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Teatro Pirandelliano

Nel luglio del 1916, dopo il fortunato esito di Pensaci, Giacomino! Pirandello scriveva al figlio Stefano: "... La
commedia 'Pensaci, Giacomino!' ha avuto una serie di repliche con esito felicissimo e correrà certo la
penisola trionfalmente. Musco è entusiasta della parte... Ho preso l'impegno di scrivergli un'altra commedia
per il prossimo ottobre, e spero di mantenerlo, benché il teatro, come tu sai, mi tenti poco".
E in effetti Pirandello giunse al teatro relativamente tardi, dopo aver scritto alcuni romanzi e centinaia di
novelle, e quasi controvoglia. Tuttavia il teatro costituì, in qualche misura, lo sbocco naturale dell'arte
pirandelliana. Non solo perché all'epoca in cui Pirandello si dedicò precipuamente alla composizione
drammatica - gli anni intorno alla prima guerra mondiale - le novelle contenevano già un impianto teatrale
fatto di intensi, quasi frenetici dialoghi; ma anche perché tutto lo sviluppo della sua tematica artistica
conteneva un elemento di teatralità. Il concetto cardine del suo pensiero estetico, quello di umorismo - così
com'egli lo aveva elaborato nel saggio L'umorismo del 1908 - sfociava nel convincimento che la vita fosse
una buffonata, una finzione molto simile a quella che si svolge sul palcoscenico. Da questo punto di vista
appare assai poco accettabile la tesi esposta da Luigi Russo, secondo la quale: "Il teatro, succeduto nella
vita spirituale dell'artista quand'egli aveva in gran parte vuotato la sua anima e dato sfogo alle sue più
genuine ispirazioni, non poteva essere che una forma divulgativa o una complicazione intellettuale del
primitivo problema artistico".
E' indubbio che con il teatro Pirandello arricchisce, e quindi complica e in qualche modo appesantisce, la
sua tematica più genuina. Ma non si tratta di un mero procedimento tecnico, di una descrizione delle
novelle; si tratta, piuttosto, di una chiarificazione interiore che lo conduce a una dimensione creativa nuova
e più elevata, il cui perno è costituito dal rapporto tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, tra
normalità e anormalità. In questo senso, possiamo distinguere tre fasi nello sviluppo dell'opera drammatica
pirandelliana. Particolarmente importante per la comprensione del primo periodo che giunge fino al 1918 e
comprende commedie come Pensaci, Giacomino!, Lumíe di Sicilia, Liolà, Il berretto a sonagli - è Pensaci,
Giacomino!. Come scrive Mario Baratto:"L'individuo che vuol far apparire delle ragioni personali, più
meditate, non conformiste, accetta già, se si guardi bene, non solo di apparire, ma di essere anormale. Al
tipico si sostituisce allora l'originale, lo strano...".
Da una parte l'anormale diventa una sorta di ascesso che la società tende continuamente a riassorbire
come un male episodico: mentre esso è il prodotto costante della sua normalità... Dall'altra la psicologia
tesa e maniaca, la pazzia latente ed espressa, è una realtà interiore connessa a una condizione umana:
l'individuo è sempre insidiato da un conflitto interiore insanabile.
Il professor Toti, il protagonista diPensaci, Giacomino!, è il tipico personaggio pirandelliano di questo
periodo: un egocentrico piccolo borghese che non riesce ad acquistare consapevolezza storica della propria
condizione. Tuttavia, rispetto ai personaggi delle commedie più naturalistiche, d'ambiente siciliano, entra
qui un elemento dialettico: il farsesco, il comico diventa anormale e quindi si contrappone alla normalità
dell'ambiente, mettendola radicalmente in discussione. La conseguenza di questo dramma è però la
frustrazione dell'individuo, la sua impotenza ad agire. Questo si nota, per esempio, nell'ambito dei rapporti
sentimentali e sessuali. I personaggi pirandelliani cercano il paradosso, si assumono l'incarico di offendere a
ogni costo la sensibilità morale della borghesia, ma non sperimentano mai l'amore. Si limitano a una serie
di esercitazioni verbali intorno a che cosa potrebbe essere l'amore senza mai coglierlo. La seconda fase del
teatro pirandelliano - che giunge fino al 1927 e comprende le maggiori opere pirandelliane, dal Giuoco delle
parti ai Sei personaggi in cerca d'autore, da Enrico Quartoa Vestire gli ignudi - ruota intorno al problema del
rapporto con la realtà. Dice Pirandello: "La vita allora, che si aggira piccola, solita, tra queste apparenze, ci
sembra quasi che non sia davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza?
Come portarle rispetto?".
E' su queste domande che il teatro pirandelliano prende un nuovo respiro: esasperando cioè i conflitti tra
apparenza e realtà, fra normalità e anormalità, fra individuo e mondo esterno, che nelle commedie del
primo periodo dava luogo - per esprimerci in chiave psicoanalitica - a uno stato perenne di ansietà,
determinato dall'incapacità di interpretare tutte le percezioni che affluiscono dal mondo esterno, nella
seconda fase genera uno stato di schizofrenia. Cioè, il personaggio pirandelliano si chiude ermeticamente in
se stesso. La dialettica tra anormalità e normalità stessa si spezza; l'anormalità diventa sistema di vita,
incurante del rapporto col mondo. Il rapporto fra apparenza e realtà assume dimensioni tanto più tragiche
quanto più, come scrive Silvio D'Amico,"Pirandello rinnega addirittura il 'penso, quindi sono' di Cartesio: per
lui neanche pensare significa essere". Qui sarebbe lecito chiedersi: ciò non finisce col distruggere l'essenza
della grande poesia tragica, la nobiltà del dolore? Ma appunto qui vuole essere l'originalità del Pirandello
drammaturgo; appunto da questa impossibilità di una tragedia egli trae la più disperata delle tragedie, la
sua.
L'ultimo periodo del teatro pirandelliano - che, da Uno, nessuno e centomila giunge sino ai Giganti della
montagna - nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte. L'individuo pirandelliano, il
personaggio, scopre la sua inadeguatezza nell'affrontare la realtà; l'isolamento soggettivistico in cui opera
lo conduce continuamente allo scacco, anzi a una sconfitta che si verifica ancor prima della lotta.
Nella Favola del figlio cambiato, e ancor più nei Giganti della montagna, la coerenza ideologica dell'arte
pirandelliana si dissolve nell'ambiguità, in una sorta di grandioso sdoppiamento: mentre si eleva l'elegia
all'individualità destinata a sparire, condannata da forze cieche e brutali che la frantumano, entrano in
gioco, come protagonisti, entità collettive, personaggi corali ai quali spetta l'ultima parola. Nello stesso
tempo, si scioglie la contrapposizione fra arte e vita. L'arte, come momento privilegiato, è destinata a
sparire; ma forse potrà essere sostituita dalla creatività generale, cioè da un mondo che viva secondo ritmi
e leggi di armonia e di bellezza. Questa grande utopia è presente nelle parole con cui Stefano Pirandello, su
indicazione del padre morente, ricostruisce il finale dei Giganti della montagna: "Non è, non è che la Poesia
sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma
potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto come fantocci ribelli, i servi fanatici
dell'arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi
soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in se stessi".

