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PREMESSA
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I - Horresco referens
L'eresia iconografica
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Senza risalire agli antichi Concili e a quello di Trento e all'Istruzione di Urbano VIII,
basta menzionare i canoni C. I. C.
485-1161-1162-1164-1178-1261-1268-1269-1279-1280-1281-1385-1399.
Merita di essere ricordato qui in modo particolare il tenore di alcuni di questi canoni.
Nel can. 1261 viene richiamata l'attenzione degli Eccmi Ordinari sul grave obbligo di
vigilare, perché non venga introdotta nel culto divino qualsiasi cosa che contrasti con
la vera fede o si discosti dalla tradizione ecclesiastica. Nel can. 1399 sono dichiarate
proibite per legge le immagini, in qualsiasi modo stampate, contrarie al modo di
sentire ed alle prescrizioni della Chiesa. Non si permetta mai che siano esposte nelle
chiese o negli edifici sacri immagini, che siano espressioni di una dottrina falsa o che
offendano il pudore o il decoro, o che possano indurre gli incolti in errori pericolosi.
Inoltre, secondo il disposto dei canoni 485 e 1178, gli Ordinari faranno rimuovere
dagli edifici sacri tutto quello che contrasta con la santità del luogo e con la riverenza
dovuta alla casa di Dio; ne consegue quindi che non può tollerarsi il costume di
esporre alla venerazione dei fedeli, sugli stessi altari o sulle pareti contigue una
incomposta molteplicità di statue o di immagini di scarso valore artistico, per lo più
stereotipate.
Conviene inoltre rispettare le alte e severe parole degli ultimi Sommi Pontefici: S. Pio
X, Pio XI e Pio XII gloriosamente regnante.
Moniti di S. Pio X: “Nulla deve occorrere nel tempio che turbi od anche solo
diminuisca la pietà e la devozione dei fedeli, nulla che sia ragionevole motivo di
disgusto o di scandalo, nulla soprattutto che... sia indegno della casa di orazione e
della maestà di Dio” (Motu proprio Tra le sollecitudini, 2 nov. 1903; Acta Pii X, vol. I,
p. 75).
Moniti di Pio XI: “Il Nostro ardente voto, la Nostra volontà può essere soltanto che
sia ubbidita la legge canonica, chiaramente formulata e sancita anche nel Codice di
diritto canonico, e cioè: che tale arte non sia ammessa nelle nostre chiese e molto
più che non sia chiamata a costruirle, a trasformarle, a decorarle; pur spalancando
tutte le porte e dando il più schietto benvenuto ad ogni buono e progressivo sviluppo
delle buone e venerande tradizioni, che in tanti secoli di vita cristiana, in tante
diversità di ambienti e di condizioni sociali, ed etniche, hanno dato tanta prova di
inesauribile capacità di ispirare nuove e belle forme, quante volte vennero interrogate
o studiate e coltivate al duplice lume del genio e della fede” (Discorso del 27 ottobre
1932, A. A. S., XXIV p. 356).
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Moniti del S. P. Pio XII: “È assolutamente necessario dar libero campo anche all'arte
moderna, se serve con la dovuta riverenza e il dovuto onore ai sacri edifici ed ai riti
sacri: in modo che anch'essa possa unire la sua voce al mirabile cantico di gloria
che i geni hanno cantato nei secoli passati alla fede cattolica.
Non possiamo fare a meno, però, per Nostro dovere coscienza, di deplorare e
riprovare quelle immagini e forme da alcuni introdotte, che sembrano essere depra-
vazione e deformazione della vera arte, e che talvolta ripugnano apertamente al
decoro, alla modestia e alla pietà ,cristiana e offendono miserevolmente il genuino
sentimento religioso; esse si devono assolutamente tener lontane e metter fuori dalle
nostre chiese come, in generale, tutto ciò che non è in armonia con la santità del
luogo” (Can 1178) (A. A. S., XXXIX (1947) p. 590 s.).
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tempo non erano in uso le immagini sacre, spiegando però il valore spirituale del se-
gno della croce (2).
Il Concilio Eliberitano nel 300 (306?) proibì le sacre immagini realistiche (3). Tale
divieto potè essere interpretato come un principio disciplinare più che dogmatico,
ritenendo fosse proibito di esporre le sacre immagini nelle chiese aperte al pubblico,
nelle quali avrebbero potuto essere profanate e distrutte dai persecutori. Forse si era
inteso anche di evitare le pratiche superstiziose che potevano essere collegate alle
immagini in un tempo in cui vigeva ancor l'idolatria pagana.
Epifanio, Vescovo di Costantina nell'isola di Cipro (n. circa il 315), avendo trovato in
una chiesa un velo con una sacra immagine, lo strappò e lo distrusse (4).
Eusebio Panfilo (n. verso il 340 m. verso il 420) pur dicendo di aver visto le immagini
di S. Pietro e di S. Paolo, scrisse alla principessa Costanza, sorella dell'imperatore
Costantino, mostrandosi avverso alle sacre immagini, perché l'arte non può
rappresentare l'immagine di Dio né prestare a lui l'immagine di un uomo (5). Anche
S. Giovanni Damasceno, il grande protagonista nella difesa delle immagini contro gli
iconoclasti, si arresta davanti al tentativo di rappresentare Dio invisibile (6).
Conviene però tener presente che le voci isolate di questi antichi padri, lontani uno
dall'altro, non poterono avere una grande risonanza presso il popolo, che era na-
turalmente portato a onorare e venerare le sacre immagini, come è attestato
dall'antica iconografia.
I monofisiti erano contrari alla rappresentazione di Cristo, perché la natura umana
sarebbe apparsa distinta dalla natura divina, mentre la loro eresia predicava un'unica
natura in Cristo.
Altre notizie sulla controversia teologico-artistica si trovano nella Lettera Ap. che
Benedetto XIV scrisse al Vescovo di Augsburg il 1° ottobre 1745.
Nei primi tempi della Chiesa non mancò neppure la caricatura contro la nuova fede,
come è noto per il Cristo blasfemo del Palatino (secolo III) e per altre caricature nel
prossimo Oriente. Ho visto nel museo di Alessandria antichi monumenti cristiani, tra
cui è rappresentata due volte la Leda; essa non può spiegarsi altrimenti che come
uno scherno anticristiano. Le caricature anticristiane riflettono il pensiero di Celso, il
Voltaire del secolo II.
Perciò nei primi secoli prevalse la rappresentazione simbolica di Cristo (croce
monogrammatica, croce gemmata e fiorita, la croce semplice, il pesce, l'ancora, la
colomba, il Buon Pastore, il Maestro che insegna, ecc.). Tuttavia nelle catacombe di
Roma la figura di Cristo e della Vergine, specialmente negli episodi storici,
assumono forme realistiche in mezzo alla vasta iconografia simbolica e ornamentale.
Il Crocefisso entra nell'arte al V secolo (porte di S. Sabina); ma il Crocefisso è inteso
come trionfatore: regnavit a ligno Deus. Ancora nel VI secolo nelle colonne bizantine
di S. Marco a Venezia, nella scena della crocefissione, è posto l'Agnello in luogo del
Crocefisso.
Finalmente il Concilio Quinisesto o Trullano II nel 692 ordinò di rappresentare
realisticamente G. Cristo invece dell'Agnello seguendo il costume ormai largamente
prevalso (7).
Non si deve dimenticare che i Vangeli e gli scritti dei primi Padri rappresentavano una
forma di catechesi, e che la catechesi si aiuta molto con le sacre rappresentazioni;
queste diventano una catechesi figurativa. S. Cirillo Alessandrino, morto nel 444,
scrisse: “Facciamo bensì le immagini degli uomini pii, ma non le adoriamo come Dei;
le facciamo perché, mediante la loro visione, siamo spinti alla loro imitazione; così
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facciamo anche l'immagine di Cristo, affinché la nostra mente sia eccitata al suo
amore” (8).
S. Teodoro Studita (759-826) dice che la sacra immagine produce una impressione
edificante se l'immagine è edificante, dannosa se essa è brutta (Migne. P. G. T.
XCIX, col. 1219).
La causa dell'iconografia cristiana è vinta. Ma qui sorse una inquietante domanda :
— G. Cristo doveva essere rappresentato in bellezza o con un aspetto umiliato e
deforme?
Una scuola di teologi e artisti pensava che Cristo fosse il più bello degli uomini,
un'altra pensava invece che Cristo, essendo il divino lebbroso che portava i peccati
di tutto il mondo, fosse brutto e ripugnante.
S. Giustino, S. Clemente d'Alessandria (9), Tertulliano (10), S. Basilio, S. Cirillo
d'Alessandria, sostenevano la tesi della bruttezza (V. Dict. d'arch. et Lit. chrét.
Images).
Però Tertulliano, morto dopo il 222, fa una capitale distinzione. Egli ammette che in
Cristo non erat species neque gloria e che non avrebbe potuto patire la passione e
la morte si quid illa carne de coelesti generositate radiasset; ma lo considera
vincitore della morte e glorioso: tunc scilicet speciem honorabilem et decorem
habiturus est indeficientem supra filios hominum.
Eusebio Gerolamo (circa 340-420), S. Gregorio di Nissa, S. Crisostomo, Teodoreto,
S. Giovanni Damasceno, i Padri più recenti e il buon senso popolare difesero la tesi
della bellezza di Cristo, a cui si applica il passo del Salmo: Speciosus forma prae
hominum (Ps. 44, 3). E questa tesi prevalse nella sacra iconografia (11).
