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E d itori R iuniti
LCOLL 1256- 9
001
Introduzione 9
Premessa 23
I. L ’intermediario 25
II. Giuseppe parlava aramaico 35
III. Tria nomina 43
IV. Il quinto Vangelo 53
V. Lo Stato ebraico 62
VI. Il regno greco 72
VII. Fare politica nella Diaspora 84
V ili. Gli stranieri in casa 100
IX. Varianti dell’Apocalisse 109
X. I re: il caldo e il freddo 124
XI. La città divisa 135
XII. Dopo 151
Appendice
Flavio Giuseppe e Masada 161
5
a G ., aramea
Introduzione
9
la sua formazione ortodossa di filologo classico e storico antico,
allievo di H A . Marrou, Victor Goldschmidt, L. Robert, A. Aymard
e di quel curioso « socratico » H enri Margueritte. Ma (anche que
sto è noto) gli interessi di Vidal-Naquet storico non sono separabili
dall’azione che egli, senza precise affiliazioni di partito, ha esercitato
cospicuamente in due momenti decisivi della recente storia fran
cese: nella crisi algerina, in cui prese posizione contro i metodi
di repressione usati dal governo francese (cfr. il suo volume Lo stato
di tortura, Bari, Laterza, 1963), e nella insurrezione studentesca
del 1968, di cui fu partecipe e poi storico in collaborazione con
Alain Schnapp nel volume documentario Journal de la Commune
étudiante, 1969, che ha avuto una traduzione inglese.
Nel 1960-61 Vidal-Naquet, allora assistente a Caen, fu so
speso dall’insegnamento universitario per aver firmato la dichia
razione dei 121 sul diritto « à l’insoumissìon » nella guerra di
Algeria. In periodo piu. recente gli attacchi gli sono venuti, in
Francia e in Italia, non solo da studiosi di destra, ma anche di
sinistra (B. Hemmerdinger e V . Di Benedetto) 2. Dopo alcuni anni
al CNRS e all’Università di Lione, fu nominato nel 1966 vice-
direttore di studi e nel 1969 direttore di studi alla École Pratique
des Hautes Études, come successore di A . Aymard. È anche attivo
nella redazione delle Annales e in particolare legato da vincoli
di collaborazione con il medievalista J. L e Goff.
Che l’interesse storiografico di Vidal-Naquet dovesse un giorno
includere il giudaismo era in teoria prevedibile; ma il volume su
Flavio Giuseppe prese in un certo senso di sorpresa l’autore stesso
prima che i suoi abituali lettori in argomenti greci. Vidal-Naquet
non ha mai dimenticato e non può dimenticare di essere ebreo, di
quegli ebrei delle Afba' Kehillot, delle « quattro comunità », del
Contado Venassino, con centro a Carpentras, che hanno dato dal
medioevo dinastie di grandi rabbini e medici, e in tempi piu
recenti musicisti, politici, scrittori e scienziati fuori di proporzione
anche solo dei piu importanti scritti di Vidal-Naquet, che pure sarebbe necessaria
per la difficoltà di rintracciare i numerosi contributi a volumi collettivi e le
originali introduzioni a libri altrui. Sia almeno ricordata la eccellente e fortunata
scelta di testi commentati in collaborazione con M. Austin, Économies et sociétés
en G rèce ancienne, 1972, che ha avuto una traduzione ampliata in inglese.
2 Si vedano per es. V. Di Benedetto in Belfagor, 33, 1978, pp. 191-207, c
non manca naturalmente di valide obiezioni, e lo strambo pezzo di B. Hemmer
dinger, Belfagor, 31, 1976, pp. 355-358.
10
con la loro minuscola entità numerica. Il padre di Vidal-Naquet,
che partecipò alla Resistenza dal 1940, e la madre furono entrambi
deportati e assassinati ad Auschwitz dai nazisti.
L ’intervento di Vidal-Naquet in difesa degli arabi (e dei
berberi) dell’Algeria ha qui la sua radice. Di qui pure viene la sua
preoccupazione costante con il problema di Israele. Questa preoc
cupazione non è definibile in poche parole, ma la sostanza è che
Vidal-Naquet ritiene possibile un dialogo tra israeliani e palestinesi.
Nemmeno è definibile in termini perentori la relazione tra
questa preoccupazione di ebreo francese per il futuro dell'ebraismo
e la sua interpretazione della posizione di Giuseppe durante e dopo
la guerra giudaica del 66-70 d. C. Basti, qui sottolineare la radice
emozionale profonda da cui è improvvisamente emerso un nuovo
(e forse più personale) Vidal-Naquet storico, quale si può ora già
seguire (oltre che in un articolo su Masada riprodotto in appendice
al presente volume) in un capitolo sul giudaismo ellenistico-romano
nel secondo volume su Rome et la conquète du monde méditerra-
néen (1 9 7 8 ) della collezione « La nouvelle Clio », a opera di Claude
Nicolet e collaboratori. È facile previsione che si tratti di attività
appena aperta.
II
11
in aramaìco. Solo dopo aver ricevuto la cittadinanza romana ed
essersi insediato in Roma si trasforma con qualche difficoltà in
scrittore di lingua greca, segnando con l’assorbimento di forme
greche di pensiero il suo distacco dagli ebrei palestinesi, ma allo
stesso tempo elaborando un’apologià del giudaismo, che riflette
in molti modi la situazione della Diaspora. Non per nulla il Contro
Apione è la risposta a un detrattore egiziano di lingua greca.
La condizione di transfuga non era nuova. Polibio ci si era
trovato. Come Vidal-Naquet dice bene, Polibio doveva quale tran
sfuga fare i conti con i suoi concittadini achei, non però con Dio.
Flavio ha da giustificarsi davanti al Dio dei padri, e perciò scrive
non solo di storia contemporanea, come Polibio, ma sul passato
del suo popolo, in difesa delle sue tradizioni religiose. La situa
zione di Flavio Giuseppe che, dopo essere diventato transfuga,
rimane fedele al suo Dio e al suo popolo non è nei suoi elementi
obiettivi troppo differente da quella degli ebrei della Diaspora che
non hanno combattuto nella guerra del 70 d .C . e, dispersi in aree
linguistiche diverse, rimangono ebrei. Traditore nei confronti dei
suoi compagni di lotta in Palestina, egli va a rifugiarsi tra coloro
che non hanno combattuto e non sanno ancora che combatteranno.
Ili
12
degli egizi (o dei siri) che riacquistarono il meglio della loro co
scienza nazionale quando la loro lingua (rispettivamente copto e
siriaco) divenne la lingua della loro religione dopo la loro conver
sione al cristianesimo. Nell’Occidente latino le vecchie culture
regionali sembrano vivere di vita sottoterranea finché riemerge
ranno (almeno per certa misura) in veste latina o neo-latina dopo
la caduta dell’impero di Occidente.
Per gli ebrei, la vita nazionale già prima del 70 si identificava
largamente con le associazioni che in lingua greca furono designate
prevalentemente con il nome di sinagoghe3. Sinagoghe esistevano
cosi in Palestina come nella Diaspora. Allo stato attuale delle nostre
conoscenze non sappiamo donde e a quale data (certo almeno dal
I sec. a. C .) le sinagoghe si siano venute moltiplicando dovunque
c’erano ebrei. In Palestina, finché il tempio di Gerusalemme esi
stette e invero finché la maggioranza della popolazione rimase giu
daica, la sinagoga non servi a distinguere gli ebrei dai gentili e
quindi a conservare ebrei gli ebrei. Ma in Palestina come nella
diaspora la sinagoga rappresentava la costituzione di un culto fon
dato sulla lettura e sul commento della Bibbia (e in particolare
del Pentateuco), la cura diretta o indiretta dell’educazione dei
fanciulli e degli adulti, e m a organizzazione amministrativa e assi
stenziale. Ciascuna sinagoga era fondata per iniziativa privata, e
perciò ci potevano essere molte sinagoghe nella stessa città, senza
impedire liberi collegamenti e comunicazioni tra sinagoghe. Il
servizio religioso della sinagoga presupponeva che il testo biblico
fosse accessibile anche a chi non sapeva di ebraico: donde la tradu
zione orale o scritta della Bibbia in greco, in aramaico o piu tardi
in latino, un fatto unico nel mondo antico. Nelle sinagoghe per la
prima volta gli ebrei diventano il popolo del libro, anche se siano
ancora ben lontani dall’accettare come modello ideale la regola di
Maimonide che ogni ebreo, ricco o povero, giovane o vecchio,
3 Cfr. J. Gutman (ed.), The synagogue, New York, 1974. Tre differ
orientamenti nello studio del giudaismo del I sec. d. C. possono essere esemplifica^
da S. Safrai e M. Stern (edd.), The Jewish People in thè First Century, I-II
(finora pubblicati), Leiden, 1974-75; E . Rivkin, A Hidden Revolution: thè Pharisees'
Search for thè Kingdom within, Abingdon, 1978; W . S. Green (ed.), Approaches
to Ancient Judaism: Theory and Practice, Missoula, 1978. Sul sistema educativo
J. Goldin in E x Orbe Religionum. Studia G. Widengren, I, Leiden, 1972, pp.
176-191. Può essere interessante confrontare uno studio sociologico della moderna
sinagoga americana, S. C. Heilman, Synagogue Life, Chicago, 1973.
13
sano o malato, ha il dovere di riservare una porzione di ogni giorno
per lo studio della Torah sino al giorno della morte. La sinagoga
offre la possibilità d’espressione — e fino a un certo punto di riso
luzione — ai contrasti economici, sociali e specificamente religiosi
che si vengono accumulando. La sinagoga mantiene e sviluppa
l’unità di culto dove viene a mancare l’unità di lingua. Ma la molte
plicità delle sinagoghe si ridurrebbe a caos senza interpreti auto
revoli della Legge e quindi si appoggia a scuole rabbiniche.
Non c’è bisogno di andare al di là dei Vangeli, degli Atti degli
Apostoli e di S. Paolo per accorgersi di tutto questo. Ma quasi
nulla ci viene, sulla sinagoga da Flavio Giuseppe, che appena ci
informa, come introdotta da Mose, della pratica di studiare la
Legge al Sabato (Ant. Jud. 16, 4 3 ; Contra Apionem 2, 173). La
sinagoga come istituzione funzionante non appare nelle sue opere.
14
ritorno di Nerone come vendicatore delle province orientali e gre
che contro la tirannia di R om a45.
Non è Flavio Giuseppe, ma l’Apocalisse di Giovanni a darci
informazione più precisa di questo stato d ’animo: l’Apocalisse che
trasforma il ritorno di Nerone aspettato da larghe cerehie pagane
in avvento dell’Anticristo e per cui la distruzione di Roma come
nuova Babilonia è il segnale per l’avvento del millennios. L ’Apo
calisse dà una estrema espressione messianica al risentimento contro
Roma. È caratteristico che sìa scritta da un cristiano, perché la
tradizione di Eusebio (Hist. E cd . 3 , 5 , 3 ) tende a separare comple
tamente i cristiani dagli ebrei nel loro rifiuto di ribellarsi a Roma.
La precisa data dell’Apocalisse, che Ireneo già poneva nel periodo
di Domiziano (Adv. Haeres. 5, 3 0 , 3 ), importa relativamente
poco in confronto al suo contenuto antì-romano e più specifica-
mente anti-neroniano. Ma non è da dimenticare che due indizi
interni precisi fanno ritenere che l’Apocalisse sia stata scritta tra
il 68 e il 69 d .C ., cioè sia contemporanea alla ribellione giudaica.
Essa presuppone l’esistenza del tempio di Gerusalemme (11, 1)
e prevede (cap. 1 7 ) sette imperatori romani, di cui l’ultimo di poca
durata. Se si parte da Cesare, come fa anche Suetonio, il settimo
imperatore è Galba, appunto di breve durata. Non può essere un
caso 6.
Queste aspettazioni tra politiche e messianiche non si limi
tarono naturalmente alla Giudea e all’anno dei quattro imperatori
(e perciò la questione della data e del luogo d ’origine per ciascun
documento apocalittico conta solo fino a un certo punto). Nella
15
raccolta dei Libri Sibillini che ci è pervenuta, testi che si danno
per profezie di sibille pagane sono composti fuori di Palestina
da ebrei e cristiani fra il secondo secolo a. C. è il terzo secolo d. C.
(se non più tardi). I libri quarto e quinto sono meno patente, ma
pur chiara espressione dello stato d ’animo che produsse l’Apoca
lisse di Giovanni. Entrambi i libri sono di origine ebraica, ma nel
libro quinto alcune interpolazioni cristiane (linee 6 8 ; 256-259)
dimostrano che il libro fu accettato e fatto proprio da un gruppo cri
stiano. Il libro quarto contiene un’allusione all’eruzione del Vesuvio
del 79 d. C., che data all’incirca il testo/Accettando e modificando
la nozione della successione degli imperi, come era stata introdotta
nel pensiero ebraico dal libro di Daniele (III-II sec. a .C . ) 1, il
libro quarto si aspetta la prossima fine del quinto impero (Roma)
per la ribellione dell’Oriente, di cui il ritorno di Nerone deve
costituire l’episodio centrale. Nel libro quinto, che sembra aver
ricevuto ritocchi fino al regno di Marco Aurelio, ma avere un
nucleo risalente a circa il 76 d. C.s, l’aspettazione della fine del
mondo si collega esplicitamente con l’aspettazione della fine di
Roma. Non per caso ci riporta a Marco Aurelio la data della reda
zione del libro ottavo dei Libri Sibillini, che nella forma attuale è
interamente cristiano. Anche in questo libro si predice e aspetta
la caduta di Roma.
Al tempo di Marco Aurelio gli ebrei dissanguati dalle tre
ribellioni messianiche avevano ormai, se non abbandonato, represso
le speranze messianiche ed escatologiche da cui erano stati soste
nuti nel periodo della lotta a mano armata contro Roma. I rabbini,
il cui pensiero .si riversa nelle grandi compilazioni giuridiche del
I I I sec. d. C., — la Mishnah e la Tosefta, — nel complesso scorag
giano le speculazioni messianiche, in specie se implicano attività
rivoluzionaria. La composizione di opere strettamente apocalittiche
rallenta dopo il 1 30 d. C. da parte ebraica (ci sono tuttavia testi
posteriori: ì capitoli 15-16 del II Esdras, chiamati anche V Esdras,
sono per esempio spesso datati dai moderni al 2 7 0 circa d. C.).
Quanto è già composto passa a poco a poco in mani cristiane.
A gruppi cristiani medievali è dovuta la conservazione di siffatti
testi di origine giudaica. Flavio Giuseppe non anticipa la condanna78
16
dei rabbini, che non facevano mestiere di storico, nel trascurare
questa letteratura: la trascura perché non ne capisce l’importanza.
IV
17
esperienza e presenta ai suoi lettori gentili o, se ebrei, ellenizzati.
Riversando la responsabilità del disastro sulla classe dirigente
del proprio popolo (per es. Ant. Jud. 1, 23), Flavio Giuseppe è
ben lontano dal secolarizzare le sue categorie di giudizio. Egli certo
rifiuta di condividere le speranze messianiche da cui i combattenti
erano stati sostenuti. Ma andando al di là di una fedeltà generica
alla religione dei padri (quale esprime in Ant. Jud. 3, 317-322 e
altrove), egli è convinto che i profeti abbiano già preveduto nel
passato il dominio romano e i limiti della stia durata. L ’area di
accordo con i suoi correligionari è in teoria vasta. Giuseppe accetta
che il destino dell’impero romano fu già incluso nella profezia
d'Israele sia per i successi attuali sia per la futura caduta che è
inevitabile, essendo la condizione, o una delle condizioni, della
instaurazione del regno messianico. Per un ebreo, come per un
cristiano, non c’era « Roma aeterna ». Ma egli, Flavio Giuseppe,
preferisce accentuare quanto si è già avverato, cioè il dominio di
Roma, e conservare nell’ombra quanto è ancora nascosto perché
futuro. La diffidenza contro gli entusiasmi apocalittici degli zeloti
qui si combina in misura non accertabile con la prudenza di chi
sa di essere sorvegliato. Da un lato egli ci dice chiaro che il dominio
romano era stato preveduto da Geremia, Ezechiele e Daniele (Ant.
Jud. 10, 7 9 ; 10, 2 7 6 ) nonché, a quanto pare, dal molto anteriore
Azariah (Ant. jud. 8, 2 94-296; cfr. 2 Chron. 13, 1). Dall’altro
lato egli sopprime certi aspetti delle profezie di Daniele. Omette la
visione delle bestie, cioè degli imperi, di Daniele 7, il cui riferi
mento a Roma è attribuito a Dio stesso in un passo singolarissimo
del II Esdras (una apocalisse della fine del primo secolo d. C .),
12, 10 sgg. Per la stessa ragione, e tradendo un evidente imbarazzo,
Flavio Giuseppe si rifiuta di scendere a spiegazioni sulla profezia
della pietra divina che spezza la statua degli imperi in Daniele 2, 34.
Egli sapeva che era stata reinterpretata come vaticinio della caduta
di Roma (Ant. Jud. 10, 2 1 0 ) 10.
Lo stesso procedimento egli applica ad Alessandro Magno.
18
Nella visita a Gerusalemme, Alessandro entra nel tempio ed è
informato dal libro di Daniele fino al punto di apprendere la sua
prossima vittoria sui persiani (Ant. Jud. 11, 3 3 7 ), ma non la piu
lontana distruzione dell'impero da lui fondato ". Insomma, i pro
feti ebrei in Flavio Giuseppe sembrano soprattutto promettere
l’impero a sovrani non ebrei. Per Ciro, riguardo a cui la profezia di
Isaia era esplicita, Flavio Giuseppe trova modo di aggiungere di suo
che Ciro la lesse personalmente duecento e dieci anni dopo che era
stata pronunciata (Ant. Jud. 11, 3 ) e fu indotto a comportarsi in
conformità della medesima.
Flavio Giuseppe conserva il valore profetico dei libri biblici,
e allo stesso tempo li priva di ogni tendenza sovversiva facendo
vedere che i re stranieri se ne dimostrarono soddisfatti. Daniele
è tra i veggenti del passato quello da lui preferito ('Ant. Jud. 10,
2 6 7 ): è profeta di buona ventura ed esatto nei tempi. È impossi
bile sottrarsi all’impressione che a qualche livello della sua co
scienza Giuseppe Flavio abbia stabilito una equazione tra Daniele
e se stesso. Egli è convinto di avere qualità di profeta e interprete
di sogni e di averle dimostrate non solo nel predire il trono a Vespa
siano (Bellum Jud. 3, 400-408), ma già d momento di tradire
i propri connazionali (3, 331-334). Egli attribuisce il dono della
profezia alla setta dei farisei a cui aveva appartenuto (Ant. Jud.
17, 4 3) e a taluni farisei in particolare (Ant. Jud. 13, 3 ). Per di
più si dichiara discendente da parte di madre dell’Asmoneo Gio
vanni Ircano dotato di spinto profetico (Ant. Jud. 13, 2 9 9 ; Bellum
Jud. 1, 68).
Fidandosi dei propri doni di profezìa, egli prevede la vittoria
romana e con ciò giustifica la propria decisione di non commettere
suicidio e arrendersi. Come osserva Vidal-Naquet, questa è l’anti
tesi dell’atteggiamento che Flavio Giuseppe attribuisce al capo dei
difensori dì Masada nel discorso in cui raccomanda di non arren
dersi e suicidarsi (Bellum Jud. 7, 320-388). Ma si introduce forse
solo un linguaggio arbitrario definendo, come fa Vidal-Naquet,
il discorso di Eleazar come apocalisse senza sbocco, come apocalisse
di morte. Il discorso di Eleazar non ha, né in forma né in conte
nuto, nulla di comune con un’apocalisse: è un invito al suicidio1
19
basato su argomenti più comprensibili a un greco-romano che a un
ebreo. È anzi implicito nella rappresentazione datane da Flavio
Giuseppe che Eleazar preferisce il suicidio perché riconosce che le
speranze apocalittiche immediate si sono dimostrate fallaci.
Flavio Giuseppe, forte della sua eredità profetica, può preve
dere il futuro e sopravvivere. Nel sopravvivere dichiara in qualche
modo la sua fedeltà al Dio dei padri e alla legge della Bibbia.
Ma è tagliato fuori dalle due correnti vitali del giudaismo del suo
tempo, l’apocalisse e la sinagoga. Le due correnti a noi paiono
andare in opposte direzioni, e cosi fu dal I I secolo; ma nel I sec.
d. C. spesso confluirono e si alimentarono a vicenda. Lo stesso
accadde nel cristianesimo primitivo, che derivò dal giudaismo sia
l’escatologìa sia la organizzazione chiesastica. Risulta in Flavio Giu
seppe un giudaismo appiattito, non falso e non triviale, ma reto
rico, generico e poco reale u. Le somiglianze con le attitudini reli
giose è p ra tich erei gruppo di rabbini che guidato da Johannan
ben Zaccai cercò di ricostruire le strutture del popolo ebraico dopo
il disastro del 70 sono grandi in superficie. Anche i rabbini repres
sero le speranze apocalittiche, accentuarono il carattere esemplare
del racconto biblico, e cercarono dì mettersi d ’accordo con i romani
e di averne l’appoggio. A suo modo Johannan ben Zaccai fu un
transfuga, e può essere simbolico che la tradizione rabbinica gli
attribuì la profezia dell’avvento al trono di Vespasiano che Flavio
Giuseppe (confermato da Suetonio Vesp. 5 ) attribuisce a se stes
so n. Ma le somiglianze rimangono alla superficie. Mancava a
Flavio Giuseppe la gioia nella Legge, il senso di vita collettiva disci
plinata, la preoccupazione e l’amore per le giovani generazioni e
la fiducia in Dio che caratterizzeranno — insieme a un notevole
grado di libertà intellettuale, di competenza giuridica e di osses
sione per norme di purità — i rabbini che emersero come capi di
una nazione senza Stato, senza territorio e senza unità linguistica.
Prima ancora che il greco in cui Flavio Giuseppe scrisse fosse
perduto dagli ebrei come una delle loro lingue culturali, le sue
opere avevano già cessato di interessare i correligionari12134. La ri
12 Cfr. le mie osservazioni sul Contro Apione del 1931 ora in Terzo Contri
buto, pp. 513-522, che mi sembrano ancora sostanzialmente esatte.
13 Per la ricostruzione difficile della figura di Ben Zaccai cfr. l’autocorre
zione di J . Neusner, Journ. Jewish Studies, 24, 1973, pp. 65-73 ai suoi precedenti
scritti in argomento.
14 Cfr. H. Schreckenberg, Die Flavius-fosepbus-Tradition in Antike und
Mittelalter, Leiden, 1972.
20
presa di contatto nel medioevo tra gli ebrei e il loro storico avviene
per la mediazione di rifacimenti che poco lasciano dello spirito
originale. Il testo autentico sarà salvato e usato dai cristiani come
testimone indipendente della rovina del vecchio Israele in favore
del nuovo: un « testimonium flavianum » ben piu ampio, e più
sicuramente autentico, del breve passo di Antichità giudaiche (18,
63-64) in cui si menziona Gesù e a cui di solito si riserva questa
denominazione 1S.
Arnaldo Momigliano
University of Chicago, maggio 1979
21
Premessa
Come ogni libro, anche questo ha la sua storia, che forse può
divertire o interessare il lettore. Nel 1975 il mio amico Jéróme
Lindon, direttore delle Editions de Minuit, si vide arrivare, per
mio tramite, una nuova traduzione della Guerra giudaica di Flavio
Giuseppe, che un filologo lionese, Pierre Savinel, aveva eseguito
di sua iniziativa, senza sapere se un giorno sarebbe stata stampata.
Jéròme Lindon accettò di pubblicarla, a condizione che scrivessi
per il libro « un’ampia prefazione sulle questioni di fondo ».
Gli sembrava infatti che il testo riproponesse una quantità di
problemi più che mai attuali, come quello della solidarietà e del
tradimento, quello dell’estremismo, quello dello Stato ebraico e
della Diaspora. Ovviamente andava evitato il rischio di cadere in
una troppo facile attualizzazione: Lindon si rivolgeva a me, per
questa prefazione, proprio in quanto storico dell’antichità. Allora
non avevo ancora familiarità con l’opera di Giuseppe e conoscevo
incomparabilmente meglio Erodoto e Tucidide che i primi due
libri dei Maccabei. Non nascondo che mi sono ritrovato preso
nel lavoro fino al collo e mi ci sono appassionato. Ho subito avuto
l’impressione che l’opera di Giuseppe, nella sua parzialità, fosse
un documento di fondamentale importanza da diversi punti di
vista, che m’interessavano direttamente in quanto storico del
l’antichità, in quanto ebreo, in quanto testimone delle manifesta
zioni di rivoluzionarismo messianico della nostra epoca. Appassio
nato com’ero, avrò saputo mantenere la necessaria distanza? Lo
spero, dal momento che un giornalista d’un grande quotidiano
francese mi considera senz’altro « l’avvocato di Flavio Giuseppe »1
23
mentre secondo un dotto e benevolo critico è evidente che nutro
« un’avversione manifesta per Giuseppe » 2.
L ’« ampia prefazione » richiestami da Lindon divenne cosi un
testo d ’un centinaio di pagine che fu effettivamente pubblicato
nel gennaio 1977 come introduzione alla Guerra giudaica nella
versione di Pierre Savinel3. Questo saggio capitò tra le mani d’una
mia allieva all’Ecole des Hautes Etudes, Daniella Ambrosino, che
già m’aveva fatto conoscere l’edizione della Guerra giudaica con
traduzione italiana di G. Vitucci. Per suo tramite il testo arrivò al
mio collega prof. Luigi Capogrossi Colognesi, che mi consigliò di
sviluppare il lavoro ampliandolo su alcuni punti e aggiornandolo
in modo da farne un volume indipendente destinato ad essere
pubblicato in Italia: suggerimento di cui desidero ringraziarlo
calorosamente. Presentare questo libro al pubblico italiano mi è
particolarmente gradito perché, se ho avuto un maestro in questo
campo di studi, è stato proprio un italiano e precisamente Arnaldo
Momigliano.
Daniella Ambrosino, che aveva fatto da intermediaria, è stata
anche la traduttrice del libro. Non sta a me giudicare la qualità
della sua versione: posso solo dire con quanta cura l’ha realizzata
e con quanta gentilezza non solo ha accettato di rileggere con me
pagina per pagina, ma ha consentito a tradurre un testo conti
nuamente rimaneggiato, che si trattasse d’aggiungere un dato o
d’inserire una nuova idea, un testo insomma rimasto fino all’ultimo
in lavorazione.
A quanti m ’hanno permesso di migliorare il libro col loro
apporto o con la loro critica, specialmente i colleghi André Paul
e Valentin Nikiprowetzky, e a tutti coloro che hanno collaborato
alla pubblicazione, va oggi il mio ringraziamento particolare.
Pierre Vidal-Naquet
25 ottobre 1978
24
I. L ’intermediario
25
molti gli lanciavano sarcasmi dall’alto delle mura, molti impre
cavano contro di lui e alcuni gli tiravano addosso. » 2 Giuseppe non
si dà per vinto e continua i suoi giri; poco dopo, nonostante le
precauzioni antibalistiche, viene colpito da un sasso e sviene, susci
tando giubilo a Gerusalemme senza per questo gettare nella dispe
razione il campo rom ano3.
L ’avventura era cominciata qualche anno prima, addirittura
prima dell’insurrezione della Giudea (66 d .C .). Nato nel 37 o
nel 38 dell’era cristiana, Giuseppe figlio di Mattia appartiene a
una famiglia sacerdotale e discende per parte di madre dai re
asmonei. Wunderkind (ragazzo prodigio) ante litteram, a quattor
dici anni è già dottore della Legge. A sedici ha già fatto il giro
delle varie sètte ebraiche e s’è imposto un periodo di ritiro nel
deserto4. Nel 64 accompagna a Roma un gruppo di sacerdoti
arrestati dal procuratore Felice: vuole intervenire presso l’impe
ratore — Nerone — per ottenere la loro liberazione. Scopre allora
per la prima volta un altro aspetto del giudaismo, che è presente
fin dall’anticamera imperiale: il mimo favorito di Nerone, Alituro,
è ebreo, e la moglie del sovrano, Poppea, è probabilmente una
Giuseppe è enorme. Non protendo d’aver letto tutto o quasi, ma avverto che cito
qui soltanto le opere che mi sono state d’utilità piu diretta. Per una bibliografia
abbondantissima e particolareggiata, si veda L. H . Feldman, Studies in Judaica;
Scholarship on Pbilo and Josephus (1937-1962), Yeshiva University, New York,
1963 (allo stesso autore si devono le appendici bibliografiche aggiunte al nono e
ultimo tomo dell’edizione Loeb); il libro di A. Schalit, Zur Josepbus-Forschung,
Darmstadt, 1973, contiene anch’esso un’utile appendice bibliografica; tuttavia
l’opera fondamentale in materia è quella di H. Schreckenberg, Bibliographie zu
Flavius Josephus. Arbeiten zur literatur und Gescbichte des hellenistischen
Judentums, Leiden, 1968; dello stesso autore, Die Flavius-Josephus-Tradition in
Antike und M ìtteldter, Leiden, 1972, che permette di ricostruire la storia della
trasmissione del testo senza limitarsi all’aspetto puramente paleografico. Le opere
di sintesi su Flavio Giuseppe sono raramente di grande qualità; si vedano tuttavia
H . St. J . Thackeray, Josepbus thè Man and Historian, New York, 1929 (ristampato
nel 1967); R .J .H . Shutt, Studies in Josepbus, London, 1961. M. I. Finley ha
presentato con la sua abituale lucidità una scelta di testi intitolata Josephus,
thè Jewish War and Other Selections..., New York, 1965. Per la bibliografia
sull’epoca di Giuseppe, si troveranno citati nelle note successive i libri che mi sono
stati piu preziosi. Segnalo fin d’pra die, quando queste pagine erano già state scritte,
è u sata una sintesi onesta, basata sulla bibliografia disponibile in inglese o in tede
sco: D. H . Rhoads, Israel in Revolution: 6-74 C.E. A Politicai History Based on thè
Writings of Josephus, Philadelphia, 1976.
