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Capitolo 1.
Le competenze dell’insegnante professionista: saperi, schemi d’azione,
adattamenti ed analisi
Marguerite ALTET
In Francia si pone l'alunno al centro del sistema educativo e si sono intraprese delle modifiche del sistema di
formazione: agli insegnanti è riconosciuta una specifica professionalità, i professori di sciola ad ogni livello
diventano dei professionisti dell'insegnamento e dell'apprendimento e vengono formati all'acquisizione di
competenze necessarie per:
- l'atto di insegnare (saper insegnare)
- e non solamente alla padronanza dei contenuti dell'insegnamento (saperi disciplinari).
I mestieri dell’insegnamento esistono da molto tempo e si possono reperire antiche concezioni sulla
professionalità dell’insegnante. Perrenoud ricorda a giusto titolo che gli insegnanti sono e sono sempre stati
persone di mestiere, dei “professionisti”; che vi sono diversi modelli di professionalità insegnante e che la
corrente della professionalizzazione descrive semplicemente un processo che si alimenta “quando, nel
mestiere, l’attivazione di regole prestabilite cede il posto a delle strategie orientate da obiettivi e da
un’etica”. Si tratta del passaggio dal mestiere artigianale, dove si applicano tecniche e regole, alla
professione in cui si costruiscono delle strategie, appoggiandosi su dei saperi razionali, sviluppando la
propria expertise d'azione e la propria autonomia.
L'insegnante professionista viene definito come una persona autonoma, dotata di competenze specifiche,
che poggiano su una base di saperi razionali, proveniente dalla scienza, legittimati dall'università, o di saperi
nati dall'esperienza.
La professionalizzazione si crea a partire da un processo di razionalizzazione dei saperi messi in atto, ma
egualmente a partire da pratiche efficaci in situazione. Il professionista sa mettere in atto le proprie
competenze in qualsiasi situazione; egli è “l’uomo della situazione”, capace di riflettere durante l’azione e
di adattarsi. Il professionista viene ammirato per la sua capacità di adattamento, la sua expertise e la sua
capacità di risposta e di adeguamento alla domanda, ai problemi complessi e per la sua capacità di esternare
i propri saperi, le proprie azioni e di saperne dare una giustificazione.
Gli si chiede, inoltre, di essere autonomo e responsabile.
È questo il modello di professionalità che sembra sotteso attualmente al processo di professionalizzazione
degli insegnanti ed essere predominante.
Che cose implica come competenze a livello di insegnamento e del modello di formazione? Ci sono quattro
modelli diversi di professionalità insegnante:
• L’insegnante MAGISTER O MAGO: questo modello intellettualista dell’antichità considerava
l’insegnante come Maestro, che sa e che non necessita di formazione specifica o di ricerca poiché il
suo carisma e le sue competenze retoriche sono sufficienti;
• L’insegnante TECNICO: questo modello fa la sua apparizione con le écoles normales (scuole per la
preparazione all’insegnamento); ci si forma al mestiere attraverso un apprendimento imitativo,
basandosi sulla pratica di un insegnante esperto che trasmette il suo saper fare, i suoi “trucchi”;
• L’insegnante INGEGNERE, TECNOLOGICO: l’insegnante si basa sui contributi scientifici delle
scienze umane. Razionalizza la propria pratica tentando di applicare la teoria. La formazione è
gestita da teorici, specialisti pedagogisti;
• L’insegnante PROFESSIONISTA, ESPERTO-RIFLESSIVO: alla dialettica teoria-pratica si
sostituisce un va e vieni tra PRATICA-TEORIA-PRATICA; l’insegnante diventa un professionista
riflessivo capace di analizzare le proprie pratiche, di risolvere dei problemi, di inventare delle
strategie. Mira a sviluppare nell'insegnante un approccio alle situazioni del tipo AZIONE-SAPERE-
PROBLEMA, utilizzando insieme pratica e teoria.
2. La specificità dell’insegnante
Come si costruiscono questi saperi attraverso l’esperienza pratica? Le verbalizzazioni degli insegnanti sulle
loro azioni e le loro azioni ci informano sulla natura di questo tipo di saperi, che sono:
1. I SAPERI TEORICI, nell’ordine del dichiarativo, tra i quali si possono distinguere:
• I saperi da insegnare, saperi disciplinari;
• I saperi per insegnare, saperi pedagogici sulla gestione interattiva della classe.
Questi saperi teorici sono indissociabili.
2. I SAPERI PRATICI nati dalle esperienze quotidiane della professione, contestuali, acquisti sul
campo, chiamati anche saperi empirici o saperi d’esperienza, che sono:
• I saperi sulla pratica, saperi procedurali sul come fare;
• I saperi della pratica che corrispondono ai saperi d’esperienza, ai saperi nati dall’azione riuscita: il
saperci fare.
Nessuna forma di conoscenza può essere ridotta ad un sapere dichiarativo, procedurale o condizionale.
Come dice Pieters, quando si conosce qualcosa, si possono conoscere:
- non solo le informazioni di fatto (sapere dichiarativo),
- ma anche come si può utilizzare questo sapere in determinati processi o routine (sapere procedurale),
- e si può anche comprendere quando e dove questo sapere può essere applicato (sapere condizionale).
Nei saperi legati all’azione, un’altra dimensione che interviene, è la dimensione adattamento alla
situazione: il sapere della pratica è costruito nell’azione per essere efficace; è un sapere adattato alla
situazione. Questa capacità di adattamento del sapere si costruisce a partire dall’esperienza vissuta, con
l’ausilio di percezioni ed interpretazioni fatte in situazioni vissute precedentemente.
Il ruolo dell’insegnante “esperto-decisore” non si adatta alla descrizione di una professione che è
innanzitutto una pratica relazionale che necessita di interazioni multiple e che subisce costrizioni provenienti
dalla situazione e incertezze provenienti dalle reazioni degli altri attori. L’esperienza di queste situazioni è
formatrice: solo lei permette all’insegnante di sviluppare l’habitus (cioè delle disposizioni acquisite nella
pratica effettiva ed attraverso di essa) che gli permettono di fare fronte al mestiere. Un lavoro sull’habitus,
attraverso il saper analizzare, formerà l’insegnante a prendere coscienza di ciò che fa.
• La formazione deve partire dalla pratica; si propone di chiarire le pratiche attraverso la meditazione
di una esplicitazione.
• Gli insegnanti ed i formatori hanno acquisto i loro saperi professionali sul campo, nell’azione.
Qualunque sia la formazione iniziale ricevuta, gli insegnanti mettono in primo piano l’influenza
prioritaria della loro formazione pratica, che ha fatto loro acquisire una conoscenza di ciò che
bisogna fare e far fare. La professionalità si costruisce nell’esperienza e nella pratica sul campo, ma
con l’aiuto di un mediatore che facilita la presa di coscienza e di conoscenza.
• I formatori dicono che mancano loro i mezzi per analizzare le pratiche e le situazioni e che i concetti
prodotti dalla ricerca didattica e pedagogica sembrano poterli aiutare ad esplicitare le loro azioni
Per il quanto riguarda il loro valore epistemologico, si possono distinguere due fonti di validità per questi
saperi:
• Una validità a priori nel modo rigoroso di procedere nell’investigazione;
• Una validità a posteriori attraverso il transfert, quando questi saperi contestualizzati sono trasferiti da
altri praticanti a nuove situazioni.
Se l'insegnante professionista ha sostituito l'insegnante decisionista, la formazione non può più consistere in
una modellazione di decisioni, ma deve fornire dei dispositivi diversificati che sviluppino il saper analizzare,
il saper riflettere e il saper giustificare, attraverso un lavoro dell'insegnate stesso sulle proprie esperienze.
Sono queste metacompetenze che permettono all'insegnate di costruire le proprie competenze di
adattamento, caratteristiche dell'insegnate professionista.
Capitolo 2.
L’elaborazione delle rappresentazioni nella formazione degli insegnanti
Simone BAILLAUQUES
Si può generalmente pensare che la definizione delle competenze dell’insegnante, detto o no professionista,
passa attraverso un modello di professore atteso, auspicato, verso cui si tende.
Le competenze professionali riconosciute e da instaurare corrispondono esse stesse a delle rappresentazioni.
E come tali, esse beneficiano e nello stesso modo risentono sia del carattere astratto e razionalizzato delle
dimensioni che le compongono, sia della loro base sul concreto, del loro passaggio attraverso livello meno
coscienti.
Secondo indagini recenti, per i professori della secondaria di I grado, l’amore per la disciplina è
generalmente la prima motivazione che ha portato alla scelta della professione. Tutto è incentrato solo sulla
padronanza della materia da insegnare, come se questa conferisse automaticamente autorità al maestro sugli
alunni, i quali imparerebbero così senza difficoltà.
La concezione di insegnante si elabora a partire da discorsi sociali, da prese di posizione culturali, da abiti
mentali. Comprende allo stesso modo le proiezioni della propria esperienza e del proprio vissuto “del”
professore o dei professori conosciuti come allievo. Essa comporta e mantiene i suoi fantasmi e le sue
costruzioni di ideali, e le sue idealizzazioni.
Sul versante delle secondarie, i professori sono in generale più propensi a riconoscere il loro attaccamento al
contenuto disciplinare. In seconda istanza accennano alla questione della padronanza tecnica e alle
caratteristiche relazionali dell’atto di insegnare a partire dalla loro propria passione per il sapere e dalla loro
capacità da testimoniare davanti ai loro alunni. Questa asserzione relativa all’arte di “passare la propria
passione” è un’illustrazione frequentemente ricorrente della difficoltà che può esistere prima della
formazione, prima di affacciarsi al mestiere.
Si può avanzare la seguente ipotesi: l’insegnante, prima di essere razionalmente identificato per i suoi sforzi,
è un personaggio ri-conosciuto: ricercato-ritrovato nell’esperienza individuale e collettiva del passato
scolastico. L’immagine del professore che il bambino ha introiettato quando era tenuto ad imparare si ri-
presenta sulla soglia del divenire insegnante soprattutto nei suoi aspetti concreti.
Alcuni lavori hanno studiato l’impatto delle rappresentazioni del maestro sulla sua attività pedagogica. Le
relazioni di ruoli e di rappresentazioni di ruoli tra i maestri e gli alunni sono oggetto anche di analisi e
apprendimenti intrapresi in una procedura clinica.
Il grado di coerenza tra il modello pedagogico recepito, scelto o preferito e quello che si esercita nella realtà
quotidiana, sta in stretta relazione con il modo in cui il professore vive la questione dell'autorità, del potere,
del sapere, del gruppo, in funzione della sua riuscita personale e delle rappresentazioni che egli ha elaborato
(in poche parole, molto spesso, si hanno delle aspettative che poi nella realtà di tutti i giorni sono disattese).
Per questo motivo, gli studenti durante la formazione scelgono modelli pedagogici più liberali, ma quando si
confrontano con la realtà della classe, passano a pratiche autoritarie.
Al momento dell’assunzione della funzione, “lo scontro con la realtà” riconosciuto dagli psicologi è riferito
ad un divario cruciale tra le rappresentazioni di ingresso e l’esperienza originaria. Tutto si volge come se,
anche in uscita dalla formazione, i saperi e le immagini che stavano alla base delle aspettative verso il
mestiere non fossero adeguate alla realtà quotidiana delle situazioni scoperte come una sorpresa sul campo
d’azione.
L’ascolto degli insegnanti principianti mette bene in vista le angosce provocate dalla consapevolezza della
responsabilità del cammino verso l’autonomia. Questa, condizionata dal sentimento di solitudine, è percepita
allora nei suoi rischi e nei suoi vincoli come nelle sue gratificazioni.
Si rilevano anche delle delusioni di fronte ai comportamenti imprevisti degli alunni. L’insegnante percepisce
per un certo tempo il rischio di disgregarsi nel suo fronteggiare la complessità del mestiere che si credeva
facile. È disorientato al pensiero delle conoscenze e competenze che non ha, che credeva di possedere.
I comportamenti allora, pedagogici e relazionali, ne risentono e possono sottomettersi a dei modelli di
insegnamento detti “tradizionali”.
È stata formulata l’ipotesi di un archetipo, quello del maestro di potere, che incide sullo schema figurativo
delle rappresentazioni del mestiere e del suo “passaggio all’azione”.
Da una parte è certo che le rappresentazioni vadano ad influenzare i comportamenti e il livello di
competenze professionali; dall’altra si sa meno in quale misura l’attività professionale nel suo evolvere
interverrà sui significati, le opinioni ed i valori attribuiti alla professione.
Dalla prospettiva offerta dai suoi racconti con altri colleghi, formatori, ma innanzi tutti sulla base
dell’esperienza nella classe, il praticante evolve, si forma. Non solo apprende i contenuti, ma apprende lui
stesso, in qualche modo, nel suo lavoro e in quanto al suo lavoro. Egli entra in questa dinamica che lo
identifica e grazie alla quale egli si identifica non come un insieme di competenze, ma come una persona in
relazione e in divenire.
L’insegnante autonomo, responsabile, capace di valutazione e di iniziativa, nell’adattamento creativo delle
sue azioni e posture alle realtà del mestiere, è un praticante che supera l’immediatezza dell’esecuzione
quotidiana delle sue incombenze perché sa collocare la relazione insegnare-imparare nella dinamica di un
progetto per gli alunni e per sè stesso nella società.
Il professionista dell’insegnamento è un esperto riflessivo. Ritorna col pensiero sul suo lavoro, sulla
situazione che egli ha organizzato e vissuto o che si prepara per ottimizzare l’insieme dei suoi atti. È allora,
contemporaneamente, esperto auto-riflessivo; ritorna sempre col pensiero su sè stesso e sulla situazione
creata.
Ma la questione non è facile. Ci sono delle difficoltà più o meno pesanti degli insegnanti, che sono
mantenute se non alimentate dalla situazione pedagogica nella quale intervengono, in interazione,
motivazioni incomparabili, fenomeni inattesi legati al transfer, tra il “maestro” ed il suo/suoi alunno/i.
Come per ognuno, ma ancora di più per l’insegnante, la distanza con l’attività professionale esercitata è
difficile. A tal proposito, è importante sottolineare le attività di tirocinio, che saranno tanto più accette,
volute, riuscite quanto più percepite come suscettibili di colmare gli scarti tra la stima fatta dallo studente o
tirocinante dei suoi saperi e di quelle riconosciuti come necessari al protagonista. Questi sarebbero così in
grado di definire degli ambiti in cui avrebbero bisogno di una formazione più approfondita, in base alle
proprie necessità professionali.
Le ricerche i cui esiti sono conosciuti fino ad oggi sollevano problematiche cruciali su tre punti.
• Il primo ha origine sul fatto che le domande di formazione vertono in ugual misura sia su dei rinforzi
di conoscenze e di competenze possedute che su lacune da colmare;
• Il secondo riguarda il senso stesso e lo scopo della domanda, e come questa può concepirsi nelle sue
opacità e deviazioni: quale attesa, che desideri profondi si nascondono sotto una “formazione
formale”?
• Per ritornare, se fosse necessario, sulla questione delle competenze professionali, la prassi stessa di
formazione è inscritta nelle rappresentazioni del mestiere insegnante?
La conoscenza dell’ambiente dei professori mette in evidenza che esiste un problema, per gli insegnanti, sul
versante formazione.
La formazione iniziale è detta troppo tecnica, troppo distante dalla realtà. Gli insegnanti rimproverano ai
formatori di non aver detto abbastanza, fino a domandarsi se la formazione sia utile.
Dall'altra parte, questi sono definiti poco propensi al cambiamento e all'autocritica, e con atteggiamenti poco
partecipativi.
Oggi è consuetudine affermare che una buona formazione è quella che conduce i professionisti al desiderio
di formarsi ancora in pratiche concrete della formazione.
Voci colte qua e là negli incontri con gli insegnanti affermano che “non si sa mai abbastanza per
insegnare”, o suggeriscono che forse, certi colleghi sono piuttosto stanchi se non delusi dal lavoro svolto e
che essi non contano più di “sottoporsi a formazione”.
Da simili concezioni di formazione, ottenute nel corso di vari incontri e questionari, emergono certe
domande di fondo:
• Quali sono le rappresentazioni della forma del mestiere presso i richiedenti?
• Sono convinti in primo luogo dell’interesse e della necessità di formarsi?
• In che cosa, in che modo, queste rappresentazioni possono intervenire nel loro addestramento e su
ciò che essi percepiscono e possono dunque influenzare la loro professionalità?
Nella ricerca sulla “modulazione della formazione degli insegnanti”, si lavora su entrambi i fronti delle
rappresentazioni: del mestiere della formazione, interrogandoci continuamente sui loro rapporti, su cui si
sono sviluppati strumenti diversi:
• Un questionario sulle rappresentazioni del mestiere è stato somministrato a 360 studenti in fase di
professionalizzazione. Le concezioni possibili del mestiere sono state affrontate in varie voci, dalle
attività e le relazioni che si hanno in classe, alle motivazioni ad insegnare e ai progetti di carriera.
• Un Q-sort che cerca di accogliere in modo più personalizzato, le reazioni dei soggetti di fronte a
domande anche provocanti riguardanti la necessità o meno della formazione. A differenza del
questionario, che è distribuito anonimamente e compilato individualmente, il Q-sort si pratica in
gruppo in seno al quale possono svilupparsi in seguito discussioni e si pone allora come strumento di
“formazione-riflessione”.
• Interviste riguardo a insegnanti importanti. È stato richiesto ad alcuni studenti in formazione non di
dire le loro rappresentazioni del mestiere e della formazione ma di tracciare il profilo di insegnanti
che li avevano segnati quando erano alunni.
• Diverse ricerche-formazioni imperniate sulla personalizzazione della formazione hanno fornito
l’occasione per analizzare certe rappresentazioni del mestiere e della formazione. Tentano di
riassumere le nozioni-chiave della personalizzazione della formazione iniziale dei futuri professori,
in confronto con i vincoli istituzionali ed organizzativi.
Tournier analizza dei dispositivi di formazione e mostra che l’elaborazione delle rappresentazioni non
avviene nel vuoto, ma è influenzata dal contesto, da vincoli e sistemazioni, da aggiustamenti tangibili o
simbolici nei quali si inscrive.
Per un soggetto che vuole diventare insegnante, il passato e il presente si incontrano nel progetto
personalizzato del sè. L'idea-visione della persona nel suo mestiere si riferisce alla propria esperienza dei
maestri incontrati, si proietta sulla propria carriera, si mette in pratica nelle sue attese e nella sua formazione.
Si rafforza quando l'individuo si unisce al gruppo e nello stesso tempo quando vi si tiene separato.
L’altra finalità dei nostri lavori relativi alle rappresentazioni degli insegnanti, è di ordine pedagogico,
perfino didattico. I primi risultati tendono a mostrare che la presa in considerazione delle rappresentazioni
contribuisce alla formazione di insegnanti-professionisti lungo tutta la loro evoluzione.
• Il lavoro sulle rappresentazioni serve in primo luogo a sensibilizzare il mestiere. È un lavoro di
riconoscimento delle motivazioni e di riflessioni su di esse.
• In professionalizzazione iniziale in cui l’attività può continuare, il restringimento tra le immagini e
le attese del mestiere e le realtà di questo va rinforzandosi e dà luogo a movimenti psichici
individuali e di gruppo importanti. Il più importante consiste nella stima di sé dello studente e poi del
tirocinante in rapporto ai saperi.
• In termini di pre-professionalizzazione da un lato, di formazione iniziale successiva, le
rappresentazioni del mestiere sono cambiate? Viene mostrato poche differenze tra i giovani
insegnati e i più esperti nelle risposte al questionario predisposto.
• Che accade nella testa degli studenti nello stacco tra la fine della formazione e il primo incarico?
Si sa solo ciò che accade dopo.
Capitolo 3.
La formazione alla complessità del mestiere insegnante
Louise BELAIR
Da sei anni a questa parte, l’amministrazione della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di
Ottawa ha optato per la messa in atto di offerte formative diverse per la formazione iniziale degli insegnanti
primari.
