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UN TAGLIO AI SUSSIDI PER RIDURRE LE TASSE

di Francesco Giavazzi e Fabiano Schivardi 06.09.2012, su www.lavoce.info

La riforma dei sussidi alle imprese si presta perfettamente a un'operazione di riduzione della spesa
accompagnata da una riduzione della tassazione senza l'esigenza di compensazioni. Un intervento così
disegnato non ridurrebbe l'ammontare di risorse disponibili per un sistema produttivo già fiaccato da
anni di crisi. Eliminerebbe invece trasferimenti improduttivi, consentendo una riduzione generalizzata
del cuneo fiscale che beneficerebbe tutte le aziende. Un articolo scritto da due degli autori del Rapporto
al presidente del Consiglio e ministro dell’Economia e al ministro dello Sviluppo.
A ogni proposta di riduzione o eliminazione di una voce di spesa pubblica è sempre possibile - anzi è
abitudine comune - opporre l'argomento che quella particolare attività è essenziale per il buon
funzionamento e la crescita della nostra società, e che quindi la sua eliminazione provocherebbe grave
danno. Non sempre - anzi molto raramente nel caso dei contributi alle imprese - queste argomentazioni
sono sostenute dall'evidenza empirica, cioè non sempre si trova evidenza a favore dell'ipotesi che quelle
attività siano davvero utili, ad esempio ad accrescere la produttività o l'occupazione. In particolare, in
molti casi l'evidenza empirica suggerisce che la cancellazione dei contributi consentirebbe di
risparmiare denaro pubblico senza produrre alcun effetto negativo. I SUSSIDI INUTILI Un piccolo
ospedale, con una scala inferiore a quella ottimale, ma vicino a comunità lontane da altri ospedali, è uno
spreco? La risposta dipende dai parametri di riferimento, ma deve anche rispondere alla domanda quale
sia l’effetto di quella particolare spesa sul benessere complessivo della società, non solo dei residenti di
quelle aree. Qualcuno infatti dovrà pagare quell’ospedale, e le maggiori imposte che ricadranno su tutti i
cittadini - non solo coloro che beneficiano dell'opera - potrebbero indurli a lavorare meno, investire
meno, comunque a spendere meno: l'effetto complessivo potrebbe essere nullo o addirittura negativo.
Non costruire quell’ospedale potrebbe generare risorse nette sufficienti per compensare gli abitanti di
quelle comunità. Insomma: seppure molti tagli siano individualmente criticabili e possano ridurre il
reddito di particolari settori della società, un taglio della spesa pubblica, se usato per diminuire la
pressione fiscale, e se accompagnato (ove necessario) da opportune redistribuzioni, può essere
espansivo. È vero in generale, ed è evidentemente tanto più vero quanto più si incide su capitoli di spesa
il cui effetto è piccolo o addirittura negativo anche a livello locale. Dal punto di vista della
quantificazione dell’effetto, la spesa per gli aiuti alle imprese rappresenta un caso speciale. Esiste una
consolidata base teorica per determinare se l’intervento dello Stato è opportuno e se è efficace.
