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UNIVERSITÀ IUAV DI VENEZIA

FACOLTÀ DI DESIGN E ARTI

CORSO DI LAUREA
IN ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO

IMMORTALARE LA MORTE
-
Nan Goldin, Sophie Calle, Hannah Wilke, Felix Gonzalez-Torres

Relatore: Prof.ssa Angela Vettese


Elaborato finale di: Lia Cecchin Matr. 261382
a.a. 2008/2009 Sessione straordinaria Aprile 2010
Alla nonna Olga e alla nonna Elda: dai!

2
“Aldilà del dolore che naturalmente provavo, è stato anche un momento molto bello,
forse l’unico in cui ho percepito mia madre tanto vicina a me. Non l’ho accarezzata
come si tende a fare in questa circostanza. Sentivo che quella non era più mia
madre, era il suo corpo. [Suonano le campane “a morto”]
“Ecco, sentite, questa è lei...Ha deciso che ora ci sta bene un accompagnamento
musicale e ha pensato a questo...Silenzio...” [Mentre invita al silenzio le campane
cessano di suonare]

Lezione di Alberto Garutti (11/02/2010 h.11.10)

3
INDICE

6
INTRODUZIONE

10
NAN GOLDIN
La farmacologia dell'immagine

21
SOPHIE CALLE
Immortalare la morte

30
HANNAH WILKE
La liturgia dell'arte fra vita e morte

37
FELIX GONZALEZ-TORRES
Placebo

46
CONCLUSIONE

49
BIBLIOGRAFIA

Apparato iconografico

Abstract

4
AVVERTENZA
Le citazioni di autori stranieri
riportate in italiano nel testo,
ove non altrimenti indicato,
sono state tradotte dall'autrice.

5
INTRODUZIONE

Che cosa dobbiamo a ciò che è morto? [...] Il morto,


infatti, non soltanto non chiede nulla, ma sembra fare di
tutto per essere dimenticato. Proprio per questo, però, il
morto è forse l’oggetto d’amore più esigente, rispetto al
quale siamo sempre disarmati e inadempienti, in fuga e
distratti.1

Giorgio Agamben

Hannah Wilke sposa Donald Goddard un mese prima di morire. Felix


Gonzalez-Torres se ne va a distanza di pochi anni rispetto a Ross, alla cui malattia e
morte dedica la sua produzione. Cookie muore a distanza di sette settimane rispetto
al marito e Nan Goldin, unica sieronegativa all’HIV, continua a documentare l'addio
agli altri suoi più cari amici. Sophie Calle lotta ancora con la consapevolezza della
morte della madre.
Ci si trova grazie alle opere di questi artisti di fronte ad una questione
fondamentale: perché immortalare la morte nonostante la sofferenza a cui un lavoro
simile può portare? Il meccanismo del lutto e quello del processo di creazione
dell'opera sono in un certo senso molto simili. Anna D'Elia, in Per non voltare
pagina. Raccontare l’orrore esprime questa somiglianza partendo dall'idea che in un
certo senso entrambe le esperienze – del lutto e della creazione – si fondano su un
accrescimento personale e sono finalizzate alla formazione e rafforzamento del
carattere, “poiché entrambi hanno a che fare con la figura dell'assenza e con la
necessità di trasformare ciò che non c'è più”2.
Ciò che non c’è più, se è troppo evidente nella realtà della morte, lo è solo
indirettamente nella creazione. La creazione non è che la possibilità di narrazione di

1 Agamben, 2009, pp. 61-62

2 D'Elia, 2007, p.169


6
ciò che c’è di inenarrabile nel reale. Dove manca la parola per poter dire le cose,
l’arte ci offre un nuovo contesto in cui trasferire l’esperienza vissuta. Ci permette di
salvarla traducendola in un’altra lingua, codificandola in un nuovo itinerario
percettivo. La lingua della realtà è la lingua di un performativo che può essere inteso
come autocombustione del presente, che se non fosse per l’arte verrebbe a perdersi
irrimediabilmente. L’arte ci e si colloca nella storia ponendosi al di fuori della mera
contingenza sia in termini produttivi che percettivi del segno estetico. La lingua
dell’arte si connota dunque come lingua che salva, proprio lì dove c’è l'esperienza di
una non partecipazione, di una scomparsa del legame. Proprio dove appare la morte e
il limite puro di ogni linguaggio, l’arte si oppone alla non partecipazione - come
interruzione della relazione fra gli uomini – costruendo ponti di segni attraverso il
flusso inarrestabile degli eventi.
Anche la modalità che l’uomo adotta nell’arte è simile a quella del lutto. Se
nell'esperienza del lutto ci si comporta come se il soggetto defunto fosse ancora vivo
– gli si parla, si tiene la vedovanza per molto tempo, lo si veglia – allo stesso modo
di fronte all’oggetto artistico l’uomo presuppone una presenza, l’efficacia della
propria testimonianza e la prosecuzione del contatto umano, anche attraverso la
narrabilità dei fatti e i codici linguistici dell’opera. Essi riportano sul piano
dell’esperienza interpersonale ciò che potrebbe restare altrimenti intestimoniabile. I
segni nella morte e i segni nell’arte si corrispondono proprio in questo essere umani
di fronte a una perdita.
L’arte si occupa infatti, in ogni sua forma, di ciò che in un certo senso è
irrimediabilmente perduto. Di ciò che, a livello di esperienza umana, rischiamo di
perdere in ogni istante. La parola si apre su un vuoto, dà forma nell’informe e non
smette di occuparsi del recupero e della conservazione di un temps perdu, in cui la
vita era integra. Ed è però a sua volta, l’arte, un temps perdu, tolto all'esperienza del
reale ordinario, per chi la fa e per chi la guarda. Un tempo perduto che salva
l’esperienza, e si salva.
È un rimedio, una terapia contro il male che aggredisce la vita, contro la
morte che la rende irriconoscibile, che la altera per sempre fissandola e che la
decompone. Quanto di rituale e di magico ancora risieda nei codici dell’arte

7
contemporanea non è argomento centrale alla presente tesi. È però qui fondamentale
la scelta di opere in cui il tabù contemporaneo della morte viene sfatato, attraverso la
sua esposizione e per mezzo di un lavoro duro, con cui si arriva a stemperare il
disagio guardandolo in faccia direttamente, con tutto il carico di attaccamento che la
perdita trascina con sé.
Si prendono qui in esame opere che sono anche opere di fronte alla morte. Se
l'arte si connota come un fare, un operare, un opus, la morte è invece disfacimento.
L’arte è un fare, una poiesis, che si oppone al disfarsi del reale, alla sua morte. Il
massimo che può essere ottenuto allora nell’opera è la sua coincidenza col
disfacimento stesso, ovvero il portarsi attraverso il compiersi dell’opera fino alla
semplificazione di ogni elemento del reale. Così, come nell’opus alchemica si
raggiunge l’oro, la luce, nel disfare dell'arte avviene la trasmutazione della morte in
nuova vita. Di questo tipo di opere ho intenzione di occuparmi io qui.
Un'opera nata in questo spirito di nostalgia è una strana collaborazione che
nasce dall'esperienza personale per evolversi poi in qualcosa che non si dimostra
utile solo per l'artista, ma offre sempre nuova vita allo spettatore.
Questo innalzamento di piano è presumibilmente l'unico motivo per cui
l'artista riesce in opere come queste a raggiungere la perfezione ancora prima di
rendersi conto che tutta l'oggettività dell’approccio alla sua realizzazione scompare
di fronte all’opera conclusa. Perché in opere in cui si ha a che fare con la morte, si
mette sul piatto della bilancia tutto il carico della vita vissuta, in fatto di possibilità,
azioni, ed esperienze.
Per quanto riguarda, Nan Goldin, Sophie Calle, Hannah Wilke e Felix
Gonzalez-Torres ad esempio, ci troviamo di fronte a casi molto simili. Il modo in cui
gli artisti hanno affrontato di volta in volta l'assenza di amici, familiari, compagni, o
il sopraggiungere della propria morte si presenta come una ricerca spasmodica di
offrire, attraverso gli “archivi”, fotografici o video, una immagine trasparente, una
radiografia che li renda nella loro integrità, assieme alle cause della loro morte. Se in
genere le immagini sono un omaggio alla loro vita, ai loro atteggiamenti nei
confronti delle persone e di se stessi, decidono però di non tralasciarne la morte, di
non dimenticare nemmeno questo momento, che anzi entra nelle loro opere persino
come questione inerente in filigrana tutta la produzione, come si potrà constatare
anche nella narrazione compulsiva, nel non dimenticare, di Sophie Calle o nella
8
qualità performativa e partecipativa tanto vicina a figure di ambito sacrale e
sacrificale, così ricorrenti, nel caso di Gonzalez-Torres. Non conta se noi abbiamo
davanti la immagine di una persona cara di qualcun altro: noi ne percepiamo la morte
ritratta come un evento irriducibile. Come la nostra stessa morte – e si vedrà come
proprio la Wilke riesca a giocare, attraverso la fotografia, con la propria morte e con
le proprie ferite come se fossero quelle di un’altro.
Questa tesi vuole essere un’indagine attorno a quello spazio che separa e
collega la vita e la morte. Così come Nan Goldin ci mette di fronte a Cookie nella
bara aperta, Gonzalez-Torres al letto ormai vuoto da entrambi, la Wilke, in posa,
fissa l'obiettivo attendendo lo scatto, attendendo che ricambiamo lo sguardo, e la
Calle davanti a sua madre impercettibilmente morente, con la leggerezza che solo
quei rapporti profondi che hanno portato gioie e avvenimenti profondi, ci possono
dare, ecco che nel soggetto petrarchesco di Zefiro Torna, musicato in madrigale da
Monteverdi – e citato dall'artista lituano Jonas Mekas proprio in occasione di
un'opera dedicata alla vita dell'amico George Maciunas – viene raccontato il senso di
mancanza per una persona cara nel mezzo della vitalità della primavera. È proprio in
questi termini che risuonano, vibranti, le opere trattate: in un singulto che tende al
vuoto, in un canto singhiozzato e gioiosamente sospirato. Or piango or canto.

9
NAN GOLDIN
-
La farmacologia dell’immagine

È impossibile per Nan Goldin creare una separazione tra la sua biografia e la
sua ricerca artistica. Più che con chiunque altro, nel suo caso vediamo una così forte
appartenenza reciproca tra pubblico e privato da far risultare paradossale una
scissione tra le due parti.
La storia della Goldin si ancora infatti ad una complessa vicenda famigliare
che andrà poi dimostrandosi nella morbosità della sua relazione con i componenti
della sua seconda famiglia: gli amici, materiale umano che la porterà a trascinare il
suo lavoro, in senso fisico, nella sua vita. Guido Costa testimonia a proposito
scrivendo: “Lei mi ha fotografato più spesso di quanto io possa ricordare, e la sua
famiglia, composta dai suoi molti amici sparsi in tutto il mondo, era anche la mia.”3
Nan Goldin nacque il 12 settembre 1953 a Washington. Cresciuta in una
famiglia ebrea di ceto medio e ultima dei quattro figli, aveva creato un legame
particolarmente profondo con la sorella maggiore, una ragazza intelligente e ribelle
che suonava benissimo il pianoforte, Barbara. Quando Nan aveva undici anni,
Barbara, di diciotto, si uccise sdraiandosi sui binari di una ferrovia nei pressi di
Washington. La famiglia per superare l'accaduto si trasferì a Boston e preferì
mantenere un massiccio silenzio a proposito. Sconvolta, quell’anno Nan scappò di
casa diverse volte, e alla fine i genitori la diedero in affidamento, ma nel 1972 trovò
da sola la sua nuova famiglia: sette adolescenti con cui divideva un appartamento a
Boston. Boston fu anche la città in cui frequentò “la scuola hippie”4 e in cui conobbe

3 Costa, 2001, p.3


4 Quella che Nan Goldin ama definire “la scuola hippie” è la School of the Museum of Fine Arts,
che qualche anno più tardi fu frequentata anche da Jack Pierson, Mark Morrisroe, Philip Lorca di
Corcia e Shellburne Thurber, di cui alcuni divennero alcuni dei suoi amici più cari, collaboratori e
naturalmente soggetti di moltissime fotografie.
10
colui che divenne quasi immediatamente il suo preferito: David Armstrong, anche lui
stimato fotografo. Armstrong parla di quei tempi come di “un periodo davvero
meraviglioso. Non c’erano soldi. Ogni tanto facevo qualche marchetta. Quell’estate
del ’72, Nan iniziò seriamente a dedicarsi alla fotografia, e la nostra vita ruotava tutta
intorno a quello”5. Loro, la Goldin e Armstrong, furono considerati come i primi
influenti capostipiti di questa corrente artistica detta “scuola di Boston”, i cui
fondamenti sembravano sostenersi su quell’aggressiva informalità artistica che, se
oggi viene percepita come consuetudine nel mondo dell’arte, all’epoca era
semplicemente vista come espressione di “un branco di froci e drogati che volevano
diventare artisti”6. Il loro affiatamento non bastò però ad impedire la fuga da parte di
alcuni di loro a New York. La Goldin, Armstrong e il suo amante Bruce Balboni si
trovarono quindi catapultati all'interno della celebre scena di Downtown, frequentata
da “punk rocker artistoidi e giovani artisti punkeggianti.”7 Situazione che si rivelò
ben presto l'inizio della carriera della Goldin, grazie alle prime importanti proiezioni
delle sue diapositive.
A causa di un esponenziale abuso di droghe, nel 1988 la Goldin si trovò
costretta a trascorrere un periodo in una clinica per la disintossicazione. Per un anno
le fotografie scarseggiarono e fu un anno di grande sofferenza, che la vide però in
seguito, temprata dalla sua esperienza, ricominciare il suo impegno di testimone
oculare, fotografico, nei confronti della sua comunità di amici, ora in modo forse più
maturo. Gran parte dei suoi amici si stava o si sarebbe ammalata di AIDS.
I tempi erano cambiati e l'artista capì che, così come i tempi, anche la sua
ricerca andava riesaminata e calibrata sugli eventi. Non più l'esibizionismo tipico del
consumo di droghe, degli abusi e degli estasianti estremi, ma “una riflessione più
sobria sulla tragedia emotiva della perdita e della sopravvivenza nell'era dell'AIDS”8.
Ecco che, ossessionata dal non perdere il controllo della propria storia, come
difesa dei ricordi dalle intemperie del tempo e dall'erosione inevitabile, “con
compassione, l'obiettivo di Nan Goldin accompagna i suoi amici dal letto alla tomba,
mentre inizia a presentarsi qualche dubbio sull'iniziale interesse della Goldin per una
fotografia che fosse arte terapeutica”9.