Diversi dispositivi sono stati sperimentati ed hanno permesso percorsi originali di varie dozzine di futuri
insegnanti. Collochiamo prima queste esperienze nel loro contesto.
I bisogni attuali della popolazione francofona dell’Ontario raggiungono quelli che si attribuiscono a
qualsiasi minoranza che debba difendere la propria lingua, cultura ed il suo posto in un mondo
maggioritario, in questo caso il mondo anglofono.
La lingua di comunicazione privilegiata è soprattutto l’inglese, anche nelle famiglie francofone, ed il
francese, per una forte maggioranza, è parlato solo in classe. La richiesta attuale è quindi far imparare i
fondamenti didattici ai bambini, di spingerli a vivere, parlare ed esprimersi il più spesso possibile in
francese.
I diversi interlocutori dell’educazione hanno dibattuto per due anni sulle prospettive della formazione di
insegnanti professionisti/e pronti ad accogliere tali sfide. Sono state raggruppate quattro categorie:
• Gli insegnanti che si sentono esperti nel loro ambito di lavoro come dei professionisti che
possiedono il linguaggio della pratica;
• Il sindacato insegnanti che mira alla protezione degli interessi degli insegnanti non solo in termini
di condizioni sociali ma anche in termini di rapporto alle innovazioni imposte dalle istanze
ministeriali
• Il Ministero dell’Istruzione che tenta da parte sua di rispondere alla società di oggi, si fa portavoce
delle istanze dei genitori e del mondo del lavoro;
• L’università, nel quadro della formazione iniziale e continua in seguito a varie ricerche, vuole
interrogare la pratica, comprenderla e domandarla.
Per quanto questi interlocutori professino il desiderio di stabilire dei punti di incontro, il problema attuale sta
nel fatto che ognuno ha il suo stile di linguaggio e che c’è poca comunicazione tra di loro.
Per esempio, il Ministero produce programmi per la maggioranza anglofona, dà direttive di applicazione in
questo senso e traduce il tutto per la minoranza francofona.
I risultati qui presentati vengono dall’ultima sperimentazione condotta fuori campo con 29 studenti/esse e
sette formatori/trici (Toronto), dove è stato elaborato un programma di insegnamento integrato alla pratica e
centrato sulla riflessione nell’azione.
Gli insegnamenti sono stati quindi integrati in modo tale che le osservazioni e le pratiche in classe potessero
essere considerate nei corsi ed analizzate nel quadro di riflessioni collettive ed individuali.
Gli insegnamenti sono stati effettuati a partire dai bisogni e dalle attese dei tirocinanti.
• Un primo principio di organizzazione era di favorire presso i tirocinanti lo sviluppo del loro stile di
insegnamento attraverso l’appropriazione di vari stili esistenti, l'osservazione e la riflessione su
situazioni simulate e reali.
• Un secondo principio mirava all’articolazione tra la pratica in classe e la teoria, tenendo in conto del
contesto. Le ricerche effettuate permettevano la messa in atto di una rete sistematica di riflessioni
dove l’azione stava al centro delle loro preoccupazioni.
• L’ultimo principio di elaborazione di questo percorso era di sviluppare gli atteggiamenti necessari
alla professione insegnante. Sulla base di ricerche condotte a partire da percorsi anteriori di
formazione, gli atteggiamenti cui mirare secondo gli insegnanti interpellati erano: autonomia,
responsabilità, prontezza d’azione, comunicazione.
3. I concetti articolati nella formazione
• Imparare
La concezione del tirocinio richiesta dal Ministero dell’Istruzione nei programmi di studio rimanda alle
teorie costruttivistiche. Questa concezione di apprendimento si allaccia a quella concezione di
apprendimento secondo cui nessuno può sostituirsi all’allievo nel suo apprendimento e che quest’ultimo
deve costruirsi delle reti di concetti e collegare i saperi veicolati in classe e attorno a lui. È quindi in
quest’ottica che il programma è stato elaborato, allo scopo che il tirocinante possa confrontare i propri saperi
già in atto con diversi saperi sia teorici che sperimentali. Si deve dinamizzare il percorso di formazione
affinchè questo sia il più possibile trasversale alle discipline e permetta così di trasferire le abilità sviluppate
in tutti i contesti.
• Insegnare
In conformità a questa concezione costruttivistica dell’apprendistato, l’insegnamento è da pensarsi più come
animazione che trasmissione autoritaria di sapere. Artaud colloca bene la relazione educativa che, agli inizi
degli anni Cinquanta era autoritaria per tendere nel Settanta ad una non-direttività, e che diviene una specie
di comunicazione.
Si privilegia un insegnamento come comunicazione e assunzione delle decisioni nella trasparenza e nel
rispetto verso l'altro.
• Essere pedagogo
Il fatto di rispettare la relazione tra più persone che hanno la funzione di imparare e far imparare, porta ad
una riflessione sul senso da attribuire alla pedagogia.
Gauthier parla di stratagemma del pedagogo di fronte ad un avversario per il quale egli deve scoprire tutti i
segreti per vincere la gara dell’apprendimento. Altri studiosi parlando di differenziazione in funzione degli
alunni e delle situazioni, per arricchire il modo in cui gli alunni concepiscono i loro apprendimenti.
È in quest’ultima prospettiva che il percorso stabilito finora trova la sua collocazione. L’insegnante può
essere l’insegnante-ricercatore, vale a dire colui\colei che analizza la sua pratica, pone domande, riflette ed
agiste nell’azione; ma è anche un esperto riflessivo e tende a ritornare costantemente sulle sue azioni e a
comprenderne il senso. Da cui la necessità di sviluppare la capacità di autoanalisi, autovalutazione e
autoregolazione, di ripensare alle proprie strategie, di ispirarsi alle ricerche altrui e di comunicare.
È solo sviluppando queste abilità che il tirocinante acquisterà la sua expertise di insegnante.
Come definire allora le competenze di un insegnante riflessivo, rivolto ai bisogni ed istanze dei suoi alunni,
che collabora e discute con loro?
Alla luce dei diversi percorsi sperimentati, una struttura pare emergere, che permette l’individuazione di
ambiti di competenze da acquisire per il nuovo insegnante. Questi cinque ambiti individuati dagli insegnanti,
formatori e sviluppatori dei tirocinanti hanno permesso di elaborare il percorso di formazione allo scopo di
rispondere ai bisogni fino ad allora inespressi. Si determinano nel modo seguente:
• Le competenze collegate alla vita di classe. Comprendono le incombenze relative alla loro gestione,
all’organizzazione del tempo, all’adeguamento all’atmosfera della classe.
• Le competenze individuate in rapporto agli alunni e alle loro peculiarità. Includono compiti che
comportano la comunicazione, la conoscenza e l’osservazione dei tipi di difficoltà d’apprendimento
e i possibili rimedi, l’incoraggiamento costante ad un coinvolgimento reale degli alunni
• Le competenze legate alle materie insegnate. Esse richiedono un’acquisizione dei saperi,
concernenti ogni disciplina, una capacità di integrare questi saperi a saperi insegnabili partendo dai
vissuti e dai saperi già in possesso degli alunni
• Le competenze richieste rispetto alla società. Esse sono di diverso ordine, secondo le interazioni
dell’insegnante con l’ambiente circostante. Così, bisognerà stabilire comunicazioni informative con i
genitori mediante incontri
• Le competenze inerenti alla propria persona. Sono le più importanti di tutto il processo. Di fatto è il
sapere dell’insegnante riflessivo sulla sua azione e pratica
Questi campi di competenza permettono allora di visualizzare il percorso sviluppato e descritto fin qui. I
tirocinanti ed i futuri insegnanti di mestiere devono coprire tutti questi campi di conoscenze, a seconda dei
loro bisogni, forze e debolezze in un contesto piuttosto personalizzato.
Il tirocinio deve essere il luogo in cui l'inesperto deve appropriarsi di situazioni, riformularle, modellizzarle,
provarle ed analizzarle con l'aiuto e i consigli dell'insegnate-ospite.
Si è fatta una valutazione della pratica di formazione attuando una sperimentazione durante tutto l'anno. Si è
chiesto ai tirocinanti di scrivere che cosa intendessero per insegnamento e apprendimento, quattro volte
durante l'anno, riuscendo così ad evidenziare e a prendere coscienza le trasformazioni dei tirocinanti.
Dai risultati di questa sperimentazione possiamo affermare che la ricerca e la riflessione nell'azione, hanno
permesso ai tirocinanti di comprendere meglio l'apporto teorico e la sua importanza nella quotidianità
dell'insegnamento. Vivere una situazione, commentarla e analizzarla in tutti i suoi aspetti, permette di
capirne meglio la sua ricaduta sugli alunni della classe.
Alcuni tirocinanti, addirittura, hanno sentito il bisogno di approfondire le loro conoscenze per affrontare
meglio le situazioni che dovevano affrontare.
In generale, l'approccio dell'insegnamento, si è basato sul rispetto dell'altro e sull'aiuto dell'alunno, grazie ad
una comunicazione continua.
Il mestiere di insegnante acquisisce in un’articolazione tra situazione vissute e le teorie che tentano di
spiegarle, attraverso una generalizzazione dei processi.
L’approccio riflessivo suggerisce una formazione piuttosto personalizzata che possa aiutare ciascuno a
individuare le proprie competenze e quelle che invece gli restano da acquisire. In questa linea di pensiero,
numerosi stati americani effettuano una formazione attraverso il “mentoring”, dove il “mentore” diventa
l’amico e l’aiuto nella autoformazione dell’inesperto già incaricato in una scuola, dopo una formazione
iniziale. In una simile situazione, risulta che questi formatori lavorano in collaborazione e fanno emergere
gli aspetti più dibattuti del mestiere di insegnante, al di là delle didattiche e delle metodologie.
Capitolo 4.
Formazione pratica degli insegnanti e nascita di un’intelligenza
professionale
Michel CARBONNEAU, Jean-Claude HETU'
Introduzione
Da ormai tre anni lavoriamo per costruire una banca di situazioni pedagogiche su videoregistrazioni. In
origine, l’obiettivo mirato era essenzialmente di disporre di un materiale che permettesse di procedere
all’analisi dell’atto pedagogico per far emergere il sapere esperienziale dell’insegnante ma man mano si è
strutturato il progetto di creare una banca delle videoregistrazioni. Quest’esperienza doveva impegnarci in
un processo di riflessione sui saperi pratici e sulla formazione.
1.1 Premessa
Sono stati realizzati dei video in una classe di quarto anno della scuola elementare (bambini di 10-11 anni).
Le registrazioni sono state atte su base settimanale, sono di una durata complessiva di un'ora e senza
interruzioni. La strategia di montaggio consiste nello scegliere le sequenze che presentano una unità e che
costituiscono un tutto coerente. Per esempio, se la registrazione di un’ora comporta più di un’attività (ritorno
su una lezione precedente, correzione di esercizi ecc..) un montaggio terrà conto solo di uno di questi
elementi. La durata di un montaggio eccede raramente i 25 minuti.
Il corso modello si intitola L’insegnante di fronte ai modelli di intervento e si rivolge agli studenti del primo
o secondo anno di baccalauréat di formazione iniziale degli insegnanti del pre-elementare.
Durante le sedute del corso, sono state utilizzate diverse modalità di visione. Secondo la natura dei video e i
concetti oggetto di studio, le visioni precedevano o seguivano le relazioni teoriche o le discussioni di
gruppo.
La durata dei video utilizzati variava da 7 a 25 minuti. Tutte le relazioni del corso sono state seguite o
precedute da una proiezione.
L’analisi dell’esperienza dell’anno scorso ha permesso di condurre a buon fine l’impresa. La visione dei
video ha condotto gli studenti a proiettarsi nell'azione dell'insegnante per avere una prima identità
professionale. La procedura proposta dal corso era infatti una occasione per avere un contatto con la realtà
professionale, anche se simbolico.
Il sistema di ripresa e videoregistrazioni è stato poi ripreso l’anno successivo. Alcuni esempi di reazioni ai
video sono chiarificanti. Già l’anno precedente eravamo stati colpiti dall’impressione di superficialità che si
coglieva dai commenti degli studenti, essendo affettiva la componente principale. Così il loro primo riflesso
era di identificarsi con gli allievi, il che li conduceva a criticare l’atteggiamento dell’insegnante giudicato
troppo autoritario. Dall'altra parte riuscivano difficilmente a qualificare la pedagogia dell'insegnate.
Quest’anno (1994) si sono aggiunte nuove osservazioni che invitano a una rilettura della dinamica in
presenza. Davanti ad una lezione in cui l’insegnante ignora o finge di ignorare gli allievi che non hanno
capito la nozione insegnata, gli studenti hanno reagito in modo critico. Altra reazione tipica degli studenti:
davanti ad un intervento di gestione disciplinare, essi hanno concluso che si trattava di una pessima qualità
della relazione affettiva dell’insegnante con i suoi allievi. L’insegnante ha però ricordato che non si può
fare tutto in una lezione: “Uno non ha capito? Bene, gli presterò attenzione domani quando penso di
ritornare su questa attenzione. Per ora, considero più importante proseguire in modo da non interrompere il
ritmo e permettere un buon concatenamento delle attività. Il tempo di cui si dispone è limitato e bisogna
accettare che i bambini partano con delle comprensioni incomplete o erronee. L’importante è conservare in
memoria, restare vigili”.
Questo è il sapere esperienziale.
Ad esempio, una giovane insegnate diplomata, durante una conferenza ha fatto notare come la sua principale
difficoltà è stata quella di fronteggiare una situazione in cui un allievo o tutto il gruppo non reagisce in
funzione alle sue pianificazioni, come era state descritto nei libri.
Con l’esperienza, l’insegnante costituisce la sua riserva di interventi. Ogni situazione comanda un intervento
singolare e l’insegnante può giustificare la scelta di tale intervento.
2. Tentativo di modellizzazione
Perrenoud propone di introdurre nelle rappresentazioni del sapere dell'insegnante, un'invariante: l'Habitus o
schema di azioni, che impone l’idea che, senza un meccanismo di mobilitazione dei saperi, non ci sarebbe
l’espressione di competenza professionale. Quest’idea di considerare l’insegnante come un operatore di
schemi di azioni esime in parte dall’obbligo di chiarire il problema dei “saperi”, in particolare la sua
dicotomia teoria-pratica, nella misura in cui si trovano confusi in uno schema d’azione perché fusi insieme
idee, valori, conoscenze ed esperienze.
Dallo studio di Piaget sulla nascita dell’intelligenza, si può comprendere dallo la riserva di interventi
dell'insegnate costituisce un'azione pedagogica potenziale. La nostra esperienza tenterebbe a dimostrare che,
nel tirocinante, non è tanto l’assenza di schemi d’azione che spiegherebbe la difficoltà, quanto i limiti di
quelli disponibili o la difficoltà nel coordinarne più di uno, oppure per la difficoltà, in una specie di rigidità o
lentezza cognitiva, di passare da uno schema all’altro o di selezionare lo schema appropriato.
D’altra parte, in questa logica piagetiana, gli schemi si costruiscono e si trasformano per assimilazione e
accomodamento, cioè per confronto con la realtà con la realtà che permette di giudicare la loro potenza e i
loro limiti.
Sempre in riferimento al modello piagetiano, emergono dei livelli di equilibrio. In una trasposizione alla
realtà pedagogica, l’equilibrio da raggiungere, ma senza dubbio mai totalmente raggiunto, è quello della
padronanza dell’economia pedagogica, intesa nel senso dell’organizzazione delle sue diverse componenti.
È solo progressivamente che lo studente o l'insegnate riesce ad acquisire la complessità di questa meccanica
e d adattare conseguentemente la sua riserva di saperi.
A seguire tentiamo di capire come si acquisisce questo sapere pratico.
Tre metafore permettono di illustrare la comprensione che noi abbiamo dei meccanismi in gioco:
• La prima è tratta dall’esperienza della guida automobilistica notturna. Guidare di giorno e guidare
di notte sono due realtà molto diverse. Nel primo caso, il campo visivo compreso presenta una
grande ampiezza. Nel secondo caso, il campo visivo è limitato all’illuminazione che si proietta e il
più piccolo fascio di luce ricevuto rischia di abbagliare. L’insegnamento dell’esperto è assimilabile
alla guida diurna mentre l’esordiente sarebbe in situazione di guida notturna. Quest'ultimo dispone
unicamente, per sola illuminazione, di alcuni proiettori concettuali e, più raramente, di proiettori
dell’esperienza. La sfida della formazione consiste nel dare più sicurezza e padronanza di gestione
delle situazioni.
• Una seconda metafora è tratta dall’universo dei giochi a regole. I tirocinanti o gli insegnanti “in
prova” si comportano spesso come giocatori sorpresi dal fatto che le regole del gioco non siano
affatto o non più rispettate. Il gioco al quale si è iniziati durante la loro formazione sembra
improvvisamente trasformato: gli allievi non si comportano come previsto. In questa prospettiva, la
sfida della formazione iniziale consisterebbe a familiarizzare il tirocinante con giochi a regole
flessibili e mutevoli, a metterlo in guardia dall’illusione dell’onnipotenza della spiegazione teorica.
• La terza metafora è tratta dalla fisiologia dell’occhio e al “mandala”. Nell’universo concettuale
junghiano, il mandala è percepito come una rappresentazione simbolica dello stato psichico, nello
stesso tempo strumento di proiezione e di interiorizzazione. Secondo le tesi di alcuni studiosi, il
mandala verrebbe paragonato alla retina, superficie di ricezione dell’insieme degli stimoli visivi. Il
centro del mandala corrisponderebbe al punto cieco della retina, luogo di convergenza delle
stimolazioni visive provenienti dall’esterno e via di accesso verso la corteccia, dunque verso
l’interiore.
Il grande paradosso risiede nel fatto che questo punto di origine della visione è un punto cieco, come
se il luogo in cui si attualizza un’operazione fosse inaccessibile alla coscienza. Noi vogliamo tenere a
mente l’idea del punto cieco, perché rende bene l’immagine. Nel fuoco dell’azione il vero intervento
del professionista corrisponde più spesso con un momento cieco. Infatti nel momento in cui si svolge
l’attività, colui che interviene prende raramente coscienza dei processi in corso. Le sue reazioni non
sono frutto del caso, ma costituiscono la sintesi agita della sua expertise.
Mentre l’esperto passa istantaneamente dalla percezione all’azione, il principiante deve prendere il
tempo di analizzare per riconoscere una situazione già incontrata, per giudicare quale possa essere la
migliore spiegazione dei meccanismi in gioco, per decidere del principio didattico più pertinente da
applicare. Questa rappresentazione è a sua volta oggetto di interpretazione in base agli schemi
d'azione e solo dopo questa seconda analisi l'esordiente è pronto a rischiare un intervento.
3° principio: Valorizzare la presa di coscienza del tirocinante dei propri schemi di azione
Principio strettamente associato ai precedenti, è supportato nel nostro corso dalla redazione di un racconto di
vita educativa nel quale si ritrovano la descrizione di situazioni educative significative sperimentate nel
passato e il cui ricordo è ravvivato dal video. In questo modo durante il corso di hanno espressioni
divergenti nel gruppo di studenti che conducono ciascuno a prendere maggiore coscienza del proprio
pensiero. Questo accade perchè gli schemi d'azione sono legati ai valori e all'esplorazione dei saperi che
sono diversi in ogni insegnante.
4° principio: Identificare i quadri concettuali flessibili che possano rispettare la diversità degli schemi
d’azione e supportare il loro sviluppo
Se i modelli sono multipli e le pratiche singole, i quadri concettuali devono essere in sintonia. In questa
prospettiva la presentazione di modelli teorici di intervento nel nostro corso ha per scopo di offrire delle
scelte ai tirocinanti. La loro presentazione può essere fatta in occasione dell’analisi di una situazione
pedagogica su video e permettere un dibattito sulla trasformazione possibile dell’intervento in funzione delle
intenzioni diverse che si manifestano negli studenti.