Trasferimenti dello Stato alle imprese sono giustificabili solo in presenza di “fallimenti di mercato”,
cioè di situazioni in cui l’economia produce una quantità non ottimale di un certo bene, nel senso che il
benessere della società nel suo complesso migliorerebbe se si producesse una quantità diversa
dall’equilibrio di mercato di quel particolare bene. Un sussidio potrebbe allora contribuire a ristabilire
un livello di produzione socialmente ottimale. Un classico esempio è il finanziamento delle spese per
ricerca e sviluppo o gli incentivi per le rinnovabili. La presenza di un fallimento di mercato non è
tuttavia sufficiente per giustificare un sussidio. Innanzitutto i costi indiretti (amministrativi, o derivanti
dalla distorsione degli incentivi degli imprenditori, o dall’intermediazione di mafie), seppur difficili da
valutare, non debbono superare i benefici. Inoltre, per essere efficace, il sussidio deve generare attività
addizionali e non finanziare attività che l’impresa avrebbe intrapreso comunque. Anche da questo punto
di vista, la spesa per gli aiuti alle imprese costituisce un caso speciale. Esiste un corpo consolidato di
studi rigorosi che hanno analizzato l’efficacia di molti dei provvedimenti utilizzati e l’evidenza che ne
emerge è
chiara: gran parte dei trasferimenti alle imprese non generano alcuna addizionalità. L’indagine sulle
imprese industriali della Banca d’Italia nel 2005 domanda alle imprese percettrici di un sussidio agli
investimenti cosa avrebbero fatto in mancanza di quel sussidio. Il 74 per cento dichiara che avrebbe
fatto esattamente gli stessi investimenti. Del restante 26 per cento, il 17 per cento dichiara che
l’investimento sarebbe stato comunque fatto, ma in un periodo successivo. Solo il 2 per cento dichiara
che l’incentivo ha permesso di intraprendere un investimento che l’impresa non avrebbe potuto
sostenere a causa della mancanza di altre fonti di finanziamento. Esiste qualche caso in cui la spesa ha
effetti addizionali, come per il credito di imposta alla ricerca e sviluppo delle Pmi. Ma il messaggio
generale che emerge dall’analisi dei sussidi alle imprese è chiaro: sono in larga parte una voce di spesa
improduttiva. RIDURRE ANCHE LA TASSAZIONE La riforma dei sussidi alle imprese si presta
quindi perfettamente a un’operazione di riduzione della spesa accompagnata da una riduzione della
tassazione senza l’esigenza di compensazioni. Nel rapporto che abbiamo consegnato al presidente del
Consiglio, proponiamo di seguire esattamente questa strada. A fronte di ogni euro di sussidio eliminato,
il Governo dovrebbe garantire una riduzione di pari ammontare del cuneo fiscale - Irap e/o oneri sociali
che verrebbero fiscalizzati e coperti dai tagli dei trasferimenti. Un intervento così disegnato non
ridurrebbe l’ammontare di risorse disponibili a un sistema produttivo già fiaccato da anni di crisi.
Sostituirebbe trasferimenti improduttivi, spesso a favore di imprese con connessioni politiche piuttosto
che con buoni progetti imprenditoriali, consentendo una riduzione generalizzata del cuneo fiscale che
beneficerebbe tutte le imprese creando quindi un ampio consenso favorevole a questi interventi. Si
potrebbe anche prevedere di mantenere qualche forma di incentivazione, ma a condizione che si applichi
a situazioni in cui è evidente un fallimento di mercato e che sia erogata con strumenti di documentata
efficacia. Ma non c’è dubbio che l’utilizzo che più stimolerebbe la crescita è la riduzione della pressione
fiscale. Secondo diverse stime (si veda la Nota informativa del 24.7.2012 di Prometeia e Alesina,
Favero e Giavazzi 2012) un taglio di 10 miliardi di sussidi (il perimetro individuato nelle nostre
analisi) potrebbe portare nell’arco di 2-3 anni a un aumento del Pil fra lo 0,7 e l’1,5 per cento e a una
riduzione dei prezzi al consumo dell’1 per cento, contribuendo sia a migliorare la competitività delle
imprese italiane sia ad aumentare il potere d’acquisto delle famiglie. Riformare il sistema di sussidi alle
imprese non è facile. I centri di spesa sono molteplici. Quasi la metà dei sussidi sono gestiti dalle
amministrazioni locali, soprattutto le Regioni, che godono di ampia autonomia rispetto al Governo
centrale. Un provvedimento che incida profondamente sui sussidi alle imprese si scontra con gli
interessi particolari sia della politica, che si vedrebbe sottratta uno strumento di influenza, sia delle
imprese beneficiarie. Non è difficile prevedere una forte opposizione da parte di questi interessi. Ma se
si vuole procedere sulla strada di minore spesa per minore tassazione, questo è il capitolo di spesa da cui
iniziare. Sta a chi ha a cuore gli interessi generali del paese far sentire la propria voce.