2 Guerra, V , 375.
3 Ibidem , 541-545.
4 Vita, 7-11.
26
convertita al giudaismo5. Per loro tramite Giuseppe ottiene sod
disfazione. Nel 66, dopo che l’insurrezione ha scacciato i romani
da Gerusalemme, Giuseppe è comandante in campo sul fronte
settentrionale in Galilea, quello piu immediatamente minacciato
perché i romani attaccheranno dalla Siria. Questa è almeno la ver
sione fornita dallo stesso Giuseppe nella Guerra giudaica. Nella
Autobiografia, che è posteriore, il nemico romano sembra svanito.
La missione di Giuseppe non è più rivolta all’esterno, ma d’ordine
interno: è infatti incaricato « di persuadere i malviventi a deporre
le armi e di spiegare loro che è meglio riservarle alle autorità della
nazione » 6. La guerra contro lo straniero scompare e al suo posto
compare la guerra civile.
La missione in Galilea finisce nel 67 a Jotapata, borgo asse
diato da Vespasiano. Questi, scrive Giuseppe, « pensò che solo per
volere della divina provvidenza l’uomo considerato il più intelli
gente dei nemici poteva essere venuto a rinchiudersi spontanea
mente in prigione » 7.
L ’assedio durò quarantasette giorni — un risultato senz’altro
onorevole di fronte a un esercito del calibro di quello romano —
e finì il 20 luglio del 6 7 8. Dopo la caduta della città avvenne un
curioso episodio. Poiché la situazione volgeva al peggio, Giuseppe,
« vedendo [ ...] che rimanere significava rischiare la vita » 9, aveva
pensato di fuggire. La popolazione glielo impedì. Nascosto in una
grotta insieme a « una quarantina di persone ragguardevoli » l01,
si vide proporre una resa onorevole. Ma i suoi compagni rifiuta
rono ogni forma di capitolazione e gli lasciarono la scelta tra la
morte dei prodi e quella dei traditori: « O muori di tua volontà,
da comandante dei giudei, o muori lo stesso, ma da traditore » n.
Giuseppe s’oppose al suicidio e persuase i compagni a ricorrere
alla soluzione che sarà adottata nel 74 a Masada: sgozzarsi reci
procamente, per estrazione a sorte: « Il primo estratto verrà ucciso
27
da chi sarà sorteggiato dopo di lui » 12134. Giuseppe conclude quindi
freddamente il racconto: « Ma vuoi per caso, vuoi per prov
videnza divina, [Giuseppe] restò alla fine assieme a un altro, e
non volendo essere condannato dal sorteggio, né macchiarsi le mani
col sangue d’un connazionale nel caso fosse rimasto per ultimo,
persuase anche l’altro a fidarsi e a restare in vita » B. Era cosi
sopravvissuto — ed è tutto un programma — « alla guerra con
i romani e a quella coi suoi » M.
Generalmente i posteri non hanno preso questo racconto alla
lettera. La libera versione in vecchio russo, che risale al X II o
X I I I secolo, interpreta il testo greco cosi: « Ciò detto, fece la
conta con destrezza, in modo da imbrogliare tutti"»"15. È una ver
sione che ci presenta un Giuseppe piu candido e meno gloriosa-
mente cinico dell’originale.
Predicendo l’impero a Vespasiano, Giuseppe passa dalla con
dizione di prigioniero di guerra a quella di membro — non ar
mato — dell’accampamento romano. Colmato di favori da Vespa
siano e da Tito, a quanto lui stesso riferisce, scrisse la sua opera
a Roma e a Roma visse sotto i tre Flavi ■ — Vespasiano, Tito,
Domiziano. Terminate nel 93 le AntichitaTgiudaiche, continuò a
raddoppiare e moltiplicare le sue opere affiancando a ciascuna un
testo parallelo: il Contro Apione, scritto tra il 93 e il 9 6 , è mi
trattato sull’« antichità » del popolo ebreo; i libri XII-XX delle
Antichità sviluppano i libri I e II della Guerra; e alla fine delle
Antichità Giuseppe annuncia una nuova versione riassuntiva della
Guerra I6, che non ebbe il tempo di scrivere. :
Ma torniamo al testo da cui siamo partiti. Infatti proprio in
veste d’intermediario Giuseppe fece per la prima volta opera di
storico, almeno stando a quello che scrive (e certamente è meglio
non credergli troppo). Dice dunque Giuseppe che la storia ebraica
non è una storia di violenza, ma una storia di non-violenza sotto
la protezione d’un Dio vincitore: paradosso enorme, ma destinato
ad avere un seguito. « Occorre forse parlare della migrazione in
12 Ibidem , 388-389.
13 Ibidem , 391.
14 Ibidem , 392.
15 Vedi La prise de Jérusalem de Josèphe le ]u if (traduzione francese di
P. Pascal), Monaco, 1964, p. 207. Natalino Radovich, nell’appendice a La guerra
giudaica a cura di G. Vitucci, ha tradotto in italiano i principali passi di La presa
di Gerusalemme che si discostano dal testo greco basandosi sulla nuova edizione
del testo vecchio-russo a cura di N, A. Mescerskij (Moskva-Leningrad, 1958).
16 Antichità, XX, 267.
28
Egitto dei nostri padri? Oppressi e assoggettati a re stranieri per
quattrocento anni, pur potendo insorgere con le armi in pugno,
non si affidarono invece a Dio? [ ...] In queste imprese fu Dio
il comandante dei nostri padri, che misero da parte le armi e si
affidarono alle sue mani. » 17 « Sicché al nostro popolo non è stato
concesso di ricorrere alle armi, e la guerra per noi è inevitabilmente
seguita dalla sconfitta. » 1819Questa storia nella storia, proprio come
esiste un teatro nel teatro (Amleto, L ’illusion comique di Corneille)
è nello stesso tempo anche un microcosmo della storia. Ma para
dossalmente la storia che possediamo è un’altra. Nella versione
greca della Guerra — quella che noi leggiamo — Giuseppe defini
sce il suo libro cosi: « Al prezzo di molte fatiche e spese, io, uno
straniero, presento ai greci e ai romani questa memoria di grandi
imprese » ,9. Uno « straniero » (allophylos) è il termine solita
mente impiegato nei testi ebrei di lingua greca per indicare i non
ebrei, i goyim. Ma qui il rapporto è rovesciato: è Giuseppe, esi
liato a Roma, che offre la Guerra giudaica alle due culture domi
nanti dell’impero romano.
L ’offre in un testo greco e in una versione latina. Da lungo
tempo è stato osservato che il titolo greco dell’opera. Sulla guerra
giudaica, indica che il racconto è fatto dal punto di vista romano:
è la guerra dei romani contro i giudei, non la guerra tra giudei
e romani come avrebbe potuto scriverla un osservatore p arto20.
Lo stesso Giuseppe si riferisce al libro quasi sempre con questo
nome21, e quando parla delle sue fonti (o piuttosto, per fare un
gioco di parole, delle « autorità » che confortano il libro), si tratta
sempre di fonti romane o filoromane. Se ne ha un esempio quando
difende la sua opera contro quella di Giusto di Tiberiade, un tempo
segretario del re Agrippa II, poi rivale di Giuseppe in Galilea,
anche lui passato ai romani: « L ’imperatore Tito volle che la cono
scenza di tali fatti fosse divulgata soltanto attraverso i miei libri,
e ordinò quindi che fossero pubblicati dopo aver siglato di sua
mano i volumi. Il re Agrippa poi scrisse sessantadue lettere per
17 Guerra, V, 382-386.
18 Ibidem , 399.
19 Guerra, I, 16.
20 Cfr. R. Laqueur, Der Jiidische H htoriker Flavius Josephus, Giessen, 1920,
pp. 97-98 e 255, e H . St. J. Thackeray, Josephus..., cit., p. 30.
21 Antichità, I, 203; X V III, 11; XX, 258; Vita, 412-413; come ricorda
Thackeray in Josephus..., cit., questo titolo non compare nei manoscritti che
parlano sia della « Guerra degli ebrei contro i romani », sia della Halosis, cioè
della « presa » (di Gerusalemme è della Giudea).
29
attestare la veridicità della mia relazione » 22. Al di là dei favori,
reali o supposti, di cui Giuseppe fu colmato, Roma rappresenta per
lui lo Stato, e lo Stato di diritto divino. Lo dice (o meglio dice
d’averlo detto) ai suoi compatrioti, durante l’assedio del 70: « Si
dovevano certo disprezzare padroni di poco conto, ma non quelli
che dominavano il mondo intero. Quale paese era rimasto fuori
dall’impero romano se non qualche landa desolata per il troppo
caldo o il troppo freddo? Dappertutto la Fortuna era passata dalla
loro parte, e Dio, che a turno assegna il comando fra le nazioni,
si era ora fermato in Italia » 23.
Questo Stato romano non è lo Stato totalitario (se mi è con
cessa quest’espressione) con cui gli ebrei avevano avuto a che
fare un tempo: « I romani si comportano forse come l’assiro, si
che voi possiate sperare di trarne uguale vendetta? ». Non si accon
tentano forse di chiedere « il consueto tributo, che i nostri padri
pagarono ai loro? E dopo averlo riscosso non saccheggiano la città,
né toccano le cose sante, ma vi lasciano tutto il resto, la libertà
dei vostri figli e il godimento dei vostri beni, e tutelano le leggi
sacre » 24256. Quest’immagine di Roma è perfettamente espressa nel
grande discorso che Giuseppe fa pronunciare al re-cliente Agrip
pa II nel Xisto di Gerusalemme, nel 66. Tutto il male, nei ro
mani e nel loro impero, è accidentale; ma essi hanno questo
di buono, che sono l’impero, che sono gli eredi del mondo an
tico. « Anche gli ateniesi, che per la libertà della Grecia arriva
rono a dare alle fiamme la loro città, e costrinsero a fuggire come
uno schiavo, su una sola nave, il superbo Serse che navigava sulla
terra e marciava sull’acqua, e non poteva essere contenuto dai mari,
e guidava un esercito più grande dell’Europa; quegli ateniesi che
presso la piccola Salamina abbatterono l’Asia sì grande, ora sono
soggetti ai romani, e la città un tempo signora della Grecia obbe
disce alle disposizioni inviate dall’Italia. » 25 Tacito, nella Vita di
Agricola, metterà in bocca al capo britanno Galgaco una spietata
critica dell’imperialismo romano: Atque ubi solitudìnem faciunt
pacem appellant26 — « e dove fanno il deserto, dicono che hanno
22 Vita, 363-364.
23 Guerra, V, 366-367.
24 Ibidem , 404-406.
25 Guerra, II, 358; piu in là ritornerò su altri temi di questo fondamentale
discorso.
26 Agricola, 30.
30
portato la pace »; — il re giudeo Agrippa invece constata sempli
cemente che i romani hanno conquistato la Britannia: « Al di là
dell’oceano cercarono un nuovo mondo e fecero una spedizione fin
contro i britanni, sconosciuti prima d’allora » 27.
Strumento principale dello Stato è l’esercito; di qui le famose
pagine del quinto capitolo del libro I I I della Guerra sulla legione
romana e sulla spietata precisione del suo funzionamento, pagine
che per la nostra conoscenza dell’esercito romano del I secolo d. C.
hanno un’importanza paragonabile solo alle osservazioni di Polibio
sull’esercito romano al tempo delle guerre puniche. Polibio-Giu-
seppe: l’accostamento non è casuale. Il leader acheo inviato in
ostaggio a Roma e l’ebreo transfuga nell’esercito di Tito hanno
avuto entrambi la possibilità e la volontà di comprendere la mac
china che li aveva vinti. Giuseppe, generale ebreo, non aveva tro
vato di meglio, come tecnica difensiva, che imitare l’esercito ro
mano 28. Le pagine ad esso dedicate sono tra quelle rarissime che
non si rivolgono ai romani ma a tutti gli altri. Giuseppe lo dice
espressamente: « Su tutto ciò mi sono dilungato non tanto con
l’intenzione di magnificare i romani quanto di consolare quelli che
ne furono assoggettati e di distogliere coloro che pensassero di
ribellarsi » 29. Queste pagine sull’esercito romano sono tanto piu
notevoli, in quanto qui Giuseppe, proprio come Polibio, non fa
appello a un personaggio trascendente, a un Dio che domini e
spieghi la storia. La conquista romana è un processo essenzial-,
mente razionale, un fatto deliberato: « In guerra i romani non *
fanno nulla che non sia stato prima ponderato, niente d’improv
visato; l’azione segue sempre la riflessione e ad essa si conforma.
Perciò è raro che commettano errori, e quando succede, vi pongono
riparo facilmente » 30. Giuseppe arriva persino a scrivere: « Se si
va a esaminare il complesso della loro organizzazione militare, si
vedrà che il loro immenso impero è frutto del valore, e non dono
della Fortuna » 31. Si noterà il contrasto col testo citato prima,
secondo cui la Fortuna (cioè, in quel caso, la Provvidenza) « è
passata dalla parte dei romani ». Ma questo contrasto non è forse,
31
a suo modo, espressione dei due registri, ebraico e greco, in cui
il racconto di Giuseppe s’iscrive?
Un « intermediario » olire scarso interesse quando si limita
a essere il rappresentante d’un campo in seno a un altro campo;
e Giuseppe difendeva di fronte agli ebrei la causa dei suoi padroni
romani. Ma a una seconda lettura, il discorso indirizzato ai romani
attesta rimmenso orgoglio che Giuseppe annetteva al fatto d’essere
ebreo. Le prime righe della sua opera lo rivelano in maniera lam
pante: parlano della « guerra dei giudei contro i romani — forse
la piu grande guerra mai combattuta, non solo all’epoca nostra,
ma anche in confronto alle altre guerre fra città o nazioni di cui
ci è giunta notizia » 32. La prima pagina contraddice cosi esplicita
mente il titolo dell’opera. Si sarebbe tentati di parlare di megalo
mania, se questo prologo della Guerra giudaica non si ispirasse
precisamente al prologo della Guerra del Peloponneso di Tucidide:
« questo fu certo il più grande sommovimento che sia mai avve
nuto fra i greci e per una parte dei barbari, e, per così dire, anche
per la maggior parte degli uomini » 33. Perché mai il conflitto tra
qualche città della penisola balcanica dovrebbe essere considerato
più importante della guerra che vide Roma contrapposta a Geru
salemme?
Per spiegare la resistenza degli ebrei e le sconfitte subite dai
romani, Giuseppe dirà di questi ultimi: « in effetti la tragica
situazione della città aveva finito per scoraggiare più i romani che
gli abitanti; infatti, pur tra tanti disastri, non s’attenuava la lotta
degli assediati, mentre i romani vedevano svanire ogni giorno le
loro speranze e — ciò che più contava — trovavano i giudei ani
mati da una volontà di resistenza più forte dei contrasti interni,
della fame, della guerra e di ogni avversità » 34.
La Guerra giudaica fu pubblicata tra il 76 e il 7 9 ; Giuseppe
spingerà a fondo il parallelo tra Roma e gli ebrei nelle opere suc
cessive, nel Contro Apione e soprattutto nelle Antichità giudaiche.
Nel 7 a. C. un greco di Alicamasso, Dionigi, aveva pubblicato in
greco un’opera sulle Antichità romane in venti libri. Un secolo
più tardi Giuseppe pubblica a Roma, in greco, un’opera in venti
32 Guerra, I, 1.
33 Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 1 (2), trad. di Claudio More-
schini, Torino, 1963 (lievemente modificata).
34 Guerra, V I, 12-13; l’importanza di questo passo e del parallelo tra ebrei
e romani è stata sottolineata da Z. Yavetz, ReHections on Titus and Josepbus,
in G reek Roman and Byzantine Studies, 16 (1975), pp. 411-432; vedi p. 420.
32
libri: ma questa volta non si tratta di insegnare ai lettori di cultura
greca chi furono Romolo e Remo, bensì d’insegnare ai sudditi di
Domiziano come Abramo ricevette da Dio l’ordine di sacrificare
Isacco35. L ’opera parte dalla creazione del mondo e dell’uomo e si
chiude alla vigilia della rivolta contro il procuratore Gessio Floro.
Certo i romani non avevano lesinato iperboli per esaltare la prò
pria vittoria: un monaco dell’abbazia di Einsiedeln, che visitò
Roma nell’V III secolo, ci ha conservato l’iscrizione che ornava
l’arco di Tito al Circo Massimo di Rom a36: « Ha domato il popolo
degli ebrei e distrutto la città di Gerusalemme, che un tempo
condottieri, re e popoli avevano tentato invano di conquistare, o
a cui avevano rinunciato senza nemmeno tentare ». Significava
passare sótto silenzio che la città era stata presa da Nabucodonosor
nel 5 9 7 a. C., da Apollonio per conto di Antioco Epifane nel 167
a. C., da Pompeo nel 63 a. C., e perfino da Erode e dai suoi alleati
romani nel 37 a. C. Ma Giuseppe fa di più e di meglio che ingran
dire l’avversaria di Roma: con lui Gerusalemme e la Giudea si
ergono da sole contro la città imperiale, in uno splendido e terribile
isolamento. Giuseppe rompeva così con una pratica costante della
storiografia greca, che risale almeno al V secolo e consiste nel
cercare di spiegare i rapporti tra i vari popoli con una loro paren
tela (syngeneia) 37. Gli storici ebrei non avevano certo ignorato
questo concetto che era anche uno strumento di diritto internazio
nale. La Genesi si serve della comune discendenza di Abramo e
Isacco per spiegare l’ostilità tra Israele e i popoli vicini, suoi cugini;
viceversa la « parentela » tra ebrei e spartiati aveva avuto un
ruolo positivo al tempo dei Maccabei38. Giuseppe stesso cita un
33
decreto di Pergamo risalente al regno di Giovanni Ircano (134-
104 a. C.) dove si affermava che l’amicizia, se non la parentela,
tra pergameni ed ebrei risaliva ai tempi d’Àbramo39. In ultima
analisi però è proprio la non parentela che conta. Da un lato c ’è
Roma, dall’altro ci sono gli ebrei: e in mezzo a loro c ’è Giuseppe.
34
II. Giuseppe parlava aramaico
35
nome d’Agamennone, Trimalchione, liberto straricco4 che da poco
ha « aggiunto la Sicilia agli altri suoi pezzetti di terra », dice:
« È vero che non faccio l ’oratore, ma una cultura ad uso mio
personale me la sono fatta. E non credere che disprezzi gli studi:
ho tre biblioteche, una greca, l’altra latina » 5. La terza biblioteca
non è nominata perché la cultura semitica — non può trattarsi
infatti che di questa — è innominabile. Trimalchione cita eroi'
come Ercole, Ulisse, ma per evocare il mondo semitico s’accon
tenta di fare appello alla Sibilla, strumento preferito della propa
ganda ebraica nell’impero romano: « Quando ero piccolo, leggevo
tutta questa roba in Omero. E la Sibilla poi! a Cuma l’ho vista
proprio con gli occhi miei, appesa in una bottiglia, e quando i
ragazzini le dicevano: ” Sibilla, che vuoi? ” lei rispondeva: ” Vo
glio morire ” » 6.
Il biculturalismo dell’impero romano non è solo una pratica
sociale, ma anche un’ideologia che, al di là della pretesa o reale
« solitudine » della città romana vincitrice7, permette di passare
sotto silenzio problemi molto reali e concreti come l’esistenza, al
di là dell’Eufrate, di uno Stato e di una civiltà dei parti, tanto
influenti da aver potuto vincere Crasso nel 5 4 a. C. e insediare
a Gerusalemme il re Antigono, ultimo degli asmonei. L ’aramaico, la
lingua più parlata in Palestina (la seconda lingua era 'il‘grecò), era
già stata lingua amministrativa dell’impero persiano ed era molto
diffusa al di là dell’Eufrate: l’aramaico permetteva infatti agli ebrei
di Palestina di comunicare coi loro confratelli di Babilonia, cioè
con la comunità più potente e più brillante intellettualmente di
tutta la Diaspora. Proprio da quella comunità verrà a Gerusalemme
al tempo di Erode il celebre dottore fariseo H illel8. All’inizio del
libro Giuseppe ci avverte che sta traducendo — cioè interpre
tando — in greco un suo « precedente lavoro scritto nella [sua]
36
lingua materna e dedicato ai barbari delle regioni superiori » 910. Per
questi non greci Giuseppe aveva scritto la sua opera, all’indomani
stesso della guerra, al fine di evitare loro tutte le sciagure che la
resistenza contro i romani aveva procurato agli ebrei di Palestina:
per gli ebrei di Babilonia, per quelli dell’Adiabene, in Alta Meso-
potamia, i cui re s’erano convertiti al giudaismo I#, per gli arabi,
per gli abitanti dell’impero partico; e l’aveva scritta in aramaico:
« Mi è sembrato inammissibile veder offendere la verità nel rac
conto di eventi così gravi, e che mentre i parti e i babilonesi e i
piu remoti fra gli arabi e i nostri connazionali al di là dell’Eufrate,
e gli adiabeniti potevano esattamente sapere, grazie al mio scritto,
come scoppiò la guerra, [ ...] non lo sapessero invece i greci e quei
romani che non vi parteciparono » 11.
Il testo greco dunque è stato il secondo; l’edizione originale
era in aramaico. Si può del resto dubitare che questa prima ver
sione sia mai stata elaborata in modo paragonabile al testo greco.
Comunque sia, che cosa ne resta oggi? Niente, se si eccettua il
fascino che quest’originale aramaico perduto esercita sugli eruditi,
che più d’una volta han creduto d’averlo ritrovato. Certi negano
persino che sia mai esistito. Tutte le versioni di Giuseppe in nostro
possesso derivano dal testo greco, non escluso il cosiddetto Giu
seppe slavo, conosciuto attraverso trenta manoscritti di cui i più
antichi risalgono al XV secolo, e che anni fa suscitò molto scalpore
presso certi eruditi, a causa delle interpolazioni cristiane che con
tiene 12. II. « q u in to libro dei maccabei » deH’edizione siriaca non
è altro, che il V I libro della Guerra giudaica. Si tratta, come si è
creduto, di un testo adattato dall’aramaico? .No, deriva anch’esso
9 Guerra, I, 3; nel suo articolo Jerusalem in thè Times of The Great Revolt,
in Zion, 36 (1971), pp. 127-190 (in ebraico con riassunto in inglesé), Y . Baer nega
puramente e semplicemente, a p. 135, 1’esistenza d’un originale aramaico. Una
simile negazione è un atto di fede.
10 Cfr. Guerra, II, 388, 520; V, 252-253, 474; Antichità, XX, 17-18;
35-36; 80-81; 86; 94. Alcuni adiabeniti hanno effettivamente combattuto a fianco
dei giudei.
11 Guerra, I, 6.
12 Specialmente in un’enorme e spesso insana opera di R. Eisler, Iesous
Basileus ou basileusas (« Gesù, Re che non ha regnato », titolo preso dall’iscrizione
che, secondo la versione slava, si sarebbe trovata sulla balaustra del Tempio:
cfr. la trad. italiana di N. Radovich che correda la già citata edizione italiana della
Guerra a cura di G. Vitucci, v. II, p. 668), 2 vv., Heidelberg, 1929-1930. Si veda
la dimostrazione schiacciante di E . Bikerman, Sur la version vieux-russe de Flavius-
Josèphe, in Mélanges Franz Cumont, Bruxelles, 1936, pp. 53-84. Avverto che
unifico arbitrariamente sotto la forma « Bikerman » le varie forme (Bi[c]kerm an[n])
in cui si trova trascritto il nome di questo illustre studioso.
37
dal nostro testo greco A meno che non avvenga un miracolo,
piuttosto improbabile, dovremo continuare a ricorrere al testo
greco, un testo per il quale Giuseppe si è servito di « collabora
tori » 131415.
Il greco di Giuseppe non è una lingua qualsiasi. Non mi dedi
cherò qui al giochetto caro a certi eruditi, che hanno tentato
d’identificare al tal passo la mano d’un imitatore di Tucidide, al
tal altro quella d’un discepolo di SofocleK; mi manca il gusto
e la competenza per questo genere di esercizi. Mi basta che una
simile dimostrazione si sia potuta tentare. La lingua di Giuseppe
non è la koinè imperiale, il greco più diffuso; si definisce invece
come una « reazione atticizzante », caratterizzata da una « traspo
sizione sistematica degli elementi lessicali » 16. Immaginiamo un
giapponese che pubblicasse a Parigi una storia della « Guerra fran
co-giapponese » scritta nella lingua di Racine; immaginiamo però
anche che una pubblicazione nella lingua di Racine non paia total
mente assurda nel XX secolo1718.
È innocente quest’uso del greco, e d’un greco cosi partico
lare? « Giuseppe era nato per diventare rabbino; le circostanze
della vita ne fecero un retore » “ ; è un fatto, su cui però vai la
pena di riflettere. La retorica greca comporta tutto un modo di
rappresentarsi il mondo che può portarci molto lontano dall’oriz
zonte palestinese: figlia della polis, è legata ai conflitti politici
e ai dibattiti politicLe giudiziari del mondo greco. Tuttavia qui
i fattori in gioco sono tre. Indubbiamente conta il caso perso
nale di Giuseppe (e dei suoi « assistenti ») che ad esempio si
impongono, e ci impongono, una lettura greca dei testi biblici; ci
38
sono poi le « fonti » di Giuseppe, orali e scritte, aramaiche o ebrai
che; e soprattutto c ’è il formidabile fenomeno dell’ellenizzazione
della Palestina, ed è proprio questo movimento che ha reso possi
bile un Flavio Giuseppe, Tralasciamo per il momento quest’ultimo
punto, su cui dovremo tornare. Nel suo ritratto di Giuseppe 19,
10 storico inglese M. P . Charlesworth ha commentato con humour
11 modo scelto dal nostro autore per raccontare il sacrificio di Isac
co 20: « Abramo, prima d’immolare Isacco, gli infligge una lunga ar
ringa, in cui sostanzialmente gli spiega che questo sacrificio sarà
molto più doloroso per lui, Abramo, di quanto non possa esserlo
per Isacco. Isacco replica immediatamente con nobili sentimenti.
A questo punto il lettore è atterrito all’idea che l’ariete, impigliato
nel cespuglio, attacchi a sua volta con una piccola allocuzione.
Per fortuna Giuseppe ha saputo controllarsi » 21. Se si legge il testo
in questione, la prima reazione è certo di dar ragione a Charles
worth. Giuseppe usa una retorica che risale a Euripide e al tema
mitologico del padre o della madre che sacrifica il figlio o la figlia
per la salvezza della città 22.
Ecco un frammento del discorso d’Àbramo, nella settecentesca
versione dell’abate Angiolini: « Figlio, dopo averti mercè d’infi
nite preghiere ottenuto da Dio, appena vedesti la luce, non v’ebbe
cosa alla buona educazion tua confacentesi ch’io non la cercassi
con ogni studio, né io per me sapeva immaginare piu grande feli
cità che il vederti già fatto uomo, e il lasciarti morendo erede e
padrone delle mie sustanze; ma poiché Dio fu, che mi volle tuo
padre, ed ora pur piace a Dio, che a lui ti consacri, deh sii forte,
e sommettiti nobilmente a tal sacrifizio [ . .. ] . Dunque giacché nato
appena tu de’ morire, non d’una morte comune a tutti, ma d’un'of
ferta che il proprio tuo padre, sacrificandoti, di te fa a Dio Padre
univèrsal d’ogni cosa, io credo degno di te il pensiero ch’ei sulla
tua persona ha formato, che non per morbo o per guerra o per
altrettale sciagura solita a intervenire ad altrui tu lasci di vivere,
ma in mezzo alle preci e ai sacri riti tu il faccia sicuro, ch’egli
accorrà il tuo spirito, e vorrallo assiso vicino a sé. Tu dunque avrai
39
cura e pensiero della cadente età mia, al qual fine singolarmente io
t’ho insino a quest’ora allevato, sustituendo tu in tua vece Iddio »23.
Ciononostante siamo in ambiente ebraico, e non greco: nel-
VAntigone di Sofocle, Emone può contrapporsi al padre Creonte;
Isacco risponde solo al discorso indiretto, e solo per esprimere la
sua approvazione: « Non saria stato degno neppur di nascere, se
doveva poi riprovare a un tempo i decreti di Dio e del padre, e
non seguir prontamente ciò che avvisavano ambedue ». Osservavo
prima che l’inizio della Guerra giudaica imitava quello della Guerra
del Peloponneso. Ebbene Tucidide, per dimostrare la preminenza
assoluta del conflitto da lui narrato rispetto a tutti i conflitti prece
denti, ricorre alla physis, all’intervento di fenomeni naturali:
« Terremoti che investirono, fortissimi, le più ampie regioni, eclissi
di sole che avvennero più frequenti di quanto si raccontava in
passato, e quell’epidemia che produsse non piccoli danni e distru
zioni, la peste: tutto questo ci assali insieme alla guerra » 24. Il
naturalismo greco può associare i terremoti e la crisi della guerrà7
senza ricorrere a un intervento divino. Al contrario il teocratismo
ebraico, che ha separato l’uomo dalla natura e gli ebrei dagli altri
uomini, non può associare due manifestazioni cosi distinte senza
un discorso o un avvertimento divino25. L ’influenza degli astri,
secondo i rabbini del Talmud, finisce là dove comincia Israele.
Nel primo discorso contenuto nella Guerra giudaica, quello die
Erode rivolge alle sue truppe nei pressi di Filadelfia (Amman),
appare un tema che è esattamente l’inverso del tema di Tucidide.
Un terremoto ha devastato la Giudea: « Non fatevi sconvolgere
dai movimenti delle cose inanimate, e non crediate che il terremoto
sia presagio di altre calamità; le vidssitudini degli elementi sono
un fatto di natura, e agli uomini essi non annundano altro danno
all’infuori di quello che producono » 26.
40
Ma non si tratta tanto di citare un singolo discorso, quanto
del fatto che la funzione dei discorsi nell’opera di Giuseppe è nel
l’insieme completamente diversa da quella che era stata presso gli
storici greco-romani da Erodoto e Tucidide in poi. Anche quando
la vita politica classica era ormai scomparsa, sostituita dalle contro
versie giudiziarie, i discorsi degli storici hanno continuato a mi-
mare una vita politica fatta di scontri e contrapposizioni. Certo la
tradizione ebraica, quella rabbinica in particolare, conosce le con
trapposizioni dottrinali e personali (un classico esempio è il binomio
Hillel-Shammai, ai tempi di E ro d e)27, ma la storiografia ebraica,
biblica o « intertestamentaria » , compresi i libri dei Maccabei, igno
ra la categoria dei discorsi politici contrapposti. Nei libri dei Mac
cabei, né Antioco Epifane né Eliodoro hanno diritto alla parola
politica28.