Conclusione
I lavori del Laboratorio di ricerca sull’azione pedagogica alla scuola elementare e sulla formazione
professionale degli insegnanti sono realizzati con la collaborazione di insegnanti esperti/e in servizio e
vertono principalmente sulla formazione dei maestri elementari.
Il laboratorio mira a sviluppare strategie di ricerca che permettono di scoprire come affrontare l’esercizio
della professione dell'insegnate nella pratica, cercando di dare delle basi per poter riuscire a risolvere
ostacoli e problemi quotidiani.
Nel laboratorio non si cerca di applicare un modello di comportamento standard, ma è piuttosto un esercizio
di adattamento che mette in gioco sia componenti personali, sia l'integrazione di saperi teorici e di
esperienza.
Mettere su video tutto questo non è un lavoro semplice perchè questo supporto tende per sua natura a
trasformare in modello ciò che espone, suscitando in chi vede più ammirazione o critica piuttosto che una
riflessione sulla propria pratica.
Inoltre per l'insegnate esperto che espone la propria pratica professionale, non è semplice. Il fatto di essere
osservato scatena o accelera nell’esperto un movimento riflessivo, che suppone uno stato di disponibilità.
Oltre alle condizioni che favoriscono la disponibilità di un esperto ad esporsi, ci sono quelle che permettono
di iscrivere la ricerca nel movimento della pratica che gli sfugge. La ricerca in classe presuppone una grande
flessibilità nei ricercatori. Si tratta di seguire il movimento dell’esperto nell’azione quotidiana. Allora,
all’interno di questo movimento, saranno effettuate delle scelte dell’insegnante, saranno formalizzare
scoperte.
Gli studenti molto spesso si lamentano del fatto che gli elementi esposti durante il corso con corrispondono
alla realtà nel momento in cui iniziano il loro stage. Per questo motivo la documentazione video dell'atto di
insegnare nella sua realtà concreta suscita sempre molto interesse.
Davanti ad una situazione osservata, lo studente/ssa non è più neutrale; il suo passato scolastico, le sue
esperienze di lavoro, hanno contribuito allo sviluppo di un sapere di esperienza. In presenza della situazione
osservata, la sua riflessione e la sua eventuale azione pedagogica sono per forza orientate dal suo sapere di
esperienza implicita.
L’obiettivo della formazione pratica è di attivare la riflessione in azione dei futuri esperti, di condurli a
formulare il loro sapere di esperienza in modo da metterlo in interazione con i saperi che le tradizioni
scientifica e professionale rendono loro accessibili.
La formazione di un professionista all'educazione presuppone la pianificazione di condizioni che mettano in
relazione il sapere teorico e il sapere di esperienza.
Il documento video che riprende l'atto di insegnare nella sua realtà concreta permette ai futuri insegnanti di
far emergere una capacità d'azione legata alla riflessione.
Capitolo 5.
Formare insegnanti-professionisti per una formazione continua collegata
alla pratica
Eveline CHARLIER
1. L’insegnante, un professionista
In un recente articolo, Perrenoud identifica due possibili vie di evoluzioni del mestiere insegnante:
• Gli insegnanti si trovano progressivamente spogliati del loro mestiere a vantaggio del pensiero delle
persone che concepiscono e realizzano i programmi, le procedure, gli strumenti di insegnamento e
valutazione e che pretendono di consegnare agli insegnanti dei modelli efficaci di insegnamento; si
tratta di una forma moderna di proletarizzazione;
• Gli insegnanti diventano dei veri professionisti, orientati verso la risoluzione dei problemi, capaci di
lavorare in sinergia all’interno di istituti e di équipes pedagogiche; si tratta di professionalizzazione.
Perrenoud lancia l’allarme rispetto al rischio di proletarizzazione del mestiere di insegnante e raccomanda di
realizzare una formazione che miri ad aiutare gli insegnanti più professionisti.
Ma cos’è un professionista? A seguire la lettura sociologica e pedagogica della professionalità del
formatore.
La professione può essere definita a partire dai criteri qui esposti. Si tratta di un’attività:
• Intellettuale che implica la responsabilità individuale di colui che la esercita;
• Consapevole, non routinaria, meccanica o ripetitiva;
• Altruista, perché rende un servizio prezioso alla società;
• La cui tecnica si apprende alla fine di una lunga formazione;
• il gruppo che lo esercita, deve avere una forte organizzazione e coerenza.
L’insegnamento è un’attività intellettuale che comporta la responsabilità di colui che lo esercita, è un lavoro
creativo che implica anche il possesso di parecchie tecniche ed è una attività di servizio alla collettività.
Inoltre, le letture sociologiche mettono l’accento sull’importanza della formazione nel riconoscimento della
professionalità dell’insegnante e per questo bisogna definire le basi della formazione che permetterebbe
all'insegnate di diventare un professionista.
Per Shavelson la professionalità dell’insegnante viene definita a partire dalle decisioni che prende. Sviluppa
un modello sulla base del paradigma oggettivista del trattamento dell’informazione: l’insegnante è
considerato come un professionista che sceglie, all’interno di una serie di condotte disponibili, quelle che gli
sembrano più adatte ad una situazione di classe.
Il modello decisionista ha suscitato diverse critiche:
• La sua razionalità è contestabile
• meccanicistico
• Ignora il ruolo dell’affettività nei comportamenti dell’insegnante
Riff e Durand ricordano la differenza fondamentale tra fase interattiva e fase di pianificazione. Gli
avvenimenti prevedibili non sono molti, l'insegnante agisce con delle informazioni compete, in funzione di
obiettivi non sempre ben definiti. Durante l'interazione didattica, deve agire sul momento, in situazioni
sempre incerte.
Doyle e Ponder partono dal postulato inverso da quello di Shavelson. Secondo loro, non è l’insegnante che
controlla la situazione, ma la situazione che controlla l’insegnante. Così, i comportamenti dell’insegnante
sarebbero delle risposte a degli stimoli percepiti nell’ambiente piuttosto che il prodotto di decisioni
razionali. L'insegnate che gestisce il gruppo classe farebbe appello a delle routines e a degli schemi di
azione.
Shon propone la nozione di insegnate esperto riflessivo, rompendo con il paradigma oggettivista, opta per
un modello centrato sulla relazione interattiva degli attori sociali i quali producono comportamenti in base
alle specifiche situazioni, in base al legame che si forma tra i saperi degli insegnanti esperti e la pratica.
Newell e Simon affermano che l'insegnate vorrebbe agire razionalmente ma i limiti intrinseci della sua
azione lo portano a prendere la soluzione più accettabile.
Clack e Jackson affermano che, data la complessità dell'ambiente nel quale l'insegnante agisce, questo deve
in qualche modo semplificare il sistema di pensiero, avendo una comprensione più intuitiva del
funzionamento della classe.
Riff e Durand, in accordo con Berliner, affermano che l'insegnate ha due tipi di funzionamento:
- uno automatizzato, che fa riferimento all'utilizzo di routines di azione,
- uno ragionato, discontinuo, che fa riferimento alle decisioni prese dall'insegnante.
Quindi, durante la fase di pianificazione, l'insegnate tratta informazioni di origine diverse per scegliere degli
schemi di azione e dei comportamenti pedagogici da sviluppare al momento della fase interattiva.
Durante quest'ultima, applica delle decisioni prese e nello stesso tempo attiva schemi d'azione e routines in
risposta alle caratteristiche della situazione.
Nel caso di problemi importanti, può riflettere durante l'azione e adattarla sperimentando nuovi
comportamenti. Parallelamente, memorizza questi nuovi schemi d'azione ai quali potrà ricorrere
successivamente.
2. Le competenze professionali
Le competenze professionali dell’insegnante costituiscono uno dei tre elementi indissociabili del trittico,
progetti-atti-competenze.
• I progetti: il senso, gli scopi, gli obiettivi che l’insegnante fissa alla sua azione (il suo progetto
personale nel quadro del progetto d’istituto);
• Gli atti: i comportamenti da assumere in quanto insegnante (aiutare gli alunni ad imparare, lavorare
in équipe con i colleghi…);
• Le competenze: i saperi, le rappresentazioni, le teorie personali egli schemi d’azioni messi in atto per
risolvere i problemi in situazioni di lavoro.
Le competenze hanno senso solo se si traducono in atti e questi hanno senso solo se rispecchiano i progetti
iniziali.
Le competenze professionali sono l’articolazione di tre registri di variabili: i saperi, gli schemi d’azione, un
repertorio di comportamenti e di routines disponibili.
a. I saperi
Raymond individua due tipi di saperi:
• i saperi dell’insegnante, costruiti dall’insegnante stesso o che l’insegnante considera di aver fatto
propri; saperi costruiti a partire dalla sua pratica o da esperienze vissute nell’ambito scolastico.
• i saperi per l’insegnante che sarebbero elaborati da altre istanze, in altri contesti rispetto
all’insegnamento, che dovrebbero subire molteplici trasformazioni per essere utilizzati dagli
insegnanti in un particolare contesto.
Questi saperi si combinano in rappresentazioni e teorie personali che sono reinvestite nell'azione.
Apprendere consiste in una modificazione duratura degli schemi cognitivi dell’individuo a partire dalle sue
interazione con l’ambiente. Questo modo di leggere l’apprendimento mette in evidenza l’importanza delle
strutture di partenza nell’apprendimento, cioè gli schemi d’azione, dei saperi, delle rappresentazioni e delle
teorie, con i quali l’insegnante “arriva” alla formazione.
Ignorarli significherebbe sviluppare due sistemi di riferimento paralleli, uno utilizzato in formazione, l'altro
nella classe, traducendosi in una assenza di transfert dalle acquisizioni della formazione alla pratica.
Tener conto degli schemi di partenza dell’insegnante costituisce dunque una condizione per collegare la
formazione alla pratica.
Schon considera l’apprendimento del professionista e lo definisce nelle sue interazioni con la pratica. Il
professionista sviluppa le sue competenze essenzialmente nella pratica e a partire dalla pratica.
Sul luogo di lavoro, l’insegnante apprende nell’azione. Si possono distinguere diversi momenti in questo
meccanismo:
• Il professionista dà una risposta routinaria ad un insieme di indizi percepiti in una situazione
• È stupito dalle conseguenze della sua azione. Esse differiscono rispetto a quanto aveva immaginato
• Riflette su questo avvenimento e sperimenta una nuova azione per risolvere il problema
• Se riesce, la memorizza.
È dunque la pratica che suscita e convalida la nuova condotta sperimentata.
Shon e la Metafora del riallineamento: meccanismo cognitivo e affettivo che permette di vedere le cose
sotto un altro punto di vista, di sostituire la lettura di una situazione con un'altra.
Yinger afferma che l'apprendimento è possibile solo nella pratica. Questo apprendimento nell'azione
presuppone che l'insegnate abbia una posizione di attore: può agire sule azioni, modificarle e sperimentare
nuovi comportamenti piuttosto che subirli.
Questo presuppone degli atteggiamenti specifici, quali:
- accettare di fare errori;
- considerare l'errore come parte dell'apprendimento;
- correre dei rischi;
- gestire le incertezze.
Huberman sottolinea l'importanza di ricollocare l'apprendimento nella storia della vita dell'insegnate e
sottolinea alcuni fattori che possono influenzare il suo sviluppo professionale, come:
- la rete di colleghi, che può fornire occasione di scambio e discussione sull'esperienza vissuta;
- la necessità di poter sviluppare delle soluzioni personali in totale sicurezza.
Per concludere, si può mettere in evidenza l’importanza di creare, nella formazione e nel luogo di lavoro,
delle condizioni che permettano all’insegnante di sviluppare le sue competenze professionali a partire da,
attraverso e per la pratica.
• L’insegnante può apprendere a partire dalla pratica nella misura in cui essa costituisce il punto di
partenza della sua riflessione, sia che si tratti della propria pratica che di quella dei colleghi
(apprendimento indiretto);
• L’insegnante apprende attraverso la pratica. Rispetto alla realtà che gli resiste, l’insegnante si pone
come attore, cioè come qualcuno che può agire sulle caratteristiche della situazione, sperimentare
delle strategie nuove e scoprire soluzioni adatte alla situazione;
• L’insegnante apprende per la pratica perché, se il punto di partenza dell’apprendimento è
nell’azione, lo è anche la sua conclusione, in quanto l’insegnante valorizza essenzialmente gli
apprendimenti di cui vede le ricadute dirette sulla sua vita professionale.
3.1 Contesto
Lo scopo di un progetto di ricerca-azione formazione aveva come scopo di formalizzare delle condizioni di
formazione capaci di aiutare l'insegnante a trarre profitto dalle esperienze vissute sul terreno e a reinvestire
nella pratica il beneficio della formazione. La pratica, infatti, di per sé non insegna. Per essere formatrice,
deve essere teorizzata.
La formazione è concepita in modo da aiutare l’insegnante a realizzare la presa di distanza necessaria alla
costruzione di nuovi saperi e al loro utilizzo in classe.
Gli obiettivi fissati alla formazione erano i seguenti: si trattava di aiutare gli insegnanti:
• A comprendere le situazioni di lavoro, ad indentificare le loro componenti, ad analizzarle ed
interpretarle in funzione di teorie personali e collettive;
• Ad allargare il loro repertorio di competenze professionali a partire dal confronto con altre
possibilità;
• ad analizzare le pratiche di insegnamento e le decisioni prese, identificando le routine.
3.3 Obiettivo della formazione
Gli obiettivi sono stati perseguiti in occasione della costruzione di un prodotto educativo da indurre nelle
classi da parte di insegnanti che partecipavano alla formazione. Si trattava di immaginare nuovi utilizzi di
software applicativi per i corsi di studio sull’ambiente negli anni 5° e 6° della scuola primaria.
La procedura proposta per realizzare questo strumento presentava tre caratteristiche. Essa era:
• Partecipativa: gli insegnanti definivano le caratteristiche dei prodotti da costruire;
• Regolata: c’era un’alternanza di fasi di concezione e di prova nelle classi;
• Strutturata: un algoritmo che riprendeva diverse tappe ritmava la costruzione del prodotto (analisi
dei contenuti, sperimentazione, revisione) e guidava il lavoro del gruppo.
5. Un’alternanza formazione-pratica
La formazione è concepita in modo da alternare i periodi di formazione e di pratica professionale,
facilitando il legame formazione-pratica. Questo dispositivo permette agli insegnanti di sperimentare sul
luogo di lavoro i prodotti realizzati in formazione.
Questa formazione è costruita a partire da un’azione (costruzione dello strumento) in interazione con una
ricerca sulle strategie di formazione continua sul campo. Queste tre strategie di ricerca, di azione e di
formazione hanno tra loro delle interazioni multiple.
La formazione è l'occasione di sperimentare delle strategie tratte in parte da modelli e da teorie esplicitate
precedentemente. È il materiale di base della ricerca sulle condizioni di collegamento tra formazione e
pratica.
L'azione consiste nello sviluppo dello strumento educativo, nella sua sperimentazione in classe, in modo tale
da poterlo affinare. È l'oggetto della formazione.
Sulla base di una formazione, viene costruito un sapere. Informazioni provenienti dalla ricerca guidano le
decisioni di formazione (interazioni ricerca-formazione). Un’azione costituisce l’oggetto della formazione
(interazioni formazione-azione).
Questa articolazione tra ricerca-azione-formazione conduce talvolta a delle tensioni tra i diversi aspetti del
lavoro. Un esempio è che in certi momenti, i tre aspetti di ricerca, formazione e azione sono in
contraddizione. Superare questi dilemmi implica fare delle scelte, favorire un aspetto a scapito di un altro.
Questo accade anche perchè i tempi della ricerca, dell'azione e della formazione sono diversi.
Questa combinazione azione-ricerca-formazione sembra tuttavia adeguata al problema posto in quanto:
- la formazione si costruisce e acquista un senso rispetto all’azione. La costruzione di un prodotto educativo
struttura il lavoro in una serie di tappe;
- l’azione è l’occasione di esplicitare le pratiche e di costruire un materiale che permetta agli insegnanti di
sviluppare la capacità di riflettere a seguito della pratica;
- la ricerca permette entro certi limiti di attivare e regolare la formazione costruita.
Questa strategie di ricerca-azione-formazione ha permesso di proporre piste per una formazione collegata
alla pratica professionale.
Nel quadro di questo articolo, ne consideriamo cinque:
L’insegnamento si congiunge con altri mestieri denominati “mestieri dell’umano”. Ci si confronta con delle
situazioni sociali complesse, sottoposte al tempo, in cui si mescolano il sociale, l’istituzionale e il personale.
La posta in gioco è che l'altra acceda al sapere, cresca, superi una difficoltà. Ci apriamo in uno spazio che
esige una procedura particolare di pensiero, un'etica all'azione e una formazione adeguata, che la parola
"clinica" può qualificare.
Qualsiasi situazione ha del singolare, sia che riguardi una persona, un gruppo o una istituzione.
Per questo motivo la procedura clinica non appartiene ad una stessa disciplina, è un approccio che mira al
cambiamento, si mantiene nella singolarità e non ha paura della complessità.
Essa si caratterizza con:
- una necessaria implicazione;
- un lavoro sulla giusta distanza;
- una richiesta;
- un incontro intersoggettivo tra esseri umani;
- la complessità dello psichico e del sociale.
1.1. Implicazione
In una relazione con un altro essere vivente, non si può essere estranei. I secoli passati hanno certo potuto
liberarci nel nostro rapporto con la natura perché si sono accumulate delle conoscenze che ci permettono di
non avere più paura di un temporale o di un lampo. Nel nostro rapporto con l’altro o con il sociale siamo, in
compenso, in un rapporto affettivo, nel quale siamo accecati da ciò che siamo. Dovremmo imparare a
"disaffettivare" un po’ il nostro rapporto con l'altro e con sè perchè qualsiasi lavora del professionista è
quello di mettersi alla giusta distanza.
Una tale implicazione è necessaria. Si incontra l’altro solo attraverso una presenza. È la base dell’incontro, i
nostri sentimenti non sono inopportuni della circostanza.
C’è, per qualsiasi “mestiere dell’umano”, un lavoro incessante di lucidità da condurre. Nulla ci protegge da
sbandamenti per sé e per l’altro.
Quando si lavora con un essere vivente, l’altro a volte ci tocca, spesso ci resiste. In questi mestieri, noi
proviamo sentimenti di amore e odio. L’amore può dimostrarsi distruttore: amore passione, che utilizza
l’altro come oggetto e lo lascia distrutto. I nostri sentimenti violenti non sono solo negativi. Lo sono quando
mirano alla distruzione dell’altro, ma una collera può costituire un fatto nuovo e rivelarsi portatrice di
cambiamenti futuri.
Le persone con le quali lavoriamo ci rimandano immancabilmente all'essenziale delle nostre vite di uomini e
donne. Si oscilla così tra due posizioni: quella di grande prossimità e partecipazione con l'altro e quella di
rande lontananza che si traduce in indifferenza. Si oscilla così quando non si hanno gli strumenti per
orientarsi.
Prima accettiamo di essere colpiti, poi attuiamo meccanismi di difesa. Siccome non si può vivere sempre
colpiti, ci si distanzia; si mettono, fra l’altro e noi, delle teorie, degli strumenti tecnici, ci si protegge.
Quando si suggerisce di avere la giusta distanza, questo deve impegnarci a rivalutare le nostre relazioni,
perchè riconoscere le implicazioni psichiche nel mestiere, ci rende meno nocivi.
Ogni mestiere ha degli strumenti mediatori, delle teorie indispensabili. Il mestiere dell’insegnante chiede
senza alcun dubbio la capacità di programmare, di preparare ciò che dovrebbe essere, di attenderne gli
effetti. Nella nostra quotidianità, siamo in pilotaggio automatico. Poi interviene l’incidente. Da cui
l’importanza della predizione: “dovrebbe succedere così”, al quale segue “Non è successo così”.
La sequenza programmata va ad incontrare quella tale variabile differente, e la logica d’azione ne sarà
trasformata.
Nei “mestieri dell’umano” si fanno delle scommesse. Nell’incertezza, si prende tuttavia una decisione.
