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Nel luglio del 1916, dopo il fortunato esito di Pensaci, Giacomino! Pirandello scriveva al figlio Stefano: "... La
commedia 'Pensaci, Giacomino!' ha avuto una serie di repliche con esito felicissimo e correrà certo la
penisola trionfalmente. Musco è entusiasta della parte... Ho preso l'impegno di scrivergli un'altra commedia
per il prossimo ottobre, e spero di mantenerlo, benché il teatro, come tu sai, mi tenti poco".
E in effetti Pirandello giunse al teatro relativamente tardi, dopo aver scritto alcuni romanzi e centinaia di
novelle, e quasi controvoglia. Tuttavia il teatro costituì, in qualche misura, lo sbocco naturale dell'arte
pirandelliana. Non solo perché all'epoca in cui Pirandello si dedicò precipuamente alla composizione
drammatica - gli anni intorno alla prima guerra mondiale - le novelle contenevano già un impianto teatrale
fatto di intensi, quasi frenetici dialoghi; ma anche perché tutto lo sviluppo della sua tematica artistica
conteneva un elemento di teatralità. Il concetto cardine del suo pensiero estetico, quello di umorismo - così
com'egli lo aveva elaborato nel saggio L'umorismo del 1908 - sfociava nel convincimento che la vita fosse
una buffonata, una finzione molto simile a quella che si svolge sul palcoscenico. Da questo punto di vista
appare assai poco accettabile la tesi esposta da Luigi Russo, secondo la quale: "Il teatro, succeduto nella
vita spirituale dell'artista quand'egli aveva in gran parte vuotato la sua anima e dato sfogo alle sue più
genuine ispirazioni, non poteva essere che una forma divulgativa o una complicazione intellettuale del
primitivo problema artistico".
E' indubbio che con il teatro Pirandello arricchisce, e quindi complica e in qualche modo appesantisce, la
sua tematica più genuina. Ma non si tratta di un mero procedimento tecnico, di una descrizione delle
novelle; si tratta, piuttosto, di una chiarificazione interiore che lo conduce a una dimensione creativa nuova
e più elevata, il cui perno è costituito dal rapporto tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, tra
normalità e anormalità. In questo senso, possiamo distinguere tre fasi nello sviluppo dell'opera drammatica
pirandelliana. Particolarmente importante per la comprensione del primo periodo che giunge fino al 1918 e
comprende commedie come Pensaci, Giacomino!, Lumíe di Sicilia, Liolà, Il berretto a sonagli - è Pensaci,
Giacomino!. Come scrive Mario Baratto:"L'individuo che vuol far apparire delle ragioni personali, più
meditate, non conformiste, accetta già, se si guardi bene, non solo di apparire, ma di essere anormale. Al
tipico si sostituisce allora l'originale, lo strano...".
Da una parte l'anormale diventa una sorta di ascesso che la società tende continuamente a riassorbire
come un male episodico: mentre esso è il prodotto costante della sua normalità... Dall'altra la psicologia
tesa e maniaca, la pazzia latente ed espressa, è una realtà interiore connessa a una condizione umana:
l'individuo è sempre insidiato da un conflitto interiore insanabile.
Il professor Toti, il protagonista diPensaci, Giacomino!, è il tipico personaggio pirandelliano di questo
periodo: un egocentrico piccolo borghese che non riesce ad acquistare consapevolezza storica della propria
condizione. Tuttavia, rispetto ai personaggi delle commedie più naturalistiche, d'ambiente siciliano, entra
qui un elemento dialettico: il farsesco, il comico diventa anormale e quindi si contrappone alla normalità
dell'ambiente, mettendola radicalmente in discussione. La conseguenza di questo dramma è però la
frustrazione dell'individuo, la sua impotenza ad agire. Questo si nota, per esempio, nell'ambito dei rapporti
sentimentali e sessuali. I personaggi pirandelliani cercano il paradosso, si assumono l'incarico di offendere a
ogni costo la sensibilità morale della borghesia, ma non sperimentano mai l'amore. Si limitano a una serie
di esercitazioni verbali intorno a che cosa potrebbe essere l'amore senza mai coglierlo. La seconda fase del
teatro pirandelliano - che giunge fino al 1927 e comprende le maggiori opere pirandelliane, dal Giuoco delle
parti ai Sei personaggi in cerca d'autore, da Enrico Quartoa Vestire gli ignudi - ruota intorno al problema del
rapporto con la realtà. Dice Pirandello: "La vita allora, che si aggira piccola, solita, tra queste apparenze, ci
sembra quasi che non sia davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza?
