You are on page 1of 4

EUGENIO BARBA

DOMANDE DALLA MIA SECONDA VITA

Discorso in occasione del conferimento del Dottorato h.c. dall’Università del Peloponneso, Grecia,
il 3 luglio 2019.

Tutti abbiamo due vite e la seconda comincia quando un giorno scopriamo di essere vecchi e
di essere trattati come tali. La nostra integrità fisica e la nostra identità sociale mutano radicalmente.
La consapevolezza del momento presente, il sorriso di uno sconosciuto, il luminoso azzurro del cielo,
l’incredulità dopo una notte senza dolori alle ossa rinnovano l’incantesimo della vita. Sono al centro
del mio qui e ora.
Intorno a me è scomparso il mondo della mia gioventù. Mi guardo in giro e mi viene spontanea
una domanda: l’andatura della vita, l’accelerazione del tempo e l’irruzione della tecnologia sono
compatibili con il mio modo di immaginare, amare e realizzare il mio lavoro di regista, di specialista
di tecnologia arcaica - l’essere umano?
Sento orgoglio e contentezza in questa ora di festa qui a Nafplio, in questa Università del
Peloponneso così giovane e allo stesso tempo depositaria della saggezza di una cultura millenaria che
mi ha profondamente marcato. Sento, però, anche qualcosa che rassomiglia all’ingiustizia. I meriti
che mi vengono attribuiti e per i quali oggi ricevo il titolo onorifico di Dottore non possono essere il
risultato di un solo individuo. Ho agito nel teatro, ovvero una disciplina artistica, un saper fare
incorporato e un mestiere che può avvenire solo attraverso una stretta interazione tra individui diversi
e con diverse competenze.
Tutto quello che so, che ho realizzato sulla scena, e che in seguito ho trasposto in parole sulla
carta, lo devo ai miei attori, ai molti collaboratori le cui idee e capacità di realizzarle sfociavano in
iniziative artistiche, e tante altre persone che spesso non avevano niente a che vedere con il teatro. In
questo momento intorno a me vi è un intero popolo segreto di vivi e di morti, maestri che mai mi
conobbero, spettatori che hanno solo immaginato i miei spettacoli, amici che non ho mai incontrato.
Aspettano con curiosità di ascoltare le parole che sceglierò per ringraziarvi, aggirandomi ancora una
volta intorno alle poche idee, o stelle polari, che hanno sempre guidato i miei passi.
L’Odin Teatret è un gruppo di teatro, ma anche un laboratorio teatrale radicato
geograficamente a Holstebro, una cittadina provinciale danese. Costituiamo un ambiente di individui
di numerose nazioni e lingue che nell’artigianato teatrale hanno trovato le radici di una patria
professionale.
Molti parlano dell’Odin Teatret come di una leggenda. In che modo un teatro diventa una
leggenda? Facendo ciò che, per un teatro, è impossibile fare nella nostra società.
I nostri 55 anni di attività con lo stesso nucleo di attori sono la prova che il teatro non si
identifica solo con lo spettacolo. Il teatro può essere l’intesa tacita di individualisti che per motivi
profondamente personali e con una disciplina artigianale condivisa esprimono la loro diversità in una
forma di vita e di lavoro. La nostra identità come teatro è proteiforme: esperienze didattiche, imprese
artistiche e iniziative di collaborazione che catalizzano e coinvolgono le numerose subculture della
comunità in cui viviamo. Siamo riusciti ad infrangere le due leggi del DNA del teatro: l’obbligo
economico di produrre spettacoli, e l’impossibilità di conservare per anni e anni lo stesso gruppo di
attori. Creiamo cerimonie festive con i nostri spettatori “barattando” con loro espressioni culturali.