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AIUTO AI PRECARI? NO, REGALO ALLE IMPRESE
di Alberto Martini 12.10.2012 su www.lavoce.info

Il Governo ha introdotto nuovi sussidi alle imprese per stabilizzare i precari, con 235 milioni di
stanziamento. Esperienze passate fanno temere che molte aziende vi facciano ricorso per assumere a
tempo indeterminato lavoratori che avrebbero stabilizzato comunque. Anzi, potrebbe crearsi un effetto
perverso per cui questa politica finisce per favorire il precariato, invece di combatterlo. Un semplice
meccanismo consentirebbe di valutare se i soldi stanziati per la misura sono ben spesi o se si tratta di
regali alle imprese. Serve solo un po’ di coraggio per applicarlo.
Il presidente del Consiglio ha dichiarato di recente: “Alcuni dei danni maggiori arrecati al paese sono
derivati dalla speranza di fare bene anche dal punto di vista etico, civile e sociale, ma con decisioni di
politica economica che spesso non erano caratterizzate da pragmatismo e valutazione degli effetti”. Se
Mario Monti cerca un esempio di politica pubblica animata dalla “speranza di far bene”, ma
accompagnata da motivati dubbi sulla sua efficacia, consideri una recente iniziativa del suo Governo che
introduce, nuovi sussidi alle imprese per stabilizzare i precari, con uno stanziamento di 235 milioni,
affidandone la gestione all’Inps. UNA MISURA CHE FA CONTENTI TUTTI (SOPRATTUTTO LE
IMPRESE) Sussidi alle imprese per la trasformazione di contratti a termine o co.co.pro in contratti a
tempo indeterminato sono stati istituiti in quasi tutte le Regioni e in molte province, a opera di giunte e
assessori di destra come di sinistra, utilizzando il più delle volte fondi europei. Tale popolarità non è
certo dovuta a evidenza sulla loro efficacia, della quale poco o nulla si sa (e sulla quale neppure ci si
interroga). La popolarità è semmai dovuta all’assonanza tra questa misura e alcune caratteristiche
deteriori del nostro policy-making: i sussidi consentono di spendere molto in fretta fondi residui; offrono
poco ma a molte persone; danno l’impressione che si stia “facendo qualcosa” per i precari e questo dà
grande visibilità all’assessore che li propone. (1) Soprattutto, consentono di vantare risultati concreti;
sono materiale ottimo per conferenze stampa: basta credere (o far credere) nell’eguaglianza “sussidio
erogato=precario stabilizzato”. E i giornalisti abboccano sempre, ripetendo pedissequamente “grazie
all’iniziativa dell’assessore tal dei tali, n precari hanno ora un lavoro stabile”. In aggiunta, le
organizzazioni datoriali gradiscono sempre i sussidi, anzi li gradiscono ancor più se sono un regalo per
qualcosa che avrebbero fatto comunque. Tutto bene, dunque? Ci sono buone ragioni per temere che
molte imprese richiedano il sussidio per stabilizzare i precari che avrebbero stabilizzato comunque.
Fatto ancor più grave, se gli incentivi fossero permanenti, si creerebbe un effetto perverso: le imprese
assumerebbero solo precari, per poi stabilizzarli ricevendo il “regalo”. Invece di combattere il
precariato, questa politica finirebbe per favorirlo. QUANTO COSTA REALMENTE STABILIZZARE
UN PRECARIO? La risposta dipende da quanti datori di lavoro sono “al margine” riguardo alla
decisione di stabilizzare un precario (per loro, cioè, il sussidio fa la differenza nella decisione) e quanti
avevano già deciso di stabilizzare (e quindi in aggiunta prendono i soldi e ringraziano). Se la percentuale
dei primi fosse il 90 per cento, il problema non sussisterebbe. Ma se fosse il 20 per cento, ciò
significherebbe che per ogni precario stabilizzato bisogna pagare altri quattro sussidi a vuoto. Con un
sussidio di 12mila euro e una percentuale di sussidi erogati a datori di lavoro “al margine” del 20 per
cento, stabilizzare un precario costerebbe di fatto 60mila euro.