Essere clinici è precisamente partire da qualcosa di presente, da attese, da punti di riferimento preliminari e
consentire tuttavia di essere sorpresi dall’altro, inventare sul momento, avere intuizione, un colpo d’occhio.
Questo esige un pensiero proprio, una capacità di riflettere, e ciò che non segue la regola, diventa
esperienza.
Quindi, alla luce di quanto detto, un buon clinico è colui che ha colpo d'occhio, che riesce a cogliere quello
che non è per forza visibile.
1.3 Etica
Nell’agire si pone costantemente una domanda: “è bene, è male?”. È anche la prima domanda che si
pongono i principianti, con la speranza di un giudizio che potrebbe separare e soprattutto proteggere dal
male. Il nostro intervento sembra più semplice quando agiamo su degli oggetti. La misura del mio gesto è
data dall’oggetto e dall’intenzione che avevo.
Nei mestieri dell'umano, ci sono degli atti di cui si conoscono immediatamente i loro impatti, tutti gli altri
sono invece non dimostrabili.
Sappiamo che ci sono sempre molteplici probabilità, che si deve operare una scelta e che dobbiamo
assumerla, con le sue conseguenze. Qualsiasi atto trasforma la situazione che continua ad evolvere.
C’è la necessità di una dimensione etica per l’atto di insegnare? Il pedagogo diffida, a causa della morale di
un tempo, che faceva dipendere l’atto pedagogico da norme rigorose. Per coloro che hanno fatto rientrare
l'atto di insegnare in una scienza, la presenza di una morale è inammissibile. Ora la scienza non può
determinare tutto da sola e l’attore deve considerare altri punti di riferimento o porsi altre domande.
Badiou proclama che c'è etica solo nella singolarità e nell'intersoggettività delle situazioni reali. Essa è una
interrogazione riflessiva, una guida e un punto di riferimento, piuttosto che un sentiero già tracciato.
2. Formazione
Lo spazio clinico si distingue dal contesto del laboratorio ma non vi si oppone. Nella clinica si utilizzano i
risultati ottenuto nello spazio di un laboratorio, ma l’atteggiamento pertinente di fronte alla realtà è diverso
da quello sviluppato in laboratorio. Nella formazione, si ha sicuramente meno sicurezza, perché formare un
clinico non passa per vie sicure e lascia nell’ombra certi talenti di cui non si sa molto bene come si
acquisiscono ma che fanno l’eccellenza di certi esperti. Una tale formazione implica di considerare
l’articolazione tra saperi costituiti e saperi di esperienza.
Come considerare in un tale contesto l’uscita di saperi acquisiti? Acquisizione di contenuto? Sicuramente,
ma anche interrogazione sul processo di conoscenza.
Nell’orientamento clinico, ciascuno dovrebbe anche cogliere i limiti delle scienze umane rispetto all’azione,
considerarle non una guida infallibile ma un punto di riferimento per risolvere una problematica nel vivo di
una situazione.
Chiunque entri in questo mestiere dovrebbe orientarsi così nello statuto delle scienze umane, per mettere al
posto giusto questa ricerca del sapere e capire quale uso può farne nella pratica effettiva del mestiere.
I saperi di base non devono essere minimizzati ma devono essere messi in una prospettiva clinica.
In parallelo, si richiede un approccio sul campo attraverso l’azione e la riflessione sull’azione. Si tratta di
imparare ad osservare sul campo mentre si fa la pratica.
In laboratorio o in un ambiente protetto ci si può dotare di mezzi per una osservazione sistematica ma nelle
azioni reali questo non è possibile. Spesso l’osservazione è soltanto a posteriori, quando si ritorna al come di
un gesto, quando si può “osservare” cosa è successo. A posteriori si abbozzano le ipotesi più che spiegare, si
reperisce ciò che fu inventato nell’istante, misurando insomma l’effetto della propria azione.
La nostra capacità di ritornare sull’esperienza passata si affina con il concorso di qualcuno che aiuta a
guidare ciò che ci si rifiuta di vedere. Si impara così a studiare la propria intuizione, senza rinnegare i primi
movimenti.
Avere come punto di riferimento il “mestiere dell’umano” implica che si riservi un posto al portatore
dell’azione e alla sua relazione con altri esseri viventi. Quando si riconosce di essere portatori della propria
pratica come soggetto, si accetta che la parte si assume in qualsiasi azione.
Noi accettiamo di imparare dalla difficoltà, la nostra e quella dei bambini, avendo provato lo statuto
dell’errore in qualsiasi percorso di conoscenza.
Siamo da questo momento invitati a coniugare una pratica dell’alterità che esige una regolazione della
distanza rispetto agli avvenimenti, a questo o quell’allievo: una “buona” distanza che si elabora quando
sembriamo perderla sia per troppa confusione che per troppa indifferenza.
2.4 Tensioni
Esiste una tensione fra la logica del sapere preliminare delle scienze umane e quella della conoscenza
costruita a partire da un’esperienza. È qui che entra in gioco l’esperienza sul campo nella costruzione delle
conoscenze.
A volte si agisce come se uno studente debba apprendere i requisiti scientifici senza porsi delle domande e
senza capire il perché. Solo molto più tardi, diventato a sua volta esperto, potrebbe fare il collegamento.
3. Formatori
3.1 Responsabilità
Lo studente affronta la problematica inaugurata dalle principali discipline costituite dalle scienze umane solo
se il formatore se la pone ed esplicita la sua posizione.
Paradossalmente, un formatore proveniente da una disciplina come la sociologia, la psicologia o altre ancora
non deve negare la sua specialità; dovrebbe considerare con i futuri esperti come questo sapere si mobilita
nell’azione e ciò che non risolve.
La formazione iniziale dà le indicazioni programmatiche essenziali senza le quali il mestiere non può
esercitarsi ma un mestiere dell'umano non può esercitarsi senza anche correre dei rischi.
Una procedura clinica è molto esigente. A dire il vero non è una formazione. Essa mira essenzialmente allo
sviluppo di una sensibilità che integra i saperi sperimentali nella relazione con l’altro. La trasmissione di un
atteggiamento clinico è difficile. Resta il fatto che, a seconda di quale disciplina si riferisce, il
riconoscimento dell’importanza di un atteggiamento clinico come competenza di insegnare non è lo stesso.
Un atteggiamento clinico sfocia nella costruzione di un’etica delle situazioni singolare in cui è
costantemente interrogato il nostro rapporto con l’altro. Questo atteggiamento dovrebbe essere proprio di
ogni formatore che si interessi di soggettività e intersoggettività, e non materia di soli specialisti.
Quanto ai saperi di esperienze e di alterità, in un corso, il formatore può utilizzare i racconti della pratica per
circoscrivere le poste in gioco del mestiere, per lasciare intravedere come un professionista riflette sulla
pratica. Ma questo non basta. Lo studente in formazione dovrà provare le situazioni, parlarne, osservarle a
posteriori, porsi delle domande.
Affinchè questo avvenga, si deve creare un ambiente disteso, che non inibisca il formatore a dire quali sono
le sue difficoltà.
4. Scrittura
Se si apprende dall’esperienza e ci si forma, con quale scrittura si possono costruire delle conoscenze e
trasmetterle? C’è una scrittura specifica dell’esperienza e della clinica?
Una teoria del racconto è indissociabile da una teoria delle pratiche, come sua condizione e nello stesso
tempo come sua produzione.
La psicanalisi ha mostrato che qualsiasi soggetto si costruisce attraverso degli avvenimenti discontinui, per
poi costruire una continuità e alla fine una storia di vita in cui il soggetto si ritrova senza perdersi.
Perchè per un mestiere non si dovrebbe procedere allo stesso modo?
Si parla molto di identità professionale ma si evoca solo raramente che il racconto contribuisce alla sua
costruzione.
Tuttavia la nostra mentalità scientifica è scossa dall'affermazione che il racconto sarebbe una delle
teorizzazioni della pratica. Ma ogni realtà è ricostruzione, e comprende non solo comprensione ma anche
spiegazione nella messa in racconto, e la singolarità della situazione raccontata può raggiungere il generale
in cui molti si potrebbero trovare.
4.1 Autenticità
Un racconto non è né una somma di informazioni né la scrupolosa descrizione di un fatto esterno in cui
l’autore non è impegnato. La concezione del racconto rinvia necessariamente alla nostra concezione del
mestiere. Non può esistere nessun racconto, se il portatore dell’azione non assume la sua soggettività e se
nega l’impatto dell’effetto nel suo mestiere. Queste due condizioni sono particolari e associano il racconto
con l’espressione, l’autenticità e l’esposizione di un “io”.
Un professionista prova dei sentimenti e si impegna a riflettervi: ciò significa parlarne e a volte scriverne.
Rendere conto delle pratiche significa che si accetta di parlare anche delle difficoltà incontrate. Ovviamente
non sono esclusi i successi, i progressi e le resistenze rimosse, ma mi concentro sulle difficoltà perchè da
parecchio tempo nel mondo dell'istruzione non si espongono più dubbi o errori, eppure è a partire da un
insuccesso che si impara e si costruisce.
Cosa ricava colui che scrive un racconto a suo nome? il beneficio è solo affettivo? Si tratta di operare una
divisione tra benefici cognitivi e benefici affettivi? Evidentemente no, ci saranno entrambi.
Ciò che era informe ha preso forma, ciò che era senza ordine temporale si è strutturato tra un prima e un
dopo. Gli avvenimenti continui prendono posto in un quadro. Si delimita ciò che sembrava non avere né
inizio né fine. Ne consegue una messa a distanza. Non si cerca la spiegazione, ma la spiegazione si
costruisce raccontando. Il beneficio di ordine cognitivo, che ha come beneficio sussidiario una stima di sè
senza la quale non c'è stima dell'altro. L'io professionale si costruisce insieme all'io personale.
Il riconoscimento del racconto come modo di costruzione teorica si scontra, nel campo professionale, con
più di una difficoltà. Perché il racconto entri nell’ambito della scienza è importante che diventi pubblico e
dunque pubblicato.
In una formazione clinica, qual è il ruolo del racconto? Un formatore vi può far riferimento nelle sue lezioni.
Per professionisti affermati ed esordienti l’ascolto mi pare lo stesso. Un racconto che fa effetto sembra
essere quello che permette all’uditore o al lettore di operare delle intersezioni, di mettere in modo delle
associazioni che gli attraversano la mente: si riconosce una rassomiglianza, una differenza, una scoperta.
Capitolo 7.
Dal tirocinante all’esperto: costruire le competenze professionali
Nadine FAINGOLD
Introduzione
La pratica pedagogica è governata dall’habitus del maestro, sistema di schemi di pensiero e di azione che
determinano le molteplici micro-decisioni prese in classe, sul momento.
La questione della delucidazione dei “saperi di esperienza” messi in opera dagli insegnanti nella pratica del
loro mestiere, è strettamente legata alla problematica della formazione.
Interrogare la “riflessione nell’azione” degli insegnanti esperti, per evidenziare gli schemi e i saperi messi in
gioco in una pratica effettiva, è uno dei mezzi per chiarire in modo diverso la questione delle competenze
professionali da acquisire durante la formazione.
C’è ragione di pensare, infatti, che i diversi tipi di regolazione effettuati in corso di azione da un insegnante
esperto, siano il risultato di un processo di raccolta di indizi e del trattamento di informazioni che
l’insegnante stesso mette in opera in modo implicito, quasi a sua insaputa.
C’è uno scarto importante tra ciò che l’insegnante esperto può spiegare spontaneamente a proposito della
sua azione e ciò che fa effettivamente. È necessario predisporre un’intervista specifica che renda possibile
un passaggio dal vissuto alla rappresentazione, poi alla verbalizzazione, affinché il soggetto prenda
coscienza delle operazioni mentali che effettua e delle conoscenze che mette in gioco nel corso delle azioni
mentali.
L’intervista di esplicitazione è una tecnica di aiuto alla verbalizzazione che permette precisamente
l’esplicitazione delle procedure intellettuali che operano in situazione. Questa mira ad una descrizione il più
possibile precisa dello svolgimento delle azioni materiali e mentali nella realizzazione di un compito.
Attraverso un ascolto specifico che raccoglie indizi verbali e non verbali tali da permettere una guida attiva
delle verbalizzazioni, si aiuterà il soggetto a tradurre in parole le informazioni raccolte e le operazioni
effettuate in un momento preciso.
La tecnica dell’intervista di esplicitazione dovrebbe permettere di capire meglio la natura delle competenze
professionali da costruire nell’ambito di un corso di formazione.
Così verbalizzata, l’esperienza diventa comunicabile. La descrizione di modi di fare che non avrebbero
potuto essere verbalizzati spontaneamente, ma di cui il soggetto prende coscienza hrazie alla mediazione di
un’intervista di esplicitazione, è la prima tappa di una modellizzazione possibile del mestiere insegnante.
a. Gli schemi si costruiscono grazie alle situazioni vissute attraverso un’elaborazione programmata
Lo schema è dunque la struttura dell’azione, mentale o materiale, l’elemento che non varia, che si conserva
da una situazione a un’altra e si riproduce, con minori o maggiori aggiustamenti, in situazioni analoghe. Si
possono distinguere delle situazioni per le quali:
- il soggetto dispone del suo repertorio di risposte adeguate sotto forma di “routine”;
- delle situazioni in cui il soggetto adatta sul momento i suoi strumenti di trattamento
dell’informazione per improvvisare una risposta adeguata;
- delle situazioni che necessitano che gli schemi disponibili siano scomposti e ricomposti dando luogo
a tentativi di adattamento, fino alla risoluzione del problema.
Quando uno schema è inefficace, l’esperienza conduce o a cambiare schema, o a modificare questo schema.
La riflessione-nell’azione degli insegnati esperti corrisponderebbe dunque all’attivazione di schemi che
permettono una combinazione di anticipazioni, di attribuzioni di significato, di conoscenze in atto e di regole
d’azione che consentono di generare una serie di operazioni in vista di raggiungere uno scopo.
b. Contestualizzare la formazione
È dunque nell’esperienza che si forgiano gli schemi di pensiero e di azione specifici ad un corpo
professionale, nel confronto con situazioni comparabili e allo stesso tempo sempre differenti. Senza gli
schemi, senza questa capacità di metabolizzare dei saperi, non ci sono competenze, ma solo conoscenze. Per
questa ragione le competenze professionali non possono costruirsi che attraverso una formazione
esperienziale.
c. Lavorare su pratiche riflessive, nel quadro di una formazione attraverso la riflessione sull’azione
Lavorare sulle pratiche effettive non significa necessariamente lavorare in tempo reale o su dimensioni reali.
L’alternanza da realizzare non è quella della teoria e della pratica, ma quella della sperimentazione e
dell’analisi.
Converrebbe quindi sviluppare ogni forma di pratica protetta nella quale il tirocinante ha diritto all’errore,
dove procede per tentativi e riprese, dove sperimenta le strategie più varie, dove accumula le esperienze e
dispone di un tempo per l’analisi approfondita.
Ciò che importa è che le fasi di analisi di pratiche siano ricche di raccolte di informazioni varie: tracce
dell’attività degli alunni e intervista a posteriori ai bambini, registrazioni audio e video, sguardo del
formatore o meglio dei formatori, interviste di esplicitazione.
Rispetto a questo, si possono immaginare una grande varietà di dispositivi:
- Laboratori pedagogici sperimentali;
- Lavoro su registrazioni video;
- Stage di pratica in coppia, due tirocinanti;
- Colloqui di formazione in coppia;
- Piccoli gruppi di analisi delle pratiche.
Proponiamo a partire dalle riflessioni che abbiamo sviluppato sui comportamenti esperti per strutturare
alcune piste di lavoro tali da rendere operativa una formazione professionale degli insegnanti.
L’attore pedagogico persegue i suoi obiettivi attraverso delle regolazioni continue derivanti da una
successione di raccolta di indizi, di trattamento di informazioni, di prese di decisione e di realizzazioni. Per
rendere conto di questo percorso circolare dell’attività cognitiva del soggetto durante l’azione che fa
interagire la raccolta di informazioni e le operazioni messe in atto, si possono definire due assi:
• Il primo asse è quello dell’orientamento dell’azione verso uno scopo;
• Il secondo asse è quello della raccolta di informazione che il soggetto fa da un lato sul contesto e
dall’altro sulla sua azione.
2.1 L’asse diacronico dell’azione orientato verso uno scopo: costruire le competenze professionali
attraverso sperimentazioni/analisi/riprese
Alla domanda sul “come formare i nuovi insegnanti alla riflessione degli esperti”, una delle risposte possibili
è la realizzazione di dispositivi di formazione che riproducano la riflessione in azione degli insegnamenti
esperti, ma che amplino nello spazio e nel tempo la dinamica di equilibrio che caratterizza la pratica
insegnante.
Nei Laboratoires d’essais pédagogiques (L.P.) designano un insieme organizzato di metodologie di
formazione che mirano alla costruzione della pratica pedagogica attraverso un gioco alternato di prove e di
analisi.
si preparano in piccolo gruppo (da quattro a sette tirocinanti) dei progetti pedagogici e il dispositivo di
osservazione che permetterà di valutarli, di realizzare questi progetti con gli alunni e di registrarli in video,
per poi analizzarli confrontando i diversi punti di vista raccolti sulle situazioni messe in atto per dedurne gli
elementi da riprendere e da trasformare in nuove situazioni.
In questo modo gli insegnanti tirocinanti sperimentano un ventaglio di risposte possibili ai problemi posti
dal perseguimento di un obiettivo di apprendimento. Questa formazione, contribuisce alla genesi
dell’habitus, il piccolo insieme di schemi che permettono di generare un’infinità di pratiche adeguate a
situazioni sempre rinnovate.
Il L.P permette di sperimentare in modo privilegiato uno degli aspetti dell’atto di insegnare: la competenza,
a partire dalla raccolta di indizi sugli aspetti osservabili di una situazione pedagogica, ad anticipare le
varianti possibili delle componenti di questa situazione per meglio raggiungere l’obiettivo di apprendimento
perseguito.
La specificità del lavoro nel laboratorio pedagogico sperimentale consiste nel giocare sulla variabilità
dell’ambiente di apprendimento, imparando
- a concepire diverse situazioni pedagogiche e ad immaginare strategie alternative,
- ad analizzare diverse componenti della situazione,
- a costruire delle ipotesi sulle interazioni,
- a variare i mezzi per raggiungere un obiettivo di apprendimento.
Oltre al fatto di dotare i tirocinanti di uno stock di esperienze che costituiranno altrettanti materiali per
ulteriori pratiche, i L.P contribuiscono in modo decisivo, attraverso un dispositivo allargato di osservazione
e di analisi, alla costruzione progressiva di questa capacità di raccogliere informazioni e di trattarla nel corso
dell’azione che è propria degli insegnanti esperti.
2.2 L’asse sincronico della raccolta di informazione sul sistema d’interazioni: apprendere a osservare e
ad analizzare
Quando inizia il mestiere, l’insegnante tirocinante non dispone di alcuno degli schemi di pensiero o di
azione che gli permetteranno di rispondere colpo su colpo alla situazione.
È dunque importante attivare nel corso di formazione delle condizioni protette di azione e di raccolta di
informazioni che permetteranno ai tirocinanti di cominciare a costituire quell’insieme di schemi
professionali che dovrebbero consentirgli non solo di aumentare lo stock delle routine disponibili, ma
soprattutto di raccogliere e di trattare in modo pertinente tutte le informazioni provenienti dalla propria
classe.
Come favorire la conoscenza dell’attività cognitiva degli alunni e la presa di coscienza da parte del
tirocinante del suo funzionamento in situazione?
Nei confronti dei bambini, la valutazione del principiante si basa spesso sui soli risultati osservabili, senza
sfiorare il problema della logica del funzionamento di ogni alunno di fronte al compito proposto, questo
perché non ha in genere i mezzi per distinguere le difficoltà che dipendono da se stesso e quelle che
dipendono di suoi alunni.
Un decentramento è necessario affinché si costituiscano parallelamente la conoscenza dell’oggetto (in
questo caso la situazione pedagogica come sistema alunno/compito) e la presa di coscienza da parte del
soggetto delle modalità della sua azione.