IL TEATRO MODERNO E PIRANDELLO


dal sito del Liceo Norberto Rosa di Susa (TO)
La distinzione classica tra tragedia e commedia cade, insieme alla regola delle “tre unità”, già con
Shakespeare, ma è con la seconda metà del ‘700, e più ancora con l’800, che il testo teatrale si configura
nei termini di dramma moderno o dramma borghese.
L’esigenza romantica di adeguare l’arte alla vita si esercita anche nel teatro, così come la concezione di
realismo moderno si esprime anche nell’azione scenica: personaggi di ceto medio-basso diventano cioè
protagonisti di testi teatrali in cui si affrontano vicende “serie e problematiche”, determinando
quella “commistione degli stili” di cui parla l’autore di Mimesis, che già con il teatro diMolière avevamo
visto affacciarsi nella forma di un ancor semplice accostamento di stili.
Il teatro di Goldoni, riformando la Commedia dell’Arte, e ispirandosi a Molière, continua su questa strada
nell’ottica di un Teatro che trae alimento dal Mondo, come dice l’autore veneziano.
Con il teatro ottocentesco di Ibsen e Čechov, il dramma perde anche il suo carattere performativo (l’hic e
il nunc) e l’efficacia dialogica, proponendo personaggi che spesso rievocano il passato o sono prigionieri di
una condizione di incomunicabilità.
Dopo Pirandello, il teatro di Bertolt Brecht (anni ’30 – ’40) assume caratteri narrativi e didascalici ancora in
contrasto con la tradizionale valenza performativa del testo drammatico, mentre il Teatro
dell’Assurdo degli anni ’50 condivide con le innovazioni di Brecht l’effetto dello straniamento, perseguendo
però altri obiettivi: non più lo scuotimento delle coscienze e la stimolazione dell’intelligenza storico-sociale
del pubblico, bensì la libera creazione dissacrante e demistificante del reale nei suoi riti e convenzioni,
lo “choc”, come dirà Ionesco, dello spettatore messo di fronte all’assurdità grottesca della vita sociale.

Pirandello e la commedia tragica o “tragicommedia”


Il teatro di Pirandello denuncia a sua volta l’inattuabilità della distinzione tra tragedia e commedia.
Nell’articolo Menzogna del sentimento dell’arte del 1890, Pirandello scrive che i
Greci “poteronoserenamente contemplare ogni errore, cui deve sempre fatalmente seguire una catastrofe.
Noi sentiamo troppo, soffriamo troppo: la nostra vita è per se stessa drammatica, però non possiamo avere
la serenità di concepire il dramma, da che noi stessi vi siamo impigliati”.
L’irresolubilità della sofferenza, la sua ingiustificabilità e, al contempo, la sua costante coesistenza con la
vita dell’uomo contemporaneo, dice Pirandello, non permettono più la tragedia classica: il teatro tragico
greco, segnato dal sublime mitico e eroico, attraverso la catastrofe e la conseguente catarsi, compiva infatti
un atto purificatorio permettendo allo spettatore di “dare conto” della vicenda tragica e tornare alla vita
ricomposto nelle sue passioni e paure. Perduta l’armonia dei Greci, che dominava la sofferenza, l’uomo
contemporaneo, invece, vive una quotidiana tragicità senza però catarsi.
La vita di ogni giorno, cioè, si muove in un gorgo di sofferenza tanto da rimanerne irretita: sgombrato il
campo da ormai impossibili sublimità liberatorie, l’uomo consuma i suoi giorni in storie spesso banali, al di
là delle talvolta apparenti eccentricità, certo dimesse per estrazione sociale e ambiente, oscurate da una
pena soffocante che strozza in gola il grido di dolore.
A chi, poi, sarebbe ormai possibile levare tale grido? Non certo agli dèi che non esistono più.
Già con le sue prime prove teatrali, Pirandello testimonia il superamento, da un lato del teatro antico,
dall’altro del teatro borghese a lui precedente.
La morsa, atto unico del 1910, è la storia, consueta alla commedia borghese dell’800, di un adulterio, del
cosiddetto “triangolo borghese”. Giulia e Andrea, protagonisti dell’opera, benché la scoperta, fatta da
Andrea, del tradimento di lei non sia uscita dalle mura di casa, vivono un dramma inespresso e teso in un
inarrestabile crescendo: Andrea non deve difendere il suo onore davanti all’opinione pubblica ignara, né
dice alla moglie di sapere, ma le sue sempre più incalzanti e feroci allusioni stringono Giulia in una morsa
soffocante che la porterà al suicidio.
Il dolore, quindi, in Pirandello, non è né giustificabile nell’armonia dei Greci, né è attenuato nella
malinconica sofferenza della commedia borghese dell’800.

L’ironia tragica e l’umorismo


In un articolo del’20, Ironia, Pirandello riflette sul suo umorismo e sul grottesco:
“…sissignori, anche una tragedia, quando si sia superato col riso il tragico attraverso il tragico stesso,
scoprendo tutto il ridicolo del serio, e perciò anche il serio del ridicolo, può diventare una farsa. Una farsa
che includa nella medesima rappresentazione della tragedia la parodia e la caricatura di essa, ma non come
elementi sopramessi, bensì come proiezione d’ombra del suo stesso corpo, goffa ombra di ogni gesto
tragico”.
L’umorismo pirandelliano , nel superamento del comico attraverso il tragico, che pur continua a
racchiudere il primo, disvela, attraverso il riso, la sofferenza della vita, permettendone, non certo la
giustificazione, ma, quanto meno, una sorta di decifrazione.
Tragedia e commedia si scambiano i ruoli in una rappresentazione dai toni talvolta grotteschi.
E’ ancora il triangolo borghese ad essere oggetto di riscrittura denunciando i fantasmi dei convenzionalismi
sui quali poggia la società;
Del 1916 è Pensaci Giacomino!, commedia in cui il vecchio professor Toti decide di sposare la povera
ragazza Lillina, incinta del giovane Giacomo, non solo e non tanto per bontà e pietà, quanto per prendersi
una rivalsa sulla società e lo Stato che, con i suoi magri proventi, non gli avevano permesso di farsi una
famiglia: adesso, quando Lillina resterà vedova, lo Stato dovrà devolvere la sua pensione alla giovane.
Ma il ruolo di marito lo rivestirà Giacomino mentre il vecchio professore non si cura delle corna che, dice,
sono “segnate al passivo in precedenza! Ma non per me: se n’andranno in testa alla mia professione di
marito, che non mi riguarda se non per l’apparenza. Io anzi vedrò di far tanto che il marito, come marito, le
abbia”.
Stessa tematica, ma esito opposto nel Berretto a sonagli (1916) in cui Ciampa, il marito tradito, sopporta
serenamente l’adulterio fin tanto che tutti ne sono all’oscuro, ma, di fronte allo scandalo, pretende che la
moglie sia dichiarata pazza pur di salvare il suo “pupo”, il suo burattino che deve ricoprire il ruolo di marito
rispettabile.
Ne Il gioco delle parti del ’18 Leone Gala, il marito abbandonato dalla moglie, pare accettare i suoi
tradimenti in forza di un assoluto controllo razionale sui sentimenti, svuotandosi di ogni passione nel
rispetto maniacale dei ruoli, il suo e quello dell’amante. Ma l’equilibrio così raggiunto, lo consegna ad una
solitudine fredda e disperata senza vie d’uscita.

