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L’arricchimento senza causa

In generale l’arricchimento senza causa o ingiusto può essere definito come un


vantaggio di natura patrimoniale conseguito da un soggetto, senza che questi vi abbia
titolo ed in danno di un altro soggetto.
Nel nostro ordinamento è infatti principio di carattere generale che gli spostamenti
patrimoniali da un soggetto a un altro devono essere sostenuti da una causa lecita e
meritevole di tutela, che li giustifichi giuridicamente. Tale principio, che in campo
negoziale trova il suo aggancio normativo nell’art. 1322 c.c. comporta, che lo
spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro è ammissibile solo se trova
supporto in un contratto, in un impoverimento remunerato, in un atto di liberalità o
nell'adempimento di un'obbligazione naturale, ritenuto meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento. Meritevolezza da individuarsi alla luce del complesso dei principi, ivi
compresi quelli desumibili dalla Costituzione, su cui si fonda la struttura economico-
sociale della comunità in un determinato momento storico.
Nel diritto romano non esisteva un’azione generale di tutela contro l’arricchimento
ingiusto, ma al contrario, una serie di rimedi tipici, anzitutto, la condictio indebiti,
rimedio la cui funzione era quella di consentire il recupero di beni consegnati in
esecuzione di un contratto invalido. I romani, infatti, non conoscevano il principio
consensualistico, per cui ai fini del trasferimento della proprietà era sempre necessaria
la consegna materiale della cosa o il compimento di altre particolari formalità; da qui
l’esigenza di uno strumento che consentisse il recupero della res consegnata, in caso di
trasferimenti privi di causa. Altro rimedio era l’actio de in rem verso, strumento sorto in
relazione alla peculiare posizione del pater familias rispetto ai figli ed agli schiavi: infatti,
mentre gli acquisti effettuati da questi ultimi entravano automaticamente a far parte
del patrimonio familiare, le obbligazioni assunte dai figli e dagli schiavi non
vincolavano mai il pater familias. A decorrere da una certa epoca, pertanto, sorse
l’esigenza di evitare che questi potesse sfuggire ai propri impegni semplicemente non
contraendo personalmente, venne, a tal fine introdotta l’actio de in rem verso che
consentiva di agire contro il pater familias che avesse tratto profitto dal negozio
concluso dal figlio o dallo schiavo, ma solo nei limiti dell’effettivo arricchimento.
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Infine, il sistema di tutele contro l’arricchimento ingiusto era completato, dalla
negotiorum gestio, volta a consentire un’estensione degli effetti tipici del mandato, ad
ipotesi nelle quali un soggetto avesse intrapreso la gestione di un affare altrui, senza
averne ricevuto incarico dal legittimo titolare e senza esservi altrimenti obbligato,
purché, sussistesse la consapevolezza e volontà di gestire un affare altrui e la gestione
fosse utilmente avviata.
Anche nell’epoca intermedia, i glossatori continuarono a muoversi nell’ambito dei
vecchi rimedi romanistici, sebbene con profondi adattamenti, volti a consentirne
un’applicazione molto più ampia. In particolare, lo strumento della negotiorum gestio,
appare profondamente modificato, tanto da assumere i caratteri di una generale azione
di arricchimento: si ammette, infatti, l’utilizzo della stessa anche in mancanza
dell’intenzione di gestire un affare altrui e nel contempo, anche il requisito dell’utilità
solo iniziale della gestione, sembra sfumare e confondersi con l’opposto requisito
dell’utilità effettiva della stessa. Anche l’actio de in rem verso viene sganciata
dall’originario ambito di applicazione ed estesa alla generalità dei negozi da cui
derivasse un arricchimento senza causa.
Neppure il Codice Napoleonico concepì un’autonoma azione di arricchimento senza
causa, limitandosi a prevedere i soli istituti della ripetizione dell’indebito e della
gestione d’affari: la dottrina francese dell’epoca, infatti, continuava a ritenere i vecchi
rimedi, sufficienti ad assicurare adeguata tutela in qualunque ipotesi di indebito
arricchimento. La soluzione francese venne trasfusa anche nel Codice Civile italiano
del 1865, che, dunque, non prevedeva un’autonoma azione di arricchimento senza
causa, la cui elaborazione si deve, invece, alla dottrina tedesca e trovò esplicito
riconoscimento normativo nel BGB del 1896.