Il decentramento, però, spesso non è sufficiente alla presa di coscienza e per meglio comprendere sia
l’attività degli alunni sia quella del tirocinante, la videoregistrazione e l’intervista di esplicitazione appaiono
come due strumenti indispensabili e complementari della raccolta di informazioni sulle situazioni
pedagogiche.
La registrazione video fornisce al tirocinante delle informazioni su ciò che non aveva visto, aprendo al via
della discussione e della formulazione di nuove ipotesi.
In modo del tutto complementare, l’intervista di esplicitazione permette la verbalizzazione e quindi dà al
tirocinante la possibilità di trattare l’informazione che raccoglie in classe e di attivare, attraverso questa
verbalizzazione, una presa di coscienza che modificherà la sua azione pedagogica successiva.
VIDEO ESPLICITAZIONE
Raccolta di informazioni Raccolta di informazioni
dall’esterno dall’interno
Accesso all’osservabile Accesso al verbalizzabile
OGGETTO Scoprire Ritrovare
Conclusione
L’insegnante esperto gestisce simultaneamente il gruppo-classe e il caso particolare di ogni alunno allo
stadio in cui è con il suo apprendimento, nel contesto sempre unico di una situazione pedagogica in un
determinato momento. E tutto questo nel fuoco dell’azione, adattandosi agli imprevisti della dinamica
propria di ogni sequenza. Dispone di competenze per trattare l’informazione nel corso dell’azione che gli
permettono d’improvvisare una risposta ai vari imprevisti di situazioni sempre diverse.
Il principiante, invece, per elaborare delle risposte adatte ai problemi che gli pone il comportamento di
classe, deve poter beneficiare di spazi di distanziamento che gli permettano di riflettere sulla sua pratica e di
appropriarsi di nuovi elementi di conoscenza che si integrano progressivamente nella sua azione pedagogica.
La caratteristica di una formazione attraverso l’azione e la riflessione sull’azione è di fornire al tirocinante
dei tempi di lettura dell’esperienza per poter analizzare ciò che è successo e regolare in differita ciò che non
sa ancora controllare nel momento dell’azione.
Si richiede, quindi, che i formatori siano nello stesso tempo loro stessi degli insegnanti esperti abituati
all’osservazione degli alunni, ma anche, per i tirocinanti, dei compagni e delle guide sul cammino delle
sperimentazioni e delle prese di coscienza.
Capitolo 8.
Competenze professionali privilegiate negli stage in video-formazione
Leopold PAQUAY e Marie-Cecile WAGNER
Introduzione
Ogni sapere scientifico si costruisce su paradigmi, cioè su nuclei di principi e di ipotesi fondamentali che
definiscono un determinato approccio a una realtà. Anche nel campo della formazione degli insegnati
coesistono diversi paradigmi, cioè nuclei di rappresentazioni e di convinzioni riguardo alla natura
dell’insegnamento e alla maniera in cui si impara ad insegnare.
Il paradigma che attualmente domina nel campo della ricerca è quello dell’insegnante riflessivo.
La domanda di partenza “Su quali competenze un esperto fonda la sua professionalità?” può avere risposte
diverse a seconda dei paradigmi adottati e questo si rispecchierà anche sulla determinazione della natura
delle competenze dal punto di vista cognitivo, sulla loro genesi e sulle modalità di formazione.
Innanzitutto ci si concentra sull’identificazione delle competenze professionali, qui intese in senso lato,
comprendendo le esperienze generali necessarie per realizzare un compito e risolvere dei problemi in un
campo determinato.
Secondo i paradigmi adottati, non solo le prospettive sono differenti, ma soprattutto differiscono i modi di
agire.
L’idea ancora dominante in alcuni ambienti di formazione di insegnanti è che l’insegnante è innanzitutto un
trasmettitore di conoscenze disciplinari.
Un’altra concezione classica afferma che per essere un insegnante esperto si devono innanzitutto conoscere
le basi teoriche della didattica specifica, della metodologia generale, della psicopedagogia.
Questo approccio crea però problemi nella formazione del nuovo insegnante, il quale, nel passaggio alla
pratica, si trova a dover imparare tutto daccapo.
Questo paradigma del docente istruito ha delle conseguenze molto importanti nel modo di strutturare e di
organizzare una formazione iniziale. Così, gli apporti teorici riguardo alle discipline da insegnare nonché i
principi didattici e pedagogici si concentrano all’inizio della formazione e gli esercizi didattici e gli stage
sono rimandati di conseguenza alla fine della formazione.
1.2. Cosa deve poter fare un insegnante [Paradigma del docente tecnico]
A partire dagli anni ’70, si sono sviluppati numerosi programmi di formazione professionale, applicando le
procedure classiche di job analysis. L’attività di lavoro è scomposta in funzioni e queste in compiti. La lista
di competenze specifiche da dover acquisire nel corso della formazione iniziale o all’inizio di una carriera
professionale diventa infinita. I programmi di formazione sono strutturati in maniera modulare, ogni modulo
permette di raggiungere una competenza particolare. In questo modo si forma un tecnico.
I programmi di formazioni degli insegnanti definiti in funzione delle competenze attese sono spesso troppo
meccanicistici.
1.3. Come agisce un docente esperto in attività? [Docente artigiano]
L’analisi dei sistemi esperti permette di evincere le procedure, i modi di agire, le azioni in un determinato
campo. Così, l’insegnante di mestiere può essere considerato come qualcuno che fa da sé, o piuttosto un
artigiano che eccelle nell’arte di raccogliere i materiali disponibili e di strutturarli in un progetto che
acquista significato intuitivamente.
Questa immagine dell’artigiano rende però solo in parte l’idea dei meccanismi in gioco poiché l’insegnante
è una figura che prende decisioni, molte volte in modo automatico.
Gli stage diventano quindi un luogo privilegiato di formazione alla pratica poiché permettono agli insegnanti
in formazione di acquisire abilità nel mestiere, lavorando insieme a docenti esperti.
È durante gli stage che gli studenti acquisiscono ed automatizzano gli schemi di analisi e di azione necessari
per organizzare la classe e guidare gli apprendimenti. Si tratta di saperi pratici, altamente contestualizzati.
Ma gli stage sono spesso anche occasione per il futuro insegnate, di conformarsi alle pratiche tradizionali, di
acquisire un sapere pratico del tutto estraneo alla teoria. In questo caso solo un’analisi riflessiva
permetterebbe un adattamento di queste conoscenze a situazioni nuove.
Gli stage quindi, possono formare anche degli esperti nella pratica e non necessariamente professionisti!
Nella maggior parte dei paesi occidentali, il mestiere di insegnante tende ad essere considerato una
“professione”. Cosa significa? Un professionista realizza in autonomia delle operazioni intellettuali non
routinarie che impegnano la sua responsabilità. Acquisisce le sue tecniche attraverso una lunga formazione.
Inoltre gli esperti sono spesso strutturati in un organismo che controlla il rispetto di un codice etico.
Il professionista è autonomo non solo perché è in grado di autocontrollare il suo operato, ma anche di
guidare, allo stesso tempo, il suo apprendimento attraverso un’analisi critica delle sue pratiche e dei risultati
di queste.
Come dice Perrenoud, la professionalizzazione è anche la capacità di accumulare l’esperienza, di riflettere
sulle proprie pratiche per poterle riorganizzare. Questa concezione è stata sviluppata in molti lavori odierni a
proposito dell’esperto riflessivo. Attraverso la riflessione sulla propria pratica e i suoi effetti, l’esperto si
crea un sapere d’esperienza in continua evoluzione. Dunque, un professionista è un analista di situazioni
singole e un decisore esperto.
Se l’analisi e la riflessione sono metodiche ed approfondite, è possibile operare il passaggio dall’esperto
riflessivo all’esperto ricercatore? In realtà, non c’è una rottura, ma una continuità tra l’esperto riflessivo e
l’esperto ricercatore.
Le strategie da privilegiare per formare degli esperti riflessivi sono:
- realizzare una diagnosi della situazione;
- preparare delle lezioni chiarendo le scelte effettuate;
- associare gli studenti alla valutazione dei loro stage;
- comparare due tecniche in una situazione data.
Il punto critico della formazione di un insegnante riflessivo attraverso gli stage è l’organizzazione
dell’accompagnamento da parte di formatori esperti, a loro volta abituati a riflettere sulle proprie pratiche.
1.5. Quale dovrebbe essere il ruolo sociale degli insegnanti? [insegnante come attore sociale]
Nella scuola che si rinnova, il mestiere dell’insegnante cambia. Consiste sempre più nella partecipazione a
progetti comuni sia di gruppo che a livello di istituto. Ciò implica un impegno come attore sociale a livello
locale. È attore sociale l’insegnante impegnato in progetti collettivi (es classe-laboratorio, progetti
interdisciplinari…), ma anche l’insegnante impegnato in dibattiti per definire un progetto d’istituto e
partecipare alla sua gestione. Tale responsabilità nei progetti e negli ingranaggi di una istruzione esige un
nuovo profilo: poter analizzare il sistema nelle sue molteplici dimensioni (organizzative, politiche,
ideologiche…), fondare le basi di un progetto su questa analisi, attuare questo progetto, aggiustarlo e
valutarlo.
Quali strategie mettere in atto per formare degli attori sociali così definiti?
Condurre i futuri insegnanti a costruire progetti collettivi e strumenti per aiutare la realizzazione di ogni
tappa, a esplicitare la procedura seguita.
Essere un attore sociale significa anche “vedere al di là del proprio naso, e le mura della propria scuola”;
cioè essere coscienti che la scuola è attraversata da conflitti di valore: è importante perciò che gli insegnanti
possano analizzare i problemi sociali che investono la scuola e prendere coscienza delle ricadute della loro
azione locale.
Dei seminari potranno essere luogo privilegiato di un’analisi delle ricadute antropo-sociali delle pratiche
quotidiane di una riflessione etica.
1.6. come “essere” insegnante e come “vivere” il proprio mestiere? [insegnante come persona]
L’evoluzione della società ha provocato una modificazione delle funzioni della scuola e di conseguenza dei
ruoli dell’insegnante. Si assiste dunque ad un profondo disagio presso il personale insegnante il quale vive
dei conflitti d’identità. Per loro è difficile sviluppare un’immagine positiva del sé professionale.
Secondo il paradigma personalista, l’insegnante è innanzitutto una persona: una persona in evoluzione e alla
ricerca di un diventare sè stesso, una persona in relazione con gli altri. Naturalmente non esiste un profilo
tipo della persona insegnante e l’evoluzione non è comandata dall’esterno. È tuttavia necessario, a partire
dalla formazione iniziale, avviare un processo verso uno sviluppo personale e relazionale.
Esistono corsi che possono sviluppare le capacità di esprimersi, comunicare, relazionarsi, ascoltare e
migliorare la fiducia in sè stessi. Ma questi devono essere necessariamente accompagnati da degli stage.
Il tirocinio sul campo (stage) costituisce un momento importante nella formazione del mestiere insegnate ed
è differente in base al paradigma adottato.
Discussione tra professionisti che appoggiano paradigmi diversi, i quali giungono ad un compromesso
zoppicante.
È stata creata una tabella in cui si sono evidenziate le caratteristiche specifiche di ciascuna delle concezioni
relative si sei paradigmi in base ai seguenti parametri:
a. L’importanza e la durata degli stage nella formazione;
b. Il momento privilegiato degli stage durante la formazione;
c. Gli obiettivi pedagogici;
d. Le attività privilegiate di formazione;
e. Le modalità di accompagnamento e supervisione;
f. Le modalità dell’articolazione teoria-pratica.
È raro trovare degli stage che corrispondono globalmente e in modo univoco ad ogni paradigma.
Inoltre una pratica particolare può avere varie modalità e significati diversi per ogni attore.
3. Pratiche di micro-insegnamento e di video formazione: competenze e strategie privilegiate
(M.C. Wagner)
L’apparecchio video può intervenire nell’apprendimento professionale degli insegnanti in diversi momenti e
in molti modi.
Questa polivalenza dello strumento conferisce un interesse particolare al reperimento delle competenze
privilegiate dalle pratiche di formazione dell’insegnate che si rifanno a termini quali micro-insegnamento e
video-formazione.
Un’altra caratteristica dell’apparecchio è il ruolo privilegiato che svolge il video fra i mezzi capaci di
realizzare il legame teoria-pratica.
La registrazione video lascia una traccia, permette un’auto-osservazione in differita, ripetuta. , stimolando la
riflessione e l’analisi individuale o di gruppo.
L’immagine video offre al gruppo di tirocinanti la possibilità di analizzare insieme la stessa situazione
pedagogica e di avere un riferimento unico per una riflessione a distanza sul processo attuato sulle
competenze utilizzate. È la chiave essenziale per creare il legame tra teoria e pratica.
b. Tipi di attività
Si tratta di sperimentazioni realizzate e filmate in situazioni simulate (laboratorio con i pari). Un ventaglio di
attitudini è presentato e discusso all’inizio della formazione. Lo studente sceglie liberalmente la funzione o
le attitudini che gli sembrano più pertinenti e significative. Gli esercizi sono registrati e la loro visione
sostiene l’auto-analisi di colui che li ha realizzati.
c. Modalità di supervisione
Se gli obiettivi possibili, gli strumenti di osservazione e i percorsi di analisi sono proposti dal formatore, la
scelta degli obiettivi viene fatta dallo studente. Il formatore svolge essenzialmente il ruolo di guida e
consigliere durante questa fase di lavoro.
Nell’analisi in gruppo, il formatore svolge il compito di animare gli scambi, ma il suo punto di vista sulle
prove effettuate pesa in maniera considerevole.
Non c’è alcuna valutazione certificativa, ma solo valutazioni formative.
d. Articolazione teoria-pratica
Considerando due logiche di rapporto tra teoria e pratica: una logica di passaggio o di trasformazione
(quella del passaggio reciproco da una modalità di conoscenza ad un’altra), e una logica di confronto (quella
del confronto dialettico), vengono identificati quattro assi di ricerca sul ruolo del video nella costruzione
delle competenze professionali (trasformazione delle conoscenze teoriche in pratiche e viceversa; passaggio
alla teoria nella formazione delle conoscenze pratiche e passaggio alla pratica nella formazione delle
conoscenze teoriche).
Il paradigma dell’insegnante riflessivo riguarda sia l’insegnante che riflette sulle sue azioni analizzandone
gli effetti, sia colui che produce degli strumenti innovativi.
Tre principi metodologici caratterizzano il lavoro che si effettua in questo spazio di mediazione che è il
laboratorio di sperimentazione pedagogica.
Il principio di variazione: Ciò che si fa è sempre modificabile e trasformabile, che si tratti di una
strategia pedagogica o del modo stesso di analizzarla.
Il principio di riflessività: Tutte le attività (la preparazione, la realizzazione, la sua osservazione…)
diventano oggetto di analisi riflessiva e di ricostruzione.
Principio di operatività: Ogni membro del gruppo deve assumere un compito nel dispositivo
d’insieme.
b. Tipi di attività
1. Nei laboratori di sperimentazione pedagogica si tratta essenzialmente di:
Condurre delle sequenze pedagogiche mettendo alla prova delle ipotesi costruite
individualmente o in gruppo;
Analizzare gli effetti e costruire la propria osservazione;
Immaginare e costruire delle alternative.
Accade spesso che una sessione di lavoro inizi con la “prova zero”, una prova di esplorazione, che
mette in atto una situazione nuova, avendo come obiettivo di formazione quello di analizzarla ed
arrivare ad una soluzione.
d. Articolazione teoria-pratica
Grazie alla riflessione sull’azione prodotta dall’uso del video, il tirocinante in formazione è invitato
ad una forma di passaggio alla teoria. Per valutare la pratica, è necessario mobilitare dei saperi, in
prospettiva di un reinvestimento nella pratica. Viceversa, si può osservare l’elaborazione delle
conoscenze attraverso la pratica.
Il video crea delle ipotesi, delle rimesse in discussione dei saperi acquisiti, permette delle
sperimentazioni controllate, moltiplica i punti di confronto critico che portano a mettere alla prova le
conoscenze preliminari. Si assiste ad un doppio processo:
controllo dell’azione attraverso la conoscenza e controllo della conoscenza attraverso l’azione.
Ogni progetto di evoluzione personale, di sviluppo delle proprie capacità di comunicazione, passa attraverso
questa esigenza di realismo accresciuto nei confronti di se stessi. La registrazione video svolge un ruolo
importante, perché offre l’occasione di scoprirsi come persona assicurando anche un ruolo professionale al
modo globale di essere.
È tuttavia necessaria una grande sensibilità da parte del formatore perché il primo confronto di colui che è
stato filmato con la propria immagine è innanzitutto un’esperienza emotiva più o meno faticosa.
L’immagine video ci tocca nella nostra identità è l’esperienza di scarto tra l’immagine interiorizzata e
immagine riflessa dal video e dagli altri, può portare a vari cambiamenti ma anche ad atteggiamenti
difensivi.
Citiamo due procedure che possono essere lette sotto l’aspetto dell’insegnante-persona in evoluzione
personale.
a. Strategia di formazione proposta da Postic relativamente alla formazione, osservazione e
valutazione:
Il tirocinante in formazione potrà prendere coscienza di ciò che lo tocca, sul piano dei
comportamenti, osservando e analizzando una situazione registrata al videoregistratore, solo se può
concepire, con l’aiuto dei suoi formatori, un progetto personale di formazione. Un mezzo essenziale
per capire questo progetto è quello dell’osservazione di sé, delle situazioni educative, delle
esperienze condotte. In questa strategia di formazione, l’allenamento all’osservazione passa per
quattro esigenze essenziali.
1. Conoscersi in posizione di osservazione, conoscere le difficoltà dell’osservazione;
2. Delimitare il proprio campo di osservazione, fissarsi degli obiettivi e forgiare
strumenti di osservazione;
3. Saper interpretare i dati raccolti attraverso la riflessione teorica;
4. Controllare il proprio sviluppo nell’azione.
Nella pratica della formazione filmata, l’accento non si pone più tanto sull’analisi dei comportamenti minimi
con l’aiuto di griglie, quanto sulla riflessione e la ricerca di una migliore comprensione di situazioni
pedagogiche vissute.
Conclusione
Questo capitolo aveva lo scopo di proporre un quadro generale che permettesse di situare gli obiettivi e le
strategie delle pratiche di formazione degli insegnanti.
Abbiamo illustrato il modo in cui i paradigmi diversi sulla formazione degli insegnanti si concretizzano
nelle pratiche di stage e di video-formazione.
È apparso che ogni concezione dell’insegnamento poteva costituire un aspetto del mestiere.
Valorizzando ciascuno dei paradigmi per i suoi apporti scientifici, si è condotti a riconoscere l’interesse di
una diversità di obiettivi, di principi strategici e di pratiche di formazione.
Piuttosto che difendere in modo totalitario la propria concezione di insegnamento, si deve essere predisposti
ad avere una visione globale dei vari aspetti del mestiere, valorizzando la complementarietà degli apporti di
ciascuno nella sua specialità e con i suoi talenti specifici.
Una coesistenza pacifica è la base minima di una collaborazione fruttuosa in equipe.
Capitolo 9.
Il lavoro sull’habitus nella formazione degli insegnanti. Analisi delle
pratiche e presa di coscienza
Philippe PERRENOUD
Noi non sappiamo costantemente ciò che facciamo. E anche se ne abbiamo vagamente coscienza, non
sappiamo sempre perché agiamo in un certo modo, come se la nostra azione fosse naturale. Questa
incoscienza non è necessariamente il prodotto di meccanismi di difesa. Spesso si tratta di un “incoscienza
pratica”, secondo la formula di Piaget, il prodotto di automatismi legati al grado di formazione e di una
microconoscenza di sempre.
Le nostre abitudini ed i nostri automatismi non riguardano solamente i nostri gesti, i nostri atti concreti,
osservabili; concernono anche le nostre percezioni, le nostre emozioni.
