-


giorno. Se osserviamo una cartina della regione del Vicino Oriente noteremo che
dritto ad ovest di Susa si trovava Babilonia, a nord-ovest c’era il regno di Lydia e
a sud-ovest il regno d’Egitto.
Nel 546 a.C. - tre anni dopo avere unificato la Media e la Persia - Ciro at-
taccò e sconfisse Creso conquistando il regno di Lydia e con esso l’Asia Minore
occidentale e le isole della Ionia. Sette anni dopo (nel 539) prese Babilonia e se
ne annesse i territori. Nel 525 suo figlio Cambise II invase l’Egitto avendo scon-
fitto i mercenari greci di Psammetico II a Pelusio e fece di questa antica nazione
un possedimento persiano.
Le acquisizioni territoriali, ad est realizzate dai successori di Ciro e Cambise,
non sono prese in considerazione nella visione perché erano irrilevanti in rap-
porto all’oggetto centrale della medesima: l’attacco del corno al santuario ed il ri-
pristino di quest’ultimo.
“...nessuna bestia gli poteva tenere fronte, e non c’era nessuno che la po-
tesse liberare dalla sua potenza”. L’alleanza militare in funzione anti-persiana fra
Atene, l’Egitto e Babilonia all’inizio del regno di Ciro non poté contrastare
l’espansione della giovane nazione iranica.
Quando le città e le isole greche della Ionia si sollevarono contro il domi-
nio persiano intorno al 500 a.C., l’appoggio di Atene non poté impedire che la
rivolta fosse domata con durezza da Dario I e che Mileto, l’istigatrice della som-
mossa, fosse rasa al suolo.
“Il montone faceva quel che voleva e diventò grande”. In questa frase sono sin-
tetizzati il dispotismo dei sovrani achenemidi e le dimensioni gigantesche dell’im-
pero sul quale essi regnarono dopo le conquiste di Ciro II, Cambise II e Dario I.

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5 E com’io stavo considerando questo, ecco venire dall’occidente un


capro, che percorreva tutta la superficie della terra senza toccare il
suolo; e questo capro aveva un corno cospicuo fra i suoi occhi.

“E com’io stavo considerando...” Le cose che Daniele vede nella visione cattu-
rano la sua attenzione e stimolano la sua riflessione (i profeti di Yahweh non
sono stati strumenti passivi dell’ispirazione profetica).
“...ecco venire dall’occidente...”. Con i rovesci subiti in Grecia da Dario I
negli ultimi anni di regno e da suo figlio Serse I, cominciò il declino lento ma
inarrestabile dell’Impero persiano. Il capro che viene dall’occidente è identificato
espressamente col regno di Iawan (v. 21), cioè con la Grecia (Iawan, da Ionia,
era il nome con cui i Semiti designavano i Greci).
La corsa frenetica del capro verso oriente anticipa con sorprendente reali-
smo la marcia rapida e travolgente delle falangi di Alessandro lungo le fasce co-
stiere dell’Asia Minore, della Siria e della Palestina fino all’antica terra dei faraoni
fra il 334 e il 332 a.C. Il gran corno fra i due occhi del capro è il simbolo del
“primo re” di Iawan (v. 21), ovvero di Alessandro Magno, il secondo ed ultimo
rappresentante della dinastia macedone.

6 Esso venne fino al montone dalle due corna che avevo visto ritto
davanti al fiume, e gli s’avventò contro, nel furore della sua forza. 7
E lo vidi giungere vicino al montone, pieno di rabbia contro di lui, in-
vestirlo, e spezzargli le due corna; il montone non ebbe la forza di te-
nergli fronte, e il capro lo atterrò e lo calpestò; e non ci fu nessuno
che potesse liberare il montone dalla potenza d’esso.

Quello che descrive il v. 6 non è un duello fra due avversari mossi dalla stessa
determinazione di abbattere l’altro, ma l’assalto impetuoso di uno degli avversari
contro l’altro. Tale fu in effetti la guerra fra Alessandro e Dario III.
“(Il capro) gli s’avventò contro nel furore della sua forza... il montone non
ebbe la forza di tenergli fronte, e il capro lo atterrò e lo calpestò”. Con estrema
sinteticità e con precisione sono anticipati la folgorante campagna militare di
Alessandro in Oriente ed il crollo dell’Impero persiano.
Nel 334, Alessandro sbarcò con le sue falangi e la sua cavalleria sulla costa
dell’Asia Minore; sulle rive del Granico attaccò e travolse le truppe dei satrapi
persiani dell’Asia Minore e avanzò incontrastato lungo la costa fino alla Cilicia,
accolto come liberatore dalle città della Ionia.
Presso Isso, nell’autunno del 333, battè per la seconda volta l’armata per-
siana nell’occasione agli ordini del re Dario in persona. Poi volse a mezzogiorno:
Sidone e Biblo lungo la costa fenicia si sottomisero spontaneamente; Tiro resi-
stette e fu distrutta. La stessa sorte toccò a Gaza, sulla costa palestinese, per

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CAPITOLO 8

avere rifiutato il vassallaggio ai Macedoni. In Egitto Alessandro entrò da trionfa-


tore nel 332 accolto dai sacerdoti come il figlio di Horus. Fondata una nuova
Alessandria sulla costa del Mediterraneo, il Macedone, nella primavera del 331,
riprese la marcia verso nord. Percorse la Palestina e la Siria senza combattere e
ad est dell’alto corso dell’Eufrate, fra Arbela e Gaugamela, attaccò per la terza
volta e sbaragliò l’esercito avversario. Dario si dette alla fuga e non si fece più
vivo; Alessandro entrò da trionfatore in Babilonia: l’Impero persiano era crollato
di schianto dopo avere dominato per 218 anni. L’ineluttabilità dell’evento è
preannunciata con sorprendente precisione nell’ultima frase del v. 7: “...e non ci
fu nessuno che potesse liberare il montone dalla potenza d’esso”.

8 Il capro diventò sommamente grande; ma, quando fu potente, il


suo gran corno si spezzò; e, in luogo di quello, sorsero quattro
corna cospicue, verso i quattro venti del cielo.

“Il capro divenne sommamente grande...” (ebr. do)m : -da( lyiDg: h


i {yéZ(i h : U ûtzefîr
f ryipc
ha‘izzîm higdîl ‘ad-me’od ). La voce verbale higddîl, “s’ingrandì”, è rafforzata
dall’avverbio ‘ad me’od, “molto”.
L’impero simboleggiato dal capro avrebbe superato quello raffigurato dal
montone per dimensione territoriale. In effetti l’Impero macedone fu più esteso
dell’Impero medo-persiano. Dopo la vittoria dei Macedoni ad Arbela nel 331,
cadde in potere di Alessandro l’immenso territorio già sotto la sovranità dei re
persiani. Occupate l’una dopo l’altra le città reali coi loro favolosi tesori (Babilo-
nia, Susa, Pasargade, Persepoli, Ecbatana), Alessandro riprese la marcia verso
est. Il suo obiettivo primario era la cattura del satrapo della Battriana, Besso, che
teneva prigioniero il re sconfitto. In realtà Besso aveva fatto assassinare Dario e
se ne era proclamato successore.
Nella Battriana l’usurpatore cadde nelle mani di Alessandro e questi lo conse-
gnò a un tribunale persiano che lo condannò a morte. Così il re dei Macedoni
poté proclamarsi re dei Medi e dei Persiani come legittimo successore di Dario III.
Non pago delle conquiste realizzate Alessandro, dopo la cattura di Besso, si
spinse ancora verso est. Nel 328 condusse le sue falangi oltre l’Indo e sconfisse
l’esercito del re Poro schierato al di là dell’Idaspe. Anche l’India favolosa era
nelle sue mani. Il capro greco-macedone era diventato “sommamente grande”.
“Ma quando fu potente, il suo gran corno si spezzò...” Il gran corno del ca-
pro non s’infranse nella lotta, come le due corna del montone, ma si ruppe
spontaneamente. Alessandro sarebbe morto di morte naturale, non in battaglia.
Avvenne esattamente così. Sottomessa l’India, il condottiero vittorioso dovette ri-
nunciare ai propositi di nuove conquiste oltre l’Idaspe per il rifiuto delle truppe
di seguirlo. A malincuore dovette prendere la via del ritorno. Nel tardo inverno
del 324 i reduci di tante battaglie e di tante vittorie giunsero stremati a Pasar-

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CAPIRE DANIELE

gade. Alessandro proseguì per Susa e Babilonia. Quivi si dedicò a riorganizzare


l’amministrazione dell’immenso impero. Ai primi di giugno del 323 cadde in
preda ad accessi febbrili che in pochi giorni lo condussero alla morte.
“...e in luogo di quello sorsero quattro corna cospicue verso i quattro venti
del cielo”. Con queste parole la profezia sentenzia la fine dell’unità dell’Impero
di Alessandro, anzi la fine dell’Impero stesso. Questo avvenne 21 anni dopo la
morte del grande sovrano. Era caduto il gran corno del capro macedone. Poiché
l’erede al trono era un fanciullino in tenera età, per disposizione del re morente
la reggenza fu assunta da Perdicca, il più fidato dei suoi generali. Gli altri gene-
rali si divisero il comando dell’esercito ed il governo provvisorio delle province.
Nel 321 morì il reggente e si procedette ad una nuova ripartizione delle ca-
riche militari e politiche.
Seguì una serie di vicende intricate che videro coinvolti quasi tutti gli alti
funzionari dell’Impero e nel corso delle quali perirono di morte violenta alcuni
di costoro e quasi tutti i familiari del defunto sovrano (la madre Olimpia, la mo-
glie Rossane, il figlioletto Alessandro II e il fratello Filippo Arrideo). Per ultima
nel 308 scomparve la sorella Tessalonica. Estintasi così la famiglia reale, uno dei
generali più anziani del defunto sovrano, Antigono Monoftalmo, si proclamò suo
unico successore. Per tutta risposta quattro altri generali che governavano altret-
tante province, Lisimaco, Cassandro, Seleuco e Tolomeo, si dichiararono rispetti-
vamente re di Tracia, di Macedonia, di Babilonia e dell’Egitto. Fu l’inizio della
fine dell’unità dell’Impero. Questa si consumò definitivamente nel 301 quando
l’esercito di Antigono e di suo figlio Demetrio fu sbaragliato ad Isso, nella Cilicia,
dalle forze coalizzate di Tolomeo, Seleuco, Cassandro e Lisimaco. Erano sorti i
regni ellenistici, le quattro corna volte verso i quattro venti del cielo.
Fin qui l’interpretazione del cap. 8 di Daniele è univoca: gli espositori di
ogni tendenza si trovano concordi nell’identificare la Persia degli Achemenidi nel
montone, il regno di Macedonia nel capro, Alessandro nel gran corno sulla
fronte del capro e i regni ellenistici eredi dell’Impero di Alessandro nelle sue
quattro corna. Questa esegesi a senso unico è ciò che ci si deve aspettare dal
momento che siffatta interpretazione della prima parte della visione è data
espressamente nel libro (vv. 20-22). Dal v. 9 in poi invece l’esegesi storica e
l’esegesi storico-critica divergono l’una dall’altra in modo inconciliabile.

9 E dall’una d’esse uscì un piccolo corno, che diventò molto grande


verso mezzogiorno, verso levante, e verso il paese splendido.

Il v. 9 introduce con la parte finale della visione una nuova tematica che si svi-
lupperà dalla precedente nei 5 versetti successivi. Questi versetti formano un
blocco unitario e costituiscono il centro tematico dell’intero capitolo ottavo.
“E dall’una di esse uscì un piccolo corno...”. Questa traduzione modifica il

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CAPITOLO 8

pronome che nell’originale è di genere maschile. L’ebraico infatti recita:


hfryi(C
: m
i tax)
a -}erqe )fcyæ {ehm" tax) f -}imU ûmin ha’achath mehem yatza’ qeren ’achath
a h
mitz‘îrah, letteralmente: “e dall’una di essi uscì un corno dalla piccolezza”.
Come si vede, l’aggettivo numerale ’achath, “una”, ed il pronome hem,
“essi”, non concordano nel genere. I sostantivi antecedenti a cui può riferirsi il
pronome hem sono, nel v. 8, qarnayîm, “corna” (femminile) e ruchôth, “venti”
(che come un buon numero di sostantivi ebraici ha i due generi)275. “Venti” co-
munque è scritto nella forma femminile, ruchôth, per cui il pronome hem, di ge-
nere maschile, non concorda con nessuno dei due sostantivi antecedenti del v. 8.
W.H. SHEA276, seguito da G.H. HASEL277, ha scorto la soluzione di questa ap-
parente confusione di generi nella particolare costruzione sintattica dei vv. 8 e 9.
La parte finale del v. 8 presenta una sequenza di generi secondo l’ordine: fem-
minile-maschile: (“verso i quattro venti - ruchôth, femminile - dei cieli - hash-
shamayîm, maschile - “), alla quale corrisponde una identica sequenza di generi
nella parte iniziale del v. 9: “...dall’una (ûmin ha’achath, femminile) di essi
(mehem, maschile)”. Esiste dunque un parallelismo di generi secondo lo schema
A + B - A + B che Shea ha espresso graficamente nel modo seguente:

A B

Daniele 8: 8b le ’arba‘ ruchôth hashshamayim


“verso i quattro venti” “dei cieli”

FEMMINILE MASCHILE

A B

Daniele 8:9a ûmin ha’achath mehem


“e da la una” “di essi”

275 - Vedi P.JOÜON, Grammaire de l’hebreu biblique, p. 412; L.KOHLER e W.BAUMGARTNER, Lexicon
in Veteris Testamenti Libros, p. 877.
276 - Daniel and the Judjement, p. 85.
277 - Symposium on Daniel, p. 378.

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CAPIRE DANIELE

G.HASEL278 così spiega lo schema riportato sopra:


“Mentre è mantenuta la sequenza dei generi femminile - maschile, c’è anche
concordanza di numero tra le forme plurali del sostantivo maschile ‘cieli’ (sha-
mayîm) e del suffisso pronominale maschile ‘essi’ (hem). L’aggettivo numerale
‘una’ (’achath) nel v. 9 a sua volta fa coppia con la forma femminile del sostan-
tivo ‘venti’ (ruchôth) nel v. 8.
“Questa costruzione sintattica - prosegue Hasel - è del tutto corretta sotto il
profilo della grammatica ebraica e autorizza a ravvisare nel passo un paralleli-
smo fra generi accoppiati... che ha l’equivalente nel parallelismo sinonimico se-
condo lo schema femminile + maschile - femminile + maschile caratteristico
della poesia ebraica” (in nota l’Autore cita come esempi: Is 62:1b; 28:15; 42:4;
44:3b; Sl 57:6,11; 108:6; Gb 5:9; 18:10; Pr 5:5; 29:3).
“In breve - osserva Hasel - abbiamo a che fare con una sintassi basata
sull’accoppiamento dei generi la quale, per quanto attiene all’origine del ‘piccolo
corno’, orienta verso uno dei punti cardinali...”
E conclude, citando Shea: “Pertanto ‘risulta evidente da questa compren-
sione della sintassi di Dn 8:8,9 che nella visione il ‘piccolo corno’ entrò in scena
provenendo da uno dei quattro venti del cielo’ e non dal corno seleucide o da
una qualsiasi delle altre corna”. Questa comprensione di Dn 8:8,9 ha il pregio di
rispettare l’integrità del testo, laddove l’esegesi storico-critica per adattarlo alla fi-
gura di Antioco Epifane ha dovuto alterarlo. Cambiando senza fondate ragioni il
genere del pronome essa ha letto la frase iniziale del v. 8: “e dall’una di esse”, e
l’ha collegata con l’espressione “quattro corna” del versetto precedente per fare
uscire il quinto corno da una di quelle quattro corna.
Anche la traduzione “un piccolo corno” ha richiesto un “aggiustamento” del
testo originale. Come abbiamo visto l’ebraico dice letteralmente: “uscì un corno
dalla piccolezza” (hfryi(C: m
i tax)a -}erqe )fcyæ yatza’ qeren ’achath mitztze‘îrah). Del
vocabolo composto mitztze‘îrah, “dalla piccolezza”, è stato soppresso il prefisso
min, “da”, per modo che ‘îrah da sostantivo (“piccolezza”) è diventato aggettivo
(“piccolo”).
Con un ulteriore emendamento si è modificato anche l’aggettivo numerale
’achath (“una”) inserendovi la lettera resh per trasformarlo in ’achereth (“un al-
tro”). In definitiva l’espressione originale “un corno dalla piccolezza” si è tramu-
tata in “un altro piccolo corno”279, come si legge in molte versioni moderne.

278 - Op. cit., pp. 380-381.


279- Cfr. G.H. HASEL, op.cit., p. 395, nota 44.

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CAPITOLO 8

Il raffronto fra 5 versioni italiane riportato sotto evidenzia delle variazioni


nella traduzione della seconda parte del v. 9:

“...diventò molto grande verso il mezzogiorno,


verso il levante e verso il paese splendido” (Luzzi)

“... s’ingrandì verso il sud,


verso l’ovest e verso il paese dello splendore” (Bernini)

“... crebbe molto verso il mezzogiorno, l’oriente


e verso la Palestina” (TOB)

“... s’ingrandì assai verso mezzogiorno, verso oriente


e verso lo splendore della terra” (Bibbia Concordata)

L’ebraico dice: yibC


e h
a -le)wº xfrzº M
i h a -le) retyå -laDg: Ti wá wattigddal-yether ’el han-
a -le)wº begNå h
negev we’el hammizrach we’el hatztzevî, letteralmente: “e s’ingrandì enorme-
mente verso il sud, verso l’est e verso lo splendore”. Prima di prendere in esame
l’ultima espressione del versetto, conviene soffermarsi sull’avverbio yeter.
La Riveduta (Luzzi) e la TOB lo traducono “molto”, la Bibbia Concordata
“assai”, Bernini lo omette addirittura. Rinaldi, con più aderenza all’originale, lo
rende “enormemente”. È significativo che Daniele applichi con forza crescente il
verbo gâdâl, “ingrandire”, al montone, al capro e al “piccolo corno”.

a) In riferimento al montone persiano il profeta usa la forma attiva-ri-


flessiva higdîl, che significa “si ingrandì”.
b) Con la stessa forma verbale seguita dall’accrescitivo ’ad me’od,
“molto”, “grandemente”, descrive la crescita del capro greco-macedone.
c) Per rappresentare l’ingrandirsi del “piccolo corno” adopera una
forma diversa dello stesso verbo seguita dall’avverbio yeter, “enormemente”,
“smisuratamente”, (il verbo yatar significa “eccellere”, “essere preminente”,
GESENIUS e DAVIDSON).

Se Daniele, come sostiene l’esegesi moderna, avesse inteso davvero raffigu-


rare Antioco Epifane col simbolo del “piccolo corno”, in sostanza ci avrebbe
detto che il re di Siria sarebbe stato più potente dei re di Persia e di Alessandro
e avrebbe dominato su un territorio più vasto di quello degli imperi persiano e
macedone.
Questo sarebbe stato assolutamente fuori della realtà storica perché Antioco
non fu affatto più potente di Ciro, di Dario o di Serse e neanche di Alessandro e
il territorio sul quale regnò fu soltanto una frazione di quello dell’Impero mace-

200
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CAPIRE DANIELE

done. Come vedremo in seguito, col simbolo del “piccolo corno” Daniele volle
rappresentare una realtà del tutto diversa.
Il nostro autore indica con chiarezza le direzioni dello spazio nelle quali si
espanse il dominio del “piccolo corno”: verso il sud (’el hannegev), verso l’est
(’el hammizrach) e verso lo splendore (we’el hatztzevî).
Antioco tentò caparbiamente di estendere il suo dominio a mezzogiorno,
cioè di impadronirsi dell’Egitto, ma non vi riuscì per l’intervento risoluto di
Roma. Pertanto egli non s’ingrandì enormemente verso il sud.
L’Epifane intervenne militarmente nelle province alte e orientali del regno
(l’Armenia, la Persia, l’Elimaide, la Sogdiana), ma non per conquistarle, giacché
esse facevano parte dello stato seleucide fin dalla sua nascita, intervenne bensì
per mantenerle dato che le popolazioni locali - e in particolare i potentissimi
Parti - minacciavano di riprendersele280. Dunque nessuna estensione del potere
di Antioco verso oriente.
Veniamo all’espressione finale del v. 9, ’el hatztzevî.
Le versioni moderne aggiungono alla fine del versetto un vocabolo che
nell’originale non c’è. È il termine “paese” (Riveduta, Bernini, Rinaldi) o “terra”
(Bibbia Concordata). La TOB non traduce il vocabolo ebraico (zevi) ma lo inter-
preta dando per scontato che esso si riferisca alla Palestina.
Che ’el hatztzevî “verso lo splendore” designi la Palestina è soltanto una
congettura.
Nel v. 10 si dice che il corno s’ingrandì “fino all’esercito del cielo” e fece ca-
dere in terra delle stelle. È un riferimento evidente al firmamento. Nel v. 9 Da-
niele dopo avere descritto un’espansione orizzontale del corno (verso il sud e
verso l’est) ha voluto alludere ad una sua estensione in verticale (verso lo splen-
dore, cioè verso il firmamento). Quale possa essere il senso di questa sua proie-
zione verso l’alto si vedrà subito.

10 S’ingrandì, fino a giungere all’esercito del cielo; fece cader in terra


parte di quell’esercito e delle stelle, e le calpestò.

“S’ingrandì fino a giungere all’esercito del cielo...” HASEL281 osserva che il termine
“esercito” (ebr.)fbc: tzeva’) nell’Antico Testamento è applicato anche al popolo di
Dio (Es 7:4: “...farò uscire dal paese d’Egitto le mie schiere”, ebr. tziv’othay).
Se in Dn 8:10 il termine è applicato alla stessa maniera, esso si riferisce al
popolo di Dio sulla terra sul quale si estende sinistramente il potere del corno.
In effetti il v. 24 interpreta l’azione descritta nel v. 10 come la distruzione “dei

280 - Vedi F.A. ARBORIO MELLA, L’Impero Persiano, Milano 1979, p. 217.
281 - Op.cit., p. 398.

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CAPITOLO 8

potenti e dei santi dell’Altissimo” per mano del “corno” (i “santi dell’Altissimo” in
7:27 sono i fedeli di Dio che ricevono il regno dopo il giudizio).
“L’attacco mosso ai ‘potenti ed al popolo dei santi’ - commenta Hasel - è
un’allusione alla persecuzione del popolo di Dio. In breve l’attività del ‘piccolo
corno’ consiste: (1) in una espansione orizzontale (possibilmente mirata a un
rafforzamento di sé stesso mediante l’adozione del culto idolatrico) e (2) nella
persecuzione dei santi di Dio sulla terra”282. Dio e Gesù Cristo s’identificano col
popolo eletto perseguitato: “chi tocca voi tocca la pupilla dell’occhio suo” (Za
2:8); “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9:4). Combattendo il suo popolo, il
corno si aderge contro Dio.

11 S’elevò anzi fino al capo di quell’esercito, gli tolse il sacrifizio per-


petuo, e il luogo del suo santuario fu abbattuto.

È stato notato un significativo cambiamento del genere dei verbi tra i vv. 9-10 e
il v. 11. Nei vv. 9 e 10 ricorrono quattro forme verbali che a parte la prima sono
tutte di genere femminile come si può vedere dallo specchietto sotto:

vv. 9-10
)fcyæ yaza’ (“uscì”) m.
laDg: Ti thigddal (“s’ingrandì”) f.
laDg: Ti thigddal (“s’ingrandì”) f.
l”PaT thafal (“fece cadere”) f.
{“s:mr : Ti thirmesem (“calpestò”) f.

Nel v. 11 ci sono 3 forme verbali tutte di genere maschile come mostra lo spec-
chietto che segue sotto:

v. 11
lyiDg: hi higddîl (“s’ingrandì”) m.
{yir”h hurayîm (“tolse”) m.
\al$: hu hushlak (“abbattuto”) m.

Svariate opinioni - tutte poco convincenti - sono state formulate per spiegare
questo singolare cambiamento del genere dei verbi tra i vv. 9-10 ed il v. 11. Da
ultimo si è ipotizzata - senza fondati motivi – un’interpolazione nel testo.
Gli esegeti della scuola storicista hanno ravvisato in siffatto mutamento di
genere il trapasso da una prima ad una seconda fase di sviluppo dell’entità rap-

282 - Ibidem.

202
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CAPIRE DANIELE

presentata dal simbolo unico del corno, vale a dire Roma. Qualcuno di loro -
G.M. PRICE per esempio - ha visto in 8:9-12 uno svolgimento simultaneo delle
fasi politico-pagana ed ecclesiastico-papale. G.H.HASEL283 propende per uno
svolgimento consecutivo: nei vv. 9-10 egli scorge Roma nella fase politico-pa-
gana (premedievale) e nei vv. 11-12 la stessa entità storica nella fase ecclesia-
stico-papale (medievale e post-medievale).
Il commento che segue, improntato al pensiero di questo autore, fornirà ar-
gomenti validi (filologici soprattutto) a supporto di questa visione, in particolare
per quanto attiene al v. 11.
“S’elevò fino al capo di quell’esercito...”, ebr. lyiDg: h
i )fbC a -ra& da(wº we ‘ad sar
f h
hazzavâ’ higgdîl, letteralmente: “fino al principe dell’esercito s’ingrandì”. Hasel
facendo riferimento a R. MOSIS284, osserva che usato in questa forma (cioè nella
forma hifil) il verbo gadâl esprime l’idea che farsi grande “è un atto arrogante,
presuntuoso e illegale”. Il “piccolo corno” si appropria in modo illegale, arro-
gante e presuntuoso le prerogative che appartengono in maniera esclusiva al
“Principe dell’esercito”285.
Chi è il “Principe dell’esercito” (sar hazzavâ’)? I commentatori che appli-
cano ad Antioco Epifane Dn 8:9-14 vi identificano il sommo sacerdote Onia III
assassinato nel 171 a.C. HASEL286 osserva con ragione che sebbene il termine sar
(“principe”) nell’Antico Testamento sia talvolta riferito al sommo sacerdote (vedi
1Cr 24:5; Ed 8:24,29), l’espressione sar hazzavâ (“principe dell’esercito”) in nes-
sun caso è applicata ad un sommo sacerdote.
In Gs 5:14 è un Essere sovrumano che si presenta al leader delle tribù israe-
litiche con l’attributo di “Principe dell’esercito di Yahweh” (sar zevâ’ YHWH). In
Dn 10:13 Micael è chiamato “uno dei primi principi” (’achad hassârîm hari’sh-
shonîm) e 11:1 menziona “Micael vostro principe” (mîkâ’el sarkem), principe
cioè del popolo di Dio. In 12:1 si annuncia il levarsi di “Micael, il gran principe”
(mika’el hassar haggâdôl), in difesa del suo popolo (qui il principe Micael ap-
pare rivestito di potere giudiziale e lo si può con fondati motivi identificare con
la figura del Figlio dell’uomo che esercita lo stesso potere in 7:13,14,26).
Nel Nuovo Testamento Micael riceve il titolo di “arcangelo” (archangelos)
ed è identificato con Gesù Cristo (Gd 9; 1Te 4:16; Ap 12:7,8).
In Daniele tutto lascia credere che Mika’el e il sar hazzavâ siano la stessa
figura celeste. È dunque contro il Figlio di Dio e non contro un sacerdote giu-
daico che si fa grande il “piccolo corno”.

283 - Op. cit., p. 401.


284 - “gadhal”, TDOT, 1975, 2:404.
285 - HASEL, op. cit., p. 402.
286 - Idem, p. 403.

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CAPITOLO 8

“...gli tolse il sacrificio perpetuo...”, ebr. dyimTf h


a {yarh
u UNeMmi U umimmennû hû-
raym hattamîd, letteralmente: “e a lui fu tolta la perpetuità”. L’antecedente più
prossimo a cui possa essere riferita l’espressione ebraica mimmennû (“a lui”) è
“principe dell’esercito”. È dunque a questo Essere celeste che fu tolto il tamîd.
La forma verbale hûraym è difficile da tradurre.
Dalla radice verbale rwm, “togliere via”, “rimuovere”, la traduzione più
plausibile sembra essere “fu tolto”, “fu rimosso”.
Tamîd nell’Antico Testamento ricorre invariabilmente con funzione di ag-
gettivo (“continuo”, “perpetuo”) o di avverbio (“del continuo”, “perpetuamente”).
In 8:11-13, 11:31 e 12:11 tamîd è preceduto dall’articolo (hattamîd) e di conse-
guenza ha valore di sostantivo (“la continuità”, “la perpetuità”). Dandosi per
scontato senza motivi plausibili che tamîd in 8,11 e 12 si riferisca al sacrificio
quotidiano (Es 29:38-42; Nu 28 e 29), tutte le versioni suppliscono in 8:11-13,
11:31 e 12:11 il vocabolo “sacrificio” (Rinaldi ha: “il sacrificio quotidiano”, altre
versioni: “il sacrificio continuo” o “perpetuo”).
Daniele conosce ed usa a proposito la terminologia liturgica del santuario:
in 9:21 menziona “l’oblazione della sera” (minchath ‘erev). Se in 8:11-13, 11:31 e
12:11 avesse voluto riferirsi al sacrificio continuo, avrebbe usato il termine tec-
nico ‘olath hattamîd (“olocausto continuo”) proprio della terminologia del san-
tuario (cfr. Nu 28 e 29 nell’ebraico). Sembra ovvio che con l’usare tamîd come
sostantivo Daniele abbia voluto dire una cosa diversa.
Tamîd nella legislazione cultuale del Pentateuco, oltre che all’olocausto
quotidiano come aggettivo (‘olath hattamîd, “l’olocausto perpetuo”: vedi Es
29:42; Nu 28:3,6,10 ecc.), è applicato con funzione di avverbio a svariati atti litur-
gici, come il mantenimento del fuoco sacro sull’altare dei sacrifici (Le 6:13 - 6:6
nell’ebraico -), il mantenimento delle luci del candelabro del santuario (Le 24:2,
vedi anche Es 27:20), il cambio settimanale dei pani di presentazione nel taber-
nacolo (Le 24:8). In 1Cr 16:37 tamîd con valore di avverbio è riferito al servizio
dei sacerdoti davanti all’arca dell’Alleanza. In 8:11-13, 11:31 e 12:11 semmai sa-
rebbe più logico supplire il termine generico “servizio” piuttosto che quello re-
strittivo “sacrificio”.
Ma a prescindere da tutto questo, tenendo conto dell’uso che ne fa Daniele
con funzione di sostantivo (una forma che non ricorre altrove nell’Antico Testa-
mento), hattamîd (“la continuità”, “la perpetuità”) non può riferirsi ad altra cosa
che ad una attività del celeste “Principe dell’esercito” che si svolge senza interru-
zione.
L’ultima frase del v. 11 (nell’ebraico O$fDq: m i }Ok:m \al$: hu wº wehushlak mekôn
miqdashô) nelle versioni in lingua italiana è resa con notevoli varianti:

“... e il luogo del suo santuario fu abbattuto...” (G. Luzzi).

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CAPIRE DANIELE

“... e fu profanato il luogo del suo santuario...” (G. Rinaldi).

“... e fu profanata la santa dimora...” (TOB).

“... e fu rovesciato il fondamento del suo santuario...”


(Bibbia Concordata).

Hushlak è la forma hofal del verbo shalak, “gettare”, “abbattere”, “rovesciare”,


“distruggere”, sia in senso letterale che in senso metaforico. “Fu abbattuto”
(Luzzi) e “ fu gettata a basso” (Diodati) sono dunque traduzioni coerenti di hu-
shlâk. Ma poiché questo verbo non consente di armonizzare il passo danielico
col modello della persecuzione di Antioco, giacché il re di Siria profanò ma non
distrusse il tempio giudaico di Gerusalemme287, si è proceduto ad un’arbitraria
sostituzione della forma verbale originale hushlak, attestata dai manoscritti più
antichi, con una forma verbale totalmente diversa: tirmos (“contaminato”, “profa-
nato”, “dissacrato”) la quale mette d’accordo il testo biblico col modello storico
scelto dagli esegeti storico-critici288. La RINALDI e la TOB seguono il testo ebraico
così modificato.
Mekôn è il complemento del verbo hushlak. Luzzi e Rinaldi traducono
“luogo” il sostantivo mekôn, Diodati “stanza” e Bernini e la Concordata “fonda-
mento”. La TOB lo omette. Dal verbo kwn, “stabilire”, “fissare”, “confermare”,
mekôn significa “dimora”, “luogo”, “fondamento”.
Quest’ultimo è il senso preferito da Hasel289 il quale rileva che su 17 volte
che mekôn ricorre nell’Antico Testamento, 16 volte si trova in contesti cultuali: in
7 casi come designazione del luogo della dimora di Dio in cielo (1Re 8:39, ecc.),
cioè del suo santuario, come si vede da Es 15:17 dove l’equivalenza “dimora (di
Dio)” - “santuario” è attestata dal parallelismo poetico. In 3 casi mekôn è riferito
alla “dimora” terrestre di Jahvé, il santuario mosaico (Es 15:17), e il tempio salo-
monico (1Re 8:13; 2Cr 6:2); due volte, infine, è associato metaforicamente al
trono celeste di Dio: nei Sl 89:14 (15 nell’ebraico) e 97:2, dove si dice che “giu-
stizia ed equità sono le basi (mekôn) del suo trono”. Ulteriori indicazioni, nota
ancora l’Hasel, emergono da un’analisi dei contesti cultuali di mekôn.
“Dal luogo della sua celeste dimora - dice testualmente - cioè dal suo san-
tuario nel cielo, Egli ascolta le preghiere dei suoi fedeli, israeliti e non (1Re 8:39,
41, 43), e da esso elargisce il perdono e rende giustizia”290.

287 - Vedi I Maccabei capitolo 1; G. RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, pagg. 270-271.
288 - Cfr. G. HASEL, op.cit., pp. 410-411.
289 - Ibidem, p. 412.
290 - Ibidem, pp. 412-413.

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CAPITOLO 8

L’azione ostile del corno è diretta precisamente contro questa attività divina.
“Ma l’atto del corno di abbattere il mekôn (‘fondamento’) del santuario celeste -
osserva ancora il nostro autore - è una interferenza nell’atto di Dio di ascoltare le
preghiere dei suoi devoti e di offrire il perdono, base/fondamento del santuario
di Dio nei cieli. L’atto del corno implica dunque un’intromissione nel senso che
esso rende inefficace il ‘fondamento’ o la ‘base’ (mekôn) del santuario celeste dal
quale procede la giustizia divina”291.
Secondo la cristologia del Nuovo Testamento il Figlio di Dio, esaltato alla
destra del Padre dopo la risurrezione (At 5:55-56; Rm 8:34; Eb 1:3,8), svolge nel
suo celeste santuario (Eb 8:1-2; 9:11-12) un ministero continuo di mediazione e
intercessione a favore nostro (1Tm 2:5; Rm 8:34; Eb 7:25; 1Gv. 2:1).
“Questo ‘abbattere’ è un modo di trasmettere in un linguaggio grafico me-
taforico, l’idea che il potere del ‘piccolo corno’ giunge, per così dire, al centro
stesso dell’attività divina nel santuario del cielo, un’attività che comporta il per-
dono del peccato. Siffatta azione tocca il cuore dell’intercessione e del ministero
continui del ‘Principe dell’esercito’ (il Cristo) che ministra nel santuario celeste.
In altri termini il potere del corno anti-divino attacca la base stessa dell’interces-
sione del celeste santuario con le sue attività mediatoria e salvifica a beneficio
dell’uomo fedele”292.
Mekôn miqdashô è il complemento del verbo hushlak, è ciò che il corno ha
abbattuto. Miqdash, dal verbo qadâsh, “essere santo”, è il termine col quale il
Pentateuco designa il santuario mosaico (cfr. Es 25:8; Le 12:4; 21:12; Nu 10:21;
18:1 ecc.) e con cui il cronista indica il tempio di Yahweh in Gerusalemme (1Cr
22:19; 2Cr 29:21).
“Santuario” è dunque la traduzione corretta di miqdash e non “oblazione”
come nella versione del Bernini. La TOB traduce miqdashô “la santa dimora”,
non tenendo conto del suffisso di terza persona maschile unito a miqdâsh. Da-
niele ha voluto dire che fu il santuario del “Principe dell’esercito”, e non il san-
tuario in senso indefinito, che il corno empio abbatté.
“La dimensione cosmica del rovesciamento della base celeste del santuario -
citiamo ancora Hasel - esprime la realtà del tentativo di vanificare il ministero di
Cristo in cielo mediante l’instaurazione di un rivale sistema mediatorio che disto-
glie l’attenzione degli uomini dall’opera sommo-sacerdotale di Cristo, privandoli
così dei benefici continui del suo ministero nelle corti celesti”293.

291 - Ibidem, p. 414.


292 - Ibidem.
293 - Ibidem, p. 415.

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CAPIRE DANIELE

12 L’esercito gli fu dato in mano col sacrifizio perpetuo a motivo


della ribellione; e il corno gettò a terra la verità, e prosperò nelle sue
imprese.

Nei primi 7 versetti del cap. 8 s’incontrano 6 riferimenti che hanno attinenza con
l’uso della facoltà visiva: 3 volte (vv. 1 e 2) si ripete la parola “visione” (chazôn),
2 volte (vv. 4 e 7) ricorre la voce verbale “io vidi” (ra’îthî) e 1 volta (v. 3) si
legge l’espressione “alzai gli occhi e guardai” (wa’essa’ ’enay wa’er’eh). È evi-
dente che l’attenzione di Daniele in questa parte della visione è concentrata sulle
figure simboliche che scorrono davanti ai suoi occhi.
Nel v. 12, con un attacco mosso alla “continuità” e un oltraggio inflitto alla
“verità”, si conclude l’attività del “corno” contro il “Principe”, il suo “esercito” e il
suo tamîd (“continuità”), e con essa si chiude anche la parte “visiva” della rivela-
zione.
Nelle versioni moderne della Bibbia la prima parte del v. 12 è resa con no-
tevoli differenze di senso. Si confrontino le seguenti traduzioni italiane:

“L’esercito gli fu dato in mano col sacrificio perpetuo a motivo della ribel-
lione; e il corno gettò a terra la verità e prosperò nelle sue imprese” (Luzzi).

“Una milizia fu incaricata del sacrificio perpetuo sacrilego e la verità fu get-


tata a terra. Ciò si fece e vi riuscì” (Bernini)

“E fu posto sul sacrificio quotidiano il peccato e si gettò a terra la verità; e ciò


si fece e si riuscì” (Rinaldi)

“In luogo del sacrificio quotidiano fu posto il peccato e fu gettata a terra la


verità. Ciò esso fece, e vi riuscì” (TOB)

“Una stele fu collocata nel luogo del sacrificio perpetuo con empietà e fu get-
tata a terra la verità. Così fece ed ebbe successo” (Bibbia Concordata)

Alcune osservazioni s’impongono.

1. A parte le prime due traduzioni, le altre omettono il vocabolo “eser-


cito” o “milizia” (tzava’) che si trova nell’originale.
2. Tutte le traduzioni riportate sopra aggiungono il termine “sacrificio”
che manca nell’ebraico (il Luzzi vi supplisce anche la parola “corno”).
3. In tutte le versioni citate sopra si nota la preoccupazione dei traduttoti
di armonizzare la prima parte del versetto col fatto storico della profanazione
del tempio giudaico perpetrata da Antioco Epifane nel 167 a.C. (vedi 1Mac-

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CAPITOLO 8

cabei 1:54; 2Maccabei 6:1-2). Le versioni moderne interpretano il testo origi-


nale più che tradurlo.

Proviamo a leggere il passo nell’ebraico: ;hfxyilc : h


i wº hft&
: (f wº hfcr
: )
a tem)
E \"l$
: t
a wº (a$pf B
:
dyimTf h f wº wetzava’ tinnathen ‘al hattamîd befasha‘ wetashlek ’emeth
a -la( }"tNæ Ti )fbc
’artzâh we’ashtah wehitzlîchah.

Letteralmente: Un esercito fu dato sopra la continuità nella trasgres-


sione, e si gettò la verità a terra; si fece e riuscì.

L’interpretazione del passo che sarà data di seguito si attiene all’analisi che ne fa
Hasel nell’opera citata alle pagine 416-420.
Il sostantivo tzava’, “esercito”, può essere tenuto come il soggetto della pro-
posizione perché precede il verbo (tinnaten, “dato”). Detto sostantivo essendo
indeterminato (non è preceduto dall’articolo) si dovrebbe mantenerlo distinto
dallo stesso sostantivo nei vv. 10 e 11. In altre parole, “l’esercito” che agisce in
questo versetto non è lo stesso “esercito” contro il quale si volge l’attacco del
“corno” nel v. 10.
“La continuità” (hattamid) è la stessa entità menzionata nel v. 11 (il sostan-
tivo è preceduto dall’articolo).
“Esercito dunque nel v. 12 designa qualcosa che va contro ‘la continuità’ e
deve essere messo in relazione col ‘corno’, in definitiva è l’esercito del ‘corno’
che si pone contro la ‘continuità’ del ‘Principe’. In questo contesto l’azione de-
scritta nel v. 12 sembra suggerire l’idea che un esercito del piccolo corno nella
forma di Roma ecclesiastica (questo simbolo può essere riferito al clero) sia inve-
stito del potere di opporsi alla continuità, cioè al ministero ininterrotto di media-
zione e intercessione del celeste Principe dell’esercito. L’intercessione, la media-
zione ed altri benefici connessi col tamîd sono completamente in potere
dell’esercito del ‘piccolo corno’”294.
Tinnaten è la forma passiva (nifal) femminile del verbo natan, “dare”. La
preposizione ‘al (“sopra”), che nel testo in esame segue il verbo tinnaten,
spesso, alla stessa stregua della preposizione be (“in”), ha il senso peggiorativo
di “contro”295. Il verbo natan, “dare”, associato alla preposizione ‘al (o alla pre-
posizione be), acquista il senso negativo di “porre contro”, “far ricadere su”296.

294 - G. HASEL, op.cit., pp. 416-417.


295 - Cfr. P.P. JOÜON, Grammaire de l’hebreu biblique, p. 407.
296 - 1Re 8:32: “... facendo ricadere sul suo capo...”, ebraico: ...latheth (dal verbo nathan)
darkô ber’osho (vedi anche 2Cr 6:23; Ez 7:3,4: “... ti farò ricadere addosso...”, ebraico: we-
naththathi (dal verbo nathan) ‘alaîk ... (vedi anche 9:10; 11:21; 16:43; 17:19; 22:31).

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CAPIRE DANIELE

In definitiva, il “piccolo corno” ha posto qualcosa contro il ministero conti-


nuo del “Principe dell’esercito” e ciò facendo ha commesso una trasgressione
(befasha‘, “con trasgressione”).
Nella seconda proposizione del v. 8: wetashlek ’emet ’artzâh, “e gettò la ve-
rità a terra”, il verbo è ancora al femminile; esso può dunque avere come sog-
getto tanto il qeren (“corno”) del versetto precedente, quanto lo tzava’ (“eser-
cito”) nominato in questo versetto, dal momento che entrambi i sostantivi
nell’ebraico sono di genere femminile. Fu dunque il “corno”, o l’“esercito” del
corno, che gettò a terra la verità.
’Emet, “verità”, spesso nell’Antico Testamento è usato in riferimento alla
vera dottrina e al vero culto divino (W.GESENIUS). In Sl 119:142 ’emet è associato
alla Parola di Dio: ûthoratkâ ’emet, “la tua legge è verità”. Questo vocabolo in al-
tri punti del libro di Daniele (8:26; 10:1, 21; 11:2) è riferito alla rivelazione che
procede da Dio.
“Sulla base di questi usi del vocabolo - spiega Hasel - ‘verità’ nel v. 12 può
comprendersi come un riferimento alla rivelazione di Dio nel suo insieme, com-
prese ‘la legge di Mosè’ e la rivelazione apocalittica contenuta nello stesso libro
di Daniele. Questo contesto danielico corrobora l’idea che ‘verità’, qui nel v. 12,
si riferisca alla divina verità della rivelazione che il corno getta a terra. Tale verità
rivelatoria contiene le istruzioni relative al culto, alla salvezza e ad altri temi cor-
relativi compreso il tema sul piano di Dio attinente all’instaurazione dei regni
della grazia e della gloria”297.
L’idea espressa dai due verbi che concludono il versetto è chiara: il potere
simboleggiato dal “piccolo corno” riesce nelle sue imprese volte a contrastare
l’azione di Dio. Ma solo in apparenza, giacché nella realtà Dio mantiene il con-
trollo della situazione.

13 Poi udii un santo che parlava; e un altro santo disse a quello che
parlava: “Fino a quando durerà la visione del sacrifizio continuo e
la ribellione che produce la desolazione, abbandonando il luogo
santo e l’esercito ad essere calpestati?”

È stata notata nel libro di Daniele una correlazione costante fra cielo e terra. Nel
cap. 2 i quattro metalli che compongono la statua vista in sogno dal re di Babilo-
nia evocano realtà “orizzontali”, terrene; mentre la pietra che cade dall’alto e
frantuma la statua richiama ad una realtà “verticale”, celeste.
Nel cap. 7 il giudizio e l’instaurazione del Regno eterno di Dio (realtà “verti-

297 - G. HASEL, op.cit., p. 419.

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CAPITOLO 8

cale”) fanno seguito alle attività delle 4 bestie e del “piccolo corno” (realtà “oriz-
zontale”).
Nei capp. 11 e 12 da una successione di eventi terreni che coinvolgono di
volta in volta le potenze del mondo (la Medo-Persia, la Macedonia, i regni elleni-
stici e l’Impero romano), realtà “orizzontali”, si passa all’entrata in scena di Mi-
cael che redime i giusti alla risurrezione dei morti (realtà “verticale”).
Il cap. 8 non fa eccezione: prende l’avvio dall’ambito delle cose terrene, poi
si eleva in “verticale” svelandoci una violenta aggressione portata dal “corno”
contro il “Principe” del cielo e culmina con l’audizione che introduce piena-
mente nella realtà celeste.
Nel v. 12, come abbiamo visto, si è conclusa la fase “visiva” della rivela-
zione. Col v. 13 ha inizio una nuova fase nella quale il profeta deve impegnare
soprattutto la facoltà auditiva. Due volte (vv. 13 e 16) egli dice: “e udii” (hf(m
: $
: )
e wæ
wa’eshme‘ah), e 3 volte (vv. 14, 17 e 18) usa l’espressione “e disse” (wayy’omer).
Attonito per le cose sconvolgenti che ha visto nella parte finale della visione,
Daniele assiste adesso a un dialogo fra due esseri celesti. Il dialogo verte precisa-
mente su quelle attività dissacratorie del “corno” che hanno scosso il profeta.
La maggior parte delle versioni moderne della Bibbia traduce il passo in
modo da lasciar capire che la domanda dell’uno dei “santi” rivolta all’altro ri-
guardi la durata dell’attività maligna del “corno”:
“Poi udii un santo che parlava; e un altro santo disse a quello che parlava:
‘Fino a quando durerà la visione del sacrificio continuo e la ribellione che pro-
duce la desolazione abbandonando il luogo santo e l’esercito ad esser calpe-
stati?” (così la versione di Luzzi).

Altre versioni rendono il passo sostanzialmente alla stessa maniera:

“Udii un santo parlare e un altro santo dire a quello che parlava: ‘Fino a
quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la desola-
zione dell’iniquità, il santuario e la milizia calpestati?” (TOB)

“Udii parlare un santo e un altro santo disse a quel tale che parlava: ‘Fino a
quando durerà la visione, vale a dire, fino a quando il sacrificio perpetuo
sarà abolito, l’iniquità devastatrice sussisterà, e il santuario con il suo eser-
cito sarà calpestato?” (Concordata)

“Allora intesi un santo che parlava e un alto santo disse a quel tale che par-
lava: ‘Fino a quando durerà la visione: il sacrificio perpetuo rimosso, l’em-
pietà devastatrice che vi è stata installata e la milizia conculcata?” (Bernini)

In queste traduzioni sono aggiunte delle parole che nel testo originale non ci

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CAPIRE DANIELE

sono (le forme verbali durerà, abolito o rimosso, sussisterà ed il sostantivo sacri-
ficio). S’avvicina un po’ di più all’ebraico la traduzione di G.Rinaldi:

“Or io udii un santo parlare, e un altro santo disse a quel tale, che parlava:
‘Fino a quando la visione: il sacrificio quotidiano abolito e il peccato deva-
statore posto là e il santuario e il celeste esercito oggetto di conculcazione?”

Questo traduttore non aggiunge il verbo “durerà”. Si deve comunque ricono-


scere che il testo ebraico è alquanto oscuro:;sfmr
: m
i )fbc
f wº $edoqwº t"T {"mo$ (a$Pe h
a wº
dyimT
f h
a }Ozfxh f -da( ‘Ad matay hachazôn hattamîd wehappesha‘ shomem teth
e yatm
weqodesh wetzava’ mirmas?

Letteralmente: Fino a quando la visione, la continuità e la trasgres-


sione desolante (cioè che produce desolazione) e il santuario e l’esercito
calpestati?

Si ha l’impressione che effettivamente manchino delle parole nella frase. Ma il


supplirle congetturalmente, come si è fatto, comporta - è naturale - il rischio di
alterare il pensiero originale. Conviene meglio procedere ad un’accurata analisi
filologica e contestuale del passo. È quello che ha fatto Hasel298, noi seguiremo
la sua analisi.
‘Ad è una preposizione temporale: “fino a”, e il vocabolo che segue,
mathay, è un avverbio interrogativo di tempo: “quando...?” L’aggiunta della
forma verbale “durerà” nella maggior parte delle traduzioni moderne altera il
senso della domanda. La frase interrogativa: ‘ad matay...? (“fino a quando...?”)
esprime non già durata, ma limite di tempo. Quel che si vuol sapere non è
quanto durerà l’azione devastante del “corno” (l’attacco mosso al tamîd, la tra-
sgressione che cagiona desolazione e l’oltraggio fatto al santuario e all’ “eser-
cito”), ma quando tutto questo finirà.
Ben a proposito Hasel ricorda che l’angelo-interprete svela a Daniele in ter-
mini espliciti il tempo futuro a cui si riferisce la visione: “questa visione concerne
il tempo della fine”, }Ozfxhe j"q-te(l : yiK kî le‘eth qetz hechazôn (v. 17); e ancora:
“poiché si tratta del tempo fissato per la fine”, j"q d"(Om:l yiK kî lemô‘ed qetz (v.
19); e di nuovo: “la visione delle sere e delle mattine... è vera”, ma “si riferisce a
un tempo lontano”, {yiBr a {yimyæ l
: tem)
E reqoBh
a wº ber(e h
f h")r a U ûmar’eh ha‘erev wehab-
: m
boqer... ’emeth... leyamîm rabbîm (v. 26).
“Siffatta enfasi posta sul tempo della fine nel v. 8 - sottolinea testualmente il

298 - Op. cit., pp. 439-448.

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CAPITOLO 8

nostro Autore - avvalora il senso di fine di un tempo che abbiamo dato al dia-
logo in forma di domanda/risposta nei vv.13 e 14”299.
La comprensione del responso dell’interpellato nel v. 14 ovviamente ri-
chiede a monte la comprensione dei termini con i quali l’interpellanza è stata
formulata nel v. 13. I termini su accennati, ricordiamolo ancora una volta, sono:
“continuità” (tamîd), “trasgressione” (peshâ‘), “desolazione” (shomem) e “santua-
rio” (qodesh) (il senso di “esercito” - tzeva‘ - è già stato chiarito).
Si è già osservato come l’aggiunta del vocabolo “sacrificio” a “continuità”
letta come aggettivo (“continuo”), sia un’operazione non autorizzata dal contesto
né - aggiungiamo qui - dai manoscritti.
Nell’ebraico non c’è alcun aggettivo che qualifichi il termine tamîd e i nu-
merosi manoscritti masoretici di Daniele esistenti hanno tutti l’identica forma.
Thamîd nel v. 13 ha lo stesso significato che nei vv. 11 e 12: il vocabolo si riferi-
sce al ministero sacerdotale ininterrotto di Gesù Cristo nel santuario celeste.
Il termine ebraico per “trasgressione”, peshâ‘, è “la parola più profonda
usata nel Antico Testamento per esprimere il concetto di ‘peccato’”300. Fonda-
mentalmente questa parola significa “ribellione” nel senso di azione mediante
cui “uno interrompe ogni rapporto con Dio sottraendogli ciò che è suo, deru-
bandolo, appropriandosi fraudolentemente di ciò che gli appartiene”301.
Il nostro Autore ha studiato le connessioni terminologiche e teologiche fra
pesha‘ e vari contesti scritturali. In Dn 9:24 il vocabolo compare nella frase: “per
porre fine alla trasgressione (pesha‘)”. Dio ha fissato un tempo entro il quale
Israele dovrà far cessare la “trasgressione”.
In Le 16:16 e 21 pesha‘ è usato nel contesto della purificazione del santua-
rio nel giorno dell’espiazione. Sia in Dn 9:24 che in Le 16:16,21 questo vocabolo
è usato in relazione col popolo di Dio (in Le 16 l’enfasi cultico-giudiziale è ine-
quivocabile ed un contesto cultico è evidente in Dn 8:11-14). La “trasgressione”
a cui si allude in Dn 8:11-14 può essere la trasgressione alla quale il popolo di
Dio è stato trascinato mediante l’attività del “piccolo corno”.
Il participio shomem in certe versioni della Bibbia è tradotto “causante or-
rore”, in altre è reso “che produce la desolazione” (Luzzi) e da certi espositori è
stato accostato all’espressione “abominazione della desolazione” ricorrente in Dn
9:27, 11:31 e 12:11. In realtà in questi 3 passi l’unico elemento comune è il ter-
mine shomen; a parte questo “non ci sono due espressioni che siano identi-
che”302.

299 - Ibidem, p. 430.


300 - L. KÖHLER, Old Testament Theology, p. 170, citato da HASEL, op. cit., p. 440.
301 - R. KNIERIM, “pesha‘ Verbrechen”, THAT, 2:493, citato da HASEL, op.cit., p. 440.
302 - H.H.ROWLEY riportato da HASEL, op. cit., p. 441.

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CAPIRE DANIELE

Alcuni autori hanno collegato l’espressione wehappesha‘ shomem (resa in


qualche versione “la ribellione che produce la desolazione”) alle parole di Gesù
in Mt 24:15: “Quando dunque avrete veduta l’abominazione della desola-
zione, della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo (chi legge
pongavi mente)...”. Hasel osserva che da come ne parla Gesù risulta chiaro che
la profezia nel suo tempo non si era ancora adempiuta. Poi si pone la domanda
se Gesù in Mt 24:15 si riferisca davvero a Dn 8:13.
La fraseologia scelta da certi traduttori per tradurre Dn 8:13 e Mt. 24:15 - os-
serva - parrebbe presupporlo. Ma nel testo greco che soggiace alla frase “l’abo-
minazione della desolazione” nella traduzione di Mt. 24:15 - puntualizza Hasel -
l’espressione è to bdelygma tas eremoseos, un’espressione molto simile a quella
che si trova nella traduzione di Dn 11:31 nella versione greca di Teodozione:
bdelygma eremoseos è identica alla traduzione della stessa frase in Dn 12:11: to
bdelygma tes eremoseos. I LXX rendono l’espressione ebraica wehappesha‘ sho-
men in Dn 8:13 he hamartia eremoseos. In queste traduzioni si riflette la termi-
nologia ebraica differenziata usata in Dn 8:13 da una parte e 11:31 e 12:11
dall’altra.
Il termine bdelygma - spiega Hasel richiamandosi a W. BAUER e ad altre au-
tori - significa “abominazione” e traduce l’ebraico shiqqutz. Si può dunque osser-
vare che dal punto di vista della linguistica la frase di Mt 24:15 (“l’abominazione
della desolazione”) non deriva da Dn 8:13 (o 9:27) ma piuttosto da Dn 12:11 e
possibilmente da 11:31.
“In breve - ne deduce il nostro Autore - l’attività descritta in Dn 8:13 con la
frase ‘la trasgressione che provoca orrore’ non è identica a quella con cui Gesù
in Mt 24:15 descrive ‘l’abominazione della desolazione’. Gesù sembra fare riferi-
mento agli eventi descritti in 12:11 e verosimilmente anche in 11:31”303, ma non
in 8:13.
Il senso di shomem in 8:13 può essere chiarito dall’uso che si fa dello stesso
termine in altri punti del libro. In 8:27 ricorre una forma della radice shmm da
cui deriva shomem. Daniele dice di essere “spaventato” o “ costernato” (’eshthô-
mem) a motivo della visione.
L’uso differenziato di parole che provengono dalla stessa radice (shmm) -
osserva Hasel - consente di cogliere 3 idee: (1) uno stato psicologico caratteriz-
zato da orrore traumatizzante; (2) devastazione/desolazione quando il termine è
riferito a santuario/tempio; (3) giudizio decretato da Dio. E conclude: “Sulla base
di questo background la frase: ‘la trasgressione che provoca orrore’ sembra
esprimere un fortissimo raccapriccio suscitato dalla trasgressione cultico-religiosa

303 - HASEL, op. cit., p. 443.

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CAPITOLO 8

a cui ha dato origine il ‘piccolo corno’ mediante un sistema contraffatto di servi-


zio sacerdotale e di mediazione che rivaleggia col sistema celeste e induce gli
uomini a trasgredire la verità sulle attività redentive divine”304.
Nei vv. 11 e 13-14 due parole differenti ma aventi la stessa radice (qdsh):
miqdash (v. 11) e qodesh (vv. 13 e 14), in sostanza significano la stessa cosa. Mi-
qdash è reso “santuario” in varie versioni italiane (Luzzi, Rinaldi, Concordata)
mentre altre lo traducono “santa dimora” (CEI) o “oblazione” (Bernini). Qodesh
nei vv. 13 e 14 è reso concordemente “santuario” nelle versioni citate di solito in
questo commentario (TOB, Concordata, Bernini, Rinaldi, Luzzi; quest’ultimo nel
v. 13 lo traduce “luogo santo”). La TOB francese traduce uniformemente “santua-
rio” sia miqdash in 8:11 che qodesh in 8:13 e 14.
Hasel305 sostiene l’identità di senso dei due termini contro quegli autori che
li distinguono semanticamente (MARTI, PLOGER, HASSLBERGER) riconoscendo al
primo il significato di “santuario” e annettendo al secondo quello di “cose sante”,
“disposizioni” e “istituzioni religiose” o di “sacri insegnamenti”. A questi autori il
nostro teologo oppone un’argomentazione scritturale convincente che riprodu-
ciamo nelle righe che seguono.
Nell’Antico Testamento qodesh ricorre non meno di 469 volte, 326 nella
forma singolare allo stesso modo che 8:13-14. Come nome astratto qodesh può
riferirsi alla santità di Dio (Es 15:11; Is 52:10 ecc...), ma in senso concreto spesso
designa il santuario terreno (Es 36:1; Le 4:6; Nu 3:28, 31-32; 1Cr 22:19; Is 43:28;
Ml 2:11; Sl 68:24 ecc...), e qualche volta anche il santuario dei cieli (Sl 60:6; 68:5;
102:19 ecc...). Talora qodesh designa il luogo santissimo del santuario (Le 16:2;
Ez 41:21,23).
Con valore di aggettivo qodesh è associato a “sacerdoti” (Le. 21:6) e a “le-
viti” (2Cr 23:6 ecc...); a volte qualifica il popolo di Dio (Is 62:12; Dn 12:7 ecc....).
Ma nell’Antico Testamento neanche una volta sola - puntualizza Hasel - questo
termine designa “disposizioni” e “istituzioni religiose”, “sacri insegnamenti” e si-
mili in senso collettivo.
L’uso di qodesh nelle Scritture ebraiche aiuta a chiarire il senso del termine
in 8:13-14. In questo contesto danielico qodesh fa parte dei termini e delle frasi
che ricapitolano i concetti espressi nei vv. 11 e 12 dove compare il vocabolo mi-
qdash, che qodesh ricapitola nei vv. 13-14.
Entrambi questi termini ricorrono con frequenza nell’Antico Testamento
come designazioni del santuario/tempio sia terreno che celeste.
Nell’audizione che comincia in 8:13, qodesh ricompare con ulteriori implica-
zioni. Una è rilevabile inequivocabilmente nell’espressione “il ‘luogo’ santissimo”
(qodesh qodashîm) riferita al “santuario” in 9:24.

304 - Ibidem, p. 443.


305 - Ibidem, pp. 445-446.

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CAPIRE DANIELE

“L’unzione del santuario dei cieli è il preludio dell’epilogo di quella ‘purifi-


cazione’ del santuario alla quale si allude in 8:13-14”.
Un’altra implicazione ha attinenza diretta col popolo di Dio o con i termini
usati in altre parti del libro per designarlo. Il cap. 7 menziona ripetutamente “i
santi dell’Altissimo” (aramaico: qaddîshe ‘elyônîn), detti anche “il popolo dei
santi dell’Altissimo” (‘am qaddîshe ‘elyônîn).
Ai “santi dell’Altissimo” perseguitati dal “piccolo corno” è “resa giustizia”
(7:22 Concordata, TOB) nel giudizio dell’Altissimo che precede l’avvento del re-
gno eterno che i “santi” riceveranno dalle mani del Figlio dell’uomo.
Anche nel cap. 8 il “corno” che nasce “dalla piccolezza” perseguita il “po-
polo dei santi” (‘am qedoshîm, v. 24). E finalmente avrà fine la dissipazione delle
“forze del popolo santo” (‘am qodesh) (12:7). Queste associazioni terminologiche
e concettuali di qodesh col santuario, i santi ed il giudizio nel libro di Daniele -
dice Hasel - non possono essere accidentali: qodesh in 8:13 mira a stabilire delle
connessioni terminologiche e concettuali per chiarire i punti di massima tensione
delle visioni dei capitoli 7, 8-9 e 11-12.
Evidenziate le implicazioni di qodesh (“santuario”) in daniele, Hasel ritorna
su 8:13 per rilevare che nella frase “il santuario e l’esercito dati ad essere calpe-
stati” non si può scorgere una correlazione sintattica fra i termini “santuario” (qo-
desh) ed “esercito” (tzava’). “Esercito - egli dice - ricapitola quanto lo stesso ter-
mine esprimeva nel v. 10, ovvero il popolo di Dio identificato come “il popolo
dei santi” nel v. 24. Il “santuario” e “l’esercito” sono abbandonati ad un “calpe-
stio”. Mirmas come sostantivo nell’Antico Testamento compare con due sole atti-
nenze, dice Hasel:
(1) il calpestio del terreno coltivato da parte degli animali da pascolo
(Is 5:5; 7:25; Ez 34:19);
(2) il calpestio del popolo da parte del nemico (Is 10:6; 28:18; Mic
10:7). In Is 1:12 una forma verbale dalla quale deriva mirmas è usata in un
contesto cultico. Si allude in questo passo agli adoratori e agli animali sacri-
ficali che calcano i sacri cortili del tempio.

Nelle forme verbali e nominali derivate dalla radice rms manca qualunque idea
di contaminazione o dissacrazione. Mirmas in 8:13 esprime il concetto di preva-
ricazione a danno del “santuario” e dell’ “esercito”.
“Abbiamo condotto con accuratezza la nostra indagine in merito alla do-
manda formulata in 8:13 - conclude Hasel - con l’intento di farne emergere il si-
gnificato dal testo stesso letto alla luce del contesto del capitolo, del libro di Da-
niele e della Bibbia in generale.
Da questa indagine è risultato chiaro che il tenore della interpellanza
orienta alle cose che dovranno accadere al termine della visione. L’espressione
temporale in 8:13 non è incentrata su quello che avverrà durante il lasso di

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CAPITOLO 8

tempo contemplato nella visione, dirige bensì l’attenzione verso il punto termi-
nale di questo lasso di tempo ed oltre”306.

14 Egli mi disse: “Fino a duemila trecento sere e mattine; poi il san-


tuario sarà purificato”.

Il responso dell’essere celeste è rivolto non all’altro essere celeste che lo ha sol-
lecitato con la sua domanda, ma al profeta che ha assistito al dialogo fra i due:
“Ed egli mi disse...”, yal)" rem)oYwá wayy’omer ’elay... L’angelo-rivelatore parla a Da-
niele come se avesse letto nel suo pensiero un intenso desiderio di conoscere il
tempo futuro in cui terminerebbe infine la guerra accanita del “corno” contro il
celeste “Principe”, il suo “santuario” ed il suo “esercito”.
La rivelazione dell’angelo è diretta e concisa: “Fino a duemilatrecento sere-
mattine...”, tO)"m $ol$: U {éyPa l a reqoB ber(e da( ‘ad ‘erev boqer ’alpaym ûshelosh
: )
me’oth... Interpellanza e responso iniziano con la stessa parola: ‘ad, “fino a”. Se-
gno che interpellante e interpellato hanno in mente la stessa cosa: un punto di ar-
rivo, una scadenza (non una durata come interpretano generalmente le versioni).
Questo punto d’arrivo è posto al termine di un periodo di “2300 sere-mattine”.
Gli studiosi di Daniele - e non soltanto quelli contemporanei - che abbas-
sano al II secolo a.C. la data di composizione del libro, sono concordi nel dire
che l’espressione del testo ebraico ‘erev-boqer ’alpaym ûshelosh me’ôth, “due-
mila-trecento sere-mattine” indica il numero totale di sacrifici tamîd (“continui”)
che furono soppressi nel tempio di Gerusalemme durante la persecuzione di An-
tioco Epifane tra il 167 e il 164 a.C. Poiché ogni giorno si immolavano nel tem-
pio gerosolimitano due olocausti - uno al mattino e uno la sera - 2300 sacrifici si
offrivano in 1150 giorni (così A.BENTZEN, K.MARTI, J.A.MONTGOMERY, N.W. POR-
TEOUS, O.PLÖGGER, M.DELCOR, A.LACOCQUE ed altri seguiti quasi senza eccezioni
dai commentatori e dai compilatori delle note delle versioni)307.
Contro il dimezzamento delle 2300 sere-mattine militano però serie diffi-
coltà che gli espositori conservatori non hanno mancato di rilevare. Hasel le ha
riassunte nei punti seguenti:

1. Nel linguaggio del rituale sacrificale quotidiano il doppio sacrificio


del mattino e della sera è designato invariabilmente con l’espressione “olo-

306 - Ibidem, p. 448.


307 - Vedi G.RINALDI, Daniele, pp. 117-118; G.BERNINI (come interpretazione alternativa),
Daniele, p.238; Bibbia Concordata, nota a Dn 8:14; Traduzione ecumenica, TOB (col testo
della CEI), nota X a p. 1640; Bibbia di Gerusalemme, testo della CEI (come opzione possibile)
nella nota a Dn 8:14 a p. 1935.

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CAPIRE DANIELE

causto continuo” al singolare (dyimTf talo(‘olath tamîd). Questa espressione è


applicata, con un’unica eccezione (Nu 28:23), ai due olocausti quotidiani in-
sieme308. Ogni ‘olath tamîd comprendeva due sacrifici quotidiani, non uno
solo309. Pertanto la divisione in due del ‘olath tamîd - e conseguentemente
delle 2300 sere-mattine in 8:14 - è arbitraria.

2. Nel linguaggio della liturgia sacrificale dell’Antico Testamento, per


quanto attiene al doppio sacrificio quotidiano l’ordine di successione dei
due olocausti è invariabilmente mattina e sera, mai sera e mattina 310. Dun-
que l’espressione “sere-mattine” in 8:14 non è riferita ai sacrifici tamîd ma
ad un periodo di tempo.

3. La separazione delle “sere” e delle “mattine” allo scopo di dimezzare


il numero 2300 non ha alcun sostegno esegetico. L’espressione “sera e mat-
tina” per designare un giorno intero compare per la prima volta nel rac-
conto della creazione in Ge 1: “fu sera e fu mattina, e fu il primo giorno”,
e {Oy reqob-yihyº wá ber(e -yihyº wá wayhî ‘erev wayhî voqer yom ’echad (l’espres-
dfx)
sione si ripete 6 volte). Daniele per indicare i giorni profetici usa il linguag-
gio lapidario del racconto della creazione (S.J. SCHWANTES).
C.F. KEIL311 osserva con ragione: “Un lettore ebreo non potrebbe ca-
pire il periodo temporale (di) 2300 sere-mattine... (come equivalente a)
2300 mezze giornate o 1150 giorni completi, poiché alla creazione sera e
mattina costituirono un giorno pieno e non due mezze giornate... Dob-
biamo dunque prendere le parole così come sono, vale a dire dobbiamo
comprenderle nel senso di 2300 giorni completi”.
Gli ebrei quando volevano indicare separatamente i giorni e le notti
numeravano gli uni e le altre: “quaranta giorni e quaranta notti”, “tre giorni
e tre notti” (cfr. Es 34:28; 1Re 19:8; Gion 2:1; Mt 12:40). “Quaranta giorni e
quaranta notti” non significava 20 giorni pieni ma 40 giorni di calendario.
Correttamente i LXX traducono “2300 giorni” l’espressione ebraica “2300
sere-mattine”.

308 - “Questo è il sacrificio mediante il fuoco che offrirete all’Eterno: degli agnelli dell’anno,
senza difetti, due al giorno come olocausto perfetto (‘olath thamîd)”. Nu 28:3. In Nu 28 e 29
l’espressione ‘olath thamîd (“olocausto continuo”, al singolare), è riferita 15 volte al doppio
olocausto quotidiano (28:3,4,10,15,31; 29:11,16,19,22,25,28,31,34,38). L’unica eccezione
in 28:23 non invalida quest’uso costante.
309 - Vedi S.J. SCHWANTES, “‘Ereb Boqer of Daniel 8:14 Re-examined” in Symposium on Daniel,
pp. 462 e seguenti
310 - Vedi Es 29:39; Le 6:12,13; Nu 28:4, II Re 16:15; 1Cr 16:40; 23:30; 2Cr 2:4; 13:11; Ed 3:3.
311 - Biblical Commentary on the Book of Daniel, Grand Rapids 1949, p. 630, citato da
G.HASEL, op. cit., p. 432.

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CAPITOLO 8

4. Comunque, che le 2300 “sere-mattine” si comprendano corretta-


mente come 2300 giorni pieni o erroneamente come 2300 mezze giornate,
resta il fatto incontestabile che nessun periodo di 6 anni, 4 mesi e 20 giorni
(a tanto corrisponderebbero 2300 giorni di calendario considerando l’anno
di 360 giorni), o di 3 anni, 2 mesi e 10 giorni, da riferire a un episodio della
campagna antigiudaica di Antioco IV è deducibile dai due libri dei Macca-
bei o dagli scritti di Giuseppe Flavio.
C.H.H. WRIGHT312 scrive: “Tuttavia, che si consideri questo periodo
come equivalente a 2300 o a 1150 giorni, i tentativi di armonizzarlo con
un’epoca storica specifica menzionata nei libri dei Maccabei o in Giuseppe,
sono falliti...
Ha ragione il prof. Driver - conclude Wright - quando dichiara: ‘Sem-
bra impossibile trovare due eventi separati da 2300 giorni (6 anni e 4 mesi)
che corrispondano ai fatti descritti’”.
La profanazione del tempio ad opera di Antioco durò esattamente 3
anni e 10 giorni (vedi 1Maccabei 1:54; 4:52) , cioè 1090 giorni di calendario.
C’è un divario di 60 giorni rispetto ai presunti 1150 giorni, un divario che
non si spiegherebbe se il libro fosse stato davvero composto al tempo dei
Maccabei! Senza contare il fatto che il dimezzamento dei 2300 giorni è co-
munque un’operazione arbitraria perché non sostenibile biblicamente.
All’argomentazione del Dott. Hasel aggiungiamo una nostra considerazione.
Le profezie di Daniele hanno di regola uno sbocco escatologico (cfr. 2:44;
7:25-26; 12:1-3). Quella riportata nel cap. 8 non fa eccezione. Gli eventi pre-
detti in questo capitolo si estendono dall’età persiana (v. 20) sino alla fine
dei tempi (v.19).
I primi 8 versetti del capitolo anticipano profeticamente eventi storici
che si sarebbero svolti lungo un arco di tempo di circa 240 anni (dal sor-
gere dell’Impero medo-persiano al tramonto dei regni ellenistici). Poi sa-
rebbe sorto il potere raffigurato dal “piccolo corno” (vv. 9-12) che avrebbe
agito a suo talento sino alla sua finale distruzione “senz’opera di mano”,
r"b<
f yé dæy sep) : U ûve’efes yâd yishshaver (v. 25). L’identica espressione in 2:34
e b
è interpretata da Daniele nei vv. 44-45 come un intervento risolutivo di Dio
alla fine dei tempi. Comprimere in soli 3 anni di calendario una successione
di eventi di così vasta portata come sono quelli descritti in 8:9-12 e interpre-
tati nei vv. 22-25, ci sembra francamente un’impresa disperata!
È sana norma esegetica riconoscere valore simbolico a riferimenti tem-
porali inseriti in contesti letterari simbolici. Questo principio è stato com-

312 - Citato da G.HASEL, op. cit., nota 25, pp. 432-433.

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CAPIRE DANIELE

preso a applicato fin dagl’inizi del IX secolo in ambito ebraico e a partire


dalla seconda metà del XII secolo fra i cristiani. Sono stati numerosi, nei
due campi, gli espositori di Daniele che nei secoli seguenti hanno equipa-
rato ad anni storici i giorni profetici menzionati in questo libro313.
Un consenso ampio su un’interpretazione biblica è certamente una cir-
costanza confortante, ma non è di per sé sufficiente a garantire la corret-
tezza dell’interpretazione stessa. La prova del nove sta nel sostegno ogget-
tivo che quest’ultima può ricevere da una solida documentazione biblica.
Una siffatta documentazione sul principio di equivalenza giorno-anno nelle
profezie danieliche e offerta dal prof. WILLIAM H. SHEA314.

313 - Agl’inizi del IX secolo il dotto giudeo Nahawendi eguagliò ad altrettanti anni i 1290 e i
2300 giorni delle profezie di Daniele. Nel secolo X utilizzarono lo stesso principio per interpre-
tare le 70 settimane e uno o più di uno dei periodi di 1290, 1335 e 2300 giorni del libro di Da-
niele, i dotti giudei Saadia ben-Josef, Jeroham, Hakohen, Iefet ibn-Alì e Rashi. Nei secoli XI e XII
applicarono questo criterio esegetico ai più lunghi periodi profetici di Daniele i rabbi Hanasi e
Eliezer, e nel secolo XIII lo studioso giudeo Nahmanides (vedi LEROY EDWIN FROOM, The Prophetic
Faith of Our Fathers, Washington DC 1946,1950, vol. I, p. 713. Vedi anche ALFRED-FELIX
VAUCHER, Lacunziana I, 1949, pp. 54-56). Fra i cristiani l’abate calabrese Gioacchino da Fiore
(circa 1130-1202) fu il primo espositore delle profezie apocalittiche ad utilizzare il principio
giorno-anno per interpretare i lunghi periodi profetici di Daniele (i 1260, i 1335 e i 2300 giorni).
Lo seguirono il teologo laico spagnolo Arnoldo da Villanova (circa 1235- circa 1313), il france-
scano della Linguadoca Pierre Jean d’Olivi (1248-1298) e l’italiano Ubertino da Casale nato nel
1259 (vedi L.E.FROOM, op. cit., pp. 750-751; 772-773; 780).
L’escatologo ALFRED-FELIX VAUCHER nel suo saggio Les prophécies apocalyptiques et leur interpre-
tation (Collonges-sous-Salève 1972, p. 9) cita lo studioso William Bell Dawson (nato nel 1854)
il quale ha scritto: “Che un giorno nella profezia corrisponda ad un anno lo hanno riconosciuto i
principali esegeti dalla Riforma in poi” (“Solar and Lunar Cycles implied in the prophetical Num-
bers in the Book of Daniel” in Transactions of the Royal Soc. of Canada, 2d Series, XI, III, Ot-
tawa 1905, p.51).
A.F.Vaucher dice che “non basterebbero parecchie pagine per menzionare tutti gli autori prote-
stanti che si sono occupati dei 2300 giorni compresi come altrettanti anni” e ne nomina alcuni
fra i più noti: il fisico inglese Isaac Newton (1643-1727), l’astronomo valdese Jean Philippe
Loys de Cheseaux (1718-1751), il vescovo anglicano Thomas Newton (1704-1782), il crono-
logo William Hales (1747-1831), l’espositore Edward Bishop Elliott (1793-1853) (Les prophé-
cies apocalyptiques et leur interpretation, p. 10).
Fra gli autori cattolici che hanno interpretato i 2300 giorni di Dn 8:14 in termini di anni il Vau-
cher ricorda il canonico Claude Lesquevin (seconda metà del XVIII secolo), l’ebraicista Francois
Houbigant (1686-1783), il canonico giansenista Pierre Jourdan, morto nel 1746, il giurista
messicano José Maria Rosas-Gutierrez (1769-1848), Pierre Lacheze (1840), William Palmer
(1811-1879), Salvatore Di Pietro (1830-1898) ed altri (ibidem, p. 11).
314 - Vedi Appendice 8A a fine capitolo.

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CAPITOLO 8

In questo commentario l’equivalere dei “giorni” profetici delle visioni


danieliche ad anni storici è fondato primariamente sull’autorità della Scrit-
tura, come si dimostra nella nota 40, e solo secondariamente sul consenso
di un buon numero di interpreti distribuiti lungo un ampio arco di tempo.
Come già detto prima, qui si respinge l’interpretazione corrente delle
2300 sere-mattine di 8:14 in termini di mezze giornate di calendario, e si so-
stiene l’equivalere di questo periodo profetico a 2300 anni storici interi.
Annunciare un evento che si produrrà in capo ad un periodo di tempo
esattamente quantificato sarebbe una cosa futile se non fosse dato di poter
determinare con precisione la data di scadenza del periodo stesso. Daniele
non fornisce la data di scadenza dei 2300 giorni-anni annunciati in 8:14
(aspettarselo sarebbe pretendere troppo dalla profezia!), ma fa riferimento
ad un evento storico futuro cronologicamente determinabile che consente
di fissare nella storia l’inizio di quel periodo, e conseguentemente il suo
scadere. Prima di entrare nel merito però dovremo analizzare i termini del
v. 14, che fanno seguito all’elemento numerico allo scopo di cogliere il
senso e la portata dell’evento predetto per la fine dei 2300 giorni-anni.

L’angelo rivelatore rispondendo all’angelo che lo ha interpellato fa seguire


all’elemento numerico la frase: “poi il santuario sarà purificato” (G. Luzzi) o “giu-
stificato” (altre versioni). L’ebraico ha: $edoq qaDc
: né wº wenitzdaq qodesh.
Nitzdaq è la forma nifal (passivo semplice) del verbo tzadaq, “essere giu-
sto” “essere corretto”, “giustificare”, “rivendicare”, “rendere giusto”, “addurre alla
giustizia” (B. DAVIDSON).
Le versioni antiche traducono unanimemente nitzdaq: “sarà purificato” i LXX
e Teodozione, la Vulgata, la Siriaca e la Copta, dipendenti dai LXX, traducono
allo stesso modo. Si vedrà più avanti che la nozione di “purificazione” non è
estranea ai termini derivati dalla radice tzdq, secondo l’uso che ne fa l’Antico Te-
stamento. La maggior parte dei traduttori contemporanei si attiene però alle acce-
zioni comuni del verbo tzadaq. La Versione della CEI, per esempio, traduce nitz-
daq “sarà rivendicato”, la Concordata: “sarà resa giustizia”, la TOB francese: “sera
rétabli dans ses droits”, Bernini: “sarà fatta giustizia”, Rinaldi: “sarà giustificato”.
Hasel ha studiato la gamma piuttosto ampia di significati che esprime il
verbo ebraico tzadaq basandosi sui termini paralleli ricorrenti nella poesia
ebraica e sulle forme verbali affini usate nell’Antico Testamento.

1. Termini paralleli nella poesia ebraica. Giustamente, questo studioso


osserva che un procedimento importante per ricuperare i significati delle parole
ebraiche consiste nel confrontare i termini paralleli nei componimenti poetici
dell’Antico Testamento. Per quanto attiene alla radice tzdq, si è notato che vari
vocaboli derivanti da essa ricorrono in parallelismo coi termini zakah, “essere

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CAPIRE DANIELE

puro”, thaher, “essere pulito”, “netto”, e bor, “pulizia”, “nettezza”315.


In Gb 15:14 e 25:4 sono messi in parallelo zakah, “essere puro”, e tzadaq,
“essere giusto” (nelle forme yizkeh e yitzdaq). Il Sl 51:6 (51:4 nella Riveduta) re-
cita: “...perciò sei giusto (thitztzddak) quando parli, retto (tizqeh) nel tuo giudi-
zio” (Versione. CEI).
In Gb 4:17 compaiono in parallelo gli aggettivi tzaddîq, “il giusto”, e tahar
yadayîm, “il puro di mani” (Hasel nota che taher è il termine tipico dell’Antico
Testamento per indicare la purezza cultico-rituale, e cita Le 16:9, 30 dove il ter-
mine è usato in rapporto alla purificazione del Santuario).
Il Sl 18:20 pone in parallelo i sostantivi tzedeq, “giustizia”, e bor, “nettezza”:
ivi la “giustizia” dell’uomo retto è eguagliata alla “purezza delle sue mani”.
“Sembra ragionevole arguire sulla base di questi termini paralleli e delle
loro strette associazioni - conclude Hasel - che le nozioni di pulizia/purezza, net-
tare/purificare debbano considerarsi parte del contenuto semantico delle varie
forme di tzadaq secondo i loro usi contestuali. Si può pensare che l’unanimità
con cui le versioni antiche traducono “sarà nettato/purificato” l’ebraico nitzdaq
in 8:14, rifletta le suddette sfumature semantiche di netto/puro e nettezza/pu-
rezza che si colgono in questi termini sinonimi del parallelismo poetico
ebraico”316.

2. Forme verbali affini nell’Antico Testamento. Si conoscono una qua-


rantina di forme verbali della radice zdq le quali esprimono tutta una gamma di
sfumature di senso della radice stessa. Hasel menziona la forma qal (attivo sem-
plice) che significa “essere nel giusto”, “avere ragione”, “detenere la giusta
causa”, “essere giusto, retto”, “ rivendicare”; la forma piel (attivo intensivo) che
significa “dichiarare giusto”, “mostrare che qualcuno è giusto, innocente”, “voler
essere giusto”; la forma hifil (attivo causativo) che ha il senso di “rendere giusti-
zia”, “dichiarare giusto”, “giustificare”, “rivendicare”; e infine la forma hitpael (ri-
flessivo intensivo) che vuol dire “giustificarsi”. Dall’uso biblico delle varie forme
verbali derivate dalla radice tzdq - osserva Hasel - emergono tre idee fondamen-
tali che sono: giustificare, rivendicare, rettificare. Anche nelle lingue moderne
questi verbi evocano la corte di giustizia ed il processo giudiziario. Il nostro au-
tore cita vari passi di Isaia nei quali dei vocaboli derivati dalla radice tzdq ap-
paiono in stretta relazione con l’ambiente della corte di giustizia. In Is 43:9, per
esempio, il Signore rivolge ai popoli pagani una sfida in questi termini: “Produ-
cano i loro testimoni e stabiliscano il loro diritto” (tzadaq, forma qal). È il lin-
guaggio della giurisprudenza. È come se il Signore sfidasse le divinità pagane a

315 - G.HASEL, op. cit., p. 450.


316 - Ibidem, p. 451.

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CAPITOLO 8

portare la loro causa davanti a dei testimoni in una corte di giustizia. Il processo
deve, per così dire, stabilire il diritto di Yahweh di assolvere in giudizio: “Io son
quegli che per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni (pesha‘) e non mi
ricorderò più dei tuoi peccati (v. 25).
In Is 45:25 il Signore promette: “Nell’Eterno sarà giustificata (tzadaq, forma
qal) e si glorierà tutta la progenie d’Israele”. L’ambiente della corte giudiziaria
appare ancora in Is 50:8, nel “terzo canto del Servo di Yahweh”, dove si dice:
“Vicino è colui che mi giustifica (tzadaq nella forma hifil); chi contenderà meco?
Compariamo assieme! Chi è il mio avversario? Mi venga vicino!”
Hasel osserva che il verbo tzadaq, che appare in questi passi in un linguag-
gio giudiziario, non deve sorprendere giacché l’uso di tutta una varietà di forme
della radice tzdq - e in particolare delle forme nominali - appartiene al linguag-
gio forense e alla prassi giudiziaria dell’Antico Testamento. Infine riassume nei
punti seguenti i risultati della sua analisi:

a) L’uso che fa la Bibbia delle forme verbali e aggettivali della radice zdq
le colloca nel contesto del linguaggio della corte di giustizia e del processo giu-
diziario.
b) Diverse forme derivate da tzdq appartengono alla terminologia del
linguaggio forense.
c) Yahweh è colui che scagiona l’accusato ristabilendo il diritto col fargli
giustizia.
d) La questione su chi cancellerà “le... trasgressioni” (Is 43:25) deve es-
sere inquadrata in uno scenario che vede contrapposti Yahweh e le divinità
pagane.

Da tutto questo Hasel trae la seguente deduzione:


“L’associazione, all’interno di un quadro cosmico che vede coinvolti
Yahweh e le divinità pagane, dell’ambiente giudiziale e della rivendicazione di
Yahweh del potere di cancellare la trasgressione (pesha‘), può essere una chiave
di lettura per capire come mai in 8:14 sia usato il verbo nitzdaq. Anche 8:14 è
inserito in uno scenario cosmico dove si svolge una divina attività giudiziaria che
coinvolge e il santuario celeste e la trasgressione (pesha‘) del popolo di Dio.
In ogni caso lo scenario da corte di giustizia che compare in Dn 8 riguarda
il tempo della fine ed è illuminato con grande efficacia dalla parallela visione sul
giudizio in 7:9-19, 13-14.
“Queste considerazioni fondate su diversi elementi di prova - prosegue il
nostro Autore - orientano ad una comprensione di nitzdaq come una designa-
zione variegata che racchiude nella sua sfera semantica accezioni quali: ‘purifica-
zione’, ‘rivendicazione’, ‘giustificazione’, ‘rettificazione’, ‘restaurazione’. Comun-
que si traduca il termine ebraico nelle lingue moderne, la ‘purificazione’ del san-

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CAPIRE DANIELE

tuario implica nello stesso tempo reale purificazione, rivendicazione, giustifica-


zione e restaurazione.
“Si direbbe che Daniele abbia scelto il termine nitzdaq - un termine deri-
vante da una radice ricca di connotazioni ampiamente utilizzate in ambito giuri-
dico e nei procedimenti giudiziari - allo scopo di trasmettere con efficacia gli
aspetti interconnessi della ‘purificazione’ del santuario celeste nel contesto co-
smico del giudizio finale. Le accezioni ristrette e limitate di altri termini possibili
non avrebbero reso giustizia alle implicazioni di vasta portata dell’attività divina
nella corte celeste”317.
Ritornando sul tema del “santuario”, Hasel vede nel trapasso terminologico
da miqdash (“santuario”) in 8:11-12 a qodesh (“santuario”) nei vv. 13-14, un ri-
flesso della transizione dalla visione nei vv. 3-12 all’audizione nei vv. 13-14. La
ricapitolazione nel v, 13 dei misfatti del “piccolo corno” descritti nei vv. 10-12
può essere un indizio che qodesh nel v. 13 si riferisca al santuario celeste aggre-
dito da questo potere. Il v. 13 segnerebbe perciò il trapasso dalle cose accadute
nel passato a quelle che avverranno allo scadere delle 2300 sere-mattine nel
tempo della fine.
Il significato del trapasso da miqdash nella visione a qodesh nell’audizione
può essere illuminato attraverso uno studio del rituale dell’espiazione in Le 16.
Qodesh rappresenta un legame terminologico fra Dn 8:14 e Le 16. Sembra ovvio
- puntualizza l’Autore al quale stiamo facendo riferimento - che un ebreo a cui
era talmente familiare il rito sacrificale culminante ogni anno con la purificazione
del santuario nel Giorno dell’Espiazione, pensasse a questo rituale (il rituale
dell’Espiazione) quando udiva la frase nitzdaq qodesh (“il santuario sarà purifi-
cato”). In 1Cr 23:28 qodesh è posto in relazione diretta con taher, “purificare”: si
dice in questo passo che i sacerdoti avevano l’incarico della “purificazione
(thaher) di tutte le cose sante (qodesh)”, in pratica del santuario nel suo insieme.
Dn 8:14 usa un linguaggio che evoca associazioni cultiche, in particolare
con riferimento al Giorno dell’Espiazione che racchiudeva in sé nozioni come
purificazione, giustificazione, rivendicazione, nozioni che coinvolgevano tanto il
santuario quanto il popolo.
In Dn 8:8-12 manca qualunque accenno ad una contaminazione/profana-
zione del santuario ad opera del “piccolo corno”. In 8:11 l’attacco del “corno” è
diretto contro il “fondamento” del santuario e non contro il santuario stesso
(vedi commento a 8:11). Nella pericope che descrive l’attività del “corno” sono
oggetto di aggressione “l’esercito del cielo” e “le stelle” (v. 10), “il Principe
dell’esercito” (v. 11a), il servizio tamîd (vv. 11b-12a), “il fondamento” del santua-
rio celeste (v. 11c) e “la verità” (v. 12b).

317 - Ibidem, pp. 453-454.

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CAPITOLO 8

In breve il “piccolo corno” si erge contro il “Principe dell’esercito” con


l’usurparne le funzioni ed oltre a ciò ne perseguita il popolo. Questo quadro de-
sunto da 8:9-12 è avvalorato dalla interpretazione angelica in 8:23-25.
Al limite si può pensare che il “piccolo corno” contamini indirettamente il
santuario celeste. Poiché nell’antico Israele i peccati commessi per istigazione di
Satana contaminavano il santuario nel quale essi venivano trasferiti con la con-
fessione, era come se indirettamente fosse Satana stesso a provocare tale conta-
minazione. In questo senso si potrebbe dire che il “piccolo corno”, agente di Sa-
tana, abbia un ruolo indiretto nella contaminazione del santuario celeste318.
Ad ogni modo l’idea di una contaminazione del santuario ad opera del
“piccolo corno” è totalmente assente in Dn 9:8-12.
Attraverso il rituale annuale dell’Espiazione il santuario israelita veniva puri-
ficato dai peccati del popolo che vi si erano “accumulati” durante l’anno litur-
gico. Il Giorno dell’espiazione era un giorno di giudizio e redenzione, di purifi-
cazione e purgazione - osserva Hasel. Similmente, e in senso antitipico, nel
tempo della fine sarà “purificato” il santuario dei cieli dai peccati “accumulati”
fino allo scadere delle 2300 “sere-mattine”.
L’epistola agli Ebrei, nel Nuovo Testamento, attesta in modo esplicito que-
sto collegamento tipologico fra il santuario terreno e quello celeste laddove di-
chiara: “Era dunque necessario che i simboli delle realtà celesti fossero purificate
con tali mezzi; le realtà celesti poi dovevano esserlo con sacrifici superiori a que-
sti” (Eb 9:23, versione CEI).
“Le attività giudiziali e redentive a favore d’Israele che si svolgevano nel
santuario terreno nel Giorno dell’Espiazione hanno un corrispettivo nell’attività
giudiziale e redentiva che si svolgerà nel santuario dei cieli nel tempo della fine.
Abbiamo notato svariati collegamenti terminologici diretti fra Dn 8 e Le 16 - dice
Hasel - che accostano l’uno all’altro questi due capitoli. L’enfasi cultico-giudiziale
posta sul termine pesha‘ (‘trasgressione’) lega tra loro Le 16 e Dn 8 e 9. Il con-
cetto che esprime la parola ebraica qodesh (‘santuario’) ha un profondo corri-
spettivo in Le 16. L’idea che scaturisce da nitzdaq (‘purificato’), con la sua ricca
enfasi semantica, richiama alla mente con immediatezza il momento della ‘purifi-
cazione’ del santuario e del popolo di Dio in Le 16:16, 19, 30” (in nota l’Autore
richiama l’attenzione sul fatto che i LXX usano forme del vocabolo greco katha-
rizô, “purificare”, sia in Dn 8:14 che in Le 16, e che una forma del medesimo ter-
mine ricorre in Eb 9:23 dove si parla della purificazione delle “realtà celesti”319.
“Tali legami inequivocabili - conclude Hasel - sono indici sicuri delle con-
nessioni concettuali e teologiche tra Le 16 e Dn 8. Ciò che Le 16 descrive come

318 - Ibidem, pp. 456-457.


319 - Ibidem, nota 134 in calce alle pp. 457-458

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CAPIRE DANIELE

il grande momento culminante della purificazione, giustificazione e rivendica-


zione per l’antico Israele nel Giorno dell’Espiazione alla fine del ciclo liturgico
annuale, Dn 8 descrive come il grande momento culminante per tutto il popolo
di Dio in una scala cosmica e universale alla fine del tempo presente, preludio
del sorgere del tempo nuovo quando soltanto il Regno di Dio sussisterà”320. Gli
elementi di ordine storico e cronologico sulla base dei quali si stabilirà la data di
decorrenza delle 2300 “sere-mattine” saranno esaminati nel commento di 9:25.

15 E avvenne che, mentre io, Daniele, avevo questa visione e cercavo


d’intenderla, ecco starmi ritta davanti come una figura d’uomo.

Col declinare il proprio nome preceduto dal pronome personale enfatico


(l)¢Yné d A ’anî Danîy’el, “io, Daniele”), il profeta sembra volere attestare l’autenti-
f yén)
cità di quanto ha riferito e verrà riferendo (cfr. 7:15,28; 8:1; 9:2; 10:2; 12:5).
Della rivelazione ricevuta Daniele ha compreso soltanto ciò che l’angelo gli
ha spiegato, vale a dire che allo scadere di 2300 “sere-mattine” finirebbero gli ol-
traggi inflitti dal “corno” alla “continuità” (tamîd), al “santuario” (qodesh) e all’
“esercito” (tzaba’). Tutto il resto gli è rimasto oscuro. Il profeta ha ancora davanti
agli occhi le figure simboliche della visione (hechazôn) e cerca di comprenderle
(bînah, dal verbo byn, “comprendere”, del quale più avanti segnaleremo il ruolo
importante nell’ambito di questa visione e della rivelazione successiva).
È accaduto tante volte che rimanesse oscuro ai profeti di Jahvé il senso dei
messaggi che fu loro richiesto di trasmettere alla posterità, nonostante che essi
indagassero con cura per venirne a capo (cfr. 1Pie 1:10,11).
Mentre Daniele s’interroga intorno alle cose viste nella visione, ecco compa-
rire davanti a lui “uno in piedi dall’aspetto d’uomo” (versione CEI), ebraico rebgf -
h”):rm a K: kemar’eh gaver. Non è un uomo, è un essere celeste mandato in sem-
bianze umane per non turbare ulteriormente il profeta già provato a motivo
della rivelazione divina (H.C. LEUBOLD).

16 E udii la voce d’un uomo in mezzo all’Ulai, che gridò, e disse: “Ga-
briele, spiega a colui la visione”.

Come la figura angelica ha un aspetto umano, così anche la voce che risuona “in
mezzo all’Ulai” sembra voce umana. È certamente la voce di Dio perché Dio sol-
tanto può impartire un ordine a un angelo celeste.
L’Altissimo si adatta, per così dire, alla condizione umana per farsi capire da

320 - Ibidem, pp. 457-458.

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CAPITOLO 8

una creatura umana. La voce proveniente dall’Ulai chiama per nome la figura
che sta di fronte a Daniele: “Gabriele...!”
Il primo elemento del nome angelico è lo stesso vocabolo che usa Daniele
per “uomo” quando definisce l’aspetto dell’angelo: gaver, “eroe”. “Dio è potente”
(gavri’el) sembra essere il significato del nome angelico.
Questo messaggero celeste compare ancora in Dn 9:21. Nel Nuovo Testa-
mento ritorna due volte: in Lc 1:19, dove si annuncia al sacerdote Zaccaria, il fu-
turo padre del precursore del Messia, con le parole: “Io son Gabriele, che sto da-
vanti a Dio; e sono stato mandato a parlarti e recarti questa buona notizia”; e an-
cora in Lc 1:26 dove Gabriele annuncia alla vergine Maria la divina maternità.
ELLEN WHITE321 dice che Gabriele occupa in cielo la posizione che fu del de-
caduto Lucifero. La voce che viene dall’Ulai comanda a Gabriele di fare da inter-
prete al profeta: “Gabriele, spiega a lui la visione !” (versione CEI), ebraico:
he)r
: M
a h
a -te) zfLh
a l
: }"bh : Ga gavrî’el haven lehallaz ’eth hammar’eh.
f l")yirb
Daniele qui non usa il vocabolo abituale per “visione”, chazôn, ma ado-
pera, e per la prima volta, un termine diverso: mar’eh. Dalla radice verbale r’h,
“vedere”, mar’eh ha lo stesso significato generale di chazôn, ma con alcune spe-
cifiche sfumature di senso delle quali si dirà più avanti. Non è certo senza mo-
tivo che Daniele usa qui per “visione” mar’eh anziché chazôn. Sembra ragione-
vole supporre che i due termini siano applicati a due aspetti distinti della rivela-
zione. Che sia così lo si dimostrerà nel commento del v. 26.

17 Ed esso venne presso al luogo dove io stavo; alla sua venuta io fui
spaventato, e caddi sulla mia faccia; ma egli mi disse: “Intendi bene,
o figliuol d’uomo! perché questa visione concerne il tempo della
fine”. 18 E com’egli mi parlava, io mi lasciai andare con la faccia a
terra, profondamente assopito; ma egli mi toccò, e mi fece stare in
piedi.

Si deve supporre che Gabriele sia apparso di fronte a Daniele a una certa di-
stanza da lui, verosimilmente sulla riva opposta del fiume-canale, altrimenti non
sarebbe comprensibile la frase: “Ed esso venne presso al luogo dove io stavo”.
Per quanto in sembianze umane, Gabriele è pur sempre un essere celeste, e la
presenza di un essere siffatto ha sempre suscitato grande inquietudine nel cuore
dei mortali. Nel cap. 10 per tre volte (vv. 9,15 e 17) Daniele esterna il suo
profondo malessere per la presenza vicino a lui di un Essere divino. La stessa
sconvolgente emozione provarono i profeti Isaia ed Ezechiele in circostanze
identiche (cfr. Is 6:5; Ez 1: 28).

321 - The Desire of Ages, p. 99.

226
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CAPIRE DANIELE

In siffatti frangenti è il sentimento dell’umana peccaminosità, che per con-


trasto con la perfezione celeste e divina si svela in tutta la sua negatività, che fa
nascere nel cuore dell’uomo un’angoscia mortale. I profeti dell’Altissimo sanno
che l’uomo nella sua condizione di essere peccatore non può reggere in pre-
senza del Divino (cfr. Es 33:20). È difficile dire se il cadere “con la faccia a terra”
del profeta debba capirsi come un atto di cosciente riverenza o come la conse-
guenza di un momentaneo deliquio provocato dalla forte emozione. Sembra più
probabile la seconda supposizione.
Gabriele fa appello all’intelligenza del profeta: “Intendi figliol d’uomo”
({fd)
f -}eB }"bhf haven ben ’adam). Compare ancora il verbo byn che in questa
parte del libro ha una funzione-chiave. L’appellativo “figlio d’uomo” evidenzia la
fragilità e precarietà della condizione umana; essa equivale in sostanza a “essere
mortale”. Girolamo commenta: “Tanto Ezechiele come Daniele e Zaccaria hanno
spesso da trattare con gli angeli, e per evitare che montino in superbia o che si
credano di avere anch’essi o natura o dignità angelica, si richiama alla loro
mente la loro fragilità, e vengono chiamati figli degli uomini perché sappiano di
non essere che uomini”322.
L’angelo-interprete mette subito in luce un “trend” ed uno sbocco escatolo-
gici della rivelazione che sta per spiegare a Daniele: “... perché questa visione
concerne il tempo della fine” (}Ozfxh : yiK ki le‘eth qetz hechazôn).
e j"q-te(l
“È questo un fatto rilevante che attiene all’intera interpretazione, un fatto
che nessun uomo avrebbe potuto scoprire da sé e che segna un approccio ge-
nerale a tutto il capitolo. Un approccio che quanti si impegnano nello studio di
questo capitolo dovrebbero tenere in altissima considerazione”323. Chazôn in
questo versetto si riferisce all’intera rivelazione riportata nei vv.12-14.
Accasciatosi davanti all’angelo Daniele è rimasto tuttavia cosciente, ma via
via che Gabriele gli parla le forze lo abbandonano fino alla perdita completa dei
sensi (yiTm
: D : né nirdamtî, “giacqui profondamente assopito”).
a r
Lo stesso accadde a Giovanni quando ebbe a Patmos la visione del Cristo
glorificato (cfr. Ap 1:17).
Gli angeli hanno poteri che superano quelli degli uomini, come quello di
trasfondere nelle creature umane energia vitalizzante. È bastato un tocco di Ga-
briele perché Daniele tornasse in sé e avesse forze sufficienti per rimettersi in
piedi. Così gli angeli celesti assistettero Gesù stremato dal prolungato digiuno
(Mt 4:11).

322 - Girolamo su Daniele, p. 120.


323 - H.C. LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 361.

227
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CAPITOLO 8

19 E disse: “Ecco, io ti farò conoscere quello che avverrà nell’ultimo


tempo dell’indignazione; poiché si tratta del tempo fissato per la
fine.

Prima di spiegare a Daniele la visione, Gabriele ne enfatizza la parte finale:


“Ecco, io ti rivelo ciò che avverrà al termine dell’ira, perché la visione riguarda il
tempo della fine” (versione CEI).
Evidentemente è nella parte conclusiva della rivelazione che si svela il mo-
tivo di fondo per cui essa è stata data a Daniele. La visione mira fondamental-
mente a far conoscere qualcosa di estremamente significativo che avverrà
quando sarà finita l’ira. L’ira cioè del “corno” contro il celeste “Principe”, il suo
“santuario” ed il suo “esercito”, la quale finalmente verrà meno dopo lo scadere
delle 2300 “sere-mattine” quando il “corno” stesso “sarà infranto senz’opera di
mano” (v. 25 u.p.; cfr. con 2Te 2:7-8). L’interprete mandato da Dio ribadisce che
il tempo a cui sta facendo riferimento è “il tempo della fine” (j"q d&"(Om:l yiK kî
lemô‘ed qetz).

20 Il montone con due corna che hai veduto, rappresenta i re di Me-


dia e di Persia.

Nell’interpretazione della visione Gabriele si rifà dal principio. Il montone (léy) a


’ail) descritto nei vv. 3 e 4 è il simbolo dell’Impero dei Medi e dei Persiani. Per
l’esattezza Gabriele identifica il montone coi “re di Media e di Persia” (sfrpf U yadm
f
y"kl a malkê maday ûfaras).
: m
La Media come regno autonomo cessò di esistere quando il suo ultimo re,
Astiage, soccombette nella lotta contro Ciro il Persiano nel 549 a.C. (cfr. il com-
mento del v. 3). Da allora regnarono sui due regni iranici unificati i sovrani della
dinastia degli Achemenidi (“i re di Media e di Persia”) inaugurata da Ciro II.
Abbiamo qui la prova che nella prospettiva danielica la Medo-Persia è il se-
condo dei quattro regni annunciati profeticamente nei capp. 2 e 7. Il primo, Ba-
bilonia, non è menzionato perché all’epoca di questa visione essa ormai entrava
nella storia.

21 Il becco peloso è il re di Grecia; e il gran corno fra i suoi due oc-


chi è il primo re.

L’angelo-interprete spiega a Daniele che il capro (ryipC


f tzafîr) rappresenta “il re
di Grecia”, }æwyæ yawan nell’ebraico.
Yawan (da Jonia, il nome con cui si designavano nell’antichità le isole e le
città costiere dell’Asia Minore popolate da genti di stirpe greca) era il nome col
quale i Semiti indicavano la Grecia in generale. In breve il capro rappresenta

228
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CAPIRE DANIELE

l’Impero di Alessandro che si affermò nella storia a seguito della vittoria defini-
tiva dei Macedoni sui Persiani nel 331 a.C. (vedi il commento del v. 4).
Che la frase: “è il re di Grecia” (malkê - yawan) debba intendersi “è il regno
di Grecia”, si vede dalla frase seguente: “e il gran corno fra i suoi due occhi è il
primo re”. Se il corno, che è una parte del capro, rappresenta un “re”, il capro
stesso non può rappresentare anch’esso un re; non può raffigurare che un
regno. Un regno sul quale il re rappresentato dal gran corno esercita la sua so-
vranità. Dn 8:21a è uno di quei casi in cui in questo libro “re” equivale a “regno”
(vedi il commento di 2:38). Il “primo re” di cui è figura il gran corno fra gli occhi
del capro, con tutta evidenza è Alessandro Magno, il fondatore dell’Impero Ma-
cedone (vedi commento del v. 5).

22 Quanto al corno spezzato, al cui posto ne son sorti quattro, questi


sono quattro regni che sorgeranno da questa nazione, ma non con
la stessa sua potenza.

La morte prematura e imprevedibile di Alessandro all’apice della potenza e della


gloria è anticipata profeticamente con la rottura repentina e inaspettata del gran
corno che lo raffigura.
Con la fine di Alessandro è prevista anche la fine dell’unità dell’impero da
lui fondato: “Quanto al corno spezzato, al cui posto ne sono sorti quattro, questi
sono quattro regni che sorgeranno da questa nazione...”.
Si noti l’ambivalenza di questo elemento simbolico; nel v. 21 un corno rap-
presenta un re; nel versetto seguente 4 corna raffigurano 4 regni. Sono i regni el-
lenistici di Macedonia, Tracia, Siria ed Egitto sorti dopo la disfatta di Antigono ad
Isso nel 301 a.C. e posti sotto la sovranità di Cassandro, Lisimaco, Seleuco Nica-
tore e Tolomeo Lago (vedi il commento del v. 8). Come era stato previsto dalla
profezia (“ma non con la stessa sua potenza”) nessuno di questi regni eguagliò
per grandezza e potenza l’impero di Macedonia dal quale essi derivarono.

23 E alla fine del loro regno, quando i ribelli avranno colmato la mi-
sura delle loro ribellioni, sorgerà un re dall’aspetto feroce, ed
esperto in stratagemmi.

Dopo avere svelato le realtà che si nascondono nelle figure delle 4 corna, Ga-
briele perviene alla spiegazione del simbolo seguente, il “piccolo corno”.
Come già rilevato (vedi il commento del v. 9) l’identificazione del re di Siria
Antioco IV Epifane in questo simbolo è quasi unanime324.

324 - Per una esposizione delle ragioni di questa identificazione valga per tutte la n. VII a p.
120 del commentario del prof. Giovanni Rinaldi.

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CAPITOLO 8

Gli espositori moderni di scuola critico-liberale - sono la maggioranza - cir-


coscrivono alla figura storica del re di Siria la portata del passo danielico. Altri
nel passato (così Girolamo nel V secolo) hanno visto nel “piccolo corno” di Dn
8 un simbolo di Antioco come tipo dell’Anticristo finale. Oggi questa tesi è ac-
colta in generale dai cattolici.
All’identificazione del “piccolo corno” danielico col re di Siria Antioco IV si
oppongono i seguenti fatti:

1) le quattro corna rappresentano 4 regni (8:22). Il quinto, che non


nasce su una delle quattro corna, ma viene da una delle quattro direzioni
dello spazio (vedi il commento del v. 12) deve raffigurare anch’esso un re-
gno.

2) Antioco IV fu l’ottavo regnante della dinastia seleucide (vedi il com-


mento di 7:25). Questo personaggio è dunque incluso in una delle 4 corna,
quella raffigurante il regno di Siria.

3) L’interprete mandato da Dio spiega a Daniele che il potere simbo-


leggiato dal quinto corno sorgerebbe “alla fine del loro regno” (v.23):
{ftUk:lm
a tyirxA ) : U ûwe’acharîth malkûtam, letteralmente “dopo il regno loro”,
a b
ovvero il regno delle 4 corna, giacché le 4 corna sono l’antecedente più
prossimo del pronome “loro”. Ciò implica indiscutibilmente che questa en-
tità sinistra doveva venire all’esistenza dopo che fossero tramontati tutti i
regni ellenistici.

Antioco Epifane regnò dal 175 al 163 a.C. Dopo la sua morte il regno di Siria
durò ancora 100 anni.
Fu infatti nel 63 a.C. che Pompeo ridusse la Siria a provincia romana dopo
avere deposto l’ultimo seleucide. Trentatré anni dopo divenne possedimento ro-
mano l’Egitto dei Tolomei. Il regno di Macedonia era stato annesso ai possedi-
menti romani nel 148 a.C. Dunque fra il 148 e il 30 a.C. scomparvero l’uno dopo
l’altro tutti i regni ellenistici eredi dell’Impero di Alessandro. Pertanto è intorno
all’anno 30 a.C. che si deve collocare storicamente il sorgere della potenza raffi-
gurata dal “piccolo corno”. Fu proprio in quest’epoca, con la conquista
dell’Egitto, che Roma concluse la sua espansione verso Oriente proponendosi di
fatto al mondo come l’ultima erede del dominio universale di Alessandro.
Gabriele interpreta il “piccolo corno” come “un re dall’aspetto feroce ed
esperto in stratagemmi” (traduzione di Luzzi). L’ebraico ha: tOdyix }yibm" U {yénPf -za(
e melek ‘atz panîm ûmevîn chîdôth, meglio tradotto dalla Versione della CEI:
\elm
“un re audace, sfacciato e intrigante”. L’espressione ebraica significa letteral-
mente: “un re sfrontato e abile negli enigmi” (cioè nell’ambiguità, nella dop-

230
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CAPIRE DANIELE

piezza). Se questo re sfrontato non è Antioco, chi è allora? A noi sembra più
conforme ai fatti della storia identificarvi l’astuto e intrigante Ottaviano come
simbolo vivente e personificazione di Roma stessa che con lui abbatté l’ultimo
dei regni ellenistici, si vide elevata a entità divina e iniziò la fase imperiale della
sua storia.
Secoli prima Daniele aveva visto Babilonia personificata nel suo illustre so-
vrano quando aveva dichiarato a Nabucodonosor: “La testa d’oro sei tu”
(2:38)325.
Il trapasso dal regno delle quattro corna a quello del “piccolo corno” sa-
rebbe stato segnato dal culminare dell’empietà: “...quando l’empietà avrà rag-
giunto il colmo” (v. 23, versione della CEI). I sovrani tolemaici alla stessa ma-
niera degli antichi faraoni avevano ricevuto onori divini dai sacerdoti egiziani.
Ottaviano Augusto sulla falsariga di questa pratica egiziana istituì il culto di
Roma divinizzata e consentì che si erigessero nelle provincie dell’impero dei
templi in onore del divo imperatore. Il popolo romano gli tributò onori divini
dopo la morte, e in seguito furono fatti oggetto di culto gli imperatori viventi. La
sensibilità religiosa ebraica non avrebbe potuto immaginare nulla di più empio.
Si è visto nel commento del v. 11 che nel testo ebraico tra i vv. 9-10 e i vv.
11-12 interviene un cambiamento della struttura della frase. Nei vv. 9-10 le forme
verbali, tranne la prima, sono di genere femminile, mentre nel v. 11 sono di ge-
nere maschile. Siffatto mutamento del genere dei verbi secondo Hasel326 riflette
il trapasso da una prima a una seconda fase di sviluppo dell’entità storica che il
“corno” rappresenta. Questo autore vede Roma nella fase storica politico-pagana
nei vv. 9 e 10 e nella fase ecclesiastico-papale nei vv. 11 e 12.
In effetti Roma come centro del mondo antico occidentale non scomparve
con la fine dell’impero, soltanto assunse un volto nuovo: da centro politico ne
divenne il centro religioso.
“Gli elementi di romanità che i barbari e gli Ariani lasciarono sopravvivere -
scrive l’illustre storico ADOLF HARNACK - ... furono... posti sotto la protezione del
vescovo di Roma, la più alta personalità dopo la scomparsa dell’Imperatore... Fu
così che la Chiesa Romana si sostituì all’Impero Romano universale di cui rappre-
sentò realmente la continuità; l’impero non è perito, soltanto si è trasformato...
Non è una mera osservazione intelligente, è il riconoscimento della realtà storica,
è la maniera più idonea e feconda di rappresentare il carattere di questa Chiesa.
Essa ancora governa le nazioni... Essa è una creazione politica imponente

325 - La frase che segue: “e dopo di te sorgerà un altro regno” (v. 39), presuppone che in pre-
cedenza Daniele avesse già fatto allusione ad un regno. L’espressione: “La testa d’oro sei tu”,
significa in effetti: “La testa d’oro è il tuo regno”.
326 - Op. cit., p. 401.

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CAPITOLO 8

quanto un impero universale perché è la continuazione dell’Impero Romano. Il


Papa che si fregia dei titoli di ‘Re’ e di ‘Sommo Pontefice’, è il successore di Ce-
sare”327
Se il trapasso da una prima ad una seconda fase storica dell’entità simboleg-
giata dal “corno” è adombrato nella visione, sembra logico che esso debba riflet-
tersi anche nell’interpretazione di essa. Dal nostro punto di vista il suddetto tra-
passo avviene fra i vv. 23 e 24.

