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Gli Universalisti Unitariani - Princìpi e Propositi
Noi, le congregazioni soci dell’Associazione degli Universalisti Unitariani,
promettiamo di affermare e promuovere:
Grati per il pluralismo religioso che arricchisce e nobilita la nostra fede, siamo
ispirati ad approfondire la nostra comprensione ed espandere la nostra visione.
Come congregazioni libere entriamo in questo patto, promettendo gli uni agli
altri la nostra reciproca fiducia ed appoggio.
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I Propositi dell’Associazione degli Universalisti Unitariani
L’Associazione degli Universalisti Unitariani dovrà utilizzare le sue risorse ed
esercitare i suoi poteri corporativi per scopi religiosi, educativi ed umanitari. Gli
scopi primari dell’Associazione sono di servire i bisogni delle sue congregazioni
associate, di organizzare nuove congregazioni, di estendere e rinforzare le
istituzioni degli Universalisti Unitariani e di implementare i loro principi.
Niente nella presente sarà interpretato come una limitazione della libertà
individuale di coscienza che è inerente nelle tradizioni degli Universalisti e degli
Unitariani o come in contraddizione con qualsiasi dichiarazione di intenti, patto o
legame di unione utilizzato da qualsiasi associazione a meno che lo stesso non sia
usato come esame di fede.
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Che cosa credono gli Universalisti Unitariani?
1. Crediamo nella libertà dell’espressione religiosa. Tutti gli individui
dovrebbero essere incoraggiati a sviluppare la loro teologia personale ed a
presentare apertamente le loro opinioni religiose senza paura di censura o
rappresaglia.
6. Crediamo nel valore e nella dignità di ogni essere umano. Tutte le persone
sulla Terra hanno uguale diritto alla vita, alla libertà ed alla giustizia; e
nessuna idea, ideale o filosofia è superiore ad una singola vita umana.
Noi Unitariani Universalisti abbiamo ereditato una magnifica tradizione teologica. In risposta
radicale ai credi che dividono la famiglia umana, l’Unitarianismo proclama che sorgiamo da
una fonte comune; l’Universalismo, che condividiamo un destino comune. Che siamo fratelli e
sorelle per natura, i nostri antenati Unitariani e, ancor più, quelli Universalisti affermarono
come questione di fede: l’Unitarianismo ipotizzando un solo Dio, l’Universalismo offrendo la
promessa di una salvezza condivisa.
Questa tradizione che afferma la vita ci viene tramandata con una conseguente responsabilità,
specialmente oggi su un pianeta sempre più piccolo dove lo stare insieme non è più un lusso
ma una necessità. Con un’economia globale, un sistema di comunicazioni globale e minacce
nucleari ed ambientali globali, gli orticelli propri sono una cosa del passato. E mentre siamo
gettati insieme da realtà che plasmano il nostro destino comune, forze centrifughe ci fanno
girare più veloce e più lontani gli uni dagli altri, fratturando il mondo unito che ora vediamo e
mettendo in pericolo il nostro benessere comune. Trincerandosi in terreni vecchi e familiari,
molte religioni offrono un rifugio temporaneo e idealizzato da questa realtà. Questo spiega in
parte l’attrazione dei tanti fondamentalismi in competizione tra loro. Ma il fondamentalismo si
scontra con l’esigenza di vivere insieme in questo promettente, pericoloso mondo nuovo. Per
contendere con le forze della frazionalizzazione, una teologia per il ventunesimo secolo
richiede niente di più e niente di meno che un nuovo Universalismo.
Il problema è tutto qui. Senza un gruppo di Universalisti evangelici senza imbarazzo, il vangelo
universalista languirà, verrà meno. Questo sarebbe non soltanto una tristezza privata per gli
Unitariani Universalisti, ma anche una perdita condivisa da tutti coloro che potrebbero servire
fondando la loro vita su principi universalisti. Per mantenere viva la nostra eredità teologica,
dobbiamo trovare un modo per stare insieme e proclamare un universalismo adatto alle sfide
del ventunesimo secolo.
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Il secondo ostacolo è intrinseco allo stesso Universalismo Unitariano. Benché prenda il nome
da due dottrine, la nostra è una fede non dottrinale. Per definizione, non siamo costretti
neanche a credere nel nostro stesso nome. Possiamo essere liberi da, per o contro qualsiasi
cosa che vogliamo. Dovremmo essere grati per questo. Ma dobbiamo anche ricordare che
solamente il rispetto per il valore e la dignità di ogni essere umano e un impegno condiviso
per la rete interdipendente dell’Essere — ciascuno dei quali è tra i principi guida
dell’Universalismo Unitariano — presentono un’alternativa di salvezza ai pericoli della
divisione intestina in un mondo sempre più litigioso.
Per poter proclamare questi principi dobbiamo poter esprimerli chiaramente. Il mio proposito
qui è di presentare un fondamento possibile per una teologia universalista contemporanea,
una teologia progettata per chiarire la nostra diversità in un modo più intelligibile e
praticabile. Anche se ho dato più enfasi alla teologia, spero che sia chiaro che tutto il
contenuto di questo saggio ha anche implicazioni per il nostro impegno per la giustizia. Se non
mettiamo in pratica le sue implicazioni, l’Universalismo è frivolo, auto-negante ed irrilevante.
