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Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea in Linguaggi dei Media

MITI E DIVI DELLA POSTMODERNITA’

Relatore: Chiar.mo Prof. Marco LOMBARDI

Tesi di Laurea di:


CLARA ODORICI
Matr. N. 3101857

Anno accademico 2005-2006


Alle mie due super-nonne,
che sicuramente vedono e se ne fanno un vanto

2
Indice

Introduzione

1. Il divismo come fenomeno sociale

1.1 Perché abbiamo bisogno dei miti?


1.2 Definizioni e teorie
1.3 Il rapporto tra fan e divo: identificazione e proiezione
1.4 I divi sono modelli di comportamento?

2. I modelli di divismo

2.1 Il divismo pre-televisivo: cinema e nascita dello star-system


2.2 Il divismo post-televisivo: da star a “meteore”
2.3 La personalizzazione della comunicazione politica: un caso
(quasi) inedito di divismo

3. Postmodernità e divismo

3.1 La società dell’incertezza


3.2 Identità frammentate
3.3 Il “divismo diffuso”

Conclusioni

Bibliografia

3
Introduzione

Interrogarsi sui miti ha molto a che fare con l’interrogarsi su se stessi.


Riuscire a individuare le forme in cui si presentano e le motivazioni che
spingono gli individui a credere in uno specifico tipo di rappresentazione,
è il primo passo per una riflessione sul contesto in cui un determinato
mito si afferma e in cui una persona definisce la sua identità. I miti non
rimangono mai uguali a se stessi: non sono entità o rappresentazioni
immutabili e fisse, ma il risultato di un processo infinito di
sedimentazione, in cui, a ritmo delle dinamiche sociali, di sommano
contributi eterogenei che finiscono per costituire un orizzonte di senso
utile all’individuo per comprendere la realtà. Una volta assunto questo
concetto, seppure superficiale per ora, si riesce a comprendere che i miti,
in qualunque forma si presentino, svolgono un ruolo irrinunciabile su cui
vale la pena riflettere.
I miti contemporanei sono ovviamente diversi da quelli del passato:
nella società dell’immagine coloro che in modo più evidente assolvono
tale funzione sono i personaggi che godono di grande visibilità, in cui la
gente si riconosce, che suscitano interesse e curiosità e che attivano
processi imitativi o di semplice ammirazione. Senza immagine non vi è
divo: questo è l’assunto che fa da sostrato a questo lavoro e che sottolinea
la fondamentale caratteristica che fa di un personaggio un divo, un
oggetto di interesse o un modello, che sia di consumo, di riferimento, etc.
Nel primo capitolo sarà affrontato il fenomeno divistico in quanto
fenomeno sociale: si individueranno le ragioni dell’esistenza del mito,
saranno riportate le maggiori teorie sul divismo, le diverse tipologie di
relazione fra divo e spettatore e ci si interrogherà sullo status della star in
quanto modello di comportamento. Nella seconda parte dell’elaborato si
distingueranno due fondamentali tipologie di divismo, si assumerà

4
l’avvento della televisione come punto di svolta e si illustreranno le
differenze fra il divismo “classico” pre-televisivo e il “nuovo” divismo
post-televisivo. Si rifletterà inoltre sulle differenze intervenute nel caso
specifico della comunicazione politica e si potranno evidenziare i
cambiamenti intercorsi nel tempo confrontando alcuni interventi di
studiosi italiani rispetto alla situazione attuale. Infine, nel terzo capitolo
si prenderà in considerazione la prospettiva postmoderna, che
contribuisce al tentativo di spiegare le trasformazioni avvenute riguardo
alla quantità e alla qualità delle rappresentazioni divistiche. Partendo
dalla convinzione che il mito, in qualunque sua forma, influenzi di molto
le dinamiche di costruzione dell’identità, si rifletterà sulla condizione
dell’identità individuale, sulla sua frammentarietà e sul bisogno di diversi
contributi che concorrano a formare un insieme di elementi utili alla
costruzione e alla trasformazione incessante di sé. In ultimo, un appunto
sul rischio dell’invisibilità: cosa succede quando l’individuo
contemporaneo si trova non-conoscibile dagli altri a causa della sua
estrema complessità?
Una piccola nota che assolverà ad alcune mancanze evidenti: durante
la fase di documentazione e poi in quella di stesura vera e propria, mi
sono imbattuta in una miriade di contributi, notando che questo
argomento coinvolge numerose e differenti sfere di interesse. Dovendo
circoscrivere la mia area di riflessione ho purtroppo sorvolato su molti
aspetti che avrebbero meritato un approfondimento a parte, ma che
avrebbero reso le mie connessioni mentali tra un concetto e un altro
pressoché infinite. Laddove ho sentito particolarmente queste mancanze
si troveranno dei brevi riferimenti.

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1. IL DIVISMO COME FENOMENO
SOCIALE

1.1 L’uomo ha bisogno dei miti

Il mito è soprattutto una forza culturale che si rigenera continuamente,


e ogni cambiamento storico crea la sua mitologia che, tuttavia, si ricollega
solo indirettamente al fatto storico, perché il mito è un costante prodotto
dello status sociologico che ha bisogno di precedenti. […] Nella cultura
primitiva il mito esplica una funzione indispensabile: è l’espressione, la
valorizzazione, la codificazione di un credo; difende e rinforza la moralità;
garantisce l’efficacia del rito, e contiene pratiche che guidano l’uomo. Il
mito è perciò una componente vitale della civiltà umana; non è un futile
racconto, ma una forza attiva operante; non è una spiegazione razionale o
un’immaginazione artistica, ma un documento pragmatico di fede
primitiva, di saggezza morale.1

Da queste parole di Malinowski appare evidente il ruolo essenziale del


mito nelle civiltà e nelle società di ogni tempo. La funzione fondamentale
del mito è quella di attribuire alla realtà un significato, di giustificarla: in
sostanza, creare senso, dare stabilità e ordine a elementi primordiali del
mondo che l’uomo altrimenti non potrebbe comprendere. Il mito svolge,
da un certo punto di vista, un lavoro riparatore, dà senso al nostro
destino impermanente, garantendo agli uomini il controllo su ciò che
altrimenti apparirebbe incontrollabile e rende accettabile ciò che si deve
necessariamente accettare (per esempio la morte, la malattia, il lavoro, la
sottomissione, etc). Come si è detto, l’attività del creare miti è un’attività

1 B. K. Malinowski, “Il mito e il padre nella psicologia primitiva”, Newton Compton, Roma, 1976

6
rivolta a creare senso, ma il senso della vita cambia continuamente con il
cambiare della storia e della società: ecco che questa continua creazione
viene incontro al nostro bisogno di valori simbolici, valori che si
modificano nel tempo e che necessitano di forme sempre diverse tramite
cui esprimersi. Anche oggi, sebbene in modo diverso, creiamo miti e
questo perché sentiamo l’esigenza di sviluppare un immaginario
collettivo che ci comunichi il senso più profondo del vivere specifico nella
nostra società, nel nostro mondo attuale.
I miti hanno sempre avuto, e continuano ad avere, un ruolo
preponderante nella costruzione dell’identità sociale di ogni individuo:
costituiscono modalità di espressione, in forma irrazionale, ma
coinvolgente dal punto di vista emotivo, di aspirazioni, credenze e valori
morali. Attraverso i miti le società del passato, e in qualche modo anche
quelle del presente, costituivano un immaginario collettivo in cui ogni
individuo poteva ritrovare la sua identità, comune agli altri membri dello
stesso gruppo di appartenenza. La funzione più evidente del mito è infatti
quella di contribuire alla creazione di una mentalità uguale per tutta una
collettività e se anche il mito è creazione della fantasia, costituisce
comunque un sistema di credenze, di modelli, di valori a cui tendere che,
pur mettendo in gioco conoscenze tutt’altro che scientifiche, dimostrabili
o razionali, riesce a fornire unità a tutto il reale, espressione di una data
cultura.
I miti rispondono al bisogno fondamentale dell’individuo di
identificarsi, di riconoscersi in qualcosa che lo precede: tale
riconoscimento soddisfa il bisogno di un appoggio sociale. Questa
coesione, prodotta attraverso l’imitazione, riafferma l'appartenenza al
gruppo, limitando il timore dell'isolamento: “l'istinto gregario è un

7
tratto originario e irriducibile ad altre tendenze, per cui gli uomini sono
spontaneamente attratti ad unirsi tra loro”2.
Thomas Carlyle, negli anni ’40, lamenta la scomparsa dell’eroe nella
civiltà moderna3. Secondo la sua tesi, l’avvento del capitalismo e della
democrazia porrebbero fine al fenomeno dell’eroismo individuale. A
questo proposito, prendendo spunto dalle idee di Carlyle, scrive Gundle:

La diffusione della cultura di massa, lo sviluppo dei movimenti di


massa e la guerra contemporanea rendono possibile solo l’apparenza
dell’eroismo, non la sua sostanza. In una situazione di scarse, se non
inesistenti, opportunità di eroismo individuale, nella quale […] c’è bisogno
di esperienza carismatica, viene sollecitata la creazione artificiale di
un’aura incantata. […]
I “nuovi eroi” differiscono per molti aspetti da quelli antichi. Non si
tratta di “creatori” cui si deve la realizzazione di un’opera o un’impresa
importante per il loro paese, bensì di individui che inscenano una
prestazione, che devono la propria fama a campagne pubblicitarie o che,
semplicemente, sono famosi. Se non forniscono esempi di impresa eroica,
indicano in compenso modelli di consumo; a interessare non è il loro
operato ma il loro stile di vita.4

I miti, gli eroi, non sarebbero quindi scomparsi definitivamente, come


scriveva Carlyle più di un secolo fa, ma riproposti in altre sembianze,
costruiti su misura per rispondere a esigenze contemporanee molto
differenti che nel passato. Tessarolo, riferendosi alla natura, al significato
e al modo in cui il mito si inserisce nella società sostiene che

2 S. Freud, “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, in “Opere di Sigmund Freud”, volume IX
(1917-1923), Boringhieri, Torino, 1977, p. 262
3 Il lavoro di Carlyle risale al 1843, tradotto in italiano nel 1992 “Gli eroi: il culto degli eroi e

l’eroico nella storia, Milano, 1992


4 S. Gundle, “L’età d’oro dello Star System”, in “Storia del cinema mondiale”, G. P. Brunetta (a

cura di), Einaudi, Torino, 1999-2000

8
Se il mito è di natura simbolica e sempre funzionale, anche i miti che
oggi sono diffusi dall’industria culturale devono rispondere a certe
necessità e aspettative collettive che persistono poiché sono fortemente
radicate nell’uomo, tanto più che i miti non possono essere imposti. Anche
quelli moderni per penetrare e radicarsi devono dare risposte alle
domande latenti nell’attuale società: solo così il mito diventa il risultato di
un tacito accordo tra l’industria culturale e il suo pubblico.5

Secondo l’autrice, il fatto che l’eroe o il mito continui ad esistere nella


cultura e nella società moderna, ad avere un ruolo nonostante i
cambiamenti che le sue forme hanno subito, è un dato psicologico
significativo e che funzionerebbe come “risposta difensiva e
compensatrice dell’anonimato e dell’omogeneizzazione della moderna
società industriale” 6.
Durgnant scriveva che le star sono un riflesso in cui il pubblico scruta
e adegua la propria immagine: potenzialmente, a suo parere, la storia
sociale di una nazione potrebbe essere scritta alla luce delle sue star
cinematografiche, che rappresentano bisogni e aspirazioni della gente
comune, la quale contribuisce con il suo interesse a creare i divi. Morin
sostiene in sostanza qualcosa di simile quando dice:

La star è davvero un mito. Non è solo sogno, ma idea-forza. Lo


specifico del mito è la capacità di inserirsi o incorporarsi in qualche modo
nella vita. Se il mito delle star si incarna con tanto clamore nella realtà, è
perché si tratta di un prodotto di questa realtà, cioè della storia umana del
XX secolo.7

5 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo: la trasformazione dei modelli di divismo”,


Cleup, Padova, 1998
6 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo: la trasformazione dei modelli di divismo”,

Cleup, Padova, 1998, p. 104


7 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957

9
I miti, i divi, quindi, sono frutto della cultura e della società in cui essi
penetrano, incarnando i desideri, le aspirazioni, i valori di tale società.
Nella società contemporanea i miti sono principalmente frutto
dell’industria culturale, la cui elevata visibilità permette un’osservazione e
una conoscenza dei divi in precedenza inimmaginabile. La diretta
conseguenza è che nel tempo le star diventano sempre più familiari e, se
da un lato perdono, progressivamente, la loro aura mitica di
irraggiungibilità, dall’altro acquistano l’affetto e la tolleranza del
pubblico, della gente comune che li sente più vicini e più facilmente
assimilabili: “gli eroi restano eroi, cioè modelli e mediatori, ma
combinando in modo sempre più stretto e vario l’eccezionale e il
consueto, l’ideale e il quotidiano, offrono all’identificazione dei punti
d’appoggio sempre più realistici”8.

8 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957, p. 42

10
1.2 Definizioni e teorie

Fin dalle prime righe de “L’élite senza potere” del 1963, Francesco
Alberoni sottolinea che la letteratura sull’argomento “è molto deludente
se ci si accinge a studiare il fenomeno da un punto di vista sociologico”9.
E’ proprio la scoperta della totale mancanza di trattazioni rigorose che
spinge l’autore a tentare un lavoro di riflessione e formulazione del
fenomeno che facessero da “base per una sociologia del divismo” 10.
Oggi gli scritti sul divismo come fenomeno sociale rilevante sono,
naturalmente, più numerosi, ma tutti quelli, posteriori al 1963, che ho
preso in considerazione per approfondire l’argomento, partono da
Alberoni e dal suo lavoro, che rimane pietra di paragone e scritto
iniziatore per chiunque voglia occuparsi di divismo. Bisogna ammettere
che molti passaggi continuano ad avere validità anche dopo più di
quarant’anni e questi saranno punti fermi che non possono non essere
riportati. Alcune teorie possono essere invece messe in discussione e
aggiornate alla luce dei cambiamenti che sono avvenuti nella società in
generale, puntualmente riportati in lavori più recenti.
Il primo passaggio fondamentale per iniziare un percorso nel tempo
tra i diversi modelli di divismo è la definizione iniziale di Alberoni che
così spiega chi sono i divi:

Vi sono, nella società contemporanea occidentale, degli uomini che


non occupano posizioni istituzionali (cioè definite tali) di potere e le cui
decisioni non sono viste e valutate collettivamente in quanto influenzanti
la vita degli altri uomini né il loro futuro, ma la cui attività è oggetto
d’ammirazione e la cui vita è seguita con interesse. Essi, il più delle volte,
appartengono al mondo dello spettacolo, ma non solo a questo; vi sono fra

9 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano 1963, p. 7


10 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano 1963, p. 8

11
essi pittori ed artisti celebri, personaggi investiti di potere pubblico in altri
paesi ma senza potere in quello di cui parliamo, quali regnanti e
aristocratici, persone ricchissime e bizzarre e persone che si sono distinte
per qualche attività eccezionale.11

Nel capitolo seguente saranno individuate modificazioni avvenute nel


tempo nel rapporto fra divi e potere, per ora mi limiterò ad assumere per
valida la definizione proposta e a riportare le maggiori teorie relative al
fenomeno in esame.
La prima teoria è di origine psicologica: i divi non sono personaggi
reali, ma immaginari, sono quindi la proiezione dei desideri degli uomini
comuni, che nella vita dissoluta o opulenta delle star realizzano
l’altrimenti irrealizzabile fantasia di essere ricchi e liberi da freni inibitori.
I divi appaiono infatti oggetto di proiezione e di identificazione: la loro
vita costituisce una modalità inconsciamente sognata da molti membri
della società. La debolezza della teoria però risiede nel fatto che essa è una
teoria puramente psicologica, non sociologica. Essa non è in condizione di
spiegare perché solo alcuni personaggi diventano una fantasia della
società, mentre altri, ugualmente pubblici, non lo diventano […].12