Giuseppe è perfettamente in grado di praticare la retorica
pohtico-giudiziaria: davanti al governatore Varo, mette due di
scorsi contrapposti in bocca a Erode e a suo figlio Antipatro29.
Ma il gioco finisce li: quando Giuseppe racconterà la guerra, solo
i « moderati », lo stesso Giuseppe e i comandanti romani avranno
diritto alla parola. Giovanni di Gischala s’esprime solo brevemente
e al discorso indiretto30, e nessun altro capo dellà rivolta di Geru
salemme pronuncia mai delle vere arringhe. Le eccezioni sono raris
sime: una, di capitale importanza, è il discorso finale di Eleazar a
Masada31; ma come vedremo, è un’eccezione solo apparente. L ’altra,
poco importante, è il discorso di Simone l’Idumeo, in risposta ai
41
tentativi d’espulsione di cui il suo gruppo è stato vittim a32. È poco,
se si pensa all’ampiezza dimostrativa dei discorsi di Agrippa, dello
stesso Giuseppe, di Anan, del sommo sacerdote Gesù, e di altri
ancora, discorsi che vogliono essere voce di Dio, più che del po
polo33.
32 Guerta, IV , 271-282.
33 Uno studio sulla funzione dei discorsi nella Guerra giudaica si può trovare
nel saggio et H . Lindner, D ie Geschichtsauffassung des Flavius Josepbus im
Bellum Judaicum, Leiden, 1972, pp. 21-48; si vedano anche le pp. 59-61 su Giuseppe
servo di Dio. Le osservazioni die ho appena svolto non devono far credere che
la storiografia di Giuseppe Flavio sia interamente retorica: si tratta invece di una
storia fondata su documenti, a differenza di gran parte della storiografia ellenistica.
Cfr. l’articolo di P . Collomp, d t. supra, cap. I , nota 35.
42
III. T ria nomina
43
che nella Palestina3. Antipatro, padre di Erode, ebbe da Cesare
la cittadinanza romana4, il che permise a suo figlio d’essere contem
poraneamente re di Giudea e cittadino romano. In ogni caso,
essere cittadino non impediva di praticare effettivamente la reli
gione ebraica, coi suoi divieti alimentari e sabbatici, dato che la
cittadinanza non comportava più il dovere di combattere.
È noto che all’atto di ricevere la cittadinanza romana il bene
ficiario assumeva i tria nomina, i tre nomi del cittadino romano:
praenomen, nomen, cognomen. Sotto l’impero i primi due erano
abitualmente i nomi dell’imperatore sotto il cui regno la cittadi
nanza veniva concessa, e il terzo ricordava il patronimico del bene
ficiario.
Che significava per un ebreo il fatto di ricevere o di possedere
la cittadinanza romana? A parte le possibilità e i privilegi materiali
(come quello, ad esempio, di partecipare alle distribuzioni alimen
tari) 5, siamo male informati sugli aspetti psicologici — in senso
lato — della romanizzazione. Ma possiamo darne tre esempi con
trastanti.
Un primo caso è quello, celebre, di Tiberio Giulio Alessandro.
Dei tre personaggi che intendo presentare, questo è il solo i cui
tria nomina siano attestati da numerosi documenti papirologici e
letterari. Più vecchio di Giuseppe d’una generazione, Alessandro
appartiene a una illustre famiglia ebrea d’Alessandria6, essendo
nipote del filosofo Filone, che del resto polemizzò con lui. : La
cittadinanza risale forse all’epoca di Augusto e al padre di Ales
sandro, se questi si può identificare con il Caio Giulio Alessandro
menzionato da due papiri7; d’altra parte il nome del nostro per
sonaggio farebbe invece pensare che abbia ricevuto la cittadinanza
all’epoca di Tiberio (14-37 d. C.). Giuseppe dichiara formalmente,
ma con discrezione, che il suddetto personaggio « non rimase
44
fedele alla religione dei padri »; tra i padri va annoverato anche il
padre carnale di Alessandro, che Giuseppe loda per la sua religio
sità 8. La carriera di Tiberio Giulio Alessandro è una delle più
belle cui potesse aspirare un cavaliere romano (era stato appunto
ammesso nell’ordine dei cavalieri): « epistratego » in Tebaide nel
42 (l’epistategato era imo dei primi gradini della carriera di pro
curatore) poi procuratore di Giudea dal 46 al 4 8 , prefetto d’Egitto
nel 66, sotto Nerone, Alessandro ha un ruolo decisivo nella pro
clamazione di Vespasiano a imperatore9 ed è prefetto dell’esercito
di Giudea al fianco di Tito all’epoca dell’assedio di Gerusalemme 101.
Una carriera brillante dunque, ma strettamente limitata all’Oriente,
sebbene Tiberio avesse l’appoggio di protettori romani. È stata la
sua origine ebraica a farlo scegliere come procuratore della Giudea,
dove fece crocifiggere alcuni ribelli — i figli di Giuda il Gali
leo 11 — ma dove « astenendosi dall’interferire negli usi nazionali »
mantenne « in pace il paese » come il suo predecessore Cuspio
Fado? 12 H. G. Pflaum ne è convinto: « Non c ’è dubbio che le sue
origini lo rendevano particolarmente atto a governare questo po
polo recalcitrante, ai cui costumi ancestrali egli aveva risolutamente
rinunciato » 13. Ammettiamolo, ma allora che cosa lo qualificava a
divenire prefetto d’Egitto? Il fatto d’essere egiziano, come lo con
sidera Tacito? 14 Per Tacito in effetti Tiberio Alessandro non era
ebreo ma egiziano, un termine che nell’opera dello storico romano
è incontestabilmente dispregiativo. Gli egiziani non sono forse una
popolazione « che il fanatismo e gli eccessi rendono turbolenta e
capricciosa, che ignora cosa siano leggi e magistrature » ? 15 Qui
Tacito riprende il linguaggio dei greci di Alessandria: quando in
città sorge qualche polemica tra ebrei e greci, i contendenti si
rinfacciano reciprocamente d’essere « egiziani ». Per constatarlo
45
basta aprire il Contro Apione di Giuseppe 16. In realtà Tiberio
— di cui è lecito domandarsi se abbia mai conosciuto un’altra
lingua oltre al greco e forse al latino — non era più ebreo, e
non era mai stato egiziano. Era diventato un cittadino romano
di lingua greca, e H . G. Pflaum probabilmente vede piu giusto
quando scrive che la carriera di Tiberio illustra una tipica prassi
dell’amministrazione imperiale del I secolo: « Ricorrere all’aristo
crazia delle città greche per valersene nell’amministrazione della
parte ellenica dell’impero » 17. Ellenica? Diciamo piuttosto di quella
parte dell’impero in cui le classi dirigenti erano ellenizzate. In
questo senso l’assegnazione a Cesarea del procuratore Tiberio Giu
lio Alessandro non è più sorprendente della nomina a quella stessa
carica, alla vigilia dell’insurrezione, di Gessio Floro, nativo di
Clazomene nella Ionia, marito di una certa Cleopatra a sua volta
legata a Poppea (che, come abbiamo visto, era forse giudaizzante)18.
« Ecco come si poteva cessare di appartenere all’ethnos ebraico. » 19
Il secondo personaggio è più noto del primo e all’incirca suo
contemporaneo. Ma dei suoi tria nomina conosciamo con esattezza
soltanto il cognomen: Paulus. Tiberio Giulio Alessandro aveva una
sola cittadinanza, quella romana20, l’apostolo Paolo invece ne ha
due: è cittadino d’una città greca, Tarso in Cilicia, e contemporà
neamente cittadino romano212. Dal punto di vista giuridico è perfet
tamente greco e perfettamente romano, e del resto è cosciente dei
suoi privilegi. Il _suo nome completo poteva essere Caio Giulio
Paolo: questo almeno è il più probabile. « Giulio » è quasi certo,
« Caio » è fràglich 72, problematico. Infatti Paolo, interrogato da un
tribuno a Gerusalemme, dichiara di essere cittadino romano dalla
46
nascita (la frase in greco suona in modo caratteristico, « un uomo
che è romano »). Bisogna dedurne che la cittadinanza romana risa
lisse perlomeno ai suoi genitori e quindi (siccome Paolo è nato
verso il 10 d. C.) all’epoca di Augusto, se non di Cesare. Quanto
al cognomen di Paolo, per molto tempo è stato associato al pro
console di Cipro Quinto Sergio Paolo, col quale l’apostolo ebbe
un incontro all’inizio della sua missione23; ma è più semplice
vedervi un adattamento ben riuscito, dal suono perfettamente
romano, del patronimico ebraico Saul. Cittadino di Tarso, cittadino
romano, Paolo fa parte à é l ’ethnos ebraico, come lui stesso ricorda
ad Agrippa, alla cui presenza si difende: « Quale sia stata la mia
vita fin dalla giovinezza, come sono vissuto nel seno della mia
nazione, nella stessa Gerusalemme, tutti gli ebrei lo sanno » 24.
Paolo è ebreo, fariseo (come Giuseppe) « educato ai piedi di Ga-
maliele » 25, il più celebre dottore del suo tempo; che cosa rappre
sentano per lui le cittadinanze cui ha diritto? Il suo problema non
è di far carriera nell’amministrazione imperiale; del resto si trova
al gradino più basso per un cittadino romano. Ma è pronto a far
valere tutti i suoi titoli26: a Filippi in Macedonia (dov’è insediata
una colonia romana) protesta per essere stato picchiato e gettato
in carcere, lui, un cittadino romano, ed esige delle scuse27. A Geru
salemme lo arrestano di nuovo, e il tribuno militare si stupisce:
« Come mai sai il greco? » prendendolo per un egiziano e non
per un ebreo di Palestina. Paolo risponde: « Sono ebreo, cittadino
di Tarso in Cilicia, una città non priva di fama » 28. Tale dichiara
zione non è sufficiente a evitargli il carcere in fortezza e l’interro
gatorio a colpi di frusta. Paolo li avverte allora che è nato cittadino
romano29, il che non solo gli permetterà d’evitare la frusta e di
essere trasferito in una prigione meno dura a Cesarea, ma anche
di valersi del diritto di appello alla giustizia personale dell’impera
tore, ed essere quindi condotto a Roma sotto scorta militare30.
Naturalmente per l’apostolo mettere l’accento sulla propria citta
dinanza romana non significava soltanto questo. Anche se il cogno-
23 Atti degli apostoli, 22, 25; 13, 7 (d’ora in poi Atti); cfr. E . Gabba,
Iscrizioni greche e latine..., cit., n. XXI.
24 Atti, 26, 4.
25 Atti, 22, 3 ; cfr. Lettera ai Gdati, 1, 14, e Lettera ai Filippesi, 3, 6.
26 Qui seguo da virino C. Nicolet, op. cit., pp. 33-34.
27 Atti, 16, 37.
28 Atti, 21, 37-39.
29 Atti, 22, 26-29.
30 Atti, 25, 10-12.
47
men Paolo non ha alcun rapporto col nome del proconsole di
Cipro, è di fondamentale importanza constatare che l’autore degli
Atti degli Apostoli, Luca, chiama Saul col soprannome di « Paolo »
soltanto dopo il primo incontro di questi con un pagano, nella
persona appunto del governatore di Cipro31: il terreno di lavoro di
Saulo di Tarso è ormai il mondo romano.
Quanto a Giuseppe, si chiamava Tito Flavio Giuseppe32. A
dire il vero il praenomen non è attestato direttamente, ma essendo
stato liberato da Vespasiano (Tito Flavio Vespasiano) e avendo
ricevuto da lui non solo terre, una casa e una pensione, ma anche
la cittadinanza romana33, era del tutto normale che Giuseppe figlio
di Mattia prendesse il nome del suo imperiale protettore. Fece
carriera nell’impero? Niente lo prova. Svetonio lo menziona come
un « nobile prigioniero » che predice l’impero a Vespasiano34356.
La pensione che Vespasiano gli offrì era identica a quelle di 100.000
sesterzi che l’imperatore accordò per primo ai retori greci e latini? 33
In tal caso Giuseppe avrebbe avuto un trattamento paragonabile
a quello d’un alto funzionario come il procuratore di Giudea.
Ma questa è soltanto un’ipotesi. Quando lo storico della Chiesa
Eusebio di Cesarea lo descrive come « l’ebreo piu famoso del
tempo suo, non solo presso i suoi compatrioti, ma anche presso
i romani, tanto che a Roma gli fu eretta una statua, e la serietà
delle sue opere gli valse l’onore delle più grandi biblioteche »
può essere che in lui sia il cristiano che parli, più che lo storico ben
documentato37. È stato fatto notare che Giuseppe non ricevette
mai il titolo ufficiale di amicus Caesaris-, e lo storico israeliano
Z. Yavetz, cui si deve questa precisazione, aggiunge: « Doveva
48
essere un membro della corte di rango inferiore, appartenente alla
stessa categoria dei medici e dei magi, dei filosofi e dei buffoni » x ,
affermazione che forse è semplicemente simmetrica a quella di
Eusebio. Comunque sia, Tito Flavio Giuseppe non aveva niente
a che fare con funzioni pubbliche romane. Stabilitosi a Roma
— è il solo dei nostri tre personaggi che vi abbia soggiornato a
lungo e da uomo libero — Giuseppe è lo storico della guerra di
Giudea; lo storico del popolo ebreo, di fronte a Roma, nelle Anti
chità; il difensore della legge e delle antichità ebraiche, di fronte
agli alessandrini, nel Contro Apione; lo storico di se stesso nel-
VAutobiografia.
A questo punto, in che modo si pone, per i nostri tre cittadini
romani, la questione inevitabile del tradimento? Non sembra che
Tiberio Giulio Alessandro abbia « tradito » ima comunità di cui
non aveva mai veramente fatto parte e di cui nulla prova che abbia
mai condiviso la cultura, nemmeno nella forma datale dagli ales
sandrini.
Quanto a san Paolo, lui non « tradisce »: sposta radicalmente
la questione. Secondo la famosa formula della Lettera ai Galati,
« non c’è né giudeo né greco, non c’è né schiavo né libero, non
c’è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù » 3839. È
difficile negare in maniera piu recisa le divisioni nazionali, sessuali,
sociali, e in un certo senso era difficile sbagliarsi più di così: nel
quarto secolo, il cristianesimo vincitore s’identificò con l’impero
romano e gli eredi di Caio Giulio Paolo si confusero — per un
breve periodo — con quelli di Tiberio Giulio Alessandro. Ma
tradimento non ci fu,, qualunque senso si dia a questo termine: "c'è
stata rottura tra Paolo e il fariseismo di Saul, rottura necessaria
perché Israele non fosse più Israele.
Prima di passare al caso di Giuseppe, più delicato, risaliamo
nel tempo e citiamo uno dei rari autori — per non dire il solo —
che abbia riflettuto sulla nozione di tradimento in termini di filo
sofia politica: l’acheo Polibio. « Chi infatti dev’essere propriamente
considerato un traditore? La risposta è difficile. » 40 A questa
domanda — alla domanda che ci si poneva a quell’epoca — Polibio
49
risponde dapprima in modo negativo. Non sono traditori coloro
« che liberamente decidono d’accordarsi con re o dinasti o di coope
rare con loro ». Nemmeno è traditore chi organizza un rovescia
mento delle alleanze del proprio paese, pratica quanto mai fre
quente neU’ellenismo. Non sono quindi traditori un gran numero
di uomini politici che invece vengono accusati precisamente di tra
dimento, come Aristainos, che nel 198 a. C. fece passare la lega
achea dall’alleanza coi macedoni all’alleanza coi romani. Più indie
tro nel tempo, Demostene aveva torto quando accusava tanti suoi
contemporanei — peloponnesiaci, tebani, beoti — di tradimento
a favore del re di Macedonia. Demostene confondeva gli interessi
di Atene con quelli delle altre città greche.
Per quanto se ne sia potuto dire, è difficile pensare che Polibio
non avesse in mente, scrivendo, il caso d’un altro uomo politico
che, dopo essere stato ostaggio a Roma, era passato anche lui
dalla parte dei romani, tanto che dopo il 146 lo troviamo tra i
commissari incaricati di riorganizzare la Grecia per conto dei ro
mani: Polibio stesso41. Di fatto, nella storia non mancano « tra
ditori » che si son fatti forti dell’esempio di Polibio, come il napo
letano Luigi Blanch (1784-1871) che servi la causa di Napoleone
e in seguito meditò sullo storico greco: « Tale è la dura condizione
di coloro che fanno il sacrificio della loro riputazione e sono consi
derati nemici della patria mentre l’amano e amici dei dominatori
solo perché li stimano » 42. Più d’un secolo fa, Fustel de Coulanges
così riassumeva il problema di Polibio: « Che un cittadino onesto
e devoto al suo paese si rallegri del successo del nemico pubblico,
che questa preferenza non sia tradimento, ma quasi una forma di
patriottismo, è un fatto che merita una certa attenzione » 43. La
50
risposta, secóndo Fustel, va cercata nella divisione della Grecia in
due campi, quello dei ricchi e quello dei poveri, quello delle oligar
chie piu o meno tinte di democrazia e quello delle democrazie vere
e proprie. Polibio è solidale con gli achei finché questi conservano
una costituzione e capi moderati; quando poi s’impone la scelta tra
romani e estremisti, Polibio sceglie i romani senza esitare. Ma tor
niamo al « frammento sui traditori ». Dall’analisi di Polibio risulta
che il piano politico e quello del tradimento non s’incontrano mai.
Di traditori ne esistono, e molti anche: nonostante il destino cata
strofico che li attende invariabilmente, « salvo rare eccezioni, tutte
le volte che c’è stato bisogno dei servigi d’un traditore se n’è
sempre trovato uno ». Ma il tradimento è un fatto tecnico: è
traditore chi « per garantire la propria sicurezza e per procurarsi
vantaggi personali » consegna la città. L ’aggettivo chiave è idios,
personale, che si oppone al piano politico. T utt’al piu Polibio con
cede che è traditore anche chi consegna la città per nuocere ai
propri avversari politici. Ma in questo caso, se di politica si tratta,
è una politica unicamente ad hominem.
E Giuseppe? Vedremo tra breve che anche lui potrebbe ad
durre a propria discolpa la divisione del móndo ebraico, non meno
profonda di quella del mondo greco, sebbene non prendesse la for
ma di conflitto tra città. Quanto poi alla divisione tra ricchi e
poveri, è altrettanto reale nel mondo greco che nel mondo ebraico.
Ma Giuseppe dispone d’un registro che Polibio non ha, quello
del rapporto con Dio. Dio gli consente di formulare l’ipotesi del
proprio tradimento in modo più diretto di quanto faccia Polibio,
per poi rispondere ovviamente che tradimento non era. Al momento
di rifugiarsi a Tiberiade — racconta — sapeva bene che piega
avevano preso gli eventi: « Personalmente s’aspettava che i romani
l’avrebbero perdonato, ma preferiva mille volte morire che tradire
la patria » 44. Quando tuttavia si risolve a passare al campo avver
sario, rivolge a Dio un’ardente preghiera: « Ti prendo a testimone
che non parto di qui come un traditore, ma come tuo servo » 45.
Ovviamente Giuseppe dispone dei necessari precedenti biblici:
quello di Geremia, che aveva invano tentato d’impedire a Sedecia
51
di attaccare il re di Babilonia46; quello, più sottile, che farà valere
davanti a Giovanni di Gischala: il re Geconia (cioè Joiakìn)-non
s’è forse arreso volontariamente al re di Babilonia « per non conse
gnare ai nemici i luoghi santi »? Ma questo non vuol dire tradire:
« Ricordati che ti incoraggio a farlo proprio come connazionale e
come ebreo [ . .. ] . Che io non possa mai, finché vivo, diventare come
quei prigionieri che rinnegano le loro origini e dimenticano i
padri » 47. In un certo senso la cosa più sorprendente, in questi
testi, è proprio il fatto che esistano: solo Giuseppe poteva darci
un tale ritratto di Giuseppe. È chiaro che secondo i criteri più
comunemente accettati nell’antichità, in quanto capo militare pas
sato al campo avversario e rimasto nell’esercito di Tito anche se
non in qualità di combattente, Giuseppe non poteva essere consi
derato altro che un traditore. Questo non significa che sia facile
per noi penetrare la sua psicologia. Per quanto sia uno degli uomini
meglio conosciuti del suo tempo, c ’è in lui qualcosa di opaco48.
AlPindomani della presa della sua città natale, ottiene da Tito la
liberazione degli amici e dei parenti. Il racconto finisce con un
singolare commento: « Vidi molti prigionieri crocifissi e ne rico
nobbi tre che erano miei parenti, e col cuore afflitto, piangendo,
andai a dirlo a Tito. Questi subito ordinò di tirarli giù e di curarli
con tutte le attenzioni possibili. Due morirono mentre li stavano
curando, ma il terzo sopravvisse » 4950.
Z. Yavetz è dell’opinione « che nonostante i suoi sforzi, Giu
seppe da vecchio dev’essere stato molto solo » so. Che ne sappiamo?
Anche se gli storici non osano confessarlo, i tratti più evidenti della
sua personalità — vanità, feroce spirito di classe, cinismo addi
rittura — possono affascinarci, ma non bastano a spiegare a fondo
quest’uomo destinato ad essere tradito dai posteri non meno di
quanto lui stesso aveva tradito i suoi.
46 Guerra, V, 391; il testo biblico è 2° Re, 25, 1-10. Giuseppe forza il testo
dicendo che Sedecia assistette alla distruzione del Tempio.
47 Guerra, V I,. 103-104; cfr. 2° Re, 24, 12.
48 È una sensazione che troviamo anche in H. Lindner, op. cìt., p. 1: « L a
sua opera gli serve a nascondersi almeno tanto quanto a farsi conoscere ».
49 Vita, 420-421.
50 Art. cit. (supra, cap. I, nota 34), p. 432.
52
IV . Il quinto Vangelo
53
greco » 3. Le ragioni che stanno all’origine di tanto prestigio sono
chiare. Il popolo cristiano, il verus Israel, è succeduto all’Israele
« secondo la carne », ma la storia di quest’ultimo era la preistoria
del primo. Eusebio di Cesarea, che all’inizio del IV secolo fonda
la storia cristiana e la storia ecclesiastica, basa la sua cronologia su
quella di Giuseppe. La cronologia della storia ebraica diventa cosi
matrice cronologica della storia universale; gli storici con cui Giu
seppe aveva voluto rivaleggiare — l’egiziano Manetone, il caldeo
Beroso — erano destinati a sopravvivere solo attraverso le magre
citazioni dello storico ebreo. Quanto s’è detto vale essenzialmente
per le Antichità. Ma la storia ebraica era anche storia d’un delitto,
la morte del Cristo, e d’un castigo: la caduta di Gerusalemme.
Giuseppe aveva molto probabilmente menzionato il Cristo nelle
Antichità4; nella Guerra la sua parola doveva suonare abbastanza
alta e forte perché il testo ci fosse tramandato senza interpolazioni
cristiane, interpolazioni di cui il « Giuseppe slavo » e la traduzione
latina dello Pseudo-Egesippo ci permettono di misurare tutta l’am
piezza. L ’opera completa — alla quale fu aggiunto, per pietà, anche
il testo oggi noto come « IV libro dei Maccabei » — testimoniava
la grandezza e la decadenza degli ebrei, come la letteratura su
Giuseppe ci permette di constatare quasi ad ogni passo. « In Gio
vanni Crisostomo diventa quasi automatico rimandare a Giuseppe
ogni volta che si vuol dimostrare la decadenza degli ebrei. » 5 Non
solo in Giovanni Crisostomo, ma in molti altri dopo di lui.
L ’Occidente latino ha letto e trattato l’opera del cronista
ebreo quasi alla stregua d’un testo sacro. Prima della fine del
54
IV secolo, la Guerra giudaica aveva già avuto due traduzioni in
latino, di cui la prima è piuttosto un adattamento.
Nella Germania medievale, Giuseppe divenne addirittura una
specie di mago guaritore che, col suo status di medico, omologo
a quello degli ebrei più eminenti dell’epoca, garantiva il diritto
all’esistenza dei suoi correligionari6.
Tutto d ò salta per aria col Rinascimento. La comparsa della
filologia rende impossibile operare sul testo quel tipo di trasfor
mazioni di cui la versione vecchio-russa della Guerra è l’esempio
per eccellenza. Con la Riforma il discorso cristiano non è più uni
tario, e il testo di Giuseppe avrà una parte nello scontro. Se ne ha
il presentimento già confrontando le due traduzioni francesi del
l’opera pubblicate all’epoca delle guerre di religione, a poca distanza
l’una dall’altra, nel 1562 a Lione e nel 1569 a Parigi7. La prefa
zione dell’edizione lionese spiega che Giuseppe è stato si testimone
del vero Dio, ma in un certo senso quasi suo malgrado, « nono
stante il suo spirito non andasse oltre la gratitudine verso i romani
distruttori della nazione giudaica ». La prefazione dell’edizione
parigina invece, anch’essa ufficialmente cattolica8, considera Giu
seppe come lo storico per eccellenza e osserva che egli parla di
Gesù « non da sacrificatore giudeo, ma da prete cristiano ». Fin
qui il testo di Giuseppe agiva su se stesso: ma non tarderà a trovare
altri campi d’azione. Dopo il massacro della notte di San Bartolo
meo (24 agosto 1572), la piccola città di Sancerre fu assediata
dal 9 gennaio al 14 agosto 1573. Non fu conquistata con l’assalto
e l’incendio, ma presa per fame al termine d’una capitolazione in
piena regola, che non comportò la distruzione della città. Tra gli
assediati troviamo il pastore Jean de Léry, che nel 1574 pubbli
cherà a Losanna la Histoire mémorable de la ville de Sancerre.
Jean de Léry dispone d’un registro diverso da quello della storia
sacra: è uno dei fondatori dell’etnologia occidentale col suo Voyage
au Brésil, redatto nel 1563 e pubblicato nel 1578. Il racconto
55
dell’assedio di Sancerre si presenta a buon diritto come una narra
zione puramente storica nel senso moderno del termine. Ma Géralde
Nakam ha potuto dimostrare che, nel riferire l’assedio di Sancerre
« Léry, con mimetismo quasi istintivo, si ricongiungeva alla cro
naca della sconfitta di Gerusalemme » 9. Il racconto di Léry si
modella su quello di Giuseppe, e bisogna capire bene la portata
di tale lettura. Di fronte al papato imperiale di Roma, i protestanti
francesi, — e non solo francesi — s’identificano con gli ebrei
vittime dell’impero romano. Al limite, non sono più il verus Israel,
ma proprio l’Israele secondo la carne.
Ecco quindi un esempio parossistico di come il testo di Giu
seppe « lavorava »; in generale si può dire che i cristiani intenzio
nati a confermare la loro fede per mezzo di conoscenze storiche
— cioè i protestanti e in una certa misura i giansenisti — si rife
cero largamente a Giuseppe. Arnaud d’Andilly lo tradusse nel
1668-1669 e nelle prefazioni ne spiega il motivo con chiarezza
cristallina: « Questo grande assedio ha dimostrato al mondo intero
che una sola città avrebbe potuto infrangere la gloria di Roma,
se Dio per punirla dei suoi crimini non l’avesse abbattuta coi ful
mini della sua collera ». Quanto alle Antichità, si tratta a suo
avviso d’un libro « preferibile a tutte le altre storie dopo le Sacre
Scritture » 10. Agli albori del X V III secolo, la prima storia degli
ebrei di epoca moderna (opera di Jacques Basnage de Beauval, un
protestante del Rifugio) si presenta come semplice proseguimento
della storia di Giuseppe, di cui proclama l’eccellenza u. Un grande
specialista di Giuseppe, anglicano di confessione, scrive che in
Inghilterra « per un certo periodo praticamente non c ’era famiglia
che non possedesse due libri: la Bibbia e Giuseppe nella vecchia
traduzione di William Whiston (X V III secolo) » K. Molto meno
entusiasti i cattolici, dopo la Controriforma. Lo testimonia ad
9 Géralde Nakam, Au Landemain de la Saint-Bartbélemy; guerre civile et
famtne. Histoire mémorable du siège de Sancerre (1573) de Jean de Léry, Paris,
1975 (cito dalla p. 137). Per una tavola comparativa dettagliata, vedi pp. 164-170.
10 Ho sotto gli occhi alcuni esemplari della Guerra e della Storia degli ebrei
pubblicate a Bruxelles nel 1703 e nel 1701, e cito le pagine I I I e V delle rispettive
prefazioni.
11 Histoire des Juìfs depuis Jésus-Cbrist jusqu'à présent pour servir de
continuation à l’Histoire de Joseph, nuova edizione aumentata, La Haye, 1716; cfr.
su Giuseppe p. 10. Su Basnage e la sua famiglia, si veda la prefazione di Elisabeth
Labrousse alla ristampa di Tolérance des Religions, di Henri Basnage de Beauval
(prima ed. 1684), New York-London, 1970.
12 H. St. J. Thackeray, op. cit., p. 3. T. Reinach fa un’osservazione analoga
nella prefazione alle Oeuvres complètes, Paris, 1900, p. V, ma mi sembra meno
fondata,
56
esempio la lettera che un illustre erudito gesuita, il Padre Hardouin,
scrive nel 1707 giusto a proposito della storia di Basnage. Citando
il celebre Baronius, chiama Giuseppe scriptor mendacìssimus ag
giungendo che « sarà sempre il quinto Vangelo dei protestanti » 13.
Giansenisti e protestanti scrivevano — come vuole la logica, se
non la fonetica — « Joseph » e non « Josèphe ». Il Padre Hardouin
giustifica invece l’ortografia che ha finito col prevalere in francese:
« Del resto, signore, permettetemi, vi prego, di continuare a dire
Josèphe, come si faceva una volta: non posso adattarmi a chiamare
col nome dei santi che venero un autore degno solo di disprezzo »14.
E gli ebrei? Le opere di Giuseppe, tanto la Guerra che le
Antichità, non sono mai citate né utilizzate nelle fonti rabbiniche
che d’altronde assai raramente comportano una dimensione storica.