Il Teatro dopo il ‘21


I Sei personaggi in cerca d’autore del ’21, Ciascuno a suo modo del ’24 e Questa sera si recita asoggetto del
’29, costituiscono la trilogia del Teatro nel teatro, o dei “drammi da fare”.
Nei Sei personaggi in cerca d’autore i personaggi, rifiutati dal loro autore che non ha voluto portarne a
compimento la realizzazione, giungono inaspettati, tra lo sconcerto generale, sulle scene di un teatro dove
un capocomico sta provando con i suoi attori un dramma proprio di Pirandello.
Vivi di una vita “eterna ed immarcescibile”, quella dell’arte, i sei personaggi chiedono, implorano dagli
attori la loro realizzazione: condannati all’incompletezza della loro trama, il Padre, la Madre, il Figlio, la
Figliastra, il Ragazzo e la Bambina sperano che gli attori possano comprenderli e dar loro vita sulla scena.
Ma personaggio ed attore non sono mai identificabili, e il divario tra ciò che il personaggio, ormai vivo di
vita propria, una volta uscito dalle mani dell’autore, sente di essere, e ciò che l’attore rappresenta, è
incolmabile.
La frantumazione dell’io in centomila, tocca qui anche la realizzazione artistica, rendendo impossibile la
messa in scena del dramma.
Sempre del ’21 è l’Enrico IV, dramma della lucida pazzia di chi sa che il vero pazzo è colui che “si maschera
di ciò che gli par d’essere e non è”, e non colui che ha compreso l’assoluta inautenticità di ogni esistenza.
Ma la maschera che Enrico IV si è imposto ricoprendo un ruolo già tracciato dalla storia e, quindi, protetto
dall’imprevedibilità del fluire della vita ancora non vissuta, non regge all’ondata inarrestabile del bisogno di
vivere: il protagonista, infine, è travolto dalla “fame” di vita e si slancia su Frida, la figlia della donna un
tempo amata.
Come per Leone Gala, così per Enrico IV il controllo sulla vita raggiunto o a costo di un’assoluta razionalità,
o con la fuga dall’imprevedibilità della vita stessa, è destinato al fallimento: entrambi rimangono
abbandonati all’asfittica fissità della loro forma.
Il dramma Ciascuno a suo modo vede l’intersecarsi di tre piani prospettici: quello della vita reale, costituito
dal tradimento di Amelia Moreno con il barone Aldo Nuti, ai danni del di lei fidanzato, il pittore Giacomo La
Vela che per questo si è ucciso, quello della rappresentazione scenica della vicenda reale cui assistono i veri
protagonisti della storia sopravvissuti, e, infine, quello degli spettatori.
Durante la rappresentazione cui stanno assistendo, Amelia e Aldo si levano indignati nel vedere gli attori
che li impersonificano abbracciarsi: non può essere, dato l’odio che li anima l’uno per l’altro, ritenendosi
responsabili della morte del La Vela.
Ma una volta sul palco, dove sono saliti per manifestare il loro dissenso, sono come catturati dalla malìa
della finzione e si abbracciano a loro volta.
L’arte, commenta uno spettatore, facendosi interprete del pensiero dell’autore, ha anticipato la vita, l’ha
prevista. Realtà e finzione, ancora una volta nell’opera di Pirandello, si scambiano i ruoli e mettono in crisi
la rappresentazione teatrale tradizionale; l’intreccio dei diversi piani, persone reali, attori e spettatori, porta
a compimento quelle innovazioni drammaturgiche che i Futuristi del primo novecento avevano introdotto,
infrangendo la netta distinzione tra platea e palcoscenico.
La terza commedia della trilogia del teatro nel teatro, Questa sera si recita a soggetto (1929), affronta il
problematico rapporto tra attori e regista, con il coinvolgimento del pubblico.

Nel ’25 Pirandello aveva assistito, in Germania, ad una messinscena del suo Sei personaggi, a cura del
regista tedesco di scuola espressionista Max Reinhardt, ed è proprio contro tale tipo di regia che Pirandello si
scaglia in un articolo del ’29 sulla rivista La fiera letteraria, e nella commedia ora esaminata, attraverso la
figura del regista Hinkfuss (il dottore zoppicante?).
La regia tedesca del periodo espressionista prevedeva l’eliminazione di qualsiasi elemento naturalistico,
scenografie essenziali ed astratte, ed una recitazione, da parte degli attori, spersonalizzata e straniante.
Il testo dell’autore, poi, perdeva valore a vantaggio della libera e soggettiva interpretazione datagli dal
regista. Pirandello, rispetto a queste posizioni, condivideva il rifiuto per le scenografie sovraccariche ed
eccessivamente decorative, così come la libertà della messinscena attuata dal regista, ma, a patto che
quest’ultimo, sia pure ora con rappresentazioni più essenziali, ora più dettagliate ed articolate, esprimesse
lo spirito dell’opera, non lo stravolgesse.
La “trovata” scenica non doveva essere completamente distaccata dal testo, fine della rappresentazione,
bensì strumento interpretativo, illuminante lo spirito del testo. Agli attori, poi, Pirandello raccomandava
di “sentire interiormente, immedesimarsi nel personaggio” .
La trama della commedia si dipana sul contrasto, tra attori e regista, sulla maniera di mettere in scena una
novella di Pirandello, Leonora, addio, che il regista Hinkfuss vuole rappresentare come spettacolo a
soggetto, ovvero senza copione prestabilito.
Fin dalle prime battute, dalla platea, dalla galleria, gli spettatori intervengono chiedendo che si ponga fine
alle liti che si sentono sul palcoscenico, dietro il sipario chiuso.
Il regista gioca con le scenografie, riducendo il testo della novella, carico invece di passione e pietà, a quadri
spettacolari.
D’altro canto gli attori reclamano un testo scritto da seguire, non l’improvvisazione, e reclamano la
possibilità di esprimere il loro talento e la loro passione.
La vicenda da rappresentare racconta della gelosia morbosa di Nico Verri per la moglie Mommina di cui
vuole dimenticare un passato troppo libero nella casa della madre che amava dare facile accoglienza a
giovani ufficiali.
Nico Verri, bruciato dal pensiero della vita passata di Mommina, prima che fosse sua, la chiude in casa,
impedendole di truccarsi e perfino di pettinarsi.
Ma un giorno, nel paese giunge una sorella di Mommina, venuta con una compagnia di attori per recitare Il
Trovatore. I ricordi della giovinezza spensierata riaffiorano in lei e, mentre sta cantando alle sue due
bambine la romanza Leonora, addio, sopraffatta dalla pena, muore. L’attrice che impersona Mommina
sotto la guida del regista Hinkfuss, partecipa con tale forza alla vicenda del suo personaggio da cadere a
terra colta da malore. Gli attori accorrono tutti premurosi e l’attore brillante, rivolgendosi al regista,
dice: “Ecco le conseguenze! Ma noi non siamo qua per questo, sa! Noi siamo qua per recitare, parti scritte,
imparate a memoria. Non pretenderà mica che ogni sera uno di noi ci lasci la pelle!”
Di contro al senso di pietà che l’autore Pirandello esprime per il suo personaggio, e per l’attore che in esso
si è identificato, c’è la freddezza del regista che aveva presunto di poter fare a meno dell’autore.
La “tragedia in tre atti” Diana e la Tuda del ’26, ripropone il tema tipico della poetica pirandelliana
consistente nel dualismo forma – vita.
L’antico mito di Pigmalione rivive qui rovesciato nella figura del giovane scultore Sirio Dossi che sacrifica la
vita, la giovane modella Tuda, alla forma, alla perfezione eterna ed astratta dell’arte, la statua di Diana.
Nel sogno di immortalare la bellezza pura, lo scultore estenua, sottoponendola a pose continue, la giovane
Tuda, e la sposa solo per averla sempre a disposizione nel suo atelier.
A tale inumano comportamento si oppone il vecchio maestro Nono Giuncano che ripudia tutta la sua
passata esistenza, spesa a rincorrere la perfezione di statue “immobili e perfette”, fino ad arrivare a
distruggere ogni sua opera in nome della perfettibilità della vita.