La seconda teoria di origine socio-politica d’impronta marxiana


riporta il fenomeno divistico alle contraddizioni fondamentali della
società capitalistica. Secondo tale concezione:

Il sistema socioeconomico capitalista ha in sé innumerevoli


contraddizioni, ma tutte riconducibili al fatto che, pur assicurando
giuridicamente l’uguaglianza dei cittadini, di fatto […] perpetua una
divisione tra sfruttatori e sfruttati e cerca continuamente di impedire ai

11 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963


12 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963

12
secondi di prendere coscienza della propria condizione di sfruttamento
[…].
Allontanando gli uomini dalla coscienza della loro natura (sociale), li
distoglie dalle sorgenti dei loro naturali interessi e desideri e genera
aspirazioni, desideri, affetti, speranze fallaci, utili, in ultima analisi alla
perpetuazione dello stato di fatto. Il sistema culturale genera quindi dei
miti che mistificano la realtà e alienano l’uomo da se stesso. I divi non
sono che uno dei prodotti del sistema culturale […].13

Anche questa teoria ha elementi che la rendono parzialmente


apprezzabile e altri che svelano le sue debolezze. Ha l’indubbio merito di
sottolineare come qualunque prodotto del sistema culturale, quindi anche
i divi nello specifico, abbia una funzione conservativa e contribuisca in
definitiva a legittimare in qualche modo i rapporti di potere presenti nel
sistema. Risulta però difettosa nel prevedere le possibili evoluzioni che il
fenomeno divistico necessariamente subirà nel tempo, dato che si tratta
pur sempre dell’applicazione di categorie aprioristiche e non di una teoria
sociologica, come non manca di evidenziare Alberoni nella sua analisi.
La teoria sociologica del divismo, così come viene proposta da
Alberoni nel suo lavoro, prevede alcune condizioni necessarie:
•• Una società di grandi dimensioni, in cui milioni di persone possono
conoscere una star (che al contrario non può conoscere tutti),
particolarmente evidente nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione di
massa;
•• Uno sviluppo economico superiore alla sopravvivenza, in modo che
possa svilupparsi interesse e curiosità verso le star, elementi sui quali
si fonda appunto il divismo;
•• Una certa mobilità sociale, funzionale a far percepire come realizzabili,
almeno sul piano inconscio, le aspirazioni della gente comune a

13 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963

13
sperimentare cosa significa essere un divo. Senza questo tipo di
“speranza” data dalla mobilità sociale, i divi non avrebbero senso di
esistere, perché non verrebbero attivati i meccanismi di
identificazione e proiezione nei loro riguardi.
Si evidenzia poi la fondamentale differenziazione che caratterizza la
teoria di Alberoni: sono molti i personaggi pubblicamente rilevanti, ma
solo coloro le cui azioni non sono valutate per le conseguenze che hanno
sulla collettività posso essere definiti divi. Secondo la sua teoria, infatti, i
componenti della cosiddetta élite del potere vengono giudicati per il loro
“agire di ruolo”, per le azioni che compiono in funzione della posizione di
potere che occupano. Al contrario, per quanto riguarda l’ élite senza
potere, essi vengono giudicati non tanto per il loro lavoro, quanto per la
loro vita privata, in sostanza, per il loro “agire in comunità”.

La separazione di due ruoli e di due sfere valutative distinte permette


una valutazione più razionale ed obiettiva dell’agire di coloro che
occupano le posizioni istituzionali di potere senza o con scarse
contaminazioni emozionali improprie. Di contro la valutazione emotiva
viene rivolta con minor rischio a coloro che non occupano posizioni
istituzionali di potere e che sono politicamente irresponsabili, perché in
tal caso non diventa fonte di legittimazione impropria. Il meccanismo ha
una funzione protettiva contro il pericolo, estremamente grave in una
società democratica, di un potere di tipo carismatico, fondato cioè sul
fascino della personalità eccezionale, in cui il capo trae il suo potere non
da ciò che fa e di cui deve rendere conto ma da ciò che è.14

Per evitare commistioni e separare i ruoli, l’autore elenca delle


“barriere” atte a impedire l’accesso dei divi al potere politico:
innanzitutto, seguendo la concezione maturata da Morin, secondo cui

14 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963

14
l’impossibilità dell’interazione diretta e la preclusione al possesso
impediscono il nascere di una dipendenza totale dall’altro, si può
affermare che proprio l’emotività suscitata dal pubblico ostacoli
l’occupazione di un potere istituzionale. In secondo luogo, si ritiene che il
divo non possegga le competenze professionali necessarie per esercitare
un potere di questo tipo. Terzo, si afferma che se il divo assumesse una
precisa qualificazione politica, smetterebbe di essere un riferimento per
la società in generale, identificandosi invece con una precisa classe
sociale.15
Infine, Alberoni richiama il concetto di carisma. Questa la definizione
di Max Weber di cui si serve anche il sociologo per le sue riflessioni:
Per carisma si deve intendere una qualità considerata straordinaria che
viene attribuita a una persona […]. Pertanto questa viene considerata
come dotata di forze e di proprietà sovrannaturali e sovrumane o almeno
eccezionali in modo specifico, ma accessibili ad altri, oppure come inviato
da Dio o come rivestito di un valore esemplare e, di conseguenza, come
duce.16

L’autore non crede che i divi siano figure carismatiche, sebbene vi sia
evidentemente una componente carismatica nella loro personalità.
Secondo Weber il carisma dovrebbe creare un rapporto di potere in cui il
suo portatore è vissuto come capo o guida. D’altra parte, nella definizione
che Alberoni fornisce di divismo si è sottolineato come esso non sia
dotato di potere d’autorità e come le sue decisioni non siano
materialmente rilevanti per i membri della collettività. Il carisma del divo
quindi, non porta alla reverenza, ma all’ammirazione e non costituisce un

15 Questi due ultimi concetti verranno messi in discussione da Enzo Kermol in un recente
volume, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di divismo”, che
giustamente fornisce un’obiezione chiedendosi come, se davvero ci fosse questa preclusione
politica ai divi, abbiano potuto ricoprire ruoli istituzionali personaggi come Ilona Staller o
Arnol Schwarzenegger o, più vicino ai tempi in cui scrive Alberoni, Ronald Reagan, Domenico
Modugno o Gianni Rivera.
16 M. Weber, “Economia e società”, Comunità, Milano, 1962, vol. 1, p. 238

15
rapporto di autorità tra divo e pubblico. Riferendosi ad attori ed attrici
celebri, Alberoni scrive:

[…] Sofia Loren, Brigitte Bardot, Gragory Peck o Marilyn Monroe […]
Non si può […] individuare per questi personaggi un’attività specifica in
cui essi eccellano in modo sovrumano. Dovrebbe essere quest’attività
l’interpretazione della parte e la corrispondente capacità o abilità
dovrebbe essere l’abilità interpretativa. In realtà il giudizio di valore del
pubblico non è dato in questi termini. Se per Mina si dice che canta bene,
Per Brigitte Bardot non si dice che recita bene, né Greta Garbo è stata
quello che è stata in quanto grande interprete. Ciò che ha rilevanza per
questi personaggi non è il momento fondamentalmente passivo
dell’interpretazione, quanto il momento attivo della realizzazione di
alcune modalità di essere che tali personaggi compiono sullo schermo e
nella vita e che permettono agli altri di ottenere, attraverso un processo di
partecipazione, la soddisfazione fantastica di interne esigenze.17

Perché si possa generare un rapporto carismatico fra divo e pubblico


occorrerebbe un totale annullamento della vita reale nella vita
cinematografica, che però è impossibile da realizzare. Ciò che quindi
impedisce al carisma dei divi di diventare potere è la distinzione tra reale
e fantastico, fra ciò che è realmente e la forza e il fascino dei molteplici
personaggi interpretati. In questo modo si attua perfettamente la
separazione e la fondamentale distinzione tra élite del potere ed élite
senza potere.

17 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963

16
1.3 Il rapporto tra fan e divo

In principio, agli albori del cinema hollywoodiano, l’impulso al


divismo non fu dato dalle case cinematografiche, bensì dal pubblico.
Nella maggior parte dei manifesti il nome degli attori non veniva
nemmeno citato, i produttori ignoravano le richieste degli spettatori sui
loro favoriti, nel timore che gli attori avrebbero preteso cachet maggiori
se avessero saputo della curiosità che aleggiava intorno a loro. Presto fu
chiara la potenzialità che aveva il divo in termini di pubblicità e di vendite
e nacque lo star system. Benché la costruzione di questo mastodontico
sistema sia nata dall’iniziativa delle case cinematografiche, l’impulso
primario fu dato dal pubblico, da coloro che andavano al cinema, si
riconoscevano in qualche modo in un personaggio e rimanevano
affascinati dagli attori, immaginando che la loro vita reale fosse
appassionante come quella che interpretavano sul grande schermo.
Per sintetizzare e dare una provvisoria schematizzazione al tipo di
rapporto che si può instaurare fra star e spettatore, riporto il modello di
Tudor18, che ha proposto una tipologia di relazioni non basata
sull’attrazione sessuale, a partire dalla scoperta secondo cui le persone
tendono ad amare i divi del proprio sesso19. Il modello prende in
considerazione il range di identificazione fra star e spettatore (alto/basso)
e il range di conseguenze (specifico/diffuso), e incrociando le variabili
ottiene quattro possibili raggruppamenti per le tipologie di rapporto tra
fan e divo.

18 A. Tudor, “Image and influence”, Allen and Unwin, Londra, 1974, p.80
19 Tale scoperta appartiene a Hendel, illustrata nell’intervento “Le bourse des vedettes”, in
“Communications”, n. 2, 1963

17
TIPI DI RELAZIONE STAR/SPETTATORE

Range di conseguenze

Contesto specifico Contesto diffuso

Auto- Proiezione
Alto identificazione

Range di
identificazione
star/spettatore Imitazione (di
semplici
Affinità caratteristiche
Basso emotiva fisiche e
comportamentali)

Le quattro tipologie di relazione si possono quindi definire in questo


modo:
ĺ Affinità emotiva: la categoria più debole e comune, che tutti
sperimentiamo quando proviamo simpatia per un particolare
personaggio;
ĺ Auto-identificazione: prevede un coinvolgimento tale da parte dello
spettatore che egli “si pone nella stessa situazione e persona della
star”20;
ĺ Imitazione: avviene quando la star diventa una specie di modello per il
pubblico, sia in riferimento all’aspetto fisico, sia per quanto riguarda il
comportamento o i modi di fare. E’ il tipo di coinvolgimento più
comune fra i giovani;

20 A. Tudor, “Image and influence”, Allen and Unwin, Londra, 1974, p. 81

18
ĺ Proiezione: l’imitazione diventa proiezione “quando il processo
supera la semplice imitazione dell’abbigliamento, della capigliatura,
del baciare, e così via”21.
In sostanza, identificazione e proiezione sono una degenerazione di
atteggiamenti semplici e comuni come l’affinità emotiva e l’imitazione. Mi
soffermerò sugli effetti che prevedono un tipo di coinvolgimento
relativamente elevato e chiarirò quindi cosa si intende per identificazione
e proiezione.
Per identificazione intendiamo “quel processo per cui noi riviviamo in
proprio una situazione spirituale altrui”22, o più semplicemente un
processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una
proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o
parzialmente, sul modello di quest’ultima. Freud ha distinto tre varianti
di questo processo, che Musatti ha ulteriormente chiarito:
1. Identificazione per aspirazione, che si instaura con qualcuno di cui
vorremmo occupare il posto. In sostanza, nel caso specifico,

lo spettatore si identifica con il “personaggio” al posto del quale


vorrebbe trovarsi per vivere le sue esperienze, per cui si assiste allo stesso
fenomeno che si verifica verso i “personaggi” della letteratura. Abbiamo
un’identificazione eteropatica e centripeta in cui il soggetto si identifica
con l’ “altro”.23

2. Identificazione per consolazione, che rappresenta l’identificazione con


l’oggetto amato che è stato perduto. Il soggetto ripropone quindi
atteggiamenti o gesti che appartenevano all’oggetto (che può essere
anche una persona) scomparso. Questo genere di identificazione può

21A. Tudor, “Image and influence”, Allen and Unwin, Londra, 1974, p.81
22 C. Musatti, “Atti del convegno su film e integrazione psicologica nei rapporti sociali”, Vita e
pensiero, Milano, 1957, p. 124
23 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo: la trasformazione dei modelli di

divismo”, Cleup, Padova, 1998

19
avvenire, per esempio, in un momento successivo alla visione di un
film, per cui, dopo aver perduto il divo, lo spettatore ne ripropone
caratteristiche fisiche o comportamentali.
3. Identificazione per contagio, cioè il coinvolgimento che avviene nei
riguardi di colui “che si trova in una situazione esistenziale o affettiva
che è già simile a quella del soggetto”24. In questo caso lo spettatore
sceglie, magari inconsciamente, un personaggio che condivide con lui
una particolare situazione e, in questo modo, accentua la sua identità e
si arricchisce di esperienze non sue, ma assimilabili a una sua
situazione obiettiva.
Il secondo meccanismo è quello della proiezione, con cui si intende un
“processo psicologico per cui determinati atteggiamenti o impulsi del
soggetto vengono vissuti come atteggiamenti o impulsi dell’oggetto”25.
In pratica, il soggetto trasla sull’altro qualità, atteggiamenti, desideri
propri. Secondo Musatti la proiezione è un processo antecedente
all’identificazione e in qualche modo riesce a favorirla:

Attribuendo ai personaggi della scena i miei propri sentimenti, cioè


vivendo nel personaggio situazioni mie personali, io provoco una
situazione di analogia con il personaggio stesso, questa analogia poi si
completa attraverso un processo di identificazione. […] A questa
combinazione degli elementi di proiezione e di identificazione, sono
dovuti […] da una lato l’azione suggestiva che le situazioni filmiche
determinano e, dall’altro, la capacità che hanno le situazioni filmiche di
produrre situazioni traumatizzanti.26

24 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963, p. 58


25 C. Musatti, “Atti del convegno su film e integrazione psicologica nei rapporti sociali”, Vita e
pensiero, Milano, 1957, p. 124
26 C. Musatti, “Atti del convegno su film e integrazione psicologica nei rapporti sociali”, Vita e

pensiero, Milano, 1957

20
Kermol sostiene che sia difficile che questi meccanismi identificativo-
proiettivi, che agiscono a livello di “personaggio”, possano funzionare
anche riferiti ad attori o divi in genere, dato che questi ultimi sono dotati
di una concretezza e di una tangibilità che i personaggi dello schermo non
possiedono. Agiscono invece, secondo l’autore, altri meccanismi,
specialmente in occasione dell’eventuale presenza fisica del divo, che in
teoria dovrebbe dissolvere l’aura di divismo che avvolge la celebrità. In
questo caso si instaurano altri processi mirati a mantenere tale aura: per
esempio, “data la brevità dell’incontro”, può verificarsi “una
indiscriminata sopravvalutazione di atteggiamenti, modi e
caratteristiche vissute, e giustificate, ben al di sopra del loro reale
valore”27.
Alberoni introduce poi il concetto di fotogenicità, che riprende da
Cohen Seat:

Il comportamento o il modo di essere di un personaggio lo rende


fotogenico quando è a mezza strada fra un comportamento ambito ma
irrealizzabile e uno realizzabile non ambito. Scatta in tal modo l’operatore
mentale “perché non io?” e il soggetto si identifica nel personaggio nel
senso che è trascinato fuori da se stesso per sottomettersi a vivere la
situazione secondo le modalità comportamentali del personaggio stesso.
Se il comportamento dell’attore è invece così perfetto da non poter essere
imitabile, entriamo nel campo del carisma.28

Alberoni sostiene che le riflessioni fatte valgono anche nel rapporto tra
pubblico e divi al di fuori della situazione spettacolare, questo perché la
vita del divo è, per il pubblico, spettacolo a sua volta.