QUALCHE EVIDENZA ESISTE, PERCHÉ NON USARLA? Un tentativo serio per capire quanto i
sussidi per la stabilizzazione dei precari siano efficaci è stato fatto in Piemonte, sui sussidi erogati dalla
provincia di Torino tra il 2007 e il 2008, per un totale di 10 milioni di euro. (2) I risultati della
valutazione mostrano un impatto pressoché nullo dei sussidi sul numero di precari stabilizzati: quei 10
milioni furono quasi interamente regalatialle imprese. E oggi i 235 milioni per sussidi di 12mila euro
che il ministro Fornero è chiamata ad erogare, tramite l’Inps, faranno una fine più gloriosa dei sussidi
torinesi di 5mila euro? Certo, l’ammontare è due volte e mezzo superiore, ma il mercato del lavoro è
peggiorato di molto dal 2007. Pare un tipico caso di “decisione di politica economica non caratterizzata
da valutazione degli effetti”. In altre parole, manca l’evidenza empirica sull’efficacia delle politiche,
perché nessuno pensa mai a produrla.
UNA SFIDA PER UN MINISTRO CORAGGIOSO Un modo per valutare gli effetti dei sussidi sulle
stabilizzazioni c’è, ed è di una semplicità estrema. Utilizzarlo richiede invece un po’ di coraggio, qualità
che, sappiamo, al ministro Fornero non manca. In primo luogo, occorre abbandonare il rito del click-day
sostituendolo con una più rilassata click-week, durante la quale non si blocca la presentazione delle
domande quando le risorse sono esaurite. (3) Se, come è probabile, le richieste dovessero superare
abbondantemente la disponibilità di risorse, si procede con la parte che richiede coraggio: si
sorteggiano i destinatari dei sussidi tra coloro che hanno fatto domanda, come si sorteggiano i pazienti
trattati con un nuovo farmaco in qualsiasi sperimentazione clinica; ma anche così come si sorteggiano i
beneficiari degli interventi per ridurre l’assenteismo degli insegnanti in India, o per indurre le famiglie
povere a far vaccinare i propri figli in Messico. Una volta sorteggiati i destinatari dei sussidi, e
annunciato ai non sorteggiati l’esito sfortunato della loro richiesta, occorre lasciar passare qualche mese.
Dopodiché una semplice estrazione dalla banca dati delle comunicazioni obbligatorie basterà per
calcolare la percentuale di precari effettivamente stabilizzati tra i sorteggiati e tra i non sorteggiati.
Questi ultimi rappresentano ciò che sarebbe accaduto ai sorteggiati se non fosse esistito il sussidio. Solo
se ci sarà una forte differenza positiva si potrà dire che la misura è efficace. Ma se tra i sorteggiati il 95
per cento venisse stabilizzato e tra i non sorteggiati si arrivasse al 75 per cento, non si potrebbe dire che
si tratta di un grande successo, perché ogni stabilizzazione costerebbe 60mila euro. TORNANDO A
MONTI Il pragmatismo e la valutazione degli effetti che il presidente del Consiglio ha acutamente
invocato dovrebbero servire proprio a questo: smettere di spendere ingenti quantità di denaro pubblico
nella “speranza di far bene”. Lo Stato italiano si appresta a spendere 235 milioni del nostro denaro. Con
l’uno per mille di quella cifra si può valutare in modo rigoroso se e in che misura sono soldi sprecati.
Al ministro Fornero chiediamo di far valutare se, dove e per quali tipi di imprese e di lavoratori sono
soldi ben spesi. Così la prossima volta chi vorrà combattere il precariato avrà qualche arma in più per
decidere, e non solo la speranza di far bene. (1) Sul rapporto tra valutazione e stile italiano di policy-
making si veda A. Martini e U. Trivellato, (2011) “Sono soldi ben spesi? Perché valutare l’efficacia
delle politiche pubbliche”, Marsilio, che sintetizza i lavori di una commissione del Consiglio italiano
delle scienze sociali. (2) V. Battiloro e L. Mo Costabella (2011), “Incentivi o misure di attivazione?
