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CAPITOLO IV

BÖHM-BAWERK E LA TEORIA DEL CAPITALE

4.1. Introduzione

Dopo Menger, il più importante contributo teorico alla Scuola Austriaca si deve
a Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914). Docente di Economia politica prima ad
Innsbruck e successivamente a Vienna, Böhm-Bawerk ricoprì in varie occasioni la
carica di Ministro dell’Impero Austro-ungarico. Egli non contribuì soltanto al
perfezionamento e alla divulgazione della teoria soggettiva elaborata da Menger, ma
ne estese in modo significativo l’applicazione al campo della teoria del capitale e
dell’interesse. A lui si deve un’opera, Capitale e interesse (1884-1902), di primaria
importanza che, al di là del titolo un po’ riduttivo, è in realtà un trattato completo di
economia in cui, attorno alla teoria soggettiva e dinamica dei prezzi, viene elaborato e
sviluppato il nucleo della teoria austriaca del capitale.
Accanto allo sviluppo della teoria del capitale, Böhm-Bawerk condusse una
critica demolitrice delle preesistenti teorie riguardanti la nascita dell’interesse.
Particolarmente incisiva fu la sua analisi critica della concezione marxiana dello
sfruttamento e di tutte quelle teorie le quali ritengono che l’interesse trovi la propria
origine nella produttività marginale del capitale. Böhm-Bawerk espose, inoltre, una
nuova teoria sull’origine dell’interesse basata sulla realtà soggettiva della “preferenza
temporale”, la cui origine può essere ricondotta ai contributi teorici del tomista
Lessines, successivamente riscoperti da Martín de Azpilcueta alla fine del XVI secolo.
Anche se lo studio di Böhm-Bawerk contiene alcune imprecisioni nella spiegazione
dell’interesse, e se alla fine (quasi senza rendersene conto) cade parzialmente nella rete
della teoria della produttività marginale del capitale (da lui stesso così brillantemente
criticata nel primo volume della sua opera), gli va tuttavia riconosciuto il merito di
aver posto le basi di una teoria del capitale e dell’interesse che in seguito sarebbe stata
depurata dalle imperfezioni e portata fino alle sue ultime conseguenze teoriche da
autori quali Frank A. Fetter (FETTER, 1977) e Mises (MISES, 1949: 460ss).

4.2. Le tappe dell’azione umana

Possiamo definire l’azione umana come un comportamento o condotta deliberata


(MISES, 1949: 11). Come si è già visto, l’uomo, agendo, vuole raggiungere certi
determinati fini per lui importanti utilizzando una serie di mezzi che considera
adeguati per il loro perseguimento. Valore e utilità sono concetti che hanno
un’accezione psichica, proiettati dall’attore in base ai fini e ai mezzi. I mezzi per
definizione sono scarsi perché, se non fossero considerati scarsi da parte dell’attore in

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base ai fini che vuole raggiungere, non sarebbero nemmeno presi in considerazione.
Fini e mezzi, quindi, non sono “dati”, ma sono semmai il risultato dell’essenziale
attività imprenditoriale dell’essere umano che consiste (come si è visto) nel creare,
scoprire, o semplicemente rendersi conto di quali siano i fini ed i mezzi rilevanti in
ogni circostanza della propria vita. Dopo che l’attore crede di aver scoperto i fini
importanti da raggiungere, si fa un’idea dei mezzi a sua disposizione ed incorpora gli
uni agli altri, quasi sempre tacitamente, in un piano di attuazione che decide di
realizzare come risultato di un atto di volontà.
Il piano è quindi la rappresentazione mentale prospettica compiuta dall’attore
riguardo alle distinte tappe, elementi e possibili circostanze, che possano essere messe
in relazione con l’azione. Ogni azione umana si sviluppa nel tempo, inteso non in senso
deterministico o newtoniano, cioè meramente fisico od analogico, ma nella sua
concezione soggettiva, vale a dire così come il tempo è sentito e sperimentato
direttamente dall’attore nel contesto della propria azione (O’DRISCOLL e RIZZO, 1996:
52-70). Il tempo è pertanto una categoria della scienza economica inseparabile dal
concetto di azione umana. Non è perciò possibile concepire un’azione che non duri nel
tempo, o che non si svolga nel tempo. Allo stesso modo, l’attore percepisce il
trascorrere del tempo in conformità al perseguimento delle tappe dell’azione. L’azione
umana volta sempre ad ottenere un obiettivo, o porre termine ad un malessere,
inevitabilmente utilizza del tempo nel senso che esige il conseguimento di una serie di
tappe successive. Possiamo pertanto concludere che ciò che separa l’attore dal
conseguimento del fine desiderato è un periodo di tempo inteso come la serie
successiva di tappe che costituiscono il suo processo d’azione.
Si può così affermare che, dal punto di vista prospettico e soggettivo dell’attore,
quanto maggiore è il tempo necessario per il raggiungimento di un obiettivo (ossia la
complessità ed il numero di tappe successive che lo costituiscono), tanto maggiore sarà
il valore che il suo perseguimento ha per l’attore. La dimostrazione logica di questa
legge economica, secondo la quale gli individui tendono ad ottenere fini di maggior
valore in conformità alla crescente durata temporale necessaria al suo perseguimento,
è molto facile da comprendere. Se infatti non si attribuisse maggior valore ai risultati
delle azioni che hanno una più ampia estensione temporale, esse non sarebbero
neanche prese in considerazione dall’attore, il quale opterebbe per azioni
temporalmente più brevi. Pertanto, ciò che separa l’attore dal fine che vuole
raggiungere è esattamente una determinata durata temporale (intesa come l’insieme di
tappe del processo d’azione), per cui risulta evidente che l’essere umano, a parità di
circostanze, pretenderà di ottenere i proprî fini nel minor tempo possibile e sarà
disposto a posporre nel tempo il perseguimento degli stessi solo se convinto di poter
ottenere, in tal modo, fini di maggior valore.
Quasi senza rendercene conto, nel paragrafo precedente abbiamo introdotto la
categoria logica della “preferenza temporale” la quale indica che, ceteris paribus,
l’attore preferisce soddisfare le sue necessità o raggiungere i suoi obiettivi quanto
prima. Detto in altri termini, tra due obiettivi che per l’attore possiedono lo stesso
valore, egli preferirà quello disponibile che gli appare più vicino nel tempo. O, ancor
più brevemente, di fronte a circostanze uguali, i “beni presenti” vengono preferiti

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sempre ai “beni futuri”. Questa legge della “preferenza temporale” altro non è se non
una forma differente di esprimere il principio essenziale secondo il quale, ciascun
attore, nel suo agire, vuole ottenere i proprî fini nel minor tempo possibile. La
“preferenza temporale”, non è quindi una categoria psicologica o fisiologica, ma
un’esigenza della struttura logica che appartiene ad ogni essere umano. Per questo, sia
la legge di tendenza illustrata precedentemente (e secondo la quale gli attori
intraprendono delle azioni che hanno una maggiore durata nel tempo per la
convinzione di conseguire obiettivi di maggior valore), sia la legge di “preferenza
temporale” (anch’essa precedentemente enunciata, in base alla quale, a parità di
circostanze, si preferiscono sempre i beni più vicini nel tempo), non sono altro che due
forme distinte per esprimere la stessa realtà concettuale.