Dobbiamo ammettere che ci accade di trattare l’informazione, di analizzare situazioni e di prendere
decisioni, in base a degli schemi di pensiero, di cui scorgiamo solo gli effetti.
Si conosce la nozione piagetiana di schema: le azioni, in effetti, non si succedono a caso, ma si ripetono e si
applicano in modo simili a situazioni comparabili. Più precisamente, esse si riproducono tali e quali se, agli
stessi interessi, corrispondo delle situazioni analoghe, ma si differenziano o si combinano in modo nuovo se
i bisogni o le situazioni cambiano. Noi chiameremo schemi d’azione ciò che c’è di comune alle diverse
ripetizioni o applicazioni della stessa azione oppure l’invariante del comportamento per una classe di
situazioni date.
La nozione di habitus generalizza la nozione di schema. Il nostro habitus è costituito dall’insieme dei nostri
schemi di percezione, di valutazione, di pensiero e di azione. Grazie a questa struttura, noi siamo capaci di
far fronte, al prezzo di piccoli aggiustamenti, ad una grande varietà di situazioni quotidiane. Gli schemi
permettono al soggetto di adattare solo marginalmente la propria azione alle caratteristiche di ogni
situazione corrente. Quando l’adattamento è piccolo o eccezionale, non c’è in genere apprendimento, ma
quando l’adattamento è più forte, la coordinazione di schemi esistenti si stabilizza, creando nuovi schemi.
L’habitus si arricchisce e si diversifica.
Possiamo noi, pertanto, nella formazione degli insegnanti, astenerci da dispositivi di formazione di un
habitus professionale?
In realtà, essi esistono: ogni curriculo, esplicito o implicito, ogni istituzione educativa, forma e trasforma
l’habitus, attraverso l’esercizio del mestiere di alunno o studente e l’individuazione di percorsi di
formazione. Anche se non è sempre intenzionale, la socializzazione in ambito scolastico, i tirocini della
formazione iniziale e i primi anni di pratica, aiutano la formazione dell’habitus, che si voglia o no.
La questione principale è piuttosto sapere come concepire una formazione intenzionale dell’habitus
professionale, orientata ad obiettivi ma sempre aperta al rispetto della persona.
L’azione pedagogica è costantemente sotto il controllo dell’habitus, secondo almeno quattro meccanismi:
• Una parte dei gesti del mestiere sono delle routine che, senza sfuggire completamente alla coscienza
del soggetto, non esigono più l’attivazione esplicita di saperi e di regole;
• Anche quando si applicano delle regole e si attivano dei saperi, l’identificazione della situazione e
del momento opportuno rivelano l’habitus;
• La parte meno cosciente dell’habitus interviene nella microregolazione di ogni azione intenzionale e
razionale;
• Nella gestione dell’urgenza, l’improvvisazione è regolata da schemi di percezione, di decisione e di
azione che attivano debolmente il pensiero razionale e i saperi espliciti dell’attore.
1.1 La trasformazione degli schemi d’azione in routine
I saperi procedurali evolvono in relazione all’avanzamento professionale. I più espliciti subiscono diversi
destini:
• Alcuni si cancellano o sfumano, in assenza di pertinenza o d’uso;
• Altri si aggiungono alla routine ed estendono l’habitus;
• Altri ancora restano rappresentazioni vive ed esplicite, perché sono mantenuti a questo livello dalla
complessità e dalla resistenza del reale o da un investimento intellettuale particolare (es. preferenza
della didattica o della sociologia).
Non dico quindi che un’insegnate non attivi dei saperi procedurale, ma dico che alcuni di questi sono
diventati nel corso del tempo degli schemi di cui il soggetto non è del tutto consapevole.
La messa in opera di saperi e di rappresentazioni esplicite, capaci di guidare l’azione, è di competenza di una
parte dell’habitus esteriore a questi saperi.
Metodo Gordon: l’ascolto attivo e il messaggio-io, sono efficaci nella relazione pedagogica.
Il confronto tra questo sapere e una situazione concreta è esso stesso sotto il controllo di schemi largamente
inconsci, formati in parte già dall’infanzia, in famiglia e durante la scuola, in parte al lavoro di fronte a
situazioni simili.
Molti saperi analitici poggiano non tanto sulla situazione ma sul nostro modo di reagire ad essa. Saperi di
secondo grado, saperi sulla difficoltà di mettere in pratica al momento opportuno, controllando le proprie
pulsioni e le proprie reazioni spontanee, saperi procedurali di primo livello.
Si arriva però sempre ad uno stadio in cui fi fa appello a degli schemi di mobilitazione dei saperi, che non
sono essi stessi dei saperi.
Per esempio, anche uno psicanalista che conosce Freud e altri grandi della psicanalisi a memoria e possiede
una immensa cultura teorica, dipende in ultima istanza dalla mobilitazione dei propri saperi, di risorse
cognitive di altra natura, che a volte si chiamano intuizione, fiuto, feeling, altrettanti modi correnti di
nominare ciò che, nell’habitus, funziona in parte a nostra insaputa.
“Ogni tentativo di fondare una pratica sull’obbedienza a una regola esplicitamente formulata, che sia nel
campo dell’arte, della morale, della politica, della medicina o della scienza, cozza con la questione delle
regole definenti la maniera e il modo opportuno –kairos, come dicevano i sofisti- di applicare le regole,
dimettere in pratica un repertorio di tecniche, cioè l’arte dell’esecuzione attraverso la quale si reintroduce
inevitabilmente l’habitus”.
Ogni azione complessa fa appello ad alcune conoscenze e ad una parte di ragionamento, salvo forse nella
necessità estrema, che non lascia il tempo di pensare.
L’azione deliberata è fortemente segnata di saperi e di razionalità. C’è, dunque, nell’analisi delle
competenze degli insegnanti, un largo spazio per la ragione pedagogica e i saperi. Ciò non significa che
l’agire razionale sia estraneo all’habitus. Dapprima perché la logica naturale di un soggetto è sotto-insieme
dei suoi schemi, dunque parte del suo habitus. In secondo luogo perché altre componenti dell’habitus
permettono di far fronte agli imprevisti nello svolgimento degli avvenimenti, per conciliare l’azione
razionale con ciò che gioca nel registro relazionale ed emozionale.
È così che nella realizzazione di una sequenza didattica ben pianificata, una parte dell’azione è sotto il
controllo di schemi di percezione, pensiero, decisione che sfuggono alla coscienza consapevole, perché è
impossibile codificare una sequenza nei minimi dettagli.
In classe, l’insegnante deve avere a che fare con un numero impressionante di incidenti critici e di fattori
impossibili da prevedere. Alcuni di questi, però, (ad esempio quando una consegna non è capita, quando un
allievo commette un errore insolito, quando un’attività fallisce) sono paradossalmente prevedibili: sono cose
che possono capitare un giorno o l’altro. Tuttavia, quando capita, ciò avviene in un momento e sotto una
forma inaspettati.
Di fronte a tali imprevisti, l’inesperto reagisce in funzione di un habitus talvolta poco adeguato all’ambiente
scolastico, poiché trasferisce schemi costruiti in interazioni diverse ad una situazione di gestione della
classe. Poi, con l’esperienza, l’insegnante costruirà altri schemi, più adatti.
Gli schemi che permettono di far fronte agli incidenti critici si ancorano in una pratica professionale sempre
più ricca, formando un nuovo strato dell’habitus, la cui genesi proviene da una esperienza in classe.
Gli schemi dell’inesperto e dell’esperto hanno tuttavia un punto in comune: esse sfuggono, perlomeno in
parte, alla coscienza chiara dell’attore e si innestano su strategie didattiche coscienti.
Altra forma di genesi dell’habitus: l’azione pedagogica è orientata da finalità esplicite e da valori, ma anche
da investimenti affettivi e dai gusti. Alcune si rapportano a dei saperi: esistono parole, idee, regole che un
professore non accetta di vedere sfigurate, perché sono per lui importanti. Esistono quindi, ai suoi occhi,
degli errori meno perdonabili di altri, in funzione dell’attaccamento ai saperi o alle regole in gioco.
Per questo motivo, gli investimenti affettivi ed i gusti si dirigono sulle persone e sui gruppi che fanno parte
delle relazioni intersoggettive. Vi sono delle classi o degli allievi che il professore ama, altre che detesta e
altre che gli sono indifferenti. La stessa sequenza didattica non viene gestita nello stesso modo se l’insegnate
di annoia o si diverte, se si sente bene o male di fronte a certi allievi.
Poiché è il principale vettore della propria azione didattica, l’insegnante è dipendente da tutto ciò che è, da
tutto ciò che ama o detesta. Senza dubbio, l’etica, la formazione professionale, l’esperienza evitano le
interferenze più clamorose, come l’avere degli alunni prediletti e altri da prendere sotto mira, ma ad ogni
modo l’insegnate non è una macchina priva di emozioni.
Vi è una parte dell’imprevisto in qualunque azione pianificata e questo è dovuto ad eventi che si presentano
indipendentemente da qualsiasi previsione fatta dall’insegnate, perché dipende da altri soggetti. In una
giornata in classe, un insegnante prende centinaia di piccole e grandi decisioni, alcune sono frutto di
riflessioni fondate su valori e ragionamenti, altre sono prese nell’urgenza, perché la situazione non permette
di fermarsi a pensare. Quando un allievo inizia una risposta sbagliata o alza la mano per porre una domanda,
occorre decidere immediatamente.
Le situazioni di disordine, devianza, conflitto, pericolo, richiedono delle reazioni immediate, ancor di più
delle situazioni di interazione didattica.
Per agire nell’urgenza, l’attore a volte mobilita dei “riflessi” nel senso proprio del termine, o degli schemi
che provengono da non si sa dove, e che non lasciano minimamente spazio alla riflessione. Egli pensa allora
che si reagisce istintivamente, o spontaneamente. Bourdieu ha insistito sul fatto che noi non reagiamo a
caso, ma in funzione del nostro habitus, quindi nell’illusione della spontaneità e della libertà.
L’attore sa confusamente che non improvvisa, che non crea una risposta dal nulla, ma che sta mobilitando
uno schema interiorizzato, che chiamerà carattere, personalità, abitudine o intuizione. Egli può tentare di
prenderne coscienza o di dominarlo.
In un primo tempo, e a volte in modo definitivo, l’insegnante, come qualsiasi altro attore in caso d’urgenza,
viene agito dal suo habitus, piuttosto che agire come soggetto autonomo. La nostra più forte dipendenza è
nei confronti della parte meno esplicita e riconosciuta del nostro habitus.
Anche al di fuori della presenza degli allievi, manca il tempo per pensare tranquillamente a tutto, in
dettaglio. Una parte dei preparativi didattici si fa nell’urgenza, a grandi tratti, e a volte non si fanno
nemmeno, per mancanza di tempo o di energia. Per avere del materiale, delle idee didattiche, occorrerebbe
lavorarci dei giorni e anche per l’insegnante più coscienzioso, ciò è impossibile. L’habitus si investe nella
preparazione delle lezioni e nella correzione dei compiti, così come nel tempo in classe, anche se sono altri
gli schemi che entrano in gioco.
1.5. Dr. Jekyll e Mr. Hyde?
Peggio sarebbe vedere l’insegnante come una specie di schizofrenico professionista, a momenti un Dr.
Jekyll cosciente di ciò che sta facendo, sostenuto dalla scienza e dalla ragione, ed in altri momenti Mr. Hyde,
preso dalla follia, che segue solo i suoi impulsi. In realtà, Dr. Jekyll e Mr. Hyde coesistono e cooperano ad
ogni istante e ciascuno riconosce l’esistenza dell’altro.
Gli insegnanti non vivono due vite; la maggior parte delle loro azioni dipende al contempo, in proporzioni
diverse, dal pensiero razionale guidato da saperi e dalla reazione governata da schemi meno coscienti,
prodotti sia dalla loro storia di vita, sia dalla loro esperienza professionale.
Non esiste ragione per rigettare l’habitus nel lato delle pulsioni. Il nostro io e la nostra parte di ragione
mettono ugualmente in gioco degli schemi di pensiero, di giudizio di cui non abbiamo coscienza netta.
L’habitus non si oppone ai saperi come l’istinto si opporrebbe alla ragione. Esso traduce la nostra capacità di
funzionare senza sapere, in un automatismo economico o per far fronte alle urgenze del quotidiano. Ciò non
significa che non funzioniamo senza sapere, senza rappresentazioni della realtà passata, attuale,
desiderabile. In ogni azione complessa, anche in una situazione d’urgenza o nel quadro di una routine,
manipoliamo delle informazioni, delle conoscenze personali. L’insegnante non si stanca di trattare, creare,
registrare informazioni e saperi. Ma è l’habitus che governa queste elaborazioni.
Riconoscere la parte dell’habitus nell’azione pedagogica costituisce un passo verso il realismo nella
descrizione del modo in cui gli insegnanti esercitano il loro mestiere.
Ma come formarli nei registri in cui la loro azione dipende in larga misura da schemi incoscienti?
Due strategie possibili:
• Trasformare le condizioni della loro pratica, per indurre un’evoluzione del loro habitus;
• Favorire la presa di coscienza dei loro funzionamenti ed il passaggio di certe azioni sotto il controllo
della ragione
L’alterazione delle condizioni della pratica si manifesta per una serie di ragioni che, senza essere fortuite,
non rispondono ad alcuna logica di formazione: cambiamento di programmi e di metodi, delle attese delle
famiglie, del livello degli allievi. Nel corso degli anni, gli insegnanti cambiano istituto, classe, ambiente
materiale. Anche se restano sul posto, il mondo cambia attorno a loro.
Si può, ai fini della formazione, alterare intenzionalmente le condizioni della pratica? In formazione
continua, si possono suggerire delle prove, delle esperienze. Le cose sono diverse quando si parla di
formazione iniziale.
Seguendo il principio secondo cui “si apprende a nuotare nuotando”, ci si limita in generale ad organizzare
delle situazioni di esercitazione di certe competenze. Certo, si gioca sulla responsabilità limitata, non
chiedendo al tirocinante di risolvere, in un colpo e nello stesso tempo, i problemi di un lungo periodo. In
questo modo, si forma l’habitus, ma in maniera tradizionale.
Lo si potrebbe formare in modo più specifico, controllato?
Si potrebbe porre gli insegnati in situazioni insolite, cheli sconcertino, per un ritorno formativo.
Si decide, quindi, per meglio prepararli al mestiere, di fargli vivere situazioni pesanti: se l’habitus si
trasforma in risposta a nuove situazioni-problema, la formazione consiste nel crearle e nell’impedire ai
tirocinanti di andare per la tangente.
Prendere coscienza di ciò che si fa non è così evidente. Certi atteggiamenti, certi modi di fare in classe sono
difficili da riconoscere, perché la presa di coscienza rivelerebbe un passato doloroso. Questo non vuol dire
che tutti gli schemi relazionali trovino le loro radici in tratti repressi, perché tra lucidità e repressione
esistono moltissimi livelli di resistenza.
Uno di questi è la salvaguardia dell’immagine che si ha di sé stessi. Numerose prese di coscienza sono
inibite non perché risveglierebbero direttamente un passato sepolto, ma perché metterebbero in luce dei
comportamenti e delle attitudini poco confessabili rispetto a quanto si pensa o si vorrebbe essere.
Meglio però prenderne coscienza e lavorare per dominare ciò che, nel nostro habitus, ad un certo momento
della storia, infligge delle sofferenze all’altro o ferisce noi stessi.
Che la presa di coscienza passi attraverso un lavoro su di sé e obblighi a superare delle resistenze più o meno
forti, impone semplicemente delle precauzioni, un metodo ed una etica. Si tratta di favorire la presa di
coscienza, senza mai fare violenza alle persone.
Anche quando la presa di coscienza non è troppo sfuggente e diviene una vera conoscenza di sé, essa non
cambia i modi di fare governati dall’habitus, non più di quanto una conoscenza teorica, venuta da altri,
modifichi l‘azione se non viene attivata in situazione e momento opportuno. Tuttavia, se la presa di
coscienza si ripete o se il suo ricordo si attualizza, l’insegnante è capace di prendersi in flagranza di reato e
di controllarsi. Interviene allora lo sforzo volenteroso di non seguire la propensione più forte.
La presa di coscienza cambia l’habitus perché lo combatte in tempo reale e in situazione. Quando questo
cambiamento si ripete, il controllo diventa automatico e prende a sua volta la forma di quello che si potrebbe
chiamare “contro-schema”. Il nostro habitus è costituito da strati successivi di schemi, di cui i più recenti
inibiscono, prima in modo volontario, poi meno cosciente, la messa in opera di schemi precedenti.
L’accoppiamento tra uno schema d’azione ed uno schema inibitore forma a poco a poco uno schema nuovo.
Quando la presa di coscienza porta a diventare un’altra persona, si nota resistenza e mantenimento dello
statu quo, nello sconforto o nel riflusso, secondo la capacità, molto diversa, che uno ha di sopportare le
contraddizioni.
3. Dispositivi di formazione
Con il termine pratica riflessiva, o semplicemente lucidità, si designa una forma di riflessività: un soggetto
prende la propria azione, i propri funzionamenti mentali per oggetto della sua osservazione e della sua
analisi, egli tenta di percepire e di comprendere il proprio modo di pensare e di agire.
È chiaro che ogni essere umano è dotato di riflessività; è una condizione di regolazione della propria azione.
Tuttavia, ciò diviene una vera leva di formazione solo se questo funzionamento riflessivo viene valorizzato
mediante strumenti, come tutti i dispositivi di formazione interattivi o le forme di cooperazione di gruppo.
Si può anche prendere in esame una preparazione diretta dell’auto-osservazione e dell’auto-analisi,
proponendo delle griglie e dei metodi.
Altro strumento: tentare regolarmente di ricostruire, a memoria, un dialogo con la classe o un allievo, e
persino di registralo. Oppure prendere l’abitudine di annotare le proprie intenzioni e di valutare il loro grado
di realizzazione.
Un insieme di piccoli rituali e strumenti semplici può aiutare la presa di coscienza senza paralizzare.
3.2 Lo scambio sulle rappresentazioni e le pratiche
Ogni confronto di rappresentazioni e di pratiche favorisce la presa di coscienza. Ciò che qualcuno
sperimenta come buon senso, può non esserlo per qualcun altro.
La fenomenologia ha insistito sulla parte del taken for granted (dato per scontato) nella nostra costruzione
della realtà. Noi attiviamo degli schemi, delle routine, dei metodi per addomesticare il reale. È scoprendo
altre culture che si comprende che sorride, alzare o abbassare la testa non hanno lo stesso significato in tutte
le società.
Occorre tuttavia, perché queste prese di coscienza si realizzino, creare un clima che permetta di raccontare
ciò che si fa senza temere il ridicolo, la disapprovazione.
Si tratta ovviamente di un complemento allo scambio sulle pratiche. Vedersi funzionare reciprocamente in
classe permette un interrogarsi reciproco che va al di là di quanto si possa chiedere agli altri in un gruppo di
analisi delle pratiche, perché fa riferimento ad una realtà condivisa, che la persona osservata non controlla
quindi totalmente.
Si misura meglio, in sé e negli altri, lo scarto tra quello che si fa e quello che si crede di fare.
L’esperienza può essere abbastanza dura: quando un’insegnante che non occupa mai la sua cattedra (perché
non vuole esercitare la funzione magistrale) si arrabbia con un alunno se si siede al suo posto, lei non vede
necessariamente la contraddizione. Salvo se qualcuno l’osserva. È importante che l’osservazione reciproca
sia garantita dalle regole del gioco accettate di comune accordo e che definiscano gli obiettivi
dell’osservazione e le modalità del feedback. Niente è peggio che sentirsi osservati senza possibilità di
spiegarsi.
L’osservazione tra pari non è facile da creare, sia nella formazione continua che in quella iniziale.