Evidenze
sull’efficacia di due interventi per contrastare il lavoro precario”, Politica Economica, n.2. Lo studio è
stato realizzato dall’Asvapp con il sostegno della Compagnia di San Paolo. (3) Con il click-day i sussidi
sono assegnati secondo l’ordine di arrivo: l’accesso telematico si interrompe una volta esauriti i fondi,
generalmente in poche ore, talvolta in pochi minuti.

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TAGLI AI SUSSIDI ALLE IMPRESE: QUALE EVIDENZA?


di Alessandro Sterlacchini 14.09.2012 su www.lavoce.info

Credo sia arduo trovare un esperto di politiche industriali che non sia d'accordo sul fatto che, in Italia, il
sistema di incentivi alle imprese vada riformato e, relativamente ad alcune tematiche, sicuramente
ridimensionato. Seppur in quantità limitata, visto che da tempo non sono ammesse dalle linee guida
della UE, vi sono ancora forme di sussidio che riguardano tipologie di investimento che poco hanno a
che fare con fallimenti del mercato. Vi è poi il problema delle sovrapposizioni e duplicazioni di
interventi dovute soprattutto all'agire di diversi livelli di governo (la Commissione europea, il governo
centrale coi suoi diversi ministeri e, infine, i governi regionali), ma anche alla possibile
complementarietà delle politiche (si pensi, ad esempio, al binomio innovazione-tutela dell'ambiente). Il
consenso tra esperti si riduce notevolmente quando si passa alla fase operativa: quali incentivi azzerare
del tutto e quali ridimensionare?
UNA QUESTIONE DI METODO
La ricetta proposta dal "Rapporto Giavazzi", ribadita nell'intervento di Francesco Giavazzi e Fabiano
Schivardi su lavoce.info del 6 settembre ("Un taglio ai sussidi per ridurre le tasse"), è la seguente:
tagliamo tutti i sussidi che, oltre a riguardare attività che non sono caratterizzate da fallimenti del
mercato, non generano addizionalità, vale a dire investimenti aggiuntivi da parte delle imprese
agevolate. La ricetta sarebbe di facile applicazione se esistesse una metodologia consolidata per
stabilire quali incentivi stimolano investimenti addizionali e quali no e se vi fosse un'ampia evidenza
empirica a sfavore. Giavazzi e Schivardi sostengono che è così quando affermano che "Esiste un corpo
consolidato di studi rigorosi che hanno analizzato l’efficacia di molti dei provvedimenti utilizzati e
l’evidenza che ne emerge è chiara: gran parte dei trasferimenti alle imprese non generano alcuna
addizionalità." In realtà, se si guarda al panorama internazionale, i risultati degli studi empirici sono
tutt'altro che univoci. La tabella che segue è tratta dal lavoro di García-Quevedo (2004) Do Public
Subsidies Complement Business R&D?, citato anche nel "Rapporto Giavazzi":
Poco più della metà degli studi effettuati a livello internazionale ha verificato la presenza di
addizionalità (complementarity, nella tabella). Un quarto ha concluso che il sussidio ha spiazzato gli
investimenti privati (substitutability): ciò significa che le imprese hanno investito in R&S le stesse
risorse che avrebbero investito comunque e, in termini brutali "si sono intascate" il sussidio. Infine, circa
un quarto degli studi ha prodotto risultati non significativi: ciò potrebbe indicare che l'investimento delle
imprese è aumentato quanto il sussidio (non c'è stata addizionalità, ma l'investimento delle imprese è
comunque aumentato). La tabella successiva è tratta da Parsons e Phillips (2007) An Evaluation of the
Federal Tax Credit for Scientific Research and Experimental Development, lavoro sempre citato nel
"Rapporto Giavazzi".