Come portarle rispetto?".
E' su queste domande che il teatro pirandelliano prende un nuovo respiro: esasperando cioè i conflitti tra
apparenza e realtà, fra normalità e anormalità, fra individuo e mondo esterno, che nelle commedie del
primo periodo dava luogo - per esprimerci in chiave psicoanalitica - a uno stato perenne di ansietà,
determinato dall'incapacità di interpretare tutte le percezioni che affluiscono dal mondo esterno, nella
seconda fase genera uno stato di schizofrenia. Cioè, il personaggio pirandelliano si chiude ermeticamente in
se stesso. La dialettica tra anormalità e normalità stessa si spezza; l'anormalità diventa sistema di vita,
incurante del rapporto col mondo. Il rapporto fra apparenza e realtà assume dimensioni tanto più tragiche
quanto più, come scrive Silvio D'Amico,"Pirandello rinnega addirittura il 'penso, quindi sono' di Cartesio: per
lui neanche pensare significa essere". Qui sarebbe lecito chiedersi: ciò non finisce col distruggere l'essenza
della grande poesia tragica, la nobiltà del dolore? Ma appunto qui vuole essere l'originalità del Pirandello
drammaturgo; appunto da questa impossibilità di una tragedia egli trae la più disperata delle tragedie, la
sua.
L'ultimo periodo del teatro pirandelliano - che, da Uno, nessuno e centomila giunge sino ai Giganti della
montagna - nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte. L'individuo pirandelliano, il
personaggio, scopre la sua inadeguatezza nell'affrontare la realtà; l'isolamento soggettivistico in cui opera
lo conduce continuamente allo scacco, anzi a una sconfitta che si verifica ancor prima della lotta.
Nella Favola del figlio cambiato, e ancor più nei Giganti della montagna, la coerenza ideologica dell'arte
pirandelliana si dissolve nell'ambiguità, in una sorta di grandioso sdoppiamento: mentre si eleva l'elegia
all'individualità destinata a sparire, condannata da forze cieche e brutali che la frantumano, entrano in
gioco, come protagonisti, entità collettive, personaggi corali ai quali spetta l'ultima parola. Nello stesso
tempo, si scioglie la contrapposizione fra arte e vita. L'arte, come momento privilegiato, è destinata a
sparire; ma forse potrà essere sostituita dalla creatività generale, cioè da un mondo che viva secondo ritmi
e leggi di armonia e di bellezza. Questa grande utopia è presente nelle parole con cui Stefano Pirandello, su
indicazione del padre morente, ricostruisce il finale dei Giganti della montagna: "Non è, non è che la Poesia
sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma
potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto come fantocci ribelli, i servi fanatici
dell'arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi
soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in se stessi".
Nel ’25 Pirandello aveva assistito, in Germania, ad una messinscena del suo Sei personaggi, a cura del
regista tedesco di scuola espressionista Max Reinhardt, ed è proprio contro tale tipo di regia che Pirandello si
scaglia in un articolo del ’29 sulla rivista La fiera letteraria, e nella commedia ora esaminata, attraverso la
figura del regista Hinkfuss (il dottore zoppicante?).
La regia tedesca del periodo espressionista prevedeva l’eliminazione di qualsiasi elemento naturalistico,
scenografie essenziali ed astratte, ed una recitazione, da parte degli attori, spersonalizzata e straniante.
Il testo dell’autore, poi, perdeva valore a vantaggio della libera e soggettiva interpretazione datagli dal
regista. Pirandello, rispetto a queste posizioni, condivideva il rifiuto per le scenografie sovraccariche ed
eccessivamente decorative, così come la libertà della messinscena attuata dal regista, ma, a patto che
quest’ultimo, sia pure ora con rappresentazioni più essenziali, ora più dettagliate ed articolate, esprimesse
lo spirito dell’opera, non lo stravolgesse.
La “trovata” scenica non doveva essere completamente distaccata dal testo, fine della rappresentazione,
bensì strumento interpretativo, illuminante lo spirito del testo. Agli attori, poi, Pirandello raccomandava
di “sentire interiormente, immedesimarsi nel personaggio” .
La trama della commedia si dipana sul contrasto, tra attori e regista, sulla maniera di mettere in scena una
novella di Pirandello, Leonora, addio, che il regista Hinkfuss vuole rappresentare come spettacolo a
soggetto, ovvero senza copione prestabilito.