24 La sua potenza sarà grande, ma non sarà potenza sua; egli farà
prodigiose ruine, prospererà nelle sue imprese, e distruggerà i po-
tenti e il popolo dei santi.
25 A motivo della sua astuzia farà prosperare la frode nelle sue
mani; s’inorgoglirà in cuor suo, e in piena pace distruggerà molta
gente; insorgerà contro il principe de’ principi, ma sarà infranto,
senz’opera di mano.

Gli atti qui attribuiti al sistema di potere raffigurato dal “piccolo corno” non deb-
bono intendersi come azioni individuali isolate e occasionali, ma debbono ca-
pirsi come lo svolgimento di un disegno volto al mantenimento e al consolida-
mento della supremazia, giacché il “re sfrontato” non è una figura umana indivi-
duale, come si è visto, ma rappresenta una successione di figure individuali, una
sorta di dinastia, un sistema di potere. Otto segni caratterizzano il “curriculum” di
questo formidabile sistema di potere.

1. “La sua potenza sarà grande, ma non sarà potenza sua”, ebraico:
: )olwº OxoK {ac(f wº we‘atzam kochô welo’ vekochô, alla lettera: “Grande
Oxokb
(sarà) la sua potenza ma non per potenza sua”.
Sarebbe un’assurdità affermare che Roma repubblicana e imperiale
non avesse in sé stessa la potenza che le consentì di estendere su gran
parte del mondo antico il suo dominio. Come sarebbe fuori della realtà sto-
rica asserire che venisse da altri e non da sé medesimo il potere che An-
tioco IV esercitò con grande energia nei 12 anni del suo governo sulla Siria.
È invece esatto che il potere immenso che esercitò la Chiesa romana
nel Medioevo le venne dal sostegno politico delle monarchie d’Europa. Gli
eserciti dei ducati, dei principati e dei regni europei furono messi al servizio
della Chiesa per difenderne non solo la dottrina, ma anche gli interessi poli-
tici ed economici, quando i papi lo richiesero. Bonifacio VIII nel XIII secolo

327 - ADOLF HARNACK, What is Christianity? New York 1903, pp. 269 -270, cit. in S.D.A. Bible
Commentary, vol. IV, p. 846. Il corsivo è dell’Autore.

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CAPIRE DANIELE

rivendicò la supremazia assoluta della Chiesa con la famosa teoria delle due
spade: la spada spirituale e la spada temporale che doveva esserle sotto-
messa.

2. “...causerà inaudite rovine”, ebraico tyix$ : yá tO)flp: né wº wenifla’ôth yash-


chith. Talvolta senza necessità di esercitare pressione, talaltra valendosi
dell’arma formidabile della scomunica per piegare i principi riottosi, i papi
seppero comunque ottenere gl’interventi degli eserciti d’Europa per sradi-
care l’“eresia” o realizzare le mire politiche del papato. Tra i secoli XIII e
XVI le guerre di religione, eventi davvero inauditi che videro spesso intrec-
ciarsi interessi ecclesiastici e politici, sparsero per l’Europa - e non solo per
l’Europa - lutti e rovine immani. Le crociate tra i secoli XI e XIII, la guerra
contro gli Albigesi nel secolo XIII, le “guerre di religione” in Francia fra il
1562 e il 1598, la Guerra dei Trent’anni tra il 1618 e il 1648 sono solo alcuni
di questi eventi inauditi che direttamente o indirettamente videro coinvolta
la Chiesa romana.

3. “... prospererà nelle sue imprese”, ebraico: hf&(f wº x


a yilc i wº wehitzlîcha
: h
we‘assah, letteralmente: “prospererà e agirà”.
Nel corso della lunga storia della Chiesa di Roma spiccano la preveg-
genza e il dinamismo dei pontefici. Sotto la guida di papi energici e lungi-
miranti la Chiesa prosperò, e molto, anche sul piano materiale, così da di-
venire una potenza economica di tutto rispetto. Fu l’opulenza della Chiesa
che nel Medioevo fece nascere nelle anime più sensibili della cattolicità
quello scontento che poi generò i movimenti di dissidenza. In certi mo-
menti della storia europea il prestigio dei papi e lo splendore della corte
pontificia eclissarono la fama dei sovrani ed il fasto delle corti secolari.

4. “...e distruggerà i potenti ed il popolo dei santi”, ebraico: {yi$ odq: -{a(wº
{yimUcA( tyix$ i wº wehishchîth ‘atzumîm we‘am qedoshim (la traduzione che
: h
precede è quasi letterale).
Nel Medioevo i potenti d’Europa che osarono sfidare l’autorità del pa-
pato dovettero pagare un prezzo molto alto per averlo fatto. Nel secolo XI
Roberto II il Pio re di Francia, colpito di anatema dal papa per avere disat-
teso una legge canonica della Chiesa, dopo 3 anni di lotte inutili dovette
piegarsi e confessare pubblicamente i suoi “errori“ per essere reintegrato
nell’autorità regia.
Enrico IV imperatore di Germania, deposto e scomunicato da papa
Gregorio VII nel 1077 a motivo della investitura regia dei vescovi in Germa-
nia, si vide costretto ad andare a Canossa col saio di penitente per ottenere
dal pontefice la revoca della scomunica.

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CAPITOLO 8

Enrico Plantageneto re d’Inghilterra, colpito da anatema per avere con


un decreto sottoposto il clero alla giurisdizione del tribunale regio nel 1164,
dovette alfine sottoporsi pubblicamente alla fustigazione sulla tomba dell’ar-
civescovo Thomas Becket suo mortale nemico perché fosse revocato l’ana-
tema papale contro di lui.
Nel 1213 Giovanni Senza Terra, scomunicato e dichiarato decaduto dal
trono d’Inghilterra per contrasti con la Santa Sede, si vide obbligato a porre
la corona ai piedi del pontefice per riceverla dalle sue mani come vassallo
della Chiesa. Si potrebbero citare altri casi analoghi.
L’intolleranza della Chiesa romana verso la dissidenza religiosa nel Me-
dioevo generò quelle sinistre strutture ecclesiastiche che furono i tribunali
per la repressione dell’“eresia”. Non si contano i malcapitati che fra il XIII e
il XVII secolo furono tradotti davanti ai tribunali dell’Inquisizione con l’ac-
cusa di eresia; i molti che non abiurarono furono condannati al rogo e con-
segnati al Braccio secolare per essere arsi vivi.
Ma prima ancora che fosse istituita l’Inquisizione, con una crociata
spietata bandita da Innocenzo III fu sterminato il popolo albigese nella
Francia del Sud. Sotto Isabella e Ferdinando di Castiglia e Aragona l’Inquisi-
zione Spagnola fece perire nei roghi un gran numero di ebrei e sotto Carlo
V e Filippo II cancellò il Protestantesimo che cominciava a mettere radici in
Spagna. Dal tardo Medioevo fino alle soglie dei tempi moderni subirono
atroci persecuzioni le comunità valdesi in Lombardia, nel Piemonte, nel
Delfinato, in Calabria, responsabili i duchi di Savoia e i re di Francia solleci-
tati dalla Curia Romana. Per non parlare delle stragi di Hussiti in Boemia
nel XV secolo e degli Ugonotti in Francia nel XVI, e delle vittime dell’Inqui-
sizione Romana durante la Controriforma.

5. “...a motivo della sua astuzia farà prosperare la frode nelle sue
mani”, ebraico: OdæyB: hfmr: m
i xa yilc
: h i -la(wº we‘al siklô wehitzlîcha mirmah
i wº Ol:k&
beyadô, alla lettera: “e con la sua astuzia farà prosperare l’inganno nelle sue
mani”.
La storia registra non rari casi di legittimazione, ad opera di pontefici
romani, di azioni illegittime perpetrate da uomini potenti. Nel 751 papa Zac-
caria approvò l’usurpazione del trono dei Franchi da parte di Pipino il Breve
e consacrò l’usurpatore re dei Franchi dopo avere sciolto dal giuramento di
fedeltà i sudditi di Childerico, l’ultimo legittimo sovrano merovingio.
Papa Stefano II nell’VII secolo, dopo che Pipino aveva fatto dono alla
Chiesa dei territori tolti ai Longobardi, pretese una sovranità territoriale indi-
pendente fondando tale rivendicazione su un presunto documento costanti-
niano (Donatio Constantini) che avrebbe fatto risalire al primo imperatore
cristiano l’autonomia di Roma nei confronti dell’Impero. Che quel docu-

234
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CAPIRE DANIELE

mento fosse un falso costruito ad arte lo dimostrò il filologo Lorenzo Valla


nel 1440. Nel IX secolo comparve in Francia un altro documento apocrifo,
le cosiddette Decretali dello Pseudo-Isidoro, al quale nella stessa epoca si
appellò papa Nicolò I per accentrare in Roma tutta l’organizzazione ammi-
nistrativa della Chiesa.
Ancora nel IX secolo papa Giovanni VIII attribuì per convenienza la
corona imperiale a Carlo il Calvo di Francia ignorando i diritti legittimi del
fratello maggiore Ludovico il Germanico.
“Da Nicola I in poi - scrive lo storico S. HELLMANN - non destò più me-
raviglia vedere il papa, per quanto corrotto egli potesse essere personal-
mente, immischiarsi autorevolmente, chiamato o non chiamato, in questioni
temporali”328
Durante il grande scisma d’Occidente (1378-1431) la cristianità assi-
stette attonita allo spettacolo deprimente offerto da due papi che si anate-
mizzavano a vicenda l’uno da Roma e l’altro da Avignone.
Nell’ultimo scorcio del secolo XVI papa Sisto V e il suo successore
Gregorio XIV brigarono l’uno presso la corte francese per stimolare la per-
secuzione degli Ugonotti, l’altro presso la corte di Spagna per indurla ad un
intervento militare in Francia allo scopo di bloccare la candidatura al trono
di Enrico di Navarra amico degli Ugonotti.

6. “...s’inorgoglirà in cuor suo”, ebraico: lyiDg: yá Obfbl i U ûvîlvavô yagdîl,


: b
alla lettera: “e nel suo cuore si magnificherà”.
Fin dal V secolo i pontefici romani s’ingegnarono per accrescere il pre-
stigio e la potenza del papato. Leone I Magno nel V secolo fu il primo ve-
scovo di Roma che affermasse la discendenza diretta del papato dall’apo-
stolo Pietro. Con l’appoggio dell’Impero egli si pose al di sopra dei concili e
avocò a sé il diritto di definire i dogmi della Chiesa.
Nel 1075 papa Gregorio VII pubblicò le 27 massime del Dictatus Pa-
pae nelle quali riaffermò con grande energia la supremazia assoluta del
papa rispetto ai sovrani temporali ed il suo potere di deporli se non sotto-
messi alla Chiesa.
Nel XIII secolo Innocenzo III fece decadere l’autorità dei vescovi e isti-
tuì i legati pontifici diretti rappresentanti del papa. Innocenzo si proclamò
“Vicario di Cristo Re dei re” dal quale i principi laici ricevono come feudi i
loro domini. Per lungo tempo gli scandali della simonia e del nepotismo af-
flissero il papato.

328 - S. HELLMANN, Storia del Medioevo, p. 255.

235
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CAPITOLO 8

7. “...e in piena pace ne distruggerà molti...” (così Luzzi). Il testo


ebraico ha {yiBra tyix$
: yá hæwl
: $ : U ûveshalwah yashchîth rabbîm, letteralmente:
a b
“e con lusinghe corromperà molti”.
Il papato alternò la scomunica e la lusinga per guadagnare alla causa
della Chiesa i potenti del mondo. Con la promessa della remissione dei
peccati e del Paradiso i Crociati furono persuasi a marciare contro gl’infe-
deli per liberare il Santo Sepolcro. Con la concessione dell’indulgenza e dei
beni espropriati agli “eretici” Innocenzo III ottenne che i nobili di Francia e
torme di malfattori aderissero alla crociata per sterminare gli Albigesi nella
Francia del sud.

8. “...insorgerà contro il Principe dei principi”, ebraico: dom(A yá {yir& f -ra&-


la(wº û‘al sar sarîm ya‘amod, alla lettera: “e contro il principe dei principi si
ergerà”.
Gabriele ripete in sostanza quanto Daniele aveva già detto nel v. 11
(vedi il commento di quel versetto). In breve il sistema di potere raffigurato
dal “corno” si sarebbe elevato contro il Principe dei principi (il Principe
Mika’el) col togliergli il servizio tamîd (il ministero continuo) e con l’abbat-
tere il fondamento del suo santuario (mekôn miqdashô). Secondo l’interpre-
tazione data nel commento del v. 11, questa azione sovvertitrice del “corno”
adombra un’usurpazione del ministero continuo di Cristo nel santuario dei
cieli per il perdono dei peccati, sostituito con un ministero sacerdotale ter-
reno rivestito del potere di rimettere esso stesso i peccati.
L’interpretazione di Gabriele si chiude con l’annuncio della distruzione
finale del sinistro sistema di potere: “ma sarà distrutto senz’opera di mano”,
ebraico: r"b< f yé dæy sep) : U ûve‘efes yad yishshaver, letteralmente: “e senza mano
e b
sarà spezzato”. Questa espressione, “senz’opera di mano”, vuol dire in so-
stanza “senza intervento umano”. L’identica espressione in 2:34 è riferita alla
caduta della pietra distruttrice della statua che Daniele spiega come l’instau-
rarsi di un regno eterno che “l’Iddio del cielo farà sorgere” (2:44-45). Nel cap.
7 poi l’angelo-interprete conclude la spiegazione che fornisce a Daniele di-
cendo che nel giudizio sarà tolto il potere al corno persecutore - lo stesso si-
stema raffigurato con identico simbolo nel cap. 8 - ed esso “verrà distrutto ed
annientato per sempre” (7:26). Gabriele dice in sostanza che il “re sfrontato”
sarà distrutto al giudizio finale (cfr. con 2Te 2:3-8).

26 E la visione delle sere e delle mattine, di cui è stato parlato, è vera.


Tu tieni segreta la visione, perché si riferisce ad un tempo lontano”.

Attenendosi all’ordine con cui si susseguono i fatti nei vv. 9-14, Gabriele, avendo
concluso la spiegazione della visione (}Ozfxh
e hechazôn), accenna per ultimo al di-

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CAPIRE DANIELE

scorso che Daniele ha ascoltato nell’audizione. L’angelo si limita ad attestare la


veracità di quanto è stato detto a Daniele, ma senza entrare nel merito: “e la vi-
sione delle sere e delle mattine di cui è stato parlato, è vera...” (tem)
E ram)
E nå re$)
A re-
qoBh
a wº ber(e h
f h")r a U ûmar’eh hâ‘erev ûhaboqer ’asher ne’emar ’emeth). Per la se-
: m
conda volta ricorre in questo capitolo il vocabolo mar’eh per “visione”, e qui è ri-
ferito direttamente alle 2300 sere e mattine: “la visione (mar’eh) delle sere e
delle mattine”. Ecco la prova che mar’eh in Dn 8 è applicato ad un aspetto della
rivelazione che si vuole mantenere distinto da un altro aspetto al quale Daniele
ha applicato il termine chazôn. In breve, mentre chazôn è riferito alle cose viste
da Daniele, mar’eh è applicato alle cose udite329.

329 - Si può ammettere che in Dn 8 chazôn e mar’eh non siano usati come vocaboli sinonimi, ma come
termini tecnici specifici riferiti ad aspetti distinti della profezia. In 8:16 mar’eh (apparizione) deve riferirsi
in modo specifico alla comparsa nella visione di due esseri personali (i “santi”) e al dialogo intercorso
tra loro. Ulteriore sostegno a questa tesi viene dal v. 26 dove ritorna il vocabolo mar’eh: “la visione
(mar’eh, apparizione) delle sere e mattine di cui è stato detto è verace, ma tu suggella la visione
(chazôn), poiché essa si riferisce a giorni lontani”.
La prima circostanza da sottolineare è la menzione del mar’eh delle sere e mattine nominato per la
prima volta nella conversazione fra i due “santi” nella quale l’uno dice all’altro che dovranno trascorrere
2300 sere e mattine prima che il santuario sia purificato. Mar’eh nel v. 16 dovrebbe quindi collegarsi di-
rettamente con l’apparizione (mar’eh) dei due “santi” che avevano parlato fra loro delle sere-mattine (v.
14). Il secondo fatto da rilevare nel v. 16 è che mar’eh è qualcosa che fu detta (ne’emar, forma nifal o
passiva del verbo ’amar, “dire”), e non udita. Chazôn è qualcosa che può vedersi soltanto, mar’eh è
qualcosa che può sia vedersi che udirsi. Infatti Daniele vide l’essere personale che gli apparve e lo udì
parlare. Così anche in 10:8-9: “E io rimasi solo, ed ebbi questa grande apparizione (mar’eh)... udii il
suono delle sue parole...”
In 8:16 Gabriele riceve da Dio l’ordine di far comprendere a Daniele il mar’eh (apparizione), ma quando
l’angelo conclude l’interpretazione, Daniele non ha ancora capito il mar’eh. Perciò Gabriele fu mandato
una seconda volta presso Daniele per istruirlo riguardo al mar’eh. L’angelo non fece menzione del
chazôn (visione in senso generico), ma si riferì in modo specifico al mar’eh che Daniele non aveva ca-
pito. Probabilmente ciò che era rimasto oscuro a Daniele e l’aveva lasciato talmente turbato, era il fatto
che fosse permesso al potere raffigurato dal “piccolo corno” di calpestare per un tempo così lungo -
2300 sere-mattine - l’esercito di Dio ed il suo santuario. Esiste dunque un rapporto diretto tra le rivela-
zioni di Dn 8 e 9 per quanto riguarda la terminologia profetica, la quale nel cap. 9 è applicata ad un
aspetto specifico della rivelazione del cap. 8, quello emerso nel dialogo fra i due “santi” apparsi a Da-
niele nella visione. Poiché in un caso mar’eh è applicato anche a Gabriele (Dn 10:18), si dovrebbe con-
siderare la possibilità che i riferimenti a mar’eh in 8:26 e 9:23 comprendano la spiegazione data a Da-
niele sia in occasione dell’apparizione dei due “santi” nella visione di 8:13-14, sia in occasione dell’ap-
parizione di Gabriele a Daniele in 8:15-25. Ad ogni modo, comunque si rapportino tra loro le suddette
due apparizioni, è chiaro che mar’eh in 8:16 può riferirsi unicamente all’apparizione dei due “santi” in
8:13-14, data la posizione di quel riferimento nel contesto del capitolo. La distinzione importante da
farsi è che il contenuto dei versetti 3-12, nei quali si descrivono le attività delle due bestie e del “piccolo
corno”, dovrebbero definirsi chazôn (visione), mentre l’apparizione dei due “santi” e di Gabriele (o la
prima o entrambe) per contrasto dovrebbero definirsi con la parola mar’eh. Condensato da W.H. SHEA,
“The Relationship Between the Prophecies of Daniel 8 and Daniel 9” in The Sanctuary and the Atone-
ment a cura del Comitato per la ricerca biblica della Conferenza Generale degli Avventisti del 7° Giorno,
Washington DC, 1981, p. 228s.

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CAPITOLO 8

Gabriele conclude col domandare al profeta di mantenere segreta la visione giu-


stificando la richiesta con la circostanza che essa “si riferisce ad un tempo lon-
tano”, ebraico: {yiBr
a {yimyæ l
: yiK }Ozfxh a wº )Uh hû’ we’attah setom hechazôn kî
e {ots: hfT)
leyamîm rabîm, letteralmente: “ora tu nascondi la visione perché (essa con-
cerne) giorni lontani”. Ciò che Daniele dovrà mantenere segreta è la visione-
chazôn, vale a dire la rivelazione nella sua totalità.
E dovrà farlo perché essa non riguarda il presente o il futuro immediato ma
concerne un futuro remoto. I “tempi lontani” si rapportano evidentemente non
alle implicazioni iniziali della rivelazione (l’avvento del regno di Persia, oramai
prossimo) ma alle implicazioni finali.

27 E io, Daniele, svenni, e fui malato vari giorni; poi m’alzai, e feci gli
affari del re. Io ero stupito della visione, ma nessuno se ne avvide.

La rivelazione è finita; Daniele chiude il racconto con un riferimento allo stato di


prostrazione fisica in cui essa lo ha lasciato. Il profeta ha perso i sensi e ha do-
vuto trascorrere diversi giorni a letto prima di riprendere le sue mansioni pubbli-
che in Babilonia.
È un indice del forte stress fisico ed emotivo a cui una prolungata espe-
rienza estatica sottopone i profeti di Jahvé. Daniele è tornato ai suoi incarichi
abituali ma gli è rimasto un forte turbamento “a motivo della visione”, in ebraico:
}yibm" }y")wº he)r
: M
a h e wæ û’eshthômem ‘al hammar’eh we’ên mevîn, “ma pro-
a -la({"mOT:$)
vavo un opprimente stupore sulla visione perché non la potevo intendere” (Ri-
naldi). La traduzione rende con precisione l’originale.
Daniele non aveva motivo di stupirsi per la visione-chazôn, ovvero per le
cose viste nella rivelazione, giacché questa gli era stata interpretata. Era la vi-
sione-mar’eh (egli lo dice), vale a dire la rivelazione sulle 2300 sere-mattine rice-
vuta nell’audizione, quella che gli cagionava turbamento, giacché su di essa
erano rimasti dei lati oscuri che l’angelo non aveva chiarito. Il profeta si cruc-
ciava per non capire (e’en mevîn) tutto il senso e la portata di quel dettaglio
della rivelazione.
Il verbo byn (“intendere”) e il sostantivo mar’eh (“visione-apparizione”)
sono importanti elementi di collegamento con la rivelazione successiva riportata
nel cap. 9.

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CONOSCERE DANIELE

APPENDICE 8A ralmente che Davide e i suoi uomini dimora-


rono nel paese dei Filistei “giorni e quattro
Il prof. WILLIAM H. SHEA in Selected Studies on mesi” (yamîm we’arba‘ah chadashîm). La
Prophetic Interpretation, Washington DC frase significa “un anno e quattro mesi”.
1981, alle pp. 66-88, ha evidenziato significa- Nu 9:22 dice in riferimento al soggiorno
tivi parallelismi fra i termini “giorni” ed “anni” d’Israele nel deserto che finché la nuvola non
nella narrativa storica, nella poesia e nella le- si alzava i figli d’Israele rimanevano nel luogo
gislazione levitica dell’Antico Testamento. dove erano accampati, fosse “per due giorni,
I) Nei racconti storici i “giorni” sono sia un mese, sia giorni” (hû yimaîm hû cho-
equiparati ad “anni” secondo tre distinte mo- desh yamîm). La progressione naturale delle
dalità: unità di tempo non può essere che “giorni,
1. L’equivalenza giorni-anni si nota in ri- mese e anno”; è evidente che la seconda
ferimenti ad eventi che ricorrevano una volta volta che ricorre la parola “giorni” (al plurale
l’anno. La solennità pasquale, per esempio, come di regola), essa ha il significato di
doveva essere celebrata “di anno in anno” “anno”, come correttamente la rendono le
(Esodo 13:10), letteralmente “di giorni in versioni.
giorni”, ebraico hfmyimyæ {yimYæ m
i miyyamîm yamî- 3. Non di rado nell’Antico Testamento
mah. “Sacrificio dei giorni”, {yimYæ h a xabzå zevc
a h “giorni” equivale ad “anni” in passi nei quali
hayyamîm, era detto un sacrificio che si of- si indica la durata della vita di una persona.
friva annualmente (1Sm 20:6). Ogni anno, let- Per esempio 1Re 1:1 dice che il re Davide
teralmente “di giorni in giorni” (miyyamîm “era vecchio nei giorni” (zaqen ba bayamîm),
yamîmah), cfr. 1Sm 2:19, Anna portava una volendo significare che questo personaggio
tunica nuova al piccolo Samuele (1Sm 2:19). era avanti negli anni. Nella Genesi l’uso di
Elkana saliva a Shiloh con la famiglia ogni “giorni” per “anni” appare ancora meglio defi-
anno per offrire il sacrificio annuo (1Sm nito. Giacobbe, per esempio, dice al faraone
1:21), letteralmente “sacrificio dei giorni” (ze- (Ge 47:9): “I giorni degli anni dei miei pellegri-
vach hayyamîm), cfr. 1Sm 2:19. naggi sono stati pochi e cattivi e non hanno
In Gc 11:40 si dice che le fanciulle raggiunto i giorni degli anni dei miei padri...”
d’Israele celebravano il sacrificio della figlia di Tre volte si ripete l’espressione yeme shnê, “i
Jefte “tutti gli anni”, letteralmente “di giorni in giorni degli anni”. Questa forma di linguaggio
giorni” (miyyamîm yamîmah). Questo passo è sembra improntata alle genealogie dei patriar-
particolarmente importante in rapporto chi antidiluviani riportate nel cap. 5 della Ge-
all’equazione giorno = anno poiché alla fine nesi. In queste genealogie per ben 10 volte si
del versetto ricorre l’espressione “quattro ripete l’espressione: “E X visse tanti anni e
giorni l’anno” (’arba‘ yamîm bashanah) nella generò Y. E X, dopo che ebbe generato Y,
quale yamîm ha il significato letterale di visse tanti anni. E tutti i giorni di X furono
“giorni” e shânâh quello letterale di “anno”. tanti anni, poi morì” (ebraico: qol yemê...
2. A volte nell’Antico Testamento shânâh...).
yamîm, “giorni”, designa un periodo di tempo Un nesso significativo fra “giorni” ed
corrispondente ad un anno. “anni” da una parte ed una predizione profe-
In 1Sm 27:7, per esempio, si dice lette- tica dall’altra che si coglie nella terza frase

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CAPITOLO 8

della genealogia di Ge 5, si ritrova nel capitolo “Ricordati dei giorni antichi, considera
successivo dove, nel v. 3, Dio dice in riferi- gli anni delle età passate, interroga tuo pa-
mento alla malvagità degli antidiluviani: “Il mio dre, ed egli te lo farà conoscere,i tuoi vecchi,
spirito non dimorerà per sempre con l’uomo; ed essi te lo diranno” (De 32:7)
perché nel suo traviamento egli non è che Un paio di esempi si possono cogliere
carne; e i suoi giorni saranno quindi cento- nel libro dei Salmi:
venti anni”. Questa è la prima cronoprofezia “Ripenso ai giorni antichi,agli anni da
della Bibbia in cui “giorni” ed “anni” sono lungo tempo passati” (Sl 77:5)
messi in parallelo. “Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo
“Da questa breve rassegna - osserva cruccio, noi finiamo gli anni nostri come un
Shea - si può vedere come dal nesso che soffio. I giorni de’ nostri anni, arrivano a set-
venne stabilendosi fra le parole ‘giorno’ ed tant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni; e
‘anno’ si sviluppassero un uso linguistico ed quel che ne fa l’orgoglio non è che travaglio e
un modello mentale dai quali in seguito si vanità; perché passa presto, e noi ce ne vo-
trassero specifici rapporti quantitativi da ap- liam via” (Sl 90:9,10)
plicare in contesti profetici”. E conclude: “È “Questa lista di passi biblici nient’af-
evidente che il principio anno-giorno nella pro- fatto esaustiva - precisa l’Autore - è proposta
fezia sui generis non apparve repentina- a puro titolo esemplificativo. ‘Giorni’ ed ‘anni’
mente, ma vi fu introdotto derivandolo da un nei parallelismi dei testi citati non indicano
modello che già faceva parte del pensiero periodi di tempo brevi e lunghi, ma periodi di
ebraico” (op. cit. p. 67). Come la narrativa tempo di uguale lunghezza, calibrati però en-
storica in prosa - dice ancora il prof. Shea - la tro unità di tempo più brevi e più lunghe.
letteratura poetica dell’Antico Testamento, se L’identico processo mentale si rispecchia
non offre un criterio metodologico da appli- nelle cronoprofezie con la differenza che in
care nell’interpretazione dei periodi profetici, queste ultime l’equivalenza è specificata nu-
fornisce comunque degli esempi di associa- mericamente”.
zione fianco a fianco di due unità di tempo la Due paragrafi più sotto conclude:
cui stretta relazione reciproca è messa in luce “Il nesso stretto e particolare fra ‘giorni’
dall’uso del parallelismo poetico. Ecco alcuni ed ‘anni’ che si scorge nella prosa e nella poe-
esempi: sia dell’A.T., fornisce una base per applicare in
“I tuoi giorni son essi come i giorni del modo specifico alle cronoprofezie apocalittiche
mortale, i tuoi anni son essi come gli anni de- questo modello di pensiero” (op. cit., p. 69).
gli umani...?” (Gb 10:5) La legislazione levitica nell’ambito della
“L’empio è tormentato tutti i suoi giorni, più ampia legislazione mosaica - facciamo
e pochi son gli anni riservati al prepotente” sempre riferimento all’argomentazione del
(Gb 15:20) prof. Shea - contemplava fra altre un’istitu-
“Se l’ascoltano, se si sottomettono, fi- zione attinente all’economia agricola dell’an-
niscono i loro giorni nel benessere, e i loro tico Israele la quale prendeva il nome di anno
anni nella gloria” (Gb 36:11) sabatico (cfr. Le 25:1-7). Per sei anni, in forza
Altri esempi si possono trarre dal cap. 2 di questa istituzione, il contadino israelita do-
del Deuteronomio: veva seminare il suo campo, potare la sua vi-

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CAPIRE DANIELE

gna, raccoglierne i frutti, ma il settimo anno ‘solenne riposo’ per la terra (Le 24: 4,5).
doveva astenersene: i prodotti spontanei del “Esiste dunque un rapporto diretto fra il
campo e della vigna erano di tutti: dello stra- ‘giorno’ e l’anno’ dal momento che l’identica
niero, del povero, dello schiavo e del proprie- terminologia è applicata all’uno e all’altro; il
tario stesso del campo e della vigna. L’anno posteriore anno sabatico fu modellato sull’an-
sabatico cadeva alla fine di ogni settennio. La teriore giorno sabatico. Tale rapporto appare
legge relativa a questa istituzione esordiva quantitativamente più chiaro quando si consi-
con queste parole (v. 2): “ Quando sarete en- deri la parte successiva della legislazione
trati nel paese che io vi dò, la terra dovrà contenuta in Le 25, ovvero quella relativa al
avere il suo tempo di riposo consacrato Giubileo” (ibidem, p. 71).
all’Eterno”, letteralmente “sabatizzerà la terra Anche se Le 25:8 è un testo legislativo
un Sabato per Jahvé” (weshavthâh ha’arez - osserva Shea - il principio giorno-anno fun-
shabbath leyehowa). Il “Sabato” menzionato ziona alla stessa maniera che nel libro di Da-
qui ovviamente non è il Sabato settimanale, è niele, ovvero i ‘giorni’ proiettati nel futuro se-
l’ultimo anno di un settennio. Nel v. 4 la pre- gnano gli anni del futuro. Il passo riguarda la
scrizione è ripetuta in una forma lievemente celebrazione dell’anno giubilare e recita lette-
variente: “il settimo anno sarà un Sabato... ralmente:
per la terra, un Sabato in onore dell’Eterno” “Conterai per te sette Sabati d’anni (we-
(shabbath shabbathôn). Replicata ancora nel safartha leka sheva‘ shabthoth shanîm),
v. 5, la disposizione levitica ha la parola sette anni sette volte (sheva‘ shanîm sheva‘
“anno” nell’identica posizione in cui nel v. 4 pe‘amîm) e saranno per te i giorni dei sette
c’è la parola “Sabato”: Sabati d’anni quarantanove anni (wehayû leka
“sarà un Sabato, un completo riposo yemê sheva‘ shabthoth hashshanîm thesha‘
per la terra” (v. 4) we’arba‘im shana).
Il settimo anno La spiegazione dell’espressione nume-
“sarà un anno di completo riposo per la rica della prima frase del passo (“sette Sa-
terra” (v. 5) bati d’anni”) che viene data nella seconda
In questo parallelismo si coglie con na- frase (“sette volte sette anni”), mostra che
turalezza una identità tra Sabato dedicato alla un ‘Sabato d’anni’ deve comprendersi come
terra e anno dedicato alla terra. un periodo di sette anni. Il Sabato, settimo
“In Le 25:1-7 - osserva Shea - è chiara- giorno della settimana, è equiparato ad un
mente implicito che l’anno sabatico è model- settimo anno; l’ultimo giorno della settimana,
lato sul giorno sabatico vale a dire sul Sabato insomma, sta per l’ultimo anno di un setten-
settimanale. nio, cosicché ciascun giorno di ogni setti-
Sei giorni di lavoro erano seguiti dal set- mana terminante col Sabato equivale ad un
timo giorno di riposo sabatico: così sei anni di anno del ciclo giubilare.
lavori agricoli dovevano essere seguiti da un “Che la terminologia ‘sabatica’ - dice te-
settimo anno di riposo per la terra. Il settimo stualmente il nostro Autore - fosse inoltre uti-
giorno doveva essere un Sabato di ‘solenne lizzata per designare la ‘settimana’, risulta
riposo’ (Le 23:3); similmente il settimo anno, evidente dalla fraseologia parallela usata due
l’anno sabatico, doveva essere un Sabato di capitoli più avanti. Quivi si fa riferimento alla

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CAPITOLO 8

festa delle Settimane, o di Pentecoste, che si cipio potrà ragionevolmente applicarsi ai


celebrava in capo a sette ‘settimane intere’, “giorni” delle altre cronoprofezie danieliche.
letteralmente ‘sette sabati interi’ (shab- Il prof. Shea cita Nu 14:34 come un
bathôth tmîmoth, Le 23:15). Poiché biso- terzo caso in cui nella Bibbia il principio
gnava contare più che dei giorni di ‘Sabato’ giorno-anno è applicato in modo alquanto dif-
completi per arrivare al cinquantesimo giorno ferente da come lo è in Le 25.
fissato per la celebrazione della Pentecoste, Nel cap. 14 dei Numeri i “giorni” come
è evidente che ‘Sabati’ qui significa ‘setti- unità di misura per calcolare gli “anni” sono
mane’, come giustamente traducono il ter- presi da eventi del passato storico imme-
mine le versioni. Questa fraseologia parallela diato, precisamente dai 40 giorni che 12 uo-
attinente alla Pentecoste mostra che i ‘Sa- mini mandati da Giosuè impiegarono per
bati’ ai quali si fa riferimento in Le 25:8 in re- esplorare il paese di Canaan. Poiché il popolo
lazione al Giubileo, debbono anche significare accampato nel deserto credette al rapporto
‘settimane’. negativo presentato dalla maggior parte degli
“In definitiva il giorno del Sabato e i sei esploratori, Dio sentenziò che esso sarebbe
giorni che lo precedono vennero utilizzati come rimasto nel deserto per 40 anni:
modello per fissare, secondo le direttive divine, “Come avete messo quaranta giorni a
la ricorrenza dell’anno giubilare” (op. cit., p. 71). esplorare il paese, porterete la pena delle vo-
Ben a ragione Shea sostiene che stre iniquità quarant’anni; un anno per ogni
nell’ambito della profezia questa utilizzazione giorno (yôm lashshanath yôm lashshanath); e
del principio anno-giorno ha il suo corrispet- saprete che cosa sia incorrere nella mia di-
tivo in 9:24-27, sebbene qui ricorra un ter- sgrazia”.
mine un po’ diverso, shavu‘a, il quale tuttavia Il destino di quella generazione ribelle -
significa la stessa cosa che “Sabati” in Le errare nel deserto - “è predetto in forma di
25:8, cioè “settimane”. Che il principio anno- giudizio profetico calibrato sul principio anno-
giorno sia applicabile ai periodi temporali di giorno”. È evidente - arguisce il nostro Autore
9:24-27, risulta dunque particolarmente evi- - che interpretando un giorno come equiva-
dente dalla costruzione parallela che si trova lente a un anno nelle profezie apocalittiche, il
nella legislazione levitica relativa all’anno giu- principio anno-giorno viene applicato in ordine
bilare. “Si potrebbe quasi dire che il periodo inverso rispetto a come lo è in Nu 14:34. In
temporale contemplato in 9:24-27 sia model- questo passo un giorno passato equivale a
lato sulla legislazione giubilare” (p. 72). un anno futuro; nelle profezie apocalittiche un
Concludendo - riportiamo sempre il giorno futuro sta per un anno futuro.
pensiero di Shea - se è legittimo applicare il “Questo non significa - spiega il prof.
principio anno-giorno ai giorni della settimana Shea - che il principio anno-giorno in ciascuno
di cui si parla in Le 25 per calcolare il tempo dei due casi abbia un’origine indipendente, si-
futuro che deve trascorrere fino al prossimo gnifica soltanto che esso è stato adattato e
Giubileo, lo è anche in rapporto ai giorni delle trasformato per l’uso che se ne fece nel più
settimane di Dn 9 per calcolare il tempo fu- tardivo genere di tempo profetico apocalittico.
turo facendolo decorrere dall’inizio di quelle I due tipi di tempo profetico possono ancora
“settimane”; e per estensione lo stesso prin- essere considerati come essendo in rapporto

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CAPIRE DANIELE

l’uno con l’altro... Non è detto che l’apocalit- tro, rappresentano il progressivo degrado mo-
tica debba usare i giorni profetici della profe- rale e spirituale della società israelitica du-
zia classica alla stessa maniera di quest’ul- rante il tempo della monarchia divisa. I giorni
tima, e tuttavia l’utilizzo posteriore di siffatti durante i quali il profeta doveva “portare” i
elementi temporali è tratto dal modello-base peccati del popolo - dice W. Shea - corrispon-
fornito dalla profezia classica” (pp. 72-73). dono al tempo che Dio impiegò per giudicare
La considerazione fatta sopra vale an- il suo popolo nel tempio, come si vede dai cc.
che per quanto attiene alla divergenza fra il 1, 9 e 10 del libro di Ezechiele. Gli elementi
“modus operandi” del principio giorno-anno temporali di questa profezia giustificano il
nel Levitico e l’applicazione di esso nel libro confronto con gli elementi temporali di Nu
dei Numeri. Vale altresì nel caso di Ez 4:6 - 14:34. Da un siffatto confronto emergono si-
del quale si tratterà più avanti - ove lo stesso gnificative analogie che si apprezzano meglio
principio è applicato con una modalità ancora attraverso un raffronto delle traduzioni lette-
differente rispetto a Nu 14 e Le 25. rali dei due passi:
L’uso del principio nel libro di Daniele - Numeri 14:34: “Secondo il numero dei
posteriore rispetto a quello di Ezechiele - si giorni (bemispar hayyamîm) nei quali avete
rifà al modello più antico, quello di Le 25. In spiato il paese, quaranta giorni (’arba‘îm yôm),
sostanza si può parlare di un uso continuo giorno per anno, giorno per anno (yôm lashsha-
del principio. “Come l’uso linguistico di nah yôm lashshanah) porterete la vostra ini-
‘giorni’ accoppiati ad ‘anni’ in passi in prosa quità (this’û ‘awônothêkem) quarant’anni
e in poesia nell’Antico Testamento forma il (’arba‘îm shanah)”.
background dal quale si sviluppa il principio, Ezechiele 4:4-6: “... per il numero di
così i testi nei quali il principio anno-giorno è giorni (mispar hayyamîm) che starai sdraiato
utilizzato in maniera differente forniscono una su quel lato, tu porterai la loro iniquità (thissa’
base per l’applicazione specifica che se ne fa ’eth ‘awonam). E io ti conterò gli anni della
nell’apocalittica” (p. 73). loro iniquità (shne ‘awônam) in numero pari a
W. Shea prende ancora in esame il quello dei giorni (lemî spar yamîm): trecento-
passo di Ez 4:6. novanta giorni.
In Ez 4 si descrive un’azione simbolica Tu porterai così l’iniquità della casa
con 3 elementi principali che sono: (1) il signi- d’Israele... e porterai l’iniquità della casa di
ficato dell’azione mimata; (2) l’elemento Giuda per quaranta giorni (’arba‘îm yôm), un
crono-profetico che vi è implicato e (3) il back- giorno per un anno, un giorno per un anno
ground storico attinente all’elemento tempo- (yôm lashshanah yôm lashshanah) che io t’im-
rale. Dal contesto - osserva l’Autore - risulta pongo”.
evidente che lo scopo della parabola mimata Nella lingua originale l’uno e l’altro te-
era quello di predire l’assedio e la conquista sto presentano aspetti linguistici paralleli. In
di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi e la entrambi i passi l’atto di “portare” e l’“ini-
susseguente deportazione dei suoi abitanti. quità” portata sono espressi alla stessa ma-
I 430 anni (390 + 40), che costitui- niera; tutti e due sono introdotti con la stessa
scono la motivazione per la quale il profeta frase: “il numero dei giorni”, e tutti e due
dovrà giacere prima su un fianco poi sull’al- esprimono lo stesso concetto con l’identica

243
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CAPITOLO 8

frase replicata: “giorno per anno, giorno per scono i giudizi negativi degli esploratori).
anno”. Nei Numeri, insomma, il principio è ap-
Da questo raffronto - osserva il prof. plicato secondo l’ordine: un giorno per un
Shea - si vede che il secondo dei due passi anno, e in Ezechiele secondo il criterio in-
(Ez 4) dipende direttamente dal primo (Nu 14) verso, un anno per un giorno. Ma il principio
per vari aspetti significativi: il principio anno- operante nei due casi è lo stesso, come si
giorno applicato in Ez 4:6 è dunque, linguisti- vede dai raffronti linguistici.
camente, lo stesso principio oprante in Nu “Ezechiele - osserva Shea - non è che
14:34. dica ‘anno per il giorno’ e Numeri ‘giorno per
Tuttavia si nota una differenza nella mo- l’anno’. La fraseologia (‘un giorno per un
dalità di applicazione del principio. I “giorni” anno un giorno per un anno’) compare nei
futuri in senso profetico in Ezechiele sono due passi nell’identica forma. Non c’è alcuna
fatti derivare da un eguale numero di “anni” differenza fra di essi sebbene differisca nei
storici passati, inversamente di quel che av- due casi l’applicazione storico-cronologica.
viene in Nu 14 dove gli “anni” di giudizio Ciò significa che lo stesso principio poteva
fanno seguito ad un egual numero di “giorni” applicarsi con modalità diversificate in situa-
di trasgressione (i 40 giorni ai quali si riferi- zioni differenti” (op. cit., p. 74).

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CAPIRE DANIELE

Capitolo 9
____________________________________________________

D iversi anni sono trascorsi dal giorno in cui era stata rivelata a Daniele la vi-
sione del montone e del capro quando un evento epocale ha mutato l’assetto
politico del mondo orientale e ha riacceso la speranza nel cuore dei giudei che vi-
vono nell’esilio in Babilonia.: la nazione che ha distrutto Gerusalemme e il tem-
pio del Dio d’Israele, la nazione che ha devastato il paese di Giuda e ne ha sradi-
cato gli abitanti, la potente e crudele Babilonia è caduta nelle mani dei Persiani.
Si è così compiuto il suo fato, annunciato sessantasei anni prima dal profeta Ge-
remia. La Caldea, dove vivono dispersi gli esuli di Giuda, è divenuta una provin-
cia della nuova potenza egemone: la governa Dario il Medo, luogotenente e re-
vassallo di Ciro, il gran re di Persia. Che sia spuntato il giorno agognato del ri-
torno in patria? Che sia giunto per la città santa e per il suo santuario il tempo fe-
lice della rinascita? - debbono aver pensato i deportati. Daniele dovrebbe esultare,
invece è inquieto.
Lo turba il pensiero che l’infedeltà degli esuli possa ritardare la loro libera-
zione. E allora prega. Prega il suo Dio affinchè Egli voglia perdonare il peccato
del suo popolo ed esso torni libero nella terra dei padri e Gerusalemme e il tempio
del Signore risorgano dalle macerie. La risposta del Cielo giunge immediata, re-
cata da Gabriele, l’angelo della rivelazione che sette anni prima ha spiegato al
profeta la visione del montone e del capro. Si illumina un particolare essenziale
che allora era rimasto nell’oscurità e si annuncia l’avvento di una nuova èra di
restaurazione e di salvezza per Israele e per tutte le nazioni della terra.

1 Nell’anno primo di Dario, figliuolo d’Assuero, della stirpe dei Medi,


che fu fatto re del regno dei Caldei,

Com’è sua abitudine, Daniele apre con l’indicazione della data il racconto di una
nuova esperienza rivelatoria. È l’anno primo di Dario il Medo figlio di Assuero
quando riceve per la terza volta una rivelazione divina. Il nome di Dario il Medo
figlio di Assuero è sconosciuto a tutte le fonti antiche di cui si è a conoscenza.
Questo però non significa necessariamente che il personaggio sia una figura leg-
gendaria.
Anche il nome del suo predecessore sul trono di Babilonia, Beltsasar, era
ignoto a tutte le fonti greche e babilonesi note fino al 1861. Poi comparve ina-
spettatamente in un documento e si vide che la funzione pubblica della persona
che lo portava concordava con la funzione che Daniele attribuisce a Beltsasar

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CAPITOLO 9

nel cap. 5 del suo libro330. Una fra le diverse proposte di identificazione del Da-
rio danielico con un personaggio storico dell’epoca, appare più verosimile delle
altre. È quella che accosta questa figura a un personaggio eminente dell’entou-
rage di Ciro il Grande, Gubaru, o Ugbaru, governatore del Gutium e conquista-
tore di Babilonia per conto del sovrano persiano 331.

330 - Nel 1861 H.F.TALBOT pubblicò i testi di alcuni cilindri di terracotta rinvenuti 7 anni prima da
J.E.Taylor presso la torre templare di Ur. Uno dei testi suddetti riportava una preghiera che il re
Nabonide rivolgeva al dio Sin in occasione del restauro della ziqqurat. In quella preghiera per la
prima volta compariva il nome di Beltsasar. Nelle righe 24-28 del documento cuneiforme si po-
teva leggere la seguente richiesta alla divinità:

“... e quanto a Bel-sar-usur (Beltsasar), il figlio primogenito, il rampollo del mio cuore, il ti-
more della tua grande divinità nel suo cuore fa’ esistere.

Il nome di Beltsasar appariva così in una fonte babilonese contemporanea e questo personag-
gio vi compariva come il figlio primogenito di Nabonide. Poi il nome di Bel-sar-usur comparve in
diversi documenti venuti in luce negli anni successivi”.
Nel 1944 fu ripubblicato in una versione più corretta un testo babilonese conservato nel Mu-
seo Britannico (BM 38299) dove si trova tuttora, noto col nome di Racconto in versi di Nabo-
nide (il testo suddetto era stato pubblicato vari decenni prima da Sidney Taylor). Questo docu-
mento a un certo punto informa:

“Egli (Nabonide) affidò il campo al (figlio) più anziano, il primogenito,


le truppe in (tutto) il paese pose sotto il suo (comando).Si (disinteressò) di tutto e conferì a
lui la regalità (sharrûtim),
ed egli stesso partì per un lungo viaggio...
si diresse verso Tema (lontano) nell’occidente”.
(ANET, p. 313)

La notizia è confermata direttamente da Nabonide in uno dei testi di Harran pubblicato nel 1958:

“Io mi recai molto lontano dalla mia città di Babilonia in direzione di Tema... Per dieci anni
io mi trattenni in mezzo a loro e non feci ritorno alla mia città di Babilonia”. (Riportato da G.
PETTINATO in Babilonia, centro dell’universo, p. 231)

Un quarto documento noto come la Cronaca di Nabonide, pubblicato la prima volta da F.G.PIN-
CHES nel 1882 e ripubblicato da S. TAYLOR nel 1924, riferisce che la festa dell’Akitu o dell’Anno
Nuovo, non fu celebrata in Babilonia dall’anno settimo di Nabonide perché il re non tornò più
da Tema (il testo si trova in ANET, p. 306).
Dai documenti citati si evince quanto segue:
1. che Nabonide nell’anno settimo del suo regno partì per Tema (nell’Arabia del nord);
2. che prima di partire conferì la regalità al figlio primogenito;
3. che il nome del figlio primogenito di Nabonide era Bel-sar-usur (Beltsasar);
4. che a Tema Nabonide rimase 10 anni, praticamente fino alla caduta di Babilonia nel 539 a.C.
Tutto sembra concordare con le notizie che ci fornisce Daniele su questo personaggio.

331 - Vedi Appendice A a fine capitolo.

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CAPIRE DANIELE

Si è sentenziato con troppa fretta che Daniele in 5:31, nel cap. 6 e in 9:1
confonda il successore di Beltsasar sul trono di Babilonia con Dario I figlio
d’Istaspe. L’illazione è gratuita perché:

1) Daniele distingue il successore di Beltsasar da Dario I col precisare che


quello apparteneva alla stirpe del Medi (mentre questo era persiano) e che
al momento di salire sul trono di Babilonia aveva 62 anni (laddove Dario I
era più giovane quando assunse la reggenza del regno persiano).

2) Daniele conosce bene la serie dei primi sovrani che regnarono sulla Per-
sia dopo la caduta di Babilonia. Infatti nell’anno terzo di Ciro un angelo gli
svela che “sorgeranno ancora in Persia tre re” (dopo Ciro che regna già al
momento della rivelazione), “poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti
gli altri; e quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti
contro il regno di Yawan” (Dn 11:2). Nel quarto re che solleva tutti contro il
regno di Yawan è trasparente la figura di Serse I, l’invasore della Grecia e
distruttore di Atene. I tre che lo precedono sono nell’ordine: Cambise II
successore di Ciro, l’usurpatore Gaumata e Dario I figlio di Istaspe e padre
di Serse.

3) Daniele sa infine che Ciro regna sulla Persia (10:1) e che Dario il Medo go-
verna soltanto la Caldea e con potere subordinato: “fu fatto re dei Caldei” (9:1).

2 il primo anno del suo regno, io, Daniele, meditando sui libri, vidi
che il numero degli anni di cui l’Eterno avea parlato al profeta Gere-
mia, e durante i quali Gerusalemme doveva essere in ruine, era di
settant’anni.

Il regno di Dario il Medo (vedi nota 2) deve essere cominciato nell’autunno del
539 a.C., subito dopo la caduta di Babilonia nelle mani dei medo-persiani. Col
tramonto di Babilonia un evento epocale si è consumato: la potente nazione me-
sopotamica che ha fatto tremare il Vicino Oriente, la nazione pagana che ha de-
vastato Giuda e Gerusalemme e distrutto il tempio di Yahweh, Babilonia che ha
deportato e mantenuto nell’esilio il popolo di Dio è crollata di schianto.
Daniele non è certo rimasto indifferente di fronte al mutato quadro politico.
Egli ha con sé alcuni dei venerati libri (sefarîm) della tradizione canonica
d’Israele. Non possiamo sapere quanti e quali, ma certamente più d’uno e fra di
essi un rotolo di Geremia. Indagando nei “libri” il profeta cerca di capire il signi-
ficato di quel numero di anni - settanta - che secondo la parola rivelata da
Yahweh a Geremia dovevano trascorrere sulle rovine di Gerusalemme: hænf$
{yi(b
: $ i i{al$
f Urºy tOb:rx f l
: tw)oLm
a l
: )yibNæ h
a hæym
i r
: yé -le) hæwhºy-rabd
: hæyh
f re$)
A {yén<
f h
a raPs: m
i
{yirpf S: B
a yitonyiB l)¢Yné D A ’ani danî’el bînothî bassefarîm mispar hashshanîm ’asher
f yén)
hayah devar yehowah ’el yirmyâh hannavî’ lemallo’wth lecharvôth yerûshalaim

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CAPITOLO 9

shiv‘îm shânâh, alla lettera: “io, Daniele, (cercavo) di capire dai libri il numero
degli anni nei quali secondo la parola di Yahweh a Geremia il profeta, (dove-
vano compiersi) le desolazioni di Gerusalemme: settant’anni” (l’uso del verbo
bîn, “comprendere”, denota ancora una volta la tensione continua di Daniele a
comprendere quanto gli viene rivelato in modo sovrannaturale o quanto il corso
degli eventi temporali sembra indicare). In due punti del suo libro Geremia fissa
in 70 anni la durata del castigo di Giuda: in 25:11-12 e in 29:30332.
Nel primo passo il profeta annuncia la desolazione del paese e l’asservi-
mento dei suoi abitanti al re di Babilonia per la durata di 70 anni, nel secondo
preconizza il ritorno dei deportati dopo che avranno trascorso un settantennio in
Babilonia. Il riferimento di Daniele a Geremia in 9:2 si rapporta piuttosto alla
prima delle due predizioni di questo profeta riguardo all’esilio, sebbene en-
trambe inquadrino sostanzialmente la stessa prospettiva. S’intravede un collega-

332 - La cronologia del settantennio differisce secondo che questo periodo temporale si appli-
chi alla durata dell’esilio o alla durata della desolazione del tempio. Nel primo caso i 70 anni
decorrono dall’inizio della deportazione, nel secondo dalla distruzione del tempio. Secondo Dn
1:1 la prima deportazione di cittadini di Giuda in Babilonia avvenne nell’anno terzo del re Gioia-
chim (gli anni di regno essendo calcolati in base al criterio babilonese della post-datazione) o
nell’anno quarto secondo Gr 25:1 (con gli anni di regno computati in base al criterio della pre-
datazione in uso in Giuda).
Era comunque il 605 a.C. a prescindere dal sistema di conteggio degli anni. Se si contano 70
anni a partire da questa data, si perviene al 636 a.C., tenendo conto del calcolo inclusivo del
tempo in forza del quale si calcolavano come anni interi le frazioni dell’anno iniziale e dell’anno
finale del periodo considerato.
Il decreto di Ciro che consentiva il rimpatrio degli esuli deve essere stato promulgato agl’inizi
del 538 a.C., Babilonia essendo stata conquistata nell’autunno del 539.
Nel 537 debbono essere stati portati a termine i complessi preparativi in vista del rimpatrio e
nell’estate del 536 debbono essere arrivati a Gerusalemme i primi contingenti dei rimpatriandi,
tenendo conto che ci volevano almeno 5 mesi (Ed 7:9) ad una schiera di gente appiedata per
coprire la distanza fra Babilonia e Gerusalemme. Che non sia un’impresa semplice stabilire le
date di avvenimenti dell’era pre-cristiana si comprende quando si tenga presente che i crono-
logi moderni calcolano gli anni avanti Cristo in base al calendario giuliano con l’inizio dell’anno
il 1° gennaio, mentre gli Ebrei li contavano in base al loro calendario luni-solare con l’inizio
dell’anno in settembre/ottobre (Tishri) e i Babilonesi in base allo stesso tipo di calendario ma
con l’inizio dell’anno in marzo/aprile (Nisan).
Riferiti alla desolazione del tempio i 70 anni debbono decorrere dall’anno undicesimo di Sede-
chia, il 587 a.C. quando il sacro edificio fu distrutto dai Babilonesi (cfr. 2Re 25:2,8-10, Gr
52:5, 12-14). Il tempio ricostruito fu dedicato al culto l’anno sesto del regno di Dario I (Esd
6:15) corrispondente al 516 a.C., esattamente 70 anni dopo la sua distruzione. Tanto l’esilio
quanto la desolazione del tempio durano 70 anni, pur se i due segmenti di tempo di identica
lunghezza appaiono sfalsati di una ventina d’anni l’uno rispetto all’altro.

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CAPIRE DANIELE

mento fra il tempo della desolazione annunciata da Geremia e l’antica legge


dell’anno sabbatico 333.
Daniele sa che sono trascorsi 66 anni da quando lui e i suoi compagni fu-
rono tolti alle famiglie e deportati in Babilonia nell’anno terzo del regno di
Gioiachim (il 605 a.C.). È dunque prossima la redenzione del suo popolo annun-
ciata dal profeta Geremia?... Comunque Daniele non è sereno...

3 E volsi la mia faccia verso il Signore Iddio, per dispormi alla pre-
ghiera e alle supplicazioni, col digiuno, col sacco e con la cenere.

La consapevolezza che è vicina la fine dell’esilio non ha suscitato contentezza


nell’animo di Daniele, ma inquietudine. Egli certo non ha dubitato che la pro-
messa del Signore data per bocca di Geremia sia verace, ma non ignora che le
promesse divine sono condizionate, secondo la parola rivelata, sempre a Gere-
mia, nella bottega del vasaio (Gr 18:7-10).
Il vecchio profeta è anche a conoscenza della precaria condizione spirituale
della sua gente deportata nella Babilonide. Lo opprime, dunque, il pensiero che
per i peccati del popolo nell’esilio possa essere rinviato sine die il suo rimpatrio
e procrastinata a tempo indeterminato la ricostruzione del desolato santuario del
Signore e della sua santa città in rovine. Da questa riflessione penosa Daniele è
indotto a cercare Dio nella preghiera: “Volsi la mia faccia verso il Signore...”
Forse è un’allusione ad un orientamento fisico del profeta in direzione di Geru-
salemme (6:10). Per Daniele Dio ({yihol) E hf ha ‘Elohîm, il Potente), è anche il Si-
gnore (yænod)
A ’Adonai, il Sovrano).
A Lui rivolgerà la sua preghiera (hfLpi T: tefillah), cioè l’effusione dell’animo, e

333 - L’estensore del libro delle Cronache nel riferire i fatti tragici dell’anno undicesimo di Sede-
chia (587 a.C.), coglie un nesso fra Gr 25:9-13 e Le 26:34-43. Egli puntualizza che la sciagura
che si abbatté su Gerusalemme ed i suoi abitanti avvenne “affinché s’adempiesse la parola
dell’Eterno pronunciata per bocca di Geremia, fino a che il paese avesse goduto dei suoi Sa-
bati, difatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono com-
piuti i settant’anni” (2Cr 36:19-21).
Si evidenzia in questo passo una terza conseguenza della catastrofe del 587 a.C. oltre a quelle
preannunciate da Geremia (la desolazione del paese e la deportazione dei suoi abitanti), cioè il
riposo della terra per tutta la durata della desolazione. Il cronista sembra voler dire che fu ri-
dato alla terra il riposo prescritto dalla legge dell’anno sabbatico enunciata in Le 25:2-7, riposo
del quale essa era stata defraudata per tanti anni (70 anni corrispondono a 10 anni sabbatici).
È significativo che Gesù, secondo Lc 4:17-19, definisse la natura e lo scopo del suo ministero
messianico col richiamarsi ad un passo di Isaia (61:1-2) ove sono tramutati profeticamente in
future benedizioni messianiche i benefici sociali dell’anno giubilare (Le 25:13-16, 39-41, 54), a
sua volta collegato con l’anno sabbatico (Le 25:8).
Letti alla luce di Lc 4:18-19, Le 25:8 e 25:10-13, 39-41 sembrano additare al futuro riscatto
messianico, il tema centrale della rivelazione di Dn 9:24-27.

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CAPITOLO 9

le sue supplicazioni ({yénUnAxt


a tachanûnîm), ovvero le petizioni permeate di fer-
vore umile e intenso per conseguire le grazie divine che gli stanno a cuore. Lo
farà con veste di sacco, con digiuno e con cenere cosparsa sul capo come si
conviene ad un peccatore penitente (erano, quelli, i segni esteriori di una
profonda costernazione e contrizione del cuore; cfr. Et 4:1).

4 E feci la mia preghiera e la mia confessione all’Eterno, al mio Dio,


dicendo: “O Signore, Dio grande e tremendo, che mantieni il patto e
continui la benignità a quelli che t’amano e osservano i tuoi coman-
damenti! 5 Noi abbiamo peccato, ci siamo condotti iniquamente, ab-
biamo operato malvagiamente, ci siamo ribellati, e ci siamo allonta-
nati dai tuoi comandamenti e dalle tue prescrizioni, 6 non abbiamo
dato ascolto ai profeti, tuoi servi, che hanno parlato in tuo nome ai
nostri re, ai nostri capi, ai nostri padri, e a tutto il popolo del paese.

A Colui che porta il nome ineffabile (hæwhy Yahweh) cui lo legano forti vincoli af-
fettivi (yahol)
E ’Elohay, “il mio Dio”), Daniele presenta la sua supplicazione e la sua
confessione (heDwá t e ’ethwaddeh).
: )
Supplicazioni e confessione sono dunque i contenuti della preghiera, ma
nel presentarle al Signore Daniele ne inverte l’ordine: prima confessa, poi sup-
plica. L’esordio: “Ah! Signore, il Dio grande e tremendo...” ()frONahwº lOdfGh a l")h
f
yænod) f ’anna’ ’adonay ha’el haggadol wehannôra’...) fa trasparire i sentimenti
A )æN)
di riverente timore del peccatore penitente davanti alla grandezza e alla maestà
di Dio. La sua fedeltà indefettibile (“che mantieni il patto”) e la sua ininterrotta
benevolenza (“e continui la benignità”) verso coloro che lo amano e osservano i
suoi comandamenti, sono i presupposti sui quali l’implorante fonda la sua fidu-
cia (cfr. Es 20:6).
Nel confessare i peccati del suo popolo Daniele non si estranea, non
prende le distanze: “Noi abbiamo peccato...” Anche nel peccato il profeta si fa
solidale con la sua gente. Una confessione è sincera quando la colpa è messa a
giorno senza attenuanti e giustificazioni. Così è la confessione di Daniele: non
vaga e generica, non attenuata e parziale, ma definita e completa.
Con 5 forme verbali sono enumerate altrettante colpe specifiche: Un)f+fx
chata’nû, “noi abbiamo peccato” (da chata’, “mancare lo scopo”); Unyéw(f ‘awînû,
“noi abbiamo agito perversamente” (da ‘awah, un verbo che implica allontana-
mento dalla retta via); Un:($ a r i hirsha’nû, “noi abbiamo agito malvagiamente” (da
: h
râshâ‘, “condursi malvagiamente”); Un:dr f maradenû, “ci siamo ribellati” (da ma-
f m
rad, “insorgere”, “rivoltarsi”); rOs “deviare”, “stornarsi” (all’infinito). L’orante -
commenta H.C.Leupold - “riconosce che tutte le forme di espressione che carat-
terizzano il peccato sono applicabili a Israele, e questo è un segno essenziale
della genuinità del pentimento: la colpa non è stata sminuita” 334.

334 - H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 384.

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CAPIRE DANIELE

La confessione prosegue col riconoscimento di una colpevole noncuranza


nella quale la comunità d’Israele a tutti i livelli è stata coinvolta: “Non abbiamo
dato ascolto ai profeti, tuoi servi, che hanno parlato in tuo nome ai nostri re, ai
nostri capi, ai nostri padri e a tutto il popolo del paese” (cfr. 2Cr 36:11-16).
“Daniele non cercò di giustificarsi e di giustificare il suo popolo davanti a
Dio, al contrario confessò le loro trasgressioni con umiltà e contrizione, senza
sminuirne la gravità, senza tacere i demeriti. E riconobbe che era stato giusto il
procedere di Dio verso una nazione che non aveva tenuto conto delle sue ri-
chieste nè aveva prestato ascolto ai suoi appelli”335.

7 A te, o Signore, la giustizia; a noi, la confusione della faccia, come


avviene al dì d’oggi: agli uomini di Giuda, agli abitanti di Gerusa-
lemme e a tutto Israele, vicini e lontani, in tutti i paesi dove li hai
cacciati, a motivo delle infedeltà che hanno commesse contro di te.

Al Signore (yænod)
A ’Adonay) Daniele ascrive la giustizia (hfqd f C a hatztzadaqah), a
: h
sé medesimo e alla sua gente “la vergogna sul volto” ({yénPf h a te$oB bosheth hap-
panîm) che la presente condizione di gente senza patria rende manifesta a tutti.
La confessione coinvolge nella loro totalità gli appartenenti al popolo di
Dio, tanto i più avvantaggiati cittadini di Giuda e Gerusalemme quanto gli abi-
tanti del più lassista regno di Samaria, deportati e dispersi prima di loro, giacché
quelli non furono meno colpevoli di questi. La vergogna dunque copre il volto
di tutti i dispersi, quelli di Giuda - i vicini - e quelli di Samaria - lontani - tutti
ugualmente puniti perché tutti alla stessa maniera colpevoli di infedeltà verso
Dio. La giustizia divina è pienamente rivendicata e la colpa del popolo è messa
a nudo senza attenuanti. Il contrasto è radicale.

8 O Signore, a noi la confusione della faccia, ai nostri re, ai nostri


capi, e ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro te.

Ancora una volta il supplicante riconosce davanti al Signore la meritata condi-


zione di miseria del popolo colpevole dal quale egli non si dissocia: “O Signore,
a noi la vergogna sul volto”.
In una situazione di colpa collettiva si è generalmente propensi a chiamare
in causa le responsabilità altrui prima di riconoscere le proprie. Daniele procede
in ordine inverso: prima riconosce la colpevolezza sua e della sua generazione,
poi chiama in causa le trascorse generazioni cominciando dai vertici dell’organiz-
zazione sociale e politica della sua nazione: i re e i capi. In una struttura di go-
verno di tipo teocratico, qual era quella d’Israele, la responsabilità dei governanti
per la generalizzata infedeltà verso Dio era certo maggiore che la responsabilità
dei governati. Le colpe del passato comunque non attenuano la gravità delle

335 - ELLEN G. WHITE, Testimonies for the Church, vol. V, p. 636.

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CAPITOLO 9

colpe del presente: “Poiché (tutti) abbiamo (ugualmente) peccato conto di te”.

9 Al Signore, ch’è il nostro Dio, appartengono la misericordia e il


perdono; poiché noi ci siamo ribellati a lui, 10 e non abbiamo dato
ascolto alla voce dell’Eterno, dell’Iddio nostro, per camminare se-
condo le sue leggi, ch’egli ci aveva poste dinanzi mediante i profeti
suoi servi.

A questo punto dell’invocazione s’interrompe il riferimento diretto a Dio (“a te”,


leka, nel v. 7); di lui si parla in terza persona: “Al Signore nostro Dio”, Uny"hol)
E yæ-
nod)al la’donay ’elohênu. È piuttosto una riflessione dell’orante sulla disponibilità
di Dio a perdonare che non una invocazione.
“Al Signore nostro Dio...”. È una dichiarazione più formale e dignitosa -
commenta H.C. Leupold - che riflette in modo più pieno la maestà di Dio”.
“Al Signore nostro Dio (appartengono) la misericordia e il perdono”
(tOxilS: h
a wº {yimx
A r f harâchamîm wehasselichôth). Se addolora e opprime il cuore il
a h
sentimento della colpa, conforta e infonde speranza la certezza che Dio è miseri-
cordioso e propenso a perdonare. Se il castigo ha reso manifesta la sua giustizia,
il perdono metterà in luce la sua grazia.
Il “perché” (yiK ki) nel v. 9 è esplicativo: la misericordia e il perdono di Dio
sono necessari perché c’è stata una insensata ribellione contro di Lui. Il pensiero
di Daniele ritorna dunque sulla realtà angosciante del peccato, e la sua preghiera
si fa di nuovo confessione, o piuttosto riconoscimento di colpevolezza, ma nella
sua riflessione, come traspare dall’uso della terza persona in riferimento a Dio:
“... e non abbiamo dato ascolto alla voce dell’Eterno, dell’Iddio nostro” (Uny"hol) E
hæwhºy lOq:B beqôl Yehowa ’elohênû). È anche trasparente nell’uso del verbo e del
pronome alla prima persona plurale laddove fa riferimento ai soggetti della
colpa (“non abbiamo dato ascolto... le sue leggi, che egli ci aveva poste di-
nanzi...”), che il supplicante si include nel novero dei ribelli alla voce di
Yahweh.
La riflessione-confessione si concentra ancora sulla specificità del peccato:
non sono stati accolti gli appelli di Dio a vivere in conformità con le sue leggi
(wyftorOt thôrotâyw).

11 Sì, tutto Israele ha trasgredito la tua legge, s’è sviato per non ub-
bidire alla tua voce; e così su noi si sono riversate le maledizioni e
imprecazioni che sono scritte nella legge di Mosè, servo di Dio, per-
ché noi abbiam peccato contro di lui.

La confessione è di nuovo diretta, l’orante rivolgendosi a Dio in seconda per-


sona: “Sì, tutto Israele ha trasgredito la tua legge, s’è sviato per non ubbidire alla
tua voce...” Ancora una volta è specificato il peccato d’Israele e stavolta si ha
l’impressione che il profeta se ne dissoci (“...Israele ha trasgredito...”), ma non è
così: “... su di noi si son riversate le maledizioni e imprecazioni che sono scritte
nella legge di Mosè, servo di Dio, perché noi abbiamo peccato...” Daniele rico-

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CAPIRE DANIELE

nosce nella sciagura che si è abbattuta sul suo popolo l’avverarsi delle maledi-
zioni annunciate nella legge di Mosè contro i suoi trasgressori. Probabilmente
egli pensa a quei passi ammonitori del Levitico e del Deuteronomio nei quali la
desolazione del paese e la deportazione in terre lontane dei suoi abitanti sono
prospettate come il castigo di Dio sui trasgressori delle sue leggi (vedi Le 26:32-
34, 45; De 28: 49-52; 64,65).

12 Ed egli ha mandato ad effetto le parole che aveva pronunziate


contro di noi e contro i nostri giudici che ci governano, facendo ve-
nir su noi una calamità così grande, che sotto tutto il cielo nulla mai
è stato fatto di simile a quello ch’è stato fatto a Gerusalemme.
13 Com’è scritto nella legge di Mosè, tutta questa calamità ci è venuta
addosso; e, nondimeno, non abbiamo implorato il favore dell’Eterno,
del nostro Dio, ritraendoci dalle nostre iniquità e rendendoci attenti
alla sua verità. 14 E l’Eterno ha vegliato su questa calamità, e ce l’ha
fatta venire addosso; perché l’Eterno, il nostro Dio, è giusto in tutto
quello che ha fatto, ma noi non abbiamo ubbidito alla sua voce.

Di nuovo la confessione si fa indiretta. Daniele torna a riferirsi a Dio in terza


persona: “Ed egli ha mandato ad effetto le parole che aveva pronunciate contro
di noi...” Ancora una riflessione dentro la confessione. La sciagura che ha tra-
volto Israele non è avvenuta per caso, tutto è successo perché il Signore ha reso
operante la sua parola, in questo caso una parola di maledizione contro i viola-
tori della sua santa legge.
Senza il suo consenso, mai le milizie dei re d’Assiria e di Babilonia avreb-
bero potuto invadere e devastare Samaria e Giuda e deportarne gli abitanti, mai
sarebbe stato permesso a Nabucodonosor di distruggere la santa città ed il san-
tuario del Signore. Mai, insomma, si sarebbe prodotta quella catastrofe inaudita:
“sotto il cielo nulla mai è stata fatto di simile a quello ch’è stato fatto a Gerusa-
lemme”. E tutto questo “era scritto nella legge di Mosè”: “Desolerò il paese... E
quanto a voi, io vi disperderò fra le nazioni... il vostro paese sarà desolato, e le
vostre città saranno deserte” (Le 26: 32-33). Ma la durissima lezione non è ser-
vita: “... nondimeno non abbiamo implorato il favore dell’Eterno, del nostro Dio,
ritraendoci dalle nostre iniquità e rendendoci attenti alla sua verità” (tem)
E ’emeth,
la verità rivelata nella sua santa legge).
Daniele riconosce la giustizia di Dio e la responsabilità d’Israele nelle cala-
mità che si sono abbattute sul popolo: “L’Eterno, il nostro Dio, è giusto in tutto
quello che ha fatto, ma noi non abbiamo ubbidito alla sua voce”. È stata formu-
lata qualche critica a proposito dell’aspetto formale di questa estesa e circostan-
ziata confessione, non condivisa però da un espositore meticoloso come Leu-
pold: “Non è esatto... che l’impeto delle emozioni che hanno fatto scaturire que-
sta confessione abbia dato luogo, come hanno creduto alcuni, compreso Hae-
vernick, ad una sequela di pensieri non abbastanza chiaramente articolati o logi-
camente coordinati. Può bensì essere vero che la progressione dei pensieri non
sia chiaramente marcata, come lo è talvolta in altri casi, ma quando un senti-

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CAPITOLO 9

mento intenso pervade un discorso, come avviene con tutta evidenza in questo
caso, facilmente l’emozione respinge dietro le quinte la logica”336.

15 Ed ora, o Signore, Iddio nostro, che traesti il tuo popolo fuori del
paese d’Egitto con mano potente, e ti facesti il nome che hai oggi, noi
abbiamo peccato, abbiamo operato malvagiamente.

La confessione si chiude con l’evocazione di un grandissimo evento del passato,


in cui rifulse la potenza redentrice di Dio verso il suo popolo. Un’evocazione
che mette in risalto l’immensa ingratitudine d’Israele: contro il suo Dio che lo
trasse fuori dall’Egitto con mano potente esso ha peccato ed ha agito malvagia-
mente. Per la quarta volta ritorna nella confessione di Daniele la frase: “Noi ab-
biamo peccato”, rivelando quanto opprimesse il suo cuore il peccato d’Israele
nel quale ancora una volta egli coinvolge sé stesso.

16 O Signore, secondo tutte le tue opere di giustizia, fa’, ti prego, che


la tua ira e il tuo furore si ritraggano dalla tua città di Gerusa-
lemme, il tuo monte santo; poiché per i nostri peccati e per le ini-
quità de’ nostri padri, Gerusalemme e il tuo popolo sono esposti al
vituperio di tutti quelli che ci circondano.

Dopo la confessione, la petizione. Quasi volendo subito sgombrare il campo da


ogni più piccola presunzione di merito, Daniele invoca la misericordia divina
prima di presentare le sue richieste: “Signore, secondo tutta la tua giustizia...”
(!etoqd
: c A ’adonay kekol-tzidkoteka...).
i -lfkK: yænod)
Per prima cosa il profeta supplica il Signore che ponga fine alla sua indi-
gnazione verso Gerusalemme: “... si plachi la tua ira e il tuo sdegno verso Geru-
salemme, tua città, verso il tuo monte santo...” (versione della C.E.I.). Daniele
pensa allo scadere imminente dei 70 anni? È possibile.
Il “monte santo” è il colle di Sion caro ai salmisti (Sl 48:2; 78:68; 125:1), ora
cosparso delle rovine di Gerusalemme. Lo santificava la presenza del santuario,
mistica dimora del Signore (Sl 72:2 u.p.). Mille volte profanato e dissacrato da
atti criminali e idolatrici, il “monte santo” infine fu abbandonato al furore deva-
stante dei Caldei e alla desolazione.
Se la rovina della città santa e del tempio di Yahweh e se la deportazione
degli abitanti del paese erano state conseguenza delle colpe di ieri, il permanere
dello stato di abbandono del paese e della misera condizione dei deportati -
sventure che davano adito agli scherni dei pagani - sono l’effetto delle colpe di
oggi: “per i nostri peccati e per le iniquità dei nostri padri Gerusalemme e il tuo
popolo sono esposti al vituperio di tutti quelli che ci circondano”. Ancora un ri-
conoscimento della colpa, quella passata e quella presente.

336 - Op. cit., p. 382.

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CAPIRE DANIELE

17 Ora dunque, o Dio nostro, ascolta la preghiera del tuo servo e le


sue supplicazioni, e fa’ risplendere il tuo volto sul tuo desolato san-
tuario, per amor del Signore!

Dalla richiesta al Signore di porre fine allo sdegno, Daniele passa alla domanda
di volgersi propizio verso il suo santuario: “Ed ora ascolta o nostro Dio la pre-
ghiera del tuo servo e la sua supplica...” (wyænUnAxTa -le)wº !:Db
: (a taLpi T: -le) Uny"hol) E (am$:
hfT(a wº we‘attah shema‘ ’elohênû ’el tefillath ‘avdeka we’el tachanûnâyw...).
Da questo punto la preghiera di Daniele si fa supplicazione: “... fa risplen-
dere il tuo volto verso il tuo desolato santuario...” ({"m< f ha !:$D f q: m
i -la( !yånPf r")hf wº
weha’er paneykâ ‘al miqdashka hashshomem...).
Gerusalemme in rovine, il popolo esposto al vituperio, il santuario desolato:
sono questi i motivi per i quali il profeta implora la misericordia di Dio in nome
dell’amor suo.

18 O mio Dio, inclina il tuo orecchio, ed ascolta; apri gli occhi e


guarda le nostre desolazioni, e la città sulla quale è invocato il tuo
nome; perché noi umilmente presentiamo le nostre supplicazioni nel
tuo cospetto, fondati non sulle nostre opere giuste, ma sulle tue
grandi compassioni.

Il vocativo col suffisso pronominale di prima persona, yahol) a hatheh ’elohay,


E h"+h
“Oh Dio mio”, esprime tutta l’intensità della supplica di Daniele. “... inclina il tuo
orecchio...”, sembra ora che il supplicante domandi al Signore di chinarsi fino a
lui, piccola creatura terrena, nel timore che la sua flebile voce si perda nello spa-
zio infinito che lo separa dall’Iddio grande ed eterno lassù nei cieli altissimi.
Il linguaggio si fa ardito: “apri gli occhi e guarda...”, come se lo sguardo del
Signore dell’universo fino a quel momento fosse rivolto altrove. È un modo di
esprimersi che solo agli uomini di grande fede è permesso. “... guarda le nostre
desolazioni...” - la solitudine del popolo di Dio in terra straniera e lo stato di ab-
bandono della patria lontana - “e la città sulla quale è invocato il tuo nome” -
Gerusalemme ridotta a una desolata rovina in favore della quale si levano a Lui
le supplicazioni di Daniele e dei suoi compagni di sventura.
Daniele sembra intuire, o essere informato, che altri fratelli nell’esilio, come
lui invochino con umiltà il perdono ed il favore di Dio: “Noi umilmente presen-
tiamo le nostre supplicazioni nel tuo cospetto, fondati non sulle nostre opere
giuste, ma sulle tue grandi compassioni”.
Daniele supera prima ancora che sia nato il legalismo del tardo giudaismo e
sorprendentemente anticipa di 6 secoli la teologia della grazia enunciata
dall’apostolo Paolo. Daniele è ben consapevole che né i suoi connazionali né lui
stesso hanno alcun merito su cui fondare le richieste rivolte a Dio: egli si basa
unicamente sulla misericordia divina.

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CAPITOLO 9

19 O Signore, ascolta! Signore, perdona! Signore, sii attento ed agisci;


non indugiare, per amor di te stesso, o mio Dio, perché il tuo nome è
invocato sulla tua città e sul tuo popolo!”

L’incalzare delle richieste sembra tradire un senso di urgenza. La forza della sup-
plicazione è comunque accresciuta dall’aggiunta della finale âh ai primi tre
verbi: shem‘âh, selachâh, haqshivâh.
Questa particella ebraica ha una funzione paragonabile a quella dell’interie-
zione italiana “deh” ! Il prof. Giovanni Rinaldi, molto attento al testo originale, ha
tradotto il v. 19: “Signore, deh, ascolta! Signore, deh, perdona ! Signore, deh,
presta attenzione, agisci...!”. L’ultimo verbo, ’achar (“indugiare”, “ritardare”) pre-
ceduto dall’avverbio di negazione ’al, “non”, sembra tradire il timore che la fine
delle angustie dei deportati e l’inizio della restaurazione nazionale allo scadere
dei 70 anni predetti da Geremia (vedi il commento del v. 3) possano essere dif-
feriti a causa del persistere del peccato in seno alla comunità degli esuli. Daniele
invoca il perdono confidando nella bontà del signore: “per amore di te stesso”,
cioè: perché perdonare è conforme alla tua natura. “Lo spirito di questa pre-
ghiera - osserva Boutflower - è ciò che deve guidare alla retta comprensione
della rivelazione da cui venne ad essa la risposta”.337

20 Mentre io parlavo ancora, pregando e confessando il mio peccato


e il peccato del mio popolo d’Israele, e presentavo la mia supplica-
zione all’Eterno, al mio Dio, per il monte santo del mio Dio,

Ancora una volta l’orante ricorda il duplice scopo della sua preghiera: confessare
e supplicare. Nella confessione collettiva Daniele si è sempre coinvolto nel pec-
cato del suo popolo. Da questo versetto si capisce che non è stato un atto for-
male: “...confessando il mio peccato e il peccato del mio popolo”.
Riferendosi al Signore il profeta usa il nome proprio della Divinità: Yahweh,
Colui che è, che ha in sé medesimo la causa della sua esistenza, che esiste fuori
dal tempo. Al nome proprio aggiunge l’appellativo familiare “mio Dio” (’Elohay).
E alludendo a Gerusalemme, in modo pertinente usa l’espressione “il monte
santo del mio Dio” perché effettivamente della città e del santuario non è rima-
sto che un monte cosparso di rovine.

21 mentre stavo ancora parlando in preghiera, quell’uomo, Gabriele,


che avevo visto nella visione da principio, mandato con rapido volo,
s’avvicinò a me, verso l’ora dell’oblazione della sera.

Nel versetto precedente il narratore ha introdotto con un avverbio temporale


(‘ôd, “mentre”) un riferimento all’istante in cui è avvenuto un fatto inatteso e
straordinario che ha interrotto la sua preghiera; ma la frase si è prolungata in un

337 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 180.

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CAPIRE DANIELE

doppio inciso per sottolineare ancora il perché di quella preghiera, cosicché


quando riprende il discorso nel v. 21 deve ripetere la frase iniziale del v. 20:
“mentre stavo ancora parlando in preghiera...”.
Probabilmente Daniele sta per finire la sua supplicazione quando scorge
davanti a sé l’angelo già visto in visione vari anni prima: “... quell’uomo, Ga-
briele, che avevo visto nella visione (}Ozfx chazôn) prima”.
Gabriele gli è apparso in sembianze umane (“quell’uomo”) così come gli si
era mostrato nella visione (la visione del cap. 8, ovviamente). Ora Gabriele in
persona sta davanti a lui. È stato “mandato” dal Signore che ha accolto la sua
supplica. La frase: “con rapido volo”, vuole forse alludere allo spazio immenso
che ha dovuto superare l’inviato del Cielo per giungere fino a Daniele mentre
egli prega ancora.
È “il momento dell’oblazione della sera” (ber(f -taxnº m
i t"(K: ke‘eth minchath
‘erev), tra le 3 e le 4 pomeridiane, quando nel tempio del Signore il sacerdote of-
friva l’oblazione incruenta che accompagnava il secondo olocausto quotidiano
(cfr. Es 29:41; Nu 28:4,5).
Era anche il momento della terza preghiera del giorno, la più importante.
Fin dalla giovinezza Daniele ha osservato i tre momenti della preghiera quoti-
diana (vedi Dn 6:10, cfr. Sl 55:18).

22 E mi ammaestrò, mi parlò, e disse: “Daniele, io son venuto ora per


darti intendimento.

Alla fine del cap. 8 abbiamo lasciato Daniele stupito a motivo della visione per-
ché non la intendeva. Era l’anno terzo di Beltsasar di Babilonia (8:1), il 546 a.
C. Ora, nell’anno primo di Dario il Medo (9:1), il 539 a.C., Gabriele ritorna e gli
annuncia che è venuto per dargli intendimento (hænyib !:lyiK:&ah:l lehaskîlkâ
vînâh). L’uso della stessa terminologia evidenzia un collegamento fra i due mo-
menti: l’angelo è venuto per rendere intendente Daniele che non aveva inteso.
Sette anni sono trascorsi prima che si cominciasse a far luce su un enigma
che aveva turbato lo spirito del profeta. Il perché di questo lungo intervallo di
tempo non è detto.
Possiamo solo cercare di ipotizzarlo. È probabile, anzi sembra certo, che
all’epoca della visione fosse prematuro sciogliere un enigma di cui gli eventi de-
gli anni futuri avrebbero agevolato la comprensione. Nell’anno primo di Dario il
Medo qualcosa è accaduto che ha fatto compiere una svolta al corso degli
eventi. Babilonia che ha tenuto nell’esilio il popolo di Dio è scomparsa e una
nuova potenza egemone si è affacciata alla ribalta.
Comincia ad avverarsi la visione di otto anni prima: il montone medo-per-
siano già domina lo scenario politico. Il dettaglio della visione rimasto nell’om-
bra riguardava qualcosa che doveva avere attinenza col regno dei Medi e dei
Persiani.
Nell’audizione (8: 26,27) Daniele aveva capito che allo scadere di 2300
“sere e mattine” sarebbe finita l’aggressione del “corno” contro la “perpetuità” e
sarebbero cessati il “peccato che produce la desolazione” e l’oltraggio fatto al

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CAPITOLO 9

“santuario” e all’“esercito”. Ma non gli era stato rivelato né il tempo dal quale bi-
sognava contare le “2300 sere e mattine” né che cosa significasse la frase “poi il
santuario sarà purificato”.
Nella visione Daniele aveva visto il “corno” abbattere il “fondamento del
suo santuario”, ma non lo aveva visto contaminare il santuario stesso. Perchè
dunque esso doveva essere purificato?
Quando torna Gabriele con una nuova rivelazione, già domina la nazione
che lascerà liberi gli esuli giudei di tornare in patria e permetterà che essi rico-
struiscano il santuario distrutto.
In seguito questa nazione decreterà anche che Gerusalemme sia ricostruita,
e questo evento fornirà un elemento cronologico di base (9:25) per calcolare il
tempo profetico. Infine non sarà il tempio ricostruito nell’età persiana il “santua-
rio” che sarà “purificato” in capo alle 2300 “sere e mattine”, ma sarà un “santua-
rio” che il Messia consacrerà alla fine di 70 settimane di anni dopo avere com-
piuto l’espiazione del peccato (9:24-27). Sono dunque maturi i tempi perché Da-
niele possa cominciare ad “intendere”.

23 Al principio delle tue supplicazioni, una parola è uscita; e io son


venuto a comunicartela, poiché tu sei grandemente amato. Fa’ dun-
que attenzione alla parola, e intendi la visione!

Stavolta Gabriele si rivolge al profeta non più da interprete ma da rivelatore. Egli


è portatore di un messaggio di grande significato che riguarda Daniele, il suo
popolo e la sua città. All’inizio delle sue supplicazioni (!yånUnAxTa taLxi t: Bi bitchillath
tachanûnîm), dunque appena ha terminato la confessione, “una parola è uscita”
(rfbdf )fcyæ yatza’ davar), una risoluzione è stata presa in cielo, e Gabriele è stato
inviato per farla conoscere al “prediletto del Signore” (quale emozione deve aver
provato Daniele nel sentirsi dire da un angelo: “poiché prediletto sei tu” (hfT) f
tOdUmAx yiK ki hamudôth ’athah)!
L’angelo invita il profeta a concentrare la sua attenzione su quanto sta per
rivelargli: “Ora stai attento alla parola e comprendi la visione” (he)r : Ma Ba }"bh
f wº rfbD
f B a
}yibU ’ûvîn baddavar wehavên bammar’eh), l’originale usa il verbo bîn, “com-
prendere”, anche in riferimento alla “parola”. Due cose dunque ha da comuni-
care il messo celeste al profeta.
La prima riguarda una decisione (davar) che è stata presa in cielo a seguito
della sua supplicazione; la seconda concerne un aspetto di questa decisione che
sembra avere attinenza con la precedente rivelazione sulle 2300 “sere e mattine”.
Non certo a caso Daniele usa qui il vocabolo mar’eh per “visione”, lo stesso vo-
cabolo con cui l’interprete celeste si era riferito alle 2300 “sere e mattine” in 8:26.
In 9:26 mar’eh sembra un riferimento diretto a quell’aspetto della rivelazione del
cap. 8 che era rimasto senza spiegazione (v. 26) ed era perciò divenuto motivo
di stupore per il profeta che non aveva potuto interderla (v. 27).

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CAPIRE DANIELE

24 Settanta settimane sono fissate riguardo al tuo popolo e alla tua


santa città, per far cessare la trasgressione, per mettere fine al pec-
cato, per espiare l’iniquità e addurre una giustizia eterna, per sug-
gellare visione e profezia, e per ungere un luogo santissimo.

Ora Gabriele rivela il tenore della decisione che è stata presa in cielo: “Settanta
settimane sono fissate riguardo al tuo popolo e alla tua santa città” (!e$d : qf ryi(-
la(wº !:M(a -la( \aTx
: nå {yi(b
: $
i {yi(b f shavu‘îm shiv‘îm nechttak ‘al ‘ammeka we‘al ‘îr
u $
qodsheka...).
C’è una relazione tra i 70 anni della cattività (v. 2) e le 70 settimane annun-
ciate dall’angelo per il popolo e la santa città; esiste pure un rapporto di questi
due segmenti temporali con l’anno sabbatico e l’anno giubilare. Osserva
Doukhan: “I settant’anni (7X10) conducono a un messia dell’anno sabbatico
(Ciro), mentre le settanta settimane (7 X 7 X 10) portano a un Messia del giubi-
leo”338. Ciro, re di Persia, il futuro liberatore del popolo di Dio tenuto nell’esilio
da Babilonia, è designato come l’unto del Signore (messia) in Is 45:1.
Anche Boutflower ha visto un nesso fra i 70 anni e le 70 settimane: “ Ora in
questa visione caratteristicamente cronologica, quei settant’anni d’un tratto si di-
latano e diventano settanta settimane d’anni, e questo affinché dal loro espan-
dersi e dall’uso del sacro numero sette come moltiplicatore, fosse allertata l’atten-
zione dei santi verso qualcosa di gran lunga più gloriosa, verso una liberazione
infinitamente più grande dell’emancipazione dal giogo di Babilonia”339.
Daniele era nell’angustia a motivo del “vituperio” (l’esilio) cui era esposto il
popolo di Dio: il Signore farà finire il vituperio e farà molto più di questo. Come
alla fine del settennio sabbatico si ricominciava a coltivare la terra lasciata incolta
per un anno (Le. 25:3,4), così allo scadere di 10 anni sabbatici (70 anni) finirà la
desolazione della terra di Giuda perché i deportati ritorneranno.
Come nell’anno giubilare ricorrente ogni 49 anni tornavano liberi gli schiavi
(Le 25:30-41), così in capo a 10 anni giubilari (490 anni) il Signore accorderà al
suo popolo la liberazione dalla schiavitù del peccato.
“Daniele aveva cercato di capire i 70 anni di Geremia; la spiegazione gli fu
fornita attraverso la profezia delle 70 settimane di anni. Egli aveva implorato il
perdono dei peccati del suo popolo; gli fu detto che in 70 settimane sarebbe
stata compiuta l’espiazione perfetta. Aveva pregato affinché si compisse la pro-
messa di Geremia: in 70 settimane d’anni cominceranno ad avverarsi tutte le
profezie. Aveva invocato il ristabilimento del santuario: in 70 settimane d’anni
sarà unto il santuario dei santuari. Tutto ciò ch’egli ha domandato si compirà in
misura sovrabbondante. Quello che avverrà allo scadere dei 70 anni, alla fine
della cattività, ne sarà solo una pallida immagine”340.

338- J. DOUKHAN, Le soupir de la terre, p. 201.


339 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 182.
340 - CARL AUGUST AUBERLEN, Le Prophète Daniel et l’Apocalypse de saint Jean, Losanna 1880,
pp. 127-128.

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CAPITOLO 9

Il termine shavûa‘ sebbene indichi genericamente un insieme di sette cose


o settenario, nell’Antico Testamento spesso vuol dire “settimana”. Per esempio in
Ge 29:27, dove Labano dice a Giacobbe: “Finisci la settimana di questa...”,
l’ebraico ha: malle’ shevûa‘ zoth; e nel v. 28 l’espressione “finì la settimana...”
nell’originale è: wayyemalle’ shevûa‘. In Es 34:22, “festa delle settimane” nel testo
ebraico è chag shavuû‘oth; lo stesso in De 16:10.
Daniele in 9:24,25 e 26 e in 10:2 e 3 adopera la forma plurale maschile
(shavu‘îm) anziché la più consueta forma femminile (shavu‘oth), forse per una
semplice questione di stile.
La traduzione “settanta settimane” dell’espressione ebraica shavu‘îm shiv‘îm
in 9:24 che si trova in tutte le versioni della Bibbia, antiche e moderne, è una
traduzione corretta341. Le settanta settimane menzionate in questo punto del li-
bro di Daniele sono comunque settimane profetiche equivalenti a settenni (vedi
nota 6 nel commento del cap. 8).
Il prof. Doukhan ha messo in evidenza un parallelismo chiastico secondo lo
schema A-A1, B-B1 tra i vv. 2 e 24 di Daniele 9, un parallelismo dal quale si
evince con chiarezza che le settimane menzionate in questo capitolo sono setti-
mane di anni:

Dn 9:2: settanta (A) anni (B)

Dn 9:24: settimane (B1) settanta (A1)

341- “Lo studio esegetico del cap. 9 di Daniele rivela che differenti testimonianze linguistiche
convergenti indicano che il vocabolo shavû‘a (adoperato in questa profezia come unità di
tempo) dovrebbe tradursi ‘settimane’ e non ‘settenario’.
Procedendo da questa considerazione, ci si può domandare che tipo di settimane siano quelle
di cui si parla in questo capitolo. Il vocabolo ebraico per ‘settiman’ si può usare in due modi
differenti:
1) per indicare un insieme di sette giorni successivi indipendentemente dal giorno iniziale;
2) oppure per riferirsi specificamente a una settimana sabbatica con inizio la Domenica e fine il
Sabato. Nel primo caso si può parlare di settimana non sabbatica, nel secondo di settimana
sabbatica.
“La questione è se le 70 settimane simboliche di tempo profetico in Daniele debbano interpre-
tarsi secondo il modello della settimana sabbatica o quello della settimana non-sabbatica. Se
si tratta di settimane non-sabbatiche, queste unità temporali si riferiscono semplicemente a un
periodo globale di 490 giorni. Ma se si ha a che fare con settimane sabbatiche, questo periodo
di 490 anni consecutivi deve essere divisibile per anni sabbatici, ovvero per cicli di sette anni
(vedi Le 25:1-7).
“Il testo non fornisce nessuna indicazione esplicita a questo riguardo. L’unico modo per ve-
nirne a capo è di applicare un test pragmatico, cioè esaminare le date applicate alla profezia
per verificare se esse coincidano con anni sabbatici conosciuti.
“Fonti extrabibliche ci hanno fornito negli anni recenti informazioni che ci consentono di datare
gli anni sabbatici del periodo post-esilico considerandoli come un’unità di sette ogni settimo
anno (l’Autore rinvia a un lavoro di B. Z. WACHOLDER, “The Calendar of Sabbatical Cycles During
the Second Temple and the Early Rabbinic Period” in HUCA 44, 1973, 153-196).

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CAPIRE DANIELE

“Il chiasmo - spiega Doukhan - chiarisce la natura delle settimane; come ‘set-
tanta’ è in parallelo con ‘settanta’, così ‘anni’ è in parallelo con ‘settimane’ ”342.
Le settanta settimane sono un tempo di grazia che il Signore ha accordato a
Israele e a Gerusalemme. La richiesta di Daniele è stata esaudita molto al di là di
quanto egli potesse desiderare. Egli aveva invocato la clemenza divina riguardo
a Gerusalemme e al popolo esposti al vituperio (v. 16): gli è stato risposto che al
suo popolo e alla sua santa città sono stati concessi settanta volte sette anni di
clemenza (7 anni per ciascuno dei 70 anni di sdegno) nei quali l’iniquità sarà in-
fine rimossa.
Le 70 settimane sono state “fissate” per il popolo e per la santa città. “Fis-
sate” nell’originale è \aTx
: nå nechttak, forma passiva (nifal) del verbo chatak, che
oltre a “fissare”, “determinare”, significa anche “tagliare”, “dividere”,
“separare”343.
Nechttak, dunque, si può anche tradurre “tagliate”, “separate”. Questo è il

“Oggi si può dimostrare che gli anni 457 a.C., 27 a.D. e 34 a.D. (le date relative ad eventi fon-
damentali della profezia di Dn 9), furono anni sabbatici. Possiamo dunque rispondere alla do-
manda formulata al principio che le ‘settimane’ della profezia di Dn 9 sono settimane sabbati-
che le quali implicano a loro volta anni sabbatici.
“La teologia che soggiace all’anno sabbatico può dunque arricchire di significato gli eventi pre-
detti in Dn 9. Nell’anno sabbatico gli schiavi dovevano tornare liberi e la terra alienata doveva
tornare al proprietario originale. Si scorge un nesso con gli eventi del 457 a.C., all’inizio delle
70 settimane, quando molti degli esiliati in Babilonia tornarono nelle terre che erano apparte-
nute a loro e ai loro padri.
“Un altro collegamento si può cogliere in quell’episodio evangelico in cui Gesù legge Is 61 nella
sinagoga di Nazareth (Lc 4:16, 21). questo episodio acquista ulteriore significato se si tiene
conto del fatto che Gesù lesse quel passo attinente in senso tipologico all’anno sabbatico ap-
punto in un anno sabbatico, il 27 a.D., e lo applicò a sé stesso al principio del suo ministero.
Così facendo Egli si annunciò come il Grande Liberatore dei Giudei e di tutto il genere umano.
Non fu per caso che Egli fece questo annuncio proprio in quel tempo. Dati i collegamenti col Le-
vitico , con Isaia e con Daniele sembra evidente che la coincidenza tradisce un disegno divino”.
- W. H. SHEA, “ Unity of Daniel - The 70 Weeks as Sabbatical Years” in Symposium on Daniel,
pp. 225 - 227.
342 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 205. Il chiasmo, dalla lettera greca “chi” (c) è una “figura gramma-
ticale consistente in due concetti tra loro intimamente legati i cui termini sono disposti in or-
dine reciprocamente invertito, cioè in posizione incrociata”. - ALDO GABRIELLI, Grande dizionario il-
lustrato della lingua italiana, Milano 1989, voce “chiasmo”.
343 - Cfr. B. DAVIDSON, The Analytical Hebrew and Chaldee Lexicon, voce “chatak”.

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CAPITOLO 9

senso preferito dal prof. W. SHEA.344.


Due condizioni che dovranno realizzarsi in seno al popolo di Dio ricon-
dotto nella sua terra dovranno anticipare e preparare i tempi messianici:

1) “... far cessare la trasgressione” ((a$Pe h : lekalle’ happesha‘), ov-


a )"Lka l
vero realizzare una genuina conversione;

2) “... mettere fine al peccato” (tO)f+x a {"th : U ûlechatem chattaôth, “sigil-


f l
lare il peccato”), vale a dire “rinchiuderlo”, impedirgli di rifiorire e determi-
nare di nuovo la rottura del restaurato rapporto d’Israele con Dio.
Israele, insomma, dovrà creare una società giusta, preparata a ricevere il
suo Messia. A questo fine precisamente sarà mirata l’opera del precursore
anticipata profeticamente in Is 40:3-4 e Ml 3:1 (cfr. con Mt 3:3; Mr 1:3; Lc
3:4; Gv 1:23).

344 - “Il verbo che adopera Gabriele nella dichiarazione iniziale sulle 70 settimane è una forma
passiva (nifal) della radice chatak. La radice significa chiaramente ‘tagliare’ o ‘determinare, de-
cretarè. Poiché questo è l’unico punto del testo biblico ebraico in cui il termine ricorre, si è di-
scusso circa l’esatta sfumatura di senso che gli si dovrebbe riconoscere in questo passo. Il
senso di ‘decretare’ o ‘determinare’ è stato mutuato dall’ebraico mishnaico, posteriore di un
millennio rispetto al tempo di Daniele (sesto secolo a.C.). Comunque nell’ebraico mishnaico il
vocabolo è stato usato correntemente col significato di ‘tagliare’.
“I sensi lati delle radici verbali semitiche si sono sviluppati a partire dai loro significati concreti
per una tendenza verso l’astratto (in base a queste linee di sviluppo essi sono elencati nei di-
zionari ebraici). È dunque ragionevole ritenere che il significato primitivo della radice di questa
parola racchiudesse l’idea di tagliare e che da questa idea di base derivasse il concetto di ta-
gliare un decreto, determinare qualcosa. Conseguentemente all’epoca di Daniele questo voca-
bolo doveva già significare ‘tagliare’. Oggi è impossibile accertare se i sensi lati ‘decretare’ e
‘determinare’ si siano o no sviluppati in quell’epoca, mancando testimonianze idonee a stabi-
lire dei confronti.
“La principale testimonianza di questo tipo proviene dall’ugaritico del tredicesimo secolo a.C.;
essa accredita questa nozione di tagliare (un figlio tagliato da un padre), ma non le idee poste-
riori di decretare e determinare. Pertanto queste tre linee di testimonianza (il significato primi-
tivo della radice che sovrasta il senso lato; il caso isolato di una parola appartenente alla
stessa famiglia linguistica, e il significato predominante in fonti più tardive), favoriscono, anche
se non possono provarla in modo assoluto, la tesi che questo verbo dovrebbe tradursi ‘ta-
gliare’ nel passo in questione. Il senso primitivo del verbo indicherebbe che le 70 settimane
debbano essere ‘tagliatè dai 2300 giorni.
“In sintesi: i periodi temporali di queste due profezie possono direttamente rapportarsi fra loro
in base: 1) alla loro collocazione nella struttura letteraria di Daniele, 2) al periodo storico nel
quale ambedue hanno avuto il loro momento iniziale, 3) alla terminologia profetica che li acco-
sta l’uno all’altro e 4) al significato del verbo iniziale della seconda profezia. Sulla base di que-
ste linee di testimonianze è legittimo concludere che le 70 settimane furono direttamente con-
nesse con i 2300 giorni e furono tagliate da essi. Inoltre la specifica data iniziale del primo pe-
riodo si dovrebbe utilizzare per fissare la data dell’inizio del secondo”. WILLIAM H. SHEA, ibidem,
pp. 229-230.

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CAPIRE DANIELE

Alla conversione che avrà nella penitenza suggellata dal battesimo d’acqua (cfr.
Mt 3:1,2,11; Mr 1:5; Lc 3:3) la sua espressione genuina, farà seguito l’opera infini-
tamente grande del Messia. Egli verrà:

1) “... per espiare l’iniquità” (}ow(f r"Pka l


: U ulekapper ‘awon). Il verbo kafar,
qui usato all’infinito, significa letteralmente “coprire” (cfr. Ge 6:14). Nel lin-
guaggio teologico dell’Antico Testamento kafar può significare “coprire il
peccato”, “perdonare”, “espiare”, “rappacificare”, secondo le forme specifi-
che nelle quali il verbo viene usato345. Kafar è insomma un termine-chiave
della teologia anticotestamentaria della riconciliazione. Kapporeth era detto
il coperchio dell’Arca del patto, o propiziatorio, sul quale il sommo sacer-
dote aspergeva il sangue del sacrificio espiatorio per la purificazione del
santuario nel Giorno delle Espiazioni (Le 16: 14-16), lo yôm hakkippurîm
(Le 23:27). Nella dispensazione vetero-testamentaria ad ogni peccato do-
veva rinnovarsi il sacrificio di espiazione (Le 4:22,23). Non sarà più così
nell’economia messianica perché un sacrificio unico e perfetto che sarà of-
ferto nella settantesima settimana espierà una volta per tutte i peccati del
popolo di Dio (Eb 9:28; 10:14). Il Messia si offrirà alla morte anche:

2) “... per addurre una giustizia eterna” ({yiml f o( qedc


e )yibh : U ulehavî’
f l
tzedeq ‘olamîm). I sacrifici espiatori offerti nel santuario giudaico, prefigura-
tivi di un futuro sacrificio perfetto, procuravano soltanto una giustizia tem-
poranea, perciò dovevano essere continuamente rinnovati (Eb 7:27; 9:12;
10:12). L’effetto del sacrificio perfetto consumato sulla croce sarà una giusti-
zia perenne (Is 51:8; Rm 3:21,22; Fl 3:9).

Le ultime due dichiarazioni anticipano i risultati finali dell’opera del Messia:

1) “... suggellare visione e profezia” ()yibnæ wº }Ozfx {oTx a wº welachtom chazôn


: l
wennavî’). Nell’antichità i sovrani apponevano il loro sigillo sui decreti reali
al fine di autenticarli.
Il verbo châtham, “sigillare”, non ha qui il senso di “rinchiudere”, come
nella frase precedente “suggellare il peccato”, ma significa precisamente
“autenticare”. È l’avverarsi della profezia che ne attesta la veridicità (cfr. De
18:22; Gv 13:19). Tutte le profezie messianiche della rivelazione anticotesta-
mentaria si sono avverate in Cristo (cfr. Lc 24:27, 44-46). Con la sua incarna-
zione, la sua vita santa, la sua morte cruenta, la sua risurrezione gloriosa.
Egli ha per così dire impresso sulla profezia il sigillo dell’autenticità. Suggel-
lare visione e profezia vuol dire accreditarne l’autenticità. Questo avviene
quando la profezia si avvera (cfr. De 18:22; Gr 28:9; Gv 13:19). Tutte le pro-
fezie messianiche si compirono nei trentatré anni circa della vita terrena di

345 - Cfr. B. DAVIDSON, op. cit., voce “kâfar”.

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CAPITOLO 9

Gesù. La sua nascita verginale, gli aspetti variegati del suo ministero salvi-
fico, la sua morte cruenta, la sua risurrezione gloriosa erano stati predetti
con stupefacente realismo dai profeti antichi. Matteo soltanto ha non meno
di una quindicina di riferimenti alle Scritture che collegano direttamente i
vari momenti della vita di Cristo con le profezie dell’Antico Testamento346.
Sulla via di Emmaus il Risorto, dopo avere rimproverato l’incredulità dei
due anonimi discepoli, “spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo con-
cernevano” (Lc 24:27, 44). La serie degli atti messianici che segneranno la
fine delle 70 settimane si chiuderà con un rito di consacrazione:

2) “... ungere un santo dei santi” ({yi$d f qf $edoq x


a o$m i wº welimshoach qodesh
: l
qodashîm). L’unzione di consacrazione si praticò in Israele fin dai primordi
della sua storia. Con questo rito, dopo l’istituzione del sacerdozio Levitico,
furono consacrati per il servizio sacro Aaronne e i suoi figli (Es 30:30; 40:13;
Le 8:12). Con lo stesso rito fu dedicato al culto il santuario mosaico (Es
40:9; Le 8:10; Nu 7:1). Col rito dell’unzione furono consacrati i re di Giuda e
Israele nel periodo della monarchia (1Sm 16:13; 2Sm 2:4; 5:3; 1Re 1:39; 2Re
9:6; 11:12). Non v’è dubbio che “ungere” in questo passo di Daniele abbia
il senso di “consacrare”.
Sull’identificazione del “Santo dei santi” che dovrà essere consacrato alla
fine delle 70 settimane non c’è accordo fra gli espositori di Daniele. La Bib-
bia di Gerusalemme vi ravvisa sia il tempio sia il sommo sacerdote (nota a
9:24). Leupold vi identifica il Cristo fra i suoi eletti nella celeste Gerusa-
lemme347. Boutflower vi scorge l’unzione regale di Cristo in cielo dopo aver
compiuto l’espiazione348. Bernini vede invece nel Santo dei santi la parte
più interna del santuario349 e Rinaldi vi identifica un luogo sacro. “Notare -
dice testualmente - che nel v.26 la parola che qui traduciamo ‘santità’, qo-
desh, vale certamente ‘santuario’”350. Gli ultimi due autori applicano la frase
di Daniele alla ridedicazione al culto del santuario di Gerusalemme nel 164
a.C. dopo la profanazione operata da Antioco Epifane. Noi concordiamo
con questi esìmi autori sulla identificazione del santuario nel “Santo dei
santi” menzionato in Dn 9:24, ma dissentiamo da loro, per le ragioni che di-
remo più avanti, sull’applicazione storica.
Nell’Antico Testamento il superlativo “santissimo” ({yi$d f qf $edoq qodesh qodashîm)
è applicato:

346 - Mt 1:23; 2:5,17; 3:3; 4:14,16; 8:17; 11:10; 12:17-21; 13:14, 15, 35; 21:4,5,42;
22:43,44; 26:31; 27:9,10.
347 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 416.
348 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 183, 184.
349 - G. BERNINI, Daniele, p. 259.
350 - G. RINALDI, op. cit., p. 128.

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CAPIRE DANIELE

● alle vittime espiatorie: Le 6:25; 7:1;


● all’altare: Es 29:37;
● agli arredi e agli utensili del santuario: Es 30: 29;
● al profumo sacro: Es 30:36;
● ai doni e alle offerte presentati nel santuario: Nu 18:9; 2Cr 31:14;
● ai pani della presentazione: Le 24: 5-9;
● allo spazio destinato al tempio: Ez 43:12;
● alla seconda stanza del santuario: Es 26:33; 1Re 6:16; 7:50; 8:6; 1Cr 6:49;
2Cr 3:8; Ez 41:4; 45:3.
● una volta sola il superlativo “santissimo” è riferito al sommo sacerdote:
1Cr 23:13.

Poiché dunque l’espressione qodesh qodashîm nell’Antico Testamento è ri-


ferita comunemente al santuario e alle cose sacre che gli erano pertinenti e una
volta soltanto ad una persona, noi riteniamo che in Dn 9:24 la stessa espressione
debba applicarsi al santuario piuttosto che alla figura del Messia351. E poiché,
per motivi che sono stati ampiamente esposti in questo commentario, noi rifiu-
tiamo l’interpretazione preterista delle profezie apocalittiche, non crediamo che il
santuario menzionato in questo passo di Daniele sia da identificarsi col tempio
di Gerusalemme profanato dal re di Siria nel II secolo a.C. Né risulta dai Vangeli
o dagli iscritti di Giuseppe Flavio che il tempio giudaico sia stato riconsacrato al
tempo del Messia, anzi 40 anni dopo la sua morte e risurrezione esso fu distrutto
dai Romani e mai più venne ricostruito.
In definitiva noi riteniamo che 9:14 alluda alla consacrazione del santuario
dei cieli dove il Messia risorto e assunto in cielo ha iniziato a svolgere il mini-
stero sacerdotale continuo come nostro mediatore (cfr. Eb 8:1,2; 9:11,12; 1Tm
2:5). Il santuario di Dio in cielo, di cui quello terreno era solo “ombra e figura”
(Eb 8:5), fu visto da Giovanni in visione (Ap 11:19; 15:5,8; 16:1,17). Il tempio di
Dio in cielo fu consacrato dal Messia assunto “alla destra del Padre” dopo la ri-
surrezione.
La mirabile profezia delle 70 settimane è stata interpretata almeno in tre
modi diversi:

a) in senso storico-preterista,
b) in senso messianico indiretto,
c) in senso messianico diretto.

L’interpretazione storica preterista colloca cronologicamente i 490 anni


della profezia danielica tra la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Babilo-
nesi nel 587 a.C. e l’epoca dei Maccabei (II secolo a.C.). Siffatta interpretazione si
riflette già nel testo greco dei LXX. L’ignoto traduttore giudeo alessandrino, scor-

351 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 852.

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CAPITOLO 9

gendo in Dn 9 il riflesso dell’epoca dei Maccabei, non ha esitato a stravolgere il


senso del testo ebraico dei vv. 24-27 per adattarlo alla figura storica di Antioco
Epifane.
“I primi ventitré versetti di questo capitolo - spiega Boutflower - nella Sep-
tuaginta sono tradotti fedelmente, ma nei vv. 24-27, alla fine del capitolo, la pro-
fezia originale è irriconoscibile: il traduttore si è fatto interprete e nel leggere la
sua interpretazione si rimane esterrefatti per il modo spietato con cui egli ha
smembrato, deturpato e poi ricomposto secondo le sue idee preconcette quella
che era stata una profezia stupenda e di grande significato”352.
La moderna lettura storico-critica di Daniele, anche se non ha stravolto il te-
sto originale, con qualche forzatura lo ha adattato al modello scelto dal tradut-
tore dei LXX e adottato dopo dal pagano Porfirio.
L’interpretazione messianica indiretta accoglie integralmente la spiega-
zione storico-critica e la applica tipologicamente al Messia (è la linea esegetica di
qualche espositore cattolico contemporaneo, come il prof. Giovanni Rinaldi ci-
tato frequentemente in questo nostro lavoro).
L’interpretazione messianica diretta di 9:24-27 applica la profezia al
Messia identificato con Gesù Cristo. Fu la linea esegetica seguita dai primi espo-
sitori della Chiesa fino al V secolo. Per gli apologisti cristiani di quell’epoca Dn
9:24-27 rappresentò il cavallo di battaglia nella polemica messianica con l’ebrai-
smo. Oggi l’interpretazione messianica diretta della profezia delle settimane è se-
guita da vari autori protestanti e da qualche commentatore cattolico, oltre che
dagli Avventisti del settimo giorno (fra i primi va ricordato Boutflower e fra i se-
condi il canonico Vidal, meno conosciuto).

25 Sappilo dunque, e intendi! Dal momento in cui è uscito l’ordine di


restaurare e riedificare Gerusalemme fino all’apparire di un unto,
di un capo, vi sono sette settimane; e in sessantadue settimane essa
sarà restaurata e ricostruita, piazze e mura, ma in tempi ango-
sciosi. 26 Dopo le sessantadue settimane, un unto sarà soppresso,
nessuno sarà per lui. E il popolo d’un capo che verrà, distruggerà la
città e il santuario; la sua fine verrà come un’inondazione; ed è de-
cretato che vi saranno delle devastazioni sino alla fine della guerra.
27 Egli stabilirà un saldo patto con molti, durante una settimana; e in
mezzo alla settimana farà cessare sacrificio e oblazione; e sulle ali
delle abominazioni verrà un devastatore; e questo, finché la com-
pleta distruzione, che è decretata, non piombi sul devastatore”.

L’esegesi critico-liberale moderna applica nel modo seguente la profezia delle


settimane: le prime sette sono poste fra la distruzione di Gerusalemme ad opera

352 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 170.