27 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo: la trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1998, p. 64
28 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963

21
Il pubblico assiste alla loro vita attraverso i mezzi di comunicazione di
massa, come fosse uno spettacolo, una vita quasi romanzata che le
persone comuni non potrebbero mai esperire. Si instaura una
“interazione squilibrata (che è la condizione stessa dell’esistenza del
divismo)”29 che crea, a sua volta, l’aspirazione a un contatto concreto con
la star. All’interno di questo squilibrio coesistono due poli di tensioni:
quello di approssimazione e quello di avvicinamento. Il primo
rappresenta il desiderio del pubblico che il divo sia più simile a noi, il
secondo quello di poter vivere in qualche modo, per qualche istante, il
tipo di vita che egli conduce. Questa tensione è il presupposto
fondamentale perché esista un interesse verso la star: infatti, sia nel caso
che il divo fosse troppo simile a noi, sia nella situazione in cui tra
pubblico e divo ci fosse una differenza incolmabile, l’interesse verrebbe
meno.
Infine, le varie forme di coinvolgimento che sono state descritte sono
particolarmente significative in relazione ai giovani: anche Alberoni si
sofferma su questo aspetto e sostiene che l’agire dei divi, in particolare il
loro agire in comunità (che è poi l’oggetto privilegiato di cronaca e
interesse del pubblico), rappresenta una “possibilità” di agire, che viene
sperimentata sul piano fantastico. In sostanza quindi, l’agire in comunità
della star,
in quanto realizza un “possibile”, permette degli “esperimenti mentali”
di cui alcuni hanno una funzione di socializzazione anticipatoria. Nei
giovani, rispetto agli adulti, l’identificazione è più piena, la partecipazione
fantastica più ampia ed intensa, l’innamoramento-adorazione più
profondo, e il comportamento pertanto ne resta maggiormente
influenzato.30

29 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963, p. 60


30 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963, p. 60

22
Questo concetto, espresso ormai quarant’anni fa, continua ad avere
valore anche oggi: se tempo fa i ragazzi assumevano “pose” alla Marlon
Brando anche nella vita reale, prolungando quindi la partecipazione
fantastica che aveva avuto inizio assistendo a uno spettacolo, oggi è facile
notare quanto i ragazzi rimangano influenzati dai divi della televisione,
ne assumano stile (in termini di abbigliamento o, in ogni caso, per quanto
riguarda l’aspetto esteriore) e atteggiamenti, modi di dire, etc. Nel
secondo capitolo si individueranno le modificazioni che sono avvenute
nel tempo, riuscendo a distinguere due grandi modelli di divismo; per ora
mi limito a evidenziare, magari ingenuamente e superficialmente, una
realtà di fatto, che tutti possiamo notare, ma che è significativa per la
descrizione degli effetti del coinvolgimento spettatore/divo che si sta
compiendo. Il ruolo della star è infatti “particolarmente efficace nella
fase d’indeterminazione psicologica e sociologica tipica dell’adolescenza,
quando la personalità è in cerca di se stessa”31.

31 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957, p. 158

23
1.4 I divi sono dei modelli?

Sulla effettiva possibilità che i divi siano modelli di comportamento si


è largamente discusso e non c’è uno scritto sul divismo che non si
interroghi su tale argomento: che siano modelli etici, modelli di consumo,
modelli di riferimento, modelli imitativi, la questione rimane aperta e
complessa. Questo lavoro non ha la pretesa di risolvere la questione,
piuttosto di ripercorrere, e in questo modo riunire, i principali interventi
a questo proposito.
Formalmente la nascita del divismo viene fatta coincidere nel 1910, a
Hollywood naturalmente, al passaggio dell’attrice Florence Lawrence
dalla Biograph alla Indipendent Motion Picture Company (IMP). E’
naturalmente una convenzione, che ha unicamente lo scopo di
evidenziare il primo episodio nel quale il nome di un attore divenne
famoso per il pubblico, grazie anche a iniziative pubblicitarie legate al
passaggio dell’attrice da una casa di produzione all’altra. Hollywood fu
senz’altro il centro di propulsione del divismo cinematografico, che
coincise con lo sfruttamento dell’immagine delle celebrità in ambiti
estranei alla loro professione. Grieveson32 afferma che inizialmente,
soprattutto utilizzando il mezzo stampa e le riviste specializzate,
l’intenzione dei produttori era di proporre la star come modello etico:
proliferavano gli articoli sulla loro vita privata, perfetta e felice che,
secondo DeCordova, “miravano ad affermare che il cinema era, nella
sua essenza, una realtà sana”33, morale e rispettabile. Le riviste per i fan
proponevano spesso rubriche in cui il divo dava consigli ai lettori su vita
sentimentale, questioni di etichetta, etc. In questo modo le star si

32 L. Grieveson, “Nascita del divismo”, in “Storia del cinema mondiale”, G. P. Brunetta (a cura
di), Einaudi, Torino, 1999-2000
33 R. De Cordova, ”Picture Personalities: The Emergence of the Star System in America”,

Urbana, University of Illinois Press, 1990, p. 103

24
costituivano come modelli etici, che la gente comune seguiva in quanto
rivestite di un’aura di autorevolezza data dal successo e dal loro status di
divi, e permettevano così al pubblico di conformare la loro condotta e
identità secondo le norme morali prevalenti. La star come modello etico
ha una funzione di guida per il pubblico nella mediazione delle complesse
trasformazioni dell’ordine sociale e morale nei primi decenni del ‘900,
indicano modelli di comportamento, vengono erette a ideali etici cui
conformarsi. Tale funzione viene tuttavia messa decisamente in
discussione agli inizi degli anni venti del ‘900, quando una serie di
scandali coinvolge alcuni divi e rivela al pubblico la reale immoralità e la
dissolutezza di Hollywood. La star come modello etico-morale non ha più
senso, tuttavia la loro vita continua ad esercitare un fascino presso il
pubblico. Se la gente continua a mitizzare personaggi ambivalenti, questo
si riconduce al concetto di mito che ho ripercorso nel primo paragrafo:
l’aspetto fondamentale del mito, dell’eroe, è che non si tratta mai di un
personaggio totalmente positivo, la peculiarità del mito è di essere
straordinario, di essere al di là della norma, di essere in qualche modo
eccezionale. Per questo la star, nonostante sia ormai evidente che non
possa offrire ideali morali a cui conformarsi, rimane un elemento di
fascino presso gli spettatori e i fan e, soprattutto, un veicolo pubblicitario
formidabile: sostanzialmente, da questi anni in poi, le star offrono
modelli di consumo, canoni estetici, modi di fare da imitare.
Lowenthal34 nel 1944 parla di “eroi contemporanei”, distinguendo tra
idoli della produzione, politici, industriali e professionisti, e idoli del
consumo, attori, sportivi e altri personaggi dello spettacolo. I modelli
proposti dalle due categorie sono ovviamente di tipo diverso: se i primi
offrono modelli imitativi dal punto di vista educativo, rappresentando la
possibilità di ascendere socialmente seguendo il loro esempio di successo,

34 L. Lowenthal, “Biographies in popular magazines”, in P. F. Lazarsfeld, F. N. Stenton (a cura


di), “Radio Research 1942-1943”, New York, Duell, Sloan and Pearce, 1944

25
i secondi sembrano agire in seguito alla casualità, sono modelli non
utilizzabili dall’individuo perché dettati da eventi imperscrutabili.
Morin, al contrario, sostiene la funzione essenziale dei divi nel favorire
la diffusione e l’interiorizzazione dei valori di realizzazione personale
promossi dalla cultura di massa. Secondo l’autore l’espressone
dell’individualità si realizza tramite l’imitazione di modelli divistici: i
processi di identificazione divistica poggiano sul bisogno di
autoaffermazione e i divi possono in questo senso funzionare da modelli.
Le imitazione dei modi di dire, delle pettinature, del modo di fumare una
sigaretta, degli abiti, hanno tutte un unico obiettivo, cioè avere successo,
imporsi, come sono stati capaci di fare i divi di cui si imitano le
caratteristiche. In relazione poi al rapporto tra star e adolescenti e sui
numerosi mimetismi che si realizzano in questa fase, “la star non è solo
informatrice, ma formatrice, non solo incita, ma inizia”35. Questa
funzione iniziatrice ha una certa rilevanza nell’adolescenza, fase in cui,
come abbiamo già detto, la personalità è in cerca di se stessa: il ragazzo
imita i comportamenti, le pose, i modi di fare delle star. Morin fa
l’esempio del bacio e, secondo quanto lui dice,

[la star] svela [...] le tecniche delle carezze e dei baci, sviluppa il mito
dell’amore miracoloso e onnipotente […]36

In questo caso è palese quanta influenza possa avere il


comportamento di un divo e come esso rappresenti un vero modello di
riferimento per una certa fascia di pubblico: nell’esempio del bacio (ma la
stessa riflessione potrebbe valere per molti altri comportamenti), spesso è
qualcosa che nessuno insegna a fare, si tratta, la maggior parte delle

35 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957, p. 158
36
E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957

26
volte, di imitare qualcuno che si è visto compiere quella azione, magari al
cinema.
Secondo Alberoni i divi non offrono modelli di comportamento, ma
sono piuttosto oggetti di valutazione, configurazioni del possibile,
portatori di esperienze fantastiche gratificanti e di evasione. Sono
membri della comunità che tutti possono osservare, criticare, sono
oggetti selezionati del pettegolezzo collettivo. Essendo personaggi ad
elevata osservabilità, ogni loro comportamento ha una certa rilevanza e
suscita qualche tipo di reazione in chi li osserva. E’ stato già ricordata
diverse volte la distinzione che l’autore compie tra élite del potere ed élite
senza potere. Nonostante questo, nonostante quindi i divi non occupino
posizioni istituzionali, essi esercitano un’influenza rilevante sui membri
della comunità: questa non dipende però da decisioni razionali, ma si
attua nel territorio delle emozioni, della fantasia. In ogni caso, è sbagliato
credere che l’agire dei divi, e di conseguenza l’influenza che essi
esercitano, sia accettata in modo acritico. I membri dell’élite senza potere
sono oggetto di valutazioni e critiche continue, “per cui essi svolgono
anche una funzione di esercizio di morale applicata a livello collettivo”37.

Le recenti ricerche sui giovani e gli adolescenti hanno mostrato che il


profondo interessamento per i divi e la partecipazione ai loro non certo
edificanti esempi, non ha impedito il consolidarsi di certi valori, per
esempio comunitari e familiari, che senz’altro avrebbero dovuto essere
compromessi se i divi avessero agito come modelli forgiatori delle
strutture di comportamento.38

In conclusione, certamente la funzione dei divi non è quella di


insegnare la moralità. I risultati della ricerca che riporta Alberoni sono,
secondo la mia opinione, sovrapponibili sostanzialmente alla situazione
37 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963, p. 182
38 F. Alberoni, “L’élite senza potere”, Vita e pensiero, Milano, 1963

27
contemporanea: è indubbio che la presenza dei media, soprattutto della
televisione, sia decisamente più preponderante che in passato, è vero che
i giovani di oggi sono “figli della televisione”39, che in un certo senso
contribuisce a formarli e che permette loro di conformare i loro
atteggiamenti e comportamenti, soprattutto di consumo, agli usi
prevalenti mostrati dal medium televisivo. Tuttavia mi sembrerebbe
eccessivo affermare che i divi siano modelli di comportamento,
specialmente da una punto di vista morale ed etico40: l’insegnamento di
principi di vita avviene (ancora) per altre vie e mi sembra azzardato
affermare qualcosa di diverso e caricare personaggi dello spettacolo, che
tutti conoscono appunto in quanto personaggi e non in quanto persone,
di intenzioni formative. Mi pare più corretto (nonché dimostrabile)
affermare che le star influenzano certamente chi le segue, ma unicamente
da un punto di vista esteriore, di apparenza, di imitazione di canoni
estetici, in quanto veicoli per sognare o fantasticare o evadere verso un
mondo possibile: “la star diventa alimento dei sogni […]. Anche se questi
sogni non possono trasformarsi in azioni vere e proprie, questi sogni
affluiscono comunque alla superficie delle nostre vite concrete,
modellando i nostri comportamenti più plastici”41.

39 Questa definizione è stata ripresa da un paragrafo del lavoro di M. Tessarolo contenuto nel
volume già citato, “Divismo vecchio e nuovo: la trasformazione dei modelli di divismo”,
scritto in collaborazione con E. Kermol. Il riferimento all’elevato consumo di televisione da
parte dei giovani coinvolti nella ricerca è connesso al cambiamento che il divismo avrebbe
subito proprio a causa dell’avvento della Tv. Secondo l’autrice, “i messaggi televisivi si
accumulano nel tempo e finiscono con il sommare i loro effetti sulla personalità dei
comunicanti creando nuovi equilibri e modificando le configurazioni culturali esistenti. Si
stabilisce in tal modo un circuito che interessa la personalità e la cultura in modo tale che
ogni alterazione dei modelli culturali condiziona anche lo sviluppo della personalità” (M.
Tessarolo, 1998, p. 128)
40 Un discorso parzialmente diverso potrebbe essere fatto per gli sportivi, in particolare,

riguardo alla realtà italiana, al mondo del calcio. Data la visibilità e l’interesse suscitato da
questo sport nel nostro paese, i miti dei più piccoli sono spesso personaggi appartenenti a
questo mondo. Per questo, ma non solo, in presenza di un comportamento visibilmente
immorale e scorretto, le critiche verso i calciatori non vengono risparmiate e se ne
condannano duramente le azioni giudicate inappropriate, salvo poi essere velocemente
perdonati in seguito alle pubbliche scuse del “peccatore” (chi non ricorda l’episodio dello
“sputo” di Francesco Totti?). Questo tema offre molteplici spunti e intenzionalmente l’ho
escluso dalla mia riflessione.
41 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957, p. 149

28
2. I MODELLI DI DIVISMO

I divismo basa il suo potere sull’elemento visivo: prima il cinema e poi


la televisione, grazie all’utilizzo delle immagini, hanno creato le premesse
per una funzione sociale del divismo. Senza la possibilità di vedere un
personaggio in modo continuativo e costante, il divismo non può esistere
e non può essere costruito.
Cinema e televisione sono gli artefici maggiori del fenomeno che sto
analizzando, e hanno reso il divismo diverso, trasformandolo e
riproponendolo in forme anche molto differenti. Alcuni hanno visto
nell’avvento della televisione un ostacolo al divismo, forse in virtù della
maggiore invadenza e commistione del reale e dello spettacolo, area
precedentemente votata a esigenze prevalentemente di evasione. Molti
sostengono, al contrario, che la televisione abbia dato nuova linfa al
divismo, adattandolo alle caratteristiche del nuovo mezzo e ai
cambiamenti della società e rigenerandolo in forme certamente molto
diverse, ma in ogni caso originali. Secondo Mariselda Tessarolo:

Il divismo quindi non starebbe morendo, ma solo allargando il suo


raggio d’azione, perdendo però così una parte della propria forza.42

Mi soffermerò in seguito sulle notevoli differenze apportate dal


medium televisivo. Per ora, data l’estrema incidenza che cinema e
televisione hanno avuto sul fenomeno di nostro interesse, mi limito a
raggruppare le diverse forme di divismo che si sono succedute nel tempo
in due grandi categorie fondamentali: il divismo pre-televisivo e il
divismo post-televisivo.