Ma anche il desiderio di Giuncano è destinato al fallimento: quando Tuda, resasi conto della sua condizione
di puro strumento nelle mani dello scultore che l’ha sposata senza mai esserle marito, gli offre il suo amore,
Giuncano teme di contaminare con il suo corpo ormai “logoro e vecchio” la bellezza e perfezione della vita
che è in lei ancora giovane.
Tuda, rifiutata da entrambi per opposte ragioni, si slancia verso la statua di Diana che l’ha immortalata
nell’arte, quasi volesse identificarsi con essa. Dossi, temendo che voglia distruggere la ragione della sua vita
di artista, minaccia di ucciderla, ma Giuncano, che pure aveva permesso che Tuda estenuasse la sua vita per
dare alimento all’arte, ora si ribella e, prendendo Dossi alla gola, lo strangola.
Il sogno di entrambi si rivela irrealizzabile, sia quello di chi ha voluto ridurre la vita a pura ed eterna forma
perfetta, sia quello di chi ha inseguito, nella disperazione di una vecchiaia inarrestabile, la pienezza della
vita pura.
Diverso il modo di trattare il rapporto arte – vita nella commedia Trovarsi del ’32.
Pensata per Marta Abba, la figura della protagonista, Donata Genzi, è quella di un’attrice consumata che ha
deciso di votarsi all’arte superando le angustie di un’unica esistenza possibile e vivendo, invece, la
molteplicità delle innumerevoli possibili vite date all’attore.
L’arte è “l’unica possibilità di vivere tante vite (…) Perché finzione? No. E’ tutta vita in noi. Vita che si rivela
a noi stessi. Vita che ha trovato la sua espressione”;
e ancora, dirà l’attrice, “Vero è soltanto che bosogna crearsi, creare! E allora soltanto ci si trova”.
Qui l’arte non è la forma che uccide la vita, bensì una forma di vita più alta, molteplice e creativa.
Il Teatro di miti
Chiudiamo questa sintesi sull’opera teatrale di Pirandello con un cenno al teatro di miti rappresentato dalle
tre commedie La nuova colonia (1928), Lazzaro (1928) e l’incompiuto I giganti della montagna.
L’autore che aveva smascherato la verità attraverso la denuncia dell’inconsistenza relativistica delle
apparenze, torna ora all’Assoluto della coscienza archetipica dei miti intesi quali verità profonde ed
ancestrali del senso della vita: ne La nuova colonia il desiderio di instaurare su un’isola vulcanica la giustizia
sociale, fallisce in un apocalittico cataclisma a cui sopravvive un unico valore, quello della maternità.
In Lazzaro il mito celebrato è quello della religiosità, della fede, ma non fondata su precetti rivelati e
rinuncia, bensì sulla percezione della sacralità della vita suggellata dalla scoperta di un Dio che è l’“eterno
presente della vita”.
L’opera incompiuta I giganti della montagna, infine, riflette sul mito dell’arte: puro spirito, rappresentato
dal mago Cotrone, e pura materialità, rappresentata dai giganti, sono entrambi lontani dall’arte dell’attrice
dai capelli fulvi , Ilse.
La sua rappresentazione della Favola del figlio cambiato davanti al popolo, pur pregna di umanissimi
sentimenti, non è capita dalla folla che, con brutale violenza, uccide Ilse, facendola a pezzi.
“La tragedia della poesia in questo brutale mondo moderno”, come Pirandello definisce questa sua opera
in una lettera a Marta Abba, si conclude con una sorta di rito dionisiaco che, attraverso lo smembramento
dell’arte, pare preludere ad un’ipotetica rinascita.

IL “CAOS” CREATIVO: LA RIVOLUZIONE TEATRALE DI PIRANDELLO


dal sito Il Paese Possibile
doc http://www.ilpaesepossibile.org/public/file/0510_cultura 1.pdf

Siamo nel 1921, al Teatro Valle di Roma, in data 9 maggio: il pubblico in sala non sa ancora cosa sta per
accadere, né di quale enorme portata sia l’opera che verrà messa in scena quella sera.
Fatto sta che, davanti ai loro occhi increduli, molte persone assistono al dramma principale firmato da Luigi
Pirandello, una delle figure più importanti in campo letterario, in Italia e nel mondo: “Sei personaggi in
cerca d’autore”.
Questo straordinario artista, nato nei pressi dell’attuale Agrigento (chiamata all’epoca Girgenti), viene alla
luce in una casa situata nella contrada “Caos”, curiosità che è stata da sempre ricondotta al caos creativo di
Pirandello, secondo la convinzione di un destino stabilito.
E la grandissima energia creativa porta l’autore a scrivere opere destinate a rivoluzionare i canoni letterari
del tempo e ad incidere in maniera profonda sul pensiero e sulla società; titoli come “Uno, nessuno e
Centomila” o “Il fu Mattia Pascal”, unitamente ad una produzione infinita di novelle e di romanzi, capaci di
dipingere con grande maestria vizi e virtù dell’epoca e di aprire nuovi orizzonti alla riflessione, attraverso
un’incredibile analisi psicologica dei personaggi, fanno di questo scrittore un mostro sacro della letteratura
di sempre.
Ma a questa straordinaria e smisurata produzione narrativa, Pirandello ha aggiunto un intenso e
appassionato lavoro nel settore che lo ha consacrato definitivamente, vale a dire il teatro: e in quella che
viene definita la “terza fase” del teatro pirandelliano, si impone il lavoro “Sei personaggi in cerca d’autore”,
un dramma che incarna al massimo grado la volontà di abbattere la “quarta parete”, vale a dire la
separazione invisibile, meramente concettuale, che separa il pubblico dal palcoscenico.
L’opera in questione, infatti, è talmente rivoluzionaria da sconcertare la gente in sala, la quale reagisce al
tutto con bordate di fischi e gridando “Manicomio! Manicomio!”.
La trama è caratterizzata dalla presenza di una compagnia teatrale intenta a rappresentare un altro lavoro
di Pirandello, “Il Giuoco delle parti”, ma che è interrotta dall’entrata in scena di sei personaggi, i quali
chiedono agli attori di rappresentare un’altra storia, quella che riguarda loro: essi infatti raccontano di
essere stati creati e poi abbandonati da un autore.
Si tratta della prima opera della trilogia “Il teatro nel teatro”, e sebbene il dramma non sia stato un
successo come consenso da parte del pubblico alla sua prima uscita, lo è invece stato riguardo l’obiettivo di
coinvolgere le persone in sala, chiamate a partecipare allo spettacolo senza limitarsi a
fruirlo passivamente.
Solo con l’edizione del 1925, in cui Pirandello si serve di una premessa per spiegare tematiche e intenti
dell’opera, questo lavoro diventa anche un grande successo di pubblico.
La fama dell’autore siciliano diventa in breve travolgente, fino a condurlo al massimo riconoscimento nel
campo letterario, cioè l’assegnazione del Premio Nobel nel 1934: la motivazione che si legge è:
“Per il suo coraggio e l’ingegnosa ripresentazione dell’arte drammatica e teatrale”.
“Sei personaggi in cerca d’autore” è la sua opera teatrale più rappresentativa, la “summa” della sua arte,
una sorta di manifesto della sua infinita creatività: è ciò che lo proietta di forza tra i grandi maestri del ‘900,
originando quella coscienza della scomposizione e quella visione “teatrale” (e a volte paradossale) della vita
che, ancora oggi, nel linguaggio comune, si chiama “pirandelliana”, e che sa tanto di Caos.