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CAPIRE DANIELE

di Nabucodonosor nel 587 a.C.353 ed il decreto di Ciro a favore dei Giudei nel
538 a.C. (l’intervallo di tempo fra i due eventi è di 49 anni). Ciro, il re di Persia
che permise ai Giudei nell’esilio di rimpatriare, è identificato col messia del v. 25
(in Is 45:1 questo monarca orientale è effettivamente qualificato come l’unto del
Signore).
Fin qui l’interpretazione storico-critica fa coincidere in modo ineccepibile il
dato numerico danielico con le date della storia. Ma non vi riesce quando tenta
di applicare storicamente il secondo periodo temporale della profezia. Le 62 set-
timane successive (434 anni), in capo alle quali sarebbe stato soppresso l’unto
(v. 26), sono fatte terminare nell’anno 171, quando fu assassinato il sommo sa-
cerdote Onia III identificato con l’“unto” del v. 26. I 7 anni dell’ultima settimana,
a metà della quale sono soppressi i sacrifici (v. 27a), sono posti fra il 171 e il 165
a.C. Nel 167 (non proprio a metà dei 7 anni !) Antioco IV abolì il sacrificio quoti-
diano.
Fra il 538 a.C., l’anno dell’apparizione dell’“unto” del v. 25 secondo i critici,
ed il 171 a.C., l’anno della soppressione violenta dell’ “unto” del v. 26 secondo la
stessa fonte, c’è un intervallo di 367 anni. Ma 69 settimane di anni (l’intervallo di
tempo che separa l’“unto” menzionato nel v. 25 da quello nominato nel v. 26)
fanno 434 anni. La differenza rispetto al calcolo dei critici è di 65 anni, e non è
poca ! A questo punto evidentemente i calcoli non tornano più.
I fautori di questa interpretazione cercano di cavarsela dicendo che l’autore
di Daniele eseguì un calcolo sbagliato, perché un giudeo palestinese del II se-
colo a.C. non poteva disporre dei dati cronologici esatti per stabilire la cronolo-
gia fra la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. e la fissazione dell’era seleuci-
dica nel 312 a.C.
“In fin dei conti - contesta Boutflower - perché mai dovremmo pensare che
uno scrittore palestinese del 165 a.C. fosse talmente disinformato sulla cronolo-
gia del periodo fra il 586 e il 312 a.C. e in particolare sui due secoli di governo
persiano fra il 539 e il 331 a.C.?
ìSe i Giudei non ebbero sovrani nazionali in base ai quali poter calcolare gli
anni, ebbero però una successione ininterrotta di sommi sacerdoti i cui anni di
servizio dovevano certamente essere registrati”354. Tale autore osserva poi che i
Giudei del periodo persiano non furono affatto trascurati nell’uso delle date,
come si evince chiaramente dai libri di Aggeo, Zaccaria, Esdra e Nehemia nei

353 - L’interpretazione storico-critica di Dn 9:24-27 considera che la “parola” a partire dalla


quale si devono contare le 7 e 62 settimane sia la profezia sulla durata dell’esilio in Gr 25:11
e 29:10. Ma il primo vaticinio è del 605 a.C. (Gr 25:1) e il secondo del 596 (Gr 28:1). Per far
partire le 70 settimane dal 587 a.C. si è supposto che il profeta avesse l’intenzione di riferirsi
all’inizio reale dell’esilio con l’ultima deportazione e la presa di Gerusalemme (cfr. G. RINALDI,
op. cit., commento a Dn 9:25, p. 128).
354 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 177.

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CAPITOLO 9

quali sono riferiti eventi accaduti nel primo e secondo anno di Ciro, nel se-
condo, quarto e sesto anno di Dario I e nel settimo, ventesimo e trentaduesimo
anno di Artaserse I, in non pochi casi riportando persino il giorno e il mese.
I papiri di Elefantina, poi, riferiscono fatti privati datati al quattordicesimo e
ventesimo anno di Serse, al sesto, nono e ventitreesimo anno di Artaserse I e al
terzo, settimo e tredicesimo anno di Dario II Noto; una lettera reca la data del 20
di Marcheshvan dell’anno diciassettesimo di Dario II. Questi documenti regi-
strano tutta una serie di eventi datati fra il 539 e il 408 a.C.
“Non è verosimile - conclude Boutflower - che fosse disponibile abbastanza
materiale documentario da permettere ad uno scrittore intelligente del 165 a.C.
che lo avesse voluto di costruire un corretto schema cronologico sugli ultimi
quattrocento anni? Se i documenti di famiglia di Elefantina, tutti accuratamente
datati, sono sopravvissuti fino al ventesimo secolo, certamente deve esserci stata
abbondanza di documenti datati, sia pubblici che privati, giunti fino all’epoca del
presunto autore del libro di Daniele, documenti che gli avrebbero consentito di
calcolare con precisione l’intervallo di tempo trascorso fra il decreto di Ciro e la
morte del sommo sacerdote Onia III”355.
La comprensione del passo danielico richiede una lettura molto attenta. In-
tanto si deve osservare che la maggior parte delle traduzioni di Dn 9:25 sepa-
rano le 7 dalle 62 settimane. Ecco un piccolo campionario di traduzioni in tre
lingue moderne diverse:

Sappilo dunque, e intendi! dal momento in cui è uscito l’ordine di restau-


rare e riedificare Gerusalemme fino all’apparire di un unto, di un capo, vi
sono sette settimane; e in sessantadue settimane essa sarà restaurata e rico-
struita, piazze e mura, ma in tempi angosciosi. G. LUZZI.

Sappi dunque e comprendi: Da quando è uscita la parola per far ritorno e


ricostruire Gerusalemme, fino ad un Consacrato, a un Principe, sette setti-
mane. E per sessantadue settimane saran nuovamente riedificati piazza e
fossato, ma in mezzo a tempi calamitosi. G. BERNINI

Sappi e intendi bene, da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione


di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane.
Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazza e fos-
sati, e ciò in tempi angosciosi. Versione C.E.I.

Sappi e intendi: dall’uscita della parola di tornare e di ricostruire Gerusa-


lemme, fino all’unzione di un capo: sette settimane. Per sessantadue setti-
mane: piazza e fossato si ricostruiranno, ma in angustia di tempi. BIBBIA
CONCORDATA.

355 - Ibid., pp. 177-178.

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CAPIRE DANIELE

Or sappi e intendi: - Dall’uscita della parola di far ricostruire e riedificare


Gerusalemme - fino a un Unto-Capo - sette settimane - E per sessantadue set-
timane - sarà di nuovo edificata - piazza e fossa - e ciò in angustia di tempi.
G. RINALDI.

Sache donc et comprends. Depuis le surgissement d’une parole en vue de la


reconstruction de Jérusalem, jusqu’à un messie-chef, il y aura sept septénei-
res. Pendant soixante-deux septénaires, places et fossés seront rebâtis, mais
dans ladétresse des temps. TOB.

Sache donc et comprends: depuis qu’est parti le comandement de rebâtir Jé-


rusalem jusqu’à un oint, un chef, il y a sept semaines; et pendant soixante-
deux semaines elle sera rebâtie, place et fossé, et cela dans la detresse des
temps. CRAMPON.

Sache donc et comprends ceci: depuis la parole ordonnant de retablir et


rebâtir Jérusalem, jusqu’à la venu de l’Oint, du Conducteur, il y a sept se-
maines. Puis pendant soixante-deux semaines, les places et les remparts de
Jérusalem seront rebâtis, mais en des temps difficiles. VERSION SYNODALE.

Know therefore and discern, that from the going forth of the commandment
to restore and to build Jerusalem unto the anointed one, the prince, shall be
seven weeks; and threescore and two weeks, it shall be built again, with
street, and moat, even in troublous time. REVISED VERSION.

Learn, therefore, and understand: “From the going forth of the word to re-
store and rebuilt Jerusalem, till there comes a prince, an anointed one, there
shall be seven weeks; then for sixty-two weeks it shall be rebuilt with its squa-
res and streets. AMERICAN TRANSLATION.

Alcune versioni, contrariamente a quelle citate sopra, congiungono le sette e le


sessantadue settimane. Anche di queste presentiamo un ridotto campionario in
tre lingue:

Sappi adunque, e intendi, che da che sarà uscita la parola che Gerusa-
lemme sia riedificata, infino al Messia, Capo dell’esercito, vi saranno sette
settimane, e altre sessantadue settimane, nelle quali saranno di nuovo edi-
ficate le piazze, e le mura, e i fossi; e ciò in tempi angosciosi. G. DIODATI.

Sappi, adunque, e nota attentamente: Da quando uscirà l’editto per la riedi-


ficazione di Gerusalemme, fino al Cristo principe, vi saranno sette setti-
mane, e sessantadue settimane; e saran di nuovo edificate le piazze e le mu-
raglie in tempi di angustia. MARTINI.

Sappi dunque e considera bene; dall’emanazione della parola affinché sia

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CAPITOLO 9

edificata di nuovo Gerusalemme, fino a un Unto, un principe, ci saranno


settimane sette e settimane sessantadue; e di nuovo saranno riedificate le
piazze e le mura in tempi di angustia. G. RICCIOTTI.

Ecco quel che tu devi sapere e comprendere: dal momento in cui è stato pro-
nunziato il messaggio che riguarda il ritorno dall’esilio e la ricostruzione di
Gerusalemme fino all’apparizione di un condottiero consacrato devono pas-
sare sette periodi di sette anni e sessantadue periodi di sette anni; e questo ri-
torno dall’esilio e questa ricostruzione della città e delle fortificazioni si fa-
ranno in tempi difficili. TILC.

Prends-en conaissance et intelligence: Depuis l’instant que sortit cette parole:


‘Qu’on revienne et qu’on rebâtisse Jérusalem jusqu’à un Prince-Messie, sept
semaines et soixante-deux semaines, restorés, rebâtis places et remparts mais
dans l’angoisse des temps. BIBLE DE JÉRUSALEM.

Tu saurais donc, et tu l’entendrais, que depuis que la parole sera sortie pour
s’en retourner et pour rebâtir Jérusalem, jusqu’au CHRIST le Conducteur, il y
a sept semaines et soixante-deux semaines; et les places et la brèche seront
rebâties dans un temps facheux. OSTERVALD.

Know therefore and understand, that from the going forth of the command-
ment to restore and built Jerusalem, unto the Prince, shall be seven and th-
reescore and two weeks: the street shall be built, and the wall, even in trou-
blous time. KING’S JAMES VERSION.

Il congiungimento o la separazione dei due segmenti temporali non è il risultato


di una scelta arbitraria da parte dei traduttori, dipende dall’avere dato credito a
un modello testuale piuttosto che a un altro. Le versioni che disgiungono le sette
e le sessantadue settimane seguono il testo ebraico masoretico (TM), quelle che
le uniscono si appoggiano alle versioni antiche (la versione greca di Teodozione
o la versione latina di Girolamo, la Vulgata). Sotto trascriviamo il testo ebraico
(masoretico) e la sua traslitterazione:

hf(b
: $
i {yi(b u $
f dyignæ x
a yi$m
f -da( i{al$
f Urºy tOn:bl i wº byi$h
f l
: rfbd
f )fcom-}im l"K& : t
a wº (adt " wº
;{yi T i ( f h qOc: b U jUrf x º w bOx: r hf t º n : b é n º w bU$f T {é y á n : $ U {yi < i $ {yi ( u b f $ º w
weteda‘ wethaskel min-motzâ’ davar lehashîv welivnôth yerûshalaim ‘ad
mashîach nagîd shavu‘îm shiv‘ah weshavu‘îm shishshîm ûshnaîm tashûv
wenivnetâ rechôv wecharutz ûvtzôq ha‘ittîm.

Letteralmente: Sappi e considera, dall’uscita di una parola per restaurare e


riedificare Gerusalemme fino a un unto capo, settimane sette e settimane
sessantadue, e (essa) sarà restaurata e riedificata piazza e fossato nella di-
stretta dei tempi.

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CAPIRE DANIELE

Sotto la parola shiv‘ah (“sette”) i masoreti hanno posto un accento disgiuntivo


(atnach) la cui funzione può essere paragonata a quella del nostro punto e vir-
gola o punto fermo.
Questo segno dovrebbe dividere in due la frase tra le parole “sette” e “sessanta-
due”, donde la separazione dei due numerali nella maggior parte delle versioni.
Il prof. Doukhan, docente di Antico Testamento e letteratura ebraica, rileva che
nelle enumerazioni di unità di misura (talenti, sicli, settimane, giorni ecc...) o nei
numeri alti, l’atnach spesso assume la funzione di accento congiuntivo anziché
disgiuntivo, e cita tre esempi356:

“E l’argento di quelli della raunanza dei quali si fece il censimento, fu cento


talenti (atnach) e mille settecento settantacinque sicli, secondo il siclo di san-
tuario” (Es. 38:25).

“Il rame delle offerte ammontava a settanta talenti (atnach) e duemila quat-
trocento sicli” (Es. 38:29).

“Tutti quelli dei quali fu fatto il censimento furono seicentotremila (atnach)


cinquecento cinquanta” (Nu 1:46).

Ai passi riportati sopra si può aggiungere Nu 26:51:

“Tali sono le famiglie di Neftali secondo le loro famiglie. Le persone censite


furono seicentomila (atnach) settecentotrenta”.

Esattamente come nei passi citati sopra, in Dn 9:25 l’atnach è posto tra due parti
di un numero:

Sappi e considera, dall’uscita di una parola per restaurare e riedificare Geru-


salemme fino a un unto-capo settimane sette (atnach) e settimane sessantadue.

Il testo masoretico risale al IX secolo; anteriori ad esso sono le antiche versioni


già ricordate della Bibbia ebraica: la greca di Teodozione, del II secolo, la latina
detta Vulgata, del V secolo, alle quali bisogna aggiungere la Siriaca, del II secolo.
Ecco come hanno reso Dn 9:25 Teodozione e Girolamo:

356 - JACQUES DOUKHAN, op. cit., p. 209.

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CAPITOLO 9

kaiìì gnw¯sv kaiìì sunh/seij a)po\ e)co/dou lo/gou tou= a)pokriqh=nai kaiìì
tou= oi )kodomh=sai Ierousalhm eÀwj xristou= h(goume/nou e(bdoma/dej
e(pta\ kaiìì e(bdoma/dej e(ch/konta du/o kaiìì e)pistre/yei kaiìì oi )ko-
domhqh/setai plateiÍa kaiìì teiÍxoj kaiìì e)kkenwqh/sontai oi ( kairoi¿

Kaì gnose kaì sunéseis ’apò ’exòdou lògou tou ’apokrithenai, kaì tou oiko-
domèsai ‘Ierousalèm ’eos Christou ‘egouménou ’ebdomades ‘eptà kai ‘ebdo-
mades ‘exekountadùo kaì ’epistréfei kaì oikodomethésetai plateìa, kaì tei-
chos, kaì ekkenothésontai oi kairoì.

E sappi e comprendi: dall’uscita di una parola per tornare ed edificare Gerusa-


lemme fino a un Unto, un capo, settimane sette e settimane sessantadue, e si ri-
tornerà e sarà ricostruita piazza e mura e angosciosi (saranno) i tempi.

Scito ergo et animadverte: Ab exitus sermonis ut iterum aedificetur Ierusa-


lem usque ad Christum ducem, hebdomades septem et hebdomades sexa-
ginta duae erunt, et sursum aedificabitur platea et muri in angustia tempo-
rum.

Sappi dunque e comprendi: Dall’uscita della parola perché sia riedificata


Gerusalemme fino a un Cristo condottiero, vi saranno settimane sette e set-
timane sessantadue e sarà riedificata piazza e mura in tempi di angustia.

Boutflower sottolinea l’importanza degli accenti nel sistema di puntazione maso-


retica per indicare la continuità o la separazione fra una parola e le parole che la
precedono e la seguono, ma aggiunge che essi sono più che semplici segni di
punteggiatura, sono accenti veri e propri e come tali si prestano a evidenziare
pause e accentuazioni enfatiche.
Secondo questo autore Dn 9:25 è un esempio di accentuazione enfatica. I punta-
tori masoretici vollero richiamare l’attenzione sul fatto che le 69 settimane che
precedono la venuta del Messia, per qualche buona ragione sono divise in due
tronconi di 7 e 62 settimane. Boutflower cita tre esempi di accentuazione enfa-
tica segnata con l’atnach tolti dal libro di Daniele:

“Allora quegli uomini accorsero tumultuosamente e trovarono Daniele (at-


nach) che faceva richieste e supplicazioni al suo Dio” (6:11).

“Il primo anno del suo regno io, Daniele, meditando sui libri (atnach) vidi
che il numero degli anni ecc...” (9:2).

“Or questo Daniele si distingueva più dei capi e dei satrapi (atnach) perché
c’era in lui uno spirito straordinario ecc...” (6:3).

Il testo ebraico dei tre versetti citati ha questo segno sotto la parola prece-
duta dall’indicazione “atnach” tra parentesi:

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CAPIRE DANIELE

“Sarebbe davvero strano - osserva Boutflower - indicare sessantanove settimane


con l’espressione ‘sette settimane e sessantadue settimane se non ci fosse una ra-
gione per farlo, se non ci fosse cioè un motivo per dividere in due il periodo e
anteporre il numero minore al numero maggiore.
Ma una ragione c’è, ed è che le prime sette settimane dovevano testimo-
niare la restaurazione e ricostruzione di Gerusalemme ‘in tempi di angustia’, poi-
ché questo era per il veggente un motivo di ansia per via dell’enormità del pec-
cato nazionale ... le prime sette settimane sono comprese come un periodo di ri-
costruzione mentre le successive sessantadue sono lasciate in bianco non essen-
dovi alcun evento particolare da associare ad esse”357.
L’unico scopo di questo secondo periodo somMto al primo è di fissare il
tempo della morte violenta del Messia: “dopo le sessantadue settimane un unto
sarà soppresso”.
Contrariamente all’interpretazione storico-critica, l’esegesi ortodossa di 9:24-
27 identifica l’unto soppresso dopo le sessantadue settimane con l’unto-principe
che deve apparire in capo alle sette e sessantadue settimane (v. 25). In entrambi
i casi “unto” compare senza l’articolo, ma lo stato indeterminato del nome non è
motivo per mettere in discussione il senso messianico della profezia. Osserva
giustamente Boutflower che i termini mâshiach (“unto”) e nagîd (“principe”) es-
sendo titoli, sono trattati come nomi propri e come tali nell’ebraico non richie-
dono l’articolo.
Lo confermano casi paralleli citati da questo medesimo autore. In Gr 20:1
compare il nome composto pâqid-nagîd, “sovraintendente-capo”, titolo ufficiale
di un funzionario del tempio; in Is 9:5 uno dei titoli del messia futuro è ’El-
gibbôr, “Dio potente”; in Is 26:4 Dio è chiamato Yah-Yehowa. Infine in Dn 2:45
appare il titolo divino ’Elâh-rav, “Dio grande”. In tutti questi casi i titoli composti
di due parole sono privi dell’articolo.
Nel secolo ventesimo l’interpretazione messianica diretta di Dn 9:24-27 -
della quale Charles Boutflower è un esponente autorevole - nella forma più ac-
curata è stata formulata da Honteim nel 1906 e più vicino a noi da Closen nel
1938358. Prima dell’Honteim comunque diversi espositori di estrazione cattolica e
protestante sostennero con buoni argomenti l’interpretazione messianica diretta
della profezia delle settimane. Fra i cattolici ricorderemo l’abate Jules Fabre d’En-
vieu e fra i protestanti il teologo Carl August Auberlen.
Il commentario di J. Fabre d’Envieu fu pubblicato a Parigi fra il 1888 e il
1891 in 4 volumi di cui due d’introduzione. Su Dn 9:25 questo autore si esprime
nei termini seguenti:

“Le sette settimane sono collegate con le ‘piazze e le mura che saranno ri-
costruite, onde in capo a quarantanove anni Gerusalemme sarà di nuovo
una città. Le sessantadue settimane sono in rapporto con gli avvenimenti in-

357 - C. BOUTFLOWER, op. cit., pp. 185-186.


358 - Vedi G. RINALDI, op. cit., p. 131.

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CAPITOLO 9

dicati nei vv. 26 e 27. Ogni inciso ha così il suo inizio preciso e il suo ter-
mine sicuro. Abbiamo tre drammi, ciascuno col suo punto iniziale ed il suo
punto finale nettamente indicati.
L’intero periodo conduce fino ad un’ultima settimana, all’ultimo dramma
che comprende il ministero e la morte del Messia”359.

L’opera di C.A. Auberlen apparve in Germania nel 1854. Nel 1880 ne fu pubbli-
cata a Losanna un’edizione in lingua francese a cura di H.De Rougemont. Da
essa traiamo il commento che segue su 9:25:

“La prima spiegazione aggiunta a questa profezia del tutto generica conte-
nuta nel v. 24 è che l’apparizione del Messia (stavolta designato espressa-
mente) non avrà luogo - come certamente Daniele aveva sperato - subito
dopo la cattività, e non coinciderà con la restaurazione del popolo e la rico-
struzione della città, ma al contrario fra questi avvenimenti e l’affermazione
del Messia dovrà esserci un intervallo di sette e sessantadue settimane di
anni (69 in tutto). Nelle prime sette Gerusalemme sarà, sì, ricostruita, ma non
ancora con quella gloria messianica e divina promessa da Geremia (31:38-40)
o da Isaia (54:11 e ss; 40-62)...
“Così l’angelo distoglie lo sguardo di Daniele dalla fine della cattività e lo fa
volgere verso la fine della sessantanovesima settimana, quando il Messia
dovrà comparire”360.

Più vicino a noi altri espositori cattolici e protestanti hanno compreso e spiegato
Dn 9:24-27 in chiave messianica diretta. Tra i cattolici citiamo E. Philippe:

“Alle date e ai fatti del testo rispondono le date e i fatti della vita di Gesù ed
essi soltanto. Le settanta settimane (490 anni) terminano con l’apparizione
dei beni messianici...
“La città è riedificata nelle prime sette settimane (49 anni), e fra quali angu-
stie come sappiamo da Esdra ! Sessantadue settimane dopo (434 anni) il
Cristo è messo a morte. Poi il popolo che lo ha rinnegato è reietto a sua
volta. Infine, in un tempo successivo, la città e il Tempio vengono distrutti
dall’esercito di Tito e la rovina e le devastazioni continuano. Nella settante-
sima settimana Gesù inaugura la sua alleanza con gli Apostoli, prima di
tutto, poi i sacrifici antichi sono aboliti e poco tempo appresso nel Tempio
sono perpetrati misfatti orrendi dagli idolatri e dagli stessi Zeloti, e una
guerra devastante provoca una desolazione irreparabile”361.

359- J. FABRE D’ENVIEU, Le livre du Prophète Daniel, tomo II, parte seconda, p. 942.
360 - C.A. AUBERLEN, Le prophète Daniel et l’Apocalypse de Saint Jean, a cura di H.DE ROUGEMONT
1880, pp. 128-129.
361 - E. PHILIPPE, “Daniel” in Dictionnaire de la Bible a cura di F. VIGOUROUX, Parigi 1926, tomo II,
colonna 1281.

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CAPIRE DANIELE

Il pensiero del protestante Charles Boutflower sulla profezia delle settimane è


stato riportato nelle pagine precedenti (l’opera dalla quale è stato attinto, In and
Around the Book of Daniel, è del 1923).

Ancora un pensiero di fonte protestante sull’interpretazione di Dn 9:24-27:

“L’interpretazione messianica tradizionale - scrive il prof. Edward J. Young -


comporta difficoltà minori rispetto alle altre interpretazioni e nel medesimo
tempo rende giustizia al testo. Secondo questa interpretazione ‘settanta set-
timaneí è un’espressione simbolica per indicare il periodo nel quale dovrà
compiersi la salvezza messianica che è stata decretata (v. 24). Nel v. 25 si
dice che due segmenti di tempo dovranno trascorrere tra l’uscita di una pa-
rola da parte di Dio riguardo la ricostruzione di Gerusalemme e l’appari-
zione del Cristo. Dopo che saranno trascorsi questi due segmenti di tempo,
il Messia sarà messo a morte e Gerusalemme e il tempio saranno distrutti
dalle milizie romane di Tito. Il Messia farà cessare con la sua morte i sacri-
fici giudaici e questo avverrà a metà della settantesima settimana”362.

Un’esposizione dettagliata dell’interpretazione messianica diretta di Dn 9:24-27


confermerà il giudizio del prof. Young sulla maggiore aderenza di questa spiega-
zione al linguaggio del testo danielico.
La “parola” (davar), dalla uscita della quale dovrà iniziare il conteggio delle
7 e 62 settimane, è il primo elemento di cui è essenziale cogliere il significato
per una retta intelligenza della profezia.
Se “parola” si riferisse ad una dichiarazione già nota363 - dunque al passato
- davâr dovrebbe avere l’articolo. Invece questo vocabolo non è preceduto
dall’articolo: min motzah davar... (“dall’uscita di ‘una’ parola...”). “Parola” in 9:25
essendo indeterminato deve perciò riferirsi ad una dichiarazione non ancora co-
nosciuta, una dichiarazione futura. Dovrà essere una risposta umana a quella
“parola” divina “uscita” in cielo a seguito della preghiera di Daniele, quella “pa-
rola” che Gabriele è venuto a comunicargli: “Al principio delle tue supplicazioni
una parola è uscita; ed io son venuto a comunicartela” (9:23)364.
La profezia anticipa gli eventi, non li determina, come le previsioni meteo-
rologiche annunciano i cambiamenti del tempo ma non ne sono la causa. Per
fare risorgere dalle rovine una città ribelle come Gerusalemme (Ed 4:12; Ne 6:5-
6) in un paese come Giuda tuttora sottoposto a sudditanza verso uno Stato stra-
niero (Ne 9:36-37), ci voleva imprescindibilmente un editto reale. I Giudei rim-
patriati da Babilonia dopo il decreto di Ciro formavano una comunità religiosa

362 - E.J. YOUNG, The New Bible Commentary, Londra 1970. commento a Dn 9:27, p. 700.
363 - Vedi Appendice B a fine capitolo.
364 - Cfr. C.BOUTFLOWER, op. cit., p. 187.

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CAPITOLO 9

raccolta intorno al suo ricostruito santuario, non una nazione indipendente. La


ricostruzione della città senza l’espresso consenso del sovrano di Persia avrebbe
costituito praticamente un’implicita dichiarazione di indipendenza che il Gran Re
non avrebbe certo tollerato. Siamo a conoscenza di almeno tre decreti imperiali
persiani in favore dei Giudei deportati in Babilonia o rimpatriati da essa.

I. IL DECRETO DI CIRO II. Fu il primo editto reale favorevole ai Giudei;


esso verosimilmente fu emanato un anno dopo la conquista persiana di Babilo-
nia, cioè nel 538 a.C. Di questo editto abbiamo nell’Antico Testamento due ver-
sioni, una abbreviata in 2Cr 36:23 ed una più estesa in Ed 1:2-4, ambedue intro-
dotte da una nota redazionale quasi identica contenente la data del documento
ed una notazione teologica.
L’estensore (probabilmente lo stesso per le due versioni) vede nel decreto
reale il compimento della profezia di Gr 29:10. Il documento persiano, redatto in
termini molto rispettosi verso la fede ebraica, autorizza: 1) il rimpatrio da Babilo-
nia degli esuli giudei; 2) la ricostruzione del tempio di “Yahweh, l’Iddio dei cieli”
in Gerusalemme; 3) l’assistenza materiale ai rimpatriandi da parte delle popola-
zioni di cui essi percorreranno i territori. Nell’editto di Ciro manca qualsiasi ac-
cenno ad una ricostruzione di Gerusalemme.

II. IL DECRETO DI DARIO I. I reduci da Babilonia in seguito al decreto di


Ciro ricostruirono subito l’altare e ripristinarono i sacrifici, compreso l’olocausto
quotidiano (Ed 3:3).
Poi gettarono le fondamenta del tempio (Ed 3:10-11), ma l’opposizione te-
nace dei nemici li costrinse a sospendere i lavori (Ed 4:4). La ricostruzione del
sacro edificio fu ripresa una quindicina di anni dopo - l’anno secondo di Dario I,
il 520 a.C. - per l’incoraggiamento dei profeti Aggeo e Zaccaria (Ed 4:5, 24; 5:1-
2). L’intervento dell’autorità persiana, probabilmente sollecitato dai nemici dei
Giudei, non comportò un’interruzione immediata dei lavori (Ed 5:3-5). Dietro
una relazione obiettiva dei funzionari reali (Ed 5:7-17), il re Dario promosse
un’indagine negli archivi reali di Babilonia e di Ecbatana e in quest’ultima loca-
lità fu rintracciata la copia del decreto di Ciro (Ed 6:1-5).
Con un suo editto Dario ratificò il decreto di Ciro ordinando perentoria-
mente: 1) che si lasciassero proseguire i lavori per la ricostruzione del tempio
dei Giudei in Gerusalemme; 2) che le spese necessarie si detraessero dalle impo-
ste reali riscosse nella satrapia transeufratica; 3) che si fornisse ai sacerdoti giudei
di Gerusalemme tutto il necessario per lo svolgimento regolare delle pratiche
cultuali.
L’editto termina con minacce di sanzioni molto severe per gli inadempienti
e con l’ordine di esecuzione immediata delle disposizioni reali (Ed 6:6-12). An-
che questo documento ufficiale della cancelleria reale persiana omette ogni rife-
rimento alla ricostruzione di Gerusalemme.
Il tempio fu riscotruito in 4 anni. L’anno sesto di Dario, il 515 a.C., fu solen-
nemente dedicato al culto (Ed 6:15-16). Ma le mura della città rimasero demolite
per il resto del regno di Dario, per tutto il tempo del regno di Serse I (486-465) e

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CAPIRE DANIELE

fino all’anno ventesimo del regno di Artaserse I, il 444 a.C. (Ne 5:14; 6:15),
quando erano trascorsi 94 anni dal primo decreto e 76 dal secondo.

III. IL DECRETO DI ARTASERSE I. L’identificazione dell’Artaserse nomi-


nato in Esdra 7 è controversa: gli studiosi sono divisi tra Artaserse I Longimane
(465-423 a.C.) e Artaserse II Mnemone (405/04-359/58 a.C.). Quelli che optano
per la seconda alternativa invertono l’ordine biblico Esdra-Nehemia anticipando
la missione di Nehemia a Gerusalemme rispetto a quella di Esdra. Questa op-
zione non è però esente da serie difficoltà e non possono nasconderlo quanti la
difendono; d’altra parte i problemi che presenta l’altra alternativa non sono af-
fatto insolubili (vedi la nota 365).
“Non ci sono motivi per dubitare dell’esattezza del racconto biblico”, scrive
Stafford Wright a proposito della successione cronologica Esdra-Nehemia
nell’Antico Testamento365.
L’esegesi ortodossa di Daniele, rispettosa dell’ordine cronologico biblico ri-
guardo agli interventi di Esdra e Nehemia nella madrepatria, identifica Artaserse I
Longimane nel personaggio con questo nome che compare nel cap. 7 del libro
di Esdra. Noi diamo qui per scontato che questo sia esatto e che per conse-
guenza Esdra anticipasse Nehemia (gli argomenti a giustificazione di questa op-
zione sono esposti nella nota 365).
Esdra, sacerdote e scriba versato nella legge di Mosè (Ed 7:6), rimpatriò da
Babilonia col permesso del re Artaserse I l’anno settimo del regno di questo so-
vrano, e con lui rimpatriò un gruppo di alcune migliaia di connazionali fra i
quali figuravano sacerdoti, leviti e altri appartenenti al personale del tempio (Ed
7:7). La partenza da Babilonia avvenne nella primavera del 457 a.C. e l’arrivo a
Gerusalemme 4 mesi dopo, nell’estate dello stesso anno. Esdra aveva con sè un
decreto del re Artaserse che concedeva notevoli privilegi alla comunità dei re-
duci dall’esilio. Questo è il più esteso e il più completo degli editti reali persiani
in favore dei Giudei.
In generale gli espositori ortodossi di Daniele considerano che sia questo
decreto la “parola” per riedificare e restaurare Gerusalemme (9:25) e di conse-
guenza fanno decorrere le 70 settimane dall’anno 457 a.C.366. Noi riteniamo del
tutto corretta questa data e da essa iniziamo il conteggio delle 7 e 62 settimane
che debbono condurre fino al Messia.
Quattro dei cinque espositori citati nelle pagine precedenti (C. Boutflower,
J. Fabre d’Envieu, C.A.Auberlen ed E.Philippe) sono concordi nel dire che du-
rante le prime sette settimane doveva compiersi la ricostruzione di Gerusalemme
e in capo alle successive sessantadue doveva comparire il Messia.

365 - J.STAFFORD WRIGHT, The Date of Ezra’s coming to Jerusalem, 1958, XI c.


366 - Vedi C.BOUTFLOWER, op. cit, p. 185; CANONICO G. VIDAL, La prophécie des Semaines, Algeri
1947, pp. 79-83; C.A.AUBERLEN, op. cit., pp. 154, 161; J.DOUKHAN, op. cit., pp. 203-204 ecc...).

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CAPITOLO 9

Che sia così lo si vede se si tiene conto della struttura letteraria del v. 25,
una struttura rispondente allo schema A1 - B1, A2 - B2 :

A1 - “... fino a un Unto-Principe B1 - settimane sette

A2 - e settimane sessantadue B2 - essa sarà restaurata


e ricostruita...”

Se colleghiamo A1 e A2 notiamo che il Messia dovrà comparire alla fine


delle sessantadue settimane.
Parimenti se colleghiamo B1 e B2 ci rendiamo conto che la restaurazione e
ricostruzione di Gerusalemme dovranno compiersi in capo a sette settimane.
L’ultima frase del v. 25 preannuncia tempi calamitosi (bezoq ha‘iththîm) in
concomitanza con la ricostruzione materiale della città santa. In effetti la riedifi-
cazione di Gerusalemme avvenne tra enormi difficoltà per l’opposizione ostinata
e talvolta violenta dei Samaritani, irritati dal rifiuto opposto da Zorobabele alla
loro offerta di collaborazione nell’opera di ricostruzione (Ed 4:1-4). Furono osta-
colate in ogni maniera possibile - e in certi momenti impedite - la riedificazione
del tempio (Ed 4:4-5, 24) e della città col suo muro di cinta (Ed 4:7-23). Poi, du-
rante la missione di Nehemia a Gerusalemme 13 anni dopo Esdra, i costruttori
giudei dovettero fare i conti con un individuo potente che fu l’anima nera
dell’opposizione antigiudaica, il samaritano Sanballat, spalleggiato da due altri
nemici dei Giudei, l’ammonita Tobia e l’arabo Gheshem (Ne 2:10; 4:7-8; 6:1-7).
Tanto seria fu la minaccia di Sanballat e dei suoi alleati che durante i lavori sul
muro cittadino Nehemia dovette disporre delle sentinelle armate e dovette per-
sino armare i lavoratori (Ne 4:7-18, 21).
All’inizio di questo secolo il nome di Sanballat è comparso in un papiro
aramaico del V secolo a.C. scoperto da poco. Si trattava della copia di una lettera
che il capo della comunità giudaica di Elefantina - un’isola in mezzo al Nilo di
fronte ad Assuan - scrisse al governatore persiano di Giuda in Samaria, Bagoa,
per sollecitare l’autorizzazione a ricostruire il tempio della comunità che i nemici
egiziani avevano distrutto. L’autore della missiva dice di avere scritto anche a
“Delaya e Shelemyah, i figli di Sinuballit governatore di Samaria” (Sinuballit è la
forma babilonese del nome di Sanballat). Dato l’alto incarico pubblico ricoperto
da Sanballat messo in luce da questo documento, si capisce perché fosse tanto
temibile la sua opposizione contro i Giudei.
All’epoca di questa lettera (il papiro n. 30 della collezione Cowley) Sanbal-
lat, se era ancora in vita, aveva un’età molto avanzata e non era più in carica, vi-
sto che ai figli di lui si rivolsero i coloni giudei di Elefantina. In quel tempo dun-
que Sanballat, non avendo più voce in capitolo in Samaria, non poteva oramai
nuocere ai Giudei e i rapporti di questi ultimi con le autorità di Samaria non
erano più così tesi come lo erano stati al tempo di Nehemia. Il documento è da-
tato all’anno 16° del Dario (Dario II), il 408 a.C. Vedremo più avanti perché que-
sta data sia importante.
Ai tempi di Nehemia la ricostruzione di Gerusalemme non era finita con

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CAPIRE DANIELE

l’erezione del muro di cinta nel 444. All’interno del muro bisognava ancora rico-
struire le case tuttora in rovina (Ne 7:4). Su questa seconda fase del riassetto
della città non abbiamo notizie. È comunque difficile ammettere che Sanballat si
fosse dato per vinto dopo l’erezione del muro, è anzi verosimile che questa cir-
costanza avesse accresciuto il suo livore verso i Giudei. I tempi di angustia per
costoro dunque non erano finiti con la ricostruzione del muro di Gerusalemme e
non potevano finire finché Sanballat fosse in vita o comunque contasse in Sama-
ria. Ma nel 408 a.C., esattamente 49 anni dopo l’editto di Artaserse I Longimane
(408 + 49 = 457), Sanballat non era più governatore di Samaria.
Le 7 settimane della tormentata ricostruzione della santa città erano finite ed
erano finiti per i Giudei i tempi di angustia. Restavano le 62 settimane (434 anni)
che dovevano trascorrere fino alla venuta dell’Unto-Principe. L’editto sulla re-
staurazione di Gerusalemme era stato emanato nella primavera del settimo anno
di Artaserse I (Ed 7:8-9), vale a dire nel mese di marzo quando il 457 a.C. calco-
lato sul calendario giuliano era cominciato da 3 mesi. Poiché nel computo cro-
nologico storico non esiste l’anno zero (il 31 dicembre dell’1 a.C. fu seguito dal
1° gennaio dell’1 d.C.), 457 anni pieni dalla emanazione del decreto di Artaserse
scaddero nel mese di marzo dell’anno 1 dopo Cristo. Aggiungendo i 26 anni
completi avanzati dopo avere sottratto 434 anni da 457, si arriva al mese di
marzo dell’anno 27 d.C. Con molta verosimiglianza nell’autunno di questo
anno367 Gesù di Nazareth fu battezzato nel Giordano da Giovanni Battista.
Tutti e quattro gli evangelisti testimoniano il prodigio della discesa visibile
dello Spirito Santo sulla persona di Gesù nel momento del battesimo (Mt 3:16;
Mr 1:10; Lc 3:20-21; Gv 1:32). Luca soltanto aggiunge al racconto del battesimo e
della tentazione del Signore nel deserto l’episodio dell’inaugurazione del suo mi-
nistero pubblico nella sinagoga di Nazareth quando Egli annunciò la sua mis-
sione applicando a sé la profezia di Is 61:1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra me;
per questo egli mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato a bandir
liberazione ai prigionieri, ed ai ciechi ricupero della vita; a rimettere in libertà gli
oppressi, e a predicare l’anno accettevole del Signore” (Lc 4:18-19).
Nel libro degli Atti, Luca ricorda la missione di Pietro a Cesarea quando
l’apostolo annunciò al centurione Cornelio e ai suoi familiari la salvezza in Cristo
col volgere la loro attenzione al ministero messianico di Gesù: “Voi sapete
quello che è avvenuto per tutta la Giudea: vale a dire la storia di Gesù di Naza-
reth; come Iddio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato at-
torno facendo del bene...” (At 10:37-38). Dalle notizie di Luca sull’inizio del mini-
stero messianico di Gesù a Nazareth e sull’evangelizzazione dell’ufficiale romano
a Cesarea, si evince che il Signore ricevette la consacrazione messianica con
l’unzione dello Spirito Santo, e dai quattro evangeli citati prima sappiamo che
ciò avvenne durante il suo battesimo nel Giordano.
I sinottici associano un prodigio audibile alla discesa visibile dello Spirito
Santo: “Ed ecco una voce dai cieli che disse: -Questo è il mio diletto Figliolo nel

367- Vedi Appendice C a fine capitolo.

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CAPITOLO 9

quale mi sono compiaciuto -” (Mt 3:17; cfr. con Mr 1:11 e Lc 3: 22b). Così Gio-
vanni e tutti i Giudei che si trovavano lì quando Gesù ricevette il battesimo, fu-
rono testimoni oculari e auricolari della consacrazione messianica di Gesù di Na-
zareth. “Principe della pace” (sar shalôm) era stato uno dei titoli con cui Isaia
aveva caratterizzato il Messia venturo (Is 9:5 u.p.).
Nell’anno 27 E.V. - 483 anni dopo l’editto di Artaserse I Longimane su Ge-
rusalemme - comparve in Israele l’Unto-Principe che Daniele aveva preannun-
ciato. Nei vv. 26 e 27 di Dn 9 culmina e si conclude la mirabile profezia delle
settanta settimane. Sono qui anticipati profeticamente gli eventi verso i quali do-
vevano convergere i dettagli preliminari della profezia, ovvero la morte violenta
del Messia, la sua alleanza “con molti” e la fine del sistema tipico dei sacrifici. In-
fine, dopo le 70 settimane, sarebbero sopravvenute la fine tragica di Gerusa-
lemme e del santuario e la desolazione del paese. A leggere l’uno dopo l’altro i
vv. 25-27 si ha l’impressione che la successione degli eventi ivi predetti sia con-
fusa, specie nei vv. 26 e 27. Ciò dipende dalla particolare struttura letteraria che
ha dato Daniele a questo brano.
Il professor JACQUES DOUKHAN ha evidenziato nei tre versetti un parallelismo
incrociato o chiastico che si può illustrare mediante il diagramma sottostante.

STRUTTURA CHIASTICA IN DANIELE 9:25-27

A1 (v. 25a) costruzione B1 (v. 25b) costruzione


della città della città
Dalla uscita di una parola perché essa sarà restaurata e ricostruita
sia restaurata e ricostruita piazze e fossato (chrtz) ma in
Gerusalemme fino “al” Messia tempi angosciosi
Principe vi saranno 7 settimane
e 62 settimane

A2 (v. 26a) distruzione B2 (v. 26b) distruzione


del Messia - Principe del santuario
Dopo le 62 settimane il Messia e il popolo di un principe aggressore
sarà soppresso senza alcun aiuto distruggerà la città e il santuario. La sua
fine verrà in un’inondazione, e fino alla
fine di un decreto (chrtz) vi sarà guerra;
sarà una desolazione.

A3 (v. 27a) cessazione B3 (v. 27b) distruzione


del sacrificio del popolo del Principe
e delle oblazioni e dal lato dell’abominazione vi sarà
E riuscirà nell’alleanza con molti desolazione fino alla fine,
in una settimana; e a metà della (fino) a che quello che è decretato
settimana farà cessare per sempre (chrtz) sia versato sulla desolazione
sacrificio e oblazione

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CAPIRE DANIELE

Il prof. Doukhan spiega: “La distribuzione (delle frasi) qui illustrata non è
artificiosa, la richiede la doppia corrente di pensiero che attraversa tutto il capi-
tolo: 1) popolo - peccato e 2) Gerusalemme - santuario. Essa si giustifica altresì
dall’appello che mediante un’espressione comune ogni emistichio rivolge
all’emistichio corrispondente, così che i tre emistichi che riguardano Gerusa-
lemme (B1, B2, B3) hanno in comune la radice chrtz, mentre i tre che concer-
nono il Messia (A1, A2, A3) si riferiscono sistematicamente a un tempo espresso
in settimane”.
“I due temi Messia e Gerusalemme - spiega ancora Doukhan - sono utiliz-
zati alternativamente in modo da conferire al versetto la sua struttura intercro-
ciata:

A1 Messia
B1 Gerusalemme
A2 Messia
B2 Gerusalemme
A3 Messia
B3 Gerusalemme

“Si può anche notare - prosegue il nostro autore - lo stupendo parallelismo


chiastico tematico fra i due membri. Questa struttura suggerisce una dialettica
particolare articolata sulle idee di costruzione - distruzione come indica la figura
seguente:

LA DIALETTICA “COSTRUZIONE - DISTRUZIONE” IN DANIELE 9:25-27

Primo chiasmo

A1 Costruzione B1 Costruzione
mashiach - nagîd
(Messia - Principe)

A2 Distruzione B2 Distruzione
‘am nagîd
(popolo del principe)

Secondo chiasmo

A2 Distruzione B2 Distruzione
mashiach nagîd

A3 Distruzione B3 Distruzione
(‘am nagîd)

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CAPITOLO 9

“Il profeta - commenta J. Doukhan - ha voluto comunicare il suo messaggio


attraverso la bellezza della struttura poetica. Ha ragione Martin Buber quando
osserva che qui il Wie (“Come”) e il Was (“Cosa”), si confondono”368.
Un modo più semplice di evidenziare la struttura letteraria di Dn 9:25-27 è
il seguente, proposto ancora da J. DOUKHAN369:

A1 Venuta del Messia, v. 25a


Dalla uscita di una parola che sia restaurata e riedificata Gerusalemme
fino a (l’)Unto Principe, settimane sette e settimane sessantadue

B1 Costruzione della città, v. 25b


saranno restaurate e riedificate piazza e trincea (charuz), ma in tempi
angosciosi

A2 Morte del Messia, v. 26a


E dopo sessantadue settimane sarà soppresso (letteralmente “tagliato”)
(l’)Unto e nessuno (sarà) per lui

B2 Distruzione della città, v. 27b


e sull’ala delle abominazioni: desolazione fino alla fine, finchè ciò che
è decretato (necheretzeth) venga sulla desolazione (o sul desolatore).

A3 Alleanza del Messia, v. 27a


e stabilirà una salda allenza con molti in una settimana, e a metà
della settimana farà cessare sacrificio e oblazione

B3 Distruzione della città, v. 27b


e sull’ala delle abominazioni: desolazione fino alla fine, finchè ciò
è decretato (necheratzah) venga sulla desolazione (o sul desolatore).

Lo schema strutturale dei vv. 25-27 è il seguente: A1 + A2 + A3 - B1 + B2 +


B3. Tenendo conto della struttura letteraria di questi 3 versetti, gli eventi ivi pre-
detti si susseguono nell’ordine sottoindicato:

1. Venuta e morte del Messia

v. 25a. - Il Messia verrà alla fine di 7 e 62 settimane di anni (contati dal mo-
mento in cui sarà stato emanato un editto che autorizzerà la ricostruzione di
Gerusalemme).

368 - Da “The Seven Weeks of Daniel 9” in The Sanctuary and the Atonement, Washington D.C.
1981, pp. 260-263.
369 - Le Soupir de la Terre, p. 268

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CAPIRE DANIELE

v. 26a. - In capo alle 7 e 62 settimane (483 anni) il Messia sarà messo a


morte dopo che tutti lo avranno abbandonato.

v. 27a. - Nel corso degli ultimi 7 anni (prima di essere soppresso) il Messia
stabilirà una salda alleanza con molti e a metà del settennio porrà fine ai sa-
crifici e alle oblazioni che si offrono nel santuario.

2. Ricostruzione e distruzione di Gerusalemme

v. 25b. - Gerusalemme sarà riedificata in tempi di angustia durante 7 setti-


mane di anni.

v. 26b. - La santa città e il suo santuario rimarranno distrutti nel corso di


una guerra devastante della quale sarà responsabile il popolo di un prin-
cipe (nagîd) venturo.

v. 27b. - Vi sarà desolazione a motivo delle abominazioni (che si perpetre-


ranno) nel santuario finché la rovina decretata si abbatterà sui responsabili
della desolazione.

Sulla ricostruzione di Gerusalemme e la venuta del Messia di cui parla il v.


25 si è già detto. Vediamo come si sono svolti nella storia del Giudaismo i fatti
predetti nei vv. 26a e 27a in rapporto alla morte del Messia, alla sua alleanza
“con molti” e all’abolizione del rituale sacrificale.
Sulla durata del ministero messianico di Cristo non c’è unanimità di con-
sensi fra gli studiosi. Si può comunque ritenere come assai probabile, se non as-
solutamente certa, una durata di 3 anni e mezzo.
Questo in base alla menzione nel vangelo di Giovanni di 3 Pasque (Gv.
2:13; 6:4 e 12:1) e di una festività non specificata (Gv. 5:1), ragionevolmente
identificabile con una Pasqua, durante il ministero di Gesù. Se Cristo iniziò,
come si è detto, il suo ministero nell’autunno dell’anno 27, tre anni e mezzo a
decorrere da questa data scaddero nella primavera dell’anno 31370. Nella Pasqua
di quest’anno Gesù dovette subire il martirio della crocifissione. Alla vigilia di
questo evento cruciale Gesù effettivamente strinse con i Dodici un’alleanza desti-
nata ad estendersi a tutti credenti. Tutti e tre i Sinottici ricordano l’istituzione del
rito eucaristico: cfr. Mt 26:26-29; Mr 14:22-25; Lc 22: 14-20) e tutti e tre riportano

370 - Se è impresa ardua datare i fatti della narrazione evangelica non lo è di meno assegnare
date certe agli avvenimenti del racconto lucano nel libro degli Atti. La ragione sta ancora nel
prevalere dell’interesse per i fatti e le idee sull’interesse per i dati cronologici in colui che ha
steso il racconto. Questo dato di fatto è comprensibile, ciò non toglie però che il cronologo sia
privato della possibilità di fissare con sicurezza nel tempo le tappe più significative della storia
della chiesa primitiva. Sulla scorta degli scarsi e vaghi dati cronologici reperibili nel libro degli
Atti, si è tentato di costruire una cronologia approssimativa del periodo fra la Pentecoste e l’ar-

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CAPITOLO 9

la formula di consacrazione del calice con cui Gesù ne accompagnò la distribu-


zione agli apostoli: “... questo è il mio sangue, il sangue del patto , il quale è
sparso per molti per la remissione dei peccati” (Mt 26:28; Mc 14:24). In Lc 22:20
la formula compare con una lieve variante: “Questo calice è il nuovo patto nel
mio sangue che è sparso per voi” (cfr. 1Co 11: 25). Nella Pasqua dell’anno 31,
dunque, il Messia istituì la Nuova Alleanza col nuovo popolo di Dio, l’Alleanza
che Geremia aveva annunciato 600 anni prima (Gr 31:31; cfr. con Eb 8:6 e se-
guenti). La crocifissione, il giorno dopo l’inaugurazione della Nuova Alleanza,
segnò la fine del ministero messianico di Gesù. In quella circostanza tragica il
Redentore fu solo; lo abbandonarono persino i suoi amati apostoli (vedi Mt
26:56; Mc 14: 50-52). Gabriele lo aveva predetto 570 anni prima al profeta Da-
niele: “... nessuno sarà per lui”.
La morte cruenta del Messia segnò la fine del sistema sacrificale, fonda-
mento liturgico dell’Antica Alleanza. Il sacrificio espiatorio prefigurava “l’Agnello
di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1:29). Ora che l’Agnello di Dio è
stato immolato il sacrificio prefigurativo è divenuto inutile. Ne è stato un segno
inequivocabile lo spontaneo “lacerarsi in due da cima a fondo” della “cortina del
tempio” tra il “santo” ed il “santissimo” nell’istante in cui Gesù Cristo “rese lo spi-
rito” (Mt 27: 50-51)371.
Il Luogo santissimo, da sempre celato agli sguardi umani indiscreti, non
aveva più misteri. L’espiazione che lo Yom Kippur prefigurava era ormai una
realtà storica. Si continuò ancora per 39 anni a immolare il sacrificio sul grande
altare del tempio, ma come un rito vuoto di significato agli occhi di Dio. La
morte del Messia cambiò diverse cose. Al principio della sua missione in terra
Gesù aveva vietato ai Dodici di portare l’annuncio evangelico ai Gentili ed ai Sa-

rivo di Paolo a Roma integrando con informazioni tratte dalle epistole quelle attinte dagli Atti. In
questa nota interessano soltanto i tempi del martirio di Stefano e della conversione di Saulo. Il
fariseo Saulo da Tarso, dopo avere abbracciato la fede cristiana, dovette fuggire da Damasco
perché il governatore del re Areta vi aveva messo delle guardie per farlo arrestare (cfr. 2Co
11:32 e seguenti). Questa circostanza lascia credere che in quest’epoca Damasco, già posse-
dimento romano, fosse sotto la sovranità del tetrarca dei Nebatei Areta IV e che il funzionario
menzionato da Paolo fosse il suo viceré. Si è potuto stabilire in base a delle monete dell’epoca
che nell’anno 33 E.V. Damasco era ancora sotto la sovranità di Roma. Nel 37, quando Vitellio,
governatore della Siria, mosse contro Areta, il funzionario romano si diresse a sud, verso Petra,
senza sostare a Damasco; ciò farebbe pensare che in quest’epoca Damasco non fosse più
sotto il controllo dei Romani. Areta IV, che morì nell’anno 40, deve avere preso possesso di
Damasco fra il 37 e il 40. Di conseguenza Saulo, che fuggì da Damasco controllata da Areta 3
anni dopo la conversione (Gal 1:18), deve avere abbracciato la fede di Cristo fra il 34 e il 37,
verosimilmente nel 35. Stefano subì il martirio in Gerusalemme prima della conversione di
Saulo (At 8:1), quindi non dopo il 34 e probabilmente non prima.
371 - Cfr. E.G.WHITE, Desire of Ages, pp. 165, 757, nell’edizione italiana - La Speranza
dell’uomo, pp. 108 e 541; S.D.A. Bible Commentary, vol. V, p. 550; G.STEWART, Commentario
esegetico pratico del Nuovo Testamento, Matteo, p. 298.

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CAPIRE DANIELE

maritani, la loro missione era di andare dalle “pecore perdute della casa
d’Israele” (Mt 10: 5-6). Ma prima di tornare in cielo, Egli conferì ai suoi apostoli
un mandato universale (Mt 28: 18-20) cfr. con At 1:8). Rifiutando il suo Messia
Israele aveva segnato il proprio destino. Gesù lo aveva previsto: “Gerusalemme,
Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante
volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli come la gallina raccoglie i suoi pulcini
sotto le ali; e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata
deserta”.
“Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a una gente
che ne faccia i frutti” (Lc 13: 34-35; cfr. con 21: 20-24 e Mt 21: 43).
Tre anni e mezzo dopo la crocifissione di Gesù, nell’anno 34 morì martire a
Gerusalemme per mano dei Giudei il diacono Stefano (At 6:5). Il discorso che
aveva pronunciato davanti al Sinedrio prima di essere lapidato ricorda i discorsi
dei profeti antichi. Come quei fedeli portavoce di Dio Stefano aveva ricordato ai
connazionali dal cuore indurito i benefici che i padri avevano ricevuto dal Si-
gnore e l’ingratitudine con cui lo avevano ripagato (At 7: 2-50); e come i veg-
genti antichi ebbero delle visioni, anche lui ebbe una visione: prima di spirare
vide aprirsi il cielo e lassù vide il Signore Gesù glorificato alla destra del Padre
(At 7: 55-56). Quella di Stefano fu l’ultima voce profetica che si fece udire in
Israele, e Israele la fece tacere per sempre. Scaddero le 70 settimane di anni ac-
cordati a Israele per convertirsi e Israele mancò la sua ultima occasione !
Non passò molto tempo che il fariseo Saulo da Tarso, che di quel delitto
era stato testimone consenziente (At 7:58; 8:1; 22:20), fu fermato da Gesù Cristo
alle porte di Damasco dove si recava per devastare la comunità cristiana (At 9: 1-
6; 22: 3-8; 26: 9-15). Al discepolo damasceno riluttante ad andargli incontro
come gli era stato comandato da Gesù - credendolo egli ancora un persecutore
implacabile (At 9: 13-14) - il Signore rivelò che invece quell’uomo era uno stru-
mento ch’Egli aveva eletto per portare il suo nome davanti ai Gentili (At 9:15;
cfr. con Ga 1:15-16; 2:2, 7-8).
In Antiochia di Pisidia, durante il primo viaggio missionario, Paolo, il perse-
cutore di un tempo divenuto ardente testimone di Cristo, comprese che era
giunto per lui il momento di votarsi all’evangelizzazione dei Gentili.
Ciò avvenne dopo la reazione ostile dei Giudei ad una sua predicazione
nella sinagoga locale - una predicazione che nella prima parte tanto era somi-
gliata al discorso di Stefano ai sinedriti (At 13: 15-22). Fu in quella circostanza
che Paolo e Barnaba decisero di volgersi al mondo pagano: “Era necessario che
a voi per i primi si annunziasse la Parola di Dio; ma poiché la respingete e non
vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili” (At 13:46).
Era il crepuscolo d’Israele cui stava per seguire l’aurora di un tempo nuovo per
il mondo dei Gentili.
Considerate le circostanze che condussero alla reiezione d’Israele come po-
polo eletto di Dio, rimane da vedere come si realizzarono nella storia giudaica
gli eventi tragici predetti in 9: 26b e 27b riguardo a Gerusalemme e al santuario.
Il “popolo di un principe” (‘am nagîd) che avrebbe distrutto la città e il santuario
non può essere identificato coi Romani, perché 1) non il popolo romano fu coin-

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CAPITOLO 9

volto nella tragedia giudaica dell’anno 70, ma un esercito di Roma, e 2) perché


nagîd in Daniele è designazione di una dignità sacra, non profana372. “Popolo”
va dunque riferito ai Giudei e “principe” al sommo sacerdote che in quel tempo
rappresentò per loro la massima autorità riconosciuta.
L’attribuzione ai Giudei della responsabilità della distruzione di Gerusa-
lemme e del tempio a tutta prima può sembrare un falso storico, ma se si analiz-
zano i fatti che portarono alla guerra giudaica del 66-70, si capisce che proprio i

372 - Nell’Antico Testamento nagîd indica ora la dignità regale (2Cr 11:22), ora il comando mili-
tare (1Cr 13:1), ora la sovraintendenza in ambito amministrativo (1Cr 26:24; 2Cr 28:7).
Ma al di là di questi usi profani, il termine è adoperato con una connotazione religiosa per desi-
gnare l’eletto di Yahweh per condurre il suo popolo (1Sm 9:16), e con un senso più stretta-
mente religioso per indicare il sacerdote (1Cr 9: 11). In questi casi nagîd è posto in relazione
con un ufficio particolare di cui Dio investe un uomo da lui scelto, mediante il rito dell’unzione.
Con l’unzione Samuele consacrò Saul nagîd dell’eredità di Yahweh (1Sm 10:1; cfr. con 9:16).
E in seguito gli annunciò che il Signore lo aveva riprovato per la sua indegnità e si era scelto un
uomo “secondo il suo cuore” per farlo nagîd del suo popolo (1Sm 13: 14). Vari anni dopo, gli
anziani delle tribù convenuti a Hebron per riconoscere Davide re di tutto Israele, rammentarono
che a lui il Signore aveva promesso di farlo pastore del suo popolo, nagîd d’Israele (2Sm 5:2).
Il profeta Natan pure ricordò a Davide che Yahweh lo aveva preso dall’ovile per fare di lui il
nagîd d’Israele (2Sm 7:8). Molti anni dopo, Ahija, un profeta del nord, rinfacciò all’indegno Ge-
roboamo che governava le tribù secessioniste che dal Signore egli era stato fatto nagîd del suo
popolo (1Re 14:7); lo stesso peccato di apostasia rimproverò più tardi al re di Samaria Baasa
un altro profeta del nord, Jehu, ricordandogli che Dio lo aveva stabilito come nagîd del suo po-
polo (2Re 20:5). 1Cr 29:22 dice, alludendo all’accessione al trono di Salomone, che egli era
stato unto e consacrato a Yahweh come nagîd del popolo.
I passi citati attestano l’uso continuo del termine nagîd durante il periodo della monarchia
israelitica per indicare i re davidici, e talvolta i re di Samaria, come gli eletti di Dio per condurre
il suo popolo. Rileva giustamente Claus Schedl che, dall’elezione di Saul in poi, il titolo di nagîd
sarebbe aureolato di una luce religiosa mentre melek indicherebbe l’aspetto profano del regno.
“ Così - scrive testualmente - Saul sarà il nagîd, il pastore consacrato, designato e proclamato
da Jahvè, e solo dal riconoscimento del popolo gli verrà il titolo regio di melek”. - Storia del Vec-
chio Testamento, Roma 1961, vol. II, p. 68 (vedi anche R. DE VAUX, Le Istituzioni dell’Antico Te-
stamento, Torino 1964, p. 101). Una pagina prima C. Schedl collega la parola ebraica nagîd
alla radice ugaritica noked, “pastore”, e aggiunge che con questo senso il termine si ritrova an-
che nell’accadico nakid. In modo significativo l’accostamento alla pastorizia del termine nagîd
è fatto anche in due dei passi citati prima: 2Sm 5:2 e 7:8. Tale accostamento suggerisce che
il re d’Israele fosse considerato il pastore scelto da Dio per custodire il suo gregge. In due libri
post-esilici il titolo di nagîd con un’implicazione particolare è applicato all’ufficio sacerdotale.
In 1Cr 9:11 e Ne 11:11 è riferito al sacerdote Ahitub il titolo di “nagîd della casa di Dio”; in 2Cr
31:13 lo stesso titolo è attribuito al sacerdote Azaria. Quest’uso particolare del termine nagîd
nell’Antico Testamento ne attesta un senso speciale che si discosta dalle accezioni comuni di
“principe”, “capo”, “conduttore”, “sovrintendente” che il termine ha in altri casi. Questo senso
particolare mette in luce l’idea di una investitura sacra conferita da Dio a uomini scelti per svol-
gere un compito che al di là degli aspetti secolari e profani, aveva un alto significato religioso
sottolineato dalla consacrazione mediante l’unzione (cfr. R. DE VAUX, op. cit. p. 389). Is 55:4 ap-
plica il titolo di nagîd al re Davide come tipo del Messia.

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CAPIRE DANIELE

Giudei furono la causa della catastrofe che spazzò via la loro nazione. Dice lo
storico giudeo Giuseppe Flavio riferendosi a Gerusalemme assediata dai Romani:
“una città che non meritava simili sofferenze se non per avere dato vita a una
generazione come quella che ne causò la rovina” (Guerra Giudaica, VI 8,5).
I Romani non avrebbero intrapreso di loro iniziativa in Giudea una guerra
talmente dispendiosa per loro e rovinosa per il paese se i Giudei non li avessero
costretti a farlo. Furono gli Zeloti fanatici e truculenti e i molti connazionali che
li assecondarono la causa vera della rovina immane che si abbatté su Giuda, su
Gerusalemme e sul tempio in quell’infausto anno 70 dell’Era Volgare.
La guerra giudaica, di cui Giuseppe Flavio ci ha lasciato una documenta-
zione impressionante nei sette libri dell’opera omonima, cominciò con l’insurre-
zione antiromana di Gerusalemme a maggio dell’anno 66, e non finì prima che
tutto il paese fosse ridotto in uno stato di completa desolazione. Proprio come
l’angelo rivelatore aveva predetto a Daniele. Simile a un’inondazione che tutto
travolge, le legioni e le truppe ausiliarie di Roma condotte da Vespasiano prima
e da suo figlio Tito poi, si riversarono nella Galilea, la Samaria e la Giudea e in-
fine espugnarono Gerusalemme e rasero al suolo la città e il tempio373.
Dn 9:27b ha un’espressione che a prima vista sembra incomprensibile: “... e
sull’ala delle abominazioni (vi sarà) desolazione...” ({"mo$m: {yicUQi$ vánK: la(wº we ‘al
kenaf shiqqûtzîm meshômem...).
I LXX traducono questa espressione: kaì ’epì tò ’ieron bdelígma, “e sopra il
tempio (vi sarà) un’abominazione di desolazione” (C. Boutflower). Questa antica
versione greca del Vecchio Testamento traduce dunque “tempio” il vocabolo
ebraico kanaf che ordinariamente significa “ala”. Come prima accezione secon-
daria di kanaf W.Genesius dà: “margine”, “estremità”. Con questo preciso signifi-
cato il termine compare in diversi passi dell’Antico Testamento. In 1Sam 24:5, 12
esso è tradotto “il lembo (del mantello)”, in Nu 15:38 “angoli (delle vesti)”, in De
22:12 “canti (del mantello)”. Za 8:23 ha l’espressione kenaf ’ish yehûde, “il lembo
(del mantello) di un uomo di Giuda” (vedi anche Ez 5:3 e Ag 2:12). In De 23:1,
27:20; Ez 16:8 e Ruth 3:9 kanaf indica il lembo di una coperta.
L’autorevole lessicografo tedesco dà come ulteriore significato secondario di
kanaf, “estremità”. Con questa accezione il vocabolo è presente nell’espressione
“l’estremità o le estremità della terra” (miknaf ha’arez) in Is 24:16, Gb 37:3,
38:13, Is 11:12.
Infine come terza accezione secondaria di kanaf Gesenius segnala: “la som-
mità più alta del tempio, Dn 9:27” e raffronta questa espressione con quella
greca pterìgion tou ‘ierouí, “il pinnacolo (letteralmente ‘la piccola ala’) del tem-
pio”, in Mt 4:5374.

373 - Nel mese di maggio dell’anno 66 E.V., a Gerusalemm,e si manifestò in aperta rivolta l’in-
sofferenza dei Giudei verso il governo romano esasperata negli ultimi tempi dai soprusi del pre-
potente e corrotto procuratore Gessio Floro.
374 - Gesenius’ Hebrew - Chaldee Lexicon to the Old Testament, voce “kanaf”; cfr. B. DAVIDSON,
The analytical Hebrew and Chaldee Lexicon, stessa voce; C. BOUTFLOWER, In and Around the
Book of Daniel, pp. 202, 203.

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CAPITOLO 9

È evidente che questo vocabolo ebraico nell’Antico Testamento è anche


adoperato per indicare l’estremità di un oggetto qualunque; in architettura può
denotare la parte sommitale di una struttura edilizia, appunto il pinnacolo. Prima
che fosse distrutto, il tempio si ergeva sulla sommità del colle di Sion quasi fosse
il suo pinnacolo. Tradurre: “sopra il tempio” l’espressione ebraica ‘al kanaf,
come fanno i LXX, ci sembra dunque del tutto ragionevole.
È stato osservato con ragione che il Salvatore stesso avallò la correttezza di
questa traduzione di kanaf allorchè avvertì i suoi discepoli: “Quando dunque
avrete vedute l’abominazione della desolazione (tò bdéligma tes ’eremoseos),
della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo (‘estòs ’en topo
‘agio) ... allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti” (Mt 24:15). Il “luogo
santo” nominato da Gesù in questo passo è senza dubbio il santuario.
“Il segno che misericordiosamente Cristo aveva indicato - commenta Bout-
flower - non solo si avverò in modo inequivocabile, ma lasciò a tutti quelli che
gli credettero, ampio margine di tempo per fuggire come Lot dalla città condan-
nata, poiché il tempio fu occupato dagli Zeloti e trasformato in fortezza circa tre
anni prima che la città fosse per la prima volta investita dai Romani e circondata
di un muro di circonvallazione”375.
Per la coscienza di ogni pio giudeo la presenza permanente nei sacri cortili
del tempio di una masnada di briganti senza scrupoli non poté non rappresen-
tare un’intollerabile abominazione.
Giuseppe Flavio ricorda il dolore del vecchio sacerdote Anano alla vista
dell’empia profanazione del tempio occupato dagli Zeloti. Dice lo storico giu-
deo: “Una volta che il popolo era raccolto in assemblea e tutti erano indignati
per l’occupazione del santuario, per le ruberie per le uccisioni, ma non avevano
ancora intrapreso alcuna azione di resistenza perché ritenevano, e a ragione, che
non sarebbe stato facile mettere a posto gli Zeloti, si levò a parlare alla folla
Anano e, rivolgendo ripetutamente lo sguardo al tempio con gli occhi pieni di
lacrime, così disse: ‘Come sarebbe stato bello per me morire prima di vedere la
casa di Dio ricolma di tanti empi misfatti e i luoghi inaccessibili e sacri violati da
piedi tanto scellerati !”376.
Si consumava in quei giorni tristissimi, tra lo sgomento dei pii giudei come
Anano, l’abominazione della quale aveva parlato Daniele e a cui Gesù aveva
fatto riferimento (Mt 24:15), l’abominazione che era al tempo stesso preludio e
causa della desolazione che incombeva sul sacro luogo e sulla santa città (“l’abo-
minazione della desolazione”). Circa tre anni dopo, il 5 agosto dell’anno 70, i le-
gionari di Tito occuparono la spianata del tempio; il giorno seguente il sacro edi-
ficio andò in fiamme nonostante che il generale romano avesse deciso col suo
consiglio di guerra di risparmiarlo. Successivamente le milizie romane occupa-
rono e incendiarono prima la città bassa, poi la città alta. Infine, spentesi le

375 - C. BOUTFLOWER, op. cit., p. 203


376 - GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, IV. 3, 10.

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CAPIRE DANIELE

fiamme, per ordine di Tito i soldati spianarono i ruderi della città e del tempio. I
capi della rivolta scontarono duramente le sofferenze che fecero patire al po-
polo. Giovanni di Ghiscala, arresosi per fame, fu dai Romani condannato al car-
cere a vita. Simone Bar-Ghiora si consegnò al vincitore dopo avere invano ten-
tato la fuga; portato a Roma, subì l’esecuzione capitale durante la celebrazione
del trionfo di Tito377. Dice di lui lo storico giudeo: “Così Dio, per punirlo della
sua crudeltà contro i concittadini, che aveva tiranneggiato senza compassione, lo
diede in balia dei nemici che più l’odiavano...”378. Fu così che il giudizio divino
si abbatté sui responsabili della catastrofe che cancellò la città santa col santuario
del Signore e provocò un’ecatombe fra il popolo e sofferenze inenarrabili ai so-
pravvissuti.Come era stato predetto, quel che era decretato si riversò infine sul
desolatore (shomem).Con questa immagine cupa di desolazione e di castigo si
chiude la rivelazione delle settanta settimane che ho avuto al centro la figura ec-
celsa del Messia-Redentore.

377 - Ibide, VII. 9,4


378 - Ibidem, VII. 2,2.

289
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CAPITOLO 9

APPENDICE 9A danielico e la figura storica di Ciassàre II, dif-


ficoltà non lievi ne rendono problematica
Dall’antichità fino ad oggi vari perso- l’identificazione. Il nome del padre di Cias-
naggi storici sono stati sovrapposti alla figura sàre era Astiage, non Assuero, e una pre-
del danielico Dario il Medo. Già nel I secolo senza di Ciassàre II in Babilonia come suc-
Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, X. 11,4) cessore di Nabonide non è documentata in
lo identificò con Ciassàre II figlio di Astiage ul- nessuna delle fonti babilonesi o greche cono-
timo re dei Medi. Tentativi di dare un’identità sciute.
a questo personaggio ignoto alla storia, in III. Il prof. D.J. Wiseman ha proposto
tempi recenti sono stati compiuti da diversi d’identificare il Dario di Daniele con Ciro II re
studiosi. I.B. Alfrink, seguito da altri, ha pro- di Persia supponendo che Dario fosse un al-
posto di identificare Dario il Medo nominato tro nome di Ciro e ipotizzando che la congiun-
da Daniele con Astiage ultimo re dei Medi. zione aramaica “u” in Dn 6:28 abbia funzione
L’identificazione però sembra improbabile per esplicativa e non congiuntiva (“e”), cosa pos-
le seguenti ragioni: sibile secondo i grammatici. Wiseman ha
a) il padre di Astiage fu Ciassàre I e non letto così il passo in questione: “E questo Da-
Serse (Assuero). niele prosperò sotto il regno di Dario, cioè di
b) Dario il Medo aveva 62 anni quando Ciro il Persiano”.
divenne re dei Caldei (Dn 5:31), Astiage, se Vari studiosi - fra i quali J.G. Baldwin,
era ancora in vita all’epoca della caduta di A.R. Millard e G. Wenham - hanno appoggiato
Babilonia, doveva essere molto più anziano questa tesi; essa ha tuttavia contro di sé diffi-
avendo cominciato a regnare 50 anni prima. coltà non minori che le tesi precedenti. Ciro
c) Astiage cercò di sopprimere Ciro fin aveva meno di 62 anni all’epoca della conqui-
dalla nascita (vedi Erodoto, I, 108); Ciro da sta di Babilonia. Daniele distingue i due per-
adulto lo vinse e lo relegò in Ircania secondo sonaggi notando che l’uno è persiano (6:28)
alcune fonti, secondo altre lo uccise. È estre- e l’altro meda (5:30; 9:1; 11:1). Ciro regnò
mamente improbabile che lo avesse nomi- nella Persia (10:1), Dario sui Caldei (9:1). Il
nato re-vassallo di Babilonia. padre di Ciro fu Cambise I, Dario fu figlio di
II. Vari autori moderni, fra i quali ricorde- Assuero (9:1).
remo Hengstenberg, Rosenmuller, Hävernick, IV. P.Riessler, H.Winkler, C.Boutflower
Kliefoth e Knabenbauer, propendono per ed altri hanno accostato Dario il Medo a Cam-
l’identificazione di Dario il Medo con Ciassàre bise II figlio di Ciro sulla base di una trentina
II figlio di Astiage, identificazione già proposta di testi cuneiformi dai quali si evince che Ciro
nel I secolo da Giuseppe Flavio in Antichità nominò suo figlio Cambise re-vassallo di Babi-
Giudaiche, come si è visto, e condivisa nel V lonia per un anno mentre lui continuò a re-
secolo da Girolamo (Girolamo su Daniele, p. gnare sulla Persia. Anche questo tentativo
89). In ambito avventista questa tesi ha rac- però incontra gravi difficoltà. In primo luogo
colto i consensi del S.D.A. Bible Commentary non si sa in quale dei 10 anni del regno di
(vol. IV, pp. 816-817) e più recentemente del Ciro dopo la conquista di Babilonia Cambise
compianto GERARD HASEL (Daniel, questions abbia regnato sulla città come vassallo. Se-
débattues, p. 33). condariamente Cambise fu di stirpe persiana,
Fra i cattolici di lingua italiana è stata non meda. Terzo Cambise fu figlio di Ciro,
caldeggiata da E. TESTA (Il Messaggio della non di Assuero. Infine Cambise aveva meno
salvezza, vol. III, p. 140). Sebbene vi siano di 62 anni nel 539 a.C.
convergenze significative fra il personaggio V. E.Babelon nel 1882 propose di identi-

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CAPIRE DANIELE

ficare il Dario danielico con un personaggio di può così sintetizzare:


nome Gubaru che secondo la Cronaca di Nabo- 1) “Re di Babilonia” è il titolo reale dei
nide fu governatore di Babilonia. La tesi di Ba- sovrani babilonesi in tutti i documenti datati;
belon fu in seguito condivisa da studiosi quali 2) Nel periodo persiano a questo titolo
F. Delitzsch, F.W. Albright, G. Pinches e R.D. venne aggiunto quello di “Re dei Paesi”;
Wilson. H.H. Rowley però l’avversò perché le 3) Serse I abolì il titolo di “Re di Babilo-
notizie di fonte babilonese e greca su questo nia” e mantenne solo quello di “Re dei Paesi”
personaggio sembravano contraddittorie. dopo la rivolta di Babilonia repressa nel 482
J.C. Whitcomb, a seguito di uno studio a.C.; questo titolo rimase in uso fino ad Ales-
comparato di tutti i documenti antichi che sandro il Macedone.
fanno riferimento a Gubaru, dimostrò nel 4) I testi economici e amministrativi di
1959 che dalla caduta di Babilonia (539 a.C.) Babilonia rivelano che Ciro, contrariamente ai
fino all’anno V di Cambise II (526 a.C.) ci fu- suoi predecessori neo-babilonesi, non as-
rono in Persia due personaggi che portarono sunse il titolo di “Re di Babilonia” che 14
questo nome: il governatore di Babilonia di mesi dopo avere preso possesso della città.
cui si è detto sopra e il generale di Ciro e go- Nei primi 4 mesi dell’anno di accessione e per
vernatore del Gutium che conquistò Babilonia 10 mesi nell’anno seguente il titolo che gli
ricordato nella Cronaca di Nabonide anche col danno questi documenti è quello di “Re dei
nome di Ugbaru e da Senofonte col nome di Paesi”. Ciò può significare soltanto che Ciro,
Gobryas (per non confonderli chiameremo da dopo la conquista della città, non assunse il ti-
qui in avanti Gubaru il primo e Ugbaru-Go- tolo nè l’ufficio di re di Babilonia. La spiega-
bryas o solo Ugbaru il secondo). Whitcomb zione più verosimile è che durante questi 14
mantenne l’identificazione di Dario il Medo mesi un re vassallo di Ciro svolgesse in Babi-
con Gubaru governatore di Babilonia poiché lonia la funzione di re, o meglio di viceré.
sembrava che Ugbaru-Gobryas fosse vissuto 5) Questo periodo di tempo coincide ab-
troppo poco dopo la presa di Babilonia perché bastanza bene con la durata del regno di Da-
avesse potuto svolgere il ruolo attribuitogli da rio il Medo deducibile dalle informazioni di Da-
Daniele. Due circostanze rendevano però pro- niele. Infatti il profeta menziona nel suo libro
blematica questa identificazione. La prima soltanto il primo anno di regno di Dario (9:1 e
era che Gubaru fu governatore di Babilonia, 11:1) e ci lascia supporre che nell’anno terzo
mentre Dario il Medo occupò secondo Da- di Ciro egli fosse scomparso dalla scena
niele una posizione più elevata (“fu fatto re”, (10:1).
9:1). La seconda era che Gubaru cominciò a Questa tesi tuttavia è resa problematica
governare Babilonia nell’anno IV di Ciro e ri- dalla circostanza segnalata sopra che Ugbaru
mase in carica fino all’anno V di Cambise, non sarebbe vissuto abbastanza da poter ge-
mentre Dario il Medo fu posto sul trono di Ba- stire gli affari di governo in Babilonia come
bilonia subito dopo la morte di Beltsasar presuppone il racconto di Daniele. La Cronaca
(5:30-31) e il suo regno finì prima dell’anno III di Nabonide informa che Babilonia cadde in
di Ciro (cfr. 9:1 e 10:1). potere dei Persiani il 16 di Tishratu e che Ciro
William H. Shea, dopo uno studio accu- vi entrò da trionfatore 17 giorni dopo, il 3 di
rato dei testi babilonesi, è giunto alla conclu- Arashamnu. Poi riferisce che fra i mesi di Ki-
sione che Ugbaru-Gobryas governatore del Gu- slimu e Addaru furono riportate nelle loro sedi
tium e generale di Ciro risponde meglio di Gu- le immagini degli dèi.
baru governatore di Babilonia alle attribuzioni Subito dopo segnala la morte di Gubaru
del Dario danielico. La sua argomentazione si (Ugbaru) l’11 di Arashamnu. Per facilitare la

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CAPITOLO 9

comprensione della sequenza degli avveni- morte di Ugbaru avvenne dopo i fatti menzio-
menti in questa parte della Cronaca (III co- nati a monte, vale a dire la conquista di Babi-
lonna), riportiamo sotto la successione con- lonia il 16 di Tishratu, l’entrata di Ciro nella
secutiva dei mesi dell’anno secondo il calen- città il 3 di Arashamnu e il trasferimento degli
dario babilonese con l’indicazione degli eventi déi nelle sedi loro pertinenti fra i mesi di Ki-
ai quali si è accennato sopra. slimu e Addaru. Se invece si dà un’interpreta-
Se le notizie della Cronaca si susse- zione retrospettiva alla menzione dell’ottavo
guono nell’ordine cronologico consecutivo, la mese dopo il dodicesimo (cosa che appare

anni a.C. mesi calendario mesi calendario Notizie della Cronaca di Nabonide
GIULIANO BABILONESE

1 (marzo/aprile) NISANU
2 (aprile/maggio) AIRARU
3 (maggio/giugno) SIMANU
4 (giugno/luglio) DUMUZU
5 (luglio/agosto) ABU
6 (agosto/settembre) ULULU
7 (settembre/ottobre) TISHRATU 16° giorno: Babilonia cade
nelle mani dei Persiani
8 (ottobre/novembre) ARASHAMNU 3° giorno: Ciro entra in Babilonia
9 (novembre/dicembre) KISLIMU
10 (dicembre/gennaio) TEBBETU le immagini delle divinità
sono riportate nelle
loro sedi abituali

11 (gennaio/febbraio) SHABBATU
12 (febbraio/marzo) ADDARU
1 (marzo/aprile) NISANU 11° giorno di ARASHAMNU
(verosimilmente dell’anno
successivo): muore Ugbaru.
2 (aprile/maggio) AIRARU
3 (maggio/giugno) SIMANU
4 (giugno/luglio) DUMUZU
5 (luglio/agosto) ABU
6 (agosto/settembre) ULULU
7 (settembre/ottobre) TISHRATU
8 (ottobre/novembre) ARASHAMNU
9 (novembre/dicembre) KISLIMU
10 (dicembre/gennaio) TEBBETU Ciro assume il titolo reale
di “Re di Babilonia” accanto
a quello di “Re dei Paesi”
(testi amministrativi)

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CAPIRE DANIELE

poco verosimile), allora Ugbaru sarebbe biamento del titolo reale di Ciro dal 14° mese
morto tre settimane dopo la conquista per- dopo la caduta di Babilonia debba porsi in re-
siana di Babilonia. lazione con un avvenimento importante ripor-
William H. Shea, autore dello studio al tato nella Cronaca stessa, cioè con la morte
quale facciamo riferimento in queste pagine, di Ugbaru. Se gli avvenimenti registrati in que-
sostiene l’ordine consecutivo delle notizie ri- sto documento lo sono nell’ordine cronologico
portate nella III colonna della Cronaca di Na- consecutivo, il titolo reale di “Re di Babilonia”
bonide, avendo dimostrato, come diremo su- fu aggiunto al titolo corrente di Ciro, “Re dei
bito, che questo fu il criterio seguito abitual- Paesi”, circa 6 settimane dopo la morte del
mente dai cronisti babilonesi fin dall’VIII se- conquistatore di Babilonia. Sembra logico de-
colo a.C. durne che Ugbaru debba avere svolto la fun-
Il prof. Shea ha proceduto ad un esame zione di “re” o vicerè di Babilonia fino al mo-
accurato di tutti gli avvenimenti datati mento della sua scomparsa.
dall’epoca di Nabonassar (VIII secolo a.C.) Concludendo il suo studio il prof. Shea
fino al tempo della Cronaca. In questo modo segnala 6 maggiori linee di convergenze fra il
ha scoperto che su 318 avvenimenti datati ri- personaggio danielico e l’ex governatore del
portati nei testi presi in esame, 313 si susse- Gutium.
guono nell’ordine cronologico consecutivo. Lo 1) Ugbaru comandò le truppe medo-per-
studioso ha giustamente concluso che i 313 siane che si impadronirono di Babilonia; Dn
casi di datazione consecutiva degli avveni- 5:31 sembra presupporre lo stesso ruolo per
menti debbono riflettere la regola, mentre i 5 Dario il Medo.
casi anomali debbono rappresentare una de- 2) Secondo la Cronaca di Nabonide Ug-
roga della regola (in un altro studio Shea ha baru costituì dei governatori sulla provincia di
fornito la spiegazione di tale deroga). È parso Babilonia. Dario il Medo fece la stessa cosa
legittimo a questo ricercatore applicare la re- secondo 6:1-2.
gola alla successione dei fatti riportati nella III 3) Ugbaru scomparve poco più di un
colonna della Cronaca di Nabonide. anno dopo la conquista persiana di Babilonia,
Altre circostanze aggiungono peso alla il che può far supporre che egli non fosse gio-
tesi della identificazione del Dario di Daniele vane. Dario il Medo, secondo 5:31 aveva 62
con Ugbaru generale di Ciro e conquistatore anni quando “fu fatto” re di Babilonia.
di Babilonia. Per esempio il fatto stesso che il 4) Combinando la cronologia della Cro-
suo nome figura nella Cronaca; questo fatto naca di Nabonide con quella dell’assunzione
lo fa annoverare fra i personaggi di rango re- dei titoli reali nei testi amministrativi, si de-
gale. In 10 testi amministrativi - osserva Shea duce che Ugbaru morì 14 mesi circa dopo la
- 58 re sono nominati 177 volte, mentre le caduta di Babilonia. Daniele, come già ricor-
cronache registrano 7 nomi di personaggi non dato, cita solo il primo anno di regno di Dario
di rango reale, oltre ai nomi dei sovrani. Un’al- il Medo (9:1; 11:1) e in 10:1 menziona l’anno
tra circostanza significativa è la menzione terzo di Ciro. La spiegazione più naturale è
della data del decesso di Ugbaru. Nelle crona- che Dario fosse scomparso prima dell’anno
che, su 22 personaggi di cui si dà la data terzo di Ciro.
della morte, 20 erano re o regine e 2 soltanto 5) La distinzione che fa Daniele fra i re-
non rivestivano dignità regale. gni di Ciro e di Dario il Medo corrisponde
La deduzione più significativa che ha bene alla situazione che descrivono i testi cu-
tratto Shea dal confronto dei testi amministra- neiformi babilonesi. Il titolo di “Re di Persia”
tivi con la Cronaca di Nabonide è che il cam- che Daniele dà a Ciro in 10:1 concorda col ti-

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CAPITOLO 9

tolo di “Re dei Paesi” che gli attribuiscono i come re di Babilonia (op. cit., p. 47). I testi
testi amministrativi, e la notizia che Dario il amministrativi di Borsippa del periodo per-
Medo regnò sul “regno dei Caldei” riportata in siano menzionano un re di nome Akshimaksu
9:1, coincide con la notizia della Cronaca se- sconosciuto alle altre fonti storiche. Si è sco-
condo la quale Ciro cominciò a portare il titolo perto che questo nome era una variante del
di “Re di Babilonia” dopo la morte di Ugbaru. nome del noto re persiano Serse I (Xsayarsan
6) La condizione di vassallo di Ugbaru nel persiano antico).
concorda bene con l’informazione di 9:1 se- Dario potrebbe essere il “nome del
condo la quale Dario “fu fatto re”. trono” del personaggio che assunse il trono
Le fonti cuneiformi e classiche tacciono di Babilonia dopo la morte di Beltsasar. Per
sulla famiglia di Ugbaru, cosicchè non ab- informazioni più ampie intorno alla problema-
biamo modo di sapere se il padre di costui si ticità della figura di Dario il Medo vedi WILLIAM
chiamasse Assuero o altro. Ugbaru, secondo H. SHEA, “Darius le Mède et Daniel son Gou-
la Cronaca, prima di conquistare Babilonia fu verneur” in Daniel question dèbattues a cura
governatore del Gutium. Era, questa, una pro- di P. WINANDY, Sèminaire Adventiste Collon-
vincia del regno di Ciro che confinava con la ges-sous-Salève 1980, p. 91ss.
Media.
Secondo il prof. R.D.Wilson, citato da
H.C.Leupold, il Gutium “era una contrada di APPENDICE 9B
estensione indefinita che probabilmente ab-
bracciava tutto il territorio tra Babilonia da Oggi un buon numero di studiosi
una parte e le montagne dell’Armenia a nord- dell’Antico Testamento, aderendo ad un’ipo-
est dall’altra, e forse anche il paese al di là tesi proposta dal belga ALBIN VAN HOONACKER
dei monti Zagros che aveva Ecbatana per ca- nel 1890, antepone cronologicamente Nehe-
pitale”. L’identificazione di Dario il Medo con mia a Esdra, contrariamente all’ordine biblico.
Ugbaru ha un aspetto problematico nella di- Tale inversione è stata giustificata in base ad
versità del nome. Non è però questa una diffi- una serie di illazioni tratte dai libri di Esdra e
coltà insormontabile. Nehemia, alle quali sono state opposte paral-
Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche, lele controdeduzioni. Vediamo.
X. 11,4 asserisce che il Dario di Daniele “era 1) Si è osservato che Nehemia sembra
chiamato dai Greci con un altro nome”. Ab- avere una scarsa conoscenza di Esdra. In ef-
biamo notizie su regnanti dell’Antico Oriente fetti Esdra è assente nel libro di Nehemia fino
che adottarono un secondo nome all’atto di a tutto il cap. 7. Ciò però si spiega se si am-
assumere le prerogative reali, il cosiddetto mette che vi sia stato un calo di popolarità
“nome del trono”. del sacerdote-scriba dopo la riforma sui matri-
Il re assiro Tiglat-Pileser III (745-727 moni misti (Ed c. 10) la quale, se riscosse
a.C.), per esempio, assunse il nuovo nome di ampia adesione fra il popolo, ebbe anche de-
Pulu quando cinse la corona di Babilonia (vedi gli oppositori (Ed 10:15). Il rinvio delle donne
E.CASSIN - J. BOTTERO - J. VERCOUTTER, Gl’imperi straniere (Ed 10:10-12) sicuramente scom-
dell’Antico Oriente, Storia Universale Feltri- binò parecchi nuclei familiari (v. 44) ed è an-
nelli, vol. 4, p. 54). Anche la Bibbia conosce il che verosimile che provocasse attriti e ten-
doppio nome di questo sovrano (cfr. 1Re sioni con le popolazioni circostanti.
15:19, 29; 1Cr 5:26). Con l’arrivo di Nehemia Esdra può avere
Suo figlio Salmanassar V (727-722 pensato che fosse saggio mettersi in disparte
a.C.) pure adottò un secondo nome, Ululaya, per lasciare al nuovo arrivato il compito di pro-

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CAPIRE DANIELE

seguire le riforme. Una volta portata a ter- i leviti che prima della partenza avevano rice-
mine la ricostruzione del muro di cinta (Ne vuto in consegna i preziosi offerti per il tem-
6:15), Nehemia deve aver pensato che fosse pio dal re di Persia, dai suoi ministri e dai giu-
giunto per Esdra il momento di uscire dall’om- dei rimasti in Babilonia (Ed 8:24-29), conse-
bra e riprendere la posizione che gli compe- gnarono i detti preziosi al sacerdote Mere-
teva nella vita nazionale. Sta di fatto che alla moth che li ricevette dalle loro mani in pre-
solenne dedicazione del muro appena rico- senza di un secondo sacerdote e di due leviti
struito, Esdra condusse una delle due proces- (Ed 8:33). In questo passo non si dice che i
sioni corali che presero parte alla cerimonia sacerdoti e i leviti che ricevettero in custodia
(l’altra era condotta da Nehemia: Ne l’oro e l’argento per il tempio costituissero
12:36,38). Esdra comparve ancora come lea- una commissione preesistente né, tanto
der religioso di punta poco tempo dopo meno, che essa fosse stata insediata da
quando fu celebrata la Festa delle Capanne Nehemia. Fra il primo e il secondo governato-
(Ne 8:1-6). rato di Nehemia (Ne 13:6) era accaduto che il
2) Si è dedotto che Nehemia non fosse personale del culto aveva abbandonato il tem-
al corrente del rimpatrio avvenuto con Esdra, pio per procacciarsi i mezzi di sostentamento,
perché nel promuovere il censimento della po- giacché le decime non erano più state portate
polazione si valse delle liste genealogiche del (Ne 13:6-7, 10). Nehemia ripristinò i servizi
primo rimpatrio. I reduci da Babilonia al del tempio e il principio sacro della decima, e
tempo di Esdra furono molto meno numerosi affidò a un sacerdote e a uno scriba coadiu-
di quelli che erano tornati 80 anni prima con vati da altre due persone l’incarico di sovrin-
Giosuè e Zorobabele (5 o 6.000 contro tendere all’ammasso nei magazzini del tem-
50.000: cfr. Ed 8:3-20 con 2:64-65). Doven- pio delle derrate portate come decime e alla
dosi procedere ad un nuovo censimento sem- loro distribuzione al personale sacro (Ne 13:
bra naturale che si prendesse per base un re- 11-13). Non si dice però se questa commis-
gistro demografico con un numero cospicuo sione di amministratori delle decime fosse
di famiglie censite a preferenza di uno con un permanente né se essa avesse anche l’inca-
numero esiguo. Del resto l’espressione rico di custodire il tesoro del tempio.
“quelli ch’eran tornati dall’esilio la prima 4) Si è creduto di cogliere in Ed 9:9 la
volta” in Ne 7:5 presuppone che vi sia stato prova che il muro di cinta di Gerusalemme
un secondo rimpatrio dopo quello di Zoroba- fosse già stato costruito quando il sacerdote
bele, e questo non poteva essere che quello Esdra arrivò a Gerusalemme. Sappiamo che
di Esdra (Ed 7 e 8), visto che né Esdra né appena giunto da Babilonia, Esdra dovette
Nehemia accennano ad altri rimpatri oltre a confrontarsi con un problema religioso dai
questi due. Il rimpatrio di Nehemia nel 444 complessi risvolti sociali, il problema dei ma-
a.C. fu solitario (Ne 2:9-11). Dunque l’arrivo trimoni misti (Ed 9:1-2). Egli pensò di risol-
di Nehemia a Gerusalemme nel 444 a.C. fu verlo in modo radicale. Prima però volle avere
preceduto e non seguito da quello di Esdra. un convegno penitenziale coi notabili (Ed 9: 3-
3) Si è voluto dedurre da Ed 8:33 che 4). Confessando in preghiera la colpa del po-
questo personaggio, arrivato a Gerusalemme, polo il pio uomo di Dio riconobbe che nono-
trovasse quivi una commissione di tesorieri stante tutte le infedeltà remote e recenti Dio
del tempio che sarebbe stata istituita da non aveva abbandonato i deportati, anzi
Nehemia. Ed 8:33 documenta un fatto contin- aveva fatto volgere in loro favore la benevo-
gente. Dopo che la carovana condotta da lenza dei re di Persia per tornare in vita come
Esdra fu giunta a Gerusalemme, i sacerdoti e popolo, per riedificare il tempio del loro Dio,

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CAPITOLO 9

per concedere ad essi un muro sicuro “in Giu- a.C., poté essere ancora in vita e in carica 47
dea e in Gerusalemme” (Ed 9:9). Non si può anni dopo il 457 a.C., avendo un’età fra i 70
concludere perentoriamente da questo passo e gli 80 anni.
che il “muro” per il quale Esdra fu ricono- Non c’è motivo per ritenere che in
scente a Dio fosse già ricostruito; egli aveva quest’epoca il sommo sacerdozio non fosse
in mano un decreto del re che lo autorizzava a più un incarico a vita (vedi Nu 20:28; De
ricostruire la città, come si vedrà più avanti, e 20:6). I sommi sacerdoti, se vivevano a
può essere stato per questo che il sacerdote- lungo, arrivavano alla fine del loro incarico
scriba espresse gratitudine verso Dio. con un’età molto avanzata. Aaronne fu
Ad ogni modo l’ebraico gader, “muro”, sommo sacerdote fino ai 123 anni (Nu
nelle versioni è generalmente tradotto “rico- 33:39), Eli fino ai 98 (1Sm 4:15) e Jehoiada
vero”, “riparo”, “rifugio”, “asilo sicuro”, il chè fino ai 130 (2Cr 24:14-15).
sembra essere legittimato dalla menzione di È curioso, ma gli studiosi che antepon-
Giuda accanto a Gerusalemme in rapporto al gono Nehemia ad Esdra incappano nella
gader: non è immaginabile un territorio di stessa difficoltà che tentano di risolvere con
Giuda circondato da un muro di cinta ! Come questa inversione cronologica. Ed 8:33 dice
hanno inteso molti traduttori, gader può avere che il personaggio con questo nome rimise
qui un senso figurato e non letterale. nelle mani del sacerdote Meremoth figlio di
5) I fautori dell’inversione cronologica Uria i preziosi per il tempio portati da Babilo-
tra Esdra e Nehemia fanno notare: a) che il nia. Questo Meremoth figlio di Uria è ricor-
sacerdote Johanan, figlio di Eliashib, aveva dato in Ne 3:4 e 21 fra i costruttori del muro
una stanza nel tempio quando Esdra giunse a di cinta di Gerusalemme.
Gerusalemme (Ed 10:6); b) che suo padre Ora, se Esdra fosse giunto a Gerusa-
Eliashib fu sommo sacerdote 13 anni dopo, lemme nell’anno 7° di Artaserse II, cioè nel
al tempo di Nehemia (Ne 3:1, 20; 13:4,7); c) 397 a.C., posto che nel tempo della ricostru-
che Johanan è ricordato come sommo sacer- zione del muro della città Meremoth avesse
dote in una lettera di Elefantina del 410 a.C. avuto una trentina di anni, ne avrebbe avuti
Da tutto questo si è dedotto che Joha- più di 70 quando ricevette dai reduci di Babi-
nan menzionato in Ed 10:6, e lo stesso lonia l’oro e l’argento per il tempio. Cosa non
Esdra, debbono collocarsi cronologicamente impossibile, solo che a questo personaggio
fra il tempo del sommo sacerdozio di Eliashib sarebbe giocoforza assegnare un’età che è ri-
padre di Johanan, sotto Nehemia, e l’epoca tenuta inammissibile per Johanan! Ma c’è
in cui lo stesso Johanan esercitò il sommo una contraddizione ancora più grave.
sacerdozio attestato nel documento di Elefan- Se si ammette che il sacerdote e scriba
tina. Posto che non ci sono motivi per dubi- Esdra rimpatriasse da Babilonia l’anno 7° di
tare che i due Johanan menzionati in Esdra e Artaserse II (397 a.C.), allora resta un enigma
nel papiro di Elefantina siano la stessa per- senza soluzione la sua presenza in Gerusa-
sona, c’è da aggiungere che questa circo- lemme 47 anni prima per la dedicazione del
stanza non obbliga a ritardare l’arrivo di Esdra muro di cinta (Ne 12:13) e la Festa delle Ca-
a Gerusalemme rispetto alla data tradizio- panne (Ne 8:1-6).
nale. Se Johanan era un giovane sacerdote Di fronte a queste difficoltà insormonta-
sui trent’anni quando Esdra giunse a Gerusa- bili alcuni studiosi hanno creduto di dover
lemme nel 457 a.C. e divenne sommo sacer- cancellare il nome di Esdra dal libro di Nehe-
dote alla morte del padre Eliashib in un anno mia (qualcuno ha pensato addirittura di do-
imprecisato della seconda metà del V secolo verlo cancellare dalla storia !). Altri meno radi-

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CAPIRE DANIELE

cali hanno ritenuto di dovere trasformare in nati”. - Breve storia d’Israele, Brescia 1985,
37° l’anno 7° di Artaserse I per fare comun- p. 176.
que arrivare Esdra a Gerusalemme dopo Sulla scorta delle informazioni sia pure
Nehemia, nel 427 a.C. anziché nel 457 a.C. frammentarie reperibili nei libri di Esdra e
(una critica sensata sulla cronologia invertita Nehemia è possibile ricostruire il corso degli
di Esdra-Nehemia - alla quale in parte si ri- eventi di quest’epoca secondo l’ordine crono-
chiamano le note che precedono - si trova nel logico biblico (Esdra prima di Nehemia)
III volume del S.D.A. Bible Commentary, pp. nell’assoluto rispetto dell’integrità del testo.
370-374). Ed 6:14 dice che i Giudei finirono i loro
Vari studiosi moderni si sono mostrati lavori di ricostruzione (in Gerusalemme) “se-
propensi a riconoscere come più verosimile condo il comandamento dell’Iddio d’Israele e
l’ordine cronologico Esdra-Nehemia che secondo gli ordini di Ciro, di Dario e di Arta-
quello contrario, o quanto meno ad ammet- serse re di Persia”. I lavori condotti a termine
tere come più probabile l’identificazione in Gerusalemme col consenso di Ciro e di Da-
dell’Artaserse di Esdra 7 con Artaserse I Lon- rio si riferiscono senza dubbio alla ricostru-
gimane. Martin Noth, per esempio, ritiene zione del tempio autorizzata da Ciro (Ed 1:2-
probabile che l’Artaserse di Esdra sia Arta- 4) e conclusa nell’anno sesto di Dario (Ed
serse I Longimane e non Artaserse II Mne- 6:15). Ma quali furono i lavori intrapresi col
mone, e stima molto verosimile, anche se consenso di Artaserse? I libri di Esdra e di
non del tutto sicura, l’attribuzione di Esdra a Nehemia hanno due soli riferimenti a lavori di
questo Artaserse I (Storia d’Israele, Brescia ricostruzione condotti in Gerusalemme du-
1975, p. 390). rante il regno di Artaserse: 1) la ricostruzione
SIEGFRIED HERRMANN scrive che “conside- del muro cittadino nell’anno ventesimo (444
rato lo stato globale di questi testi (Esdra e a.C.) sotto la direzione di Nehemia (Ne 2:1;
Nehemia) si può anche dire... che il corso de- 5:15); 2) un principio di ricostruzione della
gli eventi nella forma attuale in cui si presen- città e del muro (Ed 4:12) in un anno impreci-
tano è in linea di principio giusta, che cioè l’at- sato del regno di Artaserse (sicuramente l’Ar-
tività di Esdra e Nehemia non sono state un taserse primo, giacchè quando cominciò a re-
puro e chiaro succedersi dell’una all’altra, ma gnare il secondo nel 405/04 a.C. il muro era
che molto probabilmente si sono incrociate. In ricostruito da 40 anni).
questo senso già Alt ammise che Esdra con Secondo Ed 4:7-12 i Samaritani infor-
tutta probabilità non ha raggiunto i suoi scopi marono il re Artaserse che i Giudei riedifica-
subito con i suoi primi provvedimenti”. - Storia vano la “città ribelle”, ne rialzavano le mura e
d’Israele, Brescia 1977, p. 409. ne restauravano le fondamenta. Tutto questo,
Anche MARTIN METZGER è del parere che come si è notato in altro luogo, non poteva
non sia necessario far precedere Esdra da essere fatto senza un ordine espresso del re.
Nehemia. Egli scrive: “Il fatto che Nehemia “Quando a Gerusalemme si doveva fare qual-
abbia dovuto prendere provvedimenti anche in cosa - scrive Siegfried Herrmann - allora evi-
campo cultuale ha fatto supporre che la sua dentemente i circoli locali non erano in grado
missione sia avvenuta anteriormente a quella di fare: la spinta doveva venire dall’esterno,
di Esdra (...). Questa argomentazione non è c’era bisogno di autorizzazioni; c’era bisogno
tuttavia del tutto convincente; si può pensare, di interposte persone, personalità energiche
infatti, che anche dopo la riorganizzazione del che sapessero introdurre conoscenze e rela-
culto da parte di Esdra non tutti gli inconve- zioni per persuadere le autorità e ricevere do-
nienti in questo campo fossero stati elimi- cumenti, senza i quali non si faceva nulla an-

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CAPITOLO 9

che allora” (op. cit., p. 413). fatto, come già accennato, che la riedifica-
L’ordine di riedificare la città e rialzarne zione della città e delle sue mura fu intra-
il muro di cinta fu concesso a Esdra da Arta- presa dai reduci dall’esilio in un momento
serse I Longimane l’anno settimo del suo re- non specificato del regno di Artaserse I, ma
gno. In quell’anno il sacerdote Esdra ricevette dovette essere interrotta dietro ordine
dal re il permesso di rimpatriare con “alcuni espresso del re (Ed 4:23) allarmato per le
figli d’Israele, dei sacerdoti, dei Leviti, dei gravi accuse mosse ai costruttori dal governa-
cantori, dei portinai e dei Netinei” (Ed 7:7). La tore di Samaria e dai suoi colleghi (Ed 4:12-
carovana lasciò Babilonia il 1° giorno del 1° 16). Con una lettera ai funzionari governativi
mese (Nisan) e arrivò a Gerusalemme il 1° di Samaria Artaserse ordinò l’interruzione dei
giorno del 5° mese (Elul): Ed 4:9. lavori lasciando tuttavia aperta la possibilità
Lungo il tragitto attraverso la vasta sa- di una ripresa (Ed 4:21).
trapia transeufratica i conduttori della caro- Una crisi politica a metà del secolo V
vana esibirono alle autorità persiane locali “i a.C. suggerisce un motivo plausibile per spie-
decreti del re” (Ed 8: 36). Il testo del decreto gare la revoca da parte di Artaserse dell’auto-
di Artaserse I, che Esdra aveva con sè, ci è rizzazione di ricostruire Gerusalemme.
stato conservato nella originale lingua ara- Intorno al 450 a.C. la stabilità dell’im-
maica in Ed 7:12-26 (è comprovato che l’ara- pero fu messa in pericolo dalla rivolta di Me-
maico fu la lingua ufficiale della cancelleria gabizo, il potente satrapo della provincia tran-
reale persiana). seufratica di cui faceva parte la Giudea. In
Questo editto in primo luogo autorizzava questo clima politico s’inquadra bene la mi-
il capo-carovana a raccogliere tra i connazio- sura adottata dal sovrano persiano nei con-
nali rimasti in Babilonia dei donativi per il fronti di Gerusalemme, questa città che nel
tempio di Gerusalemme (Ed 4:16), oltre a passato si era fatta notare per la sua indoci-
quelli offerti dal re e dai suoi ministri (v. 15). lità (Ed 4:19).
Inoltre ordinava ai tesorieri delle province per- Gli zelanti funzionari samaritani, inter-
corse dai reduci di fornire loro tutto il neces- pretando a modo loro il decreto reale, proba-
sario per proseguire il viaggio verso Gerusa- bilmente distrussero quanto era stato rico-
lemme (Ed 4:21). struito. Sta di fatto che alcuni anni dopo
Infine decretava l’esenzione dalle impo- Nehemia trovò Gerusalemme distrutta, le sue
ste per tutto il personale del tempio (v. 24). porte bruciate e le mura tutte da ricostruire
Ma la concessione più sorprendente riguar- (Ne 2:17).
dava l’istituzione di un ordinamento giudizia- Gli anni di regno di Artaserse I sono
rio autonomo per l’amministrazione della giu- stati fissati in modo sicuro grazie ai testi am-
stizia secondo il diritto nazionale, cioè se- ministrativi di Babilonia e a 14 papiri di Ele-
condo la legge di Mosè. fantina datati secondo il calendario civile giu-
Con questi privilegi in ambito ammini- daico post-esilico (con l’inizio dell’anno in au-
strativo e giudiziario Giuda poteva conside- tunno) e in base al calendario solare egiziano.
rarsi ormai quasi un piccolo stato dentro l’im- L’anno settimo di Artaserse I Longimane si è
pero persiano. così potuto calcolare con precisione scienti-
Non è azzardato postulare che come co- fica (vedi SIEGFRIED H.HORN E LYNN H. WOOD,
ronamento di siffatte larghe concessioni, mai The Chronology of Ezra 7, Washington D.C.,
fatte prima d’allora dai re di Persia alla comu- 1953).
nità dei rimpatriati, Artaserse autorizzasse la Si deve considerare che gli anni storici
ricostruzione materiale della città. Sta di avanti Cristo si calcolano in base al calenda-

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Gennaio Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen. Gen.

CALENDARIO 465 a.C. 464 463 462 461 460 459 458 457 456
GIULIANO Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan Nisan
COMPUTO
acc. 1° anno 2° anno 3° anno 4° anno 5° anno 6° anno 7° anno 8° anno
PERSIANO

COMPUTO
acc. 1° anno 2° anno 3° anno 4° anno 5° anno 6° anno 7° anno
GIUDAICO
Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri Tishri

Accessione al trono
di Artaserse I
Dicembre 465 a.C. Partenza di Esdra
da Babilonia
Arrivo di Esdra
Luglio 457 a.C.
a Gerusalemme
Marzo 457 a.C.

Da S.D.A. Bible Commentary, vol. III, p. 104.

rio solare giuliano con l’inizio dell’anno il 1° Artaserse I a Susa, Nehemia, nel mese di Ki-
gennaio, e che i calendari lunari persiano e sleu dell’anno ventesimo del re, fu informato
giudaico post-esilici facevano decorrere l’anno da alcuni giudei giunti da Gerusalemme sullo
rispettivamente dalla primavera e dall’au- stato miserevole dei reduci dall’esilio (Ne 1:1-
tunno. 4). Nel mese di Nisan dello stesso anno
Il regno di Artaserse I cominciò il 17 di- Nehemia domandò e ottenne dal re Artaserse
cembre del 465 a.C. L’anno settimo cadde il permesso di recarsi a Gerusalemme e, con
tra il 458 e il 457. Il 1° di Nisan, data della un’autorizzazione scritta, di rialzarne le mura
partenza di Esdra da Babilonia, coincise con e ricostruirne le porte (Ne 2:1-8). Considerato
la fine di marzo del 457, e il 1° di ’Ab, data che le cattive notizie dalla madrepatria giun-
dell’arrivo della carovana a Gerusalemme, sero il nono mese (Kisleu) e che Nehemia
con la fine di luglio (vedi diagramma sopra). partì da Susa il primo mese (Nisan) dello
Che il calendario in uso tra i Giudei del stesso anno, si deve concludere che in questi
dopo-Esilio fosse un calendario con l’inizio due capitoli del libro le date sono riferite ad
dell’anno in autunno, si ricava dai primi due un calendario con l’inizio dell’anno in autunno
capitoli del libro di Nehemia. Al servizio del re (vedi grafico nella pagina seguente).

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CAPITOLO 9

CALENDARIO RELIGIOSO GIUDAICO CALENDARIO CIVILE GIUDAICO


IN USO PRIMA DELL’ESILIO IN USO DOPO L’ESILIO (è mantenuta
la numerazione dei mesi Calendario Religioso)

1. NISAN (marzo - aprile)


2. IYYAR
3. SIVAN
4. TAMMUZ Anno 20° di Artaserse I in Ne 1:1-4 e 2:1-8
5. ’AB
6. ELUL
7. TISHRI 7. TISHRI
8. MARCHESHVAN 8. MARCHESHVAN (Nehemia riceve
9. KISLEU cattive notizie)
10. TEBET 9. KISLEU
11. SHEBAT 10. TEBET (Ne 1:1-4)
12. ADAR 11. SHEBAT
12. ADAR (Nehemia parte
da Susa - Ne 2:1-8)
1. NISAN
2. IYYAR
3. SIVAN
4. TAMMUZ
5. ’AB
6. ELUL

per fissare le ricorrenze religiose aveva creato


APPENDICE 9C problemi alla Chiesa. Il monaco scita Dionigi
il Piccolo ideò una tabella per fissare le date
Si conoscono date avanti Cristo certe della Pasqua contando gli anni dalla natività
fino al mese e al giorno, ma incredibilmente di Gesù Cristo. Valendosi delle informazioni
si ignora l’anno della natività di Gesù. Ciò di- disponibili al suo tempo, il religioso orientale
pende dal fatto che gli scrittori del Nuovo Te- calcolò che questo evento aveva avuto luogo
stamento, e in particolare gli autori dei van- nell’anno 754 ab Urbe condita, cioè dalla fon-
geli, si interessarono assai meno della crono- dazione di Roma.
logia che delle vicende della vita di Gesù Cri- Presso i Romani la data più accreditata
sto e dei contenuti della sua predicazione. della fondazione della loro città, calcolata
Così, paradossalmente, l’Evento che divide in dall’erudito latino Marco Terenzio Varrone nel
due la Storia non ha un inizio storico accer- I secolo a.C., corrispondeva appunto a quello
tato. L’idea di numerare gli anni dalla nascita che oggi è per noi il 753 a.C. Dionigi fece de-
di Cristo venne a un monaco nella prima correre la sua nuova scala cronologica
metà del VI secolo. Fino a quest’epoca la dall’Anno Domini Nostri 532, ovverosia dal
mancanza di un criterio uniforme di datazione 532° anno dalla natività del Signore. Soltanto

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dopo vari secoli l’Era Cristiana come scala corpo celeste reale. L’unica spiegazione plau-
cronologica per datare gli eventi storici di- sibile del fenomeno rimane quella che esso
venne di uso generale nel mondo cristiano. sia stato un evento soprannaturale (cfr. E.G.
Oggi sappiamo che l’anno da cui comincia WHITE, The Desire of Ages, p. 60, nell’edizione
l’Era Cristiana (o Era Volgare) ha soltanto un italiana - La speranza dell’uomo – p. 33).
valore convenzionale come data della natività Come per la natività del Signore, così per altri
di Cristo, giacché questo evento accadde eventi della sua vita è impossibile fissare una
prima dell’anno 754 di Roma. data certa sulla base di circostanze concomi-
Dionigi il Piccolo aveva inavvertitamente tanti ricordate nei Vangeli. I riferimenti di Luca
calcolato con un errore di alcuni anni la data al mandato di un funzionario pubblico romano
della Natività. Il margine approssimativo è ed ai tetrarcati di tre piccoli sovrani palesti-
stato valutato in tempi relativamente recenti nesi, e più ancora il riferimento all’anno 15°
grazie al calcolo astronomico. Lo storico giu- di Tiberio (Lc 3:1-3), parrebbero elementi va-
deo Giuseppe Flavio informa in Antichità Giu- lidi per fissare l’inizio del ministero di Gio-
daiche (XVII. 6.4,5) che un’eclisse di luna si vanni Battista e quindi della missione pub-
produsse pochi giorni prima della morte di blica di Gesù. Purtroppo non è così. Il man-
erode il Grande. Gli astronomi moderni hanno dato pubblico ed i tetrarcati su accennati si
calcolato che quell’eclisse ebbe luogo la possono porre fra il 26 e il 34 (vedi articolo
notte del 13 marzo dell’anno 750 di Roma “Chronology” in S.D.A. Bible Dictionary, vol.V,
corrispondente al 4 a.C. (cfr. G. RICCIOTTI, Sto- p. 202), un arco di tempo troppo esteso per-
ria d’Israele, vol. II, p. 415). E poiché Erode ché si possa fissare al suo interno una data
era ancora in vita quando Gesù nacque a Be- con margine di incertezza accettabile.
tlemme (Vedi Mt 2:3, 13-16), è evidente che La menzione dell’anno 15° di Tiberio è
la Natività avvenne prima del 4 a.C., probabil- anch’essa di relativa utilità perché non è noto
mente nell’anno 5 o nell’anno 6 (qualche cro- in base a quale criterio Luca calcolasse gli
nologo ha proposto l’anno 7 o l’anno 8). anni del principato di questo imperatore, né si
Alcuni eventi concomitanti con la na- conoscono fonti giudaiche sugli anni dei prin-
scita di Gesù Cristo ricordati nei vangeli sono cipati romani per fare un confronto. Nelle pro-
di scarsa utilità per fissare la data della na- vince orientali dell’Impero gli eventi si data-
scita di Cristo. Uno di tali eventi è il censi- vano abitualmente in base ad anni di regno,
mento ordinato da Quirinio, governatore della ma in modo diverso da provincia a provincia
Siria, di cui dà notizia Luca (Lc 2:2). Due iscri- secondo che nel computo si calcolasse op-
zioni che nominano Quirinio sembrano allu- pure no l’anno di accssione; in più l’inizio
dere ad un censimento sotto il suo governato- dell’anno cadeva in primavera in alcune re-
rato avvenuto il 4 o il 6 a.C., ma l’interpreta- gioni e in autunno in altre.
zione di dette iscrizioni è incerta (cfr. S.D.A. A Roma gli eventi si datavano in base
Bible Commentary, vol. V, p. 241). Né si può agli anni di consolato o di tribunato, perciò la
prendere in considerazione la “stella” dei cronologia romana, di solito accurata, non
magi come un reale fenomeno astronomico. serve per datare in anni dell’Era Volgare
L’astro misterioso guidò i sapienti orientali l’anno 15° di Tiberio secondo Luca.
fino a Gerusalemme, poi si mosse nel cielo in In ogni modo se Luca, come sembra as-
direzione sud e infine si fermò sopra “il luogo sai probabile, adottò il computo degli anni di
dov’era il fanciullino” (Mt 2:1-2, 9). Gli strani regno che in quel tempo era d’uso corrente
spostamenti della “stella dei Magi” nella nel Vicino Oriente, egli dovette contare come
volta celeste non corrispondono a quelli di un anno primo l’anno di calendario nel quale Ti-

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CAPITOLO 9

berio cominciò a regnare. In tal caso l’anno poteva essere scorta due o anche tre giorni
15° del principato di Tiberio, calibrato sul ca- dopo la luna nuova. Se poi l’osservazione era
lendario civile giudaico, fu il 27/28 E.V. co- impedita per vari giorni di seguito dalla coper-
minciato nell’autunno. È l’ipotesi che oggi tura del cielo, allora l’inizio del mese doveva
gode di maggior credito fra gli studiosi (vedi essere stabilito su base congetturale.
GIULIO FIRPO, Il problema cronologico della na- Ora chi può dire quali fossero le condi-
scita di Gesù, Brescia 1983, p. 84). zioni del cielo sopra la Palestina quando fu
Si deve convenire che “la data del bat- fissato il 1° di Nisan dell’anno in cui Gesù fu
tesimo che meglio conviene ai dati cronologici crocifisso? Se dette condizioni fossero state
della narrazione biblica sulla vita di Cristo, e sfavorevoli allora ci sarebbe uno scarto di 1,
in particolare sulla durata del suo ministerio e 2 o 3 giorni fra il 15 di Nisan giudaico
sulla sua crocifissione (...) è l’autunno del 27 dell’anno della crocifissione e il 15 di Nisan
A.D.”. (S.D.A. Bible Dictionary, art. cit.). Le dello stesso anno calcolato oggi astronomica-
stesse incertezze che regnano riguardo alle mente. Uno scarto da scalare, ovviamente,
date della nascita e del battesimo di Cristo, nell’arco della settimana di Passione.
sussistono sulla data della sua crocifissione. Si capisce quindi come non sia possi-
La scelta di un anno in cui la Pasqua cadde di bile determinare con sicurezza mediante il
Venerdì è alquanto aleatoria. calcolo astronomico l’anno della crocifissione
L’inizio del mese nella Giudea veniva di Cristo. Altri capitoli, basati su criteri che
fissato di volta in volta in base alla comparsa non possiamo discutere qui, permettono di
della sottile falce lunare a ponente dopo il tra- stabilire che ci sono due anni possibili nei
monto del sole, e questo evento astronomico quali la crocifissione può avere avuto luogo in
apprezzabile a vista se le condizioni atmosfe- giorno di Venerdì: sono gli anni 30 e 31
riche sono favorevoli, si produce regolar- dell’Era Volgare. La scelta dovrebbe cadere
mente 24 ore dopo la luna nuova. In condi- sull’alternativa che meglio s’accorda con le
zioni di osservazione non ottimali, per esem- indicazioni bibliche, e questa alternativa è
pio col cielo offuscato a ponente, la “falce” l’anno 31.

