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Il paradiso e noi. Su Il Regno e il Giardino di Giorgio Agamben.

di Marcello Tarì

In uno dei suoi aforismi terribilmente ironici una volta Kafka ha scritto:

La cacciata dal paradiso, nella sua parte essenziale, è un processo extratemporale eterno. La
cacciata dal paradiso è dunque definitiva, e la vita nel mondo inevitabile, ma l’eternità del
processo o, in termini temporali, l’eterno ripetersi del processo rende tuttavia possibile non
solo che noi si possa perennemente restare nel paradiso, ma che davvero si sia
perennemente nel paradiso, a prescindere dal fatto che noi, qui, lo si sappia o meno.

Il problema teologico-politico che Giorgio Agamben affronta nel suo ultimo libro, Il Regno e
il Giardino (Neri Pozza 2019), potrebbe essere anche letto come un corposo commento a
questa sentenza kafkiana. Il giardino del titolo infatti non è altro che quello dell’Eden: ma è
proprio quel giardino, come pensava Kafka, il paradiso? Ed è vero che esso è sempre stato
qui, sulla terra? Queste sono alcune delle questioni a cui si cerca infatti di dare risposta nel
libro. Tuttavia il suo tema principale non è né tanto quello del come è o dovrebbe essere
questo giardino né una descrizione del regno a venire bensì, al modo di una sorta di
pamphlet ereticale, gira attorno alla questione del peccato in conseguenza del quale l’uomo
e la donna furono scacciati dal paradiso, quindi se il giardino è stato perso per sempre o
invece sia sempre possibile e quindi reale e infine se il regno appartenga a una dimensione
ultraterrena e ultrastorica oppure sia qui, tra di noi.

Apparentemente sono questioni lontane, a volte si ha l’impressione appunto di leggere un


trattato scritto da un antico eresiarca, ma se solamente facciamo lo sforzo, e non è difficile,
di comprendere come e quanto l’Occidente non abbia mai smesso di pensare la politica
senza avere come riferimento la teologia giudaico-cristiana, allora sapremo riconoscere
l’attualità di discutere oggi del paradiso e dell’inferno, del peccato e della grazia, in una
parola della politica del Regno e della possibilità di una vita beata.

Non è certo la prima volta che Agamben si occupa del Regno, forse non si è mai occupato
d’altro, e lo ha fatto anche nei suoi libri più recenti, tuttavia in questo nuovo libro egli
riprende e porta a compimento precisamente i motivi di una riflessione risalente a quasi
trent’anni fa, contenuta in un suo saggio dal titolo «Disappropriata maniera» dedicato al
poeta Giorgio Caproni che poi andrà a comporre uno dei capitoli del volume Categorie
italiane. Studi di poetica.

In questo modo, con un gesto “fuori dal tempo”, Agamben indica in tutta la sua evidenza il
legame che da sempre egli sostiene esistere tra poesia e filosofia e dimostrando così, ancora
una volta, due cose. La prima è che la maniera in cui l’accademia scinde il pensiero in tante
discipline a loro volta scisse in diverse microspecializzazioni non ha alcuna legittimità e che
la sola e unica disciplina del libero pensiero è proprio quella capace ogni volta di non
separare la poesia, la politica, la filosofia, l’arte, in una parola il pensiero dalla vita stessa.

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La seconda è che il metodo da lui usato, l’archeologia filosofica, è valido anche per il
proprio stesso pensiero, non nel senso che questo debba ritornare sempre a un qualche
passato originario, ma perché un vero pensiero non ha un andamento lineare-progressivo
ma va innanzi e si ritira, si interrompe e ricomincia. Come Agamben scrive al termine di
quel vecchio saggio, riferendosi all’opera di Caproni, ma lo stesso vale per la sua stessa
opera: «Possiamo solo dire che qualcosa finisce per sempre e qualcosa ha inizio, e che ciò
che comincia, comincia soltanto in ciò che finisce». Questo è il motivo per cui un pensiero
forte non ha fine – sia in senso temporale che nel senso di scopo – ed è una potenza sempre
sul punto di finire e di cominciare. Anche solo questi sarebbero già dei motivi sufficienti ad
apprezzare questa nuova avanzata con lo sguardo volto all’indietro che è Il Regno e il
Giardino.