Iconografia di G. Cristo
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e lungo, gli occhi grandi, incavati. La capigliatura è figurata in guisa di chioma che
cade dalla nuca ed in confronto alla quale è meschina la barba che lascia scoperto
affatto parte del mento. Questa rappresentazione del tempo della decadenza cerca
d'impressionare i visitatori con la scarsezza della barba, come al contrario il pittore
dell'immagine di S. Gaudioso a Napoli mira allo stesso fine con la lunghezza della
medesima che fa finire con due piccole punte. Ma questi artisti sono ancora
discretamente lontani dal punto più basso. Come rappresentanti della più triste
decadenza sono indicati i dipinti a mosaico nell'arco del trionfo a S. Paolo fuori le
Mura e nell'abside di S. Marco a Roma” (N. Müller: Christusbilder. Nella
Realezyklopädie für prot. Theol. und Kirche, IV, 73).
Va però tenuto presente che in queste rappresentazioni dell'arte decaduta non si è
mai cercato il deforme per il deforme. L'artista parlava il linguaggio del proprio tempo
e perciò parlava barbarico.
Nei secoli VIII e IX insorse l'eresia iconoclasta, che minacciò di morte l'arte sacra.
Non è qui il caso di riassumere la tempestosa storia. Basti solo qualche accenno. Gli
imperatori bizantini Leone Isaurico, Costantino Copronimo e Leone IV furono i
potenti e accaniti sostenitori dell'eresia contro le sacre immagini. L'eresia infuriò nello
spezzare le immagini di Cristo, della Vergine e dei Santi e perseguitò con supplizi e
la morte stessa i sostenitori della causa cattolica.
Dopo lunghi dibattiti, fu adunato nel 787 il II Concilio di Nicea e l'eresia fu
solennemente condannata. Qualche anno prima, cioè nel 769, il Concilio del
Laterano aveva già difeso il culto delle sacre immagini.
Le chiare e precise norme del II Concilio Niceno, in cui si riassumeva la dottrina dei
Padri, specialmente di S. Gregorio Magno e di S. Giovanni Damasceno, furono
confermate nel Concilio di Costantinopoli del 843; e diedero un meraviglioso sviluppo
all'iconografia cristiana e costituiscono l'ampia e precisa legislazione della Chiesa
circa tale iconografia. Dopo tanti secoli questa legislazione è limpida e impegnativa
oggidì come per il passato. La tesi iconoclasta aveva incontrato qualche favore
anche in Occidente, sotto Carlo Magno. Ma la Chiesa sgominò anche questi
avversari.
Nell'articolo del fascicolo II (febbraio 1954, p. 51) di “Fede e Arte” ho riportato la
parte essenziale delle decisioni del II Concilio di Nicea. Qui mi piace di trascrivere la
conclusione, che è di una rovente attualità e suona come un grave monito per tutti gli
artisti, specialmente per i nuovi eretici, consapevoli o inconsapevoli, che mettono
sotto i piedi le sante leggi della Chiesa.
“Ordiniamo di scomunicare coloro che osano pensare o insegnare diversamente
oppure, a guisa degli empi eretici, osano disprezzare le tradizioni ecclesiastiche e
immaginare altre novità o rigettare alcunché destinato alla Chiesa, sia il Vangelo, sia
la figura della croce, sia l'immagine dipinta, sia le sante reliquie dei martiri; e sco-
munichiamo coloro che con perversa e scaltra mente osano escogitare qualsiasi
cosa atta a sovvertire le legittime tradizioni della Chiesa cattolica...” (12).
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Non è mia intenzione di ripetere quanto ho detto nei numeri di “Fede e Arte”
(fascicolo d'ottobre 1953, fascicolo di febbraio 1954) sull'ufficio e sul carattere del-
l'arte cristiana. Dirò solo che l'arte sacra non deve reggere il cencioso strascico
dell'arte profana. L'arte sacra non brancola nel buio o nell'affannoso dibattito delle
ricerche : essa serve un'idea chiara, viva, vitale, splendente, e può innalzare, come
ai tempi del Rinascimento, il suo vessillo d'avanguardia.
Il S. P. Pio XII ha definito l'arte sacra ancella nobilissima della liturgia (Mediator Dei):
e in mirabili discorsi ha chiarito l'ufficio e il carattere dell'arte cristiana. Perciò mi
piace di riportare qui le luminose parole del S. Padre. Nessuno può mettere in dubbio
che Egli è, per quanto riguarda l'ufficio e il carattere dell'arte sacra, il più autorevole e
augusto Maestro.
L'8 aprile 1952, ricevendo gli artisti della Quadriennale Romana, rivolse loro queste
alte parole: “Quanto ci sia gradita la vostra presenza, vi insegna la tradizione stessa
del Pontificato Romano, che, erede di universale coltura, non ha mai cessato di
pregiare l'arte, di circondarsi delle sue opere, di farla collaboratrice, nei debiti limiti,
della sua divina missione, conservandone ed elevandone il destino, che è di
condurre lo spirito a Dio.
E voi, da parte vostra, già al varcare la soglia di questa casa del Padre comune, vi
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siete sentiti nel vostro mondo, riconoscendo voi stessi e i vostri ideali nei capolavori
qui adunati attraverso i secoli. Nulla dunque manca a rendere scambievolmente
gradito questo incontro fra il Successore, sebbene indegno, di quei Pontefici, che
rifulsero come munifici mecenati delle arti, e voi, continuatori della tradizione artistica
italiana.
Non occorre che spieghiamo a voi — che lo sentite in voi stessi, spesso come nobile
tormento — uno dei caratteri essenziali dell'arte, il quale consiste in una certa
intrinseca “affinità” dell'arte con la religione, che fa gli artisti in qualche modo
interpreti delle infinite perfezioni di Dio, e particolarmente della sua bellezza ed ar-
monia. La funzione di ogni arte sta infatti nell'infrangere il recinto angusto e
angoscioso del finito, in cui l'uomo è immerso finché vive quaggiù, e nell'aprire come
una finestra al suo spirito anelante verso l'infinito.
Da ciò consegue che ogni sforzo — vano, in verità — inteso a negare e sopprimere
qualsiasi rapporto fra religione ed arte, risulterebbe menomazione dell'arte stessa,
poiché qualsiasi bellezza artistica che si voglia cogliere nel mondo, nella natura,
nell'uomo, per esprimerla in suoni, in colori, in giuoco di masse, non può prescindere
da Dio, dal momento che quanto esiste è legato a lui con rapporti essenziali. Non si
dà, dunque, come nella vita, così nell'arte — sia essa intesa quale espressione del
soggetto o quale interpretazione dell'oggetto — l'esclusivamente “umano”,
l'esclusivamente “naturale” od “immanente”. Con quanto maggior chiarezza l'arte ri-
specchia l'infinito, il divino, con tanta maggior probabilità di felice successo essa
s'innalza all'ideale e alla verità artistica.
Perciò quanto più l'artista vive la religione, tanto è meglio preparato a parlare il
linguaggio dell'arte ed intenderne le armonie e a comunicarne i fremiti.
Naturalmente siamo ben lontani dal pensare che per essere interpreti di Dio nel
senso ora esposto, si debbano trattare esplicitamente soggetti religiosi; d'altra parte,
non si può contestare il fatto che forse mai come in essi l'arte ha raggiunto i suoi più
alti fastigi.
In tal guisa i sommi Maestri dell'arte sacra divennero interpreti oltre che della
bellezza, anche della bontà di Dio Rivelatore e Redentore. Meraviglioso ricambio di
servigi tra il Cristianesimo e l'arte. Dalla fede essi attinsero le sublimi aspirazioni; alla
fede essi attrassero le anime, allorché, durante secoli, comunicarono e diffusero le
verità contenute nei Libri Santi, verità inaccessibili, almeno direttamente, all'umile
popolo. A ragione furono detti “Bibbia del popolo” i capolavori artistici, come, per
citare noti esempi, le vetrate di Chartres, la porta di Ghiberti (con felice espressione
detta del Paradiso) i mosaici romani e ravennati, la facciata del Duomo di Orvieto.
Capolavori questi ed altri, che non soltanto traducono in caratteri di facile lettura e
con lingua universale delle verità cristiane, ma di esse comunicano l'intimo senso e
la commozione con una efficacia, un lirismo, un ardore, quale forse non possiede la
più fervida predicazione. Ora le anime ingentilite, elevate, preparate all'arte sono più
disposte ad accogliere la realtà religiosa e la grazia di Gesù Cristo. Ecco dunque
uno dei motivi, per i quali i Sommi Pontefici, e in generale la Chiesa, onorano ed ono-
rarono l'arte, e ne offrono le opere quale omaggio delle umane creature alla maestà
di Dio nei suoi templi, che sono stati sempre in pari tempo dimore di arte e di re-
ligione.
Coronate, diletti figli, i vostri ideali di arte, con gli ideali religiosi, che quelli
rinvigoriscono ed integrano. L'artista è di per sé un privilegiato fra gli uomini, ma
l'artista cristiano è, in un certo senso, un eletto perché è proprio degli Eletti
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“Padre Couturier, un domenicano morto anch'egli l'anno scorso e che lottò con
fervore contro la decadenza dell'arte religiosa, sosteneva che dove la tradizione è
ancora viva, ai bisogni della Chiesa possono supplire artisti minori; dove invece è
morta, per risuscitarla val meglio affidarsi ad un genio senza fede, che a delle
mediocrità credenti. Vogliono sia stato questo Padre ad incoraggiare Matisse a far la
Cappella del Rosario; essa è in tutti i casi la traduzione in atto di quella sua
proposizione...
Infatti Matisse non era punto credente: e ci teneva a far capire che la sua offerta non
indicava nessun mutamento nelle sue convinzioni, da lui conservate fino all'ultimo.
Non intervenne né all'inaugurazione né alla consacrazione dell'opera sua”.
Io voglio sperare che la luce della verità sia lampeggiata all'ultimo momento nella
mente del pittore e che l'anima si sia rivolta all'infinita misericordia di Dio. Ma poi
faccio tutte le mie riserve sulla celebre Cappella e sul genio del pittore, di cui parlerò
più diffusamente nel cap. seguente.