Solo con il Codice Civile del 1942, recependo le soluzioni nel frattempo elaborate già
dalla giurisprudenza delle “Cinque Corti di Cassazione”, è stata introdotta, per la
prima volta nel nostro ordinamento, un’azione generale di tutela contro gli
spostamenti patrimoniali privi di giustificazione oggettiva. Tale azione è disciplinata
dall’art. 2041 c.c. il quale, impone a chi, senza giusta causa, si è arricchito a danno di

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un'altra persona, di indennizzare quest’ultima, della correlativa diminuzione
patrimoniale e nei limiti dell’arricchimento.
L’azione di arricchimento senza causa ha carattere generale, infatti, le ipotesi che
possono legittimarne l’esercizio non sono espressamente tipizzate, essa quindi, opera
ogni qual volta si realizzi un trasferimento di utilità economica che non trova la sua
giustificazione in una disposizione di legge ovvero in una convenzione tra le parti.
Presupposti per esercitare l’azione sono: in primo luogo, la locupletazione senza giusta
causa di un soggetto, essa può consistere in un incremento patrimoniale vero e
proprio, oppure in un risparmio di spesa ovvero in una perdita evitata. In secondo
luogo, l’ingiustificato impoverimento di un altro soggetto, anch’esso inteso in senso
esclusivamente economico e cioè, come diminuzione patrimoniale.
In terzo luogo, il rapporto di correlazione tra le due situazioni di arricchimento ed
impoverimento, di modo che lo spostamento di ricchezza risulti determinato da un
unico fatto costitutivo. In tale prospettiva, la giurisprudenza ha avuto modo di
escludere l’applicabilità dell’azione di arricchimento senza causa alle ipotesi di c.d.
arricchimento indiretto, che si verifica allorché il soggetto che si avvantaggia della
prestazione priva di causa, resa dall’impoverito, è un soggetto diverso da quello a cui
la prestazione è stata direttamente resa. Si realizza, cioè, una vicenda trilaterale in cui il
depauperato rende la propria prestazione ad un soggetto intermediario, ma della stessa
si avvantaggia un terzo. In particolare, si è osservato che per poter esercitare l’azione
di arricchimento senza causa è necessario che l’arricchimento e l’impoverimento
dipendano da un unico fatto costitutivo, per cui, l’azione non può essere ammessa
tutte le volte in cui il soggetto arricchito sia diverso da quello con il quale, colui che
compie la prestazione, abbia avuto un rapporto diretto. In tal senso deporrebbe, del
resto, il dato letterale dell’art. 2041 c.c. e precisamente, il concetto di correlatività che
postula un collegamento diretto ed immediato tra arricchito e depauperato.
Tuttavia, in deroga a questa regola generale, secondo la giurisprudenza, l’azione di
arricchimento senza causa nei confronti del terzo beneficiario è ammessa in due
ipotesi: la prima ipotesi riguarda le pubbliche amministrazioni, infatti, la fungibilità
soggettiva che connota gli enti pubblici, consente di ammettere l’azione ex art. 2041
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c.c. ogni qual volta la prestazione priva di causa resa ad una pubblica amministrazione,
venga poi utilizzata in concreto da un altro ente pubblico che ne trae vantaggio.
L’altra ipotesi, invece, riguarda il terzo beneficiario che abbia conseguito l’indebito
arricchimento, in via gratuita dal soggetto con cui l’impoverito ha un rapporto diretto;
il fondamento normativo di tale eccezione viene rinvenuta nell’art. 2038 c.c. che
disciplina la responsabilità del terzo acquirente nell’ipotesi di alienazione di cosa
ricevuta indebitamente, stabilendo che questi è tenuto verso l’impoverito nei limiti
dell’arricchimento. Applicando in via analogica tale principio, si è ritenuto che
l’impoverito può sempre esercitare l’azione di arricchimento nei confronti del terzo
beneficiario, nel caso in cui questi abbia conseguito la prestazione a titolo gratuito.
Ulteriore requisito per l’operatività dell’azione di arricchimento senza causa è poi
l’assenza di altre azioni esperibili, l’art. 2042 c.c., infatti, stabilisce espressamente che
l’azione non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un'altra azione per
farsi indennizzare del pregiudizio subìto. L’azione di arricchimento senza causa è,
dunque, configurata nel nostro ordinamento come strumento di tutela residuale e
sussidiaria, ciò segna un profondissima differenza tra la nostra azione di arricchimento
senza causa e quella prevista dall’ordinamento tedesco. Infatti, mentre il BGB
configura l’azione di arricchimento come la trasposizione normativa del generale
principio in base al quale ogni spostamento patrimoniale deve rispondere ad una
giustificazione oggettiva, ritenuta meritevole di tutela dall’ordinamento, la nostra
azione costituisce soltanto un’applicazione specifica del principio medesimo, il cui
ambito di applicazione è meramente residuale, rispetto agli altri strumenti di tutela
contro l’arricchimento ingiustificato.