Gli studi indicati con il segno + hanno verificato la presenza di addizionalità (sempre nei sussidi o negli
investimenti pubblici in R&S), quelli con il segno - la presenza di spiazzamento e, infine, quelli
segnalati con 0 non hanno prodotto risultati univoci. È facile verificare che i segni positivi
sono largamente dominanti. Anche se si guarda alla più esaustiva (ma lunghissima) tabella 13 prodotta
nello stesso lavoro, i risultati confermano grosso modo quelli già evidenziati da García-Quevedo e,
quindi, smentiscono l'affermazione di Giavazzi e Schivardi.
LO STUDIO DI BANKITALIA E QUELLA DEL MINISTERO
Ma passiamo all'Italia. A questo riguardo Giavazzi e Schivardi citano i risultati della Banca d’Italia,
Indagine 2005 sulle imprese industriali. Questa "domanda alle imprese percettrici di un sussidio agli
investimenti cosa avrebbero fatto in mancanza di quel sussidio. Il 74 per cento dichiara che avrebbe
fatto esattamente gli stessi investimenti. Del restante 26 per cento, il 17 per cento dichiara che
l’investimento sarebbe stato comunque fatto, ma in un periodo successivo. Solo il 2 per cento dichiara
che l’incentivo ha permesso di intraprendere un investimento che l’impresa non avrebbe potuto
sostenere a causa della mancanza di altre fonti di finanziamento. [...] il messaggio generale che emerge
dall’analisi dei sussidi alle imprese è chiaro: sono in larga parte una voce di spesa improduttiva."
Relativamente all'Italia esistono parecchi studi che, invece, concludono in modo opposto. Evito di
elencarli e mi limito a riportare i risultati di un'indagine effettuata dal ministero dello Sviluppo
economico (2008; si veda al termine il riferimento completo), che non viene citata nel "Rapporto
Giavazzi".
Le percentuali di imprese che senza il sussidio o credito d’imposta non avrebbero effettuato
l'investimento con lo stesso ammontare sono quasi opposte a quelle precedentemente indicate: con
un'unica eccezione (comunque pari al 35 per cento) esse vanno dal 63 a più del 75 per cento. Con questo
non voglio affatto sostenere che i risultati dell'indagine della Banca d'Italia siano "sbagliati" e quelli del
ministero dello Sviluppo economico "giusti": probabilmente, come sempre avviene, le tipologie di
incentivo esaminate erano diverse, diversi i campioni di imprese considerate e diverso l'anno (o gli anni)
di riferimento. Infine, è possibile che le imprese intervistate dal ministero dello Sviluppo, che in parte o
in toto le ha finanziate, abbiano risposto in modo fin troppo accondiscendente. Anche ammettendo che
ciò sia avvenuto, è comunque difficile giustificare risultati così discordanti. Il punto è che, nel campo
della valutazione dell'efficacia delle politiche pubbliche, la presenza di risultati ampiamente discordanti
non è l'eccezione ma la norma. Sostenere che ciò non si applica al caso degli incentivi alle imprese è
scorretto. Proporre ingenti tagli di risorse pubbliche sulla base di risultanze di "un corpo consolidato di
studi rigorosi" che non esiste affatto è scorretto.
Riferimenti:
- José García-Quevedo (2004) Do Public Subsidies Complement Business R&D? A Meta-Analysis of the
Econometric Evidence, KYKLOS, Vol. 57 – 2004 – Fasc. 1, 87–102 - Ministero dello Sviluppo Economico
(2008) Strumenti automatici e valutativi nelle politiche di incentivazione alle imprese: n'analisi basata
sui casi degli incentivi alla ricerca e sviluppo (legge 46/1982-FIT) e del credito di imposta per le aree
sottoutilizzate (art. 8 legge 388/2000). Documento scaricabile dal sito
http://www.sviluppoeconomico.gov.it. - Mark Parsons and Nicholas Phillips (2007) An Evaluation of
the Federal Tax Credit for Scientific Research and Experimental Development, Department of Finance
(Canada), Working Paper 2007-08.