4.3. La teoria del capitale

Chiamiamo beni di capitale le tappe intermedie di ogni processo di azione,


soggettivamente considerate come tali dall’attore. “Bene di capitale” è quindi ciascuna
tappa intermedia, soggettivamente considerata come tale, nella quale prende forma e
si realizza ogni processo produttivo intrapreso dall’attore. Pertanto i beni di capitale
sono sempre da intendere come interni ad un processo teleologico, nel quale il fine
perseguito e la prospettiva soggettiva dell’attore, in relazione con le tappe necessarie
per ottenerlo, costituiscono gli elementi essenziali (KIRZNER, 1996: 13-122).
I beni di capitale corrispondono quindi ai “beni economici di ordine superiore”
teorizzati da Menger o, se si preferisce, ai fattori di produzione che si incorporano in
ciascuna delle tappe intermedie di un concreto processo di azione. Inoltre, i beni di
capitale si presentano come l’insieme di tre elementi essenziali: risorse naturali, lavoro
e tempo, combinati all’interno di un processo di azione imprenditoriale creato ed
intrapreso dall’uomo.
La conditio sine qua non per produrre beni di capitale è il risparmio, inteso come
rinuncia al consumo immediato. L’attore potrà infatti ottenere le successive tappe
intermedie di un processo di azione ogni volta più lontane nel tempo se rinuncia
preventivamente a soddisfare i bisogni umani più vicini nel tempo (consumo). Al fine
di spiegare questo importante aspetto si illustrerà in primo luogo, seguendo Böhm-
Bawerk, il processo di risparmio e d’investimento in beni di capitale realizzati
isolatamente da un attore individuale, ad esempio Robinson Crusoe nella sua isola
(BÖHM-BAWERK, 1921, II).
Supponiamo che Robinson Crusoe sia appena arrivato nella sua isola e che,
come unico mezzo di sussistenza, si dedichi alla raccolta di more, colte direttamente e
manualmente dagli arbusti. Dedicando il suo sforzo giornaliero alla raccolta di more,
Crusoe raccoglie frutti in tale misura da avere una quantità maggiore rispetto al
fabbisogno quotidiano. Trascorse alcune settimane utilizzando questo sistema, egli
scopre, ‘imprenditorialmente’, che, utilizzando un bastone di alcuni metri, potrebbe
arrivare più in alto, colpire gli arbusti con forza ed ottenere le more di cui ha bisogno
con più abbondanza e rapidità. Egli calcola, quindi, che per cercare l’albero dal quale

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prendere il bastone, ripulirlo dai rami, dalle foglie e dalle imperfezioni, può impiegare
cinque giorni interi durante i quali sarà costretto a interrompere la raccolta di more.
Deve pertanto, se vuole fabbricare il bastone, diminuire per alcuni giorni il consumo
di more ed accumulare quelle già colte in una cesta in quantità sufficiente per
sopravvivere durante i cinque giorni previsti per la fabbricazione del bastone. Dopo
aver pianificato la propria azione, Robinson Crusoe decide di mettere in pratica il suo
progetto, di cui fa parte anche il risparmio di una parte delle more che raccoglie a mano
ogni giorno e la riduzione del loro consumo. Chiaramente ciò presuppone un sacrificio
ineludibile; ed egli è però convinto che verrà ampiamente compensato dal
raggiungimento del fine. Per dieci giorni decide, così, di ridurre il proprio consumo
(vale a dire di risparmiare), accumulando una quantità di more che gli permetterà di
nutrirsi durante il periodo in cui deve realizzare il bastone.
Con questo esempio, Böhm-Bawerk mostra che ogni processo di investimento
in beni di capitale esige un risparmio iniziale, vale a dire, una riduzione del consumo
al di sotto del livello potenziale. Non appena Robinson Crusoe ha messo da parte una
sufficiente quantità di more, allora per cinque giorni si potrà dedicare alla ricerca del
ramo dal quale realizzerà il bastone. Come si nutre durante i cinque giorni che
trascorre alla preparazione del bastone? Molto semplicemente mangiando le more che
aveva raccolto e messo da parte durante i giorni precedenti alla preparazione del
bastone. Così, se i calcoli di Robinson Crusoe fossero corretti, trascorsi i cinque giorni
avrà a sua disposizione il suo bastone (bene di capitale), che altro non è se non una
tappa intermedia che temporalmente si trova più lontano dai processi di produzione
immediata di more intrapresi fino a quel momento.
Robinson Crusoe deve cercare di coordinare nel miglior modo possibile il suo
comportamento presente in relazione al suo prevedibile comportamento futuro. In pratica non
deve intraprendere dei processi eccessivamente lunghi in relazione al risparmio
realizzato. Sarebbe infatti tragico se a metà del processo di elaborazione di un bene di
capitale rimanesse senza more (vale a dire se avesse consumato tutto ciò che aveva
risparmiato), senza aver raggiunto il fine che si era proposto. Così come deve evitare
un risparmio eccessivo in base alle necessità di investimento che avrà in seguito, e che
sacrificherebbe senza necessità il suo consumo immediato. La stima soggettiva delle
priorità temporali è quindi ciò che permette a Robinson Crusoe di coordinare o
adeguare il suo comportamento presente in relazione alle necessità e ai suoi
comportamenti futuri. Non essendo la “preferenza temporale” assoluta, egli può
sacrificare parte del consumo presente per alcuni giorni per rendere così possibile la
realizzazione del bastone. Il fatto che la sua “preferenza temporale” non sia nulla
spiega perché che egli dedichi il suo sforzo ad un bene di capitale che può ottenere
solamente in un periodo di tempo limitato e a costo di un sacrificio (risparmio)
realizzato in pochi giorni. In ogni caso, è opportuno comprendere che le risorse reali
risparmiate, vale a dire le more depositate nella cesta, permettono a Robinson Crusoe
di sopravvivere durante il periodo di tempo necessario ad elaborare il bene di capitale,
anche senza raccogliere more. Successivamente, a poco a poco, alcuni beni di capitale
(le more risparmiate) vengono sostituiti da altri (il bastone di legno); man mano che
Robinson Crusoe mescola il proprio lavoro con le risorse naturali tramite un processo