Giuseppe non è né un traditore né un eroe: è semplicemente igno
rato. Solo nel X secolo una comunità ebrea dell’Italia meridionale,
sotto Bisanzio, si doterà d’una cronaca popolare in ebraico, cono
sciuta sotto il nome di Josippon: fondamentalmente si tratta di
un calco e di un rifacimento, a partire da una versione latina, delle
Antichità e soprattutto della Guerra di Giuseppe15. A sua volta
questo scritto sarà rielaborato o tradotto in arabo, in etiopico e in
armeno. Un esempio basterà a mostrare in che spirito ha lavorato
l’autore di questo sorprendente documento: l’opera è attribuita
a Giuseppe Ben Gorion, ossia al primo capo designato a condurre
le operazioni di guerra contro i romani16 insieme col sommo sacer
dote Anan (Anna); il figlio di Ben Gorion era stato poi ucciso dagli
zeloti17. Le trasformazioni apportate all’episodio di Masada sono
13 Lettre à M. de Ballonffeaux... où l’histoire des Juifs de M. Basnage est
réfutée sur ce qui regarde les H érode, ripresa in Opera selecta del Padre Hardouin,
Amsterdam, 1709; cito la p. 369. In particolare il Padre Hardouin voleva dimo
strare che la famiglia di Erode non era ebrea.
14 Ibidem, p. 358.
15 Per la datazione seguo qui H. Schreckenberg, op. cit., p. 62 e soprattutto
D. Flusser, D er lateinische Josephus und der hebraische Josippon, in Festschrift
fur 0 . Michel, Gòttingen, 1974, pp. 122-132. Per una datazione molto più alta
(V-VI secolo) vedi S. Zeitlin, Josephus on Jesus, wìth Particular Reference to thè
Slavonic Josephus and thè Hebrew Josippon, Philadelphia, 1931, pp. 28-53. Di
questa cronaca esiste ora una nuova edizione critica, di cui è già uscito il primo
volume: The Josippon (Josephus Gorionides), edito a cura di D. Flusser, Jerusa-
lem, 1978 (in ebraico). Nell’attesa ho utilizzato l’edizione ebraica con traduzione
latina di J. F . Breithaupt: Josephus Gorionidis, sive Josephus Hebraicus... latine
versus, Gotha, 1707. Per un’analisi più approfondita di questo testo, cfr. infra,
Appendice, pp. 168-169.
16 Guerra, I I , 563.
17 Ciò è vero se, come generalmente si ammette, il « Gorion » figlio di
Giuseppe di Guerra, IV , 159 è identico al « Gourion » ucciso di cui si parla in
57
notevolissime. Masada non è piu Masada ma Mezira. Il capo della
guarnigione non è più l’Eleazar discendente da Giuda il. Galileo,
fondatore d ’una setta eretica, ma il sacerdote Eleazar. I difensori
della guarnigione, dopo aver ucciso le loro donne e i bambini,, li
seppelliscono nei pozzi, cosa che Giuseppe non dice. Gli ultimi
soldati non si suicidano ma muoiono eroicamente combattendo.
Il racconto è stato completamente riscritto in uno spirito sacerdo
tale e moralistico (contrario al suicidio),8.
Questa vita sotterranea e clandestina delle opere del nostro
storico è continuata per tutto il XVI secolo e molto più in là.
Ma man mano che il pensiero ebraico s’integrava ai valori del
Rinascimento, del Classicismo, dell’Illuminismo, gli ebrei hanno
ripreso a leggere Giuseppe direttamente nell’originale. Nel 1551
esce a Ferrara un’edizione del commento a Daniele del rabbino
Isaac Abravanel, morto nel 1508. Il dotto ebreo pone il problema
dell’autenticità del Testimonium Flavianum su Gesù. A proposito
di Giuseppe, Abravanel osserva che « ha scritto molto, ma non
tutto è vero » 19.
All’altro capo del mondo mediterraneo, a Costantinopoli, esce
nel 1566 la prima traduzione ebraica del Contro A p io ne20; si
tratta però di un’apologià della legge ebraica, non suscettibile
quindi di destare scandalo. Il mantovano Azariah de’ Rossi pubblica
nel 1573 il Meor Eynaitn (La luce degli occhi) in cui dimostra di
conoscere molto bene — attraverso la versione latina — l’opera
di Giuseppe, che non considera un testo canonico ma che pure
mostra d’apprezzare. La sola giustificazione della storia non è forse
d’aiutarci a capire la tradizione? Nonostante le riserve formulate
nei confronti degli ebrei ellenizzati, e di Filone di Alessandria in
particolare, è proprio con il pensiero greco che Azariah de’ Rossi
riprende il dialogo 21. Basnage ci avverte però che gli ebrei suoi
Guerra, IV, 358. Giuseppe Ben Gorion non ricompare più nell’opera di Giuseppe;
quanto a « Gorion » sembra che fosse figlio del Nicodemo del Vangelo di Giovanni
19-34, cfr. D. Flusser, Jésus (trad. dal tedesco), Paris, 1968, pp. 129-130.
18 Sono stato condotto a queste osservazioni dall’articolo di S. B. Hoenig,
The Sicarii in Masada. Glory or Infamy, in Tradition. A Journal oj Orthodox Jewish
Thought, 11, 1 (1970), pp. 5-30.
19 Cfr. H. Schreckenberg, op. cit., p. 171, che si basa su R. Eisler, Ièsus
Basileus..., cit., v. I, p. 16.
20 Cfr. M. Steinschneider, Die Geschichtsliteratur der Juden, I, Bibliographie
der hebràischen Schriften, Frankfurt, 1902, p. 89.
21 Si veda S. W . Baron, History and Jewish Historians, a cura di A. Hertz-
berg e A. Feldmann, Philadelphia, 1965, pp. 167-239, in particolare p. 223.
58
contemporanei preferiscono « Giuseppe Ben Gorion » all’autore
della Guerra giudaica22. Nel X V II secolo l’ebreo Spinoza, escluso
dalla sinagoga, utilizza in senso razionalista l’opera di Giuseppe
nel suo Tractatus theologicus politicus, mentre Manasse Ben Israel,
che ad Amsterdam fu amico di Rembrandt e gli servì da modello,
aveva progettato di scrivere una storia ebraica in spagnolo, che
doveva intitolarsi Continuación de Flavio Josefo, ma il progetto
non andò in porto. La prima traduzione moderna di Giuseppe in
ebraico, e precisamente delVAutobiografia, sarebbe uscita a Vilna,
nel 1859.
In Francia il processo di laicizzazione dei tempi moderni ha
portato alla grande traduzione pubblicata sotto gli auspici della
« Société des Etudes juives » e diretta da Théodore Reinach, con
l’apporto di collaboratori ebrei e non ebrei. Reinach scrive — sere
namente, troppo serenamente — che Giuseppe « non è uno spirito
grande né una grande personalità, ma un singolare composto di
patriottismo ebreo, di cultura ellenica e di vanità » 223, dimenticando
di aggiungere: e di odio di classe; ma questo forse era difficile po
tesse scriverlo un personaggio amante del fasto come Reinach, che si
fece costruire a Beaulieu-sur-Mer, sulla Costa Azzurra, una pazzesca
« villa greca ». Comunque il tempo della serenità non era ancora
venuto. Tra le due guerre mondiali, la pubblicazione del testo
vecchio-russo della Guerra (edizione critica e traduzione francese)
suscitò inattese reazioni politiche da parte dello storico cattolico G .
Ricciotti, il quale si chiese quali fossero le intenzioni delle autorità
sovietiche nel favorire la diffusione di tali documenti2425, mentre il
romanziere tedesco Lion Feuchtw anger, ebreo e marxista, dedicava
a Giuseppe una trilogia comprendente La fine di Gerusalemme,
Il giudeo di Roma e II giorno verrà21. Nel 1938, a New York,
L. Bernstein pubblica un’apologià di Flavio Giuseppe in cui lo
59
paragona debitamente a Geremia, e conclude il libro riproducendo
uria preghiera in ebraico rivolta all’anima di Giuseppe, composta
da un celebre rabbino del secolo scorso (Kalman Schulman, autore
d’una biografia di Giuseppe), preghiera in cui lo storico ebreo è
paragonato ai Tannaim, i rabbini della prima generaziorie dopo
la distruzione del Tempio 26.
In quegli anni lo sviluppo d’un giudaismo nazionalistico ha
lasciato poco spazio a simili giudizi. Siamo nel sud-ovest della
Francia,'nell’autunno 1941, alla riunione d’un gruppo di giovani,
simpatizzanti dell’Irgun: « Riaprimmo il processo contro lo storico
Flavio Giuseppe, autore della Guerra giudaica, ex comandante
in capo [ jz'c] dei ribelli d’Israele, colpevole di collaborazionismo
con i romani ». Giuseppe « fu condannato a morte all’unanimità
come traditore della causa d’Israele » 27.
In Israele il destino di Giuseppe è veramente singolare. « Sto
rico brillante ma pessimo ebreo », secondo l’espressione del gene
rale archeologo Y . Y adin28, Giuseppe è la fonte principale e
insieme il nemico pubblico numero uno. Per dirla in modo volu
tamente paradossale, l’archeologia nazionalista fonda tutta la sua
costruzione sui testi di Giuseppe per poi stravolgerli; la storia
nazionalista (che del resto non è monopolio degli israeliani) uti
lizza Giuseppe come testimone della fine del secondo Tempio, ma
lo rinnega tranquillamente in quanto storico dei violenti conflitti
interni che scossero la società ebraica, specialmente a Gerusalemme,
durante la guerra del 66-70. Così ad esempio Y . Baer, un decano
degli storici israeliani, dopo aver utilmente rilevato le fonti clas
siche ricalcate da Giuseppe, arriva a questa strana ma logica con
clusione: la guerra civile non è mai esistita, è un mito retorico
romano. Gli abitanti « sono restati uniti nella lotta per difendere
la santità della loro vita e della loro città » 29; anche le fonti talmu
26 L. Bernstein, Flavius Josepbus: His Time and His Critics, New York,
1938. Ho potuto consultare questo libro soltanto ora: la preghiera a Giuseppe è
alle pp. 348-349.
27 C. Vigée, La lune d’kiver, Paris, 1970, p. 53; Vigée stesso era stato
incaricato della difesa.
28 Y . Yadin, Masada; Herod’s Fortress and thè Zealots’ Last Stand, London,
19712, p. 15. M. I. Finley ha severamente giudicato questo libro per ragioni non
lontane da quelle qui svolte: cfr. Josepbus and thè Bandits, in New Statesman,
2 dicembre 1966.
29 Y . Baer, art. cit. (supra, cap. I I , nota 9), pp. 137-164; cito dal riassunto
in inglese. La mia opinione su quest’articolo è condivisa dai colleghi israeliani
D. Asheri (Gerusalemme) e B. Cohen (Tel Aviv). Ringrazio calorosamente il
secondo per avermi tradotto e riassunto numerosi passi del testo ebraico.
60
diche devono essere respinte, quando vanno nel senso di Giusep
pe 30. Invece Giuseppe va creduto, senza la minima esitazione, quan
do afferma per esempio che due sacerdoti si gettarono nel fuoco
che distrusse il Tempio3I. Omnia munda mundis.
Ma prima di arrivare alla crisi finale, conviene forse risalire
con Giuseppe ai fatti che la precedettero, circa due secoli prima.
61
V. Lo Stato ebraico
62
Nel 2 0 0 a. C ., dopo la battaglia di Panion, la Palestina, Geru
salemme e il suo Tempio sono in potere del re seleucide Antio
co I I I . Uno Stato-Tempio non è un’istituzione sconosciuta nel
regno seleucide: ve ne sono altri che il re rispetta o saccheggia
secondo gli interessi del momento3. Alla comunità ebraica e al
Tempio il re accorda una Carta di cui Giuseppe ci ha trasmesso
il testo4. Il monarca, riconoscente agli ebrei (che hanno aiutato
« il re del nord » contro « il re del mezzogiorno », come dice
Daniele)5 consente una contribuzione permanente per il Tempio,
assicura che la sua costruzione sarà portata a termine, decreta
che « tutti quelli che appartengono al popolo ebreo vivranno se
condo le loro leggi nazionali », garantisce a quelli che torneranno
a Gerusalemme l’esenzione dalle imposte per tre anni, e rimette in
libertà quelli che erano stati ridotti in schiavitù. Al Tempio il re
promette che le leggi saranno rispettate, i divieti non saranno vio
lati, i sacrifici resteranno conformi alle tradizioni; nessun animale
impuro entrerà in città. Ma in che consiste il «popolo ebreo »?
Il testo enumera « il senato » {houle), i sacerdoti, gli scribi del
Tempio, i cantori sacri, insomma la gerarchia dello Stato-Tempio.
Ma il popolo ebreo non era formato solo dai servitori del Tempio.
In un certo senso nella Carta di Antioco III c’è già in germe tutto
il dramma del II secolo, perché i privilegiati sono quelli stessi che
poi accetteranno l’ellenismo (se non tutti, una loro frazione),
mentre gli esclusi (preti non addetti al Tempio, scribi e dottori,
— cioè i rabbini, — contadini) saranno quelli che alimenteranno
la rivolta in nome di quella stessa tradizione che il re s’impegna
formalmente a rispettare.
63
Nel momento in cui viene concessa questa Carta, per una
frazione di ebrei l’ellenismo non è una novità. Si potrebbe risalire
molto addietro nel tempo, ma è sufficiente ricordare che per oltre
un secolo la Giudea ha sperimentato la « burocrazia » tolemaica6.
Forse proprio a questa amministrazione divoratrice di prodotti
agricoli allude Qohélet:
6 Scrivo « burocrazia » tra virgolette per ricordare che non mi faccio molte
illusioni sull’omogeneità e l’efficienza di questo strato sociale; cfr. il mio volumetto
L e Bordereau d ’ensemencement dans l’Egypte ptolémàique, Bruxelles, 1967.
7 Qohélet o l’Ecclesiaste, 5, 7-8, trad. di Guido Ceronetti, Torino, 1970,
p. 45. Cfr. M. Hengel, Judaism and Hellenistn, cit., p. 51. Una prova decisiva
dell’influenza esercitata dai greci in questo campo si è avuta con la scoperta, nei
pressi di Hebron, d’un ostrakon bilingue greco-aramaico, che l’editore data al
277 a. C.; se tale data è esatta si tratta della piu antica iscrizione greca finora trovata
in Palestina. È la ricevuta d’un prestito, in cui la parola greca kapelos (ven
ditore al minuto, forse usata qui per indicare il prestatore) non è tradotta in
aramaico, ma trascritta nella forma qpyls-, cfr. T. B. Geraty, T he Khirbet el Kom
Bilingual Inscription, in Bull, of thè Am. School of Orientai Research, 220 (die.
1975), pp. 55-61.
8 Isaia, 58, 6, trad. di Alberto Vaccari S.J. (ed. a cura del Pontificio istituto
biblico, già cit.), per il testo ebraico; ho tradotto il testo dei « Settanta » diretta-
64
A parte questo, per quanto importanti fossero le trasforma
zioni in corso, Pamministrazione tolemaica non aveva « elleniz
zato » la Giudea, nel senso che le città di tipo greco veramente
importanti — Gaza, Tolemaide (San Giovanni d’Acri) — si tro
vavano solo sulla costa, fuori della Giudea vera e propria; del resto
i Tolomei, a differenza dei Seleucidi, non cercavano d’appoggiarsi
a una rete di città soggette, né aU’intemo dell’Egitto né nei territori
confinanti. La situazione cambierà — relativamente — con l’arrivo
dei Seleucidi. E qui bisogna chiarire qual è la posta in gioco. Per
gli strati sociali superiori delle popolazioni conquistate il modello
greco s’impone con la stessa forza d’espansione che ha oggi il
modello di vita occidentale nei paesi del Terzo mondo o dell’est
europeo. Dalla Spagna all’India, la città era in espansione, a volte
anche come centro di decisione politica, ma in ogni caso come
portatrice di un certo modo di vivere: espansione che non poteva
fermarsi alle frontiere della Giudea. Il dramma dell’acculturazione
vissuto da questa regione ci è noto meglio di altri, perché resi
stenze, vittorie e sconfitte hanno trovato in Giudea piu modo di
esprimersi, — e più interpreti in epoca moderna; — ma drammi
simili sono avvenuti in Egitto come in Siria, nei paesi dell’Iran
come all’interno dell’Asia Minore 9.
Prima di parlare della resistenza contro il modello greco,
diciamo semplicemente che l’influenza ellenica è cosi forte, che a
quell’epoca la maggior parte degli ebrei di cui si è conservato il
ricordo porta ormai due nomi propri: uno ebraico e uno greco.
È appunto questa la realtà che l’autore del libro di Daniele (165
a. C. circa), pur essendo un cantore del nazionalismo ebraico, ha
trasposto in Babilonia: alla corte di Nabucodonosor, Daniele si
chiama Beltshassar10. Questo sdoppiamento del nome doveva re
stare poi a lungo nella storia ebraica. Non era stato il re seleucide
a imporre il modo di vita ellenico, lo ha dimostrato Bikerman " ,
e a modo suo lo dice anche Giuseppe e lo attestano persino i libri
dei maccabei: la volontà d’ellenizzarsi era partita dall’aristocrazia
sacerdotale. « In quel tempo [verso il 1 7 5 ] sorsero in Israele
mente dal greco, ispirandomi a M. Hengel, op. cit., p. 51; per il testo dei «S et
tanta », vedi Septuaginta, edizione critica a cura di A. Rahlfs, Stuttgart, 19504,
v. II, p. 644.
9 II libro fondamentale sull’argomento è quello, già citato, di S. K. Ed
The King is Dead...; per la Giudea, cfr. pp. 166-Ì83.
,0 Daniele, 1, 7; cfr. M. Hengel, op. cit., pp. 61-63.
11 E . Bikerman, Der Goff der Makkahaer..., cit., passim.
65
uomini perversi, i quali sobillarono molti altri dicendo: ” Andiamo
e stringiamo intesa con le nazioni che sono intorno a noi; perché
da quando ci siamo appartati da loro, ci sono sopraggiunti molti
mali Piacque loro un tal parlare, e alcuni del popolo, fatti ani
mosi/ andarono dal re, il quale diede loro facoltà d’introdurre le
costumanze dei gentili. Allora costruirono in Gerusalemme una
palestra secondo gli usi pagani; si rifecero il prepuzio, disertando
così dalla santa alleanza. » 1213II sommo sacerdote Giasone (Giosuè)
promise al re una somma considerevole « in cambio dell’autoriz
zazione a fondare un ginnasio e un’efebia e a tenere il registro
dei cittadini di Antiochia residenti a Gerusalemme » n. Il libro
di Daniele parla d’un’alleanza del re invasore « con molti » abitanti
della città santa14.
Con molti, ma non certo con tutti. Nel quadro urbano eredi
tato dallo Stato-Tempio era impossibile trasformare una parte degli
abitanti in cittadini di tipo greco. Per vivere alla greca si sarebbe
dovuto rimodellare la città, costruire, se non dei templi, almeno
un teatro, un ginnasio, un’agorà circondata da portici come quelli
ritrovati dagli archeologi un po’ dovunque nel mondo greco, Pale
stina compresa. È quasi superfluo osservare che tali costruzioni
costano moltissimo. Nel mondo ellenistico sono di solito opera di
evergeti, di benefattori, dato che « la città ellenistica è la città
classica, piu l’evergesia » 1S, come dice Louis Robert; e il re, ever-
gete per eccellenza, è uno dei grandi costruttori dell’Oriente greco,
sia per gusto di prestigio sia nel proprio interesse 16. Nel momento
12 1° Maccabei, 1, 11-14.
13 2° Maccabei, 4, 9-10, [si è seguita qui la traduzione francese di Abel,
cit. supra, cap. I, nota 38 (n.d.t.)]. Si voleva semplicemente costituire un politeama,
un gruppo di cittadini greci, come pensa Bikerman (D er Goff der Makkabàer..., cit.,
pp. 59-62) oppure si voleva trasformare parte degli abitanti di Gerusalemme in una
vera e propria polis greca con diritto di battere moneta, insomma una nuova
Antiochia, come affermano tra gli altri V. Tcherikover, Hellenistic Civilization...,
cit., pp. 161-169, 404-409, e M. Hengel, op. cit., p. 36? Il dibattito mi sembra
risolto a favore della prima ipotesi: si veda la decisiva argomentazione fornita da
G. Le Rider, Suse sous les Séleucides et les Partbes, Paris, 1965, pp. 41 0 4 1 1 .
14 Daniele, 9, 27.
15 Sul monarca ellenistico si veda il recente articolo di Claire Préaux,
L'image du roi de l’époque hellénistique, in Mélanges G. V erbeke, Louvain, 1976,
pp. 53-75, dove si troverà la bibliografia precedente. Cfr. anche i saggi di A.
Aymard citati infra, cap. IX, nota 52.
16 La tesi di Paul Veyne, Le pain et le cirque, Paris, 1976, è centrata
sull’impero romano, ma risale opportunamente fino alla fine dell’epoca classica.
È un lavoro in cui c’è molto da spigolare, ma non la monografia fondamentale
che d si aspettava. Si vedano le osservazioni di J. Andreau, P. Schmitt, A. Schnapp,
in Anndles E.S.C ., 1978, pp. 307-325.
66
in cui Pellenizzazione giunge al culmine (akmè), secondo l’espres
sione dell’autore del secondo libro dei M accabei17, il problema,
per Giasone e poi per Menelao e tanti altri, è certo quello di
entrare in un ciclo di doni e di controdoni col re, insomma di
integrarsi alle più tipiche pratiche del mondo ellenistico; ma, a
guardar bene nelle fonti, l’accento è posto su quanto gli abitanti
di Gerusalemme dovranno dare, più che su quanto dovranno rice
vere. È vero che, secondo Polibio, Antioco Epifane « superava
tutti i suoi predecessori per i sacrifici e le offerte che faceva dedi
care agli dei nelle varie città » 18; ma forse per beneficiare di tante
liberalità bisognava mostrarsene degni, facendo il primo passo. Per
ottenere che una parte degli abitanti di Gerusalemme si trasfor
massero in antiocheni, Giasone promette una somma di 150 talenti,
da aggiungersi ai 440 talenti che già s’era impegnato a pagare
annualmente19. Da dove venivano questi fondi? Il Tempio di
Gerusalemme offriva risorse ragguardevoli, che avevano già fatto
gola a Eliodoro, ministro di Seleuco IV Filopatre (187-185 a. C .) 2021
e che Antioco IV finirà col confiscare nel 169 21. Del resto il sommo
sacerdote Menelao, rivale e successore di Giasone, aveva comin
ciato lui stesso a sperperare il tesoro del Tempio22. Per ellenizzare
il paese non bastavano i gesti simbolici, come l’offerta versata da
Giasone al concorso quinquennale di T iro 23; per riuscire, l’impresa
richiedeva una doppia pressione fiscale: a favore del re, e a favore
dei beneficiari dell’impresa medesima. La tecnica fiscale era diven
tata familiare ad alcuni ebrei che l’avevano appresa dall’ammini
strazione lagide24; non restava che imporla a chi doveva pagarne
il prezzo, cioè ai contadini, che non erano minimamente toccati
dall’ellenizzazione. L ’opposizione tra gente di campagna e gente di
17 2° Maccabei, 4, 13.
is Polibio, XXVI, 10, 11.
19 2° Maccabei, 4, 8-9. Probabilmente si tratta dell’aumento di un tributo
annuale; cfr. le osservazioni di Abel nell’edizione francese citata.
20 2° Maccabei, 3, 6-40.
21 1° Maccabei, 1, 20; 2° Maccabei, 5, 21. Antichità, X II, 249; Guerra, I, 32.
22 2° Maccabei, 4, 39. Sulla convergenza d’interessi tra la corte seleucide
e l’aristocrazia di Gerusalemme, cfr. E. Bikerman, Der Gott der Makkabder...,
cit., p. 67. '
23 2° Maccabei, 4, 19. Secondo la numerazione greca, ogni quinquennio
(cioè ogni quattro anni) hanno luogo gare « quinquennali » sul modello dei grandi
concorsi greci.
24 Cfr. l’avventura del Tobiade Giuseppe, in Antichità, X II, 175-195.
67
città, frequentemente ricorrente nei testi dell’Antico Testamento 25,
esprime uno squilibrio sociale che era d’altronde alla base anche
del mondo ellenistico. Proprio questa contrapposizione di vecchia
data avrà un ruolo decisivo nella rivolta dei Maccabei e nei decenni
successivi2627. S. K. Eddy scrive che « per molti contadini i costumi
perversi s’identificavano con la pesantezza delle imposte, il mondo
dei peccatori con quello degli esattori » 77. « In quel tempo Matta-
tia figlio di Giovanni figlio di Simeone, sacerdote della stirpe di
Joarib, lasciò Gerusalemme e si stabilì a Modin » 28, una piccola
borgata (« villaggio », dice Giuseppe)29 sulle montagne a ovest di
Gerusalemme. Ecco come l’autore (o meglio l’abbreviatore) del
secondo libro dei Maccabei, così ricco di violenze espressive30,
presenta il personaggio su cui è imperniato il libro, Giuda Macca
beo: « Giuda, detto anche Maccabeo, con altri nove si ritrasse nel
deserto, ove con i compagni viveva come le fiere, cibandosi per
tutto quel tempo soltanto di erbe, per non aver parte alla conta
minazione » 31. Nella tradizione, il tema simbolico del ritirarsi nel
deserto s’intrecciìfcon quello del ripiegare verso il mondo rurale.
La rivolta dunque non partì da Gerusalemme ma dalla campagna:
le sue prime manifestazioni sanno più di guerriglia che di guerra
classica. L ’esercito è un esercito di contadini che tornano al lavoro
dei campi quando le operazioni sono sospese32. Ciò. non significa
che siano intervenuti solo i contadini; in aiuto di Giuda Maccabeo
vengono anche gli Hasidim, « lega [ ...] di gagliardi uomini d’Israe-
68
le » 33 che restano una forza distinta dagli altri insorti34. Se questi
Hasidim costituiscono davvero la prima « setta ebraica », da cui
discendono forse sia i farisei che gli esseni3S, allora la guerra contro
i Seleucidi va vista come un movimento sociale e insieme ideolo
gico. L ’insurrezione parte da Modin, ma Mattatia e figli vengono
da Gerusalemme. L ’unione tra lo « z e lo » in difesa della Legge e
la ribellione degli oppressi fece la forza della rivolta.
Interrompiamo qui il racconto degli avvenimenti. La rivolta
scoppiò nel 168. Nel dicembre 1 4 3 /2 l’ultimo figlio di Mattatia,
Simone, intervenne in una guerra civile che dilaniava la monarchia
seleucide, e dovette farlo con una certa efficacia se il vincitore,
Demetrio II, gli accordò un’autonomia quasi completa. La guarni
gione che ancora occupava la cittadella di Gerusalemme, YAkra,
fu espulsa. « L ’anno 1 4 3 /2 , primo della dinastia asmonea, segna
simbolicamente la nascita dello Stato ebraico indipendente. » 36
Uno Stato ebraico? Può essere tale solo uno Stato che segue
le prescrizioni della Legge. Il problema s’era già posto al ritorno
dall’Esilio, quando Neemia e Esdra avevano sciolto con la forza
tutti i matrimoni « misti » 37. Durante la rivolta la questione del
Sabbat s’era posta in maniera acuta. Bisognava battersi in giorno
di Sabbat, contro un avversario che non rispettava le regole del
gioco? Il problema era sorto subito, agli inizi della rivolta; l’espe
rienza portò a concludere che: « se tutti facciamo come hanno fatto
i fratelli nostri e non combattiamo piuttosto contro i Gentili per
difendere le nostre vite e le nostre istituzioni, ci avranno ben presto
estirpato dal mondo » 38. Ma non si tratta solo di osservare o di
distoreere la Legge: uno Stato ebraico implica che tutto, al suo
interno, sia ebraico. Affermazione semplice, ma carica di conse-
33 1° Maccabei, 2, 42.
34 Cfr. 1° Maccabei, 7, 13-15 (gli Hasidim fanno capo al grande sacerdote
Aldino, in quanto discendente d ’Aronne); ma cfr. 2° Maccabei, 14, 6 (lo stesso
Alcimo assimila Hasidim e partigiani di Giuda).
35 Ipotesi classica: cfr. per esempio M. Simon, Les sectes juives au ternps
de Jésus, Paris, 1960, p. 19.
36 E. Will, Histoìre politique..., cit., v. I l , p. 341.
37 Esdra, 9, 12-14; 10, 10-44. Il paragone con la legge ateniese del 451 fatto
da A. Momigliano (Alien Wisdom..., cit., p. 81) è suggestivo ma contestabile,
almeno in parte. La legge di Pericle non proibisce le unioni « miste »; si limita
a definire il cittadino come colui che è nato dal matrimonio di un cittadino con
la figlia di un cittadino. La legge ebraica stabilisce invece un divieto radicale.
38 1° Maccabei, 2, 41; cfr. anche 2° Maccabei, 15, 1-5, dove si tratta soprat
tutto di ebrei che inseguono l’esercito nemico.
69
guenze drammatiche. Le città della Grecia antica non dovevano
porsi questo tipo di problemi, perché per loro la risposta era scon
tata in anticipo. Nelle monarchie ellenistiche era altrettanto scon
tato che la classe dirigente dello Stato fosse formata dai greco
macedoni d’origine o d’adozione; gli altri popoli erano integrati in
una gerarchia più o meno fluttuante, secondo le epoche. Non cosi
sotto la Legge ebraica, almeno dagli inizi del secondo Tempio in
poi. Uno dei documenti più discussi dei libri dei Maccabei è l’editto
attribuito ad Antioco IV , secondo cui « il re mandò a dire per tutto
il regno che tutti dovevano formare un solo popolo e abbandonare
ciascuno le proprie costumanze » i9. Un tèsto sorprendente, che
non corrisponde a quanto si sa della prassi seleucide. Il re poteva
augurarsi che il culto di Zeus fosse praticato da tutti i sudditi, in
una forma o nell’altra (dai samaritani, secondo la tradizione ebraica,
sul monte Garizim)3940; spingersi oltre « appare difflcilmente conci
liabile con le idee del tempo e con la struttura debole e variegata
dello Stato seleucide » 41. Perché il conflitto tra sincretismo greco
e jahvismo intransigente diventasse inevitabile, bisognava offrirgli
un terreno di scontro, e ciò fu fatto dagli ebrei ellenisti desiderosi
d’aggiornamento. Il testo dell’editto di Antioco IV è stato sotto
posto a una dura critica che gli ha tolto ogni credito 42. Niente
permette di prenderlo sul serio, qualunque possa essere stata la
violenza reale, addirittura drammatica, della persecuzione seleucide,
simboleggiata dalla profanazione del Tempio e dell’« abominio
della desolazione ». Il problema vero è di sapere se il testo attri
buito ad Antioco IV non sia in realtà un indizio rivelatore di come
gli autori del testo (e molti jahvisti con loro) concepivano l’omoge
neità dello Stato. « Mattatia e i suoi amici fecero un giro per il
paese, abbatterono le are e circoncisero a forza i bambini incircon
cisi, quanti ne trovarono entro i confini d’Israele. Diedero la caccia
agli insolenti, e l’impresa riuscì loro felicemente. » 43 Inutile dire
39 1° Maccabei, 1, 41-42.