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APPENDICI GENERALI cabolo è da Gabriele direttamente riferito al


AL COMMENTO dettaglio delle 2300 sere-mattine che Daniele
DEI CAPITOLI 8 E 9 ha colto nel dialogo fra due angeli (“la vi-
sione, mar’eh, delle sere e delle mattine”). In
questo contesto sembra evidente che il ter-
1. Rapporti vicendevoli significativi mine venga usato per indicare specificamente
fra Daniele 8 e 9 una rivelazione fatta a voce (“la visione
mar’eh, delle sere e delle mattine di cui ti è
Le profezie di Daniele, se si differen- stato parlato...”).
ziano per la diversità dei simboli utilizzati, in Il vocabolo compare per la terza volta
rapporto ai contenuti non ci appaiono tuttavia nel v. 27 dove Daniele dice di essere rimasto
rivelazioni indipendenti e nettamente differen- stupito a motivo della visione (mar’eh) per
ziate. Al contrario, dettagli paralleli e richiami non averla compresa. Poiché Gabriele ha
vicendevoli le collegano le una alle altre. spiegato per intero la visione simbolica
L’esistenza concreta di elementi di col- (chazôn) nei vv. 20-25, è chiaro che nel v. 27
legamento tra la profezia del cap. 9 e quelle il profeta con la parola mar’eh intende riferirsi
antecedenti è stata riconosciuta da vari espo- al dettaglio delle 2300 sere-mattine che l’an-
sitori. Il prof. Rinaldi, per esempio, scrive in ri- gelo non ha spiegato (v. 26).
ferimento al cap. 9: “La rivelazione di questo 3. Mentre il cap. 8 finisce con Daniele
capitolo si collega a quelle precedenti, che in- stupito per non avere capito (’en mevîn), nel
tende completare...”379. v. 22 del cap. 9 Gabriele ritorna e gli dice di
Rapporti significativi si scorgono in parti- essere venuto per fargli capire (lehavîn). Poi
colare tra le rivelazioni dei capitoli 8 e 9. Iden- (v. 23) lo sollecita a capire la visione (haven
tità di modalità rivelatoria, interconnessioni lo- bammar’eh). La terminologia è identica nei
giche, affinità tematiche e linguistiche fanno due luoghi. Da ciò si evince che l’angelo è tor-
sì che la seconda si presenti come continua- nato per riprendere il discorso interrotto sette
zione e completamento della prima. Si consi- anni prima.
derino i fatti seguenti: Ci si potrebbe interrogare sul perché di
1. In entrambi i capitoli l’angelo Ga- questo lungo intervallo di tempo. Una rispo-
briele appare come mediatore della rivela- sta potrebbe essere questa: quando Gabriele
zione. spiegò a Daniele la visione (era l’anno terzo
2. Nel cap. 8 Daniele usa 4 volte il ter- della coreggenza di Beltsasar, 8:1) Babilonia,
mine chazôn in riferimento alle cose viste nella per quanto in declino, dominava ancora lo
rivelazione (vv. 1, 2 e 15). Lo stesso vocabolo è scenario della politica internazionale, e finché
adoperato una volta, con identico riferimento, Babilonia imperava, la fine dell’esilio e la re-
nel dialogo fra due angeli (v. 13), e due volte staurazione di Gerusalemme e del santuario
dall’angelo Gabriele (vv. 17 e 26b). erano un sogno. Adesso però la storia ha vol-
Nel v. 16, dove la voce che viene tato pagina: è l’anno primo della reggenza di
dall’Ulai comanda a Gabriele di spiegare al Dario il Medo (9:1) - verosimilmente l’Ugbaru
profeta la visione, compare per la prima volta luogotenente di Ciro (vedi commento a 9:1-2
il vocabolo mar’eh (“visione”). Nel v. 26a, e nota relativa). L’astro di Babilonia è tramon-
dove ritorna per la seconda volta, questo vo- tato per sempre ed è sorto sull’orizzonte della

379 - G. RINALDI, op. cit., p. 123.

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CAPITOLO 9

storia il nuovo astro persiano (8:20 si è avve- siano posti alla fine dei 490 come dei 2300
rato). La fine di Babilonia ed il sorgere dell’im- anni. Allo scadere del periodo più breve
pero persiano erano stati indicati dalla profe- (9:26a e 27a) sarà offerto il vero sacrificio
zia come il preludio della rinascita d’Israele espiatorio il quale porrà fine ai sacrifici che lo
(cfr. Gr 25:12-14; 29:10; Is 44:28; 45:1, 4, prefiguravano nel santuario di Gerusalemme.
13). È dunque giunto il tempo di rivelare a Da- Allo scadere dei 2300 anni sarà posta fine
niele cose che sarebbe stato prematuro an- alla prevaricazione contro il ministero conti-
nunciare sette anni prima. nuo di Cristo (thamîd) nel santuario dei cieli
4. L’espressione “sere-mattine” (‘erev- per il perdono dei peccati e sarà rimossa l’of-
boqer) in 8:14 è improntata al linguaggio del fesa recata al santuario (il santuario “sarà pu-
racconto della Creazione del capitolo primo rificato”). È pure significativo il parallelismo
della Genesi, dove 6 volte la frase “fu sera e tra il santuario che sarà purificato in 8:14
fu mattina” (wayehî ‘erev wayehî voqer) desi- u.p. ed il santuario che sarà consacrato
gna un giorno pieno. Come è stato ricordato (“unto”) in 9:24 u.p. Così, allo scadere dei
nel commento di questo passo (8:14), 490 anni iniziati con la promulgazione di un
l’espressione “sere-mattine” non va, comun- decreto autorizzante la restaurazione di Geru-
que, presa alla lettera, poichè essa compare salemme, si concluderà in Gerusalemme re-
in un contesto simbolico. “Sere - mattine” staurata, con la morte cruenta del Messia, un
non significa dunque “giorni di calendario” rituale ciclico che era “ombra e figura delle
ma “giorni profetici” che sono equivalenti ad cose celesti” (Eb 8:5), ovvero di eventi ultra-
anni storici (cfr. il commento a 8:14 e la nota terreni; e lassù nel cielo quegli eventi comin-
relativa). Questo elemento temporale inserito ceranno ad aver corso con l’inizio del mini-
nella visione-audizione del cap. 8 ha un ri- stero sacerdotale del Messia risorto e glorifi-
scontro nella rivelazione-audizione del cap. 9 cato (Eb 8:1-2), un ministero continuo di me-
la quale esordisce precisamente con un riferi- diazione per il perdono dei peccati (1Tm 2:5;
mento ad un elemento temporale: settanta Eb 8:6; 9:15; 12:24; 1Gv 2:1) che si conclu-
settimane (di anni) “sono tagliate” (nechthak) derà in capo a 2300 anni con un solenne
per il popolo e per la santa città (cfr. il com- “kippur” celeste (“il santuario sarà purifi-
mento a 9:24). Il passivo nechthak associato cato”) di cui era figura il “kippur” che il
alle settanta settimane fa pensare ad una sommo sacerdote d’Israele celebrava nel
estrapolazione dei 490 anni da un periodo di santuario di Gerusalemme alla fine di ogni ci-
tempo più esteso. E quale potrebbe essere clo liturgico annuale. Dunque i due periodi
questo periodo se non quello dei 2300 anni a profetici annunciati in 8:14 e 9:24 si giustap-
cui si allude in 8:14 ? Rafforza questa tesi la pongono, così che il più breve viene a formare
designazione di entrambi i periodi, in 8:26a e la prima “tranche” del più esteso ed entrambi
in 9:23 u.p., con lo stesso vocabolo: mar’eh. hanno in comune la data d’inizio380. Questa
È inoltre significativo che eventi di data è l’anno 457 a.C. (vedi il commento a
grande portata in rapporto con la redenzione 9:25 e la nota relativa).

380 - Esemplificando: supponiamo di volere misurare due lunghezze: una di 30, l’altra di 100
centimetri. Per delimitare la prima useremo i primi 30 centimetri del nostro metro, e per deter-
minare la seconda utilizzeremo il metro intero; ma nell’uno e nell’altro caso inizieremo la misu-
razione dal primo centimetro. Così, poiché i 490 anni costituiscono il primo segmento dei
2300, è chiaro che l’uno e l’altro arco di tempo hanno in comune la data iniziale.

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CAPIRE DANIELE

2. Il Giorno dell’Espiazione e cominciava lo yom hakkippurîm con la cessa-


il suo significato tipologico zione di ogni attività lavorativa e il digiuno ri-
goroso (Le 23:32)382. Tutto il decimo giorno,
Nell’ambito del calendario liturgico fino al tramonto del sole, era osservato come
d’Israele il Giorno dell’Espiazione (Yom un Sabato solenne (ebr. shabath shabathôn,
hakkippurîm nella Bibbia, familiarmente Yom letteralmente “un Sabato dei Sabati”) con la
kippur) rappresentava la più grande solennità congregazione raccolta intorno al santuario.
religiosa dell’anno. In questa ricorrenza straordinaria il ri-
La Mishnah381 gli consacra un intero tuale era celebrato dal sommo sacerdote con
trattato che porta il titolo di yoma, “il Giorno”. l’assistenza dei sacerdoti ordinari al principio
Il Giorno dell’Espiazione si celebrava il e alla fine, da solo nella parte centrale. Di
decimo giorno del settimo mese, il mese di di buon mattino, indossati i paramenti
Tishri (Le 16:29; 23:27; Nu 29:7), cioè tra splendidi383 dopo un completo lavaggio del
settembre e ottobre secondo il calendario giu- corpo, egli offriva l’olocausto del mattino.
liano. Così vestito, il sommo sacerdote era una fi-
Il cerimoniale della festa è descritto nel gura del Cristo nella sua gloria come Figlio di
cap. 16 del Levitico; in queste pagine lo rievo- Dio e rappresentante del Padre davanti al suo
cheremo integrando la Bibbia col Talmud. popolo384.
Il primo giorno del settimo mese il Compiuto il rito dell’olocausto mattu-
suono del corno sacerdotale annunciava una tino, il sommo sacerdote svestiva i paramenti
solenne convocazione del popolo: Le 23:24; splendidi, si lavava di nuovo tutto il corpo e
Nu 29:1 (nella tarda storia giudaica vi si cele- indossava la candida tunica di lino (Le 16:4).
brava il Rosh hashshanah, il Capodanno). I Con questo semplice abbigliamento sacerdo-
nove giorni successivi erano giorni di prepara- tale celebrava i riti centrali del giorno, rappre-
zione spirituale in vista del gran Giorno sentando tipologicamente Gesù Cristo come
dell’Espiazione. Al tramonto del nono giorno mediatore del popolo davanti a Dio385.

381 - La Mishnah (letteralmente “Ripetizione”) - la prima e più corposa porzione del Talmud - è
un’ampia collezione di norme e regolamenti formulati durante vari secoli dal Sinedrio e dai più
autorevoli rabbini. Codificata e messa per iscritto sul finire del II secolo d. C., si compone di 6
“ordini” (sedarîm), ciascuno suddiviso a sua volta in un numero variabile di “trattati” per un to-
tale di 63. “Yoma” è il titolo di uno dei 12 trattati dell’ordine Mo‘ed, “Feste stabilite”.
382 - Sebbene il digiuno (ebr. tzôm) non sia menzionato in modo esplicito nelle prescrizioni rela-
tive alle osservanze del giorno dell’Espiazione (Le 16:29, 31; 23: 27, 32; Nu 29:7), esso è pre-
supposto nell’espressione “affliggerete le anime vostre” (ebr. ‘inniten ’eth nafshotêkem) che si
ripete cinque volte nei passi indicati sopra (cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. II, p. 779; The
New Bible Dictionary, voce “Fast”). Secondo il lessicografo B. Davidson il verbo ‘ânâh, “afflig-
gersi”, “umiliarsi”, seguito dal sostantivo nefesh, “anima”, prende il senso di “digiunare” (The
Analytical Hebr. and Chald. Lex., voce “‘anah”). Il “Digiuno” che Luca menziona in Atti 27:9 è
senza dubbio un riferimento al Giorno dell’Espiazione (cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. VI,
pag. 445; G. LUZZI, Fatti degli Apostoli, pag. 257; C.M. MARTINI, Atti degli Apostoli, pag. 316; A.
WIKENHAUSER, Atti degli Apostoli, p. 357).
383 - Descritti in Es 28:4-39.
384 - Cfr. S.D.A. Commentary, vol. I, p. 774.
385 - Cfr. The Great Controversy, pp. 421- 422; Ed. italiana, Il Gran Conflitto, pp. 308-309.

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CAPITOLO 9

Nell’atrio del Santuario il sommo sacer- Si è supposto che ‘aza’zel fosse un


dote riceveva dalla congregazione due capri nome composto risultante da ‘ez, “capro”, e
per il sacrificio di espiazione, oltre a un mon- ’azal, “partire”, “andar via”; donde la tradu-
tone da offrire in olocausto (Le 16:5). Era una zione inglese “scapegoat”, letteralmente “ca-
prassi inusuale, giacchè nel servizio giorna- pro in fuga”, cui corrisponde l’italiano “capro
liero come vittima sacrificale d’espiazione per emissario”, cioè capro inviato, mandato via.
il popolo si richiedeva un giovenco (Le 4:14) e Gesenius fa derivare ‘aza’zel dalla radice
non un capro; ma quello era un rituale spe- ‘azal, “rimuovere”, “separare”. Secondo que-
ciale, diverso da quelli ordinari. I due capri sta interpretazione Azazel sarebbe stato il ca-
erano destinati a due distinti rituali ai quali pro destinato a separare, a rimuovere il pec-
erano assegnati mediante la sorte (Le cato da Israele. Queste ipotesi filologiche, per
16:10). Il sommo sacerdote in mezzo fra i quanto concordino col destino e la funzione
due animali estraeva da un’urna d’oro due ta- dell’animale, mal s’accordano con la struttura
volette di bosso (d’oro in epoca tardiva) sulle grammaticale del passo. I due capri erano
quali erano incise le diciture: “per Yahweh” e l’uno “per Yahweh” l’altro “per ‘Aza’zel”: il pa-
“per Azazel”. La tavoletta estratta con la rallelismo richiede che come Yahweh è desi-
mano sinistra la deponeva sul capro che gnazione di un Ente personale, così lo sia
stava alla sua sinistra e viceversa. Poi, per di- ‘Aza’zel. Nella versione siriaca e nel Tar-
stinguere i due animali, annodava un filo di gum386 ‘Aza’zel è il nome di un essere so-
lana rossa sulle corna di quello destinato ad vrannaturale, un demone; il libro di Enoc fa di
Azazel. ‘Aza’zel il principe dei demoni relegato nel de-
Il capro sorteggiato “per il Signore” do- serto, luogo improduttivo dove non si esercita
veva essere immolato come sacrificio espia- l’azione vitalizzante di Yahweh387. Osserva
torio per la purificazione del Santuario e del Hasel richiamandosi a un pensiero di
popolo (Le 16:9, 33), l’altro doveva essere C.F.Keil: “... non già un’entità maligna subor-
abbandonato vivo nel deserto (v. 10). Qualche dinata poteva essere posta in antitesi a
teologo ha opinato che entrambi i capri fos- Yahweh, bensì il diavolo stesso, il capo degli
sero figure di Cristo, rappresentando l’uno e angeli caduti, in seguito chiamato Sa-
l’altro fasi differenti della sua opera espiato- tana”388.
ria. Ma la maggioranza degli studiosi del ri- Fondandoci sul parallelismo dei nomi in
tuale Levitico riconosce nei due animali i sim- Le 16:8-10 e sull’antica tradizione che si ri-
boli di due enti sovrannaturali distinti e con- specchia nel libro di Enoch, nella versione si-
trapposti, ovvero Dio e Satana. Questo punto riaca e nel Targum, concludiamo che il se-
di vista si basa principalmente sulla compren- condo capro, come abbiamo anticipato qual-
sione della parola ebraica ‘aza’zel che gran che paragrafo addietro, era destinato all’av-
parte delle versioni non traduce ma si limita a versario di Dio, a Satana389. Si aggiunga che
traslitterare. le funzioni cui erano destinati i due capri

386 - Versione aramaica parafrastica dell’Antico Testamento sorta nella sinagoga e messa per
iscritto intorno al II secolo a.D.
387 - Cfr. R.DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, p. 488.
388 - “Studies in Biblical Atonement II: The Day of Atonement”, in The Sanctuary and the Atone-
ment, p. 122.
389 - Cfr. C. SCHEDL, Storia del Vecchio Testamento, vol. I, p. 406.

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CAPIRE DANIELE

erano in completa antitesi, e si avrà una dimo- esso (Le 16:14). Con questo rito egli aveva
strazione ulteriore che essi non potevano raffi- fatto l’espiazione per la sua persona e “per la
gurare un’unica e medesima realtà. L’uno dei sua casa” (v. 17) ovvero per corpo sacerdo-
due animali era immolato, l’altro no; dell’uno tale (v. 33).
si aspergeva il sangue, dell’altro no; il sangue “Esente da peccato, egli adesso rappre-
del capro espiatorio purificava (Le 16:15-16), sentava adeguatamente Gesù Cristo, Colui
il capro emissario contaminava (v. 26). che è senza peccato, ed era perciò in grado
Il sommo sacerdote doveva prima fare di mediare a beneficio degli altri”391.
l’espiazione per sé stesso onde essere ido- Pronunciata una breve preghiera mentre
neo a fare l’espiazione per il popolo. Perciò, la congregazione attendeva con ansia la sua
concluso il sorteggio e la presentazione al Si- ricomparsa, il sommo sacerdote tornava
gnore dei due capri nell’atrio del Santuario nell’atrio del Santuario, faceva accostare il
(vv. 7 e 8), egli faceva accostare presso l’al- capro “del sacrificio per il peccato che è per il
tare dell’olocausto il giovenco e lo immolava popolo” (Le 16:15a) e lo immolava senza im-
come vittima espiatoria per sé e per “la sua porre le mani sul suo capo. Quindi, recando
casa” (v.. 6). Poi con l’incensiere d’oro in una una bacinella col sangue dell’animale, en-
mano e nell’altra un vaso pure d’oro con due trava per terza volta nel Santo dei Santi e con
manciate di resine odorose polverizzate, en- quel sangue ripeteva esattamente, per la con-
trava tutto solo nel Luogo Santo (Le 16:17) gregazione, le aspersioni già fatte per sé e
giacché egli era l’unica persona del popolo per il corpo sacerdotale col sangue del gio-
idonea a presentarsi alla presenza di Dio nel venco (v. 15b). Con questo rito era fatta
Santo dei Santi. Davanti al velo che lo sepa- “l’espiazione per il santuario a motivo delle
rava dall’Arca santa col suo propiziatorio390, impurità dei figli d’Israele, delle loro trasgres-
egli spargeva le resine odorose sulle braci sioni e di tutti i loro peccati” (Le 16:16a). “Il
dell’incensiere prelevate in precedenza dall’al- Santo dei Santi ha ormai ricuperato il suo
tare dell’olocausto (Le 16:12) sì che il fumo, splendore: né i peccati del sacerdozio né
penetrando dall’alto, invadeva il Luogo Santis- quelli dei fedeli offuscano più gli sguardi di
simo (vv. 12 e 13). Yahweh. Il ‘propiziatorio’ ha svolto il suo
Spostato da un lato il velo e deposto ruolo, ha concretizzato il suo nome procu-
l’incensiere fumante davanti all’Arca già offu- rando la propiziazione agli adoratori di
scata dalla nuvola d’incenso, il sommo sacer- Yahweh”392.
dote tornava nell’atrio camminando a ritroso Riportato il velo nella posizione abituale
(Talmud), vi prelevava una bacinella d’oro col in modo da occultare di nuovo l’Arca col suo
sangue del giovenco immolato ed entrava per propiziatorio, il celebrante ungeva col sangue
la seconda volta nel Santo dei Santi. Quivi del capro e del giovenco i corni dell’altare che
aspergeva col dito di quel sangue una volta il stava davanti al velo e ne aspergeva sette
propiziatorio e sette volte il suolo davanti ad volte il disopra (Le 16:18-19).

390 - Il propiziatorio (ebr. kapporeth) era una lastra d’oro massiccio sormontata da due figure di
cherubini, anche essi d’oro, la quale fungeva da coperchio dell’Arca (Es 37: 6-9).
391 - S.D.A. Bible Commentary, vol. I, p. 776.
392 - ALÉXIS MÉDEBIELLE, L’Expiation dans l’Ancien et le Nouveau Testament, vol. I, pp. 97-98.

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CAPITOLO 9

Col rituale precedente sul propiziatorio l’espiazione era un giovenco (vv. 3 e 14) e il
e quello susseguente sull’altare del profumo rito espiatorio si svolgeva all’interno del San-
era compiuta “l’espiazione per il santuario tuario, davanti al velo al di là del quale si tro-
(ovvero per il Santo dei Santi) 393, per la vava l’Arca dell’Alleanza contenente le tavole
tenda di convegno (vale a dire per il Luogo del Decalogo (cfr. Es 25:16; 40:20; De 10: 2,
Santo) e per l’altare” (v. 20). Infine il Sommo 5; 1Re 8:9; 2Cr 5:10; Eb 9:4). Il sacerdote of-
Sacerdote usciva nell’atrio e versava tutto il ficiante portava il sangue della vittima nel
sangue residuo alla base dell’altare dell’olo- Luogo Santo e ne aspergeva sette volte il
causto (un canale sotterraneo, secondo la Mi- suolo davanti al velo (Le 4: 5, 6, 16, 17), poi
shnah, lo faceva scorrere fin nella sottostante ne ungeva i corni dell’altare del profumo (vv.
Valle del Cedron). “Il Santo dei Santi, il Santo 16a e 17a); il resto lo spargeva alla base
e l’altare risplendono di nuovo della loro pu- dell’altare dell’olocausto nell’atrio del Santua-
rezza primitiva, sacerdoti e laici hanno rice- rio. Con questo rito era espiato e perdonato il
vuto il perdono di tutti i loro peccati: l’espia- peccato collettivo della comunità d’Israele (Le
zione è perfetta”394. 4:20, 35 u.p.); simbolicamente esso era
La purificazione del Santuario mediante stato trasferito dal popolo sul giovenco, e dal
il rituale annuale dell’Espiazione era resa ne- giovenco nel santuario, davanti al propiziato-
cessaria dalla contaminazione che vi avevano rio, per mezzo del suo sangue. Una ripara-
prodotto i peccati d’Israele - laici e sacerdoti- zione era stata offerta alla santa legge di Dio
confessati ed espiati mediante i prescritti sa- - espressione del carattere e della santità di
crifici durante l’anno liturgico. Dio stesso - che era stata violata.
Le diverse modalità del rituale espiato- L’espiazione del peccato individuale,
rio giornaliero sono descritte nel cap. 4 del che ne fosse responsabile un leader o una
Levitico. In tutti i casi si richiedeva l’immola- persona comune del popolo (Le 4:22, 27), av-
zione di una vittima preceduta dall’imposi- veniva nell’atrio del santuario (vv. 25 e 30).
zione della mano sulla sua testa da parte del L’animale sacrificale prescritto era un capro
penitente che con questo atto trasferiva su di se l’espiazione si faceva per un leader (v. 23,
essa il suo peccato. Quindi egli stesso sgoz- era una capra o un’agnella se si faceva per
zava l’animale (Le 4:4, 24, 29, 33). una persona comune del popolo (vv. 28 e
Se il peccato che si doveva espiare era 32). La differenza probabilmente teneva
stato consumato dall’intera congregazione, al- conto della diversa posizione dei penitenti
lora erano gli anziani che la rappresentavano nella comunità e quindi del diverso grado di
che imponevano le mani sul capo della vit- responsabilità sociale. In entrambi i casi, co-
tima sacrificale (Le 4:15) trasferendo simboli- munque, il confessante era tenuto ad imporre
camente su di essa il peccato della comunità. una mano sul capo della vittima prima di
In questo caso, come nel caso in cui un sgozzarla (vv. 24, 29, 33), dichiarando la sua
sacerdote avesse peccato coinvolgendo, colpa e trasferendola sull’animale. Poi il sa-
come suo rappresentante davanti a Dio, tutta cerdote compiva il rito espiatorio ricoprendo
la congregazione, l’animale prescritto per del sangue della vittima i corni dell’altare

393 - Santuario (ebr. qodesh) nell’Antico Testamento designa la struttura sacra adibita al culto
nel suo insieme, ma a volte il termine è usato con un’accezione ristretta per indicare il Luogo
Santissimo.
394 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., vol. I, p. 98.

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CAPIRE DANIELE

dell’olocausto. Il resto lo spandeva alla base sacrificio annuale. Compiuto dunque il rito di
di esso (vv. 25, 30, 34). purificazione del Luogo Santissimo e del
Il grasso e le interiora delle vittime in Luogo Santo (Le 16:16, 17), il sommo sacer-
tutti i tipi di sacrifici espiatori venivano bru- dote si portava di nuovo nell’atrio del Taber-
ciati sull’altare dell’olocausto (Le 4: 8-10, 19, nacolo (in seguito del Tempio) e faceva acco-
26, 31, 35), ma le carni erano trattate in stare a sé il capro che la sorte aveva asse-
modo diverso secondo che l’espiazione avve- gnato ad Azazel. Imposte le mani sulla testa
nisse nell’atrio del Santuario (per la colpa in- dell’animale confessava sopra di esso le
dividuale) o nel Luogo Santo (per la colpa col- colpe del popolo.
lettiva). Nel primo caso le carni erano consu- Con questo atto simbolico erano depo-
mate dai sacerdoti (Le 4:26) i quali in questo sti sul capro emissario “tutte le iniquità dei fi-
modo assumevano su di sé i peccati dei figli gli d’Israele, tutte le loro trasgressioni, tutti i
d’Israele per espiarli “davanti al Signore” (Le loro peccati” (Le 16:21)395 rimossi dal San-
10:17); nel secondo caso le carcasse erano tuario; non per espiarli, giacché a ciò si era
bruciate fuori del campo (Le 4:12; 6:30) giac- provveduto in precedenza, ma per
ché l’eliminazione definitiva dei peccati della allontanarli: “l’espulsione del capro ‘per Aza-
comunità aveva luogo il 10 di Tishri. Questo zel’ - scrive Médebielle - non produce l’espia-
particolare trattamento dei resti delle vittime zione, soltanto ne raffigura gli effetti”396.
offerte per il peccato collettivo nel servizio Descrivendo il rito centrale del Giorno
giornaliero e nel Giorno del Kippur, secondo dell’Espiazione, abbiamo notato che la mano
Eb 13:11-12, prefigurava l’immolazione di Cri- del celebrante non si posava sul capo del ca-
sto “fuori della porta” (della città santa) “per pro espiatorio. L’imposizione della mano sulla
santificare il popolo col proprio sangue”. vittima - quest’atto, ricordiamolo ancora una
Ogni cosa sacra raggiunta dal sangue volta, che implicava trasferimento di colpa -
dei sacrifici espiatori quotidiani era divenuta era stata compiuta ad ogni sacrificio espiato-
impura perché quel sangue era carico di pec- rio giornaliero. Non occorreva ripeterla nel
cato. Tutte le colpe d’Israele per le quali era Giorno dell’Espiazione, perché i peccati della
stata fatta l’espiazione col sangue delle vit- comunità erano già stati “rimossi” dai peni-
time erano simbolicamente passate nel san- tenti e “posti” nel santuario, come abbiamo
tuario ed erano venute “accumulandosi” du- detto. L’aspersione del sangue del capro “per
rante dodici mesi. Bisognava perciò rimuo- il Signore” non mirava dunque ad espiare di
verle onde ripristinare l’originale stato di pu- nuovo peccati individuali e collettivi già
rezza del propiziatorio e dell’altare per ren- espiati, ma era intesa precisamente a fare
derli degni della santità del Signore. “l’espiazione per il Santuario a motivo delle
A ciò appunto mirava e provvedeva il ri- impurità dei figli d’Israele...” (Le 16:16),
tuale dello Yom Kippur che abbiamo de- come spiega il v. 19, sia pure limitatamente
scritto. Dovunque si era posato il sangue con- all’altare: “E farà (il sommo sacerdote) sette
taminante dei molti sacrifici quotidiani, do- volte l’aspersione del sangue col dito, sopra
veva passare il sangue purificatore dell’unico l’altare, e così lo purificherà e lo santificherà

395 - Secondo il Talmud il primo dei tre termini indica i delitti volontari, il secondo il delitto di ri-
bellione e l’ultimo i peccati involontari.
396 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., p. 111.

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CAPITOLO 9

a motivo delle impurità dei figli d’Israele...”. Il popolo aveva vissuto il Giorno
Il versetto seguente allarga la portata dell’Espiazione nella consapevolezza di es-
del rito: “... l’espiazione per il santuario (il sere sottoposto al giudizio di Dio.
Luogo Santissimo), per la tenda di convegno Secondo la tradizione tardo-giudai-
(il Luogo santo) e per l’altare (l’atrio).”. ca398, tutti passano al vaglio del giudizio di-
Il capro col “carico” dei peccati vino nel giorno dell’Anno Nuovo, tuttavia
d’Israele (Le 16:22) era condotto nel deserto chiunque si renda conto di non essere in re-
da un uomo a cui era stato affidato questo in- gola con Dio, ha ancora nove giorni di tempo
carico (v. 21 u.p.). Col bastone che aveva in per rimediare, prima che la sua sorte sia se-
mano l’uomo punzecchiava l’animale per farlo gnata in modo irrevocabile nello Yom hakkip-
correre. Alcune fonti riferiscono che i più faci- purîm. I nove giorni tra la festa del Capo-
norosi fra il popolo gli correvano dietro ur- danno e il Giorno dell’Espiazione erano per i
lando e strappandogli il pelame per impau- Giudei giorni di revisione introspettiva della
rirlo: si voleva impedire in ogni maniera che propria vita e di penitenza: chi nel Gran
l’animale potesse tornare indietro: se fosse Giorno si fosse trovato impreparato, cioè non
accaduto, i peccati già espiati sarebbero tor- afflitto per i propri peccati e non penitente,
nati addosso al popolo e sarebbe stata una sarebbe stato eliminato dalla congregazione
sciagura! d’Israele, come è scritto nella Thorah (Le
Secondo la tradizione rabbinica il capro 23:28). Era convinzione dei Giudei che nello
emissario veniva abbandonato dall’uomo che Yom hakkippurîm era “deciso il destino di chi
lo conduceva in un luogo desolato presso l’at- deve vivere e di chi deve morire”399.
tuale Khirbet Khareidan a circa 6 chilometri Tramontato il sole, come il luccichio
da Gerusalemme397 dove probabilmente di- delle prime stelle annunciava la fine del di-
veniva preda degli sciacalli ancor prima di mo- giuno e dell’afflizione, ci si abbandonava a
rire di fame e di sete. In altri momenti si pre- gioiosi festeggiamenti. “Tutto il popolo - dice
ferì precipitare l’animale in un burrone, e per Médebielle - nella gioia di sentirsi riconciliato
un certo numero di anni addirittura lo si fece col suo Dio e di nuovo l’oggetto dei suoi fa-
a pezzi prima che fosse giunto al luogo di de- vori, dava libero sfogo al suo entusiasmo con
stinazione. banchetti e con danze”400. Cinque giorni
Partito il capro emissario, il sommo sa- dopo cominciava la Festa dei Tabernacoli (Le
cerdote svestiva la semplice tunica di lino e, 23:34; Nu 29:12). Non conosceva la gioia,
indossati di nuovo i paramenti splendidi dopo secondo i rabbini, chi non avesse assistito al
un ennesimo lavaggio del corpo, offriva per sé trasporto del popolo durante gli otto giorni
e per il popolo l’olocausto della sera (Le della Festa dei Tabernacoli.
16:23-24). Con questo rito terminava la Il Nuovo Testamento riconosce l’esi-
grande festa. stenza di un nesso tipologico fra il servizio li-

397- Cfr. R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, p. 487


398 - Talmud, “Rosh Hashshanah” 16a.
399 - Jewish Encyclopedia, vol. 2, p. 268, articolo “Atonement, Day of”, citato in S.D.A. Bible
Commentary, vol. I, p. 776.
400 - A. MÉDEBIELLE, op. cit., p. 101.

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CAPIRE DANIELE

turgico nel santuario d’Israele e l’opera reden- termini distinti che sembrano voler designare
tiva del Messia, tra l’ufficio del sommo sacer- l’una il Luogo Santissimo, l’altra il Luogo
dote terreno e il ministero di Gesù Cristo in Santo del tempio israelitico come raffigura-
cielo dopo il sacrificio della croce. La Lettera zioni rispettivamente del santuario celeste e
agli Ebrei fa di siffatto rapporto il cardine della della sua controfigura terrena). In definitiva il
sua teologia: “Ora, il punto capitale delle Tempio di Dio in cielo non avrebbe assunto la
cose che stiamo dicendo è questo: che ab- sua funzione prima che il sacrificio della croce
biamo un tal Sommo Sacerdote, che si è po- avesse realizzato ciò che la liturgia sacrificale
sto a sedere alla destra del trono della Mae- nel Santuario dell’Antica Alleanza prefigurava
stà nei cieli, ministro del santuario e del vero e preannunciava.
tabernacolo che il Signore e non un uomo, ha Come sappiamo, questo evento co-
eretto” (Eb 8:1-2). Il v. 5, poi, col caratteriz- smico - l’inaugurazione in cielo del Santuario
zare come “ombra e figura delle cose celesti” della Nuova Alleanza - fu anticipato profetica-
il santuario giudaico, ne esplicita ulterior- mente a Daniele dall’angelo Gabriele nel con-
mente la funzione prefigurativa. testo della rivelazione delle settanta setti-
Il nesso esistente fra l’ombra terrena e mane. In 9:24, la consacrazione di un “luogo
la realtà celeste è ulteriormente sviluppato e santissimo” (ebr. qodesh qodashîm) appare
chiarito nel cap. 9 della Lettera agli Ebrei. come il coronamento dell’opera espiatoria
Ad una descrizione sommaria del san- che il Messia avrebbe compiuto401.
tuario dell’Antica Alleanza e dei suoi arredi Proseguendo, nel cap. 9, il suo ragiona-
(vv. 1-5) e ad un accenno al servizio liturgico mento fondato sul parallelismo fra il vecchio
giornaliero (v. 6) e a quello annuale (v. 7) che e il nuovo, l’autore della Lettera agli Ebrei
in esso si svolgevano, Eb 9 fa seguire un’ap- dice nel v. 12 che Cristo - definito “Sommo
plicazione del suddetto servizio liturgico Sacerdote di futuri beni” nel v. 11 - “mediante
all’opera sacerdotale di Gesù Cristo nel San- il proprio sangue, è entrato una volta per
tuario del cielo. Spiega il v. 8 che “Lo Spirito sempre nel santuario, avendo acquistato una
Santo voleva con questo significare che la via redenzione eterna”. Gesù Cristo dunque
al santuario non era ancora manifestata fin- svolge ad un tempo il ruolo di sacerdote e
ché sussisteva ancora il primo tabernacolo”. quello di vittima sacrificale, e in questa du-
Come nel tempio giudaico il Luogo Santis- plice funzione realizza quanto il ministero del
simo restava coperto dal velo per tutto il sacerdozio aronnico prefigurava, ovverosia la
tempo in cui nel Santo si svolgeva il servizio nostra riconciliazione con Dio e l’affranca-
sacro diuturno, così il Tempio di Dio in cielo mento dal peccato. Come sacerdote, Egli me-
doveva rimanere inaccessibile fintantoché dia fra noi e il Padre (1Tm 2:5), come vittima
fosse in funzione la sua controfigura terrena. sacrificiale compie il nostro riscatto (v. 6).
È questo, secondo Eb 9:8, il senso che lo Il sacrificio di Cristo non solo procura a
Spirito Santo intese dare al servizio cultuale noi il perdono dei peccati (come per anticipa-
giornaliero e annuale nel santuario giudaico zione lo procurava agli israeliti il sacrificio
(le parole “santuario”, greco ‘aghion, e espiatorio), ma ne realizza la totale e defini-
“primo tabernacolo, greco pròtes skenes, in tiva rimozione dalla presenza di Dio, come av-
questo versetto non sono sinonimi, sono due veniva simbolicamente sotto l’Antica Alleanza

401 - Vedi il commento di Dn 9:24; cfr. con S.D.A. Bble Commentary, vol. IV, p. 852.

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CAPITOLO 9

con l’immolazione del capro espiatorio nel del giudizio pre-avvento che determinerà la
giorno del Kippur. Come il sangue di quel ca- purificazione di quelle “cose”.
pro fatto cadere sul propiziatorio, davanti ad I peccati confessati della comunità della
esso e sopra l’altare del profumo rimuoveva Nuova Alleanza saranno “cancellati” dai regi-
simbolicamente i peccati d’Israele avendo stri celesti perché Gesù li ha espiati col suo
come effetto immediato la purificazione del sangue (è evidente il nesso col rituale ebraico
sacro luogo, così il sacrificio di Gesù Cristo dell’Espiazione).
da Lui stesso, in veste di Sommo Sacerdote Si è visto che la congregazione d’Israele
immortale, offerto nel Santo dei Santi del visse il giorno del Kippur con la consapevo-
cielo, allontanerà per sempre da esso la me- lezza di essere sottoposta al giudizio divino. Il
moria dei peccati confessati del nuovo Kippur celeste sarà anch’esso un tempo nel
Israele, restituendo così al Tempio di Dio il quale il popolo della Nuova Alleanza sarà pas-
suo stato di perfetta purezza402. sato al vaglio del giudizio di Dio (quel giudizio
Dice ancora la Lettera agli Ebrei (9:22- che il profeta Daniele descrive in 7:10). Sarà,
23): “E secondo la legge, quasi ogni cosa è come si è accennato sopra, il giudizio che
purificata con sangue; e senza spargimento di precederà la venuta del Signore (vedi il com-
sangue non c’è remissione. Era dunque ne- mento di Dn 7:10), il giudizio nel quale av-
cessario che le cose raffiguranti quelle nei verrà la rimozione dai “libri” celesti dei pec-
cieli (cioè il santuario giudaico e i suoi sacri cati espiati da Gesù Cristo e conseguente-
arredi) fossero purificati con questi mezzi (ov- mente sarà purificato il tempio di Dio in cielo
vero con sangue di giovenchi e di capri), ma come fu annunciato a Daniele (Dn 8:14)403.
le cose celesti stesse dovevano esserlo con Come gli indegni figli d’Israele che il
sacrifici più perfetti di questi” (vale a dire col gran Giorno dell’Espiazione avesse colto im-
sacrificio perfetto del Figlio di Dio). Se le penitenti sarebbero stati “sterminati” dalla
“cose celesti” debbono essere purificate, comunità purificata (Le 23:29), così saranno
vuol dire che qualcosa deve averne prodotto “cancellati” dal “libro della vita” nel tempo
una contaminazione. Ap 20:12 descrivendo il del giudizio preliminare (Ap 3:5; 20:15) i
giudizio finale dice che “i morti furono giudi- membri della nuova comunità d’Israele i cui
cati dalle cose scritte nei libri, secondo le peccati, per il perseverare nella trasgres-
opere loro”. Sono stati i peccati dei fedeli re- sione, non saranno stati espiati da Gesù Cri-
gistrati in cielo, dove li ha trasferiti la confes- sto. E.G.White ha colto assai bene il nesso ti-
sione in virtù del sacrificio della croce, che pologico fra il rituale sacrificale quotidiano e
hanno prodotto la contaminazione delle “cose annuale nel Santuario terreno e l’opera sacer-
celesti”, e sarà la loro rimozione nel tempo dotale di Cristo nel Tempio celeste. Ella

402 - Scrive S. Paolo nella Lettera ai Romani (3:25) che Dio ha prestabilito Gesù Cristo “come
propiziazione mediante la fede nel sangue di lui”. Il termine greco tradotto “propiziazione”, ‘ila-
sterion, è lo stesso vocabolo che nei LXX traduce l’ebraico kapporet, “propiziatorio”, usato
nell’Esodo e nel Levitico (con identico significato ‘ilasterion è adoperato in Eb 9:5). Nondimeno
in Rm 3:25 ‘ilasterion non ha il senso di “propiziatorio”, come pensarono gli esegeti più anti-
chi, ma piuttosto quello di “sacrificio di espiazione”, con implicito riferimento al sacrificio dello
Yom Kippur (vedi Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento a cura di L. KOENEN, E.
BEYREUTHER E H. BIETENHARD, pp. 1150-1151).

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CAPIRE DANIELE

scrive: “Come anticamente i peccati del po- seco la sua ricompensa per dare a ciascuno
polo venivano deposti per fede sulla vittima secondo che sarà stata l’opera sua (Ap
espiatoria, e per mezzo del sangue trasferiti 22:12)”404.
simbolicamente nel santuario terrestre, così Come l’annuale purificazione del San-
nel nuovo patto i peccati della persona pen- tuario d’Israele si concludeva con la partenza
tita sono posti per fede su Cristo e trasferiti del capro emissario carico dei peccati del po-
nel santuario celeste. polo, così la finale purificazione del celeste
Come nella purificazione tipica del san- tempio di Dio sarà completa quando i peccati
tuario terrestre avveniva la rimozione dei pec- del popolo del Nuovo Patto, di cui Satana fu
cati che lo avevano contaminato, così la puri- l’istigatore, saranno posti su di lui ed egli li
ficazione tipica del santuario celeste avviene sconterà con l’essere distrutto per sempre
con la rimozione o cancellazione dei peccati dopo un millennio di forzato esilio in un
che vi sono stati registrati. Ma prima che que- mondo ridotto in un desolato deserto (Ap
sto possa essere fatto deve esserci un 20:1-3; 20:10)405.
esame dei libri del cielo per stabilire chi, me- Il tripudio con cui l’antico Israele cele-
diante il pentimento e la fede in Cristo, può brava la Festa dei Tabernacoli a cinque giorni
beneficiare della sua espiazione. La purifica- dalla solennità severa del kippur, sembra an-
zione del santuario include, perciò, un’opera ticipare il gaudio dei redenti nel Regno eterno
di indagine o giudizio. Essa deve avvenire di Dio dopo il giudizio purificatore del kippur
prima della venuta di Cristo per redimere il celeste e la distruzione definitiva del peccato
suo popolo, perché quando egli viene avrà e del suo istigatore.

403 - Il giudizio discriminatorio che precederà il giudizio retributivo è descritto da Giovanni in


Ap 11:1-2 con una figura appropriata che ha il Tempio di Dio come elemento di base. Dice
Giovanni: “Poi mi fu data una canna... e mi fu detto: Lèvati e misura il tempio di Dio e l’altare
e novera quelli che vi adorano; ma tralascia il cortile che è fuori del tempio, e non lo misurare
perché esso è stato dato ai Gentili...”. È certamente significativo che nelle visioni di Giovanni
il tempio di Dio in cielo compare ripetutamente nel contesto del giudizio finale: in Ap 14:15
dal Tempio esce l’angelo che annunzia la mietitura (ovvero la raccolta degli eletti di Dio al ri-
torno di Gesù Cristo); in 15:6 dal Tempio escono gli angeli con le coppe delle 7 ultime pia-
ghe; in 16:1 dal Tempio procede la voce di Dio che comanda ai 7 angeli di versare le piaghe
sulla terra; e ancora dal Tempio, in 16:17, proviene la voce che decreta il giudizio di Babilonia
mistica. In 11:19, nel contesto della settima tromba annunciatrice del giudizio, appare il
Santo dei Santi del “tempio di Dio che è nel cielo” (Giovanni vede “l’arca del suo patto”), e
nel cap. 15 la stessa immagine ricompare in un contesto drammatico che richiama alla
mente il gran Giorno dell’Espiazione: “... e il tempio del tabernacolo della testimonianza (ov-
vero il Santo dei Santi) fu aperto nel cielo” (v. 5). “E il tempio fu ripieno di fumo a cagione
della gloria di Dio e della sua potenza; e nessuno poteva entrare nel tempio finché fossero
compiute le sette piaghe...” (v. 8).
404 - Il Gran Conflitto, p. 309.
405- Per ulteriori approfondimenti sul tema del giudizio pre-avvento, vedi E.G.WHITE, Il Gran
Conflitto, cap. 23: “Rivelato il mistero del Santuario”; autori vari, The Sanctuary and the Ato-
nement, specie i capitoli XV, XVI e XXIII

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Capitolo 10
___________________________________________________

C ol cap. 10 inizia la parte finale del libro di Daniele. Il racconto che si svolge
in questo capitolo precede e introduce l’ultima delle quattro rivelazioni che
Daniele ha raccolto nella seconda sezione del suo libro. È una profezia proiettata
nel futuro prossimo e lontano, una profezia che attraverso complessi sviluppi in-
termedi congiunge l’epoca del profeta e il remoto tempo della fine. La grande pro-
fezia comincia al v. 2 del cap. 11 e termina al v. 3 del capitolo seguente. Gli ul-
timi versetti hanno tutta l’apparenza di un post-scriptum.
Poiché la narrazione si svolge senza soluzione di continuità dal principio
del cap. 10 fino alla fine del libro, gli ultimi tre capitoli formano di fatto un cor-
pus unico.
Una circostanza avversa non specificata, ma che non è difficile intuire, ha
fatto nascere una gran pena nel cuore del vecchio profeta. Dopo tre settimane di
duolo e di parziale digiuno, egli ha assistito ad una sfolgorante teofania dalla
sponda del Tigri. La straordinaria manifestazione lo ha lasciato in uno stato di
grande prostrazione fisica. Poi gli è apparso un angelo celeste e gli ha preannun-
ciato un gran conflitto nel quale il suo popolo sarà coinvolto.

1 Il terzo anno di Ciro, re di Persia, una parola fu rivelata a Daniele,


che si chiamava Beltsasar; e la parola è verace, e predice una gran
lotta. Egli capì la parola, ed ebbe l’intelligenza della visione.

Come è sua consuetudine (7:1; 8:1; 9:1), Daniele indica la data della nuova rive-
lazione: “l’anno terzo di Ciro re di Persia”. Gli anni di regno di Ciro sono qui fatti
decorrere dalla data della conquista di Babilonia, il 539 a.C. L’anno terzo cadde
dunque nel 536 o nel 535, secondo che gli anni di regno siano computati sul ca-
lendario con l’inizio dell’anno in primavera o in autunno406.
Posto che all’epoca della deportazione nel 605 a.C. Daniele avesse intorno
ai 18 anni, adesso doveva essere un vegliardo quasi novantenne, essendo tra-
scorsi da allora 69 anni.
Per la terza ed ultima volta Daniele fa riferimento al regno di Ciro. Alla fine
del cap. 1 ha menzionato il suo primo anno di regno come il termine ultimo del

406 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 586.

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CAPIRE DANIELE

suo incarico ufficiale, e in 6:28 ha incluso in modo generico “il regno di Ciro il
Persiano” nell’arco di tempo della sua lunga e onorata attività pubblica. In 10:1
per la prima e unica volta riferisce al regno di questo monarca un episodio im-
portante dell’esperienza di profeta.
È stato osservato che il titolo di “re di Persia” che Daniele attribuisce a Ciro
non è conforme all’uso antico, giacché su 1560 contratti babilonesi datati agli
anni di regno dei re persiani soltanto uno reca l’espressione “re di Persia”. Ri-
sponde con ragione H.C.Leupold: “Quando l’eccezione compare nelle tavolette
amministrative babilonesi non la si giudica immediatamente anacronistica. Per-
ché mai non dovrebbe essere consentito a uno scrittore biblico di usare tale co-
struzione eccezionale, tanto più se egli scrive in un’altra lingua...?”407.
Anche se il titolo “re di Persia” non era d’uso comune ai suoi giorni, Da-
niele col riferirlo a Ciro ne riconosce, d’accordo con la Storia, la sovranità su
tutto l’impero persiano (si confronti il titolo subalterno di “re del regno dei Cal-
dei” che egli dà a Dario il Medo in 9:1).
“Emerso da una relativa oscurità quale principe del minuscolo stato di An-
shan, sull’altopiano iranico, in pochi anni Ciro rovesciò l’uno dopo l’altro i regni
di Media, di Lidia e di Babilonia e li riunì sotto la sua sovranità fondando l’im-
pero più vasto che si fosse mai visto. Con un monarca di siffatta levatura do-
vranno adesso confrontarsi Daniele e il suo popolo...”408.
Ancora una volta Daniele parla di sé in terza persona409 (“una parola fu ri-
velata a Daniele”) e fa seguire al suo nome d’origine il nome babilonese (Beltsa-
sar), quasi a voler rilevare ancora una volta il persistere della sua condizione di
esule in terra straniera. Con un’espressione inconsueta, davar, “una parola” (da-
var può anche tradursi “una cosa”), il profeta ha voluto designare l’ampia rivela-
zione che verrà esponendo nel capitolo seguente e nei primi 3 versetti del cap.
12. Egli ha anche voluto testimoniare la sua convinzione riguardo alla veracità
della profezia che gli è stata rivelata (“la parola è verace”, rfbD f h E wå we’emeth
a tem)
haddavar) e della quale ha compreso la tematica centrale: “essa predice una
gran lotta” (lOdf g )fbc
f wº wetzava’ gâdôl). Tzava’, il termine corrente per “esercito”
(vedi 8:10-12), può anche significare “guerra”, “lotta”, e con tale accezione il vo-
cabolo è usato in questo contesto.
A differenza delle profezie che sono state rivelate a Daniele con i simboli
enigmatici delle visioni (vedi i cc. 7 e 8), la rivelazione riportata in questa parte
finale del libro, come quella del cap. 9, gli è stata recata da un angelo con lin-
guaggio piano e letterale, ond’egli può dire di avere capito la “parola” (rfbD f ha -te)
}yibU ûvîn ’eth haddavar) ed avere avuto intelligenza della visione (he)r : M
a Ba Ol

407 - Exposition of Daniel, pp. 442- 443.


408 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 857.
409 - Per una delucidazione su questa particolarità letteraria , vedi il commento a 7:1-2.

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CAPITOLO 10

hænyibU ûvîna lô bammar’eh), in altre parole di non avere avuto bisogno d’una in-
terpretazione. Allo stesso modo che in 9:26 è qui adoperato il termine mar’eh
per indicare l’apparizione di un angelo che viene a recare a viva voce una rivela-
zione divina.

2 In quel tempo, io, Daniele, feci cordoglio per tre settimane intere.

“In quel tempo”: letteralmente “in quei giorni” ({"hh a bayyamîm hâhem),
f {yimYæ B
cioè nei giorni che precedettero la rivelazione che sta per narrare. In quei giorni
l’anziano profeta è stato colto da una gran pena della quale non spiega il mo-
tivo. Ma avendoci egli indicato con precisione l’epoca dei fatti che verrà espo-
nendo, non è difficile indovinarlo.
Correva dunque l’anno terzo di Ciro - il 536/35 a.C. - quando il primo e più
cospicuo scaglione dei rimpatriati da Babilonia da pochissimo tempo era giunto
nella desolata terra di Giuda col sommo sacerdote Giosuè e con Zorobabele. Il
libro di Esdra ci ragguaglia su un aspro conflitto fra i giudei rimpatriati e i vicini
samaritani sorto dal rifiuto dell’offerta di collaborazione fatta da questi ultimi ai
capi dei Giudei mentre ponevano mano alla ricostruzione del Tempio410.
Le vicissitudini dei reduci erano seguite con viva partecipazione dai conna-
zionali che avevano scelto di rimanere nei luoghi dell’esilio (vedi Ne 1:1-4).
La notizia dei momenti difficili che stavano vivendo i rimpatriati nella lon-
tana Gerusalemme certamente giunse alle orecchie di Daniele in Babilonia e non
poté non suscitare ansia nell’animo del vecchio profeta. Non tanto il conflitto in
sé stesso, tuttavia, deve avere provocato la pena di Daniele, quanto piuttosto i ri-
flessi negativi che tale conflitto poteva avere sui rapporti dei reduci dall’esilio
con le autorità centrali persiane. Poteva accadere - come di fatto avvenne411 -
che la situazione agitata in quella provincia periferica dell’impero inducesse il
sovrano di Persia a revocare o quanto meno a sospendere l’editto favorevole ai
Giudei (vedi Ed 1: 1-4). Era messa a repentaglio più che la ripresa della vita so-
ciale ed economica della comunità dei rimpatriati; era esposto a serio pericolo il
ripristino della vita religiosa intorno al tempio ricostruito. Questa fosca prospet-
tiva deve avere cagionato l’afflizione di Daniele412 che si è protratta per tre setti-
mane (letteralmente “tre settimane di giorni”, {yimæy {yi(ubf$ hf$ol:$ sheloshah
shavu‘îm yâmîm).
Il termine “settimane” è comparso 4 volte nel cap. 9 (ai vv. 24, 25 e 26)
nella usuale forma femminile (shavu‘oth). In questo versetto (10:2) compare
nella inconsueta forma maschile (shavu‘îm) e per di più seguito dalla specifica-
zione “di giorni”. “Giorni” in apposizione rispetto a “settimane” conferisce alla

410 - Vedi Esdra 4:1-5; cfr. col commento di Dn 9:25 e con le note relative.
411 - Vedi Esdra 4: 24.
412 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 857-858; J. DOUKHAN, Le Soupîr de la terre, p.
225; H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 445.

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CAPIRE DANIELE

frase il senso di “settimane complete”. Ma shavu‘îm non potrebbe anche sottin-


dere un valore diverso del termine rispetto al senso che esso riveste al femminile
nel cap. 9?

3 Non mangiai alcun cibo prelibato, né carne né vino entrarono nella


mia bocca, e non mi unsi affatto, sino alla fine delle tre settimane.

Si intuisce che nei ventun giorni di duolo e di digiuno Daniele si dedicasse ad


una ricerca intensa di Dio per intercedere ancora, come nel cap. 9, a pro del suo
popolo, ora contrastato dai nemici, e del santuario di cui sembra compromessa
la riedificazione.
L’espressione “non mangiai alcun cibo prelibato” - letteralmente “pane di
delizie” (tOdumx e lechem chamudôth) - lascia intendere che per tre settimane
A {exl
Daniele si attenesse ad una dieta estremamente frugale, forse poco più che una
dieta di sopravvivenza. Il suo fu dunque un digiuno parziale. Carne e vino (}éyyá wæ
f vasar wayayin) anche presso gli ebrei facevano parte del “menu” dei giorni
rf&b
di festa e di letizia (vedi Am 6:4-6; Lc 15: 23-24; Gv 2:2-3). Daniele durante i
giorni di cordoglio si astenne dunque da cibi e bevande che allietavano la
mensa nelle occasioni gioiose. Presso gli Ebrei, popolo di allevatori e coltivatori,
carne e vino non scarseggiavano, e non c’è motivo di ritenere che se ne astenes-
sero per motivi religiosi; ne era comunque biasimato l’uso smodato413.
Nelle regioni calde dell’Antico Oriente era comune ungersi con oli e un-
guenti odorosi per ammorbidire l’epidermide e attenuare gli effetti della traspira-
zione. Durante i giorni del duolo Daniele trascurò anche questa pratica per così
dire igienica.

4 E il ventiquattresimo giorno del primo mese, come io mi trovavo in


riva al gran fiume, che è lo Hiddekel,

È l’unica volta in cui Daniele riporta una data indicando con precisione il giorno
e il mese. Purtroppo non c’è modo di sapere se egli facesse riferimento al calen-
dario babilonese-persiano con l’inizio dell’anno in primavera (Nisan) o al calen-
dario in uso in Giudea col capodanno in autunno (Tishri). Nel primo caso il
primo mese dell’anno terzo di Ciro sarebbe corrisposto al periodo marzo-aprile
del 536 a.C., nel secondo allo stesso periodo dell’anno seguente, il 535 a.C.
Poiché i 21 giorni di digiuno di Daniele finirono con la visione sul bordo
dell’Hiddekel il 24° giorno del primo mese, quel periodo di 3 settimane era co-
minciato il quarto giorno dello stesso mese.

413 - Piantare la vigna ed usarne il prodotto erano parte dei beni promessi nella prospettiva
della restaurazione dopo il castigo dell’esilio (Am 9:14). Non sono infrequenti tuttavia, specie
nei testi profetici e sapienziali, le rampogne all’indirizzo dei bevitori (cfr. Is 5:11, 22; Abac 2:5,
15; Pv 20:1) e la messa in guardia contro le bevande alcoliche (Pv 23: 29-35). E’ sempre ripro-
vato l’uso smodato del vino e della carne (Pv 23: 20-21).

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CAPITOLO 10

E dato che nel dopo-esilio i giudei numeravano i mesi allo stesso modo a
prescindere dal tipo di calendario utilizzato (vedi il diagramma in fondo alla nota
365), nel periodo del duolo di Daniele cadde la festività pasquale (il 14 di Nisan
si celebrava la Pasqua e i 7 giorni seguenti erano i giorni degli Azzimi). Questa
coincidenza, per quanto fortuita, era certamente significativa.
Mentre fra i Giudei rimpatriati o rimasti nell’esilio si celebrava il ricordo
della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, Daniele è stato in pena per le angustie
del suo popolo nella madrepatria e ha pregato perché ne fosse liberato. Allo
stesso modo che nel capitolo ottavo, sarà sul bordo di un fiume che Daniele ri-
ceverà una visione, con la differenza, tuttavia, che stavolta la sua presenza sulla
sponda dello Hiddekel sarà una presenza fisica e non “in ispirito”. Gli ebrei chia-
mavano Hiddekel il gran fiume che scorreva a oriente dell’Eufrate e che gli as-
siro-babilonesi nominavano Idiglat e i persiani Tigra (dal nome persiano deriva il
nome odierno, Tigri).

5 alzai gli occhi, guardai, ed ecco un uomo, vestito di lino, con at-
torno ai fianchi una cintura d’oro d’Ufaz.

“Alzai gli occhi e guardai” (o più semplicemente “io guardavo”) è la formula con
cui Daniele introduce di solito la descrizione di una visione (cfr. 8:3; 7:2) o di un
suo dettaglio importante (7:4,6,9,11,13). Daniele vede, ritta sul fiume, una figura
dall’apparenza umana (“guardai, ed ecco un uomo”).
Dalla descrizione che segue è chiaro che si tratta di un Essere sovrannatu-
rale. La tunica di lino di cui è rivestita la maestosa figura e la cintura d’oro che
gliela stringe alla vita caratterizzano la dignità sacerdotale (cfr. Es 28:4,8,39).
L’immagine richiama alla mente la figura del Sommo Sacerdote nel Gran Giorno
dell’Espiazione, un’immagine perfettamente idonea a introdurre la rivelazione
che seguirà, giacché essa culminerà con una scena di giudizio-salvezza per i
membri del suo popolo “che saran trovati iscritti nel libro”, e di giudizio-perdi-
zione per il resto degli uomini (Dn 12:1-2). Ufaz, ricordata anche in Gr 10:9, era
il nome di una regione oggi ignota dalla quale proveniva dell’oro sopraffino. Da
alcuni viene identificata con Ofir, rinomata nell’antichità per l’oro di gran pregio
che vi si esportava (cfr. 1Re 9:28). È da notare che le parole Ufaz e Ofir scritte in
caratteri ebraici si somigliano alquanto.

6 Il suo corpo era come un crisolito, la sua faccia aveva l’aspetto


della folgore, i suoi occhi eran come fiamme di fuoco, le sue braccia
e i suoi piedi parevano terso rame, e il suono della sua voce era
come un rumore d’una moltitudine.

Con paragoni tratti dall’esperienza dei sensi il profeta tenta di descrivere l’aspetto
della figura che gli è apparsa sullo Hiddekel. Cinque volte usa il prefisso ke,
“come”, “simile a” (la seconda volta unito a mar’eh: qfrb f h")r a K: kemar’eh varaq,
: m
letteralmente “come l’aspetto del fulmine”).
Una luce chiara come la luce riflessa da una gemma purissima irradia dal corpo

318
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CAPIRE DANIELE

dell’augusto Personaggio (l’ebraico ha $yi$r a k: OtæYwé g: U ûgewiyyatô ketharshish, let-


: t
teralmente “il suo corpo [era] come tarshish”).
Tarshish, una regione del Mediterraneo occidentale - verosimilmente la
Spagna - era il luogo di provenienza della pietra preziosa nominata in questo
punto del testo danielico, una pietra che alcuni hanno identificato col crisolito,
altri col topazio, altri ancora col berillio. Leupold traduce l’espressione ebraica
semplicemente “pietra di Tarshish”. Il volto della figura riluce di uno splendore
accecante, come quello del lampo, gli occhi mandano bagliori di fuoco, le parti
nude del corpo - le mani e i piedi - brillano come rame tirato a lucido.
Chi è lo straordinario Personaggio? Alcuni (G.Bernini, C.H. Leupold ed altri)
vi hanno visto un angelo, forse lo stesso Gabriele. J. Doukhan, dopo avere rile-
vato che “Tutto è superlativo per esprimere il carattere straordinario e sovranna-
turale di questo personaggio”, osserva che una descrizione siffatta “non si limita
al solo libro di Daniele, la si ritrova con gli stessi elementi nel libro di Ezechiele
(cap. 1°): la folgore (vv. 14, 28), il crisolito (v. 26), il rame forbito (vv. 7, 27), il
fuoco (vv. 13, 28), la voce di una moltitudine (v. 24). Ezechiele - nota Doukhan
- spiega nel concludere: ‘era un’apparizione dell’immagine della gloria
dell’Eterno’ (v. 28).
La si ritrova altresì nel libro dell’Apocalisse (cap. 1); anche qui il personag-
gio veste l’abito sacerdotale, il poderes, con una cintura d’oro (v. 13); anche qui
gli occhi splendono come fuoco e le membra brillano come il rame; anche qui
la voce tuona come quella di una moltitudine (v.15). In questo luogo il perso-
naggio identifica sé stesso con un essere divino. ‘Io sono il primo e l’ultimo, e il
Vivente; e fui morto, ma ecco son vivente per i secoli dei secoli, e tengo le
chiavi della morte e dell’Ades, (v. 18). Il linguaggio usato evoca chiaramente
Gesù Cristo così come è descritto più in alto nel medesimo capitolo: ‘il primoge-
nito dei morti’ (v. 5), ‘l’Alfa e l’Omega’ (v.7). Infine la reazione di Daniele da-
vanti a questa visione è stata la stessa di Ezechiele e Giovanni: tutti e tre si sono
accasciati al suolo come schiacciati e sono caduti in deliquio (Dn 10:9; Ez 1:28;
Ap 1:17)”414. Il Personaggio descritto da Daniele deve identificarsi con l’Angelo
dell’Eterno (Ge 22:11, 12, 15, 16; Za 3: 1-5; Ml 3:1), col Principe Mika’el (Dn 10:13;
11:1; 12:1; Ap 12:7-8); in definitiva con Gesù Cristo, l’eterno Figlio di Dio415.

7 Io solo, Daniele, vidi la visione; gli uomini ch’erano meco non la vi-
dero, ma un gran terrore piombò su loro, e fuggirono a nascondersi.

Si noti ancora una volta la cura dell’autore di attestare la propria identità: “Io...,
Daniele, vidi la visione” (hf)r
: M a -te) ... l)¢Yné d
a h f yén) f wº wera’itî ’anî dani’el... ’eth
A yityi)r
hammar’ah).
Sulla riva dello Hiddekel Daniele non era solo quando gli apparve il divino

414 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 226.


415 - Cfr. E.G.WHITE, The Great Controversy, pp. 470, 471, in Italiano Il Gran Conflitto, p. 344.

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CAPITOLO 10

Personaggio. Dei comuni mortali erano con lui (sul loro numero, la loro identità
e il motivo della loro presenza in quel tempo, il testo tace). Quegli uomini - dice
Daniele - “non videro la visione”. Non si può percepire il divino con le comuni
facoltà naturali. Occorre una facoltà sovrannaturale, un carisma, per vivere
un’esperienza così alta, un’esperienza che trascende ogni e qualsiasi umana
esperienza.
L’uomo di Dio soltanto ne è dotato, i comuni mortali no. Daniele è un
uomo di Dio. Gli uomini che erano in compagnia di Daniele non videro dunque
quello che Daniele vide, e tuttavia avvertirono una presenza impalpabile, ebbero
la sensazione che una manifestazione misteriosa e minacciosa stava avendo
luogo. Ne furono terrorizzati e d’istinto corsero a nascondersi come per proteg-
gersi da un pericolo incombente.
Un fenomeno analogo avverrà secoli dopo e sarà l’occasione della conver-
sione a Cristo del persecutore Saulo da Tarso (At 9:3-7; 22: 6-9).

8 E io rimasi solo, ed ebbi questa grande visione. In me non rimase


più forza; il mio viso mutò colore fino a rimanere sfigurato, e non
mi restò alcun vigore.

Daniele è solo davanti alla grandiosa manifestazione (hflodG: h


a hf)r
: M a hammar’ah
a h
haggedolah). Un uomo, pur se eccelle per dirittura morale e sensibilità spirituale,
è sempre e soltanto un uomo, cioè una creatura fragile e imperfetta. I limiti della
natura umana si sono palesati drammaticamente nei santi uomini di Dio quando
è stato loro dato di assistere a una manifestazione personale della Divinità, pur
se velata dall’apparenza umana.
Daniele è stato uno dei rari esemplari della specie umana che Dio ha grati-
ficato di una sua manifestazione personale, ma la sua umanità non ha potuto so-
stenere il confronto con la maestà divina. Il volto gli si è scolorito e le forze lo
hanno abbandonato. Effetti simili aveva prodotto sul profeta la prima appari-
zione dell’angelo Gabriele (cfr. 8:18).

9 Udii il suono delle sue parole; e, all’udire il suono delle sue parole,
caddi profondamente assopito, con la faccia a terra.

Tale è l’impatto della potenza emanante dalla maestà divina sul fisico del vec-
chio profeta che egli perde totalmente le forze e si accascia al suolo privo di
sensi ({fD:rén yityéyfh hayiytî nirdam, dal verbo radam, “cadere in un sonno
profondo”: cfr. con Giud 4:21; Sl 76:6; Gion 1:5,6.
In Dn 10:9, come in 8:18, tale voce verbale esprime perdita totale della co-
scienza, cfr. con Ez 1:28 u.p.; 3:23). L’Essere divino che è apparso a Daniele
parla, ma il profeta non distingue le parole che proferisce, soltanto ode “il suono
delle sue parole” (wyfrb : lOq qôl devaraiw, letteralmente “la voce delle sue pa-
f D
role”). Egli è ancora in sé, ma la sua percezione sensoriale si è affievolita, come
quando uno è in stato di dormiveglia. È in quegli istanti che perde conoscenza e
si accascia al suolo.

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CAPIRE DANIELE

10 Ed ecco, una mano mi toccò, e mi fece stare sulle ginocchia e sulle


palme delle mani.

Tornato in sé, Daniele sente che una mano è posata sul suo corpo e capisce che
è stato grazie al contatto di quella mano che egli ha ripreso conoscenza, come
se quel contatto gli avesse trasfuso una carica di energia vitale (si confrontino le
esperienze parallele di Ezechiele e di Giovanni: Ez 2:1,2; 3:24; Ap 1:17). Steso
bocconi, il profeta non può ancora scorgere il corpo a cui appartiene la mano
che lo ha toccato, ma si rende conto che un essere sovrumano gli sta accanto.
Le forze ritornano gradualmente come gradualmente erano svanite. Ora egli
è in grado di sollevarsi dalla posizione prona, ma non ancora di rizzarsi sulle
gambe. Per alcuni istanti deve rimanere appoggiato sulle palme delle mani e
sulle ginocchia, gattoni, come i bambini che non camminano ancora.
Adesso può scorgere davanti a sé la figura che lo ha toccato con la mano. È
proprio un essere sovrannaturale, ma non è la Figura sfolgorante che gli ha fatto
perdere i sensi. È un angelo; è l’angelo Gabriele?416

11 E mi disse: “Daniele, uomo grandemente amato, cerca d’intendere


le parole che ti dirò, e rizzati in piedi nel luogo dove sei; perché ora
io sono mandato da te”. E quand’egli m’ebbe detta questa parola, io
mi rizzai in piedi, tutto tremante.

Una voce familiare saluta Daniele con parole affettuose e rassicuranti: “uomo
grandemente amato...”, letteralmente “uomo di delizie”, tOdumAx-$yi) ’îsh cha-
mudôth (chamudôth è lo stesso vocabolo che nel v. 3 è tradotto “desiderabili” o
“deliziosi”). È l’identica espressione con cui Gabriele ha salutato il profeta 3 anni
prima (cfr. 9:23).
Come nell’episodio del cap. 9, la ricerca intensa e perseverante di Dio
nell’umiltà e nella preghiera è stata premiata. Ma in più rispetto a quell’episodio,
stavolta la venuta dell’angelo con un messaggio speciale da parte di Dio è stata
preceduta da una manifestazione personale della Divinità.
Nella prima manifestazione Daniele ha udito il suono di una voce possente
come il rumoreggiare di una moltitudine, ma non ha potuto distinguere le parole
che quella voce ha proferite. Ora è essenziale che egli intenda quanto il messo
celeste sta per rivelargli, perché si tratta di un messaggio di estrema importanza:
“presta attenzione alle parole che io ti dirò” (!yel)
" r"bod yikon)
f re$)
A {yirb
f D
: B f hâ-
a }"bh
ven baddevarîm ’asher ’anokî dover ’eleyka).
Il comando: “rizzati in piedi”, sembra trasfondere nel profeta ulteriori energie:
“ E quando m’ebbe detta questa parola, io mi rizzai in piedi...” Il vegliardo rias-
sume la posizione eretta davanti all’angelo, ma è ancora malfermo sulle gambe.
Quanto è spossante per un essere umano il confronto con la Maestà divina!

416 - Cfr. E.G.WHITE, Prophets and Kings, pp. 571-572.

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CAPITOLO 10

Colui che ha rimesso in piedi il profeta e lo sollecita a concentrarsi per


ascoltarlo, non è venuto di sua iniziativa, egli sta semplicemente eseguendo un
mandato: “ora io sono stato mandato da te...” La Divinità non riceve mandati, li
conferisce. Ecco la prova che chi ha toccato Daniele e lo ha fatto tornare in sé
non è stato l’Essere maestoso che lo ha fatto andare in deliquio, ma soltanto un
suo messaggero. Per dirlo con un’espressione tolta dal linguaggio tecnologico
moderno, egli è stato una cinghia di trasmissione, non un motore.

12 Ed egli mi disse: “Non temere, Daniele; poiché dal primo giorno che
ti mettesti in cuore d’intendere e d’umiliarti nel cospetto del tuo Dio,
le tue parole furono udite, e io son venuto a motivo delle tue parole.

Un uomo di Dio quanto più sia cosciente della propria imperfezione e indegnità
tanto più prova sgomento e confusione nel confrontarsi con la perfezione divina
(vedi Is 6:5). L’angelo deve avere notato il grande disagio del vecchio profeta nel
trovarsi in sua presenza, perciò lo rincuora e lo rassicura chiamandolo per
nome: “Non temere, Daniele...!”.
“Dal primo giorno...”. È di certo un riferimento all’inizio dei 21 giorni di
duolo e di umiliazione (vedi il v. 2). Come abbiamo detto nel commento del v.
2, eventi inquietanti stavano accadendo in quei giorni nella patria lontana dove
da poco erano giunti i primi reduci dall’esilio. Daniele ne era rimasto scosso e
aveva cercato di capire perché succedevano quelle cose. Come già tre anni
prima (cfr. 9:3), si era umiliato davanti al suo Dio - forse confessando ancora
una volta i peccati del suo popolo dei quali si sentiva in qualche modo corre-
sponsabile - e aveva rivolto al Signore fervide suppliche per la sua gente.
Ora egli è messo al corrente dal messaggero di Dio che le sue suppliche
sono state accolte in cielo fin dalle prime battute: “dal primo giorno... le tue pa-
role furono udite...”. “Dio - osserva J.Doukhan - esaudisce anche la preghiera
inespressa, o piuttosto non ancora espressa. Perché non è la preghiera in sé
stessa che è vana, ma è l’illusione che l’intervento dall’alto sia stato provocato
dal peso magico delle parole con le quali la preghiera è stata espressa”417 (La
supplica di Daniele era dunque stata esaudita fin dalle prime parole, ma per tre
settimane intere non era successo nulla che lo facesse supporre. Solo dopo 21
lunghi giorni l’angelo del Signore è venuto per portargli la risposta. Perché que-
sto prolungato indugio?
La risposta è data nel versetto seguente.

13 Ma il capo del regno di Persia m’ha resistito ventun giorni; però


ecco, Micael, uno dei primi capi, è venuto in mio soccorso, e io son
rimasto là presso i re di Persia.

417 - Op. cit., p. 228.

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CAPIRE DANIELE

L’inviato del cielo prima di visitare Daniele aveva dovuto svolgere una missione
di grande importanza presso la suprema autorità del regno di Persia le cui deci-
sioni o mancate decisioni avevano inciso negativamente sulle vicende dei Giudei
rimpatriati con Zorobabele determinando quello stato di cose che aveva susci-
tato la perplessità di Daniele.
La spiegazione del ritardo fornita dall’angelo (“Ma il capo del regno di Per-
sia m’ha resistito ventun giorni”) fa supporre che la sua missione si rivelasse più
ardua del previsto. Chi è “il capo del regno di Persia” che si è opposto con tanta
tenacia al messaggero celeste? È da scartare subito la supposizione che sia uno
dei re di Persia ai quali si fa riferimento alla fine del versetto (sfrpf y"kl a malkê
: m
paras). L’angelo dà una qualifica diversa al personaggio misterioso che gli ha re-
sistito: sarPf tUk:lm
a ra& sar malkûth paras, “capo”, o meglio “principe del regno di
Persia”. È pure da respingere l’opinione che il sar malkûth paras fosse un perso-
naggio persiano di sangue reale sconosciuto alla storia. Un essere umano, sia
pure rivestito di autorità, non poteva opporsi con successo a un angelo di Dio,
se si pensa ai poteri sovrumani di cui sono dotati questi agenti celesti (cfr. Is
37:36; At 12:6-10). Solo un essere sovrannaturale può opporre resistenza a un es-
sere sovrannaturale.
Posto che lo stesso termine (sar) qualifica tanto il personaggio celeste che
venne in aiuto dell’angelo ({yéno$)irhf {yir>
f h a l")kf yim mîka’el ’achad hassarîm
a dax)
harishonîm..., “Micael, uno dei primi principi...”) quanto il personaggio che gli
ha resistito 21 giorni, quest’ultimo deve essere stato anch’egli un essere sovran-
naturale. Alcuni commentatori vi hanno visto un angelo celeste protettore del re-
gno di Persia418 e, anche in base a quanto si dice in seguito (v. 20), hanno con-
cluso che i regni della terra sono posti sotto la tutela di angeli buoni. Se fosse
così, bisognerebbe dedurre da questo passo di Daniele che c’è rivalità e contrap-
posizione fra gli angeli di Dio, un’idea che non è suffragata dalla Scrittura e che,
anzi, contrasta con la visione biblica sugli angeli celesti. Si deve perciò conclu-
dere che il sar del regno di Persia che ha contrastato per tre settimane l’angelo
di Dio, fosse un emissario di Satana, un angelo decaduto.
Sar - spiega il S.D.A: Bible Commentary (vol. IV, p. 589) è un “termine che
si ripete 420 volte nell’A.T., mai però col significato di ‘re’. Esso viene riferito ora
a un funzionario reale (Ge 40:2, tradotto ‘capo’), ora a un’autorità locale (1Re
22:20, tradotto ‘governatori’), anche ai capi subalterni di Mosè (Es 18:21, tradotto
appunto ‘capi’). Con quest’ultimo significato il termine compare nell’espressione
sar hassaba’, ‘comandante dell’esercito’ (la stessa espressione tradotta ‘principe
dell’esercito’ in 8:11) in uno degli ostraca di Lakis, una lettera scritta da un uffi-
ciale dell’esercito giudaico al suo superiore, probabilmente all’epoca della con-
quista di Giuda ad opera di Nabucodonosor nel 588-586 a.C., quando Daniele si
trovava in Babilonia...”.

418 - Cfr. G.Rinaldi, op. cit., p. 137

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CAPITOLO 10

“L’essere celeste che apparve a Giosuè presso Gerico è chiamato ‘il capo
(ebr. sar) dell’esercito del Signore’ (Gs 5:14, 15).
ìDaniele usa spesso questo vocabolo con riferimento ad esseri sovrannatu-
rali (Dn 8:11, 25; 10:13, 21; 12:1).
ìSi è supposto, sulla base di queste considerazioni, che sar denoti un essere
sovrannaturale che in quel tempo si contrappose agli angeli di Dio e tentò di
volgere la politica del regno di Persia contro gli interessi superiori del popolo di
Dio. La questione fondamentale era il benessere di questo popolo contrastato
dai vicini pagani. Poiché si dice in appresso che Micael è il ‘principe (sar) che
sta per i figli del tuo popolo’ (12:1), non sembra irragionevole concludere che ‘il
principe del regno di Persia’ fosse un sedicente angelo guardiano di questo po-
polo appartenente in realtà alle milizie dell’avversario” (ibidem, p. 859).
Il punto di vista di H.C.Leupold sull’identità del ‘principe del regno di Per-
sia’ in 10:13, concorda sostanzialmente col commento del S.D.A. Bible Commen-
tary. Scrive questo espositore che in quel punto del libro di Daniele “il riferi-
mento è senza dubbio agli angeli malvagi detti dèmoni nel Nuovo Testamento.
Tali potenze demoniache - aggiunge - nel corso del tempo hanno sviluppato
una forte influenza su certe nazioni e i loro governi fino ad averne il controllo.
Esse hanno messo in atto tutte le risorse possibili allo scopo di ostacolare l’opera
e frustrare i piani di Dio”419. Il conflitto ultraterreno descritto in 10:13 apre una
finestra su un universo spirituale in gran parte sconosciuto che sovrasta il
mondo sensibile e in una certa misura ne influenza gli eventi. Un conflitto tita-
nico che oppone le forze del Bene e del Male in una dimensione cosmica si
svolge al di là e al disopra dei contrasti umani condizionandone in parte gli esiti
specie laddove questi abbiano ripercussioni sull’opera e sul popolo di Dio420.
Nel caso in esame è assai verosimile che l’angelo di Satana, arbitrario “prin-
cipe” spirituale del regno di Persia, esercitasse la sua nefasta influenza sul so-
vrano di questa nazione - Ciro II - allo scopo di impedire la realizzazione del di-
segno divino riguardo alla nazione santa, ovvero il ripristino della vita religiosa
in seno ad essa. La lotta fra l’angelo di Dio e l’emissario di Satana si protrasse
per tutto il tempo del duolo di Daniele, del tutto all’oscuro su questo conflitto fra
angeli: “il capo (sar) del regno di Persia- dice al profeta l’inviato del cielo - m’ha
resistito ventun giorni”. Solo l’intervento di una potestà superiore al fianco
dell’angelo buono ha potuto vincere l’opposizione caparbia dell’angelo malva-
gio: “però, ecco, Micael, uno dei primi capi (o principi), è venuto in mio soc-
corso...” (yénr
" zº (f l
: )fB {yéno$)irh
f {yir&
f h
a dax) i wº wehinneh mîka’el ’achad has-
a l")kf yim h¢Nh
sarîm hari’shonîm ba’le‘azrenî...).
J.Doukhan segnala una possibile traduzione alternativa di questo passo la
quale pone Mika’el al vertice della dignità celeste. Egli dice testualmente: “Il v.

419 - Op. cit., p. 457.


420 - Il tema del conflitto tra Cristo e Satana, tra il Bene e il Male, è trattato magistralmente
nel volume di Ellen G.White The Great Controversy (in traduzione italiana Il gran conflitto, Ed.
AdV, Firenze, 1977).

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CAPIRE DANIELE

10 lascia anche capire attraverso l’uso di un superlativo che egli (Micael) è ‘il
primo dei primi capi’ (traduzione letterale), e non ‘uno dei primi capi’ (versione
Ségond). La parola ’achad che si traduce comunemente col numero cardinale
‘uno’ è usata ugualmente col significato del numero ordinale ‘primo’. Quest’ul-
timo senso conviene assai meglio al contesto di questa frase in particolare e del
libro di Daniele in generale”421. -
È la prima volta che compare nel libro di Daniele, e nella Bibbia intera, il
nome proprio Mika’el. Chi è questo personaggio potente che ha piegato la resi-
stenza di un emissario del diavolo?
Per prima cosa si deve volgere l’attenzione al titolo con cui lo di designa
(sar, “capo” o “principe”) non solo in questo punto ma anche in 11:1 (“Micael
vostro capo”) e in 12:1 (“Micael il gran capo”).
Sar, lo abbiamo visto prima, nell’Antico Testamento il più delle volte è ado-
perato per indicare una dignità politica (“principe”) o una carica militare (“capo”,
“comandante”) o un’autorità locale (“governatore”). Ma talvolta è riferito a entità
personali sovrannaturali, come in questo punto del libro di Daniele. Sempre in
Daniele tre volte, come si è appena detto, il titolo “sar” è dato al personaggio
Micael.
In Is 9:5 sar shalom, “principe della pace”, è uno dei titoli riconosciuti al
Messia venturo. Infine in Ap 12:7 si riconosce in Micael che combatte e vince il
gran dragone, il Cristo risorto vittorioso su Satana. I rabbini antichi identificarono
Micael col Messia venturo e col sommo sacerdote officiante nella Sion celeste.422
(Ribadiamo quindi che il principe Micael che ha infranto la resistenza del “prin-
cipe del regno di Persia” altri non è che il Cristo, l’eterno Figlio di Dio423. Mi-ka-
’el nella lingua ebraica è una proposizione interrogativa: “chi è come Dio?” Si co-
glie una sfida in questa interrogazione. Una sfida che nessuno nell’universo è in
grado di raccogliere .
Il senso sembra essere questo: Nessuno è come Dio se non Colui che porta
questo nome, appunto Mika’el. Vinto grazie all’intervento di Micael, l’angelo-av-
versario ha dovuto battere in ritirata. Adesso la corte persiana è sotto il controllo
dell’inviato del cielo: “e io sono rimasto là presso i re di Persia”. Così il Testo
Masoretico. I LXX, seguiti da Teodozione, hanno: “e io l’ho lasciato là (Mi-
cael)...”. Questa espressione è più coerente col contesto immediato.
Infatti dopo l’intervento efficace di Micael, l’angelo ha lasciato la corte per-
siana ed è andato da Daniele il ventunesimo giorno del suo cordoglio. Per que-
sto motivo varie versioni moderne hanno preferito seguire il testo greco. Così,
fra altre, le anglosassoni Revised Standard Version, Moffatt e Goodspeed, e fra le
italiane le versioni della C.E.I., della Bibbia Concordata e di G.Bernini.
Ellen G.White accredita in un manoscritto inedito questa versione del parti-

421 - Op. cit., p. 232.


422 - J. DOUKHAN, op. cit., p. 332.
423 - Per ulteriori approfondimenti su questa identificazione vedi il commento a 8:7.

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CAPITOLO 10

colare del racconto. Ella dice testualmente: “... Michael venne in suo aiuto, poi
rimase presso il re di Persia per tenere in scacco le forze del male opponendo
buoni consigli ai cattivi”424
H.C.Leupold, sulla scorta del testo ebraico che recita alla fine del v. 13: “e
io sono rimasto là presso i re di Persia (malkê parâs)”, osserva che è implicita-
mente assicurata per gli anni a venire la presenza attiva degli agenti celesti
presso la corte persiana onde il popolo di Dio goda anche in futuro il favore dei
sovrani di quella nazione425.

14 E ora sono venuto a farti comprendere ciò che avverrà al tuo po-
polo negli ultimi giorni; perché è ancora una visione che concerne
l’avvenire”.

L’emissario del cielo (con tutta probabilità l’angelo Gabriele) rivela adesso a
Daniele lo scopo della sua venuta. Egli ha l’incarico di fargli capire (!ºnyibAhal
lehavîneka) quel che avverrà al suo popolo “negli ultimi giorni” ({yimYæ h a tyirx
A )
a B
:
be’acharith hayyamîm, la frase può anche tradursi “alla fine dei giorni” o “nella
parte estrema dei giorni”). Frequente negli oracoli dei profeti, e presente anche
negli scritti neotestamentari, l’espressione indica ora la parte finale di un periodo
di tempo o di un’epoca (cfr. Is 2:2; Gr 30:24; 48: 47; 49: 39; Os 3:5; At 2:17; Eb
1:2), ora il tempo del secondo avvento di Cristo e del giudizio (cfr. Os 2:28;
2Tm. 3:1; 2Pie 3:3, e al singolare Gv 6:40; 11:24; 12:48). In Dn 10:14 l’espres-
sione “gli ultimi giorni” si riferisce all’ultimo periodo della storia umana prima
del giudizio.
Per “farti comprendere ciò che avverrà al tuo popolo...”: con questa precisa-
zione è fissato il contenuto della rivelazione che Daniele sta per ricevere (“tuo
popolo” sulla bocca dell’angelo si riferisce all’Israele storico nell’immediato, e al
popolo di Dio della Nuova Alleanza nella prospettiva escatologica). La vicenda
storica del popolo di Dio presente e futuro sarà il centro focale della profezia,
una profezia proiettata molto in avanti nel tempo: “è ancora una visione che
concerne l’avvenire”, letteralmente “è ancora una visione per i giorni” ({yimYæ l
a }Ozfx
dO( ‘od chazôn layyamîm) o, come traducono varie versioni (C.E.I., T.O.B., Con-
cordata) “per quei giorni”, cioè per “gli ultimi giorni”. L’enfasi è posta sulla parte
finale del tempo futuro che sarà oggetto di rivelazione.

15 E mentr’egli mi rivolgeva queste parole, io abbassai gli occhi al


suolo, e rimasi muto.

Più conforme all’ebraico: “abbassai il volto al suolo” (hfcr


: ) a næ natattî panaî
a yánpf yiTt
’artzah).

424 - Lettera 201, 1899, in S.D.A. Bible Commentary, p. 1173.


425 - Op. cit., p. 459.

326
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CAPIRE DANIELE

Il piegarsi del capo verso il basso e la perdita della favella sono i segni di
un forte malessere fisico: un nuovo deliquio sta per cogliere il vecchio profeta.
La forte emozione che le parole dell’angelo gli hanno procurato (“mentr’egli mi
rivolgeva queste parole”) sta fiaccando la sua già provata resistenza fisica.

16 Ed ecco uno che aveva sembianza d’un figliuol d’uomo, mi toccò le


labbra. Allora io aprii la bocca, parlai, e dissi a colui che mi stava
davanti: “Signor mio, a motivo di questa visione m’ha colto lo spa-
simo, e non m’è più rimasto alcun vigore.

L’aspetto sfolgorante dell’angelo sembra avere avuto anch’esso un effetto debili-


tante sul fisico di Daniele: “Signor mio, a motivo di questa visione... non m’è più
rimasto alcun vigore”, yaryic Uk:ph
e nå h):rM
a B A ’adonî bamar’âh nehefku tzirai. È
a yénod)
improbabile che il profeta si riferisca a una delle visioni avute in precedenza,
come ha congetturato qualche commentatore. Quelle visioni sono troppo lon-
tane nel tempo perché possano ancora influire sulle emozioni di Daniele. La pa-
rola mar’eh ha anche il senso di “aspetto”, “apparizione” (vedi il versetto se-
guente), e questa è l’accezione che conviene meglio al testo in esame. E’ perciò
preferibile la traduzione di G.Rinaldi: “Signor mio, nell’apparizione mi incolsero
questi miei dolori...” (la T.O.B. traduce in modo simile: “Monseigneur, à cause
de l’apparition, des angoisses m’ont saisi...”).
Solo ora Daniele può scorgere davanti a sé il suo eccezionale interlocutore.
L’angelo ha dunque velato il suo splendore straordinario, come spiega
E.G.White,426 sì che il profeta può contemplare la sua figura simile a quella di
un comune essere umano ({fd) : tUm:dKi kidmûth benê ’adam, letteralmente:
f y¢nB
“somigliante a figli d’uomo”).
Il tocco dell’angelo ha disserrato le labbra contratte di Daniele. L’uomo di
Dio, quasi sul punto di svenire (“non mi è rimasto più alcun vigore”), forse bal-
bettando si lamenta per il grande malessere che lo ha colto.

17 E come potrebbe questo servo del mio signore parlare a cotesto


signor mio? Poiché oramai nessun vigore mi resta, e mi manca fino
il respiro”.

Con tipico stile orientale, Daniele parla all’inviato del cielo con la deferenza
dovuta al suo rango, e gli spiega la ragione per la quale non aveva potuto arti-
colare parola: le forze lo hanno quasi del tutto abbandonato al punto che egli
non è stato più in grado di far funzionare con regolarità i muscoli toracici per in-
trodurre aria nei polmoni ed espellerla (i sintomi del grave malessere sono de-
scritti con precisione).

426 - The Sanctified Life, Ediz. 1955, p. 52.

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CAPITOLO 10

“Questo servo” sulla bocca di Daniele è un riferimento a se stesso in terza


persona; “mio signore” e “cotesto signor mio” sono espressioni riverenziali rivolte
all’interlocutore. L’uomo di Dio ha la lucida coscienza del grande divario di na-
tura che esiste tra sé e l’angelo: altra è la dignità umana, altra la dignità angelica.

18 Allora colui che aveva la sembianza d’uomo mi toccò di nuovo, e


mi fortificò.

Col precedente tocco delle labbra l’inviato di Dio aveva reso al profeta la
capacità di articolare di nuovo le parole, ma la sofferenza e la grande debolezza
fisica permangono. Adesso l’angelo posa ancora una volta la mano su di lui ed
egli sente che le forze ritornano (“mi toccò di nuovo e mi fortificò”), come se da
quel contatto egli ricevesse una carica di energia vitale. Daniele vede tuttora l’an-
gelo nell’aspetto umano: “colui che aveva la sembianza d’uomo”, nell’originale
{fd)
f h")r a K: yiB bî kemar’eh ’adam, “colui che aveva apparenza d’uomo” (mar’eh
: m
appare chiaramente nell’accezione di “aspetto”, “apparenza”).

19 E disse: “O uomo grandemente amato, non temere! La pace sia


teco! Sii forte, sii forte”. E quand’egli ebbe parlato meco, io ripresi
forza, e dissi: “Il mio signore, parli pure poiché tu m’hai fortificato”.

Per la seconda volta l’inviato del Signore rivolge all’uomo Daniele il saluto affet-
tuoso e rassicurante: “O uomo grandemente amato, non temere!” (tOdumx A $yi)
)fryiT-la) ’al tîra’ ’îsh chamudôth, “non temere o uomo prediletto”, letteralmente
“di predilezione”); e aggiunge l’augurio di pace: |fl {Olf$ shalôm lake, e un inco-
raggiamento ripetuto due volte: qæzx A chazaq wachazaq, che alcune versioni
A wá qázx
traducono con due verbi distinti “fortificati e rinfrancati !”.
Nelle parole dell’angelo - osserva H.C.Leupold - c’è una triplice enfasi:
“Non temere”, “Pace a te”, “Sii forte”, rafforzata dal saluto affettuoso già rivolto in
precedenza: “O uomo prediletto”. “In aggiunta al tocco fisico che fortificò il
corpo - commenta questo autore - ci fu la parola confortante che fortificò il
cuore e la mente”427.
L’effetto delle parole incoraggianti dell’angelo è stato immediato: il ricupero
delle forze è stato rapido e completo: “E quand’egli ebbe parlato meco, io ripresi
forza”. Ora Daniele è pienamente in grado di ascoltare la rivelazione che il
messo celeste ha da fargli: “Il mio signore parli, perché tu mi hai fortificato”.
“Animato da un forte interesse per la rivelazione, Daniele era tanto ansioso
di ascoltare quanto l’angelo di istruire” (Leupold).
Il racconto particolareggiato del malessere di Daniele tra l’interruzione e la
ripresa delle spiegazioni dell’angelo, così come i ripetuti riferimenti agli inter-
venti di costui per mettere il profeta in condizione di ascoltare, sono indici della
estrema importanza di ciò che sta per essere rivelato al profeta.

427 - H.C. LEUPOLD, op. cit., p. 463.

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CAPIRE DANIELE

20 Ed egli disse: “Sai tu perché io sono venuto da te? Ora me ne torno


a combattere col capo della Persia; e quand’io uscirò a combattere
ecco che verrà il capo di Javan.

La domanda può sembrare fuori luogo, giacché il soggetto parlante aveva già
dato due motivazioni alla sua venuta: una prima nel v. 12: “sono venuto a mo-
tivo delle tue parole”, e una seconda nel v. 14: “sono venuto per farti compren-
dere ciò che avverrà al tuo popolo”. Può anche sembrare strano che alla do-
manda non segua né una risposta dalla parte di chi ascolta, né una spiegazione
dalla parte di chi parla. In realtà non c’è niente di strano in tutto questo.
Data la condizione di crescente sofferenza e debolezza fisica dell’ascoltante,
era del tutto possibile che questi non avesse potuto seguire fino in fondo quanto
gli era stato detto. Una domanda intesa a sincerarsene, da parte di chi ha par-
lato, era perciò assolutamente logica e appropriata, tanto più che a quel discorso
interrotto quasi appena iniziato doveva adesso collegarsi la rivelazione vera e
propria. Un cenno di assenso dell’ascoltante può avere rassicurato l’interrogante
che adesso può riprendere tranquillamente il discorso interrotto. L’angelo (v. 14)
stava parlando della sua missione presso la corte di Persia per contrastare l’in-
fluenza su quella corte dell’angelo di Satana, un’influenza nefasta per il popolo
di Daniele; e stava accennando all’intervento risolutivo di Micael in questo con-
flitto ultraterreno quando ha dovuto interrompersi per il malore che ha colto il
suo interlocutore. Ora che Daniele è in condizione di ascoltare, riprende il di-
scorso da questo punto.
Col sostegno del Principe Micael, dunque, l’estenuante confronto con l’an-
gelo del male si era risolto felicemente, ma l’avversario, temporaneamente bat-
tuto, di certo non si darà per vinto. Urge pertanto che colui che parla a Daniele
ritorni presso il re di Persia per riprendere la lotta: “Ora torno a combattere col
principe di Persia”, sfrPf ra&-{i( {"xL
f h : bU$f) hfT(a wº we‘attah ’ashûv lehillachem ‘im
i l
sar paras428. Chiaramente si prospetta un nuovo conflitto con l’emissario di Sa-
tana, un conflitto destinato a prolungarsi molto al di là del tempo nel quale Da-
niele riceve questa rivelazione (sui riflessi di siffatto conflitto nella storia poste-
riore d’Israele, vedi Ed 4: 4-5, 24; 6-23).
In sostanza l’angelo rivelatore fa capire a Daniele che la lotta durerà finché
la Persia non sarà soppiantata dalla Grecia: “e quando uscirò a combattere ecco
che verrà il capo di Javan” (ossia il principe di Grecia).

428 - Il testo ebraico può sembrare ambiguo, giacché la preposizione ‘im (“con”) può essere
compresa sia nel senso di un’alleanza (“al fianco di”) sia nel senso di una contrapposizione
(“contro”). Alla stessa incertezza può dar luogo la preposizione meta nella versione greca del
passo (su meta nel senso di “insieme con”, “accanto a” vedi Gv 1:3 e Ap 2:16). Il verbo
ebraico lâchâm, “combattere”, seguito dalla preposizione ‘im, come in questo passo di Da-
niele, ritorna 28 volte nell’Antico Testamento col senso evidente di “combattere contro” che
emerge dal contesto (cfr. De 20:4; 2Re 13:12; Gr 41:12; Dn 11:11). In Dn 10:20 lehillachem
‘im ha sicuramente questo senso (vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 861).

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CAPITOLO 10

L’ebraico recita: )fB }æwyæ -ra& h¢Nh A wá wa’anî yotze’ wehinneh sar yawan
i wº )"cOy yén)
ba’, letteralmente: “quando uscirò, il principe di Yavan verrà” (è sottinteso
“quando uscirò dal conflitto”, cioè “quando avrò abbandonato la lotta”).
La Concordata rende bene il senso dell’originale: “... e quando sarò uscito
da questa lotta, ecco che verrà il principe di Grecia”. In sostanza l’angelo sta di-
cendo a Daniele che quando egli avrà abbandonato la lotta col “principe di Per-
sia”, allora si farà avanti un altro avversario, un nuovo angelo di Satana, un sedi-
cente protettore del regno di Grecia. È implicito che anche questi agirà sui nuovi
egemoni del mondo per ostacolare il cammino del popolo di Dio.
“L’angelo - commenta il S.D.A. Bible Commentary - aveva notificato a Da-
niele che sarebbe tornato a riprendere la lotta contro le forze tenebrose che agi-
vano con l’intento di dominare la mente del re di Persia. Poi spinse lo sguardo
nel futuro e anticipò che quando infine egli abbandonerebbe la lotta, ne segui-
rebbe uno sconvolgimento nelle vicende politiche del mondo. In effetti finché
l’angelo di Dio trattenne le forze del male intenzionate ad esercitare il loro domi-
nio sul governo persiano, questo impero sussistette. Ma non appena si ritrasse
l’influsso divino e le forze delle tenebre esercitarono il loro dominio incontra-
stato su questa nazione, in breve ne seguì la rovina. Le milizie greche condotte
da Alessandro scorsero la terra e in breve volgere di tempo estinsero l’Impero
Persiano.
“La verità che l’angelo ha dichiarato in questo versetto illumina la rivela-
zione che seguirà. La profezia successiva, la quale prospetta un susseguirsi di
guerre, assume grande significato quando la si comprende alla luce di quello
che l’angelo ha detto in questo punto. Mentre gli uomini si battono tra loro per
la conquista del potere terreno, al di là di siffatto scenario e nascosto agli sguardi
umani, si svolge un conflitto ancora più gigantesco di cui sono un riflesso il
fluire e rifluire degli eventi umani429. Come il popolo di Dio, stando a quel che è
rivelato, è protetto nel corso della sua storia travagliata descritta profeticamente
da Daniele, così è certo che in questo conflitto più gigantesco, le legioni della
luce prevarranno sulle forze delle tenebre”430.

21 Ma io ti voglio far conoscere ciò che è scritto nel libro della verità;
e non v’è nessuno che mi sostenga contro quelli là tranne Micael vo-
stro capo.
Capitolo 11 1 E io, il primo anno di Dario, il Medo, mi tenni presso di lui
per sostenerlo e difenderlo.

Il passo è reso alquanto oscuro da un’inattesa interruzione di senso fra la


prima e la seconda frase. Si è supposta una lacuna testuale per tentare di dare
una spiegazione al fenomeno, ma la congettura non è necessaria. Si deve anche

429 - Vedi Education, p. 173.


430 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 861-862.

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CAPIRE DANIELE

lamentare che una infelice divisione del testo viene a complicare ulteriormente
la difficoltà. In conseguenza di questo taglio malaccorto del testo metà di un di-
scorso continuativo è andata a concludere il cap. 10 e l’altra metà è andata a in-
trodurre il capitolo seguente.
Avendo finora parlato del conflitto invisibile che lo ha opposto al “principe
del regno di Persia”, l’angelo sembra volere adesso lasciare da parte questo di-
scorso, che è secondario rispetto alla rivelazione capitale che ha da fargli: “Ma io
ti voglio far conoscere ciò che è scritto nel libro della verità...” La straordinaria ri-
velazione sarà tratta dal libro di Dio che è assolutamente attendibile (“nel libro
della verità”, tem) i biktav ’emeth).
E bftk: B
H.C.Leupold osserva che l’avversativo ’aval (“nondimeno”) che apre il ver-
setto è più forte del semplice “ma”, e aggiunge che l’uso di esso va notato in
quanto l’ebraico adopera di rado gli avversativi, valendosi correntemente della
congiunzione waw (“e”) con funzione avversativa. Quell’’aval, insomma, sottoli-
neerebbe la maggiore importanza di ciò che resta da dire rispetto a ciò che è
stato detto. E tuttavia è necessario aggiungere un pensiero supplementare a quel
che è stato detto in merito al conflitto tra angeli, allo scopo di prevenire frainten-
dimenti possibili sulla partecipazione di questi esseri celesti a siffatti conflitti. E’
necessario aggiungere che un solo essere celeste, Micael, lo ha sostenuto e lo
sosterrà ancora nel conflitto che incombe. Non perché il cielo se ne disinteressi -
aggiungiamo noi - ma perché le risorse congiunte di Gabriele e Micael sono più
che sufficienti.
Riassumendo: prima dell’annunciata rivelazione (“ti mostrerò ciò che è
scritto nel libro della verità”), l’angelo torna per un momento sul discorso prece-
dente per fare una puntualizzazione necessaria sugli angeli buoni che prendono
parte al conflitto spirituale contro gli angeli cattivi.
“Vostro principe”, {ekr a sarkem: così l’angelo caratterizza Micael parlando
: &
con Daniele. Se i regni pagani di Persia e di Grecia hanno (e avranno) un protet-
tore fraudolento nella persona di un angelo infernale, Israele è posto sotto la tu-
tela dell’augusto Principe del cielo.
Alludendo alla lotta tuttora in corso, l’angelo identifica l’avversario con un
pronome al plurale: heL) " ’elleh, “costoro”. Egli aveva detto a Daniele che finita la
lotta contro il “principe di Persia”, subentrerebbe nel conflitto il “principe di Gre-
cia”. L’avere Gabriele usato il pronome plurale in riferimento alla parte avversa
in un conflitto che non è finito, implica che egli combatterà anche contro il ven-
turo “principe di Grecia” ed avrà ancora il sostegno di Micael.
A questo punto l’emissario del cielo volge verso il passato l’attenzione del
suo attento interlocutore, gli rivela che egli ha già svolto un’azione di sostegno
verso un leader terreno, presumibilmente anche in quell’occasione per proteggere
i santi del Signore: “il primo anno di Dario il Medo, mi tenni presso di lui per so-
stenerlo e per difenderlo”; difenderlo da chi se non da uno spirito malvagio?
Era anche il primo anno di Ciro, il fatto risale dunque a due anni prima.
Grammaticalmente l’espressione “presso di lui”, yidm : (f ‘amdî, come pure le
voci verbali “per sostenerlo e per difenderlo”, zO(fm:lU qyézAxam:l lemachazîq
ulema‘ôz”, possono riferirsi tanto a Dario il Medo quanto a Micael menzionato

331
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CAPITOLO 10

prima di Dario. Ma la logica richiede che il riferimento sia al primo in quantochè


il Principe Micael non può avere avuto bisogno del sostegno e della protezione
di un angelo.
Nel cap. 6 del suo libro Daniele ci ragguaglia su un pericolo mortale che ha
corso sotto il regno di Dario il Medo.
Se questo personaggio, come è assai verosimile, si identifica con Ugbaru, il
generale di Ciro e conquistatore di Babilonia (vedi il commento di 6:1), la sua
reggenza come re-vassallo di Babilonia non durò più di 14 mesi. L’episodio
drammatico che ha avuto per protagonista Daniele (6:11-17), si svolse nel corso
di quei 14 mesi, vale a dire nello stesso periodo di tempo in cui l’angelo celeste
si tenne presso Dario il Medo “per sostenerlo e difenderlo” (11:1).
Non pare azzardata l’ipotesi che dietro l’emozionante vicenda di Daniele ci
sia stato un angelo di satana, vero istigatore del complotto contro il profeta; e
che all’origine del ribaltamento della situazione ci sia stato il prevalere dell’an-
gelo di luce sull’angelo delle tenebre. Forse non fu a caso che in quel medesimo
scorcio di tempo (9:1) Daniele ricevette la splendida rivelazione delle settanta
settimane.

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CAPIRE DANIELE

Capitolo 11
_________________________________________________________________

I n questo capitolo è esposta la rivelazione annunciata all’inizio del capitolo pre-


cedente (una “parola verace” che “predice una gran lotta”, 1:1). La rivelazione
comunque mira a far conoscere a Daniele “ciò che avverrà” al suo popolo “negli
ultimi giorni” (v. 14). Nel corso di essa apparirà chiaro che nella “gran lotta” il
popolo di Dio sarà coinvolto suo malgrado.
La profezia prospetta un incessante seguito di conflitti che vedranno con-
trapposti due forti avversari denominati in modo generico e univoco “il re del
Sud” e “il re del Nord”. Poiché i contrasti violenti cui darà luogo la loro rivalità si
prolungheranno “sino al tempo della fine” (vv. 35 e 40), è naturale che le parti
che vi svolgeranno un ruolo di primo piano avranno un’identità sempre diversa
nel decorrere del tempo, pur se l’angelo le designa invariabilmente alla stessa ma-
niera (“il re del Sud” e “il re del Nord”).
Con gli infausti avvenimenti predetti s’intrecceranno le vicende del popolo di
dio in certi momenti della sua storia futura e grave pregiudizio ne verrà alle sue
sacre istituzioni: sarà vilipeso “il patto santo” (vv. 28 e 30) e sarà profanato “il
santuario” e il suo tamîd (v. 31). Prospettive funeste che sembrano echeggiare le
attività devastanti del “piccolo corno” descritte nei capitoli 7 e 8. E non fa meravi-
glia, giacché questa rivelazione ricalca in generale gli schemi delle visioni nar-
rate in quei due capitoli.
Il percorso storico delineato in questa proiezione profetica si apre con un ra-
pido colpo d’occhio sulla iniziale successione dinastica nel regno di Persia e pro-
segue, dopo un salto di parecchi decenni, con uno sguardo alla Grecia invitta di
Alessandro Magno e al suo dividersi in quattro regni minori dopo la scomparsa
del Macedone. La rassegna profetica entra quindi nel cuore della futura vicenda
storica descrivendo le guerre interminabili fra i Làgidi d’Egitto e i Seleucidi di Si-
ria, e in questo susseguirsi convulso di vicende violente emerge a un certo punto e
domina la scena profetica un personaggio spregevole che i più identificano col re
di Siria Antioco Epifane e pochi altri con l’Anticristo finale o con una figura di
anticristo storico. Finalmente la lunga sequela di conflitti sbocca e si conclude in
una scena tumultuosa in cui non pochi commentatori hanno scorto gli eventi del
tempo della fine.
La rivelazione ha il suo epilogo in un annuncio confortante e liberatorio per
il popolo santo -l’annuncio della sua salvezza escatologica (12:1-3) - agognato
compenso alle dolorose peripezie che ne avranno segnato il cammino storico.
Sul cap. 11 di Daniele, se fino al v. 20 regna fra gli espositori una sostan-
ziale convergenza, riguardo al resto c’è una notevole disparità di vedute. I libe-

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CAPITOLO 11

rali vi identificano, sino alla fine del capitolo, la figura storica di Antioco Epifane
(è un punto di vista non recente e non originale giacché, come si è detto altrove
in questo commentario, esso ricalca - e non solo qui - un’opinione (quella del
neoplatonico Porfirio) vecchia di quasi diciotto secoli. Sia pure con qualche va-
riante, questa è in generale la scelta interpretativa della maggioranza dei com-
mentatori contemporanei di Daniele.
Gli antichi interpreti della Chiesa - dei quali si fece portavoce Girolamo nel
suo commentario - videro nella parte centrale di questo cap. 11 “l’Anticristo che
verrà alla fine del tempo”, seppure adombrato tipologicamente nella figura peral-
tro secondaria di Antioco IV.
Nel tempo attuale gli espositori conservatori di Daniele ammettono in gene-
rale la presenza di Antioco nel cap. 11, ma gli assegnano un ruolo limitato.
Alcuni soltanto come personaggio storico, altri come figura storica e nel con-
tempo tipo dell’Anticristo finale. Altri infine - e fra questi i nostri - scorgono nella
figura dominante della seconda metà del capitolo un anticristo storico, come si è
accennato sopra. Si deve comunque dire che fra gli interpreti avventisti di Da-
niele non c’è stata e tuttora non c’è una completa identità di vedute riguardo al
punto del cap. 11 a partire dal quale si dovrebbe identificare l’Anticristo storico
(ne riparleremo nel corso del commento). Intanto, a titolo di esemplificazione, ri-
portiamo di seguito, in una sintesi schematica, i pareri di 4 autori contemporanei
sull’identità dei personaggi storici ai quali alluderebbe Daniele in questo capitolo
undicesimo del suo libro.