Non nego che anche gli increduli possono intendere il fascino dell'idea religiosa; ma
rimarranno sempre degli interpreti semplicemente tecnici ed esterni senza quell'ac-
cento e quel fuoco che solo il sentimento e la sincerità possono dare. Somigliano a
colui che sente la melodia di un canto, ma non ne capisce le parole.
L'arte cristiana è anzi tutto arte di pensiero; gli increduli possono possedere
mirabilmente il mestiere, ma sono costituzionalmente incapaci di esprimere con
sincerità il pensiero della Chiesa. Non basta conoscere il vocabolario per scrivere
una pagina eloquente; occorre il pensiero e quella vis intima accende l'eloquenza.
Si verifica talvolta anche per l'arte lo strano fatto dell'indovino pagano Balaam, che
era stato chiamato dal Re di Moab per maledire Israele e invece per tre volte fu
costretto a benedirlo.
Nella storia di Balaam la Bibbia narra anche di un'asina che ha parlato. (Num.,
22-23).
Un opportuno chiarimento
Sono d'accordo col P. Regamey e con L. Venturi su alcuni principi generali — non su
tutti. Si desidera il risorgimento dell'arte sacra e l'epurazione delle chiese dalla
paccotiglia industriale e una più consapevole e cordiale intesa e collaborazione tra
gli artisti ed il clero. Benissimo.
Tutti lo desideriamo. Mi sia permesso di ricordare che fin dal 1913 io ho fondato la
rivista “Arte Cristiana” (che si pubblica ora dalla Scuola B. Angelico di Milano) e la
“Società degli Amici dell'Arte Cristiana” appunto per rialzare il decoro dell'arte e del
culto e per mettere a miglior contatto il clero e gli artisti e stabilire una miglior
comunione tra il parroco e i fedeli. Ma, oggidì, io guardo, non alle buone intenzioni e
ai lodevoli propositi, ma agli odierni tentativi, alle nuove esperienze dell'arte sacra,
che non possono in alcun modo persuadermi, perché mancano assolutamente al
proprio fine.
Questo altissimo fine è stato consacrato da una storia quasi bimillenaria ed è stato
mirabilmente definito nei citati discorsi del S. P. Pio XII.
H. Leclerq, riferendosi ai primi secoli, scrive:
“Se, nel corso di tre secoli di lotte, di miserie e di persecuzioni, il cristianesimo ebbe
tanta cura per abbellire e decorare le volte sepolcrali, ciò dimostra che è nella sua
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stessa essenza di tener conto della bellezza; dimostra che tra il cristianesimo e le
arti l'alleanza è, non solo legittima, ma naturale, intima, pressoché necessaria” (H.
Leclerq: Dict. D'Arch. Chr. et de Liturgie. Images).
Giova pur ricordare che Urbano VIII nel 1642, dopo il Concilio di Trento, scrisse la
nota lettera circa il fine dell'arte sacra: “Ciò che viene presentato ai fedeli non deve
apparire disordinato e singolare, ma deve contribuire a ravvivare la devozione e la
pietà: quae oculis fidelium subiiciuntur non inardinata, nec insolita appareant, sed
devotionem pariant et pietatem.
L. Venturi dice: - “Vi è sempre stata un'arte che deve all'afflato religioso del proprio
autore la capacità di trascendere i limiti della conoscenza umana, di aprire le porte
del finito verso l'infinito. È quella l'arte religiosa che anche prima del cristianesimo è
stata compresa e ammirata”.
Il Venturi cita Dione Grisostomo del I secolo dopo Cristo e Filostrato del III secolo
dopo Cristo e riporta le parole che si leggono a S. Agnese fuori le mura sotto il
mosaico del VII secolo: — “Ecco la pittura d'oro e di tessere musive; sembra che
racchiuda tutta la luce del giorno... Dio che ha potuto segnar la fine sia della notte
sia del giorno, è lui stesso che ha cacciato le tenebre di qui” (La “Nuova Stampa”,
Torino, 9 marzo 1954).
Nulla da eccepire. L'arte, e specialmente l'arte sacra, deve riflettere la luce di Dio,
non le tenebre del demonio, un raggio della bellezza che Dio, speciei generator
(Sap., 13-3) ha diffuso nell'universo e specialmente nell'uomo, fatto a sua immagine
(imaginem Dei circumferimus, dice S. Clemente Alessadrino) — non i sacrileghi
attentati di coloro che mutaverunt gloriam incorruptibilis Dei, in similitudinem imaginis
corruptibilis hominis, et volucrum, et serpentium - hanno cambiato la gloria
dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di
quadrupedi e di rettili (Rom., I, 23).
Mi scrive un signore, indignato, per aver visto in una Mostra d'arte sacra moderna un
Cristo rappresentato con una testa di gorilla...
Del resto sembra che lo stesso P. Regamey, in pratica, si tenga alla buona
tradizione. Infatti il suo bel libro Les plus beaux textes sur la Vierge Marie è illustrato
dalle riproduzioni di opere dei nostri grandi maestri.
Architettura
In questo cataclisma dell'arte figurativa pare però che si salvi la nuova architettura
intesa cum grano salis. Questa, nei suoi elementi fondamentali è venuta chiarendosi
e soddisfa al gusto della semplicità, al bisogno dell'economia, alla esigenza dei nuovi
materiali di costruzioni e ai bisogni della vita moderna, cercando di rendere abb-
astanza bello l’elemento semplicemente utilitario.
Ma per l'architettura ecclesiastica occorre qualcosa di più che la funzionalità
edonistica della vita. Il tempio è la misteriosa dimora di Dio, il rifugio delle anime; la
struttura architettonica, la luce e le ombre devono, come nelle cattedrali antiche,
avvolgere il fedele nella suggestione del mistero, che lo innalza a Dio; ascensiones
in corde suo disposuit (Ps. 83-6).
La chiesa non è una macchina per pregare, come pensa il Le Corbusier. È un ponte
gettato tra il finito e l'infinito; è la mistica nave, che imbarca gli uomini sulla sponda
del tempo per condurli all'approdo dell'eternità.
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Noi non accettiamo per le chiese il senso della serie delle case moderne, né il
nudismo delle sale protestanti. Tutto è vivo e funzionale nella chiesa, il dramma litur-
gico, l'oratoria, il canto, l'arte figurativa e anche il decoro ornamentale.
L'Istruzione del S. Officio sull'Arte Sacra dice chiaramente:
“L'architettura sacra, anche se assume nuove forme, deve adempiere sempre il suo
ufficio, che è di costruire la casa di Dio, casa di preghiera, giammai assimilabile ad
un edificio profano.
Miri pure alla comodità dei fedeli, rendendo loro agevole seguire, con la mente e con
gli occhi, lo svolgimento delle sacre cerimonie; all'eleganza delle linee, ma non
disprezzi la semplicità per dilettarsi di vuoti artifizi, e soprattutto eviti con cura tutto
quello che possa rivelare negligenza nell'opera d'arte”.
Purtroppo ci sono ingegneri e architetti, che ignorano ostentatamente l'Istruzione del
S. Officio, inserendo e sviluppando negli schemi architettonici delle chiese le più
arbitrarie stravaganze costruttive, in modo che dette chiese possono sembrare
padiglioni per fiere campionarie o capannoni per spiagge balneari o qualsiasi altro
edificio meno che chiese.
Ricevo ora il Numero 33 della rivista “Arquitetura e Engenharia” del Brasile con
strampalati disegni per diverse chiese. Un architetto, indignato, mi scrive: “Da
quando un basso materialismo ha invaso il campo dell'arte in questo paese,
specialmente nel settore dell'architettura, sto dando battaglia senza tregua contro
questa manifestazione esistenzialista nelle arti plastiche, chiamata “arte moderna”, la
quale, per mezzo di una potente organizzazione di carattere internazionale, sta dan-
neggiando enormemente la formazione artistica della gioventù di tutto il mondo”.
Opportunatamente l'Istruzione del S. Officio ricorda che, a tenore del Can. C. I. C.
1162, non si può erigere una chiesa senza il permesso scritto dell'Ordinario. L'Istru-
zione è appunto diretta ai Vescovi, i quali hanno il diritto e il dovere di far valere il
proprio giudizio anche sulle chiese affidate ai Religiosi quando queste chiese sono
aperte al pubblico.
IV - Artigianato
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modernista.
Comunque, l'affetto all'artigianato merita tutto il nostro incoraggiamento, perché esso
fiorisce spontaneamente dalla tradizione e dal gusto popolare e corrisponde alla
bella tradizione della Chiesa. È il sermo plebeus che ha una vivacità tutta sua ed
esprime certe idee meglio che il sermo aulicus.
V. Guzzi, parlando dell'Esposizione degli Artisti Nordici aperta a Roma nell'aprile
1955, scrive: “Le tradizioni non si improvvisano, ma intanto si creano,
faticosamente... Nello studio della cosiddetta arte decorativa o applicata (così si
diceva una volta) paesi come la Svezia, la Norvegia, la Finlandia si possono non solo
dire all'avanguardia del gusto, ma producono oggetti di grande e originale bellezza.
Perché in quello studio evidentemente si combinano le tendenze ornamentali del
gusto folcloristico (e cioè della tradizione popolare) con il prestigio d'una tecnica e
d'un “gusto” quanto mai raffinati e moderni” (il “Tempo”, 7 aprile 1955).
Il P. Knipping O. F. M. nella rivista olandese “De Bazuin” del 20 marzo 1954 fa
questa acuta osservazione degna di attenta considerazione: “Possiamo aspettarci
che un artista come ha imparato a valutare ed a maneggiare il suo strumento, così
dovrà poter arrivare, anche con la macchina, ad un'opera d'arte. E non è ciò risultato
da qualche secolo nell'arte tipografica e della stampa? E non abbiamo un'eccellente
esperienza nell'arte cinematografica, dove la tecnica dell'industria domina un sì
esteso terreno, senza però avere mai la parte più importante: la parte più importante
l'hanno i creatori dei films; e sono loro che vengono biasimati se un prodotto non
riesce come opera d'arte, e che vengono lodati se una creazione riesce”.