Il legame mortale
Tre settimane prima di morire, mio padre ha scelto le parole per la sua lapide. Meditava su
quale messaggio lasciare per gli sconosciuti che avrebbero visitato il suo quartiere tra
qualche secolo. Quando camminiamo nei cimiteri, meditiamo sulla nostra propria mortalità,
così le ―istruzioni finali‖ che Frank Church ha lasciato per la meditazione delle generazioni
future sono parole umili, ma più che degne della splendida pietra nella quale le abbiamo
scolpite:
Non ho mai conosciuto nessuno che si dava arie d’importanza la mattina dopo aver trascorso la
notte all’aperto su una montagna dell’Idaho sotto un cielo d’estate trapunto di stelle.
Non dimenticare di trascorrere un po’ di tempo nella natura, dove puoi fare testimonianza
della meraviglia di Dio.
Non avevo mai pensato che mio padre fosse un uomo religioso. Lasciò la Chiesa Cattolica
all’età di quattordici anni. Sentivo che per lui la Chiesa Cattolica era l’unica vera chiesa; solo
che era falsa. Ciononostante, le parole sulla lapide di mio padre sono un’eloquente
testimonianza dello spirito universalista. Per definizione, l’Universalismo non è la proprietà di
un’unica denominazione. Infatti, alla radice di tutta la diretta esperienza umana del Sacro sono
i due elementi essenziali per una vera fede Universalista: l’umiltà e il timore reverenziale.
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tempio dell’Universalismo, due grandi colonne — il timore reverenziale e l’umiltà —
fiancheggiano le porte. Le porte stesse sono la nascita e la morte.
Io definisco la religione in modo più inclusivo rispetto a molti altri . La religione è la nostra
risposta umana alla duplice realtà del nostro essere vivi e dover morire. Non siamo l’animale
con gli attrezzi o l’animale con il linguaggio sviluppato; siamo l’animale religioso. Poiché
sappiamo che moriremo, ci interroghiamo sul significato della vita. La morte getta un
interrogativo anche sulla possibilità stessa di un significato, rendendolo per alcune persone
nullo. Ma, per la maggior parte di noi, sapere che siamo mortali ispira una ricerca per risposte
che rimarranno valide nonostante la nostra mortalità. Se la religione è la nostra risposta alla
duplice realtà dell’essere vivi e di dover morire, lo scopo della vita è di vivere in un modo tale
che varrà la pena morire per la nostra vita.
Nella sua espressione originale, come sviluppo all’interno della teologia cristiana,
l’Universalismo sostenne la nozione radicale che tutti i figli di Dio ricevono la salvezza dopo la
morte. Interpretato in modo più ampio, l’Universalismo è una fede inclusiva, che rifiuta la
nozione divisiva che le persone stiano in due categorie separate: pecore e capre; i salvati e i
dannati. Per aiutarci a forgiare un Universalismo per il ventunesimo secolo, invocherò questo
spirito più ampio e non la lettera originale dei nostri antenati universalisti.
Non è che non creda in una vita dopo la morte; semplicemente devo ancore avere l’esperienza
di un’altra vita, e quindi ho poco da dire al riguardo. So solo questo: per primo, niente
(compreso una qualsiasi vita ultraterrena immaginabile) potrebbe essere più incredibile di
questa vita qui. Secondo, la vita come noi la conosciamo è impossibile senza la morte. Ed
infine, anche se la teologia potrebbe cominciare alla porta della tomba — lo spettro della
morte che stimola la riflessione sul significato della vita — sicuramente nessuna rivelazione
suscita più emozione o evoca più pensieri di quella di un neonato che emerge dal grembo
della madre. Quando ―faccio teologia‖ cerco di ricordare i consigli di mio padre. È saggio per
i teologi a volte chiudere i loro tomi difficili e riaprire il libro della natura. La teologia è un
costruzione umana. Essa comincia con il miracolo della nostra esistenza. Se il timore
reverenziale e l’umiltà sono le principali ancelle dell’Universalismo, al di là di ogni altra
distinzione, la nascita e la morte rimangono i sacramenti che ci uniscono in un mistero
condiviso.
Benché i limiti e la meraviglia intrinseca della natura umana (human nature) potrebbero
consigliare l’Universalismo come l’approccio più ampio e inclusivo alla teologia, le nostre
molte differenze nell’educazione umana (human nurture) ne sono di ostacolo. Siccome le
domande che poniamo alla creazione sono questioni di vita e di morte, le nostre risposte sono
cariche di emozioni. È duro accettare che, se abbiamo ragione, coloro che differiscono
possono non avere torto. Rispetto a questo, molti Unitariani Universalisti contemporanei sono
tanto colpevoli quanto i nostri cugini più ortodossi. Anche noi dimentichiamo che siamo simili
nella nostra ignoranza più di quanto differiamo nella nostra conoscenza. Così prima di
pronunciare la nostra fedeltà all’Universalismo, dobbiamo fare il nostro proprio inventario
teologico.