42
E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di
divismo”, Cleup, Padova, 1999

29
2.1 Il divismo pre-televisivo: cinema e
nascita dello star-system

Se il divismo è possibile grazie all’immagine, è evidente quanto la


nascita del cinema abbia contribuito alla crescita di influenza di questo
fenomeno sull’intera società. Tuttavia, anche prima dell’avvento del
cinema esistevano i divi, soprattutto attori di teatro: per crearli e
mantenerli si utilizzavano fotografie, copertine di periodici, locandine.
Sostanzialmente, però, tutto ciò non era sufficiente per dare vita a un
fenomeno davvero incisivo, le rappresentazioni teatrali erano limitate e il
pubblico aveva poca possibilità di vedere il divo in azione. Con il cinema
tutto cambia: le possibilità di vedere il divo sono illimitate grazie alla
riproducibilità delle pellicole; la stampa specializzata, intuendo questa
trasformazione, contribuisce in maniera significativa a irrobustire il
nascente fenomeno del divismo.
Si può sostenere facilmente che Hollywood sia stata la patria del
divismo cinematografico. La letteratura su questo argomento è pressoché
infinita e mi limiterò ad accennare ai principali elementi che hanno
decretato la nascita dei divi cinematografici di inizio ‘900. Come
sottolinea Castello43 in un lavoro del 1957 (una delle prime trattazioni di
un autore italiano su questo argomento), al principio, ciò che veniva
pubblicizzato e sostenuto era il film in sé, non gli interpreti. Inizialmente
infatti, alle case cinematografiche arrivavano numerose lettere da
componenti del pubblico che desideravano informazioni sui loro attori
preferiti, tuttavia, esse ignorarono questa spontanea corrispondenza dei
fan per timore che gli attori avrebbero preteso più denaro per le loro
prestazioni se si fossero resi conto della loro crescente popolarità.

43 G. C. Castello, “Il divismo. Mitologia del cinema”, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1957

30
L’evento che simbolicamente segna la nascita dello star-system, è il
passaggio dell’attrice Florence Lawrence dalla Biograph alla Indipendent
Motion Picture Company (IMP) nel 1910. Un esponente della casa di
produzione, Carl Laemmle, offrì all’attrice un compenso più alto e una
maggiore notorietà personale e organizzò un’imponente iniziativa
pubblicitaria per realizzare il suo scopo. Il produttore riuscì a
comprendere la mentalità popolare, interpretando i desideri e le curiosità
del pubblico e questa fu “la prima occasione in cui il nome di un attore è
diventato famoso per il pubblico”44.
Altrettanto decisivo fu l’avvento del lungometraggio intorno al 1912,
che intensificò le modalità di coinvolgimento del pubblico con i
personaggi. Il fatto poi che i lungometraggi potessero essere proiettati per
periodi più lunghi rispetto ai film in bobina, permise uno sfruttamento
pubblicitario più consistente, basato principalmente sugli attori che vi
recitavano. Le star divennero così un elemento di valore aggiunto, che
assicurava il successo al botteghino.
I produttori intuirono che questa popolarità poteva essere sfruttata a
fini economici e pubblicitari. Furono proprio le case cinematografiche,
infatti, a lanciare le prime riviste di settore. Inizialmente nate come
riviste di racconti brevi basati sulle storie dei film, cominciarono poi a
pubblicare fotografie di attori, interviste e in seguito informazioni sulla
vita privata delle star. In questo periodo

Le riviste per i fan propongono consigli ai lettori sulla vita


sentimentale e su questioni di etichetta proposti dalle star, che vengono a
trovarsi in una condizione che si può definire di “modello etico”, come
l’incarnazione di identità ideali che quindi permetterebbero al pubblico e
ai lettori di conformare la loro condotta e identità secondo le norme
morali prevalenti. […]

44 A. Walker, “Stardom: the Hollywood phenomenon”, Michael Joseph, Londra, 1970, p.37

31
La star come modello etico può servire per guidare i lettori/spettatori
nella mediazione delle complesse trasformazioni dell’ordine sociale e
morale nei primi decenni del XX secolo. […]45

La funzione della star come modello etico, come si è già accennato nel
primo capitolo, viene però messa in discussione agli inizi degli anni ’20,
quando una serie di scandali coinvolgono alcuni divi. Tuttavia i fan
continuano a nutrire, nei confronti dei divi, il desiderio di conoscere gli
aspetti più intimi della loro vita privata, convinti inconsciamente che la
vita delle star fosse del tutto diversa da quella delle persone comuni, ricca
di particolari scandalosi e straordinari. Gli articoli sugli amori, gli eccessi,
i crimini, le origini delle star si fecero sempre più frequenti. Secondo
alcuni autori questa curiosità un po’ morbosa per gli aspetti più
scandalosi delle vita dei divi, potrebbe essere spiegata con l’ipotesi
secondo cui, grazie alla vita dissoluta della star, le persone comuni
sperimenterebbero ciò che normalmente non farebbero mai: vivrebbero,
in pratica, il “peccato” senza il rischio della sanzione. Le descrizioni dei
divi, della loro ricchezza, dei loro eccessi, della loro vita straordinaria,
verrebbero vissute come una configurazione del possibile, un’esperienza
di cose gratificanti e fantastiche, una porta sul mondo dell’evasione dalla
vita quotidiana della gente comune.
Lo star-system fu, ed è in un certo senso, un’organizzazione
industriale e pubblicitaria di proporzioni enormi. Ad inizio secolo sono i
divi a fare da mezzo di propaganda verso i miti consumistici,
pubblicizzando articoli femminili e ogni altro genere di beni di consumo:

[…] le star fungono da modello per il comportamento dei consumatori


sullo schermo, in pubblicità e negli articoli delle riviste per i fan, istruendo
i fan nell’uso dei nuovi prodotti di consumo che proliferano nei primi anni
45 L. Grieveson, “Nascita del divismo”, in “Storia del cinema mondiale”, G. P. Brunetta (a cura
di), Einaudi, Torino, 1999-2000

32
del secolo. Lary May dice che le star sono un mezzo privilegiato per la
diffusione e il consolidamento di nuovi ideali di consumo, in quanto
dimostrano efficacemente l’idea che non si può trovare soddisfazione nel
lavoro, ma nel consumo e nel divertimento.46

Non solo: le star stesse sono merci: i divi vengono lanciati sul mercato
“come si lanciano nuovi prodotti commerciali imponendoli all’attenzione
del pubblico” 47.
Una volta imposto un nuovo volto si lavorava per mantenere attorno
ad esso un alone mitico, senza cui una stella non poteva essere tale. Come
scrive Morin,

Lo star-system è prima di tutto produzione e il prodotto finito è una


merce: la star è una merce totale: non c’è centimetro del suo corpo, fibra
della sua anima, ricordo della sua vita che non possa essere messo sul
mercato. […] La diffusione di massa è assicurata dai grandi moltiplicatori
del mondo moderno: stampa, radio e naturalmente cinema. Inoltre, la
star-merce non si usura né deperisce una volta consumata: la
moltiplicazione delle sue immagini, lungi dall’alterarla, ne aumenta il
valore e la rende più desiderabile. In altre parole, la star resta originale,
rara, unica anche se è condivisa da molti. 48

Una nuova mitologia quindi, che fa dei divi degli “oggetti significanti”
che racchiudono in sé proposte di consumo e di atteggiamento, il tutto
mediato e condotto dalle case di produzione cinematografica.
Questa prima fase del divismo hollywoodiano raggiunse il suo
massimo splendore tra le due guerre, fino all’avvento del cinema sonoro.
Molti hanno sostenuto che con la nascita del sonoro ci sia stata una de-

46
L. Grieveson, “Nascita del divismo”, in “Storia del cinema mondiale”, G. P. Brunetta (a cura
di), Einaudi, Torino, 1999-2000
47
E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares (copyr. 1995), Milano, 1957, p. 123
48 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares (copyr. 1995), Milano, 1957

33
divinizzazione delle star e che, se nei primi anni del cinema le star erano
divinità, eroi, in seguito diventano essenzialmente figure di
identificazione. Riportando alcune parole di Walker,

Una perdita di illusione fu certamente uno dei primi effetti che i film
sonori ebbero sul pubblico. […] quando iniziano a parlare, gli idoli una
volta silenziosi subiscono una perdita di divinità. […] Le loro voci li
rendono reali come le persone che le guardano.49

Secondo Morin, invece, il passaggio da dèi a figure di identificazione fa


parte dell’ ”imborghesimento” del cinema. E’ vero che il sonoro apportò
un maggiore realismo, ma la svolta fu segnata dall’aumento dei temi
sociali del cinema hollywoodiano. La Grande Depressione portò poi il
cinema a sottomettersi al dogma del lieto fine:

Le nuove strutture ottimistiche favorirono l’evasione dello spettacolo, e


in questo senso rifuggono dal realismo; in un altro senso però, i contenuti
mitici dei film vengono “profanizzati” e ridotti a un livello terra terra.
[…]50
L’ottimismo del lieto fine dissimula un’angoscia della morte […].
L’acuirsi di questa angoscia è infatti una caratteristica della coscienza
borghese e si traduce, nell’ambito del realismo, in una fuga fuori dalla
realtà. Ma questa immortalità artificiale, se da una parte mantiene vivo il
prestigio mitico delle nuove star, non concede loro ulteriori privilegi
rispetto ai divi dell’epoca d’oro. Al contrario, le star di un tempo non
temevano affatto la prova della morte. L’immortalità è il segnale di
un’inedita debolezza delle star-divinità.51

49 A. Walker, “Stardom: the hollywood phenomenon”, Michael Joseph, Londra, 1970


50 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares (copyr. 1995), Milano, 1957
51 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares (copyr. 1995), Milano, 1957

34
La seconda fase del divismo cinematografico, successiva al 1930 fino al
1960 vede quindi le star partecipare alla vita dei comuni mortali. Non
sono più dèi inaccessibili, suscitano forse meno adorazione ma più
ammirazione.

Così l’evoluzione che degrada la divinità della star stimola e moltiplica i


punti di contatto tra divi e mortali; non distrugge affatto il culto, lo
favorisce. Più presente, più familiare, si può dire che la star è a
disposizione dei suoi adoratori: da qui la proliferazione di club, riviste,
foto, rubriche di corrispondenza che istituzionalizzano questa devozione.52

Le star diventano quindi più ordinarie nell’aspetto e, combinando


l’eccezionale con il quotidiano, continuano a essere in qualche modo
“speciali”.
Secondo Gundle, l’ultima vera star hollywoodiana fu (ed è tuttora per
alcuni versi) Marilyn Monroe. Tutto in lei era progettato, costruito e
comunicato con cura durante la sua vita. Importantissimo per la sua
celebrità e per l’adorazione che provavano per lei i suoi fan, era il fatto di
essere venuta dal nulla: era una ragazza comune che ottenne successo
grazie all’aspetto, alla determinazione e alla fortuna. Proprio questo
ultimo aspetto la rendeva esemplare per il pubblico: la fortuna
introduceva, da una parte, un elemento di gratuità e sostituibilità,
dall’altra forniva un’ulteriore possibilità di identificazione.
La sua scomparsa fa da spartiacque fra una vecchia e una nuova
tipologia di divismo. Secondo Gundle, il suo suicidio rivelò la possibilità
della tragedia dietro l’immagine sfavillante della meravigliosa, ricca,
felice vita delle star hollywoodiane. Anche Morin considera questo evento
come la fine dell’ “Olimpo felice” e delle star-modello. La crisi degli anni
’40 del controllo delle case sulla produzione e distribuzione

52 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares (copyr. 1995), Milano, 1957

35
cinematografica aprì spazi di libertà per gli attori e aumentò le loro
possibilità di guadagno. Questo minore controllo da parte delle case si
tradusse però, oltre che in un maggior successo degli attori, anche nella
fine dei privilegi concessi alle star. La riduzione del pubblico, favorita dal
consumismo domestico, accentuò poi queste restrizioni e il cambiamento
sensibile dell’apparato divistico hollywoodiano. L’industria
cinematografica continuò a produrre star, ma la “mistica del glamour”,
secondo Gundle, venne da quel momento in poi perpetuata dall’industria
dell’alta moda e da quella dei prodotti di bellezza, dai rotocalchi e dalla
televisione.
Si esaurì così il potere del primo modello di divismo. L’ingresso e
l’influenza di queste nuove variabili rese, così, irripetibile il divismo
hollywoodiano dell’età d’oro dello star system.

36
2.2 Il divismo post-televisivo: da star a
“meteore”

L’avvento della televisione segna l’inizio del processo di


“familiarizzazione” del divo. Senza immagine non c’è divo: la televisione
fornisce al divismo una fonte inesauribile di crescita e rigenerazione,
soprattutto in termini di quantità di divi che viene affermando. Passaggi
infiniti di soap-opera, telefilm, fiction, fanno entrare attori e personaggi
televisivi nelle case degli spettatori, che si affezionano a un divo come
fosse uno di famiglia. La televisione è un mezzo fortemente ritualizzante:
soprattutto agli esordi, ma anche attualmente per alcune fasce delle
popolazione, appuntamenti imperdibili con telequiz o serial tv
scandivano e scandiscono tuttora i ritmi delle giornate delle persone.
Grazie a questo aumentano notevolmente i personaggi che assurgono al
ruolo di divo, sebbene con differenze evidenti e profonde rispetto ai divi
hollywoodiani “classici”.
Enzo Kermol individua una serie di avvenimenti concernenti al
divismo che si attuano in seguito all’ avvento e alla diffusione di massa
della televisione53:
1. L’unificazione dei “media del pettegolezzo”. Non più il primato della
carta stampata, ma quello della televisione che, con rubriche e
trasmissione specifiche, diventa il mezzo di diffusione principale del
pettegolezzo;
2. L’immagine. Abbiamo visto che l’elemento visivo è fondamentale e
necessario per la creazione e il mantenimento dello status di divo.
Prima il teatro, poi il cinema, infine la televisione: l’immagine evolve

53 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1999

37
nelle forme di trasmissione, ma rimane punto essenziale per
supportare il fenomeno divistico;
3. La creazione di infiniti modelli divistici. Se a teatro le star erano
poche decine e ancora meno i ruoli interpretati, con il cinema, le star
diventano poche centinaia e aumentano le “tipologie” di personaggi da
rappresentare. Con la televisione però si assiste a un aumento
vertiginoso delle persone che possono essere considerate divi e sono
migliaia anche i modelli interpretati. Si può dire che attualmente tutti
gli archetipi sociali hanno un loro corrispondente divo televisivo e che
la tv è diventata un mezzo che non scontenta proprio nessuno;
4. La durata temporale della figura divistica. Le tipologie di divismo
attuali si possono dividere in due categorie: ci sono divi di “lunga
durata”, che mantengono durante la loro carriera lo status che veniva
assegnato ai vecchi divi cinematografici, e i divi di “breve durata”,
creazione della televisione. Solitamente queste star, che si rivelano
delle vere e proprie “meteore”, derivano da un’elevata frequenza di
passaggi televisivi in cui una persona appare per un periodo più o
meno breve. Possiamo includere in questa categoria tutti i personaggi
nati dai reality show, i campioni dei telequiz, etc. Nonostante la loro
popolarità sia limitata in termini di tempo, per il breve periodo in cui
sono protagonisti del mezzo televisivo e della cronaca rosa, godono di
tutte le caratteristiche del divo classico;
5. Diverse motivazioni nell’uso del divismo. Alla base del divismo
contemporaneo vi sono motivazioni non inconsce ( quindi non legate a
pulsioni sessuali, etc.) connesse soprattutto al mantenimento del
sistema sociale e al suo controllo e all’incentivazione di vendita di
prodotti industriali non assimilabili normalmente ai divi (surgelati,
catene di ristoranti, etc.);
6. Utilizzo pilotato dei fan. Attualmente, anche poche decine di fan in un
programma televisivo, racchiusi in uno spazio stretto possono dare