1
Da quarant’anni ci dedichiamo a quello che ho chiamato antropologia teatrale, alla ricerca dei principi
della pre-espressività dell’attore e della sua presenza scenica.
Il nostro consigliere letterario Nando Taviani afferma che l’Odin Teatret è essenzialmente
politico. La dichiarazione che “il teatro sia politica con altri mezzi” non si riferisce solo ai contenuti
dello spettacolo, alle storie e alle vicende che possono più o meno incidere sull’esperienza storica e
sulla consapevolezza civile degli spettatori. Ingloba anche i modi come un teatro immagina e sviluppa
la sua struttura di relazioni interne e di interazioni con l’esterno. Come si rinnova, come decide di
agire, come realizza l’effetto di porsi al di fuori e andare contro corrente attraverso mezzi tecnici e
artistici e le molteplici forme di relazioni che può creare. L’obiettivo è non lasciarsi ingoiare dallo
spirito del tempo, dalle tendenze del mercato e mantenere un’identità di “straniero” attraverso la
sorpresa e il valore di iniziative culturali nel cuore stesso della comunità frammentata in cui vive.
Oggi mi sento di affermare: il teatro è energia. Persisto con i miei attori a far fiorire spettacoli
che non si lasciano comprendere nella loro interezza dagli spettatori perché non si indirizzano
all’intelletto ma all’essere-in-vita. Energia è una parola scivolosa, un termine dai molti volti. Eppure
basta prendere in braccio un neonato, stare accanto a una persona gravemente malata, posare le labbra
su quelle di una donna o di un uomo, osservare un albero, una nuvola, un ragno affinché l’intero
nostro essere percepisca un messaggio e reagisca. È un messaggio di energie che non si lascia
verbalizzare, eppure lo sentiamo diretto specificamente a noi. Questo messaggio è un testo che
decifriamo con il nostro intero organismo e le sue differenti memorie.
Questo processo cinestetico-gestuale e subliminale corrisponde a ritmi e a nature diverse di
energia. Lo possiamo immaginare come il testo di una lingua che non ci è dato di intendere ma in cui
noi tutti - attori e spettatori - possiamo identificarci organicamente, dinamicamente e ritmicamente.
Esattamente come il poeta che si identifica con tutto se stesso in ogni parola che scrive, o il pittore la
cui pennellata sulla tela coincide con l’energia delle sue necessità e della sua stirpe. “In ogni mia
pennellata vi è il mio sangue mischiato a quello di mio padre” ha scritto Cezanne in una lettera.
Quando parlo di energia, di luminosità, di messaggi che decifriamo con il nostro sangue e le
nostre cicatrici interiori, cosa voglio negare, contro chi o che mi oppongo? Sono solo un messaggero
anche se non so al servizio di chi e non comprendo il senso del messaggio?

Una domanda che sorge dalla storia del teatro


Il teatro come noi oggi lo intendiamo è nato in Europa nel XVI secolo come attività
commerciale con il solo fine del guadagno. Aveva la sua reale necessità solo per chi lo faceva, e che
dagli spettatori cercava profitto e consenso. Era qualcosa di mercenario. Su questo teatro venale
allungò i suoi tentacoli la letteratura. Gli attori mercenari la resero accessibile aggiungendovi
l’attrazione dell’erotismo, della seduzione, del terrore e dello scherno.
Separatamente, si sviluppava il teatro degli amateurs. Poiché non dipendeva dall’ampiezza
del consenso e della remunerazione degli spettatori, poteva essere più ardito. Compì,
involontariamente, una rivoluzione copernicana: il teatro è necessario per chi lo fa, non solo per
ragioni economiche, ma anche come necessità culturale e spirituale. Un’isola di libertà, per
riassumerla in una formula semplice.
Questa rivoluzione copernicana venne assorbita nel ventesimo secolo dal teatro professionale
nel suo commercio degli spettacoli. Quest’altra faccia della necessità del teatro era il segno di una
sua nobilitazione. Gli attori venivano elevati al livello di artisti e intellettuali. Era ovvio, però, che
applicata alle regole della professione, la rivoluzione copernicana nata nelle regioni dell’amatorismo
era destinata al fallimento quando tentava di sopravvivere nella sfera economica del commercio degli

2
spettacoli. Dette vita a imprese luminose che prima o poi si scontrarono con le leggi del mercato, e
caddero in breve giro di anni. Trovò respiro e risorse quando iniziò l’era delle sovvenzioni e del
mecenatismo diffuso, spesso di stato, regolamentato da apposite leggi. Quanto avrebbe vissuto, senza
sovvenzioni, Stanislavski e il suo Teatro d’Arte di Mosca?
L’era delle sovvenzioni permise il fulgore del teatro del XX secolo, l’età d’oro della nostra
professione. Oggi non è bizzarro vedere un attore premiato con il Nobel per la Letteratura, o decorato
da lauree e dottorati honoris causa. Sono il segno tangibile d’una discriminazione finalmente superata.
Dal punto di vista della storia della cultura è la caduta d’un preconcetto secolare. Dal punto di vista
della storia dei teatri è la fine di un’era.
Questa fine coincide con il momento in cui il teatro, nel suo complesso, diventa un arcaico
genere minoritario nell’universo delle forme spettacolari del nostro tempo.
Questo dato di fatto suscita una domanda: che ne sarà del teatro con la fine probabile delle
sovvenzioni? Che ne sarà di questa potenziale isola di libertà, del suo rigore e impegno, della sua
rivolta e rifiuto? Che ne sarà dei “giovani” che, dotati di sofisticate tecnologie, cercano il loro
cammino e allontanandosi dalle illusioni e dagli ideali dei loro predecessori si inoltrano nelle regioni
della siccità?
I vecchi hanno un vantaggio sui giovani: hanno vissuto più a lungo. Sanno che l’opera può
essere effettuata solo operando. Fridtjov Nansen, riflettendo sulla sua vita, diceva: l’impossibile è
solo il possibile che prende più tempo.