Nella formazione iniziale, l’osservazione non è simmetrica; il tirocinante osserva il formatore sul campo che
lo accoglie e quest’ultimo osserva il tirocinante; ma non hanno gli stessi diritti, gli stessi obiettivi. Tuttavia,
in un tirocinio guidato, ciascuno ha parecchie occasioni per osservare l’altro in situazioni che non controlla
costantemente o che alterano la sua serenità e si deve avere il coraggio di parlare e di non avere un dialogo a
senso unico, poiché entrambi devono essere pronti ad apprendere l’uno dall’altro.
Non è sempre necessario che l’altro dia un feed-back in modo esplicito. Quando si insegna insieme, non ci si
dice tutto, ma il solo fatto di sentirsi osservato, ci costringe ad osservarci.
Persino gli alunni molto giovani non si lasciano sfuggire nulla. Essi sono particolarmente sensibili a dei
comportamenti apparentemente senza importanza dei loro insegnanti, per due motivi:
• Rispetto agli adulti sono meno presi dalla preoccupazione di gestire la classe, azione che rende ciechi
alle cose piccole;
• Il senso della loro vita a scuola dipende da queste piccole cose.
Così, gli allievi sanno meglio dell’insegnante quando e perché lei urla, come si sposta, come manifesta il suo
fastidio ecc… e per ascoltarli, occorre naturalmente che la relazione pedagogica sia globalmente positiva e
che il contratto permetta tali scambi. Ci si dovrebbe abituare ad invitare gli alunni a dire ciò che osservano e
pensano.
Quando si fanno parlare gli alunni su ciò che provano, del clima, del loro rapporto con il sapere, essi dicono
molte cose che rimandano all’insegnante, una immagine nitida dei modi in cui egli funziona, tratta gli errori,
i disordini: tutto ciò attraverso cui la faccia più nascosta dell’habitus si rivela.
Viene dimostrata l’importanza della concretezza nella formazione degli insegnanti, quindi la legittimità dei
formatori che assicurano la mediazione tra l’ambiente professionale e l’università. Per mostrare che si può
formare a partire dalle storie vissute, senza raccontare la propria storia, i laboratori di scrittura sono dei
luoghi privilegiati.
Scrivere sulla propria pratica didattica è un altro modo di parlare a sè stessi o di rivolgersi agli altri.
Esistono mille forme di scrittura e questa permette di mantenersi a distanza, di tentare delle interpretazioni,
di preparare delle osservazioni.
Si può immaginare una scrittura privata, vicina al diario di bordo, senza un lettore, se non immaginario,
oppure si potrebbe scrivere a o per qualcuno.
L’inquadramento di un compito di scrittura da parte dei formatori nei confronti dei tirocinanti, instaura
invece un contatto didattici che esige una certa scrittura, dei modelli e delle barriere etiche.
Spesso si domanda agli insegnati di tenere un diario durante il loro primo anno di insegnamento per poi,
l’anno successivo, rileggerlo ed evidenziare in modo analitico e metodico, i temi principali.
3.6 La videoformazione
Ci si volge verso una memoria più a lungo termine, che aiuta a ricostruire l’origine di certe reazioni, a
viverne in qualche misura la genesi, prima che esse si automatizzino. Può essere che si accaduto a sei o otto
anni che un futuro insegnante si sia abituato, prima di entrare in un negozio o affrontare degli sconosciuti, a
costruirsi uno scenario, nella speranza, ogni volta smentita, che così si sarebbe meglio controllata la
situazione. Ciò permette di comprendere perché, venti o trenta anni più tardi, egli entra ancora in classe
prigioniero di uno scenario dettagliato e si trovi sempre così sconcertato quando non si sviluppa come
previsto.
La storia di vita può prendere l’andamento di una psicanalisi più o meno selvaggia e la dimensione analitica
è sempre presente, ma si può indirizzare verso un approccio più sociologico o antropologico, che rivela
l’appartenenza ad una comunità familiare o sociale più che la storia intima di una persona.
Si può anche fare ricostruire agli studenti la storia della loro famiglia, per aiutarli a cogliere che sono il
prodotto di una cultura familiare e che alcune delle loro reazioni trovano le loro radici nelle generazioni
precedenti.
Molto utilizzata in altri percorsi di formazione, la simulazione resta marginale nella formazione degli
insegnanti. Tuttavia permette di commisurarsi con la complessità di una situazione realtà, ma fittizia, dunque
con un distacco più grande, con la possibilità di osservarsi con curiosità.
I giochi di ruolo non necessitano di tanta informazione, obbligano ad improvvisare, a partire da una
situazione appena abbozzata, assumendo il ruolo di uno dei personaggi implicati. Il carattere ludico della
pratica permette le messe in situazione più insolite. Così, in un gioco simulante un incontro tra un insegnante
e i genitori di un alunno, gli interventi inattesi di quest’ultimo, interpretati da un insegnante, destabilizzano
gli adulti e rivelano il loro funzionamento autoritario, che smentisce il loro discorso centrato sul bambino.
3.10 La sperimentazione e l’esperienza
Il ruolo dell’esperienza nella genesi dell’habitus, immaginato a partire da una prospettiva sociologica,
dovrebbe essere analizzato alla luce dei lavori sui processi di apprendimento.
La pratica non è unicamente sotto il controllo dei saperi. Nell’habitus, infatti, partecipano in ugual misura
schemi, saperi, complessità dello spirito e le azioni umane.
In ogni campo di sapere esperto, all’interno di ogni didattica di una disciplina, c’è posto per l’habitus sotto i
suoi lati più nascosti: in rapporto al sapere, all’errore, all’incertezza, alla coerenza, ciascuno mobilita non
solo la sua logica naturale, ma anche altri schemi che, pur se trattano di saperi, si ancorano in una storia, in
relazioni, gusti, affetti.
Non ci sono ambiti separati. Si dà il caso che solamente alcuni tratti dell’habitus siano attivati da una grande
varietà di situazioni, perché rimandano a processi abbastanza generali in un gruppo di insegnamento, mentre
altri schemi hanno pertinenza solo in un repertorio molto particolare di funzionamento.
Nei mestieri dell’umano la lucidità è una competenza professionale. Si può sperare di svilupparla in maniera
metodica, di inscriverla nell’habitus? Non serve a nulla in effetti decidere a priori di essere lucido, si deve
solo cercare di stare all’erta per cercare di cogliere le occasioni e capirci un po’ meglio.
È utile che saperi psicanalitici, sociologici, filosofici e anche didattici ci preparino ad accogliere intuizioni,
ad ascoltarci.
È utile anche che dei dispositivi di formazione incoraggino la presa di coscienza, che dipende dal saper
analizzare, trasferibile in situazioni diverse, ma anche di voler analizzare una disposizione alla lucidità.
Questa disposizione, che spinge al momento opportuno ad attivare gli strumenti di analisi e a superare le
proprie resistenze, appartiene anch’essa all’habitus.
Si percepisce, quindi, che la migliore formazione dell’habitus, consiste nel modificarlo, nell’avere una
capacità di autoregolazione attraverso la presa di coscienza, l’analisi, la messa in discussione, in breve
l’esercizio della lucidità e del coraggio.
Lavorare sul proprio habitus non è confortante. È accettare di confrontarsi con la parte di sé che meno di
conosce e che non si ama affatto quando emerge.
Capitolo 10.
L’insegnante come “attore razionale”: quale razionalità, quale sapere, quale
valutazione?
Maurice TARDIF e Clermont GAUTHIER
Che cosa bisogna intendere per “sapere” quando questa espressione è utilizzata in espressioni come: “il
sapere degli insegnanti”, “il saper insegnare”? In effetti, che cos’è il “sapere”? Che cos’è un “sapere”? Tali
questioni hanno suscitato e suscitano ancora parecchie risposte diverse tra loro.
Il gruppo di ricerca si interessa dei diversi saperi che intervengono nella pratica di questo mestiere, delle loro
origini e della loro natura, del modo di integrarsi nel lavoro quotidiano degli inseganti e delle trasformazioni
avvenite nelle ultime decine d’anni.
Si tenta di analizzare il “sapere degli insegnanti” secondo una prospettiva socio-storica centrata, da un lato,
sullo studio dell’evoluzione dei contenuti e delle forme di questi saperi all’interno della scuola e delle
istituzioni scolastiche; dall’altro, sull’analisi del lavoro dell’insegnante come quadro socio-professionale a
partire dal quale questi stessi saperi sono sottoposti a vincoli diversi che ne determinano la natura e l’uso.
Nel corso della ricerca, sono riusciti ad individuare due gruppi di problemi, collegati tra loro.
Un primo gruppo di problemi scaturisce dal fatto che esistono numerose correnti di ricerca alternative sulla
questione del sapere. Questa situazione necessita di una riflessione critica sui presupposti delle correnti di
ricerca, per mettere in evidenza le loro divergenze o convergenze.
Un secondo gruppo di problemi deriva dalla nozione di sapere degli insegnati, la quale non è affatto chiara.
Si avrà bisogno di una serie di strumenti concettuali e metodologici per cercare di capire le interazioni tra
saperi di diverse origini che vengono fuori dalle azioni e dalle menti dei docenti esperiti che le mettono in
pratica.
Le interrogazioni attuali relative ai saperi professionali, alle professioni, all’insegnamento ecc… sono
diventate al giorno d’oggi in qualche modo delle metaquestioni e delle trans-questioni. Si tratta in effetti di
questioni primarie, di principio (“meta”), dalle quali derivano innumerevoli questioni importanti. Allo stesso
tempo, esse nutrono e attraversano (“trans”) molte problematiche e molte discipline.
Qual è il costo che le nostre società sono pronte a pagare per credere nei loro esperti? Questa questione
dell’esperienza è, dunque, anche una questione di potere, una questione socio-politica.
Dire che qualcuno sa insegnare significa affermare che possiede in sé delle conoscenze anteriori piuttosto
che dire che la sua azione pedagogica è conforme a certe norme fissate dalla società.
Tali questioni potranno forse sorprendere alcuni, che le troveranno troppo critiche. Pensiamo che è
necessario oggi provocare uno spostamento di prospettiva in rapporto a questi oggetti di conoscenza,
divenuti ormai “ipervisibili” nello spazio delle scienze dell’educazione, e che costituiscono nello stesso
tempo dei campi di azione in seno ai quali si dispiegano oggi diversi progetti più o meno concorrenti di
trasformazione e di miglioramento delle pratiche professionali e delle pratiche di formazione. Ora, di fronte
a questa saturazione, noi crediamo che un tale esercizio critico possa rivelarsi utile soprattutto sul piano di
una pedagogia della conoscenza, ci può insegnare a vedere le cose sotto un altro punto di vista.
Si ricorda che le nozioni poste in gioco (sapere, esperienza, competenza, professionista…) indicano, che lo
si voglia o no, dei modelli di sapere e potere. L’esperto, lo scienziato, l’attore competente, sono dei modelli,
simbolici e sociali, attraverso i quali le nostre società definiscono al giorno d’oggi degli attori e delle attività
ritenuti rappresentativi del più altro grado della padronanza pratica e discorsiva.
Un professionista dovrebbe essere in grado di analizzare delle situazioni complesse in riferimento a molte
griglie di lettura, di fare delle scelte rapide e riflessive di strategie adatte agli obiettivi e alle esigenze etiche,
di attingere da un largo repertorio di saperi, di tecniche e di strumenti quelli che sono più adatti, di
strutturarli in un protocollo, di adattare rapidamente i suoi progetti nelle interazioni formative, infine di
analizzare in modo critico le sue zioni e i risultati di queste, secondo questa valutazione e di apprendere
lungo tutta la sua carriera.
Ci sembra che le ricerche sul sapere dell’insegnante, la professione e la formazione degli insegnanti siano
caratterizzati da due eccessi: (a) “l’insegnante è uno scienziato” e (b) “tutto è sapere”.
b. Tutto è sapere
Il secondo aspetto è quello che si può definire approccio etnografico. L’eccesso etnografico consiste nel
trasformare tutto in sapere, cioè nel trattare ogni produzione simbolica, ogni pratica orientata ecc…come se
procedessero dal sapere. In questo spirito, tutto diventa sapere: le abitudini, le emozioni, l’intuito, i modi di
fare… ma allora a che scopo parlare di sapere se tutto è sapere? Questa nozione perde così ogni significato.
Il problema non consiste nel sostenere l’esistenza di saperi informali, quotidiani, esperienziali…, consiste
nel disegnare questi diversi saperi con l’aiuto di una nozione vaga, indefinita. Di fatto, nessuno è capace di
produrre una definizione di sapere che soddisfi tutti, perché nessuno sa in modo certo cos’è un sapere. Ci si
deve quindi accontentare di una definizione per uso limitato, che proviene da certe scelte e certi interessi.
2. Le concezioni del sapere: le idee di esigenza di razionalità e il suo interesse per la ricerca
Si considera possibile proporre una definizione del sapere che, senza essere accettata da tutti, possieda una
forte validità, almeno nella tradizione intellettuale occidentale. Nel quadro della cultura della modernità, il
sapere è definito in tre modi, in funzione di tre “luoghi”: la soggettività, il giudizio, l’argomentazione.
a. Il soggetto, la rappresentazione
Si può chiamare sapere il tipo particolare di certezza soggettiva prodotta dal pensiero razionale (Decartes).
Questa concezione del sapere la oppone agli altri tipi di certezze soggettive, fondate, per esempio, sulla fede
o sulla convinzione. Essa si oppone al dubbio, all’immaginazione ecc…
La certezza soggettiva del sapere può assumere due forme:
- La forma di un’intuizione intellettuale, attraverso la quale la verità è immediatamente colta;
- La forma di una rappresentazione intellettuale, che risulta da una catena di ragionamenti e di
intuizioni.
Secondo i sostenitori di questa concezione, la soggettività è considerata come il “luogo” del sapere. Sapere
qualcosa, è possedere una certezza soggettiva razionale.
Da un punto di vista globale, le scienze cognitive s’interessano allo studio delle regole che reggono i
processi cognitivi (memoria, apprendimento…) assimilati a dei fenomeni rappresentativi, cioè a simboli
legati da una sintassi. In questo senso, il sapere cognitivo è un sapere soggettivo: è una costruzione generata
dall’attività del soggetto.
Infine, il sapere cognitivo ideale è strettamente concepito secondo il modello delle scienze empiriche della
natura e della logica matematica. In questa concezione del sapere, l’ideale della razionalità è il pensiero
logico-matematico e il sapere ideale è la matematica.
b. Il giudizio, il discorso assertivo
Si può chiamare sapere il giudizio vero, cioè il discorso che afferma con ragione qualcosa di qualcosa. Il
giudizio è per così dire il “luogo” del sapere. Il giudizio rinvia alla dimensione assertiva del sapere. In
effetti, noi chiamiamo saperi i discorsi che affermano qualcosa di vero sulla natura della realtà o di tale
fenomeno particolare.
A differenza della prima concezione, il sapere risiede dunque nel discorso, un certo tipo di discorso,
piuttosto che nello spirito soggettivo. Notiamo che in questa concezione, solo i discorsi che vertono sui fatti
possono essere definiti come saperi in senso stretto: il sapere si limita al giudizio di fatto ed esclude i giudizi
di valore, il vissuto, l’impegno politico: questi sono esclusi dall’ordine positivista del sapere.
c. L’argomento, la discussione
Secondo questa concezione, si può chiamare sapere l’attività discorsiva che consiste nel tentare di
confermare, con l’aiuto di argomenti, di operazioni discorsive e linguistiche, una proposizione o un’azione.
L’argomentazione è dunque il “luogo” del sapere. Sapere qualcosa è non solo assumere un giudizio vero su
qualche cosa, è anche essere capaci di stabilire per quali ragioni questo giudizio è vero.
Secondo questa concezione, il sapere implica sempre l’altro, cioè una dimensione sociale fondamentale,
nella misura in cui il sapere è appunto una costruzione collettiva di natura linguistica generata da
discussioni, scambi discorsi tra esseri sociali.
Il sapere non si restringe alla conoscenza empirica, ma ingloba diversi tipi di discorso, dei quali, colui che
parla, tenta di fondarne la validità, fornendo delle ragioni discutibili e criticabili.
Nell’argomentazione, gli interlocutori si sforzano di superare i punti di vista iniziali della loro soggettività,
elevando le pretese alla validità intersoggettiva per le loro intenzioni o le loro azioni.
Ricordando queste tre concezioni, il nostro scopo è quello di scorgere e di precisare alcuni tratti
fondamentali che si ricollegano alla nozione di sapere, così come noi la utilizziamo correntemente in quanto
eredi di una tradizione fissata di linguaggi, nella speranza di poter usare alcuni di questi tratti per definire
l’oggetto delle nostre ricerche: il sapere dell’insegnante.
Malgrado le differenze importanti, queste tre concezioni hanno qualcosa in comune: esse collegano sempre
la natura del sapere a delle esigenze di razionalità.
In un caso, queste esigenze hanno per fondamento il pensiero di un soggetto razionale; nell’altro, esse hanno
per fondamento l’atto di giudicare; infine, nell’ultimo caso, esse si fondano su argomentazioni, cioè su
razionalizzazioni.
Sapere qualcosa o fare qualcosa in modo razionale, è essere capaci di rispondere a delle domande, offrendo
delle ragioni, dei motivi, come conferma di discorsi o azioni.
Si propone, dunque, di ricongiungere in modo globale la nozione di sapere a questa idea di esigenze di
razionalità; da ciò deriva un certo numero di conseguenze intellettuali importanti per la ricerca sui saperi
degli insegnanti:
a. Chiamiamo d’ora in poi sapere solo i pensieri, le idee, i giudizi, i discorsi, che obbediscono a
certe esigenze di razionalità. Io parlo o agisco razionalmente solo quando sono capace di
motivare un mio discorso o azione.
b. Diremo che queste esigenze sono rispettate ad un livello minimo quando l’attore al quale ci
indirizziamo è capace di fornire delle ragioni per motivare i suoi giudizi, discorsi o atti.
c. Si eviterà di imporre agli attori un modello preconcetto di ciò che è razionale o no, ma si
decide in base alle discussioni e alle ragioni avanzate dagli attori.
d. Il metodo migliore per accedere a queste esigenze di razionalità in atto presso il
locutore/attore è quello di interrogarlo sul perché, cioè sulle cause, le ragioni, i motivi del suo
discorso o della sua azione. Quest’idea di esigenze di razionalità rinvia ad un modello
intenzionale dell’attore umano, cioè essa procede dall’idea che la gente agisca non come una
macchina, ma in funzione di scopi, di finalità.
e. Ne discende che una delle principiali strategie di ricerca in accordo con questa visione del
sapere consiste nell’osservare degli attori e/o parlare con loro, ma interrogandoli sulle ragioni
di agire o discutere, cioè sui saperi sui quali essi si fondano per agire o discutere.
2.3 Razionalità, saperi comuni e impliciti
Quest’ultima idea è importante, perché afferma che lo studio delle ragioni dell’agire o del discutere permette
di accedere ai saperi degli attori. Quando discutiamo su un argomento qualunque, qualcuno ci può
domandare: “perché dite questo?”. Lo stesso accade per i nostri atti: “perché fate ciò?”. Quando siamo di
fronte a queste domande, noi possiamo tentare di rispondere servendosi di argomentazioni destinate a
giustificare le ragioni dei nostri detti o dei nostri atti. In tal caso, adottiamo sempre un atteggiamento
“argomentativo”. È evidente che un tale atteggiamento è particolarmente irritante e stancante; sarebbe
impossibile dover giustificare ogni singola affermazione ogni azione.
Per questo motivo, come per le scienze sociali e umani, anche per i nostri discorsi e i nostri atti quotidiani si
considerano alcuni saperi come comuni e impliciti, che non devono essere oggetto di discussione.
Inoltre, in campo scientifico o altrove, è impossibile dubitare di tutto (Cartesio), o non sapere nulla
(Socrate). Un sapere è contestato e contestabile a partire da un altro sapere. Se si contesta la razionalità di un
discorso o di un’attività, è perché ci si riferisce a una certa idea di ciò che è razionale.
2.4 L’interesse di questo approccio per lo studio del sapere degli insegnanti
Ma a che cosa è pertinente introdurre questa idea di esigenza di razionalità per definire la nazione di “sapere
degli insegnanti”?