Negli Stati Uniti, sia l’Unitarianismo che l’Universalismo si svilupparono dalla tradizione
protestante. Il teologo Paul Tillich definì così il ―principio protestante‖: ―La prima parola della
religione deve essere detta contro la religione.‖ Questo principio ci serve bene nel lavoro
necessario di riformare le istituzioni religiose corrotte. Nonostante ciò, è principalmente
negativo, non affermativo. Si deve solo comparare la storia ecclesiastica Cattolica e
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Protestante per percepire che i protestanti si scindono sempre come cellule che si dividono,
ogni divisione nel nome dell’evoluzione, verso la causa della vita più alta. Il principio
Universalista è precisamente il contrario: unire i molti nell’uno. Essendo protestanti per
eredità, noi unitariani universalisti siamo sempre tentati di tradire questo principio
universalista.
In anni recenti l’Universalismo Unitariano, dopo che le due chiese liberali si sono unite in un
atto che ha qualcosa di ―cattolico‖, è rimasto percorso dalla tentazione protestante di
dividersi. In una rotazione affascinante, un gruppo o un altro tra di noi ha tentato di purificarsi
da un possibile contagio distanziando se stesso da tutto il resto. Dobbiamo resistere a questa
tentazione e, invece, forgiare le nostre spade protestanti in vomere universaliste.
So che questa sembrerà un’impresa ardua. Dopo tutto, abbracciando il principio protestante
nella sua forma più pura, fin dalla Riforma noi all’estrema sinistra del movimento di riforma
abbiamo condotto un’operazione di ricerca e distruzione teologica. Lo scopo è stato quello di
ripulire le incrostazioni della religione in un tentativo di ridare alla fede la sua integrità
intellettuale e spirituale. Questo è stato uno sforzo nobile e spesso salutare. Ma in ultima
analisi, è ancora un po’ come cercare di trovare il seme di una cipolla sbucciandola strato
dopo strato. Alla fine, non rimane niente tranne le nostre lacrime.
Molti scienziati importanti sono ben più avanti di noi in questo rispetto. Alcune scoperte
recenti nella fisica e nella cosmologia non sembrano avere senso secondo i canoni conosciuti
della razionalità. Sondando i misteri dell’universo e della mente, i ricercatori all’avanguardia
della conoscenza si trovano a muoversi liberamente tra il reame razionale e quello trans-
razionale. E questo dove lascia i loro poveri simpatizzanti, che credono nella scienza ma non
abbracciano il mistero? Hanno dato Dio in cambio della verità, ma non rimane loro nessuno
dei due.
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continua ad essere irrazionale. Cioè, essa poggia le sue rivendicazioni razionali sull’evidenza
di una rivelazione privilegiata. Affermazioni di infallibilità scritturale, nascita verginale, e
scienza creazionista cominciano con le scritture e non con il cosmo, e così facendo limitano
l’attività razionale ad un cerchio così chiuso da risultare veramente irrazionale. Ma si può
muovere un’accusa ugualmente seria alla religione razionale, in particolare alla sua forma più
radicale e quasi sempre reazionaria. In una fuga di principio dall’irrazionalità, i razionalisti
tradiscono la ragione perdendo di vista il reame trans-razionale, dove il razionalismo non è
rifiutato ma trasceso. Questo è il reame del mito e delle parabole, della poesia e dei
paradossi. L’interezza non si potrà raggiungere fino a quando i due reami — del segno e del
simbolo, del fatto e della fantasia — sono esplorati come tutt’uno.
Confesso di aver partecipato in questo massacro anch’io. All’inizio del mio ministero, trovavo
più conferma per le mie credenze nell’unitarianismo razionale di Thomas Jefferson che non
nell’unitarianismo mistico di Ralph Waldo Emerson. Credevo avidamente in quello che potevo
leggere e quindi comprendere. Per esempio, l’etica di Gesù mi commuoveva; l’anima
universale no. Il mio approccio alla creazione era quello di un tassidermista, non di un
adorante. Esaminavo anche le più fragili e belle manifestazioni della creazione come un
lepidotterista con i paraocchi potrebbe esaminare una farfalla. Le catturavo, le
cloroformizzavo, e le disponevo per l’osservazione. Dopo un lungo studio dei miei esemplari
preferiti potevo concludere solamente che le farfalle non volano.
Nel corso degli anni, ho scoperto lentamente che la postura così sicura di sé della filosofia
illuminista non serviva ai miei scopi così bene come sembra essere servita a Jefferson.
Jefferson e i philosophes francesi, che lo hanno ispirato, portarono Dio a casa tarpandogli le ali,
addomesticando il mistero e confinandolo in una gabbia. Ci sono molti buoni modi per
interpretare Dio (o per interpretare la creazione senza il beneficio di Dio); quello che alla fine
ha funzionato per me chiaramente non è per tutti.
Per dare pieno sfogo al mio universalismo, ho dovuto fare spazio nella mia teologia per una
potenza più capiente, benché insondabile. Dovevo fare spazio per il mistero sull’altare del mio
focolare, che prima era stato affollato con icone alla conoscenza. Da pastore di una parrocchia,
questo sarebbe dovuto venire in modo naturale, ma non è stato così. In un certo senso,
conosco la religione troppo bene per non avere sospetti sulle sue risposte. Dio sta
sull’etichetta di ogni bottiglia di olio di serpe religioso che abbia mai assaggiato. Prima di
poter animare il mio proprio universalismo, dovevo quindi re-immaginare Dio.