Ma veniamo al suo contenuto. Nel saggio su Caproni la questione è già integralmente


presentata nelle sue linee fondamentali e prende avvio da un appunto del poeta che si
termina con queste parole:

Tutti riceviamo in dono qualcosa di prezioso, che poi perdiamo irrevocabilmente. (La
Bestia è il Male. La res amissa [la cosa perduta] è il Bene).

Agamben scriveva che Caproni in un’intervista spiega che questo bene può essere espresso
in quanto Grazia amissibile, cioè qualcosa che si può perdere. Ed è qui che il filosofo inseriva
la sua riflessione teologico-politica, poiché questo tema della grazia ammissibile è quello che
Agostino usò nella disputa che lo oppose a Pelagio. Questi fu un teologo del IV° secolo che
fu condannato per eresia poiché sosteneva che siccome la natura umana è essa stessa opera
della grazia divina, allora per l’uomo esiste sempre la possibilità di non peccare. Agostino, e
poi l’istituzione ecclesiale, ovviamente non potevano tollerare questa posizione che nella
pratica avrebbe significato destituire la Chiesa, poiché nel caso che la natura umana non
fosse sempre già irrimediabilmente corrotta allora non vi sarebbe bisogno dei sacramenti che
solamente la Chiesa può elargire e, ancor più, l’uomo sarebbe davvero libero. Ed è proprio a
(ri)partire da questo problema teologico e politico che Il Regno e il Giardino traccia il suo
cammino.

Il problema politico che deriva da questa disputa è presto detto: l’istituzione della Chiesa,
come qualsiasi altra istituzione, ha per compito quello di separare ciò che è naturalmente
unito e unire artificialmente ciò che è separato, quindi il giardino, approntato da Dio per
l’abitazione beata degli uomini e delle donne, fu separato dal regno e dichiarato ormai
perduto per sempre, inabitabile per l’eternità, mentre lo stesso regno veniva rimandato a un
futuro oltreterreno. Non è complicato vedere come questo dispositivo abbia poi funzionato
nella storia, quindi nelle lotte secolari: il comunismo è sempre posto dai suoi preti in un
lontanissimo futuro che sarà possibile raggiungere solo attraverso la mediazione di
un’istituzione, quali il partito, lo stato o qualche altra figura della separazione tra le quali ci
metterei anche i “collettivi” e le varie organizzazioni politiche cosiddette di movimento che,
anch’esse, pensano quasi invariabilmente la politica come una successione di scissioni tra
un fuori e un dentro, un esterno e un interno, e specialmente come una macchina
produttrice di azioni che devono realizzare un qualche obiettivo. Il dogma politico della
modernità si risolve nel fatto che il popolo, le masse o la classe, essendo anch’essi dei

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soggetti scissi, non possono accedere autonomamente al regno della libertà e la rivoluzione
va quindi governata, come sostenevano gli agostiniani Negri e Hardt in una delle loro
encicliche.

D’altronde l’interesse che ha per noi, oggi, una simile discussione è detto nelle prime pagine
de Il Regno e il Giardino:

Anche quando, com’è avvenuto più volte, gruppi di uomini hanno cercato di trarne
l’ispirazione per un modello di comunità decisamente eterodossa, la strategia dominante ha
vegliato ogni volta a neutralizzarne le implicazioni politiche.

Non sono pochi coloro che anche in anni recenti hanno cercato di dar vita a queste
comunità eterodosse e invariabilmente è accaduto che tutte abbiano fallito senza che se ne
capisse bene il motivo. Non è difficile invece comprendere i motivi del disaccordo nel
dibattito teologico del primo cristianesimo.

O, come sostiene Agostino, il peccato, in questo senso originale, ha scisso la natura umana
una volta e per sempre che così sarà tutta, fino alla fine del tempi, colpevole e mancante e
quindi anche il paradiso lo sarà, scisso tra un giardino da sempre perduto e un regno
impossibile da sperimentare in questa vita, oppure, come sosteneva già Ambrogio, Pelagio e
poi ancora molte sette millenariste, la natura dell’uomo, pur potendo questo peccare, non
era mai stata separata e quindi non lo era stato nemmeno il paradiso, per cui giardino e
regno coincidono sempre così come la natura umana e la grazia lo sono in una forma-di-
vita.