Fin dalle prime battute, dalla platea, dalla galleria, gli spettatori intervengono chiedendo che si ponga fine
alle liti che si sentono sul palcoscenico, dietro il sipario chiuso.
Il regista gioca con le scenografie, riducendo il testo della novella, carico invece di passione e pietà, a quadri
spettacolari.
D’altro canto gli attori reclamano un testo scritto da seguire, non l’improvvisazione, e reclamano la
possibilità di esprimere il loro talento e la loro passione.
La vicenda da rappresentare racconta della gelosia morbosa di Nico Verri per la moglie Mommina di cui
vuole dimenticare un passato troppo libero nella casa della madre che amava dare facile accoglienza a
giovani ufficiali.
Nico Verri, bruciato dal pensiero della vita passata di Mommina, prima che fosse sua, la chiude in casa,
impedendole di truccarsi e perfino di pettinarsi.
Ma un giorno, nel paese giunge una sorella di Mommina, venuta con una compagnia di attori per recitare Il
Trovatore. I ricordi della giovinezza spensierata riaffiorano in lei e, mentre sta cantando alle sue due
bambine la romanza Leonora, addio, sopraffatta dalla pena, muore. L’attrice che impersona Mommina
sotto la guida del regista Hinkfuss, partecipa con tale forza alla vicenda del suo personaggio da cadere a
terra colta da malore. Gli attori accorrono tutti premurosi e l’attore brillante, rivolgendosi al regista,
dice: “Ecco le conseguenze! Ma noi non siamo qua per questo, sa! Noi siamo qua per recitare, parti scritte,
imparate a memoria. Non pretenderà mica che ogni sera uno di noi ci lasci la pelle!”
Di contro al senso di pietà che l’autore Pirandello esprime per il suo personaggio, e per l’attore che in esso
si è identificato, c’è la freddezza del regista che aveva presunto di poter fare a meno dell’autore.
La “tragedia in tre atti” Diana e la Tuda del ’26, ripropone il tema tipico della poetica pirandelliana
consistente nel dualismo forma – vita.
L’antico mito di Pigmalione rivive qui rovesciato nella figura del giovane scultore Sirio Dossi che sacrifica la
vita, la giovane modella Tuda, alla forma, alla perfezione eterna ed astratta dell’arte, la statua di Diana.
Nel sogno di immortalare la bellezza pura, lo scultore estenua, sottoponendola a pose continue, la giovane
Tuda, e la sposa solo per averla sempre a disposizione nel suo atelier.
A tale inumano comportamento si oppone il vecchio maestro Nono Giuncano che ripudia tutta la sua
passata esistenza, spesa a rincorrere la perfezione di statue “immobili e perfette”, fino ad arrivare a
distruggere ogni sua opera in nome della perfettibilità della vita.
Ma anche il desiderio di Giuncano è destinato al fallimento: quando Tuda, resasi conto della sua condizione
di puro strumento nelle mani dello scultore che l’ha sposata senza mai esserle marito, gli offre il suo amore,
Giuncano teme di contaminare con il suo corpo ormai “logoro e vecchio” la bellezza e perfezione della vita
che è in lei ancora giovane.
Tuda, rifiutata da entrambi per opposte ragioni, si slancia verso la statua di Diana che l’ha immortalata
nell’arte, quasi volesse identificarsi con essa. Dossi, temendo che voglia distruggere la ragione della sua vita
di artista, minaccia di ucciderla, ma Giuncano, che pure aveva permesso che Tuda estenuasse la sua vita per
dare alimento all’arte, ora si ribella e, prendendo Dossi alla gola, lo strangola.
Il sogno di entrambi si rivela irrealizzabile, sia quello di chi ha voluto ridurre la vita a pura ed eterna forma
perfetta, sia quello di chi ha inseguito, nella disperazione di una vecchiaia inarrestabile, la pienezza della
vita pura.
Diverso il modo di trattare il rapporto arte – vita nella commedia Trovarsi del ’32.
Pensata per Marta Abba, la figura della protagonista, Donata Genzi, è quella di un’attrice consumata che ha
deciso di votarsi all’arte superando le angustie di un’unica esistenza possibile e vivendo, invece, la
molteplicità delle innumerevoli possibili vite date all’attore.
L’arte è “l’unica possibilità di vivere tante vite (…) Perché finzione? No. E’ tutta vita in noi. Vita che si rivela
a noi stessi. Vita che ha trovato la sua espressione”;
e ancora, dirà l’attrice, “Vero è soltanto che bosogna crearsi, creare! E allora soltanto ci si trova”.