Nella crisi di pensiero, che travaglia tanti Protestanti, si inserisce oggidì anche l'ansia
di ritornare alla iconografia cristiana.
Il P. John B. Knipping O. F. M. scrive sul Settimanale “De Bazuin” (24 aprile 1954) :
“All'inizio di quest'anno la rivista protestante “Wending” ha pubblicato, sotto il titolo
Chiesa ed Arte, una serie di articoli molto interessanti, in cui ogni autore dava — sul
proprio terreno — il suo ben ponderato parere circa il posto ed il compito delle opere
d'arte entro l'ambiente di vita protestante. La maggior parte degli articoli furono delle
conferenze rese adatte per la pubblicazione, e tenute nell'estate del 1953 ad
Amsterdam davanti ai congressisti di “Vie e confini”. È specialmente con i magnifici
studii di Léon Wencelius nel 1937 e 1938 (“L'Esthétique de Calvin” e “Calvin et
Rembrandt”, ambedue a Parigi) che il”problema dell'opera d'arte “abbia incominciato
più particolarmente ad interessare gli animi di molti Protestanti entro e fuori del
nostro Paese. È sempre una gioia di vedere degli uomini superare la loro avversione
per le arti grafiche — a causa delle circostanze, la loro avversione non è del tutto
irragionevole —, e di veder armarsi di maggiore libertà di giudizio”.
La “Gazette de Lausanne” nel numero del 17 maggio 1954 parla di una seduta
dedicata a una discussione sull'arte cristiana.
“Que d'opinions contradictoires! La nuit la plus opaque côtoyait le jour le plus
éblouissant! Reste à savoir si ces entretiens ont fait jaillir la lumière...
“Il y a une chose certaine : l'Eglise protestante recherche activement le concours
d'artistes susceptibles de lui apporter une bouffée d'art vivant...
“M. le pasteur Deluz pense que Dieu peut se servir de formes matérielles et des
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images pour se manifester. Croire que Dieu ne se révèle que par des paroles est le
fait d'un faux spiritualisme. Seul le témoignage artistique demeure dans les
sanctuaires après le culte. Seule l'introduction d'oeuvre d'art dans nos sanctuaires
peut remédier à l'impression de vide et d'absence que laissent la plupart d'entre eux.
On doit condamner les idoles, mais pas l'art religieux. Il ne faut pas confondre art
religieux et idolâtrie...”.
È la rivincita del buon senso e del magistero della Chiesa cattolica!
Un protestante scrive nella “Gazette Litteraire” di Losanna: “La rigueur de l'art
non-figuratif, sa singulière cérébralité, cet art dégagé de l'accidentel et de l'éphémère
ne s'accorderait-il pas avec 1'austérité de la pensée protestante? Un peintre
non-figuratif ne serait-il pas — plus qu'un autre — capable de nous donner
l'équivalent plastique d'Esprit et Vérité? Une oeuvre d'art n'est-elle pas avant tout
religieuse par son esprit?” (n. 246, 1953).
Quest'arte astratta (che non è nuova, perché è usata da secoli nelle moschee dei
musulmani) potrà rispondere più o meno al sentimento dei protestanti, ma non può
essere accettata nelle chiese cattoliche se non come un qualsiasi partito
ornamentale, non come arte liturgica: questa ha una funzione catechetica ed
edificante, simile alla funzione dell'oratoria sacra.
S. Paolo ha detto: È necessario che vi siano perfino delle eresie fra voi affinché chi è
sincero venga riconosciuto (I Cor, II, 19). L'Apostolo dice pure che bisogna fare la
verità con spirito di carità (Eph., 4, 15). Perciò qui si parlerà piuttosto delle cose che
delle persone, moltissime delle quali sono certo in buona fede.
Lo scandalo di Torino: La “Stampa” scriveva nel numero del 31 dicembre 1954: “Un
delicato problema di culto: Sculture Religiose in quarantena. — La Curia non ha
concesso la consacrazione di una cappella nell'Istituto di S. Anna”.
“È sorta a Torino, nell'Istituto S. Anna di Via Massena 36, una delicata questione
riguardante il culto, l'arte e la morale, nei rapporti spirituali fra figurazione religiosa
chiesastica e il pubblico dei fedeli, nel caso presente, quasi tutti adolescenti; e se vi
accenniamo è perché essa investe un ben più vasto problema; oggi ardentemente
dibattuto in sede di estetica, di liturgia e di dogma sia dagli artisti che dal più
illuminato clero.
Avvenne che le Suore dell'Istituto scolastico femminile di Sant'Anna (corsi
elementari, medi e magistrali) desiderassero una loro cappella interna per le funzioni
religiose ad uso delle allieve, utilizzando l'incrocio di due vasti ambienti; bracci di
gallerie. Per il progetto dell'altare, per il pulpito e le sculture sacre l'impresario dei
lavori si rivolse allo scultore Umberto Mastroianni, artista di ben note capacità,
invitato alle maggiori mostre internazionali, il quale, dopo essere stato mosso da un
franco naturalismo, s'è gradatamente avviato a forme più attuali, fino a divenir
campione d'astrattismo. Ma qui non giudichiamo ora le due tendenze e conversioni.
Il fatto è un altro.
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Il letterato Giovanni Comisso scrisse nel n. 286 di novembre 1954 della stessa
“Stampa” di della Cappella di Verace:
“... Si chiama Cappella del Rosario, ma tutti la conoscono come la Cappella Matisse.
Fa parte di una casa di riposo tenuta da Suore domenicane, è situata fuori dalla
cittadina sul declivio di un monte incoronato da una parete di roccia, simile a un
diadema. Si passa di fianco a questa Cappella senza accorgersene e si deve
ritornare indietro. Ha le tegole di ceramica azzurra come i palazzi imperiali di
Pechino. Sopra, si alza una grande croce in ferro che fa anche da campanile.
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Discesa una scala si entra; da due entrate la luce penetra colorata di verde, di giallo
e di azzurro. Tutto è nitido. Un altare sta di sbieco, sopraelevato. A una parete
Matisse ha tratteggiato su piastrelle di ceramica bianca un ritratto di San Domenico,
su altre piastrelle una Madonna e su altre ancora gli episodi della Crocefissione,
abbozzati come sulle pagine di un album, confusi, ma segnati da chiarissimi numeri
d'ordine. Solo la luce delle vetrate dà un senso religioso al luogo.
Tra i visitatori vi è un giovane alto che prega, gli altri sono incuriositi e dubbiosi. Le
donne sembrano turbate di non sentire voglia di pregare e di non potere mettersi a
ridere. Una, che interrogai più tardi, mi disse che le sembrava di essere in una
stanza da bagno. Difatti è inutile affannarsi a cercare simboli della Gerusalemme
Celeste, quelle mattonelle di ceramica bianca, dato l'uso comune, hanno solo un
simbolo banale. È incredibile che questa Cappella abbia fatto tanto chiasso, diffuso
per tutto il mondo”.
La Via Crucis si chiama chemin de la croix, ed è l'uso comune di percorrerla dal
primo dei 14 quadri rifacendo idealmente il viaggio di Cristo sul Calvario. Il Matisse
l'ha rappresentata tutta in un quadro pieno di un groviglio di geroglifici... È pure ovvia
la necessità di una stesura artistica di facile leggibilità: l'immagine deve parlare alla
fantasia e commuovere il cuore.
Qui conviene richiamare alla memoria il decreto della S. Penitenzieria Ap. in data 13
marzo 1938, che dà le norme fondamentali per l'esercizio della Via Crucis; tra
queste, è detto che le stazioni debbono essere 14 a distanza una dall'altra e a
ognuna deve sovrastare una croce di legno ben visibile. Per lucrare la indulgenza è
necessario fra una stazione e l'altra fare uno spostamento del corpo come per
seguire il cammino di G. Cristo verso il Calvario.
Le immagini sacre tracciate a contorno piuttosto che dipinte, e il Crocefisso contorto
e barbarico posto sull'altare ripugnano non solo alla buona tradizione artistica, ma
disorientano il senso religioso. Si plaude alla novità. Ma Pio XI ha detto: “Se ne
tentano le difese in nome della ricerca del nuovo e della razionalità delle opere. Ma il
nuovo non rappresenta un vero progresso se non è almeno altrettanto buono che
l'antico; e troppo spesso questi pretesi nuovi sono sinceramente, quando non anche
sconciamente, brutti e rivelano soltanto l'incapacità o l'impazienza di quella
preparazione di cultura generale, di disegno — di questo soprattutto — di quella
abitudine di paziente e coscienzioso lavoro, per il difetto e l'assenza delle quali vien
meno la stessa tanto ricercata novità, troppo somigliando a certe figurazioni che si
trovano nei manoscritti del più tenebroso medioevo, quando si eran perdute nel
ciclone barbarico le buone tradizioni antiche ed ancora non appariva un barlume di
rinascenza” (Discorso per l'inaugurazione della nuova Pinacoteca Vaticana, 27
ottobre 1932).
Altri scandali
Episodi simili a quelli di Torino e della Francia si sono verificati qua e là in Germania,
nel Belgio, nell'Olanda, nella Svizzera, nelle Americhe. L'eresia è dura a morire. Ma
come la Chiesa, columna et firmamentum veritatis (I Tim., 3, 15), ha trionfato delle
antiche eresie, così assisterà al tramonto della nuova eresia depravatrice dei
soggetti sacri.
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Non si sono mai tenute tante esposizioni d'arte sacra come in questi ultimi tempi. Il
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L'arte sacra non è che una branca dell'arte comune. Conviene quindi risalire alla
malattia dell'arte in genere per valutare in specie l'infezione di cui soffre l'arte sacra.
Non pretendo d'arrogarmi una competenza che non ho, ma esprimo con tutta
semplicità il mio parere, che potrà, se mai, servire come elemento di giudizio per chi
voglia approfondire il problema dell'arte moderna.