Ferdinando Morabito

La critica degli uomini di teatro e del pubblico


Testo fornito da M. Sabatiello - Lestizza (UD) - fonte imprecisata

I rapporti di Pirandello con i capocomici:


Marco Praga e Virgilio Talli

In due drammi di Pirandello (Sei personaggi in cerca d’autore e Questa sera si recita a soggetto) il
capocomico assolve a un ruolo centrale.
La circostanza allude senza dubbio alla funzione determinante del regista nella messa in scena, visto che le
scelte di questo mediatore fra autore e pubblico sono destinate a pesare in modo decisivo sul risultato.
Fra le testimonianze emerse di recente si impongono gli scambi di lettere intercorsi con due uomini dello
spettacolo, Marco Praga, drammaturgo e capocomico e Virgilio Talli, attore e capocomico. Perciò pare
ragionevole assumere i rapporti dei due con Pirandello come indicativi di una più ampia casistica che qui
non si può considerare nella sua interezza per ragioni di economia.
Il rapporto con Praga si rivela determinante in un momento cruciale della carriera di Pirandello, nel
trapasso verso la maturità dell’autore.
Si tratta infatti di Se non così… (1915), titolo provvisorio di una commedia andata in scena a Milano nel
1915, poi ripresa a Roma nel 1919 con il titolo definitivo La ragione degli altri.
Praga prende a commentare il testo, già sotto forma di copione, in una lettera del 16 marzo 1915, invitando
l’autore a venire a Milano prima della rappresentazione,
"per assistere, almeno, oltre alla recita, alle ultime due prove" (Pirandello, Maschere nude: I, 146).
Il richiamo al carattere specifico del testo teatrale culmina in una lettera di poco successiva (4 aprile) che
critica la forma del dialogo: "Tutti parlano a mezze frasi, a frasi interrotte. Qualche volta bisogna fare uno
sforzo per capire. E il pubblico tali sforzi non li fa" (Pirandello, Maschere nude: I, 147).
Per spiegarsi, Praga ricorre a un suggerimento pratico: "Rileggete la scena delle due donne al 3° […]
Rileggete quella scena ad alta voce. Recitatela. Sentirete".
Il fiasco sperimentato in teatro alla prima milanese del 19 aprile 1915 conferma le buone ragioni di Praga
che, più avanti (4 dicembre 1915), torna a ribattere con la solita schiettezza, scrivendo a Pirandello:
"Ammiro oggi Se non così come lo ammirai quando lo lessi. Ma dal punto di vista teatrale. Come "teatro"
non può interessare, non può prendere, non può convincere, sia pur recitato nel modo migliore, con gli
interpreti migliori. È scarno, è scheletrico, è oscuro, manca di sviluppo nel dialogo. […] Se non così è da
rifare in gran parte, è da riscrivere. Bisogna mettere un po’ di polpa su quelle ossa" (Pirandello,Maschere
nude: I, 149-150).
Dunque letteratura e teatro obbediscono a leggi distinte, sicché un buon testo letterario può risultare
inadatto alla scena. Gli argomenti di Praga, divenuti ancor più persuasivi dopo l’insuccesso dello spettacolo,
toccano sul vivo Pirandello.
Egli si piega alla necessità della riscrittura, riprendendo in una lettera al figlio Stefano (3 gennaio 1916)
l’espressione dell’interlocutore, prova della resa alle ragioni altrui: "[…] ho un po’ rimpolpato il Se non così
che andrà in scena in quaresima a Roma" (Pirandello, Maschere nude: I, 151).
Non meno efficace risulta l’intervento di Virgilio Talli sulla stessa commedia che, in una lettera del 30
agosto 1917 indirizzata a Pirandello, conferma dal suo punto di vista le perplessità dell’uomo di scena con
una conclusione inequivocabile:
"Il teatro è teatro; la parte didascalica illustrativa dei sentimenti che animano le sue figure non sempre è
rendibile dall’attore" (Pirandello, Maschere nude: I, 155).
Come se non bastasse, Talli allarga la sua critica a un’altra commedia che Pirandello gli ha sottoposto: "Così
è… se vi pare, ella non lo crederà, è cosa pericolante dalla prima all’ultima scena. Se il pubblico non capisce
il principio… guai!".
L’autorevolezza degli interlocutori, l’efficacia delle argomentazioni rese persuasive dal fiasco di Milano
segnano profondamente Pirandello. Ne deriva una vera e propria lezione di critica applicata al teatro di cui
l’autore non sembra essersi più dimenticato.

I rapporti di Pirandello con gli attori: Angelo Musco, Ruggero Ruggeri e Marta Abba

La scoperta degli attori da parte di Pirandello è tardiva ma fruttuosa. I primi atti unici sono infatti
un’esperienza di carattere letterario, tanto che non risulta che egli abbia partecipato alle prove o alle
messinscene.
Il contatto vero e proprio con il teatro, sollecitato da Praga, comincia in realtà con un testo
dialettale, Pensaci, Giacomino!.
L’interpretazione memorabile che Angelo Musco dà della commedia, scritta per lui da Pirandello, conferma
l’attrazione per l’attore siciliano, capace di volgere le situazioni comiche in drammatiche e viceversa. Non è
in questione una simpatia personale, piuttosto emerge una ragione d’arte, giustamente rilevata da
Alessandro D’Amico (Pirandello, Maschere nude: I, 272): "Si direbbe che, in Musco, veda incarnata la sua
teoria sull’umorismo".
Di qui la programmazione del lavoro dialettale in funzione dell’attore che lo ispira (Liolà, La patente, Il berretto
a sonagli), senza che questa predilezione escluda peraltro contrasti assai aspri: per esempio, a proposito
delle mancate repliche di Liolà. Tuttavia l’inevitabile ricomposizione delle relazioni personali conferma
l’intesa che distingue l’autore e l’attore.
Del resto almeno in un caso il procedimento è verificabile. Una lettera di Musco dell'11 marzo 1917,
indirizzata al capocomico Nino Martoglio ma rivolta a Pirandello (Pirandello, Maschere nude: I, 627 nota 1),
chiede tagli significativi e modifiche del copione di 'A birritta cu 'i ciancianeddi (Il berretto a sonagli).
Ora proprio questi interventi, prontamente effettuati, vengono mantenuti da Pirandello dopo la prima (27
giugno 1917), in occasione delle ristampe dell’edizione italiana (1918, 1920, 1925): a conferma che l’autore
si era persuaso della bontà delle critiche dell’interprete, facendole proprie in modo definitivo.
Quando si allenta la collaborazione con Angelo Musco, compare entro l’orizzonte di Pirandello un altro
mattatore.
Ruggero Ruggeri svolge un ruolo complementare all’attore siciliano per il teatro in lingua italiana.
L’intesa non è immediata e comincia in negativo nell’aprile 1917, con il rifiuto di Ruggeri di recitareCosì è
(se vi pare), giudicando la sua compagnia "del tutto inadatta" alla commedia.
Un mese dopo però egli accoglie con entusiasmo Il piacere dell’onestà, con una decisione che segna una
svolta per ambedue gli interlocutori. Lo stile razionale e misurato dell’interpretazione di Ruggeri si adatta
efficacemente al linguaggio delle commedie di Pirandello, costruite per l’appunto secondo un impianto di
logica serrata.
Di qui il ruolo determinante di Ruggeri che si rivela col tempo l’attore pirandelliano per eccellenza, come
dimostra il numero delle esecuzioni dei drammi principali del suo repertorio: in totale, egli recita 285
volte Il piacere dell’onestà, 318 volte Enrico IV. Nemmeno in questo caso però si tratta di adesione passiva.
Per esempio, Ruggeri propone di alleggerire il primo atto del Piacere dell’onestà e di rafforzare il secondo,
con una richiesta che Pirandello si affretta ad esaudire.
Si capisce dunque che Pirandello più tardi, annunciando per lettera a Ruggeri l’Enrico IV (21 settembre
1921) ancora da scrivere, si diffonda in una minuziosa esposizione del piano di lavoro, quasi cercando
un’approvazione preventiva.
L’ultimo periodo della carriera di Pirandello vive nel nome di una grande attrice, Marta Abba (1900-1988). A
lei sono dedicati esplicitamente ben cinque drammi (Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, La
nuova colonia, Come tu mi vuoi, Trovarsi).
Si tratta di un amore legato al teatro, ricco di stimoli e di sollecitazioni.
Marta Abba è una musa affascinante che al suo ammiratore ispira l’opera, obbligandolo ad affinare
l’indagine sia indirettamente, attraverso le numerose lettere a lei indirizzate, sia nella concreta invenzione
di lavori concepiti per un’attrice che sa interpretarli magistralmente.
Fra questi drammi significativo appare Trovarsi (1932), che consente a Pirandello di ripensare i problemi
del teatro attraverso l’ottica di un’attrice in attività.
Così il caso di rispecchiamento della realtà, presentato nel lavoro, si giova della singolarità di uno sguardo
femminile.
A questo punto il rapporto fra Pirandello e gli attori, limitato al caso di alcuni protagonisti, si presta a
qualche considerazione di carattere generale, perché la scrittura di Pirandello si configura costantemente in
progress. Le varie edizioni a stampa dell’opera dimostrano che l’autore tiene conto, strada facendo, dei
suggerimenti ricavati dalla partecipazione alle prove o dalla visione degli spettacoli. Perciò si può dire, in
definitiva, ricavati da quella lettura critica applicata che deriva anche dal gesto dell’attore.