5 Cooper, 2007, p.27


6 Ibid.
7 Ibid.
8 M. Fineman, La storia di Nan Goldin, in De Cecco, Romano, 2002, p.161
9 Ibid.
11
Ma in che senso va inteso come autoterapeutico? L'artista dice che la
fotografia ha salvato la sua vita e che ogni volta che si sente spaventata o
traumatizzata sopravvive scattando fotografie.10 Lei stessa riconosce che nel suo
lavoro è allo stesso tempo più inerente la memoria, e che “si tratta di tenere un
record11 delle vite che ho perso, che quindi non possono essere completamente
cancellate dalla memoria […] E' molto importante per me che tutti quelli che mi
sono stati vicini nella vita siano fotografati; molti se ne sono andati, come Cookie
che è molto importante per me. Ma c'è una serie fotografica in cui mostro quanto
complessa lei sia. [...] Perché queste immagini non parlano delle staticità della gente
che muore, ma parlano delle loro vite individuali.” 12
Se in questo lavoro di salvataggio delle vite individuali – come lei dice – si
trova anche un record delle “vite che ha perso”, ciò va inteso anche nel senso che
queste vite possono essere considerate come altre sue vite, essenziali alla sua stessa
esistenza, alla propria appartenenza a sé, alla propria capacità di riconoscersi.
Addirittura la scomparsa di queste vite la sradica dal proprio intorno cittadino: “New
York non è più New York, l'ho persa, mi manca. Loro stavano morendo per colpa
dell'AIDS.”13
Eppure, nella produzione più tarda si fa ancora più chiaro come la ricerca
dell'origine della propria stessa vita, l'azione di salvataggio di sé, avvenga all’interno
di quella fotografata, altrui. Più recentemente si concentra sull’immagine di bambini,
ad esempio: sottolinea Fineman nel suo breve saggio che in un un'immagine “c'è
Lily, la figlia neonata di un amico ritratta come un feto ancora sporco dei resti della
placenta e di liquidi corporei; un secondo scatto, realizzato un anno più tardi, mostra
Lily, all'inizio del viaggio verso l'autoscoperta e il narcisismo, mentre bacia
felicemente la sua immagine in uno specchio.”14 Quest'opera dal sapore allegorico
mette alla prova proprio attraverso un gioco di specchi: Lily è anch'essa uscita
dall'informe, dallo sporco in cui è stata originata, e finisce, proprio come l’artista, per

10 Adam Mazur, Paulina Skirgajllo-Krajewska intervista If you want to take a picture, I take it no
matter what, www.fototapeta.art.pl
11 Si è qui deciso di conservare la dicitura inglese: record non è assimilabile precisamente ad una
documentazione, bensì conserva il significato di registrazione e memoria, intesi come atti
partecipati emotivamente da parte del soggetto, e come modo per raccogliere e lasciare un segno.
Ha la stessa radice del verbo italiano ricordare, in cui kardias è parola greca per cuore.
12 Adam Mazur, Paulina Skirgajllo-Krajewska intervista If you want to take a picture, I take it no
matter what, www.fototapeta.art.pl
13 Adam Mazur, Paulina Skirgajllo-Krajewska intervista If you want to take a picture, I take it no
matter what, www.fototapeta.art.pl
14 M. Fineman, La storia di Nan Goldin, in De Cecco, Romano, 2002, p.161
12
ritrovarsi nel gioco limpido del proprio riflesso. Un riflesso in cui la nostra vita va
ritraendosi attraverso quella degli altri; vite degli altri che sono il tessuto stesso di
senso della propria: grazie ad esse e in esse ci si riconosce. E se è valida per l’artista,
questa stessa legge dell’arte è valida anche per il pubblico, che è invitato ad entrare
in questo gioco di sguardi riflessi e partecipare alla percezione dell’immagine che
può salvare, assieme a quella di Nan Goldin, la vita di chiunque si riconosca nella
sua opera. E’ questo scarto, che è lo scarto della triplice relazione artistica fra
pubblico, artista, e soggetto-opera, a determinare lo slittamento dell’opera della
Goldin dal piano del privato a quello dell’opera pubblica, se non sociale – nel senso
però del suo essere opera nata per e nelle relazioni piuttosto che dal rappresentarle
soltanto.
Questo scarto determinante che accoglie l’altro, è proprio ciò che caratterizza
la disposizione di Nan Goldin di fronte ai suoi soggetti, e quindi rende in grado la
sua opera di agire su un doppio livello di accoglienza in cui lo spettatore riceve, per
così dire, l’ospite di Nan Goldin. Veniamo messi alla prova nella nostra capacità di
accogliere gli altri. Nella nostra capacità di ricevere l’eccesso che è l’altro. Ciò è
proprio il caso inverso e simile a quello della morte in cui la questione è che colui
che vorremmo accogliere scompare, e sentiamo la mancanza di altro. Qui allora
l’altro compare come assenza. Come irricevibile per difetto. Se allora la nuda vita è
nella foto della Goldin il ritratto dei soggetti così come sono attraverso la confidenza
che salta la fase della posa, facendoci entrare nella carne del reale e salvandolo, così
col sopraggiungere della morte, la Goldin salva il soggetto così come non è più,
nell’apparizione come mancanza pura. Il riferimento è sempre la vita.
In un certo senso questo attaccamento alla vita, questa farmacologia
dell’immagine è assimilabile ad un istinto di conservazione della specie, qualcosa di
connaturato all’essere umani, e come tentativo di conservare la specie si può
intendere il triplice legame che si instaura di fronte all’opera della Goldin.
Facendo ricorso al pensiero di Giorgio Agamben, soprattutto per quello che
riguarda il fenomeno descritto in Profanazioni, si potrebbe arrivare a pensare che
l’arte si configura per l’uomo come una tattica di conservazione della specie, dove la
specie dell’uomo è una specie linguistica e l’uomo un essere del linguaggio.
Agamben in Profanazioni, parla di essere speciale e di specie, legandole
all’esperienza dello specchio (speculum), e descrivendo il riconoscimento della

13
nostra immagine, di noi in essa, e diversi da essa: uno specchio in cui appaia l’altro
che siamo noi.

Tra la percezione dell'immagine e il riconoscersi in essa, vi è un intervallo,


che i poeti medievali chiamavano amore. Lo specchio di Narciso è, in un
certo senso, la sorgente d’amore, l’esperienza inaudita e feroce che
l’immagine è e non è la nostra immagine. Se si abolisce l’intervallo, se ci si
riconosce senza essersi – sia pure per un istante – disconosciuti e amati
nell’immagine, ciò significa non poter più amare, credere di essere padroni
della propria specie, di coincidere con essa. Se si prolunga indefinitamente
l'intervallo fra la percezione e il riconoscimento, l'immagine viene
interiorizzata come fantasma e l'amore cade nella psicologia. [...] La specie
non è altro, in questo senso, che la tensione, l’amore con cui ciascun essere
desidera se stesso, desidera di perseverare nel proprio essere, di comunicare
se stesso.[...] Amare un altro essere significa: desiderare la sua specie, cioè il
desiderio con cui egli desidera di perseverare nel suo essere. L’essere
speciale è, in questo senso, l’essere comune o generico e questo è qualcosa
come l’immagine o il volto dell’umanità15

Allo stesso modo il rapporto che va instaurandosi con il pubblico di fronte


alle fotografie della Goldin richiede da parte dello spettatore non un'analisi
strutturale, ma uno sguardo che nasce quasi in modo inconscio, e che trasforma
l'osservatore in un attivo partecipante capace di ricostruire analiticamente lo scatto
fotografico solo vivendolo a pieno:

Fortunatamente, con la fotografia di Nan Goldin, un certo tipo di attenzione


critica è del tutto inutile. Nan e le sue fotografie formano un tutt'uno e coloro
che le guardano, nel momento in cui le capiscono davvero, diventano
irresistibilmente attratti nel loro mondo.16

Poi Costa continua dicendo “In altre parole, lui o lei deve, per un breve momento,
accettare di diventare parte dell'estesa famiglia di Nan Goldin” ed è in quel momento
che si renderà conto di non provare più orrore nelle scene fotografate, ma amore per
le persone ritratte.
Alla luce di quanto detto risulta più chiaro perché oggi Nan Goldin si stia
occupando di quel mestiere tanto analogo a quello di spettatore, che è la curatela, e
con lo stesso spirito, è ancor più chiara la ragione per cui si ritrova a fotografare
soprattutto bambini: è il risultato di una pace ritrovata attraverso la grazia della
scoperta infantile, in cui ogni cosa accade davanti agli occhi per la prima volta,
sempre. Il desiderio di scoperta dell’altro per eccellenza, quello infantile, e questa
disponibilità si creano nello spazio dell'opera, spazio che occupa esattamente

15 Agamben, 2005, p.62


16 Costa, 2001, p. 3
14
quell'intervallo agambeniano che c'è fra l'attimo della percezione e quello del
riconoscimento, e lo riempie totalmente, rendendolo disponibile a tutti.
Lo spazio dell’opera diventa allora territorio dell’altro. Quello spazio che era
chiamato amore, dai latini, è anche la distanza che separa l'altro da sé – come pure
accadeva al Narciso di Giorgio Agamben, distanza che diventa comprensibile
proprio grazie allo spazio dell'opera.
Ma cosa accade di fronte a ciò che sentiamo come incomprensibile, di fronte
alla morte dell’altro?
Per Nan Goldin l'esperienza della perdita dell'altro, e quella dell'insufficienza
dell'arte come mezzo di salvezza dell'altro, si compie proprio nel corso degli anni
attraverso la perdita dei suoi amici.

[…] io mi considero una persona che vive con l'AIDS. Anche se oggi sono
HIV negativa, e spero di rimanere tale, negli ultimi vent'anni non c'è stata
una grande differenza tra la mia vita e quella dei miei amici HIV positivi. A
questa epidemia ho dedicato gran parte della mia esistenza e del mio lavoro,
come artista e come persona, mi sento una sopravvissuta e provo il senso di
colpa dei sopravvissuti. Dal 1981, anno in cui il mio primo amico scoprì di
avere l'AIDS – che all'epoca non sapevamo neanche cosa fosse – fino ad
oggi, ho sempre fotografato la mia famiglia di amici. Così è nato il mio
lavoro che è sempre stato un diario della mia vita e di quella stretta comunità
con cui fin dai primi anni Settanta vivevo praticamente come in famiglia. Ho
continuato a scattar foto, e poiché la morte è parte della vita, ho fotografato
anche la morte per AIDS di molti amici.
Esibisco i tratti di alcuni di loro perché ritengo che le statistiche non possano
fare più di tanto e che bisogna vedere il viso delle persone per comprendere
la perdita. Un tempo pensavo che se li avessi fotografati non li avrei persi,
però, man mano che i miei amici più cari morivano capivo quanto poco la
fotografia fosse utile a salvarli.17

Nel caso specifico del Cookie Portfolio (1976-1989), Nan Goldin prova a strappare
alla morte la sua amica, ma non cede in nessun momento alla tentazione di
estetizzarne la vita. La documentazione (record) è intrapresa qui a fronte di una
amicizia con Cookie che è stata oltre che amica anche testimone-soggetto del suo
percorso artistico, modello-sorella di vita. La Goldin anche con il Portfolio è alla
ricerca di una verità, una verità che, letteralmente, attraverso l'obiettivo, la riguarda.
Scrive Elisabeth Lebovici:

Un’interpretazione di pessimo gusto avrebbe fatto in modo che le persone


apparissero come un Cristo o come dei santi, dandoci una lezione sul dolore.
Ma – riferendosi ovviamente alle fotografie della Goldin – questi corpi senza

17 Goldin Nan, 1996, p. 128


15
vita non hanno pathos, non fanno il minimo accenno ad un estetismo
morboso, e vengono così restituiti ad una visibilità non critica. La morte
esiste proprio come la vita, e quando viene spontaneamente registrata, nel
momento in cui viene vissuta, sfugge a qualsiasi rappresentazione
speculativa.18

Nonostante quindi la fotografia della Goldin sia così cruda, il fatto che usi
archetipi comuni come l'iconografia della vita familiare, il sesso, la malattia, la
morte, legati ad una memoria collettiva e condivisa, come dal gruppo di amici così
pure dal pubblico, fa sì che si instauri un rituale di reciproco riconoscimento con chi
osserva. Nel caso di Cookie, la Goldin la ritrarrà anche nelle vesti di spettatrice, al
funerale del suo compagno. Cookie da viva, Cookie davanti alla morte di una
persona cara, Cookie da morta, sono le tre fasi del ciclo che ricalcano il destino
stesso, sospeso, dell'artista che la fotografa.
Bisogna però scendere in alcune considerazioni circa l'importanza di Cookie,
la cui perdita fu forse la più grave per Nan. Le due si conobbero nel 1976:

Cookie era una social light, una diva, una bellezza, il mio idolo. Nel corso
degli anni diventò una scrittrice, una critica, la mia migliore amica, mia
sorella. Abbiamo vissuto tra alti e bassi insieme a Provincetown, New York,
New Orleans, Baltimora, e Positano.19

L'artista racconta durante un’intervista di aver vissuto in modo tormentato la malattia


dell'amica:

Nel 1988, le condizioni di Cookie stavano peggiorando. Quella fu l’ultima


volta in cui vidi Cookie ancora in grado di parlare. Era affetta dal complesso
AIDS-correlato, e non stava tanto bene. Venne ricoverata. Io ero attanagliata
dalla morsa della dipendenza, e le persone malate di AIDS non venivano
definite “persone malate di AIDS”, nella mia mente. Continuavo a
fotografare Cookie come avevo sempre fatto. Poi decisi di disintossicarmi, in
parte perché non ero in grado di andare a trovare i miei amici malati.
Qualcuno mi aveva chiesto, “Come puoi ucciderti da sola mentre i tuoi amici
stanno morendo?” e questo mi fece aprire gli occhi. Quando andai a trovare
Cookie a Provincetown, dopo essere uscita dalla comunità, lei aveva già
perso la voce. La sua risata e il suo umorismo erano elementi fondamentali
della sua personalità. Il fatto che non potesse parlare e che non potesse
camminare senza un bastone era sconvolgente. 20

18 Lebovici, Elizabeth, 1999, p.69


Si intende qui sottolineare anche la radice della parola speculativo, che racchiude la parola
speculum, e riguarda precisamente ciò che diviene riconoscibile grazie all’intelletto. La vita sfugge
allo specchio.
19 Goldin, Nan, 1996, p.256
20 Nan Goldin, Theory:'Nan Goldin on Cookie Mueller', www.americansuburbx.com

16
Spesso la sua fotografia per queste caratteristiche viene interpretata solamente
come “una disincantata documentazione dei recenti episodi della nostra esperienza
collettiva”21 Non si tratta però solamente di questo. Non è semplice realismo,
semplice cronaca. Nan Goldin si approccia al soggetto con una sensibilità totalmente
diversa, che rende lo scatto fotografico non importante come singolo, ma in serie. Un
lavoro di testimonianza, a lungo termine e in continuo sviluppo. Proprio come un
diario, che si forma giorno per giorno. Crea delle vere e proprie narrazioni quotidiane
di affetti, tragedie e relazioni, Queste immagini, tra cui quelle di Cookie, capaci di
una verità così cruda da spaventare – verità di cui la Goldin ha sempre sentito
l'esigenza, proprio perché mancatale sin dall'infanzia – non solo testimoniano e
rendono giustizia a qualsiasi cosa facciano, negli scatti, i suoi amici, ma le
permettono di catturare anche le emozioni a volte incongrue che ispirano i loro gesti.
Il suo forte interesse per l'eterno rende Nan l'amica a cui istintivamente
rivolgersi nei momenti di gioia, di tristezza, o di desiderio, sapendo che quegli stati
d’animo non verranno mai distorti dal suo obiettivo. Scrive Anna D'Elia: “Nan
Goldin parla di sé, come se ci presentasse un album di famiglia.”22 Una famiglia che
è una generazione. Quella generazione che non si identifica col sogno americano, ma
che ha il valore della condivisione, come risposta alla solitudine, alla violenza e alla
emarginazione a cui, in un certo senso, alcuni di loro erano costretti.

Il mio lavoro è sempre stato equivocato come riguardante un certo milieu di


droghe, party selvaggi e bassifondi, ma anche se la mia famiglia è ancora
marginale, e non vogliamo far parte della “società normale” penso che il mio
lavoro non abbia mai trattato di questo, ma semplicemente della condizione
di esseri umani, il dolore, la capacità di sopravvivere, e quanto sia difficile
tutto ciò.23

Ma è un’altra l’intervista in cui si riesce in modo più personale, intimo, a capire cosa
avvicina realmente la Goldin a questo legame eterno con gli individui, che va aldilà
di un semplice attivismo o di una volontà di registrazione:

Beh, forse penso a mia sorella. La sua morte mi ha cambiato la vita. Nella
mia vita e nelle mie opere ricerco continuamente l’intimità che ho avuto con
lei. E penso alla morte dei miei amici. La morte di mia sorella è più astratta,
più simbolica. La loro morte è reale, e si lascia alle spalle questa immensa

21 Costa, 2001, p.3


22 D'Elia, 2007, p.159
23 Goldin, 1996, p.448
17
eredità. Ecco perché faccio fotografie. Mi mancano tanto le persone.24

Semplici parole quelle di Nan Goldin, per introdurre The Cookie Portfolio (1976-
1989).
The Cookie Portfolio (1976-1989) è un lavoro composto da una serie di
quindici scatti dedicati proprio a Cookie Mueller, morta di AIDS nel 1989, all’età di
quarant’anni.
Si sa comunque che l'AIDS non fu una malattia numericamente più vorace di
altre, ma in quel periodo era una malattia discretamente nuova e per cui non esisteva,
né veniva cercata alcuna cura. Come dice Angela Vettese, non è nuovo il fatto che
l’arte si sia occupata della malattia, bensì fu nuova la mobilitazione intellettuale e
artistica che si sviluppò attorno all’AIDS per ribadire i cambiamenti della morale di
quel periodo storico.25
Con questo lavoro viene offerta ancora una volta una storia personale molto
intima, in cui anche i dettagli più scioccanti, di cui di solito siamo testimoni solitari,
vengono però teneramente convogliati nell'immagine:

È un’opera unica nel campo dell’arte contemporanea, nel suo modo di


descrivere come la storia dell’uomo appartenga unicamente agli individui,
nonostante possa anche essere presentata sotto forma di tragedia
rappresentatrice dei nostri tempi. Sembrava marcare la fine di un’era; il
passato non viene smentito, ma ogni cosa viene trasformata da una differente
consapevolezza di una verità del reale. 26

I soggetti sono colti in quei momenti in cui si abbandonano, o per meglio


dire, sono abbandonati, di fronte alla vita: la Goldin non li lascia da soli. Veglia su di
loro – mentre noi oscilliamo fra entrambi, riconoscendoci sia in chi è vigile, sia in
chi è vigilato – con la speranza che fotografando qualcuno a sufficienza, non lo si
potrà perdere. Un gesto poetico e allo stesso tempo maniacale.
Nan Goldin ha annotato la sua vita istante per istante cogliendone tutte le
sfumature possibili, creando una memoria immensa di sé e degli altri. Purtroppo
questa operazione ossessiva la ha portata ad essere tradita dai propri intenti – e
proprio durante il suo processo di selezione e di unione delle fotografie scattate in
tredici anni di simbiosi con Cookie, in preparazione al Cookie Portfolio, Nan Goldin
capì per la prima volta di non star realizzando un omaggio, che non poteva tenerla

24 Cooper, 2007, p.29


25 Vettese, Ciò che l'AIDS ha insegnato all'arte, in Vettese, Verzotti, 2000, p.17
26 Costa, 2001, p.10
18
con sé. Realizzò, attraverso i suoi stessi scatti, cosa aveva perso realmente. “Vissi un
periodo in cui non fui capace di fotografare. Avevo capito quanto poco può la
fotografia. Avevo fallito.”27 Ma Nan Goldin non si fermò nemmeno di fronte a
questo, consapevole del fatto che la sua lotta personale aveva ben altri scopi. Sentiva
addosso una responsabilità fortissima che voleva assumersi a tutti i costi. Una
responsabilità nei confronti della sua società:

All’epoca, Act Up28 stava diventando molto attiva e riusciva a farsi sentire.
Frequentavo incontri e manifestazioni, anche se non ogni settimana. Tuttavia
i membri del gruppo mi dicevano, sia allora che durante gli anni, che dal
punto di vista emotivo io stavo facendo ciò che loro facevano dal punto di
vista politico.29

L'ultimo scatto del Cookie Portfolio è particolarmente impressionante per via


della scelta di fotografare in modo molto simile il funerale del marito di Cookie e il
funerale di Cookie. Si può trovare nel dittico la volontà dell'artista di mostrarci la
voracità del tempo che in un paio di mesi si è portato via entrambi lasciandola d'un
tratto sola. Nan si trova a dover fotografare, prima Vittorio disteso nella bara, con
Cookie che, sulla destra dello scatto, scivola via con lo sguardo sperso e la tristezza
sul viso, voltandosi quasi in direzione dell’artista, e poi la stessa Cookie, questa volta
al centro, ricomposta nella bara, esattamente al posto di Vittorio. Le due fotografie,
pur passando dal mezzo primo piano al primo piano, sono molto simili
nell'inquadratura, ma nella seconda i bianchi sono incandescenze notturne, e il volto
di Cookie è quasi amalgamato con i fiori, il vestito, la bara. Fra i due scatti vi è
comunque un progressivo sprofondamento nel buio, come se Nan Goldin avesse
deciso di fotografare anche la morte di Cookie, ma non avesse realmente somatizzato
l'accaduto. L'unico oggetto che spicca è una croce, su cui inevitabilmente va
focalizzandosi l'attenzione. É forse l'unico scatto in cui non è realmente Cookie il
soggetto della fotografia, ma la sua assenza, ed è come se l'attesa di lei si fosse
tradotta in lungo tempo d’esposizione, nel semibuio di candela.

27 Nan Goldin, Theory:'Nan Goldin on Cookie Mueller', www.americansuburbx.com

28 Act up, ovvero, AIDS Coalition to Unleash Power è un movimento nato negli anni Ottanta nel
rispetto e per giungere ad un rispetto nei confronti delle persone malate di Aids per far si che sia la
legge, sia le risorse mediche si prendessero cura di loro. Le loro dimostrazioni pubbliche, a cui
presero parte numerosi artisti, tra cui anche Gonzalez-Torres, assumevano più l'aspetto di reali
performance piuttosto che di tradizionali manifestazioni politiche, boicottaggi e proteste.

29 Nan Goldin, Theory:'Nan Goldin on Cookie Mueller', www.americansuburbx.com

19
Nel caso di Nan Goldin, il suo lutto affettivo l’ha portata a percepire il
superamento del dolore, non più dal punto di vista della necessità personale, ma
piuttosto come una responsabilità sociale:

La mia fotografia, alla fine, non ha fatto abbastanza. Non ha salvato Cookie.
Ma nel corso del tempo le mie fotografie, e le altre fotografie che ritraevano
persone con l’AIDS, sono state utili. Hanno decisamente dato un volto più
umano alle statistiche. Dobbiamo continuare a fornire immagini di questa
situazione.30

E’ qui chiara la farmacologia dell’immagine di Nan Goldin, dove si intende appieno


il ruolo di pharmacos, di capro espiatorio di un male collettivo, di veleno e rimedio
ad un tempo, che può avere la sua immagine, anche attraverso la morte. Ritengo sia
solo questa possibilità di condivisione con gli altri a convincere la Goldin a dire che
c’è una ragione per cui lottare ancora, per cui ricordare ancora, scattare ancora,
soffrire ancora.
Rendere possibile la prosecuzione di ciò che è umano, proseguire con amore
di fronte alla morte. Immortalare la morte per testimoniare l'intestimoniabile.

30 Tom Holert, Nan Goldin talks to Tom Holert, www.artforum.com

20
SOPHIE CALLE
-
Immortalare la morte

Nel caso di Sophie Calle lei stessa ci rivela di aver pianto solo una volta visto
il suo lavoro installato, completo, interamente funzionante. In Pas pu saisir la mort,
opera in cui riprende gli ultimi minuti di vita di sua madre, quella non era una madre,
era la sua e fu solo in quel momento, vedendola da spettatrice, che realmente se ne
rese conto.
Una delle regole principali per superare il lutto è proprio quella di lasciarsi
aiutare. Le frasi di circostanza servono a poco e il primo curatore dell’opera, Robert
Storr, amico oltre che collega dell'artista31, aveva intuito cosa servisse a Sophie per
superare il tragico evento, e le aveva suggerito di compiere questo lavoro. Una donna
come Sophie Calle, che girava per cimiteri fotografandone le tombe32, che non ha
mai avuto paura di se stessa affrontandosi sempre nelle sue opere come nuda di
fronte a uno specchio, ora doveva affrontare la perdita più grave fino a quel
momento. Un processo, quello di Sophie Calle, che le fa realizzare l'assenza
attraverso un video in cui è impossibile percepire il passaggio dalla vita alla morte,
incorniciato assieme a un testo, quasi un elenco, delle ultime cose fatte con la madre
prima che morisse ed un quadro in cui quasi impercettibilmente si legge souci
(“preoccupazione, pensiero, problema” in francese), l'ultima parola da lei sussurrata.
Che non si preoccupassero per lei, l'ultima richiesta. Ma qual è il rapporto precedente
con la mancanza e la morte, di Sophie Calle?
Nel 1990 Sophie Calle aveva realizzato Les tombes, lavoro composto da