L'arte malata
Mi avvicino al malato con rispetto e amore, come il medico che fa la diagnosi del
male per trovare i rimedi.
Che l'arte in genere sia ammalata quasi tutti lo ammettono. Quelli che plaudono
all'arte modernista lebbrosa sono una esigua minoranza, tra cui non manca
l'interesse di certi commercianti.
Le Biennali di Venezia ci offrono la più significativa documentazione del morbo che
affligge l'arte moderna.
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Un acuto studioso mi scrisse dopo aver visitato la Biennale del 1922: “Non so se
devo piangere o ridere...”.
Bernard Berenson ha detto queste gravi parole circa la Biennale del 1954: “Si tratta
di balbettamenti, di infantilismi, che io non posso in nessun modo approvare:
decadenza: non c'è altra parola” (Intervista del “Gazzettino” 27 giugno 1954).
I premi ufficiali dati dalle Autorità ad alcune opere stravaganti delle Biennali sono un
incontrovertibile documento dello sfacelo dell'arte moderna.
Il valoroso e coraggioso critico d'arte Leonardo Borgese scrive: “Del resto l'arte
d'avanguardia o rivoluzionaria è oggi in Italia soprattutto un affare burocratico,
ministeriale e ufficiale, tra le mani dei funzionari e dei professori d'università”
(“Corriere della Sera” del 6 marzo 1955).
Si arriva a fare dei grandi ciotoli per la scultura e si farnetica di rappresentare la
statua, che è fatta di volumi, con grovigli di fili di ferro.
Forse lo sfacelo indica il morire del germe per la creazione di una pianta nuova,
come quando una vecchia quercia produce l'ultima ghianda e muore. La ghianda
cade a terra e ricomincia la vita. Così un vecchio animale genera l'ultimo figlio e
muore. Il figlio ricomincia l'infanzia e procede per l'età adulta fino alla vecchiezza. E
noi speriamo che, dopo questa aberrante moda della deformazione e della bruttezza,
dopo questa morte della figura. l'arte risorgerà.
Tutto ciò premesso, noi ci domandiamo: Quale virus, quale infezione ha ridotto a
questo stato patologico l'arte? Quali sono le profonde cause per le quali l'arte
moderna rinnega i canoni eterni e universali della bellezza?
Il fenomeno è impressionante per la sua estensione e per le approvazioni ufficiali e
per il successo momentaneo del mercato artistico. Tutto ciò non può essere
arbitrario; cerchiamo ora di scoprirne le cause.
L'era atomica
Mi pare che c'è una causa che dirò ontologica, la quale sfugge agli stessi artisti; essi
ne sono una inconsapevole vittima. Gli artisti, con la loro ipersensibilità, sono lo
specchio del proprio tempo, sono una specie di radar, che preannuncia i pericoli
lontani. Viviamo, col respiro sospeso da un terrore apocalittico. Winston Churchill, il
1° marzo dell'anno corrente, ha pronunciato ai Comuni queste tragiche parole sui
pericoli della bomba H: “Mi si stringe il cuore quando guardo la gioventù piena di ar-
dore e di vita e quando guardo i bambini che giocano ignari. Ed io mi ripeto questa
terribile domanda : Che cosa sarà di essi se Iddio si stancherà degli uomini?
Noi viviamo in un periodo unico nella storia, nel quale il mondo intero è diviso
intellettualmente e in largo senso anche geograficamente fra il Credo della disciplina
comunista e il Credo della libertà individuale e nel tempo stesso questa divisione
mentale e psicologica è accompagnata dal possesso, da ambo le parti, delle
pericolose armi dell'epoca nucleare...
Vi è un immenso abisso fra la bomba atomica e la bomba H. La bomba atomica con
tutti i suoi terrori, non ci portava al di là dell'ambito del controllo umano e degli eventi
controllabili sia in pace che in guerra. Ma tutti i fondamenti delle vicende umane sono
stati rivoluzionati, e l'umanità è stata posta in una situazione gravata dall'ombra della
perdizione. Non vi è difesa — nessuna difesa assoluta — contro la bomba H...”.
Il presidente Eisenhower ha detto nel suo messaggio al Congresso americano il 6
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gennaio 1955: “...È della massima importanza che ciascuno di noi comprenda la vera
natura della lotta che si sta ora svolgendo nel mondo. Non è una semplice lotta di
teorie economiche, o di forme di governo o di potenza militare. È in gioco la vera
natura dell'uomo. O l'uomo è la creatura che il salmista definisce ”un po' al di sotto
degli angeli”, o è una macchina senz'anima destinata ad essere sfruttata dallo Stato
per la glorificazione di questo”.
Il disordine pauroso di questa epoca — non posso dire di questa civiltà — si
ripercuote nell'anima degli artisti, ed essi fanno un'arte, che alcuni hanno appunto
detto nucleare, un'arte del disordine.
V. Guzzi, parlando di Chagall (“Il Tempo”, 14 aprile 1955), dice: “Si sa ch'esso è uno
dei fatti autentici dell'arte contemporanea; e ch'esso esprime l'ansia di sogno e di
innocenza d'una età troppo congegnata e meccanica, tutta razionalità e freddo gusto
di forma”.
A. Malraux scrive: Le arti moderne mettono sordamente in questione la civilizzazione,
che rappresentano. Li è il legame che unisce gli ingenui ai primitivi medioevali, i
pazzi e alle volte i bambini ai primitivi dell'Eufrate. Ciò rende ciascuna di queste arti
un'espressione dell'antiumano del nostro secolo .. Il gusto di una certa preferenza di
forme, non avviene senza un appello alle forze oscure dell'uomo (l'inconscio).
Al principio del secolo, sono i pittori esaltati come i più moderni che scavano
rabbiosamente nel passato. Da Cezanne, che impone ai paesaggi i piani della scul-
tura gotica, a Gauguin, che metamosfosa l'arte della Polinesia, a Derain, a Picasso,
che suscitano i negri e gli idoli sumerici, gli artisti cercano tutti i mondi, salvo quello
che è loro imposto. Essi sanno come l'accordo dell'uomo con se stesso è divenuto
menzognero; e le loro opere, sembrano convergere verso il punto vulnerabile della
civilizzazione in cui sono chiusi...
Il dominio del demonio è proprio di tutti quelli che, nell'uomo, aspirano a distruggere
l'uomo (Psychologie de l'art. A. Skira V. I pagg. 124-126-127).
Gli artisti non sono filosofi, ma, con la loro ipersensibilità, avvertono le correnti
filosofiche del tempo e ne subiscono, consapevolmente o inconsapevolmente, l'in-
flusso.
Le tendenze filosofiche dell'Ottocento passarono nel Novecento. Il pensiero
positivista, degenerato spesso nell'agnosticismo e nel materialismo, spense la luce
dell'anima; l'idealismo non ammetteva altre realtà che il pensiero. Il filosofo C. Wolff
nel Settecento aveva detto “che l'idealismo ammette l'esistenza delle cose nel nostro
pensiero, negando l'esistenza reale del mondo fisico”.
L'arte nella seconda metà dell'Ottocento e nella prima metà del Novecento, si dibattè
nella morta gora del positivismo o si smarrì nelle nuvole dell'idealismo. Specialmente
questo è riuscito, in arte, a disintegrare la natura esterna dandoci delle visioni
soggettivistiche, deformatrici del vero e riflettenti i truculenti fantasmi d'una fantasia
esaltata. In Italia i corifei dell'idealismo sono stati B. Croce e G. Gentile.
Il Croce, nel Breviario di Estetica, così definisce l'arte: “L'arte è visione o intuizione...
Si nega anzi tutto che l'arte sia un fatto fisico... e, se si domanda per quale ragione
l'arte non possa essere un fatto fisico, bisogna in primo luogo rispondere che i fatti
fisici non hanno realtà... talché i fatti fisici si svelano, per la loro logica interna e per
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comune consenso, come non già una realtà ma una costruzione del nostro intelletto
agli scopi della scienza...”.
Noi possiamo constatare come codesto idealismo abbia una certa affinità e una
indiretta responsabilità circa le correnti artistiche del cubismo, del fauvisme,
dell'astrattismo, ecc.
Si riscontra veramente nella storia la vicenda delle salite e delle discese; delle aurore
e dei tramonti. Anche l'oceano umano subisce il ritmo dell'alta e della bassa marea.
Tutto ciò riguarda anche l'arte, perché essa è il polso del battito della civiltà.
Purtroppo siamo in un periodo di bassa marea, che mette allo scoperto le brutture
del fondo. Le grandi civiltà babilonese ed egiziana sono tramontate senza nuovi
risorgimenti, i grandi monumenti antichi sono muti e desolati, testimoni di una civiltà
defunta. Altrettanto può dirsi della Grecia, che conobbe gli splendori del V secolo
prima di Cristo.
La civiltà romana, che incorporò quella etrusca, non resistette all'urto di barbari, e la
grande arte dell'impero, mirabile espressione di bellezza, di forza e di diritto, si
imbarbarì fino alle rozze espressioni dell'alto medioevo. La Chiesa ricostruì sulle
rovine dell'impero l'unità delle anime; e la civiltà antica, purificata ed innalzata dal cri-
stianesimo, rifiorì con la scolastica di S. Tommaso e col Rinascimento. I nostri artisti
del XV-XVI secolo porgono la mano ai grandi artisti della Grecia e di Roma.
Oggidì assistiamo a un ricorso di decadenza, l'arte bamboleggia falsamente
rifacendo l'arte rude del medioevo e dei popoli delle caverne. È un crepuscolo che,
nei corsi e ricorsi storici, prelude all'aurora o al vespero notturno? Speriamo che sia il
crepuscolo di un nuovo giorno. Comunque è un'arte in travaglio, una involuzione
regressiva.
La vita dell'uomo non ha due infanzie: il vecchio, che infantilisce, si dice che è un
rammollito e istupidito.