40 2 ° Maccabei, 6, 2 ; Antichità, X III, 261.
41 E . Will, Histoire politique..., cit., p. 285. Da lui prendo anche il termine
(p. 286) aggiornamento [in italiano nel testo (n.d.t.)J. La discussione resta aperta
e personalmente, dopo aver letto 1’articolo di F . Millar, T he Background of thè
Maccabean Revolt, in Journal o f Jetvish Studies, XXI (1978), pp. 1-21, dove il
libro di Hengel è discusso nei minimi dettagli, oggi sarei meno incline a seguire
Bikerman, Hengel e WOl neUa loro interpretazione « moderata » dell’impresa di
Antioco IV .
42 E . Bikerman, D er Gott der Makkahaer..., cit., pp. 127-133; c£r. M. Hengel,
Judaism and Hellenism, cit., pp. 286-292.
43 1° Maccabei, 2, 45-47.
70
che questa « purificazione » non si limitava alla zona occupata
dagli ebrei, i cui confini del resto erano imprecisi. Giuda e i suoi
fratelli danno l’assalto a molte città nemiche, come Caspìn nel
Golan: « Gli assediati, fiduciosi nella robustezza delle mura e nella
buona provvista di viveri, trattavano gli uomini di Giuda coi modi
piu villani, caricandoli d’ingiurie e anche versando bestemmie e
parole nefande. Allora quelli di Giuda, invocato il supremo Signore
dell’universo, che ai tempi di Giosuè, senza arieti e ordigni mecca
nici, aveva abbattuto Gerico, si lanciarono come leoni contro le
mura. Presa la città per volontà di Dio, fecero stragi indescrivibili,
tanto che il vicino laghetto, largo due stadi, sembrò pieno dei
sangue colatovi » 44. Ciò che stupisce, in quell’epoca di violenza,
non è il massacro di cui anche greci e romani erano perfettamente
capaci e che anzi era normale per una città presa d’assalto o che
s’arrendesse a discrezione: è il legame stabilito dall’autore tra
la bestemmia e l’assalto, tra il comandamento diretto di Dio e il
massacro, tra la storia passata e quella presente: è questo insieme
che è unico.
D ’altra parte è degno di nota che nello stesso racconto si
ritrova anche l’atteggiamento contrario: quando Giuda e i suoi
arrivano davanti alla città ellenizzata di Scitopoli (Beth-Shean),
« poiché i giudei che vi risiedevano attestarono quali prove di
benevolenza avevano avuto dagli scitopolitani e quanto benigna
accoglienza nei tempi calamitosi, essi li ringraziarono e li esorta
rono a mostrarsi anche in avvenire ben disposti verso la nazione
giudaica » 45. Il libro di Esther e quello di Giuditta, che risalgono
agli inizi del periodo maccabeo, attestano eloquentemente, ci sem
bra, quali sentimenti animassero i letterati che trasposero nei loro
scritti la ferocia di quei tempi.
71
V I. Il regno greco
72
(gli mandò infatti porpora e oro), e tenga partito per noi e ci serbi
amicizia. » 3
Queste onorificenze conferitegli nell’ambito della corte seleu-
cide non impediscono a Gionata di continuare la classica altalena
tra il « re del nord » e il « re del mezzogiorno ». Nel 147 accom
pagna con grande pompa Tolomeo VI Filometor che si reca a
Joppe (Giaffa) e lo scorta per un lungo tratto verso il nord4. Le
tendenze abbozzatesi durante la rivolta si rafforzano dopo la con
quista dell’indipendenza. Al limite si potrebbe dire che la monar
chia degli asmonei è uno Stato ellenistico in cui la religione ebraica
ha il monopolio. I segni di questa trasformazione sono molteplici:
elenchiamoli rapidamente.
Il territorio su cui regnano Simone e i suoi discendenti, fino
alla presa di Gerusalemme da parte di Pompeo, è molto più ampio
della Giudea vera e propria. Dopo vari tentativi Simone ha conqui
stato Joppe e altre città della costa filistea:
73
proprio come il secondo Tempio è una replica del primo. Cosi, a
sud, Ircano, « sottomessi tutti gli idumei, permise loro di restare
nel paese a condizione di farsi circoncidere e d’adottare le leggi
ebraiche. Per attaccamento al suolo natale essi accettarono di circon
cidersi e di conformare in tutto e per tutto la loro vita alle abitu
dini degli ebrei, e d’allora in poi gli idumei sono rimasti ebrei » 8.
Alessandro, da parte sua, porta a termine la conquista della costa
meridionale, soprattutto' impadronendosi di Gaza dopo un anno
d’assedio, e ingrandisce notevolmente il suo regno a nord-est9.
Questo Stato ebraico è una monarchia i cui sovrani dappri
ma sono semplicemente sommi sacerdoti, poi prendono anche il
titolò greco di basileus, a partire da Aristobulo (104-103 a. C.)
secondo Giuseppe 10, a partire invece da Alessandro Janneo se ci si
attiene ai ritrovamenti di monete 11. I re e i principi portano nomi
greci accanto ai nomi ebraici: Aristobulo, Alessandro, Antigono,
e utilizzano le stesse tecniche di governo del mondo greco loro
contemporaneo. Cosi Giuseppe ha creduto bene far presente che
Giovanni Ircano, figlio di Simone, fece aprire la tomba di David
da cui prese tremila talenti per finanziare la guerra e aggiunge in
quello stesso paragrafo che fu il primo ebreo a usare truppe mer
cenarie 12.
Persino i conflitti interni che devastano la famiglia reale asmo-
nea e provocano l’intervento romano nel 63 ricordano le crisi fami
liari del vicino mondo seleucide.
Sotto gli asmonei s’era trattato di un’evoluzione interna in
cui gli ebrei ellenizzati (che non erano stati mai eliminati)13 ave
vano probabilmente influito in modo determinante, ma con discre
zione; con il protettorato romano questa politica diventerà perfet
tamente cosciente e deliberata.
Impadronitisi di Gerusalemme, i romani in un primo tempo
mantengono l’asmoneo Ircano II al. posto di sommo sacerdote.
Còl favore delle guerre civili romane e con l’intervento dei parti,
Erode PIdumeo, figlio del « maestro di palazzo » Antipatro — no
me macedone — diventa re di Gerusalemme nel 37 a. C. e fino al
74
4 a. C. regnerà su un territorio piu vasto del regno di David. Dieci
anni dopo la sua morte la Giudea sarà costituita in provincia,
senza per questo eliminare la monarchia, che viene diluita sotto
forma di « tetrarchie », di regni in miniatura. C’è un momento,
tra il 40 e il 44, in cui il regno viene ricostituito a favore del
nipote di Erode, Agrippa I. Nel momento in cui scoppia la rivolta
del 66 esiste ancora un re ebreo, Agrippa II, figlio del precedente,
il cui territorio si estende al nord-est della Giudea, alla Perea, alla
Galaunitide, alla Batanea e alla Traconitide a est del Giordano, e
che controlla inoltre il Tempio di Gerusalemme, dove occupa con
la sorella Berenice — l’eroina di Racine — il palazzo degli asmo-
n e i14. Come definire in poche parole lo spirito di questo secolo,
dal punto di vista della monarchia? 15 Nonostante la pompa dei
titoli e dei personaggi, lo Stato idumeo è, come lo Stato asmoneo
nella sua ultima forma, uno Stato vassallo, interamente dipendente
dalla buona volontà dei romani. Come Momigliano scriveva già
quarantanni fa, « un governo formalmente ebraico, ma di fatto
straniero come mentalità e istituzioni, era la soluzione ideale per
i romani » 16. Ancora prima della morte d’Erode i romani otten
gono, direttamente o indirettamente, che si presti giuramento « di
75
devozione verso l’imperatore e il governo reale » 1718. Formalmente
la famiglia reale pratica la religione ebraica; ma di fatto è forte
mente integrata al mondo romano, anche per via di alleanze matri
moniali. Felice, procuratore di Giudea (52-59), sposa Drusilla,
sorella d’Agrippa I I , già moglie di Aziz, re di Em esa18. La famiglia
reale fornisce infatti re clienti di Roma anche a provincie molto
lontane dalla Giudea: tra i discendenti d'Erode figurano ad esem
pio tre re d’Armenia, la moglie d’un re di Cilicia, il genero d’un
re di Commagene19. La carriera d’Agrippa I cominciò fuori della
Giudea: cresciuto a Roma, prestò servizio in Siria al seguito del
governatore Pomponio Fiacco20. Agrippa II fu, come lo zio Erode
di Calcis, re di Calcis, città del Libano anteriore, in territorio non
ebreo21. Agrippa I, poco prima della morte, radunò a Tiberiade
un concilio di re cui parteciparono i sovrani di Commagene, Emesa,
dell’Armenia Minore, del Ponto e di Calcis. Questa riunione, del
resto perfettamente lealista, preoccupò il legato romano in Siria,
Marso: « a suo avviso i romani non avevano niente da guada
gnare da quel conciliabolo di dinasti » 2223. Il convegno fu sciolto.
È difficile stabilire in che misura tutti questi re siano ebrei.
Non appartengono a ima famiglia di cohanim e quindi non sono
sommi sacerdoti, tanto che si è potuto parlare di tentativi di
« laicizzare » lo Stato ebraico B. La formula è eccessiva: uno degli
strumenti di potere di Erode è il Tempio, da lui ricostruito da
cima a fondo24, con uno splendore che resterà proverbiale nella
tradizione rabbinica: « chi non ha visto il Tempio d’Erode non
sa che cosa sia un superbo edificio » 25. Ma Erode si guarda bene
76
dal contare solo su forze ebraiche: nominato re per decisione del
senato romano, rese grazie al tempio di Giove Capitolino, nel
periodo tra Antonio e Ottaviano26. Anche in Palestina, l’esercito
d'Erode, che all’inizio del regno era ancora formato da ebrei,
all’epoca del conflitto col re arabo M aco27 comprende numerosi
mercenari, tra cui galati, traci e germani2829. Le due grandi cit
tà fondate da Erode, Sebaste e Cesarea, non sono ebraiche. Se
baste sostituisce la città di Samaria, un tempo ellenizzata, e Giu
seppe nella Guerra giudaica scrive, con molta discrezione, che
ricevette « una costituzione privilegiata » La stessa città, nelle
Antichità, è definita più precisamente come « un terzo baluardo
[dopo il palazzo e la fortezza di Gerusalemme] contro tutto il
popolo [ . .. ] . Cosi, a poco a poco, escogitava sempre nuovi mezzi
per provvedere alla propria sicurezza e sorvegliava tutto il popolo
con una serie di guarnigioni » 30.
È evidente che Sebaste, col suo tempio dedicato a Cesare
Augusto, non è più una città ebrea3132. Ancora meno lo è Cesarea,
dove tuttavia si stabilirà una colonia ebraica; la città sorge nel
luogo del vecchio insediamento fenicio detto « Torre di Stratone »,
e vi figurano tutti gli elementi che scandivano la vita urbana nel
mondo greco-romano: stadio, anfiteatro, giochi quinquennali in
onore d’Augusto, munera di gladiatori, tempio consacrato al culto
imperiale, ecc. Gli ebrei qui saranno soltanto dei meteci, forse
organizzati in politeuma, un po’ come ad Alessandria n .
Il personale amministrativo era in gran parte greco o elle
nizzato, greca la lingua parlata a corte, greche le tecniche di ge
stione. Lo scrittore greco Nicola di Damasco, uno dei principali
collaboratori di Erode nonché suo storico, nota che alla morte di
77
questi « il popolo insorse contro i suoi figli e contro i greci, che
erano piu di diecimila » M.
Ma uno dei tratti piu caratteristici di Erode è l ’accanimento
con cui cerca di assicurarsi un prestigio divergete presso la città
dell’Oriente greco, imitando i sovrani ellenistici con un secolo di
ritardo. E ra un fenomeno generale: « Le città greche coltivavano
rapporti coi ricchi principotti orientali, mendicando da loro doni
e fondazioni. I dinasti dal canto loro non lesinavano in generosità,
per avere una reputazione di ” filellèni ” e far cosi dimenticare le
loro origini barbare » M. L. Robert ha potuto perciò, servendosi
di Giuseppe come fonte principale, catalogare i regali fatti da
Erode alle città della Grecia e dell’Asia Minore: donativi di grano,
costruzione di edifici, fondazioni per la fornitura d’olio ai ginnasi.
Erode è « agonoteta perpetuo » dei concorsi olimpici, « ginnasiarca
perpetuo » a C o o 343536. Come vogliono le regole del gioco, Erode e
i suoi discendenti ricevono belle iscrizioni onorifiche in ricompènsa
delle loro liberalità. Alcune di queste iscrizioni si sono conservate:
ci sono rimasti i basamenti delle statue di Erode e di suo figlio Ero
de Antipa ad Atene, a Deio, a C o o 3é. A Berito fBeyrouth) Agrip
pa II e sua sorella Berenice restaurano un monumento già co
struito da Erode, forse un tempio: un’iscrizione latina commemora
tale generosità37.
Tra le città di cui Erode ha cercato di conquistarsi i favori
spicca Ilio, cioè Troia, luogo d’origine della gens Julia. Questa città, .
che si vantava d’aver dato i natali anche a Ettore, aveva commesso
un’imprudenza nei confronti di Giulia, figlia d’Augusto, e moglie
del figlio adottivo di questi, Marco Agrippa. Quest’ùltimo punì
la città colpevole condannandola a una pesante ammenda, che alla
fine fu pagata da Erode. Ciò gli valse particolari onori da parte del
popolo d’ilio: il re del paese della Bibbia veniva cosi onorato
dalla città dell’Iliade38. Molta acqua era passata sotto i ponti da
quando l’autore dei graffiti greci di Gnzara (Gezer, presso Emmaus)
33 De vita sua, in Jacoby, Fr. Gr. Hist., 90, F. 136, 55, e M. Stem, G reek
and Latin Authors..., cit., n. 97. Su Nicola, si veda l’eccellente monografia di
B. Z. Wacholder, Nicolaus of Damascus, Berkeley-Los Angeles, 1962.
34 L. Robert, Etudes épigraphiques et philologiques, Paris, 1938, p. 136.
35 L. Robert, op. cit., pp. 136-138. I testi più importanti sono Guerra, I,
422-428 e Antichità, XV I, 18, 24. Si veda anche E . M. Smallwood, op. cit., pp. 81-82,
dove si troveranno molte referenze.
36 Dittenberger, Orient. Graec. Inscr. Sei., 414, 416, 417, 418, 426, 428.
37 E. Gabba, Iscrizioni greche e latine..., cit., n. XXX.
38 Nicola di Damasco, in.Jacoby, F, Gr. Hist., 90 F. 134, e M. Stern, G reek
and Latin Authors..., cit., n. 95.
78
■s’era francamente augurato che il fuoco distruggesse il palazzo di
Simone Maccabeo39.
Questi due secoli d’evoluzione si potrebbero riassumere ricor
rendo alla testimonianza, sempre eloquente, delle m onete40. La
storia comincia con la lettera del seleucide Antioco V II a Simone
Maccabeo: « Ti concedo di battere moneta di tuo conio, con corso
legale nel tuo paese » 41. Simone non si valse di questo diritto.
Le monete di bronzo di Giovanni Ircano (135-104 a. C.) portano
solo simboli e iscrizioni ebraiche. Alessandro Janneo ha già monete
bilingui: su una faccia è scritto « il re Alessandro », sull’altra, in
ebraico « il sommo sacerdote Gionata e la comunità degli ebrei ». Il
nome ebraico di Antigono (40-37 a. C.) ci è noto soltanto dalle mo
nete. Erode avrà monete con leggende in greco ed esclusivamente in
greco, ma non ancora con la propria effigie. Suo figlio, il tetrarca
Erode Filippo II di Batanea (4 a. C.-34 d. C.), batterà monete con
l’effigie dell’imperatore. Il primo re ebreo che abbia battuto mo
neta con la propria immagine (nella zecca di Cesarea, però) è stato
Agrippa I , seguito dal figlio Agrippa II, il quale forse spinse la
sua perversità — agli occhi dei moderni — fino al punto di usare,
in una moneta coniata dopo la guerra, il simbolo della palma che
ornava le monete di Tito, con la leggenda Judaea capta42. È di
fondamentale importanza notare che tutte queste monete sono di
bronzo, e quindi non testimoniano l’indipendenza del sovrano che
79
le batte: solo la rivolta ebraica del 66 conierà per la prima volta
monete d’argento.
Stato ebraico? Stato greco? Come l’hanno giudicato coloro
che prendevano il giudaismo sul serio e ritenevano che la Legge
dovesse valere in ogni momento della vita politica? Tralasciamo
per il momento la documentazione fornita dalla letteratura « inter-
testamentaria » e dagli scritti del Qumran43, e limitiamoci a seguire
la cronologia attenendoci soprattutto a Giuseppe. I primi screzi
avvengono all’epoca di Giuda Maccabeo, quando un’assemblea
(synagoge) di scribi, cioè di dottori (sopherim), discute di pace col
sommo sacerdote Alcimo e con Bacchide, inviato del re seleucide
Demetrio I . Gli Hasidim si pronunciano a favore della pace e del
l’intesa con Alcimo, nella sua qualità di discendente di Aronne44.
Giuseppe, prudentemente, non nomina gli Hasidim, parla sempli
cemente di «qualcuno del p o p o lo » 45. La faccenda non andò in
porto, perché Bacchide e Alcimo fecero giustiziare a tradimento
sessanta Hasidim 46, che s’erano fidati di loro, ma l’avvertimento era
serio. Dopo l’avvento della monarchia asmonea le cose si chiari
ranno definitivamente e al limite è possibile enunciare il seguente
principio: un re ebreo è buono solo da morto, oppure se è donna,
o all’inizio del regno; infatti soltanto in queste circostanze è possibi
le porre la Legge come principio di governo. Il primo re, Giovanni
Ircano, si guasta con almeno una frazione dei farisei, cioè dei « Se
parati » (Perushim), setta che compare appunto in quegli anni.
Un fariseo — non era chiaro se parlando a nome di tutta la setta
o no — sosteneva che il re, essendo di nascita impura da parte
di madre, non poteva essere sommo sacerdote e doveva acconten
tarsi del potere politico. Ircano seduta stante passò dalla parte dei
Sadducei: « Abrogò le leggi che i farisei avevano imposto al popolo
e punì quelli che le osservavano » 4748. Tuttavia per Giuseppe e per
la tradizione talmudica Ircano è ancora un personaggio che ha rap
porti diretti con Dio, e addirittura un profeta che « visse felice » 4S.
Il primo re effettivamente tale, Alessandro Janneo, a partire
dal 93 a. C. deve fare i conti con movimenti insurrezionali. I suoi
80
avversari (che Giuseppe chiama senz’altro «gli e b re i» 49, e che
secondo l’ipotesi piu probabile erano i farisei) si rivolgono al re
seleucide Demetrio III. « Sicché — scrive D. S. Russell — vediamo
; successori degli Hasidim allearsi coi discendenti d’Antioco Epi-
fane contro i discendenti dei maccabei. » 50 Sconfìtto in un primo
tempo, poi vincitore in una battaglia dove i soldati dei suoi nemici
erano ebrei mentre i suoi erano greci, Alessandro ordinò di crocifig
gere ottocento giudei, « e mentre erano ancora vivi, fece sgozzare
sotto i loro occhi le mogli e i figli » 51. Interrogando il re alcuni suoi
nemici per sapere cosa volessero, « questi gli urlarono come un
sol uomo: vederti morto » 52. Alessandro lasciò il regno alla moglie
Alessandra, raccomandandole di dare ai farisei una larga partecipa
zione al potere: « Quando sarai a Gerusalemme manda a chiamare
i loro capi, e mostragli il mio cadavere, autorizzandoli con la mas
sima sincerità a farne quello che vogliono [ ...] e prometti di non
prendere provvedimenti nel regno senza aver sentito prima il loro
p arere»5354. Di colpo Alessandro divenne, da morto, l’amico dei
farisei: « si presentarono in pubblico e cominciarono ad arringare
la gente, passando in rassegna le imprese di Alessandro e dicendo
che avevano perduto un re giusto » M. Alessandra, che riuscì a
regnare nove anni, consegnò di fatto il potere ai farisei. Per la
prima volta dopo la generazione dei figli di Mattatia, è di nuovo
possibile parlare d ’un sovrano che obbedisce scrupolosamente alla
Legge: « osservava strettamente le tradizioni nazionali, e desti
tuiva dalle cariche quelli che violavano le leggi sacre [ ...] . A fianco
a lei crebbero in potenza i farisei [ . .. ] , i vantaggi del potere regale
erano i loro, mentre le spese e le preoccupazioni erano di Ales-
sandra » 55. I farisei reclamano, e ottengono, il castigo dei complici
d’Alessandro Janneo. Questa monarchia farisaica, sorta paradossal-
mente proprio quando le funzioni di sovrano e di sommo sacerdote
erano separate, sfocia, ancor prima della morte d’Alessandra (67
81
a. C.), nella guerra civile tra i figli di lei, Ircano e Aristobulo 56,
Quanto all’ultimo degli asmonei, Antigono-Mattatia, nel 40 a. C,
fece promettere ai parti cinquecento donne ebree in cambio del
loro aiuto, il che equivaleva a consegnare in mani pagane una
discendenza di sangue ebreo 57.
Infine la morte d’Erode (al quale seimila farisei rifiutarono di
prestare giuramento 58), è per i legalisti l’occasione di riprendere
il sopravvento: il figlio ed erede provvisorio di Erode, Archelao,
si vede ingiungere di castigare i complici del padre nonché di con
cedere uno sgravio fiscale: « desiderando compiacere la folla, ac
consentiva a tutte le richieste ». Ma i postulanti non si acconten
tano di promesse: « portavano il lutto — dicevano — degli uomini
periti tra le fiamme per difendere le leggi avite e il Tempio » 59.
Le concessioni non durarono a lungo, e le rivendicazioni dei farisei
— e del popolo — sfociarono in una delle tante rivolte pasquali
ricorrenti verso la fine del secondo Tempio60. Né gli asmonei, né
gli idumei in quanto tali furono mai considerati partecipi del pro
cesso di trasmissione della Legge. Nelle prime pagine del Pirqeì
Aboth, che raccontano appunto questa trasmissione da Mosè a
Giosuè, poi ai profeti, fino alla « grande sinagoga » del Ritorno
e ai dottori farisei, gli asmonei e gli idumei sono semplicemente
ignorati, e J . Derenbourg nel secolo scorso poteva constatare,
citando la cronaca Megillath Taanith-. « D i tutti gli sforzi prodi
giosi fatti da Gionata e Simone, di tutte le loro vittorie, la cronaca
ricorda solo quello che fecero per annientare il partito greco » 61.
C ’è però un paradosso: Agrippa I, pur rispettando Roma e vivendo
da pagano a Cesarea, sembra essere stato fedelissimo all’ambiente
ebraico, tanto in Palestina che nella Diaspora (è vero che regnò
solo tre anni). La Mishna ne parla favorevolmente: si racconta che
un giorno di festa, quando i dottori lessero in sua presenza il
testo del Deuteronomio: « Non darti un re straniero, uno che non
è tuo fratello », Agrippa scoppiò a piangere. « Non temere, Agrip
pa, — gli avrebbero detto, — tu sei nostro fratello, tu sei nostro
82
fratello. » Alla sua morte i goyim si rallegrarono ostentatamente62.
Ma fu l’ultimo re di Giudea.
Perché dilungarsi tanto su questi re ebrei e greci, o giudeo
greci? Perché la questione centrale del I secolo dell’era cristiana,
sia dal punto di vista religioso (messianismo) che da quello politico
(indipendenza) è la questione del Regno: poteva essere utile ricor
dare che la « regalità » non viene solo da David, ma è anche un
concetto greco.
83
V II, Fare politica nella Diaspora
84
del capo della famiglia sacerdotale legittima, Onia IV, che s’era
rifugiato in Egitto, dove aveva addirittura fondato un tempio, a
Leontopoli. Questo tempio divenne centro di una colonia militare
ebraica 2 attivissima, specie al momento dei torbidi che seguirono
la morte di Tolomeo VI Filometor (145 a. C.) e che terminarono
nel 124 a. C., con la riconciliazione tra i due avversari, Tolo
meo V i l i e Cleopatra I I 3. Secondo la testimonianza di Giuseppe 4,
gli ebrei, o almeno il fondatore del tempio di Leontopoli e altri
militari ebrei, avevano preso le parti di Cleopatra II, e ciò poteva
causar loro qualche difficoltà, nonostante la « riconciliazione ».
Forse gli ebrei di Palestina, nel ricongiungere gli ebrei di Egitto
al Tempio di Gerusalemme, si proponevano non solo di rinsaldare
l’unità con i loro correligionari d’Egitto — nel caso ce ne fosse
bisogno — ma anche di evitare che questi subissero le conseguenze
della presa di posizione dei capi della colonia di Leontopoli. Sem
pre nella seconda metà del II secolo, la Lettera d ’Aristeo svolge
un ruolo completamente diverso 5. Questo testo in lingua greca,
che si finge scritto da un greco per un. altro greco allo scopo di
salutare la traduzione in greco della Legge di Mosè, sotto Tolo
meo II Filadelfo, risale evidentemente a un altro periodo, e ha
tutt'altro significato. Questo trattato ebreo del buon uso della
monarchia ellenistica67, ci parla certo di Gerusalemme, del Tempio
e del sommo sacerdote. Ma la città di cui si tratta in queste pagine,
non è la capitale del piccolo Stato asmoneo, né tanto meno il
capoluogo d’una provincia dell’impero tolemaico, ma una città
ideale, vicina all’utopia greca, a giudicare per esempio da questa
cronaca di viaggio: « Innanzitutto voglio darti un’idea della dispo
sizione generale di tutta la regione. Come giungemmo sul posto,
ai nostri occhi apparve la città, situata al centro di tutta la Giudea,
su una montagna altissima. Sulla cima si ergeva il santuario » 1.
85
È l’Egitto, e non la Palestina, che chiarisce la funzione della Lettera
d ’Aristeo: lo scopo è dare autorità alla traduzione della Bibbia
detta dei « Settanta », la cui pubblicazione era commemorata ogni
anno dagli ebrei d’Alessandria con una festa e una panegiria nel
l’isola di Pharos8. Stavolta il messaggio è diretto da Alessandria
a Gerusalemme.
Dopo le guerre civili romane, gli ebrei non corrono più peri
colo d’essere implicati in una guerra civile in Egitto. La sola riva
lità che li riguarda — e in modo davvero diretto — è quella che
corre tra Roma e l’impero nemico dei parti. Questi ultimi non
interverranno nella guerra del 66-74. Agrippa, nel suo famoso
discorso, mette in guardia i giudei, che non contino sui loro fratelli
d’Adiabene, convertiti di recente e soggetti al re dei parti: « Co
storo non si lasceranno coinvolgere in una guerra così pericolosa
[ ...] né, se si decidessero a una tale sciocchezza, glielo permette
rebbero i parti: questi si preoccupano di mantenere la tregua con
Roma, e se qualcuno a loro soggetto marciasse contro i romani
considererebbero la cosa come una violazione dei patti »9. In pratica
i fatti non si svolsero tanto semplicemente. Certo non è possibile
sostenere con Dione Cassio che gli ebrei dell’impero partico e
quelli dell’impero romano abbiano aiutato i ribelli di Gerusa
lemme 101; però un gruppo di adiabeniti, guidati da membri della
famiglia reale recentemente convertita, partecipò alla lotta u. Per i
parti quello fu un modo discreto d’intervenire? Non possiamo
saperlo. Quando la vicenda fu conclusa, il re Vologese inviò senz’al
tro a Tito una corona d’oro con le sue congratulazioni12.
Non era sempre facile essere un ebreo della Diaspora, e nem
meno è facile distinguere i contorni di questo fenomeno per tanti
versi eccezionale. Non solo perché le sue cause restano in gran parte
oscure (lo si può attribuire infatti tanto alla pressione demografica
quanto a una volontà missionaria o a deportazioni forzate), ma
8 Filone, Vita Mosis, I I , 41; cfr. A. Momigliano, art. cit. (supra, cap. V,
nota 30), p. 83 e Alien Wisdom..., d t., p. 116.
9 Guerra, II, 388-389.
10 Dione Cassio, LXV I, 4, 3.
11.G uerra, I I , 520; V , 474; V I, 356-357 (quest’ultimo passo racconta la resa
dei membri della famiglia reale). L ’appello degli ebrd di Gerusalemme ai loro
fratelli dell’impero partico è ricordato nel discorso di Tifo (Guerra, V I, 343).
12 Guerra, V II, 105; Tacito, Storie, IV , 51. Giuseppe parla però di una
ambasciata dopo la vittoria romana, mentre Tacito la fa avvenire prima della
vittoria finale. E . M. Smallwood nella sua ricostruzione (op. cit., p. 356) ignora
questo particolare. Si veda anche J. Neusner, A History of thè Jews in Babylonia,
cit., v. I, pp. 64-67.
86
soprattutto perché in questo caso la « dispersione » non comportò
rottura. Il mezzo shekel che ogni ebreo doveva inviare a Gerusa
lemme per le spese del Tempio, con il consenso delle autorità
romane, simboleggiava appunto questo legame1314.
Che significato aveva il fenomeno della Diaspora per i princi
pali interessati? Non possiamo cavarcela con formule semplici
come quella di S. Safrai: « [G li ebrei della diaspora] si conside
ravano ebrei residenti in terre straniere » u . In uno stesso paese,
l'Egitto greco-romano, si poteva leggere sia la « preghiera di Nee-
mia », riferita dal 2° libro dei Maccabei, — « riunisci quelli tra
noi che sono dispersi, libera quelli che sono schiavi delle nazio
ni » 15, — sia la famosa formula del I I I libro degli Oracoli Sibillini
(fine del I sec. a. C.) in cui il contesto del castigo divino si mescola
a un accento di fierezza: « ogni terra sarà piena di te, ogni mare »16.