31 Robert Storr, curatore della Biennale d’Arte 2007, ospitò l’opera sulla madre all’interno del
Padiglione Internazionale, ex Padiglione Italia, nel cuore della propria esposizione, molto protetta.
Quell’anno Sophie Calle fu poi premiata con il Leone d’Oro per la installazione Prenez soin de
vous - Abbi cura di te presso il Padiglione Francia.
32 Les Tombes, serie fotografica, 1990.
21
alcune fotografie scattate alla fine degli anni Settanta, nel periodo in cui abitava in
California. La Calle ha affermato di provare piacere nel visitare i cimiteri, di trovarlo
un luogo confortevole e che forse – l'aver dovuto attraversare quotidianamente il
cimitero di Montparnasse per andare a scuola e la coincidenza di aver trovato il suo
primo appartamento in Montparnasse Boulevard – hanno fatto sì che le tombe
diventassero una delle sue ossessioni personali.
È strano quindi pensare come un'artista che, in un certo senso, dichiari di aver
sempre sentito come un tema a lei vicino quello della morte, possa poi ritrovarsi a
realizzare un lavoro proprio in merito a questo argomento senza conoscerne la
portata. È vero infatti che la perdita, come assenza e in un certo senso come perdita
di conoscenza, sono il filo rosso di tutta la sua produzione. Se in Les Dormeurs
(1979), raccoglie fotograficamente i segni e i resti della presenza dormiente dei molti
ospiti di una settimana nel suo letto e se quella del sonno non bastasse come
battesimo di vicinanza alla morte e all’abbandono si può pensare a Les Aveugles
(1986): uno degli scaffali – dedicati ai ciechi dalla nascita che grazie alle interviste
con l'artista dovevano ospitare una sua restituzione fotografica della loro idea di
bellezza – rimase vuoto: uno di loro disse che la bellezza era stato il suo più grande
dolore. Lo scaffale vuoto di immagine di quest’uomo, compensava con la sua
irrappresentabilità tutta l’installazione.
Anche qui si tratta di un’opera invisibile. All’artista e agli intervistati. Ma la
presenza della mancanza agisce anche nella Calle con tutto il suo peso fisico,
affettivo; erotico quasi se si pensa anche all’uomo di cui trova l’agenda telefonica in
The Address Book (1983) e su cui compie una indagine attraverso le telefonate ai
suoi contatti, e al pedinamento di uno sconosciuto in Suite Venitienne (1981), o al
Doleur Exquise (1984) nella sua ultima parte, dove la Calle compie una raccolta di
testimonianze di dolori altrui che si aggiungono al rac-conto alla rovescia fotografico
della propria sofferenza per l’abbandono amoroso: qui vi è traccia dell’impronta
della sua opera alla Biennale di Venezia del 2007 (Pensa con i sensi. Senti con la
mente). Una Biennale in cui Sophie Calle partecipa con due opere, una più
autobiografica dell'altra e inerenti il rapporto fra dolore, amore e partecipazione
dell’altro e della sua perdita, alla creazione: Prenez soin de vous, Prenditi cura di te,
al padiglione francese e Pas pu saisir la mort, Impossibile immortalare la morte, al
padiglione internazionale. Con Prenez soin de vous si porta avanti lo stile
partecipativo di Doleur Exquise non più chiedendo la storia personale di dolore ai
22
propri interlocutori, bensì di interpretare la lettera da lei ricevuta. Non si vuole
aggiungere dolore, rispondendovi o descrivendolo. La Calle vuole moltiplicare il
silenzio che lascia la lettera a lei indirizzata, far diventare assordante la reticenza
implicita nella ultima frase, prenditi cura di te, appunto, come un’opera di
sottrazione: interpretare una lettera è moltiplicare una domanda, comprenderla
appieno. Alla Calle nel 2007 non serve più raccontare di sé né serve cercare le storie
degli altri. Raccontare la morte della madre fa da contraltare al Padiglione nazionale
proprio perché anche qui è e non è la Calle, ad un tempo, soggetto dell’opera. Sua
madre è la sua stessa origine, la sua creatrice come può esserlo tecnicamente e in
altro modo il gruppo di interpreti della sua lettera. E non è casuale la vicinanza fra i
due titoli: qui si tratta di una seconda situazione in cui non si ha una risposta, ma che
su invito della madre non dovrebbe dare più, almeno apparentemente, soucis, cose a
cui pensare: proprio questo ci dà da pensare e da condividere, ma questa volta ben al
di là di ogni frattura fra vita propria e altrui, poiché qui si raggiunge la pienezza nella
riscrittura e l’oggettivazione dei momenti di condivisione e non più delle distanze.
La perdita della madre in questa seconda opera si presenta come una toccante
installazione composta, come nel maggior caso delle opere dell'artista, sia da testo,
sia da video. Si tratta della brevissima cronaca dell'ultimo mese e mezzo di vita della
madre di Sophie Calle. Una documentazione sconcertante per la sua limpidezza, di
cui la Calle ci rende partecipi attraverso una situazione così intima da risultare
ignobile agli occhi di un pubblico spettatore. Condividere con tanta oggettività la
morte della propria madre, ha dell'immoralità in sé, ma allo stesso tempo, riesce a
rendere il lavoro, nella sua disinvoltura, così sensuale da innescare un meccanismo
quasi erotizzante nello spettatore. Un voyeurismo estremo espresso attraverso un atto
poetico/artistico, in cui per undici minuti si è spettatori sgomenti, attoniti di uno dei
momenti più confidenziali dell’individuo: parenti che non riescono ad individuare
l’avvenire della morte – che si conserva invisibile – che non sanno quando
annunciarla, quando è il momento, l'attimo; costantemente si chinano verso il corpo
fisso, immobile nel letto, per misurarle il battito cardiaco; poi, ripetutamente,
lentamente, con fare incerto, la figlia porta le proprie dita davanti al naso della madre
– un ulteriore mezzo di verifica – per accertarsi dell'assenza di respiro.
Dunque è il respiro nell’assenza, o meglio come essenza, a comunicare ed
emettere il suono di una vita che continua altrove. È assenza che si annuncia
risuonando nell’aria. Ci si accorge che il respiro è il primo ad accompagnarci alla
23
vita ed è l’ultimo che ci consegna alla morte. Inspiriamo il primo ed esaliamo
l’ultimo.
E’ proprio in questo che l’atto da voyeuristico si trasforma in auto-espositivo.
La cosa che ci rimane è lo sguardo impotente della Calle che non riesce a trattenere il
passaggio fra vita e morte. Il suo racconto, nella debolezza della dipendenza dal
proprio soggetto – che già aveva caratterizzato la sua opera, come atto di amore, di
attesa e di accoglienza, a volte rinviati indefinitamente – si limita anche qui a farci
vedere ciò che non è riuscita a vedere. Ma qui scatta il punto di cambiamento per
Sophie Calle.
Pas pu saisir la mort nasce inizialmente come la semplice necessità di
documentare ogni ultimo istante di vita della persona che l'ha vista crescere:

Divenne quasi un’ossessione. Volevo essere lì quando sarebbe morta. Non


volevo perdermi la sua ultima parola, il suo ultimo sorriso. Sapevo che avrei
dovuto chiudere gli occhi per dormire, perché l’agonia fu molto lunga. C’era
il rischio che non potessi essere lì. Misi una videocamera, pensando che se
avesse fatto un ultimo sussulto, detto un’ultima parola, l’avrei almeno
filmata.”33

Questo portò l'artista di seguito ad un’altra fissazione: “L’ossessione di avere sempre


una cassetta nella videocamera. Era fantastico che invece di contare i minuti rimasti a
mia madre, contavo quelli rimasti nelle cassette.”34 Ed è evidente che era lì che
voleva salvare la vita di sua madre, come tante volte aveva creduto di poter salvare la
propria.
Non fu poi così spontaneo il meccanismo che la portò a realizzare un lavoro
proprio utilizzando questo video. Fu infatti il curatore, Robert Storr ad insistere a
riguardo. L'artista dichiara in una intervista rilasciata a Louise Neri:

Rob sapeva che avevo filmato la morte di mia madre e mi suggerì – e poi
insisté – che io mi occupassi di questo argomento. Non mi sentivo pronta per
guardare le ottanta ore di film che avevo girato riprendendo la sua morte, ma
poi mi ricordai dei suoi undici minuti tra la vita e la morte, durante i quali
davvero mi chiesi dove lei fosse. Una volta accettato di farlo, dovetti mettere
il filmato sul mio schermo per trovare quel frammento ed editarlo. Così, se
all'inizio era stato solo una sorta di sfondo mentre vivevo e lavoravo... ora
esso diventava un lavoro da cui ero incapace di prendere le distanze. Poi,
quando finalmente arrivò il momento di mostrare il filmato a Venezia, io ero
troppo impegnata con i soliti problemi tecnici: suoni, luci, tinteggiature e
dimensioni dell'immagine. Fu solamente quando il lavoro era installato, e

33 Angelique Chrisafis intervista Sophie Calle, He loves me not, http://www.guardian.co.uk


34 Angelique Chrisafis intervista Sophie Calle, He loves me not, http://www.guardian.co.uk
24
andai a vederlo, che realizzai che quella era mia madre, e cominciai a
piangere.35

Credo che, aldilà del lavoro, sia interessante il meccanismo che ha portato
l'artista a voler condividere questo estremo atto d'amore, composto dalle sussurranti
tappe che si impadroniscono della vita della madre, istante dopo istante, in modo
impercettibile. Alcune teorie dichiarano che le persone sul punto di morte aspettino
che i parenti non siano nella stanza per poi potersene andare. Fu questo a spingere la
Calle a prendersi cura della propria madre in casa. Sophie però era lì quando la
madre morì. Quelle riprese così morbose quindi non servirono mai al loro iniziale
scopo e non vennero nemmeno mai riguardate per intero dall'artista, che in questo
caso sarebbe più giusto semplicemente definire con il termine di “figlia”. È davvero
il semplice desiderio di rendere presente la madre alla “sua” Biennale? È davvero
come dice l'artista: “Ho parlato con mia madre della Biennale. Era inorridita dal fatto
che non ci sarebbe stata, ho pensato che l’unico modo per averla lì era che ne
diventasse il soggetto”36 ? O era piuttosto la condivisione di un dolore, che l'artista,
abituata ad esprimere se stessa attraverso il mezzo artistico, necessitava di espellere
in qualche forma?
Recentemente Sophie Calle nella sua esposizione personale dal titolo Talking
to Strangers presso la Whitechapel Gallery ha nuovamente installato Pas pu saisir la
mort. Sophie Calle dichiara: “È un lavoro che voglio continuare a controllare con
attenzione.”37 In un'intervista al Timeout London descrive Pas pu saisir la mort
come un omaggio alla madre. Un lavoro inizialmente nato come necessità di non
perdere per nulla al mondo le ultime parole della madre, magari mentre banalmente
preparava il pranzo o faceva delle compere:

Volevo avere la certezza che ci sarei stata. Poi la fotocamera diventò


un'amica che poteva essere nella stanza quando io non c'ero, lei (la madre)
poteva parlare con essa, e mi fissai di più sul far sì che il nastro non fosse mai
finito piuttosto che contare quanti minuti mia madre avesse ancora da vivere.
Se non avessi saputo che la sua sarebbe stata una morte dolce, non l'avrei mai
fatto.38

L'artista descrive la madre come una donna sempre al centro della scena.

35 Louise Neri intervista Sophie Calle, Sophie Calle, http://www.interviewmagazine.com


36 Angelique Chrisafis intervista Sophie Calle, He loves me not, http://www.guardian.co.uk
37 Ossian Ward intervista Sophie Calle, Interview with Sophie Calle, http://www.timeout.com

38 Ossian Ward intervista Sophie Calle, Interview with Sophie Calle, http://www.timeout.com
25
Questa potrebbe forse dimostrarsi la ragione per cui la Calle non era mai riuscita a
pensare un lavoro che potesse vedere la madre come protagonista: “Si è sempre
lamentata che non avessi mai fatto nulla su di lei, che pensassi lei non fosse un buon
soggetto.”39
La prima collaborazione, che rese entusiasta la madre, a cui dedicò anche il
progetto, fu per Prenez soin de vous (2007), ma l'opera che la rende protagonista
naturalmente è Pas pu saisir la mort. “Quando il film fu finito, controllai dove
poteva essere visto: in un silenzioso santuario. […] Non l'ho venduto, ed ho anche
già rifiutato di esporlo in diversi contesti poiché non potevo essere presente.”40
Ossian Ward definisce Pas pu saisir la mort “uno dei più scomodi film che abbia mai
visto.”41 Fu anche la mia sensazione quando entrai in quel t e m p i o così
meticolosamente allestito. Ebbi la fortuna di visitarlo attorniata solamente da un paio
di altri spettatori e solamente in uscita lessi il testo che accompagnava e completava
il video:
Impossibile immortalare la morte
Il 15 febbraio 2006 la coincidenza di due chiamate telefoniche simultanee mi ha
informato che ero stata invitata a esporre alla Biennale e che a mia madre restava un
mese di vita.
Quando le ho detto di Venezia, lei ha risposto: “E pensare che non ci sarò”. Invece
c'è.

Monique voleva vedere il mare per l’ultima volta.