GIOVANNI RINALDI (cattolico):

v. 2: i re di Persia
vv. 3 e 4: Alessandro Magno e i Diadochi
v. 5: Tolomeo I Sotere e Seleuco I Nicatore
v. 6: Tolomeo II Filadelfo, Antioco I Sotere e Antioco II Theo
v. 7: Tolomeo III Evergete, Seleuco II Callinico, Seleuco III Cerauno
v. 10: Antioco III il Grande e Tolomeo IV Filopatore
v. 14: Tolomeo IV Epifane
v. 20: Seleuco IV Filopatore, Tolomeo VI Filometore
vv. 21-39: Antioco IV Epifane
vv. 40-45: tempo della fine (sulla linea di alcuni Padri)

GIUSEPPE BERNINI (cattolico):

v. 2: i re persiani
vv. 3 e 4: Alessandro il Grande
v. 5: Tolomeo I Sotere e Seleuco I Nicatore
v. 6: Tolomeo II Filadelfo, Berenice sua figlia e Antioco II Theo
v. 7: Tolomeo III Evergete e Seleuco II Callinico
v. 8: Seleuco II Callinico
v. 9: incerto

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CAPIRE DANIELE

v. 10: Antioco III il Grande


v. 11: Antioco III il Grande e Tolomeo IV Filopatore
v. 12: Tolomeo IV Filopatore e Antioco III il Grande
v. 14: Antioco III il Grande
vv. 15 e 16: ancora Antioco III il Grande
v. 17: Antioco III il Grande, sua figlia Cleopatra e Tolomeo V Epifane
v. 18: Antioco III e il romano Cornelio Scipione
vers. 19: fine di Antioco III
v. 20: Seleuco IV Filopatore ed il suo tesoriere Eliodoro
vv. 21-45: Antioco IV Epifane
vv. 36-45: eventi della fine

HERBERT C. LEUPOLD (evangelico):

FUTURO PROSSIMO: ALLEANZE E CONFLITTI FRA EGITTO E SIRIA (vv. 2-35)


vv. 2-4: preambolo storico
vv. 5-6: Tolomeo Lago, Tolomeo Filadelfo, Antioco Theo
vv. 7-9: Tolomeo Evergete, Seleuco Callinico
vv. 10-19: Seleuco III Cerauno, Antioco III il Grande
v. 20: Seleuco IV Filopatore
vv. 31-35: Antioco IV Epifane

FUTURO PIU’ REMOTO: L’ANTICRISTO E SUA DISFATTA E DISTRUZIONE


(11:36 - 12:3)
vv. 36-39: politica e successi apparenti dell’Anticristo
vv. 40-45: ultime fortune e fine dell’Anticristo

2 E ora ti farò conoscere la verità. Ecco, sorgeranno ancora in Per-


sia tre re; poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri; e
quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti con-
tro il regno di Javan.

Ora che Daniele ha ricuperato le sue forze ed è in grado di tenersi in piedi da-
vanti all’angelo e di ascoltarlo, questi gli farà conoscere “la verità” (ebr. íemeth)
o, come aveva detto prima (10:21), “ciò che è scritto nel libro della verità”, vale a
dire gli eventi non ancora accaduti che sono registrati nel libro di Dio e che con
infallibile certezza si realizzeranno (è in questo senso, cioè nel senso di qualcosa
che avverrà con assoluta sicurezza, che devesi intendere la “verità” che il mes-
saggero di Dio si appresta a svelare al profeta).
La rivelazione esordisce con un accenno alla successione dinastica nel re-
gno di Persia per i prossimi decenni: “Ecco, sorgeranno ancora in Persia tre re;
poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri...”. Sulla identità di questi
regnanti i pareri dei commentatori non sono concordi, ma i più vi ravvisano gli

335
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CAPITOLO 11

immediati successori di Ciro431 e noi siamo su questa linea. Quando Daniele ri-
cevette questa rivelazione, da un paio d’anni regnava sulla Persia Ciro il Grande.
I tre primi successori furono suo figlio Cambise II (529-522 a.C.), l’usurpatore
Gaumata, o pseudo Smerdis (522) e Dario I figlio di Istaspe, restauratore della
dinastia (522-585). Il quarto fu Serse I il Grande, figlio di Dario I (485-465). Noi
propendiamo per questo ordine di successione principalmente per il fatto che
nessuno dei re persiani risponde quanto Serse I alla descrizione del quarto re
fatta dall’angelo: “poi il quarto diventerà molto più ricco di tutti gli altri; e
quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti contro il regno di
Javan”.
Sullo splendore della corte imperiale di Serse in Susa ha un accenno il libro
di Ether in 1:1-7 dove questo personaggio eccentrico compare col nome ebrai-
cizzato di Assuero. D’altronde è nota alla storia l’opulenza eccezionale dei re di
Persia. Secondo la tradizione greca Alessandro s’impadronì dei 40.000 talenti
d’oro (pari a 1200 tonnellate!) del tesoro dei re di Persia quando conquistò Susa.
E ancora quantità ingenti di oro portò via dalle altre città reali persiane432.
Erano tali le ricchezze di Serse che quand’egli condusse la poderosa e di-
spendiosissima spedizione militare del 480 a.C. contro la Grecia, secondo quanto
narra Erodoto (VII. 29, 30), non solo rofiutò l’offerta che gli fece un uomo di Li-
dia - un cero Pitio - del suo tesoro privato per concorrere alle ingenti spese di
guerra, ma egli stesso fece dono al generoso ospite lidio di 7000 statèri d’oro per
accrescere quel suo patrimonio.
Ancor più il riferimento dell’angelo rivelatore a una grande campagna mili-
tare contro la Grecia ci sembra avvalorare l’identificazione con Serse il Grande
del quarto re che “solleverà tutti contro il regno di Javan”.
Riguardo alla dimensione dell’esercito mobilitato da Serse per conquistare
la Grecia, lo storico di Alicarnasso dice: “A qual numero ascendesse il contin-
gente di soldati che formavano i singoli popoli, non posso dire con esattezza
(...) ma nel suo insieme l’esercito di terra risultò di 1.700.000 unità” (VII. 60). An-
che se la cifra appare esagerata, è comunque certo che quella di Serse fu un’ar-
mata di tutto rispetto433.
I soldati provenivano dalle contrade più disparate dell’Asia e del Bacino
orientale del Mediterraneo: Erodoto (VII. 72-80) annovera ben 43 etnie, senza
contare i persiani e le popolazioni isolane. Verso le sponde della Grecia veleg-
giò nel contempo una flotta di 1207 triremi che avevano fornito al Gran Re i fe-

431 - Così già Girolamo nel suo commentario (vedi su 11:2). Quanto ai contemporanei, cfr.
S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 864; G. RINALDI, Daniele, p. 141; H.C.LEUPOLD, Exposition of
Daniel, pp. 476-477; A.C.GAEBELEIN, Il profeta Daniele, p. 181.
432 - Cfr. ALAN MILLARD, Archeologia e Bibbia, p. 142.
433 - Gli storici moderni valutano a circa 200.000 il numero dei combattenti dell’esercito di
Serse il Grande in questa circostanza

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CAPIRE DANIELE

nici, i siri, gli egiziani, i ciprioti, i cilici, i dori asiatici, i carii, gli ionii, gli eoli e gli
abitanti delle isole e dell’Ellesponto. Al seguito della flotta da battaglia naviga-
rono 3000 imbarcazioni da carico fra grandi e piccole per trasportare i cavalli e
le vettovaglie” (ibidem, VII. 89-97).
Come non scorgere la realizzazione storica della profezia - “solleverà tutti
contro il regno di Javan”- in questa forza poderosa e multietnica lanciata contro
le città libere della Grecia ? L’esito della spedizione fu disastroso per i Persiani,
come ci hanno tramandato gli storici antichi, ma questo andava al di là degli
scopi della profezia, perciò essa non vi accenna. Il riferimento iniziale ai re di
Persia era un elemento marginale della rivelazione; esso serviva solo da pream-
bolo agli sviluppi successivi.

3 Allora sorgerà un re potente, che eserciterà un gran dominio e


farà quel che vorrà.

In questo re potente (ebr. rOBiG \elm


e melek gibbor, “re guerriero”), in questo con-
quistatore e dominatore universale (“eserciterà un gran dominio”) e autocratico
(“farà quel che vorrà”) non è difficile scorgere in trasparenza la figura di Alessan-
dro Magno. Lasciati dunque da parte i re di Persia, il rivelatore passa al regno di
Grecia che ha già introdotto alla fine del versetto precedente.
Può suscitare perplessità questa transizione repentina dal tempo di Serse I
all’epoca di Alessandro il Macedone, sorvolandosi su 135 anni di storia persiana
nei quali 8 dinasti si succedettero sul trono degli Achenemidi: Artaserse I Longi-
mane (465-423 a.C.), Serse II (423), Sogdiano (423), Dario II Noto (423-405), Ar-
taserse II Memnone (405-359), Artaserse III Ocho (359-338), Arsete (438-436),
Dario III Codomano (336-330).
Ma a ben riflettere sulla condizione della Persia dopo Serse I, la circostanza
appare meno sorprendente di quanto non sembri a prima vista. Dopo le disa-
strose sconfitte di Salamina e di Platea nel 480 a.C. e nell’anno seguente, la Per-
sia non fu più quella di prima. Iniziò per essa un declino che venne accentuan-
dosi sotto i sovrani sempre più deboli e inetti che la governarono, fino al col-
lasso definitivo nel 330 a.C.
Può ben essere questa la ragione per la quale dopo Serse il Grande la Per-
sia esce dalla visuale profetica e ad essa subentra la Grecia che l’ha umiliata ed
ha spezzato per sempre ogni sua velleità di espansione territoriale.

4 Ma quando sarà sorto, il suo regno sarà infranto, e sarà diviso


verso i quattro venti del cielo; esso non apparterrà alla progenie di
lui, né avrà una potenza pari a quella che aveva lui; giacché il suo
regno sarà sradicato e passerà ad altri; non ai suoi eredi.

Sembra di poter cogliere nella laconicità di questa sentenza profetica una premo-
nizione sulla durata effimera dell’impero di Alessandro. In effetti questo si di-
sgregò una ventina d’anni dopo la morte prematura del suo fondatore, quando
quattro generali del Macedone se ne spartirono l’immenso territorio.

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CAPITOLO 11

Nel cap. 7 questa circostanza è stata anticipata con la figura di 4 teste sul
corpo di un leopardo che rappresentava appunto la Grecia, e nel cap. 8 col sim-
bolo di 4 corna spuntate sulla fronte di un capro (immagine dell’Impero mace-
done) dopo che era caduto un singolo grande corno (figura di Alessandro).
Nel cap. 11 tale evento è preannunciato per la terza volta e stavolta non più
in simboli ma con linguaggio chiaro: “il suo regno (il regno di Alessandro) sarà
infranto, e sarà diviso verso i quattro venti del cielo” (ritorna l’espressione “verso
i quattro venti del cielo” già apparsa in 8:8, cfr. il commento di 7:6 e di 8:20-22).
In 11:4 si sentenzia, come già era stato detto in 8:22 u.p., che i regni sorti dalla
disgregazione dell’impero non avrebbero avuto la forza di quello. In effetti nes-
suno dei regni ellenistici eguagliò mai l’impero unito sotto la guida di Alessandro
per la forza travolgente delle sue armate.
In questo versetto del cap. 11 compare un dettaglio riguardo al trapasso
della sovranità nell’impero greco che manca nella profezia parallela del capitolo
ottavo: si dice che il dominio passerebbe in altre mani e non in quelle dei diretti
discendenti del re potente mentovato nel versetto che precede. Fu esattamente
quello che avvenne nella Storia. Non il figlio di Alessandro, non il fratello raccol-
sero l’eredità del Macedone, ma i suoi generali.

5 E il re del mezzogiorno diventerà forte; ma uno dei suoi capi di-


venterà più forte di lui, e dominerà; e il suo dominio sarà potente.

Un ulteriore repentino cambio di scena si verifica nel panorama profetico. Si af-


facciano ora per la prima volta, alla ribalta della Storia, due nuove figure deno-
minate in modo generico “il re del mezzogiorno” l’una, e “il re del settentrione”
l’altra (nel versetto seguente): sono designazioni stereotipe di personaggi real-
mente comparsi nella storia.
Secondo un’interpretazione condivisa da un gran numero di commentatori,
sotto la prima designazione si nascondono i regnanti tolemaici che si succedet-
tero sul trono dell’Egitto (il “mezzogiorno”) fino a Tolomeo VII Fiscone, e sotto
la seconda i re seleucidi che regnarono sul trono di Siria (il “settentrione”) fino
ad Antioco IV Epifane. Tale interpretazione è stata rifiutata in tutto o in parte da
altri espositori.
Questo commentario da qui sino alla fine del capitolo si atterrà in linea di
massima all’esposizione del Seventh-day Adventist Bible Commentary e ad essa
farà seguire un’interpretazione alternativa in parte divergente.
“Il re del mezzogiorno”: questo riferimento spaziale (il mezzogiorno) e l’al-
tro contrapposto nel versetto seguente (il settentrione) sono determinati in rap-
porto alla posizione geografica della Palestina. Un testo sud-arabico (Glaser
1155) che informa su un conflitto tra la Persia e l’Egitto chiama rispettivamente
“signore del nord” e “signore del sud” i sovrani dei due paesi.
Il “re del mezzogiorno” a cui si fa riferimento in questo versetto è Tolomeo
I Lago soprannominato Soter (“salvatore”). Già generale di Alessandro poi sa-
trapo d’Egitto dalla morte del Macedone, Tolomeo assunse in proprio la reg-
genza di questo paese nel 306 a.C. e la tenne fino alla morte avvenuta nel 283.

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CAPIRE DANIELE

Egli fu il capostipite della dinastia dei Lagidi o tolemaica che governò l’Egitto
fino alla conquista romana nel 30 a.C.
“Uno dei suoi capi”, ebr. sarîm, “capi militari”: è Seleuco I Nicatore,
anch’egli generale di Alessandro. Costretto nel 316 da Antigono Monoftalmo (al-
tro comandante militare del gran re scomparso) a lasciare Babilonia dove si era
installato fin dal 321, Seleuco trovò amichevole accoglienza presso Tolomeo di
cui divenne un ufficiale subalterno. Nel 312, con l’appoggio di Tolomeo, Seleuco
sconfisse a Gaza Demetrio, figlio di Antigono. Poco tempo dopo riprese pos-
sesso della Babilonide e nel 305 si autoproclamò re di gran parte del settore
asiatico di quello che era stato lo sterminato impero di Alessandro.
“... ma uno dei suoi capi diventerà più forte di lui”. Il riferimento è ancora a
Seleuco Nicatore. Dopo avere consolidato il suo dominio sui territori dell’Est, ef-
fettivamente Seleuco divenne più forte di Tolomeo. Secondo lo storico Arriano,
Seleuco Nicatore fu “il più grande dei re che succedettero ad Alessandro, fu la
mente più sagace e regnò sul territorio più vasto dopo quello di Alessandro”434.
Alla sua morte avvenuta nel 280 a.C., i domìni sui quali egli aveva regnato si
estendevano dall’Ellesponto fino al nord dell’India.

6 E alla fine di vari anni, essi faranno lega assieme; e la figliuola del
re del mezzogiorno verrà al re del settentrione per fare un accordo;
ma essa non potrà conservare la forza del proprio braccio, né que-
gli e il suo braccio potranno resistere; e lei e quelli che l’hanno con-
dotta, e colui che l’ha generata, e colui che l’ha sostenuta per un
tempo, saran dati alla morte.

“E alla fine di vari anni...”, ebraico: {yén$ : U ûlqetz shanîm, letteralmente: “e al


f j"ql
termine di anni”. Dopo la scomparsa di Seleuco I Nicatore nel 281 a.C., Egitto e
Siria vennero a conflitto per il controllo della Celesiria, una regione fra il Libano
e l’Antilibano (l’odierna Valle della Beqa). La guerra fra Tolomeo II Filadelfo e
Antioco I Sotere cominciò nel 275 e finì nel 272 con la vittoria delle forze egi-
ziane. Così la Celesiria e le coste mediterranee della penisola anatolica passa-
rono sotto la sovranità dell’Egitto. Qualche tempo dopo però Antioco II Theo, fi-
glio e successore di Antioco I, occupò le città e i porti mediterranei dell’Anatolia.
“... e la figliola del re del mezzogiorno verrà al re del settentrione per fare
una lega...” Per la prima volta compare in Dn 11 l’espressione “il re del setten-
trione”, qui riferita, secondo il nostro parere, ad Antioco II Theo. Tolomeo II,
oramai avanti negli anni, per prevenire un ulteriore colpo di mano del suo av-
versario sulla Celesiria, pensò bene di accordarsi con lui. La pace fra i due so-
vrani fu suggellata da un matrimonio di Stato. Berenice, figlia di Tolomeo Fila-
delfo (“il re del mezzogiorno”) andò in sposa ad Antioco Theo dopo che questi
ebbe ripudiato la prima moglie (e sorella) Laodice ed escluso dalla successione
al trono il primogenito di lei Seleuco.

434 - Anabasi di Alessandro, VII. 22, da S.D.A. Bible Commentary, vol. VII, p. 866.

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CAPITOLO 11

“... ma essa non potrà conservare la forza del proprio braccio...” (ebr.: (a OrºZh a
x a -)olwº welo’ ta‘tzor kôach hazzerôa‘, “ma ella non riterrà la forza del suo
a OK roc(: t
braccio...”). Dopo che nacque un figlio alla nuova coppia ci fu una riconcilia-
zione fra Antioco e Laodice. In seguito Antioco morì repentinamente, sembra av-
velenato da Laodice.
“... né quegli né il suo braccio potranno resistere...” (ebr.: O(orzº U dom(A yá )olwº
welo’ ya’amod uzro‘ô, letteralmente: “e non resisterà il suo braccio...”. Varie ver-
sioni antiche (Teodozione, Simmaco, Vulgata) con un semplice cambio di vocali
hanno letto: “e non sussisterà il suo seme”, ovvero la sua discendenza435. Sta di
fatto che Laodice, dopo la morte di Antioco, fece assassinare il figlio nato da
quest’ultimo e da Berenice.
“... e lei, e quelli che l’hanno condotta, e colui che l’ha generata; e colui
che l’ha sostenuta per un tempo saran dati alla morte” (ebr.: {yiT(i B f Hfqzé x
A m
a U Hfdl
: oYh
a wº
fhye)yib:mU )yih }"tæNitºw wethinnathen hi’ umvî’eyhâ wehayyoldah umachaziqâh
ba‘iththîm, lett.: “e sarà data (a morte) lei e il suo seguito e il suo genitore e co-
lui che l’avrà sostenuta in quel tempo”). Laodice fece mettere a morte la rivale
Berenice e con lei il figlio e le ancelle che l’avevano seguita in Siria. La parola
ebraica yoldah secondo la tradizione masoretica significa “colui che l’ha gene-
rata”. Tolomeo II morì in Egitto dopo gli eventi funesti accaduti in Siria. Non si
capisce perché la sua fine sia fatta risalire a Laodice. Un semplice cambio di vo-
cali consentirebbe di leggere il termine ebraico: “colui che ella ha generato”.
Così traducono varie versioni moderne. Per esempio la TOB: “son enfant”, la
Concordata: “suo figlio”, la CEI: “il figlio”.
La frase finale: “colui che l’ha sostenuta in quel tempo”, si riferisce probabil-
mente ad Antioco Theo.
La seconda parte del versetto nel testo della CEI ci sembra più chiara che in
altre versioni: “... e non resisterà né lei né la sua discendenza e sarà condannata
a morte insieme coi suoi seguaci, il figlio e il marito”. In definitiva il passo dice
che per volere di Laodice sarebbero periti Berenice, il suo seguito egiziano, suo
figlio e suo marito.

7 E uno de’ rampolli delle sue radici sorgerà a prendere il posto di


quello; esso verrà all’esercito, entrerà nelle fortezze del re di setten-
trione, verrà alle prese con quelli, e rimarrà vittorioso;

L’ebraico dice lett.: “Sorgerà un germoglio dalle sue radici al posto suo...” (ONaK
h
f ye$r
f $ i dam(f wº we‘amad minnetzer sharasheyah kannô...).
f recN¢ m
Il “germoglio” è Tolomeo III Evergete figlio di Tolomeo II Filadelfo (“dalle
sue radici”) e fratello della assassinata Berenice.
“...verrà all’esercito (cioè marcerà contro l’esercito), entrerà nelle fortezze
del re del settentrione...” Salito al trono d’Egitto alla morte del padre nel 246

435 - Cfr. G.RINALDI, op. cit., apparato critico a p. 142.

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CAPIRE DANIELE

a.C., Tolomeo III si precipitò con le sue truppe in Siria per salvare la sorella, ma
vi giunse troppo tardi. Per vendicarla scorrazzò attraverso i vasti territori del re-
gno seleucida, si spinse fino a Babilonia e nella Battriana, occupò la Cilicia e la
città di Seleucia (la “fortezza del re del settentrione”, identificato col giovane Se-
leuco II Callinico figlio di Laodice e di Antioco II Theo).

8 e menerà anche in cattività in Egitto i loro dèi, con le loro immagini


fuse e coi loro preziosi arredi d’argento e d’oro; e per vari anni si
terrà lungi dal re del settentrione.

La menzione dell’Egitto chiarisce al di là di ogni dubbio quale sia il paese dove


regna il re del mezzogiorno. Tolomeo Evergete rientrò in Egitto con un vistoso
bottino: vi figuravano anche le statue dei faraoni ricuperate in Babilonia dove le
avevano portate i Persiani.
Il Decreto di Canopo (239/238 a.C.) così loda Tolomeo III. “E le sacre im-
magini che i persiani avevano portato via dal paese il re ricuperò, avendo egli
condotto una spedizione in terra straniera, e le riportò in Egitto e le rimise nei
templi dai quali ognuna di esse era stata trafugata”436.
Scrive Girolamo nel suo commentario che Tolomeo III “saccheggiò il regno
di Seleuco e ne asportò quarantamila talenti d’argento oltre a duemilacinque-
cento vasi preziosi e statue di dèi, fra cui si trovavano anche quei pezzi che
Cambise dopo la conquista dell’Egitto aveva portato in Persia” (su Dn 11:7).
“...e per vari anni si terrà lungi dal re del settentrione”, più chiara la ver-
sione della C.E.I.:”... per qualche anno si asterrà dal contendere col re del setten-
trione”. Negli ultimi anni di regno (morì nel 221 a.C.) Tolomeo III non fu impe-
gnato in attività belliche di una qualche importanza.

9 E questi marcerà contro il re del mezzogiorno, ma tornerà nel pro-


prio paese.

“Questi” è il re del settentrione, Seleuco II Callinico. Ristabilita la propria autorità


sulle terre del suo vasto regno che si erano sottomesse a Tolomeo Evergete, il
Callinico intorno al 242 marciò contro l’Egitto puntando su una rivincita per ricu-
perare i tesori perduti ed il prestigio compromesso, ma sconfitto da Tolomeo III
dovette tornarsene in Siria a mani vuote.

10 E i suoi figliuoli entreranno in guerra, e raduneranno una moltitu-


dine di grandi forze; l’un d’essi si farà avanti, si spanderà come un
torrente, e passerà oltre; poi tornerà e spingerà le ostilità sino alla
fortezza del re del mezzogiorno.

436 - J.P.MAHAFFY, A History of Egypt Under the Ptolemaic Dynasty, New York, 1899, p. 13, cit.
in S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 867).

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CAPITOLO 11

“... i suoi figlioli”, vale a dire i due figli di Seleuco II Callinico, Seleuco III Ce-
rauno e Antioco III il Grande. Alla morte di Seleuco II nel 226, gli succedette il
figlio maggiore Seleuco III il quale però non regnò che per pochi anni, essendo
stato ucciso nel 229 mentre accorreva in Asia Minore per difendere i suoi posse-
dimenti minacciati da Attalo re di Pergamo.
“... l’un d’essi si farà avanti, si spanderà come un torrente e passerà oltre...”.
Costui è Antioco III succeduto al fratello Seleuco III. Nel 219 Antioco III iniziò le
ostilità a sud della Siria. Occupò la Celesiria, assediò Sidone e invase la Palestina
passando successivamente in Transgiordania.
“... e spingerà le ostilità sino alla fortezza del re del mezzogiorno. Nel 217
Antioco il Grande alla testa di un esercito di 60.000 fanti, 6.000 cavalieri e 102
elefanti secondo lo storico Polibio marciò su Rafia, a sud-ovest di Gaza (“la for-
tezza del re del mezzogiorno”).

11 Il re del mezzogiorno s’inasprirà, si farà innanzi e muoverà


guerra a lui, al re del settentrione, il quale arruolerà una gran molti-
tudine; ma quella moltitudine sarà data in mano del re del mezzo-
giorno. 12 La moltitudine sarà portata via, e il cuore di lui s’inorgo-
glirà; ma, per quanto ne abbia abbattuto delle decine di migliaia,
non sarà per questo più forte.

Presso Rafia Tolomeo IV Filopatore (“il re del mezzogiorno”), succeduto al padre


Tolomeo III nel 221, attendeva Antioco con un esercito forte di 70.000 fanti,
5.000 cavalieri e 73 elefanti. La battaglia fu aspra e terminò con una vittoria stre-
pitosa delle forze egiziane. Antioco si ritirò lasciando sul terreno, al dire di Poli-
bio, 10.000 fanti, 300 cavalieri e 5 elefanti, e nelle mani degli egizi 400 prigio-
nieri (“la moltitudine portata via”).
“... il cuore di lui s’inorgoglirà, ma per quanto ne abbia abbattuti delle die-
cine di migliaia, non sarà per questo più forte”. Il dissoluto e indolente Tolomeo
Filopatore mancò di cogliere sino in fondo i frutti della vittoria di Rafia, come
avrebbe potuto e dovuto fare. Se avesse inseguito i nemici in fuga molto proba-
bilmente li avrebbe sgominati e avrebbe anche potuto catturare Antioco. Ma si
ritenne pago del risultato conseguito sul campo di battaglia e se ne tornò in
Egitto gonfio d’orgoglio.

13 E il re del settentrione arruolerà di nuovo una moltitudine più nu-


merosa della prima; e in capo ad un certo numero d’anni egli si farà
avanti con un grosso esercito e con molto materiale.

Fra gli anni 212 e 204 Antioco III dedicò le sue energie al ricupero dei territori
orientali che a seguito della fortunata campagna militare di Tolomeo III (vedi v.
8), erano passati sotto la sovranità dell’Egitto. Antioco portò le sue truppe fino ai
confini dell’India (gli storici antichi hanno chiamato “Anabasi” questa spedizione
del Seleucide nell’Oriente durata 6 o 7 anni).
Conclusa con successo questa campagna nell’est, Antioco III preparò con

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CAPIRE DANIELE

gran cura una nuova spedizione contro l’Egitto. Intorno al 203 a.C. il re Tolomeo
IV e la regina perirono misteriosamente e sul trono dei Làgidi fu posto il loro fi-
glioletto di 5 o 6 anni, Tolomeo V Epifane. Antioco stimò che fosse il momento
giusto per una nuova offensiva al sud.
“... in capo a un certo numero d’anni...”: probabilmente è un riferimento ai
16 anni circa (217-201) che trascorsero tra la disastrosa battaglia di Rafia e la se-
conda spedizione contro l’Egitto.

14 E in quel tempo molti insorgeranno contro il re del mezzogiorno; e


degli uomini violenti di fra il tuo popolo insorgeranno per dar com-
pimento alla visione, ma cadranno.

Da questo punto le interpretazioni sul cap. 11 di Daniele, fin qui convergenti,


cominciano a divergere, anche notevolmente. Un certo numero di commentatori
stima che nei vv. 14-45 si riflettano ancora le vicende dei re seleucidi e làgidi, al-
tri pensano che dal v. 14 fino al 35 siano di scena Roma imperiale e la Chiesa
cristiana.
“Numerosi commentatori qui o più avanti in questo capitolo vedono riferi-
menti ad Antioco IV, che regnò fra il 176 e il 164 a.C., e alla crisi nazionale giu-
daica che la sua politica di ellenizzazione forzata fece esplodere. È di certo un
fatto storico innegabile che il tentativo di Antioco di costringere i Giudei a rinne-
gare la religione e la cultura nazionali per adottare la religione, la cultura e la lin-
gua dei Greci, costituì l’evento più significativo della storia giudaica del periodo
intertestamentale.
“La minaccia rappresentata dalla politica di Antioco Epifane pose i Giudei
di fronte ad una crisi paragonabile a quelle causate dal faraone, da Sennacherib,
da Nabucodonosor, da Haman e da Tito. Durante il suo breve regno di 12 anni,
poco mancò che Antioco estinguesse la religione e la cultura giudaiche. Spogliò
il santuario dei suoi tesori, saccheggiò Gerusalemme, lasciò in rovine la città e le
sue mura, massacrò migliaia di giudei e altri ne condusse in esilio come schiavi.
Un editto reale impose ad essi l’abbandono di tutti i riti della loro religione per
vivere da pagani. Furono costretti ad accogliere altari pagani nelle loro città e ad
offrire su di essi carne di porco, nonché a consegnare tutte le copie delle loro
scritture sacre per essere fatte a pezzi e bruciate. Antioco pose anche un idolo
sull’altare del tempio in Gerusalemme e offrì sopra di esso carne di maiale.
“Parve farsi labile, negli anni in cui fu promossa questa politica, la prospet-
tiva di una sopravvivenza della religione giudaica e degli stessi Giudei come po-
polo con una sua propria identità nazionale.
“Finalmente i Giudei insorsero e cacciarono dalla Giudea le forze di An-
tioco. Riuscirono persino a respingere un esercito che Antioco aveva spedito in
Palestina col compito specifico di sterminarli.
Di nuovo liberi dalla sua mano oppressiva, essi restaurarono il tempio, vi
misero un nuovo altare e ricominciarono ad offrire il sacrificio. Avendo stretto al-
leanza con Roma alcuni anni dopo (161 a.C.), i Giudei godettero per circa un se-
colo un’indipendenza e una prosperità relative sotto la protezione romana, fin-

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CAPITOLO 11

ché la Giudea non divenne provincia di Roma nel 63 a.C.


Coloro che sostengono che Antioco Epifane sia menzionato nei vv. 14 e 15,
identificano negli ‘uomini violenti’ quei giudei che tradirono i loro connazionali
e collaborarono con Antioco per attuare la sua politica ed eseguire i suoi decreti
crudeli e blasfemi437. “E’ possibile che nel cap. 11 ci siano riferimenti alla crisi
provocata dalla politica di Antioco Epifane, per quanto le opinioni divergano
considerevolmente riguardo alla parte della profezia in cui si dà notizia di lui. Ri-
conoscere che nel cap. 11 ci siano riferimenti ad Antioco Epifane non implica
comunque che si consideri questo personaggio protagonista dei fatti anticipati
nelle profezie dei capitoli 7 e 8, più di quanto non lo richieda la menzione di al-
tri re seleucidi”438.
Sugli “uomini violenti di fra il tuo popolo” (letteralmente “i figli dei demoli-
tori del tuo popolo”) l’opera citata osserva: “L’espressione può comprendersi in
senso soggettivo, ‘i figli dei violenti fra il tuo popolo’ (...). Così intesa essa si rife-
rirebbe a quei giudei che presero occasione dai conflitti internazionali per pro-
muovere i loro interessi nazionali, anche travalicando i limiti della legalità pur di
raggiungere i loro fini.
Se invece si prende la frase in senso oggettivo, il passo può significare: ‘co-
loro che agiscono con violenza contro il tuo popolo’. Nell’espressione intesa in
questo modo si è visto un riferimento ai Romani i quali nel 63 a.C. privarono i
Giudei dell’indipendenza, e in seguito (nel 70 e nel 135 d.C.) distrussero il Tem-
pio e la città di Gerusalemme. In effetti fu durante il regno di Antioco III (vedi
su 10-13) che i Romani, intervenuti in Oriente per tutelare gli interessi dei loro
alleati (Pergamo, Rodi, Atene ed Egitto), fecero sentire il loro peso sulle politiche
della Siria e dell’Egitto”.

15 E il re del settentrione verrà; innalzerà de’ bastioni, e s’impadro-


nirà di una città fortificata; e né le forze del mezzogiorno, né le
truppe scelte avran la forza di resistere.

Prosegue la descrizione - iniziata nel v. 13 - della seconda campagna di Antioco


III in Palestina. La “città fortificata” (tOrfcb i ryi( ‘îr mivtzarôth, lett.: “una città di
: m
fortificazioni”) è probabilmente Gaza.
Occupata la Celesiria nel 202, Antioco espugnò questa città fortificata nel
201 dopo un prolungato assedio.
Secondo altri espositori la “città fortificata” sarebbe Sidon, che nel corso di
questa stessa campagna Antioco III assediò mettendo alla strette l’esercito egizio
che vi si era asserragliato, costringendolo alla resa.

437 - Per informazioni più particolareggiate sulle esperienze dolorose dei giudei in quegli anni
infausti, vedi I Maccabei 1 e 2 e GIUSEPPE FLAVIO, Antichità, XII, 6,7; Guerre, I, 1.
438 - S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 868-869.

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16 E quegli che sarà venuto contro di lui farà ciò che gli piacerà, non
essendovi chi possa stargli a fronte; e si fermerà nel paese splen-
dido, il quale sarà interamente in suo potere.

Da questo punto in avanti, si farà seguire all’interpretazione esposta nel com-


mentario avventista (S.D.A. Bible Commentary) la spiegazione condivisa dalla
maggior parte degli autori moderati e conservatori.
I commentatori che scorgono Roma già nel v. 14, ritengono che la conqui-
sta della Palestina a cui fa riferimento questo versetto sia l’occupazione romana
ad opera di Pompeo nel 63 a.C. Intromettendosi nella lite tra i fratelli asmonei Ir-
cano e Aristobulo per la successione al trono di Giudea, il generale romano
scese a Gerusalemme dalla Siria e dopo 3 mesi di assedio costrinse alla resa i di-
fensori giudei che si erano asserragliati entro le fortificazioni del Tempio. Fu in
quell’occasione, secondo Giuseppe Flavio (Antichità XIV. 4,4), che Pompeo sol-
levò il velo tra il Santo e il Santissimo per scoprire quale segreto si nascondesse
dietro di esso.

Interpretazione corrente. “Quegli che sarà venuto contro di lui” sarebbe


sempre Antioco III. Passato in Asia minore nel 201, dopo avere conquistato
Gaza, per combattere contro Attalo III re di Pergamo, Antioco dovette tornare
verso la Celesiria minacciata da un esercito egiziano agli ordini del generale Sco-
pas. Lo scontro fra Siri ed Egiziani avvenne al Panion presso le sorgenti del Gior-
dano, e fu disastroso per le forze di Scopas che furono sbaragliate. Così la Pale-
stina, “il paese splendido”, passò sotto la sovranità di Antioco III.

17 Egli si proporrà di venire con le forze di tutto il suo regno, ma


farà un accomodamento col re del mezzogiorno; e gli darà la fi-
gliuola per distruggergli il regno; ma il piano non riuscirà, e il paese
non gli apparterrà.

Il termine ebr. {yir$ f yi w wîsharîm, tradotto “farà un accomodamento” (Luzzi), “sti-


pulerà un’alleanza” (CEI), “farà accordi” (Concordata) rende alquanto oscura la
frase (ebr. hf&(f wº OMi( {yir$ f yéw wîsharîm ‘immô we‘âsâh, lett.: “ma equi con lui
farà”). Le versioni considerano wîsharîm equivalente a mêsharîm, “equità”, “inte-
grità”, “rettitudine”.
Nel v. 6 mêsharîm indica un accordo equo fra il re del nord e il re del sud. Se
nel v. 17 mêsharîm è la lettura corretta, potrebbe esservi un riferimento alla ri-
chiesta fatta da Tolomeo XI Aulete in punto di morte, nel 51 a.C., di porre i suoi
due figli, Cleopatra e Tolomeo XII, sotto la tutela di Roma.
L’espressione inconsueta {yi$Næ h a tab bath hannashîm, “figlia di donne”, se-
condo il S.D.A. Bible Commentary, enfatizza probabilmente la femminilità della
donna di cui si sta parlando. Vari commentatori hanno applicato questa espres-
sione alla figlia dell’Aulete. Tre anni dopo la morte del padre, Cleopatra divenne
amante di Giulio Cesare che nel frattempo aveva invaso l’Egitto.
Dopo l’assassinio di Cesare, Cleopatra si legò a Marcantonio, il rivale di Ot-

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CAPITOLO 11

taviano ed erede di Giulio Cesare. Nel 31 a.C. Ottaviano sconfisse ad Azio le


forze navali congiunte di Marcantonio e Cleopatra. Dopo la morte di Marcanto-
nio, Cleopatra, avendo invano tentato di sedurre Ottaviano, si tolse la vita.
Con la sua scomparsa nel 30 a.C. si estinse la dinastia tolemaica e l’Egitto
divenne provincia romana. Il S.D.A. Bible Commentary osserva che la condotta
stravagante di Cleopatra collima con la descrizione fatta nell’ultima parte di que-
sto versetto. A Cleopatra interessavano di più le sue finalità politiche che non
Giulio Cesare o Marcantonio.

Interpretazione corrente. Il protagonista della vicenda narrata nel v. 17 -


il re del nord - sarebbe ancora Antioco III. Roma esercitava oramai la sua in-
fluenza sulla politica degli stati orientali. Antioco, allo scopo di sistemare definiti-
vamente l’annosa questione della Celesiria senza offrire a Roma un pretesto per
intervenire in difesa dell’alleato egiziano, pensò di combinare un matrimonio di
stato fra sua figlia Cleopatra, detta la Sira, e il giovane Tolomeo V Epifane, certo
anche con l’intenzione di spadroneggiare in Egitto. Il fastoso matrimonio si cele-
brò a Rafia nel 194 a.C.
Ma il piano di Antioco rimase frustrato poiché Cleopatra svolse in pieno il
suo ruolo di regina d’Egitto. Inoltre, avendo ella ricevuto in dote la Celesiria, To-
lomeo ebbe un motivo ineccepibile per rivendicarne il possesso.

18Poi si dirigerà verso le isole, e ne prenderà molte; ma un generale


farà cessare l’obbrobrio ch’ei voleva infliggergli, e lo farà ricadere
addosso a lui.

Le “isole” (ebr. {yéY)


i ’iyyîm, “terre marittime”, “litorali”), verso le quali si volgerà il
re del nord, sono identificabili con le coste mediterranee dell’Africa lungo le
quali fu sconfitto il partito di Pompeo.
Frattanto Giulio Cesare, che eventi turbolenti nei possedimenti orientali di
Roma avevano richiamato dall’Egitto, combatté vittoriosamente contro Farnace re
dei Cimmèri. In lui si identifica il }yicqf qatzîn (“comandante militare”, come in Gs
10:24), che fa cessare “l’obbrobrio”, o meglio “l’arroganza” come traducono ver-
sioni più recenti.
Interpretazione corrente. Antioco III, dopo che i Romani ebbero scon-
fitto la Macedonia nel 197 a.C., occupò alcune città costiere dell’Asia Minore (le
isole), già possedimenti macedoni, e passò in Grecia per tentare di arrestare
l’avanzata romana. Battuto da Marco Porcio Catone si ritirò in Asia Minore. Quivi
nel 190 lo raggiunse il console Lucio Cornelio Scipione, detto l’Asiatico (il “gene-
rale”, ebr. qas–n), e gli inflisse una disastrosa sconfitta.

19 Poi il re si dirigerà verso le fortezze del proprio paese; ma in-


ciamperà, cadrà, e non lo si troverà più.

Nella caduta e scomparsa del re del nord si ravvisa la morte violenta di Giulio
Cesare avvenuta nel marzo del 44 a.C.

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Interpretazione corrente. Come avveniva quasi sempre quando una forte


nazione subiva una dura sconfitta, le province tributarie dell’Est si ribellavano
contro la sovranità della Siria. “Antioco non si perse d’animo. Partito contro le
province ribelli, con la speranza anche di raccogliere denaro per far fronte all’in-
dennità da pagare, volle impadronirsi delle ricchezze custodite in un tempio di
Bel in Elimaide, ma ivi fu ucciso dagli abitanti insorti a difesa del luogo
sacro”439. Tale fu la fine ingloriosa di Antioco III, che pure era stato un monarca
energico e risoluto.

20 Poi, in luogo di lui, sorgerà uno che farà passare un esattore di


tributi attraverso il paese che è la gloria del regno; ma in pochi
giorni sarà distrutto, non nell’ira, né in battaglia.

“...un esattore di tributi...” Il S.D.A. Bible Commentary spiega: “ebr. &" gOn ryib(A m
a
ma‘avîr noges, lett. ‘uno che fa circolare un oppressore’. Il participio noges, dal
verbo nagas, ‘opprimere’, ‘riscuotere’, è usato in Es 3:7 a proposito degli ‘anga-
riatori’ egiziani, e in Is 9:4 è riferito ad oppressori stranieri.
Il passo allude pertanto a un re che avrebbe mandato degli oppressori o
esattori attraverso i suoi domìni. Molti espositori hanno scorto qui un riferimento
a un esattore di tributi, una figura che all’uomo medio antico appariva come l’in-
carnazione dell’oppressione regia. In Lc 2:1 si dice che ‘in quei dì avvenne che
un decreto uscì da parte di Cesare Augusto, che si facesse un censimento di
tutto l’impero...’ Ad Augusto, successore di Giulio Cesare, si attribuisce la fonda-
zione dell’Impero romano; egli morì in pace nel proprio letto nel 14 a.D. dopo
più di 40 anni di regno”440.

Interpretazione corrente. Il successore di Antioco III, suo figlio, Seleuco


IV Filopatore (187-175) ereditò col trono l’incubo del pagamento a Roma delle
annualità di quell’indennità di guerra che suo padre aveva dovuto sottoscrivere
ad Apamea nel 188.
Assillato dalla necessità di raccogliere danaro, Seleuco spedì a Gerusa-
lemme il suo ministro delle finanze Eliodoro, con l’incarico di prelevare il tesoro
del Tempio. Dice il II libro dei Maccabei (3:24-27) che una straordinaria manife-
stazione divina impedì a Eliodoro e agli uomini del suo seguito di eseguire gli
ordini del re. Tornato in Siria Eliodoro complottò contro Seleuco e lo assassinò
col proposito di impadronirsi del trono.

21 Poi, in luogo suo, sorgerà un uomo spregevole, a cui non sarà


stata conferita la maestà reale; ma verrà senza rumore, e s’impa-
dronirà del regno a forza di lusinghe.

439 - G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, par. 40.


440 - Vol. IV, p. 870.

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CAPITOLO 11

“... un uomo spregevole...”, cioè un individuo che sarà oggetto di di-


sprezzo… Ad Augusto succedette Tiberio (14-37) sul trono imperiale. Alcuni sto-
rici sostengono che ci fu da parte di Svetonio, Seneca e Tacito un deliberato ten-
tativo di appannare l’immagine di Tiberio. Non ci sono dubbi che questi scrittori
latini calcarono la mano parlando di Tiberio, nondimeno esistono sufficienti in-
dizi per affermare che Tiberio fu un individuo eccentrico e poco amato.
“... a cui non sarà stata conferita la maestà...” L’ebraico è reso meglio se si
traduce il tempo verbale al passato. Probabilmente c’è qui un riferimento al non
diritto alla successione sul trono imperiale da parte di Tiberio, essendo costui di-
venuto figlio di Augusto per adozione ed essendo stato nominato erede al trono
imperiale a mezza età.
“... senza rumore ...”, ossia pacificamente. Tiberio assunse il trono pacifica-
mente alla morte di Augusto. Figliastro del suo predecessore, la sua elevazione
alla dignità imperiale fu dovuta in gran parte agli intrighi di sua madre Livia.

Interpretazione corrente. Antioco III, in ottemperanza alle clausole della


pace di Apamea, dovette consegnare ai Romani 20 ostaggi fra i quali figurava il
suo secondogenito Antioco IV. Il successore di Antioco III, Seleuco IV, poco
tempo prima di perire per mano del suo ministro delle finanze, procedette ad un
cambio degli ostaggi secondo i patti che erano stati concordati coi Romani da
suo padre: richiamò in Siria il fratello e ottenne di mandare a Roma in sua vece
il proprio figlioletto Demetrio. Sulla nave che lo riportava in patria, Antioco ebbe
sentore dell’assassinio di suo fratello. Rientrato in Siria, si mise subito all’opera
per sbarrare a Eliodoro la strada verso il trono. Con l’appoggio di Roma e di Per-
gamo, ebbe rapidamente ragione dell’avversario e assunse il potere regio senza
curarsi dei diritti legittimi dei nipoti Demetrio e Antioco.

22 E le forze che inonderanno il paese saranno sommerse davanti a


lui, saranno infrante, come pure un capo dell’alleanza.

“...le forze che inonderanno...”, ebr. ve+< a tO(orzº U ûzero’ôth hashshettef, lett. “le
e h
braccia dell’inondazione”. “Braccia” esprime il concetto di “forza”, e in questo
passo in particolare della forza militare (cfr. i vv. 6 e 15).
E’ l’immagine di un esercito che si spande a guisa di un fiume che straripa
(cfr. 9:26). Tiberio condusse vittoriosamente varie campagne militari in Germa-
nia, e nell’Oriente sulle frontiere dell’Armenia e della Partia.
“... un capo dell’alleanza”, tyir:B dyigºn negîd berîth, “un principe dell’al-
leanza”. È identico al Principe (nagîd) che confermerà il patto (berith) in 9:25-27
(cfr. 8:11). È chiaro dal cap. 9 che si tratta del Messia, Gesù Cristo. Fu sotto il re-
gno di Tiberio (14-37 a.D.) e sotto il governo del suo procuratore in Giudea
Ponzio Pilato, che Gesù subì il supplizio della croce nell’anno 31.

Interpretazione corrente. Intorno al 173 morì in Egitto Cleopatra la Sira


che aveva retto il trono per il figlio minorenne Tolomeo VI Filometore. Poco
tempo dopo l’insediamento di costui sul trono dei Làgidi, tornò d’attualità in

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CAPIRE DANIELE

Egitto la questione della Celesiria. Per prevenire un attacco egiziano, Antioco IV


scese in Palestina con l’esercito, ma non proseguì oltre. Nel 169 però le truppe
egiziane varcarono minacciosamente il confine. Antioco, che si era garantita la
neutralità di Roma - allora impegnata nella guerra contro Perseo in Macedonia -
mosse contro l’esercito egizio, lo impegnò in battaglia alla frontiera e lo scon-
fisse occupando poi Pelusio e il Delta e facendo prigioniero lo stesso Tolomeo
VI441. Il “principe dell’alleanza” è identificato col sommo sacerdote Onia III de-
posto dall’Epifane nel 175 e mandato in esilio in Antiochia, poi a Dafne, sob-
borgo di questa città, dove in seguito venne assassinato.

23 E, nonostante la lega fatta con quest’ultimo, agirà con frode, sa-


lirà, e diverrà vittorioso con poca gente.

Qualche commentatore ha avanzato l’ipotesi che in questo punto Daniele retro-


ceda nel tempo e si riferisca alla lega di mutua amicizia e assistenza stipulata nel
161 a.C. tra Romani e Giudei442.
Si è presunto che l’espressione ebraica del v. 24 tradotta “per un tempo” in-
dichi un “tempo” profetico di 360 anni. Altri espositori che si sono attenuti alla
continuità cronologica della profezia di Dn 11, hanno ravvisato qui un riferi-
mento alla politica romana di stringere patti di mutua assistenza (come si di-
rebbe oggi), come la lega stipulata nel 161 a.C. coi Giudei.
In forza di simili patti i Romani riconoscevano ai partners lo status di “al-
leati” e presumibilmente le clausole comprendevano la protezione reciproca e la
promozione dei mutui interessi. Roma si mostrava così nel ruolo di amica e pro-
tettrice, in realtà però dietro questa facciata si nascondeva la sua vera intenzione,
che era quella di agire “con frode” per volgere a proprio vantaggio gli accordi
del patto. Spesso essa faceva pesare sugli alleati il costo delle conquiste e di re-
gola ne riserbava per sé i benefici. E come atto finale, gli alleati venivano assor-
biti nell’Impero.

Interpretazione corrente. Sarebbero qui descritti gli intrighi di Antioco


Epifane per consolidare il suo dominio sui Giudei. Con lusinghe e promesse
quest’uomo astuto e cinico trasse dalla sua parte gruppi di giudei filo-ellenisti e per-
sone che contavano in Gerusalemme, in particolare un certo Giasone che ottenne il
suo appoggio per impadronirsi del sommo sacerdozio (cfr. 1Maccabei 4:7).

24 E, senza rumore, invaderà le parti più grasse della provincia, e


farà quello che non fecero mai né i suoi padri, né i padri dei suoi
padri: distribuirà bottino, spoglie e beni e mediterà progetti contro
le fortezze; questo, per un certo tempo.

441 - Cfr. G.RICCIOTTI, Storia d’Israele, vol. II, par. 43.


442 - Cfr. GIUSEPPE FLAVIO, Antichità, X. 10,6.

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CAPITOLO 11

“...per un certo tempo...”, ebr. t"(-da( ‘ad ‘eth, “fino ad un tempo...”. L’espressione
denota un limite di tempo al di là del quale cesserebbero gli espedienti messi in
atto dal potere qui descritto. Il vocabolo ‘eth non sembra riferirsi ad un periodo
temporale specifico o a un arco di tempo profetico. In 4:16 e in 7:25 il termine
tradotto “tempi” è l’aramaico ‘iddanin, e in 12:7 “tempi” traduce l’ebraico
mo‘adîm. La frase ‘ad ‘eth sembra designare un momento indeterminato del fu-
turo rispetto a chi scrive. Il potere malvagio, insomma, avrebbe agito finché non
fosse pervenuto al limite stabilito da Dio (vedi 11:27; cfr. 12:1).
Gli autori che attribuiscono valore profetico al termine “tempo” (‘eth) in
questo versetto, ravvisano nelle vicende in esso narrate un riferimento al periodo
storico durante il quale Roma fu il centro politico e amministrativo dell’Impero.
Essi ritengono che alla vittoria di Ottaviano su Marcantonio e Cleopatra ad Azio
nell’anno 31 seguì l’inizio dell’ascesa di Roma verso l’età imperiale.
Procedendo in avanti di 360 anni (l’equivalente del “tempo” profetico) a de-
correre da questa data, si perviene all’anno 330 a.D. quando la capitale dell’Im-
pero fu spostata da Roma a Bisanzio, chiamata poi Costantinopoli. Altri esposi-
tori scorgono in questo versetto un riferimento alla politica di Roma verso le
terre conquistate e annesse all’Impero. È noto dalla storia che i conquistatori ro-
mani solevano distribuire con prodigalità il bottino di guerra ai nobili e agli uffi-
ciali dell’esercito, e che ai combattenti vittoriosi assegnavano terreni nelle regioni
conquistate.
“Fino ad un tempo” - un tempo considerevolmente lungo - non ci fu “for-
tezza” che poté resistere alla pressione delle invincibili legioni di Roma.

Interpretazione corrente. La “provincia” delle cui parti “più grasse” (più


fertili) il re del nord s’impadronirebbe, secondo alcuni autori sarebbe la Giudea,
secondo altri, che si appellano a 1Maccabei 3:30, sarebbe la Perside, a oriente
della Mesopotamia. Alla stregua di tutti i conquistatori, Antioco spogliò i territori
dei quali si impadronì, ma a differenza dei suoi predecessori (“i padri e i padri
dei suoi padri”) egli non usò le ricchezze saccheggiate per circondarsi di fasto,
come era comune fra i monarchi orientali dopo ogni guerra vittoriosa. L’Epifane,
invece, distribuì generosamente il bottino di guerra ai suoi amici e sostenitori e
anche ai templi e alle città per comprarsene l’appoggio e l’adulazione.
Tra le “fortezze” contro le quali il re del settentrione medita progetti - os-
serva H.C.Leupold - si può annoverare Pelusio nella quale Antioco insediò una
guarnigione militare per mantenere aperte le frontiere d’Egitto ond’egli avesse li-
bertà di tornarvi in qualsivoglia momento. Ma solo “fino ad un tempo”, cioè fin-
ché Dio lo avrebbe permesso.

25 Poi raccoglierà le sue forze e il suo coraggio contro il re del mez-


zogiorno, mediante un grande esercito. E il re del mezzogiorno s’im-
pegnerà in guerra con un grande e potentissimo esercito; ma non po-
trà tenere fronte, perché si faranno delle macchinazioni contro di lui.
26 Quelli che mangeranno alla sua mensa saranno la sua rovina, il
suo esercito si dileguerà come un torrente, e molti cadranno uccisi.

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CAPIRE DANIELE

I commentatori che annettono valore profetico all’espressione “un tempo” del v.


24 (“un tempo” = 360 anni solari), vedono ancora nei vv. 25 e 26 la guerra fra
Ottaviano e Marcantonio culminata nella battaglia di Azio con la disfatta di
quest’ultimo.
“Quelli che mangeranno alla sua mensa...” In questa frase alcuni autori
scorgono i favoriti della corte imperiale romana. Fin dagli inizi dell’età imperiale,
gli intrighi di palazzo determinarono l’ascesa e la caduta degli imperatori. Suc-
cessivamente, e particolarmente negli anni in cui un generale dopo l’altro si suc-
cedettero sul trono dei Cesari - spesso al costo della testa del predecessore - si
realizzò in modo significativo la predizione che i favoriti della corte sarebbero
insorti e avrebbero “distrutto” quelli che li avrebbero trattati amichevolmente, e
che di conseguenza molti sarebbero caduti uccisi.
“... come un torrente...” La Siriaca e la Vulgata leggono: “dilavati” o “spaz-
zati via”. Coloro che vedono riflessa nel v. 24 la lotta fra Ottaviano e Marcanto-
nio, scorgono nel v. 26 la fine di quest’ultimo. Quando Cleopatra, spaventata dal
clamore della battaglia, si ritirò dalle acque di Azio con le 60 navi egizie, Mar-
cantonio la seguì concedendo la vittoria all’avversario; poi si suicidò.
Dal punto di vista di chi sostiene che vi sia una continuità cronologica nel
cap. 11 di Daniele, nel v. 26 si rifletterebbe l’instabilità politica che afflisse l’Im-
pero tra Nerone e Diocleziano.

Interpretazione corrente. Antioco IV organizzò e condusse la prima cam-


pagna contro l’Egitto nel 170-169 a.C. Tolomeo VI si batté con valore, ma a
causa di un tradimento rimase sconfitto, Antioco invase il Delta e fece prigio-
niero il giovane re.
I due inetti ministri di Tolomeo, Leneo ed Euleo (“quelli che mangeranno
alla sua mensa”), in parte responsabili della disfatta, erano propensi ad accettare
disonorevoli condizioni di pace (“saranno la sua rovina”), ma il popolo di Ales-
sandria insorse e mise sul trono dei Làgidi il fratello minore del Filometore, Tolo-
meo VII Evergete.

27 E quei due re cercheranno in cuor loro di farsi del male; e, alla


stessa mensa, si diranno delle menzogne; ma ciò non riuscirà, per-
ché la fine non verrà che al tempo fissato.

“... si faranno del male...”. Alcuni autori applicano questa frase agli intrighi di Ot-
taviano contro Marcantonio e di questi ai danni di Ottaviano, l’uno e l’altro aspi-
ranti al governo dell’Impero. Altri vi scorgono un riferimento alla lotta per il po-
tere negli ultimi anni del regno di Diocleziano (284 - 305) e nell’arco di tempo
fra la morte di questo imperatore e l’avvento di Costantino il Grande (306 - 337)
quando l’Impero fu riunificato (323 o 324).
“...la fine non verrà che al tempo fissato” o, come traduce la versione della
CEI, “...li attende la fine, a tempo stabilito”. Gli uomini malvagi e le loro macchi-
nazioni dureranno finché lo consentirà la pazienza divina. Nel libro di Daniele è
annunciata la vera filosofia della storia: Dio “agisce come vuole con l’esercito del

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CAPITOLO 11

cielo e con gli abitanti della terra; e non v’è alcuno che possa fermare la sua
mano” (4:35).

Interpretazione corrente. Antioco Epifane cambiò tattica quando, nel 169


a.C., sull’onda dell’insurrezione popolare ascese al trono d’Egitto Tolomeo VII
Evergete. Rinunciò per il momento a cingere lui stesso la corona dei Làgidi e si
atteggiò a tutore dei diritti dinastici del suo prigioniero, rimesso subito in libertà.
Fra i due intercorsero trattative bilaterali in uno spirito di reciproca insincerità
(“si diranno delle menzogne”).
Antioco finse di voler far valere il diritto del primogenito a succedere al pa-
dre sul trono d’Egitto; Tolomeo VI, al quale non erano sfuggite le vere intenzioni
dello zio, finse a sua volta di stare al gioco. L’Epifane aveva probabilmente pun-
tato sulla rivalità tra i due fratelli per attuare il suo piano senza offrire a Roma
un’occasione per intervenire. Sennonché com’egli ebbe lasciato l’Egitto, i due
Tolomei si accordarono per governare insieme il paese instaurando una sorta di
diarchia, una forma di governo che in seguito si ripeté altre volte in Egitto.

28 E quegli tornerà al suo paese con grandi ricchezze; il suo cuore


formerà dei disegni contro al patto santo, ed egli li eseguirà, poi tor-
nerà al suo paese.

Dai fautori della spiegazione romana-antica si è colta, in questo versetto, un’allusione


all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 a.D. ad opera di Tito.
Gli autori che sostengono la continuità cronologica della narrazione profe-
tica vi scorgono invece una ulteriore descrizione dell’opera di Costantino il
Grande. “... formerà disegni contro il patto santo...”. Sarà il Messia, che nel v. 22
è comparso come “principe del patto” (negîd berîth), che “stabilirà” (o confer-
merà) un saldo patto con molti” (higbîr berîth larabîm) in 9:27. Tale patto è il
piano di salvezza stabilito da Dio fin dall’eternità e confermato mediante l’evento
storico della morte di Cristo.
Sembra dunque ragionevole identificare nel soggetto che agisce in questo
passo un potere che si opporrà al piano divino della redenzione ed alla sua azione
nel cuore degli uomini. Si fa notare che Costantino, sebbene facesse professione di
conversione alla fede cristiana, in realtà agì “contro il patto santo”, avendo avuto
come vero obiettivo l’uso strumentale del cristianesimo per unificare l’impero e
consolidare il suo potere personale. Costantino concesse grandi favori alla Chiesa
ma pretese in cambio il suo sostegno per attuare la propria politica.

Interpretazione corrente. Di ritorno verso Antiochia dopo la campagna


egiziana, Antioco Epifane sostò nella Giudea per imporre la propria autorità. In
Gerusalemme asportò i tesori custoditi nel Tempio e lasciò una guarnigione mili-
tare siriaca (cfr. 1Maccabei 1:20-25 e 2Maccabei 5:11-21). L’espressione “il patto
santo” designerebbe la comunità dei fedeli della vera alleanza di Yahweh. Col
profanare e saccheggiare il Tempio durante la sosta in Gerusalemme, Antioco
manifestò le sue vere intenzioni verso il popolo eletto.

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29 Al tempo stabilito egli marcerà di nuovo contro il mezzogiorno;


ma quest’ultima volta la cosa non riuscirà come la prima; 30 poiché
delle navi di Kittim muoveranno contro di lui; ed egli si perderà
d’animo; poi di nuovo s’indignerà contro il patto santo, ed eseguirà i
suoi disegni, e tornerà ad intendersi con quelli che avranno abban-
donato il patto santo.

“...quest’ultima volta la cosa non riuscirà come la prima...” Quegli autori che
identificano la figura di Costantino il Grande nel protagonista dell’azione militare
qui descritta, pensano che questo particolare della narrazione profetica evochi la
realizzazione solo parziale del sogno di Costantino di rinverdire l’antica gloria e
potenza dell’Impero.
La seconda impresa non riuscita come la prima, in quest’ottica, è vista quale
allusione al trasferimento della capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio voluto
da Costantino, un evento che, sempre in quest’ottica, avrebbe segnato l’inizio
del declino dell’Impero stesso.
“...delle navi di Kittim...”. Il nome Kittim compare ripetutamente nell’Antico
Testamento, come pure nella letteratura tardo-giudaica, rivestendo una varietà di
sensi. In Ge 10:4 Kittim è il nome del figlio di Yawan e nipote di Jafet (cfr. 1Cr
1:7). L’area geografica nella quale si stanziarono i discendenti di Kittim fu proba-
bilmente l’isola di Cipro, la cui città più importante è nominata Kt nei testi fenici
(Kition dai Greci e Citium dai latini). Balaam in uno dei suoi famosi oracoli (Nu
24:24) annunciò che “delle navi verranno dalle parti di Kittim e umilieranno As-
sur” (l’Assiria).
Si è creduto che questa profezia del mago mesopotamico preannunciasse
l’abbattimento dell’Impero persiano per mano di Alessandro il Macedone giunto
in Asia appunto dai lidi mediterranei.
Un riferimento ai litorali mediterranei si è colto anche nell’espressione geo-
grafica “isole di Kittim” che si trova in Gr 2:10 e in Ez 27:6.
Nella letteratura tardo-giudaica Kittim compare in 1Maccabei 1:1 riferito alla
Macedonia.
Questo nome appare ancora in due dei Manoscritti del Mar Morto. Nelle
forme ktyy ’ashwr, “Kittim di Assur”, e hktyym bmzrym, “il Kittim in Egitto”, si
trova nella Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre, verosimilmente
riferito ai re seleucidi e tolemaici. In questo documento sembra essere assente
l’associazione del vocabolo con le coste del Mediterraneo: Kittim compare qui
come designazione generalizzata dei nemici dei Giudei. Il Commentario di Aba-
cuc pure menziona il Kittim.
L’autore di questo scritto crede che le profezie di Abacuc si stiano avve-
rando ai suoi giorni (probabilmente egli visse verso la metà del I secolo a.C.)
nelle angustie vissute dai Giudei: Ac 1:6-11, dove si descrive un’invasione cal-
dea, dall’ignoto autore del Commentario è applicato ai Kittim che nel suo tempo
spogliavano il popolo giudaico.
Se si tiene conto del contesto storico nel quale vide la luce questo scritto, si
deve pensare che il termine con tutta probabilità designi i Romani.

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CAPITOLO 11

I LXX in Dn 11:30 traducono “i Romani” l’espressione originale “le navi di


Kittim”. Sembra dunque chiaro che il vocabolo kittim, riferito in origine all’isola
di Cipro e ai suoi abitanti, in seguito fosse esteso al litorale mediterraneo e più
tardi ancora agli oppressori stranieri, che venissero dal sud (Egitto), dal nord (Si-
ria) o dall’ovest (Macedonia e Roma).
Per la sua origine il libro di Daniele è più vicino ai riferimenti di Geremia e
di Ezechiele che non a quelli degli scritti tardo-giudaici ove il termine potrebbe
essere stato adoperato come un’estensione dell’uso biblico. Comunque la fraseo-
logia di Dn 11:30 chiaramente ricorda Nu 24:24, dove “kittim” è riferito a conqui-
statori provenienti da occidente. Sebbene non ci sia accordo fra gli studiosi della
Bibbia sul significato storico di “kittim” in questo passo di Daniele, sembra non-
dimeno evidente che nel cercare di capirlo si debba tenere conto di due circo-
stanze.
La prima è che al tempo di Daniele questo nome era riferito alle regioni ed
ai popoli occidentali; la seconda è che già allora poteva essere in atto uno spo-
stamento dell’accento dal senso specificamente geografico del vocabolo verso
un’accezione più ampia per designare con esso invasori stranieri provenienti da
qualsivoglia direzione dello spazio. C’è chi vede, nelle “navi di Kittim”, un’allu-
sione alle orde dei Barbari che invasero i territori occidentali dell’Impero romano
determinandone infine il collasso443.
“...s’indignerà contro il patto santo...” Alcuni interpreti hanno scorto in que-
sta “indignazione” un’allusione all’azione di Roma ecclesiastica contro il patto
santo attraverso la soppressione delle Scritture e la persecuzione dei dissidenti
che ad esse si appellavano.

Interpretazione corrente. Nel 168 a.C. Antioco Epifane, irritato per l’ac-
cordo raggiunto dai due fratelli per governare l’Egitto, invase il paese per la se-
conda volta ben determinato a mettere fine alla dinastia dei Làgidi e ad annetter-
sene i territori. Intanto Roma, che in quei giorni concludeva vittoriosamente la
guerra in Macedonia, allarmata per le iniziative provocatorie dell’Epifane, spedì
una legazione ad Alessandria.
Cosicché Antioco, giunto alla testa delle sue truppe a poche miglia dalla
città, trovò la strada sbarrata dalla legazione romana presieduta dal console Caio
Popilio Lenate, che era stato suo amico durante il soggiorno romano. Il legato di
Roma era latore di un messaggio perentorio del Senato con cui gli si intimava di
sgombrare sollecitamente l’Egitto o considerarsi nemico di Roma.
L’Epifane chiese tempo per riflettere, ma il romano, tracciato sul suolo con
un bastone un cerchio intorno alla persona dell’interlocutore tergiversante, re-
plicò che di lì non si sarebbe mosso prima di avere dichiarato la sua intenzione.
Antioco, che ben conosceva la potenza di Roma, non ebbe altra scelta che
sgombrare subito il campo.

443 - Vedi S.D.A. Bible Commentary, vol.IV, pp. 872-873.

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CAPIRE DANIELE

Di ritorno da questa spedizione fallimentare, il re di Siria prese d’assalto Ge-


rusalemme, dove serpeggiava la rivolta contro le pratiche e i costumi ellenistici
introdotti anni prima, e infierì sulla popolazione perpetrando crudeli massacri, de-
vastando alcuni quartieri della città e saccheggiando ancora una volta il tempio.

31 Delle forze mandate da lui si presenteranno e profaneranno il


santuario, la fortezza, sopprimeranno il sacrifizio continuo, e vi col-
locheranno l’abominazione, che cagiona la desolazione.

Letteralmente: “Braccia (forze) da lui si ergeranno”, cioè delle forze appartenenti


a questo potere sorgeranno per compiere la profanazione qui descritta. Alcune
versioni traducono: “contamineranno il santuario”; in realtà il verbo ebraico
chalâl significa propriamente “profanare” (Gesenius). “Contaminare” qualcosa si-
gnifica renderla impura, inquinarla; chalal esprime invece l’idea di rendere co-
mune, banale qualcosa che è sacro. Questo verbo è adoperato in Es 20:25 per
indicare che le pietre da utilizzare per la costruzione di un altare sarebbero “pro-
fanate” se le si lavorasse con lo scalpello. In Es 31:14 chalâl è usato in relazione
alla dissacrazione del sabato.
“...il santuario, la fortezza...”, ebr. zO(fMh
a $fDq: M a hammiqdash hammâ‘oz,
i h
lett.: “il luogo santo, il rifugio” (la seconda parola è in apposizione rispetto alla
prima: “il luogo santo, cioè il rifugio”). Qualche commentatore ha applicato alla
città di Roma l’espressione “il santuario, la fortezza o rifugio”. Secondo questa
comprensione del passo sarebbe qui adombrato l’attacco distruttivo dei Barbari
alla “città eterna”.
Altri autori pensano che l’oggetto della profanazione in questo versetto sia
il santuario celeste. L’ebraico ma‘oz, tradotto “forza” o “fortezza” (dal verbo
‘azaz, “essere forte”), ritorna ripetutamente in questo capitolo (vv 7, 10, 19, 38,
39), per quanto le versioni non lo rendano in modo uniforme.
Il santuario di Gerusalemme era circondato da fortificazioni, ma il luogo di
rifugio per eccellenza è il santuario del cielo dove Gesù offre il suo sangue a be-
neficio dei peccatori (Eb 9:11-14). Secondo questa comprensione dell’espres-
sione: “profaneranno il santuario, il rifugio”, essa si riferirebbe alla sostituzione
del sacrificio e del sacerdozio autentici di Cristo nel santuario celeste con un
falso sacrificio e un falso sacerdozio terreni (su tamîd - “continuità”, vedi il com-
mento di 8: 12).
“L’abominazione che cagiona la desolazione” (ebr. {"mO$:m jUQi<h a hashshiq-
qûz meshômem): in questa forma l’espressione compare qui per la prima volta
nel libro di Daniele, sebbene una frase simile si trovi in 9:27: “e sulle ali delle
abominazioni verrà un devastatore” (ebr: we‘al kanaf shiqqutzîm meshômem). I
LXX rendono questa frase: “sul tempio abominazione della desolazione”. Le pa-
role di Cristo su “l’abominazione della desolazione” in Mt 24:15 possono riferirsi
a Dn 9:27 piuttosto che a 11:31444. Discorrendo sulla futura distruzione di Geru-

444 - G.HASEL è di parere contrario (vedi il commento di 8:13).

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CAPITOLO 11

salemme, che avvenne nel 70 a.D., Gesù identificò con “l’abominazione della
desolazione di cui ha parlato il profeta Daniele” gli eserciti romani che avreb-
bero circondato la città (Mt 24:15; Lc 21:20)445.
Considerando che 9:27 è parte della spiegazione di 8:11-13, la conclusione
a cui si arriva in modo naturale è che 8:11-13 sia una profezia nella quale sono
fuse insieme due prospettive (un po’ come nel discorso profetico di Gesù in Mt
24)446. La prima prospettiva è quella della distruzione di Gerusalemme e del
Tempio ad opera dei Romani; la seconda concerne l’attività del papato nei secoli
dell’era cristiana. Si noti infine che l’esplicito riferimento di Gesù all’”abomina-
zione della desolazione” come a un evento futuro, esclude Antioco Epifane dalla
visuale della profezia.

Interpretazione corrente. Questa linea esegetica applica il v. 31 alla fe-


roce repressione perpetrata da Antioco Epifane in Gerusalemme di ritorno dalla
seconda campagna in Egitto nel 168. Furono numerosi i pii Giudei che caddero
sotto la spada dei soldati di Antioco in quell’occasione.
L’anno seguente il re di Siria inviò a Gerusalemme un corpo di spedizione
con l’incarico di introdurre l’ellenizzazione forzata nella città. Furono proibiti
sotto pena di morte i riti della fede giudaica: l’offerta del sacrificio e la circonci-
sione; fu proscritta la celebrazione del sabato e delle feste religiose; fu intimato,
ancora sotto pena di morte, di consegnare i sacri rotoli della legge per essere la-
cerati e bruciati. Fu abbattuto un tratto del muro cittadino che Nehemia aveva ri-
costruito, e col materiale di ricupero si eresse una fortezza pagana nel cuore
della città santa, la fortezza dell’Akra. Infine sull’altare dei sacrifici fu eretta
un’ara dedicata a Zeus e su di essa si immolò un maiale. Era il 15 dicembre 167
a.C. (cfr. 1Maccabei 1:54-64). Fu l’occasione della rivolta dei Maccabei.

32 E per via di lusinghe corromperà quelli che agiscono empiamente


contro il patto; ma il popolo di quelli che conoscono il loro Dio mo-
strerà fermezza, e agirà.

“...quelli che agiscono contro il patto...”, vedi il commento del v. 28 in alto. Nel
soggetto della proposizione iniziale si identifica ancora il papato.
“...per via di lusinghe...”, ebr. tOQalx a bachalaqqôth, “blandizie”. Fare appa-
A B
rire le sue vie più praticabili delle vie di Dio è stata sempre la strategia di Satana,
ma il popolo del Signore ha sempre calcato il sentiero indicato da Gesù in Mt
7:14: “angusta (è) la via che mena alla vita”.

445 - A questa spiegazione del S.D.A. Bible Commentary preferiamo quella che ravvisa “l’abo-
minazione” nell’occupazione e profanazione dei sacri recinti del Tempio, e del Tempio stesso,
ad opera degli Zeloti di Eleazaro della primavera-estate del 70 a.D., di cui Giuseppe Flavio ci ha
lasciato ampia relazione in Guerre Giudaiche (vedi il commento di 9:27).
446 - Cfr. Desire of ages, p. 628, in italiano La speranza dell’uomo, pp. 449-450).

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CAPIRE DANIELE

“...mostrerà fermezza e agirà”. La frase è applicata ai cristiani dissidenti vis-


suti nell’Europa controllata dalla Chiesa romana i quali mantennero inalterate la
loro fede e le loro convinzioni a dispetto della persecuzione (Albigesi, Valdesi,
Hussiti...).

Interpretazione corrente. “Quelli che agiscono empiamente contro il


patto” sarebbero i giudei rinnegati che avendo ceduto alle lusinghe di Antioco
tradirono la fede avita. Nel “popolo di quelli che conoscono il loro Dio” si ri-
specchierebbero i giudei fedeli che non vacillarono di fronte alla persecuzione e
alla morte. Rifulsero in particolare il coraggio e la fede eroica del sacerdote Mat-
tatia e dei suoi 5 figli, i Maccabei.

33 E i savi fra il popolo ne istruiranno molti; ma saranno abbattuti


dalla spada e dal fuoco, dalla cattività e dal saccheggio, per un
certo tempo. 34 E quando saranno così abbattuti, sarano soccorsi
con qualche piccolo aiuto; ma molti s’uniranno a loro con finti sem-
bianti.

“E i savi fra il popolo ne istruiranno molti...” I discepoli di Cristo accolsero il


mandato: “Andate... ammaestrate tutti i popoli” (Mt 28:19) come un imperativo
imprescindibile sia in tempi di pace che in tempi di persecuzione, e non di rado
in tale drammatica circostanza la loro testimonianza si rivelò più efficace che in
tempi normali.
“...saranno abbattuti...” Nessuno può dire quanti furono i condannati per
eresia che perirono sul rogo o furono trafitti dalla soldataglia dei principi e dei
duchi fedeli a Roma durante i lunghi secoli dell’intolleranza papale.
“...per un certo tempo...”. Il testo masoretico, i Settanta e Teodozione hanno
semplicemente “per giorni”. Alcuni manoscritti ebraici tuttavia aggiungono l’ag-
gettivo rabbîm, “molti”. Il periodo al quale si allude con questa espressione è
quello dei 1260 “giorni” di Dn 7:25, 12:7 e Ap 12:6, 14 e 13:5. È il tempo durante
il quale il potere apostata esercitò più pesantemente l’autorità usurpata persegui-
tando a morte quanti rifiutarono di riconoscergliela.
“...saranno soccorsi con qualche piccolo aiuto...”. I martiri della fede ebbero
sempre coscienza del fatto che la loro vita era “nascosta con Cristo in Dio” (Cl 3:3).
Nei secoli bui ai quali si riferisci Dn 11:33 Dio inviò ripetutamente al suo
popolo oppresso “un piccolo aiuto” attraverso dei leaders che invocarono con
grande coraggio un ritorno alle Scritture. Basterà ricordare i predicatori valdesi
dal XII secolo in poi, John Wycliff in Inghilterra nel XIV secolo, Jan Huss e Giro-
lamo da Praga in Boemia nel XV secolo. Nel XVI secolo i rivolgimenti che si
produssero nella vita politica, economica, sociale e religiosa d’Europa, e che sul
piano religioso resero possibile la Riforma protestante, aprirono la via a molte
voci nuove che si unirono a quelle delle generazioni precedenti.

Interpretazione corrente. Circa i “savi” le opinioni non sono concordi.


Alcuni vi identificano in modo generico dei fedeli giudei i quali con la parola e

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CAPITOLO 11

con l’esempio ammaestrarono il popolo (G.Rinaldi), altri richiamano l’attenzione


sul partito degli Hassidei i cui aderenti si unirono a Mattatia e ai suoi figli per
opporsi con le armi all’ellenizzazione forzata. Molti di loro caddero nella sangui-
nosa repressione scatenata da Antioco. Non si trova però una giustificazione sto-
rica soddisfacente riguardo al “piccolo aiuto”. Si pensa generalmente agli effetti
della rivolta dei Maccabei, ma quegli effetti furono tutt’altro che “piccoli”.

35 E di que’ savi ne saranno abbattuti alcuni, per affinarli, per puri-


ficarli e per imbiancarli sino al tempo della fine, perché questa non
avverrà che al tempo stabilito.

“...per imbiancarli...”. A volte Dio permette che i suoi fedeli siano messi al ci-
mento, e consente persino che sia loro tolta la vita. Lo consente perché nel cro-
giolo della prova il loro carattere si purifica ed essi sono così resi idonei per il
regno dei cieli. Anche il Figlio di Dio fatto uomo “imparò l’ubbidienza dalle cose
che soffrì” (Eb 5:8; cfr. Ap 6:11).
“...sino al tempo della fine...”, ebraico ‘eth qetz. Questa espressione com-
pare altrove in Daniele (in 8:17; 11:40; 12:4,9). Nel contesto di 11:35 ‘eth qetz è
in rapporto con i 1260 anni dei quali segna la scadenza. Se confrontiamo questi
passi con alcune dichiarazioni di E.G.White447, ci rendiamo conto che l’anno
1798 segna l’inizio del “tempo della fine”.
“...al tempo stabilito”, ebr. mo‘ed, dal verbo ya‘âd, “fissare”, “stabilire”.
Nell’Antico Testamento è un vocabolo abbastanza comune; lo si applica ai tempi
fissati per le assemblee religiose (Es 23:15) sia in rapporto al tempo (Os 12:9)
che in rapporto al luogo (Sl 74:8). In Dn 11:35 mo‘ed è adoperato in relazione al
tempo: un tempo fissato, determinato. Il “tempo della fine” è un tempo fissato
da Dio nell’ambito del suo programma riguardo agli eventi umani.

Interpretazione corrente. Da alcuni autori i “savi” sono identificati con gli


Assidei, come si è detto prima. In effetti non pochi di loro perirono durante la
persecuzione implacabile di Antioco IV. Mediante la sofferenza e la morte Dio
ha saggiato la loro fede. La prova non doveva però durare indefinitamente: essa
sarebbe cessata nel tempo che Dio avrebbe fissato.

36 E il re agirà a suo talento, si estollerà, si magnificherà al disopra


d’ogni dio, e proferirà cose inaudite contro l’Iddio degli dèi; prospe-
rerà finché l’indignazione sia esaurita; poiché quello ch’è decretato
si compirà.

447 - Vedi The Desire of Ages, p. 234 (in italiano La Speranza dell’uomo, p. 157), The Great Con-
troversy, p. 356 (in italiano Il Gran Conflitto, pp. 261-262) e in Testimonies, vol. V, pp. 9 e 10.

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CAPIRE DANIELE

Sui vv. 36-39 gli espositori avventisti hanno applicato generalmente due interpre-
tazioni differenti. Gli uni hanno identificato in questi versetti la Francia rivoluzio-
naria nel 1789 ed anni seguenti, gli altri vi hanno scorto ancora il potere apostata
e persecutore descritto nei versetti precedenti.
Coloro che vedono nel “re” la Francia all’epoca della Rivoluzione, sottoli-
neano che questa figura deve rappresentare una nuova entità politica, poiché
essa appare subito dopo la menzione del “tempo della fine” e risponde a carat-
teristiche che non sono quelle riferite all’entità descritta nei versetti precedenti;
deve rappresentare un potere orientato verso l’ateismo. È un fatto noto che la fi-
losofia che ha dato impulso alla Rivoluzione francese fu, non solo anticlericale,
ma anche ateistica e che essa influenzò successivamente il pensiero del XIX e
del XX secolo. Inoltre la Rivoluzione ed i suoi riflessi postumi segnarono la fine
del periodo profetico dei 1260 anni.
Quanti fra i nostri espositori identificano il “re” menzionato in questo ver-
setto con l’entità politico-ecclesiastica descritta nel v. 32, citano il fatto che nel te-
sto ebraico la parola “re” è preceduta dall’articolo, la qual cosa sembra implicare
che il dominatore di cui si sta parlando sia una figura già nota. Essi obiettano
che il riferimento al “tempo della fine” nel v. 35 sembra orientare piuttosto al fu-
turo e non implica necessariamente che i vv. 36-39 debbano collocarsi esclusiva-
mente dopo l’inizio del tempo della fine nel 1798 (vedi il commento del v. 35 in
alto), tanto più che non prima del v. 40 si allude in modo specifico a un evento
che deve aver luogo “nel tempo della fine”. Dal punto di vista di questi nostri
autori, il quadro descritto nei vv. 36-39 delinea non già un orientamento ateistico
ma piuttosto un tentativo di sopprimere ogni altra entità religiosa. I suddetti au-
tori richiamano anche l’attenzione sul parallelismo tra i capitoli 2, 7 e 8-9 e con-
cludono che nel cap. 11 deve essere presente lo stesso parallelismo centrato
sull’ascesa e il culmine del medesimo potere descritto nelle altre profezie del li-
bro di Daniele.
“...si magnificherà...” Secondo l’opinione degli interpreti che ravvisano in
questo versetto la presenza della Francia rivoluzionaria, questa espressione de-
scriverebbe l’ateismo spinto a cui si lasciarono andare i capi più radicali della Ri-
voluzione. Si cita a questo proposito una legge emanata dal governo di Parigi il
26 novembre 1793 la quale decretava l’abolizione di tutte le religioni nella capi-
tale della Francia. Anche se quella legge venne revocata pochi giorni dopo
dall’Assemblea Nazionale, il fatto dimostra comunque fino a che punto l’ateismo
influenzò la politica della Francia in quel periodo.
Gli espositori che applicano questi passi del cap. 11 di Daniele alla grande
potenza apostata della storia del Cristianesimo, considerano il v. 36 parallelo a
Dn 8:11, 25; 2Te 2:4; Ap 13:2, 6; 18:7. Costoro vedono la realizzazione di quanto
è predetto in questo passo di Daniele nella pretesa che il papa sia il vicereg-
gente di Cristo in terra, nella rivendicazione del potere del sacerdozio, nella dot-
trina sul “potere delle chiavi”, ossia sull’autorità di aprire e chiudere il cielo agli
uomini.
“...proferirà cose inaudite...”. Secondo il parere che sia la Francia il soggetto
che agisce in questa parte della profezia, la frase su riportata si riferirebbe alle

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CAPITOLO 11

dichiarazioni vanagloriose dei rivoluzionari nell’abolire la religione e istituire il


culto della Ragione. Quando in seguito fu introdotto il culto dell’Ente Supremo, i
reazionari ci tennero a mettere in chiaro che questo Ente non aveva niente a che
vedere col Dio dei cristiani.
L’altra linea esegetica ravvisa nella frase su riferita (“proferirà cose inaudite”)
l’attribuzione al pontefice romano, o la rivendicazione da parte sua, di titoli, po-
teri e prerogative che appartengono in esclusiva alla Divinità.

Interpretazione corrente. Si scorge ancora nel v. 36 il tiranno che “si è


eretto contro Dio, anzi, ha voluto sostituirglisi” (Rinaldi), cioè Antioco Epifane.
H.C.Leupold da questo punto diverge dall’interpretazione comune del cap.
11 di Daniele. Nel “re” orgoglioso e insolente egli non riconosce più l’Epifane, di
cui ha ammesso la presenza fino al versetto precedente, ma scorge la figura
dell’Anticristo finale e il suo successo apparente nell’agire contro Dio ed il suo
popolo, e infine la sua definitiva disfatta e distruzione448.

37 Egli non avrà riguardo agli dèi de’ suoi padri; non avrà riguardo
né alla divinità favorita delle donne, né ad alcun dio, perché si ma-
gnificherà al disopra di tutti.

“Non avrà riguardo... alla divinità favorita delle donne...” I commentatori che
identificano nella Francia rivoluzionaria il “re” insolente, riferiscono la frase ri-
portata sopra alla presa di posizione dei capi della Rivoluzione verso il matrimo-
nio. Essi dichiararono che l’unione matrimoniale non era più che un contratto ci-
vile che si poteva sciogliere senza particolari formalità quando uno dei con-
traenti lo avesse voluto.
I fautori dell’interpretazione “papale” applicano al celibato ecclesiastico il ri-
ferimento alla “divinità favorita delle donne”.

Interpretazione corrente. È nota alla storia la prodigalità di Antioco Epi-


fane verso i santuari ellenistici e in particolare verso Zeus Olimpico assimilato a
Giove Capitolino. A questa divinità romana l’Epifane secondo Livio eresse un
tempio presso Antiochia, mentre trascurò Apollo, una divinità assai venerata dai
Greci, come pure l’impudico Tammuz (“la divinità preferita dalle donne”).

38 Ma onorerà l’iddio delle fortezze nel suo luogo di culto; onorerà


con oro, con argento, con pietre preziose e con oggetti di valore un
dio che i suoi padri non conobbero.

“Ma onorerà il Dio delle fortezze nel suo luogo...”, ebr. ONaK-la( ‘al kannô, “in sua
vece”, “al posto di quello”, cioè al posto del dio vero. “...l’Iddio delle fortezze”,

448 - H.C.LEUPOLD, op. cit., pp. 510 e ss.

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CAPIRE DANIELE

ebr. {yéZ(u m
f H E ’eloah ma‘ûzzîm.
a ol)
Dai fautori dell’applicazione alla Francia di questi versetti, la frase è riferita
al culto della Ragione istituito a Parigi nel 1793. Alcuni capi della Rivoluzione,
avendo riconosciuto che per estendere in Europa la rivoluzione stessa era neces-
sario mantenere in Francia una parvenza di religione, favorirono l’instaurazione
di una nuova forma di religione imperniata sulla deificazione della ragione.
Essa più tardi fu seguita dal culto dell’Ente Supremo, praticamente il culto
della natura divinizzata la quale può ben considerarsi “un dio delle forze”.
Gli interpreti che applicano invece al papato questa parte della rivelazione,
hanno colto nel v. 38 un riferimento al culto dei santi e di Maria. Altri ancora ap-
plicano questo passo all’alleanza tra il potere religioso e il potere civile e ai ten-
tativi di Roma ecclesiastica di porre le nazioni sotto la sua autorità.
“...con oggetti di valore...”, ebr. tOdumx
A chamudôth, “cose dilettevoli”, oggetti
preziosi”. Un termine derivato dalla stessa radice si trova in Is 44:9 in riferimento
agli ornamenti preziosi coi quali i pagani rivestivano le immagini delle loro divi-
nità. Si è vista la realizzazione di questa predizione nei doni preziosissimi offerti
alle immagini di Maria e dei santi (cfr. Ap 17:4; 18:16).

Interpretazione corrente. Il dio sconosciuto ai padri che il “re” onora con


oro, con argento e con oggetti di valore sarebbe Giove Capitolino, la divinità ro-
mana che Antioco IV avrebbe collocato nelle “fortezze” di Dura-Europos e di
Beisan con copiose offerte di oggetti preziosi.

39 E agirà contro le fortezze ben munite, aiutato da un dio straniero;


quelli che lo riconosceranno egli ricolmerà di gloria, li farà domi-
nare su molti, e spartirà fra loro delle terre come ricompense.

“E agirà contro le fortezze ben munite...”. Il passo è alquanto oscuro ed è stato


tradotto in vari modi. Il verbo ‘asah, “fare”, “agire”, “operare”, non ha un com-
plemento diretto, ma è seguito da due preposizioni, le (“a”, “per”) e ‘im (“con”).
In Ge 30:30, 1Sm 14:6 ed Ez 29:20, ‘asah senza complemento oggetto e seguito
dalla preposizione le ha il senso di “agire per (qualcuno)”.
Seguito da ‘im, ‘asah si trova in 1Sm 14:45 col significato di “operare”. Te-
nendo conto di questi usi del verbo, la frase iniziale di Dn 11:39 potrebbe tra-
dursi: “Ed egli agirà per i più forti rifugi (ma‘ûzzîm) con un dio straniero”. Poi-
ché l’’eloah ma‘ûzzîm del v. 38 sembra essere parallelo a “un dio che i suoi pa-
dri non conobbero” menzionato nel v. 39, si può ritenere che l’uno e l’altro
siano una sola e medesima cosa.
Gli autori che ritengono sia la Francia la protagonista delle vicende descritte
in questi versetti, scorgono nel “dio straniero” la posizione preminente che eb-
bero nel pensiero dei leaders della Rivoluzione l’ateismo ed il razionalismo. Gli
altri ci vedono il sostegno assicurato dalla Chiesa romana al culto dei “protettori”
(i santi) e alle feste in onore della messa e della Vergine.
“...spartirà fra loro delle terre...”. Gli uni colgono in questa frase la fine della
grande proprietà terriera in Francia al tempo della Rivoluzione, quando le terre

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CAPITOLO 11

dei nobili furono dallo Stato vendute a piccoli proprietari; si è calcolato che i due
terzi della proprietà terriera in Francia furono espropriati dal governo durante la
Rivoluzione. Gli altri scorgono nell’espressione “spartirà fra loro delle terre” un’al-
lusione al dominio papale sui principi temporali ed ai tributi da questi corrisposti
alla curia romana. Si è anche pensato alla spartizione delle terre del Nuovo
Mondo tra Spagna e Portogallo con l’arbitrato di papa Alessandro VI nel 1493.

Interpretazione corrente. Alcuni dei fautori della spiegazione “siriana”


ravvisano, nella frase iniziale del versetto, la fiducia riposta da Antioco nella pro-
tezione di Giove (“il dio straniero”) della quale i Romani pretendevano di fruire,
e nelle frasi seguenti scorgono la propaganda fatta dai dominatori pagani per in-
durre i Giudei ad accogliere il culto di questa divinità. Altri nella prima parte del
versetto colgono un’allusione allo scandalo suscitato nei Giudei il vedere cre-
scere nella città di Davide le fortificazioni nelle quali Antioco avrebbe insediato i
soldati incaricati di presidiarla. Nella seconda parte del passo si ravvisa il man-
dato conferito da Antioco a Lisia di insediare degli stranieri in tutto il territorio e
di spartire tra loro il paese.

40 E al tempo della fine, il re del mezzogiorno verrà a cozzo con lui;


e il re del settentrione gli piomberà addosso come la tempesta, con
carri e cavalieri, e con molte navi; penetrerà ne’ paesi e, tutto inon-
dando, passerà oltre. 41 Entrerà pure nel paese splendido, e molte
popolazioni saranno abbattute; ma queste scamperanno dalle sue
mani: Edom, Moab e la parte principale de’ figliuoli di Ammon.
42 Egli stenderà la mano anche su diversi paesi, e il paese d’Egitto
non scamperà. 43 E s’impadronirà de’ tesori d’oro e d’argento, e di
tutte le cose preziose dell’Egitto; e i Libi e gli Etiopi saranno al suo
séguito. 44 Ma notizie dall’oriente e dal settentrione lo spavente-
ranno; ed egli partirà con gran furore, per distruggere e votare allo
stermino molti. 45 E pianterà le tende del suo palazzo fra i mari e il
bel monte santo; poi giungerà alla sua fine, e nessuno gli darà aiuto.

Dopo i vv. 14 e 15 ritorna per l’ultima volta la menzione dei re del mezzogiorno
e del settentrione. Il riferimento al “tempo della fine” esclude che possa trattarsi
ancora dei re tolemaici e seleucidi. Gli espositori avventisti che hanno visto la
Francia all’epoca della Rivoluzione nei vv. 30-39, hanno ritenuto che “il re del
settentrione” nei vv. 40-45 debba identificarsi con la Turchia; gli altri vi hanno
scorto un quadro profetico del papato al culmine della sua ascesa.
“... poi verrà la sua fine” (v. 45 u.p.). Predizioni simili a questa si trovano
nelle profezie parallele dei capitoli 2 (vv. 34, 35, 44, 45), 7 (vv. 11 e 26), 8 (vv.
19 e 25) e 9 (v. 27), ma anche altrove nella Scrittura (per esempio in Is 14:6;
47:11-15; in Gr 50:32; in 1Te 5:3; in Ap 18:6-8, 19, 21). Gli espositori avventisti in
generale hanno sostenuto che quanto predetto in Dn 11:40 si adempirà nell’ul-
timo tratto del tempo della fine.
James White - uno dei pionieri dell’avventismo del settimo giorno - esortò

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CAPIRE DANIELE

alla prudenza gli uomini della chiesa che tendevano a commentare le profezie di
Daniele sulla scorta degli avvenimenti contemporanei. Egli scrisse nel 1877:
“Lo studioso deve evitare di esprimersi in termini decisamente affermativi
quando espone le profezie che debbono ancora avverarsi e che non hanno
quindi il supporto della storia, e questo per non correre il rischio di perdersi
nella giungla della fantasia.
“Alcuni rivolgono il pensiero più alla verità futura che a quella presente: ve-
dono poca luce sulla via che stanno percorrendo e credono che ve ne sia molta
davanti a loro.
“Certe prese di posizione sulla questione d’Oriente si basano su profezie
che non si sono ancora avverate. Su questo terreno dobbiamo muoverci con
prudenza e prendere posizione con cautela per non rischiare di rimuovere posi-
zioni oramai acquisite in seno al movimento dell’avvento. Si deve dire che su
questa interpretazione c’è stato un consenso generale, e che gli sguardi di tutti
sono puntati sul conflitto in atto tra Turchia e Russia nel quale si crede di scor-
gere l’avverarsi di quella parte della profezia che confermerà la fede nell’immi-
nente proclamazione del grido di mezzanotte e nella rapida conclusione del no-
stro messaggio. Quali conseguenze potranno derivare da tanta fiducia riposta su
profezie non ancora adempiute se il corso degli eventi sarà diverso da quello
previsto, è una domanda che suscita inquietudine”449. Il tempo ha dato ampia
conferma della saggezza di questa osservazione critica.
In tempi più recenti, specie in certi ambienti evangelici anglosassoni, si è
dato molto peso alla minacciosa potenza militare dell’Unione Sovietica vista
come la controfigura storica del profetico “re del nord” descritto in Dn 11: 40-45.
Al presente la fallacia di quella interpretazione è sotto gli occhi di tutti.
È tuttora valido il saggio richiamo di J.White agli espositori avventisti della
parola profetica.
È sempre incauto azzardare interpretazioni appoggiate al panorama interna-
zionale del momento.
La conferma della profezia viene dalla storia, non dalla cronaca, a meno
che l’esegeta non sia egli stesso in possesso del carisma profetico.
Per quanto attiene a Dn 11:40-45, ci pare che l’espositore non disponga an-
cora di elementi certi per capire e spiegare gli eventi ivi predetti.

Interpretazione corrente. I commentatori che vedono ancora la figura di


Antioco IV nel “re del nord” menzionato nel v. 40, non possono dare una giusti-
ficazione storica di siffatta interpretazione perché la storia non conosce una terza
campagna dell’Epifane contro l’Egitto dopo le due già ricordate. Il Prof. G.Rinaldi
osserva a proposito di questi versetti finali di Dn 11, che “Il vero significato,
come indicarono alcuni Padri, va cercato nella fine del mondo, a cui con parole

449 - JAMES WHITE in Review and Herald del 29 novembre 1877. Da S.D.A. Bible Commentary,
vol. IV, p. 877

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CAPITOLO 11

esplicite il profeta sta per trasferire il discorso (cap.12)”450. Concordiamo con


questo giudizio, sebbene riteniamo che con identica espressione, “il tempo della
fine” (‘eth qetz), Daniele abbia già introdotto nel v. 35 il concetto della fine del
mondo.
Sul v. 40 H.C.Leupold fa notare che “non c’è nulla nel contesto che sminui-
sca la forza della parola ‘fine’, onde è la fine di tutte le cose ciò a cui si fa qui ri-
ferimento”451. Questo autore opina che alla fine dei tempi delle forze nuove
muoveranno simultaneamente dal nord e dal sud contro l’Anticristo, così come
nell’antichità mossero l’uno contro l’altro i personaggi storici designati come “il
re del nord” e “il re del sud”, ma l’Anticristo, che disporrà di forze formidabili,
contrattaccherà invadendo e devastando le terre di quelli che lo avranno assalito.
La rivelazione non termina con la fine del cap. 11, ma prosegue e si con-
clude nei primi 3 versetti del capitolo seguente.
Sul cap. 11 di Daniele il prof. Jacques Doukhan presenta una visione origi-
nale in Le soupîr de la terre. Egli non riconosce i re seleucidi nella figura predo-
minante di questo capitolo (il “re del nord”), come fanno quasi tutti i commenta-
tori moderni, ma vi scorge lo stesso potere che i capp. 7 e 8 descrivono col sim-
bolo del “piccolo corno”. A siffatta conclusione il Doukhan perviene attraverso
un confronto tra le due figure, confronto dal quale emergono effettivamente pa-
rallelismi significativi.
In definitiva l’Autore sostiene che non è un conflitto politico quello che si
descrive in Dn 11, ma un conflitto spirituale, e trae sostegno alla sua tesi dalla
struttura letteraria del testo e dal simbolismo connesso col riferimento spaziale
nord-sud.
La tesi del Prof. Doukhan, esposta nel capitolo undicesimo dell’opera citata,
merita ponderata considerazione.

450 - G.RINALDI, Daniele, p. 49.


451 - H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 520.

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CAPIRE DANIELE

Capitolo 12
___________________________________________________

I l percorso delle grandi profezie danieliche lungo le vie maestre della storia - con
l’unica eccezione della rivelazione del capitolo nono - conduce invariabilmente
al medesimo punto d’arrivo: il giudizio finale ed il regno eterno di Dio. Così il so-
gno di Nabucodonosor nel cap. 2, così la visione delle quattro fiere nel cap. 7 e
quella del montone e del capro nel cap. 8.
L’ultima rivelazione in 11:2 - 12:3 non ha un epilogo diverso: anch’essa si
arresta sulla soglia dell’eternità.
Il cap. 12 non introduce una nuova rivelazione; esso conclude, nei primi
versetti, quella iniziata nel capitolo precedente. Si assiste in questi primi tre ver-
setti al felice epilogo delle dolorose peripezie dei santi, che parevano interminabili.
Il sorgere in loro difesa del gran Principe Micael, mentre una tribolazione di una
dimensione inaudita flagella la terra, li mette per sempre in salvo.
Il resto del capitolo (vv. 4-13) - con l’ordine dato al profeta di mantenere se-
greta la visione, con un fugace riferimento ai tempi profetici rivelati in prece-
denza, con un accenno all’eredità eterna che è tenuta in serbo per Daniele -
chiude nel medesimo tempo il libro e la vicenda terrena del suo autore.

1 E in quel tempo sorgerà Micael, il gran capo, il difensore de’ fi-


gliuoli del tuo popolo; e sarà un tempo d’angoscia, quale non se
n’ebbe mai da quando esistono nazioni fino a quell’epoca; e in quel
tempo, il tuo popolo sarà salvato; tutti quelli, cioè, che saranon tro-
vati iscritti nel libro.

Continua e s’avvia alla conclusione l’ampia rivelazione che è venuta sviluppan-


dosi nel cap. 11.
Il cap. 12 si apre con un ultimo riferimento al Principe Micael, il cui levarsi
in difesa del popolo santo nel tempo della fine è messo in relazione con due
condizioni umane in radicale contrasto tra loro: da un lato uno stato generaliz-
zato di angustia estrema, dall’altro una decisiva liberazione e salvezza.
Giovanni in due punti dell’Apocalisse allude a questo tempo di angustia
universale: nel cap. 7, attraverso la figura di un uragano che sta per devastare
mare e terra dalle quattro direzioni dello spazio (vv. 1-3), e nel cap. 16, dove le
ultime “piaghe” flagellano la terra, il mare e i fiumi e tormentano gli uomini che
hanno ricevuto il “marchio della bestia” (vv. 2 e 9).
Per un certo verso la grande distretta finale non risparmierà i figlioli di Dio,
giacché se il “sigillo dell’Iddio vivente” che essi avranno ricevuto sulla fronte li

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CAPITOLO 12

metterà al riparo dalle piaghe, non li sottrarrà tuttavia alla collera della “Bestia”
(Ap 13:15).
In 12:1, la locuzione avverbiale con cui inizia il versetto, “in quel tempo”
()yihh f ba‘eth hahî’) va riferita all’epoca nella quale si svolgeranno gli avveni-
a t"(b
menti convulsi predetti negli ultimi 6 versetti del capitolo precedente, vale a dire
l’assalto furioso “come una tempesta” del “re del nord” contro il “re del sud” ed
il suo dilagare verso il “paese splendido” ed oltre. Non pochi espositori identifi-
cano il metaforico “re del nord” in questi versetti con l’Anticristo finale452, e la
sua violenta aggressione con la guerra che l’Anticristo scatenerà contro il popolo
santo nel tempo della fine453. È in questo tempo (cfr. il v. 40) che Micael sorgerà
in difesa del popolo santo. Questo Personaggio eccelso in 10:13 è stato presen-
tato come “uno dei primi principi”454 e in 11:1 l’angelo portatore della rivela-
zione divina lo aveva caratterizzato come “vostro principe” (principe di Daniele
e del suo popolo in contrasto con gli emissari infernali nel ruolo improprio di
principi-protettori dei regni di Persia e di Jawan).
Se la grande tribolazione “quale non se n’ebbe mai.... fino a quell’epoca” è
da rapportarsi anche all’attività finale del gran persecutore, come sembra natu-
rale, sarà in quel tempo che Micael esplicherà il ruolo di difensore o protettore
del suo popolo455.
L’ultima frase (“tutti quelli cioè che saran trovati iscritti nel suo libro”), in
apposizione alla precedente, spiega e precisa il senso di quella: i salvati nel
tempo della grande tribolazione saranno quelli i cui nomi saranno scritti nel “li-
bro”, di certo il “libro della vita” dove sono registrati i fedeli discepoli di Gesù
Cristo (Lc 10:20; Fl 4:3). Il Signore dichiara in Ap 3:5 che non cancellerà dal libro
della vita il nome dei suoi seguaci che avranno vinto. Si presume che il tempo
della grande tribolazione sarà preceduto da un esame in cielo del “libro della
vita” dovendosene “cancellare” i nomi dei cristiani che non avranno perseverato
sino alla vittoria finale. Questo giudizio discriminatorio è quello al quale sia Da-
niele (Dn 7:9-10) che Giovanni (Ap 20:11-12) assistettero in visione; esso coin-
cide con la giustificazione del santuario del cielo in capo a 2300 sere-mattine
(vedi su Dn 8:14).

2 E molti di coloro che dormono nella polvere della terra si risveglie-


ranno: gli uni per la vita eterna, gli altri per l’obbrobrio, per una
eterna infamia.

452 - Cfr. H.C.LEUPOLD, Exposition of Daniel, p. 524.


453 - Questo assalto finale del “re del nord” è da identificarsi con la fase finale della guerra del
“piccolo corno” contro i santi dell’Altissimo (Dn 7:25; 8:23-24) e con la persecuzione dell’apo-
calittica bestia marina rediviva contro chi rifiuta il suo marchio (Ap 13: 15-17).
454 - L’espressione ebraica ’achad hassarîm harishonîm può tradursi “il primo dei primi prin-
cipi” (vedi il commento di 10:13).
455 - Cfr. E.G.WHITE, Il Gran Conflitto, p. 459.

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CAPIRE DANIELE

I dormienti nella polvere della terra sono evidentemente i defunti. La metafora


del dormire, applicata ordinariamente ai giacenti nei sepolcri456, suggerisce uno
stato di incoscienza dei trapassati (durante il sonno s’interrompe la percezione
della realtà oggettiva).
È enunciata in questo passo danielico, per quanto in modo laconico, la dot-
trina della risurrezione che gli scritti del Nuovo Testamento riprendono ed ela-
borano457.
La risurrezione della quale sta parlando l’angelo a Daniele è una risurre-
zione parziale di giusti e di reprobi: “molti di quelli che dormono si risveglie-
ranno: gli uni per la vita eterna, gli altri... per un’eterna infamia”.
Commenta E.G.White: “Tutti coloro che sono morti nella fede del messag-
gio del terzo angelo escono dai sepolcri glorificati e odono il patto di pace di
Dio concluso con chi ha osservato la sua legge. ‘Anche quelli che lo trafissero’,
Ap 1:7, coloro che disprezzarono e derisero l’agonia mortale di Cristo e i più
violenti oppositori della sua verità e del suo popolo, risusciteranno per contem-
plare la sua gloria e l’onore conferito ai fedeli e agli ubbidienti”458.
“...per la vita eterna ({flO( y¢Yx : lechayyê ‘ôlam) ...per una eterna infamia
a l
({flO( }O):rd : ledir’ôn ‘olam)”, con queste indicazioni antitetiche sono precisati i
i l
destini ultimi dei fedeli e dei ribelli.
L’ebraico dir’on, spiega il S.D.A. Bible Commentary, è “un vocabolo che
non compare in nessun altro punto della Bibbia tranne che in Is 66:24. Esso è
correlato con l’arabico dara’, ‘ripugnare’, ed ha il senso di ‘orrore’. Gli abitanti
dell’universo che per millenni furono testimoni del gran conflitto, proveranno un
senso di forte ripugnanza verso il peccato. Quando sarà finito il conflitto e il
nome di Dio sarà pienamente giustificato, un profondo senso di orrore per il
peccato e per tutto ciò che esso ha contaminato percorrerà l’universo. E’ questo
orrore che dà concretezza alla prospettiva che mai più il peccato turberà l’armo-
nia dell’universo”459.

3 E i savi risplenderanno come lo splendore della distesa, e quelli


che ne avranno condotti molti alla giustizia, risplenderanno come le
stelle, in sempiterno.

Il passo è strutturato nella forma del parallelismo sinonimico caratteristico della


poesia ebraica.
È data dei savi un’immagine dinamica: essi sono “quelli che avranno con-
dotto molti alla giustizia”.

456 - Cfr. 2Re 2:10; Sl 10:3; Mt 27:52; Gv 11:11; 1Co 15:20; 1Te 4:14; 2Pie 3:4.
457 - Cfr. Mt 22:30; Lc 14:14; Gv 5:29; 6:40; At 24:15; 1Co 6:14; 15:42-44, 51-52; 1Te 4:16-
17; Ap 20:5-6.
458 - The Great Controversy, p. 637; nell’edizione italiana Il Gran Conflitto, p. 463.
459 - Vol. IV, p. 878

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CAPITOLO 12

L’ebr. {yilKi &


: M a hammaskilîm, “i saggi”, viene dal verbo sakal, “essere pru-
a h
dente”, “agire con circospezione” (Gesenius). Maskilîm, participio hifil del verbo
sakal, può essere preso nel senso causativo: “coloro che insegnano la prudenza,
che fanno essere prudenti”. È precisamente nell’esercizio di questa funzione che
i “saggi” sono visti in 11:33 (“i savi fra il popolo ne istruiranno molti”). “L’uomo
che ha conoscenza delle cose di Dio, da questa conoscenza è reso edotto che
quelle cose egli deve condividerle. La sapienza divina lo induce a farsi maestro
di saggezza per gli altri”460.
Quali mutamenti radicali apporterà nell’ordine storico l’irruzione del tempo
finale! I “saggi”, già perseguitati a morte (11:33-35): saranno allora resi partecipi
della gloria eterna degli esseri immortali: “risplenderanno come le stelle in sem-
piterno” (cfr. 1Gv 3:2), e i loro persecutori, già trionfanti, saranno precipitati
nell’infamia.
Con questa visione esaltante dei santi risorti e glorificati nel regno eterno di
Dio si chiude l’ultima rivelazione che fu data al santo profeta Daniele.

4 E tu, Daniele, tieni nascoste queste parole, e sigilla il libro sino al


tempo della fine; molti lo studieranno con cura, e la conoscenza au-
menterà”.

A complemento della rivelazione, una precisa istruzione riguardo ad essa viene


data a Daniele.
Il profeta dovrà mantenere segrete le cose che gli sono state rivelate:
{yirb f D
: ha {ots: l)¢Yné d a wº we’athah dâni’el sethom haddevarîm..., “e tu, Daniele,
f hfT)
nascondi le parole...” (da satham, “fermare”, “rinchiudere”, “nascondere”). Dovrà
anche sigillare il libro nel quale raccoglierà per iscritto quanto gli è stato rivelato:
repS" ha {otx A wá wachathom hassefer..., “e sigilla il libro...” (da châtham, “sigillare”).
“Parole” e “libro” si riferiscono sostanzialmente alla stessa cosa, cioè alla profezia
che ha avuto inizio in 11:2.
“Tale piccolo documento - osserva H.C. Leupold - nell’ebraico può signifi-
care qualunque documento, sia esso esteso o breve”461.
Non l’intero libro di Daniele doveva dunque essere mantenuto segreto, ma
soltanto una sua porzione. Un’istruzione analoga Daniele aveva ricevuto ri-
guardo alla profezia delle “sere e mattine” in 8:26: “Tu tieni segreta la visione”,
sethom hachazôn. La motivazione è sostanzialmente la stessa che in 8:26, anche
se è espressa con parole differenti: “perchè si riferisce a un tempo lontano”, lett.
“a molti giorni”, leyamîm rabîm (in 12:4: “sino al tempo della fine”, j"q t"(-da( ‘ad
‘eth qetz). Il silenzio imposto a Daniele dall’angelo riguardava chiaramente por-
zioni di profezia riferentisi agli ultimi tempi. “È naturale - scrive E.G.White - che
un messaggio attinente al giudizio potesse essere proclamato solo quando fosse

460 - S.D.A. Bible Commentary, vol. cit., p. 879.


461 - H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 534.

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CAPIRE DANIELE

giunto il tempo della fine”462. Secondo la stessa fonte463 il “libretto aperto” nella
mano dell’angelo potente descritto in Ap 10:1,2, non è altro che la porzione del
libro di Daniele che dovette essere mantenuta segreta e sigillata sino al tempo
della fine.
“Molti - evidentemente nel tempo della fine - lo studieranno con cura e la
conoscenza aumenterà”, ebr. ta(D f h
a heBr
: t a U+:+o$yº yeshottû rabîm wethirbeh
i wº {yiBr
hadda‘ath, lett. “lo esamineranno con diligenza in molti e si accrescerà la cono-
scenza”464. Osserva H.C.Leupold: “quando l’articolo è adoperato con la parola
‘fine’, questa parola denota palesemente la fine di tutte le cose (...). Allora ‘molti
lo esamineranno con attenzione’. Il verbo shut significa in primo luogo ‘andare
avanti e indietro’, ma con riferimento a un libro ciò significherebbe fare scorrere
lo sguardo avanti e indietro, cioè ‘esaminare’. E poiché il verbo è nella forma in-
tensiva (yeshotetu), abbiamo cercato di rendere questa sfumatura di senso col
tradurlo ‘esamineranno con diligenza’: leggeranno e rileggeranno e controlle-
ranno quello che avranno letto... E a mano a mano che procederanno in questa
seria disamina, ‘la conoscenza si accrescerà’. Alla luce degli accadimenti degli ul-
timi tempi, lo scopo a cui mira il libro ed il suo significato diverranno sempre
più palesi”465.
Il S.D.A. Bible Commentary (vol. IV, p. 879) sottolinea che la frase: “e la co-
noscenza sarà accresciuta” deve considerarsi il seguito logico della precedente. E
commenta testualmente: “Quando il libro sigillato sarà dischiuso nel tempo della
fine, la conoscenza attinente alle verità contenute in queste profezie aumenterà
(...). Sul finire del secolo XVIII e agli inizi del XIX, un insolito interesse verso le
profezie di Daniele e dell’Apocalisse si manifestò in aree geografiche distanti
l’una dall’altra. Lo studio delle suddette profezie condusse alla convinzione dif-
fusa che il secondo avvento di Cristo fosse vicino. Numerosi espositori in Inghil-
terra, Joseph Wolff nel Medio Oriente, Manuel Lacunza nel Sud America e Wil-
liam Miller negli Stati Uniti, insieme con una schiera di altri studiosi delle profe-
zie, dichiararono, sulla base del loro studio delle profezie di Daniele, che era im-
minente il secondo avvento”466.

462 - The Great Controversy, p. 356: (nell’ediz. italiana Il Gran Conflitto, p. 261); vedi anche
Acts of the Apostles, p. 585 (nell’ediz. italiana Gli uomini che vinsero un impero, p. 367) e The
Desire of Ages (nell’ediz. italiana La speranza dell’uomo, p. 157).
463 - Vedi Testimonies to Ministers, p. 115.
464 - Yeshotetu è la forma intensiva (piel) del verbo shut, “andare o correre avanti e indietro”,
e metaforicamente “scorrere un libro”, “esaminare minuziosamente uno scritto”, secondo la
maggioranza dei moderni (B. DAVIDSON). Nell’Antico Testamento shut ritorna 13 volte (Nu 11:8;
2Sm 24:2,8; 2Cr 16:9; Gb 1:7; 2:2; Gr 5:1; 49:3; Ez 27:8, 26; Dn 12:4; Am 8: 12; Za 4:10),
per lo più col senso di “andare attorno”, “girovagare”. In Dn 12:4 i più lo leggono nel senso
metaforico di “indagare con cura nel libro” con un conseguente accrescimento della cono-
scenza delle sue profezie.
465 - H.C.LEUPOLD, op. cit., pp. 534-535.
466 - Per ulteriori approfondimenti sul tema degli studi profetici fra l’ultimo settecento e il primo
ottocento, vedi LE ROY EDWIN FROOM, The Prophetic Faith of our Fathers, vol. III; R.GERBER, Le
Mouvement Adventiste, p. 16-53.

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CAPITOLO 12

5 Poi, io, Daniele, guardai, ed ecco due altri uomini in piedi: l’uno di
qua sulla sponda del fiume, 6 e l’altro di là, sull’altra sponda del
fiume. E l’un d’essi disse all’uomo vestito di lino che stava sopra le
acque del fiume: “Quando sarà la fine di queste maraviglie?”