Un Dio olografico
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fondamento del nostro essere. Altrimenti, cederemo alla tentazione di dividerlo tra i piedi
nostri e quelli degli altri.
Oggi, quando qualcuno si vanta con me che non crede in Dio, gli chiedo di raccontarmi un po’
del Dio in cui non crede. Quasi sicuramente, neanch’io credo in ―Lui‖. Come riconoscevano
gli antichi ebrei, ―Dio‖ non è neanche il nome di Dio. Dio è il nostro nome per un potere che è
più grande di tutti ma allo stesso tempo presente in ognuno: la forza della vita, il Sacro,
l’Essere stesso. Dio non esiste soltanto perché noi abbiamo bisogno di Dio; noi esistiamo
perché l’universo era gravido di noi quando è nato. In miracolo e fatto, la nostra gestazione
risale all’inizio del tempo. Gli incidenti abbondano, naturalmente. Il decadimento di un amino
o un collegamento mancato e non saremmo nella posizione di poter chiederci perché siamo
qui. Ma, nella mia esperienza, solamente ipotizzando l’esistenza di un potere al di là della
nostra comprensione possiamo cominciare a spiegare il miracolo dell’essere con un miscuglio
appropriato di umiltà e timore.
Riconosco che per molte persone la parola Dio si è ristretta a causa di un uso eccessivo, ma
possiamo sempre espanderla di nuovo. Se non riuscite a fare questo — se la parola che
comincia con ―D‖ stringe la vostra mente più come una camicia di forza che come un
vestimento divino—provate semplicemente a sostituirla con un’altra. ―Spirito‖ potrebbe
funzionare per voi, oppure ―il sacro‖, o ―il potere superiore‖. Se l’oggetto della vostra
reverenza è grande abbastanza, la parola non importa, non ha alcuna importanza.
Devo dire, però, che la creazione di un lessico teologico più privato e perciò più esclusivo
potrebbe far male ad un nuovo universalismo. In un paese dove più del 90 per cento della
gente dichiara di credere in Dio, potrebbe risultare più facile inculcare una fede in un Dio più
grande piuttosto che soppiantare affetti familiari. A parte questo, non c’è niente di nuovo, e
certamente niente di blasfemo, nel ridisegnare o rinominare Dio. Rispondendo a questioni di
vita e di morte, i cercatori hanno re-inventato e con ciò riscoperto il sacro attraverso i secoli.
Considerate i nostri antenati, i cercatori che ci hanno preceduto. Cominciate dagli abitanti
delle caverne, i cacciatori e raccoglitori, per i quali i più grandi poteri immaginabili erano le
forze della natura. ―Dio‖ era manifesto nel fuoco; perciò, nei fulmini e nel tuono—forse anche
negli animali che cacciavano per garantirsi la sopravvivenza. Quando l’agricoltura sostituì la
caccia e la raccolta, questi dei divennero dee. Il potere ora stava nel seminare e nel mietere,
nel volgere delle stagioni. La fecondità determinava la sopravvivenza. Dio divenne Dea;
procreazione, creazione; nascita, vita.
Più tardi, con l’avvento delle città-stato, il potere fu avvolto nei mantelli dell’autorità. Ora Dio è
il Signore o il Re, il protettore, l’esecutore e il giudice. Un’innovazione in questa visione della
natura divina arrivò con gli Ebrei, che credevano che il loro Dio e Re fosse l’unico Dio e Re.
Questo passo, più etico che imperialista, li portò ad attribuire i loro fallimenti non ad un altro
Dio più forte, ma alle loro mancanze. Con Gesù, Dio divenne Padre (infatti, Babbo, o Abba),
una figura di autorità molto più intima.
Nella società occidentale, il Dio che la maggior parte dei non-credenti rifiuta è il tradizionale
Dio giudeo-cristiano: onnisciente, onnipotente, giusto, esigente, a volte capriccioso, qualche
volta anche crudele. Per molte persone pensierose questo Dio è stato rovesciato alcuni secoli
fa, con l’aiuto della rivoluzione copernicana. Com’è successo molte volte in passato, Dio
quindi non era morto; Dio è stato re-immaginato. Per esempio, dopo che Copernico ci ha
spostato dal centro dell’universo, un gruppo di scienziati e teologi, nei loro sforzi per re-
immaginare Dio, colsero una metafora più adatta alla loro visione del mondo. Ecco Dio
l’orologiaio, che ha creato il mondo e lo ha messo in moto, a fare tic-tac, poi si è ritirato in un
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altro angolo del cosmo. Questo è il Dio dei deisti, un Dio freddo e remoto, ancora trascendente
ma non più personale.
Oggi, siamo testimoni di un’altra rivoluzione scientifica, una rivoluzione tanto profonda come
quella iniziata da Copernico e Galileo mezzo millennio fa. Sul nostro sentiero verso una
teologia del ventunesimo secolo, incontriamo quello che potremmo chiamare un Dio riflessivo,
un co-creatore con noi in un dramma che si svolge, intricato, di una complessità finora
inimmaginabile. Questo Dio non è immutabile ma cambia sempre, si estende e cresce, così
come noi cambiamo, ci estendiamo e cresciamo. Non più semplici attori sul palcoscenico di
Dio, possiamo essere anche partecipanti nella sceneggiatura dell’opera di Dio.