Qui l’arte non è la forma che uccide la vita, bensì una forma di vita più alta, molteplice e creativa.
Il Teatro di miti
Chiudiamo questa sintesi sull’opera teatrale di Pirandello con un cenno al teatro di miti rappresentato dalle
tre commedie La nuova colonia (1928), Lazzaro (1928) e l’incompiuto I giganti della montagna.
L’autore che aveva smascherato la verità attraverso la denuncia dell’inconsistenza relativistica delle
apparenze, torna ora all’Assoluto della coscienza archetipica dei miti intesi quali verità profonde ed
ancestrali del senso della vita: ne La nuova colonia il desiderio di instaurare su un’isola vulcanica la giustizia
sociale, fallisce in un apocalittico cataclisma a cui sopravvive un unico valore, quello della maternità.
In Lazzaro il mito celebrato è quello della religiosità, della fede, ma non fondata su precetti rivelati e
rinuncia, bensì sulla percezione della sacralità della vita suggellata dalla scoperta di un Dio che è l’“eterno
presente della vita”.
L’opera incompiuta I giganti della montagna, infine, riflette sul mito dell’arte: puro spirito, rappresentato
dal mago Cotrone, e pura materialità, rappresentata dai giganti, sono entrambi lontani dall’arte dell’attrice
dai capelli fulvi , Ilse.
La sua rappresentazione della Favola del figlio cambiato davanti al popolo, pur pregna di umanissimi
sentimenti, non è capita dalla folla che, con brutale violenza, uccide Ilse, facendola a pezzi.
“La tragedia della poesia in questo brutale mondo moderno”, come Pirandello definisce questa sua opera
in una lettera a Marta Abba, si conclude con una sorta di rito dionisiaco che, attraverso lo smembramento
dell’arte, pare preludere ad un’ipotetica rinascita.
Siamo nel 1921, al Teatro Valle di Roma, in data 9 maggio: il pubblico in sala non sa ancora cosa sta per
accadere, né di quale enorme portata sia l’opera che verrà messa in scena quella sera.
Fatto sta che, davanti ai loro occhi increduli, molte persone assistono al dramma principale firmato da Luigi
Pirandello, una delle figure più importanti in campo letterario, in Italia e nel mondo: “Sei personaggi in
cerca d’autore”.
Questo straordinario artista, nato nei pressi dell’attuale Agrigento (chiamata all’epoca Girgenti), viene alla
luce in una casa situata nella contrada “Caos”, curiosità che è stata da sempre ricondotta al caos creativo di
Pirandello, secondo la convinzione di un destino stabilito.
E la grandissima energia creativa porta l’autore a scrivere opere destinate a rivoluzionare i canoni letterari
del tempo e ad incidere in maniera profonda sul pensiero e sulla società; titoli come “Uno, nessuno e
Centomila” o “Il fu Mattia Pascal”, unitamente ad una produzione infinita di novelle e di romanzi, capaci di
dipingere con grande maestria vizi e virtù dell’epoca e di aprire nuovi orizzonti alla riflessione, attraverso
un’incredibile analisi psicologica dei personaggi, fanno di questo scrittore un mostro sacro della letteratura
di sempre.
Ma a questa straordinaria e smisurata produzione narrativa, Pirandello ha aggiunto un intenso e
appassionato lavoro nel settore che lo ha consacrato definitivamente, vale a dire il teatro: e in quella che
viene definita la “terza fase” del teatro pirandelliano, si impone il lavoro “Sei personaggi in cerca d’autore”,
un dramma che incarna al massimo grado la volontà di abbattere la “quarta parete”, vale a dire la
separazione invisibile, meramente concettuale, che separa il pubblico dal palcoscenico.
L’opera in questione, infatti, è talmente rivoluzionaria da sconcertare la gente in sala, la quale reagisce al
tutto con bordate di fischi e gridando “Manicomio! Manicomio!”.
La trama è caratterizzata dalla presenza di una compagnia teatrale intenta a rappresentare un altro lavoro
di Pirandello, “Il Giuoco delle parti”, ma che è interrotta dall’entrata in scena di sei personaggi, i quali
chiedono agli attori di rappresentare un’altra storia, quella che riguarda loro: essi infatti raccontano di
essere stati creati e poi abbandonati da un autore.
Si tratta della prima opera della trilogia “Il teatro nel teatro”, e sebbene il dramma non sia stato un
successo come consenso da parte del pubblico alla sua prima uscita, lo è invece stato riguardo l’obiettivo di
coinvolgere le persone in sala, chiamate a partecipare allo spettacolo senza limitarsi a
fruirlo passivamente.