Il messaggio profetico recato a Daniele da un angelo (presumibilmente Ga-


briele), introdotto in 11:2, si è concluso nel v. 4 del cap. 12. Daniele non dice se
il latore del messaggio celeste una volta conclusa la sua missione se ne sia an-
dato o gli sia rimasto ancora vicino. Comunque volgendo lo sguardo intorno o
davanti a sé, il profeta scorge due figure dall’aspetto umano che si tengono in
piedi sulle rive opposte del fiume (ye’or), certamente l’Hiddekel (il Tigri) in pros-
simità del quale egli si trovava all’inizio della rivelazione (10:4). Sono due angeli
ed è probabile che siano comparsi alla fine della rivelazione stessa. Non è spie-
gato perché siano in due e perché si tengano sulle opposte sponde del fiume.
Anche in 8:13 due angeli stanno davanti a Daniele, e dialogano fra loro; qui
invece è uno solo che parla. Un terzo personaggio, certamente di rango supe-
riore (è vestito di lino), si tiene in piedi sulle acque del fiume e a lui si rivolge
l’uno degli angeli che parla. Daniele ha già visto una figura simile a questa al
principio della visione (10:5). Ivi il personaggio è indicato in modo indetermi-
nato: “un uomo vestito di lino”, ’ish ’echad levûsh habbaddîm, come se lo avesse
visto per la prima volta. Qui invece è indicato con l’articolo: “all’uomo in abiti di
lino”, {yiDB
a h f la’îsh levush habbaddîm, come riferendosi a un perso-
a $Ub:l $yi)l
naggio già noto. Parrebbe che alla fine della rivelazione il profeta vedesse di
nuovo l’Essere celeste che gli era apparso all’inizio, pur se stavolta non si di-
lunga a descriverne l’aspetto.
“E l’un d’essi disse...” I LXX, Teodozione e la Vulgata traducono: “E dissi...”;
così pure G.Rinaldi. Questo sarebbe con certezza il senso della frase se
nell’ebraico il verbo fosse seguito dal pronome di prima persona. Ma non è così,
wayo’mer non ha alcun pronome ed è seguito immediatamente dalla menzione
dell’ “uomo vestito di lino”, onde la traduzione quasi univoca delle versioni: “e
uno (di loro) disse...” sembra del tutto corretta.
La domanda, che l’uno degli angeli rivolge al personaggio che sta sulle ac-
que, pare rivelare un vivo interesse delle creature celesti per gli eventi umani. In
8:13 una domanda sulle 2300 sere e mattine formulata inizialmente negli stessi
termini (‘ad mathay..., “fino a quando...?”) fu rivolta dall’uno dei due angeli dia-
loganti tra loro all’angelo interprete della profezia. Ivi pure si scorge l’interesse
dell’universo angelico per le vicende terrene che attengono alla salvezza degli
uomini (cfr. 1Pie 1:12).
Nell’originale l’interrogazione è così formulata: tO)fl:Pah j"q yatfm-da( ‘ad
mathay qetz happela’ôth. Letteralmente: “fino a quando la fine delle meraviglie?”
L’inserzione dell’aggettivo dimostrativo “queste” tra “fine” e “meraviglie”, seb-
bene non ci sia nell’originale, si impone, giacché pela’ôth (“meraviglie”) si riferi-
sce con tutta evidenza agli eventi preannunciati nella rivelazione.
Il S.D.A. Bible Commentary, ibidem, p. 880, osserva: “L’angelo formula la do-
manda inespressa che deve avere predominato nei pensieri di Daniele. La rapida

370
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CAPIRE DANIELE

e completa restaurazione dei Giudei gravava come un macigno sul cuore del pro-
feta (vedi su Dn 10:2). Invero il decreto di Ciro era già stato promulgato (Ed 1:1;
cfr. Dn 10:1), ma restava ancora molto da fare. Dopo la narrazione lunga ed intri-
cata sugli avvenimenti futuri nel corso dei quali il popolo di Dio avrebbe sofferto,
il profeta era naturalmente ansioso di sapere per quanto tempo ancora si sareb-
bero svolte ‘queste meraviglie’ e quando si sarebbe avverata la promessa ‘il tuo
popolo sarà salvato’ (12:1). Daniele non aveva colto appieno la relazione fra ciò
che gli era stato mostrato ed il futuro. Peraltro una parte della profezia era stata
sigillata e sarebbe stata compresa soltanto ‘nel tempo della fine’”.

7 E io udii l’uomo vestito di lino, che stava sopra le acque del fiume,
il quale, alzata la man destra e la man sinistra al cielo, giurò per co-
lui che vive in eterno, che ciò sarà per un tempo, per dei tempi e la
metà d’un tempo; e quando la forza del popolo santo sarà intera-
mente infranta, allora tutte queste cose si compiranno.

Colui al quale è stata rivolta la domanda è il solo che sia pienamente qualificato
per dare risposte certe su ciò che è incognito agli uomini, perché possiede una
conoscenza del futuro che nessun altro possiede; pertanto “l’uomo vestito di
lino” è interprete autorevole e infallibile della rivelazione.
Fin dall’antichità l’alzare la mano era un gesto che rafforzava il giuramento.
Abramo dice al re di Sodoma: “Ho alzato la mano all’Eterno, l’Iddio Altissimo,
padrone dei cieli e della terra, giurando che non prenderei neppure un filo né
un laccio di sandalo, di tutto ciò che ti appartiene...” (Ge 14: 22-23). Con lo
stesso gesto è espresso metaforicamente l’impegno solenne di Dio di mandare
ad effetto le sue promesse e le sue minacce (cfr. De 32: 40; Sl 106: 26; Ez 20: 5-
6). Alzare entrambe le mani nel giuramento è un gesto che conferisce la più alta
solennità possibile al giuramento stesso. “L’uomo vestito di lino”, alzando al
cielo la mano destra e la mano sinistra, riveste di una solennità incomparabile il
giuramento, già di per sé solenne (“giurò per colui che vive nei secoli dei se-
coli”), sulla veracità della risposta che sta per dare all’interpellante.
La domanda era stata chiara e precisa: “A quando la fine di queste meravi-
glie?” (Concordata).
Si voleva sapere, insomma, entro quanto tempo si sarebbero realizzate le
cose straordinarie anticipate nella rivelazione del cap.11. La risposta è concisa e
diretta ma alquanto ermetica (“ciò sarà per un tempo, per dei tempi e la metà
d’un tempo”)467. L’indicazione cronologica è identica a quella che fissa la durata
della persecuzione del “piccolo corno” contro i “santi dell’Altissimo” in 7:25, ivi
enunciata in aramaico. La coincidenza dell’attività persecutoria contro il popolo
santo ad opera del “re del nord” nel cap. 11 e del “piccolo corno” nel cap. 7,
nonché l’identità della durata della persecuzione, porta a concludere che le due

467 - Ebraico lemo‘ed mo‘adîm wachezi, lett. “per un tempo, tempi e metà tempo”.

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CAPITOLO 12

figure simboliche debbano riferirsi alla stessa entità storica468. E’ da rilevare che il
termine mo‘ed esprime il concetto di tempo fissato, determinato.
Per generale consenso dei traduttori e degli espositori di Daniele (vedi il
commento di 7:25) le forme plurali aramaica ‘iddanîn ed ebraica mo‘adîm do-
vrebbero leggersi nella forma duale (‘iddanayin e mo‘adayim). Pertanto l’indica-
zione temporale in entrambi i casi corrisponde a 3 anni e mezzo o 1260 giorni
(giorni simbolico-profetici, come si è spiegato altrove, eguagliabili ad altrettanti
anni storici).
In definitiva la dichiarazione dell’ “uomo vestito di lino” fatta con solenne
giuramento rivela che le cose straordinarie annunciate nella rivelazione si compi-
ranno nell’arco temporale di 1260 anni.
Tutto sarà compiuto “quando la forza del popolo santo sarà interamente in-
franta” (così la Versione Riveduta). L’ebraico recita: heL) " -lfk hænyelk: Ti $edoq-{a(-dáy
j"Pná tOLakk: U ûkekallôth napez yad ‘am qodesh tikleyna kol ’elleh, tradotto alla let-
tera: “e quando sarà completa (o finita) la dissipazione della forza del popolo
santo, saranno compiute tutte queste cose”469 (yad, lett. “mano”, è usato col
senso traslato di “forza”).
H.C. Leupold opta per la seconda accezione della voce kekalloth, “quando
sarà finita”, e traduce: “e quando sarà posto fine alla dispersione della forza del
popolo santo, allora tutte queste cose saranno finite”. Questa è la traduzione che
preferiamo.
Il periodo storico dei 1260 anni durante i quali furono sottoposti a persecu-
zione i cristiani non cattolici fedeli all’Evangelo, cominciò, come si è detto al-
trove, nel 538 e finì nel 1798 (vedi ancora il commento di 7:25).
Gesù Cristo nella parte del sermone profetico in cui predice il suo ritorno
avverte: “Or subito dopo l’afflizione di quei giorni il sole si oscurerà, e la luna
non darà il suo splendore, e le potenze dei cieli saranno scrollate; e allora appa-
rirà nel cielo il segno del Figliol dell’uomo...” (Mt 24: 29-30; cfr. con Ap 6:12-13).
I segni cosmici indicati dal Signore si realizzarono fra il 1780 e il 1833470.
Le nuove correnti di pensiero e i profondi mutamenti politici che furono in-
nescati dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese tra la metà e la fine del set-
tecento, posero fine alle persecuzioni papali contro i cristiani evangelici. Fu in
questo momento della storia moderna che finì “la dissipazione della forza del
popolo santo”, compiendosi quanto fu annunciato dall’“uomo vestito di lino”
che stava sulle acque del fiume.

8 E io udii, ma non compresi; e dissi: “Signor mio, quale sarà la fine


di queste cose?” 9 Ed egli rispose: “Va’, Daniele; poiché queste parole
son nascoste e sigillate sino al tempo della fine.

468 - Cfr. H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 540


469 - G.Rinaldi traduce: “e quando sarà compiuta la dispersione della potenza del popolo
santo, si compiranno tutte queste cose”.
470 - Vedi E.G.WHITE, Il Gran Conflitto, pp. 223 - 226.

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CAPIRE DANIELE

La formula cronologica “un tempo, tempi e metà tempo”, che Daniele non ha
udito enunciare per la prima volta (cfr. 7:25), gli rimane tuttora oscura.
L’uso del pronome personale (“ed io”, we’anî), non sempre necessario nella
lingua ebraica, può far pensare che il profeta si sia accorto che i due angeli ab-
biano capito la dichiarazione dell’ “uomo vestito di lino”, mentre per lui è rima-
sta enigmatica.
Ed egli è ansioso di capire, perché sono coinvolti i destini del suo popolo.
Due anni prima Daniele aveva invocato la sollecita restaurazione del santuario e
della santa città in rovina (9:17-19) e tuttora in stato di desolazione; non riesce
quindi a conciliare la risposta immediata di Dio alla sua supplica (9:23-25) con
questo oscuro periodo di tempo che sembra essere piuttosto lungo. Donde la
sua domanda: “A quando la fine di queste cose?”
L’interrogativo è formulato in termini diversi rispetto all’interpellanza
dell’angelo. Questi aveva detto: “A quando la fine (di queste) meraviglie ?” (‘ad
mathay qetz happela’ôth); Daniele dice in sostanza: “Quale sarà l’esito finale di
queste cose?” (heL) " tyirx a hfm mâh ’acharîth ’elleh). “Esito finale” è il senso di
A )
’acharith, in questo contesto danielico, preferito da diversi studiosi471. Sembra,
insomma, che il profeta sia ansioso di sapere che cosa accadrà dopo che si sa-
ranno compiute le cose straordinarie (pela’ôth) annunciate nella rivelazione. Ma
stavolta non ci sarà una risposta per la sua domanda. L’interpellato gli rammenta
che quelle “parole sono nascoste e sigillate sino al tempo della fine” (j"q t"(-da(
{yirb
f D
: ha {yimt
u x u s: situmîm wachatumîm haddevarîm ‘ad ‘eth qetz). Non gli
A wá {yimt
aveva comandato l’angelo della rivelazione di tenere nascoste quelle parole e di
sigillare il libro sino al tempo della fine ? E’ una disposizione divina, non può es-
sere disattesa.

10 Molti saranno purificati, imbiancati, affinati; ma gli empi agi-


ranno empiamente, e nessuno degli empi capirà, ma capiranno i
savi.

“L’uomo vestito di lino” che sta “sopra le acque del fiume” predice, per il tempo
della fine (menzionato nell’ultima parte del versetto precedente), un radicaliz-
zarsi delle inverse condizioni morali degli uomini. Sul versante opposto rispetto
ai “molti” che saranno purificati, resi candidi e raffinati, si troveranno gli empi
che agiranno con empietà ({yi($f r
: U(yi$r i wº hirshî‘û resha‘îm).
: h
Gesù pure previde per il tempo della fine un moltiplicarsi dell’iniquità (Mt
24:12). Nella grande tribolazione dell’ultimo tempo (12:1), mentre si purifiche-
ranno e si santificheranno ancora di più i puri ed i santi (Ap 22:11b), gli ingiusti
agiranno sempre più da ingiusti e gli impuri da impuri (Ap 22:11a).
In 12:10 le due prime voci verbali (UrArB : yé yitbararû e Un:Bl
f t : yé weyitlabbenu)
a t

471 - Vedi H.C.LEUPOLD, op. cit., p. 542; cfr. B.DAVIDSON, The Analytical Hebrew and Chaldee Lexi-
con, voce ’acharith.

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CAPITOLO 12

sono nella forma hitpael (riflessiva-intensiva) e potrebbero pertanto tradursi “si


purificheranno” e “si renderanno candidi”.
Il perfezionamento del carattere è frutto della grazia divina, ma è l’adesione
della volontà umana che rende possibile l’azione efficace della grazia di Gesù
Cristo nel cuore umano (Rm 6:17-19).
Le porzioni sigillate delle profezie danieliche che si sveleranno ai “saggi”
nel tempo della fine, resteranno per gli empi di un’oscurità impenetrabile: “nes-
suno degli empi capirà” (lett. “e non capiranno tutti gli empi”, welo’ yavînû qol
resha‘îm). Gesù disse ai suoi discepoli che a loro era dato di conoscere il mi-
stero del regno dei cieli, ma agli altri no (Mt 13:11).
I “saggi” dell’ultimo tempo comprenderanno le profezie svelate (Unyibæy
{yilKi &
: M a wº wehammaskilîm yavînû) e ne trarranno ispirazione per rimanere fedeli
a h
al loro Signore nella grande tribolazione finale.

11 E dal tempo che sarà soppresso il sacrifizio continuo e sarà riz-


zata l’abominazione che cagiona la desolazione, vi saranno mille-
duecentonovanta giorni. 12 Beato chi aspetta e giunge a milletrecen-
totrentacinque giorni!

Come si è detto altrove nel presente volume a proposito delle 2300 sere e mat-
tine (vedi il commento di 7:25 e 8:14), i “giorni a cui si fa riferimento nel v. 12
vanno compresi in termini di anni storici (sono “giorni simbolico-profetici, non
giorni di calendario).
Il prof. J.Doukhan spiega che il modo in cui sono rapportati l’uno con l’al-
tro i due periodi di 1290 e 1335 giorni suggerisce che entrambi questi periodi
sono orientati nella stessa prospettiva, il secondo rappresentando un prolunga-
mento del primo472.
L’inizio dei due periodi è sincrono ed è segnato dalla soppressione della
“perpetuità” (dyimTf h
a hattamîd) e dalla collocazione dell’ “abominazione della de-
solazione” (o “del desolatore”), {"mo$ jUQi$ shiqqûtz shomen.
Il senso di questa espressione è stato spiegato nel commento di 9:27, dove
si trova un’espressione molto simile (we‘al kanaf shiqqûtzîm meshômem, lett. “e
sull’ala delle abominazioni, desolazione”).
Come si è osservato nel commento di 9:27, Gesù Cristo nel Vangelo di Mat-
teo (24:15) cita queste parole di Daniele e le riferisce alla profanazione e desola-
zione del Tempio di Gerusalemme che avvennero al tempo dell’insurrezione
giudaica contro la dominazione romana.
Il tema della desolazione del santuario è presente anche in 8:11-13. Come
nel discorso profetico di Gesù in Mt 24 sono accostati fra loro due eventi futuri
distanti l’uno dall’altro nel tempo – cioè: 1) la profanazione e desolazione del
tempio ad opera degli zeloti e dei Romani e 2) l’avvento di Cristo e la fine

472 - J.DOUKHAN, op. cit., p. 264.

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CAPIRE DANIELE

dell’“età presente” - così in questo passo di Daniele l’attacco mosso dal “piccolo
corno” al tamîd (la “perpetuità”) del Principe celeste e al suo santuario - questa
aggressione che costituisce il “peccato che produce la desolazione” (happesha‘
shomen) - può essere visto su due piani prospettici, e cioè: 1) nella prospettiva
della storia del popolo giudaico, come una predizione della profanazione e di-
struzione del Tempio gerosolimitano nell’anno ’70 (in modo simile che in 9:27) e
2) nella prospettiva della storia del cristianesimo come un’allusione profetica alla
sostituzione del ministero sacerdotale continuo (tamîd) di Cristo nel santuario
del cielo con un ministero sacerdotale terreno ad opera della Chiesa romana473.
Abbiamo visto che l’inizio dei 1290 e dei 1335 giorni è sincrono, cioè contempo-
raneo; ne segue che il secondo periodo termina 45 giorni-anni dopo che è finito
il primo (1335-1290 = 45), (non si deve dimenticare che “giorni” nelle profezie
apocalittiche equivalgono ad anni).
Il commento di J.Doukhan sui due versetti in esame in queste pagine è illu-
minante. Scrive questo studioso nel suo lavoro più volte citato nel presente com-
mentario: “Con i 1335 giorni si arriva a destinazione. È l’ultimo periodo menzio-
nato ed è anche il solo che sia segnato dal senso dell’arrivo alla meta dopo la
tensione dell’attesa impaziente. Pertanto è questo il periodo che risponde vera-
mente alla domanda: ‘fino a quando?’ (v. 7; cfr. il v. 8). Ora questa domanda, si
badi bene, è identica a quella del cap. 8. Non solo è composta dalle stesse pa-
role ebraiche ‘ad mathay (fino a quando?), ma è ugualmente associata allo
stesso motivo dei ‘prodigi’ (pela‘ôth, 8:13, 24) ed è inserita nel medesimo conte-
sto di dialogo fra due esseri celesti (8:13, cfr. 12:6).
Infine il personaggio a cui è rivolta la domanda si presenta con l’abito del
sommo sacerdote nell’esercizio delle funzioni che gli competono nel giorno del
Kippur, un tema dominante nel cap. 8. Tutto concorre a suggerire che le due vi-
sioni traducono la stessa preoccupazione e si applicano al medesimo evento. I
1335 giorni, come le 2300 sere e mattine, rispondono alla stessa domanda, una
domanda che esprime un’identica preoccupazione, e per conseguenza condu-
cono al medesimo tempo della fine, il 1844. “Nella visione delle 2300 sere e mat-
tine, Daniele vede il tempo che inizia nel 1844 come un tempo di Kippur celeste
nel corso del quale Dio procede a giudicare gli uomini e così prepara il regno
che viene.
“Nella visione dei 1335 giorni, Daniele vede lo stesso tempo, ma stavolta il
suo sguardo si volge verso la terra. Il periodo profetico è messo in rapporto con
l’uomo di quaggiù che ‘arriva’ fin lì e la cui felicità si scopre nell’attesa.
“‘Beato chi aspetta e arriva fin lì...’ (v. 12). Il tempo che inizia nel 1844 è
dunque vissuto non solo come un tempo di arrivo a destinazione, ma altresì
come un tempo di attesa e di speranza. È precisamente lo spirito che caratterizza
la psicologia dell’israelita nel giorno del Kippur.
Gli stessi sentimenti di attesa e di speranza animano il Salmo della Festa

473 - Cfr. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 873-874.

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CAPITOLO 12

delle Espiazioni, il famoso De profundis:474.

‘Io aspetto l’Eterno, l’anima mia l’aspetta,


E io spero nella sua parola.
L’anima mia anela al Signore
Più che le guardie non anelino al mattino.
Israele, spera nell’Eterno’ (Sl 130: 5-7)

“A partire da quest’ultimo dato oggi è possibile decifrare i periodi prece-


denti e nello stesso tempo verificare il valore del risultato ‘1844’. Il ragionamento
è semplice e si formula in termini matematici. Il 1844 essendo l’anno di scadenza
dei 1335 giorni-anni, basta sottrarre 1335 anni da 1843 (e non da 1844, giacché si
includerebbe nel computo tutto l’anno in corso) per determinare il punto d’ini-
zio dei 1335 giorni-anni. La data che si ottiene è l’anno 508 della nostra era; con
ciò viene ad essere confermata la data del 1798 come termine di scadenza dei
1290 giorni (508 + 1290 = 1798). Secondo il passo in esame, questo tempo segna
il momento in cui è tolto il sacrificio perpetuo allo scopo di stabilire in sua vece
‘l’abominazione del devastatore’ (12:11). I due eventi non coincidono. Il primo
prepara il secondo. Il testo dice letteralmente che il perpetuo è tolto ‘al fine di
dare (rizzare) l’abominazione del devastatore’ (12:11; cfr. 11:31). L’espressione
tecnica ‘abominazione del devastatore’ nel libro di Daniele designa il potere op-
pressore (8:11, 13; 9:27; cfr. Mt 24:15; Mr 13:14). Secondo la profezia questa op-
pressione dovrà durare ‘un tempo, dei tempi e la metà di un tempo’, vale a dire
1260 giorni-anni. Poiché questi 1260 anni scadono nel 1798, se ne deduce che la
data d’inizio di questo periodo è l’anno 538 (1798-1260 = 538). Queste date, 508,
538, 1798, si sono già incontrate nel corso dello stadio profetico (...).
“Nel 508 la Chiesa rafforza le sue basi politiche con l’aiuto del re dei Fran-
chi Clodoveo (481-511)475. Nel mondo ariano che si oppone alla Chiesa e ne

474 - Questo salmo viene recitato nel corso della liturgia del Kippur (vedi “Le preghiere del
Rosh Hashanah” in Shulchan Aruch, c. CIC, 582). Sembra anche che il salmo abbia tratto ispi-
razione da questa festa, come indica la frase tecnica che lo conclude: “tutte le sue iniquità”
(cfr. Le 16:21, 22) - (Nota dell’Autore)
475 - Il franco Clodoveo ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende che modificarono in modo
significativo l’assetto politico dei territori nord occidentali del defunto Impero romano tra l’ul-
timo quindicennio del V e i primi anni del VI secolo. Unificate le tribù dei Salii e dei Ripuari, Clo-
doveo estese gradatamente il dominio dei Franchi dalla regione renana verso sud-ovest. Nel
486 vinse a Soissons il capo gallo-romano Siagrio, ultimo rappresentante dell’autorità romana
in Gallia, e si annesse la regione fra la Somme e la Loira. Nel 496 il futuro fondatore del regno
dei Franchi sconfisse gli Alamanni a Tolbiac conquistandone i territori. Nello stesso anno si
convertì al cattolicesimo per l’influsso della moglie cattolica, la burgunda Clotilde, e si fece bat-
tezzare a Reims dal vescovo Remigio. Fu questo un evento di notevole significato, sia per il re-
gno franco che per la Chiesa romana.
“La conversione (di Clodoveo) al cattolicesimo - osserva lo storico Pasquale Villari - ... iniziò la
conversione del suo popolo. E la monarchia ne ebbe subito il favore della Chiesa romana che,

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CAPIRE DANIELE

frena lo sviluppo si apre una breccia e da quel momento ‘il papato può attuare
in tutta sicurezza i propri progetti di governo’476.
“Ma si deve attendere fino al 538 perché l’ultimo regno ariano che minaccia
ancora la Chiesa sia finalmente respinto dall’imperatore Giustiniano (527-565).
Come aveva predetto il profeta Daniele (7:27), la comparsa del piccolo corno
avrebbe comportato la caduta di un certo numero di regni già dipendenti dalla
dominazione romana.
“Nel 1798 infine, la potenza politica della Chiesa è spezzata a seguito di una
serie di avvenimenti che condurranno all’arresto e alla deportazione del papa
stesso.

per mezzo dei suoi vescovi, era organizzata ben più fortemente dell’ariana. I Franchi divennero
così il popolo eletto da Dio a difesa del papa e dalla religione”. -Le invasioni barbariche in
Italia, p. 357.
Fu una scelta politicamente oculata quella di Clodoveo. “E fu - scrive lo storico S.Hellmann in ri-
ferimento alla conversione del re franco alla fede cattolica - un avvenimento d’importanza sto-
rica: il contrasto religioso che alcuni decenni dopo doveva essere fatale per i regni ostrogoto e
vandalico e il cui pericolo fu solo scongiurato dai Visigoti e dai Longobardi con una tardiva con-
versione al cattolicesimo, fu subito da lui evitato mediante una politica saggia e lungimirante”.
Storia del Medioevo, pp. 34-35.
La conversione di Clodoveo segnò l’inizio di un processo storico che opportunisticamente asse-
condato dai papi, avrebbe condotto la Chiesa all’acquisizione del potere temporale.
“Meravigliosa addirittura - dice il Villari - è la persistenza con la quale i papi continuarono attra-
verso i secoli, l’opera loro, quasi imponendo ai Franchi la missione voluta, preveduta dalla
Chiesa; e non smisero mai fino a che essa non ebbe il suo adempimento con la coronazione di
Carlo Magno e la formazione del potere temporale”. - Op. cit, p. 358.
Nel 507 Clodoveo con l’aiuto dei Burgundi, sconfisse i Visigoti a Vouillé, nelle pianure del Poi-
tou, e tolse ad essi tutta l’Aquitania fino ai Pirenei. La vittoria di Vouillé spazzò via dalla Gallia i
Visigoti liberando dall’influenza ariana quella vasta regione. Dal 508, un regno franco forte e
unito che si estendeva dalla regione ad est del Reno fino alle coste della Manica ad ovest e ai
Pirenei a sud, avrebbe garantito alla Chiesa protezione e libertà d’azione in quelle terre ove il
cattolicesimo era stato finora avversato, consentendole di intensificare la sua influenza.
Nel corso della sua visita pastorale in Francia nel settembre del 1996, papa Wojtyla non ha
mancato di riproporre ai francesi la figura di Clodoveo di cui ricorreva il millecinquecentesimo
anniversario della conversione al cattolicesimo, “uno degli eventi che hanno formato la Fran-
cia”, ha sottolineato il Pontefice romano durante l’incontro col Presidente Chirac a Tours. In ef-
fetti, come si è visto, la conversione alla fede cattolica valse a Clodoveo l’appoggio della
Chiesa, una circostanza che contribuì in maniera determinante alla sua affermazione politica. E
valse alla Chiesa il sostegno di una nazione destinata a dominare nei prossimi secoli la politica
dell’Europa germanica e latina.
476 - W. ULLMANN, A Short History of the Papacy in the Middle Ages, New York, 1972, p. 37.
“Verso il ‘500, scrive Marcel Pacaut, si libera un’istituzione la cui autorità (...) è incontestabile
(...) Il papa, sommo pontefice (summu pontifex), sommo sacerdote (summus sacerdos), talora
persino chiamato (...) ‘Vicario di Cristo’ (...) gode nella sede apostolica di un prestigio partico-
lare”. - Histoire de la Papautè de l’Origine au Concile di Trente, Parigi 1976, p. 44. (Nota
dell’Autore)

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CAPITOLO 12

“Quanto al 1844, si deve riconoscere che anche su questa data la profezia


ha visto giusto. Certo il 1844, al contrario delle altre date a cui si è fatto riferi-
mento prima, non è una data che la storia abbia conservato. Ad essa non è asso-
ciata una rivoluzione né una conquista e nemmeno un decreto reale. Quella
data non figura nei manuali di storia; essa non evoca nulla nelle nostre memorie
scolastiche. Eppure, se si crede al libro di Daniele, il 1844 è una data che conta.
Quell’anno precisamente è segnato dal montare di un movimento di attesa e di
speranza, un movimento nel contempo interconfessionale e internazionale che
definisce sé stesso precisamente in rapporto alla venuta, ‘all’avvento’ di Dio477.
Quell’anno è anche segnato da un intensificarsi degli studi sul libro di Daniele, e
specificamente su quella profezia che annunciava il tempo della fine. C’è da stu-
pirsene ? Nel 1844 è finalmente decodificata la profezia che annuncia il 1844.
“A partire da questa data in effetti la profezia si chiarisce, la si comprende.
Daniele lo aveva previsto. L’angelo lo aveva prevenuto. Solo nel tempo della
fine la parola sarebbe stata desigillata e la si sarebbe capita (vv. 4, 9, 10).
Quando la profezia si adempie, allora si può riconoscerla, si può comprenderla
e vi si può credere:

‘... ve l’ho detto prima che avvenga, affinché, quando


sarà avvenuto, crediate’ (Gv 14. 29)

“Questa è la ragione d’essere di tutte quelle date che segnano il percorso


della storia: servire da punti di riferimento nel tempo, per risvegliare e rafforzare
l’attesa”478.

13 Ma tu avviati verso la fine; tu ti riposerai, e poi sorgerai per rice-


vere la tua parte di eredità, alla fine de’ giorni.

Secoli e secoli sarebbero trascorsi prima che si fossero compiute le ultime profe-
zie rivelate a Daniele; esse non potevano dunque riguardare lui e la sua genera-
zione. La vita terrena dell’anziano profeta - una vita intensa, tutta dedita alla mis-
sione alla quale è stato chiamato molti anni prima - volge oramai alla fine.
Essere profeta per le età e per le genti a venire, essere profeta universale,
insomma: fu questa la missione della quale Daniele fu investito ed egli l’ha
svolta con indefettibile fedeltà raccogliendo in forma scritta per consegnarle ai
posteri tutte le straordinarie rivelazioni che gli sono state date.
Adesso Daniele deve prepararsi al trapasso. Nell’immediato lo attende il ri-
poso nel sepolcro, non la gloria del paradiso! L’eredità eterna la riceverà quando
risorgerà “alla fine dei giorni”.

477 - Su questo soggetto vedi H. DESROCHE, Sociologie de l’Esperance, Parigi 1973. (Nota
dell’Autore)
478 - Le soupir de la terre, pp. 264-267.

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Come somiglia a quella che intravide Paolo alla vigilia del martirio la pro-
spettiva che fu posta davanti a Daniele prossimo a lasciare la vita presente.
L’apostolo di Gesù si aspettò anch’egli per l’ultimo giorno la ricompensa riser-
vata ai fedeli del Signore: “... il tempo della mia dipartenza è giunto... del rima-
nente mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi as-
segnerà in quel giorno” (2Tm 4: 6, 8). D’ora fino a “quel giorno” egli riposerà nel
seno della terra, come il santo profeta Daniele.

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Note storiche
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1. BABILONIA

B abilonia sorse in epoca remota (v. Ge 11: 1-9) nella pianura alluvionale per-
corsa dal Tigri e dall’Eufrate. Nella seconda metà del III millennio a.C. essa
divenne, per merito del grande re Sargon di Akkad, il centro di un vasto impero
che si estendeva dal golfo Persico al centro dell’Anatolia. La città decadde circa
cento anni più tardi quando fu occupata dai barbari Gutei scesi dalle montagne
a est del Tigri. Poco più di un secolo dopo, Babilonia entrò nell’orbita politica di
Ur avendo i prìncipi del risorto impero sumerico cacciato dal paese i rudi mon-
tanari.
Nel XIX sec. A.C., dissoltosi l’impero sumerico, Babilonia fu per breve
tempo sotto il controllo degli Elamiti; in seguito fu occupata dai semiti Amorrei
venuti dal deserto della Siria. Sotto la dinastia amorrea, che ebbe in Hammurabi
(c.ca 1728-1686 a.C.) il più illustre dei suoi rappresentanti, la città acquistò
nuovo lustro divenendo ancora una volta la capitale di un grande impero. Estin-
tasi la dinastia amorrea a metà del II millennio, Babilonia decadde di nuovo;
presa e saccheggiata dagli Hittiti dell’Anatolia, fu poi occupata dai Kassiti che la
tennero per vari secoli.
Nel XIII sec. a.C. ai Kassiti subentrarono gli Assiri, e Babilonia rimase per
seicento anni una dipendenza di Ninive, governata per lo più da principi vas-
salli. Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.) e Sargon II (722-705), il distruttore di Sama-
ria, vollero cingere essi stessi la corona di Babilonia. Invece Sennacherib (705-
685), stanco di domare rivolte, distrusse la città nel 689 a.C.
Risorta dalle sue macerie in breve tempo, Babilonia fu governata da locali
principi caldei sottomessi alla sovranità di Ninive, ma anelanti all’indipendenza.
Colui che conseguì questo ambìto risultato fu un capo caldeo di nome Nabopo-
lassar, il quale nel 626 a.C. proclamò la secessione da Ninive. Esausta e deca-
dente, l’Assiria non fu più in grado di ripristinare la sua sovranità sulla città ri-
belle. Fu anzi Nabopolassar che prese l’iniziativa contro i dominatori secolari di
Babilonia. Il principe caldeo combatté gli Assiri con alterna fortuna e finalmente,
alleatosi col re dei Medi Ciassàre, nel 612 a.C., espugnò Ninive e la rase al suolo
ponendo fine per sempre all’egemonia assira nel Vicino Oriente. Babilonia si av-
viò a ripristinare l’antica grandezza e ad assurgere ancora una volta al ruolo di
centro del mondo. Spettò al figlio e successore di Nabopolassar, il grande Nabu-
codonosor II (605-562 a.C.), conseguire questo brillante risultato. È questo il pe-
riodo storico che la profezia danielica anticipa con l’immagine della testa d’oro
nel cap. 2 e descrive con la figura del leone alato emergente dal mare nel cap. 7.
La prima fase del regno di Nabucodonosor fu caratterizzata principalmente
da una intensa attività militare che permise all’energico sovrano di estendere fino

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NOTE STORICHE

alla costa mediterranea e alla frontiera egiziana l’egemonia di Babilonia. Fu la


fase della formazione dell’impero che la profezia rappresenta realisticamente con
la figura del leone nel suo ruolo naturale di indomito predatore. Le ali sul dorso
evocano la rapidità con cui si mossero le milizie caldee nelle guerre di conquista
e negli interventi per domare le rivolte (cfr. Gr 4: 13; 6: 23 u.p.).
Tre volte gli abitanti di Giuda e i loro re dovettero sperimentare sulla loro
pelle quanto fosse illusorio sperare di svincolarsi dal giogo di Babilonia: nel 605
a.C., sotto Gioiachim, nel 598, all’inizio del regno di Gioiachin, e nel 587, alla
fine del regno di Sedechia. Stavolta non solo fu saccheggiato il Tempio di Geru-
salemme, ma il sacro edificio e la città stessa furono distrutti e la popolazione
superstite fu deportata.
A un primo periodo del regno di Nabucodonosor segnato in modo predo-
minante dall’attività militare, ne seguì un secondo nel quale prevalsero l’attività
edilizia e la promozione della cultura. E’ questa seconda fase della storia della
nuova Babilonia che la profezia descrive con la metamorfosi del leone. La belva
che si umanizza (perde le ali, si alza sulle zampe posteriori come un uomo e ri-
ceve un cuore umano) evoca in modo concreto la transizione di Babilonia dalla
fase di “martello” che frantuma le nazioni (Gr 51: 20) alla fase di “splendore dei
regni... superba bellezza dei Caldei” (Is 13: 19).
Nella storia delle nazioni il culmine della grandezza e della potenza spesso
coincide con l’inizio del declino. Così nella visione di Daniele il cambiamento di
indole del leone, nel medesimo tempo che rispecchia il momento di massimo
splendore di Babilonia, annuncia l’inizio della decadenza che prelude alla fine.
In effetti dopo la morte di Nabucodonosor, avvenuta nel 562 a.C., cominciò
per Babilonia un periodo di instabilità politica e progressiva erosione del potere
centrale. Il successore del grande sovrano, suo figlio Evil-Merodac, perì per
mano dei congiurati dopo due soli anni di regno. L’usurpatore Neriglissar regnò
quattro anni (560-556 a.C.) e morì di morte naturale. Suo figlio Labashi-Marduk
fu eliminato da una congiura dopo pochi mesi di regno. Il nuovo usurpatore,
Nabonide (556-539 a.C.) che sembra avesse sposato una figlia di Nabucodonosor
per legittimare la presa del potere, esercitò le funzioni di governo in Babilonia
nei primi sei dei suoi sedici anni di regno, avendo trascorso gli altri dieci (549-
539 a. C.) a Tema, nell’Arabia, mentre suo figlio Belsazar tenne la reggenza a Ba-
bilonia fino all’arrivo dei Persiani nell’autunno del 539 a.C. Con la caduta di Ba-
bilonia nelle mani di Ciro, la fine tragica di Belsazar (cfr. Dn 5: 30) e l’esilio di
Nabonide in Carmania, tramontò la breve stagione della nuova Babilonia dopo
un predominio di 66 anni nel vicino Oriente.

2. MEDIA E PERSIA FINO


ALL’AVVENTO DELL’ELLENISMO
Sul finire del II millennio a.C., numerose tribù indo-ariane appartenenti a
varie etnie (Cimmeri, Sciti, Medi, Parsi), emigrarono dalle steppe della Russia
meridionale verso l’Armenia e l’Iran e si insediarono nella regione montuosa fra

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il Mar Nero e il Mar Caspio. Più tardi le tribù mede e parse si stabilirono più a
sud, fra il Lago Urmia e la pianura di Ecbatana. Quivi gli Assiri le sottomisero e
le resero tributarie per un periodo di tempo.
Nel corso dell’VIII secolo a.C., un capo energico di nome Deioce unificò le
tribù mede e fondò Ecbatana, la città dalla quale governò il regno da lui stesso
creato. Suo figlio Fraorte assoggettò le tribù dei Parsi. In seguito i Medi stessi fu-
rono vinti e dominati per una trentina d’anni dagli Sciti.
Ciassàre (653-585 a.C.), il successore di Fraorte, sconfisse gli Sciti e restituì
l’indipendenza al suo popolo, poi strinse alleanza con Nabopolassar di Babilo-
nia. Un matrimonio di stato suggellò il patto fra le due nazioni: Amytis, primoge-
nita di Ciassàre, andò in sposa a Nabucodonosor II figlio di Nabopolassar. Per
lei Nabucodonosor creò in Babilonia i celebrati “giardini pensili”.
Nel 612 a.C. Medi e Babilonesi presero e distrussero Ninive, abbatterono
l’impero assiro e se ne spartirono le spoglie.
Le tribù parse intorno al sec. VIII a.C. mossero dalla regione del Lago Urmia
verso l’altopiano iranico e si insediarono ad est e a sud-est dell’Elam, di là della
costa nord-orientale del Golfo Persico. Verso il 700 a.C. un capo autorevole di
nome Achemène ne riunì insieme una parte dando origine al piccolo regno dei
Parsi e alla dinastia degli Achemènidi con Pasargade come residenza reale. Poi si
unificarono anche le tribù del sud-est e nacque il minuscolo regno di Anshan.
Teispe, succeduto al padre Achemène, riunì insieme e governò i due pic-
coli regni, ma prima di morire spartì il potere fra i due figli Ariaramne (c.ca 640-
590 a.C.) che regnò sui Parsi e Ciro I (c.ca 640-600 a.C.) su Anshan, entrambi
come vassalli dei Medi.
Ariaramne venne a diverbio con Ciassàre, il re dei Medi, e perse la corona
che andò al fratello, cosicchè il doppio regno ebbe di nuovo un solo re.
Morto Ciro I, salì al trono suo figlio Cambise I (c.ca 600-553 a.C.) col titolo
di “re di Anshan”. Dalla sua unione matrimoniale con la principessa meda Man-
dane, figlia di Astiage (il successore di Ciassàre), nacque Ciro II, il futuro fonda-
tore dell’impero persiano.
A Cambise I succedette nel 553 a.C. Ciro II. Vassallo dei Medi, Ciro regnò
da Pasargade col titolo di “re di Anshan”, ma presto si ribellò alla signoria dei
Medi e con l’appoggio della sua gente tenne testa all’esercito di Astiage. Nel 549
a.C., grazie soprattutto alla defezione di Arpago, il capo dell’esercito medo che
passò dalla sua parte, Ciro rimase vittorioso e occupò Ecbatana dopo avere uc-
ciso il nonno Astiage. Così divenne il nuovo signore della Media e dei suoi pos-
sedimenti: l’Assiria, l’Armenia, la Cappadocia e la Siria. Venne in tal modo a ri-
baltarsi l’antico rapporto politico fra i due popoli indo-ariani: i Medi, già domina-
tori dei Persiani, ne divennero sudditi. È questo importante momento storico che
la profezia danielica inquadra con la figura del grande orso emergente dal mare
che si solleva appoggiandosi su un fianco (cioè sulla forza preponderante dei
Persiani, se i due fianchi del bestione, come hanno creduto non a torto vari
espositori, rappresentano le due etnie, la persiana e la meda). Da politico saggio
e lungimirante, Ciro trattò i Medi alla stessa stregua dei Persiani e non da vas-
salli, e fu magnanimo verso le popolazioni sottomesse.

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NOTE STORICHE

Consolidato il potere nei territori acquisiti con la vittoria sui Medi - territori
che si estendevano dalle regioni ad est del Tigri fino al corso dell’Halys nell’Ana-
tolia centrale - Ciro mirò ad espandersi ancora verso ovest. Nel 547 a.C. tolse ai
Babilonesi una provincia che Nabonide aveva sottratto ai Medi e affrontò Creso,
il re dei Lidi, che aveva oltrepassato l’Halys per prevenire un attacco persiano.
Respinti i Lidi, Ciro attaccò di sorpresa Sardi, la loro capitale, e la espugnò dopo
14 giorni di assedio nell’inverno di quello stesso anno, il 547 a.C. Nei tre anni
seguenti il medo Arpago, divenuto uno dei generali più abili di Ciro, sottomise
tutte le città greche della Ionia, sicché l’intera Anatolia, dal Mar Nero all’Egeo,
entrò nell’orbita persiana.
Nell’autunno del 539 a.C., Ciro mosse guerra a Nabonide di Babilonia. Tra-
volte le truppe avversarie presso Opis, sul Tigri, occupò Sippar senza combat-
tere. Il 13 ottobre di quello stesso anno Ugbaru, governatore del Gutium e valo-
roso generale del gran re, occupò Babilonia con uno stratagemma (v.comm. a 5:
29). Con la città passò nelle mani di Ciro quanto era rimasto dei territori dell’im-
pero caldeo. Anche gli esuli di Giuda (v. 2Cr 36: 22, 23 e Ed 1: 1-4) trassero van-
taggio dalla politica magnanima di Ciro verso le popolazioni alienigene depor-
tate nella Babilonide (cfr. Ed 1: 1-4). Otto anni dopo la vittoria sui Babilonesi,
Ciro morì combattendo contro i Massageti nell’Iran orientale.
Cambise II (530-522 a.C.), che aveva già tenuto la reggenza di Babilonia,
salì sul trono di Persia alla morte del padre. Conscio della sua impopolarità,
prima di mettersi in marcia per l’Egitto alla testa delle truppe nel 525 a.C., fece
assassinare in segreto il fratello Bardya (lo Smerdis di Erodoto).
A Pelusio i Persiani batterono le milizie mercenarie di Psammetico III ap-
pena salito al trono come successore di Amasi. Dilagate nel Delta, le truppe di
Cambise, occuparono Menfi, poi, essendosi sottomesse spontaneamente la Libia
e la Cirenaica, volsero a sud verso nuove conquiste. In breve tutta la Valle del
Nilo, fino al confine con la Nubia, fu in saldo possesso dei Persiani. Cadeva così
l’ultimo baluardo della “triplice alleanza” Creso-Nabonide-Amasi che invano
aveva tentato di opporsi all’espansione persiana.
I tre regni importanti vinti e sottomessi da Ciro e da Cambise (la Lidia nel
547 a.C., Babilonia nel 539 a.C. e l’Egitto nel 525 a.C.) da vari espositori sono
stati accostati alle tre costole che nella visione di Daniele l’orso vorace stringeva
fra i denti.
L’ordine dato alla belva di levarsi e mangiare molta carne trova riscontro
nelle estese conquiste territoriali dei Persiani, dopo il loro sopravvento sui Medi.
Nel 522 a.C. Cambise, avuta notizia che un mago della Media - un certo
Gaumata - aveva usurpato il trono spacciandosi per il fratello Bardyia che lui
aveva eliminato in segreto, prese frettolosamente la via del ritorno, ma a Susa
non giunse mai essendo perito in circostanze poco chiare lungo il tragitto.
Intanto nella Persia agitata dalla rivolta un principe discendente dagli Ache-
menidi attraverso un ramo cadetto, Dario figlio di Istaspe, smascherò l’impostore
che regnava da circa 6 mesi, lo combatté e lo uccise.
Dario I (522-486 a.C.) dovette combattere per quasi tre anni prima di avere
ragione dei numerosi pretendenti al trono che avevano alzato la testa dopo la

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morte di Cambise, ma, una volta vittorioso, regnò incontrastato su un impero


che si estendeva dall’Indo all’Ellesponto lungo l’asse est-ovest, e dall’Armenia
alla Nubia lungo la direttrice nord-sud.
L’impero degli Achemenidi raggiunse la massima estensione territoriale con
la conquista della pianura dell’Indo nel 513 a.C. e la sottomissione della Tracia e
della Macedonia nel 514 ad opera di questo grande monarca, non a torto consi-
derato dagli storici il vero fondatore dell’impero persiano.
Sovrano energico e illuminato, Dario governò con fermezza e saggezza i
suoi immensi domìni. Creò un’efficiente burocrazia amministrativa, promosse
grandi opere di pace per il benessere dei suoi sudditi, concentrò nei sontuosi
palazzi di Persepoli e di Susa la ricchezza dello stato. Su una roccia presso Behi-
shtun il gran re ci ha tramandato le vicende del suo regno in un lungo testo tri-
lingue (in persiano, in babilonese e in elamita).
Ai Giudei nel 520 a.C. consentì di ricostruire il tempio del loro Dio in Geru-
salemme (vedi Ed 5: 5,6; 6: 6-12).
Gli ultimi anni di regno di Dario furono funestati da gravi rovesci militari:
nel 492 a.C., alla prima spedizione contro i Greci, la flotta fu decimata da una
tempesta davanti al Monte Athos, e la seconda spedizione nel 490 finì in un di-
sastro a Maratona. Per giunta nel 487 si ribellò e si rese indipendente la grande
satrapia egiziana.
Nel 486 a.C. Dario morì deluso e amareggiato.
Gli successe il figlio Serse I (486-465 a.C.), identificato correntemente con
l’Assuero del libro di Esther. Serse non fu all’altezza del padre né come capo mi-
litare né come leader politico. Le avventure amorose e gli intrighi dell’harem lo
assorbirono più della politica e degli affari di stato. Nondimeno nel 485 a.C. egli
marciò contro l’Egitto e lo riconquistò, e due anni dopo intervenne energica-
mente in Babilonia per domare una rivolta. Nella brutale repressione rimasero
distrutte le fortificazioni, i palazzi e i templi della splendida città.
Indeciso se riprendere la lotta contro Atene o rinunciarvi, alla fine Serse ce-
dette alle suggestioni dei fautori della guerra. Nel 480 a.C. attraversò l’Ellesponto
(rifulse il valore dei Greci alle Termopili), prese Atene e la dette alle fiamme, ma
dovette ritirarsi in fretta dopo che la sua flotta era stata distrutta dai Greci a Sala-
mina. L’anno seguente subì due pesanti sconfitte in un solo giorno, a Platea e a
Micale. Nel 466 perse la flotta e l’esercito in Panfilia in uno scontro sfortunato
con i Greci. L’anno dopo perì per mano dei congiurati in una rivolta di palazzo
capeggiata dal potente visir Artabano.
Artaserse I Longimano (465-423 a.C.) salì al trono in vece del fratello mag-
giore Dario da lui fatto assassinare su istigazione di Artabano. Scoperti i raggiri
dell’intrigante visir, Artaserse lo fece eliminare, e fu così che poté reggersi sul
trono. Di carattere debole e indeciso, scarsamente dotato come leader politico e
capo militare, e influenzato dalla madre e dalla moglie, Artarserse non avrebbe
potuto regnare a lungo senza l’appoggio del cognato Megabise.
Verso il 463 a.C. il libico Inaro tenne in scacco le truppe persiane nel delta
del Nilo e nel 460 le respinse con l’aiuto dei Greci. Intanto rivolte e disordini
scoppiarono in varie parti dell’impero e Artaserse cercò almeno di mantenersi

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NOTE STORICHE

amici gli staterelli vassalli di Siria e Palestina meno inclini alla ribellione. Favori
particolari elargì ai Giudei nel 457 a.C. (vedi Ed 7: 11-26; Ne 2: 1-8).
L’intervento di Megabise in Egitto con l’appoggio della flotta fenicia nel 456
a.C. riportò l’ordine.
I Greci e gli Egiziani furono battuti, Inaro si arrese e fu spedito in Persia
dove Artaserse, venendo meno ai patti, lo fece uccidere attirandosi il disprezzo
di Megabise.
La guerra lunga e inconcludente con Atene finì nel 448 a.C. con la pace di
Cimone voluta dal re persiano. Poco si sa sugli ultimi vent’anni di regno di que-
sto discusso regnante achemenide. Artaserse I morì nel 423 a.C. dopo 41 anni di
regno lasciando l’impero in uno stato caotico.
Alla morte di Artaserse I, dopo un breve interregno di Serse II e forse di
Sogdiano, il trono di Persia fu occupato da Dario II Noto (423-405/4 a.C.), una
figura piuttosto scialba di regnante.
Negli ultimi 75 anni, con l’impero oramai in declino, si succedettero sul
trono degli Achenemidi Artaserse II Memnone (405/4 - 359/58 a.C.), Artaserse III
Ocho (359/58 - 338/37), Arsete (338/37 - 336/35) e Dario III Codomano (336/35
- 331).
Sconfitto da Alessandro il Macedone sul Granico, a Isso e ad Arbela, Dario
III fu infine assassinato dal satrapo Besso nel 331 a.C. e con lui finì l’impero per-
siano dopo 208 anni di predominio in Asia e nel bacino orientale del Mediterra-
neo.

3. GRECIA, MACEDONIA E REGNI ELLENISTICI


FINO ALL’AVVENTO DI ROMA
Tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C., varie popolazioni indo-eu-
ropee giunte probabilmente dalla regione danubiana nella penisola balcanica si
sovrapposero ai più antichi abitatori egei. Col tempo si imposero i Micenei (gli
Achei dei poemi omerici), gli Eoli e gli Ioni. Da queste popolazioni, e dai Dori
sopraggiunti più tardi, ebbe origine la stirpe greca. Gli Achei svolsero un ruolo
preminente nell’età più antica. Furono loro che, sotto l’influenza della civiltà mi-
noica fiorita nell’isola di Creta secoli prima, svilupparono la splendida civiltà mi-
cenea (dal nome della città di Micene) nel sud del Pelopponeso, una civiltà che
pervenne alla sua più alta espressione a metà del II millennio a.C.
Nuove ondate migratorie dal nord tra la fine del XIII e gli inizi del XII se-
colo a.C., riversarono nella penisola greca altre popolazioni indoeuropee di cui i
Dori rappresentarono il gruppo più consistente. Insediatisi nel sud del Pelopon-
neso, i Dori travolsero il potere e la civiltà dei Micenei e imposero il loro predo-
minio.
Le popolazioni indigene che non si sottomisero ai nuovi arrivati emigrarono
verso l’est: gli Eoli della Tessaglia e della Beozia ripararono nella Tracia e nella
costa nord-occidentale dell’Asia Minore, gli Ioni si portarono nell’Acaia e nell’At-
tica, e dall’inizio del I millennio a.C. in gran numero attraversarono l’Egeo e oc-

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CAPIRE DANIELE

cuparono la costa sud-occidentale dell’Asia Minore e le isole adiacenti, ove crea-


rono numerosi insediamenti. Fu così che nacque la Ionia, una espansione della
Grecia e della sua cultura e civiltà nell’Asia Minore. Fra le 12 città della Ionia
emerse Mileto che ne divenne la capitale.
I Greci della Ionia vennero in contatto con le emergenti culture semitiche
del Vicino Oriente e da esse, già nel IX secolo a.C., impararono l’alfabeto. Gli
Ebrei, dal nome della regione - Ionia - derivarono il sostantivo Jawan che l’An-
tico Testamento applica ai Greci in generale.
Dopo un lungo periodo di vita libera e prospera, la città della Ionia nel 560
a.C. furono sottomesse da Creso, Re dei Lidi, e 14 anni più tardi passarono sotto
la sovranità persiana a seguito della vittoria di Ciro su Creso. Nel 500 a.C., con
l’appoggio di Atene, gli ioni si ribellarono al dominio persiano, ma la rivolta fu
domata con durezza: Mileto fu presa e distrutta nel 494 a.C. L’espansione greca
oltremare si rivolse anche a occidente. Fra l’VIII e il VI secolo a.C. necessità pre-
minentemente di ordine economico furono all’origine di notevoli flussi migratori
dalle coste greche verso i lidi dell’Italia meridionale e della Sicilia orientale. A
questi immigrati - principalmente Dori ed Eoli - si deve la fondazione delle colo-
nie greche della Magna Grecia.
Per quanto riguarda le forme di governo praticamente fra i Greci, dapprima
si adottò il regime monarchico, ma indebolendosi nel corso del tempo l’istitu-
zione monarchica, avvenne che i villaggi contigui cominciarono a raggrupparsi,
dapprincipio formando unioni cooperative, poi sviluppandosi in agglomerati ur-
bani con annesso il territorio adiacente. Fu così che nacque la pòlis, la città
greca. Le pòleis divennero vere e proprie città-stato, spesso in concorrenza fra
loro. Nell’Attica emerse Atene, nel Peloponneso Sparta, nella Beozia Tebe. Col
tempo la struttura politica delle pòleis evolse verso forme diverse da quella mo-
narchica: verso una forma democratica in alcune città-stato, come Atene, verso
una forma aristocratica in altre come Sparta e Tebe, verso una forma oligarchica
in altre ancora.
Agl’inizi del V secolo a.C., quando si profilò la minaccia persiana, le città
greche maggiori accantonarono i dissidi e unirono le loro forze.
Nel 490 a.C. Dario I organizzò una spedizione punitiva contro Atene per
avere essa appoggiato le città ioniche durante la rivolta, ma l’esercito persiano fu
battuto dai Greci a Maratona e dovette ritirarsi. Dieci anni dopo, Serse I con-
dusse una seconda spedizione contro i Greci con un esercito di oltre 100.000
uomini e una grande flotta.
La Beozia e l’Attica furono devastate, Atene fu saccheggiata e l’Acropoli in-
cendiata, ma i Greci inflissero una dura sconfitta alla flotta persiana davanti a Sa-
lamina, e Serse dovette sospendere l’offensiva. L’anno seguente i Persiani furono
ancora battuti, sulla terraferma a Platea e sul mare presso Micale, vicino a Mileto.
Dopo le vittoriose “guerre persiane”, Atene divenne il centro morale, poli-
tico e culturale della Grecia e per oltre un settantennio mantenne tale posizione
di preminenza; ma avendo perso la guerra del Peloponneso contro Sparta nel
404 a.C., dovette cedere l’egemonia alla rivale. La supremazia di Sparta durò
poco più di un trentennio, cioè fino al 371 a.C. quando gli Spartani furono bat-

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NOTE STORICHE

tuti in guerra dai Tebani. Per la seconda volta, nel 362 a.C., Tebe sconfisse
Sparta che aveva fatto lega con Atene. Intanto cresceva a nord-est il potere della
Macedonia e per le città greche in lotta fra loro si profilava una nuova minaccia
dopo quella persiana.
Nel 359 a.C. divenne re dei Macedoni Filippo II. Dotato di non comuni ca-
pacità politiche e militari, il nuovo sovrano unificò la Macedonia, fondò una mo-
narchia militare e inaugurò una nuova tattica di guerra che ebbe il suo punto di
forza nella famosa falange da lui stesso creata. Filippo batté la Lega Ellenica nel
343/42 a.C., sottomise Atene ed estese l’egemonia della Macedonia sulla Tessa-
glia. Progettò una spedizione militare contro la Persia, ma la morte per mano dei
congiurati nel 336 lo colse prima che avesse potuto attuarla.
Il figlio di Filippo, Alessandro, salito al trono appena ventenne, dovette su-
bito far fronte a una insurrezione delle città greche. La rivolta fu domata con un
duro intervento che mise in luce le straordinarie capacità militari del giovane so-
vrano. Tebe, artefice principale dell’insurrezione, fu presa e rasa al suolo.
Consolidato il potere in Macedonia e in Grecia e ricostituita la Lega Panelle-
nica nel 335 dopo la distruzione della ribelle Tebe, Alessandro pensò che fosse
giunto il momento di saldare il conto con la Persia, colpevole di avere calpestato
il sacro suolo ellenico, oppresso i Greci della Ionia e, da ultimo, tentato di solle-
vargli contro le città della Tessaglia.
In nome di tutta la stirpe ellenica Alessandro mosse contro Dario III Codo-
mano alla testa di 6 falangi e un reparto di cavalleria, in tutto 40.000 fanti e 5.000
cavalieri. Nella primavera del 334, lasciato a Pella come reggente il generale An-
tipatro, attraversò l’Ellesponto e sbarcò nella Troade. Dario, allarmato, gli mandò
contro i satrapi dell’Asia Minore con le loro forze. Con un’abile manovra not-
turna il Macedone accerchiò gli avversari presso il fiume Granico e all’alba gettò
lo scompiglio tra le loro file e li costrinse alla fuga. Con una rapida avanzata
lungo la fascia costiera dell’Anatolia le falangi macedoni vittoriose liberarono dal
dominio persiano le città e le isole greche della Ionia e si portarono nella Cilicia.
Dario in persona mosse contro i Macedoni alla testa di un esercito assai più
numeroso di quello avversario. I due schieramenti si fronteggiarono nella stretta
valle del Pinaros, presso Isso. Con un’ampia manovra Dario riuscì ad aggirare i
Macedoni e prenderli alle spalle bloccando loro ogni possibile ritirata: la loro
sorte sembrava segnata. Ma Alessandro con un’azione fulminea scagliò la caval-
leria e due falangi contro l’ala sinistra dello schieramento avversario. Questa ce-
dette e trascinò nella rotta il settore centrale dove si trovava il Gran Re (una tra-
dizione raccolta da Plutarco vuole che i due sovrani si trovassero fugacemente
l’uno di fronte all’altro: l’episodio è raffigurato in un famoso mosaico pompeiano
che si trova nel Museo Nazionale di Napoli).
Fra il panico generale Dario si dette alla fuga; Alessandro però dovette tor-
nare indietro con la cavalleria per soccorrere l’ala sinistra del suo schieramento
contro cui si era lanciato un forte reparto dell’esercito persiano. Il nemico, stretto
tra due fuochi, fuggì lasciando nelle mani dei Macedoni copioso bottino, e la
battaglia di Isso si concluse con una nuova, folgorante vittoria dei Macedoni. Era
il mese di novembre del 333 a.C. Alessandro s’impadronì della tenda abbando-

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nata del Gran Re dove si trovavano, insieme a un cospicuo tesoro, le sue donne:
la madre, la moglie e le figlie con le dame di corte.
Dopo avere messo in rotta l’esercito persiano Alessandro, anziché prose-
guire verso Oriente, marciò in direzione Sud. Damasco, nella Siria, fu conqui-
stata da un suo generale. Cipro, Sidone, Biblo e altre città fenicie si sottomisero
spontaneamente ai Macedoni. Tiro, amica dei Persiani, non oppose resistenza,
ma rifiutò il vassallaggio. La città commerciale sulla costa fu presa in breve
tempo e rasa al suolo. Non fu altrettanto facile per i macedoni prendere l’Acro-
poli, arroccata su un isolotto fortificato a mezzo miglio dalla costa. Fu necessario
costruire un terrapieno con le macerie della città costiera. Dopo 7 mesi di asse-
dio la roccaforte fu espugnata e i difensori furono trattati con inaudita ferocia:
dopo che la fortezza fu saccheggiata e data alle fiamme, i superstiti del massacro
furono venduti come schiavi. Era il mese di luglio del 332 a.C.
Gaza, roccaforte persiana della Filistia , sulla via dell’Egitto, rifiutò la resa.
Dopo due mesi di vano assedio Alessandro ne abbatté le mura a colpi d’ariete e
fece scempio dei difensori. Il generale persiano che aveva resistito con grande
valore, venne ucciso e il suo cadavere, legato al cavallo del vincitore, fu trasci-
nato nella polvere intorno alle rovine della fortezza.
Il satrapo d’Egitto non fu in grado di opporsi agli invasori avendo perso le
sue truppe nella battaglia di Isso. Il Conquistatore entrò trionfalmente nel Paese
dei faraoni salutato dai sacerdoti come il figlio di Horus, e vi rimase per tutto
l’inverno 332-331, il tempo necessario per farsi proclamare faraone e figlio di
Zeus-Ammon e fondare una nuova Alessandria.
Nella primavera del 331 Alessandro si rimise in marcia. Percorsa la Palestina
e la Siria senza combattere, attraversò l’Eufrate e il Tigri, a nord dell’Antica Ni-
nive, e dilagò nella pianura assira. Lì, fra Arbela e Gaugamela, lo attendeva Da-
rio III con un esercito forte di 250.000 combattenti, 200 micidiali carri falcati e un
reparto di elefanti da combattimento. Alessandro disponeva soltanto di 40.000
fanti e 7.000 cavalieri. Il divario delle forze in campo era dunque enorme. Al
centro del suo schieramento, Dario scagliò contro l’avversario l’ala sinistra al co-
mando del satrapo Besso. Alessandro finse di non accorgersene, e al momento
opportuno si avventò sul nemico con la cavalleria e alcune falangi e lo travolse.
Il Gran Re non ebbe altra scelta che la fuga per salvarsi dalla cattura, ma il Mace-
done dovette ancora una volta interrompere l’inseguimento per venire in aiuto
di un’ala del suo schieramento che stava per cedere sotto la pressione dell’ala si-
nistra dell’esercito persiano. Nel frattempo però Mazeo, il satrapo di Babilonia,
ed i suoi uomini che stavano per travolgere i Greco-macedoni, avendo saputo
che il loro re era fuggito, abbandonarono il campo e si dettero alla fuga
anch’essi. Anche stavolta, malgrado la loro notevole inferiorità numerica, i
Greco-macedoni colsero una grande vittoria, anzi la vittoria definitiva.
Dopo lo strepitoso successo di Arbela, Alessandro, su consiglio del satrapo
Mazeo passato dalla sua parte, entrò trionfalmente in Babilonia accoltovi come
liberatore, e prese possesso della città e del favoloso tesoro che vi era custodito.
Durante il breve soggiorno nella superba città caldea, in verità oramai deca-
dente, Alessandro concepì il disegno di conquistare il resto dell’impero persiano

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NOTE STORICHE

- il mondo favoloso che si apriva davanti a lui a Oriente dell’Eufrate - e di fare di


Babilonia il centro del suo sterminato impero.
Nell’autunno del 331 ordinò l’adunata generale e marciò alla volta di Susa.
In novembre entrò pacificamente nella città nella cui reggia sistemò la famiglia
di Dario. Incamerato il cospicuo tesoro che vi avevano accumulato i re acheme-
nidi, in buona parte lo distribuì alle sue truppe. Poi, in pieno inverno, riprese la
marcia alla volta di Pasargade. La città fu occupata senza combattere e fu lasciata
intatta in onore del grande predecessore, l’achemenide Ciro.
Dopo una brevissima sosta a Pasargade, Alessandro marciò su Persepoli e
qui fu necessario usare di nuovo le armi giacché il satrapo Ariobarzane era de-
terminato a difendere la città e la sua satrapia. Non poté comunque impedirne
l’occupazione e il saccheggio. Nella reggia favolosa il Macedone scoprì il più
grande dei tesori finora predati (120.000 talenti!) e lo fece suo. In seguito i con-
quistatori dettero alle fiamme i palazzi e la splendida reggia di Persepoli. Ales-
sandro si premurò di far sapere agli Ateniesi che aveva finalmente vendicato l’in-
cendio dell’Acropoli da parte di Serse.
Nella primavera del 330, deciso a costringere Dario ad abdicare, il Mace-
done marciò alla volta di Echatana, l’ultima capitale degli Achemenidi, dove si
diceva che il Gran Re si fosse rifugiato. La città fu occupata ma di Dario non si
trovò traccia. Si trovò invece un tesoro ancora più cospicuo di quello confiscato
a Persepoli e naturalmente Alessandro se ne impadronì. Non poté tuttavia occu-
pare legalmente il trono di Persia perché il legittimo sovrano era ancora in vita.
Rispediti in patria i combattenti di nazionalità greca e tenuti presso di sé i
fidi Macedoni, Alessandro lasciò metà dell’esercito a Ecbatana e con l’altra metà
ripartì alla ricerca di Dario. Costeggiò il Caspio e sottomise l’Ircania dove ap-
prese che Besso, l’infido satrapo della Battriana, aveva deposto e fatto prigio-
niero Dario proclamandosi re in sua vece col nome di Artarserse IV.
Nel territorio dei Parti Alessandro venne a contatto con l’avanguardia
dell’esercito di Besso. Gli uomini del satrapo, pensando di ingraziarsi Alessandro
o di convincerlo a non inseguirli più, gettarono il cadavere del Gran re e si det-
tero alla fuga. Morto Dario, il Macedone poteva diventarne il legittimo succes-
sore sul trono di Persia, ma la guerra non sarebbe finita finché Besso non avesse
scontato il suo vile misfatto. Alessandro gli dette la caccia nella Margiana, nella
Drangiana e nell’Aracosia senza riuscire a catturarlo. Nella primavera del 329 i
Macedoni scesero nella Battriana, ma Besso non si fece sorprendere. Alessandro
lo inseguì nella Sogdina, ma quivi dovette fare i conti con l’ostilità della popola-
zione: occorsero due anni (329-327) per neutralizzare gli indomiti cavalieri sciti.
Nella Sogdiana due satrapi già alleati di Besso, mal sopportando gli atteg-
giamenti dispotici di costui, lo fecero prigioniero e lo consegnarono ad Alessan-
dro. Questi a sua volta lo consegnò ad un tribunale persiano che lo condannò a
morte e lo fece giustiziare a Ecbatana.
Adesso Alessandro poteva legittimamente sedere sul trono di Persia, ma bi-
sognava ancora sottomettere le estreme province orientali poco disposte a rico-
noscere la sua sovranità. La Sogdiana stessa, già sottomessa, era in rivolta. Assol-
dato un gran numero di guerrieri sciti, con un esercito adatto a quell’ambiente

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aspro, nel 328 il Macedone irruppe nella regione e in 7 o 8 mesi la riconquistò.


Tornato a Battra, sposò la bellissima Rossane, figlia del satrapo Ossiarte di
cui aveva espugnato le ultime roccaforti.
Ora Alessandro guardava più ad Est: l’India coi suoi affascinanti misteri lo
attraeva irresistibilmente. Del resto sotto Dario I la Valle dell’Indo era stata resa
tributaria della Persia: quel favoloso paese spettava dunque di diritto al vincitore
dei Persiani.
Nella tarda primavera del 327, l’esercito macedone varcò l’Hindukush e di-
lagò nella pianura dell’Indo. Qui si dette ad aggredire, depredare e massacrare le
popolazioni inermi. Nell’estate dello stesso anno Alessandro fece attraversare
l’Indo al suo esercito su un ponte di barche. Accolti amichevolmente di là del
fiume dal re di Taxila, i Macedoni soggiornarono nel Paese fino alla primavera
successiva. All’inizio dell’estate del 326 ripresero la marcia verso Est e giunsero
all’Idaspe. Guadato il fiume, affrontarono l’esercito del re Poro. Con la tattica già
sperimentata al Granico, Alessandro sopraffece e batté le pur valorose truppe del
re indiano. Non ancora pago delle conquiste realizzate e spinto da una irrefrena-
bile bramosia di conquiste, il Macedone avrebbe voluto proseguire la marcia
verso le misteriose regioni dell’Oriente estremo dove nessun occidentale aveva
ancora messo piede. Ma le truppe esauste dopo 8 anni di marce e combattimenti
continui rifiutarono di seguirlo. Il Condottiero non ebbe altra alternativa che ri-
condurle verso casa.
Su una flotta di imbarcazioni costruite sul posto i Macedoni discesero l’Indo
fino alla foce. Da lì marciarono via terra verso Persepoli attraverso la Gedrosia e
la Carmania, condotti da Alessandro e da Cratèro, mentre la flotta, agli ordini di
Nearco, navigò verso la foce del Tigri e dell’Eufrate costeggiando la Gedrosia e
la Perside.
La marcia dei veterani lungo le distese aspre e inospitali della Gedrosia e
della Carmania fu lunga e costellata da mille difficoltà. L’ostilità degli indomiti
abitanti della steppa e del deserto, la fame, la sete, gli strapazzi decimarono i
combattenti macedoni.
Alessandro, con un reparto di cavalieri, arrivò a Pasargade sul finire dell’in-
verno del 324. Dopo una breve sosta proseguì alla volta di Persepoli e da lì si di-
resse a Susa.
Tornato finalmente a Babilonia, il Gran Re procedette alla riorganizzazione
del vastissimo impero: ne riunì sotto la sua sovranità i tre territori dell’Asia, della
Grecia e della Macedonia, riconobbe parità di diritti ai Macedoni e ai Persiani,
separò i poteri militare e civile nelle satrapie, introdusse una moneta unica in so-
stituzione del darico d’argento (il titolo attico), mantenne l’amministrazione fi-
nanziaria centralizzata in tutto l’impero.
Durante i festeggiamenti per celebrare la vittoria nella fastosa Babilonia,
Alessandro più volte indulse ad eccessi smodati che indebolirono il suo fisico già
provato da infiniti strapazzi.
Mentre preparava in Babilonia nuove spedizioni militari contro Cartagine e
nel Mediterraneo occidentale, il dominatore del mondo fu assalito da accessi
febbrili ribelli alle cure dei medici, che in 12 giorni lo condussero alla morte.

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NOTE STORICHE

Spirò il 13 giugno del 323 a soli 33 anni, dopo 13 anni di regno. E con la sua
morte prematura, si avviò verso il tramonto anche l’unità dell’immenso impero
che aveva costruito.
Alla morte di Alessandro i suoi generali si divisero gli alti incarichi di go-
verno e di comando militare. Perdicca, a cui il sovrano morente aveva conse-
gnato l’anello imperiale, assunse la reggenza dell’impero per il figlio appena
nato del defunto sovrano e per il fratellastro Filippo Arrideo seminfermo di
mente; Antipatro prese il comando supremo delle armate d’Europa, Seleuco
quello della cavalleria; Cratéro divenne governatore della Grecia e della Macedo-
nia, Antigono della Frigia, della Licia e della Panfilia, Pitone della Media, Eu-
mene della Cappadocia. Tolomeo fu satrapo dell’Egitto e Lisimaco della Tracia.
Nel 322 Antigono, Antipatro, Cratero, Lisimaco e Tolomeo insorsero contro
Perdicca. Il reggente dell’impero l’anno seguente perì in Babilonia per mano dei
suoi stessi uomini.
Una nuova ripartizione delle cariche fu decisa nel 321 in una conferenza
che si svolse a Triparadiso, nella Siria. Antipatro assunse la reggenza dell’impero;
Antigono e Cassandro, figlio di Antipatro, ebbero rispettivamente il comando
dell’esercito in Asia e quello della cavalleria al posto di Seleuco; Seleuco si inse-
diò nella Babilonia; Tolomeo mantenne il suo potere in Egitto; Filippo Arrideo,
Antigene e Laomedonte ebbero rispettivamente il governo della Frigia Minore,
della Susiana e della Siria.
Nel 320 a.C. Tolomeo occupò la Celesiria (la regione tra la Fenicia e la Si-
ria). L’anno seguente morì Antipatro lasciando la carica a Poliperconte anziché al
figlio Cassandro. Eumene ebbe da Poliperconte il comando delle truppe in Asia.
Nel 318 Antigono attaccò e sconfisse la flotta di Poliperconte davanti a Bi-
sanzio. Eumene riparò nella Susiana da dove per due volte impegnò in battaglia
e sconfisse le truppe di Antigono.
Intanto Cassandro indusse Filippo Arrideo a destituire Poliperconte, l’erede
di Antipatro. Costui trovò rifugio e protezione presso Olimpia, la madre di Ales-
sandro. Olimpia marciò sulla Macedonia alla testa di un esercito che non fu con-
trastato dalle truppe dell’Arrideo, rifiutatosi di combattere contro la madre del
grande sovrano scomparso. Olimpia fece catturare e uccidere Filippo Arrideo, la
regina Euridice e i seguaci di Cassandro, quindi mise sul trono il nipotino Ales-
sandro IV e restituì le cariche a Poliperconte.
Nel 316 a.C. Cassandro imprigionò il re-fanciullo e sua madre, Rossane, e
catturata Olimpia a Pidna la fece giustiziare. Nello stesso anno sposò Tessalo-
nica, sorellastra di Alessandro, e fondò in suo onore la città omonima. Sempre
nel 316, Eumene, tradito dai suoi in Asia, fu consegnato ad Antigono che lo fece
assassinare.
Oramai dominatore assoluto dell’Asia, Antigono si impadronì di Babilonia
costringendo alla fuga Seleuco che trovò accoglienza presso Tolomeo in Egitto.
Lisimaco, Cassandro e Tolomeo si coalizzarono contro Antigono e gli intimarono
di restituire la Babilonide a Seleuco e la Celesiria a Tolomeo nonché di cedere a
Cassandro la ex satrapia di Eumene e di spartire in 4 il tesoro di Susa e di Ecba-
tana. Antigono fece orecchio da mercante e fu la guerra, una guerra generale

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che si combatté dalla Tracia a Cirene, dalla Grecia a Cipro, dalla Macedonia alla
Fenicia.
Nel 312 a.C. Tolomeo sconfisse a Gaza l’esercito di Demetrio, il figlio di An-
tigono Monoftalmo, e rioccupò la Celesiria.
Intanto Seleuco, con un piccolo esercito donatogli da Tolomeo, sconfisse
un paio di generali di Antigono ed entrò fortunosamente in Babilonia. In
quell’anno (312 a.C.) ebbe inizio ufficialmente l’èra seleucidica. Nella Celesiria
un esercito egiziano mandato da Tolomeo per cacciare Demetrio da tutta la re-
gione fu sconfitto dalle truppe di quest’ultimo; Tolomeo dovette sgombrare la
Celesiria per riavere i suoi soldati fatti prigionieri da Demetrio.
Nel 310 a.C. Cassandro fece assassinare Alessandro IV e sua madre Ros-
sane. L’anno seguente Poliperconte si offrì di riconquistare il trono di Macedonia
per Eracle, il primo figlio di Alessandro, nato da Barsine di Rodi, ma avendo ri-
cevuto 100 talenti d’oro da Cassandro tradì il figlio del gran re e sua madre e li
fece uccidere. Poliperconte ricevette ancora dall’ex nemico il governatorato della
Grecia.
Nel 308 a.C., con l’assassinio di Cleopatra, sorella di Alessandro, si estinse la
famiglia del Macedone. Antigono, credendosi investito del compito di tenere
unito l’impero, volle coinvolgervi il figlio Demetrio. Costui nel 307 prese Atene e
Cipro. Nel 304 occupò tutta la Grecia cacciandone Cassandro e il suo governa-
tore Poliperconte. A questo punto Antigono si proclamò re di tutto l’impero ed
esigette obbedienza dai suoi colleghi. Per tutta risposta Seleuco si proclamò re di
Babilonia e Siria, Lisimaco re di Tracia, Cassandro re di Macedonia e Tolomeo
faraone d’Egitto.
Antigono attaccò l’Egitto ma non riuscì a varcarne le frontiere; suo figlio
Demetrio assediò Rodi alleata dell’Egitto (di qui l’appellativo di poliorcete, “l’as-
sediatore”). Tolomeo accorse in soccorso dell’isola costringendo Demetrio ad ab-
bandonare l’assedio (donde l’appellativo di sotère, “salvatore”, attribuito al re egi-
ziano). Con gli scudi e le armi bronzei abbandonati dai soldati di Demetrio, gli
isolani eressero il famoso Colosso (vedi comm. a 3: 1).
Tolomeo, Lisimaco, Cassandro e Seleuco si unirono per farla finita con Anti-
gono Monoftalmo. Lisimaco passò in Asia Minore, Tolomeo rioccupò la Celesi-
ria, Seleuco invase la Cappadocia. L’ultraottantenne Antigono richiamò il figlio
Demetrio dalla Grecia e andò ad attendere i nemici a Isso, nella Cilicia. Intanto
Demetrio, giunto sul posto con la cavalleria, attaccò e mise in fuga le truppe di
Antioco, figlio di Seleuco, ma non riuscì a congiungersi con la fanteria frappo-
nendosi fra lui e quest’ultima gli elefanti di Seleuco. Gran parte dei soldati di An-
tigono passarono dalla parte di Seleuco, il resto fu sbaragliato. Antigono cadde
trafitto dai giavellotti dei nemici, Demetrio si dette alla fuga.
Era l’anno 301 a.C. Con la fine dell’ultimo rappresentante del potere cen-
trale, l’impero di Alessandro restava definitivamente smembrato. I quattro alleati
vittoriosi si spartirono fra loro i resti del regno di Antigono e fondarono 4 nuove
monarchie: la Tracia e l’Asia Minore occidentale fino all’Alys, sotto Lisimaco; la
Babilonide, la Siria e l’Asia Minore orientale, sotto Seleuco; la Grecia e la Mace-
donia sotto Cassandro; l’Egitto, con la Palestina e la Celesiria, sotto Tolomeo.

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NOTE STORICHE

Con l’esito della battaglia di Isso nel 301 a.C. si realizzava la divisione in 4
dell’impero macedone che la profezia aveva preconizzato 248 anni prima con la
figura simbolica delle 4 teste sul corpo del leopardo (Dn 7: 6).
Questo assetto politico del mondo antico non durò a lungo, ma l’unità
dell’impero macedone finì per sempre: era durata soltanto una trentina d’anni.
Demetrio Poliorcete, sconfitto a Isso, riparò a Efeso e già l’anno seguente
attaccò con qualche successo i possedimenti di Lisimaco.
Nel 297 a.C. morirono a distanza di 4 mesi l’uno dall’altro Cassandro e suo
figlio Filippo IV che gli era succeduto. Il regno di Macedonia fu diviso tra i due
fratelli minori di Filippo: Antipatro e Alessandro.
La regina-madre Tessalonica assunse la reggenza.
Nel 295 a.C. Demetrio tolse Atene agli eredi di Cassandro e si espanse nella
Grecia. Nel 293 uccise a tradimento Alessandro, il quale aveva a sua volta elimi-
nato il fratello Antipatro e la madre Tessalonica per regnare da solo. Soppresso
l’ultimo discendente di Cassandro, Demetrio si fece proclamare re di Macedonia.
Nel 285 a.C. Tolomeo e Lisimaco, infastiditi per le provocazioni di Deme-
trio, lo attaccarono in Asia Minore e lo sconfissero. Il Poliorcete si consegnò a
Seleuco che lo relegò sull’Oronte dove morì due anni dopo. In quello stesso
anno - il 283 a.C. - morì in Egitto Tolomeo I Sotere, e due anni dopo fu la volta
di Lisimaco, sconfitto e ucciso da Seleuco a Corupedio (281 a.C.). Seleuco a sua
volta perì assassinato l’anno seguente.
Con la scomparsa di questi personaggi finirono anche le lotte fra i Diadochi
e si formarono tre grandi monarchie: la Macedonia sotto la signoria degli Antigo-
nidi fondata nel 279 da Antigono Gònata figlio di Demetrio Poliorcete; la Siria
sotto i discendenti di Seleuco; l’Egitto sotto gli eredi di Tolomeo.
La Macedonia nel 202 a.C. si alleò con Antioco III di Siria contro l’Egitto.
L’intervento di Roma, sollecitato da Pergamo, Atene e Rodi, diede luogo alla II
guerra macedonica che si concluse con la sconfitta della Macedonia a Cinocefale
nel 197 a.C. L’anno seguente il console romano Tito Quinzio Flaminio proclamò
l’autonomia di tutte le città greche.
Le mire revansciste di Perseo indussero Roma a un nuovo intervento mili-
tare contro la Macedonia, e fu la III guerra macedonica. Nel 168 a.C. il console
romano Paolo Emilio sconfisse Perseo a Pidna e con lui finì il regno degli Anti-
gonidi. La Macedonia fu divisa in 4 territori autonomi. Gli stati macedoni cessa-
rono di esistere nel 148 a.C. quando, a seguito di una rivolta domata dai Ro-
mani, la Macedonia divenne provincia romana.
Quanto ai regni di Egitto e di Siria, interminabili conflitti per questioni terri-
toriali ne determinarono un progressivo logoramento finché Roma pose fine
prima al regno seleucidico nel 64 a.C., quando Cneo Pompeo occupò la Siria,
poi al regno tolemaico nel 30 a.C. allorché le legioni di Ottaviano sottomisero
l’Egitto. Col tramonto dei regni ellenistici eredi dell’impero di Alessandro, si af-
facciava alla ribalta della storia la quarta monarchia universale.

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4. ROMA DALLA REPUBBLICA ALL’IMPERO


Le tribù latine di pastori e agricoltori che occuparono i colli laziali presso la
foce del Tevere intorno al 1000 a.C., erano discese in Italia dai territori a nord
delle alpi al seguito di una vasta ondata migratoria. Nell’VIII secolo a.C. i Latini si
unirono ai Sabini e insieme fondarono una comunità urbana (molto tempo dopo
si considerò il 753 a.C. la data di fondazione della città).
Per circa due secoli e mezzo dopo la sua fondazione Roma fu governata da
una monarchia elettiva (fu il periodo dei leggendari sette re). Il re era assistito da
un consiglio di anziani e da un’assemblea popolare rappresentativa. Nella se-
conda metà del periodo monarchico Roma sottostette al predominio etrusco: gli
ultimi tre re furono originari dell’etrusca Tarquinia.
Verso il 510 a.C., con la cacciata di Tarquinio il Superbo, i Romani si libera-
rono del dominio etrusco e del regime monarchico e instaurarono un governo
repubblicano retto da due consoli eletti annualmente. Durante il V secolo a.C.
codificarono le loro leggi e cominciarono ad eleggere i tribuni del popolo con
diritto di veto nei confronti dei magistrati in difesa dei proletari, e fu un passo
importante verso l’emancipazione di questi ultimi.
Nel IV secolo a.C. Roma intraprese e condusse con determinazione una po-
litica di espansione territoriale che in alcuni decenni le consentì di estendere il
suo controllo a buona parte della penisola.
Intanto gli Etruschi, già forti e dominanti, indeboliti da lotte intestine e da
un’invasione di popoli celtici che si insediarono nella Pianura Padana, non fu-
rono più in grado di tenere testa ai Romani i quali nel 396 a.C. tolsero loro Veio
e la distrussero. Nel 387 però i Romani stessi furono sconfitti dai Celti scesi dal
nord e subirono la distruzione della loro città.
Presto Roma fu ricostruita e circondata da una possente cinta di mura at-
torno ai sette colli.
Nel corso del III secolo a.C., avendo oramai il controllo della maggior parte
dell’Italia centrale e meridionale, Roma sviluppò una politica di supremazia che
la portò inevitabilmente a confrontarsi con le città greche dell’Italia del sud e con
le colonie Cartaginesi nella Sicilia occidentale. Pirro, re dell’Epiro, venne in soc-
corso dei Greci, ma le vittorie conseguite in una guerra decennale (280-271 a.C.)
rimasero infruttuose.
In quest’epoca la fiorente colonia fenicia di Cartagine, nel nord Africa, era
la più forte rivale di Roma. Da lungo tempo i Cartaginesi avevano creato insedia-
menti nella Sicilia occidentale, nella Corsica e nella Sardegna. In Sicilia lo scontro
coi Romani fu inevitabile e fu la Prima Guerra Punica (264 a.C.). Il conflitto finì
23 anni dopo (241 a.C.) con la vittoria di Roma che rimase padrona di tutta la Si-
cilia, divenuta la sua prima provincia. Tre anni più tardi i Romani tolsero ai Car-
taginesi anche la Corsica e la Sardegna.
Riavutasi dalla sconfitta subita in Sicilia, Cartagine mirò a espandersi verso
occidente, e nel 237 a.C. occupò parte della Spagna mediterranea. Fu l’occasione
della Seconda Guerra Punica. Mentre i Romani si apprestavano a invadere la
Spagna, il cartaginese Annibale, alla testa di un forte esercito dotato di elefanti,

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NOTE STORICHE

varcò i Pirenei e le Alpi e discese in Italia sorprendendo il nemico e infliggendo-


gli durissime sconfitte presso il Lago Trasimeno (217 a.C.) e a Canne, in Puglia
(216 a.C.). mancò poco che Roma stessa cadesse nelle sue mani. Nel frattempo
un esercito romano mise piede nella Spagna e nei iniziò la conquista. Intanto,
mentre Annibale spadroneggiava nel sud dell’Italia, nel 204 a.C. Scipione sbarcò
sulla costa africana, non lontano da Cartagine, alla testa di un esercito romano.
Annibale fu richiamato dall’Italia per respingere i Romani. Lo scontro decisivo
avvenne a Zama nel 202 a.C. e fu fatale per i Cartaginesi che ebbero l’esercito
distrutto e dovettero cedere a Roma la Spagna, consegnare gran parte della
flotta, pagare un forte indennizzo e impegnarsi a non intraprendere azioni di
guerra senza il consenso dei vincitori. Roma era praticamente padrona del Medi-
terraneo occidentale.
In quest’epoca la nazione latina non aveva mire territoriali verso l’Oriente,
ma durante la seconda Guerra Punica era avvenuto che Filippo V di Macedonia
aveva cercato di venire in aiuto di Cartagine. Roma dapprima aveva stretto al-
leanze con alcuni stati greci e col regno di Pergamo, nell’Asia Minore, contro Fi-
lippo, poi intervenne direttamente, e fu la Prima Guerra Macedonica (215-205
a.C.) che si concluse con la sconfitta di Filippo e il riconoscimento da parte della
Macedonia dei possedimenti romani sulla costa illirica.
Le mire espansionistiche di Filippo V a danno degli alleati di Roma in Gre-
cia provocarono un nuovo intervento dei Romani nel 200 a.C. La Seconda
Guerra Macedonica finì con la vittoria decisiva dei romani a Cinocefale, nella
Tessaglia, nel 197 a.C. La Macedonia fu lasciata intatta; Roma si accontentò della
rinuncia da parte di Filippo alle conquiste fatte (le città greche furono dichiarate
libere), della consegna della flotta e del pagamento di una indennità.
Mentre Roma era impegnata militarmente nella Macedonia, Antioco III di Si-
ria invase la Celesiria e la Palestina sottraendole all’Egitto (200-198 a.C.). Fatta la
pace con l’Egitto, Antioco mandò un corpo di spedizione in Grecia per estromet-
tervi i Romani, ma questi lo batterono alle Termopili nel 191 a.C. L’anno se-
guente le legioni di Scipione Asiatico sconfissero duramente l’esercito siriaco a
Magnesia, vicino a Smirne nell’Asia Minore, e Antioco dovette accettare le one-
rose condizioni di pace imposte dal vincitore: cessione dei possedimenti a ovest
e a nord del Tauro, consegna di gran parte della flotta e di alcuni ostaggi (fra cui
il figlio omonimo di Antioco) e pagamento di una forte indennità. Roma comun-
que non si annesse i territori tolti alla Siria ma li assegnò ai suoi alleati in Asia,
principalmente a Pergamo e a Rodi.
Dopo questi eventi, in Macedonia Perseo, succeduto al padre Filippo V nel
179 a.C., cercò alleanze in Asia Minore e in Grecia mettendo in allarme il regno
di Pergamo che sollecitò l’intervento di Roma. Roma rispose all’appello del suo
alleato asiatico, e fu la Terza Guerra Macedonica (171-168 a.C.). Perseo fu scon-
fitto e fatto prigioniero a Pidna nel 168 e la Macedonia fu divisa in quattro re-
pubbliche indipendenti poste sotto la protezione di Roma.
Nel 175 a.C., mentre i Romani erano impegnati nella Terza Guerra Macedo-
nica, Antioco Epifane era tornato in Siria da Roma, dov’era trattenuto in ostaggio,
e si era impadronito del trono. Nel 170 invase l’Egitto col proposito di annetter-

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selo. Due anni dopo - lo stesso anno della vittoria dei Romani a Pidna, il 168
a.C. - giunse in Egitto un legato di Roma con un ultimatum per Antioco IV: l’Epi-
fane, che ben conosceva la potenza militare di Roma, non osò sfidarla e sgom-
brò il paese.
Nel 149 a.C. Roma dovette ancora intervenire nella penisola balcanica per
stroncare un tentativo di ricostituzione del regno di Macedonia. L’aspirante suc-
cessore di Perseo fu battuto ancora a Pidna nel 148 a.C. Due anni dopo Roma ri-
dusse a sua provincia la Macedonia.
Cosicché fino al 146 a.C. i Romani si erano annessi uno dei tre regni elleni-
stici superstiti (appunto quello di Macedonia), avevano messo sotto la loro pro-
tezione il secondo (l’Egitto) e avevano rintuzzato le velleità di conquiste del
terzo (la Siria).
Intanto la rinascita di Cartagine dopo la disfatta disastrosa del 202 a.C., met-
teva in allarme Roma. Provocata dal confinante regno di Numidia alleato di
Roma, Cartagine aveva reagito senza tenere conto dell’impegno di non ripren-
dere le armi senza il consenso di Roma. Roma rispose prontamente alla sfida, e
fu la Terza Guerra Punica. Cartagine fu presa e distrutta nel 146 a.C. dopo tre
anni di assedio. Roma non ebbe più rivali nel Mediterraneo.
In politica estera i romani, quando fu possibile, preferirono la diplomazia
alla guerra, comunque sempre cercando di trarre per se stessi i massimi van-
taggi, ora rafforzando gli alleati, ora indebolendo gli avversari. Perseguendo que-
sta politica nell’Oriente essi sostennero gli stati minori (come il regno di Per-
gamo, che grazie all’alleanza con Roma pervenne alla leadership nell’Asia Mi-
nore) e contrastarono l’espansionismo degli stati più forti, come il regno di Ma-
cedonia cui opposero l’alleanza con gli stati greci, o il regno di Siria che imbri-
gliarono alleandosi con l’Egitto. Ma quando la diplomazia non bastò, non esita-
rono a prendere le armi.
Nel 133 a.C., essendo morto senza eredi Attalo III, ultimo re di Pergamo,
questo territorio, che comprendeva buona parte dell’Asia Minore, passò ai citta-
dini di Roma per lascito testamentario, e nel 129 a.C. divenne provincia romana.
Le legioni di Roma intervennero ancora in Africa nel 105 a.C. in risposta alla
sfida di Giugurta re di Numidia.
La vittoria fruttò a Roma il possesso di una parte di questo territorio. In se-
guito le armi romane tornarono in Oriente, stavolta per impedire a Mitridate re
del Ponto di impadronirsi dei possedimenti romani in Asia. Nell’84 a.C. Mitridate
dovette deporre le armi sconfitto.
In parallelo con la crescita territoriale all’esterno, era venuta sviluppandosi
già dal II secolo a.C. all’interno dello Stato romano una rivoluzione politica e so-
ciale che avrebbe alterato in un senso o nell’altro i rapporti di forza all’interno
degli organi di governo e fra le classi sociali. Il potere dell’assemblea popolare
venne restringendosi e in pari tempo si accrebbe il potere del Senato. Notevoli
mutamenti economici e sociali si produssero a seguito dei contatti col mondo
esterno. Il commercio con l’estero da una parte e i tributi delle province dall’altra
avevano fatto affluire in Roma notevoli ricchezze, dando luogo al nascere di
nuovi modelli di vita.

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NOTE STORICHE

Gli schiavi, che crescevano di numero ad ogni guerra, soppiantarono gra-


dualmente la manodopera bracciantile locale nelle aziende agricole (gli schiavi
erano manodopera a bassissimo costo), con un conseguente aumento della di-
soccupazione. Importanti innovazioni furono introdotte nell’ambito della reli-
gione, della politica, della filosofia, della letteratura e dell’arte a seguito dei con-
tatti con le province, massimamente con la Grecia e l’Oriente. Vizi nuovi che
contribuirono a un aumento della criminalità, della corruzione e degli intrighi si
insinuarono nella società romana e tutto questo a sua volta concorse al declino e
finalmente al collasso della repubblica e al nascere dell’assolutismo.
Durante le guerre lunghe e frequenti, le piccole proprietà agricole in cui era
frazionato il territorio italico rimasero incolte essendo i loro proprietari arruolati
nell’esercito. Lo Stato incamerò gradualmente i terreni incolti e li destinò a pa-
scolo.
Tiberio Gracco quando fu eletto tribuno del popolo nel 133 a.C., chiese che
si assegnassero ai braccianti disoccupati i terreni pubblici, ma la reazione vio-
lenta dei grandi proprietari terrieri lo impedì e Tiberio ci rimise la vita. Nel 123
a.C., eletto tribuno del popolo, Caio Gracco, fratello dell’assassinato Tiberio, ot-
tenne che il grano pubblico fosse venduto ai poveri a metà prezzo e incoraggiò i
braccianti disoccupati a insediarsi nelle terre delle province. Il Senato però si op-
pose alla sua proposta di estendere la cittadinanza romana a tutti gli Italici. An-
che Caio Gracco pagò con la vita l’impegno teso a sollevare la sorte dei poveri.
Comunque la reazione dei conservatori non riuscì a distruggere completamente
l’opera dei Gracchi.
Nel 107 a.C. fu eletto console Caio Mario, un figlio del popolo, e gli fu su-
bito affidata la condotta della guerra contro Giugurta in Africa. Prima di intra-
prendere le operazioni militari, Mario riformò l’esercito trasformandolo attraverso
l’arruolamento volontario da un corpo di richiamati in una milizia di soldati di
professione.
Vinta la guerra in Numidia e tornato in patria nel 105 a.C., il nuovo console
respinse i Cimbri e i Teutoni che avevano invaso il nord Italia. Mario seppe in-
culcare nei suoi soldati l’idea che il potere dell’esercito era superiore a quello del
Senato.
Frattanto sfociava in aperta rivolta il malcontento diffuso tra gli alleati italici
di Roma per il rifiuto del Senato di riconoscere ad essi la cittadinanza romana. La
guerra civile ebbe come figure di riferimento da un lato Caio Mario, leader del
partito popolare, e dall’altro il generale Lucio Cornelio Silla, un “parvenu”, un
paladino della causa del partito aristocratico senatoriale. La guerra civile terminò
col trionfo della causa degli Italici ai quali fu dunque riconosciuta la cittadinanza
romana. Silla comunque conseguì una vittoria politica sul rivale e ottenne la dit-
tatura. Mario, dichiarato nemico pubblico, si salvò con la fuga. Silla si ritirò a vita
privata dopo aver fatto approvare un programma legislativo mirante a rafforzare
il potere del Senato.
Nel 70 a.C. furono eletti consoli Cneo Pompeo, già ufficiale subalterno di
Silla, e Licinio Crasso. Pompeo, che si era distinto in patria e all’estero dopo la
morte di Silla nel 78 a.C., introdusse alcune buone riforme; fu comunque asser-

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tore della superiorità del potere dell’esercito e dell’Assemblea Popolare su quello


del Senato, in particolare sulle decisioni che riguardavano lo Stato.
Nel 67 a.C. il partito popolare conferì a Pompeo il comando di una forza da
inviare in Oriente per ripulire il mare dai pirati. Pompeo svolse questo compito
in soli tre mesi. Nel 66 lo si autorizzò a condurre la guerra contro Mitridate re
del Ponto e Tigrane re d’Armenia ostili a Roma. Vittorioso, spinse le sue legioni
fino al Caspio. Riportata l’Asia Minore sotto controllo di Roma, nel 64 a.C. Pom-
peo intervenne in Siria dove depose l’ultimo seleucida, e l’anno seguente oc-
cupò la Palestina ponendo fine al potere degli Asmonei. Sempre nel 63 a.C., la
Siria fu ridotta a provincia romana e la Palestina a stato vassallo.
Tornato a Roma, nel 60 a.C. Pompeo formò un’alleanza con Crasso, un alto
esponente della finanza, e Giulio Cesare, nipote di Caio Mario e partigiano del
partito popolare. Cesare si era allontanato da Roma dopo che Silla lo aveva
espropriato dei suoi beni, e vi era tornato alla morte dell’ex dittatore. L’alleanza
di Pompeo, Cesare e Crasso, dette luogo alla formazione del primo Triumvirato.
Dopo un anno di governo della Spagna, Cesare fu eletto console per l’anno
59 a.C. I triumviri controllarono l’attività legislativa dello Stato senza trascurare gli
interessi personali nelle provincie di cui avevano assunto il governo: Cesare
nelle Gallie, Pompeo nella Spagna e Crasso nell’Oriente. Crasso perse la vita
combattendo contro i Parti nel 53. Pompeo fu eletto console unico nel 52.
Nel 49 a.C., il Senato chiese a Cesare di rinunciare al comando delle legioni
nelle Gallie per presentarsi da privato cittadino come candidato al consolato. Ce-
sare rifiutò sdegnosamente e alla testa delle sue legioni attraversò il Rubicone in-
tenzionato a occupare l’Italia. Pompeo e la maggioranza dei senatori abbandona-
rono Roma e ripararono in Grecia. L’anno dopo Cesare sbarcò in Grecia, com-
batté Pompeo e i suoi sostenitori e li sconfisse a Farsalo, nella Tessaglia. Pom-
peo fuggì in Egitto dove fu ucciso a tradimento.
Cesare intimò a Tolomeo XIV di reintegrare nei suoi diritti dinastici la spo-
destata moglie e sorella Cleopatra VII. Al rifiuto del sovrano, intervenne perso-
nalmente in Egitto, sconfisse i rivoltosi e lo stesso Tolomeo presso il Nilo e mise
sul trono Cleopatra.
Rientrato a Roma e stroncata la resistenza dei seguaci di Pompeo, Cesare
assunse la dittatura a vita e si fece conferire altri incarichi importanti concen-
trando praticamente il potere nelle sue mani. La repubblica era tramontata ed
era nato lo stato totalitario. Cesare si dedicò comunque alla riorganizzazione
dello Stato promuovendo importanti riforme, fra cui quella del calendario.
Sospettato di mirare a costituire una monarchia assoluta, il dittatore fu sop-
presso il 15 marzo del 44 a.C. a seguito di una vasta congiura capeggiata da
Bruto e Cassio.
L’attenzione dei Romani si volse a Marc’Antonio, console per quell’anno,
nella speranza che egli potesse restaurare l’antico ordine repubblicano. Ma su-
bito si fece avanti per affermare i suoi diritti il diciottenne Ottaviano, nipote, fi-
glio adottivo ed erede di Giulio Cesare.
Nel 43 a.C. fu costituito un secondo triumvirato con Ottaviano, Marc’Anto-
nio e Lepido. Intanto Cassio e Bruto furono sconfitti in Grecia, dove avevano

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NOTE STORICHE

cercato riparo, e furono costretti a suicidarsi. Ottaviano, Antonio e Lepido nel 40


a.C. si divisero il governo dell’Impero. Ottaviano ebbe l’Occidente, Antonio
l’Oriente e Lepido l’Africa. L’Italia fu governata in comune. Nel 36 Ottaviano co-
strinse Lepido a cedergli l’Africa e a ritirarsi a vita privata, rimanendo pratica-
mente padrone di tutto l’Occidente.
In Egitto Antonio, invaghitosi della regina Cleopatra, venne meno alla sua
lealtà verso Roma. Ripudiata la moglie Ottavia, sorella di Ottaviano, sposò Cleo-
patra VII e tentò di costituire per lei un regno di tipo ellenistico con l’annessione
di territori sottratti a Roma. Nel 32 a.C. Ottaviano dichiarò guerra all’Egitto;
l’anno seguente una flotta romana al comando del console Agrippa sconfisse da-
vanti ad Azio, lungo la costa occidentale greca, la flotta della regina Cleopatra,
Antonio e la regina ripararono in Egitto abbandonando la flotta al suo destino.
Gli alleati di Antonio e i principi vassalli dell’Oriente abbandonarono l’Egitto e si
sottomisero a Roma.
Nel 30 a.C. Ottaviano sbarcò ad Alessandria; Antonio e Cleopatra si tolsero
la vita e l’Egitto fu proclamato dominio romano. Cessava così di esistere l’ultimo
dei regni ellenistici eredi dell’impero di Alessandro. Padrona del mondo e
all’apice della sua potenza, Roma realizzava la profezia che l’aveva rappresentata
con la figura del mostro invincibile che calpestava tutta la terra (Dn 7: 7).
Oramai signore incontrastato dell’Impero, Ottaviano si guardò bene comun-
que dall’assumere il titolo di re, tanto aborrito dai Romani. Ma pur mantenendo
le forme esterne del governo repubblicano, concentrò di fatto il potere nelle sue
mani con l’assumere simultaneamente diverse magistrature. Nel 27 a.C. il Senato
gli conferì il titolo di Augustus (“Maestà”) e in seguito lo riconobbe princeps
(“primo cittadino”). Sebbene i Romani considerassero il governo di Ottaviano
Augusto come un principato, di fatto egli regnò da monarca. Più tardi il potere
imperiale gli derivò dal titolo di imperator che gli conferì il Senato. Nel 12 a.C.
gli venne ancora assegnata la carica di pontifex maximus.
In ogni caso l’età augustea fu segnata dall’inizio di un lungo periodo di
pace (la “pax romana”), da una straordinaria fioritura letteraria e soprattutto
dall’evento più grande della storia universale - pur se allora passato inosservato -
cioè la nascita di Gesù in una provincia periferica dell’Impero.
Morto Augusto senza eredi nel 14 d.C., gli succedette il figliastro Tiberio
che inaugurò la dinastia Giulio-Claudia. Durante il regno di Tiberio si svolsero le
vicende della vita terrena di Gesù: il battesimo, il ministero pubblico, la crocifis-
sione, la resurrezione, l’ascensione.
Alla morte di Tiberio nel 37, salì al trono imperiale lo squilibrato Caligola
che morì assassinato quattro anni dopo. Gli succedette Claudio (41-54) sotto il
cui buon governo Roma tornò alla tradizione augustea. Durante il regno di Clau-
dio i Romani riconquistarono la Britannia meridionale e costituirono la provincia
di Tracia.
A Claudio, morto avvelenato nel 54, succedette il dispotico e crudele Ne-
rone. Sotto il suo principato avvennero l’incendio di Roma nel 64 e la prima per-
secuzione dei cristiani nell’Urbe.
Morto Nerone nel 68 (com’è noto si tolse la vita), seguì un breve periodo di

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instabilità politica in cui il trono dei Cesari parve vacillare: ben 4 imperatori si
succedettero fra il 68 e il 69: Galba, Vitellio, Ottone e Vespasiano, l’iniziatore
della dinastia flavia. Vespasiano era impegnato in Giudea da 3 anni nella guerra
di repressione di un’insurrezione quando le sue legioni lo proclamarono impera-
tore nel 69. Suo figlio Tito assunse il comando delle legioni in Giudea e portò a
termine la guerra di repressione con la conquista e la distruzione di Gerusa-
lemme nel 70. Quello di Vespasiano fu un buon governo; fra le sue realizzazioni
va ricordata la costruzione in Roma dell’Anfiteatro Flavio (il Colosseo).
Morto Vespasiano nel 79, divenne imperatore suo figlio Tito. L’inizio del
suo regno fu segnato dalla catastrofica eruzione del Vesuvio che distrusse Erco-
lano, Stabia e Pompei.
Il regno di Tito fu breve. Nell’81 gli succedette il fratello Domiziano, il cui
governo degenerò in dispotismo. Domiziano pretese per sé il titolo di “Dominus
et Deus” (“Signore e Dio”), e sul finire del suo regno scatenò una persecuzione
contro i cristiani (la seconda dopo quella di Nerone), che infierì particolarmente
in Asia Minore. In questo tempo ebbero luogo l’esilio di S.Giovanni a Patmos e
la composizione dell’Apocalisse.
Domiziano perì nel 96 in una congiura di palazzo, e con lui si estinse la
casa dei Flavi.
Seguì una serie di imperatori detti “adottivi”, perché elevati al trono in base
al principio dell’ “adozione del più degno”, sostituito al principio dinastico. Il
primo imperatore “adottivo” fu Cocceio Nerva. Al suo breve regno seguì nel 98
l’elevazione al trono imperiale dello spagnolo Ulpio Traiano. Traiano fu un
grande imperatore: combatté e sottomise i Daci in Europa e i Nebatei in Arabia,
e costituì le nuove province di Dacia e di Arabia; in Oriente vinse i Parti e con-
quistò l’Armenia, cosicché due altre province si aggiunsero all’Impero che rag-
giunse la massima estensione.
Morto Traiano nel 117, divenne imperatore “adottivo” Adriano (117-138), ri-
cordato per avere concluso la pace coi Parti rinunciando alle conquiste del suo
predecessore, e soprattutto per avere realizzato importanti opere fortificate in
Asia (lungo l’Eufrate) e in Europa (sul Reno, sul Danubio e in Inghilterra).
Adriano viaggiò molto per ispezionare l’amministrazione dell’Impero. La sua de-
cisione di ricostruire Gerusalemme come città romana fu la causa della seconda
rivolta giudaica, capeggiata da Bar Kocheba (132-135). L’insurrezione fu soffo-
cata nel sangue e Gerusalemme fu ricostruita come colonia romana col nome di
Aelia Capitolina secondo gli intendimenti dell’imperatore.
Dopo Adriano si succedettero sul trono dei Cesari Antonino Pio (138-161),
Marco Aurelio (161-180), l’imperatore-filosofo sotto il cui regno i romani combat-
terono contro i Parti e i Marcomanni, e Commodo (180-192), che si credette in-
carnazione di Ercole e di Mitra. In quegli anni i cristiani soffrirono severe perse-
cuzioni.
Dopo la morte violenta di Commodo nel 192, l’Impero cadde in potere dei
Pretoriani e l’unità sembrò venirne meno. Nel 193 ci furono 4 imperatori: Didio
Giuliano a Roma, Pescennio Nigro in Siria, Clodio Albino in Britannia e Settimio
Severo in Pannonia.

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NOTE STORICHE

Settimio Severo, iniziatore della dinastia dei severi, sconfitti i rivali e legitti-
mato il potere, ricostituì l’unità imperiale. Gli succedette nel 211 il figlio Caracalla
che regnò fino al 218. Dopo un breve regno di Macrino nel 218, l’esercito, dive-
nuto ancora una volta arbitro della situazione, elevò al trono imperiale Elioga-
balo di Emesa, in Siria (218-222), nipote di Caracalla e sacerdote di Baal in Siria.
Eliogabalo introdusse in Roma il culto di questa divinità orientale.
Caduto Eliogabalo per mano dei suoi soldati, salì al trono imperiale nel 222
Alessandro Severo, morto anche lui assassinato, dopo 3 anni di regno, a seguito
di una rivolta militare.
Seguì una serie di imperatori di nomina militare, quasi tutti periti di morte
violenta dopo un breve periodo di regno. Furono: Massimino Trace (235-238),
Gordiano III (238-244), Filippo Arabo (244-249), Decio (249-251), Trebonio
Gallo (251-253), Valeriano (253-260), Gallieno (260-268), Claudio II (268-270) e
Aureliano (270-275) che nel 274 adottò il titolo di “Dominus et Deus” e intro-
dusse il culto del sole e dell’imperatore come religione di Stato. Ad Aureliano
succedettero l’uno dopo l’altro Claudio Tacito (275-276), Probo (276-282), Caro
(283-284) e Diocleziano (294-305), che nel 303 promosse in tutto l’impero una
severa persecuzione dei cristiani.
Nel 293 Diocleziano introdusse un’importante riforma amministrativa statale:
fu istituito un governo a 4 a termine (Tetrarchia). Diocleziano ottenne l’Oriente
con Nicomedia come capitale, Massimiano l’Italia e l’Africa con Milano come ca-
pitale, Costanzo la Spagna, la Gallia e la Britannia con capitale Treviri e Galerio
l’Illirico e la Macedonia con capitale Sirmio. Gli Augusti - ovvero i reggenti delle
4 parti dell’Impero - si impegnarono a cedere dopo 20 anni il potere ai Cesari -
cioè ai successori da loro stessi nominati - e questi a loro volta a nominare altri 2
Cesari come coadiutori.
Nel 297 il territorio dell’Impero fu diviso in 12 circoscrizioni amministrative
(diocesi) e queste in 101 province. Nel 305 abdicarono Diocleziano e Massi-
miano. Gli altri due Augusti, Galerio e Costanzo, nominarono Cesari Severo e
Massimino Daia. Nel 308 un congresso imperiale nominò Licinio Augusto d’Occi-
dente; Diocleziano rifiutò la dignità imperiale.
L’instaurazione di una politica dinastica da parte dei singoli Augusti fece fal-
lire il sistema della Tetrarchia. Costantino, il figlio di Costanzo, fu insediato a
York, Massenzio, il figlio di Massimiano, a Milano. I due vennero a conflitto e
nel 312 Costantino sconfisse e uccise Massenzio al Ponte Milvio, in Roma, re-
stando unico padrone delle province occidentali. L’anno seguente Licinio vinse
Massimino Daia presso Adrianopoli. In quello stesso anno (313) Costantino
emanò da Milano l’editto di tolleranza favorevole ai cristiani.
Nel 324, avendo battuto Licinio presso Adrianopoli, Costantino divenne
l’unico sovrano di tutto l’impero. Nel 330, in contrasto con Roma pagana, trasferì
a Bisanzio la sede imperiale mutandone il nome in quello di Costantinopoli. Co-
stantino ricevette il battesimo cristiano sul letto di morte nel 337.
Nelle lotte di successione tra i figli di Costantino prevalse Costanzo II, il
quale rimase unico sovrano dell’Impero dopo la morte dei fratelli Costante e Co-
stantino II.

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Nel 361 succedette a Costanzo il nipote Giuliano il quale favorì il ripristino


dei culti pagani e fu per questo soprannominato “l’Apostata”. Con lui, morto nel
363, si estinse la dinastia costantiniana.
Al breve regno di Gioviano (363-364) seguì il regno di Valentiniano I, eletto
imperatore dalla corte. Morto Valentiniano nel 375 divenne imperatore il fratello
di lui Valente il quale fu sconfitto e ucciso 3 anni dopo nella battaglia di Adria-
nopoli.
Nel 379 Teodosio I fu nominato Augusto in Oriente da Graziano, morto poi
in Occidente nel 383 lottando contro l’usurpatore Magno Massimo. Massimo fu a
sua volta vinto e ucciso da Teodosio presso Aquileia 5 anni dopo.
Nel 391 Teodosio elevò il Cristianesimo a religione di Stato e proscrisse i
culti pagani, ma con l’elevazione di Eugenio a imperatore d’Occidente i culti pa-
gani furono restaurati in questa parte dell’Impero. Due anni dopo Eugenio fu
sconfitto e ucciso presso Aquileia e Teodosio rimase unico arbitro dell’Impero
nuovamente unificato.
Morto Teodosio nel 395, l’Impero fu diviso tra i suoi due figli Arcadio, che
resse l’Oriente, e Onorio, che regnò nell’Occidente. Da questo momento vi fu-
rono in permanenza un Impero Romano d’Oriente e un Impero Romano d’Occi-
dente ciascuno con le proprie vicende politiche.
Dal 404 l’Impero d’Occidente ebbe per capitale Ravenna.
Retto da imperatori deboli e sempre più scosso dalle invasioni dei Barbari,
l’impero latino sopravvisse ancora per un’ottantina d’anni.
A Onorio succedette sul trono dell’Impero d’Occidente, a Ravenna, Gio-
vanni (423-425) e a Giovanni Valentiniano III (425-455) che dal 450 risiedette a
Roma. Nel 451 gli Unni di Attila devastarono la Pianura Padana e distrussero
Aquileia. Nel 454 Valentiniano III uccise il valoroso generale Ezio che nel 451
aveva respinto gli Unni nella Gallia; l’anno seguente egli stesso morì assassinato.
Il suo successore, Petronio Massimo, rimase ucciso lo stesso anno (455) du-
rante il sacco di Roma ad opera dei Vandali.
Si aprì una crisi di potere e Ricimero, un generale d’origine svevo-gotica sa-
lito ai massimi onori durante il regno di Valentiniano III, dopo la morte di costui
nel 455 nominò e depose imperatori a suo arbitrio. Così si succedettero l’uno
all’altro dopo brevi periodi di regno: Avito (455-456), Maggiorano (457-461), Li-
bio Severo (461-465), Antemio (467-472) dopo 2 anni di interregno, e Olibio
(472). Morto Ricimero, fu fatto imperatore a Ravenna Glicerio (473), il quale fu
vinto e deposto dopo pochi mesi di regno da Giulio Nepote che regnò in luogo
suo (474-475). Giulio Nepote fu a sua volta deposto dal suo magister militum
(capo dell’esercito) Oreste, un romano della Pannonia che era stato aiutante di
Attila e capo di un esercito di Germani e al quale l’imperatore d’Oriente, Ze-
none, aveva conferito il titolo di “Patrizio Romano”. Oreste fece acclamare impe-
ratore il suo figlio adolescente Romolo (475-476) che fu soprannominato “Augu-
stolo”.
I Barbari al servizio di Oreste chiesero per sé come compenso un terzo
delle terre. Avendo rifiutato quella richiesta, il patrizio fu travolto da una ribel-
lione capeggiata da Odoacre, capo di un forte contingente di Eruli, e ucciso a

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NOTE STORICHE

Pavia nel 476. Odoacre depose Romolo Augustolo e, non osando rivendicare
per sé la dignità imperiale, rinviò all’imperatore Zenone le insegne relative do-
mandando e ottenendo il titolo di Patrizio. Si estinse così l’Impero Romano d’Oc-
cidente, i cui territori erano oramai sotto il completo controllo dei Barbari.
Questo momento storico segnava il trapasso dalla fase imperiale di Roma
alla fase dei regni barbarici.