Tra le metafore più promettenti per una teologia universalista del ventunesimo secolo è
l’olografo, che offre un’immagine sia riflessiva che trascendente di Dio. Dei laser registrano
immagini su una piastra fotografica fatta di migliaia di piccole lenti, risultando in un
ologramma tridimensionale, come quelli nella casa stregata a Disneyland o su molte carte di
credito. Misteriosamente, se la piastra fotografica viene frantumata e una sola scheggia viene
usata per la proiezione, l’intera immagine, per quanto sbiadita, sarà riprodotta.
Anche i nostri corpi sono olografici. Ognuna delle nostre cellule contiene il nostro codice
genetico o DNA completo, per tutto il nostro essere, forse una metafora ancora più incisiva per
la natura riflessiva della divinità. La stessa idea echeggia nelle antiche scritture. Il regno di Dio
è dentro un seme di senape. Il Padre ed io siamo uno. L’Atman (la coscienza individuale) e il
brahman (la coscienza universale) sono uno. Il regno di Dio è dentro di te. Come con
l’immagine di Paolo del Cristo cosmico (un corpo, molti membri, ognuno con la stessa firma
della divinità), l’olografo suggerisce la natura riflessiva di Dio in un modo che trasforma il
nostro rapporto non solo con il divino, ma anche gli uni con gli altri. Tessuti dalla stoffa delle
stelle, illuminati da Dio, partecipiamo nel miracolo che meditiamo.
Un’immagine simile dalla teologia contemporanea sta alla base dell’ipotesi di Gaia, con la
Madre Terra che riprende la dea in un modo nuovo. Proprio come ogni organismo è una
colonia di cellule e organi ognuno segnato con lo stesso DNA, non si potrebbe dire che tutti i
gli esseri viventi creano un organismo più grande segnato con il DNA di Dio? Un altro
approccio, quello della teologia del processo, risponde ad orrori come l’Olocausto attenuando
le affermazioni sull’onnipotenza ed onniscienza di Dio. Secondo questa lettura — come co-
creatore di una realtà che condividiamo — Dio soffre con noi quando noi soffriamo e gioisce
quando noi sperimentiamo una vera gioia. Questo punto di vista è condiviso anche da molti
teologi della liberazione.
Per quanto riguarda la scoperta di Dio, troviamo le prime evidenze nelle cose ordinarie e
negli incontri quotidiani. Il modo più sicuro per trovare il sacro è di decodificare le nostre
proprie esperienze, non solo della bellezza (―il cielo in un fiore selvatico‖) ma anche nei
sacramenti del dolore tramite i quali comunichiamo gli uni con gli altri. Questo rappresenta un
terzo pilastro dell’Universalismo. Noi tutti soffriamo. Siamo a pezzi e abbiamo bisogno di
guarigione. Lottiamo per accettare noi stessi e per perdonare gli altri. Per adottare il
linguaggio vecchio, siamo tutti peccatori. Coscienti delle nostre imperfezioni, cerchiamo la
fede, la speranza, l’amore e la giustizia più perfetti. Al nostro meglio, ci identifichiamo con il
dolore dell’altro e ci solleviamo insieme in risposta ad una legge superiore. L’illuminazione
risplende da cuore a cuore. Scopriamo la potenza guaritrice e salvifica del sacro nel
quotidiano. Per esempio, chiunque abbraccia la più familiare definizione universalista, che
―Dio è amore‖, scopre la natura di Dio nella sua esperienza dell’amore. Questo potrebbe non
significare che Dio sia veramente l’amore, ma certamente suggerisce che l’amore è divino.
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La cattedrale del mondo
Per l’universalista, la verità nella religione è come la verità nella poesia. Il nostro testo comune
è la creazione. Benché limitati nella profondità e nel campo della nostra visione, siamo spinti a
capire il senso di essa nel migliore modo possibile. Così raccontiamo storie, formuliamo
ipotesi, sviluppiamo scuole di pensiero e di liturgia, e tramandiamo la nostra saggezza
parziale da generazione in generazione. Non solo ogni religione, ma ogni filosofia, ideologia,
visone scientifica del mondo è una scuola critica con la creazione come suo testo. Con
qualunque nome chiamiamo il suo autore or co-creatore, siamo tutti interpreti della poesia di
Dio.
Possiamo fare un paragone con la critica letteraria. Come sono diversi i modi in cui leggiamo
un capolavoro. Una grande opera letteraria permette molti livelli di interpretazione: letterale,
metaforica, simbolica, politica, strutturale, morale. Due critici potrebbero arrivare a due
interpretazioni radicalmente diverse dello stesso brano, ciascuno fondando il suo punto di
vista su un ragionamento profondo e dimostrando un’erudizione impressionante nel corso
della sua prova. All’interno di ogni singola scuola critica, avviene una discussione continua,
affilando le prospettive, condividendo nuove scoperte attinenti alla materia. Esiste anche la
possibilità di dialogo tra diverse scuole, per promuovere una nuova visione più dinamica da
ciascuna delle due prospettive distinte.