I rapporti di Pirandello con il pubblico

L’importanza del pubblico per Pirandello è dichiarata dal ruolo centrale che l'autore gli riserva nella
dimensione del suo teatro. Non tanto nel senso ovvio che egli scrive per il pubblico, ma piuttosto perché
egli allarga materialmente i confini del palcoscenico, includendo proprio il pubblico entro le quinte,
attraverso l’abolizione della cosiddetta "quarta parete".
Non sorprende perciò di trovare il pubblico, diviso in partiti avversi ("VOCI DEGLI SPETTATORI CONTRARI
ALL’AUTORE" e "VOCI DEGLI SPETTATORI FAVOREVOLI"), fra gli attori di Ciascuno a suo modo. Senza dubbio
il coro di accompagnamento dell’azione riprende, nell’assenso e nel dissenso, episodi reali capitati
all’autore in occasione dei suoi drammi più provocatori (Il giuoco delle parti al Manzoni di
Milano, L’innesto all’Argentina di Roma, Sei personaggi in cerca d’autore.)
Una tale divisione si può considerare costitutiva e non per nulla si manifesta fin dal debutto, visto che -
informano le cronache - il pubblicò disapprovò Lumie di Sicilia, applaudendo invece La morsa.
Successivamente, il caso più clamoroso è rappresentato dai Sei personaggi in cerca d’autore.
Il dramma, fischiato dagli spettatori romani, viene applaudito calorosamente dal pubblico di Milano che
decreta accoglienze "trionfali" al lavoro, obbligando l’autore, contro le sue abitudini, a presentarsi più volte
sul proscenio.
Vale la pena chiedersi a questo punto: che pubblico era quello che, affollando i teatri e, sia pure tra
contrasti comprensibili, garantiva a Pirandello un’affermazione indiscutibile? Si delinea un fenomeno
nuovo. Quel pubblico non è identificabile con la crema intellettuale e aristocratica che assicura, in quegli
stessi anni, il successo dei maggiori scrittori del Novecento (Proust, Joyce, Musil).
Si tratta piuttosto di un pubblico particolare, come ha scritto Giovanni Macchia, "fatto anche di gente
comune, di brava gente, forse non dotata di molta cultura": eppure capace di riconoscersi in quella
commedia.

Franco Manzoni : La prima fase del teatro pirandelliano


da Leadership medica

Tutto il teatro pirandelliano è dominato dal sentimento del contrario come virtù storica e meta estetica.
La sua grande capacità di risolvere la tragedia dell’esistere sta nel capovolgere le situazioni, ove l’azione
diventa dramma proprio attraverso l’umorismo, poiché l’essenza comica consiste nella risata amara e in
una coscienza critica, perlopiù ironica e autoironica.
La prima fase del teatro pirandelliano è, per ambientazione e linguaggio, prettamente siciliana: la
commedia "Liolà" lo testimonia ampiamente. Nel 1916 Angelo Musco aveva recitato con successo questa
pièce “campestre” in tre atti scritta in dialetto agrigentino, definita dallo stesso Pirandello“l’opera mia più
fresca e viva”.
Il personaggio di Liolà, traboccante di vita, che danza e canta, se ne va in giro da amoroso, seducendo le
donne incurante del codice d’onore, è la caratterizzazione di un insolito ragazzo-padre, che si tiene tre figli
natigli dai suoi amori, frutto della sua vis procreatrice.
Ora sarebbe addirittura pronto ad accogliere felice il quarto, quello di Tuzza, ma ovviamente non la donna.
Durante tutto lo svolgimento della commedia Liolà appare come l’unico veramente generoso e buono,
disinteressato, al contrario degli altri, che risultano egoisticamente chiusi nella propria piccola grettezza.
In questo clima di indagine psicologica sui personaggi, condotta dall’autore, si rileva quale costante il
tradimento e una filosofica amarezza e scetticismo nei confronti dell’intera umanità. Ciò che si contrappone
alla verità è il voler apparire a tutti i costi nel contesto sociale. Ne consegue che ciò che si è, spesso viene
annullato da ciò che si vuole che gli altri credano di noi.
Tale drammatica visione del mondo, che Pirandello inserisce nei suoi personaggi, non è, per così dire,
alleviata dall’intervento del distacco umoristico.
Anzi, l’ironia e il grottesco aumentano la tragedia interiore dei sentimenti.
Insomma, solo in apparenza si ride, perché l’animo umano è, per l’autore, quasi sempre ossessionato da
materialistiche aspirazioni, arido di slanci generosi, poco sensibile verso il popolo dei sofferenti, eticamente
in decomposizione.

Ne è prova la commedia in due atti "A birritta cu’ i ciancianeddi", scritto in dialetto siciliano nell’agosto del
1916, rappresentato l’anno successivo a Roma al Teatro Nazionale, sempre da Angelo Musco, e poi tradotto
in italiano col titolo "Il berretto a sonagli", che vede sulla scena Beatrice, moglie del cavalier Fiorica, certa
che il marito la tradisca con la giovane sposa di Ciampa, anziano scrivano e uomo di fiducia della famiglia. La
signora Beatrice decide di smascherare la presunta tresca del marito e svergognare pubblicamente la
donna. Allora si inventa un pretesto per allontanare da casa Ciampa: egli deve riscattare dei gioielli
impegnati in città, partendo subito. Il vecchio scrivano, che notoriamente serra a casa la giovane moglie, in
quest’occasione, avendo sentore che qualcosa venga ordito alle sue spalle, la conduce a casa della signora
Beatrice, perché possa passare la notte dai Fiorica e non a casa da sola, anche se ben rinchiusa.
La signora Beatrice, però, non accoglie sotto il proprio tetto quella che considera l’amante del marito e lo
scrivano non può far altro che chiudere la moglie in casa e partire per l’incarico ricevuto. Nel contempo il
delegato di pubblica sicurezza Spanò viene convocato dalla signora Beatrice, che gli firma una denuncia, e
gli spiega come pensa avvengano i convegni amorosi tra il marito e l’amante. E’ da notare che la casa di
Ciampa è attigua allo studio del cavalier Fiorica e che i due luoghi comunicano tramite porte di solito
normalmente ben serrate, ma che, se aperte, possono facilitare incontri clandestini, senza che nessuno
sospetti nulla. Scoppia lo scandalo, i due amanti vengono arrestati, ma Spanò afferma che non emergono
elementi di flagrante adulterio, forse per riguardo al cavalier Fiorica. Per difendere il proprio buon nome e
conservare l’onore della gente Ciampa ora dovrebbe uccidere i due amanti, ma con astuzia gli viene in
mente un’altra possibilità: la signora Beatrice, che ha combinato tutto questo pandemonio senza
considerare minimamente le conseguenze, deve farsi credere folle di gelosia, ponendo rimedio allo
scandalo grazie alla pazzia. Tutti sono d’accordo. E si farà così, per il bene comune, anche della signora
Beatrice, e, nella logica capovolta, dire la verità è sufficiente per essere ritenuti pazzi.
Purché si salvino le apparenze, tutto è permesso e ognuno in società deve mostrare il “punto”d’onore che
si è costruito e che anche gli altri gli impongono per sostenere il ruolo che lo faccia apparire rispettabile. Il
tema della maschera di Ciampa vive nelle diverse sfaccettature umane come difesa ed esigenza di decoro,
necessità comportamentale pur se drammatica. Quando questo velo cade e tutti conoscono la sua infelicità
coniugale, Ciampa si aggrappa disperatamente alla propria“parte” come unica possibilità di sopravvivenza
sociale e l’utilizzo della finta follia diviene il mezzo che ristabilisce una condizione di normalità.