Martedì 31 gennaio siamo andati a Cabourg.
L’ultimo viaggio.
Il giorno dopo: “così i miei piedi saranno belli quando me ne
vado”: l’ultimo pedicure.
Leggeva Ravel di Jean Echenoz. L’ultimo libro.
Un uomo che ammirava da molto ma non aveva mai visto è venuto
al suo capezzale.
Facendo amicizia per l’ultima volta.
Ha organizzato il rito funebre: la sua ultima festa.
Gli ultimi preparativi: ha scelto il vestito per il suo funerale,
- blu marino con un motivo bianco -,
una fotografia in cui fa una smorfia per la lapide,
E il suo epitaffio: Già mi sto annoiando!
Ha scritto un’ultima poesia, per la sua sepoltura.
Ha scelto il cimitero di Montparnasse come recapito definitivo.
Non voleva morire. Diceva che era
la prima volta che non le dava fastidio aspettare.
Ha versato le sue ultime lacrime.
Nei giorni prima della sua morte, non faceva che ripetere:
“È strano. È così stupido”.
Ha ascoltato il concerto per clarinetto in La maggiore K 622.
Per l’ultima volta.
Il suo ultimo desiderio: andarsene con la musica di Mozart nelle

39 Louise Neri intervista Sophie Calle, Sophie Calle, http://www.interviewmagazine.com


40 Louise Neri intervista Sophie Calle, Sophie Calle, http://www.interviewmagazine.com
41 Ossian Ward intervista Sophie Calle, Interview with Sophie Calle, http://www.timeout.com
26
orecchie.
La sua ultima richiesta: di non preoccuparci.
Ne vous faites pas de souci.
Souci è stata la sua ultima parola.
Il 15 marzo 2006, alle 3 del pomeriggio, l’ultimo sorriso.
L’ultimo respiro, tra le 3.02 e le 3.13.
Impossibile immortalarlo.42

Era difficile pensare che il lavoro consistesse semplicemente in


quell'installazione. Non riesco a non pensare che, anche la gita a Cabourg, l'ultima
pedicure, la festa, il concerto per clarinetto in la maggiore K 622, siano parte
integrante dell'opera. L'opera di una figlia che ha acquisito la consapevolezza che
non avrà più una madre a cui fare riferimento. Un'opera gestita in modo modesto,
modestissimo, Pas pu saisir la mort continua a non avere un catalogo a cui far
riferimento. È un lavoro descritto solamente di rado, in qualche succinta risposta
durante qualche intervista. Quasi tenuta volutamente in disparte, pur mantenendo
sempre e comunque il peso dell'opera d'arte, che come ben si sa adempie al suo
scopo solo se esaminata da un pubblico.
Forse Pas pu saisir la mort, per noi spettatori ha tutto l'aspetto di un'opera
d'arte, ma per l'artista rimarrà sempre una sorta di oggetto totemico per omaggiare
quegli ultimi minuti di vita, quegli ultimi respiri, che agli occhi di Sophie e di
Monique apparivano pieni di speranza finché espressi al plurale.
Il critico e scrittore Luc Sante descrive in poche righe il lavoro di Sophie
Calle come un lavoro di presa di distanza dal mondo dell’informazione:

Come uno scultore del secolo scorso, Sophie Calle manipola e riconfigura
una merce centrale nell'economia del suo tempo. Questa merce non è il
bronzo o il marmo, ma l'informazione, quella sostanza indistinta che circola
incessantemente tra la coscienza, la documentazione e il cyberspazio.43

Sophie Calle è riuscita a distinguersi – rispetto alla maggior parte degli artisti
aderenti, negli anni Ottanta, all'arte concettuale – grazie alla sua apatia nei confronti
dello status dell'opera d'arte.
Si può dire che la Calle, pur avendo combinato, come molti altri, la sua vita
quotidiana al suo lavoro artistico, anziché relegare, come da convenzione per l'arte
concettuale, l'artista in secondo piano, fa della sua biografia la sua opera. Non si

42 Storr, 2007, pp. 54


43 De Cecco, Romano, 2002, p.149
27
tratta di descrivere la vita ma di cercare di scriverla.
La sua narrazione non cerca di riprodurla ma di produrla. Con anarchica non
convenzionalità realizza opere che pur partendo dal biografico finiscono con il
trasformarsi in qualcosa d'altro, difficile da definire: si insinua nello spettatore un
forte desiderio di intimità e di contatto con il lavoro nonostante l'artista non realizzi
mai delle opere di reale interazione con il pubblico. Sophie Calle costruisce delle
strutture così comunicative ed, in un certo senso, impersonali, da portare il singolo
visitatore ad immergervisi con tutta la propria storia individuale.
Il suo utilizzo di banalità culturali necessita di uno sforzo interpretativo molto
intenso, faticoso, ma anche attraente da parte dello spettatore. Le opere di Sophie
Calle sono sensuali, ammiccanti, per il loro aspetto comune. Una realizzazione
austera per dei rituali ordinari, promotori di dinamiche consuete. Ma cosa rende il
lavoro della Calle tanto interessante? Tanto da renderla un'artista così amata non solo
dall'èlite, ma anche da un pubblico mediale, a cui siamo ormai abituati a sentir dire il
celebre “Lo potevo fare anche io”44? Gianni Romano risponderebbe così:

Ciò che l'artista produce tramite questa esperienza è una serie di scene,
leggibili certo, ma che non presentano simultaneamente tutti i propri
elementi. Sono frammenti che offrono allo spettatore l'opportunità di
ricostruire una propria narrativa, facendo associazioni tra le diverse
esperienze e intenzioni messe in atto. Questi frammenti offrono contiguità,
prossimità, reciprocità, sono pezzi banali di un discorso globale molto
significativo. Qui, l'unica simultaneità è quella ricostruita da noi una volta
visto il lavoro. [...] Le opere di Sophie Calle non colpiscono il pubblico grazie
a una quantità d'informazione significativa o a un forte punto di vista; esse
sono efficaci grazie a una molteplicità di relazioni e alla loro ambizione di
rappresentare molteplicità.45

Lo spettatore si rende perciò conto di far parte della cerimonia quando ormai
è tardi per tirarsi indietro e l'unica cosa che gli resta da fare è “prendere parte al
rituale, e crederci”46. La vita così esposta da privata diviene riappropriata per l’artista
e lo spettatore.
In Pas pu saisir la mort si restituiscono, puri, la compresenza, i suoi elementi
e la sua fine, quanto di più delicato vi possa essere: più che come una informazione,
come un mantra, il cui significato originale si slega e diventa inconciliabile col suo
esercizio di ripetizione, questa preghiera – nell’assenza quasi di souci, sbiancato,

44 Bonami, Francesco (2007) Lo potevo fare anche io. Perché l'arte contemporanea è davvero arte,
Mondadori, Milano.
45 Romano, Ritual de lo habitual, in De Cecco, Romano, 2002, p.156
46 Ivi., p.156
28
quasi trasparente nella sua cornice invecchiata – è l’elenco delle azioni, gli elementi
attraverso cui poter compiere una narrazione. Ciascuno nel proprio silenzio potrà
narrarsi questa storia, assistere a un proprio addio. In quest’opera, già a cento metri
da Prenez soin des vous, in ogni spettatore si prolungava, rinviava e moltiplicava per
sempre, impercettibilmente, l’ultimo addio.

29
HANNAH WILKE
-
La liturgia dell'arte fra vita e morte

Dal giorno in cui, all'età di 14 anni, per la prima volta posò nuda avvolta in un
visone rubato a sua madre, Hannah Wilke (1940-1993) ci ha presentato interminabili
variazioni sul tema dell'icona femminile. Durante gli anni Settanta e Ottanta, l'artista
usò la sua eleganza e la sua bellezza leggermente pericolosa per suggerire, attraverso
notevoli fotografie, sculture, performance e testi, le lotte di potere subliminale insite
nella sessualità civilizzata. Si presentava così come l'oggetto di tutte le fantasie
maschili, ma con lo spirito di una ribelle femminista dallo spudorato narcisismo.
“La Wilke – come scrive Bill Jones – iniziò a mostrare il proprio corpo,
rispondendo ad una aspirazione femminista che intendeva riconquistare il “controllo
sulla propria immagine”, e partecipò anche ad un movimento progressista che
introdusse l'azione dal vivo e la performance come realizzazione concreta delle
rappresentazioni tradizionali della figura umana nell'arte.”47 Ecco quindi come la
rappresentazione dell'artista come opera d'arte, si unì ad un proclama femminista che
raggiunse lo scopo di riscrivere una storia al femminile: narrativa, quotidiana,
personale e allo stesso tempo politica.
In Intra-Venus (1993) però nulla riesce a preparare a sufficienza lo spettatore
allo scenario in cui viene immerso visitando la mostra. L'intera installazione,
documentazione della battaglia dell'artista contro le complicazioni date da un
linfoma, appare allo stesso tempo macabra e divertente, terrificante, sublime e
devastante. Le tredici enormi stampe, selezionate personalmente dalla Wilke, ma
scattate dal suo secondo marito, Donald Goddard, sono un diario dei cinque anni
(1987-1993) in cui l'artista ha lottato contro la malattia che le fu letale. Enormi le

47 Jones, 1994, p.31


30
stampe come si può immaginare il senso stesso di sproporzione che c’è di fronte alla
morte.
Questi scatti diventano ancora più atroci se ripensati e confrontati con quelli
sul cancro della madre (Portrait of the Artist with her Mother, Selma Butter, 1978-
81), che, solo un decennio prima, la Wilke abbinò alle immagini di se stessa quando
era ancora radiosa, sana ed esteticamente perfetta.
La cosa che più sorprende è ancora una volta la frontalità del suo sguardo, capace di
far crollare tutte le nostre difese. Ci mostra le sue ultime ciocche di capelli, la lingua
piena di vesciche oppure mentre posa per noi come in un calendario osé. Anche nei
momenti più umilianti, Hannah Wilke riesce a conservare la sua dignità attraverso un
fortissimo senso di autoaffermazione ed un coraggio fisico ed emotivo senza pari.
Calva, nuda, collegata ai tubi, totalmente inerme, continua a sfoggiare la sua solita
ironia di performer che fino all'ultimo vuole giocare il suo ruolo senza compromessi.
Sul pavimento di ogni stanza della Feldman Gallery – luogo in cui nel 1994
fu inaugurata l'esposizione – si trovava un quadrato di piastrelle sopra cui posava un
esercito di vagine scolpite in ceramica, più grandi e più aggressive delle precedenti
solitamente realizzate in miniatura con gomma da masticare, lattice o lanugine. Oltre
a queste già elencate componenti, sono presenti anche due blocchi in lega di piombo
necessari per l’assorbimento delle radiazioni nella terapia, una gabbia al cui interno
sono presenti contenitori di pillole e siringhe, bende incorniciate che formano una
raccolta di alcune gocce di midollo osseo, ed i capelli caduti durante la
chemioterapia. Infine troviamo una serie di acquarelli realizzati dall'artista con colori
sgargianti, con tratti vibranti e deboli.
Sono ritratti dai toni fauve e acidi, delle sue mani “inflebate”, del suo volto
sempre più provato, debilitati entrambi e a confronto con il resto, delicati e dolci.
Donald Goddard un giorno, dopo una delle prime visite della compagna, tornò a casa
e trovò i pavimenti coperti dai primi acquerelli. Scoppiò a piangere. Realizzò che
dietro alla spensieratezza di Hannah c'era la paura di una vita da registrare e di una
sua fine imminente ed ineluttabile, ambedue da celebrare essendo reciproche
componenti umane.
Dall'esperienza di sua madre, Hannah Wilke aveva capito che le procedure
cliniche prevedevano l'allontanamento dei malati dai propri familiari, come a volerli
nascondere, come se la morte fosse un motivo di vergogna personale. Ecco che
l'ultimo gesto di Hannah Wilke è da percepirsi come la voglia e l'esigenza di una
31
dimostrazione di come gestire il trauma, senza assumere il ruolo passivo di vittima
sacrificale. Con Hannah Wilke non solo si viene messi di fronte ad una verità pregna
di consapevolezza: l'artista fa un passo ulteriore. Come scrive Bill Jones:

È evidente che non stiamo assistendo semplicemente all'accettazione di un


corpo che si disintegra. C'è una forte fascinazione nelle immagini a colori
poiché vi è una nuova definizione di bellezza o di ciò che può essere accettato
come bello. Questo non è incidentale al progetto della Wilke. Lei ha sempre
giocato con le nozioni di bellezza e celebrità e l'uso della propria bellezza,
come trappola tesa alle aspettative dell'osservatore, è a capo della serie Intra-
Venus.48

In questo tipo di intenzione si deve riconoscere la forza di Hannah Wilke, in


un’immagine che attraversa i tessuti connettivi dell’iconografia classica e
contemporanea come un bisturi andando dritta a ciò che vi è racchiuso, recidendo la
pelle delle citazioni proprio con la capacità tagliente della sua individualità, che in
esse trapianta. Non c’è citazione che tenga alla tragedia della perdita di sé, così come
si è, insostituibili: la Wilke assume con ironia per noi pose classiche, e ci ricorda che
forse abbiamo perso la capacità di riconoscere anche nei riferimenti dell’iconografia
classica un cuore emotivo, vicino alla percezione dello spettatore più che alla analisi
storico-teorica. E così col fatto della sua morte progressiva vissuta come atto
performativo, sfida ogni nostra soglia anestetica.
La Wilke conosce la lama della nudità come poche artiste. Ne conosce il
doppio taglio e lo usa. Quella che in genere è stato un grado zero del corpo, quasi
concettuale, nella Wilke riesce invece a caricarsi di una forza speciale anche di fronte
alla morte. E’ interessante notare l’assenza quasi di profondità di campo delle
immagini – prive già di ogni contesto, prospettiva e paesaggio – l’esaltazione della
propria ombra, nelle foto, come aura oscura sulla parete bianca, cui quasi fa eco
visiva quella della galleria - e il tipo di panni che indossa sul corpo nudo o seminudo
– panni poveri, da toilette o da ospedale, e quindi antichi quasi nel loro esser neutri.
Se si pensa proprio alla iconografia sterminata della nudità femminile può
essere interessante notare come dalle centralità delle Madonne allattanti dell’arte
greco - bizantina, al velo di Flora che corre a coprire Venere, che nel panneggio della
Nascita di Venere del Botticelli accenna curve che ricordano quelle dell’organo