A veder bene Kafka dicendo che è molto probabile che, pur essendone stati espulsi, non
siamo mai usciti dal paradiso solo che non lo sappiamo, affermava che il problema
dell’umanità, il vero stato di peccato nel quale è immersa, consiste nella sua incoscienza e
che questa incoscienza è ciò che le ha permesso di devastare il giardino e di devastarsi a
propria volta. La cosiddetta questione ecologica è tutta qui.

A sua volta Agamben, commentando Pelagio, scrive che «il peccato non è infatti una
sostanza che si possa trasmettere, ma consiste soltanto in gesti e opere». Da questa
affermazione, che è la posizione che il filosofo accoglie, capiamo meglio perché Agamben
insista così tanto sull’inoperosità e perché abbia occupato gran parte dei suoi libri degli
ultimi venti anni con la critica del paradigma dell’azione, la cui “colpa” è quella di essere
costantemente scissa in mezzo e fine. Ogni volta che individualmente ripetiamo questo
genere di azione, ogni volta che consentiamo a quella scissione di ripetersi in ogni campo
della vita e così di determinarla, ognuno di noi viene cacciato dal paradiso e ogni volta che
ciò viene fatto in massa abbiamo la certezza che invece del regno della libertà avremo quello
dell’oppressione. L’inoperosità, quindi, è quell’operazione che, mentre disattiva ogni opera
separata in se stessa, libera gli uomini restituendogli alla loro natura indivisa.

Al concetto di massa in tanto che paradigma teologico-politico Agamben dedica


un’importante glossa, mostrando l’origine agostiniana del significato della parola poi entrata
nella modernità a designare il soggetto sovrano al posto del popolo. Ma proprio in tanto che

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sempre massa dannata essa non può mai accedere autonomamente alla propria liberazione,
bensì deve affidarsi alla mediazione di una qualche istituzione che la governi. Il compito
dell’istituzione è quello di occultare l’autonomia tanto dei singoli che del popolo e quindi la
situazione di cui parla Kafka, ovvero che il paradiso è sempre stato qui e che noi siamo i suoi
abitanti – se solamente ne fossimo consapevoli. Ogni singola destituzione, in questo senso,
libera un frammento d’autonomia, cioè di paradiso. Ed è come se il gesto supremo della
destituzione possa strappare il pesante sipario che impedisce di ammirare nella sua
integralità il giardino nel quale, tuttavia, viviamo.

Un capitolo viene dedicato da Agamben alla maniera in cui Scoto Eriugena nel medioevo
diede una risposta alla questione teologica del paradiso del tutto opposta a quella
agostiniana. Qui, a differenza di Kafka, si dice che il paradiso, certo, è sempre stato qui, ma,
a differenza di Agostino, non bisogna pensarlo letteralmente bensì allegoricamente. Il
paradiso così sarebbe in realtà la stessa natura umana e quindi se peccato vi è stato è
accaduto fuori di essa. Infatti la variante più di spessore rispetto alla narrazione di Kafka è
nel fatto che Eriugena sostiene che in verità l’essere umano non ha mai vissuto nel paradiso
edenico e che tutto ciò che narra la Genesi, compreso il peccato, è avvenuto fuori dal
paradiso, quando insomma ne era già uscito ma proprio per questo esso resta la promessa
eterna della destinazione propria della natura umana: «l’origine è la meta». Eriugena per
altro afferma che la natura tanto materiale che spirituale dell’uomo non è diversa da quella
animale, così detronizzando l’uomo dal posto più in alto nella gerarchia che è sempre stato
osservato nella cultura occidentale, ma che esiste una sola natura, una sola sostanza per
dirla con Spinoza, e che questa è in Dio come Dio è in essa. In definitiva il peccato è ciò che
allontana l’uomo dalla sua natura, mentre il bene è ciò che lo richiama alla sua vera
abitazione.