La stessa cosa avviene per due teologie distinte, con il nostro testo comune la creazione, il più
grande capolavoro di tutti i tempi. Interpreti con approcci, metodologie e strumenti differenti
lottano per scoprire chi siamo, da dove veniamo, come siamo arrivati qui, dove stiamo
andando, e perché e come. Ognuna parte da un insieme di premesse di base. Ognuna ha i
suoi strumenti di fiducia, come la Bibbia o il telescopio di Hubble. Come tra i critici letterari,
c’è una discussione continua all’interno di ogni scuola e un dialogo occasionale con altre
scuole. Le religioni si adattano alle nuove scoperte della scienza. Gli scienziati a volte
raggiungono il punto di penetrazione più lontano e adottano il linguaggio mistico della
reverenza e dell’adorazione. Le poste in gioco sono alte. Di tutte le contese intellettuali,
nessuna è più carica, più pericolosa. Ogni squadra calcola il punteggio in modo diverso, e non
c’è una regola condivisa per dire chi sta vincendo, e neanche su come si gioca. Vista come una
gara, l’unico modo per assicurarsi la vittoria finale è di sminuire o eliminare gli avversari.
Ma, se ci possono essere molte interpretazioni plausibili di una poesia, che cosa ci dovrebbe
dire questo sul cosmo stesso? Non c’è niente di più misterioso o velato del segreto del cosmo.
Nessun dogma può cominciare a comprenderlo. Proprio come un ricercatore scientifico non
può misurare allo stesso tempo la velocità e la posizione di una particella, nel momento in cui
cominciamo a leggere la creazione cambiamo la sua natura apparente. La psicologia Gestalt
suggerisce una cosa simile negli studi di oggetto e campo: quella famosa illusione ottica di
due facce in profilo che disegnano anche la forma di un vaso. È possibile andare e tornare da
una focalizzazione all’altra, ma, benché entrambi siano davanti ai nostri occhi, non riusciamo a
vedere le facce e il vaso nello stesso momento. Ogni volta, il ricercatore diventa parte dello
sperimento, influenzando proprio i dati che sta cercando oggettivamente di raccogliere. Non
siamo soltanto gli interpreti della poesia di Dio, siamo anche la poesia stessa.
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Questo non significa che la ricerca della verità o della conoscenza sia vana. In fatti, scoperte
come il principio dell’incertezza di Heisenberg, che mostra che il ricercatore ha un effetto sui
dati, sono delle conquiste della conoscenza. E non significa neanche che tutte le verità sono
relative (e perciò funzionalmente intercambiabili), ma solo che nessuna verità entro i confini
della conoscenza umana è assoluta o finale. Che la Verità ultima non sia il privilegio di un
qualsiasi sistema religioso, filosofico o scientifico non esclude in nessun modo la possibile
esistenza di una tale Verità (o Dio). Esso sottolinea semplicemente i limiti naturali di ogni
affermazione umana sulla verità.
La storia e i nostri vicini ci insegnano che ci sono molti modi per scrivere e moltissimi modi
ancora per interpretare il capolavoro della creazione. Anche questo è un principio
dell’universalismo, anzi è il suo principio informatore: affermare la bellezza discreta di molte
finestre anche quando l’unitarianismo (come dottrina, non come setta) proclama l’unica Luce.
In questo spirito, e per assistere nella costruzione di una teologia universalista per il
ventunesimo secolo, permettetemi di suggerire una metafora che mi aiuta a capire e
proclamare la mia fede universalista, una fede che ho introdotto nel libro A Chosen Faith e che
sviluppo nel mio libro più recente, Lifecraft.
Immaginiamo il mondo come una vasta cattedrale. Questa cattedrale è antica come l’umanità;
la sua pietra angolare è il primo altare, segnato con la tintura di sangue e benedetto dalle
lacrime. Anche se cerchiamo per una vita – e di più non ci viene dato – non conosceremo mai i
suoi limiti, non visiteremo tutti i suoi transetti, non adoreremo mai alla sua miriade di cappelle,
ne attraverseremo con lo sguardo tutto il suo volto celestiale.
Soprattutto, contemplate le finestre. Nella Cattedrale del Mondo ci sono innumerevoli finestre
– alcune da molto tempo dimenticate, coperte da molti strati di polvere, altre adorate da
milioni, i santuari più sacri. Ognuna a suo modo è bellissima. Alcune sono astratte, altre
rappresentative, alcune scure e meditative, altre brillanti e abbaglianti. Ognuna racconta una
storia della creazione del mondo, il significato della storia, lo scopo della vita, la natura
dell’umanità, il mistero della morte. Le finestre della cattedrale sono i luoghi dove entra la
Luce.