L’azione di arricchimento risulterà quindi preclusa ogni qual volta l’impoverito risulti
in astratto disporre di una diversa azione di tutela, nonché, quando tale azione sia già
stata esercitata, ma sia stata rigettata nel merito e quando l’impoverito, pur
disponendo di un diverso rimedio contro l’arricchito, lo abbia perso per intervenuta
prescrizione o decadenza.
Si è a lungo discusso in dottrina e giurisprudenza in merito alla quantificazione
dell’indennità spettante al soggetto che ha subito la diminuzione patrimoniale, la
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questione ha assunto particolare rilevanza in materia di contratti di appalto, fornitura
o prestazione d’opera professionale nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni,
nelle ipotesi in cui i contratti risultassero nulli, irregolari o addirittura inesistenti.
Secondo l’orientamento maggioritario, l’indennità spettante all’imprenditore o al
professionista per l’impoverimento derivante dall’esecuzione di un opera senza causa,
deve comprendere sia il danno emergente, consistente nella effettiva diminuzione
patrimoniale subita dall’impoverito, sia il lucro cessante, cioè, quanto il soggetto
avrebbe percepito a titolo di guadagno per la prestazione resa, ove il contratto fosse
stato valido. Secondo tale orientamento, che si fonda su un’interpretazione estensiva
dell’art. 2041 c.c. poiché l’azione di arricchimento senza causa mira ad eliminare
l’intero pregiudizio subito dal soggetto impoverito, l’indennità dovrà necessariamente
comprendere anche il mancato profitto dell’imprenditore o del professionista.
Secondo un altro orientamento, invece, l’indennità per arricchimento senza causa può
comprendere soltanto il danno emergente, ma non il lucro cessante, il quale, pur
costituendo componente del più ampio danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. è
espressamente escluso dall’art. 2041 c.c. che, invece, fa riferimento esclusivamente alla
“diminuzione patrimoniale”, con l’ulteriore limite che il pregiudizio subito
dall’impoverito è indennizzabile solo nei limiti dell’arricchimento conseguito
dall’arricchito.
Quest’ultima impostazione è stata fatta propria dalla Corte di Cassazione, la quale, ha
evidenziato come a questo risultato conduce, anzitutto, la lettera della norma, che
saldamente ancorata alla tradizione romanistica, è chiaramente diretta a riparare la
diminuzione patrimoniale subita dall’impoverito, in funzione e nei limiti
dell’arricchimento, e non già, come pretenderebbe l’orientamento maggioritario, in
dipendenza del concreto ammontare del pregiudizio subito dal soggetto impoverito.
Invero, la tesi sostenuta dall’orientamento maggioritario annulla l’autonoma funzione
recuperatoria dell’azione di arricchimento senza causa e la sovrappone
arbitrariamente, all’azione risarcitoria dell’art. 2043 c.c. perseguendo così la totale
reintegrazione del patrimonio dell’impoverito, includendovi sia la perdita subita, che il

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mancato guadagno e determinando, in tal modo, una liquidazione estremamente
favorevole all’impoverito, se non addirittura premiale.
Tale soluzione non può essere condivisa, svolgendo le due azioni funzioni
profondamente diverse e non sovrapponibili: l’azione risarcitoria svolge la funzione di
approntare un rimedio contro il danno, ristabilendo la situazione patrimoniale
alteratasi per effetto dell’illecita ingerenza; l’azione di arricchimento senza causa,
invece, svolge la funzione di approntare un rimedio contro spostamenti patrimoniali
privi di giustificazione, ripristinando il patrimonio dell’impoverito. Non solo, ma
anche la struttura delle due azioni è profondamente diversa, l’obbligazione risarcitoria
presuppone, infatti, un comportamento antigiuridico, doloso o colposo, del
danneggiante, requisito soggettivo, invece, non previsto, per l’azione di arricchimento
senza causa, nella quale si richiede semplicemente la sussistenza di una arricchimento
e di un impoverimento determinati da un unico fatto costitutivo esterno, che stante la
residualità dell’azione, non può certamente coincidere con un fatto illecito. Il carattere
sussidiario dell’azione di arricchimento senza causa, infatti, porta ad escludere
l’operatività della stessa in presenza dei presupposti dell’illecito civile, trovando in tal
caso applicazione solo la diversa azione prevista dall’art. 2043 c.c. .