38
l’impressione di una folla adorante. Pure in passato i veri fan, quelli
che si abbandonavano ad un’adorazione che sfiorava l’isteria, erano
pochi e con il tempo, oltre che le forme di divismo, è cambiato anche
lo status del fan. Quelli che più si avvicinano al fan “classico” sono
coloro che si riuniscono per manifestazioni sportive o concerti. Il
“nuovo” fan, invece, segue le vicende del suoi beniamini seduto
davanti alla tv, comodamente da casa propria.
In queste considerazioni sono descritti fenomeni che sono facilmente
riconoscibili nel panorama televisivo contemporaneo. Sono sempre di più
i personaggi che vengono considerati divi, spesso non dal pubblico ma
eletti tali dalla televisione, regina di autoreferenzialità, e di conseguenza
dalla stampa di settore. Basta un programma riuscito, una fiction di
discreto successo per far vivere, anche magari per un tempo limitato, ad
un qualsiasi personaggio televisivo, lo status di divo.
Castello nel suo lavoro ci informa che nella scelta degli attori di cui
scrive, ha ritenuto che
L’indice più valido per stabilire l’importanza di un attore sul piano
storico fosse dato dal suo potere di “resistenza al tempo”. […] Il tempo ha
di per sé stabilito una gerarchia di valori […]: i nomi della Pickford, di
Valentino e della Garbo sono tuttora in grado di evocare qualcosa anche
nella mente di chi non abbia mai avuto occasione di ammirarli. […]
Nessuno potrebbe dire quale eco siano destinate a suscitare tra trent’anni
le Audrey Hapburn o le Kim Novak di oggi. La storia del divismo registra
infinite mode, infiniti “furori”, spentisi con la stessa rapidità con cui si
erano manifestati.54

L’autore scrive nel 1957 ed effettivamente i nomi che cita evocano


davvero qualcosa di impalpabile e misterioso in chi li sente o in chi li

54 G. C. Castello, “ Il divismo. Mitologia del cinema”, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1957

39
pronuncia. Possiamo dire che davvero il tempo è il criterio secondo cui
dividere i veri divi da quelli frutto di mode e furori passeggeri.
In un certo senso queste sono considerazioni che possono valere anche
oggi, anche per un medium diverso dal cinema, per cui scrive Castello,
quale è la televisione. Ci sono personaggi quasi-mitici della televisione e
altri, la maggior parte a dir la verità, che al contrario si sono rivelati delle
“meteore”. Tuttavia, secondo la mia opinione, non è un fenomeno su cui
passare sopra in modo troppo ingenuo. La televisione di oggi, bella o
brutta che sia, rappresenta la società in cui vive e trasmette. Anche se la
loro incidenza è amplificata dal mezzo e dalla sua diffusione, i personaggi
che la popolano sono pur sempre riflesso dei desideri e di realtà, magari
anche ristrette, presenti nella società attuale e sarebbe superficiale, a mio
avviso, ignorarli. Come abbiamo detto, anche se per poco tempo, questi
personaggi beneficiano di una condizione che in passato veniva riservata
solo a vere e proprie stelle del cinema. Hanno ricchezza, visibilità, hanno
fans interessati realmente alla loro vita privata. Le persone parlano di
loro e comprano i prodotti che pubblicizzano, i giornali vendono migliaia
di copie grazie ad articoli sulla loro vita, danno corpo a un vortice di
interessi e pubblicità. I ragazzi si vestono come il loro personaggio
preferito, le ragazzine sognano di avere l’aspetto e il successo delle
soubrette televisive. Anche se è un fenomeno che può durare per un
periodo più o meno breve, esiste pur sempre e non lo si può ignorare.
In definitiva, la vera novità delle forme di divismo nate dall’avvento e
dalla diffusione del mezzo televisivo, è il divismo “di breve durata”. Per
sintetizzare, scrive Kermol:

Avvenimenti eccezionali: un eroe di guerra, un campione di telequiz,


un attore di un serial, il protagonista di un processo; improvvisamente
ottengono una nutrita serie di apparizioni televisive, accompagnate
magari da altrettanti articoli sulla stampa, e, per un breve periodo, giorni,

40
settimane al massimo, ottengono tutti i benefici del divo, con l’unica
clausola del venire rapidamente dimenticati, e quindi sostituiti, con altri
divi, anch’essi destinati ad una breve notorietà.55

La televisione è senz’altro una delle invenzioni che hanno cambiato


profondamente la società, ma è anche un mezzo che utilizza i propri
personaggi finché il loro potenziale, in termini di ascolti, non viene
usurato. Opera un continuo ricambio di divi, che godono di successo e
notorietà per un periodo limitato e che vengono rimpiazzati molto
rapidamente con nuovi divi “usa e getta”.
Come si è accennato, la televisione dà visibilità a categorie di persone
molto differenti. Se ai suoi albori poteva costituire un mezzo di evasione,
di fuga dalla normalità di chi lo guardava (come lo era stato
precedentemente il cinema dell’epoca d’oro), viene poi sempre più
occupandosi del quotidiano. Rivendicando, in virtù della sua
fondamentale caratteristica dell’ “esserci qui e ora”, la possibilità di
cogliere il reale in diretta, così com’è, crea una continua commistione fra
spettacolo e realtà, muovendosi su un doppio binario e cercando allo
stesso tempo di spettacolarizzare il quotidiano e di rendere più vicini al
pubblico e alla vita normale i protagonisti del mondo televisivo.
Mariselda Tessarolo sostiene che:

Esiste accordo tra gli studiosi nel sostenere che la quotidianizzazione


della spettacolarità uccide lo spettacolo, che perde la sua aurea e la sua
potenzialità disperdendo il carisma. Il video è un mezzo che non si
contrappone più al quotidiano, ma lo solennizza creando un vissuto
televisivo in cui la vita stessa si svolge in un eterno presente. […] I media
trasformano tutto in spettacolo: l’informazione scientifica, la politica e
l’attualità.

55 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1999

41
[…] Il giornalista deve far sapere , deve dire tutto senza preoccuparsi
troppo del livello di comprensione che sembra non essere importante. Ad
assumere importanza è invece l’ottica di presentazione dell’argomento che
definisce il divertimento e lo spettacolo. Nelle diverse modalità in cui la
divulgazione appare, e forma delle figure “divistiche”, esistono i giornalisti
scientifici, gli scienziati divulgatori e coloro che “dimostrano” che cosa
conoscono: giochi a quiz tendono a formare “personaggi” che diventano
famosi anche se per brevi periodo di tempo. Il mondo divistico è più
popolato di “meteore” che non di “stelle”.56

L’autrice sostiene inoltre che l’infotainment (la mescolanza tra


informazione e spettacolo) ha portato a un’ibridazione, che a sua volta ha
dato luogo a una ulteriore frammentazione dei caratteri divistici. In
definitiva, secondo Tessarolo, ai giorni nostri, i divi sembrano
personificati dai coloro che fanno da punto di contatto tra il mezzo di
comunicazione e il mondo, il pubblico, coloro che abitano il quotidiano: si
tratta di giornalisti, di conduttori televisivi, appartenenti quindi al mondo
dell’informazione.

Questo tipo di divo non sembra avere quasi più niente di sacro […]. Se
si può ancora parlare di Olimpo, quello moderno è un luogo
sovrappopolato in cui le aspirazioni e i bisogni si ritrovano a livello molto
basso in modo da essere adeguati a un numero ampio di persone: i miti
sono lontani, solo lo mitologia della felicità è (sembra) a portata di
mano.57

56 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1999.
57 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di

divismo”, Cleup, Padova, 1999

42
2.3 La personalizzazione della
comunicazione politica: una caso (quasi)
inedito di divismo

Nel 1963, anno in cui fu pubblicato “L’élite senza potere”, Alberoni


individuava due tipologie di élite presenti nella società contemporanea:
l’élite del potere e l’élite senza potere. La prima raggruppa coloro che
hanno incarichi istituzionali, pubblici, politici, le cui azioni hanno
conseguenze sull’intera società. La seconda è formata invece da persone
che dispongono di una certa notorietà ma che non ricoprono ruoli di
potere pubblico e le cui azioni non influiscono sulla collettività. A questa
divisione di tipologia d’élite corrisponde una differenza di interesse verso
i loro componenti. Se l’interesse verso i detentori del potere pubblico e
istituzionale è delimitato alla sfera del loro “agire di ruolo”, ignorando
invece la sfera della loro vita privata, per i divi, personaggi noti senza
alcun potere pubblico, l’interesse verte proprio sugli aspetti più personali
della loro vita: la curiosità è puntata sui loro modi di “agire in comunità”,
quindi sulla loro famiglia, sui loro amori, sui loro amici e sul loro tempo
libero, con un’attenzione molto meno accentuata riguardo le loro
prestazioni professionali.
Secondo Buonanno questa separazione di ruoli è fondamentale, in
quanto funziona come protezione contro l’eventuale nascita di un potere
carismatico, che potrebbe configurarsi

se personaggi collocati in posizioni di potere istituzionale divenissero


oggetto di forti investimenti emozionali e di interesse diffuso, come lo

43
sono i divi. Perciò questi ultimi, a loro volta, debbono apparire
politicamente neutrali.58

Queste affermazioni sono sostenute da una ricerca che risale al 1968


compiuta da Tosi. L’autore si propone di indagare il rapporto esistente fra
il fenomeno divistico e l’ élite del potere sulla scia delle tesi sostenute da
Alberoni nella sua pubblicazione del 1963. Partendo appunto dalla
convinzione che vi sia una divisione istituzionale fra divismo e potere,
Tosi riprende delle osservazioni di Alberoni sostenendo che

[…] nei paesi ad alto grado di integrazione e con più profonda


interiorizzazione dei valori del sistema sociale vi sia la possibilità di una
più elevata e diffusa osservabilità dei politici (cui non corrisponde peraltro
una elevata permissività nei loro riguardi). 59

Riconosce dunque la possibilità che i politici possano essere valutati


anche per i loro comportamenti non strettamente riguardanti il loro ruolo
istituzionale. Tuttavia,
L’attenzione di tipo diffuso ha in sostanza una funzione di controllo:
l’agire privato-familiare e la personalità globale diventano oggetto di
interesse e di valutazione al fine di verificare la loro corrispondenza con i
valori ed i mores societari, i valori e i mores che costituiscono il
fondamento valutativo interiorizzato del sistema politico. E, poiché i valori
ispiratori del sistema sociale sono ampiamente condivisi e profondamente
interiorizzati, una minima derivazione da essi può provocare rapidamente
la condanna del personaggio, qualunque sia la posizione di potere
istituzionale conseguita.60

58 M. Buonanno, “Nuovi modelli di identità nel divismo contemporaneo”, in “Problemi


dell’informazione”, n. 3, 1984
59 A. Tosi, “Divismo ed élites politiche: primi risultati di una ricerca comparativa in tre Paesi

europei”, Vita e pensiero, Milano, 1968


60 A. Tosi, “Divismo ed élites politiche: primi risultati di una ricerca comparativa in tre Paesi

europei”, Vita e pensiero, Milano, 1968

44
Quindi, esisterebbe una certa valutazione degli aspetti più
strettamente privati dei politici (sebbene Tosi sottolinei che questo
avvenga in misura molto minore in Italia rispetto ad altri paesi), ma
questo tipo di attenzione avrebbe una funzione di controllo rispetto a
quanto condiviso nella società di riferimento. Infatti, ai politici “sotto
osservazione” non verrebbe comunque riconosciuta l’indulgenza che
viene riservata ai divi, che vengono giudicati con una morale molto più
tollerante di quella comune, “tanto da costituire quasi un’élite di
trasgressione dei valori tradizionali codificati nella sfera dell’intimità”.61
Analizzando alcuni giornali del tempo Tosi scrive:

Le valutazioni da parte dei giornali confermano che il riferimento ai


politici è essenzialmente di ruolo: rispetto agli attori aumentano i giudizi
neutrali o l’avalutatività (che spesso significano riferimento in funzione di
cronaca) e quindi diminuiscono drasticamente i giudizi permissivo-
esaltanti. Quando la valutazione vuole essere positiva, ci si richiama ai
sistemi di carattere ideologico ponendosi quindi automaticamente al di
fuori di criteri di tipo personalistico. Infine compaiono, finalmente in
misura significativa, valutazioni negative (del tutto assenti per i
personaggi dello spettacolo).62

Esistono poi, come già aveva evidenziato Alberoni, personaggi di


potere politico-istituzionale a cui vengono concesse quote di temi
divistici, ma si tratta sostanzialmente di politici extra-nazionali e, in ogni
caso, mai verranno accordati simili benefici ai personaggi politici del
proprio paese.

61 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1999, p. 109
62 A. Tosi, “Divismo ed élites politiche: primi risultati di una ricerca comparativa in tre Paesi

europei”, Vita e pensiero, Milano, 1968

45
Se questa era la situazione rilevabile alla fine degli anni ’60, è
abbastanza facile intuire quanto la realtà si sia modificata nel tempo.
Buonanno già intuiva come si stesse verificando un sensibile
cambiamento tra le due tipologie di élite, del potere e senza potere. Infatti
si sta assistendo, da una parte, a politici che espongono la loro vita
privata e, dall’altra, a divi che escono dalla loro neutralità politica
assumendo impegni sociali.
Fondamentale in questo percorso per spiegare tale cambiamento è il
rilevamento della preponderanza della comunicazione politica fondata ed
esercitata dalle persone, piuttosto che dai partiti. Il sistema dei media ha
infatti influito decisamente su questo fenomeno. In una raccolta di saggi
sulle evoluzioni della politica in Italia negli ultimi anni, Mazzoleni scrive:

La ricerca ha messo in luce gli effetti immediati ed empiricamente


rilevabili di questo spostamento di centralità tra il sistema della politica e
il sistema dei media: la mediatizzazione del sistema politico, la
spettacolarizzazione del discorso politico, la personalizzazione e la
leaderizzazione dei rapporti tra soggetti politici ed elettorato. […]
Le conseguenze di questa predominanza della media logici nella
comunicazione politica sono tangibili appunto nella spettacolarizzazione
(che ha messo in secondo piano i problemi a favore dell’immagine), nella
personalizzazione e leaderizzazione (che premiano la personalità e
l’influenza dei singoli candidati o dei leader, sulla struttura partitica).63

Rossella Bavarese, sempre in questa raccolta, ha inoltre scritto a


proposito del fenomeno dell’ “americanizzazione” della politica,
sostenendo che:

63 G. Mazzoleni, “La comunicazione politica e i media nella campagna elettorale”, in C. Marletti


(a cura di), “Politica e società in Italia”, F. Angeli, Milano 2000

46
Una rassegna attenta degli studi sul voto negli Stati Uniti, sembrerebbe
concludere che l’identificazione con il partito non è più la principale
componente che determina la scelta di voto. Quello nordamericano, però,
non è un caso isolato. Nelle democrazie occidentali si assiste a uno
spostamento di rilevanza dalle organizzazioni alle persone. “La vecchia
politica è la politica delle organizzazioni, partitiche ma anche sindacali. La
nuova politica è la politica delle persone, della personalizzazione”
(Pasquino, 1992).64

Sono evidenti, già da questi pochi passaggi, i notevoli cambiamenti


che i media, in particolare la televisione, hanno portato al sistema della
comunicazione politica. Sartori approfondisce questo aspetto relativo al
mezzo televisivo, sostenendo che la televisione è diventata un mezzo di
formazione, che pervade tutta la nostra vita.