Il mondo abitato era pieno di persone che si definivano « ebrei »
{Ioudaioi in greco, Iudaei in latino) e che si rifacevano simbolica-
mente all’antico regno di Giuda, mantenendosi in rapporto col
Tempio di Gerusalemme. Per molti di loro la lingua materna era
il greco, mentre l’« ebraico » era ormai soltanto una lingua sacra;
le relazioni reciproche erano quindi lontane dalla semplicità in
13 Non esistono storie recenti della Diaspora nel mondo antico. Tra le opere
più recenti, quella di M. Avi-Yonah e Z. Baras, piu volte citata, non contiene
alcun capitolo sulla Diaspora. André Paul osserva (Recberches de Science religieuse,
66 (1968), p. 346) che nella recente Storia del mondo giudaico di P. Sacehi, Torino,
1976, v. I, la stessa parola « diaspora » non figura nemmeno all’indice. Invece il
volume di S. Safrai e M. Stern, cit., contiene tre capitoli sulla Diaspora, tutti
eccellenti: The Jewish Diaspora di M. Stern (pp. 117-183), Relations between thè
Diaspora and thè Land of Israel di S. Safrai (pp. 184-215) e The Legai Status of
thè Jewish Communities in thè Diaspora di S. Applebaum (pp. 464-503). Si veda
anche E.M . Smallwood, op. cit., pp. 120-143, 201-255, 356-388. Per la storia degli
ebrei in Egitto, i Prolegomena al Corpus Papyrorum Judaicarum (C .P .J.), I,
Cambridge (Mass.), 1957, di V. Tcherikover restano la migliore sintesi oggi esi
stente. Sugli ebrei a Roma, si veda H. J. Leon, The Jews of Ancient Rome,
Philadelphia, 1960. Per il periodo romano nel suo complesso, è ancora fondamen
tale il libro di J. Juster, Les Juifs dans l'empire romain: leur condition juridique,
économique, sociale, vv. 2, Paris, 1914; su questo libro, vedi A. M. Rabello,
A Tribute to Jean Juster, in Israel Law Review, 11 (1976), pp. 216-287. Per il
mezzo shekel, si veda ad esempio S. Safrai, op. cit., pp. 188-189.
14 S. Safrai, op. cit., p. 185.
15 2° Maccabei, 1, 26.
16 Oracoli sibillini, II I, 271. Le osservazioni di Abel a questo proposito
[op. cit., p. 296) sono parzialmente inesatte, tuttavia egli osserva giustamente che
la versione dei « Settanta » ha evitato con la massima cura l’uso di termini
peggiorativi (come l ’ebraico golah) per indicare l’esilio. Lo dimostra del resto anche
l ’uso di un termine neutro come diaspora.
87
bianco e nero che acquistano arbitrariamente nelle ricostruzioni di
tanti — troppi — moderni.
Giuseppe racconta che gli ottomila ebrei di Roma appoggia
rono la delegazione venuta dalla Giudea alla morte di Erode per
chiedere ad Augusto di prendere personalmente in mano il destino
del paese 17; ma la vita politica della Diaspora in relazione alla
Palestina non si esaurisce certo in rapporti di questo tipo.
Uno spirito di grande levatura, Filone d’Alessandria, ha più
volte cercato di definire questi rapporti. In un passo concernente
la missione da lui compiuta a Roma alla fine del regno di Caligola,
verso il 39-40, Filone fa parlare Agrippa I, « tetrarca » ma non
ancora re di tutta la Giudea. Si tratta dunque d’un « palestinese »,
allevato però a Roma e in possesso dei (ria nomina (si chiamava,
pare, Marco Giulio Agrippa18). Nella lettera che Filone gli fa
rivolgere all’imperatore, Agrippa scrive: « La mia patria, [Geru
salemme], è la metropoli non solo della Giudea, ma anche di
moltissime altre regioni, in quanto ha di volta in volta inviato
colonie nei territori confinanti [ ...] come pure in paesi lontanis
simi [ ...] . E non solo i continenti sono pieni di colonie ebraiche,
ma anche le isole più importanti, l’Eubea, Cipro, Creta. Tralascio
le colonie al di là dell’Eufrate [ ...] . Sicché, se la mia patria avrà
accesso alla tua benevolenza, non se ne awantaggerà una sola città,
ma migliaia d’altre, in ogni angolo della terra abitata, dall’Europa
all’Asia alla Libia, sul continente e nelle isole, nell’interno e sul
mare » 19. Dietro queste grandiose affermazioni c ’è il modello sto
rico della vecchia colonizzazione greca — utilizzato del resto in
maniera approssimativa — ; e c ’è anche una realtà piu concreta,
quella delle linee marittime che partivano da Alessandria, e che
potrebbero aver suggerito l’enumerazione di Filone, come pensa
A. Pelletier20.
88
Ma nel pamphlet contro l’ex prefetto d’Egitto Aulo Avillio
Fiacco, che governò il paese dal 32 al 38 (testo che rientra nello
stesso gruppo di scritti cui appartiene il racconto dell’ambasciata
a Caio) lo stesso Filone s’esprime in un linguaggio diverso, par
lando questa volta dal punto di vista di Alessandria: « [G li ebrei]
considerano loro ” metropoli ” la città sacra, dove si erge il tempio
santo dell’Altissimo, ma ciascuno di loro considera sua patria la
terra dov’è nato e cresciuto e che ha ereditato come residenza
dai padri, nonni, bisnonni e da progenitori anche piu remoti » 21.
Anche qui, la patria e la metropoli; anche qui il paragone con la
colonizzazione greca, discutibile come tutti i paragoni. In epoca
classica, la patria d’un corcirese era Corcira, la sua « metropoli »
(madrepatria) Corinto, una « metropoli » con cui gli poteva capi
tare di essere in guerra. Nell’Egitto ellenistico, i greci che non
erano cittadini delle tre poleis esistenti (Alessandria, Naucratì e
Tolemaide, sebbene Alessandria fosse una pseudo-città) di solito
erano definiti dalla loro origine « etnica »: erano di Coo o d’Atene
o di Siracusa, ecc. In che misura Alessandria era davvero la
« patria » di Filone e dei suoi? Sul piano strettamente giuridico
l’espressione è impropria. Salvo eccezioni individuali, in epoca
romana gli ebrei non sono « cittadini » di Alessandria, non sono
« alessandrini ». Giuseppe, che su questo punto s’esprime varie
volte con termini inadeguati22, afferma ad esempio che Alessandro
il Grande, « avendo trovato nei giudei un appoggio' validissimo
contro gli egiziani, in riconoscimento della collaborazione concesse
loro di poter risiedere nella città con gli stessi diritti dei greci.
Il privilegio fu ad essi confermato anche dai diadochi, i quali asse
gnarono loro un quartiere riservato, in modo che, stando meno a
contatto con gli stranieri, potessero con più cura, osservare le loro
21 In Flaccum, 46.
22 I testi di Giuseppe su questo argomento sono stati raccolti e commentati
da S. Applebaum, in S. Safrai-M. Stern, op. cit., pp. 435-440. Si vedano anche,
oltre agli studi ormai classici di Tcherikover (cit. supra, cap. V II, nota 13) le
osservazioni di A. Pelletier in margine alla sua edizione dell’! » Flaccum, Paris,
1967, specie le pp. 35-40 e 172-181. Sull’importanza della frattura venutasi a
creare con l’occupazione romana, si veda M. A. H. E1 Abbadi, The Alexandrian
Citizenship, in Journal of Egyptìan Archeologi, 1962, pp. 106-123, articolo impor
tante, che m ’è stato segnalato dall’amico Philippe Gauthier. Detto questo, in epoca
tolemaica, gli ebrei d’Alessandria, anche se « alessandrini », non erano certo dei
cittadini nel senso greco del termine. Del resto non è pacifico che ad Alessandria
esistesse veramente, anche per gli stessi greci, una vera e propria « cittadinanza ».
89
regole di vita, e concessero loro di chiamarsi macedoni »23. L ’espres
sione tradotta « con gli stessi diritti », isomoiria, in senso proprio
non indica diritti politici, ma designa l’uguaglianza economica: il
significato politico è secondario e deriva dal primo. Anche gli altri
termini usati da Giuseppe: ìsopoliteia, isotimia, sono impiegati
impropriamente. Per esempio Visopoliteia24 indica la situazione per
cui, in seguito a un accordo tra due città, i cittadini dell’una pos
sono divenire cittadini dell’altra, e quindi non corrisponde affatto
alla situazione degli ebrei ad Alessandria.
Gli ebrei non erano alessandrini, o meglio non lo erano più
(fatta salva ogni riserva sull’effettivo stato giuridico degli ebrei
in epoca tolemaica): lo ha dimostrato, in modo quasi drammatico,
un papiro recante un reclamo rivolto al prefetto Turannio, nel
5 / 4 a. C., da un certo Helenos il quale si definisce « alessandrino,
figlio di padre alessandrino » 2526. Ebbene, nella prima riga la parola
alessandrino è stata cancellata da uno scriba ufficiale che ha corretto
in: « ebreo della comunità d'Alessandria ». Lo scriba contesta lo
stato giuridico di Helenos, non quello del padre, in epoca tole
maica: forse è l’indizio d’un mutamento avvenuto. Molti anni
dopo, quando l’imperatore Claudio, successore di Caligola nel 41,
vorrà regolare la questione in uno spirito di riconciliazione, chie
derà agli alessandrini « di comportarsi con dolcezza e umanità verso
gli ebrei, che da tanti anni abitano la loro stessa città, di non
ostacolare le loro tradizionali pratiche di culto » ma d’altro canto
avvertirà gli ebrei « di non cercare di aumentare i privilegi di cui
godono, di non azzardarsi più — cosa mai vista prima — a man
dare un’ambasceria in concorrenza con la vostra [cioè con quella
degli alessandrini], come se abitaste due diverse città, di non
cercare d’immischiarsi nei concorsi organizzati dai ginnasiarchi o
dal cosmeta, ma di contentarsi di godere dei propri beni e, come
abitanti di una città straniera, di usufruire dei vantaggi d’ogni
genere offerti da questa condizione, astenendosi dall’invitare o dal
far venire per mare altri ebrei dalla Siria o dall’Egitto » 2é.
90
' Gli ebrei di Alessandria, come quelli di altre città del mondo
greco, costituivano un politeuma, un gruppo oserei dire « poli-
toide », che Augusto riformò ponendolo sotto il controllo d’un
consiglio d’anziani (gerousia) 27, un organo di governo oligarchico
come se ne trovano un po’ dovunque nel mondo romano. In queste
condizioni, che cos’è la vita politica per un ebreo d’Alessandria
del livello di Filone? Filone ha vissuto una crisi gravissima tra
greci ed ebrei di Alessandria, quella del 35-40, che non era però
la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli ebrei ad Alessandria
costituivano un’importante minoranza il cui status « a parte » ri
spetto alla città di per sé non era affatto anomalo nel mondo greco:
basta pensare ai meteci ateniesi. La comunità ebraica d’Alessandria
aveva favorito la conquista dell’Egitto da parte dei generali romani,
a spese degli ultimi Tolomei: un comportamento classico per una
minoranza. Per di più Ircano II, il sommo sacerdote che aveva
beneficiato dell’intervento di Pompeo, aveva scritto agli ebrei di
Egitto incitandoli ad aiutare i suoi alleati romani28. Questi ultimi,
però, una volta impadronitisi del paese, tendevano ad appoggiarsi,
li come altrove, sulla comunità maggioritaria, che in Alessandria
era quella greca. I greci sentivano i loro privilegi — sociali, se
non politici — minacciati dai tentativi degli ebrei di introdursi
nelle istituzioni educative, innanzitutto nei ginnasi. Di qui i vio
lenti incidenti che sotto il prefetto Fiacco presero una piega dram
matica di massicce repressioni29. Come agire politicamente nel mon
do romano del I secolo, universo autoritario e oligarchico? A questa
domanda Filone ha tentato di rispondere, tanto sul piano teorico
che sul piano pratico 30.
Filone ha disegnato il ritratto dell’uomo politico per eccel
lenza non nella persona del re — per lui il re è Abramo, relegato
tra i padri fondatori, o addirittura D io 31 — ma nella persona di
Giuseppe figlio di Giacobbe32. Questo personaggio biblico è anche
studiosi sono gli ebrei che hanno inviato due ambascerie in concorrenza tra loro:
interpretazione perfettamente compatibile col testo greco e col contesto storico.
27 Filone, In Flaccum, 74.
28 Antichità, XIV , 99, 131.
29 La documentazione papirologica è raccolta nel C.P.J., pp. 25-107. Si veda
anche H. A. Musurillo, Acts of thè Pagan Martyrs, Cambridge, 1954.
30 Su Filone e la politica, il libro fondamentale è quello di E. R. Goode-
nough, The Politics of Philo Judaeus, Fradice and Theory, New Haven (Conn.),
1938.
31 E. R. Goodenough, op. cit., p. 90.
32 Filone, De Josepho.
91
il protagonista di un romanzo greco il cui autore sembra essere
stato un ebreo egiziano, e che racconta le avventure del figlio di
Giacobbe con la figlia di Putifarre, Aseneth, un’egiziana che non
rassomiglia alle sorelle e si converte al giudaismo. Alla fine del
romanzo (di epoca incerta: tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C.)
Giuseppe riceve la corona di faraone 33. L ’autore quindi perorava,
in greco, a favore di un giudaismo che al limite diventava egiziano.
Negli anni immediatamente successivi alla morte di Cesare,
il III libro degli Oracoli Sibillini — il cui centro di diffusione
è ancora Alessandria34 — annuncia che quando Roma sarà di
venuta signora d’Egitto, « allora tra gli uomini apparirà gran
dissimo regno, di re immortale. Verrà un principe puro, che
soggiogherà gli scettri di tutta la terra, per tutti i secoli del
tempo che incalza » 35. In questa prospettiva apocalittica che si
affaccia sul regno del Messia, gli ebrei sono « i Giusti » o « la
Stirpe regale » 36. Ma l’esaltazione di questa prospettiva universa
listica non fa sparire del tutto la Palestina: l’oracolo annuncia che
« Da Sebaste verrà Belial » 37. Sebaste, ossia Samaria, capitale d’una
setta rivale, rifondata da Erode, viene cosi additata — dubbio
onore — quale punto di partenza del Maligno.
Nell’Egitto dei tempi di Filone prospettive di questo genere
sono fuori luogo, e il dominio romano non è suscettibile d’essere
messo in forse. Quando Filone racconta la storia di Giuseppe,
secondo le regole dell’esegesi allegorica, ne fa il ritratto d’un buon
92
prefetto d’Egitto, la negazione cioè di F iacco38. L ’ebreo che era
stato visir dei faraoni viene cosi ritratto nei panni del prefetto
romano ideale, incaricato di governare egiziani, greci ed ebrei. Visto
cosi, l’uomo politico non incarna la suprema Identità, ma il mondo
della diversità. La vita politica è, secondo natura, una città 39; ma
l’uomo politico, che deve trattare i rapporti dei greci coi barbari,
dei barbari coi greci, e i rapporti interni a ciascun gruppo vive
invece nelle città 40. Per cui l’uomo politico deve avere « molte
facce ed essere multiforme » 41. È normale che sia venduto dai fra
telli, come Giuseppe42, normale che gli capiti di finire in prigione43;
è ciò che sarà Flavio Giuseppe: l’interprete di sogni44, l’uomo che
incarna l’instabilità e che deve fare i conti con essa45. Nel suo
libro Dei sogni Filone andrà ancora più lontano, sempre a proposito
di Giuseppe46. Dice la Genesi47 (nella traduzione dei « Settanta »)
che Giuseppe portava una tunica variopinta (poikilon) 48. Questo
tessuto picchiettato, a chiazze, è simbolo del politico: la veste di
Giuseppe non è bianca come quella del sommo sacerdote, quando
penetra nel Santo dei Santi, è « macchiata di sangue »; « Giuseppe,
ovvero colui che attende alla politica umana, potrà evidentemente
partecipare [...] solo del segno variopinto » 4950.
Stabilito cosi lo status teorico della politica — secondo una
visuale che si potrebbe far risalire a un Platone riletto dagli
stoici — ne conseguono varie norme pratiche. Il mondo politico
romano oscilla tra due estremi: la beneficenza degli « evergeti »
(a favore dei quali, anche se non ai quali, è lecito, sacrificare » w,
e la violenza dei tiranni, con i quali conviene mostrarsi prudenti,
secondo le regole fissate dal trattato Sui sogni: « Non hanno forse
perso il senno, non sono pazzi coloro che s’affannano a sfoggiare
una inopportuna libertà di parola, e addirittura osano parlare e
93
agire contro re e tiranni? » 51. Filone pubblicherà il Contro Fiacco
dopo la caduta e la morte del malvagio prefetto, e YAmbasceria
dopo l’uccisione di Caligola: il dispotismo romano è infatti « tem
perato dall’assassinio ».
Non era vigliaccheria: gli ebrei di Filone non erano disposti
a mandar giù qualsiasi cosa. Quando ad Alessandria si è voluto
toccare ciò che per loro era irrinunciabile, imponendo di tenere
statue dell’imperatore nelle sinagoghe, la risposta è stata no: « pur
essendo per natura inclini alla pace, la loro pazienza aveva dei
limiti » 52. E questo anche se Filone aggiunge, non senza ipocrisia,
che chiudendo le sinagoghe s’impedisce agli ebrei di onorare la
famiglia imperiale53.
Nel racconto dell’ambasceria presso Caligola — uno dei rari
documenti che permettono di vedere la Roma imperiale con gli
occhi di un non-romano — Filone ci ha dato uno straordinario
esempio di che cosa poteva essere, in pratica, la politica di cui
parlava. Scopo della missione è innanzitutto trattare una serie di
questioni che riguardano solo gli alessandrini, strascichi delle per
secuzioni patrocinate da Fiacco; un altro problema è che Caligola
vuol farsi adorare come un dio — « alterando così la nobile
tradizione della libertà rom ana», dice abilmente Filone54 - — e
che a questa decisione s’oppone « un solo popolo », quello ebrai
co 5h Nel corso della missione la questione cambia natura. Per gli
ebrei « alessandrini » non si tratta più solo di difendere il loro
preteso diritto di cittadinanza: « dove mai sarebbe lecito, davanti
a Dio o davanti agli uomini, continuare a batterci per dimostrare
che siamo alessandrini, quando è messo in forse un altro nostro
diritto di cittadinanza, più universale, quello di cittadini ebrei? »,
atteggiamento che altrove Filone definisce « prendersi a cuore la
loro cittadinanza ebraica » 56. Caligola non ha forse deciso di far
erigere la sua statua anche nel Santo dei Santi, a Gerusalemme? 57
Da quel momento, quest’ambasceria che non è palestinese, che
non pretenderà mai di parlare in nome del giudaismo palestinese,
■
— cosa che lascia fare ad Agrippa, — quest’ambasceria che non
94
rappresenta e non può rappresentare nessuno Stato, si preoccupa
della situazione a Gerusalemme, rallegrandosi delle tergiversazioni
del legato Petronio, incaricato di far eseguire le decisioni imperiali
in quanto legatus Augusti, in Siria58.
Ricevuta per la seconda volta dall’imperatore, nei suoi giar
dini *, alla presenza dell’ambasceria degli alessandrini greci, la
delegazione ebrea si sente porre « la grave e importantissima que
stione: ” Perché vi astenete dalla carne di maiale? ” » 60. Essa
jisponde che « le leggi variano a seconda dei popoli » 61, applicando
cosi felicemente all’argomento in esame la riflessione sulla politica
come regno del « variopinto ». Il racconto — forse incompleto ■ —
dell’ambasciata si conclude evocando il successivo « ripensamento »
da parte di Rom a62.
Abbiamo parlato di Filone. E Giuseppe? Nella sua opera,
il rapporto con un principe protettore, rapporto che dopo il 70 vale
per il giudaismo palestinese come per quello della Diaspora, svolge
un ruolo ancora più importante che nell’opera di Filone. Nella
prefazione delle Antichità, Giuseppe non nasconde il modello cui
s’ispira: quello della Lettera d ’Aristeo, del principe curioso alla
ricerca d’un gruppo di saggi da proteggere, d’un libro da tradurre.
« Ho notato infatti che Tolomeo II, il monarca che tanto s’inte
ressò alla scienza, instancabile raccoglitore di libri, s’adoperò in
particolare perché fosse tradotto in greco il nostro codice e la costi
tuzione politica che ne deriva; d’altronde Eleazar, che quanto a
doti morali non fu secondo a nessuno dei sommi sacerdoti, non
si fece scrupolo d’accordare al re quanto sollecitava: gli avrebbe
certo opposto un rifiuto, se la nostra tradizione non ci insegnasse
che il bene non va mai tenuto segreto. Ho quindi pensato che,
quanto a me, dovevo imitare l’apertura di spirito del sommo sacer
dote e supporre che ancor oggi ci siano molte persone desiderose
d’apprendere, come il re Tolomeo. »03 Quando Giuseppe scrive
queste pagine — a Roma, alla fine del I secolo d. C. — il sommo
sacerdote non esiste più. Ma a leggere Giuseppe, a confrontarlo
con le sue fonti « canoniche » o « apocrife » (quando ci sono state
conservate) ci si accorge subito che per lui la caduta di Gerusa
lemme non rappresenta una frattura decisiva, e che già a partire
58 Ibidem, 209 sgg.
59 Ibidem, 349 sgg.
60 Ibidem, 361.
61 Ibidem, 362.
62 Ibidem, 373.
6} Antichità, I, 10-12.
95
dalla fine della cattività babilonese la storia ebraica va letta come
dialogo tra la Palestina e la Diaspora. Anzi per Giuseppe senza
la Diaspora la stessa storia della Palestina diventa incomprensi
bile64.
L ’esilio a Babilonia è stato il castigo dei delitti commessi
dagli ebrei, specialmente l’assassinio dei profeti65. Ma il soggiorno
a Babilonia, dopo l’editto di Ciro che autorizzava gli ebrei a ritor
nare in patria e a ricostruire il Tempio, è invece tutt'altra cosa:
Giuseppe scrive tranquillamente che « molti restarono a Babi
lonia, per non abbandonare le loro proprietà » 66. Nella Diaspora
si sta costituendo un potere ebraico, concetto che Giuseppe espri
me citando Strabone: « gli ebrei si sono già insediati in tutte le
città, ed è difficile trovare un luogo al mondo in cui questo popolo
non sia stato accolto e non abbia un peso politico » 6768.
A ogni tappa della ricostruzione dello Stato-Tempio, sotto la
dominazione persiana, Giuseppe sottolinea la relazione di tipo per
sonale che unisce le autorità ebraiche ai sovrani persiani. È il caso
di Zorobabele, primo governatore di Giuda, guardia del corpo di
Dario e vincitore d’un concorso d’eloquenza di tipo greco alla
corte del r e 6S. Sarebbe facile moltiplicare gli esempi di questo
genere, e analizzare in tal senso le figure di Esdra e Neemia. Giu
seppe ha trovato naturale integrare in quest’insieme un racconto
di epoca seleucide, il romanzo di Ester, in cui il destino degli
ebrei si gioca tutto in Diaspora69. L ’esempio del libro di Ester
basta a mostrare che non era un destino di tutto riposo. Ai re
protettori possono succedere re persecutori. Subito dopo la storia di
Ester, Giuseppe racconta come sotto Artaserse II il generale per
siano Bagoses contaminò il Tempio approfittando della rivalità
96
tra due fratelli appartenenti all’aristocrazia sacerdotale ebraica70.
L ’episodio, inventato, è una trasposizione della persecuzione d’An-
tioco Epifane. L ’ho ricordato solo per mettere in luce il complesso
gioco della politica in Diaspora: difficile, ma non impossibile.
Sorvoliamo un po’ di secoli. Come ha integrato il romanzo di
Ester, Giuseppe introduce nel suo racconto, riassumendola, la Let
tera d'Aristeo. Il greco Aristeo, definito « uno dei migliori amici
del re » 7172 consiglia e ottiene la liberazione degli ebrei prigionieri
o schiavi in Egitto, vale a dire la costituzione d’una Diaspora
di uomini liberi, il cui libro sacro — la legge di Mosè — tradotto
in greco, riceve la sanzione regale insieme a quella del sommo
sacerdote di Gerusalemme.
Tra questi due racconti romanzeschi, ce n’è un terzo, che
segna la grande svolta storica dell’invasione macedone. Alessandro
Magno non è accolto a Gerusalemme da un’autorità politica, un
governatore persiano, ma da un sommo sacerdote che ha appena
ottenuto la supremazia relegando suo fratello, colpevole di matri
monio misto, in esilio presso i samaritani, vicini e nemici12. Quando
il conquistatore si presenta davanti alla città santa, lo accoglie la
folla biancovestita dei preti, guidati dal sommo sacerdote Jaddous.
Tra la stupefazione generale, Alessandro si prosterna davanti al
sommo sacerdote, facendo notare che in realtà si prosterna davanti
a Dio 73. Il racconto traspone — rovesciandolo — un avvenimento
ben noto della vita d’Alessandro, che nel 327 tentò d’introdurre
la proskynesis tra greci e macedoni, di obbligarli cioè a proster
narsi davanti al re 74.
L ’episodio narrato qui non riguarda solo la Palestina. Infatti
gli ebrei chiedono al conquistatore di « permettere agli ebrei di
Babilonia di vivere secondo le proprie leggi, e Alessandro promise
di buon grado che avrebbe accontentato tale desiderio ». Anzi fa di
piu, e procura ai soldati ebrei un posto nell’esercito conquistatore:
70 Ibidem , 297-301.
71 Antichità, X II, 17.
72 Antichità , XI, 305-312.
73 Ibidem , 329-335. È importante osservare che la tradizione rabbinica
ha accolto quest’episodio romanzesco: si vedano i testi raccolti da R. Marcus nel
l’edizione della Loeb Classical Library, v. V I, pp. 512-532.
74 Su questo episodio si veda ora P. Goukowski, Essai sur les origines du
mythe d'Alexandre (336-270 av. J.-C.), I, Les origines politiques, Nancy, 1978.
Goukowsky studia gli aspetti immediati di questa vicenda, non gli effetti a lungo
termine.
97
« Se c ’erano ebrei disposti a unirsi al suo esercito, con la garanzia
di poter continuare a praticare i costumi dei padri, lui Alessandro
era pronto a prenderli con sé; e molti decisero volentieri di parte
cipare alla spedizione » 75.
Ma torniamo alla Gerusalemme del 66. Il re Agrippa II, nel
discorso in cui mette in guardia i giudei contro i rischi della ri
volta, si esprime così sul problema della Diaspora: « Questo peri
colo [ ...] non incombe soltanto su chi vive qui, ma anche su
quelli che abitano nelle altre città; infatti non c ’è popolo al
mondo presso cui non convivano alcuni dei nostri. Se voi scen
derete in guerra gli avversari li trucideranno tutti, e per la sconsi
deratezza di pochi ogni città sarà bagnata dal sangue giudaico.
Quelli che lo faranno scorrere avranno delle attenuanti; e se invece
non lo facessero, pensate quanto sarebbe empio muovere in armi
contro avversari tanto umani » 76.
Agrippa apriva così un problema molto reale, che ancor oggi
continua a porsi a quelli che si considerano o sono considerati
« ebrei »: il diritto cioè per alcuni di loro, in una particolare si
tuazione, di prendere decisioni in nome di tutti, con conseguenze
che ricadranno su tutti. Ma il vero autore del discorso, Giuseppe,
sapeva evidentemente come gli avvenimenti s’erano svolti in se
guito. Sapeva che alla frontiera della provincia di Giudea, a Da
masco, era stata parzialmente massacrata la comunità ebraica, com
posta tra l’altro, secondo Giuseppe, di quasi tutte le donne della
città 7778 (una prova di più di quanto fosse ambigua la nozione di
« popolo ebreo »). Ma sapeva anche, per fare un esempio, che
Tito aveva fama d’aver impedito la distruzione della comunità
d’Antiochia: « La loro patria, dove si dovrebbe rinviare chi è
giudeo, è ormai distrutta, e non esiste altro posto che potrebbe
accoglierli » n . Effettivamente, al di fuori della Palestina e zone
limitrofe, le conseguenze della guerra nella Diaspora furono mo
deste, come del resto era stata modesta la partecipazione della
Diaspora alla guerra79. Il tributo che tutti gli ebrei pagavano al
98
Tempio fu sostituito da una tassa annuale a profitto di Giove
Capitolino80. In Africa ci furono avvenimenti più gravi, come una
sommossa ad Alessandria, repressa sanguinosamente da Tiberio
Giulio Alessandro; comunque alla fine la comunità fu preservata
alle stesse condizioni di Antiochia81. Alcuni Sicari fuggiti dalla
Palestina cercarono di portare la guerra in Egitto e perfino in
Cirenaica82. Il tempio di Leontopoli fu distrutto 83, ma la sua in
fluenza era già piuttosto debole: Filone ad esempio non lo nomina
mai. L ’impero romano era fatto così: Tito Cesare, lo stesso che
aveva efficacemente protetto la comunità d’Antiochia minacciata,
poteva poi festeggiare i compleanni di suo fratello e di suo padre,
a Cesarea e a Berito, sacrificando qualche migliaio di prigionieri
ebrei in giochi gladiatorii o in combattimenti con le belve84; e
questo apertamente, tanto apertamente quanto invece noi, uomini
del XX secolo, ci preoccupiamo di dissimulare i nostri delitti, non
necessariamente più gravi dei suoi. Tito e Vespasiano batterono
la famosa moneta con la dicitura Judaea capta, ]udaea devicta85;
non presero invece — Dione Cassio lo attesta espressamente —
il titolo di Judaicus che sarebbe stato normale se appunto non
fosse esistita la Diaspora86. Al di là dell’« umanità » degli impe
ratori, — o meglio, al di là della struttura non ancora totalitaria
dell’impero romano, — c’era quell’elasticità, quella capacità di
resistenza che gli ebrei dovevano all’esistenza stessa della Diaspora;
un’elasticità che nel discorso di Agrippa non è avvertibile, ma di
cui Giuseppe, a modo suo, si sarebbe valso.