E. Paratore scrive nel “Giornale d'Italia” del 12 marzo 1955: “Nel nostro secolo la
capacità creativa s'è andata inaridendo ed ha ceduto progressivamente il posto ad
un gigantesco sopravvento della critica, sotto tutte le forme. E questo fenomeno ha
portato con sé il trionfo del più rigido formalismo, il culto per tutti i primitivismi, e,
nelle arti figurative, moduli rivoluzionari che rappresentano una via senza uscita
puramente atta al dissolvimento, e nella musica (a breve distanza dalle grandi con-
quiste dell'Ottocento romantico) quell'altro fenomeno di rivoluzione puramente
grammaticale e spiritualmente disgregatrice che è la dodecafonia. E voglia il cielo
che tali tendenze non preludano a un fenomeno pari a quella millenaria notte dell'arte
e della poesia che gravò sull'Occidente dal sec. II al sec. XII della nostra era.
“Parallelamente a questo trionfo della critica sulla fantasia, lo scetticismo, il
disorientamento riguardo a tutti i valori più alti della tradizione, l'abitudine a veder
tutto in termini di economia e di benessere materiale, l'illusione che la civiltà
occidentale possa essere rappresentata e difesa da forme di pseudocultura
periferica rispetto ai grandi centri europei e nutrita solo dei cascami più esteriori
dell'immensa creazione ch'essa aveva espressa”.
Ma in faccia a questo cataclisma la Chiesa rappresenta una vita perenne; vive della
vita di Dio; e noi auspichiamo un'arte che si disgeli alle fonti dell'eterna e possente
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giovinezza della Chiesa. La Chiesa dice all'artista cristiano le parole che Cristo
pronunciò sulla tomba di Lazzaro, già in decomposizione: Lazare, veni foras...
Solvite eum et sinite abire (Joan. 11-43).
Gli artisti sono tormentati dall'ansia del nuovo, dalla sete della modernità; vogliono
parlare, non un linguaggio arcaico, ma il linguaggio del proprio tempo. Questo stato
d'animo risponde al loro istinto artistico ed è degno di grande rispetto. Noi, se
deploriamo gli sviamenti dell'arte, comprendiamo la tragedia spirituale degli artisti e
parliamo di loro con consapevole amore: amore e rispetto per chi soffre in buona
fede, non per i furbi trafficanti e per i profittatori delle stravaganze artistiche.
M. Porena, uno studioso d'arte di alto livello, dice: “Vi sono quadri e statue
rappresentanti uomini e donne bellissimi per regolarità di forme o intensità di
espressione, che da tale bellezza, per una certa qualità di osservatori conseguono
ben poco pregio e suscitano ben poco diletto estetico. Il che avviene per esempio,
quando l'artista, come è caso frequente in certe epoche, abbia nell'opera sua
ripetuto un tipo che, quasi a guisa di canone, si sia andato fissando nella pratica
artistica fino a divenire comune, si che di suo lavoro individuale, nella visione e
nell'elaborazione di quel tipo, egli non abbia messo nulla o quasi nulla”. M. Porena, Il
bello d'arte e il bello nella natura (Comunicazione all'Accademia dei Lincei, 11 di-
cembre 1954).
Quel tipo comune non interessa gran che il pubblico e l'artista si sente mortificato e
quasi tagliato fuori dalla vita.
Vi sono dei critici d'arte probi e solitari; ma vi sono altri che hanno una certa
responsabilità sullo sviamento dell'arte moderna.
Su questo delicato argomento cedo la parola allo stesso M. Porena : “Da un certo
tempo in qua i critici d'arte formano una classe ben distinta e riconosciuta, che
cercano distinguersi dalla folla dei profani avvolgendosi nelle nuvole. Per esempio,
uno dei modi oggi assai in voga è quello di parlare d'un'arte con parole, frasi e
concetti che appartengono a un'altra arte... Cercano di distinguersi allontanandosi
dal gusto comune, capovolgendo i valori, coltivando il paradosso, mettendo a base
dei loro giudizi elementi di poco o nessun pregio. E, per esempio, avanti a un quadro
invece di additare il contenuto lirico o drammatico scaturente dall'invenzione delle
situazioni, la potenza dell'espressione nei volti e nei gesti, l'energia dinamica e
passionale nelle figure, la perfezione della riproduzione nel disegno, nel colore, nel
chiaroscuro, parlano un gergo comprensibile a essi soli, in cui compaiono, se per
esempio trattasi di pittura, linee orizzontali, verticali, oblique, parallele, convergenti,
divergenti, spazi, volumi, pieni, vuoti; intessuti in un frasario che spesso, in italiano
almeno, è incomprensibile; e tutto ciò prescindendo totalmente dal fatto che tali
elementi appartengono a uomini, o ad animali, o a piante, o a oggetti inanimati; e al-
trettanto pei colori... Ma sono molti, purtroppo, fra gli artisti e fra il pubblico, i timidi e
gli umili, che diffidano di sé, che si lasciano sgomentare dai falsi ragionamenti, e a
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cui le nuvole in cui s'avvolgono quei critici sembrano segno d'altezza. Se sono
galantuomini si limitano a tacere; se non lo sono, si mascherano alla moderna e
plaudono alla corrente (I. c.)”.
La moda
Il fenomeno complesso e oscuro della moda, legato a varie influenze del gusto, del
tempo, dell'economia, della morale, impera specialmente sull'abbigliamento, ma
esercita un notevole potere anche sull'arte, sulla politica, persino sulla medicina.
La moda del deforme passerà come passano tutte le mode. La storia ne offre una
chiara documentazione. Dopo Raffaello imperversarono i manieristi, poi insorsero,
col Rembrant, il Caravaggio e il Ribera, i luministi; nel Settecento tiepoleggiarono
tutti i minori; poi, tra la fine del Settecento e il principio dell'Ottocento, subentrò il
fanatismo classico con il Canova e il David, ma i neoclassici finirono col produrre un
senso di sazietà, e venne la reazione del romanticismo e poi del verismo. Noi tutti
ricordiamo la moda effimera dello stile umbertino e floreale e del neoromanico e del
neogotico.
Così siamo giunti alla babele moderna. Se è tramontato il bello ideale del
Wincktelmann, tramonterà anche il moderno brutto ideale. Le mode passano come il
fumo, anche se questo è il fumo dell'incenso che si brucia davanti agli altari. Però
finché imperversa la moda del deforme giova lottare per affrettarne il tramonto.
Questo verrà certamente — mi diceva uno studioso — quando sorgerà un artista di
genio. La massa dei minori lo seguirà volentieri. L'antico Petronio, arbitrer elegantia-
rum, è oggidì sostituito in arte da Picasso, l'arbiter pravitatum. Noi speriamo
nell'avvento di un arbitrer pulchritudinis, “d'un grande artista, la cui produzione dia
all'anima sensazioni nuove, che appunto per tale loro freschezza hanno un'energia
superiore a quella con cui agiscono i pregi di artisti già noti a cui la sensibilità
estetica è già assuefatta, e quindi più languida. Artisti e pubblico si gettano allora su
queste nuove forme di bellezza: quelli per cercar di produrle anch'essi, questi per
goderne (M. Porena, 1. c.)”.
Anche la tradizione, male intesa, ha una parte nello smarrimento dell'arte moderna.
La tradizione è, sotto un certo aspetto, un peso. Quando l'artista pensa a un
soggetto, specialmente se si tratta di un soggetto sacro, si vede la fantasia affollata
da una ridda di immagini del passato; egli è come assordato e confuso da un
riecheggiamento di mille voci uscenti dai secoli passati. Egli vuol essere originale,
vuol essere personale. Ma come è possibile farsi notare se si ha una statura
ordinarla e se si è confusi alla folla comune?
G. Dupré racconta che un tempo lavorava alacremente intorno al gruppo della Pietà.
Entrò nello studio un amico e disse che la Pietà gli ricordava esattamente quella di
Michelangelo, con l'intenzione di lodare il lavoro. Dupré ributtò nel mastello la creta
del gruppo. Aggiunse poi che ebbe una specie di visione e compose la nota Pietà del
cimitero della Misericordia a Siena; che è un capolavoro di forma e di sentimento.
Sì, la tradizione è un peso; ma, se si sa considerarla bene, è anche una direzione.
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Nei moderni cenacoli artistici non si vuol sentir parlare di tradizione. È questione di
intendersi: per tradizione non si vuole significare il rifacimento di modi artistici del
passato, non un ritorno indietro; ma il punto di partenza per un nuovo cammino. Un
profeta, vissuto oltre 2500 anni fa, ha detto: “Fermatevi sul crocicchio e osservate;
cercate tra i sentieri antichi qual sia la via buona; camminate per essa e troverete
riposo per la vostra anima” (Gerem. VI-16).
Cari artisti, voi oggi vi trovate veramente a un crocicchio. I sentieri sono confusi e la
direzione è incerta e l'anima respira in una intima angoscia. Qual è la via buona?
Cercatela nelle indicazioni della tradizione, avanzare pesa e troverete refrigerio per le
vostre anime.
Troppi artisti
Sembra pure che l'eccessivo numero degli scultori e specialmente dei pittori non sia
estraneo alla presente babele dell'arte. La Guida Monaci annovera per l'Urbe oltre
700 pittori. L'arte è troppo alta e ardua cosa perché sia lasciata al capriccio del
primo venuto. “In questi tempi — dice A. Martini, il noto scultore avanguardista —
tutti hanno dipinto, perfino i pizzicagnoli e i panettieri” (Lettere di A. Martini, Canova,
Treviso).
Naturalmente l'arte moderna, che si infischia del disegno e della forma, è alla portata
di tutti. I giornali di Roma hanno elogiato un barbiere che, tra una barba e l'altra, si è
dilettato a fare dell'arte moderna; a Roma era annunziato per l'aprile 1955 la IV
Mostra d'arte dei vigili urbani...