Dopo aver “formato” i bambini continua a formare, o comunque a


influenzare, gli adulti “informandoli”. Informandoli, in primo luogo, di
notizie (più che di nozioni), e cioè dando notizia di ciò che avviene nel
mondo, vicino o lontano che sia. Il grosso di queste notizie finisce per
essere di sport, di cronaca nera, di cronaca rosa (o lacrimosa) e di
catastrofi varie. Il che non toglie che le notizie di maggior conseguenza, di
maggior importanza oggettiva, siano le informazioni politiche, le
informazioni sulla polis (nostra e altrui).65

Sartori sostiene inoltre che la televisione condizioni decisamente i


processi politici, la scelta dei candidati per cominciare, il pre-elezioni,
addirittura la vittoria di uno schieramento piuttosto che un altro e le
scelte di governo. Per quanto queste affermazioni possano forse essere

64 R. Savarese, “Americanizzazione della politica: un modello interpretativo delle nuove


campagne elettorali”, in C. Marletti (a cura di), “Politica e società in Italia”, F. Angeli, Milano
2000
65 G. Sartori, “Homo videns: televisione e post-pensiero”, Laterza, Bari, 2004, V ed.

47
eccessive, qualcosa di vero e osservabile nel panorama della politica
contemporanea c’è. Durante le elezioni, in campagna elettorale, è
particolarmente evidente e Sartori si riferisce proprio a questa condizione
particolare quando dice che

La televisione personalizza le elezioni. Sul video vediamo persone, non


programmi di partito; e persona costrette a parlare col contagocce.
Insomma, la televisione ci propone persone (che eventualmente
discorrono) in luogo di discorsi (senza persone). […]
Sia come sia, quando si parla di personalizzazione delle elezioni si
intende che contano più le “facce” (se sono telegeniche, se bucano in
televisione o no), e che la personalizzazione diventa generalizzata, dal
momento che la politica “in immagini” si impernia sull’esibizione di
persone.66

Queste osservazioni sono quanto mai evidenti e facilmente rilevabili


nella realtà: chiunque di noi ha seguito i numerosi programmi di politica
presenti nel nostro palinsesto televisivo: abbiamo potuto osservare e
apprezzare l’aspetto dei nostri politici, li abbiamo ascoltati, certo, ma
sempre con un occhio rivolto alla loro presenza “scenica”, cercando di
intuire se si trovassero a loro agio in uno studio televisivo o se invece
fossero in difficoltà, scoprendo magari la sottile ironia o un altro qualsiasi
aspetto particolare di un candidato che ce lo rende più o meno simpatico.
E’ indubbio che la televisione influenzi la percezione che abbiamo della
politica e dei suoi protagonisti, e sta diventando sempre più evidente che
ciò che la politica odierna propone sono persone piuttosto che partiti e
tutto sommato ci piace pensare di avere qualcuno di preciso, di
facilmente identificabile, da votare e con cui prendercela se le cose nel
nostro paese vanno male. Ciò che scrive Sartori, secondo la mia opinione,

66 G. Sartori, “Homo videns: televisione e post-pensiero”, Laterza, Bari, 2004, V ed.

48
si può estendere alla politica in generale e non solo relegarlo alla
condizione particolare delle elezioni. Stiamo assistendo a una progressiva
“personalizzazione” della comunicazione politica, per cui assume
maggiore influenza la “faccia” di una persona” e ciò che dice quella
precisa persona, piuttosto che tutto l’apparato partitico-istituzionale che
le sta dietro.
Questa personalizzazione, può giustificare il fenomeno descritto da
Buonanno, secondo cui, come già accennato, tra l’élite del potere e l’élite
senza potere, si starebbe verificando un progressivo cambiamento, e
mentre aumenta l’attenzione al privato dei politici, si assiste a una presa
di posizione politica da parte di alcuni divi.
Se il nostro assunto fondamentale, che fa da sostrato a tutte le
considerazioni contenute in questo lavoro, è che senza immagine non vi è
divo, possiamo intuire che questo concetto può funzionare più che bene
anche per la comunicazione politica, il che conforta tutte le riflessioni su
questo argomento. Nel titolo di questo paragrafo ho inserito fra parentesi
la parola “quasi” inedito per qualificare la personalizzazione della
comunicazione politica. Oggi il mezzo che fornisce immagini dei politici è
la televisione e ci sembra che in precedenza nulla possa aver potuto
rispondere all’esigenza di farsi vedere come riesce a fare questo medium.
In effetti è così da un certo punto di vista, ma non dobbiamo dimenticare
che l’immagine in sé è sempre stata uno strumento dei detentori del
potere politico per mostrarsi ed entrare nelle case e nelle vite della gente.
Kermol, nota che

Se esaminiamo i divi del passato (condottieri, re, imperatori, cioè


quelli precedenti all’industrializzazione dello spettacolo, e in pratica
all’industria) notiamo un astretta osservanza di questa regola [Senza
immagine non vi è il divo]. Napoleone, ad esempio, un “divo” precedente

49
a quelli esaminati, aveva invaso l’Europa, oltre che con le proprie truppe,
anche con i ritratti, dai medaglioni ai disegni, dalle stampe ai quadri.67

Senza addentrarsi in quanto sia stato fondamentale l’utilizzo dei


media e dell’immagine in generale per la personalizzazione politica nei
regimi autoritari, totalitari e dittatoriali, argomento che meriterebbe una
trattazione a parte per la vastità degli spunti che offre, si può comunque
notare quanto sia stato importante nel passato il “vedere” e di quanto lo
sia oggi. In passato il vedere da lontano, il toccare la personalità politica o
di potere, dava adito alla creazione nell’immaginario comune di vere e
proprie figure divistiche, processo che si è poi ri-verificato con le star del
cinema di Hollywood in tempi relativamente più recenti.
Ora viviamo in una democrazia e notiamo come esista effettivamente
questa tendenza alla personalizzazione e che l’allargamento degli
interessi riguardo gli aspetti più personali dei politici non stia creando
pericoli di regimi o eccessi di carisma. E’ altrettanto evidente che un
politico, oggi, non può certo destare l’ammirazione e il fascino e il mistero
che ci riservavano i divi del cinema e del passato, né questo paragrafo,
con le osservazioni che vi sono contenute, ha la pretesa di sostenere un
cosa tanto complicata da dimostrare concretamente. L’unico concetto che
mi interessa affermare è che, se negli anni in cui scrivono Alberoni e Tosi,
le loro idee erano aderenti alla realtà dei fatti, oggi non possono più
essere sostenute con tanta certezza: la televisione ha inciso
profondamente nella società e ha inciso anche sulla politica. Per le
caratteristiche proprie del mezzo, sono diventate sempre più rilevanti le
persone che vi compaiono e la comunicazione si è fatta sempre più
personalizzata e incentrata su chi appare effettivamente sullo schermo.
Nuovi angoli di osservazione sono stati presi in considerazione e oggi

67 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1999

50
guardiamo le personalità politiche con occhi diversi rispetto a quanto
facevamo trent’anni fa. Oggi ci incuriosiscono gli aspetti più privati dei
politici, essi sono diventati oggetto di cronaca rosa, sappiamo di più sulle
loro famiglie, d’estate vengono pubblicate sulla stampa scandalistica foto
delle loro vacanze, “paparazzate” su ciò che fanno al mare, ci divertiamo a
vedere un politico con gli amici sulla spiaggia, come una persona
normale. Oggi sappiamo cosa fanno nel loro tempo libero, quali sono i
loro hobby e le loro passioni al fuori del loro ruolo istituzionale.
Probabilmente non sono “divi” come lo erano Marlon Brando o
Humphrey Bogart, ma sono ugualmente oggetto del pettegolezzo
collettivo e questo interesse non è più dettato unicamente da un’esigenza
di controllo, solo per verificare se il loro comportamento è aderente a
valori socialmente condivisi.
Un’ultima riflessione su questo argomento: qualche tempo fa, in piena
campagna elettorale, mi è capitato di sfogliare un quotidiano nazionale.
Si era alla vigilia di un confronto decisivo fra i due candidati, le esigenze
di par-condicio erano pressanti e lo spazio che aveva uno doveva essere
esattamente lo stesso che aveva l’altro, anche sul quotidiano. Un articolo
occupava la seconda e la terza pagina, al centro due foto a figura intera
dei due candidati, sui lati due colonne con informazioni riferite ad
ognuno dei due, che servivano evidentemente e riportare le notevoli
differenze fra i candidati: per entrambi era indicata data di nascita, luogo,
altezza, tipo di laurea conseguita, titolo della tesi; poi numero di figli,
vacanza ideale, hobby, sport praticati, strumenti suonati, se il candidato
era intonato o stonato, cravatta e tipo di giacca preferiti, etc.
Ora, prendendo in considerazione tali osservazioni, possiamo ancora
sostenere, senza alcuna ombra di dubbio, che la vita di chi occupa
posizioni di potere non ci interessa, né ci incuriosisce, o che ci
incuriosisce esclusivamente per controllare se rispettano alcuni valori che
tutti, socialmente, condividiamo?

51
3. POSTMODERNITA’ E DIVISMO

Se i modelli di divismo sono cambiati, se coloro che assurgono al ruolo


di divo sono personaggi sempre più numerosi e la loro condizione è
sempre più debole, significa che la società stessa è cambiata, gli uomini
sono cambiati, così come sono cambiati i loro bisogni. Guardare al
fenomeno divistico da una punto di vista più preciso, alla luce dei
cambiamenti intervenuti dal punto di vista della società tutta è a mio
avviso interessante e rilevante per individuare e spiegare, seppur
parzialmente, il significato che può ancora rivestire il divo nella società
postmoderna.
E’ senza dubbio complesso riuscire a definire la postmodernità, d’altra
parte non è pretesa di questo elaborato descriverne le intricate
dinamiche, se non in relazione al fenomeno che è poi il centro del mio
interesse e l’argomento della mia trattazione. Mi soffermerò in special
modo su alcuni punti focali, funzionali alla mia riflessione: la società
postmoderna come società del cambiamento e dell’incertezza, la rilevanza
che questo estremo dinamismo esercita sui processi di costruzione
dell’identità individuale, il ruolo del divo e le modificazioni che ha subito
in riferimento ai cambiamenti delle dinamiche sociali.

52
3.1 La società dell’incertezza

Definire la postmodernità non è impresa semplice. Lyotard, nel 1979,


scrisse per primo:

Le società entrano nell’era detta post-industriale, le culture nell’era


post-moderna.68

La teoria della società postindustriale si fonda sull’assunto


fondamentale che essa è, per intero, focalizzata sull'informazione,
esattamente come la società industriale era, per intero, focalizzata sul
(capitale e sul) lavoro. Veicoli privilegiati della circolazione e produzione
dell'informazione sono telecomunicazione e computers che, di
conseguenza, rappresentano, i contrassegni più autentici dell'epoca.
La condizione postmoderna, al contrario, non caratterizzerebbe
propriamente la società, almeno secondo Lash, che interviene seccamente
nel definire il postmodernismo

[…] un fatto strettamente culturale. In effetti è una sorta di


“paradigma” culturale. I paradigmi culturali […] sono configurazioni
spazio-temporali. Essi comprendono “spazialmente” una struttura
simbolica più o meno flessibile che, una volta estesa al di là della sua
forma, comincia a costituire un altro distinto paradigma culturale. […]
In maniera più specifica, il postmodernismo e gli altri paradigmi
culturali sono ciò che chiamo “regimi di significazione”. […] Nei “regimi
di significazione”, ad ogni modo, vengono prodotti solo oggetti culturali.69

68 J. F. Lyotard, “La condizione postmoderna: rapporto sul sapere”, Feltrinelli, Milano, 1979
69 S. Lash, “Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse”,
Armando, Roma, 2000

53
La principale differenza fra modernismo e postmodernismo, così come
vengono intesi da Lash, sta nel fatto che, mentre il primo produrrebbe
una differenziazione, con il secondo si attuerebbe invece un processo di
de-differenziazione. Con la modernizzazione ogni sfera culturale
godrebbe di un’autonomia assoluta, con la postmodernizzazione al
contrario si assisterebbe a un avvicinamento fra ambito culturale e
sociale, nel senso che, se nel primo caso il modernismo fu un
cambiamento che coinvolse solo la cultura alta, il postmodernismo
avrebbe consentito una “disgregazione dei confini tra cultura alta e
cultura popolare e col concomitante emergere di un pubblico di massa
per la cultura alta”70. In questa “inedita immanenza della cultura nel
sociale, le rappresentazioni assumerebbero anche una funzione di
simboli”71. Ciò che è fondamentale evidenziare, poi, è il modo in cui
avviene la significazione: non più attraverso parole, ma attraverso
immagini. In questo caso, si tratterebbe

di de-differenziazione in quanto le immagini sono molto più simili ai


referenti di quanto non lo siano le parole. […] Ciò equivale a dire che la
nostra vita quotidiana comincia a essere pervasa da una realtà – nella TV,
negli spot pubblicitari, nei video, nei computer, nei walkman, nelle
autoradio e ora, in un crescendo inarrestabile, nei CD, CDV, e DAT – che,
in maniera crescente, include le rappresentazioni.

Secondo Lash, il postmodernismo problematizza la relazione fra


rappresentazione e realtà: l’autore fa spesso riferimenti relativi all’arte, in
special modo alla pittura, e per rendere quest’ultimo concetto usa
l’esempio di Andy Warhol e dei suoi schermi di seta, i quali
sembrerebbero rappresentare un ritorno al realismo, ma in cui l’oggetto
70 S. Lash, “Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse”,
Armando, Roma, 2000, p. 21
71 S. Lash, “Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse”,

Armando, Roma, 2000, p. 21

54
reale dipinto è esso stesso un’immagine. Ciò che in sostanza cambia è ciò
che percepiamo: tutto quello che percepiamo, in televisione, in rete, nelle
riviste che leggiamo, sono immagini, rappresentazioni.