48 Ivi., p.32
32
femminile stesso, quasi a sottolineare il nascondimento insito nel femmineo; fino al
velo del Tempo teso dietro Venere nell’Allegoria di Amore e del Tempo del
Bronzino, a rivelare l’inganno e la follia della seduzione della bellezza; alla Morte
della Vergine del Caravaggio, dove la Madonna è rappresentata con il corpo gonfio –
il modello fu forse una prostituta – in rosso sotto una tenda rossa e con le gambe
scoperte, contro ogni indicazione ecclesiastica, che appare nel suo splendore al
vespro quando il sole si inclina secondo la luce del quadro, nell’ora dedicata alla
Vergine; per giungere poi all’Origine del Mondo di Courbet, in cui il nudo è crudo,
la vagina, cosce aperte, è centrale all’immagine, e il soggetto coperto da un velo nella
parte superiore: si può vedere come tutto questo nudo della donna nell’arte ha spesso
esaltato il rapporto critico della figura femminile con la sua potenzialità corporea,
socialmente oscillante fra colpevolezza del nascondimento e falsità della sua
esposizione.
Hannah Wilke si copre qui di un velo sottile fatto di stoffa e di gesti semplici.
Nell’utilizzo della seduzione del linguaggio della comunicazione contemporanea e in
quella specie di frottage performativo che il suo corpo compie sui soggetti classici e i
segni di origine religiosa – come le sculture-vagina, o le garze macchiate, o i capelli
caduti sono quasi una forma di opere-reliquia, parti di sé che l’artista lascia dietro di
sè – la Wilke sa integrare e ribaltare il segno dei suoi riferimenti, e compiere una
reversione, direbbe Baudrillard, di ciò che sembra poterla dominare. Così come il suo
gesto seduttivo prende alla sprovvista la società maschilista della finta liberazione
della donna, così pure in Intra-Venus riuscirà a invertire il segno della malattia e
della morte attraverso la sua opera di volontaria spoliazione. Le opere della Wilke si
appoggiano a un linguaggio di auto testimonianza estremamente forte: quello di
Intra-Venus è un martirologio femminile compiuto attraverso un uomo, una
Madonna maschile votata anziché al figlio alla sua compagna, alla cui creazione si
presta. Se martire vuol dire innanzitutto testimone, per l’appunto, si deve pensare alle
immagini scelte per rappresentarsi come a una testimonianza speciale, compiuta
attraverso gli occhi e le mani del proprio compagno di vita: Donald Goddard. E il
fatto che uno dei due sopravviva e sia la mano della agiografia profana della
compagna fa si che la umanità della sua morte si carichi di una densità duplice, di

33
una vittoria sulla morte stessa da parte di chi la può guardare in faccia attraverso gli
occhi degli altri.
L'alterità invasiva del tumore, viene ribaltata nella e dalla cura da parte
dell’altro. La seduzione spudorata della narrazione agiografica inoltre nasconde il
costante attaccamento alla verità e concretezza della realtà della Wilke che strappa
così dall’alto la grazia per ciò che è misero e basso nella vita umana. Cosa peraltro
non estranea a un atteggiamento realmente evangelico. Ciò che nella forma appare
come nobile è poi invece brutto, fragile, banale, comune, sporco e debole nella sua
materia, e il fatto di lasciarsi riprendere nella malattia fa si che il gesto di reversione
arrivi a completezza: il martirio è vissuto e superato quando Hannah trionfa sulla
apparenza miracolosa della bellezza, attraverso la sua verità di compassione, nudità,
perdita di integrità, sofferenza e intimità raccolte nell’amore dello sguardo altrui, in
questo caso di Donald, ma anche proprio, e dello spettatore che ne diventerà
testimone.
La carne umana supera ciò che era formale e ha la poesia di una natura morta,
di un’alterazione fatale, splendida come i fiori recisi e già quasi secchi dell’ultimo
Van Gogh, che sanno di predestinazione. Hannah Wilke riesce a raccogliere e
racchiudere di sé stessa e su sé stessa, tutta la distanza che c’è fra il reale e
l’agiografico, decostruendo e ricostruendo ad un tempo il proprio ruolo di artista e la
propria natura di donna. E’ un modo per non perdere la vita. Questa vita persistente –
e per di più partecipata dal compagno e da chi guarda – assieme alla morte,
nell’opera, è proprio il ribaltamento e vittoria su quella “malattia dell’Altro che è il
cancro”, come dice Susan Sontag in Illness as Metaphor. E come già per sua madre
mastectomizzata e invecchiata, la negazione del femminile, esposta, para-
pornografica, diviene punto di forza per rivendicarlo. Nella sua rinuncia alla
centralità del sé e nel suo rifiuto dell'invisibilità nella malattia, sentita come
negazione di dignità sociale nella e della morte, la Wilke compie un ultimo passaggio
chiave verso un'autorialità ricettiva, e qui violentemente accogliente in quanto
autoaccogliente, in cui il poetico si ricava andando a fondo alla ricerca del proprio
femminile, e diviene spazio di protezione ed esposizione ad un tempo, anche per chi
guarda.

34
Non c’è quasi più azione compositiva esteriore al mutamento del corpo
proprio. Nelle fotografie di Intra-Venus l'artista guarda nella nostra direzione e si
lascia guardare, ma tra lei e noi esiste una importante figura intermedia, vivente. È
Donald Goddard. E così una Hannah Wilke, inizialmente esigente rispetto alla posa e
alla composizione, nel lento degrado confida, segretamente, nelle scelte fatte da parte
del suo amato, del suo “collega”. Mentre Hannah si lasciava completamente
travolgere dalla malattia con relativa serenità, Donald, standole a fianco, affrontava
istante dopo istante, le fatiche del lento abbandono. Nel 2008, in seguito ad una
seconda esposizione della Wilke, presso la Ronald Feldman Gallery, fu pubblicata
un'intervista a Donald Goddard su Art Journal. L'esposizione in questione era
composta da quell'unico elemento scartato per la prima mostra di Intra-Venus. Le
Intra-Venus Tapes sono infatti l'ennesima dimostrazione documentativa, realizzata
durante la malattia della Wilke, in questo caso attraverso il video. Donald Goddard
alla seguente domanda: “Come hai visto il tuo ruolo in questo lavoro [riferendosi a
So Help Me Hannah, 1978 nda.] e in altri a cui hai partecipato? Consideravi ogni
aspetto di questo lavoro come una collaborazione?”49 risponde: “Li vedevo come
lavori di Hannah e mi sembrava meraviglioso prendervi parte. Ero bravo abbastanza
per scattare delle fotografie che si dimostrarono buone. Ma era il suo lavoro. Non ho
mai pensato di fare nulla del genere. Era strettamente sua l'idea, la concezione e così
via.”50 Ecco come Donald Goddard, scrittore indipendente e critico d'arte, non debba
necessariamente venir considerato come l'ideatore di Intra-Venus, ma senz'altro va
considerato questo suo profondo legame con la moglie, come il mezzo attraverso cui
riesce a diventare immune di fronte ad un'azione di per sé ripugnante, quale quella di
fotografare l'amata nelle fasi più crude e più atroci della malattia. Il femmineo si
estende qui nel marito.
Se pur in questo caso si tratti della morte diretta dell'artista, si nutre la
sensazione che la morte sia non solo la sua, ma anche quella del suo rapporto con il
marito. Oltre ad offrirci “una maniera completamente diversa di ritrarre la

49 Takemoto, 2008, p.129


50 Ibid.
35
malattia”51 è come se la Wilke avesse il desiderio di non abbandonare il marito, di
permettergli di portare avanti il suo ricordo, il suo lavoro e, se pur in modo inconscio
(da come si può leggere nelle interviste) restare per sempre in contatto con lei come
fautore dell'opera. In questa seconda esposizione Intra-Venus Tapes (1990-1993)
non si tratta più del lavoro di Hannah Wilke, bensì di una necessità propria di
Goddard. Ritrovare nella visione di quei sedici schermi, di immagini
cronologicamente sfasate e di voci sovrapposte, la vita, il lavoro, il suo rapporto con
la Wilke. Installazione, elaborazione e quant'altro sono interamente sue.
La posizione di Goddard come estensione della Wilke, come sua
prosecuzione fisica del lavoro e suo modo di continuare ad agire attraverso di lui, la
deposizione del ruolo autoriale di Hannah fino a limitarsi a diventare proprio
soggetto, la continuazione nel rapporto grazie al fatto che la sua opera viene affidata
all’altro che sopravvive come parte di te, fa di questo addio, allo stesso tempo, una
vittoria sulla perdita, attraverso l’opera. E’ un trapianto che avviene fra i due
compagni, del midollo della creazione artistica.
Il fatto che stia portando ancora avanti, con nuovi sviluppi, Intra-Venus è
forse segno di una continua necessità e possibilità di stare vicino alla moglie, come
se quella malattia non la avesse mai uccisa. Come se attraverso lui, non smettesse
mai di produrre la propria opera.

51 Jones, 1994, p.32


36
FELIX GONZALEZ-TORRES
-
Placebo52

Parlare di Felix Gonzalez-Torres (1957-1996) significa far parlare i suoi


lavori. Infatti è proprio nel suo sostare fra attualità e inattualità, che l’opera di
Gonzalez-Torres apre il suo abisso di senso fra nome proprio e anonimato, politicità
e intimità, pubblicità e nascondimento, vita e morte.
Cubano immigrato a New York a ventidue anni per rimanervi tutta la vita,
Gonzalez-Torres ha trattato i temi più disparati, personali e politici ad un tempo,
attraverso le immagini più consuete e gli oggetti più comuni, ritrasformandoli in
luoghi artistici, e impregnandone il corpus, o si potrebbe dire corpse, se queste
immagini o forme piatte, quasi morte e irriconoscibili agli occhi dei più non
potessero seguendo il pensiero di Barthes essere viste come anticipazione espositiva,
eco del culto della Morte, rappresentazioni performative di ciò che ai nostri occhi è
immobile come la maschera degli attori del teatro No: raffigurazioni delle facce sotto
cui vediamo i morti, immagini di cadaveri di esistenze reali53. Gli oggetti e i soggetti
di Gonzalez Torres nella loro semplicità sono porte aperte fra il mondo di ciò che è
vuoto a perdere della vita e la vita stessa, arte da intendere in sé, come fotografia del
nostro tempo54.
Gonzalez-Torres raccoglie gli elementi del disastro. Dalle caramelle alle
immagini degli uccelli in volo fino agli orologi accoppiati o alle lampadine a
incandescenza, ciò che affascina Torres e che induce il carico di riconoscimento
nello spettatore, è un punctum, un pungere, che persiste anche in ciò che è

52 La parola placebo deriva dal futuro del verbo latino placere, “io piacerò” termine derivante dalle
funzioni funebri medioevali in cui veniva recitato il versetto 9 del salmo 115: “placebo Domino in
regione vivorum” ovvero “Piacerò al signore nella terra dei vivi”.
53 Roland Barthes, 2003, p. 33.
54 Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, 2000, p. 73.
apparentemente ordinario, con un effetto quasi alla Fischli e Weiss, che per lui
racchiude la potenza dell’efficacia dell’opera, e la rende inattesa e competitiva grazie
e nonostante i codici ripetitivi dell’informazione commerciale del sistema
consumista. Nei confronti di questo sistema di segni contemporaneo, Gonzalez-
Torres riesce ad avviare una delocalizzazione, uno spiazzamento, un detournement,
sia per la similitudine dei codici introdotti, appunto, qui spostati e isolati in ambito
artistico – come avviene nel caso della distribuzione di caramelle, di stampe, o per la
forma quasi pop dei puzzle – sia per la ridondanza delle immagini stesse, strappate
dalla realtà iniziale, personale o meno, cui appartenevano, per esserne restituite come
frammenti perduti o calchi inutili (piuttosto che emblemi o modelli) e per di più in
copia infinita. E così si dovrebbero interpretare le opere di caramelle, spesso
corrispondenti al peso corporeo dell’artista, del padre, dell’amante, etc. secondo un
dato variabile e secondario, dipendente dalla vita e salute del soggetto.
Se dobbiamo prendere alla lettera dunque l'affermazione di Barthes per cui
“La fotografia non dice [per forza nda.] ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente
ciò che è stato”55 si deve però ammettere che più che sole maschere mortuarie, calchi
di singolarità perdute, ritratti – come i mucchi di caramelle vengono chiamati – senza
soggetto, queste opere di Torres, nella loro apparenza di precarietà e ordinarietà sono
invece attestati di vita vivente, installazioni performative, prove di esistenza che
incorporano la morte – anche propria – senza farsene assorbire mai totalmente. La
loro fine è già prevista, dall’artista come dal pubblico, che forse non ne vede neppure
l’inizio. Le caramelle si disperdono e le stampe pure, fra le mani degli spettatori e poi
dentro gli spettatori o in casa loro se non nella spazzatura, le lampadine si spengono,
le batterie degli orologi li faranno fermare per sempre, esaurendosi. E’ un futuro
anteriore. Un saranno state che scivola di nuovo nell’adesso. La fine è sempre
posticipata. La sua presenza davanti a noi è sempre – per dirla con Benjamin – come
ogni presenza, originaria56. L'assenza di soggetto e il fatto stesso che l’opera di
Torres sarebbe un’opera sempre e solo in potenza se non fosse per il gioco che
instaura col pubblico, è il miglior modo per poter far si che l’opera riguardi tutti. In
questo senso non solo queste opere fotografano la realtà, ma sono anche la sua
indicazione, e il segno della sua percezione come realtà (la d i d a s c a l i a
nell’interpretazione di Benjamin). Ovvero le opere di Torres costringono a guardare