Solo con l’edizione del 1925, in cui Pirandello si serve di una premessa per spiegare tematiche e intenti
dell’opera, questo lavoro diventa anche un grande successo di pubblico.
La fama dell’autore siciliano diventa in breve travolgente, fino a condurlo al massimo riconoscimento nel
campo letterario, cioè l’assegnazione del Premio Nobel nel 1934: la motivazione che si legge è:
“Per il suo coraggio e l’ingegnosa ripresentazione dell’arte drammatica e teatrale”.
“Sei personaggi in cerca d’autore” è la sua opera teatrale più rappresentativa, la “summa” della sua arte,
una sorta di manifesto della sua infinita creatività: è ciò che lo proietta di forza tra i grandi maestri del ‘900,
originando quella coscienza della scomposizione e quella visione “teatrale” (e a volte paradossale) della vita
che, ancora oggi, nel linguaggio comune, si chiama “pirandelliana”, e che sa tanto di Caos.
Ferdinando Morabito
In due drammi di Pirandello (Sei personaggi in cerca d’autore e Questa sera si recita a soggetto) il
capocomico assolve a un ruolo centrale.
La circostanza allude senza dubbio alla funzione determinante del regista nella messa in scena, visto che le
scelte di questo mediatore fra autore e pubblico sono destinate a pesare in modo decisivo sul risultato.
Fra le testimonianze emerse di recente si impongono gli scambi di lettere intercorsi con due uomini dello
spettacolo, Marco Praga, drammaturgo e capocomico e Virgilio Talli, attore e capocomico. Perciò pare
ragionevole assumere i rapporti dei due con Pirandello come indicativi di una più ampia casistica che qui
non si può considerare nella sua interezza per ragioni di economia.
Il rapporto con Praga si rivela determinante in un momento cruciale della carriera di Pirandello, nel
trapasso verso la maturità dell’autore.
Si tratta infatti di Se non così… (1915), titolo provvisorio di una commedia andata in scena a Milano nel
1915, poi ripresa a Roma nel 1919 con il titolo definitivo La ragione degli altri.
Praga prende a commentare il testo, già sotto forma di copione, in una lettera del 16 marzo 1915, invitando
l’autore a venire a Milano prima della rappresentazione,
"per assistere, almeno, oltre alla recita, alle ultime due prove" (Pirandello, Maschere nude: I, 146).
Il richiamo al carattere specifico del testo teatrale culmina in una lettera di poco successiva (4 aprile) che
critica la forma del dialogo: "Tutti parlano a mezze frasi, a frasi interrotte. Qualche volta bisogna fare uno
sforzo per capire. E il pubblico tali sforzi non li fa" (Pirandello, Maschere nude: I, 147).
Per spiegarsi, Praga ricorre a un suggerimento pratico: "Rileggete la scena delle due donne al 3° […]
Rileggete quella scena ad alta voce. Recitatela. Sentirete".
Il fiasco sperimentato in teatro alla prima milanese del 19 aprile 1915 conferma le buone ragioni di Praga
che, più avanti (4 dicembre 1915), torna a ribattere con la solita schiettezza, scrivendo a Pirandello:
"Ammiro oggi Se non così come lo ammirai quando lo lessi. Ma dal punto di vista teatrale. Come "teatro"
non può interessare, non può prendere, non può convincere, sia pur recitato nel modo migliore, con gli
interpreti migliori. È scarno, è scheletrico, è oscuro, manca di sviluppo nel dialogo. […] Se non così è da
rifare in gran parte, è da riscrivere. Bisogna mettere un po’ di polpa su quelle ossa" (Pirandello,Maschere
nude: I, 149-150).
Dunque letteratura e teatro obbediscono a leggi distinte, sicché un buon testo letterario può risultare
inadatto alla scena. Gli argomenti di Praga, divenuti ancor più persuasivi dopo l’insuccesso dello spettacolo,
toccano sul vivo Pirandello.
Egli si piega alla necessità della riscrittura, riprendendo in una lettera al figlio Stefano (3 gennaio 1916)
l’espressione dell’interlocutore, prova della resa alle ragioni altrui: "[…] ho un po’ rimpolpato il Se non così
che andrà in scena in quaresima a Roma" (Pirandello, Maschere nude: I, 151).