Concorrenza e Mercati

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LA POLITICA PER LE IMPRESE

di Francesco Daveri 13.11.2012

La misura più importante a sostegno delle imprese esistenti è l'Ace, con un incentivo fiscale al
rafforzamento della struttura patrimoniale delle aziende. Per le start-up innovative sono previste
deroghe al diritto societario e di carattere fiscale e contributivo. Il doppio effetto della svalutazione
fiscale.
Il presidente del Consiglio Mario Monti ha sempre fatto di rigore e sviluppo un binomio
inscindibile della sua azione di governo. Anche il primo decreto del suo governo, il “salva Italia”, si
intitolava significativamente “Misure per lo sviluppo, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici”. Come dire: lo sviluppo viene prima. Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, però,
non perde occasione per ricordare che il Governo Monti avrà anche salvato l’Italia dal baratro
dell’insolvenza, ma ha fatto troppo poco per le imprese.

COSA È STATO FATTO E COSA RESTA IN SOSPESO

Un modo pratico per capire se, dopo un anno di Governo Monti, in questo campo il bicchiere sia
mezzo pieno o mezzo vuoto è quello di ricordare i principali interventi a favore o contro le attività
economiche d’impresa, raggruppando le varie misure in base al loro effetto sulle imprese già
esistenti e su quelle che ancora non ci sono ma che potrebbero nascere. Da tenere presente che i dati
di demografia d’impresa dicono che in Italia non nascono poche imprese, rispetto agli altri paesi.
Piuttosto, di quelle nate ne muoiono tante e quelle che sopravvivono non diventano grandi. Questi
sono i grandi problemi del made in Italy.
Il Governo Monti ha prodotto una serie di interventi legislativi, alcuni dei quali all’interno di
pacchetti denominati “Sviluppo” o “Sviluppo-bis”. Ma è nel decreto “salva Italia” che si trovano la
maggior parte degli interventi in favore delle imprese, soprattutto di quelle già esistenti. La misura
qualitativamente più importante, anche perché già operativa sull’anno fiscale 2011 è l’Ace, l’aiuto
alla crescita economica (in inglese Allowance for Corporate Equity), introdotto dall’articolo 1 del
decreto legge 201/2011. La norma prevede un incentivo fiscale al rafforzamento della struttura
patrimoniale delle imprese con l’esclusione del rendimento normale del nuovo capitale investito e
degli utili reinvestiti dal calcolo del reddito d’impresa. Il rendimento normale viene fissato al 3 per
cento fino al 2013. L’Ace è, in linea di principio, un’ottima idea: il debito finanziario sul totale del
capitale proprio è molto più alto in Italia che in Francia e in Germania. Ma il capitale proprio
servirebbe, altrimenti è difficile finanziare gli investimenti nel capitale intangibile - ricerca,
software, competenze e risorse umane -, quelli che fanno la differenza nel mondo dell’information
technology. Le banche finanziano volentieri l’acquisto di un capannone che può essere dato in
garanzia, molto meno l’apertura di una software house. L’Ace è un’ottima idea, sia pure non nuova:
era già prevista nella legge delega fiscale di Tremonti, il quale, a sua volta, si era presto pentito di
avere incautamente cancellato la Dit (dual income tax) di Vincenzo Visco. Ma, dopo tutto, la
politica non è l’università: copiare o attuare una buona idea di un governo precedente non è un
delitto. L’Ace è però destinata ad avere efficacia per ora limitata: per funzionare ha bisogno che ci
siano gli utili e gli aumenti di capitale. Invece la redditività aziendale è al palo da quando
l’economia italiana è rientrata in recessione nel secondo semestre 2011, e così pure gli investimenti.
Ma quando (se?) l’economia ripartirà nel 2013, l’Ace sarà un utile volano di crescita addizionale.