La fotografia
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Parrebbe che la fotografia dovesse essere un buon aiuto per l'arte. Invece sembra
che essa stessa abbia una parte nel disordine figurativo dei nostri giorni. Nei tempi
antichi non esisteva la fotografia, e gli artisti dovevano osservare e interpretare il
vero. Oggidì la riproduzione del vero è lasciata alla macchina, e questa ha raggiunto
una tale perfezione nella riproduzione del vero, con ombre sfumate, con colori
pastosi, con sfondi prospettici da vincere l'abilità dei pittori. Questi sono scoraggiati.
Si dirà che alle fotografie manca l'anima. Ma la pittura moderna, con i suoi sgorbi
contro-natura, sa rendere forse l'anima?
La mancanza di mecenati
A tutte queste ragioni, con cui ho cercato di individuare i motivi del marasma dell'arte
moderna, se ne aggiunge una particolarissima per riguardo all'arte sacra, cioè il
clima tutt'altro che propizio. S. E. Mons. G. B. Montini, Arcivescovo di Milano, ha
detto il 6 gennaio 1955 nella prima omelia: “La vita cattolica è minacciata di
restringimento e di assedio da chi, non pago dei confini che essa stessa pone fra
sacro e profano, tra campo religioso e campo civile, e non conscio del diritto
spettante allo spirito di tutto illuminare e vivificare, vuole sottrarle con le barriere del
laicismo la sua benefica irradiazione nelle varie manifestazioni sociali. Minacciata di
soffocamento e di inaridimento dalla indifferenza religiosa con cui la febbre della vita
materiale, economica ed edonistica paralizza gli spiriti moderni, minacciata di an-
nullamento dall'esplosione cieca e fanatica dell'ateismo moderno, che, armato di
pretesa logica e scientifica, tanto nega i principi supremi dell'essere e del pensiero,
da convertire in idoli disperati e crudeli i frammenti di verità, che ha rubato al tempio
della sapienza divina...
Ora a me pare che un'altra pacificazione, un altro piano, quello ideologico-morale,
sia necessario promuovere: la pacificazione cioè della tradizione cattolica con l'uma-
nesimo buono della vita moderna. Mi sia consentito da questa cattedra, esprimere
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l'augurio. Esso non vuole avere fondamento soltanto sui diritti storici di tale
tradizione, ma si fonda principalmente sul disegno misterioso e misericordioso di Dio,
che al nostro Paese ha elargito tanti favori da farne terra di elezione e centro
d'irradiazione del nome cristiano nel mondo e si convalida del fatto che tutti i principi
che danno al mondo moderno un dinamismo foriero di vero progresso umano e di
nuova e vera civiltà, sono principi mutuati dal Vangelo”.
L'arte greca, l'arte dell'Estremo Oriente, l'arte egiziana, la grande arte cristiana
fiorirono in un clima spirituale. Perciò la primordiale condizione per il risorgimento
dell'arte sacra sta, oggidì, nella necessità di purificare e ricristianizzare il clima della
civiltà materialistica per ridare alle anime un libero e vivifico respiro e dar ali all'estro
degli artisti.
Nel 1954 è stata organizzata a Roma nel Palazzo delle Esposizioni una bella e
istruttiva Mostra dell'Arte dell'infanzia. Nel marzo dell'a. c. è stata aperta una Esposi-
zione della pittura collettiva dei fanciulli francesi nel palazzo della Fondazione Besso.
Contemporaneamente l'Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'edu-
cazione, la coltura, la scienza) ha ordinato nel Palazzo Venezia un'altra Mostra della
“Pittura dei Ragazzi” impostata sopra un più vasto panorama, perché la Mostra ha un
carattere internazionale. E ci si rende subito conto che i bambini hanno la stessa
anima in tutte le parti del mondo.
Questa Mostra dell'arte dei ragazzi è veramente importante per il suo significato
pedagogico, artistico e sociale e per la accorta distribuzione delle opere. Visitandola,
migliaia di fanciulli si affacciano alla nostra fantasia dalle diverse e anche lontane
nazioni: l'incomparabile visione è illuminata dalla luce della primavera umana, luce
che commuove e sorpassa tutte le altre bellezze terrene. Ma non vi è solo bellezza;
vi è la vita dell'anima, cioè il sentimento di quella fraternità umana e di quella spon-
tanea bontà, che ha fatto scrivere a tre bambini: “Dall'amicizia, che oggi nasce tra
noi può sorgere domani un mondo migliore, dove non apparirà più la guerra... Anche
noi ragazzi dobbiamo collaborare agli sforzi degli uomini per creare un mondo unito...
Io spero che tu abbia il babbo e la mamma; se non li hai sono triste per te”.
Il piccolo Catalogo illustra i nobilissimi scopi pedagogici della Mostra. Non è qui il
luogo di insistervi. Io mi fermo sul problema artistico. Il G. C. Argan dice che questa
rassegna non mira a celebrare il mito dell'infanzia... Va bene. Ma nulla impedisce che
si studi anche questo mito sotto l'aspetto dell'arte, della forma e dei colori.
L'“Osservatore Romano” scrive: “C'è un vero mondo nascosto di aspirazioni e di
inclinazioni, ancor più segreto di quello che si cela dietro le forme: il giovane pittore
scandinavo ha certi cieli e certi mari così squillanti di azzurro quali certo nel suo
paese non ha visto mai e che rivelano pure uno stato d'animo: un villaggio papua è
trattato con mano che si può dire maestra in toni d'ocra e di marrone che fanno
pensare ad una ubbriacatura di sole anelante alle ombre. In generale il colore è
audace, esatto nei suoi limiti, parte integrante del messaggio”. (19 marzo 1955). E
nulla impedisce che, specialmente, si avvicini questa rassegna all'infantilismo
artistico degli adulti, molti dei quali oggidì bamboleggiano senza raggiungere il
candore, l'ingenuità, la sincerità, la freschezza delle pitture di questi ragazzi.
La contemplazione di questi lavori infantili ci delizia gli occhi e l'anima come il
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Mi sia permesso di ricordare qui anche l'arte ingenua degli ex-voto. Molti dei nostri
santuari sono esposizioni permanenti di ex-voto. Tra questi menzioneremo le tavo-
lette dipinte da qualche artigiano del luogo, il quale non ha inteso fare un'opera
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Col nome di popoli primitivi intendiamo designare le genti che vissero negli oscuri
tempi preistorici e le genti, che, in alcune parti remote del mondo, si affacciano solo
ora al costume della comune civiltà.
Si tratta di un'infanzia dell'umanità che ha i suoi incantesimi, ma ha le sue inevitabili
deficenze.
Mi sia permesso di rilevare che l'arte dei popoli primitivi, antichi e moderni, è spesso
ispirata da un senso sacro, magico, terroristico, rituale. E per quanto le forme d'arte
siano schematiche, grossolane, anche ridicole, impressionano profondamente per la
sincera espressione del dramma religioso che tormentò e consolò, tormenta e con-
sola le genti primitive.
H. Kün nel libro, L'uomo dell'età glaciale (A. Martello, Milano 1952), scrive: “L'epoca
glaciale è la giovinezza della specie umana, l'alba dello spirito. E, al principio, sta la
stupefatta ammirazione delle cose; come il padre o la madre di una tribù hanno
creato tutto ciò che la tribù possiede, così un Padre, creatore, progenitore, ha creato
e modellato tutto ciò che è intorno agli uomini: la terra, gli animali, il cielo...
I quadri murali sono sempre stati legati al culto, non solo nell'età glaciale, ma anche
in seguito, nel mesolitico, nel neolitico, nell'età del bronzo, anche nel medioevo e fino
ai giorni nostri...”.
Alla domanda — se l'arte moderna si svolge nella stessa direzione dell'arte
preistorica — il dottor Kün risponde: “Impressionismo, espressionismo, cubismo, so-
no tre stadi che si susseguono costantemente...
Il cubismo della preistoria diventa via via tanto astratto, e i quadri non riproducono
più che triangoli e angoli, indicanti in prima linea la figura umana, la figura umana
risolta in forme cubiste; esattamente come nel cubismo moderno. I quadri vogliono
probabilmente raffigurare dèmoni, spiriti, mostri. Ma questi sono più misteriosi e
spaventosi dell'uomo, non hanno figura umana, e tuttavia sono di natura affine ad
essa. Così nasce il cubismo; viene dal trascendente, da una sfera dello spirito posta
nel mondo ultraterreno, mentre l'impressionismo ha le sue radici nell'al-di-qua, sia
essa l'impressionismo della preistoria, l'arte dell'età glaciale, o sia l'impressionismo
della fine del secolo scorso...”.
Circa le pitture rupestri, tra cui sono famose quelle dei Boscimani in Africa, L.
Cipriani scrive: “Un vistosa costume boscimano fu quello di incidere e dipingere sulle
rocce. I Boscimani attuali lo hanno perduto completamente. Le incisioni e pitture
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Quello che si dice dei popoli preistorici per il senso sacro — meglio per il terrore
sacro — vale anche per i popoli tuttora viventi in uno stato ancora primitivo.
Devo limitarmi ad alcuni accenni, trattandosi di materia largamente conosciuta.
Nell'Africa e nelle isole del Pacifico si scolpiscono e si dipingono maschere, feticci,
uomini e animali, in cui è deformata, spesso mostruosamente, la figura umana.
Ricorderemo pure i pali totemici degli Haida, indiani d'America, scolpiti con maschere
umane e animalesche sovrapposte le une alle altre.
Ora, se si considerano spassionatamente tali esempi dell'arte preistorica e dell'arte
dei popoli primitivi moderni, si potrà constatare che Picasso e i suoi seguaci non
hanno inventato nulla; sono tornati ai balbettamenti di un'infanzia superata da
millenni, dandoci delle falsificazioni grossolane. Somigliano al Nicodemo del Vangelo,
il quale si domandò se era possibile di rientrare nell'alvo materno per rigenerarsi…
(Giov., 3-4).