I personaggi Pirandelliani "senza autore"


Coesistendo la narrazione come antefatto della nascita del personaggio assieme alla dimensione scenica e a
una forte tendenza dialogica presente nelle sue novelle, Pirandello giunge quasi spontaneamente alla
scoperta del teatro.
Ciò avviene al termine di una ricerca ideologica pirandelliana, che tende a delineare un bisogno
irrinunciabile, la creazione del personaggio senza autore, che gioca alla roulette del Caso e agisce in modo
apparentemente del tutto autonomo. Ma quali sono le caratteristiche dei suoi personaggi? Il drammaturgo,
all’interno di scelte realistiche quali la dimensione temporale e i contenuti borghesi, decide di andarli a
pescare in situazioni grottesche, al limite della sofferenza umana (non tanto fisica, quanto dell’anima),
uomini che non riescono a liberarsi da vincoli sociali dell’apparenza, spesso condannati alla solitudine
oppure al riso beffardo dei loro compaesani.
E’ questo il vero dramma del personaggio pirandelliano: l’incapacità di realizzare la propria libertà tanto
sospirata, schiavi come sono dei pregiudizi sociali.
E’ quello che incontriamo in "Così è (se vi pare)", ove l’autore analizza la realtà quotidiana, percependo
l’impossibilità di raggiungere la verità dei fatti, dato che molteplici e differenti sono le interpretazioni della
realtà da parte di ogni singolo personaggio. In secondo luogo appare chiaro il tema della solitudine
dell’uomo, di ogni uomo, che ne fa un mondo a sé, a volte insondabile.
Così è (se vi pare) si presenta drammaturgicamente come opera corale e la trama verte attorno al tentativo
di una intera comunità di chiarire se la follia sia del signor Ponza o della signora Frola.
Redatta nella primavera del 1917 e rappresentata per la prima volta a Milano nel 1918 al Teatro Olimpia, è
una commedia che si muove attorno al tentativo di scoprire la vera identità della signora Ponza, per capire
di conseguenza chi dei due sia il pazzo. Gli esponenti di spicco del piccolo centro, in cui è inserita la vicenda,
si chiedono quale sia la verità.
Varie ipotesi si affermano per poi essere contraddette, senza giungere ad una soluzione se non quella in cui
lo spettatore coglie la relatività delle singole verità e l’incapacità umana di impossessarsi della sostanza
delle cose. In un contesto borghese di provincia, dove il desiderio di conoscere come stanno i fatti conduce
al pettegolezzo e alla curiosità spasmodica delle donne, la burocrazia minima del luogo giunge a definire
che il Prefetto deve sapere tutto su questa contorta vicenda.
Assistiamo a un movimento incalzante di entrata e uscita di scena, di dichiarazioni di follia dell’uno verso
l’altra e viceversa; anche il confronto fra il signor Ponza e la signora Frola non porta a nulla, ognuno
mantiene la propria tesi. Nel terzo atto si dovrebbe giungere alla risoluzione con “l’interrogatorio” della
moglie del signor Ponza.
Tuttavia la verità ricercata non emerge e questa “inchiesta” rimane insoluta, senza alcuna vittoria tra i
due “indagati”. La signora Ponza contemporaneamente resta la figlia della signora Frola e la seconda moglie
del signor Ponza, così come ognuno dei due crede che sia, e a conclusione del testo dichiara: “Io sono colei
che mi si crede“. Si comprende da questa affermazione il dramma della follia che la signora Ponza
intendeva celare agli occhi del mondo, recitando la doppia parte per i due suoi cari, ed esistendo nella
misura in cui è creduta dal marito e dalla signora Frola, così come ognuno vorrà crederla tale.
Sempre del 1917 è la commedia in tre atti "Il piacere dell’onestà", interpretata con successo da Ruggero
Ruggeri, che invece non portò sulle scene "Così è (se vi pare)", scusandosi di non avere una compagnia
adatta al testo. In realtà perché preferiva recitare un’opera in cui emergesse la sua bravura di mattatore
piuttosto che una commedia corale.
Infatti "Il piacere dell’onestà" si giustappone a "Così è (se vi pare)", perché chiaramente più vicina a un
teatro tradizionale, a parti sceniche più ampie e definite per un primo attore. La vicenda tratta di un
matrimonio riparatore “bianco”: Baldovino deve sposare Agata, messa incinta dal marchese Fabio, già
maritato a una donna che lo tradisce.
Matrimonio per dare un nome al figlio di Agata e per consentire in futuro che la relazione tra i due continui.
Considerato un fallito e un poco di buono, Baldovino appare molto adatto alla situazione; egli accetta di
sposare per finta Agata, ma nel contempo decide di seguire l’onestà e un rigido codice morale.
Nato il bambino, la donna non desidera più avere contatti con il marchese, il quale intende, invece,
intrappolare Baldovino, che ora sente quasi antagonista nei confronti di Agata. Ma il disegno del marchese
Fabio fallisce.
Agata, che ormai già da tempo ha compreso l’umanità e la vera indole del marito, lo stima e intende seguire
Baldovino, come una vera moglie, ovunque egli andrà. In questi due testi drammaturgici Pirandello
adombra il significato ultimo della condizione umana, il perpetuo esilio dell’uomo dagli altri e da sé,
prigioniero delle convenzioni e incapace assolutamente di ribaltarle. Sta qui la vera natura del dolore dei
personaggi pirandelliani, che vivono una realtà illusoria e di sconfitti.
Sembra quasi che l’autore voglia dirci che la verità non esiste, semmai vive la sua vanificazione nella
frantumazione dell’io di ogni personaggio. Ma vi è pure una possibilità di riscatto, come in Baldovino, il
quale in tutta la sua vita ha truffato e speculato, privo di ogni freno morale e di impulso passionale.
Tuttavia la maschera che ha creato fino a un certo punto della propria esistenza, crolla miseramente:
Baldovino si trova coinvolto nell’umana energia degli affetti e di una scelta radicale di redenzione,
nell’anelito verso il Bene. La drammaturgia di Pirandello si fonda sulla spontaneità del rapporto tra
situazione e condizione, persona e personaggio, realtà e finzione scenica. Il che rese necessario un lungo
periodo di osservazione, compiuto dal drammaturgo, sugli esseri umani e il loro comportamento.
Dall’analisi della realtà deriva l’utilizzo di eventi grotteschi, casi apparentemente senza via d’uscita, una
folla di creature dissociate, schiave di pregiudizi e desiderose di una libertà impossibile. Tra i diversi lavori
pirandelliani pare emblematica di quanto si è appena detto la commedia "Ma non è una cosa seria",
rappresentata la prima volta a Livorno nell’autunno del 1918 dalla Compagnia di Emma Gramatica.
Divisa in tre atti, la pièce descrive la decisione paradossale del protagonista, Memmo Speranza, di sposarsi
per finta al fine di non correre il rischio di giungere a un autentico matrimonio che gli avrebbe potuto
creare strascichi e complicazioni a non finire, visto che per carattere Memmo si innamora perdutamente e,
per giunta, con molta frequenza. La scelta della “moglie” cade su una giovane donna apparentemente
insignificante e trasandata che dirige una pensione, Gasparina. Tra i due si sancisce un patto da rispettare
assolutamente: il matrimonio sarà valido giuridicamente, ma solo per apparenza, e in cambio Memmo
offrirà alla donna tranquillità economica e una casetta in campagna con un po’ di giardino. La decisione