Pensiamo che il concetto di razionalità non sia solo una costruzione teorica, ma che è una capacità essenziale
degli attori impegnati nell’azione, al saper elaborare delle ragioni e dei motivi per giustificare e orientare le
loro azioni. Gli attori sociali sono essi stessi dotati di razionalità, cioè della capacità di agire, di parlare e di
pensare, ordinando un ordine di ragioni per orientare la loro pratica.
Gli attori sociali sono dotati, per la loro appartenenza ad un contesto di vita sociale, di competenze
estremamente diversificate, che si traducono concretamente in procedure e in regole d’azione che essi usano
per orientarsi nelle diverse situazioni sociali. Inoltre, l’uso di queste procedure non si fa meccanicamente,
ma esige dagli attori sociali una “riflessività”, cioè la capacità linguistica di “dimostrare” e di “ritornare”
sulle procedure e sulle regole dell’azione, di modificarle e di adattarle alle numerose circostanze concrete
delle situazioni sociali.
Si può dunque affermare, senza dubbio, che l’educazione attuale presenta un contenuto razionale molto
forte. Per i saperi questa tendenza si manifesta con l’esistenza della scienza dell’educazione.
Il lavoro degli insegnati è largamente condizionato dal suo contenuto razionale (obiettivi, programmi,
verifiche…) e gli insegnati stessi sono integrati in un ambiente socio-professionale che determina in anticipo
certe esigenze di razionalità.
Si crede che identificando sapere ed esigenze razionali si possa rendere possibile la costituzione di una base
veritiera di conoscenze per l’insegnamento ma questa potrà esistere solo quando si riconosce ai docenti
esperti la capacità di razionalizzare la loro pratica, di oggettivarla e di stabilire le loro ragioni d’agire.
Queste ragioni in seguito potranno essere messe in discussione e confrontate con le teorie della scienza
dell’educazione e della ricerca universitaria.
I saperi dei docenti esperti sono dei saperi a fondamento razionale e non dei saperi consacrati: essi traggono
il loro valore dal poter essere criticati, migliorati, resi più esatti.
Per questo, si rifiuta di riconoscere come saperi professionali degli insegnanti, tutti i discorsi e gli atti peri
quali gli insegnanti esperti sono in grado di fornire delle ragioni che li motivino.
Il sapere non risiede nel soggetto, ma nelle ragioni pubbliche che dà un soggetto per tentare di confermare
attraverso un’argomentazione, un pensiero o un atto.
3. Il sapere insegnante: una ragione pratica, sociale e rivolta verso gli altri
3.1 Un professionista dotato di ragione e messo a confronto con dei vincoli contingenti
Gli insegnanti vengono qui considerati come dei professionisti dotati di ragione; inoltre si pensa che siano
portatori di giudizi, prendano decisioni in quei sistemi di azione complessi che sono la classe e la scuola, che
la loro condotta sia guidata da loro pensieri, giudizi e decisioni basati su esigenze di razionalità.
Come la gran parte dei lavoratori e dei professionisti, l’insegnante sa nella maggior parte dei casi perché egli
dice o fa qualcosa, nel senso in cui egli parla e agisce in funzione di ragioni, di motivi che gli servono a
determinare i suoi giudizi professionali nel suo contesto di lavoro.
Per raggiungere le finalità pedagogiche inerenti al suo lavoro, l’insegnante deve prendere decisioni in
funzione del contesto che è il suo. Ora, prendere delle decisioni è giudicare. Questo giudizio si basa sui
saperi dell’insegnante, cioè su delle ragioni che lo inducono ad esprimere tale giudizio e ad agire di
conseguenza.
Seguendo questa visione, l’insegnante non è uno scienziato, cioè il suo scopo non è la produzione di nuove
conoscenze e nemmeno la conoscenza di teorie esistenti. I giudizi degli insegnanti sono orientati verso
l’agire in un contesto e in relazione agli altri, nel caso specifico gli alunni. Egli non vuole conoscere ma
agire e fare e se cerca di conoscere, è per meglio agire e fare.
L’insegnante non è nemmeno uno scienziato, nel senso che i suoi giudizi non si riducono a dei giudizi
empirici, ma coprono uno spettro molto più largo di giudizi.
Il saper insegnare, dunque, rinvia ad una pluralità di saperi e un insieme di competenze differenziate. Questa
pluralità di saperi si forma in qualche modo “un serbatoio”, nel quale l’insegnante attinge le sue certezze, dei
modelli semplificati di realtà, delle ragioni, per confermare i suoi giudizi in funzione della sua azione.
L’insegnante si basa su più tipi di giudizi per strutturare ed orientare la sua attività professionale. Per
esempio, egli si basa spesso su dei valori morali o delle norme sociali per prendere una decisione. Egli si
basa anche, per raggiungere fini pedagogici, su dei giudizi che riprendono tradizioni scolastiche,
pedagogiche e professionali che egli stesso ha assimilato e interiorizzato. Infine si basa anche
sull’esperienza vissuta, a partire dalla quale producono giudizi professionali.
Uno degli assi privilegiati della ricerca sul sapere degli insegnanti, sulla loro formazione e la loro
professione, dovrebbe condurre al giorno d’oggi, sul loro giudizio professionale, sulle loro tipologie e sui
saperi che mette in gioco.
I ricercatori in educazione che si interessano alla formazione degli insegnanti dovrebbero osservare lo
stabilirsi non di una scienza dell’insegnamento ma di una giurisprudenza della pedagogia. Questa
espressione significa che l’attività dell’insegnante non deriva da giudizi scientifici, ma si avvicina per molti
aspetti alle modalità del giudizio giuridico; quindi, i saperi pedagogici hanno qualcosa a che vedere con i
saperi giuridici.
Mentre il giudizio scientifico si concentra sullo stato della realtà, il giudizio giuridico è sempre un giudizio
sociale. Il giudizio dell’insegnante è anch’esso un giudizio sociale, nella misura in cui il suo dominio di
giurisdizione è costituito dalla sfera delle interazioni tra l’insegnante e gli allievi e le finalità umane seguite
dall’educazione. Sicuramente il giudizio dell’insegnate avrà delle basi scientifiche ma vengono messe al
servizio di un’azione che non ha fini scientifici.
Il giudizio giuridico non pretende il rigore scientifico né una sua universalità, tuttavia non si limita neppure
al particolare. Così agisce l’insegnante: attraverso la sua pratica, la sua esperienza, egli stabilisce delle
regole, pone delle norme d’azione, che non sono delle leggi ma che gli permettono di gestire casi particolari.
In questo senso i giudizi dell’insegnante, le decisioni e le scelte che egli fa nell’azione possiedono un certo
valore di principio.
I giudizi dell’insegnante non hanno la durata e la stabilità dei giudizi scientifici poiché i loro campi di
applicazione cambiano, i gruppi e gli allievi variano ecc…; essi devono di conseguenza adattarsi a delle
situazioni nuove, chiarire delle circostanze nuove che si presentano alla pratica pedagogica.
Si insiste sui contenuti e sulla specificità del giudizio dell’insegnante. Quali sono gli oggetti dei saperi
dell’insegnante?
a. Un postulato: i saperi sono legati al lavoro?
Il lavoro dell’insegnate richiede certi saperi scientifici che non sono condivisi da tutti e che permettono al
gruppo degli insegnanti di fondare la loro attività su una certa base di saperi tipici di questo mestiere. Questa
base di saperi, non rimanda a dei saperi universali, al contrario, dipende dalle condizioni sociali e storiche
nelle quali l’insegnante esercita. La questione dei saperi è strettamente legata alla questione del lavoro
dell’insegnante nel contesto scolastico, alla sua organizzazione, ai vincoli oggettivi e soggettivi che implica
per i docenti esperti. È allo stesso modo legata ad ogni contesto sociale nel quale si inserisce la professione
insegnante e che determina in modi diversi i saperi richiesti e acquisiti dall’esercizio del mestiere.
Questa base di saperi è posseduta dalla maggior parte di individui che insegnano, ma è molto condizionata
dalla pratica del mestiere stesso.
È da notare che le conoscenze di un lavoratore sono in generale molto più ampie di quelle richieste dal suo
lavoro; allo stesso modo questo lavoro richiede delle conoscenze specifiche che non si possono confondere
con tutte le altre possedute dal lavoratore.
Ma al di là di questa distinzione astratta dei saperi, il carattere specifico dei saperi professionali dipende da
fenomeni concreti:
1. Sono acquisiti soprattutto attraverso una formazione specifica e l’università;
2. La loro acquisizione cresce attraverso l’esperienza;
3. Sono utilizzati in una istituzione, la scuola, che ha delle caratteristiche ben precise;
4. Stesso ragionamento per l’ambito lavorativo, l’insegnamento.
Conclusione
La concezione dell’insegnante e della sua formazione si ricollega alla visione del docente riflessivo di Shon.
Il sapere è un costrutto sociale prodotto dalla razionalità concreta degli attori, dalle loro deliberazioni,
razionalizzazioni e motivazioni che sono alla base dei loro giudizi, scelte e decisioni.
Le competenze dell’insegnate si ricollegano alla sua capacità si razionalizzare la propria pratica, di criticarla,
oggettivarla, rivederla, sforzandosi di fondarla su delle ragioni d’agire.
Non esiste expertise in ciò che si riferisce alle norme, nemmeno in rapporto a scelte anche semplici che deve
fare un insegnante riguarda alla distribuzione delle sue risorse limitate, del tempo e dell’energia.
Nel momento in cui le condizioni esterne e gli ambienti cambiano, cambia anche l‘esperto che cessa in quel
momento di esserlo.
Si è coniato il termine giurisprudenza della pedagogia, che dovrebbe raccogliere i giudizi degli esperti che
si fondano su una certa razionalità, i quali devono essere resi pubblici e analizzati.
Si rifiuta l’approccio che assimila l’insegnamento alla scienza. Si lega insegnante e razionalità ma una
razionalità in funzione della realtà degli attori coinvolti in attività contingenti, che si fondano su saperi
imperfetti.
Conclusione.
Feconde incertezze o come formare gli insegnati prima di avere tutte le
risposte.
PERRENOUD, ALTET, CHARLIER, PAQUAY
L’introvabile expertise
Parlare delle competenze di un insegnate esperto risponde solo aduna aperte per problema, perché:
- Il grado di expertise non è che un delle differenze di esercizio della professione;
- È difficile fissare la soglia di expertise
- La nozione stessa di expertise è problematica.
Si converrà che il livello di padronanza delle situazioni di insegnamento-apprendimento differisce da un
insegnate all’altro e varia nel corso della vita professionale, ma resta da identificare le loro competenze.
Per questo si è passati dall’espressione “insegnate esperto” a quella di “insegnate professionista”, portando
così l’expertise in rapporto con tutti gli altri saperi.
Per poter insegnare, non c’è dubbi che si debba essere in grado di padroneggiare tutta una serie di saperi, ma
non si può dire con certezza:
- Fino a che punto gli insegnati debbano padroneggiare la propria disciplina;
- In che cosa consiste questa padronanza, dato che non si tratta più di eccellere in ambito accademico,
ma di riuscire a trasporre la conoscenza in didattica;
- Quale rapporto si ha tra competenze dell’esperto e sapere.
Dunque se è scontato che un professore di fisica debba padroneggiare la fisica per insegnarla, i contorni di
questa padronanza esperta restano sfocati.
Per quanto riguarda gli altri saperi, la loro classificazione crea dei problemi, vista la loro ampia diversità:
pedagogici, didattici, relazionali, pratici, d’esperienza, …
L’idea stessa di sapere non è stabile, le opposizioni tra informazioni, conoscenze e saperi non sono
stabilizzate.
Al di là di questa ambiguità concettuale, è evidente che i saperi degli insegnati sono diversi e la loro
integrazione si realizza in modo personale.
Tra questi schemi operatori c’è senza dubbio la logica naturale, che permette di formare tutti i tipi di
ragionamenti e di giudizi che sono in grado di servirsi di saperi generali in una situazione particolare.
È ciò che chiamiamo la ragione pedagogica, cioè l’attività mentale che, tenendo conto delle finalità, delle
risorse e dei limiti di una data situazione, delle proprie conoscenze sui processi di apprendimento, della
giurisprudenza, cioè della pratica relativa a casi analoghi, conduce l’insegnante a scegliere una determinata
linea di condotta, a sapere e a dire cosa sta facendo.
Si possono interpretare i limiti della razionalità non come una lacuna, ma come un vantaggio. Ciò che
chiamiamo intelligenza dell’essere vivente, non è sempre un’intelligenza logica e per questo essa permette
di muoversi tra incertezze e contraddizioni. L’intelligenza dell’essere vivente aiuta ad agire in modo
intuitivo.
L’azione è talvolta guidata da ciò che Piaget chiamava inconscio pratico, in altre parole un insieme di
schemi di percezione, di decisione e d’azione. Tutto questo sistema, secondo Bourdieu forma l’habitus.
Gli schemi si radicano certamente nell’esperienza, ma non per questo sono saperi d’esperienza. Gli schemi
permettono un’azione efficace rispetto a una deviazione peri saperi e la riflessione, perché è più adeguata
all’insieme della situazione.
Tutto sarebbe semplice se ci fossero da una parte i saperi espliciti ne consapevoli e dall’altra degli schemi
d’azione che si sottraggono alla consapevolezza del soggetto. Purtroppo la realtà non è così: ci sono certe
rappresentazioni concettuali che si interiorizzano, si incorporano dell’inconscio pratico e diventano
abitudini. Viceversa, diversi avvenimenti possono far sì che alcuni schemi esistenti solo allo stato pratico,
diventino dei saperi. Alcune tecniche, come la videoregistrazione, aiutano a favorire la presa di coscienza di
abitudini proprie di ogni insegnate.
Ma al giorno d’oggi, nessuno è realmente in grado di identificare con precisione o prevedere, ciò che nel
comportamento di un insegnante derivi dai saperi o dall’habitus.
Tra cultura e inconscio psicoanalitico
L’attore di un dato comportamento, è il prodotto di una storia personale e di una storia collettiva: personalità
profonda e cultura modellano i suoi comportamenti, spesso a sua insaputa.
Il nostro appartenere aduna comunità permette di aver risposte costruite ben prima della formazione alla
professione docente, risposte che funzionano a nostra insaputa nella maggior parte dei rapporti sociali.
Nello stesso tempo, noi investiamo nelle relazioni intersoggettive degli schemi molto specifici, costruiti a
partire dalla nostra nascita al livello della nostra storia personale e soprattutto nelle relazioni con la nostra
famiglia.
In una professione di tipo antropologico come quella dell’insegnate, le competenze non possono limitarsi a
ciò che si acquisisce con la formazione professionale. Tutta la storia sociale e psicologica del soggetto è
formatrice.
È sempre più chiaro che insegnare non significa solo fare scelte didattiche e pratiche, ma anche etiche e
politiche.
Tra le competenze professioni vi +è la capacità di distinzione all’interno di conflitti, tra valori o norme e i
fini assegnati all’educazione.
L’etica è la capacità di giudizio morale da applicare ai dilemmi dell’azione pedagogica.
Non è possibile classificare le competenze degli insegnati fingendo una assoluta neutralità; non si può
evitare di prendere posizione, esplicitamente e implicitamente, sulle seguenti questioni:
- A quale tipo di professionalità ci si riferisce?
- Quali scelte si fanno a proposito della messa in relazione delle competenze e della formazione degli
insegnanti da una parte e della politica dell’educazione dall’altra;
- Quale libertà si accorda agli insegnanti di rispondere essi stessi a queste questioni e di definire di
conseguenza le proprie competenze?
L’insegnante ha bisogno di dare un senso a ciò che fa, di ricostruirne la legittimità e la coerenza.
Questa attività riflessiva può risolversi nell’autogiustificazione o al contrario, alimentare cambiamenti
progressivi.
I referenziali sono degli strumenti di lavoro, delle basi di dialogo tra ricercatori, formatori, studenti, il cui
ruolo non è di mascherare i problemi aperti, ma di riconoscerli progressivamente e di insegnare le scelte
possibili in un momento dato della storia, in relazione a determinate concezioni della professione.
Insegnare: una persona detentrice di un sapere è in contatto con un gruppo di persone che devono
apprendere, la cui presenta è obbligatoria per insegnar loro un contenuto socialmente stabilito, attraverso una
serie di decisioni prese in situazioni d’urgenza.
Ciascun elemento di questa definizione, può essere però messo in discussione.
Insegnare può essere considerato:
- L’articolazione tra il rispetto di un programma e la gestione delle interazioni sociali;
- La creazione e la gestione di processi e di situazioni d’apprendimento;
- Si parla di contratto, gestione della classe, relazioni intersoggettive, confronto tra desideri di
insegnare e di apprendere, mantenimento dell’ordine.
Tutte queste immagini non si escludono tra loro.
2. Come si costruiscono le competenze professionali?
Si danno delle risposte provvisorie alla domanda sulla natura delle competenze da sviluppare.
Tenendo conto della diversità dei problemi con i quali l’insegnante si confronta nella sua classe, si può
pensare che le competenze che egli mette in atto abbiano cominciato ad essere costruite ben prima che egli
decide di diventare insegnate.
Le esperienze di vita possono preparare alla professione all’insaputa dell’interessato.
Il postulato costruttivista afferma che le competenze sono acquisite progressivamente, sulla base
dell’esperienza, infatti:
- Le competenze di costruiscono a partire da una pratica, da un’esperienza, quando ci si ritrova a
confrontarsi con situazioni complesse reali;
- Il confronto con la realtà complessa è in una certa misura anticipato dalla formazione di scenari e di
ipotesi;
- La costruzione presuppone una certa riflessività a partire dall’analisi dell’esperienza e una
integrazione degli avvenimenti a posteriori;
- La costruzione di competenze è un processo a lungo termine caratterizzato dal ricorso a situazione a
volte simili a volte differenti.
Non è sufficiente osservare ed analizzare, bisogna entrare in interazione per costruire e confrontare degli
elementi d’analisi. Ora, per fare questo, sono richieste delle condizioni complementari:
- Padroneggiare rapidamente i saper-fare di base che permettono una comunicazione precisa e
formativa;
- Rispettare un codice etico, garantendo l’integrità delle persone in causa.
Apprendere a fare
Si sa che, proiettati in una situazione di insegnamento senza preparazione, l’insegnate ausiliario o supplente
sviluppano delle strategie di sopravvivenza che li aiutano a fronteggiare l’emergenza, ma non sviluppano
necessariamente delle vere competenze professionali.
Imparare a fare è affrontare progressivamente le complessità e di disporre un inquadramento che permetta di
esprimere i propri dubbi, le proprie paure, di cercare un sostegno e dei consigli, di dare senso all’esperienza.
La video-formazione è un mezzo privilegiato per apprendere progressivamente a esercitare certe competenze
senza troppo rischi, traendo vantaggio dai feed-back immediati della situazione, degli alunni, degli
osservatori e dei formatori. Può anche essere un metodo di apprendimento della riflessione sulle proprie
pratiche e sul proprio vissuto, parallelamente agli stage.
Apprendere a riflettere
Si concorda sull’importanza della riflessività come fonte di maggiore padronanza della pratica professionale
e dell’integrazione dei differenti tipo di saperi.
Diventare un insegnante significa innanzitutto imparare a riflettere sulla propria pratica, non solamente a
posteriori, ma nel movimento stesso dell’azione. È questo distanziarsi che non solo permette di adattarsi a
situazioni inedite, ma permette di apprendere a partire dall’esperienza.
Ciascun insegnante ha certamente una parte di responsabilità e di potere nella trasposizione didattica, ma i
formatori di insegnati hanno uno spazio molto più grande di interpretazione, di concettualizzazione delle
pratiche di riferimento e delle competenze che esse mettono in atto.
L’elaborazione di dispositivi di formazione è dunque fondata in larga misura su familiarità presunte con la
professione piuttosto che su un’analisi analitica della professione insegnate e per questo c’è un lavoro più
ampio da fare.