55 Roland Barthes, 2003, p. 86.


56 Walter Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, 2000, p 83
38
in faccia ciò che c’è di più comune, che è anche (come la morte) la fine di ciò che è
personale, eternando anche frammenti autobiografici assieme a materiali più vasti, e
mettendoli, letteralmente, a disposizione del pubblico.
Questo adesso che è suggerito dall’implicito saranno state delle opere ad
esaurimento, sebbene infinitamente sostituibili e ripetibili – così come i ritratti-
caramelle e le stampe venivano sostituiti dal personale di galleria – è simile proprio
alla precarietà della vita, al suo essere preziosa come presente del mondo proprio in
relazione all’altro. A volte le opere sono puro passaggio, sfuggono alla nostra
percezione del limite di inizio e fine come le tende di sangue attraverso cui
passiamo57. Come nella filosofia della responsabilità di Levinàs, l’opera ci guarda
con la sua fragilità e esponendosi ci grida il suo “Non uccidermi” come una pienezza
di presenza da parte dell’altro che chiede la nostra cura, e a cui pensiamo, a volte,
solo sentendo la plastica rossa attorno al nostro viso e ai nostri occhi senza
accorgercene o trovandoci in mano le carte di caramelle appunto. Opere di
passaggio. Dopo aver consumato il dolce, l’erotico sapore di Felix, o del suo
compagno ritratti nel mucchio, arriva solo l’amarezza per la precoce scomparsa e ci
resta in mano l’involucro argentato, che non è che il resto dell’opera, la traccia del
divenire effettiva della sua assenza. Ma finché c’è l’opera questa assenza non cessa
di essere un avvenire presente Che cosa è la morte allora in Gonzalez-Torres, se si
intende la sua arte come fotografia, dalle opere testuali legate al Giorno dei Veterani
o dalle qualità attribuite sul monumento a Roosevelt, fino al letto di Felix e Ross,
vuoto con le loro impronte corporee destinate a neutralizzarsi, fotografate dopo la
ultima notte assieme prima della morte di Ross. Ancora Barthes, dice parlando dei
giovani fotografi58 che cercano di catturare l’attualità, che sono agenti di Morte, che
negano lo smarrimento del vivente, che bisogna che in una società la morte abbia una
sua collocazione, che se non è nella religione deve essere altrove: che il problema sta
forse nella immagine che produce la morte volendo conservare la vita59. Dice
Barthes che facendo della fotografia una mortale, deperibile riproduzione di un piatto
e muto è stato, su cui non si può dire null’altro, la nostra società ha rinunciato al
Monumento, che almeno faceva in passato della morte qualcosa di immortale, grazie
alla propria durata.

57 Untitled (Blood), 1992


58 E’ da notarsi che la prima formazione Felix Gonzalez-Torres è di tipo fotografico.
59 Walter Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, 2000, p. 95
39
In questo senso la fotografia di Torres è precisamente l’opposto. Egli solo una
volta mostrerà l’immagine di Ross direttamente e lo farà nei puzzle,
significativamente privi di integralità, pur essendo per la sua perdita (dovuta, come la
propria pochi anni dopo, all’HIV) che produrrà le sue opere. Egli fotografa e indica
la precarietà della assenza stessa, ad esempio nell’opera del letto matrimoniale60 in
ventiquattro billboards per tutta la città, si pubblicizzerà una scomparsa della
relazione: non si cerca di conservarne ad ogni costo la vita, ma di rappresentarne
almeno e condividerne la perdita. Contro ogni indicazione benjaminiana circa
l'importanza della didascalia quest’opera uscirà al pubblico con una serie infinita di
interpretazioni possibili in cui ciascuno si potrà riconoscere. Il pubblico crea la
didascalia propria riempiendo la traccia lasciata dai due corpi. Questa modalità di
condurre il lavoro artistico ha sicuramente per lui un ruolo anticipatorio, apotropaico,
magico, riproponendo un atto di affezione e quello di dispersione e disseminazione
allo stesso tempo. Gonzalez-Torres ci fa rivivere qualcosa: l'amore e le modalità con
cui questo sentimento viene gestito non trovano però come unico riferimento quello
della loro relazione omosessuale – naturalmente contrassegnata dalla solitudine della
coppia, che non ha possibilità generative al di fuori di sé, ed è destinata ad
estinguersi come tale – piuttosto ne emerge la profondità insita nel rapporto, la
comprensione di un sentimento comune a tutti, la gioia della vita di coppia, e, infine,
della condivisione, non dimenticandosi però di illustrarci anche la seconda faccia
della medaglia.
Così, se vediamo due orologi affiancati marciare in sincrono, finiamo col
ricordarci che il destino dei due è quello, prima o poi, di perdere la loro simultaneità.
Uno dei due rallenterà, fino a fermarsi, lasciando l'altro continuare da solo. Lo stesso
vale per la caramella rubata all'opera dell'artista per diventare nostra, e nell’ipotesi
che la caramella non verrà mangiata dal visitatore nel timore che l'incarto
spiegazzato, assieme all’opera poi sparisca nel nulla, dopo aver frugato un paio di
volte nella tasca in cui era stato abbandonato. Questo timore di perdersi, come
nell'amore, mantiene il rapporto vivo, ma dimostra anche che alla fine di tanto
prendere non rimane che il vuoto. Nelle opere di Torres si legge quindi non
solamente la paradisiaca sensazione della vita di coppia, ma si fa ampiamente spazio
anche l'idea dell'assenza e della solitudine in cui si viene avvolti dopo la morte del

60 Untitled, 1991
40
proprio amato. Come scrive Bourriaud in Relational Aesthetics “La sensazione di
solitudine non è mai rappresentata dall'uno, ma dall'assenza del due.”61 Ecco che ci
troviamo costantemente strattonati da una parte all'altra, tra la storia personale di
Torres e la storia di una collettività in cui, superando Bourriaud, si potrebbe dire che
l'assenza diviene sempre, per Gonzalez-Torres, l'assenza di una moltitudine così
come la perdita di ciò che era riproducibile come moltiplicazione dell’uno è l’ombra
della perdita dell’irriproducibile, dell’uno irripetibile come nell’opera in cui si vede
solo l’ombra del soggetto dietro una tenda (anche qui segnale di morte e di
sostituibilità del soggetto)62. La continua oscillazione fra la sua vita e la nostra è già
di per sé una costitutiva minacciosa possibilità di perdita di un tempo comune. Come
i due orologi.
Si potrebbe quindi in un certo senso anche in questo caso parlare di terapia,
forse addirittura di terapia d'urto. Nell’intervista con Tim Rollins, Gonzalez-Torres
afferma:

Freud ha detto che mettiamo in scena le nostre paure per diminuirle. In un


certo senso questa generosità era un modo per mettere in scena la mia paura
di perdere Ross, che scompariva a poco a poco davanti ai miei occhi. Ed è
una sensazione molto strana quando vedi il pubblico che entra in galleria e se
ne va con un pezzo di carta che è tuo.63

E poi ancora a Andrea Rosen dichiara:

Volevo creare un’opera che scomparisse, che non fosse mai esistita e che
fosse una metafora di Ross che stava per morire. Rappresenta una metafora il
fatto che avrei abbandonato quest’opera prima che questa abbandonasse me.
Io distruggerò l'opera d'arte prima che lei possa distruggere me. Questo è
stato l'unico potere che ho potuto esercitare creando questo lavoro. Non
volevo che durasse nel tempo, poiché allora avrebbe potuto ferirmi.64

I lunghi tappeti sdraiati a terra – la cui quantità di caramelle corrisponde


talvolta al peso del singolo Ross, talvolta ai pesi sommati di Ross e di Felix –
andavano sbiadendosi per mano del pubblico, così come la malattia fece con
entrambi. In senso fisico lo spettatore partecipa nuovamente ogni volta della
dispersione di Ross e Felix. Ciò non può apparire così estraneo: nel lavoro di

61 Bourriaud, 2002, p.50


62 Untitled, 1989
63 Rollins ,1993, pag.13

64 Storr, 1995, pag.32.

41
Gonzalez-Torres si trovano richiami alla religiosità attraverso il gesto eucaristico
dell'offerta del corpo, ma anche attraverso questa visione della totale fusione delle
anime, della prostrazione assoluta verso l'altro, di una donazione di sé capace di
portare al decadimento dell’integrità di sé. Le paure di Torres si ritrovano non
solamente nella sua necessaria consapevolezza di dover lasciare andare Ross, quanto
anche nella sua opera, in un piccolo miracolo: ogni qualvolta la sua opera starà
svanendo, gli operatori del museo dovranno, su indicazione dell'artista, reintegrare
l'opera, facendola resuscitare continuamente, in un desiderio morboso di non voler
mai vedere scomparire nel nulla. L'artista stesso sostiene:

Credo che questa particolare tipologia di installazione riguardi la vulnerabilità,


il non avere nulla da perdere, la possibilità di contestualizzare diversamente
ciascun pezzo ogni volta che questo sia preso dal visitatore. È anche un
riferimento al passare del tempo e della possibilità di erosione e scomparsa. È
tutto riguardo la bellezza dell’occasione, la stessa occasione che rende l’amore
possibile. Riguarda la vita e la sua definizione più radicale: la morte.65

Nel 1991 una lampadina si spense e finirono le caramelle. Il primo dei due
orologi da muro smise definitivamente di ticchettare. Ross era morto e il lutto
dovette colmare il vuoto di quell’unione che Felix aveva sempre posto al centro non
solo della sua vita, ma anche della sua produzione.
Da questo momento la sua ricerca iniziò a calamitarsi sulla solitudine,
sull’abbandono e sul ricordo dell’amato. Le sue mostre si arricchirono di immagini
vuote: due sedie, delle ombre, giganteschi poster, quasi delle carte da parati, che
ritraggono un uccello che vola solitario nel cielo, un letto vuoto. Sono immagini,
queste, che riconducono alla considerazione che quel due, la coppia che Felix aveva
sempre amato, fisicamente non c’era più. Restavano, fisicamente, solo le lettere che
Ross aveva scritto a Felix, che l'artista ci ripropone, esposte, quasi come a voler
fargli acquisire un nuovo senso e una nuova vita.
Untitled (1992) venne realizzato, con immensa probabilità per “ricordare” il
compleanno di Ross (5 marzo), per una esposizione di public art a New York66. Il 16
maggio 1991 Manhattan, Brooklyn, Queens e il Bronx si videro tappezzare dai
ventiquattro cartelloni di Gonzalez-Torres. L'ingrandimento di una luminosa e

65 Spector, 1995, p.58

66 Billboard Project, Museum of Modern Art, NYC, 24 New York City locations, May 16 - June 30

42
sgranata fotografia, ritratto della parte superiore di un letto con lenzuola bianche
stropicciate e con due cuscini segnati anch'essi dalle visibili impronte su cui le teste
si posarono. Un lavoro che solo per la delicatezza con cui si adagiò nella città,
guadagnava ancora più valore, per la sua capacità di diffondere, negli sguardi di tutti
e col tempo dovuto, l'evidenza del fatto che non si trattasse di un cartellone
pubblicitario. La sua immobile nudità faceva inizialmente pensare che da un
momento all'altro sarebbe comparso un testo, ma, nonostante permanesse nel
pubblico la vana speranza di quell'apparizione, di un marchio di qualche brand, di
una qualsiasi spiegazione, su quell'immagine non succedeva niente. O, per meglio
dire, qualcosa successe. L'anonimato dell'opera, così priva di qualunque messaggio,
costrinse gli involontari spettatori a scaturire il bisogno di significati propri, di
fornire dei contenuti all'anomala, ma stranamente familiare, fotografia. Ecco come,
su questa enigmatica immagine, in cui nulla era stato detto, si andarono proiettando
le fantasie e le esperienze, parte integrante di una universale, ma intima,
consuetudine. Si scaturì un meccanismo morboso che apriva ad innumerevoli
interrogativi: “Di chi era quel letto? Chi ci dormiva? Perché?” Quel tipo di reazione
era esattamente ciò che Gonzalez-Torres, voleva provocare. Rendere gli spettatori
integrati nell'opera, tanto quanto i motivi che spinsero l'artista a realizzare il lavoro.
Gonzalez-Torres rende l'assenza stessa soggetto del suo lavoro. Con grande
consapevolezza, ma senza superare mai realmente il lutto nei confronti della perdita
di Ross, ripropone il vuoto lasciato, come farebbe un bambino. Attraverso il
“pensiero magico”67 basato sulla credenza che tutto sia possibile e che si possano
cancellare gli eventi attraverso pratiche magiche, l'artista decide di giocare a “fare
finta che” mettendo nuove caramelle68 nella sua installazione ogni qual volta non ce
ne siano più e alimentando la speranza che quel letto, dimostrazione fisica
dell'assenza, attraverso quei due solchi sui cuscini, non perda la sua vitalità. Non un
ritratto di Ross, di cui non conosceremmo nemmeno il volto se non fosse per qualche
scatto rubato. Perché il suo volto rimane privato? Perché al pubblico è concesso
conoscere solo il fantasma di Ross? Non è concesso conoscerlo, ma solo capire cosa
significa non averlo più. Così, Gonzalez-Torres, ci illustra come il suo lutto non gli

67 Termine preso a prestito da Jean Piaget, dalle opere dei sociologi, in particolare di Lévy-Bruhl, sul
pensiero primitivo e successivamente ripreso dagli psicologi e psicoanalisti.