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imprenditoriale che implica un tempo determinato che egli può affrontare grazie ai
beni di consumo inizialmente risparmiati.
Nell’economia moderna, dove sono presenti numerosi agenti economici che
sviluppano simultaneamente funzioni distinte, si definisce capitalista l’agente
economico la cui funzione consiste precisamente nel risparmiare, ossia nel consumare
meno di ciò che crea o che produce, mettendo a disposizione dei lavoratori, durante la
realizzazione del processo produttivo nel quale essi stessi intervengono, i beni di
consumo di cui hanno bisogno per mantenersi. Robinson Crusoe, quindi, agisce da
capitalista risparmiando more che gli permettono il sostentamento durante il periodo
in cui lavorerà alla realizzazione del bastone. Il capitalista, pertanto, risparmiando,
libera risorse (beni di consumo) grazie alle quali possono mantenersi i lavoratori che si
dedicano alle tappe produttive più lontane dal consumo finale, ossia, alla produzione
di beni di capitale.
Diversamente da ciò che avviene nel caso di Robinson Crusoe, la struttura dei
processi produttivi dell’economia moderna è complicatissima e, dal punto di vista
temporale, enormemente lunga. Essa è costituita da una molteplicità di tappe connesse
fra di loro e divise in numerosi sottoprocessi, che si sviluppano negli innumerevoli
progetti di azione continuamente intrapresi dagli uomini.
In questo modo, ad esempio, la struttura produttiva del processo di produzione
di un’automobile si può considerare costituita da centinaia o da migliaia di tappe che
esigono un periodo di tempo molto lungo (anche di vari anni). Tali tappe
comprendono vari momenti: da quello in cui si concepisce il disegno del veicolo
(tappa più lontana dal consumo finale), l’ordine ai fornitori dei vari materiali, le
differenti parti del montaggio, l’ordine dei vari pezzi del motore e di tutti gli accessori,
fino alle tappe più prossime al consumo come il trasporto e la distribuzione ai
concessionari, lo sviluppo di campagne pubblicitarie e l’esposizione e la vendita al
pubblico (SKOUSEN, 1990).
Chiaramente, la differenza tra il Robinson Crusoe ‘ricco’ (con il bastone) ed il
Robinson Crusoe ‘povero’ (senza il bastone), stava nel fatto che il primo disponeva di
un bene di capitale ottenuto grazie ad un risparmio previo. La differenza tra le società
ricche e quelle povere non sta evidentemente nel fatto che le prime dedichino uno
sforzo maggiore al lavoro, né che dispongano di maggiori conoscenze tecnologiche,
ma essenzialmente nel fatto che le nazioni ricche possiedono un insieme di beni di capitale
imprenditorialmente ben investiti, comprendente macchinari, utensili, computers, programmi
informatici, stabilimenti, prodotti semilavorati, etc., il quale è reso possibile dal risparmio dei
loro cittadini. Tuttavia, i beni di capitale che costituiscono il complesso intreccio della
struttura produttiva reale di una moderna economia non sono perpetui, ma sono
transitori nel senso che si consumano fisicamente durante il processo produttivo
oppure divengono obsoleti. L’agente economico, pertanto, se intende mantenere
intatto il proprio stock di beni di capitale, deve far fronte alla svalutazione degli stessi
e, se desidera incrementare il numero delle tappe, allungare i processi e renderli più
produttivi, sarà utile che accumuli risparmio in un importo superiore rispetto al
minimo necessario per far fronte alla ristretta quota di ammortamento, come
espressione contabile della svalutazione dei suoi beni di capitale.

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Inoltre, come regola generale, fondamentale nella teoria austriaca dei cicli
economici, si può affermare che i beni di capitale sono difficilmente riconvertibili e che
più sono vicini alla tappa finale di consumo, più difficilmente sono riconvertibili. Ciò
significa che, se cambiano le circostanze, se l’attore muta la sua opinione, o se si rende
conto di avere commesso un errore, può accadere che i beni di capitale creati fino a
quel momento diventino del tutto inservibili o utilizzabili solo dopo una costosa
riconversione.
Siamo ora in grado di introdurre il concetto di capitale, che dal punto di vista
economico è diverso dal concetto di “beni di capitale”. Si può definire il concetto di
capitale come il valore in base ai prezzi di mercato dei beni di capitale, valore stimato dagli
individui che comprano e che vendono beni di capitale in un mercato libero. Il capitale
è, pertanto, un concetto astratto o strumento di calcolo economico; vale a dire, una
stima od un giudizio soggettivo sul valore di mercato che gli imprenditori
attribuiscono ai beni di capitale ed in funzione del quale costantemente li comprano e
li vendono cercando di ottenere in ogni transazione benefici economici. Se non fosse
per i beni di mercato e per la valutazione soggettiva del valore capitale dei beni che
integrano le tappe intermedie dei processi produttivi, in un società moderna sarebbe
impossibile stimare o calcolare se il valore finale dei beni che si vuole produrre con i
beni di capitale compensi o meno il costo dei processi produttivi. E non sarebbe
nemmeno possibile distribuire in modo coordinato gli sforzi degli individui che
intervengono nei diversi processi.
Pertanto, in un’economia socialista, nella quale non esistano né libero mercato,
né prezzi di mercato, pur essendoci beni di capitale, non è possibile pensare
all’esistenza del capitale. L’assenza di un libero mercato e l’intervento coattivo dello
stato sull’economia, che costituiscono l’essenza del socialismo, rendono impossibile,
anche se in misura diversa, l’esercizio dell’imprenditorialità nell’ambito dei beni di
capitale e, pertanto, tendono a generare squilibri sistematici di tipo intertemporale.
Precisamente in ciò consiste l’essenza del teorema dell’impossibilità del calcolo
economico socialista sviluppato dagli esponenti della Scuola Austriaca: senza la libertà
di esercitare la funzione imprenditoriale e senza liberi mercati per i beni di capitale e il
denaro, non è infatti possibile effettuare il libero calcolo economico relativo
all’estensione orizzontale e verticale delle varie tappe del processo produttivo. Ciò
che, a sua volta, dà luogo ad un comportamento generalmente scoordinato, che
provoca degli squilibri nella società, impedendone uno sviluppo armonioso. Nei
processi imprenditoriali di coordinazione intertemporale assume così un ruolo
essenziale il cosiddetto prezzo di mercato: quello dei beni presenti in relazione ai beni
futuri (denominato più comunemente tassa o tipo di interesse) che regola la relazione tra
il consumo, il risparmio e l’investimento nelle società moderne.