Non meno efficace risulta l’intervento di Virgilio Talli sulla stessa commedia che, in una lettera del 30
agosto 1917 indirizzata a Pirandello, conferma dal suo punto di vista le perplessità dell’uomo di scena con
una conclusione inequivocabile:
"Il teatro è teatro; la parte didascalica illustrativa dei sentimenti che animano le sue figure non sempre è
rendibile dall’attore" (Pirandello, Maschere nude: I, 155).
Come se non bastasse, Talli allarga la sua critica a un’altra commedia che Pirandello gli ha sottoposto: "Così
è… se vi pare, ella non lo crederà, è cosa pericolante dalla prima all’ultima scena. Se il pubblico non capisce
il principio… guai!".
L’autorevolezza degli interlocutori, l’efficacia delle argomentazioni rese persuasive dal fiasco di Milano
segnano profondamente Pirandello. Ne deriva una vera e propria lezione di critica applicata al teatro di cui
l’autore non sembra essersi più dimenticato.
I rapporti di Pirandello con gli attori: Angelo Musco, Ruggero Ruggeri e Marta Abba
La scoperta degli attori da parte di Pirandello è tardiva ma fruttuosa. I primi atti unici sono infatti
un’esperienza di carattere letterario, tanto che non risulta che egli abbia partecipato alle prove o alle
messinscene.
Il contatto vero e proprio con il teatro, sollecitato da Praga, comincia in realtà con un testo
dialettale, Pensaci, Giacomino!.
L’interpretazione memorabile che Angelo Musco dà della commedia, scritta per lui da Pirandello, conferma
l’attrazione per l’attore siciliano, capace di volgere le situazioni comiche in drammatiche e viceversa. Non è
in questione una simpatia personale, piuttosto emerge una ragione d’arte, giustamente rilevata da
Alessandro D’Amico (Pirandello, Maschere nude: I, 272): "Si direbbe che, in Musco, veda incarnata la sua
teoria sull’umorismo".
Di qui la programmazione del lavoro dialettale in funzione dell’attore che lo ispira (Liolà, La patente, Il berretto
a sonagli), senza che questa predilezione escluda peraltro contrasti assai aspri: per esempio, a proposito
delle mancate repliche di Liolà. Tuttavia l’inevitabile ricomposizione delle relazioni personali conferma
l’intesa che distingue l’autore e l’attore.
Del resto almeno in un caso il procedimento è verificabile. Una lettera di Musco dell'11 marzo 1917,
indirizzata al capocomico Nino Martoglio ma rivolta a Pirandello (Pirandello, Maschere nude: I, 627 nota 1),
chiede tagli significativi e modifiche del copione di 'A birritta cu 'i ciancianeddi (Il berretto a sonagli).
Ora proprio questi interventi, prontamente effettuati, vengono mantenuti da Pirandello dopo la prima (27
giugno 1917), in occasione delle ristampe dell’edizione italiana (1918, 1920, 1925): a conferma che l’autore
si era persuaso della bontà delle critiche dell’interprete, facendole proprie in modo definitivo.
Quando si allenta la collaborazione con Angelo Musco, compare entro l’orizzonte di Pirandello un altro
mattatore.
Ruggero Ruggeri svolge un ruolo complementare all’attore siciliano per il teatro in lingua italiana.
L’intesa non è immediata e comincia in negativo nell’aprile 1917, con il rifiuto di Ruggeri di recitareCosì è
(se vi pare), giudicando la sua compagnia "del tutto inadatta" alla commedia.
Un mese dopo però egli accoglie con entusiasmo Il piacere dell’onestà, con una decisione che segna una
svolta per ambedue gli interlocutori. Lo stile razionale e misurato dell’interpretazione di Ruggeri si adatta
efficacemente al linguaggio delle commedie di Pirandello, costruite per l’appunto secondo un impianto di
logica serrata.
Di qui il ruolo determinante di Ruggeri che si rivela col tempo l’attore pirandelliano per eccellenza, come
dimostra il numero delle esecuzioni dei drammi principali del suo repertorio: in totale, egli recita 285
volte Il piacere dell’onestà, 318 volte Enrico IV. Nemmeno in questo caso però si tratta di adesione passiva.
Per esempio, Ruggeri propone di alleggerire il primo atto del Piacere dell’onestà e di rafforzare il secondo,
con una richiesta che Pirandello si affretta ad esaudire.
Si capisce dunque che Pirandello più tardi, annunciando per lettera a Ruggeri l’Enrico IV (21 settembre
1921) ancora da scrivere, si diffonda in una minuziosa esposizione del piano di lavoro, quasi cercando
un’approvazione preventiva.