99
V ili. Gli stranieri in casa
100
vincia di Giudea, dove risiede una popolazione ebrea: Giuseppe
sposerà, per ordine di Vespasiano, una giovane prigioniera di
quella città 2. Agrippa I , poco prima di morire, vi fu addirittura
acclamato come un dio, in teatro3. Sotto il procuratore Felice, nel
5 9 /6 0 , vi scoppiò un violento conflitto tra gli ebrei e quelli che
Giuseppe chiama prima « abitanti siriani » poi « greci », vale a
dire i siro-fenici ellenizzati. « I primi sostenevano che la città era
loro perché fondata da un giudeo, cioè dal re Erode; gli altri,
pur ammettendo che il fondatore era stato un giudeo, ribatte
vano che si trattava di ima città greca: infatti Erode non vi
avrebbe innalzato statue e templi se l’avesse destinata ai giudei
[ ...] . Questi prevalevano per la ricchezza e la vigoria fisica, mentre
l’elemento greco aveva l’appoggio dei soldati. » 4 Nerone, incari
cato di risolvere i contrasti, diede ragione ai greci; fu questa una
delle varie circostanze che portarono allo scoppio delle ostilitàD.
Cesarea non era certo il solo esempio di Diaspora nelle vici
nanze di Gerusalemme. La Decapoli, di cui Giuseppe non parla
m olto6, era un gruppo di dieci città, che Pompeo aveva dichiarato
autonome all’epoca della spedizione del 63 a. C.7. Ne esistono varie
liste, con qualche variante; in ogni modo ne facevano parte Gadara,
Fella, Gerasa, Filadelfia sulla riva orientale del Giordano; la città
principale era Scitopoli (Beth-Shean), sulla riva occidentale8. Non
c’era una frontiera che impedisse di passare in Decapoli: è a
Gerasa che Gesù caccia gli spiriti impuri in un gregge di porci,
secondo il racconto di M arco9. Non si trattava solo di città isolate,
perché, come era naturale, alle città erano collegati i villaggi: « Le
2 Vita, 414. Per Cesarea, vedi L .I . Levine, Cesarea under Roman Rule,
Leiden, 1975. Sulla comunità ebraica vedi pp. 22 sgg. Si veda anche l’opera paral
lela di J. Ringel, cit., pp. 88-92, che del resto non intende andare oltre i dati
forniti da Giuseppe.
3 Antichità, XIX, 345. A questo episodio accenna Luca, Atti degli Appostoli,
12, 22.
4 Guerra, II, 266-270 e 284.
5 Cfr. Antichità, XX, 173-178.
6 La nomina in Guerra, II I, 346 e Vita, 341-342 e 410.
7 La documentazione si trova raccolta in H. Bietenhard. Die Dekapolis von
Rompeius bis Traian, in Zeitschrift des Deutschen Palàstina-Vereins, 79 (1963),
pp. 24-58. Cfr. E .M . Smallwood, op. cit., pp. 28-29. I testi fondamentali sono
Pìinio, Hist. Nat., V, 74, e Antichità, XIV, 75. Le monete delle città della Decapoli
si riferiscono all’epoca di Pompeo.
8 Guerra, II I, 446.
9 Marco, 5, 1-20; racconti paralleli anche in Luca, 8, 26-39 e Matteo, 8,
28-34, ma Matteo situa la scena in un’altra città della Decapoli, Gadara, patria di
Meleagro.
101
persone più in vista della Decapoli di Siria » avrebbero denunciato
Giusto di Tiberiade, lo storico rivale di Giuseppe, « perché aveva
incendiato i loro villaggi » 10. Al nord come al sud della provincia
di Giudea, a Joppe, a Gaza e in tante altre città più o meno
autonome (quasi tutte battono moneta di bronzo), una forte popo
lazione ebraica s’affianca alla popolazione greco-siriaca In quella
regione, le « predizioni » del re Agrippa si realizzarono davvero:
gli avvenimenti del 66 sfociarono direttamente in un dramma.
A Cesarea gli ebrei furono massacrati e lo stesso accadde a Scito-
poli, nonostante avessero deciso di far causa comune con la mag
gioranza non ebrea della città, come osserva Giuseppe. Lo stesso
avvenne anche a Gadara e ad Ascalon, che gli ebrei cercarono di
conquistare 12. Il caso di Gerasa fu eccezionale, e ricorda quel che
era successo a Scitopoli durante l’insurrezione dei maccabei: «Quel
li di Gerasa non commisero violenze contro i giudei che restarono
in città, e scortarono sino ai confini quanti espressero il desiderio
di emigrare » 13. Dal canto loro gli ebrei, alla notizia del massacro
di Cesarea, avvenuto — secondo Giuseppe — lo stesso giorno e la
stessa ora in cui fu massacrata la guarnigione romana di Gerusa
lemme 14, misero a ferro e fuoco tutta la zona da Gadara a Gaza,
passando per Ascalon e Sebaste 1S. Altrettanto sconvolte furono le
zone di confine dell’Idumea, terre desertiche dove popolazioni
giudaizzanti e popolazioni arabe vivevano gomito a gomito; e Tacito
osserva che Vespasiano si faceva scortare da « una forte squadra
di arabi, che odiavano gli ebrei, come accade abitualmente tra
popoli vicini » w.
E qui abbiamo ancora a che fare con la logica che divide
due popoli (dico due per semplificare). Ma che dire dei rapporti
1° Vita, 410.
11 Cfr. M. Stern in M. Avi-Yonah e Z. Baras, op. cit., pp. 173-176.
12 Guerra, II, 457-458; 460; 466-468; 477-478; II I, 9, 28. Per quanto
riguarda Ascalon c ’è un problema: secondo Guerra, I I , 460, la città non oppone
resistenza ai giudei, mentre secondo Guerra, I I , 477 massacra la popolazione
giudaica.
13 Ibidem, 480. Anche qui Giuseppe fa confusione, perché poco prima
(II, 459) ha detto che il territorio di Gerasa fu saccheggiato.
14 A eccezione del romano Metilio, che accettò di farsi ebreo (ibidem,
454).
15 Ibidem, 458-460.
16 Storie, V, 1. Giuseppe ha avuto a che fare con gli arcieri arabi durante
l’assedio di Jotapata (Guerra, I I I , 168). Sugli arabi in Idumea, cfr. Guerra, II, 76,
e Antichità, XVI, 292; XX, 5. Si ebbero anche delle alleanze matrimoniali tra la
dinastia idumea e la famiglia del re di Petra, cfr. Antichità, X V III, 109.
102
con i samaritani, illustrati da celebri episodi del Vangelo, come
la parabola del « buon samaritano », la storia del samaritano gua
rito dalla lebbra e riconoscente, l’incontro di Gesù con la sama
ritana? 1718 Sono rapporti che sostanzialmente si potrebbero riassu
mere bene nella frase della samaritana a Gesù: « I nostri padri
hanno adorato su questo monte; voi invece dite che il luogo dove
bisogna adorare è Gerusalemme » ,8. A Samaria comincia la terra
straniera, anche se normalmente si passa di li per andare da Geru
salemme in Galilea 19. Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice ai disce
poli: « Non andate tra i gentili e non entrate in città di samari
tani » 20. Ma anche a Gesù i «g iu d ei» danno del samaritano21.
I samaritani, col loro santuario sul monte Garizim, sono quin
di vicini e insieme lontani. L ’opera di Giuseppe, molto ostile agli
eredi del regno d’Israele, illustra benissimo questa tensione. Quan
do Alessandro Magno accorda agli ebrei una serie di privilegi — la
cui autenticità è estremamente dubbia — i samaritani vorrebbero
approfittarne: « Quando gli ebrei sono in cattive acque [i sama
ritani] riconoscono di non essere loro consanguinei; ma quando
vedono che agli ebrei è toccato qualche colpo di fortuna, allora
immediatamente tirano fuori comuni origini, sostenendo di essere
parenti, e facendo risalire la loro genealogia ai discedenti di Giu
seppe » 22. Dopo l’istituzione della provincia di Giudea, i samari
tani, a detta di Giuseppe, si mostrano insieme sudditi ribelli e
nemici peculiari dei giudei. Ad esempio, sotto il primo procura
tore, Coponio, designato il 6 aprile, li vediamo approfittare della
Pasqua ebraica per fare una incursione notturna a Gerusalemme,
e rendere impuro il Tempio gettando ossa umane sotto i P o rtici23.
Verso la fine del mandato di Ponzio Pilato (che fu prefetto di
Giudea dal 2 6 al 36) la Samaria è percorsa da un movimento di
tipo messianico assai simile a quelli che s’incontrano in Giudea.
Un uomo « incita la gente a salire con lui sul monte Garizim [ ... ]
promettendo di mostrare i vasi sacri che Mosè vi aveva depositato
103
e che stavano nascosti sotto terra ». Il movimento parve pericoloso
alle autorità romane, e Pilato fece accerchiare, catturare e uccidere
la maggior parte di questi « pellegrini ». Giuseppe d dice che i
samaritani protestarono, adducendo che non s’erano riuniti « per
ribellarsi ai romani, ma per sottrarsi alle vessazioni di Pilato » 24.
Negli anni cinquanta (Quadrato era proconsole di Siria), in occa
sione di un pellegrinaggio di galilei a Gerusalemme, ci fu una
specie di piccola guerra tra le due popolazioni vicine, con distru
zioni di villaggi e atti di guerriglia. Il proconsole romano fece
procedere a un certo numero di esecuzioni e spedi a Roma i rap
presentanti delle due parti: secondo Giuseppe, Claudio dette
ragione ai giudei25.
Durante il secondo anno di guerra, nel luglio 67, i samari
tani, che a quanto si sa non s’erano mossi, furono accerchiati sulla
loro montagna e massacrati dalle truppe del legato romano Ce
nale 26.
Ma gli stranieri non si trovavano già nel cuore del paese,
a Gerusalemme? La risposta non è semplice. Sul piano istituzio
nale la capitale religiosa, la più grande città della Giudea, è una
polis greca solo dal punto di vista semplificatorio della cancelleria
romana, dell’imperatore Claudio per esempio, che indirizza una
lettera ufficiale « ai magistrati [ archontes] , al consiglio [houle]
al popolo [dem os] di Gerusalemme », (ma anche a tutta la nazione
— ethnos — ebraica)27. Tcherikover ha potuto dimostrare28 senza
difficoltà che questa terminologia greca — di cui anche Giuseppe
usa ed abusa — era del tutto inadeguata alla metropoli ebrea.
A Gerusalemme non c ’era assemblea popolare, e il « consiglio »
non era altro che il Sanhedritr. un nome che a sua volta è solo un
adattamento del greco synedrion. Il termine appare per la prima
volta quando il generale romano Gabinio, dopo la visita di Pompeo
alla città, divide tutta la Giudea in cinque synedria o synodoi29.
Probabilmente Gabinio intendeva indebolire l’autorità politica de
gli organismi religiosi di Gerusalemme, tra i quali figurava appunto
quello che la tradizione posteriore chiama Sanhedrin. La tradizione
24 Ibidem , 85-89.
25 Guerra, II. 232-246; Antichità, XX, 118-136.
26 Guerra, II I, 307-315.
27 Antichità. XX, 11.
28 V. Tcherikover, Was Jerusalem a « polis »?, in Israel Exploration Journal,
1964, pp. 61-78.
29 Antichità, XVI, 91; Guerra, I, 170.
104
è poco chiara e infatti i moderni non riescono a decidersi tra la
concezione del Sanhedrin come organismo regolare, avente in par
ticolare funzioni giudiziarie ma anche quelle di consiglio munici
pale, e la concezione del Sanhedrin come consiglio dei saggi della
setta farisaica 30.
Tuttavia la risposta di Tcherikover va sfumata, ricordando che
in epoca romana le istituzioni della città greca s’erano profonda
mente modificate rispetto a quelle della città classica e anche elle
nistica, per cui importanti poteri venivano conferiti a notabili che
diventavano responsabili (in particolare della percezione dei tributi)
nei confronti di Roma. Un esempio notevole è dato dal gruppo
dei « Primi dieci » (Deka protoì), di cui Giuseppe ci rivela resi
stenza a Gerusalemme e a Tiberiade, ma che era presente anche
a Gerasa, nella Decapoli, ed era inoltre un’istituzione piuttosto
diffusa nell’Oriente greco31.
Detto questo, è vero che gli organi pubblici di Gerusalemme
non emanavano quei magnifici decreti in greco che erano l’orgoglio
di tante città dell’Oriente, ancora in epoca romana (e che vanno
presi molto sul serio come fenomeno culturale); ma bisogna rico
noscere che dai tempi d’Erode il paesaggio urbano s’era radical
mente modificato, ellenizzandosi. Certo, da questo punto di vista
la città, essendo nello stesso tempo piazzaforte, sede del Tempio
e mercato, era profondamente eterogenea. La città alta era ampia
mente ellenizzata, e ciò è vero non soltanto per le ricche abitazioni
costruite intorno a un peristilio, ma anche per certi elementi archi-
tettonici del Tempio: i portici, la porta di Nicànore, la stessa
facciata. Invece altri elementi del paesaggio urbano, specie la città
bassa, compreso il palazzo della famiglia reale d’Adiabene, erano
rimasti schiettamente orientali. Grazie al ponte che univa la « mon
tagna del Tempio » alla città alta, il personale del Tempio restava
paradossalmente (ma era più che naturale) nel settore ellenizzato.
105
A Gerusalemme si trovano tutti i classici edifici dell’Oriente greco:
bouleuterion, agorà, teatro, ippodromo, e alcuni sono costruiti
proprio nella città bassa. La piazza principale della città alta era
nota sotto il nome greco di « Xisto », che di solito serve a desi
gnare il ginnasio; è qui che Giuseppe fa pronunciare ad Agrippa II
il suo grande discorso d’ammonizione. La stessa arte funeraria
(tombe monumentali e sarcofaghi) è influenzata dai modelli greci,
come chiunque può constatare oggi osservando, ad esempio, la
« Tomba d’Assalonne » ai piedi del colle degli O livi32.
In una cisterna della collina a sud-est di Gerusalemme, l’ar
cheologo R. Weill ha scoperto nel 1914 un blocco di calcare
portante un’iscrizione greca del I secolo, che tradotta suona:
« Teodoto, figlio di Vetteno, sacerdote e capo della sinagoga [ archi-
synagogos] , figlio e nipote di capi della sinagoga, ha fatto costruire
la sinagoga per la lettura della Legge e l’insegnamento dei precetti,
e inoltre la foresteria, le stanze e gli impianti idraulici per allog
giare i forestieri che ne avessero bisogno. Fondatori della sinagoga
furono i suoi padri, gli Anziani, e Simonide » 33. Dunque la Dia
spora ellenizzata era presente a Gerusalemme, come del resto già
si sapeva da un passo dagli Atti degli Apostoli in cui si menziona
una « sinagoga detta ” dei liberti ” », che radunava ebrei di Cirene,
di Alessandria, della Cilicia e dell’A sia34 (varie volte si è cercato
di identificare questa sinagoga con quella di Teodoto, il cui padre
portava un nome latino e poteva essere un liberto). Stefano, disce
polo di Gesù, discuteva appunto con i membri della « sinagoga
dei liberti », e in seguito a ciò fu portato dinanzi al Sanhedrin, dove
pronunciò il grande discorso che gli attribuisce Luca, e che gli fece
subire, per primo, il m artirio35. Ma questo passo degli Atti degli
Apostoli è preceduto dal racconto di un contrasto sorto, all’intemo
106
della comunità giudeo-cristiana, tra « ellenisti » ed « ebrei »: « gli
ellenisti presero a mormorare contro gli ebrei, perché nell’assi
stenza quotidiana venivano trascurate le loro vedove » 36. Secondo
l’interpretazione più corrente, il conflitto era scoppiato tra quelli
che leggevano la Bibbia in ebraico e parlavano aramaico, e quelli
che invece la'leggevano in greco. I « Dodici », tutti « ebrei », con
vocano la massa (plethos) dei discepoli e consigliano di scegliere
sette « servitori » (i diaconi), di rango per definizione inferiore
ai Dodici. Tutti questi sono « ellenisti », e uno di loro, Nicola,
è un proselito d’Àntiochia3738. Nella giovane comunità cristiana gli
« ebrei » avevano dunque la precedenza sugli « ellenisti ». Il feno
meno dell’ellenizzazione non interessava soltanto i principi e i
ricchi.
Tutto questo poikilon di cui ci siamo occupati è un fatto
che riguarda solo le coste e Gerusalemme, che sarebbe allora una
metropoli corrotta dalla presenza di stranieri, gli ellenizzati cioè
e i cittadini romani? Come stanno le cose in Galilea, regione ebrea
fino all’osso, ma anche regione a parte, e anzi un po’ sospetta?
« Che può venire di buono da Nazareth? » dice Natamele a Fi
lippo, nel Vangelo di Giovanni3S. Si è persino cercato di spiegare
gli aspetti innovatori dell’insegnamento di Gesù con le caratteri
stiche particolari di quella regione, immune dalle principali cor
renti del giudaismo farisaico39.
Questa tradizione è in gran parte m itica40. Giuseppe, in una
celebre descrizione, contrappone fisicamente l’alta Galilea, sulle
pendici del Libano, alla bassa Galilea, e ne fa un tipico modello
di paese agricolo abitato da contadini adatti a resistere alle inva
sioni41. Ma il racconto particolarmente dettagliato che Giuseppe
fa nell 'Autobiografia, polemizzando con Giusto di Tiberiade, il
racconto quindi più suo, rivela in Galilea contrasti profondi. Ad
esempio la città di Seffori, sede di una guarnigione romana, mani
festò sentimenti proromani e all’arrivo di Vespasiano s’allineò con
107
questi42. L ’archeologia dimostra che la bassa Galilea, dove Gesù
insegnò, era molto più profondamente ellenizzata di quanto si cre
deva: al punto che appoggiandosi sulla testimonianza delle iscri
zioni, si è potuto dire che in questa regione gli ebrei erano per la
maggior parte bilingui43.
Non era quindi la lingua il criterio che permetteva di distin
guere chi era ebreo da chi non lo era. La lingua materna di molti
ebrei era il greco, e naturalmente l’aramaico era parlato molto al
di là delle frontiere della Giudea. Un esempio lampante di questo
fatto ce lo dà Giuseppe quando racconta che durante il fallito as
salto contro Gamala, una borgata del Golan, nell’ottobre 6 7 , un
centurione romano di nome Gallo, che però era « siriano » come
i suoi compagni, riuscì a introdursi in casa di un ebreo, ascoltare
i progetti di guerra che gli abitanti discutevano, e tornarsene sano
e salvo alle linee romane44.
I criteri su cui ho messo l ’accento nel cercare di caratterizzare
tutte queste differenze nell’ambito palestinese e giudaico possono
naturalmente essere contestati. Comunque si tenga presente che fin
qui ho volutamente evitato di parlare tanto di « sètte », quanto di
antagonismi sociali. Vedremo ora che anche l’esame di questi mo
vimenti ideologici e rivoluzionari farà rispuntare il problema da cui
eravamo partiti: che cosa è, nel I secolo, uno Stato ebraico?
108
IX . V arianti d ell’Apocalisse
1 Guerra, II, 567. Per le scoperte di Masada, cfr. Y. Yadin, Masada..., cit.,
pp. 172-175, e G . Vermes, The Dead Sea Scrolls. Qumran in Perspective, London,
1977, pp. 19-20.
109
tici » 2, e inoltre alcuni frammenti del libro dei Giubilei, del « Libro
di Enoch » e dei Testamenti dei dodici patriarchi, senza parlare
del « Documento di Damasco » 3, È altrettanto certo che alcuni di
questi testi, come il XV II Salmo di Salomone4 del I secolo a. C.,
vanno annoverati direttamente tra le reazioni nazionalistiche alla
conquista romana, e possono quindi figurare nella preistoria del
movimento zelota; vedremo che su questa via ci si può spingere
anche molto più in là.
Ciò non toglie che mettere in rapporto tra loro le diverse
categorie di documenti è difficile, com’è difficile trovare la connes
sione tra una tragedia di Racine e gli Atti del parlamento di Parigi,
tanto per fare un esempio. Per comprendere i movimenti messia
nici e apocalittici è necessario un arduo sforzo di adattamento.
Non c ’è bisogno di essere un grande logico per intuire che
invece il mondo accademico, non contento di gettare dei ponti tra
i vari ordini di dati, vorrebbe addirittura procedere a riduzioni
radicali. La più nota di queste semplificazioni è stata l’assimila
zione dell’essenismo al cristianesimo. È nota la frase di Renan:
« Il cristianesimo è un essenismo che è riuscito ad affermarsi pie
namente » 5. La scoperta dei documenti del Qumran ha conferito
all’ipotesi di Renan una portata ancora maggiore, finché non è
scoppiata la reazione, forse un po’ eccessiva6.
Ma visto che gli esseni non erano cristiani, non potevano
almeno essere degli « zeloti » (espressione del resto non ben defi
nita)? 7 Tale è stata la tesi sostenuta da C. Roth in uno di quegli
articoli sensazionali che escono regolarmente attorno alle questioni
di cui ci stiamo occupando 8. Di colpo i testi degli esseni perde
110
vano ogni spessore temporale, datavano tutti della seconda metà
del I secolo. Il « Dottore di giustizia » veniva assimilato a Me-
nahem, figlio di Giuda il Galileo, assassinato a Gerusalemme nel
66 dopo aver indossato gli abiti regali9, oppure al suo parente
Eleazar figlio di Giairo, l’eroe di Masada. Quanto al « Maestro
di menzogna », al « sacerdote empio », era senz’altro uno degli
ultimi resistenti di Gerusalemme, Simone figlio di Ghiora. Al che
fu immediatamente obiettato 10 che il conflitto tra il « Maestro di
giustizia » e il suo nemico risaliva all’epoca seleucide, e che era
una semplificazione abusiva identificare i Kittìm di cui parlano
i testi del Qumran con i soli romani, come faceva R o th 11 (e molti
altri con lui). Ma forse l’assimilazione più strana è stata quella tra
i ribelli contro Roma e i primi cristiani12. Strana, e tuttavia meno
sorprendente di quanto sembra. Molti moderni nutrono infatti
pari rispetto per il fondatore del cristianesimo e per i combattenti
di Gerusalemme e Masada. D ’altronde Gesù, crocifisso dai romani
come lo furono innumerevoli zeloti, era circondato da uomini che
gli chiedevano se fosse venuto « a restaurare la regalità in Israe
le » B, e da discepoli uno dei quali si chiamava Simone lo Zelota 14,
ed è indiscutibile che una parte dei suoi contemporanei abbia visto
in lui un candidato alla « regalità » di cui parla Giuseppe. Per
andare al di là di questi fatti bisognava prima demolire un’esplicita
attestazione di uno storico serio come Eusebio, il quale afferma che
durante la guerra i giudeo-cristiani avevano lasciato la « città regale
111
dei giudei e la Giudea tutta », e s’erano rifugiati a Pella, nella
Decapoli15, sull’altra riva del Giordano. E soprattutto, dovendo
ammettere che il Vangelo di Marco è il più antico di tutti, forse il
solo anteriore alla caduta di Gerusalemme, bisognava dimostrare
che questo scritto avesse un carattere del tutto peculiare, fosse
cioè un’apologià del Cristo diretta ai cristiano-romani. Come spie
gare, se no, il famoso episodio del tributo dovuto a Cesare? 16
Una volta effettuate queste dimostrazioni, tutto diventava
possibile, anche un Gesù re di questo mondo, restauratore del
l’indipendenza d’Israele; tutto, si direbbe, tranne che porsi una
questione di metodo: in che modo Gesù sia storicamente cono
scibile, una volta distrutta la testimonianza dei Vangeli17.
La tecnica, purtroppo assai diffusa, di appiattire i testi cancel
lando le contraddizioni più clamorose, non adopera soltanto lo
strumento della reductio ad unum, ma s’afferma anche nell’imporre
ai testi una coerenza che si addice ai problemi che ci poniamo noi,
ma non necessariamente ai problemi che si ponevano gli autori, e
soprattutto i lettori, di quegli scritti.
Chi era il « Maestro » o « Dottore di giustizia » ? Chi era
il suo avversario, il « Sacerdote empio »? Le risposte variano e
si estendono lungo un arco di tempo che va dal II sec. a. C. al
I sec. d. C. (se si trascurano le proposte più aberranti). Tra i
« candidati » abbiamo, da un lato: Onia I I I , Giuda l’Esseno che
profetizzò la morte d ’Antigono figlio d’Ircano I l8*, Onia il Giusto,
lapidato nel 65 a. C., durante la guerra civile tra Ircano II e
Aristobulo w, e addirittura, come si è detto, Menehem figlio di
Giuda il Galileo. Di fronte a loro, per così dire, abbiamo i possi
bili « sacerdoti empi »: il sommo sacerdote Menelao, oppure uno
112
dei fratelli Maccabei, Gionata o Simone; oppure Alessandro Janneo
— una candidatura molto seria — o Ircano II, o addirittura
Simone figlio di Ghiora20. Il non-specialista che si avventura in
questo tipo di ricerca piomba talvolta nell’angoscia. Come giudi
care, ad esempio, un’ipotesi di cui ci viene detto che presenta
numerosi vantaggi, ma « ha anche l’inconveniente di trascurare il
tempo dei verbi, la testimonianza di Giuseppe Flavio e quella degli
archeologi » ? 21 Dando per acquisito quanto ci dice Giuseppe, che
attesta l’esistenza di tre « sètte » sotto Gionata (160-143): i farisei,
i sadducei e gli esseni22; e attenendoci inoltre alla testimonianza
degli archeologi, che datano i primi insediamenti degli esseni al
Qumran verso la fine dell’epoca ellenistica23, dobbiamo fare i conti
con almeno due secoli di storia degli esseni: abbastanza perché
il « Maestro di giustizia » e il « Sacerdote empio », personaggi che
non vengono mai chiamati per nome — e non a caso — si trasfor
mino in entità mitiche, il cui antagonismo prende dimensioni quasi
cosmiche.
Ma forse il trattamento piu strano è quello cui è stata sotto
posta la Regola della guerra della setta di Qumran. « Per quanto
grande sia la parte dovuta alle reminiscenze bibliche, e anche alla
pura immaginazione — scrive Dupont-Sommer — nelle sue grandi
linee quest’opera riflette in modo impressionante l’arte della guerra
delle legioni romane. » 24 Uno dei principali argomenti addotti a
sostegno di questa tesi è che la fanteria si schiera su sette linee
e manovra in modo piu sciolto che la falange macedone25. Ma non
sono sette anche i giorni della settimana, e sette gli angeli che nel-
VApocalisse di Giovanni, per esempio, portano sette flagelli e rice
vono sette coppe? 26 E poi, come manovrano le truppe cosi disposte?
113
« La prima squadra lancerà verso le linee nemiche sette giavellotti
da guerra; sulla punta del primo giavellotto starà scritto: ” Bagliori
di Lancia dalla potenza di Dio sul secondo dardo starà scritto:
” Giavellotti di Sangue per Abbattere gli Uccisi dalla Collera di
Dio ” ; sul terzo giavellotto starà scritto: ” Lama di Spada, Divora
trice di Iniqui Uccisi dal Giudizio di Dio ” . Tutti tireranno per
sette volte e ritorneranno ai loro posti. » 2728Certo, l’immaginazione
non è mai veramente libera, e quindi gli scontri della « fine dei
tempi » vengono combattuti con armi diverse a seconda se si scrive
nel I secolo o ai giorni nostri; ma da qui a sentirsi autorizzati a
scegliere tra allusione ai greci e allusione ai romani, ci corre. Come
è stato scritto proprio a proposito di questo testo, « il concetto
israelita di guerra santa va visto su uno sfondo interamente miti
co » 2S. Il nemico di Israele (i Kittim) rappresenta la totalità delle
forze avverse, i « Figli delle tenebre », ed è quindi rischioso iden
tificarli con i soli romani o i soli greci.
Come va dunque letta e interpretata tutta l’enorme letteratura
ebraica d’epoca ellenistica e romana, che comincia, se si vuole, con
Daniele, e che si può far terminare, in modo puramente conven
zionale e simbolico, con l’Apocalisse siriaca di Baruch, dopo la
distruzione del Tempio (ma il movimento continuerà a vivere,
anche se resterà a lungo sotterraneo) ? E in particolare come collo
care, nel quadro di questa letteratura, gli scritti apocalittici veri
e propri? 29
.114
La letteratura ebraica dell’epoca in questione è una letteratura
scritta, una letteratura che si vuole scritta e che è opera di « scri
venti » di professione: gli scribi. Lo si vede nella Sapienza di Gesù
ben Sirach, manuale del perfetto scriba; lo si vede, a dire il vero,
dovunque. Questo sviluppo della scrittura è frutto della crescita
smisurata d’una categoria sociale, appunto quella degli scribi, sen
za che si possa distinguere chiaramente quanto questa evoluzione
sia dovuta agli scribi del Tempio o di altre categorie. Tutti gli scribi,
educati in scuole speciali, che hanno un notevole sviluppo in epoca
ellenistica30, formano una vera categoria sociale31, e anche, al
limite, un « apparato ideologico », per quanto nelle loro opere non
sia sempre facile distinguere ciò che è « ufficiale » da ciò che non
lo è. Di tutti gli scritti « apocalittici », sappiamo che solo il libro
di Daniele verrà integrato, alla fine del I secolo d. C., nella Bibbia
ebraica32. È quasi impossibile circoscrivere il ruolo rispettivo dei
cohanim, dei sacerdoti e degli scribi « laici », di chi è collegato al
Tempio o alla sinagoga, e di chi invece è indipendente. L ’essenziale
è la funzione, relativamente nuova, che assume la scrittura: è stato
detto che in quest’epoca « scrivere è pseudonimo di vivere » 33.
Essa esprime insomma la visione dei vinti, per usare un’espres
sione che è stata coniata per la colonizzazione degli indiani d’Ame
rica 34. Il suo caso non è affatto unico, e ad esempio nell’antico
Egitto si riscontrano fenomeni paralleli35. Anche la pratica dei
115
popoli berberi nell’Africa del nord è andata nello stesso senso 3o.
In epoca recente numerosi volumi sono stati dedicati allo studio
dei « messianismi » dei paesi del Terzo mondo, vittime dell’aggres
sione imperialista occidentale. È un peccato che invece si sia assai
poco studiato da questo punto di vista, cioè come risposta, il mes
sianismo ebraico che pure è stato l’archetipo dei movimenti mes
sianici moderni3637. Eppure l’apocalittica ebraica è estremamente
elaborata, data appunto Timportanza degli scribi.