4.4. Il tasso di interesse

Come si è già avuto modo di vedere, l’uomo, nella sua scala di valori e a parità
di circostanze, attribuisce sempre una maggiore importanza ai beni presenti rispetto a

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quelli futuri. Tuttavia, l’intensità psichica relativa a tale differenza di valutazione
soggettiva varia da un individuo all’altro e può variare anche nello stesso individuo in
base alle diverse circostanze della sua vita. Questa differente intensità psichica della
valutazione soggettiva dei beni presenti in relazione ai beni futuri, raccolta nella scala
di valori di ciascun individuo, dà luogo ad un mercato con numerosi agenti economici
e alla possibilità di effettuare scambi mutuamente vantaggiosi.
Le persone che possiedono una bassa “preferenza temporale”, saranno disposte
a rinunciare a beni presenti per ottenere beni futuri che possiedono un valore non
molto maggiore, ed effettueranno gli scambi consegnando i loro beni presenti a coloro
che possiedono una disponibilità temporale più alta e, pertanto, attribuiranno una
maggiore intensità relativa al presente rispetto al futuro. Come conseguenza
dell’attivismo e della perspicacia della funzione imprenditoriale, nella società si forma
così un prezzo di mercato dei beni presenti in relazione ai beni futuri. Pertanto, dal
punto di vista della Scuola Austriaca il tasso o tipo d’interesse, è il prezzo di mercato dei
beni presenti in funzione dei beni futuri.
Il tipo di interesse, è allora il prezzo che si determina in un mercato in cui gli
offerenti o venditori di beni presenti sono proprio i risparmiatori, ossia quelle persone
maggiormente disposte a rinunciare al consumo immediato per acquisire nel futuro
beni di maggior valore. I compratori o richiedenti di beni presenti sono coloro che
consumano beni e servizi immediati (siano lavoratori, proprietari di risorse naturali, di
beni di capitale o di una loro qualsiasi combinazione). Il mercato di beni presenti e
futuri, in cui si determina il prezzo che si è denominato tipo di interesse, è così
costituito dall’intera struttura produttiva della società, nella quale i risparmiatori o
capitalisti rinunciano al consumo immediato offrendo beni presenti ai proprietari dei
fattori originari di produzione (lavoratori e proprietari di risorse naturali) ed ai
proprietari dei beni di capitale. In questo modo, essi ottengono in cambio la proprietà
intera di un valore di beni di consumo che si suppone maggiore quando, in futuro, la
produzione degli stessi sarà terminata. Eliminando l’effetto positivo (o negativo) dei
benefici (o delle perdite) imprenditoriali puri, questa differenza di valore tende a
coincidere precisamente con il tipo di interesse.
Gli economisti Austriaci sottolineano che il cosiddetto mercato creditizio, nel
quale si possono ottenere prestiti pagando il corrispondente tasso di interesse,
rappresenta solo una parte –e neppure tanto importante– del mercato generale, in cui
si scambiano i beni presenti con i beni futuri, e che risulta quindi costituito da tutta la
struttura produttiva della società in cui i proprietari dei fattori originali di produzione
e dei beni di capitale agiscono come richiedenti di beni presenti, mentre i risparmiatori
agiscono come offerenti degli stessi. Pertanto, il mercato dei prestiti a breve, medio e
lungo termine è soltanto un sottoinsieme di un mercato molto più ampio in cui si
scambiano beni presenti con i beni futuri, rispetto al quale esso svolge un ruolo
meramente sussidiario e dipendente. Tutto ciò a prescindere dal fatto che, dal punto di
vista più comune, il mercato creditizio sia il più visibile ed evidente.
In altre parole, nel mondo esterno, gli unici importi direttamente osservabili
sono quelli che potremmo denominare tipo di interesse lordo o di mercato (coincidente
con il tipo di interesse del mercato creditizio) ed i benefici contabili lordi dell’attività

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produttiva. Il primo è costituito dal tipo di interesse così come prima definito
(denominato a volte tipo di interesse originario o naturale), più il premio di rischio che
corrisponde all’operazione in questione, più o meno un premio per l’inflazione o
deflazione sperata, ossia per la diminuzione o l’incremento del potere d’acquisto
dell’unità monetaria con la quale si effettuano e calcolano le transazioni fra beni
presenti e futuri.
In secondo luogo, nel mercato sono direttamente osservabili i benefici contabili
lordi che si ottengono nell’attività produttiva specifica attraverso ogni tappa del
processo di produzione, e che tendono ad eguagliarsi al tipo di interesse lordo o di
mercato (cosi come è stato definito nel paragrafo precedente) più o meno i benefici o
perdite imprenditoriali puri. Così come in ogni mercato i benefici e le perdite
imprenditoriali tendono a scomparire come risultato della concorrenza tra
imprenditori, anche i benefici contabili di ogni attività produttiva per periodo di
tempo tendono ad assimilarsi al tipo di interesse lordo di mercato. Quindi, è possibile
che un’impresa, pur ottenendo benefici contabili, incorra di fatto in perdite
imprenditoriali qualora questi benefici contabili non raggiungano l’importo necessario
per superare la componente implicita del tipo di interesse lordo di mercato applicato
alle risorse investite dai capitalisti nei loro affari durante l’esercizio economico.
In un’economia moderna, l’equilibrio tra i comportamenti presenti e futuri è
possibile grazie alla capacità esercitata dalla funzione imprenditoriale nel mercato,
all’interno del quale si scambiano beni presenti per beni futuri e nel quale il tipo di
interesse si stabilisce come prezzo di mercato degli uni in funzione degli altri. In
questo modo, quanto maggiore è il risparmio, vale a dire quanti più beni presenti si
vendono od offrono a parità di circostanze, tanto minore sarà il suo prezzo in termini
di beni futuri e, di conseguenza sarà minore anche il tipo di interesse di mercato. Ciò
avrà l’effetto di indicare agli imprenditori l’esistenza di una maggiore disponibilità di
beni presenti per aumentare la durata e la complessità delle tappe del processo
produttivo rendendole maggiormente redditizie. Al contrario, quanto minore sarà il
risparmio, vale a dire quanto meno gli agenti economici saranno disposti a rinunciare
al consumo immediato di beni presenti, tanto maggiore sarà il tipo di interesse di
mercato. Quindi, un elevato tipo di interesse di mercato indica che il risparmio è
scarso in termini relativi; esso si configura pertanto come un segnale imprescindibile
che gli imprenditori devono tenere presente per non aumentare indebitamente le
distinte tappe del processo produttivo, generando pericolosi squilibri per un sano ed
armonioso sviluppo della società. Insomma, il tipo di interesse indica agli
imprenditori quali tappe produttive, o progetti di investimento, devono essere
intrapresi e quali no per mantenere coordinati i comportamenti dei risparmiatori,
consumatori ed investitori, evitando che le diverse tappe produttive si accorcino o si
espandano indebitamente.
In ogni economia moderna il tipo di interesse, come prezzo di mercato o tassa
sociale di “preferenza temporale”, svolge così un ruolo chiave nel coordinare il
comportamento di consumatori, risparmiatori e produttori. Più precisamente, la teoria
austriaca delle crisi economiche, così come verrà sviluppata da Mises e da Hayek, si
basa proprio sull’analisi teorica degli effetti che la manipolazione monetaria del tipo di