L’ultimo periodo della carriera di Pirandello vive nel nome di una grande attrice, Marta Abba (1900-1988). A
lei sono dedicati esplicitamente ben cinque drammi (Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, La
nuova colonia, Come tu mi vuoi, Trovarsi).
Si tratta di un amore legato al teatro, ricco di stimoli e di sollecitazioni.
Marta Abba è una musa affascinante che al suo ammiratore ispira l’opera, obbligandolo ad affinare
l’indagine sia indirettamente, attraverso le numerose lettere a lei indirizzate, sia nella concreta invenzione
di lavori concepiti per un’attrice che sa interpretarli magistralmente.
Fra questi drammi significativo appare Trovarsi (1932), che consente a Pirandello di ripensare i problemi
del teatro attraverso l’ottica di un’attrice in attività.
Così il caso di rispecchiamento della realtà, presentato nel lavoro, si giova della singolarità di uno sguardo
femminile.
A questo punto il rapporto fra Pirandello e gli attori, limitato al caso di alcuni protagonisti, si presta a
qualche considerazione di carattere generale, perché la scrittura di Pirandello si configura costantemente in
progress. Le varie edizioni a stampa dell’opera dimostrano che l’autore tiene conto, strada facendo, dei
suggerimenti ricavati dalla partecipazione alle prove o dalla visione degli spettacoli. Perciò si può dire, in
definitiva, ricavati da quella lettura critica applicata che deriva anche dal gesto dell’attore.
L’importanza del pubblico per Pirandello è dichiarata dal ruolo centrale che l'autore gli riserva nella
dimensione del suo teatro. Non tanto nel senso ovvio che egli scrive per il pubblico, ma piuttosto perché
egli allarga materialmente i confini del palcoscenico, includendo proprio il pubblico entro le quinte,
attraverso l’abolizione della cosiddetta "quarta parete".
Non sorprende perciò di trovare il pubblico, diviso in partiti avversi ("VOCI DEGLI SPETTATORI CONTRARI
ALL’AUTORE" e "VOCI DEGLI SPETTATORI FAVOREVOLI"), fra gli attori di Ciascuno a suo modo. Senza dubbio
il coro di accompagnamento dell’azione riprende, nell’assenso e nel dissenso, episodi reali capitati
all’autore in occasione dei suoi drammi più provocatori (Il giuoco delle parti al Manzoni di
Milano, L’innesto all’Argentina di Roma, Sei personaggi in cerca d’autore.)
Una tale divisione si può considerare costitutiva e non per nulla si manifesta fin dal debutto, visto che -
informano le cronache - il pubblicò disapprovò Lumie di Sicilia, applaudendo invece La morsa.
Successivamente, il caso più clamoroso è rappresentato dai Sei personaggi in cerca d’autore.
Il dramma, fischiato dagli spettatori romani, viene applaudito calorosamente dal pubblico di Milano che
decreta accoglienze "trionfali" al lavoro, obbligando l’autore, contro le sue abitudini, a presentarsi più volte
sul proscenio.
Vale la pena chiedersi a questo punto: che pubblico era quello che, affollando i teatri e, sia pure tra
contrasti comprensibili, garantiva a Pirandello un’affermazione indiscutibile? Si delinea un fenomeno
nuovo. Quel pubblico non è identificabile con la crema intellettuale e aristocratica che assicura, in quegli
stessi anni, il successo dei maggiori scrittori del Novecento (Proust, Joyce, Musil).
Si tratta piuttosto di un pubblico particolare, come ha scritto Giovanni Macchia, "fatto anche di gente
comune, di brava gente, forse non dotata di molta cultura": eppure capace di riconoscersi in quella
commedia.
Tutto il teatro pirandelliano è dominato dal sentimento del contrario come virtù storica e meta estetica.
La sua grande capacità di risolvere la tragedia dell’esistere sta nel capovolgere le situazioni, ove l’azione
diventa dramma proprio attraverso l’umorismo, poiché l’essenza comica consiste nella risata amara e in
una coscienza critica, perlopiù ironica e autoironica.
La prima fase del teatro pirandelliano è, per ambientazione e linguaggio, prettamente siciliana: la
commedia "Liolà" lo testimonia ampiamente. Nel 1916 Angelo Musco aveva recitato con successo questa
pièce “campestre” in tre atti scritta in dialetto agrigentino, definita dallo stesso Pirandello“l’opera mia più
fresca e viva”.