Noi viviamo in una società in cui la nostra percezione è diretta in


misura pressoché equivalente tanto alle rappresentazioni quanto alla
realtà. Queste rappresentazioni arrivano a costituire un’enorme porzione
della realtà che percepiamo, e/o la nostra percezione della realtà sempre
più avviene per mezzo di queste rappresentazioni. […] In tal modo siamo
resi sensibili, in quanto spettatori, a forme culturali che giocano, non tanto
con lo scompaginamento/riordinamento del tempo e dello spazio, ma con
la natura problematica della realtà e con la relazione della realtà alla
rappresentazione.72

In definitiva, il postmodernismo avrebbe introdotto una sorta di


inconsistenza della realtà, una mescolanza pericolosa fra l’esperienza che
abbiamo della realtà e l’esperienza che abbiamo delle sue
rappresentazioni, rendendo sempre più labili i confini fra queste due
sfere: e ciò diviene ancora più pericoloso considerando che, mentre il
modernismo aveva coinvolto solo le élite della cultura più elevata, il
postmodernismo si è rivelato un cambiamento culturale che ha investito
sia la cultura alta che quella popolare. La “nuova élite è effettivamente
diventata una vera e propria non-élite, piuttosto una massa”73.
La realtà postmoderna si rivela dunque un’entità molto complessa, che
comprende spazi di tipologia inedita:

non più soltanto una cosa prossima, vicina a chi organizza delle
relazioni, ma diventa evento o esperienza anche non prossima all’attore.
[…] Infatti lo stile di vita di un individuo postmoderno occidentale è
sempre più staccato dai luoghi concreti. Ogni individuo si costruisce una

72 S. Lash, “Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse”,


Armando, Roma, 2000
73 S. Lash, “Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse”,

Armando, Roma, 2000, p. 31

55
personale mappa di spostamenti e relazioni, vive in diverse comunità,
organizzazioni, può attivare o frequentare newsgroup etc. La diffusione
dei telefonini o di internet o della tv satellitare sono chiari esempi di
personalizzazione di relazioni.74

Il sistema di relazioni è fondamentale per l’individuo e per la


costruzione e l’evoluzione della sua identità. Parlo di evoluzione, o
comunque cambiamento, perché appare evidente come nella società
contemporanea le persone intrattengano molteplici generi di relazioni,
reali e virtuali, che intervengono nella modificazione dell’identità
individuale. Se la modernità era contrassegnata da un orizzonte di senso
condiviso, nella postmodernità l’uomo “vive in una condizione in cui il
senso comune, l’unità della tradizione, non ci sono più”75. La sociologia
del teorico della modernità, così come viene definito da Lash, cioè Weber,
concepiva la società come caratterizzata dalla prevedibilità dei
comportamenti e degli eventi.

Per Weber l’uomo civilizzato occidentale vive in una società razionale,


con regole di funzionamento note, dove possibile fare i conti per definire
le proprie azioni. La società postmoderna ha smentito la profezia
weberiana, anzi si configura come società dell’insicurezza e del rischio […].
La natura contraddittoria [della postmodernità] […], per cui le
“opportunità” che si creano e la fiducia nel progresso convivono con il
rischio e il pericolo, è la base sulla quale si è sviluppata la condizione di
incertezza diffusa.76

La società contemporanea è caratterizzata in modo evidente da questa


incertezza cronica, che coinvolge il sistema di valori, quello delle

74 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004
75 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in

“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004, p. 5


76 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in

“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004

56
relazioni, delle appartenenze, delle modalità tradizionali di costruzione
della propria identità, etc. I confini fra gli oggetti che conosciamo, le
percezioni che ci permettono di rapportarci al mondo sono sempre più
caratterizzate da una fluidità contraddittoria; le tradizioni e i modi di
pensare e di vedere il mondo, che fino a qualche tempo fa erano
considerati pienamente accettati, condivisi e univoci, sono ora
insoddisfacenti e non adeguati alla realtà incerta in cui viviamo. In
mancanza di sistemi di senso stabilmente condivisi che consentano di
originare identità e gruppi definiti, il consumo diventa il riferimento
simbolico principale. Consumare diventa un valore, un modo per fissare
nuove appartenenze ed identità, sebbene precari ed “usa e getta” come i
beni di consumo.

Il rapporto con l’oggetto permette la costituzione di un insieme di


significati, di un linguaggio sociale, che consente di scambiare
informazioni, e di dare ordine e senso all’ambiente socio-culturale […].
Tramite il linguaggio simbolico del consumo si può dar vita alla
pluralità di identità individuali e intersoggettive, rispettando le differenze,
codificando e ricodificando gli stili di vita. Se l’attore sociale appare
sempre più instabile, più spaesato, il consumo diventa un modo per
conferire un senso al mondo sociale, per riconquistarsi una sfera giudicata
più sicura. Certo l’identificazione estetica è spesso incapace di ridare un
fondamento stabile ad un’ “identità smarrita”, ma comunque è in grado di
garantire ad essa una certezza, un approdo che poi sarà superato nella
girandola di innovazioni tipica del narcisismo contemporaneo.77

Il consumo si rivela quindi una forte modalità di integrazione sociale,


capace di stabilire nuovi valori o convenzioni cui conformarsi, nonostante

77 P. Dell’Aquila, “Consumo e postmodernità: riflessioni a partire da alcuni volumi recenti”, in


“M@gm@”, vol. 1, n. 4 ottobre/dicembre 2003

57
si tratti, come è stato accennato, di condizioni temporanee e facilmente
sostituibili.
Le questioni da affrontare per riflettere in modo completo sulla
postmodernità sarebbero evidentemente numerose, rilevanti per
comprendere la realtà contemporanea, ma penso esulerebbero
dall’argomento principale di questo lavoro. Le riflessioni finora fatte sulla
condizione postmoderna e, in special modo l’ultimo concetto che ho
rilevato, possono senz’altro aiutarmi a fare un passo successivo
nell’individuare i cambiamenti avvenuti nel fenomeno divistico e nel
rapporto tra fan e divo. Se la precarietà, la temporaneità, il consumo,
sono connotati tipici dell’epoca postmoderna, anche le riflessioni fatte nel
precedente capitolo, relative al nuovo divismo post-televisivo, assumono
un’ulteriore e più chiaro significato: il cosiddetto divismo di “breve
durata” appare così perfettamente compatibile alla condizione che è stata
descritta in questo paragrafo. La ricerca di continue e inedite ridefinizioni
di sé e del proprio immaginario, il rivolgersi al sistema dei beni di
consumo per fissare nuovi gruppi e nuove abitudini socialmente
condivise cui conformarsi, è visibilmente affine allo star-system
contemporaneo: la televisione, soprattutto, ci “propina” numerosi divi
che mantengono tale status per un periodo di tempo limitato, ma che, in
questo tempo limitato, la gente segue e verso cui attua un qualsiasi genere
di identificazione. Kermol propone questa definizione:

Potremmo chiamarli i divi del consumo – o divi del post-moderno?-


poiché analogamente a quanto accade in ogni altra produzione industriale
essi rientrano in quella fascia di prodotti d’uso quotidiano, di qualità non
alta, di breve durata, facilmente sostituibili, con scorte immense che
ritroviamo nei grandi magazzini.78

78 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1999

58
3.2 Identità frammentate

La condizione postmoderna coinvolge in modo molto deciso le


modalità di costruzione e di definizione della propria identità.
L’incertezza diffusa, caratteristica di questa epoca contemporanea,
produce per l’individuo una condizione di non appartenenza o comunque,
di una sistema di appartenenze magari molteplici ma estremamente
deboli. L’uomo vive e agisce in numerosi spazi eterogenei e si trova in una
situazione esistenziale in cui decide autonomamente e rimane fedele
essenzialmente a se stesso, allo scopo di “dare un’impronta sempre più
individuale alla propria vita”79. L’individuo rinuncia così alle grandi
appartenenze, si allontana dai grandi sistemi culturali e religiosi per
definire da sé la propria identità80: emerge così la nuova cultura della
soggettività. Negli ultimi anni si è fatta pressante la richiesta da parte
degli individui di libertà di scelta, di autonomia, di maggiori opportunità
per potere decidere chi voler essere. La moltiplicazione degli spazi di
azioni per le persone, la molteplicità delle situazioni che esse esperiscono,
è una risposta a questo bisogno: il mondo è diventato un mondo dalle
possibilità sempre più ampie e diverse e “l’agire dell’individuo ha così a
disposizione diverse opportunità che contribuiscono tutte a strutturarne
l’identità in maniera più flessibile e variegata”81. E’ a questo punto
evidente che le identità contemporanee sono delle identità sempre aperte,
e se da una parte questa condizione soddisfa l’ossessivo bisogno di

79 M. S. Di Gennaro, “Soggettività e costruzione dell’identità individuale: l’approccio


autobiografico”, in “M@gm@”, vol. 2, n. 2 aprile/giugno 2004, p. 1
80 E’ evidente che l’individuo a cui mi riferisco è essenzialmente l’individuo occidentale: tali

osservazioni non avrebbero senso se applicati a realtà diverse da questa. Basta pensare a ciò
che si sta verificando negli ultimi anni nel mondo islamico (ma questo è solo uno dei tanti
esempi che si potrebbero fare) per notare come la differenziazione sia vissuta come un
eccesso e la reazione a tale eccesso sia il ritorno alle grandi appartenenze, in questo caso
religiose, per ridefinire spazi e orizzonti precisi di identità e azione.
81 M. S. Di Gennaro, “Soggettività e costruzione dell’identità individuale: l’approccio

autobiografico”, in “M@gm@”, vol. 2, n. 2 aprile/giugno 2004, p. 2

59
autodeterminazione, dall’altro produce disorientamento, incertezza,
precarietà, tanto da configurare le identità individuali come mosaici, le
cui tessere vengono fornite da svariati ambiti di esperienza e azione. La
ricchezza di opportunità permette all’individuo di modellarsi sulla
variabilità di situazioni esperite: moltiplica i suoi interessi, le
appartenenze, le attività che svolge e, di conseguenza, il potenziale
disorientamento che ne deriva. Lash82 ha ingegnosamente coniato
l’espressione di “etica della sopravvivenza”: in sostanza l’individuo, di
fronte alla molteplicità ed eterogeneità del mondo contemporaneo e delle
possibilità che offre, finisce per adattare la propria identità di volta in
volta a ciò che gli capita.
Se la vita quotidiana e individuale assume così la caratteristica della
discontinuità e del dinamismo, anche i legami fra individui sono sempre
più deboli e precari. Pensiamo alla vita organizzativa, a quanto siano
deboli i legami che abbiamo per esempio con i colleghi di lavoro, che
abbiamo oggi ma che domani potrebbero essere diversi. Debole è il
legame che abbiamo con un ruolo e soprattutto con il futuro, sempre più
imprevedibile e incerto, erede di un presente estremamente dinamico e
pregno di attese, bisogni, obiettivi sempre nuovi. L’individuo
postmoderno appare sempre più come elemento che si plasma su
collettività e gruppi diversi: “la crisi della modernità ha quindi condotto
alla costruzione di un’identità frammentata, in base alla quale ciascun
soggetto, nelle interazioni, è caratterizzato dal possesso di più
personaggi o maschere”83. Diventa così decisamente complesso definire
tutte le diverse appartenenze che caratterizzano l’individuo postmoderno,
anche considerando che i valori, le aspettative di ogni singola collettività
da cui l’uomo desume parte della sua identità, possono essere, e spesso lo
sono effettivamente, divergenti o addirittura conflittuali.
82 C. Lash, “La cultura del narcisismo”, Bompiani, Milano, 1981
83 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004, p. 3

60
La differenza fondamentale fra l’uomo premoderno e l’uomo
postmoderno sta quindi nel fatto che mentre il primo trovava e definiva
se stesso in un orizzonte di senso condiviso, certo ed immutabile della sua
comunità di appartenenza, per il secondo questa è una condizione
pressoché impossibile da ricreare: come è stato già accennato, il senso
comune, l’unità della tradizione, l’appartenenza univoca ad una
collettività, sono elementi che si sono decisamente affievoliti, che hanno
perso significato nella realtà contemporanea, fluida e discontinua.
L’individuo postmoderno deve definire da solo, per proprio conto, chi è e
chi vuole essere e questo è un processo mai definitivo, ma in continuo
cambiamento.
In relazione all’argomento di mio interesse, si può dire che il mito
abbia molto a che fare con la costruzione dell’identità individuale. Nel
primo capitolo ho affrontato la questione della funzione del mito e ho
affermato che esso ricopre un ruolo importante nel costituire un
immaginario collettivo, un orizzonte condiviso in cui gli individui
possano ritrovare se stessi. Anche nell’epoca postmoderna, l’uomo
continua da aver bisogno di riferimenti, seppur precari e temporanei, cui
rifarsi per definire se stesso e chi vuole essere. Il riconoscimento soddisfa
il bisogno che ha l’uomo di appoggio sociale, di ottenere conferme sulle
sue modalità di comportamento o di pensiero: il desiderio di non sentirsi
solo è l’istinto primario anche e soprattutto nella società del
cambiamento, in cui ogni cosa appare incerta e precaria, i ruoli, le
identità, i legami, la posizione sociale, persino, nel caso specifico, lo
status di star. Se la televisione o comunque lo star system odierno
produce divi come si producono prodotti industriali in serie, è perché la
società ha bisogno di questa mobilità incessante. Molte sono le identità
che ognuno possiede, molte sono le maschere che indossiamo
adattandole ai numerosi contesti in cui agiamo, molti sono i personaggi
in cui ci riconosciamo, magari anche parzialmente. E se queste identità

61
sono provvisorie e momentanee, provvisoria e momentanea sarà pure la
condizione di divo a cui assurge la maggior parte dei personaggi dello
spettacolo lanciati principalmente dalla televisione: tale condizione
persisterà fino a che il bisogno degli individui, di coloro che si
riconoscono in uno specifico personaggio, non sia esaurito. A quel punto
nuovi bisogni temporanei dovranno essere soddisfatti e nuovi divi “usa e
getta” saranno utilizzati dall’industria dello spettacolo.
Le identità postmoderne sono identità frammentate. Ogni frammento
deve rifarsi a un modello da imitare o a cui fare semplicemente
riferimento. Ecco che l’individuo postmoderno diviene individuo
eclettico, nel senso che molti elementi, anche contraddittori, convivono in
lui, magari squilibrati, sicuramente eterogenei, indubbiamente contenuti
nello stesso involucro complesso che definisce l’identità di una persona.
La realtà rispecchia perfettamente la condizione dell’individuo
contemporaneo (ma vale anche il contrario!) e il sistema dei miti subisce
le stessa sorte di contraddittorietà, precarietà e temporaneità. Il modo in
cui esso sopravvive a questa indeterminatezza è il fornire un continuo
ricambio di divi e miti e che rispondano alla fondamentale funzione di
soddisfare le esigenze sempre mutevoli degli individui: infatti, non solo
nello stesso individuo convivono più personalità ed identità, ma egli le
modifica continuamente per adattare se stesso all’evolversi della realtà e
delle situazioni che esperisce.

62
3.3 Il “divismo diffuso”

La complessità, la frammentazione delle identità rendono difficile la


comprensione della personalità degli individui. Le molteplici
appartenenze, l’irriducibilità delle identità ad una sola delle esperienze
vissute da una persona, rendono l’uomo postmoderno un’entità non
conoscibile in modo facile ed univoco. Baratta sostiene che il fatto che
l’uomo non sia più identificabile in modo tradizionale, per esempio in
funzione del suo ruolo professionale o della sua posizione sociale, rende
così complessa la sua conoscibilità da rischiare l’invisibilità sociale.
L’identità è il risultato dell’immagine che l’individuo ha di sé e
dell’immagine che gli altri hanno dell’individuo. Per questo sono
fondamentali sia l’autorappresentazione che la rappresentazione che di
un soggetto hanno le altre persone: “gli osservatori dell’identità”84.

Il soggetto finisce per essere riconoscibile in base a ciò che possiede o


consuma. Ma non si desiderano solo merci, si possono desiderare anche
posizioni sociali, in quanto fonte di potere, prestigio e riconoscimento.
L’invisibilità dell’uomo lo spinge a ricercare posizioni di dominio per
apparire, dal momento che il fatto di esistere non è una condizione di
riconoscimento sociale in sé. Chi ricopre posizioni dominanti piace, è
richiesto, esiste. Diventa visibile. La sua condizione di trasparenza si
risolve. Chi non è in grado o non vuole esercitare il suo dominio sulle cose,
sulla realtà o su altri uomini, non è riconosciuto. E’ invisibile.85

In definitiva le rappresentazioni di sé sono fondamentali per


affermare la propria identità.