Quindi l’ulteriore e definitivo passaggio che compie Agamben per confutare ogni
agostinismo è compiuto tramite l’analisi dell’opera di Dante Alighieri. In effetti, già nel
saggio su Caproni il filosofo per rispondere alla domanda «Perché c’importa la poesia?»
convocava Dante a testimonianza del fatto che essa ci importa non perché si identifichi con
la vita biografica o psicologica del soggetto che la fa e nemmeno perché si isoli da quella,
bensì perché permette la sua desoggettivazione attraverso la lingua e con ciò il poeta «nella
parola genera la vita». Dunque poesia e vita coincidono in una lingua senza soggetto che
permette una nuova «mutazione antropologica». E questa mutazione è esattamente ciò in
cui dovrebbe consistere una vera politica, la quale comincia sempre a partire dalla nostra
stessa vita: chi tra noi, per dirla con Caproni, non vive con la sensazione di aver perduto un
bene, una qualche forma di grazia, qualcosa di incalcolabile? L’esistenza, a volta, sembra
solamente consistere nella ricerca di quel bene che con ogni probabilità abbiamo perduto per
sempre. Ma il bene è forse nella ricerca stessa.

Ne Il Regno e il Giardino si mostra come Dante indicasse una soluzione al problema del
peccato e del paradiso del tutto eretica rispetto all’opinione ortodossa di Tommaso
d’Acquino, una soluzione che è tanto individuale che collettiva, cioè del tutto politica.
Dante infatti sostiene che il paradiso terrestre non è altro che una figura allegorica della
beatitudine umana o, nelle sue parole, «civile». La beatitudine è cioè l’esercizio della propria
virtù, la quale è legata all’amore – all’«uso della cosa amata» – e quindi nella coincidenza di

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virtù, intelletto e amore è la chiave della felicità terrena del genere umano. Ancora, per
Dante la venuta del Cristo è stata sufficiente a restaurare l’integrità della natura umana, la
redenzione è così già avvenuta e quindi non ci sarebbe alcun bisogno dei sacramenti
amministrati dalla Chiesa. Quindi, una volta di più, Agamben usa Dante per specificare che
«sono le azioni umane, e non la natura», al contrario di come dicono sempre i teologi, a
provocare l’infelicità dell’uomo: «il paradiso terrestre di Dante è la negazione del paradiso
dei teologi».

I teologi infatti non solo hanno separato la natura umana dalla grazia ma anche il giardino
dal regno e quest’ultimo è spesso descritto come qualcosa che sarà istaurato solo dopo la
fine dei tempi, la città celeste di Agostino appunto, e se, al limite, di regno sulla terra si può
parlare lo si può fare solo riferendosi alla Chiesa. Per di più in molti teologi si trova che
persino questo regno paradisiaco ultrastorico avrà bisogno di un governo, di qualcuno che
comanda e qualcuno che esegue, di regnanti e di sudditi, anche se magari non ci sarà la
proprietà privata. Il che non può non ricordare l’avventura del socialismo realizzato – cosa
sul quale lo stesso Agamben infatti si sofferma. Ma infine il filosofo, in una vertiginosa
ricapitolazione della tradizione apocalittica, dal giudaismo a Walter Benjamin passando per
qualche Padre della Chiesa e le sette millenariste, afferma alcune semplici verità: il regno è
necessario agli uomini per ritrovare sulla terra la felicità perduta; il regno di cui si parla nei
Vangeli è terreno ed è sempre presente tra di noi, qui e ora; nella storia sono presenti due ritmi
temporali, quello messianico e quello cronologico, ma il primo non può mai essere iscritto
nel secondo, bensì gli è «accanto».

Vi è un altro aforisma di Kafka concernente il paradiso:

Fummo creati per vivere nel paradiso, il paradiso era destinato a servirci. La nostra
destinazione è stata mutata, non così quella del paradiso.

La nostra destinazione è stata mutata dalle istituzioni, da un Governo degli uomini e delle
cose che non vuole finire e che continua a questo fine nell’imbrogliare gli uomini
procrastinando infinitamente il regno e quindi il «paradiso in terra». Ma questo, il paradiso,
è sempre qui e aspetta solo di essere abitato. Così il regno è tra di noi ma per permettergli di
venire bisogna levare gli ostacoli che ci impediscono di vederlo. È per questo che la
destituzione di ogni Governo è necessaria.

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