Il personaggio di Liolà, traboccante di vita, che danza e canta, se ne va in giro da amoroso, seducendo le
donne incurante del codice d’onore, è la caratterizzazione di un insolito ragazzo-padre, che si tiene tre figli
natigli dai suoi amori, frutto della sua vis procreatrice.
Ora sarebbe addirittura pronto ad accogliere felice il quarto, quello di Tuzza, ma ovviamente non la donna.
Durante tutto lo svolgimento della commedia Liolà appare come l’unico veramente generoso e buono,
disinteressato, al contrario degli altri, che risultano egoisticamente chiusi nella propria piccola grettezza.
In questo clima di indagine psicologica sui personaggi, condotta dall’autore, si rileva quale costante il
tradimento e una filosofica amarezza e scetticismo nei confronti dell’intera umanità. Ciò che si contrappone
alla verità è il voler apparire a tutti i costi nel contesto sociale. Ne consegue che ciò che si è, spesso viene
annullato da ciò che si vuole che gli altri credano di noi.
Tale drammatica visione del mondo, che Pirandello inserisce nei suoi personaggi, non è, per così dire,
alleviata dall’intervento del distacco umoristico.
Anzi, l’ironia e il grottesco aumentano la tragedia interiore dei sentimenti.
Insomma, solo in apparenza si ride, perché l’animo umano è, per l’autore, quasi sempre ossessionato da
materialistiche aspirazioni, arido di slanci generosi, poco sensibile verso il popolo dei sofferenti, eticamente
in decomposizione.
Ne è prova la commedia in due atti "A birritta cu’ i ciancianeddi", scritto in dialetto siciliano nell’agosto del
1916, rappresentato l’anno successivo a Roma al Teatro Nazionale, sempre da Angelo Musco, e poi tradotto
in italiano col titolo "Il berretto a sonagli", che vede sulla scena Beatrice, moglie del cavalier Fiorica, certa
che il marito la tradisca con la giovane sposa di Ciampa, anziano scrivano e uomo di fiducia della famiglia. La
signora Beatrice decide di smascherare la presunta tresca del marito e svergognare pubblicamente la
donna. Allora si inventa un pretesto per allontanare da casa Ciampa: egli deve riscattare dei gioielli
impegnati in città, partendo subito. Il vecchio scrivano, che notoriamente serra a casa la giovane moglie, in
quest’occasione, avendo sentore che qualcosa venga ordito alle sue spalle, la conduce a casa della signora
Beatrice, perché possa passare la notte dai Fiorica e non a casa da sola, anche se ben rinchiusa.
La signora Beatrice, però, non accoglie sotto il proprio tetto quella che considera l’amante del marito e lo
scrivano non può far altro che chiudere la moglie in casa e partire per l’incarico ricevuto. Nel contempo il
delegato di pubblica sicurezza Spanò viene convocato dalla signora Beatrice, che gli firma una denuncia, e
gli spiega come pensa avvengano i convegni amorosi tra il marito e l’amante. E’ da notare che la casa di
Ciampa è attigua allo studio del cavalier Fiorica e che i due luoghi comunicano tramite porte di solito
normalmente ben serrate, ma che, se aperte, possono facilitare incontri clandestini, senza che nessuno
sospetti nulla. Scoppia lo scandalo, i due amanti vengono arrestati, ma Spanò afferma che non emergono
elementi di flagrante adulterio, forse per riguardo al cavalier Fiorica. Per difendere il proprio buon nome e
conservare l’onore della gente Ciampa ora dovrebbe uccidere i due amanti, ma con astuzia gli viene in
mente un’altra possibilità: la signora Beatrice, che ha combinato tutto questo pandemonio senza
considerare minimamente le conseguenze, deve farsi credere folle di gelosia, ponendo rimedio allo
scandalo grazie alla pazzia. Tutti sono d’accordo. E si farà così, per il bene comune, anche della signora
Beatrice, e, nella logica capovolta, dire la verità è sufficiente per essere ritenuti pazzi.
Purché si salvino le apparenze, tutto è permesso e ognuno in società deve mostrare il “punto”d’onore che
si è costruito e che anche gli altri gli impongono per sostenere il ruolo che lo faccia apparire rispettabile. Il
tema della maschera di Ciampa vive nelle diverse sfaccettature umane come difesa ed esigenza di decoro,
necessità comportamentale pur se drammatica. Quando questo velo cade e tutti conoscono la sua infelicità
coniugale, Ciampa si aggrappa disperatamente alla propria“parte” come unica possibilità di sopravvivenza
sociale e l’utilizzo della finta follia diviene il mezzo che ristabilisce una condizione di normalità.