Ma c'è di più. Noi consideriamo come selvaggi alcuni popoli, che allungano o
schiacciano il cranio o malformano le labbra con l'inserzione di piattelli o compiono
anche delle mutilazioni o adornano il corpo con tatuaggi, cataplasmi o cicatrici
ornamentali. Ricordiamo ad esempio la zanza, cioè le riduzioni mummificate delle
teste recise ai nemici fatte dai Chivaro nell'Amazzonia; i dischi labbiali dei Botucudo
pure nell'Amazzonia e dei Sora nell'Africa Occidentale.
Ebbene, come giudicare certa arte moderna, che si compiace di alterare e depravare
la figura umana? Si ritorna all'età selvaggia. Se tutto ciò vale per l'arte in genere a
maggior ragione ripugna per l'arte sacra. Noi non esitiamo a dire che quando certi
artisti moderni tentano di introdurre nelle chiese opere che gareggiano con le mo-
struosità dell'arte primitiva, commettono dei sacrilegi figurativi. Sacrilegio da
sacrum ledere: offendere una cosa sacra.
Il 26 marzo dell'a.c. si è aperta a Roma, nel palazzo della Fondazione E. Besso, una
Mostra dei disegni e delle pitture dei malati di mente dell'ospedale psichiatrico di
Imola.
La visita alla Mostra ci ha suggerito di rilevare nel vasto quadro del disordine artistico
del nostro tempo, anche l'istinto estetico e la produzione dei malati di mente e dei
criminali. Non è compito nostro di valutare il fattore psicologico e terapeutico. Noi ci
fermiamo semplicemente al fatto estetico. Esula dal nostro studio qualsiasi riferi-
mento alle persone degli artisti, che rispettiamo. Ci poniamo semplicemente in faccia
ad alcuni confronti obbiettivi delle manifestazioni artistiche.
Il prof. L. Telatin, Direttore dell'Ospedale psichiatrico di Imola, nella presentazione
della Mostra, accenna anche al problema artistico dei poveri malati: “Quasi tutti
ignorano la tecnica della pittura, perciò la loro produzione è libera espressione di uno
stato d'animo nei quale sentimenti e passioni si manifestano in tutta la loro genuina
primitività...
“Ci si è accorti, che, oltre ad aver conseguito uno scopo terapeutico e diagnostico, si
è anche ottenuto un certo risultato nel campo artistico...
“In tutti ha destato meraviglia il trovarsi di fronte a pitture che hanno un certo valore
artistico, pitture che si potrebbero attribuire a qualche pittore moderno di buon nome.
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Nei testi di Medicina legale si incontrano disegni fatti da pazzi o delinquenti, con
linee schematiche e sommarie, che non mancano di una certa espressione; tali
disegni ricordano certe pitture delle moderne Mostre d'arte. Un autore dice: — Si
trova nei criminali sviluppati in maniera abbastanza apprezzabile il senso estetico...
Una tendenza alle raffigurazioni plastiche, con caratteri che li avvicinano a quelli dei
selvaggi. M. Carrara, Medicina Legale, UTET.
Ho ritenuto riportare tali considerazioni in questo studio, che cerca di scrutare a
fondo il complesso problema dell'arte, così come si fa nei testi di teologia morale, in
cui si analizzano i diversi aspetti degli atti umani, buoni o cattivi.
Io amo e stimo gli artisti e comprendo la loro ansia, spesso angosciosa, per il
rinnovamento dell'arte in genere, e, in specie, per il risorgimento dell'arte sacra.
Posso perciò chiudere questo studio con le parole di Dante: Amor mi mosse che
mi fa parlare (Inf. 30-139).
Nel marzo dell'a.c. è stata aperta a Roma una Mostra dei Capolavori dell'Ottocento
francese sotto il Patronato dei Governi italiano e francese. Fu mirabilmente ordinata
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scultura, Bartolini, Dupré, Tenerani, Vela, Grandi, Dal Zotto, Monteverde, Biondi,
Gemito, Rutelli, A. D'Orsi, C. Zocchi, Trentacoste, Bistolfi, Canonica, ecc. Per la
pittura: Fracassini, Mariani, Bertini, Podesti, L. Serra, Michetti, D. Morelli, Celentano,
Segantini, Patini, Maccari, Mussini, Faustini, Grigoletti, Hayez, Barabino, Loverini,
Previati, Sartorio, Tito, ecc.
Mi duole che non sia qui il luogo di ricordare più ampiamente i nomi di quella pleiade
di altri artisti, i quali onorarono nell'Ottocento ogni parte d'Italia.
Contemporaneamente alla Mostra dei Capolavori francesi era aperta a Roma nel
palazzo dell'Arte Moderna una bella esposizione dei disegni di D. Morelli. Si vedeva
con quanta cura egli preparava i suoi quadri, con quanto amore studiava dal vero,
non solo le figure, ma anche i partiti del panneggiamento.
Disegno: oggi si trascura o si falsa. Giova ricordare il monito di Leonardo: lo studio
dei giovani, i quali desiderano di perfezionarsi nelle scienze imitatrici di tutte le figure
delle opere di natura, dev'essere circa il disegno accompagnato dalle ombre e lumi
convenienti al sito dove tali figure sono collocate (Trattato della Pittura, pag. 48.
Carabba).
I Nazareni e i preraffaelliti
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La scuola artistica dei disgregatori della figura umana e della natura ha fatto e fa
ancora un certo chiasso, come chi grida per darsi coraggio nella solitudine oscura.
Essa si illude di aver ucciso il buon senso; ma questo risorge, come risorgono le
vigorose piante di un bosco dopo il passaggio della bufera.
Da molte parti provengono alla S. Sede gravi reclami contro le profanazioni dell'arte
sacra.
Pubblico alcune lettere e documenti significativi, compreso un inedito di Ugo Ojetti.
...In fatto di prerogative dell'arte, occorre ricordare che contro Dio e contro le anime
non esistono diritti di nessuno, e da nessuna parte; e chi contro Dio e le anime
invocasse l'arte e la modernità, a parte che darebbe prova, così facendo, di capire
poco di tutte queste cose, non solo, cioè, di Dio e delle anime, ma anche di arte e di
modernità: a parte tutto ciò — non farebbe che bestemmiare, anche se la sua
bestemmia restasse nell'incognito.
C’è chi sostiene che un’opera d'arte non perde la sua bellezza, perché è indecente;
ma aggiungiamo subito che quella è una bellezza che disonora l’arte, come certe
esibizioni disonorerebbero una donna; e coloro che la celebrassero cercherebbero
clienti non alla bellezza, ma alla turpitudine.
Quando, poi, si tratta di arte sacra, noi dobbiamo mettere l’accento su ciò che vuol
dire la parola “sacra”. A costo di passare per gente fuori di moda, noi sacerdoti,
soprattutto quando sopra le spalle ci pesasse diretta responsabilità di anime, siamo
in diritto, anzi in dovere, di respingere dalle soglie della chiesa tutto ciò che a Dio
non conduce.
Che dire, poi, di ciò che turbasse le menti e scandalizzasse i cuori? Meglio, cento
volte meglio, un’opera d’arte mancata che non un’anima perduta; meglio ignorare
una gloria della terra che ignorare la gloria di Dio.
Ma oggi, più che altro, il pericolo è costituito da coloro che, non sapendo
raggiungere in arte la bellezza, vogliono emergere con la mostruosità, con la
stranezza, emula della caricatura e dell'arte dei primitivi, con lo scempio delle cose e
delle persone sante.
Sembra che un folle rancore devasti l'uomo, che non riesce a raggiungere le altezze
del passato, ma è rancore contro “se stesso”; ed è la giusta pena per avere obliato,
o addirittura disprezzato i fini sublimi del dono di Dio. Orbene, a quel modo che non
ci è permesso di mutilarci fisicamente, così non ci è consentito di calunniarci con
l'arte e aiutar per tal via la disgregazione della persona umana.
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Siamo, o non siamo immagine di Dio? E se sì, chi può imbrattarla o deformarla? Più
ancora, chi può imbrattarla o deformarla nei Santi, nella Madonna o perfino in Quegli
che è speciosus forma prae filiis hominum?
Non si dica che vogliamo comprimere l'arte: sta di fatto che, nei secoli, anche con
tutte le giuste esigenze dei sacri canoni, chi più ha fatto lavorare l'arte è stata per
l'appunto la Chiesa; e oggi ancora, solo che certi artisti accettassero di non essere
altrettanti semidei, ma figli di Dio e come tali lavorassero con la luce della fede e con
l'ardore dell'amore cristiano, la casa di Dio sarebbe casa loro e l'arte sarebbe nello
stesso istante più umana e più cristiana.
(Dal discorso che l'Emo Card. A. Ottaviani tenne a Roma il 13 dicembre 1954 a
conclusione della Mostra Internazionale del Libro Mariano).
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lo spazio pel movimento e per la così detta libertà non le è mai mancato.
Del resto, finita la guerra, è certo che nella prima grande esposizione internazionale
d'arte la “Deposizione” di Guttuso, a Venezia o a Roma o a Berlino o, sia pure, a
Parigi, non figurerà. E questo vorrà dire che l'arte italiana e la religione da cui essa è
sbocciata, vivranno se schiette ed umane, ammirate e seguite, come sono da molti
secoli. La mostra di Bergamo è chiusa, ma sarebbe istruttivo leggere le relazioni
delle giurie per l'ammissione e per la premiazione d'un quadro siffatto. Istruttivo, spe-
cialmente in Italia, con Roma capitale...
Firenze, 1952.
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Il Vangelo di S. Luca ci parla del figlio traviato, che aveva abbandonato la casa
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Note:
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tratto da FEDE E ARTE, Rivista Internazionale di Arte Sacra, sotto la direzione della
Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, Città del Vaticano, Anno
III, Maggio 1955 - Numero V, Tipografia Poliglotta Vaticana, pag. 130-160.
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