A sostegno alle imprese già esistenti, sempre con il decreto “salva Italia”, è stata introdotta la tanto
auspicata svalutazione fiscale, rendendo interamente deducibile l’Irap sul costo del lavoro
dall’imposta sui redditi personali (Irpef) e da quella sul reddito delle società (Ires) relativi all’anno
2012. È una misura molto importante: in passato la deduzione era limitata solo al 10 per cento di
questo costo. Per ora, però, l’effetto del taglio dell’Irap non si vede perché è a valere sull’anno
2012. Quello che per il momento si vede è l’effetto dell’altra parte della svalutazione fiscale, che si
compone non solo delle misure che, riducendo il costo del lavoro, incoraggiano le esportazioni, ma
anche di quelle che scoraggiano le importazioni. E l’aumento dell’Iva al 21 per cento introdotto dal
governo Berlusconi a partire dal settembre 2011 colpisce i consumi e quindi le importazioni, ma
non i prodotti esportati. Gli ulteriori aumenti dell’Iva di 1 o 2 punti necessari a far quadrare i conti e
a rispettare gli impegni con l’Europa per il 2013 sono oggetto di discussione in Parlamento. Per ora,
dunque, ciò che si vede della svalutazione fiscale è quella che tutti, tranne qualche economista
pudico, chiamano stangata sui consumi – forse inevitabile, ma pur sempre stangata.
SEMPLIFICAZIONI E MISURE PER LE START-UP

Nei decreti successivi al “salva Italia” il Governo ha adottato una varietà di provvedimenti di
semplificazione amministrativa, contabile e fiscale che dovrebbero favorire l’inizio e la conduzione
della normale attività economica delle piccole imprese. Ma, come riportava Il Sole-24Ore nel suo
periodico monitoraggio sullo stato di attuazione effettiva delle riforme, i regolamenti per rendere
proporzionali al rischio dell’attività da verificare sono di là da venire e il regolamento
sull’autorizzazione unica ambientale - volto a ridurre gli oneri del rispetto della legge per le imprese
- è ancora in attesa di un’approvazione definitiva.
Nei provvedimenti più recenti (decreto “Sviluppo-bis” del 18 ottobre 2012) il Governo si è
ricordato delle start-up, delle imprese innovative non ancora nate e ha predisposto misure in loro
favore, sia in termini di deroghe in materia di diritto societario che di carattere fiscale e
contributivo. Se ne avvantaggiano le imprese che rientrano nella fattispecie delle start-up
innovative, cioè quelle che investono più del 30 per cento dei loro costi o produzione in ricerca o
che impieghino ricercatori o dottori di ricerca per più del 30 per cento dei loro occupati o ancora
che siano assegnatarie di diritti di proprietà industriali di varia natura.
Sempre con l’obiettivo di semplificare la vita economica delle imprese esistenti o potenziali, con il
decreto “cresci Italia” (insieme ad altre misure intese ad accrescere la concorrenzialità dei mercati)
sono diventati immediatamente operativi i nuovi tribunali specializzati per le imprese che hanno
competenza, anche in materia di marchi e brevetti. Una loro più efficace tutela è nell’interesse del
made in Italy, che vive (o muore) della commercializzazione e dell’appropriazione di idee.
Alle imprese che si internazionalizzano serve un istituto che dia un sostegno non protezionistico, di
servizi, all’esportazione: c’è in tutti paesi, ma in Italia l’Ice era stato cancellato per la sfiducia
dell’allora ministro dell’Economia Tremonti sulla possibilità di riformarlo. Il decreto “salva Italia”
lo ha re-istituito, ma non ha ancora trovato i fondi per farlo funzionare. Non serve un carrozzone di
Stato pieno di sedi in Italia, ma un organismo snello che accompagni l’internazionalizzazione delle
piccole e medie imprese italiane che vanno in mercati lontani. Per ora c’è solo il suo presidente,
Riccardo Monti, che ha recentemente dichiarato al Sole-24Ore di essere quotidianamente impegnato
a sollecitare lo sblocco degli “ultimi passaggi amministrativi e contabili” che rendano operativa la
rinnovata Agenzia. Con la ripresa del mercato interno non certo in vista, il nuovo Ice serve e in
fretta.

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