Domande dalla mia biografia professionale


Scomparirà tutto quello che ho fatto con la mia morte? Non ho che il mio corpo e le sue
costellazioni interiori. Lì risiede quello che so di sapere e quello di cui non sono consapevole di
sapere. La mia sapienza di regista, come quella dei miei attori, ha difficoltà a trovare parole adeguate.
Le sue radici affondano nel fare. Per salvaguardare l’efficacia di questa sapienza quasi muta mi servo
di luoghi comuni e neologismi. Ma quando questo linguaggio vuole spiegare troppo dà l’impressione
di pochezza, retorica o incomprensibilità. In che urna - metodo o teoria - tramandare l’essenziale della
mia sapienza-in-vita?
Perché tanta caparbietà e tanti sforzi? Che cosa ho voluto dal mio lavoro? L’esperienza mi ha
reso consapevole del divario di percezione e comprensione tra chi ha creato l’opera e chi l’osserva.
So che l’immaginazione è la più scientifica tra le facoltà umane poiché è la sola a intuire le analogie
universali che i mistici chiamano corrispondenze. Soprattutto credo profondamente che l’essenza
della vera azione sia il sats, impulso. È l’energia dell’attore che risveglia quella dello spettatore.
La mia difficoltà più grande? Ispirare all’attore azioni che si elevino alla dignità dell’enigma.
Cerco di stabilire coincidenze tra l’esecuzione precisa dei dettagli fisici e sonori, e la pluralità del loro
senso nella cornice di tempo e spazio in cui li mescolo: ossimoro nelle azioni e ambiguità nelle scene.
Come primo spettatore, constato su me stesso l’effetto di evidenza e mistero che le azioni e gli oggetti
assumeranno allo sguardo dello spettatore.
Il mio mestiere è solo saper fare, finzione, forma? Parole, intonazioni, silenzi, gesti,
movimenti, immobilità sono un intreccio di forme percettibili. Ma il disegno di tutte queste migliaia
di tensioni - le azioni della partitura dell’attore - non sono la forma. È la maniera di far percepire
sensorialmente allo spettatore l’aldilà della forma.
Mi sono affaticato per un teatro impegnato? Le azioni dell’attore devono dire, non significare.
Devono bastare a se stesse. Ogni azione vocale o fisica ha una sua potenza, un’individualità ed
esistenza propria. L’energia dell’azione deve dire abbastanza di per sé per resistere all’aggressione

3
delle idee e dei significati. Dovrebbe lasciare una traccia in quella parte che vive in esilio in ogni
spettatore.
In un suo taccuino, il pittore Edgar Degas ha buttato giù queste linee: “Piron afferma che un
gatto è un gatto. Io dico il contrario. Spesso una sola parola dice troppo. Che una garza sottile, senza
nascondere le fattezze, veli il ritratto.” In questa formula è incastonato il mio sapere di regista. Nego
quello che afferma il testo. Evito la tautologia mediante un agire elusivo. Ma pure eludendo debbo
dire qualcosa del gatto in questione. Una sola parola può essere di troppo, e l’elusione rischia di
diventare omissione. Debbo architettare una garza sottile, un artificio straniante che senza nascondere
i tratti del gatto, veli il modo in cui lo sto evocando. Azioni e scene velate per rendere perspicace lo
spettatore.
Può il teatro essere il cammino per un’altra forma di vita? Ogni forma di vita si manifesta in
una struttura. In teatro, questa struttura è doppia: le particolari relazioni che caratterizzano l’ambiente
di lavoro e il modo di comporre la drammaturgia di uno spettacolo. Dico drammaturgia, e penso a
ossa sparse in attesa di un becchino compassionevole, di un giudizio universale o di un demiurgo -
l’attore - che le riporti alla vita.
Cos’è la vita nel teatro? Le migliaia di tensioni viventi degli attori rivelano la vita della
struttura drammaturgica ai sensi e alla memoria degli spettatori. Come regista sono-in-vita
accompagnando l’attore nella crescita di questo organismo che pulsa, lo spettacolo. È l’orchestrazione
di un flusso che tecnicamente scinde la totalità per far risaltare l’indipendenza delle scene. Ogni scena,
a sua volta, si scompone per evidenziare l’indipendenza dell’intreccio delle azioni degli attori. Alla
fine, anche questo intreccio scompare per dar risalto all’indipendenza delle azioni di ogni singolo
attore, la sua energia che dice.
È il momento più intenso della simbiosi del regista con l’attore. Insieme operiamo sulla
struttura vivente una successione di slittamenti: dalla luce all’oscurità, dall’ovvietà all’ambivalenza,
dalla folla al deserto, dalla finzione alla reminiscenza, dall’umano all’insetto, dalla morte alla
volgarità. Mescoliamo perizia tecnica e immagini che turbano. Tessiamo un ordito di trivialità,
lirismo e fantasia con una profusione di dettagli - confusi, pigri, ubbriachi, frenetici - ma sempre reali.
Cos’è il teatro? È la scienza suprema del mistero della vita, accessibile anche ai diseredati
della terra.

You might also like