Come con tutte le metafore estese, anche questa è imperfetta. La Luce di Dio (o la Verità o
l’Essere stesso) splende non solo su di noi, ma anche fuori da dentro di noi. Insieme alle
finestre, noi facciamo parte della cattedrale, non siamo separati da essa. Insieme costituiamo
la rete interdipendente dell’essere. La cattedrale è fatta della stoffa delle stelle e così anche
noi. Siamo quella parte (o la parte conosciuta) della creazione che contempla se stessa. Poiché
la cattedrale è così vasta, la nostra vita così breve, la nostra vista così limitata, siamo in grado
di contemplare soltanto una piccola parte dell’intera creazione. Possiamo esplorare solo una
manciata delle sue molte stanze. La nostra vita breve ci permette di riflettere sul gioco
dell’oscurità e della luce attraverso ben poche delle sue miriadi di finestre. Ma, siccome il
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tutto è contenuto in ognuna delle sue singole parti, quando riflettiamo e agiamo sulle intuizioni
che derivano anche da un solo pensiero, possiamo avere l’esperienza dell’illuminazione.
Possiamo anche scoprire o inventare significati che investono sia la creazione che le nostre
vite con coerenza e senso.
Un teologia per il ventunesimo secolo basata sul concetto di una sola luce (l’Unitarianesimo) e
molte finestre (l’Universalismo) offre ai suoi aderenti sia ampiezza che focalizzazione.
Onorando molti approcci religiosi diversi, essa esclude solamente le pretese di verità degli
assolutisti. Questo perché i fondamentalisti – sia di destra che di sinistra – sostengono che la
luce splende soltanto attraverso la loro finestra. Gli scettici traggono la conclusione opposta.
Vedendo la sconcertante varietà di finestre e osservando la follia dei fedeli, essi concludono
che non c’è la Luce. Ma le finestre non sono la Luce, sono solo dove penetra la luce.
Un avvertimento: lo stesso Universalismo può essere distorto in due modi. Uno è quello di
elevare una verità ad una verità universale: ―La mia chiesa è l’unica vera chiesa.‖ L’altro è
quello di ridurre le verità distinte al minimo comune denominatore: ―Tutta la religione è
solamente un insieme di variazioni sulla regola aurea.‖ L’Universalismo che io abbraccio non è
distorto in nessuno dei due modi. Esso sostiene che la stessa Luce splende attraverso tutte le
nostre finestre, ma che ogni finestra è diversa. Le finestre modificano la Luce, rifrangendola in
varie forme che suggeriscono diversi significati. Proprio come non si può credere in ―tutto‖,
per trovare un’espressione significativa, l’Universalismo deve essere modificato or rifratto
attraverso il vetro delle esperienze individuali e di gruppo (che per definizione sarebbero
meno che universali). Si può essere un Universalista buddista, un Universalista pagano, un
Universalista umanista, un Universalista ebreo, un Universalista cristiano. Al contrario, non si
può essere in modo significativo un Universalista universalista; è impossibile guardare fuori da
ogni finestra. Né si può essere, diciamo, un Cristiano universalista; quando il modificatore
della propria fede diventa il suo nominativo, la devozione primaria è relegata ad una sola
parte dell’intero che la comprende.
La religione può essere pericolosa, specialmente su un pianeta rimpicciolito dove gli orticelli
separati sono una cosa del passato, dove posizioni di fede contrastanti si scontrano in quasi
ogni angolo del mondo. Ma ogni generazione ha avuto i suoi santi guerrieri, fanatici
irriducibili per i quali il mondo non è grande abbastanza che per una sola vera fede. Terroristi
per la ―Verità‖ e per ―Dio,‖ non solo hanno loro insegnato ad adorare ad una sola finestra, ma
sono anche stati incitati a dimostrare la loro fede lanciando pietre alle finestre degli altri.
Tirata strettamente, la loro logica ha una specie di senso diabolico:
Aristotele ha identificato una cosa che lui chiamava la Legge del Mezzo Escluso. Come
certezza logica, affermava che A e non-A non possono essere veri allo stesso tempo. Alla luce
della mia metafora della cattedrale (ed anche a quella dell’incertezza quantica), Aristotele
sbaglia, almeno rispetto alla teologia. La sua certezza logica va oltre la legge dell’esperienza.
Contrastate una finestra di vetro colorato (il suo centro scuro circondato da vetri più luminosi)
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con un’altra (configurata in modo opposto). Benché la stessa luce splende attraverso
entrambe, getteranno ombre diametralmente opposte sul pavimento della cattedrale (A e non-
A, se volete). Proprio come non possiamo guardare direttamente il sole, non possiamo fissare
direttamente la luce di Dio. Tutte le grandi scritture del mondo ci dicono questo. Nessuno può
guardare Dio negli occhi. La verità emerge solo indirettamente, come rifratta attraverso le
finestre della tradizione e dell’esperienza. Per un Universalista moderno come sono io, questo
suggerisce che – siccome la stessa luce si può rifrangere in molti modi diversi (compreso A e
non-A) – le uniche rivendicazioni di verità religiosa che possiamo scartare completamente
sono quelle che respingono tutte le altre per mancanza di conformità con la loro propria
comprensione del creato.
Una risposta presumibilmente imparziale alla guerra delle passioni teologiche è di rifiutare
del tutto la religione, di distanziarci da coloro che tentano - sempre imperfettamente – di
interpretare il significato della Luce. Ci sono due problemi con quest’approccio. Uno è che ci
depriva di un incontro potenzialmente profondo con le forze misteriose che muovono il nostro
essere, limitando perciò la nostra capacità di inventare e scoprire significati. Il secondo è che
nessuno di noi è capace di resistere all’interpretazione della Luce. Sia che scegliamo le
finestre che ci illuminano l’esistenza sia che le riceviamo in eredità, per ogni individuo la luce
e l’oscurità si mischiano più o meno persuasivamente come rifratte attraverso un insieme o un
altro di finestre. Attirate al chiarimento parziale della realtà che emerge in disegni di luce e
nel gioco delle ombre, anche le persone che rifiutano la religione sono adoratori della verità
come loro la percepiscono. Anche le loro finestre diventano luoghi sacri.