Esistono, peraltro, in dottrina posizioni fortemente critiche verso tale soluzione, ci si
riferisce, in particolare, a quell’orientamento che attribuendo all’azione di
arricchimento senza causa la funzione di ripristino del patrimonio dell’arricchito,
evidenzia come nelle ipotesi in cui l’arricchimento si realizzi attraverso un’illegittima
invasione della sfera giuridica altrui ed al contempo l’ammontare dell’arricchimento sia
superiore all’impoverimento, l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. risulterebbe
insufficiente. In tal caso, infatti, risarciti i danni, il responsabile dell’atto lesivo
conserverebbe pur sempre una parte della ricchezza conseguente alla lesione. Secondo
questo orientamento, dunque, l’impoverito può avvalersi dell’azione di arricchimento
senza causa ed ottenere la restituzione, non solo di quanto abbia perso, ma anche del
maggior utile conseguito dall’arricchito. Il suddetto orientamento dottrinale pone a
supporto delle proprie conclusioni alcuni dati normativi, più precisamente, l’art. 125
del D.Lgs. 30/05 (c.d. Codice della Proprietà Industriale) in base al quale, il titolare del
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diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione,
in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale
risarcimento. In tal modo, il legislatore avrebbe inteso superare una logica meramente
compensativa, introducendo una funzione sanzionatoria e deterrente, offrendo alla
vittima la possibilità di ottenere la restituzione del profitto indebitamente realizzato
dall’autore dell’illecito.
Tale soluzione non sembra poter essere condivisa, infatti, vero è che talvolta, con
riferimento a specifiche fattispecie, il legislatore ha ammesso la restituzione del lucro o
profitto indebitamente ottenuto a spese di un altro soggetto, ma tali disposizioni
costituiscono deroghe al principio generale, non certo la regola. Del resto, il carattere
strettamente restitutorio dell’azione di arricchimento senza causa sembra desumibile
anche dal capoverso dell’art. 2041 c.c. il quale stabilisce che quando lo spostamento
patrimoniale ha avuto ad oggetto una cosa determinata, l’arricchito è tenuto a
restituirla in natura, se essa sussiste ancora al tempo della domanda. Nello stesso
senso depongono, infine, anche le numerose figure tipiche, residuato dell’originaria
actio de in rem verso, disseminate nel tessuto codicistico, le quali, assolvono tutte la
medesima funzione di riequilibrio dei rapporti patrimoniali delle parti, tra queste
possiamo ricordare, a titolo esemplificativo, le fattispecie previste dall’art. 1134 c.c. a
favore del condomino che ha sostenuto una spesa urgente; dall’art. 1185 c.c. a favore
del debitore che ha pagato anticipatamente; dall’art. 1443 c.c. a favore di colui che è
tenuto a restituire la prestazione ricevuta in base a contratto annullato per incapacità.
In conclusione, pertanto, si deve ritenere che l’indennizzo spettante all’impoverito
non possa comprendere il lucro cessante, ma soltanto il danno emergente, cioè,
l’effettiva diminuzione patrimoniale subita dall’impoverito, contenuta nei limiti
dell’arricchimento, se questo è inferiore.
Un ulteriore requisito, ai fini dell’esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa,
è, infine, stato elaborato dalla giurisprudenza, nei casi di ingiustificato arricchimento
della p.a. . In tal caso, infatti, è necessario il riconoscimento, da parte della p.a. stessa,
dell’utilità dell’opera o della prestazione ricevuta. Tale riconoscimento, che sostituisce
il requisito generale dell’arricchimento previsto dall’art. 2041 c.c. può avvenire in
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maniera esplicita, attraverso un atto formale degli organi rappresentativi della p.a.
ovvero può risultare in modo implicito, da un atto o comportamento della p.a., da cui
si desuma inequivocabilmente un giudizio positivo circa l’utilità dell’opera o della
prestazione (ad esempio attraverso l’utilizzo della prestazione).
Il fondamento di tale peculiare disciplina è rinvenuto dalla giurisprudenza prevalente
nel principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
e nella legislazione speciale che, in applicazione di detto principio, regola l’attività
negoziale della p.a. e le procedure di spesa.

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