5. I POPOLI GERMANICI CHE OCCUPARONO I TERRITORI


OCCIDENTALI DELL’IMPERO ROMANO
Gli Svevi, un gruppo di popolazioni germaniche costituito da Alamanni,
Sennoni, Quadi, Marcomanni ed altre, nel II secolo a.C. si stanziarono nella re-
gione del Brandeburgo. Nel 58 a.C. Giulio Cesare respinse un loro attacco alla
provincia gallica dell’Impero. Verso il 400 d.C. gli Svevi si insediarono nella Spa-
gna e vi fondarono un regno che nel VI secolo si fuse con quello dei Visigoti.
I Gepidi, altra popolazione di stirpe germanica, occuparono la Dacia
(l’odierna Romania) nel III secolo d.C. e vi fondarono un regno che i Longobardi
distrussero nel 567.
Gli Alamanni, un gruppo eterogeneo di popolazioni germaniche, a partire
dal III secolo d.C. si stanziarono lungo il corso dell’Elba. Premettero ripetuta-
mente alle frontiere settentrionali dell’Impero, sempre respinti dai Romani nei
loro territori. Nel IV e V secolo gli Alamanni raggiunsero una relativa unità. Clo-
doveo re dei Franchi li sconfisse nel 496 e ne annesse il territorio al suo regno.
Gli Angli, stanziati in origine a nord dell’Elba, nel V secolo d.C. emigrarono
nella Britannia e quivi fondarono un regno che durò fino al VI secolo.
I Sassoni, un conglomerato di varie popolazioni germaniche, vissero in ori-
gine nella regione fra la Scandinavia e la Danimarca. Nel V secolo d.C. alcune
tribù emigrarono insieme con gli Angli nella Britannia e vi fondarono i regni di
Wessex, Essex e Sussex. I gruppi rimasti nel continente si trasferirono nella re-
gione fra l’Oder, il Reno inferiore e l’Elba e nel secolo VIII furono sottomessi e
cristianizzati da Carlomagno.
I Visigoti, ramo occidentale della più vasta popolazione germanica dei
Goti, costretti dagli Unni ad abbandonare il loro territorio, la Dacia Inferiore, si
stanziarono nella Mesia lungo il corso inferiore del Danubio. Nel 378, presso
Adrianopoli, inflissero ai Romani la prima sconfitta sul loro territorio. Teodosio li
accolse nella Mesia e nella Pannonia; sfruttati dai Romani, sul finire del V secolo
si ribellarono e, sotto la guida di Alarico, invasero e devastarono i Balcani e l’Illi-
rico. Nel 410, dopo avere percorso l’Italia del nord e del centro, occuparono e
saccheggiarono Roma. Sospinti poi dai Romani verso il nord-ovest, invasero la
Gallia e fondarono un regno nella regione fra il Rodano, la Loira e la Provenza
(regno di Tolosa, 419-507), comprendente anche parte della penisola iberica.
Sconfitti dai Franchi nel 507, si ridussero nella Spagna dove dominarono fino alla
conquista araba (711).
I Vandali nel V secolo d.C. occuparono le coste meridionali del Baltico.

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Pressati da est dagli Unni e dai Sarmati, nel 406 oltrepassarono il Reno , attraver-
sarono la Gallia saccheggiando e devastando, e si fermarono nella Spagna (409).
Nel 429, condotti da Genserico (428-477), invasero l’Africa dallo stretto di Gibil-
terra, devastarono le floride province romane e a Cartagine fondarono un regno.
Divenuti abili navigatori, con la flotta percorsero il Mediterraneo orientale assa-
lendo e saccheggiando i litorali italici e balcanici. Nel 455 giunsero a Roma dalla
foce del Tevere e la saccheggiarono. Convertitisi all’arianesimo, osteggiarono e
perseguitarono i cattolici. Nel 534 un esercito bizantino agli ordini di Belisario,
l’abile generale di Giustiniano, prese Cartagine e distrusse il regno dei Vandali.
I Burgundi, originari della Scandinavia, intorno al 400 d.C. si stabilirono
nella regione tra Metz e Magonza. Nella prima metà del V secolo invasero la
provincia belgica dell’Impero e nel 437 furono sconfitti dal generale romano
Ezio. Nel 443 si trasferirono nella regione del lago di Ginevra dove fondarono
un regno autonomo. Nel 490 scesero in Italia in appoggio a Odoacre, capo degli
Eruli, contro Teodorico re degli Ostrogoti, e devastarono la pianura padana. Nel
500 Clodoveo, re dei Franchi, li sconfisse e li rese tributari.
Gli Eruli ebbero la Scandinavia come terra di origine. Verso il 260 d.C. un
gruppo si unì ai Visigoti che invasero le regioni greche dell’Impero. Sulle rive
del Danubio, a nord della Tracia, fondarono un regno. Nel V secolo, sotto la
guida di Odoacre, invasero l’Italia e vi si stabilirono. Nel 476 ebbero un ruolo
determinante nella caduta dell’Impero d’Occidente. Vinti dagli Ostrogoti, in se-
guito furono sterminati dai Longobardi.
Gli Ostrogoti, ramo orientale della popolazione germanica dei Goti, in ori-
gine erano stanziati nell’odierna Ucraina. Nella seconda metà del III secolo d.C.
invasero i territori orientali dell’Impero romano. Sconfitti e sottomessi dagli Unni,
nel 370 si trasferirono nella Pannonia e da lì nella Mesia. Nel 488, sotto la guida
di Teodorico, invasero l’Italia. Sconfitto Odoacre re degli Eruli, fondarono un re-
gno con Ravenna come capitale. Il regno ostrogoto fu distrutto, alla fine della
lunga “guerra gotica” (535-553) dalle truppe bizantine mandate in Italia da Giu-
stiniano sotto il comando di Belisario prima e di Narsete poi.
I Longobardi, insediati lungo il corso inferiore dell’Elba fin dal I secolo
d.C., nella seconda metà del VI secolo emigrarono verso il sud. Nel 568, sotto la
guida di Alboino, dilagarono nella pianura padana e occuparono l’Italia del
nord estromettendo i Bizantini da gran parte del territorio e fondando un loro
regno. Il regno longobardo raggiunse il massimo splendore sotto Liutprando
(712-744), il quale donò al papa il castello di Sutri. Carlomagno pose fine al re-
gno longobardo quando invase l’Italia nel 774.
I Franchi, una confederazione di tribù germaniche divisa in due gruppi (i
Salii e i Ripuari), erano stanziati lungo il corso basso e medio del Reno. Dopo la
caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, i Salii costituirono un regno ro-
mano-barbarico che sotto Clodoveo (481-511), della dinastia dei Merovingi, sot-
tomise i Ripuari, gli Alamanni e i Burgundi e controllò tutta la Gallia. Clodoveo
fu il primo sovrano barbarico che si convertì alla fede cattolica. Alla sua morte,
mentre i successori (i re “fannulloni”) si consumavano in lotte dinastiche, emer-
sero i maestri di palazzo con Pipino Di Heristal. Suo figlio Carlo Martello re-

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NOTE STORICHE

spinse gli Arabi a Poitiers (733) bloccando la loro avanzata verso il cuore
dell’Europa. Il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve (751-768), col consenso di
papa Zaccaria depose nel 751 Childerico, ultimo sovrano merovingio, e si fece
eleggere re dei Franchi, incoronato nel 754 dallo stesso papa Zaccaria. Su richie-
sta di papa Stefano II, Pipino venne in Italia, sconfisse Astolfo III re dei Longo-
bardi e donò al papa l’Esarcato e la Pentapoli tolti ai Longobardi (Donazioni di
Pipino), territori che divennero il nucleo originale dello Stato Pontificio.
Carlomagno, figlio di Pipino il Breve, sconfisse e sottomise definitivamente i
Longobardi nel 774, riconfermando le “donazioni di Pipino” al papa. Sconfitti i
Sassoni fra il Reno e l’Elba nel 772-804, nell’800 fondò il Sacro Romano Impero.

6. FINE DELL’IMPERO D’OCCIDENTE -


L’ITALIA SOTTO IL DOMINIO DI ODOACRE
a) Nel 472 combatteva nell’esercito di Ricimero schierato sotto le mura di
Roma un barbaro di nome Odoacre di cui si ignora la tribù germanica di appar-
tenenza. Costui al tempo di Attila aveva militato nell’esercito degli Unni, ma
dopo la morte del re barbaro se ne era separato.
Prima del 470 Odoacre venne in Italia alla testa di una banda di barbari ger-
manici in cerca di nuove avventure.
In quel tempo era a capo dell’esercito romano il patrizio Oreste, originario
della Pannonia, già ministro di Attila.
Oreste fu l’ultimo dei generali romani che nominarono e deposero gli impe-
ratori e loro talento. Avrebbe forse voluto assumere lui stesso la porpora impe-
riale, ma non osò farlo per la sua origine barbarica. Fece comunque eleggere
imperatore il figlio adolescente Romolo che per la giovane età fu soprannomi-
nato Augustolo (475).
L’esercito romano in Italia era formato prevalentemente da elementi barba-
rici di varia origine: Eruli, Sciri, Turingi.
Decisi a insediarsi stabilmente in Italia, i rudi soldati di Oreste pretesero in-
sistentemente un terzo delle terre. Al rifiuto del generale si ribellarono e nomina-
rono loro capo Odoacre che promise ad essi quanto era stato loro negato. Ore-
ste fuggì a Pavia inseguito da Odoacre; la città fu presa e messa al sacco, ma il
generale romano riuscì temporaneamente a scampare. Due giorni dopo però fu
catturato ed ucciso a Piacenza da Odoacre. Il barbaro vittorioso corse a Ravenna,
depose l’Augustolo (era il 28 agosto 476) e lo confinò in una villa presso Napoli
con un appannaggio perpetuo.
Tramontava l’Impero d’Occidente e cominciava la storia d’Italia; finiva l’anti-
chità e si apriva il Medio Evo.
Come Oreste prima di lui, il barbaro Odoacre non osò assumere il titolo di
imperatore e neanche quello di re; fu soltanto un re di barbari, osserva lo storico
Pasquale Villari.
Un’ambasceria mandata da Odoacre a Costantinopoli nel 478 portò all’Im-
peratore Zenone, con le insegne imperiali, un messaggio perentorio: un solo im-

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peratore bastava per l’Oriente e l’Occidente. Quanto a lui, Odoacre, egli poteva
governare l’Italia in nome dell’Imperatore col titolo di patrizio romano. La richie-
sta del barbaro fu accolta; in realtà, però, la sua dipendenza da Costantinopoli fu
nominale; di fatto Odoacre governò l’Italia da principe indipendente. Intanto i
barbari, in ottemperanza a quanto era stato loro promesso dal capo, si insedia-
rono come ospiti imposti nelle case dei Romani e coltivarono per sé e le loro fa-
miglie un terzo delle terre espropriato ai latifondisti romani.
b) Alla morte di papa Simplicio nel 483, Odoacre compì un passo falso. Mi-
rando alla elezione di un papa che gli fosse amico, fece intervenire presso l’as-
semblea elettiva il Prefetto del Pretorio affinché fosse sanzionato un suo decreto
in forza del quale l’elezione sarebbe stata nulla senza la rappresentanza del Re.
Questa ingerenza favorì l’elezione del raccomandato, Felice II (483-492). Osserva
il Villari: “Se non che egli (Odoacre) non era un Imperatore, ma un re barbaro
ed un ariano. Non era quindi sperabile che la Chiesa romana, sempre gelosa
delle sue prerogative, avesse mai potuto approvare il suo procedere, che fu in-
fatti principio di gravi scissure”. Le invasioni barbariche in Italia, Milano 1905,
pp. 136, 137. L’ingerenza di Odoacre nell’elezione del papa, com’era inevitabile,
fece nascere in seno alla Chiesa romana profonda diffidenza e avversione verso
di lui. Per di più l’Imperatore Zenone, insospettito dal suo agire da principe indi-
pendente, pensò di sbarazzarsene e con questo fine mise contro di lui altri bar-
bari. Spinse i Rugi, che abitavano al di là del Danubio, a muovere verso le Alpi.
Odoacre fu costretto ad affrontarli col suo esercito e li vinse nel Norico (487)
catturando il loro re. Ma il figlio di costui sfuggì alla cattura e trovò accoglienza
in Pannonia presso gli Ostrogoti che avevano per capo Teodorico degli Amali.
c) Nel passato recente la massima parte degli Ostrogoti era rimasta unita
agli Unni nella Dacia, ma alla morte di Attila si erano separati e si erano stanziati
appunto nella Pannonia. Venuti a patti con l’Imperatore, avevano mandato a Co-
stantinopoli come ostaggio Teodorico, il giovanissimo figlio del loro capo Teo-
domiro.
In Grecia Teodorico ricevette un’educazione militare romana. Nel 472, ora-
mai diciottenne, il giovane ostrogoto tornò nella Pannonia e in un’azione mili-
tare contro i Sàrmati dette prova di grande valore. Due anni dopo, morto Teodo-
miro, gli Ostrogoti lo nominarono loro capo.
Più tardi Teodorico prese le parti dell’Imperatore Zenone quando il rivale di
costui, Basilisco, tentò di spodestarlo. Avendo vinto grazie all’aiuto del capo
ostrogoto, Zenone per riconoscenza lo colmò di onori e lo nominò Patrizio.
Il comportamento di Teodorico verso l’Impero fu tuttavia ambiguo: ora ren-
deva ad esso importanti servigi - ricevendone adeguato compenso - ora si dava
a saccheggiare per ottenere di più. Onde Zenone si vide nella necessità di libe-
rarsi in qualche modo di lui. Poiché l’Imperatore non era punto soddisfatto di
come andavano le cose in Italia per via della prepotenza di Odoacre, pensò di
mandargli contro Teodorico coi suoi Ostrogoti. Teodorico non desiderava altro.
Intanto la posizione di Odoacre in Italia si era indebolita a motivo dei contrasti
col Papa: il momento per intervenire sembrava propizio.
Nell’autunno del 488 gli Ostrogoti ed altre genti germaniche unite a loro,

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NOTE STORICHE

con Teodorico alla testa, scesero in Italia. Non erano un esercito, ma un popolo
intero con i carri e le masserizie, la cui consistenza numerica è valutata dagli sto-
rici fra i 200 e i 300 mila individui.
Il primo scontro con l’esercito di Odoacre avvenne nell’estate del 489
sull’Isonzo, non lontano da Aquileia. Odoacre, battuto, dovette ritirarsi. Un mese
dopo ci fu un’altra battaglia sull’Adige, presso Verona, e Odoacre fu vinto ancora
una volta ma il suo avversario dovette subire perdite pesanti dal momento che
invece di proseguire verso Roma o Ravenna si rinchiuse in Pavia.
Odoacre coi suoi soldati raggiunse Roma, ma la città gli chiuse le porte, e
anche le popolazioni italiche gli si mostrarono ostili, in parte a motivo dei suoi
contrasti col Papa, in parte a causa delle sue razzie. “E di tutto ciò - dice P.Villari
- la Chiesa aveva saputo profittare per eccitare contro di lui le popolazioni, tanto
che poco dopo si parlò addirittura d’una generale cospirazione, di una specie di
Vespro siciliano organizzato dal clero” (op. cit., pp. 143, 144).
Riorganizzate le proprie forze, Odoacre tornò verso il nord per affrontare il
rivale. Gli vennero in aiuto i Burgundi, che si misero subito a saccheggiare il
paese. In appoggio di Teodorico scesero i Visigoti. Nella battaglia, che si com-
batté sull’Adda l’11 agosto 490, questi si batterono a fianco degli Ostrogoti e in-
sieme inflissero all’avversario una completa disfatta. Odoacre si rinchiuse in Ra-
venna. La città resistette tre anni all’assedio degli Ostrogoti. Alla fine dovette ce-
dere. Le trattative per la resa furono concluse il 27 febbraio 493 con l’intermedia-
zione dell’Arcivescovo di Ravenna. “Altra prova anche questa - nota il Villari -
della straordinaria importanza assunta allora dalla Chiesa, e quindi dal clero in
tutti affari di maggiore gravità” (op. cit., pp. 145, 146).
Odoacre si arrese ed ebbe salva la vita. Sei giorni dopo Teodorico entrò
trionfalmente in Ravenna accolto dall’Arcivescovo e dal clero. Il 15 marzo di
quello stesso anno (il 493), Teodorico trafisse a tradimento Odoacre che si era fi-
dato di lui accettando il suo invito ad un banchetto solenne. Così finì il regno di
Odoacre che durava da 17 anni. A questo evento concorsero in misura non tra-
scurabile, come si è visto, la Chiesa ed il suo clero.

7. IL DOMINIO OSTROGOTO IN ITALIA -


L’EPOCA DI GIUSTINIANO -
FINE DEI REGNI VANDALO E OSTROGOTO
a) In Italia, dopo il 493, al predominio di Odoacre subentrò quello di Teo-
dorico, che ebbe tuttavia, almeno dapprincipio, un carattere affatto diverso. Teo-
dorico era venuto in Italia non come re dei Goti, ma come un Patrizio mandato
dall’Imperatore quale suo rappresentante. Lo distinguevano da Odoacre il supe-
riore ingegno politico e militare e l’educazione romana ricevuta in Costantino-
poli. Ciò non toglie che, come Odoacre, egli ambisse di diventare il vero pa-
drone d’Italia. Subito dopo avere sconfitto Odoacre sull’Adda nel 490, Teodorico

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aveva chiesto all’Imperatore di assumere la dignità regia, ma essendo morto Ze-


none nel 491, Anastasio che gli era succeduto aveva fatto orecchio da mercante.
Nel 498, essendo divenuto assai potente, l’Ostrogoto rinnovò la richiesta all’Im-
peratore e stavolta ottenne le insegne imperiali che Odoacre nel 476 aveva man-
dato a Costantinopoli, ma non senza limitazioni, la più importante delle quali era
che il suo potere non doveva essere affatto indipendente dall’Imperatore. Quello
di Teodorico fu in sostanza una sorta di governo militare sotto l’ègida dell’Impe-
ratore: se le armi rimanevano ai Goti, l’amministrazione pubblica continuò ad es-
sere gestita dai Romani. I due popoli, se vissero a lungo l’uno accanto all’altro,
non si fusero mai l’uno con l’altro. Tutto sommato, comunque, quello di Teodo-
rico fu un buon governo e buoni furono pure i rapporti con l’Impero e col papa,
almeno fino a quando l’intolleranza religiosa dell’Imperatore non venne a tur-
barli profondamente come si vedrà più avanti.

b) In Oriente non si placava la controversia fra Ortodossi e Monofisiti. I


primi sostenevano che Maria era madre di Gesù Cristo in quanto uomo soltanto,
i secondi affermavano che le nature divina e umana di Gesù erano una sola e
medesima cosa. Zenone, dopo che fu rimesso sul trono imperiale dagli Orto-
dossi nel 477, volle evitare che si riaccendesse la disputa, e con questo intento
pubblicò una lettera, nota col nome di Henoticon, con la quale cercò di conci-
liare le posizioni degli Ortodossi e dei Monofisiti. Papa Simplicio (468-483) con-
dannò senza mezzi termini l’Henoticon e il Patriarca Acacio che pare l’avesse
ispirata. Roma non ammise mai simili vie di mezzo, né tollerò l’ingerenza degli
imperatori nelle dispute teologiche.
Finché durava il dissidio fra il Papa e l’Imperatore, Teodorico poteva gover-
nare con relativa tranquillità. Ma una volta composto tale dissidio, le cose si sa-
rebbero messe male anche per lui: egli era pur sempre un ariano e capo di bar-
bari ariani in un paese romano e cattolico.
Conscio di questo, Teodorico pensò bene di rafforzare la sua posizione,
mantenendo i migliori rapporti possibili col Papa e con l’Imperatore, ma anche
stringendo alleanze e vincoli di parentela con i barbari dell’Africa, della Spagna e
della Gallia (i Vandali, i Burgundi e i Franchi).
Papa Gelasio I (492-496), succeduto a Felice II (483-492) a sua volta succes-
sore di Simplicio, condannò l’Henoticon e dichiarò eretico Acacio, minacciando
di colpire con la stessa sanzione l’Imperatore se ne avesse diviso le idee. Gelasio
scrisse all’Imperatore che la tolleranza degli eretici era “più pericolosa delle de-
vastazioni dei barbari”.
Al breve pontificato di Anastasio II (496-498), succeduto a Gelasio, seguì
un’elezione assai contrastata del nuovo pontefice. L’assemblea degli elettori era
divisa fra Lorenzo, di tendenze moderate, e Simmaco, assai intransigente sull’or-
todossia. Fu eletto Simmaco (498-514) ma i contrasti fra le opposte fazioni non si
placarono. In questo frangente Teodorico tenne una condotta assai prudente e la
pace religiosa in Occidente fu ristabilita. Riguardo all’Henoticon Simmaco scrisse
all’Imperatore: “Invano tu credi di poterti elevare contro la potenza di S.Pietro...”
(leggi: contro la potenza del Papa). - cfr. P.Villari, op. cit., p. 164. Papa Ormisda

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NOTE STORICHE

(514-523), succeduto a Simmaco, con altrettanta energia proseguì la lotta contro


l’Imperatore.

c) Intanto a Costantinopoli ci fu una svolta foriera di grandi mutamenti


nell’ambito dei rapporti fra politica e religione dopo che, morto l’Imperatore
Anastasio nel 518, salì al trono Giustino. Uomo incolto ma fervente ortodosso,
Giustino si fece guidare dal nipote Giustiniano uomo di grande ingegno e orto-
dosso quanto lui. I monofisiti vennero a trovarsi a mal partito. Scrive il Villari: “Il
popolo a Costantinopoli esaltava con grande ardore le dottrine cattoliche, e gli
eretici erano perseguitati.
Il papa naturalmente ne gioiva” (op. cit., pp. 164, 165). Teodorico, conscio
del pericolo che il nuovo corso in Oriente poteva rappresentare per il suo go-
verno in Italia, pensò di farsi promotore di un accordo fra il Papa e l’Imperatore
sperando di guadagnarsi il favore dell’uno e dell’altro. L’impresa riuscì ed egli ne
trasse un vantaggio immediato: suo genero Eutarico (Teodorico non ebbe figli
maschi) fu nominato Console e figlio adottivo dell’Imperatore.
“Se non che - nota il Villari - ben presto tutto si volse a danno di Teodorico,
il quale, non solo aveva interessi politici assai diversi, ma era ariano, e non po-
teva andare a lungo d’accordo con un Papa e con un Imperatore che, essendo
ambedue ortodossi, dovevano trovarsi, come ben presto si trovarono, uniti con-
tro di lui” (op. cit., p. 165).
L’Imperatore Giustino - certo con grande soddisfazione del Papa - cominciò
a perseguitare gli Ariani verso il 524. Teodorico dovette reagire perseguitando a
sua volta i Cattolici in Italia, anche perché Eutarico era un ariano fanatico e intol-
lerante. L’urto col Papa fu inevitabile e ne seguì lo scontento delle popolazioni
italiche. “Tutto questo - dice il Villari - finì coll’irritare assai Teodorico, il quale
vedeva a un tratto minacciato di rovina l’edificio con sì gran cura innalzato... A
poco a poco parve che andasse in lui scomparendo ogni traccia di romanità; egli
tornò a essere il feroce barbaro d’una volta...” (op. cit., pp. 166, 167).
Papa Giovanni I, succeduto a Ormisda nel 523, non nascose la sua soddi-
sfazione per la persecuzione degli Ariani in Oriente, e questo eccitò al massimo
la collera di Teodorico. Il Re goto costrinse il papa a intercedere presso l’Impera-
tore in favore degli Ariani. E quando Giovanni I tornò da Costantinopoli senza
avere ottenuto quanto il re ostrogoto aveva domandato (era, del resto, quello
che Giovanni si era augurato), questi lo imprigionò. Giovanni I morì in prigione
nel 526; Teodorico volle ingerirsi nell’elezione del suo successore (Felice III) e
questo sollevò contro di lui grande e generale malcontento. Consapevole della
gravità della situazione il Re ostrogoto si preparò febbrilmente per la guerra, ma
la morte lo colse all’età di 72 anni il 30 agosto 526. Aveva regnato sull’Italia esat-
tamente 33 anni.

d) Alla morte di Teodorico, la figlia Amalasunta era già vedova per la morte
prematura del marito Eutarico. Il figlio di lei, Atalarico, aveva intorno a 10 anni.
Intanto, a Costantinopoli, l’anno seguente (il 527) l’Imperatore Giustino asso-
ciava al trono il nipote Giustiniano che quattro mesi dopo rimase il solo impera-

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tore per la morte dello zio. Giustiniano riconobbe la successione di Atalarico e la


reggenza di sua madre. Amalasunta, incline a una politica mite e conciliatrice,
volle che suo figlio ricevesse un’educazione romana, ma di fronte alla fiera op-
posizione della sua gente si vide costretta ad affidarlo ai capi militari ostrogoti.
Atalarico morì prematuramente nel 534. Secondo le consuetudini dei Goti,
la successione spettava a Teodato, un nipote del defunto Teodorico per parte di
sorella. A lui si rivolse dunque Amalasunta. Ma Teodato non tollerò di essere il
secondo nel governo, perciò l’anno seguente confinò la zia presso il lago di Bol-
sena dove poi venne assassinata. Come vedremo più avanti, fu un buon pretesto
per Giustiniano per mettere in atto il proposito che meditava da tempo di cac-
ciare i Goti dall’Italia.

e) Giustiniano fu tra i più illustri e fortunati imperatori d’Oriente. Oltretutto


ebbe la ventura di avere al suo fianco una donna intelligente e accorta come
l’imperatrice Teodora. Seppe anche scegliere gli uomini più adatti a realizzare i
suoi ambiziosi progetti. Lo si vide quando pose alla testa dell’esercito imperiale
capi abilissimi come Belisario e Narsete, o quando scelse come architetti Isidoro
di Mileto e Antemio di Tralles per la costruzione dello splendido tempio di Santa
Sofia, o ancora quando affidò a Triboniano il compito di compilare il Corpus Ju-
ris Civilis, la grandiosa raccolta di leggi che tanto lustro dette al suo nome.
Il Corpus Juris, compilato da varie commissioni di giuristi che lavorarono
sotto la presidenza di Triboniano, riuniva in diverse raccolte tutte le fonti del di-
ritto romano e comprendeva anche un manuale pratico, le Institutiones. Fra le
suddette raccolte il Codice (Codex Constitutionum) riuniva in 12 libri tutti gli
editti imperiali; il Digesto, o Pandette, riassumeva tutti gli scritti classici dei giure-
consulti. In 50 libri il Corpus Juris compendiava ben 1000 volumi. L’opera im-
mane, cominciata nel 530, fu portata a termine nel 533.
In materia di fede Giustiniano fu ortodosso intransigente. Discuteva volen-
tieri su questioni religiose e ci teneva a essere considerato un teologo. Aborriva
l’eresia sotto qualsiasi forma (si intenda per “eresia” ogni deviazione dalla dot-
trina tradizionale cattolica) e provava repulsione fisica verso gli “eretici”. “Il solo
tocco di uno di quei maledetti - soleva dire - è già sozzura”. “Verso la Chiesa -
osserva lo storico Carl Grinberg - Giustiniano si comportò da degno erede di Co-
stantino”. E ancora: “Il legame indissolubile che a suo tempo era stato teso da
Costantino fra il trono e l’altare si era mutato ormai in un dispotismo temporale
e spirituale nel contempo, che venne poi definito cesaropapismo. ‘Un solo Stato,
una sola legge, una sola Chiesa’, era l’inflessibile canone di governo di Giusti-
niano” (Storia Universale, vol. 3, pp. 552, 553).

f) Non desta affatto meraviglia che in un’epoca in cui sulle questioni reli-
giose regnava ormai una completa identità di vedute fra l’Imperatore e il papa,
Giustiniano, nel 533, scrivesse a Papa Giovanni II (532-535) la famosa lettera di
cui riportiamo di seguito i passi più significativi:
“Giustiniano, vittorioso, pio, beato, illustre, trionfante, sempre augusto; a
Giovanni, patriarca e santissimo Arcivescovo della città di Roma: ‘Poiché ab-

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NOTE STORICHE

biamo sempre cercato di mantenere le sante chiese di Dio nello stato in cui sono
oggi, ovvero nella pace e libere da ogni contrarietà, abbiamo invitato tutto il
clero dell’Oriente ad unirsi e a sottomettersi alla Vostra Santità... Voi che siete il
Capo della Chiesa... Noi domandiamo dunque... che Vostra Santità approvi tutti
coloro che credono a quanto abbiamo sopra esposto e condanni la perfidia di
quanti giudaicamente hanno osato negare la fede legittima... Che la Divinità, o
santo e religiosissimo Padre, Vi conceda lunga vita” (da Jean Vuilleumier, L’Apo-
calypse..., p. 231).
Nella stessa lettera Giustiniano conferma legalmente il vescovo di Roma
“capo di tutte le sante chiese” e “capo di tutti i santi ministri di Dio”. In una se-
conda lettera si complimenta col Papa per la sua solerzia nel “correggere” gli
“eretici” (vedi S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 827). Le due lettere furono
incorporate nel Codex del Corpus Juris (libro I, titolo primo) con piena forza di
editti imperiali.
Ed ecco i brani salienti della lettera con cui Giovanni I rispose all’Impera-
tore l’anno seguente (534):
“Giovanni, vescovo di Roma, al nostro illustrissimo e clementissimo figlio
Augusto Giustiniano: al di là degli elogi meritati che si possono rivolgere alla vo-
stra saggezza e alla vostra dolcezza, voi, il più cristiano fra i principi, vi siete an-
cora distinto come un astro luminoso per l’amore della fede e della carità.
Istruito nella disciplina ecclesiastica, voi avete mantenuto la preminenza della
sede romana; le avete sottoposto ogni cosa e avete ripristinato l’unità della
Chiesa... la pace della Chiesa, l’unità della religione si levino e mantengano la
pace di colui che ne è l’artefice... Abbiamo saputo da costoro (Hippazio e De-
metrio) che avete pubblicato un editto rivolto ai vostri popoli fedeli, dettato
dall’amore e dalla fede e mirato a distruggere gli eretici conforme alla dottrina
apostolica, e confermato dai nostri colleghi e i nostri fratelli i vescovi. Noi lo
confermiamo con la nostra autorità essendo conforme alla dottrina apostolica”
(da J.Vuilleumier, ibidem).

g) Fra gli obiettivi politici di Giustiniano primeggiò il proposito di restaurare


l’unità dell’Impero e restituirgli l’antico splendore. Per prima cosa bisognava ri-
conquistare l’Italia liberandola dal dominio dei barbari. E per avere le spalle co-
perte era necessario cominciare dall’Africa.
Le lotte interne e i disordini che travagliavano il regno dei Vandali offrirono
a Giustiniano il pretesto per intervenire militarmente. Nel 523 era succeduto a
Trasamondo sul trono dei vandali il cugino Ilderico, nipote per parte di madre
dell’Imperatore Valentiniano III. Ilderico non nascondeva le sue simpatie romane
e cattoliche, e questo suscitò fra i barbari ariani un forte risentimento contro di
lui che presto sfociò in rivolta aperta. La sollevazione fu domata e Amalafrida, la
vedova di Trasamondo e sorella di Teodorico che l’aveva fomentata venne im-
prigionata e poi assassinata. Questo fatto suscitò negli Ostrogoti d’Italia grandis-
simo sdegno verso i Vandali, cosa che tornò a tutto vantaggio di Giustiniano.
Nel 531 i Vandali deposero Ilderico e misero sul trono Gelimero, uomo bel-
licoso e di tutt’altri sentimenti. Giustiniano intervenne col pretesto di difendere il

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diritto legittimo e i sentimenti romani e cattolici del deposto Ilderico. Una grande
flotta salpò da Costantinopoli nel 533 e dopo una sosta a Catania sbarcò in
Africa, a 9 giorni di marcia da Cartagine, un esercito di 10.000 fanti e 5.000 cava-
lieri, tutti agli ordini del valoroso generale Belisario.
“Belisario - dice P.Villari - si presentò in Africa non come un conquistatore,
ma come un liberatore dei cattolici, dei Romani, del clero e dei proprietari, tutti
ugualmente oppressi dai Vandali, eretici, stranieri e barbari” (op. cit., p. 184).
La prima battaglia, il 13 settembre 533, fu vinta dagli imperiali nonostante la
loro inferiorità numerica. Due giorni dopo Belisario entrava trionfalmente a Car-
tagine. Ritiratosi in Numidia, Gelimero contrattaccò poco tempo dopo ma perse
anche stavolta. L’anno seguente si arrese e fu trattato da Belisario con umanità.
“Il risultato più notevole di questa guerra - osserva il Villari - fu che i van-
dali, dopo avere portato tanto terrore, tante rovine nell’Impero, scomparvero af-
fatto dalla storia, senza che più se ne sentisse parlare” (op. cit., p. 185).
Molti vandali furono deportati, altri incorporati nell’esercito bizantino; quelli
che rimasero in Africa ebbero confiscati i beni, furono cacciati dalle loro chiese,
imprigionati o resi schiavi. Quando Belisario fece ritorno a Costantinopoli fra le
spoglie che furono fatte sfilare dietro i prigionieri figuravano gli arredi del tem-
pio di Gerusalemme che Tito aveva portato a Roma nel 70 e Genserico da Roma
aveva portato Cartagine nel 455.

h) L’assassinio di Amalasunta nel 535 offrì a Giustiniano l’occasione per in-


tervenire in Italia dato che egli aveva preso sotto la sua protezione la regina
ostrogota. Nel 535 Belisario sbarcò in Sicilia con un esercito di 7.500 uomini e in
7 mesi l’isola fu riconquistata all’Impero. Come in Africa, il generale bizantino si
presentò anche alle genti italiche quale liberatore dalla tirannia dei barbari e
dalla persecuzione ariana, sicché ebbe subito il favore e la cooperazione dei Ro-
mani. Un suo imprevisto e rapido ritorno in Africa per sedare una rivolta non
compromise l’esito della guerra in Italia.
Gli imperiali avanzarono in Italia senza quasi incontrare resistenza: Napoli
soltanto tenne duro, ma essendo alcuni uomini di Belisario penetrati nella città
attraverso gli acquedotti e avendone aperte le porte, essa fu presa senza colpo
ferire. In tutto questo tempo Teodato non si mosse. La sua gente, al colmo
dell’indignazione, lo depose ed elesse in sua vece Vitige, uomo di tutt’altra tem-
pra. Lasciata in Roma una modesta guarnigione, Vitige si ritirò in Ravenna per
radunare le sue forze. Venne a patti coi Franchi, che Giustiniano aveva cercato
di muovergli contro, cedendo ad essi la Gallia Narbonese.
Fra il 9 e il 10 dicembre 536 Belisario entrava in Roma per una delle sue
porte mentre da un’altra usciva la piccola guarnigione dei goti. Roma tornava
all’Impero dopo un sessantennio di dominio barbarico.
Nel 537 Vitige mosse da Ravenna alla volta di Roma con un esercito di
150.000 uomini. Belisario, che vi aveva lasciato una piccola guarnigione, corse in
aiuto della città. Con un assalto veemente gli imperiali fecero retrocedere i goti,
ma poi essi stessi dovettero retrocedere fin sotto le mura di Roma. Era già buio e
le porte restarono chiuse per timore che con gli amici entrassero anche i nemici.

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NOTE STORICHE

Belisario allora, raccolti intorno a sé i suoi, sferrò un assalto talmente impetuoso


che i goti, credendo che gli imperiali avessero ricevuto rinforzi, si ritirarono. Così
Belisario poté entrare nella città alla testa dei suoi.
I goti tornarono e circondarono Roma (erano i primi di maggio 537). Reite-
rati assalti di Vitige furono respinti dai difensori. In uno di questi attacchi gli im-
periali gettarono sui goti che si erano ammassati sotto il mausoleo di Adriano
(oggi Castel Sant’Angelo) finanche le statue che divelsero dal monumento, fa-
cendo strage di nemici sì che i goti dovettero desistere dal proseguire l’assalto.
Nella città assediata intanto la situazione si faceva sempre più drammatica per la
mancanza di cibo. Belisario vi rimediò in qualche modo: distogliendo gli asse-
dianti da un settore delle mura con finti attacchi in altri settori, poté fare entrare
nella città rinforzi e vettovaglie, e questo a diverse riprese. In una di queste oc-
casioni entrò in Roma Antonina, l’energica moglie del generale bizantino. Pare
che fosse venuta anche per dare attuazione alla volontà dell’Imperatrice Teodora
di deporre papa Silverio a lei inviso e fare leggere in sua vece il diacono Vigilio,
incline a favorire i Monofisiti che l’Imperatrice aveva preso sotto la sua prote-
zione. Belisario depose Silverio con l’accusa di volere consegnare la città ai goti
e fece eleggere Vigilio (537).
Silverio morì esule nell’isola di Palmarola, presso Ponza il 21 giugno 538.
Frattanto fra i goti schierati sotto le mura di Roma si manifestavano segni di stan-
chezza per il lungo e vano assedio. Vitige avanzò proposte di pace, ma Belisario
le respinse. Allora chiese e ottenne una tregua di tre mesi, che gli imperiali sfrut-
tarono a loro vantaggio. Vitige tentò un colpo di mano per entrare nella città, ma
venne respinto. Inoltre un corpo di spedizione bizantino agli ordini del capitano
Giovanni si dette a devastare il Piceno abitato dai goti e prese Rimini costrin-
gendo la guarnigione ostrogota a rinchiudersi in Ravenna. Giovanni poi si avviò
verso Roma per prendere alle spalle gli assedianti. Sgomenti per i rovesci subiti
e per l’avanzare degli imperiali dal nord, i goti infine tolsero l’assedio e si ritira-
rono. Era il 12 marzo 538. I barbari erano stati sconfitti e i romani poterono cele-
brare la vittoria. “Belisario scriveva a Costantinopoli che era veramente un mira-
colo l’aver potuto con un esercito di 5.000 uomini resistere vittoriosamente a
150.000” (Villari).
I bizantini non dettero tregua ai goti in ritirata. Li assalirono mentre attraver-
savano il Tevere creando grande scompiglio tra le loro file sì che molti morirono
affogati. Al Passo del Furlo, sugli Appennini, li impegnarono ancora in combatti-
mento e li vinsero. I superstiti disertarono e si unirono ai vincitori. L’esercito di
Vitige si assottigliò del continuo, e sebbene i goti occupassero ancora numerose
città nell’Italia centrale, il loro potere andò declinando. Ridotti a doversi difen-
dere dagli attacchi continui dei bizantini, non furono più in grado di spadroneg-
giare quasi incontrastati in Italia come ai tempi di Teodorico, per quanto in se-
guito riuscissero ancora a cogliere qualche sporadico successo militare. La fase
più incisiva del loro dominio in Italia era finita con la sconfitta sotto le mura di
Roma il 12 marzo 538.
i) Le operazioni militari dei Bizantini nell’Italia centrale sarebbero prose-
guite con più celerità se l’Imperatore non avesse tolto a Belisario l’unità di co-

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CAPIRE DANIELE

mando. Geloso per i successi del generale, Giustiniano nel 539 spedì in Italia
Narsete con l’incarico di dividere il comando con Belisario. Vitige approfittò
della discordia fra i due generali per rialzare la testa. Rafforzò le sue posizioni in
Liguria e fece occupare e radere al suolo Milano i cui 300.000 abitanti furono tru-
cidati. Intanto Teudiberto re dei Franchi faceva scendere in Italia in aiuto degli
Ostrogoti 10.000 Burgundi che si dettero a razziare il paese. Giustiniano, con-
scio delle conseguenze disastrose della sua decisione, richiamò a Costantinopoli
Narsete e l’unità di comandò in Italia fu ripristinata.
Ma i guai non erano finiti per i romani. Centomila franchi scesero dalle Alpi
con alla testa il loro re Teudiberto, con l’apparente intenzione di venire in aiuto
dei goti. In realtà gli invasori si dettero a saccheggiare Pavia, quindi si gettarono
addosso ai goti stessi che si videro obbligati a ritirarsi in Ravenna. Anche gli im-
periali si ritirarono verso le Marche dove Belisario assediava Osimo. Per buona
ventura dei romani una tremenda epidemia diffusasi tra i franchi fece tale strage
di barbari che i superstiti si ritirarono al di là delle Alpi (539). Gli imperiali allora
posero l’assedio alla capitale dei goti mentre da ogni parte aumentavano le loro
diserzioni. Nella primavera del 540 Belisario alla testa dei suoi soldati entrò in
Ravenna che da quel momento divenne bizantina e tale rimase per 212 anni,
cioè finchè i Longobardi non la tolsero ai Bizantini nel 752.
Se il 538 vide la liberazione di Roma dalla morsa in cui l’avevano stretta gli
ostrogoti, in quell’anno si videro pure le conseguenze catastrofiche della lunga
guerra tra i bizantini e i goti. Quattro anni di lotte continue avevavno ridotto
l’Italia in uno stato di desolazione al di là di ogni immaginazione. Da due anni i
campi erano in uno stato di completo abbandono. In Toscana gli abitanti fuggi-
rono ai monti e si nutrirono di ghiande. Nel Piceno 50.000 contadini morirono di
stenti. I corpi di quegli sventurati erano ridotti in tale stato che dopo la morte gli
uccelli predatori rifiutarono di cibarsene.
Gli anni che seguirono il 538 furono segnati non solo da indicibili calamità,
ma anche da un risveglio del sentimento religioso. In quegli anni nell’Occidente
si diffuse straordinariamente il monachesimo. Nel 539 Cassiodoro fondò a Viva-
rium, presso Squillace (in Calabria) un monastero che divenne un centro di cul-
tura oltre che di vita mistica, sul modello del monastero di Montecassino fondato
da Bendetto Da Norcia dieci anni prima.

l) Nel 540 Belisario tornò a Costantinopoli alla testa dei suoi soldati: portava
con sé il tesoro dei Goti e lo stesso Vitige fra altri prigionieri. La gelosia di Giu-
stiniano però lo relegò sempre di più nell’ombra.
Partito Belisario, le sorti dei goti in Italia cominciarono a risollevarsi. Ildi-
baldo riuscì a impadronirsi di buona parte dell’Italia del nord, ma nel 541 venne
ucciso. I goti allora elessero a loro capo Totila, uno dei più valorosi capitani
ostrogoti, dotato anche di non comune capacità strategica e politica.
Mentre i bizantini per sostentarsi spogliavano le popolazioni e favorivano i
latifondisti, suscitando sdegno fra il popolo, Totila al contrario lasciava in pace il
popolo e appesantiva la mano sui latifondisti: “s’impadroniva delle loro rendite -
dice il Villari - e anche di quelle della Chiesa, che era già fin da allora uno dei

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NOTE STORICHE

principali latifondisti, e che perciò fu a lui doppiamente avversa, essendo i goti


di religione ariana” (op. cit., p. 219).
Con soli 5.000 uomini Totila battè al di là del Po l’esercito bizantino forte di
12.000 uomini e marciò verso l’Italia centrale e meridionale. Nel 543 occupò Na-
poli e si affrettò ad assediare Roma. L’anno seguente Giustiniano rimandò in Ita-
lia Belisario che però non aveva più né l’energia né gli uomini di una volta. Il
generale andò a Ravenna con la vana speranza di raccogliere uomini per raffor-
zare il suo esercito. Frattanto Totila occupò diverse città nell’Italia centrale ta-
gliando le comunicazioni fra città nell’Italia centrale tagliando le comunicazioni
fra Roma e Ravenna; quindi pose l’assedio alla “Città eterna”.
Giovanni assalì i goti sparsi nell’Italia meridionale occupando la regione,
mentre Belisario, in marcia verso Roma, avendo avuto sentore di una grave di-
sfatta dei Bizantini presso Ostia, si perse d’animo e desistette dal proseguire.
Così i goti il 17 dicembre 546 entrarono in Roma mentre la guarnigione bizantina
e una gran parte dei cittadini l’abbandonavano in preda al panico. Totila poteva
dire ai suoi che se all’inizio della guerra 200.000 goti erano stati battuti da 7.000
bizantini, adesso 20.000 Bizantini erano stati vinti “dai deboli e disprezzati avanzi
dei goti”.
L’Ostrogoto vittorioso fece pervenire a Costantinopoli proposte di pace mi-
nacciando la distruzione di Roma se fossero state respinte. Giustiniano non ri-
spose lasciando che decidessero le armi. Totila, costretto a marciare verso il sud
per togliere ai bizantini le terre che essi occupavano, e non avendo abbastanza
uomini per lasciare in Roma una guarnigione sufficiente, decise di radere al
suolo la città. I goti già demolivano le mura quando giunse una lettera di Belisa-
rio che impressionò profondamente il barbaro. “Non sai tu - gli scriveva il gene-
rale bizantino - che le ingiustizie fatte a Roma sono ingiustizie ai trapassati, ai
posteri, sono una vera profanazione ? Vuoi tu rimanere nella storia come il di-
struttore piuttosto che come il preservarore della più grande e magnifica città del
mondo ?” Era ancora tale il fascino che la “Città eterna” esercitava sui barbari che
il distruggerla dovette apparire agli occhi dei goti un delitto imperdonabile.
Totila smise di demolire e partì per il sud, non senza avere prima ordinato
a tutti gli abitanti di abbandonare la città. Roma rimase deserta e desolata per
qualche tempo, finchè Belisario non la ebbe rioccupata. Avutane notizia Totila
fece dietro front e marciò in fretta verso Roma: tre volte sferrò l’assalto, sempre
respinto dagli imperiali; infine si ritirò a Tivoli. Era l’anno 547. Ora i bizantini
erano in possesso delle due capitali, Roma e Ravenna.
Due anni dopo Belisario, abbandonato dall’Imperatore, dovette far ritorno a
Costantinopoli e quivi, dopo essersi ancora distinto combattendo contro gli
Unni, morì nel 565.
Nel 551 Giustiniano affidò a Narsete l’incarico di proseguire la guerra con-
tro gli Ostrogoti in Italia. Con un esercito formato da bizantini, traci, illirici e per-
sino barbari (longobardi, eruli, gepidi e unni) Narsete percorse la Dalmazia, en-
trò in Italia da est e giunse senza difficoltà a Ravenna. Da lì, varcato l’Appen-
nino, penetrò nell’Umbria e presso Todino (oggi Gualdo Tadino) impegnò in
battaglia i goti e inflisse loro una severa sconfitta. Totila, che accorse da presso

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CAPIRE DANIELE

Roma, rimase ucciso in combattimento (552). I goti sconfitti si raccolsero a Pavia


e ivi elessero loro re Teja che si era distinto combattendo valorosamente contro i
bizantini.
Intanto Narsete, giunto sotto le mura di Roma occupata dai goti, con uno
stratagemma si impadronì rapidamente della città costringendo i barbari alla fuga
o alla resa. Teja attraversò l’Appennino per congiungersi con i goti del Sud, ma
Narsete lo raggiunse a Nocera, presso Napoli, e lo costrinse ad accettare batta-
glia. I goti combatterono disperatamente ma furono sopraffatti dai bizantini. Teja
rimase ucciso con molti dei suoi, i superstiti si arresero. Era l’anno 553.
Molti Ostrogoti riattraversarono le Alpi e tornarono ai luoghi d’origine, altri
si sparsero per l’Italia e si confusero con le popolazioni indigene, altri ancora si
rinchiusero in varie città fortificate e alla fine si arresero.
“Così - scrive il Villari - ebbe fine la guerra greco-gota, durata vent’anni, che
ridusse l’Italia all’estrema rovina. Il regno degli Ostrogoti , durato sessantaquattro
anni, fu distrutto per sempre, ed essi, come popolo, scomparvero affatto al pari
dei Vandali, quasi un esercito di ventura che si fosse disciolto” (op. cit., p. 246).

m) Giustiniano in vecchiaia si dedicò più ai problemi religiosi che alla con-


duzione dello Stato. L’interesse per le questioni teologiche che lo aveva sempre
contraddistinto divenne quasi una mania religiosa che lo distolse dalle cure tem-
porali. “Aveva l’ambizione di essere il sostenitore della vera fede, il restauratore
dell’unità non solo dell’Impero, ma anche della Chiesa” (P.Villari).
Avvenne che nelle dottrine di tre vescovi orientali che il IV Concilio di Ca-
ledonia nel 451 aveva approvato, furono scoperte tracce di eresia. I tre punti
controversi (i Tre Capitoli) attrassero l’attenzione di Giustiniano che volle avere
la gloria di correggerli. Così anatemizzò i Tre Capitoli e invitò i Monofisiti, an-
cora numerosi in Oriente, ad aderire alla vera dottrina da lui esposta. La sua ini-
ziativa non ebbe favorevole accoglienza presso i Monofisiti e suscitò fiera oppo-
sizione contro di lui in Occidente, dove il suo decreto fu visto come un’offesa
all’autorità del Concilio e del Pontefice stesso. Vigilio, fatto venire a Costantino-
poli, cedette alle pressioni di Giustiniano e condannò i Tre Capitoli (548) susci-
tando un vespaio in Occidente. Impressionato, mutò atteggiamento e si mise
contro l’Imperatore, ma alla fine, nel 554, stanco e malato, cedette ancora e rin-
novò la condanna dei Tre Capitoli.
“Pur tali erano allora la potenza della Chiesa e l’autorità dei Papi - osserva il
Villari - che anche in questi anni di debolezza e di patite violenze, si ottennero
per essa dall’Impero nuove e notevoli concessioni” (op. cit., p. 234).
Nel 554 Giustiniano, su istanza di Papa Vigilio, pubblicò la Prammatica
Sanzione che estendeva all’Italia la legislazione imperiale (Corpus Juris Civilis).
La Prammatica Sanzione “accrebbe il potere temporale dei Vescovi concedendo
loro il protettorato sul popolo, la giurisdizione civile ordinaria sul clero e la vigi-
lanza sui magistrati” (Enciclopedia Universale De Agostini, p. 963).
Nota ancora il Villari: “Di certo tutte queste concessioni erano fatte ai Ve-
scovi come ufficiali dipendenti dall’Impero. Ma la Chiesa le accettava senza di-
scutere, e quando l’autorità dell’Impero cominciò a decadere, ed essa poté sem-

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NOTE STORICHE

pre più affermare la propria indipendenza spirituale, una eguale indipendenza si


estese naturalmente anche all’esercizio di quelle temporali che, senza riflettere
alle inevitabili conseguenze, le erano state concesse. L’Impero aveva dato alla
Chiesa le armi con le quali essa doveva poi combatterlo” (op. cit., pp. 234, 235).
Giustiniano, l’artefice di grandi realizzazioni, ma anche il responsabile di
scelte e decisioni che, specie in Italia, ebbero gravi conseguenze, morì ottanta-
treenne nel 565.

8. I REGNI DEI LONGOBARDI E DEI FRANCHI -


IL PAPATO TRA L’IMPERO E
I LONGOBARDI E TRA I LONGOBARDI E I FRANCHI
a) Nel 568 - tre anni dopo la morte di Giustiniano - i Longobardi, dopo va-
rie migrazioni, dalla Pannonia varcarono le Alpi sotto la guida del re Alboino e
dilagarono nella pianura padana. Conquistata Milano nel 569, assediarono Pavia
che cadde nelle loro mani tre anni dopo (la città divenne poi capitale del regno
longobardo). Nel 572 Alboino perì per mano della moglie Rosmunda e l’anno
seguente i Longobardi elessero loro re Clefi, duca di Bergamo.
Intanto l’esercito, forte di 35.000 uomini, proseguì la conquista progressiva
della penisola, terminata la quale rimasero ai Bizantini soltanto la Liguria, la Pen-
tapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona), l’Esarcato (che comprendeva,
oltre a Ravenna, Ferrara, Bologna e Adria), i ducati di Roma e di Napoli, la Pu-
glia e la Calabria.
Nei territori conquistati i Longobardi crearono numerosi ducati che di più in
più tesero all’autonomia (dopo il 650 erano quasi indipendenti i ducati di
Trento, Tuscia, Spoleto e Benevento).
Alla morte di Clefi avvenuta nel 575 seguì un decennio di eclisse del potere
centrale, avendo i duchi evitato di eleggere un successore per rafforzare la loro
autonomia. La minaccia dei Bizantini, che si erano frattanto alleati coi Franchi, li
indusse nel 585 a ripristinare il potere centrale con l’elevazione al trono di Au-
tari, figlio di Clefi.
Autari aveva sposato la cattolica Teodolinda, figlia del duca di Baviera le-
gato ai Franchi. Autari è riconosciuto dagli storici come uno dei principali fonda-
tori del regno dei Longobardi.
Ad Autari, morto nel 590, succedette Agigulfo, duca di Torino, che sposò la
sua vedova. Sovrano valoroso e prudente, Agigulfo subì la volontà del Pontefice
esercitata per mezzo della moglie Teodolinda. Col concorso di papa Gregorio I
Magno (590-604) Teodolinda ottenne la conversione al cattolicesimo della corte
e di gran parte dei Longobardi.
Ad Autari, morto nel 590, succedette Agigulfo, duca di Torino, che sposò la
sua vedova. Sovrano valoroso e prudente, Agigulfo subì la volontà del Pontefice
esercitata per mezzo della moglie Teodolinda. Col concorso di papa Gregorio I
Magno (590-604) Teodolinda ottenne la conversione al cattolicesimo della corte
e di gran parte dei longobardi.

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CAPIRE DANIELE

Alla morte di Agilulfo nel 616, seguì una lunga reggenza della regina Teo-
dolinda, data la giovane età del figlio Adaloaldo. La diffusione del cattolicesimo
tra le loro file aveva fatto nascere la discordia fra i Longobardi, e una solleva-
zione popolare costrinse Adaloaldo, di fede cattolica, a fuggire a Ravenna.
Nel 628 morì Teodolinda e il genero di lei, Ariovaldo, assunse la regalità e
la mantenne fino alla morte avvenuta 8 anni dopo. La vedova di Ariovaldo, Gun-
deberga, figlia di Teodolinda, divenne sposa di Rotari, il successore del re de-
funto. Salito al trono nel 636, Rotari regnò con prudenza e si segnalò per avere
dato al suo popolo una legislazione basata fondamentalmente sulle antiche con-
suetudini giuridiche germaniche (Rotari fu il primo legislatore dei Longobardi).
Alla morte di Rotari, avvenuta nel 652, seguì un periodo di disordini e quasi
anarchia durante il quale i duchi tentarono di sottrarsi all’autorità regia. In questo
sessantennio si succedettero sul trono dei Longobardi undici re, tutti di scarso ri-
lievo.
Nel 712 fu elevato al trono Liutprando, figlio di Ansprando, l’ultimo dei re
longobardi insignificanti. Con Liutprando il regno longobardo pervenne al mas-
simo splendore. Approfittando della vivace reazione provocata in Italia da un
editto dell’Imperatore Leone III Isaurico (717-741) contro il culto delle immagini
(lotta iconoclastica), Liutprando nel 726 occupò l’Esarcato e la Pentapoli, scon-
fisse i duchi di Spoleto e di Benevento che parteggiavano per i Bizantini e si
spinse fino al ducato di Roma. Papa Gregorio III (715-731), di fatto signore di
Roma, lo convinse a sospendere il conflitto con l’Imperatore e a ritirarsi dal du-
cato. Venuto a patti col Pontefice, Liutprando nel 728 fece dono al “beato Apo-
stolo San Pietro” (cioè al Papa) del Castello di Sutri che gli storici considerano il
primo nucleo del futuro Stato della Chiesa. Alleato del franco Carlo Martello,
Liutprando nel 737-738 combatté al suo fianco contro gli Arabi.

b) L’unità dei Franchi era stata realizzata da Clodoveo fra il 486 e il 507; con
lui era cominciata la dinastia dei Merovingi. La conversione alla fede cattolica
aveva procurato a Clodoveo l’appoggio dell’episcopato, allora già assai influente
nella Gallia, e questo gli era valso almeno quanto il valore delle armi, se non
più, per conseguire i successi politici e militari che dettero lustro al suo nome.
Alla conversione di Clodoveo fece seguito quella dei Franchi, la prima na-
zione germanica che avesse abbracciato la fede cattolica (gli altri gruppi germa-
nici divennero invece ariani via via che si insediarono nei territori dell’ex Impero
latino). Morto Clodoveo nel 511, il regno fu spartito fra i suoi quattro figli, l’ul-
timo dei quali, Clotario, sopravvissuto ai fratelli e ai nipoti, riunì nelle sue mani
tutti i domìni paterni. Alla morte di Clotario nel 514, il regno fu di nuovo diviso
fra i quattro figli del re defunto. Seguì un periodo di lotte fratricide per la con-
quista dell’intera eredità di Clodoveo, lotte che terminarono con l’affermazione
di un nipote di Clotario, Clotario II (617-629).
Il figlio di Clotario II, Dagoberto I (629-639), fu l’ultimo degno successore di
Clodoveo sul trono dei Merovingi. Durante il suo governo la dinastia conobbe i
tempi più floridi.
Con la morte di Dagoberto nel 639 cominciò per la dinastia franca un pe-

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NOTE STORICHE

riodo di declino dovuto all’inettitudine dei regnanti che gli succedettero. La sto-
ria ha bollato col titolo poco lusinghiero di “re fannulloni” (rois fénéants) gli ul-
timi dinasti merovingi. Il vuoto di potere in questo periodo sempre più fu occu-
pato dai capi dell’aristocrazia franca che ricoprirono nelle maggiori province del
regno l’ufficio di maestri di palazzo o maggiordomi.
Dopo il 683 emerse Pipino di Heristal, maestro di palazzo di Neustria, una
delle grandi province del regno franco. Sebbene Pipino riconoscesse in teoria il
diritto dinastico dei re merovingi, di fatto si fece padrone di tutto il regno.
Alla morte di Pipino di Heristal, avvenuta nel 714, dopo un periodo di di-
sordini e lotte per la successione, l’eredità fu raccolta dal figlio naturale di lui,
Carlo Martello.
Noto alla storia per avere favorito il nascere del Feudalesimo in seno all’ari-
stocrazia franca, Carlo Martello fu soprattutto un valoroso uomo d’armi. Con-
dusse una serie di fortunate operazioni militari, fra le quali rimase celebre nella
storia la vittoriosa battaglia di Poitiers nel 732 che arrestò l’avanzata degli Arabi
verso il cuore dell’Europa.
A Carlo Martello si appellò papa Gregorio III nel 739 sollecitandone l’aiuto
per far fronte alle minacce del longobardo Liutprando. Ma l’appello del Pontefice
in quel frangente non fu raccolto dal re franco che aveva bisogno dell’alleato
longobardo nella lotta contro gli Arabi (vedi sopra).
Alla morte di Carlo Martello nel 741 i due figli di lui, Carlomanno e Pipino
detto il Breve, ereditarono ambedue il titolo e i poteri di maggiordomo d’Austra-
sia, un’altra grande provincia del regno franco. Nel 747 Carlomanno lasciò il po-
tere e abbracciò la vita monastica, sì che Pipino rimase il solo maestro di palazzo
dell’Austrasia. Nel 751 Pipino il Breve chiese e ottenne da papa Zaccaria (741-
752) prima l’assenso alla deposizione di Childerico III, ultimo rappresentante
della dinastia merovingia, poi l’incoronazione come re dei Franchi. Il Pontefice
nel 754 incoronò Pipino e consacrò lui e la sua famiglia facendo in pratica dei
suoi discendenti gli eredi al trono dei Franchi e sanzionando di fatto una fla-
grante usurpazione.

c) Intanto in Italia Liutprando era venuto di nuovo a diverbio col papa e nel
742 aveva occupato Roma. Morì poi a Pavia due anni dopo. Gli succedette il fi-
glio Ildebrando, subito deposto per inettitudine e sostituito con Rachis, duca del
Friuli. Dopo 5 anni di regno, sopraffatto nella contesa col Papa, Rachis si ritirò
nel monastero di Montecassino e in sua vece fu elevato al trono il fratello di lui,
Astolfo (749-756). Astolfo riprese la lotta col papato per il possesso del ducato e
della città di Roma. Nel 752, dopo avere occupato Ravenna ponendo fine
all’Esarcato, Astolfo marciò alla volta di Roma. Papa Stefano II, succeduto a papa
Zaccaria in quello stesso anno, ottenne dal Longobardo una pace che questi in-
franse pochi mesi dopo. Astolfo minacciò di nuovo Roma e il Papa sollecitò
l’Imperatore a intervenire in difesa della città e dell’Italia, ma da Costantinopoli
non venne alcuna risposta. Stefano II si rivolse allora a Pipino, tanto più che a
lui il re franco doveva la sua incoronazione e consacrazione.
Il Pontefice, comunque, tentò ancora di indurre Astolfo a restituire all’Im-

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pero le terre che aveva indebitamente occupato, senza però ottenere alcun risul-
tato. In realtà Stefano II mirava a ottenere per la Chiesa quelle terre: “... nei suoi
discorsi, nelle sue lettere - dice il Villari - invece di restituzione all’Impero, co-
minciò a parlare di restituzione a Roma, a S.Pietro, alla Chiesa” (op. cit., p. 374).

d) Nell’estate del 754, in risposta all’appello del Papa, Pipino scese in Italia
alla testa di un esercito franco, affrontò i Longobardi e inflisse loro una severa
sconfitta; Astolfo, da Pavia dove si era rinchiuso, fu costretto a venire a patti col
Re dei Franchi. Il Longobardo s’impegnò a cedere Ravenna e le altre terre occu-
pate. “Le terre così ottenute vennero da Pipino cedute al Papa, che ormai senza
più esitare cercava di sostituirsi in Italia all’Impero” (P.Villari, op. cit., p. 379).
Partito Pipino col suo esercito però Astolfo non mantenne gli impegni as-
sunti, anzi, alla fine del 755, marciò ancora alla volta di Roma. Papa Stefano si
appellò di nuovo a Pipino e questi nella primavera del 756 venne per la seconda
volta in Italia alla testa dell’esercito franco: Astolfo abbandonò subito l’assedio di
Roma e si rinchiuse ancora a Pavia.
I Franchi batterono l’esercito longobardo che Astolfo aveva mandato contro
di loro e assediarono Pavia che in breve si arrese. Stavolta le condizioni imposte
dal vincitore furono assai più dure: pagamento di un’indennità di guerra e di un
tributo annuo, consegna di un maggior numero di città e di nuovi ostaggi. I
Franchi presero in consegna le città le cui chiavi “furono in Roma consegnate al
Papa insieme con l’atto di donazione a S.Pietro, alla Santa Repubblica romana, e
a tutti i successivi pontefici” (P.Villari, op. cit., p. 380).

e) Pochi mesi dopo Astolfo morì. Suo fratello Rachis uscì dal monastero per
rioccupare il trono, ma Desiderio, duca di Toscana, con generose promesse fatte
al Papa ebbe la meglio. Il Pontefice scrisse a Pipino esaltando i meriti di Deside-
rio e le promesse da lui fatte alla Chiesa. “Si trattava adesso, diceva il Papa, di
condurre a compimento la bene incominciata impresa, facendo restituire a S.Pie-
tro e alla Chiesa anche le terre che prima di Astolfo avevano fatto parte dell’Esar-
cato e della Pentapoli...” (ibidem, p. 381).
“È chiaro - osserva ancora il Villari - che ora non si tratta più della pura e
semplice attuazione delle antiche promesse, più o meno generiche, fatte da Pi-
pino, ma di nuove domande e sempre meglio determinate. Il Papa chiedeva
l’Esarcato e la Pentapoli nella loro primitiva e assai più vasta estensione; chie-
deva inoltre le terre, le proprietà della Chiesa, sparse altrove, che erano state in-
debitamente occupate dai Longobardi o dai Bizantini” (op. cit., p. 382).
Desiderio però non mantenne tutte le promesse; doveva ancora trascorrere
del tempo prima che le aspirazioni territoriali dei papi si attuassero pienamente.
Intanto “la donazione di Pipino rendeva il capo della Chiesa sovrano temporale”
(op. cit., p. 382).
Pipino il Breve morì nel 768; quanto a Desiderio, egli fu vinto e destituito
nel 774 da Carlomagno, figlio e successore unico di Pipino il Breve dopo la
morte del fratello Carlomanno. Con Desiderio tramontò il regno dei Longobardi
in Italia. Era durato 202 anni.

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NOTE STORICHE

9. ASCESA E DECLINO DEL PAPATO


a) Fu attraverso un processo graduale, avviatosi assai presto nella storia
della Chiesa, che si affermò la supremazia di Roma rispetto alle altre sedi della
cristianità. I primi segni della tendenza di Roma a imporsi quale centro del
mondo cristiano sono rintracciabili già nel II secolo.
Ireneo (c.ca 140-200) e Tertulliano (c.ca 155-225) sostennero l’autorità di
Roma come città apostolica.
Nel III secolo Cipriano (205-258) attribuì all’apostolo Pietro la fondazione
della chiesa di Roma ed espresse l’opinione che pertanto il vescovo di questa
chiesa dovesse essere onorato al di sopra di tutti gli altri vescovi e che i suoi
punti di vista e le sue decisioni dovessero prevalere su quelle degli altri dignitari
della Chiesa.
Nel IV secolo dapprima si pervenne a un’equiparazione delle sedi patriar-
cali (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Roma [Concilio di Nicea, 325]); poi
la sede romana col favore dell’Imperatore Costantino acquistò una posizione
preminente fra le altre sedi primarie della cristianità.
Da questo momento la Chiesa, se da un lato fu liberata dalle persecuzioni,
dall’altro venne a trovarsi sotto la pesante tutela dello Stato. Scrive lo storico Carl
Grinberg: “Lo Stato mantenne l’unità della Chiesa e la protesse contro le perse-
cuzioni, ma per contro l’autorità temporale si permise di alienare la primitiva li-
bertà della Chiesa. Costantino faceva pesare la sua autorità nelle questioni reli-
giose non meno che negli affari temporali” (Storia Universale, vol. 3, p. 282).
Dal canto suo, la Chiesa cercò di adeguarsi per certi versi alla politica
dell’Impero; per esempio prese a modello la riorganizzazione dell’amministra-
zione politica dell’Impero attuata da Costantino per organizzare la propria ammi-
nistrazione e la stessa gerarchia ecclesiastica.
Intorno al 343 il Sinodo di Sardica pose sotto la giurisdizione di Roma i ve-
scovi metropolitani o arcivescovi.
Damaso I (366-384) propugnò l’autorità del vescovo di Roma sulla base
della tradizione riguardo all’apostolo Pietro; nacque il concetto di Sede apostolica
ed ebbe inizio l’evoluzione dell’ufficio del vescovo di Roma verso il papato.
L’Imperatore Teodosio I (347-395) riconobbe il vescovo di Roma custode
della vera fede e massima autorità religiosa.
Siricio I (vescovo di Roma dal 384 al 399) fece sentire a tutte le chiese il do-
vere di uniformarsi alla condotta della chiesa di Roma e proibì l’ordinazione dei
vescovi senza l’autorizzazione della “Sede apostolica”.
Ispirandosi nella forma ai decreti imperiali, Siricio redasse le Costituzioni
pontificie (Decretalia constituta) in cui è attestata l’identità del papa e di Pietro
(pare che sia stato il primo vescovo di Roma ad assumere il titolo di papa).
Innocenzo I (402-417) rivendicò, senza riuscire a ottenerla, la giurisdizione
sull’intera cristianità.

b) Leone I Magno (440-461) è considerato il fondatore del primato romano.


Nel 451 papa Leone protestò contro la dichiarazione del Concilio di Calcedonia

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sulla parità dei vescovi d’Oriente e d’Occidente (il Patriarca di Costantinopoli


mantenne per un certo tempo la supremazia sui vescovi dell’Oriente). Leone I fu
il primo vescovo di Roma ad affermare che il papato discende direttamente
dall’apostolo Pietro. Con l’appoggio dell’Impero si pose al di sopra dei concili e
avocò a sè il diritto di definire i dogmi della Chiesa e dettare decisioni impor-
tanti. Nel 452 papa Leone acquistò grande prestigio per avere dissuaso a Man-
tova il re degli Unni - il terribile Attila - dal saccheggiare Roma. Leone I si pro-
clamò “primo fra tutti i vescovi” e pretese di esercitare “con piena potestà” la
“cura della Chiesa universale” (vedi E.Meynier, Storia dei Papi, Torre Pellice
1932, p. 62).
Nel 445, sotto il pontificato di questo papa, l’Imperatore Valentiniano III
confermò il primato del Vescovo di Roma sull’Occidente. I vescovi romani fu-
rono riconosciuti “vicari di Cristo”.
Gelasio I (498-514) sostenne, in una lettera all’Imperatore Anastasio, la su-
bordinazione al Papa dei vescovi e dei sovrani in quanto membri della Chiesa
soggetti alla disciplina ecclesiastica.

c) La conversione al cattolicesimo di Clodoveo re dei Franchi intorno al 496


(vedi nota 8b), procurò al Pontefice romano un potente alleato. La Francia sa-
rebbe stata d’ora in poi la “figlia primogenita della Chiesa”, una forza secolare
sempre pronta a difendere e mantenere l’autorità papale.
Papa Simmaco (498-514) stabilì che il Pontefice non può essere giudicato
da nessun uomo.
L’Imperatore Giustiniano nel 533 scrisse a papa Giovanni II una lettera, in-
corporata poi nel codice del Corpus Juris Civilis con piena forza di decreto impe-
riale, nella quale il papa veniva riconosciuto capo della Chiesa universale. In ri-
sposta Giovanni II si compiacque con l’Imperatore per avere egli mantenuto la
preminenza della Sede romana, ripristinato l’unità della Chiesa, promosso la per-
secuzione degli “eretici” (vedi nota 7f).
Papa Gregorio I Magno (590-604) si definì “Servus servorum Dèi”, da allora
in poi titolo ufficiale dei pontefici romani. Gregorio I adattò la dottrina di Ago-
stino alla concreta azione politica del papato. Fondò di fatto il potere temporale
dei Papi con l’accentrare i fondi della Chiesa romana e gradualmente divenne in
concreto sovrano temporale della città di Roma. Gregorio I si staccò dall’am-
biente culturale bizantino e si volse ai popoli barbarici dei quali riconobbe l’im-
portanza (divennero cattolici gli Svevi, i Visigoti e i Longobardi).
Papa Vitaliano (657-672) nel 664 rinnovò la rivendicazione di supremazia
della sede romana nei confronti della chiesa orientale, supremazia che l’impera-
tore Giustiniano aveva riconosciuto nel 533 (vedi nota 7e).
Nel 751 papa Zaccaria approvò l’usurpazione del trono dei Franchi ad
opera di Pipino il Breve e consacrò l’usurpatore re dei Franchi a Soissons dopo
avere sciolto i sudditi dal giuramento di fedeltà a Childerico ultimo sovrano me-
rovingio (vedi nota 8d).
Stefano II (752-757) si staccò da Costantinopoli e si legò al regno dei Fran-
chi (vedi nota 8c). A seguito delle Donazioni di Pipino nel 756 (vedi nota 8d)

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NOTE STORICHE

nacque lo Stato della Chiesa. Papa Stefano pretese una sovranità territoriale indi-
pendente, fondando tale rivendicazione su un presunto documento costanti-
niano (Donatio Constantini) che avrebbe fatto risalire al primo imperatore cri-
stiano l’autonomia di Roma nei confronti dell’Impero con la consegna al Papa di
Roma stessa e della parte occidentale dell’Impero. L’umanista e filologo Lorenzo
Valla nel 1440 dimostrò con inoppugnabili argomenti filologici la falsità delle co-
siddette Donazioni di Costantino.
Il giorno di Natale dell’anno 800 papa Leone III pose la corona imperiale
sul capo di Carlomagno dichiarandolo “piissimo Augusto, imperatore dei Ro-
mani, incoronato da Dio”. I successori di Carlomagno e i sovrani di varie nazioni
europee attribuirono alla consacrazione papale valore di conferimento reale
della dignità imperiale.

d) Fra l’847 e l’852, pontificando Leone IV (847-855), comparvero nella


provincia ecclesiastica di Reims, in Francia, le cosiddette Decretali dello pseudo
Isidoro, documenti apocrifi miranti a consolidare la posizione preminente dei ve-
scovi rispetto ai sinodi della Chiesa e al potere laico. Sulla base delle Decretali in
quel tempo fu anche proclamata la supremazia temporale del Pontefice romano
(“Papa caput totius orbis”).
Nella seconda metà del secolo IX, declinando la potenza dei Carolingi,
papa Nicolò I (858-867), che propugnò il potere temporale della Chiesa, si ri-
chiamò alle Decretali dello pseudo Isidoro (vedi sopra) per accentrare in Roma
tutta l’organizzazione amministrativa della Chiesa.
Nell’875 Carlo il Calvo di Francia ricevette la corona imperiale dalle mani di
papa Giovanni VIII (872-881), senza che si fosse tenuto conto dei diritti del fra-
tello maggiore Ludovico il Germanico. Oramai “il papato appariva come l’auto-
rità che poteva disporre della corona e darla a chi riteneva degno e rifiutarla
all’indegno” (S.Hellmann, Storia del Medioevo, p. 111).
Fra il IX e il X secolo il papato attraversò un periodo di crisi come riflesso
dell’indebolirsi dell’autorità regia. Per un ottantennio (882-963) esso fu alla
mercé dell’aristocrazia romana le cui potenti famiglie si contesero il soglio ponti-
ficio.
“Roma dal principio dell’XI secolo si andò sempre più affermando come la
suprema istanza d’appello per tutta la Chiesa e vane furono le opposizioni solle-
vate da Attone (Hatto) e da Aribone di Magonza e contemporaneamente dai ve-
scovi francesi. Da Nicola I in poi, non destò più meraviglia vedere il papa, per
quanto corrotto egli potesse essere personalmente, immischiarsi autorevolmente,
chiamato o non chiamato, in questioni temporali”. S.Hellmann, op. cit., p. 255.
Nell’XI secolo il papato si svincolò dalle influenze della nobiltà romana.
Leone IX (1049-1054) promosse una riforma in seno alla Chiesa romana. Venne
istituito il Collegio dei Cardinali come autorità ecclesiastica universale. Il conflitto
di potere fra il Patriarca di Costantinopoli e papa Leone IX per il primato univer-
sale provocò la rottura fra la Chiesa Orientale e la Chiesa Occidentale (1054).
Roberto II il Pio, re di Francia (996-1031), figlio di Ugo Capeto, fu dal Papa
colpito di anatema per avere contratto un matrimonio non conforme alla legge

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canonica. “Il popolo costernato si sottomise con tanta umiltà agli ordini del
papa, che il re si vide generalmente abbandonato dai cortigiani e dai domestici...
infine dovette cedere... Si vide il re... confessare pubblicamente i suoi errori,
dopo avere lottato per tre anni contro gli anatemi”. Baquol-Schnitzler, Atlas hi-
storique, vol. II, tav. 65, citato da J.Vuilleumier, ibidem, p. 216.

e) Nel 1073 salì sul trono pontificio Gregorio VII, uno dei più grandi ponte-
fici del Medioevo. Già nei primi mesi del suo pontificato si trovò in conflitto col
re Filippo I di Francia per l’intervento di costui nell’elezione dei vescovi, e lo mi-
nacciò di anatema e di deposizione.
Gregorio concepì un progetto che mise in luce le mire del papato in questo
scorcio dell’XI secolo: “affidare alla Chiesa la completa direzione della società
umana”. Scrive lo storico S.Hellmann: “Poiché la politica papale mirava a un do-
minio universale, Gregorio VII non si è contentato di liberare la Chiesa dallo
stato e di subordinarlo più strettamente al papato; egli vagheggiò uno stato mon-
diale teocratico sotto la direzione del sommo sacerdote della chiesa cristiana”
(op. cit., pp. 261-262).
Nel 1074 l’energico pontefice progettò di muovere in aiuto dei cristiani
orientali alla testa di un esercito di cavalieri come Pontifex e Dux. Nel 1075 pro-
mosse una riforma radicale che si compendiò nelle 27 massime del Dictatus Pa-
pae (vedi nota 10) nelle quali , fra altre rivendicazioni, era proclamato il potere
assoluto del Papa in quanto capo della Chiesa universale di deporre i sovrani
temporali, sottoposti all’autorità della Chiesa. In quello stesso anno (1075) papa
Gregorio indisse un concilio che vietò l’investitura degli ecclesiastici da parte dei
sovrani temporali. Si aprì un conflitto assai teso fra il papa e l’imperatore di Ger-
mania Enrico IV, per nulla disposto a rinunciare alla nomina dei vescovi nei suoi
domìni (Lotta per le Investiture). Un sinodo di vescovi tedeschi convocati a
Worms per volontà dell’imperatore depose il Papa. Per tutta risposta Gregorio
VII, in un concilio che si riunì nel Laterano quello stesso anno, depose e scomu-
nicò Enrico IV sciogliendone i sudditi dal giuramento di fedeltà. “Nella potente
sentenza che egli pronunciava - osserva S.Hellmann - era tutta compendiata la
pretesa della Chiesa al dominio del mondo...” (op. cit., p. 264).
“Chi era stato scomunicato dal papa - scrive E.Chastel - veniva abbandonato
dai parenti, dagli amici, dalla servitù, giacchè chiunque avesse relazioni con uno
scomunicato ne condivideva la pena... Nei territori sotto la giurisdizione di un
principe ribelle le chiese dovevano rimanere chiuse, non si doveva più celebrare
il culto: non più benedizione, non più sacramenti, non più riti nuziali, non più
sepolture in terra consacrata; digiuni rigorosi, tristezza, terrore al massimo grado
in luogo di feste, fino a quando i sudditi, vedendo compromessi i loro interessi
eterni e temporali, i loro piaceri e la loro salvazione per colpa di un principe
ostinato, non lo avessero costretto con la ribellione a piegarsi sotto la legge del
capo della Chiesa” (Histoire di Christianisme, vol. III, pp. 229, 231, citato da
J.Vuilleumier, ibidem, pp. 215-216).
Enrico IV, abbandonato dai principi vassalli e dai sudditi in rivolta, nel gen-
naio del 1077 si vide costretto a recarsi a Canossa in veste di penitente per chie-

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NOTE STORICHE

dere al papa l’assoluzione. Gregorio lo ricevette nel castello di Matilde di To-


scana dopo tre giorni di attesa a piedi nudi e gli concesse la revoca della scomu-
nica.
Nel 1084 Enrico fece eleggere dai vescovi tedeschi l’antipapa Clemente III e
da lui si fece incoronare imperatore Gregorio lo scomunicò per la seconda volta
ed egli discese in Italia e occupò Roma; il papa liberato dai Normanni, si rifugiò
in Salerno e lì morì nel 1085. La lotta per le investiture aveva comunque messo
in luce il grado di potenza a cui era pervenuto il Papato nella seconda metà
dell’XI secolo.
Nel 1095 papa Urbano II (1088-1099), in un sinodo che si tenne a Clér-
mont, colpì di scomunica il re di Francia Filippo I reo di avere ripudiato la mo-
glie Bertha e sposato in seconde nozze Berthrada. Sotto il pontificato di Pa-
squale II (1099-1118) il re Filippo si vide costretto a sottomettersi al pontefice ro-
mano. Durante un concilio che si tenne a Parigi nel 1103 Filippo I, come Enrico
IV di Germania 26 anni prima di lui, a piedi nudi e col saio di penitente implorò
il perdono del papa e fu riammesso nel seno della Chiesa romana.
Nel 1111 Enrico V di Germania - il figlio dell’imperatore che dovette andare
a Canossa - prostrato davanti a papa Pasquale II (1099-1118) assiso sul seggio
pontificio ricevette la corona imperiale dai piedi del pontefice il quale subito la
fece rotolare a terra con un calcio per significare che avrebbe potuto togliergliela
in qualsiasi momento se se ne fosse mostrato indegno. I cardinali poi la raccol-
sero e ne cinsero il capo dell’imperatore.
Nel 1140 papa Innocenzo II (1130-1143) scagliò l’interdetto sul regno di
Francia perché Luigi VII si era rifiutato di riconoscere il nuovo arcivescovo di
Bourges.
Papa Alessandro III (1159-1181) tenne testa con grande energia all’impera-
tore di Germania Federico I Barbarossa nella lotta per la guida della cristianità
occidentale. Incoronato nel 1155 re d’Italia a Pavia e imperatore del sacro Ro-
mano Impero a Roma da papa Adriano IV (1154-1159), Federico I era sceso più
volte in Italia per imporre ai Comuni e al Papato l’autorità imperiale: poiché
l’avevano rifiutata, distrusse Crema nel 1160 e Milano nel 1162; nel 1166 aveva
occupato per breve tempo Roma.
Battuto a Legnano nel 1176 dalla Lega Lombarda, l’anno seguente si vide
costretto a stipulare la pace con papa Alessandro III a Venezia per ricevere l’as-
soluzione.
Enrico II Plantageneto re d’Inghilterra (1154-1189) fu tenacemente avversato
da Thomas Becket arcivescovo di Cantenbury e rigido difensore dei diritti papali,
perché con le Costituzioni di Clarendon del 1164 il re aveva sottoposto il clero
alla giurisdizione del tribunale regio. Accusato dell’assassinio dell’arcivescovo,
Enrico II fu colpito di anatema da papa Alessandro III. Per ottenere la sospen-
sione della pena, il re dovette sottoporsi pubblicamente alla fustigazione sulla
tomba del suo mortale nemico Thomas Becket.

f) Innocenzo III (1198-1216), un pontefice della statura morale di Gregorio


VII, come Gregorio si batté per l’affermazione dell’autorità assoluta dei pontefici

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all’esterno come all’interno della Chiesa. Con questo intento fece decadere la po-
testà dei vescovi e istituì i legati, diretti rappresentanti dei papi. Innocenzo si
proclamò “Vicario di Cristo Re dei re” dal quale i principi laici ricevono come
feudi i loro regni.
Nel 1201 papa Innocenzo III mise l’interdetto sul regno di Francia per co-
stringere il re Filippo-Augusto a riprendere la moglie Ingeburge che aveva ripu-
diato. Sotto il suo pontificato il papato pervenne al culmine della potenza poli-
tica, e quanto fosse illusorio sfidarla si vide allorché Giovanni Senza Terra, fra-
tello e successore di Riccardo Cuor di Leone sul trono d’Inghilterra, protestò per
avere Innocenzo III assegnato all’arcivescovo Stephen Langton, senza consul-
tarlo, la sede episcopale di Canterbury rimasta vacante. Il papa scagliò l’inter-
detto sul regno, scomunicò e dichiarò decaduto il re sciogliendone i sudditi dal
giuramento di fedeltà. Nel 1213 Giovanni si vide costretto a cedere: mise la co-
rona a disposizione del pontefice per riceverla da lui come vassallo della Chiesa.
Il IV Concilio lateranense riunito da Innocenzo III nel 1215 istituì presso le
diocesi i tribunali ecclesiastici per la repressione delle eresie: nasceva quella isti-
tuzione sinistra che prese il nome di Inquisizione.
Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa del medioevo. Egli rilan-
ciò la politica teocratica perseguita da Gregorio VII e Innocenzo III, pretendendo
per la Chiesa romana la supremazia temporale. Il primo Giubileo bandito da Bo-
nifacio VIII nel 1300, segnò il culmine del prestigio papale. Nel 1302 si riaprì il
conflitto fra la Santa Sede e Luigi IV re di Francia sul diritto regio di imporre tri-
buti al clero. Con la bolla Unam Sanctam papa Bonifacio riaffermò, mediante la
tesi delle due chiavi e delle due spade (simboli dei poteri temporale ed ecclesia-
stico) la supremazia dei pontefici romani su tutti i principi terreni.

g) Con la morte di Bonifacio VIII cominciò un periodo di declino del pa-


pato. Benedetto XI (1303-1304) che gli succedette fu l’ultimo papa di nazionalità
italiana. Clemente V (1305-1314) fu il primo di una serie di pontefici di naziona-
lità francese. Nel 1309 la Santa Sede fu trasferita ad Avignone, nella Francia del
sud, e con questo evento cominciava quella fase decadente della storia del pa-
pato che prese il nome di Cattività Avignonese. Il diffondersi della corruzione e
del nepotismo nella corte papale di Avignone determinò una caduta di autorità
della Chiesa. Per mantenere il fasto della corte pontificia, fu messa in atto una
politica finanziaria vessatoria a danno dei fedeli: le indulgenze divennero per i
papi avignonesi una fonte di lauti proventi (sono note le invettive del Petrarca
all’indirizzo della corte papale di quel periodo infausto).
Urbano V (1362-1370) nel 1367 riportò temporaneamente a Roma la sede
del Papato, nonostante l’opposizione della corte e dell’alto clero francesi. Alla
sua morte venne eletto in Avignone Gregorio XI (1370-1378) che 6 anni dopo
trasferì definitivamente a Roma la Santa Sede.
Morto Gregorio XI nel 1378, a Roma fu eletto a furor di popolo Urbano VI
(1378-1389); i cardinali francesi riunitisi a Fondi, gli contrapposero Clemente VII
(1378-1394) che si trasferì in Avignone essendo la sede romana occupata dal ri-
vale Urbano VI. Si aprì così il Grande Scisma d’Occidente. Due papi, uno in

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NOTE STORICHE

Roma e uno in Avignone, si contesero il pontificato legittimo e si anatemizza-


rono a vicenda (intanto a Roma nel 1389 a Urbano VI era succeduto Bonifacio
IX, morto nel 1404, e in Avignone nel 1394 era stato eletto Benedetto XIII come
successore di Clemente VII).
Mentre pontificavano in Avignone Clemente VII e in Roma Gregorio XII,
successore di Bonifacio IX, un concilio di cardinali e vescovi riunitosi a Pisa nel
1409 depose i due papi rivali ed elesse quale pontefice legittimo Alessandro V
(1409-1410), ma i papi deposti non si sottomisero, avendo ciascuno l’appoggio
di una parte del clero e del popolo, cosicché in quegli anni vi furono 3 papi
contemporaneamente.
Morto Alessandro V nel 1410, fu eletto a Bologna Giovanni XXIII che 5 anni
dopo venne deposto con 72 capi d’accusa per la sua condotta indegna. Nel 1415
rinunciò alla dignità pontificia in Francia il deposto Benedetto XIII. Due anni
dopo venne eletto a Costanza Martino V (1417-1431), e con questo evento si
chiuse lo Scisma d’Occidente.

h) Eugenio IV (1431-1447), per risollevare il prestigio del Papato, che gli


eventi dei decenni precedenti avevano non poco scosso, tentò una riforma in-
terna della Chiesa romana. La riforma fallì e ne uscì rafforzata la secolarizzazione
del Papato. Per ristabilire l’assolutismo papale, i pontefici ripresero a contrastare
i fautori della preminenza dei concili. Ripristinata l’unità della Chiesa, essi si ado-
perarono per consolidare lo Stato pontificio, che sempre più venne assumendo il
carattere di un vero e proprio principato.
I pontefici emularono il fasto delle corti europee, intervennero nelle lotte
fra i signori, favorirono i propri parenti: Callisto III (1455-1458) elevò alla por-
pora cardinalizia due nipoti e a un terzo assegnò il ducato di Spoleto; Sisto IV
(1471-1484) creò per un nipote lo stato di Imola.
Nel 1492 fu eletto papa lo spagnolo Rodrigo Borgia, che assunse il nome di
Alessandro VI, noto alla storia per le sue dissolutezze. E’ anche ricordato per es-
sere intervenuto nel 1493 nella contesa fra Spagna e Portogallo per la spartizione
delle terre scoperte e conquistate di là dell’Atlantico.

i) Nel 1514 Leone X (1513-1521) rinnovò le indulgenze per finanziare la


fabbrica di S.Pietro. In Germania la propaganda martellante del monaco Tetzel,
emissario dell’Arcivescovo di Magonza, suscitò l’indignazione del frate agosti-
niano Martin Lutero (1483-1546), dottore in teologia e professore nell’Università
di Wittenberg. Il 31 ottobre 1517, Lutero affisse sulla porta del duomo di Witten-
berg 95 tesi con le quali denunciava l’abuso del commercio delle indulgenze e
proponeva una discussione sull’argomento. Fu la scintilla che accese il grande
fuoco della Riforma. Accusato di eresia, il frate di Wittenberg fruì della prote-
zione del principe elettore Federico il Saggio. Nel 1519 Lutero rifiutò di ricono-
scere il primato papale e la tradizione della Chiesa romana. L’anno dopo, l’ab-
bruciamento pubblico a Wittenberg della bolla papale di scomunica “Exsurge
Domine” segnò la rottura definitiva con Roma. Nel 1521, fatto comparire davanti
alla Dieta di Worms, Lutero rifiutò di ritrattare le affermazioni dottrinali che gli si

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rimproveravano come “errori” e affermò la sua fede incrollabile nell’autorità


della Scrittura. Molti umanisti nel nord Europa aderirono alla Riforma luterana.
Nel 1534 lo spagnolo Ignazio di Loyola fondò la Compagnia di Gesù, un
ordine religioso con un’organizzazione e disciplina di tipo militare che fu retto
da un “generale” (“papa nero”). Posta incondizionatamente a disposizione del
Pontefice e a lui sottomessa, la Compagnia di Gesù, di cui il fondatore fu il
primo generale, divenne lo strumento più attivo del Papa per la repressione
dell’“eresia”. Papa Paolo III (1534-1549) confermò l’ordine nel 1540. Nel 1542 fu
reintrodotta l’Inquisizione.
Per combattere la Riforma, la Chiesa romana promosse la Controriforma, un
movimento di conservazione sul piano dogmatico e di rinnovamento su quello
dei costumi, che ebbe come massima espressione il concilio di Trento indetto da
papa Paolo III nel 1545. Fu affermata, fra altri principi, la supremazia del Papa
sui concili. Trionfò e si affermò in seno alla Chiesa romana, per merito dei Ge-
suiti, il centralismo papale. Il Concilio di Trento si chiuse nel 1563.
Paolo IV (1555-1559) nel 1559 introdusse l’Indice (Index librorum proibito-
rum), un elenco ufficiale di libri ritenuti contrari alla fede cattolica (fra le opere
condannate figurava la Bibbia tradotta in lingue volgari). L’Indice fu abolito da
Paolo VI nel 1965.

l) Nel periodo della Controriforma la persecuzione dei Protestanti in Italia e


in Francia si intensificò. Paolo IV si adoperò molto per stimolare l’Inquisizione.
Pio IV (1559-1565) non fu da meno. Sotto il suo pontificato furono sterminate le
fiorenti colonie valdesi in Calabria. Pio V (1566-1572) rese ancora più dura con
un editto la sorte dei perseguitati. Gregorio XIII (1572-1585) fece coniare una
medaglia ricordo e indisse un grande giubileo per ringraziare Dio a motivo del
massacro degli ugonotti in Francia nel 1572. Sisto V (1585-1590) intervenne nelle
questioni interne della Francia allo scopo di stimolare la persecuzione degli ugo-
notti. Gregorio XIV (1590-1591) brigò per indurre la Spagna a intervenire militar-
mente in Francia al fine di impedire la candidatura al trono di Enrico di Navarra
amico degli ugonotti. Clemente VIII (1592-1605) dedicò molta attenzione all’atti-
vità dell’Inquisizione.
Nel 1595 ci fu in Italia un’esecuzione capitale di “eretici”. Nel 1600 fu arso
vivo a Roma il filosofo Giordano Bruno.
Durante il pontificato di Paolo V (1605-1621), la sorte degli ugonotti in
Francia si fece più dura dopo che fu assassinato Enrico IV il quale con l’Editto di
Nantes (1598) aveva dato respiro ai Protestanti. Sotto Urbano VIII (1623-1644) si
riaprì drammaticamente il conflitto fra Galileo e la Santa Inquisizione romana.
La zelante azione repressiva svolta dall’Inquisizione in Italia fra la seconda
metà del ‘500 e la prima metà del ‘600, stimolata instancabilmente dai papi,
spense il Protestantesimo nel nostro paese.
La Pace di Vesfalia (1648), che pose fine alla Guerra dei Trent’Anni fra Cat-
tolici e Protestanti, segnò il fallimento della restaurazione cattolica in Europa e
costituì un notevole passo avanti sulla via della libertà religiosa, civile e politica
in Europa. Il potere papale, già scosso dall’affermarsi della Riforma in gran parte

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NOTE STORICHE

dell’Europa del nord e in Inghilterra tra la seconda metà del ‘500 e il ‘600, nel
XVIII secolo venne ulteriormente declinando in conseguenza dell’impatto che
ebbe sulla cultura europea quel vasto movimento di pensiero che prese il nome
di Illuminismo. Sul finire del secolo, poi, ricevette un colpo durissimo dalla Ri-
voluzione Francese.

m) Nel 1790 l’Assemblea Nazionale a Parigi deliberò la confisca del patri-


monio ecclesiastico per far fronte al forte disavanzo statale e decretò anche che
il clero giurasse fedeltà alla nazione, al Re, alla legge e alla Costituzione. Nel
1791 Pio VI (1775-1799) condannò con due Brevi i decreti dell’Assemblea fran-
cese. Il nunzio (rappresentante del Papa) dovette abbandonare Parigi.
Nel 1796 il Generale Bonaparte scese in Italia alla testa di un esercito re-
pubblicano e invase le Romagne e le Marche. Il Papa non poté esimersi dal sot-
toscrivere un documento (trattato di Tolentino, 19 febbraio 1797) in forza del
quale erano ceduti alla Repubblica il Contado Venassino e le Legazioni di Bolo-
gna, Ferrara e Romagna. In quello stesso anno, durante un intervento delle
truppe pontifice per sciogliere un assembramento di patrioti in Roma, rimase uc-
ciso il generale francese Duphot.
All’inizio del 1798, Napoleone Bonaparte ordinò al generale Louis Alexan-
dre Berthier, capo di stato maggiore dell’Armata d’Italia, di marciare su Roma.
Nel mese di febbraio le truppe francesi entrarono nella “Città eterna” e la occu-
parono; subito dopo fu proclamata la Repubblica Romana. I Francesi intimarono
a Pio VI di rinunciare al potere temporale e riconoscere la Repubblica. A seguito
delle sue proteste, il Papa fu deposto e deportato prima in Toscana poi in Fran-
cia, a Valence, dove morì nell’esilio l’anno seguente. Era un evento storico di
portata inaudita. Per la prima volta nella storia plurisecolare del Papato un pon-
tefice veniva deposto e condotto in esilio dal potere secolare.
La sede pontificia rimase vacante per due anni. Nel settembre del 1799 le
truppe napoletane di Ferdinando IV, con l’appoggio di contingenti militari to-
scani, russi, inglesi e austriaci, occuparono Roma, abbatterono la Repubblica e ri-
stabilirono l’autorità papale. Il 14 marzo 1800 un conclave svoltosi a Venezia
elesse papa Pio VII (1800-1823). Il tracollo definitivo del potere temporale dei
papi era rimandato di 70 anni.
Il 18 maggio 1804 il senato proclamò Napoleone Imperatore dei Francesi.
Come Carlomagno mille anni prima, Napoleone volle essere consacrato dal Papa
ma a differenza di Carlomagno, che si era recato a Roma per farsi incoronare dal
Pontefice, il Bonaparte volle che Pio VII andasse a Parigi e la corona la cinse
con le proprie mani prendendola da quelle del Papa, per significare probabil-
mente che erano finiti i tempi dei quali lo Stato riconosceva la supremazia della
Chiesa.
I movimenti liberali sorti in Italia dopo la Restaurazione del potere regio
sancito dal Congresso di Vienna nel 1815, operarono anche negli Stati pontifici,
dove la repressione non fu meno dura che nei ripristinati stati dell’Italia del cen-
tro e del sud. Nel 1846 salì sul trono pontificio Pio IX. I moti rivoluzionari del
1848 lo indussero a concedere ai popoli degli Stati della Chiesa una costituzione

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sull’esempio di quelle promulgate nei loro stati da Re Carlo Alberto e dal Gran-
duca di Toscana Leopoldo II. In seguito però Pio IX revocò la costituzione e di-
venne reazionario quanto i sovrani temporali se non più.
L’8 dicembre 1864 il Pontefice pubblicò l’enciclica “Quanta Cura” con la
quale condannava gli “errori” del liberalismo. A breve termine di tempo la
“Quanta Cura” fu seguita dal Sillabo, un elenco di 80 proposizioni inaccettabili
dalla Chiesa cattolica e da essa condannate. Nel Sillabo erano negate tutte le li-
bertà che formano il fondamento della moderna democrazia.
Il 18 luglio 1870 Pio IX proclamò il dogma dell’Infallibilità Papale, non
senza suscitare il dissenso di vari dignitari della Chiesa.
Agli inizi di settembre di quel medesimo anno, essendo crollata nella guerra
con la Prussia la Francia di Napoleone III, protettrice della Santa Sede, si pre-
sentò per il giovane Regno d’Italia l’occasione favorevole per risolvere l’annosa
“questione romana”. Le trattative di Vittorio Emanuele II con Pio IX per un’occu-
pazione pacifica di Roma da parte delle truppe regie fallirono per l’intransigenza
del Papa, e il 20 settembre i soldati di Vittorio Emanuele II entrarono in Roma e
la occuparono. Un plebiscito il 2 ottobre di quello stesso anno sanzionò il fatto
compiuto. Questo evento storico segnò la caduta definitiva del potere temporale
dei papi che durava da 1142 anni.

APPENDICE ALLA NOTA 9. Fattori che contribuirono all’ascesa del Papato.

(1) “I seguenti fattori concorsero all’ascesa di Roma e infine all’affermarsi


della sua supremazia: Roma, in quanto capitale dell’Impero e metropoli del
mondo civile, era la sede naturale per divenire il centro di una chiesa universale.
(2) Nell’Occidente la chiesa di Roma era l’unica che poteva vantare un’origine
apostolica, una circostanza questa che in quei tempi faceva apparire ovvio che il
suo vescovo avesse la priorità sugli altri vescovi. Già prima dell’anno 100 Roma
occupava una posizione di alto prestigio. (3) Il trasferimento da Roma a Costan-
tinopoli della capitale dell’Impero a opera di Costantino nel 330 lasciò il vescovo
di Roma relativamente libero dal controllo imperiale; per di più da allora l’impe-
ratore sostenne con una certa costanza le pretese del vescovo romano contro
quelle degli altri vescovi. (4) L’imperatore Giustiniano sostenne con forza il ve-
scovo di Roma e ne promosse gli interessi mediante un editto imperiale che ne
riconosceva la supremazia su tutte le chiese d’Oriente e d’Occidente, un editto
che tuttavia non divenne pienamente operante che dopo il tramonto del domi-
nio ostrogoto su Roma nel 538. (5) L’essere riuscita la chiesa di Roma a contra-
stare con successo vari movimenti cosiddetti ereticali, in particolare lo gnostici-
smo e il Montanismo, le conferì fama di ortodossia, per cui fazioni in lotta fra
loro in altri settori dell’Impero sollecitarono l’arbitrato del suo vescovo per com-
porre le loro dissidenze. (6) Le controversie teologiche che divisero e indeboli-
rono la Chiesa orientale non toccarono quella di Roma che poté dedicarsi a pro-
blemi d’ordine pratico e trarre vantaggio dalle occasioni che le si offrirono per
estendere la sua autorità. (7) Il fatto che i vescovi di Roma riuscissero ripetuta-

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NOTE STORICHE

mente a evitare o quanto meno a mitigare le incursioni di barbari sulla città ac-
crebbe il prestigio politico del papato. Inoltre non di rado, in assenza di un go-
verno civile nella città, i papi ne svolsero le funzioni essenziali. (8) Le inva-
sioni arabe posero ostacoli alla Chiesa orientale, eliminando così l’unica rivale
importante di Roma. (9) Nell’Occidente i barbari invasori erano per la massima
parte già cristianizzati, anche se più nominalmente che sostanzialmente; le inva-
sioni liberarono il papa dal controllo imperiale. (10) Con la conversione di Clo-
doveo re dei Franchi nel 496, il papato poté usufruire dell’appoggio di un po-
tente esercito per proteggere i propri interessi e di un aiuto efficace per conver-
tire altre tribù germaniche”. S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, pp. 835-836.

10. RIVENDICAZIONI DEI PAPI E


DICHIARAZIONI INAUDITE SUI PAPI
Sembra che al Concilio di Nicea nel 325 l’imperatore Costantino dichiarasse
che i vescovi erano dèi. Vero o falso che fosse, i papi dell’VIII e IX secolo sfrut-
tarono l’episodio per accrescere la loro autorità. Nel secolo XI Gregorio VII “ne
fece il fondamento della supremazia politica dei pontefici romani” (J.Vuilleu-
mier). Nella dichiarazione di Costantino, dice il celebre teologo Ignaz von Doel-
linger, Gregorio VII “vide la prova lampante che lui, il papa, il vescovo dei ve-
scovi, dominava al di sopra di tutti i monarchi della terra nella sua inviolabile
maestà. “E’ evidente - affermava Ildebrando - che il Pontefice, chiamato Dio dal
pio Costantino, non può essere legato o sciolto da alcuna potestà temporale più
di quanto Dio non possa essere giudicato dagli uomini” (La Papauté, Parigi
1904, p. 41, nota 57, cit. da J.Vuilleumier in Apocalypse..., p. 210).
Questo stesso papa - dice ancora il Doellinger - “il primo che imprese a de-
porre un monarca e a scioglierne i sudditi dal giuramento di fedeltà, dichiarò al
sinodo di Roma nel 1080: ‘Noi vogliamo mostrare al mondo che abbiamo il po-
tere di togliere a chiunque e darli a chi ci par bene i regni, i ducati, le contee, in
breve i possedimenti di tutti gli uomini, perché abbiamo il potere di legare e
sciogliere’ ” (op. cit., p. 54, nota 154, in J.Vuilleumier, op. cit., p. 210).
“Le ventisette proposizioni del Dictatus - aggiunge il teologo tedesco - nelle
quali egli aveva condensato tutto il sistema dell’onnipotenza e della maestà pa-
pali, erano in parte ripetizioni o conseguenze logiche delle [apocrife] Decretali
dello pseudo Isidoro, in parte nuove formulazioni volte a conferire alle proposi-
zioni stesse un’apparenza di valore di antichità e di tradizione” (op. cit., pp. 39 e
40, in J.Vuilleumier, ibidem, p. 211).
Giovanni Miegge scrive a: “ proposito del Dictatus Fondandosi sul De Civi-
tate Dei di Agostino, sulle Decretali pseudo-isidoriane e sulle enunciazioni di Ni-
cola I, il papa afferma la propria signoria sulla chiesa universale e sul mondo in-
tero. Egli è il solo uomo di cui si debba baciare il piede e che può portare inse-
gne imperiali. Egli solo può nominare e deporre i vescovi, deporre gli imperatori
e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso sovrani ingiusti. Nessun si-
nodo può essere chiamato generale senza il suo ordine, nessun testo canonico

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CAPIRE DANIELE

esiste al di fuori della sua autorità. Non può essere giudicato da nessuno.
Le cause importanti di ogni chiesa debbono essere sottoposte a lui. La
chiesa romana non ha mai sbagliato, e secondo le promesse della Sacra Scrittura
non sbaglierà mai, e il papa ordinato canonicamente diviene indubbiamente
santo per i meriti di San Pietro”. K.Heussi - G.Miegge, Sommario di storia del
cristianesimo, p. 95.
Col Dictatus è affermato il potere assoluto dei pontefici e la loro superiorità
su ogni autorità terrena.
Gregorio IX (1227-1241) affermò che “il papa... è signore del mondo, tanto
delle cose quanto delle persone”.
Clemente V (1305-1314) dichiarò “in nome della sua autorità apostolica che
ogni imperatore doveva obbedienza al papa e per conseguenza non gli era con-
sentito di stringere alleanza con un principe che fosse sospetto al papa”. Lo
stesso pontefice sostenne ancora che “essendo vacante il trono imperiale, il papa
doveva succedere alla potestà imperiale e che ogni imperatore aveva l’obbligo di
prestargli giuramento di vassallaggio” (vedi Vuilleumier, op. cit., p. 211).
Bonifacio VIII (1294-1303) affermò che spetta al papa conferire il potere
della spada temporale ai re e agli imperatori.
Ecco alcuni estratti da un’opera enciclopedica compilata da un ecclesiastico
cattolico del XVIII secolo: “Così alte sono la dignità e l’eccellenza del Papa che
egli non è semplicemente uomo, ma quasi Dio e vicario di Dio...
“Il Papa cinge la triplice corona in quanto re del cielo, della terra e degli in-
feri...
“Il Papa è quasi Dio in terra, unico sovrano dei fedeli di Cristo, capo dei re,
rivestito della pienezza del potere, investito dall’Iddio Onnipotente del governo
non solo del regno terreno ma anche del regno celeste...
“Così grandi sono l’autorità e il potere del Papa che egli può modificare,
spiegare e interpretare anche le leggi divine...
“Il Papa può modificare la legge divina poiché il suo potere discende da
Dio e non dall’uomo, e dato che egli agisce da viceregente di Dio sulla terra col
più ampio potere di legare e sciogliere le sue pecore...
“Tutto ciò che il Signore Iddio e il Redentore fanno, lo fa anche il suo vica-
rio, purché non faccia alcunché che sia contrario alla fede” (Lucio Ferraris,
“Papa, II”, in Prompta Bibliotheca, vol. VI, pp. 25-29, cit. in S.D.A. Bible Com-
mentary, vol. IV, p. 831).
Jean Vuilleumier, in Apocalypse... (a p. 217) riporta da Fleury, Histoire Ec-
clesiastique (vol. XIV, p. 130), il seguente episodio che si svolse a Roma nel XII
secolo ed ebbe per protagonisti papa Pasquale II ed Enrico V (il figlio dell’impe-
ratore di Germania che andò a Canossa):
“Nostro Signore il papa... condusse Enrico V e la sua consorte nella chiesa e
consacrò lui imperatore e lei imperatrice. Ma nostro Signore il papa assiso sulla
cattedra pontificia, teneva la corona imperiale fra i piedi e l’imperatore e l’impe-
ratrice, curvata la testa, la ricevettero dai piedi di nostro Signore il papa. Nostro
Signore il papa, però, in quello stesso istante colpì col piede la corona dell’impe-
ratore e la fece cadere al suolo, volendo con ciò significare che egli aveva il po-

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NOTE STORICHE

tere di deporlo dal trono imperiale se se ne fosse mostrato indegno. I cardinali


raccolsero la corona e la posero sul capo dell’imperatore”.
I cardinali del sacro collegio offrono il loro omaggio e la loro sottomissione
al pontefice neo eletto, nel corso di una cerimonia che prende il nome di “tri-
plice adorazione del sacro collegio”. Il corrispondente romano di un quotidiano
estero, nel XX secolo ha così descritto la cerimonia:
“Il pontefice si è assiso sulla sedia gestatoria e ha ricevuto la prima adora-
zione, cioè il primo atto di obbedienza del Sacro Collegio... Nella cappella Si-
stina il papa ha indossato i paramenti pontificali e la tiara d’oro e si è assiso sul
grande altare dove gli è stata tributata la seconda adorazione del Sacro Collegio.
Mercoledì mattina alle dieci ha avuto luogo nella Cappella Sistina la terza adora-
zione del sacro Collegio” (da J.Vuilleumier, op. cit., p. 225).
Nella cerimonia d’incoronazione del nuovo pontefice il cardinale-diacono
gli dice mentre gli cinge il capo del “triregno”: “Ricevi la tiara ornata di tre co-
rone, e sappi che tu sei il padre dei principi e dei re, l’arbitro del mondo e il vi-
cario del Salvatore nostro Gesù Cristo sulla terra” (ibidem, p. 211).
Nel manuale canonico De Curia Romana, stampato nella tipografia vaticana
con l’approvazione di Pio X, si legge: “I principi, i re, i sacerdoti, i metropolitani, i
patriarchi, i cardinali, in breve tutti sono tenuti per obbligo divino a ubbidire al
Pontefice romano” (art. II, “De Romano Pontifice”, da J.Vuilleumier, op. cit., p. 212).
Titoli quali Sommo Pontefice, Santo Padre, Vicario di Cristo, Capo della
Chiesa riferiti correntemente al papa, alla luce della dottrina del Nuovo Testa-
mento appaiono indebitamente attribuiti a una creatura umana sia pure rivestita
di autorità religiosa. Tali titoli infatti presuppongono una dignità e una autorità
decisamente sovrumane.
Col titolo di sommo sacerdote (Sommo Pontefice) l’epistola agli Ebrei desi-
gna la dignità e la funzione del Cristo in cielo: Eb 4: 14, 15; 6: 20; 8: 1,2; 9: 11;
10: 21.
Padre Santo è il titolo col quale Gesù si rivolse a Dio nella preghiera di in-
tercessione per i suoi apostoli alla vigilia della crocifissione: Gv 17: 11.
La funzione di Vicario di Cristo, secondo il Vangelo di Giovanni, spetta allo
Spirito santo. Aldo Gabrielli, nel Grande Dizionario illustrato della lingua ita-
liana (Mondadori, 1989), definisce così il vocabolo “vicario”: “Che o chi in una
funzione determinata, in un ufficio fa le veci di un’altra persona di grado supe-
riore; supplente, sostituto”. Ora Gesù Cristo ha designato lo Spirito santo, terza
Persona della Divinità, quale suo supplente e sostituto sulla terra (vedi Gv 14:
16, 17, 26; 15: 26; 16: 7, 12, 13).
Infine il Nuovo Testamento riconosce Gesù Cristo soltanto come Capo della
Chiesa (vedi Ef 1: 22; Col 1: 18). La rivendicazione da parte di una creatura
umana, o l’attribuzione a essa dei titoli suddetti si configura dunque come
un’usurpazione e una bestemmia.

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11. LA PERSECUZIONE RELIGIOSA DALL’ETÀ ROMANA


FINO AI TEMPI MODERNI
a) Le persecuzioni giudaiche e imperiali contro i primi cristiani
Fin dagli albori della sua storia la Chiesa dovette far fronte all’ostilità
dell’ambiente religioso circostante. Non si era ancora spenta in Gerusalemme
l’eco degli eventi culminati con la crocifissione di Gesù che i suoi apostoli fu-
rono arrestati e gettati in prigione dalle autorità religiose giudaiche (vedi At 5:
17,18). Il diacono Stefano fu lapidato a furor di popolo e la comunità dei cre-
denti fu dispersa dalla persecuzione (vedi At 7: 57-59; 8: 1). Poi il re Erode
Agrippa mise le mani sugli apostoli Giacomo e Pietro: il primo subì il martirio
(vedi At 12: 1, 2), il secondo fu liberato miracolosamente (vedi At 12: 3-10).
Nell’anno 64 a Roma, sotto il regno di Nerone, i cristiani, per la prima volta
subirono le violenze dei pagani. La tradizione vuole che durante quella sangui-
nosa persecuzione perissero gli apostoli Paolo e Pietro.
Una nuova persecuzione a opera dei pagani infierì sui cristiani - specie
nell’Asia Minore - verso l’anno 96, alla fine del regno di Domiziano (in quel fran-
gente l’apostolo Giovanni fu relegato nell’isola di Patmos dove gli fu rivelata
l’Apocalisse (vedi Ap 1: 6).
Tra l’inizio del II secolo e il primo decennio del IV, non meno di 11 volte la
Chiesa patì persecuzioni di maggiore o minore durata e intensità. Violenze bru-
tali subirono i cristiani sotto gli imperatori Traiano (98-117), Marco Aurelio (161-
180), Settimio Severo (193-211), Massimino Trace (235-238), Decio (249-251),
Gallo (251-253), Valeriano (253-260), Diocleziano (284-305) e Galerio (305-311).
L’ultima persecuzione, sotto Diocleziano e Galerio, fu la più lunga e la più
grave. Entrata nella fase cruciale nel 303, essa terminò definitivamente nel 313
con la promulgazione da parte di Costantino e Licinio dell’Editto di Milano.

b) La svolta costantiniana e le prime persecuzioni


contro i cristiani dissidenti
Dapprima tollerati dall’autorità imperiale (già dalla fine del regno di Gale-
rio), i cristiani ne furono infine favoriti. Costantino elargì ad essi importanti privi-
legi gettando le basi della futura Chiesa di Stato (cesaropapsimo). In pari tempo
però fece pesare sulla Chiesa la tutela del potere secolare.
Teodosio I il Grande (379-395) conferì alla religione cristiana lo status di re-
ligione ufficiale dello Stato romano. Onde a buon diritto può considerarsi il vero
fondatore della Chiesa di Stato (vedi K.Bihlmeyer-H.Tuechle, Storia della Chiesa,
vol. I, p. 259). I destini dei due grandi gruppi religiosi dell’Impero s’invertirono: i
cristiani già perseguitati dai pagani si fecero persecutori di questi ultimi attra-
verso il potere secolare. Introno alla metà del IV secolo un retore e apologista
cristiano, certo Giulio Firmico Materno, sollecitava l’imperatore a sterminare
completamente il paganesimo con la forza (vedi op. cit., p. 255). Sta di fatto che
nel 391 gli imperatori d’Oriente e d’Occidente Teodosio I e Valentiniano II con
un editto congiunto vietarono il culto pagano. In Alessandria in quest’epoca fu-
rono distrutti tutti i templi dedicati alle antiche divinità egizie e nel 415 venne as-

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NOTE STORICHE

sassinata dalla plebe cristiana la filosofessa pagana Ipatia.