Poiché nessuno di noi è pienamente capace di comprendere la verità che splende attraverso
la finestra di un’altra persona, né di apprendere la falsità che noi stessi potremmo percepire
come verità, possiamo facilmente scambiare il bene di un altro per il male, e il nostro male per
il bene. Una teologia universalista tempra le conseguenze della nostra inevitabile ignoranza
mentre affronta la crisi che sovrasta i nostri tempi: la divisione dogmatica in una mondo
sempre più intimo, più litigioso, ma anche più interdipendente. Essa postula i seguenti
principi fondamentali:
Sono certo che altri raffineranno e miglioreranno questi principi. Li offro tanto per promuovere
un dialogo sull’integrità e sull’intelligibilità dell’Universalismo per il nostro tempo quanto per
rispondere alle molte domande che l’Universalismo pone alla mente assetata di sapere. Ma li
offro con una convinzione completa. Se noi Universalisti Unitariani siamo incapaci di
riconoscere il terreno che condividiamo, rimarremo solo marginalmente efficaci nell’aiutare a
preparare il terreno sul quale tutti possano stare come figli di un mistero che unisce molto più
profondamente di quanto non divide un figlio della vita da un qualsiasi altro. E se falliamo in
questa missione, tradiremo la nostra eredità Universalista.
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Questo scritto è tratto da “Our Universalist Mission: Proclaiming a Theology for the 21st Century,”
un discorso tenuto all’Assemblea Generale della Unitarian Universalist Association of
Congregations a Cleveland, Ohio, nel mese di giugno 2001. Una versione più estesa è riportata in
Bringing God Home: A Spiritual Guidebook for the Journey of Your Life (St. Martin’s Press, maggio
2002).
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La chiesa di “quel qualcosa”
Alcune congregazioni l’hanno. Altre no. E non ci vuole molto tempo per capire se una
congregazione l’ha oppure no. Capiamo subito. È impossibile sbagliare.
Alcune congregazione sono piene di vita. L’energia riempie la stanza. Il calore è palpabile. Lo
sentiamo nelle funzioni.
Perché è così? Qual è la differenza tra essere piene di vita e calore ed essere fredde e morte?
Credo che la differenza sia la religione. Veramente. La Religione. La chiave per il futuro per
ogni singola congregazione e per l’Universalismo Unitariano come movimento è se possiamo
―fare religione.‖ Se ―facciamo religione‖, cresceremo. Toccheremo i cuori e cambieremo il
mondo. Se non lo facciamo subiremo un declino.
Consideriamo la tradizione Ebraica che ha dato origine al Cristianesimo. Nei testi sacri i
profeti non mostrano nessun interesse per il credo corretto. Mostrano un sacco di interesse
per come le persone si comportano e se sono fedeli al loro patto.
Infatti, la stessa parola ―religione‖ viene da una radice latina che significa legare, fasciare. In
ultimo ciò che ci lega insieme, ciò che fa una religione, un popolo unito, è ciò che amiamo. La
religione, la nostra religione, è ciò che ci importa veramente tanto, ciò che vogliamo
conservare, abbracciare e creare.
Le domande che ci facciamo gli uni agli altri sono così essenziali. Se tu e io ci chiediamo cosa
crediamo, ci troveremo a parlare di cose tanto cervellotiche. Esporremo le nostre credenze
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appoggiate con prove ed argomentazioni. Troppo spesso finiremo per litigare. Io so. Ho
litigato più di quanto avrei dovuto.
Però, quando ci chiediamo che cosa amiamo veramente, a cosa ci teniamo veramente, che
cosa ci importa più di ogni altra cosa nella vita, succede qualcosa di straordinario. Non
litighiamo. Ascoltiamo. Comunichiamo. Scopriamo che amiamo e vogliamo la stesse cose.
Abbiamo cura gli uni degli altri. Vogliamo onestà, profondità e intimità nei nostri rapporti.
Scopriamo anche che comprendiamo di essere tutti insieme in questa vita. Vogliamo aiutare il
mondo a guarire. Vogliamo che la compassione, la comprensione e la giustizia guidino le
nostre azioni e i nostri governi. Vogliamo lavorare insieme, mano nella mano, per costruire un
mondo oltre lo sfruttamento e la violenza.
In altre parole, quando ci concentriamo su quello che amiamo noi ―facciamo religione.‖
La verità è che le stesse cose sono profondamente importanti per tutti noi. Condividiamo una
visione. Nelle nostre congregazioni ci sono amore, idealismo, ed energia che aspetta di essere
sprigionata. Quando li sprigioniamo, quando veramente lasciamo andare la gente,
trasformiamo molte vite e cambiamo il mondo.
Facciamo allora questa religione. Aspetto solo di vedere ciò che riusciremo a fare insieme.
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