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interesse assume nel confondere il comportamento degli agenti economici,
distorcendo gravemente la struttura produttiva della società e rendendo inevitabile il
doloroso riequilibrio o riconversione della stessa in forma di recessione economica.

4.5. Böhm-Bawerk contro Marshall

Oltre all’alleanza congiunturale che si realizzò fra i teorici austriaci e quelli


neoclassici durante il Methodenstreit, negli ultimi anni del XIX ed i primi anni del XX
secolo si svolse anche una serie di dibattiti di grande interesse che ebbero come
protagonista Böhm-Bawerk.
La prima di queste polemiche è quella con Marshall. Böhm-Bawerk rimprovera
a Marshall di aver impedito la piena ricezione nel mondo anglosassone della
rivoluzione soggettivista mengeriana e di aver tentato di riabilitare il vecchio
oggettivismo di Ricardo –per lo meno per quanto riguarda il problema dell’offerta–
spiegando la determinazione dei prezzi mediante funzioni di offerta e di domanda.
Marshall utilizzò effettivamente la famosa metafora delle forbici che, dotate di due
bracci (l’offerta e la domanda), insieme determinerebbero i prezzi (di equilibrio) nel
mercato. In questo modo, così come si ammetteva che la domanda fosse determinata
principalmente da considerazioni soggettive di utilità, il lato dell’offerta, secondo
Marshall, veniva determinato soprattutto da considerazioni “oggettive” relative al
costo storico (vale a dire ‘dato’ e conosciuto) di produzione.
Böhm-Bawerk reagì energicamente alla tesi di Marshall, obiettando che, in
ultima istanza, egli finiva per ignorare che anche il costo è un valore soggettivo (ossia
una stima soggettiva dei fini ai quali si rinuncia) e che i costi monetari altro non sono
se non i prezzi di mercato dei fattori di produzione determinati dalle valutazioni di
utilità che si riferiscono a tutti i beni di consumo alternativi che si sarebbero potuti
produrre per loro tramite. In questo modo diventava incontrovertibile che non
soltanto una, ma le due parti delle famose forbici di Alfred Marshall, erano basate su
considerazioni soggettive di utilità (BÖHM-BAWERK, 1921a: 162-93; e 1894: 185-230).

4.6. Böhm-Bawerk contro Marx

Di grande importanza fu soprattutto la critica demolitrice che Böhm-Bawerk


rivolse nel primo volume di Capitale e interesse, alla teoria marxiana dello sfruttamento
e del “plusvalore” (BÖHM-BAWERK, 1987: 101-201).
In primo luogo Böhm-Bawerk contesta ai marxisti il fatto che non è certo che
tutti i beni economici siano il risultato del fattore lavoro. Da una parte, infatti, esistono
beni della natura che, essendo scarsi ed al tempo stesso utili per raggiungere un
determinato fine, sono ugualmente ‘beni economici’ pur non incorporando alcun
lavoro. Dall’altra parte, è evidente che due beni, pur incorporando un’identica
quantità di lavoro, qualora il periodo di tempo che implica la loro produzione sia
differente, possono avere un valore molto differente all’interno del mercato.

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In secondo luogo, il valore dei beni è soggettivo poiché, come si è già avuto
modo di vedere, esso corrisponde alla stima che l’uomo compie sui mezzi reputati utili
per la realizzazione di un determinato fine. Per questo motivo, anche i beni che hanno
assorbito una grande quantità di lavoro possono avere un valore estremamente
ridotto, o addirittura non avere alcun valore sul mercato, se successivamente l’attore si
rende conto che sono carenti di utilità per il raggiungimento di un qualunque fine.
In terzo luogo, i teorici del “valore-lavoro” cadono in un’insolubile
contraddizione e in un vizioso ragionamento circolare. Infatti, se il lavoro determina il
valore dei beni economici ed è, a sua volta, determinato dal valore dei beni economici
necessari per riprodurlo e per mantenere la capacità produttiva del lavoratore, si
giunge ad un ragionamento circolare senza mai riuscire a spiegare che cosa realmente
determini, in ultima istanza, il valore.
In quarto luogo, secondo Böhm-Bawerk, i difensori della teoria dello
sfruttamento ignorano la legge della “preferenza temporale” e, di conseguenza, la
categoria logica secondo la quale, a parità di circostanze, i beni presenti hanno sempre
un valore superiore rispetto a quelli futuri. Risultato di tale errore è la pretesa che il
lavoratore venga pagato più di ciò che realmente produce, argomentando che egli
debba essere ricompensato per un lavoro il quale, invece, potrà essere valutato
soltanto dopo un periodo di tempo più o meno lungo. Restano quindi due opzioni: o i
lavoratori decidono di aspettare la durata del processo produttivo per ottenere l’intera
proprietà del prodotto finale (come ad esempio le cooperative), o possono contrattare
una sorta di compenso esterno; nel qual caso, i lavoratori riceveranno anticipatamente
il valore, scontato dal tipo di interesse, del valore finale del prodotto. Ma, voler pagare
subito ai lavoratori l’intero valore di un prodotto che verrà terminato in un futuro
lontano, è chiaramente ingiusto; significherebbe infatti pagare ai lavoratori un valore
di gran lunga superiore di quello da loro realmente prodotto.
Infine Böhm-Bawerk, scrisse un articolo dedicato a mettere in evidenza le
inconsistenze logiche e le contraddizioni nelle quali era caduto Marx quando, nel III
volume del Capitale, cercò di risolvere gli errori e le contraddizioni della teoria dello
sfruttamento così come l’aveva affrontata nel I volume della stessa opera (BÖHM-
BAWERK, 1896: 85-205).