68 Untitled (Ritratto di Ross a LA), 1991

43
conceda nient'altro che sottili metafore su cosa significhi dover ancora dormire, da
soli, in quello stesso letto a noi pubblicamente offerto. In fondo la morte per
Gonzalez-Torres non si è forse rivelata così grave come la morte del compagno. La
sua opera avrebbe ritrovato il suo ritmo. I due orologi69 fermandosi avrebbero
riabbracciato la loro sincronia, e così anche le caramelle del peso di entrambe i corpi,
sarebbero terminate una volta per tutte, mentre quel letto vuoto sarebbe stato di
nuovo finalmente pieno di entrambi. Ciò dimostra in questo caso ancora di più
quanto sia vera l'affermazione di Barthes che la fotografia si annulla come medium
per divenire la cosa stessa, senza essere più neppure segno70.
Questo assentarsi non precede l’apparire unico di una lontananza: non
circonda l’opera di un’aura e di un’aspetto cultuale che pone a distanza, ma piuttosto
si classifica come uno smettere di essere mezzo da parte dell’opera, la costituzione
improntata dall’artista attraverso l’atto creativo di un’opera intesa come contesto. Un
vuoto che allo stesso tempo diviene spazion disponibile e possibilità di relazione:
L’opera, l’icona non si interpone, ma intercede rispetto alla nostra esistenza.
Questa ripresa di una contestualità, che è cosa tipica del processo fotografico
anche dove l’atto venga vissuto come azione del puro inconscio ottico dell’immagine
da parte dell’artista – in Gonzalez-Torres arriva a farsi puro spazio nelle opere più
estreme, ad esempio nei fogli bianchi listati a nero di Untiled (The End), dove appare
come trasparente rinuncia a rendere mezzo il proprio stesso dolore andando oltre
Untitled (5 March): qui l'immagine deve essere scelta dallo spettatore, immaginata.
Se la sua opera sta dunque nel creare un contesto e può dirsi performativa per
lo spettatore e curatoriale per Gonzalez-Torres ad un tempo, e se è vero che non ha
mai lasciato lo stadio naturale di collocazione spaziale precaria – anche lo spazio
commerciale e quantitativo dei billboards è aberrazione formale della unicità –
inizialmente dovuto al caso delle prime esposizioni in cui si era ritrovato gli spazi a
pavimento come unici spazi disponibili; è pur vero che la contestualità di Torres è
offerta come ricostituzione possibile di una predestinazione, di una lettura dei segni,
dove però il magico a cui accede l’individuo non è affetto da aura, e la foto non cerca
mai di essere creativa, ma lascia vedere il mondo nel suo non essere bello: anzi, in
esse il contesto della vita, appare proprio come paesaggio pubblico sebbene arrivi

69 Untitled (Perfect Lovers), 1991

70 Barthes, 2003, p. 47
44
spesso dall’esperienza privata di Torres e anche la perdita di aura di questo contesto
lo è.71 Gonzalez-Torres rinuncia alla seduzione verso lo spettatore e assieme ad esso,
attivandola come lampadine destinate a spegnersi appunto, celebrando la perdita di
quell’aura assieme alla sua disponibilità, progressivamente, fra le mani di chi fa
vivere nei propri gesti e fino alla fine le sue opere.

71 Benjamin, 2000, p. 75
45
CONCLUSIONE

Scrivere per ricordarsi? Non per ricordarmi, ma per


combattere la lacerazione dell'oblio così come si
annuncia in quanto assoluta. L'imminente “più nessuna
traccia”, da nessuna parte, in nessuno.

Necessità del “Monumento”.


Memento illam vixisse.72
Roland Barthes

“Ci sono delle mattinate così tristi...”73 scrive Barthes in Dove lei non è, poco
prima di morire. Quest'espressione, apparentemente così banale, se fraintesa come
riferimento alla propria fine imminente, Barthes la pone invece su di un piano molto
meno scontato, facendola riferire alla sofferenza data dalla paura di una morte che
aveva già avuto luogo. La citazione, come l'intero libro, si riconduce infatti al dolore
per l'assenza di una madre che non può tornare, assenza la cui malinconia di una
certezza del definitivo per cui non esistono ripieghi, si esprime in questo tentativo di
ritrovamento attraverso la scrittura. Barthes in Dove lei non è si mostra tra le righe di
un diario inconcludente in cui si arriva a percepire la fallimentarietà della
realizzazione di quello che doveva essere un diario di lutto, dimostratosi piuttosto,
infine, un diario d'amore. Si viene travolti dalla devozione incommensurabile
espressa dal figlio per la madre, in cui pagina per pagina, per due anni, Barthes
sprofonda in una ricerca di una salvezza, assente già in partenza, nella scrittura.
Così, tornando ai singoli artisti trattati all'interno della tesi, per il loro rigore
ed eroico atteggiamento – nei confronti di sé, nei confronti dell'opera, nei confronti
di una morte e di un lutto consapevole – si può giungere, come per Barthes, alla
triste, comune ed universale conclusione che nulla salva dall'assenza, dalla perdita
dell'altro, dalla morte del sé nell'altro, e che, nonostante questa consapevolezza,
continui a esistere la necessità di un'insistenza nella dedizione amorosa, dolorosa,
verso quel vuoto.

72 Barthes, 2010, p.116


73 Ivi., p.246
46
Nan Goldin sa con certezza che la morte ti porta via tutto e non prova ormai
più ad imporsi di credere non sia così. Ha dovuto imparare in fretta, poiché la strage
dell'AIDS aveva iniziato a portarle via tutti, e, morte dopo morte, l'artista insieme
all'apprendimento del dolore lancinante della perdita, si disfava delle speranze
accumulate gradualmente, accettando la sconfitta, arrivando a tradurre
quest'estenuante condanna a morte in una nuova alba fatta di una verità sempre più
dolce, se pur cruda, fatta di bambini che non hanno ancora perso e che possono solo
trovare, conoscere, vivere.
Lo scherno delle pose e le smorfie compiaciute di Hannah Wilke – illusione
di una serenità nei confronti del morire, constatazione di una malinconia pregna –
quando ammirate nella sua complessità totale – portano alla comprensione in Intra-
Venus di una spensieratezza forse di copertura, come a voler proteggere il suo
rapporto con Donald Goddard, inevitabilmente portato al suo limite dalla morte di
Hannah. Così si forma un inconsapevole escamotage, come un fil rouge che concede
alla coppia l'illusione chimerica di non lasciarsi in modo definitivo, poiché finché
esisterà Intra-Venus Goddard non sarà solo.
Allo stesso modo Sophie Calle, dichiarando la sua necessità di seguire Pas pu
saisir la mort personalmente – in qualunque ipotetica esposizione a cui invitata,
dichiarando che quel lavoro non verrà venduto per alcun motivo – ci rende partecipi
di questa sua incapacità di superare la perdita della madre e quindi di accettare
totalmente i meccanismi dell'arte, a cui arrendendosi le acconsentirebbe di staccarsi
da lei, di diventare pienamente opera. Per questo motivo Sophie Calle la tiene con sé,
come a volersene ancora prendere cura tanto quanto in vita, nonostante quel souci,
ultima parola della madre.
Lo stesso Gonzalez-Torres si ritrova – nella credenza fasulla di poter
ingannare la morte – a non rispettare le leggi che lui stesso ha dettato. Nell'atto di
porgere il corpo dell'amato o il proprio corpo al pubblico sotto forma di caramelle,
l'artista ritira l'invito se presente nella sala su cui posa il proprio lavoro, chiede al
pubblico di non cibarsene, ferma il processo di distruzione da lui stesso
programmato, così come provoca la rinascita ogni qualvolta esso si sia esaurito. Si
rende col tempo conto che la fine è inesorabile, che le sue resurrezioni sono solo

47
illusioni e che così come la morte gli ha portato via Ross, si porterà via anche lui.
Visione quest'ultima quasi bucolica per Gonzalez-Torres: ecco che l'esistenza
dell'uno come solo, cede il posto di nuovo al due, come assenza del due. Il vero
momento magico per Gonzalez-Torres si può presupporre essere questo.
Il lutto, che dovrebbe nel tempo evolversi e dileguarsi, si trasforma nei casi citati in
un addomesticamento della morte, da sapere preso in prestito, a proprio sapere74,
che non può fare più male di quel lutto, di quella tristezza che non se ne va.
L'artista non potendo non fare i conti con questo aspetto della vita, con questa ferita
che non smette, se non in modo saltuario, di sanguinare, si trova a dover trasformare
il lavoro dell'elaborazione del lutto in lavoro artistico, alla ricerca di quello scambio
che non c'è più. Si viene costituendo così quello che l'autore chiamerà Monumento75
alla mancanza, espressione del tentativo di far riconoscere ciò che è perso.
Si può percepire come questo lavoro, questo Monumento di cui parla Barthes diventi
però misteriosamente più utile per lo spettatore. Il dialogo inizialmente sviluppatosi
tra artista e opera, si muta, ad opera finita, in un rapporto diretto tra opera e
spettatore. L'artista non è più utile all'apprendimento, poiché il riconoscimento si
trova nell'opera, e quel riconoscimento che allo spettatore serve appare ormai
inefficace per l'artista. Ma questa perdita di sangue dell'artista, questa ferita aperta è
fonte di salvezza almeno per chi guarda, origine di ogni trasfusione di senso, che ci
lascia in vita.

74 Ivi., p.121
75 Ivi., p.135
Barthes dichiara il Monumento come qualcosa che non è durevole, che non rappresenta l'eterno.
Così come anche le tombe muoiono, allora il Monumento non può che intendersi come un atto che
fa riconoscere.
48
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Videografia
Nan Goldin: In My Life (Documentary DVD, ART / new york)

Contacts.Vol2.02 of 11: Nan Goldin

Contacts.Vol2.01 of 11: Sophie Calle

52
53
ABSTRACT

Immortalare la morte è un percorso attraverso la sofferenza del lutto e il


processo di creazione dell'opera, tra ciò che non c'è più e la narrazione inenarrabile
che dall'assenza deriva. La lingua dell'arte tenta di salvare quell'assenza
preservandola, ricreando le relazioni perse, recuperandone, conservandone l'integrità
venuta a mancare. La creazione artistica come rimedio, come terapia contro il male
che aggredisce la vita, contro la morte che la altera e la decompone.
Centrale alla tesi non è tanto questa magia presente nei codici dell'arte, bensì
una selezione di opere, o per meglio dire di artisti, in cui il tabù contemporaneo della
morte viene sfatato attraverso la sua esposizione totale, attraverso una sofferenza
ulteriore che porta a guardare direttamente in faccia il disagio del lutto e
dell'attaccamento che la perdita trascina con sé. Nan Goldin, Sophie Calle, Hannah
Wilke, Felix Gonzalez-Torres selezionati per il loro rigore ed eroico atteggiamento
nel confrontarsi con sé, con l'opera, con la morte e con il lutto, si dimostrano casi
molto simili nella propria ricerca spasmodica – ma fallimentare dal punto di vista
salvifico – di offrire un'immagine trasparente, una radiografia in cui non venga
tralasciata la morte.
Si giunge dunque, attraverso questo percorso, all'universale conclusione che
nulla può salvare dall'assenza, dalla perdita dell'altro, dalla morte del sé nell'altro, ma
che nonostante ciò continuerà sempre ad esistere la necessità di un'insistenza nella
dedizione amorosa, dolorosa, verso quel vuoto. Così il lutto, che dovrebbe nel tempo
evolversi e dileguarsi, si trasforma invece in un addomesticamento della propria
morte, atto meno doloroso rispetto al lutto con cui l'uomo non può evitare il
confronto. L'artista, elaborandolo in forma di opera, cercando quello scambio che
non c'è più, va costituendo un Monumento alla mancanza, espressione del tentativo
di far riconoscere ciò che è perso. Quel Monumento diventa però misteriosamente
più utile, ad opera finita, per lo spettatore con cui nascerà un dialogo diretto. L'artista
quindi, ai fini dell'apprendimento non servirà più e quel riconoscimento di cui ha
bisogno lo spettatore si mostra così, sotto forma di oggettualizzazione del lutto
dell'artista, in fonte di salvezza, ormai efficace solo per chi guarda.

54
ABSTRACT

Immortalize the death is a journey through the pain of the bereavement and
the creative process of the work, between what it is gone and the indescribable
narration that from the absence derives. The art language tries to save that absence
preserving it through the recreation of the lost relationship, recovering and
preserving the integrity which has ceased to exist. The artistic creation meant as a
remedy, as a therapy against pain and death that break the life.
Central in this thesis isn't the magic inside the art codes, instead is a selection
of works, or rather of artists, wherein the contemporary taboo of death is annihilated
through its total exposure, through a further suffering which faces the discomfort of
the mourning and of the loss that the attachment drag with itself. Nan Goldin,
Sophie Calle, Hannah Wilke, Felix Gonzalez-Torres, selected for their rigor and
heroic attitude in dealing with themselves, with the work, with the death and the
mourning, prove cases very similar in their frantic search - but unsuccessful in a
salvation perspective - to offer a transparent image, an X-ray wherein isn't left the
aspect of the death.
We leads, through this path, to the universal conclusion that nothing can save
from the absence, from the loss of the other, from the own death in the other, but
nevertheless the need of an insistence about a love dedication, toward the void, will
always continue to exist. So the mourning, which should evolve and disappear over
time,turns into a taming of the own death, less painful act than the grief with which
the human being can't avoid the confrontation. The artist, while elaborating it in the
form of an art work, is trying to find that exchange that no longer exists, builds a
monument to the lack, an expression of the attempt to recognize what is lost. That
monument, however, becomes mysteriously more useful, in the finished work, for
the spectator which will create a direct dialogue. The artist then, is no more useful for
learning and that recognition that the spectator needs, is thus found in the form of the
objectualization of the artist's mourning, a source of salvation, now effective only for
the viewer.

55

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