84 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004, p. 6
85 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in

“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004

63
Il mondo contemporaneo vive senza dubbio nella civiltà delle
immagini. La proliferazione dei mezzi di comunicazione di massa, ma
soprattutto il fatto di comunicare e conoscere per immagini (ossia per
rappresentazioni, come rilevava Lash in riferimento alla condizione
postmoderna), ha reso la nostra esistenza di uomini occidentali un
percorso in cui intervengono in ogni secondo della giornata immagini,
sotto forma di manifesti pubblicitari, video, aggiornamenti televisivi in
tempo reale, etc. L’espressione del “bombardamento” di immagini è
senz’altro usurata, ma in effetti coglie la sostanza della realtà e della vita
quotidiana di ognuno di noi. Tutto è diventato immagine, la
rappresentazione che si dà di sé è diventata la sostanza di come noi
veniamo conosciuti dagli altri. Forse Baratta esagerava quando diceva che
gli uomini stanno diventando invisibili a causa della loro complessità e
inconoscibilità, ma se rifletto su come, per esempio, la gente vive oggi il
rapporto con la televisione, forse qualcosa di reale nelle parole dell’autore
esiste. Egli sostiene che dare rappresentazione di sé, rendersi visibili in
qualche modo, magari occupando posizioni di riconoscimento, possa
essere l’antidoto all’invisibilità. Se fosse così, sarebbe spiegato con quanto
entusiasmo la gente partecipi a occasioni in cui rendersi visibili alla
maggior parte degli “altri”, per esempio a programmi televisivi su storie
di vita quotidiana. Ci si è convinti che l’unico modo per rendersi
conoscibili sia esporre la propria identità (o una delle nostre identità): da
qui la sovraesposizione mediatica diffusa, l’imperante desiderio di farsi
vedere, di mostrare se stessi per affermare la propria esistenza. Questo
dato di fatto contribuisce a spiegare in parte il fenomeno
dell’allargamento del fenomeno divistico: chiunque può diventare divo,
anche se per un tempo limitato, e in questo modo affermare se stesso,
uscire dall’anonimato della vita quotidiana, dall’invisibilità sociale,
appunto. I divi perdono la loro aura di irraggiungibilità perché diventano
sempre più prossimi alla gente comune, anzi, spesso coloro che

64
assurgono a tale ruolo, sono stati fino a pochi minuti prima delle persone
del tutto comuni.
Ma questo processo di allargamento del fenomeno divistico non
riguarda solo le persone normali che espongono se stesse per affermare la
propria identità. I cambiamenti nel sistema divistico avvengono anche in
funzione di nuove pratiche ad esso relative e ai personaggi che vengono
considerati divi nella società frammentata contemporanea.
Il divismo contemporaneo spazia praticamente in tutte le categorie
sociali: dal chirurgo toracico […] all’astronauta (Neil Armstrong, John
Glenn), dallo sportivo (Messner, Borg, Tyson) all’industriale (Agnelli per
l’Italia, Rockfeller per gli Usa) al “negativo” mafioso […]. Infatti non è più
il divo “universale” […] a dettare comportamenti e mode, ma sono questi
muovi divi “parziali” a uniformare per imitazione i settori professionali ed
economici che li riguardano […].86

In sostanza tutti i settori della società costruiscono i loro divi e la


televisione offre l’irripetibile opportunità per concentrare in un’unica
soluzione le immagini di coloro che sono stati eletti ad un ruolo pubblico.
E così tutti questi personaggi pubblici, oltre ai divi dello spettacolo,
costituiscono “tutta una galleria di tipi umani e professioni che
dimostrano come la passerella divistica televisiva rappresenti una
sintesi dei modelli comportamentali della società intera”87. Da ciò deriva
quello che Kermol chiama divismo diffuso: accanto al divo “universale” si
stagliano una serie di divi “minori”, che sono tali per una fascia precisa di
pubblico. All’interno di questi gruppi ristretti essi mantengono un ruolo
di divo a tutti gli effetti, ma fuori da esso perdono il loro “potere”.
Si può dire che lo star system come lo si intendeva diversi anni fa non
esiste più. Osserva Tessarolo che
86 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di
divismo”, Cleup, Padova, 1999
87 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di

divismo”, Cleup, Padova, 1999, p. 94

65
alla star viene a mancare lo star system, in quanto il “divismo diffuso”,
la provenienza dei modelli dalla vita reale, e non dal mondo
cinematografico, toglie l’aura dell’irrealtà e dell’invenzione. La
moltiplicazione dei modelli è dovuta alla cultura di massa (stampa, riviste,
Tv, pubblicità) e alla sua sottocultura.88
Quando Morin sostiene la decadenza dei divi in effetti coglie una
verità innegabile: non esistono più personaggi che fanno sognare,
evadere, che vivono nelle nostre fantasie e che sembrano esistere in un
Olimpo felice al di fuori della realtà. L’epoca contemporanea forse non ne
ha nemmeno più bisogno: gli individui hanno a lungo lottato e richiesto
di poter decidere autonomamente chi essere e chi scegliere come modello
di riferimento ed ispirazione. Oggi i divi sono tutti e nessuno, sono così
tanti che possono soddisfare qualsiasi esigenza di riconoscimento
nell’uomo contemporaneo. Ogni tipo umano, ogni comportamento
sociale, anche il più comune, ha il suo rappresentante nel sistema dei divi
e così come l’individuo cambia identità continuamente per adattarsi alla
molteplicità delle situazioni che esperisce tutti i giorni, anche i divi sono
diventati miti “intercambiabili”, che si indossano e si smettono come
fossero vestiti, da adattare alle contingenze che si affrontano. Tutto
questo sarà anche triste al confronto di ciò che evocavano
nell’immaginario della gente i divi “classici”, il mistero, l’irraggiungibilità,
il fascino, ma è il prezzo che paghiamo in cambio dell’infinita libertà che
abbiamo nella società contemporanea di essere chi decidiamo di
diventare.

88 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di


divismo”, Cleup, Padova, 1999

66
Conclusioni

Molteplici identità, molteplici miti. Un’identità-mosaico funzionale


alla sopravvivenza in una società in veloce trasformazione. Questi sono
alcuni fra gli elementi in cui inquadrare il progressivo adattamento del
sistema dei divi al cambiamento della nostra società, della nostra cultura,
della nostra condizione nel mondo: lo star system è passato dal costruire
esseri connotati da impalpabilità e dalla dolce crudeltà dell’essere
irraggiungibili, al proporre personaggi pressoché intercambiabili.
Nonostante le critiche facilmente movibili a tale sistema, questa riserva
infinita di miti, di riferimenti, di modelli di imitazione, è una delle risorse
che possiede l’individuo per non perdersi nel flusso continuo e
inarrestabile della realtà. Nella società occidentale sono decadute le
grandi appartenenze e le persone che hanno ricercato per secoli la libertà
hanno ottenuto infinita possibilità di scelta e, dall’altra parte,
disorientamento nel mondo delle opportunità. L’uomo ha sempre avuto
la necessità vitale di orientarsi, di riconoscersi e credere in qualcosa, di
condividere con qualcun altro medesime convinzioni e medesime
esperienze: senza tutto questo non può esserci comprensione, non può
esserci senso riguardo all’esistenza. Il mito funziona come costitutivo di
un orizzonte di senso condiviso che permette agli individui di
sopravvivere, comunicare, accettare gli eventi della vita e adattarsi ad
essi.
I divi sono i miti della società industriale: hanno mediato fra la gente
comune e la modernità, sono stati veicoli di diffusione di nuovi modelli di
consumo. Proprio il consumo è stato l’ancoraggio dell’uomo postmoderno
dal disorientamento, dalla perdita di senso delle tradizioni e dei miti
considerati in passato entità necessarie ed eterne. Consumare è diventato
un fondamentale, seppur labile, mezzo di costruzione di nuove

67
convenzioni, di nuovi gruppi, di nuove modalità di integrazione sociale. I
divi stessi sono beni di consumo: già in passato, nell’era del divismo
“classico”, le star erano utilizzate in quanto merci, di esse venivano
venduti i prodotti che pubblicizzavano, ma anche la loro stessa vita, la
loro intimità, i loro modi di fare o di parlare, le loro pose. Morin dice che
ogni centimetro della star è merce e questa caratteristica è andata sempre
più ampliandosi. Nel “nuovo” divismo post-televisivo ogni tipo umano è
rappresentato, ognuno può ritrovare un po’ di se stesso tra i numerosi
personaggi proposti. Ogni individuo può attingere tra essi per ridefinirsi e
trasformarsi e trovare più punti di riferimento, anche se fallaci, che
rispondano al desiderio di utilizzare completamente la libertà di scegliere
chi essere. Tali bisogni sono temporanei e i divi della televisione (ma non
solo), connotati da estrema caducità, rispondono perfettamente a tale
esigenza. Di essi si vende in sostanza la loro funzionalità momentanea:
vengono sfruttati dallo star system, ma anche dagli spettatori, fino a
quando il loro motivo di esistere in quanto divi non viene esaurito.
Gli individui non rimangono mai uguali a loro stessi, evolvono ogni
giorno e lo fanno per necessità oltre che per scelta, per sopravvivere in
una realtà che ha come caratteristiche fondamentali l’incertezza, la
debolezza dei legami, la frammentarietà delle identità. In questo contesto
si può comprendere il motivo per cui i riferimenti, i modelli di imitazione
o ispirazione sono molteplici, così come lo sono le identità di un unico
individuo. Se un tempo essa era definita in base alla professione svolta,
allo status sociale, ora questo tipo di identificazione è insufficiente per
definire chi si è: il rischio, come si è visto, è che la complessità delle
persone finisca per renderle inconoscibili e quindi invisibili. In questo
senso si può spiegare il desiderio della gente di apparire, la
sovraesposizione mediatica, la proliferazione di reality show, di tv-verità,
di storie di vita quotidiana che affollano i palinsesti televisivi.

68
Nuovi divi dunque, persone comuni, soubrette televisive che durano
una o due stagioni, etc. Fra essi ho voluto inserire, quasi per
provocazione, anche una categoria di professionisti che ha fatto della
visibilità l’elemento irrinunciabile per ottenere consensi: dire che i politici
sono divi può sembrare eccessivo, ma è senz’altro corretto affermare che
negli anni la comunicazione politica si è evoluta sempre più in senso
personalistico, che ciò che si vede in televisione sono dei visi, non
ideologie, non partiti, bensì individui che divengono facce familiari per la
gente comune. Così trova forse spiegazione la crescita di attenzione per la
loro vita privata, l’abbondanza di articoli che descrivono i loro gusti
personali, la loro intimità, aspetti che esulano dalla loro attività
professionale e che appartengono al loro agire sociale. Alberoni ha
distinto fra élite del potere ed élite senza potere, differenziando così il
tipo di interesse e attenzione della gente: riguardo ai primi, essi vengono
osservati e giudicati rispetto al loro “agire di ruolo”, ossia solo in
riferimento alla loro professione; riguardo ai secondi, il giudizio si rivolge
al loro “agire in comunità”, alla loro vita personale. E’ evidente oggi che
questa distinzione ha perso parte della sua efficacia: delle personalità
politiche si sa sempre più riguardo alla loro vita privata, dei divi, che
Alberoni connotava “senza potere”, si conoscono gli orientamenti politici,
e alcuni di essi assumono posizioni istituzionali di potere. Quando
l’autore elenca delle barriere atte a scongiurare un’assunzione di potere
da parte di un divo, non poteva prevedere come sarebbe stato il contesto
odierno: di molte star oggi si conosce la fede politica e raramente si è
verificata una disaffezione della parte del pubblico di orientamento
opposto. Inoltre, alcuni divi hanno assunto ruoli di potere e hanno
dimostrato di saper svolgere il loro compito ottenendo il consenso della
gente: per citare i casi più famosi, pensiamo a Ronald Reagan, attore che
ha ottenuto la presidenza degli Stati Uniti, o ad Arnold Shwarzenegger,
che è diventato governatore della California. E se pensiamo all’Italia,

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sono diverse le personalità politiche che hanno un passato televisivo: chi
come giornalista (per esempio Piero Marrazzo, che è stato recentemente
eletto presidente della Regione Lazio, o Lilly Gruber, che è deputato al
Parlamento Europeo) chi come showgirl (pensiamo a quanto fece parlare
l’entrata in parlamento di Gabriella Carlucci), etc. In questi e molti altri
casi, le convinzioni di Alberoni in proposito alla netta separazione fra élite
del potere ed élite senza potere vengono disattese.
Anche se con un’intensità minore, i divi di oggi continuano ad
esercitare fascino nella gente che li segue. Molti sono ancora persuasi che
la vita delle star sia totalmente diversa da quella della gente comune e in
molti casi è così. Tempo fa, interessandosi alla vita dei divi, alla loro
esistenza dissoluta e avventurosa, si esperivano situazioni che mai una
persona normale avrebbe potuto vivere. In tal modo, come si è detto, si
viveva il peccato senza il rischio della sanzione. In un certo senso questa
caratteristica del divismo si mantiene inalterata nel tempo, infatti anche
oggi ci interessiamo al loro modo di vivere, alle loro splendide case, ai
loro eccessi. Tuttavia il coinvolgimento emotivo e affettivo è decisamente
minore che in passato: siamo molto lontani da quando alcune ragazze si
suicidarono alla morte di Rodolfo Valentino. E’ raro che si instauri tra
divo e fan una relazione ad alto coinvolgimento. In riferimento alla
tabella di Tudor (p. 15), è improbabile che si verifichino episodi di
identificazione o proiezione: in un mondo in cui le relazioni sono sempre
più instabili e temporanee, prevalgono categorie psicologiche come
l’imitazione o la semplice affinità emotiva. In sostanza, è senz’altro
frequente che le persone imitino stile, modo di vestire o modi di dire di
un divo, o che, semplicemente, un certo personaggio “ci piaccia” e che ci
diverta seguire le sue vicende. E’ però quasi impossibile che possano
avere luogo fenomeni quali l’identificazione e la proiezione in riferimento
ad un personaggio reale: essi richiedono un tipo di coinvolgimento che
l’uomo contemporaneo non è più disposto a concedere e che le velocità

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dei cambiamenti delle dinamiche sociali, dei gusti, delle mode prevalenti,
non permetterebbero.
Abbiamo così perduto personalità inimitabili, che appartengono al
passato, ma su cui lo star system hollywoodiano fece un lavoro perfetto,
tanto che ancora oggi alcuni volti o alcuni nomi sanno suscitare una
sensazione di irripetibilità. Il tempo, addirittura la loro morte, ha
aumentato questa sensazione e li ha fatti entrare nel nostro Olimpo
personale, li ha resi dei personaggi storici che ai nostri occhi hanno
contribuito a cambiare la società e i suoi modelli.
La memoria è una costante nel nostro mondo: il ricordare è diventato
una pratica fondamentale per recuperare qualcosa che si stava perdendo
e che dia riferimenti certi nell’incertezza presente. Ho ripetuto diverse
volte il concetto dell’identità-mosaico: come i miti, noi viviamo di
sedimentazione continua, di contributi diversi, non siamo entità
definitive, ma la dimostrazione più evidente della trasformazione
continua della natura. Noi siamo identità aperte, recuperiamo il passato,
lo utilizziamo per orientarci e parallelamente non vogliamo dipendere da
esso: siamo il risultato dell’irrisolvibile tensione tra il desiderio di
appartenenza e la volontà di allontanarsi dalle convenzioni, per
mantenere, almeno all’apparenza, la sensazione di avere la libertà di
auto-definirsi.

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