4.7. Böhm-Bawerk contro John Bates Clark

La Scuola Neoclassica si richiama prevalentemente ad una tradizione di


pensiero che è precedente alla rivoluzione soggettivista e che considera un sistema
produttivo –in cui i diversi fattori di produzione danno vita, in modo omogeneo ed
orizzontale, ai beni e servizi di consumo– senza tenere minimamente conto della loro
evoluzione nel tempo e nello spazio in una struttura di tappe produttive di natura
temporale. Tale visione statica fu accolta e portata fino alle estreme conseguenze da
John Bates Clark (1847-1938), docente di economia presso la Columbia University di
New York, la cui energica reazione antisoggettivista nella teoria del capitale e

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dell’interesse risulta ancora oggi la base sulla quale poggia l’intero edificio
neoclassico-monetarista.
Secondo Clark, infatti, la produzione ed il consumo sono simultanei: nel
processo produttivo non esistono tappe temporali, né la necessità di attendere che i
risultati corrispondano ai processi di produzione. In questa prospettiva, pertanto, il
capitale è un fondo permanente o perpetuo che in maniera “automatica” genera
rendimenti sotto forma di interesse. Per Clark, quindi, maggiore è il fondo sociale che
costituisce il capitale, minore sarà l’interesse, ed esso non è toccato minimamente dal
fenomeno della “preferenza temporale” (CLARK, 1893: 302-315; 1895: 257-278; 1907).
Come si avrà quindi modo di vedere nel capitolo dedicato a Hayek, la concezione di
Clark, analoga a quella seguita da Frank H. Knight, George J. Stigler, Friedman e dal
resto dei teorici della Scuola di Chicago, si differenzia significativamente da quella
della Scuola Austriaca.
Infatti, nella concezione del processo produttivo di Clark non è difficile scorgere
la trasposizione nel campo della teoria del capitale della concezione dell’equilibrio
generale di Walras. Come noto, Walras sviluppò un modello di economia in equilibrio
generale descritto da un sistema di equazioni simultanee col quale si pretende di
spiegare la formazione dei prezzi di mercato dei differenti beni e servizi. Secondo
l’ottica ‘austriaca’, Walras commette l’errore di porre in relazione, all’interno di un
sistema di equazioni simultanee, grandezze (variabili e parametri) che di fatto non
sono tali poiché si succedono in modo sequenziale nel tempo in conformità all’avanzare
del processo produttivo mosso dall’intervento degli agenti che partecipano al sistema
economico. Il modello di equilibrio generale di Walras è quindi un modello
strettamente statico, che mette in relazione tra loro grandezze eterogenee dal punto di
vista temporale e che, perciò, non tenendo conto del trascorrere del tempo, si limita a
descrivere in modo sincronizzato interrelazioni reciproche tra variabili e parametri
differenti che nella realtà non sono mai simultanei.
Logicamente, è impossibile spiegare i processi economici reali avvalendosi di
una concezione dell’economia carente di dimensione temporale e nella quale lo studio
della generazione sequenziale dei processi di mercato brilla per la propria assenza.
Sorprende, tuttavia, che una teoria come quella definita da Clark sia stata quella finora
più seguita nella scienza economica e sia diventata tanto importante da predominare
nella maggior parte dei libri di testo. In quasi tutti i manuali, infatti, si inizia
spiegando il cosiddetto modello di “flusso circolare della rendita”, con cui si descrive
l’interdipendenza fra la produzione, il consumo e gli scambi tra i diversi agenti
economici (economie domestiche, imprese, etc.) astraendo completamente dal ruolo
che gioca il tempo nel corso degli avvenimenti economici. In questo modo si suppone
infatti che tutto accada nello stesso momento. Si tratta di una supposizione
“semplificatrice”, falsa e carente di fondamento, la quale, oltre ad impedire una
risposta ai problemi rilevanti dell’economia reale, costituisce un ostacolo quasi
insormontabile per l’identificazione e la corretta analisi degli stessi da parte degli
studiosi della scienza economica.
Böhm-Bawerk ebbe una reazione immediata di fronte alla posizione
oggettivista di Clark e della sua scuola. Definendone mitico e mitologico il concetto del

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capitale, egli mise in evidenza come ciascun processo produttivo sia portato a termine
non in quanto conseguenza della partecipazione di un misterioso fondo omogeneo,
bensì in quanto risultato della cooperazione di beni di capitale concreti che devono
essere sempre concepiti antecedentemente e prodotti, selezionati e combinati dagli
imprenditori all’interno di un processo economico che si svolge in un determinato
arco di tempo. Böhm-Bawerk aggiunse inoltre che secondo Clark il capitale altro non è
che una sorta di value jelly, o concetto fittizio, avvertendo con grande premonizione
che il suo utilizzo avrebbe dato luogo ad errori fatali nello sviluppo futuro della teoria
economica. Con grande perspicacia, l’economista austriaco non mancò di segnalare
che il prevalere della visione statica e circolare di Clark avrebbe portato all’inevitabile
riproporsi delle dottrine del “sottoconsumo”, da tempo confutate dagli economisti.
Ciò che, di fatto, accadde quando comparvero John Maynard Keynes e la sua scuola
(BÖHM-BAWERK, 1895: 113-131).
Böhm-Bawerk considera inoltre erronee le teorie, come quella proposta da
Clark, che fondano l’interesse sulla produttività marginale del capitale. A suo avviso,
infatti, quanti sostengono che l’interesse è determinato dalla produttività marginale
del capitale non sono in grado di spiegare, tra le altre cose, perché la concorrenza tra i
vari imprenditori non impedisca al valore presente dei beni di capitale nel mercato di
differenziarsi rispetto a quello del suo corrispondente prodotto sperato. Ciò
porterebbe alla mancanza di un qualunque differenziale di valore tra costi e prodotto,
durante il periodo di produzione. Di conseguenza, come afferma Böhm-Bawerk, le
teorie basate sulla produttività altro non sono se non un residuo della concezione
oggettivista del valore, secondo la quale esso sarebbe determinato dal costo storico
occorso nel processo produttivo dei differenti beni e servizi. Tuttavia, come è noto fin
da Luis Saravia de la Calle, in realtà sono i prezzi a determinare i costi e non il
contrario. Si hanno dei costi perché gli agenti economici pensano che i beni di
consumo producano un valore superiore ai costi sostenuti per produrli. La stessa cosa
accade con la produttività marginale di ciascun bene di capitale che, in ultima istanza,
è determinata dal valore futuro dei beni e servizi di consumo che lo stesso valore aiuta
a produrre e che, attraverso un processo di sconto, dà luogo al valore attuale di
mercato del bene di capitale in questione (il quale non ha niente a che fare con il suo
costo di produzione).
L’interesse, come si è avuto modo di vedere, deve pertanto avere una genesi ed
un’esistenza autonome rispetto ai beni di capitale che radica nelle valutazioni
soggettive di “preferenza temporale” degli individui. Si può facilmente capire perché i
teorici della scuola di Clark-Knight abbiano commesso l’errore di ritenere che il tipo di
interesse sia determinato dalla produttività marginale del capitale, osservando,
semplicemente, che interesse e produttività marginale del capitale sono uguali se si
danno le seguenti circostanze: a) un contesto di equilibrio perfetto nel quale non si
producano cambiamenti; b) una concezione del capitale inteso come mitico fondo che
si auto-riproduce da solo, senza la necessità di prendere decisioni imprenditoriali
specifiche riguardo al proprio ammortamento; c) una concezione della produzione
intesa come “processo” istantaneo che non comporta l’utilizzo di tempo. Ponendo
queste tre circostanze tanto assurde quanto lontane dalla realtà, la rendita del bene di