dell’uomo non è campata in aria, ha una sua logica, una serie di ragionamenti assurdi la sostiene, anche
perché si è appena salvato da un duello contro un possibile futuro ex cognato. Memmo/Don Giovanni vede
in Gasparina la risoluzione alle proprie questioni amorose: divenire un uomo sposato alla luce del sole sarà
per lui una maggior difesa nei confronti delle altre donne e per Gasparina un vantaggio economico e una
vita più serena e meno pesante. Il matrimonio avviene in allegria alla presenza degli altri frequentatori della
pensione; a breve Memmo perderà la testa di nuovo per una donna, che aveva lasciato poco prima, e si
pentirà della “pazzia” del finto matrimonio, ma per un breve periodo. Gasparina, nel contempo,
conducendo un’esistenza tranquilla e meno faticosa, diviene radiosa, quasi si trasforma, mentre il vecchio
signor Barranco, che da sempre la ama, vorrebbe togliere Gasparina da questa situazione, invocando
l’annullamento del matrimonio perché non è stato consumato. Per questo consiglia alla donna di far visita a
Memmo e di invitarlo nella casetta in campagna, dove il signor Barranco gli esporrà la soluzione da lui
escogitata, e cioè la libertà per Gasparina di tornare nubile. A questo appuntamento Memmo non
mancherà e capirà subito di non desiderare affatto l’annullamento delle nozze, anzi scoprirà di essersi
innamorato veramente di Gasparina che ora è diventata affascinante, amabile, ridente negli occhi. Le
donne precedenti gli appaiono vanesie e superficiali, non fanno più per lui e desidera con tutto se stesso
Gasparina, che da tempo lo ama in silenzio ed aveva accettato il matrimonio più che per interesse con la
speranza di trasformare la loro unione in una cosa seria e duratura. Questa commedia, iniziata nell’assurdo,
termina con un lieto fine: le presunte follie amorose pertanto si mutano in amore verso una donna che alle
qualità fisiche associa anche quelle di bontà d’animo e onestà. Ma, nonostante il finale, Memmo rimane nel
novero delle persone alla ricerca di sé, con un inevitabile destino di sofferenza, è della schiera di chi è
prigioniero delle convenzionalità della società borghese, un’anima ribelle che si consuma all’interno di limiti
sociali precostituiti.
Tutto questo appare ancor più evidente nel personaggio di Leone Gala della commedia "Il gioco delle parti".
Anche lui è uno sconfitto dalla vita, da uomo sensibile subisce la tragedia dell’esistere. Tuttavia dopo il
disinganno, dopo il naufragio dei suoi sogni e delle sue aspirazioni, che si concretizza nel fallimento
coniugale, dopo aver capito il gioco che gli è toccato in sorte, Leone si difende e si rende conto che esiste
una possibile via d’uscita nel diventare, contro la propria indole, a sua volta disumano, uccidendo i
sentimenti, rallegrandosi delle pene altrui, cercando di vivere senza passioni, ma con una sorridente
disperazione. E’ infatti il tema del matrimonio, della separazione di comune accordo, della finzione agli
occhi altrui ad essere il motore de "Il gioco delle parti". Oltre a Leone, gli altri vertici del triangolo amoroso
sono sua moglie Silia e l’amante di lei, Guido Venanzi. Da intellettuale ironico, apparentemente distaccato e
superiore, senza scandali ha lasciato, per volere di lei, l’appartamento alla moglie, portandosi via solo i libri
a lui cari e gli arnesi di cucina, elementi primari dell’arte culinaria di cui si diletta. Silia, la moglie
interiormente infelice e tormentata, non sopporta più il carattere di Leone, la sua presenza composta,
anche nei confronti del suo amante Guido. Nei patti della separazione vi è anche l’accordo che Leone ogni
sera passi da casa per informarsi sulle possibili novità. Una sera, mentre viene fatto salire apposta da Silia
per farlo ritrovare a faccia a faccia con Guido, imbarazzato e inetto, al contrario Leone mostra di non essere
scalfito dalla presenza dell’amante e in quest’occasione espone la propria filosofia di vita imperniata sul
superamento delle passioni, sulla razionalità che vince tutto grazie a una corazza-scudo nei confronti della
vita: ogni sentimento, accadimento o persona va svuotato o ridotto a puro ragionamento, compensando
questo vuoto con un giocattolo buffo, la filosofia e la cucina nel suo caso, pensando così di aver raggiunto
un equilibrio interiore invidiabile. Così come un uovo che la vita ti getta contro, se non sei pronto a
prenderlo, si disintegra per terra o addosso a te, mentre se lo afferri con le mani, puoi fargli un buchino e
bertelo, e il guscio che ti resta è come il concetto, ci giochi un po’, poi, frantumandolo, lo getti via. Silia
entra in scena, recando per l’appunto un guscio d’uovo per il marito, il quale a sua volta lo porge ridendo
all’amante, perché non è Leone ad averlo bevuto.
I nervi di Silia non reggono all’indifferenza apparente del marito e, sportasi dalla finestra, getta il guscio
tentando di colpire con l’uovo vuoto il marito sul portone. Ma ciò non accade: colpisce un giovane che fa
parte di un gruppo di ubriachi, i quali credono di trovarsi sotto casa della mondana Pepita e interpretano il
lancio del guscio come un invito a salire. Mentre irrompono in casa di Silia, lei viene folgorata da un’idea.
Dopo aver chiuso a chiave Guido, che non deve apparire in quanto amante, accoglie i quattro, si fa dare il
biglietto da visita da uno di loro, mentre gli altri inquilini la soccorrono, attirati dal frastuono. Ma la donna
ormai è stata oltraggiata, anche se il marchese Miglioriti, quello del biglietto da visita, rinsavito, si scusa con
lei che però non intende ragioni. Il piano di Silia prevede che il marito si esponga in un duello con il
marchese per il disonore arrecato alla moglie. L’indomani Silia narra l’accaduto a Leone, che la loda per la
sua accortezza di aver serrato l’amante e mostra l’intendimento di difenderla come lei desidera. Pare non
tirarsi indietro, anzi incarica Guido di fargli da secondo, mentre la notizia si sparge in tutta la città. Per
questo Leone, sicuro di sé, ha dato a Guido un mandato tassativo, senza possibilità di riconciliazione. Il
marchese Miglioriti, oltre a tirare bene di scherma, ha un’ottima mira con la pistola, elementi che non
dovrebbero lasciare scampo al povero Leone, che mostra un’estrema tranquillità di fronte al pericolo.
Tuttavia la mattina del duello Leone se la dorme: il medico e i suoi padrini giungono in casa, ma lui, alle
richieste pressanti di vestirsi per il duello, afferma che non intende cadere in questo tranello preparatogli
ad hoc, e che nel gioco delle parti spetta a Guido difendere l’onore della propria donna. Così nel duello
l’amante troverà la morte, mentre Silia e Leone riprenderanno a vivere ciascuno nella propria infelicità. In
ogni caso soprattutto per Leone, che si crede una persona lucida e che presume di aver capito il gioco, è
una sconfitta, perché forse non ha compreso che lui stesso è una parte di un gioco freddo e disperato.
Alla fine è proprio il marito filosofo la vera vittima, poiché si era illuso di avere la meglio con la ragione,
mentre la sua ricerca di esistere si trasforma in una rovinosa caduta nel vacuo abisso dell’inconsistenza.

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