Nel 529 Giustiniano chiuse d’autorità la prestigiosa scuola filosofica di
Atene e poco appresso ordinò che tutti i sudditi pagani dei suoi domìni si faces-
sero battezzare. Sembra che nella sola Asia Minore 70.000 pagani si facessero cri-
stiani a seguito di questa disposizione imperiale.
Nell’Occidente le cose non andavano meglio per i pagani.
In forza di leggi emanate nel 407-408, si requisirono e si adibirono a servizi
statali i loro templi previa rimozione degli altari e delle statue degli dèi.
Le misure coercitive applicate dallo Stato cristianizzato nei confronti dei pa-
gani contribuirono a ridurne del continuo la consistenza numerica fino alla loro
completa estinzione, e parallelamente favorirono l’espansione del cristianesimo
cattolico, non però senza riflessi negativi sulla qualità delle conversioni. “Un po’
alla volta - osservano K.Bihlmeyer e H.Tuechle - il paganesimo venne eliminato,
in parte sotto la pressione dello Stato e con gli svantaggi delle precipitate con-
versioni in massa” (op. cit., p. 247).
Un problema ancora più grave della persecuzione fu per la Chiesa, fin dai
tempi apostolici, la minaccia di inquinamento della fede. Nella seconda metà del
I secolo le comunità cristiane sparse nel mondo greco-romano furono turbate e
talora disorientate dall’insinuarsi e propagarsi in seno ad esse di elementi dottri-
nali estranei, come gli insegnamenti dei giudaizzanti (detti più tardi ebioniti) e le
teorie pre-gnostiche. Le guide spirituali della Chiesa affrontarono il problema
con la necessaria tempestività ed energia, ma solo sul piano dialettico, ora de-
nunciando e confutando l’errore, ora esortando alla vigilanza le comunità e i
loro conduttori (cfr. 2Co 11: 13-15; Ga 1: 6-9; 3: 1-29; 4: 21-31, 5: 1-12; Cl 2: 4-22;
1Tm 1: 3-11; 6: 3-5; 2Tm 4: 3-5; Ti 1: 10, 11; 2Pie 2: 1-3, 12-19; 1Gv 4: 1-3; 2Gv
7-11; Ap 2: 14, 15, 20). Solo di rado e nei casi estremi raccomandarono l’allonta-
namento degli erranti (vedi Ti 3: 10).
Sfide ancora più gravi dovette affrontare la Chiesa dopo il tramonto dell’età
apostolica. Nel II secolo la minaccia più seria all’integrità della fede cristiana
venne dalla dottrina gnostica - una mescolanza di interpretazioni allegoriche
della Scrittura, concetti filosofici platonico-pitagorici ed elementi delle religioni
orientali - che si propose come conoscenza (gnosis) profonda del verbo cri-
stiano. Lo Gnosticismo, nato in Oriente nel II secolo - ma nei suoi elementi co-
stitutivi essenziali già presente nel secolo anteriore - si diffuse nel mondo greco-
romano, ancorché frazionato in una varietà di sistemi, mettendo seriamente in
crisi il cristianesimo ortodosso. Le sette gnostiche ebbero come centri principali
Alessandria e Antiochia in Oriente e Roma in Occidente.
Di tutt’altra natura e ben meno pericoloso per la fede cristiana fu il Monta-
nismo, un movimento caratterizzato da forte entusiasmo religioso, vive aspetta-
tive escatologiche (millenarismo) ed estremo rigorismo etico, che si formò nella
Frigia durante il II secolo e si propagò nell’Occidente dove trovò in Tertulliano
un fervente assertore.
Tra il II ed il III secolo la controversia trinitaria lacerò la cristianità orientale.
Da questa contesa teologica scaturirono diversi orientamenti dottrinali in con-
flitto con l’insegnamento tradizionale della Chiesa. A Bisanzio sul finire del se-

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colo II vide la luce l’Adozionismo, un’eresia che considerava Gesù Cristo “figlio
adottivo” di Dio. Nella stessa Roma fiorì nel III secolo una nuova eresia, il Sabel-
lianismo o Modalismo, che ravvisava nelle tre Persone della Trinità altrettante
modalità distinte di manifestazione della Divinità e che suscitò la viva opposi-
zione della Chiesa.
Di gran lunga più seria fu per il cristianesimo ortodosso la sfida dell’Ariane-
simo, un’eresia cristologico-trinitaria che sorse in Egitto nella prima metà del IV
secolo. Il fautore di questa dottrina, il presbitero alessandrino Ario, respinse il
dogma trinitario e negò la natura divina di Gesù Cristo. Le sue idee, da quando
egli cominciò a divulgarle nel 315 da Alessandria, si propagarono verso l’Egeo,
l’Africa nordoccidentale e la stessa Roma. L’enorme diffusione di questa eresia
(basti pensare che divennero ariane quasi tutte le tribù germaniche che invasero
i territori occidentali dell’Impero) mise seriamente in crisi la Chiesa romana. Essa
sostenne una lotta durissima con l’arianesimo e alla fine vinse, ma non senza
avere patito dolorose lacerazioni.
Ancora nel IV secolo una controversia nell’Africa del nord sul battesimo de-
gli eretici fu l’occasione per la nascita di un movimento dissidente, il Donatismo,
che creò nuovi problemi alla Chiesa. Nella stessa epoca in Spagna si sviluppò il
Priscillianismo, un movimento scismatico caratterizzato da un acceso fanatismo e
da un’etica rigorista d’ispirazione montanista.
Mentre in Oriente si continuava a discutere sulle questioni trinitarie e cristo-
logiche, a Roma, agl’inizi del V secolo, si accendeva la controversia pelagiana
sulla grazia. Pelagio privilegiava il libero arbitrio umano nel processo della re-
denzione. Gli fu fiero avversario Agostino, che accentuava la priorità della sovra-
nità divina.
Dalle dispute trinitarie del II e III secolo si svilupparono le controversie cri-
stologiche destinate a provocare nuovi scismi nel corpo della Chiesa. Nella se-
conda metà del IV secolo Apollinare, vescovo di Laodicea e avversario dell’aria-
nesimo, formulò una dottrina sulla natura di Cristo che fu paradossalmente vi-
cina all’eresia ariana. Un’altra dottrina giudicata di ispirazione ariana fu divulgata
nel V secolo da Nestorio vescovo di Costantinopoli. I Nestoriani rifiutarono a
Maria il titolo di teotokos (“madre di Dio”) universalmente riconosciutole nella
Chiesa orientale, sostenendo giustamente che Maria fu “madre di Cristo”, non
“madre di Dio”.
Nel V secolo scosse e divise la cristianità orientale la dottrina Monofisita che
riconosceva a Gesù Cristo la sola natura divina. Secondo alcuni storici del cristia-
nesimo il Monofisismo fu la più potente e più popolare eresia dell’antichità cri-
stiana. Dal monofisismo si sviluppò nel VII secolo il Monotelismo, una dottrina
condannata come ereticale la quale ammetteva in Gesù Cristo una sola energia e
una sola volontà divino-umana. La dottrina monotelista fu formulata da Sergio
patriarca di Costantinopoli nel 619.
Nelle controversie teologiche che travagliarono e divisero soprattutto la cri-
stianità orientale fra il II e il VII secolo - ma che non risparmiarono del tutto la
Chiesa occidentale - intervennero in difesa della dottrina ortodossa i dottori della
Chiesa con eruditi scritti apologetici, mentre la Chiesa stessa di fronte agli inse-

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NOTE STORICHE

gnamenti eterodossi reagì decretandone la condanna attraverso i sinodi e i con-


cili o direttamente per bocca del vescovo di Roma. Ma dal tempo della svolta co-
stantiniana della politica dell’Impero, essa sempre più invocò l’intervento del po-
tere secolare per reprimere l’eresia.
Gli imperatori cristiani peraltro intervennero volentieri nelle dispute teologi-
che favorendo ora l’uno ora l’altro dei contendenti, spesso contribuendo a ina-
sprire le contese anziché placarle, e non di rado ricorrendo alle maniere forti per
piegare i dissenzienti.
Costantino il Grande (306-337) verso il 316 requisì le chiese dei Donatisti
nell’Africa del nord e fece andare in esilio i loro capi. Suo figlio Costante (337-
350) pure proscrisse il loro culto e mandò in esilio i loro conduttori.
Da Costantino in poi severi decreti imperiali furono emanati anche contro i
Montanisti.
L’intesa fra l’altare e il trono cominciò a produrre i suoi frutti esecrabili. Nel
380 un sinodo riunitosi a Saragozza scomunicò Priscilliano vescovo di Avila ac-
cusato di magia. Per la prima volta la Chiesa consegnò al potere secolare un
“eretico” perché fosse messo a morte: nel 385 Priscilliano e sei suoi compagni
furono fatti giustiziare a Treviri dall’usurpatore gallico del potere imperiale in
Occidente Magno Massimo. Sul finire del secolo IV papa Siricio (384-398) si ap-
pellò all’imperatore Teodosio I (379-395) affinché reprimesse un movimento ere-
ticale in Occidente.
Teodosio nel 388 condannò all’esilio e seguaci di Apollinare di Laodicea, e
il suo successore, l’imperatore Onorio (395-423), sollecitato dai vescovi cattolici
radunati nel sinodo di Cartagine del 404, applicò nei confronti dei Donatisti le
leggi severe di Teodosio contro gli eretici. Agostino, fautore dell’obbligo dello
Stato di proteggere la Chiesa, approvò l’adozione di misure coercitive verso i se-
guaci di Donato. Nel 414-415 le leggi restrittive contro questi cristiani dissidenti
furono ulteriormente inasprite: i membri della setta furono privati dei diritti civili
e le loro adunanze furono proibite sotto pena di morte.
Nel 419 l’imperatore Onorio condannò all’esilio 18 vescovi italiani che ave-
vano rifiutato di sottoscrivere l’enciclica di papa Zosimo contro il Pelagianismo.
Nel 429 o 430 Teodosio II (408-450) espulse da Costantinopoli i pelagiani e nel
435 mandò in esilio il patriarca Nestorio, già deposto 2 anni prima per “eresia”, e
ne perseguitò i seguaci, molti dei quali ripararono in Persia.
Poi l’autorità imperiale si volse contro i Monofisiti. L’imperatore Marciano
emanò severi editti a loro riguardo e nel 452 fece andare in esilio i loro capi
Dioscuro ed Eutiche.
L’imperatore Giustino (518-527) appesantì la mano sugli Ariani d’Oriente.
Giustiniano I (527-565) suo successore perseguitò i cristiani orientali che profes-
savano certe dottrine origeniane giudicate “ereticali”.
In qualche occasione gli imperatori si volsero anche contro i cattolici. Nel
653 Costante II (641-668) fece arrestare, malmenare e condurre in esilio papa
Martino I (649-653) per avere colpito di scomunica i patriarchi orientali che ave-
vano approvato un suo editto dogmatico. Nell’Oriente i cattolici furono ancora
perseguitati nell’VIII secolo durante la lotta iconoclasta iniziata da Leone III Isau-

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rico. Nei territori occidentali dell’Impero la Chiesa ebbe in generale una vita più
tranquilla nonostante una forte presenza ariana in Italia fino a metà del VI se-
colo. Solo sul finire del regno di Teodorico i Goti sottoposero a persecuzione i
cattolici e più che altro come ritorsione verso l’Impero avendo Giustino, come si
è visto sopra, cominciato a perseguitare gli ariani in Oriente. Bisogna aggiungere
che in Occidente il dissenso dottrinale fu un fenomeno sporadico, e quando si
manifestò si trovò di fronte alla pronta ed energica reazione di una Chiesa forte
e libera dal controllo imperiale.
Placandosi in seno alla Chiesa orientale le dispute teologiche dopo l’VIII se-
colo, e di conseguenza riducendosi fin quasi a scomparire il fenomeno dell’ere-
sia, cessarono pure le persecuzioni imperiali.

c) Lo sterminio degli Albigesi nel Medioevo


Il dissenso in seno alla Chiesa rifiorì in Occidente nel secolo XI, provocato
e alimentato dalla sempre più accentuata mondanizzazione della Chiesa stessa e
del suo clero. “La veste sacerdotale - scrive lo storico S.Hellmann - non era
spesso se non un mantello per coprire aspirazioni mondane che si potevano più
facilmente soddisfare sotto la protezione della Chiesa e col godimento dei suoi
privilegi” (Storia del Medioevo, p. 374).
Il prevalere nel seno della Chiesa delle preoccupazioni d’ordine materiale
sui compiti specificamente religiosi, fece nascere nei ceti popolari forti senti-
menti di malcontento da cui ebbero origine dei movimenti di dissenso e di pro-
testa. I cristiani dissidenti invitarono la Chiesa a rinunciare ai beni terreni e a tor-
nare alla povertà e alla purezza dei tempi apostolici. In coerenza con la loro
condanna della mondanità e dell’opulenza i membri dei movimenti di protesta
praticarono uno stile di vita contraddistinto dalla povertà e dalla semplicità. Si
dettero il nome di Catari (“puri”) e crescendo di numero si concentrarono parti-
colarmente nel mezzogiorno della Francia (presso Tolosa e in Albi da cui pre-
sero il nome di Albigesi) ma anche nelle Fiandre e in Lombardia, dove li si co-
nobbe col nome di Patarini. I Catari ebbero una concezione etico-religiosa radi-
calmente dualistica fondata sull’esistenza del Bene e del Male quali principi con-
trapposti e ugualmente potenti. Disdegnarono la carne identificata col peccato
(per questo negarono l’umanità di Cristo riallacciandosi all’antico monofisismo) e
praticarono un ascetismo rigoroso. Le loro comunità si dettero un’organizzazione
sociale basata sull’eguaglianza e l’abolizione della proprietà privata.
Un altro movimento di rinnovamento religioso sorse nella Francia del sud
nel XII secolo, quello Valdese. Il fondatore, un mercante lionese di nome Pietro
Valdo (c.ca 1140-1217), conquistato dall’ideale evangelico di semplicità e po-
vertà, aveva distribuito ai poveri i propri beni e si era dato alla predicazione pro-
pugnando quegli ideali. Valdo raccolse intorno a sé un numero crescente di se-
guaci. Costoro sostennero l’uguaglianza dei credenti nella Chiesa, il sacerdozio
fondato sul merito e non sulla consacrazione esteriore, il diritto dei laici alla pre-
dicazione. Il sinodo di Verona nel 1184 li colpì di scomunica.
Perseguitati insieme con gli Albigesi durante la crociata bandita da Inno-
cenzo III nel 1209, i Valdesi trovarono rifugio nelle valli alpine del Piemonte; al-

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NOTE STORICHE

tri gruppi emigrarono verso la Spagna e la Germania. La chiesa romana non tol-
lerò il dissenso religioso. Dapprima lo punì con la scomunica e il carcere, tro-
vando consenzienti i sovrani temporali nei loro domini. Al sinodo di Verona del
1184 papa Lucio III e l’imperatore di Germania Federico I Barbarossa stabilirono
di comune accordo di combattere l’eresia con l’esilio e la confisca dei beni. Nel
1197 Pietro d’Aragona decretò il bando degli eretici dalle sue terre e la pena di
morte per quanti vi fossero rimasti a dispetto dell’editto. La stessa sanzione deli-
berò Luigi IX in Francia nel 1270.
Ma non avendo queste misure prodotto effetti apprezzabili, si addivenne
alla decisione di inasprirle. Il papa invocò per i casi più gravi di eresia la pena di
morte e ancora una volta i principi temporali accolsero l’invito della Chiesa. Nel
1224 l’imperatore Federico II ordinò il taglio della lingua o la morte sul rogo per
gli eretici nei suoi domini europei e nel 1238 estese alla Germania queste crudeli
misure repressive. In Inghilterra divenne legge di stato nel 1401 la morte sul
rogo per lo stesso tipo di reato.
Al principio del XII, secolo i catari erano talmente numerosi nel sud della
Francia che l’energico e battagliero papa Innocenzo III (1198-1216) decise di in-
traprendere un’azione vigorosa per sradicarli. Dopo avere inviato una lettera cir-
colare a tutti gli arcivescovi, i conti e i baroni di Francia, spedì nella regione una
delegazione con a capo due monaci cistercensi, ma i legati pontifici tornarono a
Roma senza essere riusciti a convincere gli eretici e rientrare nel grembo della
Chiesa romana. Più clamoroso ancora fu l’insuccesso di una seconda delega-
zione guidata dal cardinale Giovanni di santa Prisca nel 1200. Una terza delega-
zione non ebbe migliore successo delle due precedenti.
Ci voleva un pretesto, un “casus belli”, per giustificare un intervento dra-
stico da parte della Santa Sede. Il pretesto si offrì nel 1208, allorché il legato
pontificio Pierre de Castelnau fu assassinato a quanto si crede da un valletto del
conte di Tolosa incline agli Albigesi. Senza alcuna prova il delitto fu imputato ai
catari. Innocenzo III ruppe gli indugi e decise di scatenare contro di loro una
violenta offensiva. Il pontefice invitò “conti, baroni, cavalieri e fedeli di Cristo” a
una “santa” crociata per sradicare con la spada l’eresia nella Francia del sud, pro-
mettendo a quanti vi avessero preso parte speciali indulgenze e, prospettiva
certo più allettante, i beni e le terre degli “eretici”.
Signori e signorotti di Francia e molta gente del comun popolo risposero
all’appello del pontefice: si formò un esercito di cavalieri e rozzi soldati feudali a
capo dei quali fu posto il conte Simon de Montfort. L’anima nera della crociata
fu comunque il legato papale Arnaud Amaury.
Il territorio dove gli Albigesi avevano messo salde radici fu devastato. Bé-
ziers, la roccaforte del catarismo, fu presa, saccheggiata e distrutta; i suoi abitanti
furono massacrati senza alcun riguardo per l’età e il sesso. “Di Béziers - ha
scritto un autore cattolico - non doveva rimanere che il nome: un nome insoz-
zato di sangue e di vergogna”.
Lo stesso autore, dopo avere alluso alle cifre discordanti riguardo alle vit-
time di questa carneficina, osserva con onestà e obiettività: “Ma ha veramente
importanza discutere sulle cifre ? Ciò che conta è il massacro e i suoi motivi. Ciò

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che scandalizza e rattrista è il fatto che esso sia stato compiuto da soldati bene-
detti dal papa e certi di avere per i loro orrendi delitti la ricompensa di un’eterna
salvezza. Sembra assurdo che il nome di Cristo possa essere stato usato e offeso
in modo così sconvolgente”. Anthony Keller, Gli scismi della cristianità, p. 145.
La guerra contro gli Albigesi nella Francia meridionale fu proseguita con
estrema crudeltà. A nulla valsero gli interventi di Raimondo Conte di Tolosa e di
re Pietro d’Aragona in difesa dei perseguitati. Il primo, fallito il tentativo di soc-
correrli, si sottomise alla Chiesa romana nel 1209; il secondo fu vinto e ucciso
presso Muret, a sud-ovest di Tolosa.
Quando la crociata terminò nel 1229 col patto di Parigi fra Raimondo junior
conte di Tolosa e Luigi IX di Francia, gli Albigesi erano stati in gran parte stermi-
nati. Dice A.Keller: “Quei pochi (superstiti) che riuscirono a sfuggire alle lame
dei crociati si affrettarono ad abbandonare l’inospitale terra di Francia e a cercare
altrove una nuova patria. Ma la Chiesa romana era ormai diventata, per tutti loro,
come una piovra terribile dai lunghissimi tentacoli che potevano raggiungerli
ovunque si fossero rifugiati. E questi tentacoli furono rappresentati dai tribunali
della Santa Inquisizione” (op. cit., p. 172).
Nel 1215 il IV concilio lateranense aveva dettato la procedura da seguirsi
nei riguardi di uomini e donne convinti di eresia. Il III canone stabiliva: “Gli ere-
tici condannati saranno consegnati al potere temporale perché sia loro inflitto il
castigo conveniente. I beni dei laici saranno confiscati... Il signore temporale
che, sufficientemente avvertito, trascurerà di purgare le sue terre dagli eretici
sarà scomunicato... e se non darà soddisfazione entro l’anno, il papa dichiarerà i
suoi vassalli sciolti dal giuramento di fedeltà e le sue terre devolute al primo oc-
cupante cattolico. Ciascun vescovo sceglierà tre uomini di buona fama o di più,
e li farà giurare di denunciare gli eretici” (da E.Meynier, Storia dei papi, p.158).
Innocenzo III, nella sua guerra implacabile contro gli “eretici”, volle dunque va-
lersi come arma di persuasione verso i principi temporali esitanti, della stessa
arma che si era rivelata tanto efficace nelle mani di Gregorio VII 140 anni prima.
Il concilio lateranense del 1215 aveva affidato ai vescovi il compito di sco-
prire e punire gli “eretici” nelle loro diocesi, ma quell’incarico si era rivelato oltre-
modo gravoso per loro. Scrive lo storico A.S.Turberville: “... una lettera molto im-
portante di papa Gregorio IX, dell’aprile 1233, dice che i vescovi sono oppressi
da ‘un turbine di preoccupazioni’ e da ‘schiaccianti ansietà’; e, pertanto, il papa
annuncia di avere, in seguito a ciò, deciso di mandare i Domenicani o Frati Predi-
catori a dar battaglia agli eretici di Francia. Nella misura in cui è legittimo attri-
buire l’origine di una tale istituzione a un solo uomo e a una data precisa - ne de-
duce lo scrittore inglese - l’origine dell’Inquisizione può essere attribuita appunto
a Gregorio IX e fissata in quest’anno, 1233” (L’inquisizione spagnola, p. 5).
The Catholic Encyclopedia, all’articolo “Inquisition” (vol. VIII, p. 34), citando
una bolla di Innocenzo IV (1243-1254), dice quanto segue riguardo al ruolo as-
segnato dal papa all’autorità secolare nei processi inquisitoriali:
“Innocenzo IV dichiara nella bolla ‘Ad extirpanda’: ‘Quanti siano stati giudi-
cati colpevoli di eresia, consegnati che siano dal vescovo o dal suo rappresen-
tante o dall’inquisitore al potere civile, il potestà o il magistrato-capo della città li

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NOTE STORICHE

prenderanno subito in consegna ed entro cinque giorni al massimo eseguiranno


la sentenza che sarà stata pronunciata a loro carico...’ Non potevano sussistere
dubbi - spiega l’estensore dell’articolo - su ciò che significavano le disposizioni
legislative civili, giacché gli articoli delle decretali papali che stabilivano l’abbru-
ciamento degli eretici impenitenti provenivano dalle costituzioni imperiali ‘Com-
missis Nobis’ e ‘Inconsutibilem tunicam’. La suddetta bolla ‘Ad Extirpanda’, - pro-
segue l’articolo - da allora in poi documento fondamentale dell’Inquisizione, fu
rinnovata e rinforzata da vari papi fra i quali Alessandro IV (1254-61), Clemente
IV (1265-68), Nicolò IV (1288-92), Bonifacio VIII (1294-1303) e altri. Pertanto le
autorità civili erano tenute dai papi, sotto pena di scomunica, nell’obbligo di ese-
guire le sentenze legali che condannavano alla pena del rogo gli eretici impeni-
tenti” (cit. da S.D.A. Bible Commentary, vol. IV, p. 381).
Il tribunale dell’Inquisizione o sant’Uffizio, come è stato accennato sopra, fu
da papa Gregorio IX affidato ai domenicani nel 1233. Quest’ordine religioso era
stato fondato nel 1215 da Domenico di Guzman con lo scopo di combattere
l’eresia attraverso l’insegnamento e la predicazione. La vita di povertà dei frati
dell’ordine voleva essere una risposta all’accusa di amore per la ricchezza mate-
riale rivolta alla Chiesa dai movimenti cosiddetti “ereticali”. Dopo la morte del
fondatore, la lotta dei domenicani contro il dissenso religioso fu però proseguita
con ben altri metodi. La procedura segreta adottata dal tribunale dell’Inquisi-
zione prevedeva che la prova del “delitto” si fondasse su denunce anonime
senza necessità di deposizioni testimoniali, come pure sulle confessioni estorte
con la tortura. I domenicani gestirono con “professionalità” e grande zelo il tri-
bunale della “Santa Inquisizione”.
Numerosi “eretici” furono arsi vivi a Roma nel 1231 sotto il pontificato di
Gregorio IX (v. E.Meynier, op. cit., p. 161). L’anno seguente il pontefice ingiunse
all’arcivescovo di Tarragona con la bolla “Declinante” di stanare e far condan-
nare gli “eretici” nella sua diocesi. Agli inizi del XIV secolo l’Inquisizione in Spa-
gna agiva con grande vigore: si parla di un numero ingente di “eretici” fatti pe-
rire sui roghi in questo periodo. Nei domini spagnoli il domenicano Nicola Ey-
meric fu avversario irriducibile di Raimondo Lullo, un terziario francescano che
si era distinto per lo zelo con cui aveva cercato di riguadagnare gli eretici e con-
vertire gli infedeli mediante la persuasione. “Il crimine più odioso di Lullo agli
occhi di Eymeric - dice lo storico A.S.Turberville - era la sua fiducia nell’efficacia
degli argomenti, dell’appello alla ragione, quali mezzi di conversione, come pure
la sua tesi che fosse ingiusto uccidere gli eretici...” (op. cit., p. 15).
Mentre nell’Europa del nord l’Inquisizione ebbe scarsa rilevanza (in Inghil-
terra sembra che il sant’Uffizio agisse una volta sola, in Boemia, Ungheria e Po-
lonia fece ben poco e nella Scandinavia non agì affatto), nel centro e sud Eu-
ropa fu invece assai vigorosa: oltre che in Spagna, i roghi si moltiplicarono in
Francia, in Italia e nella Germania.
A uno spirito moderno riesce difficile capire come la Chiesa medievale po-
tesse giustificare una repressione violenta della dissidenza quale nei tempi mo-
derni si riscontra soltanto nell’ambito dei regimi politici totalitari (nazismo, stali-
nismo). Lo storico inglese che abbiamo citato sopra (op. cit., pp. 1-2) ricorda che

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CAPIRE DANIELE

Tommaso D’Aquino paragonò l’eretico al falsario e argomentò che come il falsa-


rio nuoceva alla vita temporale corrompendo il corso della circolazione moneta-
ria, così l’eretico minava la vita spirituale corrompendo la fede. E concluse che
come la morte era la pena che il principe temporale infliggeva al falsario, così la
morte doveva essere la giusta punizione da applicare all’eretico la cui colpa era
tanto più grave in quanto la vita dell’anima valeva più di quella del corpo.
“Se si vuole comprendere che cosa fu l’Inquisizione - spiega A.S.Turberville -
è d’importanza decisiva afferrare i due assunti fondamentali su cui è basato un si-
mile ragionamento (il ragionamento cioè di Tommaso d’Aquino). Primo: esiste una
Repubblica Christiana, un’unica società cristiana proprio come esiste una sola
Chiesa cattolica; e tanto la Chiesa quanto lo Stato si fondano essenzialmente sulle
verità della religione cristiana. Secondo: la sicurezza del corpo politico ed ecclesia-
stico richiede disciplina tanto nella Chiesa quanto nello Stato, cioè obbedienza del
suddito verso i suoi legittimi governanti, civili e religiosi. Perciò l’eretico è un ri-
belle e un essere spregevole, proprio come il delinquente” (op. cit., p. 2).
È evidente che l’intolleranza religiosa medievale e la sua espressione più
truce, l’Inquisizione con i suoi orrori, trovarono nella concezione teocratica dello
Stato, e quindi nell’intreccio e nella confusione dello spirituale col temporale,
una delle motivazioni più forti a loro giustificazione.
Apologisti antichi e moderni hanno tentato di legittimare l’Inquisizione in-
vocando il diritto-dovere della Chiesa di difendersi dall’eresia. A una coscienza
civile moderna, però, l’infliggere sofferenze e il togliere la vita appaiono abusi
che assolutamente nulla può giustificare. Autori contemporanei cattolici onesti e
imparziali lo hanno riconosciuto. Scrive Anthony Keller: “Qualche scrittore catto-
lico tenta ancora una pallida difesa dello spietato tribunale ecclesiastico, affer-
mando che in sostanza la Chiesa aveva il diritto di difendersi dall’eresia e che,
nel caso degli Albigesi, Gregorio IX - come già il suo predecessore Innocenzo III
- si era trovato di fronte a un problema insanabile coi soli metodi persuasivi. Ma
evidentemente nessuna giustificazione può essere invocata di fronte alle migliaia
e migliaia di vittime sulle quali la Chiesa ha costruito la sua vittoria, fatto trion-
fare il suo ‘diritto’ e impostato la soluzione del ‘problema’. Le macchie di sangue
non si cancellano più” (op. cit., p. 181).

d) L’inquisizione spagnola
Per la ferrea organizzazione e per la severità con cui operò per più di tre-
cento anni, l’Inquisizione spagnola merita di essere ricordata a parte.
Nel primo medioevo i mori e gli ebrei formavano una parte considerevole
della popolazione iberica. Fino a tutto il XIII secolo cattolici, musulmani ed ebrei
convissero nella penisola in condizione di quasi normalità; ma dall’inizio del XIV
secolo i rapporti fra cristiani e non cristiani si deteriorarono per il mutato atteg-
giamento dei primi verso questi ultimi.
“Il popolo - scrive A.S.Turberville - venne eccitato contro gli Ebrei, special-
mente dall’eloquenza di predicatori il cui zelo era dovuto a motivi del tutto sin-
ceri giacché erano convinti che le relazioni fra i Cristiani e gli Ebrei avrebbero
condotto alla contaminazione della fede cristiana” (op. cit., p. 20). Ci furono

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NOTE STORICHE

massacri di Ebrei in varie province spagnole; “il più grave fu quello accaduto a
Siviglia nel 1391, come diretto risultato del fervidissimo zelo antiebraico di un ar-
cidiacono di nome Martinez, ed esteso a Cordova e Toledo, a Burgos e ad altre
città castigliane. Nello stesso anno, vi furono violenze consimili nelle città
dell’Aragona e a Maiorca” (ibidem).
I massacri del 1391 indussero molti ebrei a farsi cattolici prima della fine di
quell’anno. Si formò così una nuova classe di ebrei cristianizzati che in seguito
furono chiamati conversos e talvolta marranos. Si cominciò a sospettare che le
conversioni ispirate dalla paura delle persecuzioni fossero superficiali, e non c’è
da dubitare che lo fossero, almeno in buona parte.
Alla conversione forzata degli ebrei tenne dietro quella dei mori, che fu in-
trapresa per ispirazione dell’arcivescovo di Toledo Francisco Ximenes De Cisne-
ros. Ben presto ci si rese conto che i neoconvertiti, sia ebrei che musulmani, in
segreto mantenevano in tutto o in parte le credenze e le pratiche delle religioni
d’origine. Ciò fu visto come un affronto alla fede cattolica e come un pericolo di
anarchia religiosa.
D’altronde i tribunali ecclesiastici episcopali si erano mostrati incapaci di
preservare l’unità della fede cattolica.
La determinazione di mantenere l’ordine, l’uniformità e l’ubbidienza alle au-
torità sia nella Chiesa che nello Stato, ma anche la cupidigia della corona (i beni
degli ebrei facevano gola), e, non ultime, le pressioni di ecclesiastici eminenti
quali il Mendoza, arcivescovo di Toledo, e il domenicano Torquemada, spinsero
i reali di Castiglia e Aragona a intraprendere un’azione decisiva contro gli Ebrei e
i Mori residenti nei loro domini. Con questo intento nel 1478 Ferdinando e Isa-
bella chiesero a papa Sisto IV di introdurre l’Inquisizione nella Castiglia. Il ponte-
fice concesse l’autorizzazione con una bolla ad hoc e nel 1480 due domenicani
furono nominati inquisitori a Siviglia. Si aprì così quella pagina nefasta dell’inizio
dell’età moderna che la Storia conosce col nome di “Inquisizione Spagnola”.
Le prime vittime dell’Inquisizione spagnola furono gli Ebrei. Il 6 febbraio
1481 si celebrò il primo auto de fe della nuova inquisizione voluta dai reali di
Castiglia: furono bruciati vivi sul rogo 6 conversos ebrei.
Era il “braccio secolare” che bruciava vivi gli “eretici”, ma era la Chiesa, at-
traverso il tribunale dell’Inquisizione, che li consegnava al braccio secolare per-
ché fossero puniti con quell’atroce supplizio. Dice A.S.Turberville “Per i più la
maggiore infamia collegata all’Inquisizione è il rogo. E’ vero che il Sant’Uffizio ri-
pudiava ogni responsabilità per la morte dell’eretico che consegnava al braccio
secolare; ma si trattava di un ripudio meramente formale; gli autori di manuali e
trattati inquisitoriali non esitano infatti a dichiarare che la morte sul rogo è
l’unica pena giusta e adeguata per l’eretico ostinato e recidivo” (op. cit., p. 168).
Al primo tribunale dell’Inquisizione istituito nella città di Siviglia seguirono
ben presto quelli di Cordova, Jaen e Toledo. Sisto IV acconsentì che Torque-
mada, già inquisitore generale per la Castiglia, lo divenisse anche per l’Aragona.
In certi momenti lo zelo fanatico degli inquisitori determinò nelle province
spagnole sotto il controllo dei tribunali inquisitoriali, specie nell’Andalusia, un
vero e proprio regime del terrore. Complotti immaginari e infondati sospetti di

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CAPIRE DANIELE

“ebraismo” portarono davanti agli inquisitori innumerevoli persone che non ave-
vano a che fare con i “delitti” di cui li si sospettava.
“Mediante i suoi Editti di Fede, l’Inquisizione dichiarò sistematicamente che
la delazione era cosa degna di lode; con la soppressione dei nomi dei testimoni,
la rese facile e sicura. Mise l’animo nobile alla mercé del volgare, il coraggioso
alla mercé del vile, il generoso alla mercé del malvagio. Le virtù della fiducia re-
ciproca, della comprensione e della simpatia furono scoraggiate. Per di più, era
un aspetto essenziale del sistema che l’incorrere in sospetto diveniva virtual-
mente un crimine. Era quasi impossibile lasciare il tribunale davanti al quale si
fosse stati calunniati, senza un marchio sul proprio onore. Gli Inquisitori non di-
scutevano neppure se l’accusato fosse colpevole o innocente, ma cercavano di
stabilire in quale misura fosse colpevole”. A.S.Turberville, op. cit., p. 167.
Durante i tre secoli e più di storia dell’Inquisizione spagnola migliaia di
ebrei perirono sui roghi. Meno numerose furono le vittime tra i musulmani.
Carlo I d’Aragona, nipote di Ferdinando e Isabella (divenuto Carlo V come
sovrano del Sacro Romano Impero nel 1519), non fece nulla per mitigare la se-
verità dell’Inquisizione; anzi il suo spirito religioso fino al fanatismo lo portò a
renderla più salda che mai e a estenderla a tutta la Spagna.
Nei primi decenni del ‘500, Erasmo da Rotterdam aveva numerosi ammira-
tori fra gli uomini di cultura della nazione iberica. A Partire dal 1531 anche i de-
voti spagnoli del grande umanista fiammingo si trovarono in pericolo, perché
certe sue dottrine furono sospettate di eresia. Vari intellettuali, e persino un
abate benedettino, furono condotti davanti all’Inquisizione e processati; l’abiura
de vehementi li salvò dal patibolo ma non dal pubblico disprezzo.
La presenza del protestantesimo in Spagna fu un fatto episodico. Il primo
importante riformatore spagnolo, Francisco De San Roman, fu arrestato a Rati-
sbona per ordine di Carlo V; tradotto in Spagna, venne linciato dalla folla mentre
lo si conduceva al patibolo. Juan Jil, un dotto spagnolo che aveva abbracciato le
idee riformate e fondato una comunità luterana in Siviglia, fu arrestato e si salvò
con l’abiura; fu trattato con grande moderazione forse per la stima di cui godeva
presso Carlo V. Quattro anni dopo la morte però le sue ossa furono riesumate e
bruciate. I capi della comunità sivigliana Ponce De La Fuente e Juan Ponce de
Leòn, scoperti furono arrestati e condotti davanti al tribunale inquisitoriale. Juan
Pone de Leòn, benché avesse ritrattato, fu arso vivo insieme con altri 17 luterani
in un auto de fe del 24 settembre 1559, quando sul trono di Spagna sedeva da 3
anni Filippo II, figlio e successore di Carlo V. In quella circostanza 21 persone
accusate di protestantesimo abiurarono e scamparono al rogo. In un successivo
auto de fe del 22 dicembre 1560, 14 riformati furono consegnati al braccio seco-
lare per essere arsi vivi; uno di loro, un certo Hernàndez, rifiutò di tradire i com-
pagni nonostante le più atroci torture inflittegli da quella gestapo antilitteram.
Due altri autos si celebrarono in Siviglia nel 1562 in ciascuno dei quali fu-
rono consegnati al braccio secolare e arsi vivi 9 luterani. Un numero esiguo di
riformati spagnoli furono condannati al rogo in vari autos celebrati nel 1564 e
1565; più numerosi furono invece i prigionieri stranieri di fede luterana catturati
in Spagna, segno che la minuscola comunità di protestanti spagnoli in Siviglia

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NOTE STORICHE

era stata praticamente sterminata. Un secondo gruppo di luterani indigeni era


sorto nella Spagna settentrionale, a Valladolid. Anch’esso fu cancellato in breve
volgere di tempo dall’Inquisizione. Un primo auto de fe si svolse a Valladolid il
21 maggio 1559: furono condotti al supplizio due eminenti rappresentanti della
locale comunità luterana, Augustin De Cazallas e Antonio De Herrazuelo. Il
primo ritrattò ed ebbe la grazia di essere strangolato prima che il suo corpo
fosse dato alle fiamme. La moglie di Herrazuelo ritrattò e fu punita col carcere a
vita; dopo 7 anni ritirò la ritrattazione e fu condotta al rogo.
I resti della madre di Cazallas, colpevole di avere ospitato a casa sua dei
riformati per i servizi religiosi, vennero riesumati e bruciati e la casa stessa fu
rasa al suolo. Gli ultimi protestanti di Valladolid comparvero l’8 ottobre 1559 in
un auto de fe celebrato con grande solennità davanti a una folla di almeno
200.000 spettatori e alla presenza del re Filippo II. Dei 26 condannati, 2 furono
arsi vivi (uno di loro, di nome De Seso, che era stato il fondatore della comunità,
aveva subito tali torture che a malapena poté reggersi in piedi per ascoltare la
sua sentenza). Altri fecero atto di contrizione davanti al rogo e furono strangolati
prima di essere bruciati.
Dopo il 1565 il protestantesimo spagnolo era praticamente estinto. L’Inquisi-
zione celebrò ancora i suoi atroci autos de fe, ma le vittime furono marinai e
commercianti stranieri di fede luterana che commisero l’imprudenza di rivelare
la loro identità religiosa in territorio spagnolo.
Nel 1570 l’Inquisizione fu esportata nelle colonie sudamericane della Spa-
gna: un tribunale fu istituito a Lima, nell’attuale Perù, e commissari inquisitoriali
vennero insediati in varie località del continente. Quegli spietati persecutori eb-
bero il loro da fare quando nel sud-America sbarcarono numerosi ebrei porto-
ghesi.
Con l’avvento della dinastia dei Borboni in Spagna all’inizio del secolo XVIII,
l’Inquisizione dovette mitigare i suoi metodi brutali: gli inquisitori spagnoli di
quest’epoca furono “dei veri modelli di dolce ragionevolezza e clemenza. Lo spi-
rito dell’età... era più forte dell’Inquisizione” (A.S.Turberville, op. cit., pp. 150-151).
Tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, lo spirito liberale e repubbli-
cano della Rivoluzione Francese investì anche la Spagna. Nel 1798 il vescovo re-
pubblicano francese di Blois chiese agli spagnoli di abolire l’Inquisizione, rove-
sciare il dispotismo regio e instaurare la tolleranza religiosa, ma non fu ascoltato.
Nel dicembre del 1808, Napoleone Bonaparte in persona giunse a Madrid - dove
quello stesso anno le armate di Murat e Junot avevano messo sul trono di Spa-
gna Giuseppe Bonaparte - e dispose con un decreto l’abolizione dell’Inquisi-
zione e il sequestro delle sue proprietà a beneficio della Corona. Nel 1813 le
Cortes di Cadice - un organismo giuridico che rappresentava i territori non con-
quistati dalla Spagna - sebbene ostili ai Francesi, decretarono che l’Inquisizione
era incompatibile con la nuova costituzione repubblicana da esse adottata l’anno
precedente.
Nel 1814 il liberismo spagnolo ricevette un duro colpo con la restaurazione
di Ferdinando VII, e l’Inquisizione fu ripristinata, ma fu un episodio di breve du-
rata. Nel 1820 la rivolta ispirata dal malgoverno di Ferdinando costrinse il re a

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CAPIRE DANIELE

giurare fedeltà alla Costituzione del 1812 e ad abolire l’Inquisizione. Nel 1823
un’armata francese entrò nel territorio spagnolo per restituire a Ferdinando il
pieno esercizio del potere regio, ma grazie all’atteggiamento fermo dei Francesi
l’Inquisizione non fu più ripristinata. Nel 1868 il principio della tolleranza reli-
giosa fu introdotto nella Costituzione spagnola e la persecuzione religiosa istitu-
zionalizzata - figlia mostruosa dell’ibrido connubio fra il trono e l’altare - cessava
definitivamente dopo secoli di orrori indescrivibili.

e) La persecuzione dei Valdesi


Mezzo secolo dopo la conversione di Pietro Valdo, fiorenti colonie valdesi
erano stanziate nelle valli alpine del Piemonte, nella pianura lombarda e a nord
delle alpi. Nel corso del XIII secolo nuove colonie fiorirono in Calabria, Puglia,
Marche e Umbria.
Verso la metà del ‘200 una prima ondata repressiva si abbatté sulle comu-
nità lombarde costringendole ad abbandonare le città e cercare rifugio nelle
campagne. Agl’inizi del ‘300, la persecuzione flagellò le comunità che si erano
insediate nella valle del Danubio e quelle stanziate nella zona delle Alpi occi-
dentali. Nel Delfinato la repressione fu particolarmente dura. A Pinerolo nel 1312
si accese il primo rogo di cui si ha notizia. La corte papale di Avignone non tol-
lerava che l’eresia valdese prosperasse in quella parte della Francia così vicina
ad essa. Giovanni XXII e Benedetto XII in particolare esercitarono forti pressioni
sui principi temporali, i vescovi e gli inquisitori affinché la “valdesia” fosse estir-
pata nella Francia del sud; e le prigioni non bastarono più per contenere gli ar-
restati.
Dopo alcuni anni di calma relativa la repressione si scatenò di nuovo, negli
ultimi decenni del secolo XIV, nelle regioni a nord e ad est delle Alpi occiden-
tali. Due zelanti inquisitori, certi Martino Da Praga e Pietro Zwicker, fra il 1380 e
il 1404 istruirono centinaia di processi per “eresia” a carico di credenti valdesi
nella Baviera, nel Brandeburgo, nella Stiria, nell’Ungheria, nella Slovacchia e
nella Svizzera. Si riaccesero i roghi e si riempirono di nuovo le prigioni.
La stretta dell’Inquisizione non s’allentò neppure durante il periodo critico
dello Scisma d’Occidente, allorché per quasi 40 anni due papi (e talora tre) si
anatemizzarono a vicenda da Roma e da Avignone.
Alla fine del ‘300, stremato da quasi due secoli di persecuzioni, il popolo
valdese sembrava prossimo all’estinzione; invece riprese vigore, specie dopo
che, nel secolo successivo, strinse alleanza coi Taboriti, l’ala intransigente del
movimento boemo degli Hussiti.
Verso il 1450 furono riattivate le misure repressive contro i gruppi valdesi
delle Alpi occidentali; esse furono più dure sul versante francese dove la perse-
cuzione, organizzata dal legato papale e condotta dal duca Filippo di Savoia con
l’assenso del re di Francia Carlo VIII, assunse i caratteri di una vera e propria
crociata con una caccia spietata all’eretico.
Nel 1488 la soldataglia del duca di Savoia devastò il Pragelato nel Piemonte,
costringendo i valdesi a cercare scampo sui monti. Poi le milizie sabaude inva-
sero le vallate del versante francese distruggendone i villaggi. Le popolazioni

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NOTE STORICHE

fuggite sui monti furono raggiunte e massacrate senza pietà; decine di donne e
bambini furono bruciati vivi nella caverna in cui avevano cercato rifugio.
Nel 1532 si compì una svolta significativa nella storia del movimento val-
dese: a Chanforan, nella Val d’Angrogna, si tenne un sinodo storico nel quale i
valdesi decisero di inserirsi nel grande movimento della Riforma. Tre anni dopo
fu loro consegnata una traduzione in francese della Bibbia eseguita da Pietro Ro-
bert detto Olivetano e fatta stampare a loro spese a Neuchâtel.
Nel 1536, crollato il ducato di Savoia i cui territori erano stati invasi dalle
truppe francesi, il movimento valdese si consolidò e la Riforma si propagò nel
Piemonte, ma la prospettiva del carcere e del rogo non si allontanò del tutto.
Uomini di azione e di fede furono imprigionati e messi a morte. Nel 1536 fu an-
negato nell’Isère Martino Gonin, l’anno seguente vennero strangolati e arsi sul
rogo Bartolomeo Hector e Nicolò Sartoris; nel 1538 fu martirizzato Goffredo Va-
raglia.
Il rinnovamento religioso che aveva percorso la Francia nel primo scorcio
del XVI secolo aveva favorito l’affermarsi della fede evangelica nella parte meri-
dionale del paese. Le comunità valdesi del Lubéron, nella Provenza, divennero il
nucleo centrale di una vasta zona a prevalenza evangelica. Ma i parlamenti locali
non tollerarono questo stato di cose e intrapresero una decisa azione repressiva.
Quello di Aix-en-Provence in particolare decretò nel 1540 la condanna a morte
di 19 valdesi provenzali e la distruzione della loro roccaforte, il borgo di Lubé-
ron sui monti omonimi.
L’esecuzione dell’editto fu sospesa per l’intervento di Francesco I sollecitato
dai principi tedeschi a seguito di un memoriale di Melantone; ma 5 anni dopo il
re di Francia mutò atteggiamento e subito le bande mercenarie dell’armata del
papa agli ordini del barone Giovanni Meynier mossero da Avignone e percor-
sero la Provenza devastando le campagne e distruggendo i villaggi. Pochi val-
desi riuscirono a riparare in Svizzera o in Piemonte, i più furono in parte massa-
crati, in parte catturati e condannati a remare nelle galere reali.
Nell’Italia del sud la repressione non fu meno spietata. Il 22 febbraio 1560
fu arrestato in Sicilia Giacomo Bonello, un predicatore piemontese che dalla Ca-
labria si era recato nell’isola in missione esplorativa.
Condannato a morte dall’Inquisizione, fu arso vivo a Palermo. Sette mesi
dopo fu impiccato a Roma un altro predicatore piemontese, Gian Luigi Paschale,
arrestato in Calabria dove si era recato in missione. Nello stesso anno giunsero a
Cosenza, mandati dal cardinale Alessandrino (il futuro Pio V), gli inquisitori
Alfonso Urbino e Valerio Malvicini. Per l’enclave valdese in Calabria, che da più
di un secolo viveva quasi nell’ombra nelle campagne del cosentino, era giunta
l’ora della fine. Gli inquisitori si misero subito all’opera coadiuvati dai soliti dela-
tori anonimi e cominciarono gli arresti e le torture. I frati ebbero l’appoggio in-
condizionato del governatore della regione e nelle campagne popolate da conta-
dini valdesi si sparse il terrore. Chi poté fuggì ai monti o nei boschi. Nella zona
di S.Sisto i perseguitati, braccati, reagirono con la forza della disperazione e gli
assalitori furono respinti con perdite. Gli inquisitori bandirono allora una “santa”
crociata e la repressione fu feroce. Tra maggio e giugno 1561 i fanti di Filippo II

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giunti espressamente dalla Spagna e i galeotti del vicereame liberati per l’occa-
sione invasero il territorio dell’enclave valdese e fu la carneficina. S.Sisto e Guar-
dia Piemontese furono rasi al suolo. Gli scampati al massacro, fatti prigionieri, in
parte furono bruciati vivi, in parte furono venduti schiavi ai mori e in parte fu-
rono gettati nelle fosse e lasciati morire d’inedia. L’11 giugno a Montalto Uffugo
88 valdesi furono sgozzati a uno a uno come bestie da macello sulla scalinata
della chiesa parrocchiale. Così in quella tragica primavera del 1561 la colonia
valdese in terra calabra fu cancellata per sempre.
In quegli anni la caccia all’eretico riprese anche nel Piemonte, dove il duca
Emanuele Filiberto (1553-1580), rientrato in possesso delle sue terre dopo la vit-
toria degli Spagnoli sui Francesi, aveva intrapreso un’azione repressiva contro i
valdesi. Il 21 gennaio 1561 le comunità contadine delle valli, raccolte in assem-
blea sui monti di Bobbio, approvarono un documento - il “patto dell’Unione”-
col quale si impegnavano a opporsi con le armi al potere assoluto del sovrano
in difesa del loro diritto alla dissidenza.
I ducali contrattaccarono ripetutamente, sempre respinti dai valdesi che
avevano incendiato alcuni forti sabaudi. Emanuele Filiberto, dopo due mesi e
mezzo di inutili tentativi di piegare i valdesi, decise di venire a patti con loro. Il
5 giugno 1561 - il giorno in cui in Calabria venivano distrutti S.Sisto e Guardia
Piemontese - una deputazione valdese s’incontrò a Cavour coi plenipotenziari
del duca. Dalle due parti fu firmato un accordo in base al quale veniva condo-
nata ai valdesi l’indennità di guerra, erano loro riconosciuti alcuni diritti e si au-
torizzava la celebrazione pubblica del culto in alcune località scelte. Era la prima
volta in Europa che un principe cattolico non solo rinunciava a distruggere l’ere-
sia nei suoi possedimenti, ma ne riconosceva legalmente l’esistenza, anzi addirit-
tura concedeva agli eretici garanzie giuridiche riguardo al loro culto. La curia ro-
mana naturalmente fece sentire la sua vivace protesta.
Per i riformati del Piemonte seguì un periodo di stabilità e calma relative,
anche grazie all’estendersi dell’influenza francese nelle terre sabaude. Entro la
fine del secolo, però, quando il duca di Savoia ebbe conquistato l’area del mar-
chesato di Saluzzo, la repressione antiprotestante riprese vigore e in gran nu-
mero i valdesi della regione si videro costretti a prendere la via dell’esilio verso il
Delfinato o verso Ginevra.
Agli albori del XVII secolo il cattolicesimo rinnovato uscito dalla Contro-
riforma si avviò a riconquistare l’Europa: la Guerra dei trent’anni (1618-1648) ri-
portò in effetti buona parte dell’area centrale del continente sotto il controllo di
Roma. La ricattolicizzazione forzata delle terre già sotto l’influenza della Riforma
non risparmiò le valli del Piemonte. Sotto il duca Vittorio Amedeo I (1630-1637)
il culto cattolico fu imposto nella Val Pragelato. Nella seconda metà del secolo,
sotto la reggenza di Maria Cristina, vedova di Vittorio Amedeo, e sotto i duchi
Carlo Emanuele II (1638-1675) e Vittorio Amedeo II (1675-1730), le comunità
valdesi del Piemonte vissero momenti tragici. Ai sudditi di un signore cattolico
non era riconosciuto il diritto di professare una fede diversa dalla cattolica; per
tutti gli acattolici dei suoi domini la corte sabauda fu dunque un nemico mortale.
Nei primi mesi del 1655, quando a Torino reggeva il ducato per i figli minori

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NOTE STORICHE

Maria Cristina, un esercito ducale forte di 4.000 armati agli ordini del marchese
di Pianezza invase le valli e si dette al saccheggio. Le popolazioni subirono con
una sorta di fatalistica rassegnazione la violenta aggressione delle bande armate
sabaude. Invano i valdesi fecero conoscere ripetutamente alla corte di Torino la
loro intenzione di accettare le richieste dell’autorità ducale. Per imposizione del
marchese di Pianezza, i soldati furono alloggiati nei comuni valdesi e una volta
insediatisi si dettero a massacrare proditoriamente le popolazioni inermi (il fatto
disgustoso passò alla storia col nome di “Pasque piemontesi”). Gli scampati alla
strage fuggirono sulle alture dove la resistenza armata improvvisata da Giosuè
Gianavello tenne a bada per alcuni giorni le bande ducali. Entro il 24 aprile 1655
tutta la Val Germanasca era sotto il controllo dell’autorità ducale e i capi delle
comunità furono messi al bando.
La notizia della brutale repressione suscitò orrore e indignazione in tutta
l’Europa protestante. Il 17 maggio il Consiglio di Stato inglese giudicò il massa-
cro dei valdesi in Piemonte un evento apocalittico, una manifestazione del po-
tere dell’Anticristo. L’Inghilterra puritana manifestò il suo dolore per il martirio
dei fratelli delle Alpi con un digiuno nazionale: il poeta John Milton evocò l’in-
fausto evento in un sonetto famoso (vedere G.Tourn, I Valdesi, pp. 144, 145). Il
25 maggio l’Inghilterra inviò alla corte di Torino una nota di protesta e sollecitò
l’intervento degli stati europei. Un mese dopo mandò a Torino un ambasciatore
straordinario. Intanto nelle valli devastate i superstiti che erano stati piegati con
la forza si ribellarono e sotto la guida di uomini abili e coraggiosi come Giana-
vello e Jahier (e in seguito anche di ufficiali ugonotti) intrapresero una guerriglia
senza quartiere.
Sotto la pressione della diplomazia internazionale e della guerra partigiana,
la corte sabauda dovette cedere. Il 18 agosto 1655 i delegati valdesi, assistiti da
diplomatici inglesi e svizzeri, si incontrarono a Pinerolo coi rappresentanti della
corte, e dalle due parti fu firmato un accordo che riconosceva formalmente ai
valdesi il diritto di esistere, ma in concreto lo negava, giacché le “Patenti di gra-
zia”, come fu denominato il documento, presupponevano che a essi era con-
cesso di esistere per la grazia del sovrano.
Angherie di ogni genere, in continua violazione delle clausole dell’accordo,
costrinsero i valdesi a riprendere la guerriglia e la corte sabauda ebbe buon
gioco per farli passare come ribelli e banditi.
La revoca dell’Editto di Nantes nel 1685, voluta da Luigi XIV di Francia,
ebbe effetti immediati anche nel ducato di Savoia. Il culto riformato fu proibito
in tutta la valle e furono demoliti i templi valdesi, tranne pochi che vennero re-
quisiti e adibiti al culto cattolico. Nel gennaio del 1686 il duca Vittorio Amedeo II
(1675-1730), cedendo alle pressioni dello zio, Luigi XIV, impose con un editto la
cessazione del culto valdese, l’allontanamento dei pastori e il battesimo cattolico
dei bambini. Parve ancora una volta che ai valdesi non rimanesse altra via che
quella dell’esilio. Ma infervorati da un pastore originario del Delfinato, che sa-
rebbe divenuto una figura di spicco nella storia del valdismo, Enrico Arnaud,
scelsero ancora una volta la via della resistenza armata.
All’inizio di maggio del 1686 le truppe sabaude di Gabriele di Savoia e

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quelle francesi agli ordini del maresciallo Catinat, accerchiarono le posizioni dei
valdesi sulle alture impedendo la ritirata dei difensori. Ci fu una nuova carnefi-
cina dopo quella del 1655; i sopravvissuti che si arresero furono condotti nel
fondovalle per essere avviati alle carceri; gli ultimi resistenti, catturati, furono
precipitati nei burroni o impiccati agli alberi.
Dei 14.000 valdesi che si stima vivessero nella valle prima della guerra,
2.000 perirono, 8.500 vennero rinchiusi nelle carceri del ducato in condizioni di-
sumane e furono decimati dalla fame e dal freddo; circa 3.500 - i più fragili -
scamparono grazie all’abiura. Di 1.400 prigionieri avviati a Carmagnola ne so-
pravvissero 400; un migliaio rinchiusi a Trino si ridussero presto a soli 46. Due-
mila prigionieri furono venduti a Venezia e finirono come rematori nelle galere.
A gennaio del 1687 il Duca concesse ai prigionieri sopravvissuti la facoltà di
espatriare. In pieno inverno centinaia di donne, vecchi e bambini uscirono dalle
orribili carceri sabaude - veri “lager” antilitteram - e intrapresero una lunga mar-
cia verso la libertà. Tra la metà di gennaio e i primi di marzo partirono in 2.700;
arrivarono a Ginevra in 2.490.
La Controriforma aveva vinto ancora una volta lasciandosi dietro una scia di
sangue, di rovine e di indicibili sofferenze. La comunità valdese delle Alpi uscì
ridotta e stremata dalla terribile prova, ma non doma nella sua volontà di conti-
nuare a esistere.
Tornare alle loro valli era l’aspirazione costante degli esuli. Un aiuto inspe-
rato venne ad essi ancora una volta dall’Inghilterra. Nel 1688 il parlamento, a
maggioranza protestante, depose il cattolico Giacomo II Stuart (l’evento passò
alla storia come la “Gloriosa rivoluzione”) e offrì la corona alla figlia del deposto
sovrano, Maria, e al di lei marito, il protestante Guglielmo D’Orange, statolder
d’Olanda.
Stimolati e assistiti dagli emissari del nuovo re d’Inghilterra inviati in Sviz-
zera, gli esuli progettarono una nuova spedizione militare per riprendere la guer-
riglia alle spalle delle truppe franco-sabaude- La notte del 27 agosto 1689 un
corpo di spedizione forte di 900 uomini sbarcò sulla riva meridionale del Lago
Lemano e si avviò a marce forzate verso le Alpi piemontesi (l’evento memoriale
è ricordato dai Valdesi come il “glorioso rimpatrio”).
All’avvicinarsi della piccola armata, le popolazioni cattoliche che si erano
insediate nelle terre valdesi fuggirono al piano: tutta la Val germanasca fu libe-
rata senza combattere. Catinat reagì immediatamente, ma la sua offensiva in gran
parte fallì. Seguì una lunga pausa invernale durante la quale il corpo di spedi-
zione valdese venne del continuo assottigliandosi, sì che a primavera rimane-
vano sulle alture soltanto 300 uomini. Enrico Arnaud, che aveva avuto un ruolo
determinante nell’organizzazione del rimpatrio, assunse il comando militare e la
condotta religiosa della minuscola schiera.
Ai primi di maggio Catinat dispose in ordine di battaglia i suoi 4.000 uo-
mini. E per i 300 disperati arroccati sui monti parve che non ci fosse scampo. Un
evento naturale imprevedibile - una fitta nebbia scesa durante la notte - venne in
soccorso degli accerchiati permettendo loro di ritirarsi e attestarsi su posizioni
più sicure. Pochi giorni dopo un evento politico ancora più imprevedibile li

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NOTE STORICHE

salvò definitivamente: il duca di Savoia ruppe l’alleanza coi Francesi e strinse al-
leanza con l’Inghilterra e l’Austria.
Nel 1694 Vittorio Amedeo II, per compiacere ai nuovi alleati, dovette ema-
nare un editto di tolleranza che riconosceva ai valdesi il diritto di esistenza nelle
loro terre. Due anni dopo però il duca, verosimilmente sotto la pressione del
clero, trovò ancora il modo di colpire indirettamente i riformati dei suoi domini
senza violare l’editto di tolleranza. Rientrato, con la pace di Ryswick, in possesso
di territori già sotto la sovranità della Francia, espulse dai suddetti territori tutti i
sudditi francesi che vi si erano insediati. Di conseguenza dovettero prendere la
via dell’esilio circa 3.000 riformati di nazionalità francese (valdesi e ugon,otti che
si erano rifugiati in quelle terre dopo la revoca dell’Editto di Nantes). Lo stesso
Arnaud dovette andarsene.
Vittorio Amedeo II restrinse di nuovo la libertà di culto nei suoi domìni
dopo la pace di Utrecht del 1715 che gli aveva permesso di recuperare la Savoia.
Nel 1716 il duca proibì le assemblee non cattoliche con più di 10 partecipanti e
nel 1721 impose il battesimo cattolico di tutti i neonati.
Frattanto nella vecchia Francia borbonica e clericale, sotto l’influenza delle
idee innovatrici dell’Illuminismo, maturavano eventi che avrebbero infine spaz-
zato via l’ “Ancien Régime” e instaurato un clima liberale. Il piccolo popolo val-
dese delle Alpi salutò con entusiasmo i tempi nuovi che si annunciavano. I Val-
desi aderirono all’ideale di “libertà”, eguaglianza e fraternità della Rivoluzione e
divennero giacobini moderati.
Dopo la Rivoluzione, con l’estendersi al di qua delle Alpi dell’impero napo-
leonico, finirono le persecuzioni e le angherie della corte ducale contro i valdesi,
ma finì anche il popolo valdese come realtà giuridica e sociale. La libertà di
culto fu garantita, ma furono liquidate le strutture ecclesiastiche realizzate dai
valdesi nei secoli, furono soppressi il Sinodo e la Tavola, furono annullati i rego-
lamenti. Le chiese del Piemonte furono aggregate al Protestantesimo francese e i
loro ministri vennero stipendiati dallo Stato.
La restaurazione post-napoleonica riportò nel Piemonte i Savoia. Nel 1815 il
Congresso di Vienna restituì a Vittorio Emanuele I re di Sardegna (1802-1821)
tutti i possedimenti sabaudi con l’aggiunta della Liguria. Col ritorno dei Savoia
tornarono in vigore i divieti e le restrizioni, non però ai livelli dell’epoca pre-ri-
voluzionaria; i tempi comunque erano cambiati! Lo stato sabaudo, gretto e cat-
tolico, dovette aprirsi alla politica internazionale: gli stati europei a regime mo-
narchico che avevano contribuito a restaurarlo con l’abbattere l’impero napoleo-
nico, aprirono a Torino le loro sedi diplomatiche.
Fra questi stati figuravano l’Inghilterra, l’Olanda e la Prussia, potenze noto-
riamente protestanti . Ora i valdesi delle valli avevano degli interlocutori influenti
a cui rivolgersi in caso di necessità.
Nel 1848 - l’anno fatidico delle rivoluzioni liberali in Europa - i valdesi rivol-
sero a re Carlo Alberto una supplica con la quale domandavano che fossero
aboliti i Decreti che restringevano le loro libertà. L’8 febbraio di quell’anno il so-
vrano rese pubblica la sua intenzione di concedere alla Nazione lo Statuto, e 9
giorni dopo annunciò le “Lettere Patenti” con cui intendeva restituire ai valdesi i

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diritti civili e politici, ma non i diritti religiosi. Le “Lettere Patenti” stabilivano te-
stualmente: “Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto e alle
scuole da essi dirette” (da G.Tourn, I Valdesi, p. 203).
Nel 1852 divenne primo ministro del regno sabaudo Camillo Benso Conte
Di Cavour. Attraverso la madre ginevrina e gli ambienti protestanti inglesi e sviz-
zeri coi quali ebbe stretti contatti, lo statista piemontese subì fortemente l’in-
fluenza del protestantesimo. Liberale convinto, Cavour contribuì alla laicizza-
zione dello Stato, nonostante l’opposizione del clero e di re Vittorio Emanuele II,
applicando nel 1855 la famosa formula “Libera Chiesa in libero Stato”.
La politica liberale cavouriana giovò alla causa della libertà religiosa dei
Valdesi e in generale dei protestanti in Italia. Dopo 3 secoli di persecuzione e
150 anni di segregazione, i valdesi poterono infine vivere da liberi cittadini in
uno stato non più stretto nella morsa del clericalismo !
(Le notizie di questa sezione della nota 11a sono state attinte in massima
parte nell’opera di Giorgio Tourn, I Valdesi).

f) Wycliff e Huss. Persecuzioni dei Lollardi in Inghilterra


e degli Hussiti in Boemia
Negli anni della “cattività babilonese” (1309-1376), la corte papale di Avi-
gnone cercò di emulare le corti secolari nella ricchezza e nello sfarzo. “La vita
che i papi conducevano in Avignone - dice lo storico Carl Grimberg - suscitava
scandalo a motivo del lusso che regnava nel palazzo e delle numerose feste con
le quali cercavano di eclissare tutti gli altri potenti d’Europa” (Storia Universale,
vol. IV, p. 338).
Per mantenere un tenore di vita così dispendioso, i pontefici si videro nella
necessità di creare un esoso sistema fiscale. “La curia - osserva A.Agnoletto - di-
venta un governo non molto diverso nella sua prassi degli altri cosiddetti civili o
temporali. Le nomine ecclesiastiche, le concessioni di indulgenze, il bando di
crociate, lo scioglimento di voti: tutto è pretesto per incamerare proventi” (Storia
del Cristianesimo, p. 200).
In Inghilterra un uomo di notevole statura intellettuale e morale, John Wy-
cliff, insorse contro siffatto stato di cose e stigmatizzò il malcostume del clero,
triste corollario di un seguito di mali che segnarono la vita della Chiesa in questo
periodo del Medioevo. Scrive ancora C.Grimberg riguardo alle prese di posi-
zione di Wycliff nei confronti del clero del suo tempo: “Davanti allo spettacolo
della corruzione che regnava fra preti e monaci, egli si sentì l’animo di un Gere-
mia: confrontava la vita dissoluta dei chierici del suo tempo ai costumi di
estrema purezza dei primi cristiani; portava questi ad esempio di tutti i servi
della Chiesa, dal papa fino all’ultimo curato; scagliava fulmini contro le orde di
monaci fannulloni ‘dalle gote rosse e tonde e dallo stomaco capace di digerire il
cibo di un’intera famiglia’ ” (op. cit., pp. 341-342).
John Wycliff era un uomo di cultura. Nato intorno al 1320 in una famiglia
dello Yorkshire appartenente alla piccola nobiltà, da adulto studiò diritto, filoso-
fia e teologia nell’Università di Oxford dalla quale ottenne al termine degli studi
il dottorato in queste discipline.

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NOTE STORICHE

Nel 1367 nacque una controversia fra la curia avignonese e la corona bri-
tannica, avendo il Parlamento londinese respinto la richiesta avanzata da Urbano
V riguardo al pagamento di un tributo non riscosso da vari decenni.
Si trattava di un tributo che la Chiesa esigeva dallo Stato inglese in segno di
sudditanza feudale da quando Innocenzo III aveva tolto l’interdetto a Giovanni
Senza Terra e gli aveva restituito la corona.
Wycliff intervenne in veste di giurista nel conflitto che oppose Urbano V ed
Edoardo III, sostenendo l’indipendenza del potere civile dalla Santa Sede.
La corona lo ricompensò con la nomina a professore di filosofia e teologia
nella prestigiosa Università di Oxford; nel 1375 gli venne anche assegnata la par-
rocchia di Lutterworth. Paladino dei diritti nazionali contro le pretese del papato,
Wycliff riscosse ampi consensi fra i connazionali.
Nel 1376 il professore di Oxford, con la parola e con la penna attaccò dura-
mente la mondanità della Chiesa. Richiamandosi al principio della povertà evan-
gelica a cui la Chiesa deve ispirarsi, sostenne che i beni ecclesiastici dovevano
essere incamerati dallo Stato e che questo doveva provvedere al sostentamento
del clero. Wycliff si spinse tanto innanzi nella sua polemica antipapale da conte-
stare l’autorità spirituale del pontefice.
Gli avversari lo accusarono di eresia presso la curia e il papa si affrettò a
condannare le sue idee. Il “delitto” più grave di Wycliff era stato l’attacco mosso
al capo e ai principi della Chiesa.
Il vescovo di Londra ricevette l’ordine di fare arrestare l’eretico: Wycliff fu
tradotto davanti ai giudici londinesi, ma i nobili ve lo sottrassero a mano armata
e l’opinione pubblica si schierò dalla sua parte.
Lo scisma della Chiesa cominciato nel 1379, a tre anni dal ritorno del ponte-
fice nella sede romana, precipitò la Chiesa stessa in una crisi ancora più
profonda della precedente, con due pontefici che si davano reciprocamente
dell’Anticristo, due curie e due esponenti separati, un ulteriore abbassamento del
livello morale del clero e una cattolicità demoralizzata e disorientata. Lo storico
C.Grimberg cita alcuni fatti che danno la misura del degrado morale del clero
inglese in quegli anni infausti: “... fra il 1378 e il 1408 tre preti londinesi si erano
resi colpevoli di assassinio, altri si davano al brigantaggio e ad altre violenze.
Che i servi della Chiesa vivessero in concubinaggio invece che attenersi alle re-
gole di astinenza sembrava a tutti tanto normale da non trovarsi nulla da ridire:
certi vescovi, anzi, incoraggiavano tali pratiche in quanto vi trovavano ottima
fonte di reddito a causa delle dispense che vendevano ai chierici” (op. cit., p.
343). Non meraviglia che Wycliff nei suoi scritti attaccasse con veemenza il celi-
bato ecclesiastico.
Il riformatore inglese rifiutò le dottrine della Chiesa che non avevano fonda-
mento nella Scrittura, come le messe per i defunti, la teoria delle indulgenze, la
venerazione dei santi e delle reliquie, la confessione auricolare. Sul dogma della
transustanziazione espresse seri dubbi.
In vari scritti sostenne la necessità di una riforma della Chiesa per attuare la
quale l’unica guida doveva essere la Scrittura. Coerente con tale sua convin-
zione, nel 1380 intraprese quella che doveva essere l’opera più importante della

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sua vita, la traduzione della Bibbia nella lingua del popolo dal testo latino della
Vulgata.
L’avere istruito e inviato in missione per tutto il Paese un numero cospicuo
di predicatori col compito di far conoscere agli inglesi le verità rivelate nella
Scrittura fu un altro grande merito di Wycliff. Gli avversari chiamarono sprezzan-
temente “lollards”, “seminatori di zizzanie” (latino “lolium”) questi predicatori iti-
neranti che il popolo accolse comunque con favore.
La rivolta dei contadini nel 1381, della quale ingiustamente gli avversari ad-
dossarono la responsabilità a Wycliff, alienò al riformatore le simpatie di una
parte della nobiltà e rafforzò la posizione dei suoi oppositori.
Nel 1382 l’arcivescovo di Canterbury, l’avversario più accanito di Wycliff,
convocò a Londra un sinodo che condannò come ereticali molte dichiarazioni
del riformatore; gli amici che avevano condiviso e sostenuto le sue idee furono
espulsi dall’Università e mandati in esilio.
Wycliff comunque godette ancora del favore popolare e della protezione di
uomini influenti e poté vivere e lavorare tranquillo fino al giorno della sua
morte, sopravvenuta nel 1384.
Per una di quelle svolte imprevedibili della storia che mutano il corso degli
eventi, con l’ascesa al trono d’Inghilterra di Enrico IV Lancaster alla morte di Ric-
cardo II Plantageneta nel 1399, la sorte dei seguaci di Wycliff cominciò a mutare.
Forse più per ragioni politiche che religiose, il nuovo sovrano d’Inghilterra attuò
una politica intollerante e persecutoria verso i lollardi. Il figlio e successore di
Enrico IV, Enrico V, con l’appoggio della Chiesa, appesantì ancora di più la
mano contro di loro. Numerosi seguaci di Wycliff furono imprigionati, torturati,
arsi sul rogo. L’Inghilterra conobbe anch’essa gli orrori dell’Inquisizione che fi-
nora le erano stati risparmiati.
Gli scritti di Wycliff giunsero in Boemia grazie agli stretti contatti che si sta-
bilirono fra le università di Oxford e di Praga nei primi anni del ‘400. A Praga le
tesi wycliffite suscitarono discussioni appassionate e raccolsero molti consensi
tra i docenti e gli studenti. Si formò un partito di Wycliff a capo del quale venne
a trovarsi Giovanni Huss, professore nell’Università di Praga e predicatore elo-
quente.
Giovanni Huss era nato nel 1369 a Hussinetz, nella Boemia meridionale, da
umile famiglia contadina. Nel 1390 era entrato nell’Università di Praga e sei anni
dopo ne era uscito con un dottorato. Nel 1401 era stato nominato preside della
facoltà di filosofia e nel 1409 rettore dell’Università. Attratto anche dalla vita ec-
clesiastica, nel 1400 era stato ordinato sacerdote e 3 anni dopo l’arcivescovo di
Praga Sbynko lo aveva nominato predicatore del sinodo.
Conquistato dalle dottrine di Wycliff, di cui tradusse in lingua boema il
Trialogus, Giovanni Huss se ne fece entusiasta propagatore favorito dal suo uffi-
cio di predicatore sinodale. Non era dotato di un ingegno personale (le sue pre-
diche e i suoi scritti erano per la massima parte un riflesso degli scritti di Wy-
cliff), ma la sua dialettica appassionata affascinava gli uditori. “Wycliff - scrive
C.Grimberg - era un pensatore dalla schematicità di un sapiente; Huss, col suo
entusiasmo passionale, divenne un profeta” (op. cit., vol. IV, p. 346).

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NOTE STORICHE

Le prediche di Huss suscitarono interesse e consensi crescenti fra il popolo


e contribuirono a far sorgere in Boemia un movimento che assunse ben presto il
carattere di una protesta nazionale contro la predominante influenza politica e
culturale tedesca e contro l’invadenza del clero. Era inevitabile che l’ardente pre-
dicatore attirasse contro di sé l’ostilità degli ambienti ecclesiastici, specie dopo
che ebbe denunciato con veemenza il lassismo scandaloso dei prelati.
Nel 1410 l’arcivescovo Sbynko ottenne dal papa l’autorizzazione a proibire
la diffusione delle dottrine di Wycliff e la lettura delle sue opere. Tutti gli scritti
del riformatore inglese che si riuscì a raccogliere furono bruciati in un solenne
autodafé. Per nulla intimorito da quelle misure repressive, e sorretto dalla fedeltà
indefettibile dei suoi amici, Huss continuò a esporre e sostenere nelle sue predi-
che le idee innovative che erano giunte dall’Inghilterra.
Neanche la scomunica vescovile che si abbatté su lui e sui suoi sostenitori
valse a far desistere l’intrepido predicatore dal denunciare gli abusi di una
Chiesa corrotta; quando venne in Boemia un legato di papa Giovanni XIII per
offrire ai fedeli le indulgenze dietro compenso di denaro sonante (il denaro ser-
viva al pontefice per intraprendere la guerra contro Ladislao re di Napoli parti-
giano del suo avversario Gregorio XII), Huss stigmatizzò duramente quel modo
indegno di estorcere denaro alla povera gente. Tutta Praga si ribellò con lui e la
pace della Chiesa fu turbata.
Gli avversari dell’eretico ottennero da papa Giovanni XIII una nuova bolla
di scomunica con la quale si proibiva ai buoni cattolici di dare cibo e bevanda al
“ribelle” e persino di rivolgergli la parola. Con una bolla successiva il papa ordi-
nava ai fedeli di impadronirsi della persona di Giovanni Huss e consegnarla al
vescovo perché egli fosse giudicato e arso vivo sul rogo. E poiché le ingiunzioni
delle due bolle non ebbero alcun effetto, il pontefice colpì di interdetto tutta la
città. Huss, per liberare i concittadini dalla tremenda situazione, si allontanò vo-
lontariamente da Praga, non senza domandare al re che si convocasse un conci-
lio. Nell’attesa proseguì nelle campagne la sua coraggiosa denuncia dei mali che
avvelenavano la vita della Chiesa in Boemia, mali tutt’altro che immaginari.
“Nel compulsare i processi verbali d’ispezione e altri documenti - scrive
C.Grimberg - si ha realmente l’impressione che la decadenza morale dei preti
boemi non avesse limiti. Alcuni storici ecclesiastici dell’epoca poterono assodare
che una vita scandalosa era pressappoco di regola fra loro” (op. cit., pp. 348-
349).
Con l’intento di risanare la crisi profonda in cui si dibatteva una chiesa di-
visa tra i partigiani di due papi deposti e ribelli e i sostenitori del papa ricono-
sciuto come legittimo (Giovanni XIII), re Sigismondo d’Ungheria (in seguito an-
che re di Boemia e imperatore di Germania) sollecitò e ottenne dal pontefice la
convocazione di un concilio che si aprì solennemente nella città di Costanza
nell’autunno del 1414.
Oltre che tentare di sciogliere il nodo della divisione della Chiesa, il conci-
lio doveva anche affrontare la questione dell’eresia ussita.
Fu intimato a Giovanni Huss di comparire davanti al concilio, ed egli fu
lieto di recarsi a Costanza, credendo ingenuamente di poter convincere i padri

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CAPIRE DANIELE

conciliari di non essere un eretico; così, sordo agli appelli degli amici che cerca-
rono in ogni maniera di dissuaderlo, egli partì per Costanza con un salvacon-
dotto del re Sigismondo. Ma appena giunto in città fu arrestato dalle guardie del
re e rinchiuso in prigione: Sigismondo aveva dovuto cedere al ricatto dei prelati
che avevano minacciato di sciogliere il concilio.
Condotto davanti al collegio dei cardinali con l’imputazione di avere soste-
nuto e propagato non meno di 43 “eresie”, il prigioniero, nonostante che avesse
umilmente manifestato la sua disponibilità a ritrattare qualora lo si fosse convinto
di eresia, fu gettato in una piccola cella buia malsana di un monastero sul lago
di Costanza. Dopo più di 6 mesi di durissima prigionia e di sfibranti interrogatori
che avevano irrimediabilmente minato la sua salute, Giovanni Huss il 6 luglio
1415 venne condannato alla pena del rogo. Udita la sentenza (si dice che il re
fosse arrossito mentre la leggeva), l’eretico si genuflesse e invocò dal Signore il
perdono per i suoi persecutori. Quello stesso giorno Huss sopportò con grande
dignità il supplizio atroce che gli venne inflitto. La notizia del suo martirio su-
scitò grande dolore e indignazione in tutta la Boemia.
L’anno seguente fu tradotto davanti agli inquisitori il discepolo di Huss, Gi-
rolamo da Praga. Avendo mantenuto con fermezza le sue convinzioni, come il
suo maestro fu condannato per eresia e arso vivo sul rogo il 30 maggio 1416.
“Se i prelati del concilio avevano sperato che bastasse far salire sul rogo Huss e
Gerolamo per estirpare definitivamente l’eresia dalla Boemia - osserva C.Grim-
berg - si erano grandemente sbagliati; infatti il movimento ussita divenne vera-
mente pericoloso proprio quando ebbe i suoi martiri” (op. cit.. p. 357).
Gli ussiti e tutto il popolo boemo insorsero unanimi contro il re Sigismondo
a cui non perdonarono di avere tratto in inganno Giovanni Huss con un falso
salvacondotto. I contadini cechi trovarono un capo abile e valoroso in Giovanni
Zizka. Quando la cavalleria tedesca per sollecitazione del papa intraprese una
crociata per soffocare l’eresia in Boemia, dovette fare i conti coi patrioti di Zizka.
Fortemente motivati essi affrontarono gli aggressori con grande determinazione e
li sconfissero. In una successiva battaglia che ebbe luogo nel 1421 gli insorti
boemi abilmente guidati dal loro condottiero, sebbene tre volte inferiori di nu-
mero rispetto ai nemici, conseguirono una vittoria ancora più eclatante sulle
truppe di Sigismondo; il re stesso si salvò con la fuga.
Purtroppo gli ussiti finirono per dividersi in due partiti in lotta fra loro: i
moderati calistini che sostenevano l’opinione di Huss secondo cui tutto ciò che
nel culto non era in aperto contrasto con la legge di Dio poteva essere mante-
nuto, e gli intransigenti taboriti, partigiani di una riforma radicale. Nelle lotte che
seguirono alla spaccatura del movimento i taboriti ebbero la peggio e molti di
loro perirono. I superstiti s’unirono ai valdesi boemi e insieme con loro forma-
rono la comunità dei Fratelli boemi e moravi. I calistini, ai quali nel 1433 il con-
cilio di Basilea aveva concesso il calice per i laici, si organizzarono come chiesa
autonoma separata da Roma.
La memoria di Giovanni Huss è ancora viva tra i Cechi, i quali considerano
il riformatore-martire “il maggiore dei loro eroi nazionali, il loro primo campione
della libertà religiosa e politica”.

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NOTE STORICHE

g) La Controriforma e il ripristino dell’Inquisizione


Nella prima metà del ‘200 la Chiesa romana aveva istituito l’Inquisizione per
prevenire la rinascita del catarismo, pressoché distrutto con la crociata di Inno-
cenzo III (vedi sez. c di questa nota), e reprimere il valdismo che andava propa-
gandosi nell’Italia del nord e nell’Europa centrale (vedi sez. e). Nei secoli XIII e
XIV l’Inquisizione aveva agito in Germania, Francia e Italia, non sempre con
eguale rigore ed efficacia, al punto da non riuscire a spegnere del tutto la dissi-
denza dottrinale. Nella Spagna invece l’aveva annientata sul nascere (vedi sez. d).
Dal XV secolo la lotta contro la “valdesia” nella regione alpina era stata
condotta dai duchi di Savoia (vedi sez. e), cosicché l’Inquisizione non era stata
particolarmente impegnata in Italia. Nella Spagna al contrario era stata molto at-
tiva da quando nel 1480 era divenuta un’impresa di Stato, e aveva agito con
estrema durezza principalmente contro gli ebrei e i musulmani (vedi sez. d).
Nel ‘500 la Chiesa romana si trovò a dover fronteggiare una situazione ben
più seria di quella rappresentata dall’eresia valdese, vale a dire la propagazione
in Europa della Riforma protestante. Per combatterla i papi intrapresero
un’azione risoluta e vigorosa che gli storici tedeschi hanno denominato la Con-
troriforma. Il Concilio di Trento (1545-1563) ne fu l’espressione più significativa.
Prima di considerare la reazione cattolica alla Riforma luterana e gli effetti
che essa ebbe sul nascente protestantesimo italiano, gioverà accennare a un av-
venimento che precedette di mezzo secolo la Controriforma, e che mostra da un
lato quanto fosse sentita anche in Italia la necessità di un rinnovamento interno
della Chiesa e dall’altro quanto la Chiesa stessa fosse poco incline a rinnovarsi.
La vicenda alla quale ci riferiamo si svolse nella Firenze dei Medici e della
Repubblica post-medicea nell’ultimo scorcio del ‘400 ed ebbe a protagonista il
domenicano Girolamo Savonarola.
Nato a Ferrara nel 1452, Savonarola era entrato nel convento di S.Domenico
a Bologna nel 1475 e sette anni dopo era stato inviato come predicatore a Fi-
renze, nel convento di S.Marco. Avverso a quel rinascimento paganeggiante che
in Firenze aveva avuto la sua culla, e disgustato dalla corruzione imperante nella
società laica e nel clero, Savonarola vagheggiò il sogno di una città purgata da
ogni forma di lassismo e tramutata in una sorta di stato teocratico, una novella
Gerusalemme che stimolasse e guidasse il rinnovamento del mondo cristiano a
cominciare da Roma papale.
Mosso da un’ardente passione mistica, il frate-profeta perseguì con coraggio
e tenacia il suo grande sogno. La sua figura di asceta e le sue prediche infiam-
mate pervase di spirito biblico fecero grande impressione sui fiorentini. “Alla de-
cadenza del clero e del papato, alla frivolezza della civiltà rinascimentale - scrive
Attilio Agnoletto - fra’ Girolamo oppose la sua fede cementata dalla meditazione
dell’Antico e del Nuovo Testamento, la sua irreprensibile purezza, il suo spirito
d’ascetismo di sapore medievale” (Storia del Cristianesimo, p. 252).
Con la venuta in Italia del re di Francia Carlo VIII e dopo la morte di Lo-
renzo Dei Medici avvenuta 2 anni prima, il frate innovatore accentuò la sua pre-
dicazione profetica e parve che il suo sogno di una Firenze rinnovata moral-
mente e politicamente si avverasse. Cacciati che furono i Medici e instauratasi la

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CAPIRE DANIELE

Repubblica fiorentina nel 1494, Savonarola ne divenne il capo effettivo. Il po-


polo fiorentino appoggiò la sua legislazione democratica che contemplava fra al-
tre innovazioni la riforma delle imposte e l’abolizione dell’usura.
Il frate insorse con veemenza contro la vita scandalosa che si conduceva
nella corte papale a Roma e in modo particolare contro la condotta immorale di
papa Borgia. Alessandro VI gli proibì di predicare, ma il frate non si sottomise.
Scomunicato, rispose con parole assai dure al severo provvedimento del papa.
“Come era da prevedere - dice lo storico del cristianesimo Enrico Meynier - in
questa lotta tra Alessandro VI e l’ardente domenicano, questi doveva avere la
peggio. Firenze lasciò che il Savonarola, che già era stato suo idolo, venisse giu-
dicato e condannato a morte...” (Storia dei papi, p. 219).
Accusato di essere un falso profeta e un eretico, Savonarola venne arrestato
dopo che il popolino ebbe assalito il suo convento. Il partito reazionario in Fi-
renze e la curia romana non gli perdonarono di avere voluto e promosso il rin-
novamento della vita pubblica ed ecclesiastica nella città medicea. Tradotto da-
vanti a una commissione pontificia per essere giudicato, il frate “ribelle” fu con-
dannato a morte e consegnato al braccio secolare per essere giustiziato. Al ve-
scovo che gli disse: “Io ti separo dalla Chiesa militante e trionfante”, rispose:
“Trionfante no!” Il 23 maggio 1498 fra’ Girolamo e i suoi fedeli discepoli fra’ Do-
menico e fra’ Silverio furono impiccati in Piazza della Signoria; poi i loro corpi
furono arsi e le ceneri furono sparse nell’Arno.
Il rinnovamento morale che produsse l’opera di Girolamo Savonarola fu un
fatto notevole ma episodico ed effimero, e circoscritto alla sola città di Firenze.
La grande illusione del frate-profeta era stata quella di poter riformare la vita
della Chiesa rimanendo nella Chiesa.
Mezzo secolo dopo, la Controriforma agì all’interno della Chiesa romana
come un movimento di rinnovamento e di conservazione nel medesimo tempo,
e verso l’esterno assunse il carattere di una poderosa controffensiva all’indirizzo
del protestantesimo. Per condurre questa azione i papi della Controriforma, da
Paolo III e Giulio III a Paolo IV e Pio IV..., si valsero molto dell’opera degli or-
dini religiosi, massimamente della Compagnia di Gesù che lo spagnolo Ignazio
Di Loyola aveva fondato con l’approvazione di papa Paolo III 5 anni prima
dell’apertura del Concilio tridentino. La Compagnia di Gesù, “dono della Spagna
alla chiesa” (K.Heussi), divenne di fatto la colonna portante della Controriforma.
Nel quadro della lotta al protestantesimo Paolo III nel 1542 - dunque prima
ancora dell’apertura del concilio - aveva ripristinato l’Inquisizione su sollecita-
zione del cardinale Gian Pietro Carafa (il futuro Paolo IV). Era nata così l’Inquisi-
zione romana, della quale i Gesuiti divennero funzionari zelanti e instancabili.
Improntata al modello spagnolo (vedi sez. d di questa nota) l’Inquisizione
romana agì in Italia con estremo rigore al punto da cancellare il protestantesimo
che, cominciava a mettere radici.
Nella prima metà del ‘500 i principi della Riforma si erano propagati in varie
parti d’Italia: al nord a Ferrara, a Modena e specialmente a Venezia; al centro a
Lucca; al sud a Napoli. Fra i primi autorevoli aderenti alla Riforma in Italia sono
da annoverare al nord il senese Bernardino Ochino, capo dell’ordine dei Cap-

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NOTE STORICHE

puccini, e al sud lo spagnolo Giovanni Valdès. La persecuzione antiprotestante


inaugurata da Paolo III s’inasprì ulteriormente sotto il pontificato di Giulio III
(1550-1555). In questo periodo fra altri riformati italiani perirono sul rogo il Fan-
nio a Ferrara e Giovanni Buzio a Roma. Il marchese di Vico Galeazzo Carac-
ciolo, pronipote del cardinale Carafa, si salvò con la fuga a Ginevra. Molti rifor-
mati italiani in quegli anni dovettero riparare all’estero.
La repressione del movimento protestante in Italia si intensificò sotto il pon-
tificato di Paolo IV (1555-1559), che i suoi biografi descrivono come uomo “in-
transigente, ostinato, collerico e crudele”. Nel 1558 subirono il supplizio del
fuoco a Roma Baldo Lupetino e a Venezia Pomponio Algeri. A Roma le carceri
dell’Inquisizione si riempirono di sventurati sospetti di “eresia”. Paolo IV infierì
anche sugli Ebrei.
Pio IV (1559-1565) proseguì l’azione repressiva antiprotestante con eguale
rigore. Sotto il suo pontificato perirono sul rogo fra altri martiri del Vangelo il
cappuccino Bartolomeo Fozio e il pastore valdese Luigi Paschale (1560), e si
consumò lo sterminio spietato delle colonie valdesi in Calabria (vedi sez. e).
Pio V (1566-1572), promotore instancabile della lotta contro il protestante-
simo, nel 1569 promulgò un editto che introduceva la pratica della tortura verso
i “rei” convinti di eresia per costringerli a ulteriori confessioni.
Martiri illustri del protestantesimo italiano sotto il pontificato di Pio V fu-
rono il gentiluomo fiorentino Pietro Carnesecchi, decapitato e arso a Roma nel
1567, e il letterato e umanista Aonio Paleario bruciato vivo a Roma nel 1570. Nel
1568 si era registrato il maggior numero di processi contro i protestanti nel Ve-
neto. Al cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, il papa affidò l’inca-
rico di reprimere il protestantesimo nella città di Mantova. Il Borromeo si era già
distinto come persecutore dei protestanti (nel 1556 aveva distrutto la fiorente
chiesa evangelica di Locarno).
Pio V premette ripetutamente su Emanuele Filiberto duca di Savoia affinché
reprimesse l’eresia nei suoi stati. E intervenne energicamente nei Paesi Bassi e in
Francia per la stessa ragione.
Gregorio XIII (1572-1585) stimolò l’Inquisizione e vigilò affinché da Padova
e Venezia non si propagassero per l’Italia le dottrine riformate. Sotto il suo ponti-
ficato si moltiplicarono i processi e le condanne per eresia. Come il suo prede-
cessore, Gregorio XIII s’intromise nelle questioni interne della Francia per com-
battere gli Ugonotti.
Sisto V (1585-1589) combatté il protestantesimo francese con la stessa tena-
cia del suo predecessore, ingerendosi pesantemente nelle questioni interne di
quella nazione. Sisto V si intromise pure nella politica interna del regno d’Inghil-
terra appoggiando Maria Stuart, sostenitrice del partito cattolico, e osteggiando
Elisabetta, protettrice dei protestanti. Comunque in Italia i processi e le con-
danne del tribunale dell’Inquisizione per eresia diminuirono.,
Urbano VII, Gregorio XIV e Innocenzo IX pontificarono per troppo breve
tempo (rispettivamente 13 giorni, 10 mesi e 2 mesi) per potere agire in modo si-
gnificativo contro la Riforma protestante in Italia. Clemente VIII (1592-1605), suc-
cessore di Innocenzo IX, ebbe tutto il tempo di dedicarvisi e vi si dedicò con in-

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stancabile impegno. Tre anni dopo la sua elezione ebbe luogo in Italia la prima
esecuzione di “eretici” del suo pontificato; altre seguirono negli anni successivi.
Fra le vittime illustri dell’Inquisizione sotto Clemente VIII ci fu il filosofo Gior-
dano Bruno che fu arso vivo a Roma nel 1600. Sedici anni dopo, regnando
paolo V (1605-1621), fu convocato a Roma presso il Sant’Uffizio Galileo Galilei
per assistere alla condanna e ricevere una solenne ammonizione. Nel 1633, sotto
Urbano VIII (1623-1644), l’insigne scienziato, oramai settantenne, fu tradotto da-
vanti al tribunale dell’Inquisizione e sotto minaccia di tortura fu costretto a ritrat-
tare le tesi scientifiche che aveva sostenuto nell’ultima sua opera; dovette co-
munque scontare la condanna all’esilio. La Chiesa della Controriforma reputò le-
gittimo combattere col massimo rigore non solo le dottrine religiose, ma anche
le tesi filosofiche e scientifiche che giudicava contrarie alla sua dottrina.
Urbano VIII procedette severamente contro l’eresia luterana in Italia, non
ancora del tutto sradicata per l’atteggiamento benevolo verso di essa tenuto dalle
autorità civili in varie città della penisola. Il pontefice ebbe forti attriti con Lucca,
tollerante verso i protestanti tedeschi che vi risiedevano (nel 1640 scagliò l’inter-
detto sulla coraggiosa città toscana), e più ancora con Venezia, “colpevole” di
avere stretto alleanza coi riformati di Germania, di tollerare il culto luterano e di
porre ostacoli all’attività dell’Inquisizione.
Durante il ‘700 i processi e le condanne per “eresia” in Italia furono assai
meno numerosi che nei due secoli precedenti, sia perché la Controriforma prati-
camente aveva vinto la sua battaglia contro il protestantesimo, sia perché il
diffondersi fra gli uomini di cultura delle idee innovative dell’Illuminismo fecero
apparire intollerabili le misure repressive adottate dall’Inquisizione per soppri-
mere la dissidenza dottrinale. Ma fu solo alla fine del ‘700, quando la tempesta
della Rivoluzione Francese si estese all’Italia con l’irruzione delle truppe napo-
leoniche e il potere del papato crollò di schianto (vedi nota 9 sez. l), che l’Inqui-
sizione romana fu abolita, dopo avere prodotto durante più di due secoli innu-
merevoli martiri illustri e sconosciuti.

h) La persecuzione degli Ugonotti in Francia


Il calvinismo, da Ginevra che ne era stata la culla, si diffuse rapidamente
nella Francia, terra d’origine del suo fondatore. I calvinisti francesi - o ugonotti,
come furono chiamati con un nome di incerta origine - pur rappresentando una
minoranza, ebbero un certo peso nella vita socio-politica ed economica della na-
zione. Particolarmente numerosi in alcune regioni del regno, come la Norman-
dia, la Piccardia, il Poitou, il Delfinato e la Linguadoca, grazie allo spirito di intra-
prendenza che traevano dall’etica calvinista tesa a spingere l’uomo a impegnare
tutte le sue forze nella vita civile oltre che nell’organizzazione religiosa, gli ugo-
notti si affermarono fra la borghesia mercantile delle città marittime e commer-
ciali della corte atlantica; ma si diffusero anche tra i ceti contadini delle zone in-
terne e tra le prestigiose famiglie della nobiltà di Francia.
Organizzatisi in comunità indipendenti, che nel 1559 si riunirono in un si-
nodo nazionale con un apparato amministrativo autonomo, i calvinisti francesi
presto vennero in conflitto col potere monarchico. Già prima del 1559 avevano

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NOTE STORICHE

subito la persecuzione ad opera del re Francesco I e dopo la morte di questi, del


figlio e successore di lui Enrico II, marito di Caterina dei Medici.
Nel 1561 si costituirono i partiti nobiliari cattolici in funzione antiugonotta
sotto la guida dei duchi di Guisa. Il borbone Enrico di Navarra, il principe Luigi
di Condé e l’ammiraglio Gaspard De Coligny, tutti di professione calvinista, or-
ganizzarono a loro volta gli Ugonotti in partito politico e ne divennero i capi. Il
Condé e il Coligny (fino al 1572) assunsero la guida militare degli Ugonotti du-
rante le guerre di religione che li opposero alla corona e al partito cattolico
(1562-1598).
Caterina dei Medici, vedova del re Enrico II di Valois - morto nel 1559 - e
reggente del trono per il figlio minore Carlo IX divenuto re di Francia appena
decenne, perseguì una politica di conciliazione con gli Ugonotti, conscia del
fatto che il prevalere dell’uno dei partiti sull’altro avrebbe comunque recato pre-
giudizio alla monarchia. Nel 1562, con l’editto di St.Germain, concesse ai prote-
stanti di tenere assemblee fuori delle mura cittadine e celebrare servizi religiosi
nelle case private. Il principe di Condé, insoddisfatto per le mezze concessioni
della regina, chiamò a raccolta gli ugonotti; il parlamento di Parigi mise fuori
legge i protestanti. Fu l’occasione che scatenò in Francia la prima guerra di reli-
gione tra cattolici e protestanti. Altre sette ne sarebbero seguite nel corso degli
anni fino alla proclamazione dell’Editto di Nantes nel 1598. Caterina dei Medici
nel 1563, con la pace di Amboise, concesse libertà di coscienza a tutti i prote-
stanti, ma libertà di culto solo ai nobili.
Nel 1567 i capi degli ugonotti riaprirono le ostilità contro il papato cattolico
e ci fu la seconda guerra di religione, conclusa l’anno seguente con la pace di
Longjumeau. Fu confermato l’Editto di Amboise e i Guisa promossero la costitu-
zione di una Lega cattolica (la “Lega santa”) per combattere gli Ugonotti, ciò che
fece scatenare la terza guerra di religione in Francia.
Nel 1570, Caterina dei Medici, col secondo Editto di St.Germain, concesse ai
protestanti quattro piazzeforti indipendenti dal controllo della corona.
Temendo però l’eccessivo potere dell’ammiraglio di Coligny, si riavvicinò ai
capi intransigenti della potente fazione cattolica. Su istigazione dei duchi di An-
giò e di Guisa la regina si persuase, e persuase il giovane re Carlo IX, della ne-
cessità di prevenire un presunto complotto protestante contro la monarchia me-
diante la soppressione violenta dei loro capi. Fu così organizzato in tutta segre-
tezza quell’eccidio che passò alla storia come la strage di S.Bartolomeo. Accon-
sentendo al massacro degli Ugonotti il giovane re avrebbe detto: “Uccideteli, ma
uccideteli tutti, che non ne resti nemmeno uno per rimproverarmelo”.
Così, alle prime luci del 24 agosto 1572, giorno di S.Bartolomeo, un gruppo
di soldati del re aggredirono e trafissero l’ammiraglio Gaspard de Coligny nel
suo appartamento e lo precipitarono agonizzante da una finestra.
“Chiamati a raccolta dalla campana a martello della parrocchia di Saint-Ger-
main-Auxerrois, i sicari della regina e la plebaglia di Parigi si lanciarono in una
furiosa caccia all’uomo. I protestanti vennero presi a fucilate o sgozzati nei loro
letti, o braccati nel Louvre e perfino nelle camere di Margherita di Navarra. Per
tre giorni i soldati del re trafissero, annegarono, impiccarono, trascinarono cada-

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veri per le strade. Identici massacri si verificarono a Orléans, a Lione, Rouen, a


Bordeaux, a Tolosa” (Autori vari, Storia Universale Rizzoli-Larousse, volume II, p.
400). Quando la mattanza finì, rimasero stese al suolo, appesi alle forche o gal-
leggianti sulle acque della Senna i cadaveri di almeno 20.000 ugonotti, di cui
3.000 soltanto a Parigi.
Secondo certi storici, alla determinazione della corona francese di perpe-
trare quell’orribile bagno di sangue non furono estranee le pressioni della curia
romana, per la quale la forte presenza protestante nella Francia -“la figlia primo-
genita della Chiesa” - rappresentava un motivo di grande preoccupazione.
Scrive lo storico del cristianesimo Enrico Meynier: “Pio V intervenne pure
energicamente nei paesi stranieri per incoraggiare i regnanti a combattere e a re-
primere, con qualsiasi mezzo, il movimento riformatore, come nei Paesi Bassi, e
specialmente in Francia contro gli Ugonotti. Così diede ordine al comandante
delle truppe papali mandate in Francia di sostenere quel governo contro gli ugo-
notti, di non fare prigionieri, ma di uccidere sul posto tutti quelli che cadrebbero
nelle loro mani...1
“Riguardo alle cose di Francia - prosegue il Meynier - si hanno lettere di Pio
V (pubblicate in Anversa nel 1640) a Caterina dei Medici e a Carlo IX per inci-
tarli allo sterminio dei protestanti. Vi si leggono frasi come queste: ‘Ad interne-
cionenem usque: Nullo modo de causis hostibus Dei parcendum: Delendi
omnibus haereticis’. Ora molti storici, fra i quali il Ranke, il Michelet, lord Ac-
ton, Giovanni Huber e altri, pongono la strage di S.Bartolomeo in relazione con
tutta l’azione spiegata da Pio V nelle cose di Francia, e vi vedono una tal quale
preparazione, in quanto servì a far maturare il pensiero di sbarazzarsi una buona
volta degli Ugonotti e per sempre. È da notarsi ancora che, secondo i primi sto-
rici cattolici Papirio, Masson, Capilupì, la premeditazione (della strage completa
degli Ugonotti quale si ebbe nella notte di S.Bartolomeo) fu lunga, costante,
profondamente celata. Lo stesso Cesare Cantù, uno storico non sospetto, scrive:
‘La corte di Roma s’impadronì della corte di Francia, e Pio V scriveva a tutti i
principi d’Europa per impegnarli a sostenere Carlo IX. Paragonate le parole del
capo della religione cattolica, con quelle del duca d’Alba, di Filippo II e di Cate-
rina dei Medici, e riconoscerete che la strage di S.Bartolomeo non fu se non l’ul-
timo scoppio di una catastrofe da lungo tempo preparata dalla necessità stessa
delle cose e dalla posizione delle parti avverse’ ”. 2
Il successore di Pio V, Gregorio XIII, eletto alla carica pontificia il 13 mag-
gio 1572, proseguì con altrettanta energia l’azione volta a convincere la corte di
Francia a cancellare il protestantesimo nel regno. “Come già Paolo V - scrive an-
cora il Meynier - il papa spiegò una grande attività nelle cose interne della Fran-
cia per combattere gli Ugonotti. Possiamo però anche essere d’accordo col Pa-
stor - ammette lo storico - che s’affanna a dimostrare che Gregorio XIII non
prese parte né alla preparazione né all’esecuzione della notte di S.Bartolomeo.

1 Su questo assunto il Meynier fa riferimento allo storico del papato L.Ranke.


2 E. Meynier, Storia dei Papi, pp. 263-264 (la citazione di Cesare Cantù è tolta da Storia Uni-
versale, libro XV, p. 834).

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NOTE STORICHE

Ma ciò non toglie che il papa ha festeggiato l’atto orrendo che fu, dice il Ricotti,
‘il maggiore assassinio che mai si compiesse nel nome della religione’. Difatti
Gregorio si recò in processione, accompagnato da 33 cardinali, alla chiesa di
S.Luigi. L’iscrizione nel Tempio, fatta dal cardinale di Lorena, benediceva Dio
perché ‘Carlo, re cristianissimo dei Francesi, animato da un santo zelo, aveva
fatto sparire d’un sol colpo tutti gli eretici del regno’. Il Castel Sant’Angelo fu illu-
minato per la circostanza e il papa fece pur coniare una medaglia col motto :
Ugonottorum Strages, 1572. Una bolla dell’11 settembre 1572 prescriveva un
grande giubileo nel quale i fedeli dovevano ringraziare Iddio per la distruzione
degli Ugonotti, e fu dato incarico al Vasari di eternare con un affresco nella Sala
Regia, l’avvenimento”. 3
E’ possibile, anzi molto probabile, che il papa fosse all’oscuro del com-
plotto contro gli Ugonotti in Francia; ma, come osserva giustamente il Meynier, è
difficile credere che potessero esserlo gli altri dignitari della Chiesa. Non lo fu di
certo il cardinale nunzio Salviati, “il quale - dice il nostro storico - sarebbe stato
avvertito dalla stessa Caterina dei Medici del suo progetto, ma sotto condizione
di tenere celata la cosa anche col papa”.
Il nunzio papale Salviati tenne fede alla promessa, “limitandosi a comuni-
care l’11 agosto (dunque c’era già il disegno di trucidare in massa gli Ugonotti)
che egli sperava ‘fra pochi giorni potere annunziare cosa che a Sua Santità re-
cherebbe sicura gioia e tranquillità’ ” (quest’ultima frase virgolettata è dello sto-
rico cattolico L.Pastor).
“E appena giunse a Roma la notizia della strage - riferisce ancora il Meynier
- il cardinale di Lorena, recatosi con altri colleghi presso il papa, gli domandò:
‘Quale novità desidererebbe Vostra Santità più che ogni altra?’ Gregorio rispose:
‘Per l’esaltazione della fede cattolica noi non desidereremmo altro che lo stermi-
nio degli Ugonotti’. ‘Questo sterminio, soggiunse il cardinale, possiamo comuni-
care a Vostra Santità a gloria di Dio e per la grandezza della Santa Chiesa’ ”. 4
Il massacro della notte di S.Bartolomeo però non cancellò il calvinismo
nella Francia, come si erano prefissi il partito dei Guisa e la corona e come ave-
vano sperato Pio V e Gregorio XIII. Anzi gli ugonotti scampati alla strage, sotto
la guida dei loro capi - nel massacro era perito soltanto il Coligny - si riorganiz-
zarono ancor più saldamente e ripresero la lotta per affermare il loro diritto
all’esistenza.
Intanto, morto il re Carlo IX solo due ani dopo l’eccidio di S.Bartolomeo,
salì al trono di Francia il fratello di lui Enrico III di Valois. L’ostilità tra le fazioni
estremiste dei cattolici e degli ugonotti, capitanati rispettivamente da Enrico di
Guisa ed Enrico di Borbone signore di Navarra, minacciava di riacutizzarsi. Nel
1584 morì il duca di Angiò, fratello del re Enrico III, e poiché quest’ultimo non
aveva eredi diretti, la successione al trono si apriva automaticamente al capo
della fazione ugonotta Enrico di Navarra.

3 Ibidem, pp. 264-265.


4 E.Meynier, op. cit., p. 265 (il dialogo tra il cardinale e il papa è tolto dal volume IX dell’opera
del Pastor Storia dei Papi, p. 359).

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Di fronte a siffatta situazione, il duca di Guisa reagì e la popolazione pari-


gina si sollevò costringendo il re a sottomettersi alla lega cattolica e ad accettare
umilianti limitazioni della sua autorità. Enrico III fece allora eliminare il duca di
Guisa e strinse alleanza con Enrico di Navarra capo degli ugonotti. Completa-
mente esautorato dal governo rivoluzionario di Parigi, il re si unì allora alle
truppe del capo ugonotto e insieme i due alleati posero l’assedio alla capitale. Il
1° agosto 1589 il sovrano deposto fu pugnalato da un fanatico monaco domeni-
cano, un certo Jacques Clément, che con quel gesto estremo volle punire il tradi-
mento della causa cattolica compiuto dal re; prima di spirare Enrico III designò
come suo successore l’alleato Enrico di Navarra.
Il Borbone salì sul trono di Francia col nome di Enrico IV, ma il regno do-
vette conquistarselo con le armi e con la straordinaria abilità politica di cui era
dotato. In cinque anni di lotte contro nemici interni ed esterni, batté le forze
della lega cattolica e assediò di nuovo Parigi, ma al sopraggiungere delle truppe
spagnole inviate da Filippo II a sostegno del partito cattolico, dovette abbando-
nare temporaneamente il campo. Giocarono tuttavia in suo favore lo scontento
popolare per la presenza delle truppe straniere, nella quale presenza si potevano
scorgere le mire espansionistiche di Filippo II; nonché la rovina in cui minac-
ciava di precipitare il regno e il desiderio di pace di gran parte della popola-
zione. Il solo ostacolo che rimaneva al momento dei negoziati era la religione
calvinista del sovrano, ostacolo che fu presto sormontato con l’abiura formale di
Enrico IV a Saint Denis il 23 luglio 1593 (è rimasta celebre la frase: “Parigi val
bene una messa” che secondo la tradizione il re avrebbe pronunciato in quella
occasione).
Enrico di Navarra fu incoronato re di Francia a Chartres il 27 febbraio 1594
ed entrò a Parigi il 22 marzo accolto da una folla festante mentre le milizie spa-
gnole si ritiravano.
Conclusa con Filippo II la pace di Vervins nel 1598, Enrico IV poté rientrare
in possesso di tutti i suoi territori, e con abili negoziati ottenne la resa delle ul-
time roccaforti degli irriducibili seguaci della lega cattolica. Rimaneva da attuare
la pacificazione religiosa del Paese, e questo obiettivo importante fu raggiunto il
13 aprile 1598 con la promulgazione del famoso Editto di Nantes che, ricono-
scendo il cattolicesimo religione ufficiale della Francia, concedeva in pari tempo
ai Calvinisti una relativa libertà di culto, completa libertà di coscienza e garanzie
politiche e civili, nonché alcuni seggi nei parlamenti ed il possesso di alcune
piazzeforti - fra le quali quelle di La Rochelle, Cognac, La Charitè e Montauban -
come pegno delle libertà riconosciute.
L’Editto di Nantes, se mise fine alle guerre di religione, non costituì tuttavia
per gli Ugonotti una garanzia permanente di tutela dei diritti acquisiti.
Sotto il governo del cardinale Richelieu (1624-1642), ministro del re Luigi
XIII (1610-1643), successore di Enrico IV, si riaprì il conflitto tra il potere costi-
tuito e i calvinisti. Divenuto di fatto l’arbitro della politica del regno, Richelieu,
dopo avere preso la piazzaforte di La Rochelle nel 1628, procedette allo smantel-
lamento della potenza militare degli ugonotti.
Sotto il regno di Luigi XIV (1643-1715) la persecuzione contro gli ugonotti

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NOTE STORICHE

in Francia s’inasprì a partire dal 1681. Era la conseguenza della logica assolutista
del potere perseguita dal “re Sole”: tutti i fattori considerati potenzialmente peri-
colosi per la compattezza politico-amministrativa e religiosa dello Stato dove-
vano essere eliminati. In realtà gli ugonotti, dopo che Richelieu li aveva privati
delle loro fortezze, non rappresentavano affatto un pericolo per la monarchia. Al
contrario il loro impegno nella vita civile, soprattutto nella finanza e nel com-
mercio, costituiva un fattore che contribuiva non poco alla prosperità economica
del Paese. Durante il regno di Luigi XIV il numero degli ugonotti in Francia si
aggirava intorno al milione. Raccolti in comunità compatte, con le proprie scuole
, i propri templi e i propri ministri, conducevano una vita pacifica e laboriosa,
conforme ai principi della rigida etica calvinista. Ma continuavano a essere og-
getto di rancore e di invidia.
Quando si scatenò la persecuzione, furono soprattutto le comunità rurali e i
ceti popolari (artigiani e piccoli commercianti) le vittime delle crudeltà dei dra-
goni del re (le “dragonnades”), mentre gli appartenenti ai ceti nobiliari e agli am-
bienti finanziari poterono in qualche modo sottrarsi alla repressione.
Nel 1685 Luigi XIV proclamò da Fontainebleau la revoca dell’Editto di Nan-
tes con cui 87 anni prima Enrico IV aveva riconosciuto libertà religiosa e civile
agli ugonotti. In forza del provvedimento reale tutti i templi protestanti in Fran-
cia furono abbattuti, il culto calvinista, anche nelle case private, fu proibito, a
tutti i ministri delle chiese riformate fu fatto obbligo di convertirsi al cattolice-
simo o lasciare il Paese, i genitori di fede protestante furono costretti a far battez-
zare i neonati secondo il rito cattolico, e ai fedeli fu vietato di espatriare, pena
l’arresto e la confisca dei beni. Dopo il 1685 anche i funzionari delle finanze e i
membri del parlamento di fede calvinista furono obbligati a dimettersi, e la Fran-
cia, per consenso unanime degli storici, fu privata di elementi di prim’ordine.
Per costringere all’abiura il maggior numero di fedeli, furono inasprite le
pene e fu accentuato il ricorso alla violenza. Non pochi ugonotti, intimoriti dalla
durezza della repressione, accettarono l’abiura e la conversione forzata al cattoli-
cesimo; ma nelle regioni centrali della Francia gruppi non molto numerosi rima-
sero tenacemente legati alla fede dei padri; sfidando i rigori del decreto reale, si
raccolsero in luoghi appartati per pregare. “Dopo la revoca dell’Editto di Nantes,
nel 1685 - si legge nel Dictionnaire Larousse Illustré alla voce “Le Désert” - un
certo numero di Protestanti continuarono a celebrare il loro culto in segreto
nelle foreste, nelle caverne, nelle montagne, in luoghi disabitati e difficilmente
accessibili. Siffatte riunioni ricevettero il nome di chiese o assemblee del deserto.
Attraverso mille vicissitudini durarono dal 1685 fino al 1792” (citato da Jean Vuil-
leumier in Apocalypse hier, au jour d’hui, demain, p. 202).
Furono molti gli ugonotti francesi che ripararono all’estero dopo la revoca
dell’Editto di Nantes.
“Il grande flusso migratorio - si legge in Storia Universale Rizzoli-Larousse -
trovò un appoggio nelle potenze protestanti del nord: l’Inghilterra e l’Olanda te-
nevano costantemente navi in crociera nella Manica (dette ‘navi di carità’) per
raccogliere le barche dei fuggiaschi, e si adoperavano per permettere il trasferi-
mento nei paesi vicini dei beni degli ugonotti esuli dalla Francia. Gli ugonotti

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CAPIRE DANIELE

francesi si diffusero così in tutta l’Europa: a Ginevra, in Inghilterra, in Olanda,


nei territori tedeschi (soprattutto in quelli dell’elettore del Brandeburgo), in Dani-
marca e persino in Russia.
“Il regno di Francia subì quindi in pochi anni un duplice salasso; di capitali,
fatti passare illegalmente con ogni mezzo oltre le frontiere, e degli uomini, nella
maggioranza abili artigiani, conoscitori di particolari tecniche e procedimenti di
lavorazione, e intraprendenti commercianti” (vol. III, pp. 88-89).
Almeno 200.000 ugonotti abbandonarono la Francia dopo la revoca
dell’Editto di Nantes; le nazioni protestanti che li accolsero si arricchirono di
quanto la Francia aveva perso.
Come era avvenuto 113 anni prima in occasione della strage di S.Bartolo-
meo, a Roma ci fu gran festa quando giunse da Parigi la notizia che il re aveva
revocato l’editto di tolleranza dei protestanti. Il 29 aprile 1586, papa Innocenzo
XI intonò il Te Deum e per le vie della città si festeggiò e si accesero fuochi di
gioia. Gioia e sollazzo per un atto legislativo che implicava sofferenze fisiche e
morali per centinaia di migliaia di uomini e donne la cui sola colpa era di non
condividere la professione religiosa della maggioranza dei loro concittadini.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 1998


da Legoprint-Trento

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