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capitale è sempre uguale al tipo di interesse. Si spiega, allora, perfettamente che i
teorici della concezione sincronica ed immediata del capitale si siano lasciati ingannare
dall’uguaglianza matematica fra rendita ed interesse, che si produce in quegli irreali
presupposti e da lì abbiano compiuto il salto –teoricamente inammissibile– di
giungere ad affermare che sarebbe la produttività a determinare il tipo di interesse e
non –come correttamente sostengono gli Austriaci– il contrario. Per questi la maggiore
o minore produttività marginale (vale a dire il valore della futura corrente di
rendimenti) determina soltanto il prezzo di mercato di ciascun bene di capitale che
tenderà ad eguagliarsi al valore attuale scontato (dal tipo di interesse) della suddetta
corrente di rendimenti auspicati. E, parallelamente, un aumento (o diminuzione) del
tipo di interesse (determinato dalla “preferenza temporale”) darà luogo ad una
diminuzione (o aumento) del valore attuale (prezzo di mercato) di ciascun bene di
capitale (indipendentemente dal suo costo storico di produzione), attraverso il
corrispondente processo di sconto (utilizzando il tipo di interesse) della futura
corrente di rendimenti sperati e, precisamente fino al livello in cui questa coincide con
il tipo di interesse (e la necessaria quota di ammortamento) (BÖHM-BAWERK,1921, I;
MISES, 1949: 602ss.).
Di fronte all’iperrealismo degli storicisti, Böhm-Bawerk denuncia così anche
l’ipo-realismo, o, per meglio dire, l’assoluta mancanza di realismo della
concettualizzazione statica del capitale di Clark e dei suoi seguaci. Ogni processo di
produzione implica il trascorrere del tempo e, prima di giungere alla meta finale, è
necessario passare attraverso una serie di tappe che si materializzano in un insieme
eterogeneo e variabile di beni di capitale che in nessun caso si riproducono da soli e
automaticamente, ma che si costituiscono come il risultato di azioni imprenditoriali
concrete e di una serie di decisioni che, se non si colgono, daranno luogo al consumo e
alla scomparsa dei beni di capitale esistenti.
Inoltre, come si è visto, per Böhm-Bawerk il prezzo dei beni di capitale non
viene determinato dal costo storico di produzione, bensì dalla stima scontata dal tipo
di interesse del valore della sua futura produttività; in questo modo è sempre la
produttività a seguire l’interesse (determinato dalla “preferenza temporale”) e non il
contrario.
Gli economisti neoclassici credono invece che il tipo di interesse in equilibrio si
determini simultaneamente per l’offerta e la domanda di capitale; in altre parole, che
l’offerta sia determinata da considerazioni soggettive relative alla “preferenza
temporale”, mentre la domanda sarebbe effettuata dagli imprenditori in funzione
della produttività marginale del capitale (ossia in base a considerazioni
prevalentemente oggettive). Tale punto di vista, parallelo a quello sviluppato da
Marshall per spiegare la determinazione dei prezzi nel mercato, viene rifiutato da
Böhm-Bawerk e dagli economisti austriaci, che mettono in risalto come gli
imprenditori chiedano fondi, agendo in tal modo da meri intermediari dei lavoratori e
dei proprietari dei fattori di produzione (i quali sono rispettivamente i richiedenti
finali dei beni in forma di salari e rendite) a condizione che si trasferisca agli
imprenditori la proprietà di un valore, eventualmente superiore, di beni futuri
(disponibili solamente al termine del processo produttivo).

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Per gli ‘Austriaci’, quindi, tanto l’offerta, quanto la domanda di beni di capitale,
risultano determinate da considerazioni soggettive di “preferenza temporale”.
Argomentazione, questa, che nell’ambito della determinazione del tipo di interesse,
risulta parallela a quella che Böhm-Bawerk rivolse a Marshall rimproverandogli di
voler mantenere, per quanto concerne il processo di determinazione dei prezzi, la
vecchia concezione oggettivista e Ricardiana della vecchia Scuola Classica.

4.8. Wieser e il concetto soggettivo di costo-opportunità

Un altro teorico della Scuola Austriaca è Friedrich von Wieser (1851-1926),


cognato di Böhm-Bawerk e professore prima a Praga e, poi, a Vienna. A Wieser si
devono alcuni importanti contributi, tra i quali spicca quello d’aver sviluppato la
concezione soggettivista del costo di Menger –inteso come valore soggettivo che
l’attore attribuisce ai fini ai quali rinuncia nella sua azione (concetto soggettivo di
costo di opportunità)–, così come l’espressione, da lui coniata, di “utilità marginale”
Tuttavia, le ultime ricerche hanno messo in evidenza che Wieser era, piuttosto, un
teorico influenzato dalla Scuola di Losanna più che dalla stessa Scuola Austriaca. In
effetti, Mises è giunto a scrivere che «Wieser non fu un pensatore creativo ed in
generale causò più danni che benefici. Non comprese mai il nucleo della concezione
soggettivista della Scuola Austriaca, carenza, questa, che lo portò a commettere
sciagurati errori. La sua teoria dell’imputazione è, infatti, assolutamente insostenibile.
Le sue idee riguardo al calcolo del valore giustificano la conclusione che più che un
membro della Scuola Austriaca debba essere considerato come un membro della
Scuola di Losanna, vale a dire, della scuola di Walras e di coloro che sviluppano il
concetto dell’equilibrio economico» (MISES, 1978: 38).

4.9. Il trionfo del modello di equilibrio positivistico

Fino agli anni trenta del secolo XX, il modello di equilibrio veniva utilizzato
dagli economisti prevalentemente come uno strumento di supporto intellettuale al fine
di facilitare per contrasto la teorizzazione dei processi reali di mercato. Tuttavia, negli
gli anni trenta, il concetto di equilibrio cessa di essere considerato come un mero
strumento ausiliario e, lentamente, si trasforma nell’unico oggetto di ricerca che la
maggior parte degli economisti considera rilevante e di interesse. Durante questo
periodo, per gli economisti neoclassici, il concetto di equilibrio diventa il centro focale
della ricerca e si finisce, così, per abbandonare completamente l’interesse per lo studio
dei processi dinamici di mercato. Gli economisti austriaci rimangono, in tal modo,
isolati nei loro programmi di ricerca, senza rendersi nemmeno conto dell’importante
cambiamento che si sta producendo nella corrente dominante della disciplina.
Pertanto, Hicks è giunto ad affermare che, in realtà, gli Austriaci non potevano essere
considerati una setta particolare e al di fuori della corrente principale dell’economia,
perché, al contrario, quello da loro utilizzato era stato precedentemente il paradigma

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dominante nella scienza economica, mentre quello dei primi Neoclassici (fautori
dell’equilibrio) era stato un modello assolutamente secondario (HICKS, 1973: 12).
Certamente, per molti anni, la tensione tra i diversi paradigmi di ricerca rimase
latente. Ne fu prova il caso di Vilfredo Pareto il quale, nel 1906, riconobbe il carattere
meramente ausiliare dell’equilibrio sostenendo che «la soluzione del sistema di
equazioni descrittivo dell’equilibrio nella pratica si trovava più in là della capacità di
analisi dell’equilibrio, essendo in questo caso necessario un cambiamento di ruoli,
posto che le scienze matematiche non potrebbero continuare ad aiutare l’economia
politica, ma che, al contrario sarebbe l’economia politica a venire in aiuto alle scienze
matematiche. In altri termini, anche se tutte le equazioni fossero conosciute nella
realtà, il solo procedimento per risolverle sarebbe l’osservazione della soluzione reale
che il mercato avrebbe già fornito» (PARETO, 1906: § 217).
Contemporaneamente, nella stessa opera, commentando il concetto di curva di
indifferenza introdotto da F. Y. Edgeworth, Pareto conclude che per determinare
l’equilibrio economico, il processo reale del mercato, così come lo stesso «essere
umano, possono scomparire lasciandoci come eredità la fotografia dei suoi gusti
rappresentata dalla corrispondente mappa delle curve di indifferenza» (PARETO,1906:
§ 57).
Tale tensione (o meglio contraddizione) fra il realismo e il modello di equilibrio
si manifesta in forma anche più drammatica se si considera la totalità delle opere di
Pareto il quale, come è noto, oltre ad essere un teorico dell’equilibrio generale, fu un
insigne sociologo.
A tale evoluzione del pensiero economico è legato anche il trionfo del
‘panfisicalismo’ e del monismo metodologico ispirati da Schlick, da Mach e dagli altri
positivisti del cosiddetto ‘Circolo di Vienna’, i quali reclamavano l’applicazione del
metodo della fisica, con le sue relazioni funzionali costanti ed esperimenti di
laboratorio a tutte le scienze, inclusa l’economia. Questo progetto metodologico, che
Walras aveva esplicitamente abbracciato in seguito alla lettura del trattato del fisico
Louis Poinsot, fu seguito in maniera integra e senza alcuna matematizzazione da
Joseph Alois Schumpeter, già dal 1908, nel suo libro Sull’essenza e sostanza dell’economia
teorica (SCHUMPETER, 1908).
Wieser, anche se dal punto di vista metodologico continuava a difendere le tesi
della Scuola Austriaca, scrisse una recensione estremamente critica riguardo alle tesi
filosofiche sottintese alle teorie di Schumpeter (WIESER, 1911). In pratica, egli critica
Schumpeter per essere caduto nello strumentalismo metodologico (successivamente
adottato da Friedman e dai positivisti della scuola di Chicago), così come per la sua
intenzione di applicare all’economia il metodo, che gli era estraneo, della fisica e della
meccanica (errore che successivamente Hayek bollerà col termine ‘scientismo’).
Esempio eloquente di tale errore è il caso di Walras che racconta d’aver tratto
l’ispirazione del proprio programma di ricerca dal trattato del fisico Poinsot in cui
venivano analizzate le varie parti dei sistemi fisici interconnessi e in equilibrio per
l’azione di forze contrapposte. Da allora in poi, il suo obiettivo divenne quello di fare
per l’economia ciò che Poinsot aveva fatto per il mondo della fisica e della meccanica
(MIROWOSKI, 1991).

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Non deve sembrare strano se questo percorso di ricerca sia parso
particolarmente carente ai teorici della Scuola Austriaca che erano invece tesi a
costruire una teoria sui processi reali e dinamici presenti nel mercato, e che mai si
trovano in equilibrio. Inoltre, Wieser attribuisce ai ‘panfisicalisti’ anche la mancata
comprensione del fatto che le leggi dell’economia teorica dovevano essere
necessariamente genetico-causali e non funzionali. Quindi si conosce l’origine dei
fenomeni attraverso l’introspezione, mentre le relazioni funzionali sono simultanee, e
non danno possibilità di accedere al fenomeno del tempo e alla creatività
imprenditoriale poiché mettono in relazione tra di loro quantità eterogenee dal punto
di vista temporale.
Tuttavia, sarà necessario attendere i contributi di Mises e Hayek perché i teorici
della Scuola Austriaca si rendano pienamente conto dell’abisso metodologico che,
ormai, li separa dai colleghi Neoclassici, fautori della teoria dell’equilibrio. Ciò fu reso
evidente da due importanti polemiche, nelle quali si videro implicati gli Austriaci: la
polemica sull’impossibilità del socialismo e quella tra Hayek e Keynes. Nei capitoli
successivi si esamineranno dettagliatamente i principali contributi di Mises e Hayek,
assieme alla grande importanza che queste due polemiche rivestirono per lo sviluppo
del ‘paradigma austriaco’.

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