Questa letteratura « di risposta » si appoggia su un’antica tra
dizione. In realtà, partire dal grande Ritorno all’epoca dei persiani,
tutta la letteratura ebraica si definisce in rapporto alla Legge antica,
ai Testi antichi, cosi come lo Stato ebraico si definisce come una
ripetizione dell’epoca del primo Tempio; avventura imprevedibil
mente destinata a rinnovarsi ai giorni nostri. Di qui l’importanza
che negli scritti ebraici hanno quelli « pseudoepigrafici », cioè i
testi attribuiti a un personaggio del primo Tempio: cosi {'Eccle
siaste « firmato » da Salomone, i Salmi dello stesso Salomone,
l’Apocalisse di Baruch compagno di Geremia, i Testamenti dei
Dodici patriarchi, e tanti altri libri sotto i cui autori si dissimulano
scrittori contemporanei di Antioco IV, di Erode o di Tito. Giu
seppe, leggendo il libro di Daniele, che naturalmente egli fa risa
lire a prima del regno di Ciro, ha descritto abbastanza bene ciò
che separa uno scrittore apocalittico da un profeta: « Non si limi
tava a predire il futuro, come gli altri profeti, ma indicava anche
il momento in cui la profezia si sarebbe avverata; e mentre gli altri
erano profeti di sciagura — e perciò malvisti sia dai re che dal
popolo — Daniele annunciò invece ogni sorta di beni; queste
predizioni di buon augurio gli valsero la benevolenza di tutti, e
quando poi si realizzarono, Daniele si conquistò presso le folle una
fama di vero profeta e fu tenuto in conto di uomo di Dio. Dagli
scritti che ha lasciato risulta chiaramente la precisione e l’esattezza
della sua profezia » 38. L ’« esattezza » degli scritti apocalittici si
116
disegna attorno a una concezione bipolare del Tempo e del Mondo.
C’è un prima e c ’è un dopo e tra le due epoche sta un mediatore
che nel libro di Daniele si chiama « il figlio d'uomo », e che più
tardi sarà identificato col Messia:
117
tera alata e la bestia dai denti di ferro 41, simboli dei « quattro re,
che sorgeranno sulla terra » 42, come il bene è opposto al male
e l’avvenire al presente: « Il regno poi e il potere e la grandezza
dei regni sotto tutto il cielo sarà dato al popolo dei santi dell’Altis
simo: il cui regno sarà un regno eterno e tutti i potentati a lui
serviranno e saranno soggetti » 43. All’umiliazione d’Israele seguirà
il suo dominio sulle nazioni, un tema che si ritrova in quasi tutti
i testi dell’apocalittica ebraica 44. Un testo come il X V II Salmo di
Salomone, il primo che parli del futuro re con l’appellativo di
« figlio di David », si rivolge a Dio perché « purifichi » Gerusa
lemme dalle nazioni, e dà per certo che ormai il re non accoglie
più il meteco né il g o i45. Ma questo re non è un guerriero: « Non
riporrà infatti le sue speranze in cavallo, cavaliere e arco » 46.
Generalmente questi testi (successivi alla presa di Gerusalemme da
parte di Pompeo) vengono considerati farisaici47, ed effettivamente
esprimono a meraviglia l’ideale farisaico della separazione, che
trovava attuazione pratica nel codice in vigore in territorio ebrai
c o 48. Si potrebbero moltiplicare gli esempi di questo tipo, magari
risalendo a Zaccaria, al cui testo sono stati aggiunti vari frammenti
d’epoca ellenistica. Qui la profezia pacifica affianca quella guer
riera:
41 Daniele, 7, 3-7.
42 Daniele, 7, 17.
43 Daniele, 7, 27.
44 Cfr. D. S. Russell, op. cit., pp. 285-303.
45 Salmi di Salomone, 17, 25-31. Quest’ultimo verso parla precisamente del
paroikos, « colui che abita accanto » — termine classico del diritto ellenistico —
e AtWallogenes.
46 Ibidem, 37.
47 A. Paul, Intertestament, cit., p. 63, che riprende l’opinione piu corrente.
48 I farisei sono i Perushim, i « Separati ». Sul codice farisaico della sepa
razione, cfr. J. Jeremias, op. cit., pp. 358 sgg.
118
Ché io farò di Giuda la mia arma,
di arco mi servirà Efraim
e solleverà i tuoi figli, o Sion
contro i figli di Javan,
farò di te una spada da eroe! 49
119
Invece gli ebrei — sommi sacerdoti e gente del popolo — usano,
sempre per derisione, l’espressione corretta dal loro punto di vista:
re d’Israele, Cristo 5\ In questi tre racconti, lo status politico di
Gesù è quindi duplice: per i romani è un « candidato » al trono
che era stato di E ro d e5354, a una funzione cioè con cui hanno fami
liarità da molti secoli. Per i dirigenti ebrei invece è il negativo
del Figlio di David, dell’Unto del Signore annunciato dai profeti.
Così la classica opposizione ebrei/non-ebrei è mantenuta nella strut
tura stessa del racconto, con gli stessi valori.
Nel Vangelo secondo Giovanni le cose cambiano compieta-
mente: gli ebrei non sono più i membri di una comunità nazionale
o religiosa, ma i nemici di Gesù o del narratore. Rileggiamo il
testo a partire dal momento in cui Gesù è condotto davanti a
P ilato55. Là dove i sinottici parlavano di « re dei giudei » ne parla
anche Giovanni, mettendo quest’espressione in bocca a Pilato e ai
soldati romani. I «sommi sacerdoti» invece si limitano a dire «Non
abbiamo altro re che Cesare » o a protestare contro il cartello
trilingue « Gesù Nazareno, re dei giudei » 56. Ma Gesù, nonostante
l’accusa dei sacerdoti: « quest’uomo ha detto: Io sono il re dei
giudei » S758, davanti a Pilato non rivendica questo titolo né quello
di « re d’Israele » 5S, e nessuno lo chiama così, neppure per deri
derlo. « I giudei » dicono che deve morire perché « s’è fatto figlio
di Dio » 59, e Gesù stesso rivendica la sua qualità di re escluden
done qualsiasi determinazione: « Tu l’hai detto, sono re » 60. Poco
prima aveva affermato non « Il mio regno non è di questo mondo »
— come generalmente si traduce il testo greco — ma « «' H paciXsia
•f) èfAY) oùx ecmv fcx tqu xéafxou toótou» » cioè: « La mia qualità di
re, ciò per cui sono re, non proviene da questo mondo »; in altri
53 Matteo, 27, 11, 29; 28, 42; Marco, 15, 2, 9, 12, 18, 31; Luca, 23, 2, 3,
36, 37, 39. Quale che sia l’autorità ebraica dinanzi a cui Gesù è condotto (Caifa
e poi il Sanhedrin secondo Matteo e Marco, il Sanhedrin e poi Erode Antipa se
condo Luca), l ’espressione « re dei giudei » non viene mai usata, né da Gesù né dai
suoi avversari.
54 Erode non è re dei giudei nella sua titolatura ufficiale, ma lo è nella
tradizione letteraria: cfr. per esempio, Antichità, XV, 373. Anche dopo la caduta
di Gerusalemme, i romani faranno cercare e giustiziare due «discendenti di
D avid»: cfr. Eusebio (Storia ecclesiastica, I I I , 12) che cita Egesippo.
55 Giovanni, 18, 28 sgg.
56 Giovanni, 19, 15, 21.
57 Ibidem.
58 Tuttavia il titolo « re d’Israele » è usato da Giovanni a proposito del
l’ingresso a Gerusalemme, 12, 13.
59 Giovanni, 19, 7.
60 Giovanni, 18, 37.
120
termini, « Non sono gli uomini che mi hanno fatto re » 61. È aperta
ormai la via per ima concezione cosmica della regalità di Gesù,
di cui in larga misura hanno fatto le spese gli ebrei storici: la
concezione che si esprime neU*Apocalisse di Giovanni, in cui la
città santa, Gerusalemme, viene dal cielo, da D io 62.
Tra i sinottici e Giovanni il sistema delle opposizioni s’è
quindi trasformato. Nel primo gruppo di scritti la regalità secondo
i gentili si oppone alla regalità secondo i profeti ebrei, la regalità
d ’Israele; nel secondo, la regalità secondo le Genti, ivi compresi
gli ebrei, — anzi si potrebbe quasi dire: innanzitutto secondo gli
ebrei, — s’oppone alla regalità messianica universale.
Tuttavia presso gli ebrei c’è stato un terzo tipo di rappresen
tazione apocalittica, diverso sia dalla tradizione farisaica che dal
l’innovazione giovannea, che forse però può contribuire a spiegare
quest’ultima.
Giuseppe ci dice che gli esseni hanno varie credenze in comune
coi greci, innanzitutto quella nell’Inferno e nel Paradiso63. Tale
« ellenismo » della setta ha fatto versare parecchio inchiostro 64, e
non è affatto immaginario nella misura in cui l’apocalittica degli
esseni, come del resto qualunque apocalittica del Vicino Oriente,
è una risposta all’invasione ellenica, ima risposta che necessaria
mente è segnata dall’oggetto contro cui reagisce65. Comunque un
documento come la Regola della guerra rientra a perfezione nel
l’apocalittica ebraica. È il quadro dettagliato, minuzioso, impla
cabile, della guerra che Israele combatterà alla fine dei Tempi,
contro tutte le nazioni, una dopo l’altra. Tutti i particolari sono
previsti, compreso il discorso che sarà tenuto dal sommo sacer
121
d o te65. Una di tali battaglie è minutamente descritta: quella con
tro « il re dei Kittim » e « tutto l’esercito di Belial schierato con
lui per il giorno della vendetta che compirà la Spada di Dio » 667.
Definito così il nemico pagano, resta da vedere chi rappresenta
Israele.
Ora su questo punto i documenti del Qumran non lasciano
adito a dubbi: Israele è la comunità di Qumran e lei sola, guidata
dai sacerdoti figli d’Aronne; Israele, o piuttosto «il resto d’Israele»,
al limite « dodici uomini e tre sacerdoti, perfettamente istruiti in
tutte le verità rivelate, a partire da tutta la legge » 68. E certo, in
futuro il piccolo Israele s’identificherà col grande, quando tutti
raggiungeranno la comunità, « la sorgente di luce diverrà una fon
tana eterna, dal flusso inalterabile [ ...] , un fuoco che brucerà tutti
gli uomini della colpa, fino alla loro consumazione » 69. Ma in attesa
di questa vittoria, Gerusalemme è nelle mani del nemico, un
nemico che non è solo greco o romano: il dibattito tra il « Dottore
di giustizia » e il « Sacerdote empio », che scandisce i testi di
Qumran, è un dibattito all’interno del mondo ebraico. Gli esseni
rivendicano il loro posto nel Tempio, un Tempio che descrivono
a modo loro, non come effettivamente è dopo la ricostruzione di
Erode, ma come dovrà essere quando gli esseni avranno riassorbito
tutto Israele, con dodici porte simboliche per le dodici tribù di
Israele finalmente ritrovate70; ma il Tempio reale, quello d’Erode,
è a Gerusalemme, e « la santa Gerusalemme, profanata da un
sacerdozio empio, era ormai città di menzogna e d’illusione, di colpa
e di delitto71. Quindi non dobbiamo meravigliarci se, quando il
profeta Nahum denuncia Ninive « città sanguinaria, tutta inganno,
piena di strage, mai stanca di rapinare » 72, l’autore del commento
122
(péshèr) al profeta Nahum identifica Ninive sia con Samaria che
con Gerusalemme, così come la dominazione assira viene assimilata
a quella greca di un Demetrio (probabilmente Demetrio I) e nello
stesso tempo a quella dei f a r i s e i L a Regola della guerra non
descriverà, al limite, una guerra civile?
123
X. I re: il caldo e il freddo
124
secutori perversi, come Erode Antipa, che costruisce Tiberiade sui
sepolcri e fa morire Giovanni Battista 4. Ad Archelao, figlio prefe
rito di Erode, l’esseno Simone predice non il regno, che volgeva
ormai al termine, ma la sua imminente rovina (sarebbe stato tratto
in giudizio davanti a Cesare)5. Paradossalmente, il solo idumeo
intorno al cui nome si sia formata un po’ d’agitazione messianica
(non però in Palestina) è un morto, Alessandro figlio d’Erode: un
falso Alessandro farà la sua comparsa nell’Oriente greco e arriverà
fino a Roma, dove sarà smascherato6.
A cominciare dal I secolo a. C., alcuni ebrei, vista l’evolu
zione della monarchia, ne avevano tratto l’idea che « la nazione non
doveva essere governata da un re, ma presieduta da un sommo
sacerdote » 7: concezione che poi fu attuata da Pompeo. A questa
epoca non può piu trattarsi d’un ritorno allo Stato-Tempio, che
non ha più senso dopo l’esperienza dello Stato di tipo greco e dopo
l’immenso sviluppo della Diaspora. Al limite, rinunciare al re è
quasi un rinunciare allo Stato. Questo principio antimonarchico
avrebbe potuto fondarsi sul famoso avvertimento di Samuele agli
israeliti: « [I l re] prenderà i vostri figli e li metterà al servizio
dei suoi cocchi e dei suoi cavalli, a correre innanzi al suo carro;
[...] piglierà le vostre figlie come profumiere, cuoche, fomaie. Dei
vostri campi, dei vigneti, degli ulivi, piglierà i migliori per darli ai
propri servitori [ . . . ] . Toglierà a voi i servi e le serve e i migliori
buoi e gli asini per impiegarli al suo servizio » 8. Ma questo possi
bile sentimento antimonarchico conta infinitamente meno della pro
fonda agitazione popolare che compare all’indomani della morte
d’Erode e che Giuseppe descrive nei termini seguenti: « La Giudea
era piena di briganti, e appena un ribelle riusciva a raccòglierne
altri attorno a sé, si autoproclamava re e diventava il flagello della
propria comunità; raramente, infatti, attaccavano i romani o cau
savano loro gravi danni, mentre infierivano sui propri compatrio
ti » 9. « Re effimeri », anzi Mosè redivivi guidavano gli ebrei verso
il « deserto » che per Giovanni Battista come per gli esseni era
il luogo della salvezza. Tale fu il « mago » di nome Teuda: « Sotto
il procuratore Fado, persuase una quantità di gente a prendere la
125
propria roba e a seguirlo fino al Giordano; diceva infatti di essere
profeta, e che a suo comando le acque del fiume si sarebbero aperte
e li avrebbero fatti passare senza difficoltà ». L ’evangelista Luca,
più prudente, non nomina questo personaggio direttamente, ma lo
fa menzionare dal celebre fariseo Gamaliele, limitandosi a dire che
« con lui si raccolsero circa quattrocento uomini » 1012.
È possibile ricostruire una tipologia più o meno corretta di
questi movimenti messianici, di questa regalità che si potrebbe
dire « calda »? Fondamentalmente si tratta di movimenti conta
dini; a volte gli stessi animatori erano gente di campagna come
il pastore Atrongeo che « assolutamente sconosciuto a tutti, valen
dosi solo dell’alta statura e della forza fisica che aveva, osò aspi
rare al regno, per il piacere di poter imperversare ancora di più » 11.
Lui e i suoi fratelli uccisero parecchi romani, compreso « un di
staccamento in formazione serrata che scortava grano e armi desti
nati alla legione » 1Z. Simone invece era uno schiavo della casa reale,
che fece abbastanza rumore da arrivare alle orecchie di Tacito 1314:
nella Perea del nord-est « s’incoronò da sé, e, facendo scorrerie
alla testa dei briganti che aveva raccolti, appiccò il fuoco alla reggia
di Gerico e a molti altri ricchi palazzi » M. Qui l’accento antiurbano
è ancora molto netto. Il caso più singolare fu forse quello di un
certo « egiziano » che verso il 58 « abbindolò » trentamila persone
secondo Giuseppe, quattromila secondo gli Atti degli Apostoli
(San Paolo fu a un certo punto confuso con questo agitatore). Fece
peregrinare i suoi seguaci per il deserto prima di condurli sul monte
degli Olivi, di fronte a Gerusalemme, come Giosuè davanti alle
mura di Gerico : « Di li avrebbe potuto piombare in armi su
Gerusalemme, battere la guarnigione romana e tiranneggiare il
popolo, usando come corpo di guardia quanti avessero parteci
pato all’assalto insieme con lui » 15.
Nei racconti di Giuseppe troviamo tutta la gamma di movi
menti possibile, dal tradizionale brigantaggio rurale al messianismo
vero e proprio, violento o anche non violento. Il quadro potrebbe
essere arricchito da un confronto con le rivolte servili o rurali
(e spesso insieme servili e rurali) che tormentarono il mondo greco
126
romano dalla metà del I I secolo a. C. Ma ciò che avviene in Pale
stina ha caratteristiche assolutamente eccezionali, dovute alle parti
colarità della religione ebraica e al fatto che il messianismo veniva
fatto proprio non solo dai contadini ma anche dagli scribi autori
di testi apocalittici16. Che uno schiavo o un pastore ribelle assuma
il titolo di re, non è, in sé, un fatt9 originale. Nel secondo secolo
a. C., in Sicilia, il capo di una rivolta servile particolarmente vio
lenta, lo schiavo siriano Eunus, prese il titolo di re, come prova
il fatto che batté moneta — una misera moneta di bronzo, di cui
c’è rimasto un solo esemplare — col nome di re Antioco: ognuno
si rifà all’orizzonte che gli è familiare, e quest’orizzonte per lo schia
vo siriano era la monarchia seleucide l718920.
L ’esito di imprese di questo genere si può riassumere nella
frase di Gamaliele a proposito di Teuda: « Fu ucciso e tutti quelli
che gli avevano creduto furono dispersi e si ridussero a nulla » 1S.
Ma a dispetto di Gamaliele, in tutta questa fioritura di re spicca
una famiglia che ebbe ima discendenza, quella di Giuda il Galileo:
« All’epoca del censimento, sorse Giuda il Galileo, e si trascinò
dietro una folla, e anch’egli peri e quanti gli avevano creduto furono
dispersi » 19. Il censimento in questione è quello eseguito dal legato
di Siria Quirinio al momento della costituzione della provincia
di Giudea, l’anno 6 dell’era moderna: un atto amministrativo
mirante soprattutto a determinare l’imponibile fiscale. « Un galileo
127
di nome Giuda spinse gli abitanti alla ribellione, rimproverandoli
aspramente di acconsentire a pagare il tributo ai romani e di tolle
rare, oltre Dio, padroni mortali » 21. Quando è cominciata questa
« dinastia »? Con Giuda, o con suo padre Ezecia, il « capo dei
briganti » cui Erode in gioventù aveva dato la caccia, facendolo
poi giustiziare al confine con la Siria? 22 Un Giuda figlio di Ezecia
imperversò effettivamente in Galilea dieci anni prima del censi
mento di Quirinio, all’epoca dei torbidi che seguirono la morte di
E ro d e23. « Terrorizzava tutti gli abitanti dei dintorni con attacchi
e rapine, per desiderio di accrescere le sue fortune e per ambizione
di diventare re. » 24 È possibile che questo Giuda non fosse altri
che Giuda il Galileo, detto anche il Golanita, originario di Gamala,
ad est del lago di Tiberiade? 25 Francamente, non lo s o 26. Ma,
erede o iniziatore che sia, Giuda il Galileo e i suoi discendenti
riuniscono e ricapitolano in sé tre aspetti fondamentali della vita
politica ebraica nel I secolo: un messianismo rivoluzionario e
dinastico; una pratica sociale « terrorista » particolarmente vio
lenta, quella dei « Sicari »; la fondazione e lo sviluppo di una nuova
« setta » politico-religiosa. Poco importa in realtà che Giuseppe
nella Guerra si contenti di dire che questa setta, fondata da un
128
« dottore » (sophistes), non ha niente in comune con tutte le
altre27: più tardi, nelle Antichità, si spiegherà meglio. La « quarta
setta » (dopo i sadducei, i farisei e gli esseni) fu fondata, scrive
Giuseppe, da Giuda insieme al fariseo Saddok, al tempo del censi
mento di Quirinio. « Dicevano che il censimento era solo un mezzo
per finire di assoggettarli, e incitavano il popolo a rivendicare la
libertà [ . .. ] . I membri di questa setta concordano praticamente su
tutto con i farisei, ma in particolare hanno una passione sfrenata
per la libertà e secondo loro Dio è il solo signore e il solo pa
drone. » 28 Abbastanza paradossalmente, come vedremo, Giuseppe
vede nella fondazione di questa setta il punto di partenza di tutte
le catastrofi del I secolo, fino all’insurrezione del 66 e « finché la
rivolta non ebbe fatto cadere anche il Tempio di Dio in balia del
fuoco nemico » 29.
I marxisti russi giudicavano volentieri i loro avversari popu
listi come dei « liberali che maneggiavano bombe ». I seguaci di
Giuda il Galileo sono dei farisei che hanno preso sul serio la
teocrazia implicita nella dottrina farisaica, e hanno messo mano al
pugnale (sica). La loro attività non si limita a rifiutare il tributo
e persino la moneta romana, simbolo di ciò che è dovuto a Cesare3#.
Per Giuseppe (la cui esposizione, sia detto per inciso, non è un
capolavoro di coerenza) la setta di Giuda è legata originariamente
al gruppo dei Sicari, attivisti del pugnale la cui nascita il nostro
storico non sa bene quando collocare. Infatti alla fine della Guerra
scrive che Giuda « aveva persuaso non pochi giudei a sottrarsi
al censimento fatto a suo tempo da Quirinio nella Giudea. A quel
l’epoca i Sicari ordirono una congiura contro quelli che volevano
accettare la dominazione romana e li combatterono in ogni modo
come nemici, depredandoli degli averi e del bestiame e appiccando
il fuoco alle loro case » 31. Ma altrove il gruppo appare sorto da
poco all’epoca del procuratore Felice (52-60), e Giuseppe traccia
allora un colorito quadro d’un terrorismo specificamente urbano,
avente per centro Gerusalemme: in particolare i Sicari sgozzarono2
129
il sommo sacerdote Gionata e moltiplicarono gli atti di violenza32.
In un altro passo Giuseppe colloca l’attività dei Sicari al momento
dell’entrata in funzione del procuratore Festo (60-62), e in questa
occasione attribuisce loro un terrorismo piu specificamente rurale,
che però penetra anche in città, approfittando delle feste religiose33.
Infine, benché il proconsole Albino li abbia praticamente stermi
nati, li vediamo intervenire in forze a Gerusalemme mentre si svol
ge una festa, e prendere in ostaggio il segretario di Eleazar, coman
dante del Tempio e figlio del sommo sacerdote in carica, esigendo
in cambio la liberazione di dieci dei loro. « Tornati ad essere nume
rosi, ripresero coraggio e si misero a saccheggiare tutto il paese. » 34
Le altre fonti, neotestamentarie e rabbiniche, tendono a con
fermare l’impressione suscitata da tutte queste incoerenze. La pa
rola « sicario », soprannome d’origine evidentemente romana, è
usata a volte nel senso specifico di membro della setta fondata
da Giuda e continuata dai suoi discendenti, altre volte invece
in senso più generale, estendendola a chi conduce un simile
tipo di lotta, e al limite finisce col designare tutti i membri del
movimento antiromano3S. Rimane però il fatto che Giuda ebbe
dei discendenti, che furono anche suoi successori 36. Tiberio Giulio
Alessandro fece crocifiggere due figli di Giuda, Giacomo e Simo-
ne 37; un altro figlio, — o forse nipote38, — Menahem (o Manahem)
130
s’impadronì dell’arsenale di Masada nel 66, si costituì un corpo di
guardia, « ritornò a Gerusalemme come un re, e assunto il comando
della rivolta, prese a dirigere l’assedio » 39. Ma, sebbene Menahem
si fosse recato a pregare al Tempio, « in gran pompa, ornato della
veste regia, con il suo seguito di fanatici in armi » 40, non per que
sto fu risparmiato dagli « zeloti » propriamente detti, quelli cioè
appartenenti al gruppo di Eleazar, figlio di Simone41, che lo ucci
sero in nome della libertà. Un suo parente, Eleazar figlio di Giairo,
prese il suo posto e divenne in seguito il « capo assoluto di Ma
sada 42, dove insieme agli altri Sicari si tenne ai margini della
guerra contro i romani così com’era diretta da Gerusalemme43,
e dove rimase fino al suicidio collettivo che organizzò nel 74.
Resta da ricordare un altro re, derisorio e commovente:
Simone Bar Gioras. Capo d’una delle fazioni che si disputavano
Gerusalemme, alla disfatta non fu catturato subito, ma riuscì a rifu
giarsi in un sotterraneo da dove sbucò rivestito d’un abbigliamento
che Giuseppe così descrive: « Credendo di poter ingannare i romani
spaventandoli, si avvolse in tunichette bianche, vi allacciò sopra
un mantello purpureo, e venne fuori dalla terra nel luogo stesso
dove prima sorgeva il Tempio » 44. Bianco e porpora: i colori dei
paramenti del sommo sacerdote quando penetra nel Santo dei
Santi, secondo Filone; ma anche i colori del monarca ellenistico
e dell’imperatore romano...
Le ragioni per cui Giuseppe si oppone a questa regalità
« calda » sono perfettamente evidenti. A che cosa mira infatti
quando, in una scena famosa, predice l’impero a Vespasiano (pro
fezia che era già stata fatta da altri indovini non ebrei)? 45 Tacito,
39 Guerra, I I , 434.
40 Ibidem, 444. Giustamente G. Vitucci, come P. Savinel e Thackeray, tra
duce zelotai con « fanatici »: la parola qui non ha valore tecnico; cfr. M. Smith,
art. cit. (supra, nota 35), p. 7.
41 Guerra, I I , 445-448; vedi anche Vita, 21, 46.
42 Guerra, I I , 447-
43 Guerra, V II, 253, 275, 297.
44 Ibidem, 29. Viene subito in mente la porpora messa sulle spalle di
Gesù nella Passione (Marco, 15, 17; Matteo, 27, 28; Giovanni, 19, 2). Un altro
esempio d’associazione tra bianco e porpora si trova nel romanzo Giuseppe e
Aseneth, 5, 6 (a proposito dell’abito indossato da Giuseppe nel fulgore della
gloria).
45 Guerra, I I I , 399-403. Lo stesso Giuseppe allude (ibidem, 404) ad altri
presagi che promettevano l’impero a Vespasiano. Tra questi, secondo Tacito (Storie,
II, 78) e Svetonio (Vespasiano, 5) c ’era « l’oracolo del dio Carmelo », che non
131
che non nomina Giuseppe, è stupito testimone del messianismo
ebraico: « Quasi tutti prestavano fede alla profezia, contenuta negli
antichi libri dei loro sacerdoti, secondo cui proprio in quei giorni
l’Oriente avrebbe trionfato, e dalla Giudea sarebbero partiti i fu
turi signori del mondo. Testo ambiguo, che alludeva a Tito e
Vespasiano; ma la gente, com’è umano, lo interpretava secondo
il proprio desiderio, e una volta attribuito a sé un destino cosi
magnifico, non si rassegnava a riconoscere la verità, neppure nella
sconfitta » 46. Al limite, Giuseppe cerca di deviare in direzione del
l’imperatore romano — l ’unico monarca « freddo » che possa gover
nare il territorio ebreo — la corrente che tendeva invece, se non
alla conquista del mondo, almeno alla sovversione, sovversione per
lui simboleggiata da Giuda e compagni. Di fronte al messianismo,
Giuseppe ragiona da possidente, esattamente come gli « ebrei »
del Vangelo di Giovanni.
Eppure secondo la tradizione rabbinica anche un altro ebreo
predisse l’impero a Vespasiano, Johannan ben Zaccai, che non era
affatto un possidente e tanto meno im rinnegato o un traditore,
ma fu il piu illustre rappresentante dei Tannaim (la prima gene
razione dei rabbini che ricostruirono il giudaismo). Facendosi tra
sportare in una b ara47 — almeno secondo una versione del rac
conto — uscì da Gerusalemme assediata, dove aveva invano esor
tato i concittadini alla moderazione (« Dopo tutto — diceva —
che vogliono da voi? Soltanto un arco e una freccia » ) 48. Arrivato
al campo romano, salutò Vespasiano col titolo d’imperatore —- Vive
domine imperator — ricordandogli che solo un re avrebbe potuto
prendere la città 49. Il seguito è noto: Johannan ben Zaccai chiese
dipendeva dal Tempio. Non tratterò qui l’aspetto propriamente romano della fac
cenda: su questo argomento si veda J. Gagé, Basitela, les Césars, les Rois d ’Orients
et les Mages, Paris, 1968, pp. 125-172.
46 Storie, V, 13; stessa allusione a questa profezia ambigua in Guerra, VI,
313. Ora niente è piu contrario alla tradizione ebraica che una profezia struttu
ralmente e testualmente ambigua.
47 Aboth de Rabbi Nathan, versione A , IV , 7 ; versione B, V I, 7.
48 Aboth de Rabbi Nathan, versione A, IV , 3 (ed. S. Schechter); cfr. la
traduzione inglese di J. Goldin, The Fathers according to Rabbi Nathan, New
Haven (Yale), 1955, pp. 35-36.
49 Aboth de Rabbi Nathan, versione B, V I, 11, e Midrash Ekha Rabbati,
I, 31, 26.
132
e ottenne da Vespasiano il permesso di fondare una scuola rabbi
nica nel dominio imperiale di Jàmnia (Jabneh)5051.
Che valore ha questa tradizione? Come avvenimento storico
il racconto rabbinico si scontra con un’impossibilità materiale: al
momento dell’assedio di Gerusalemme Vespasiano è già imperatore
e alla testa dell’esercito romano c ’è il figlio Tito. Si può quindi
effettivamente ammettere che l’aneddoto su Johannan ben Zaccai
sia soltanto una trasposizione del racconto autobiografico di Giu
seppe31. Ma se è cosi, dato che i Tannaim (autori della Mishna
e del Talmud) mantengono un silenzio totale sullo storico transfuga
e non mostrano molta tenerezza verso i romani e verso Tito in par
ticolare 52, bisogna ammettere che i restauratori del giudaismo ave
vano speciali ragioni per prendere a prestito il racconto di Giuseppe
e rielaborarlo. Tali ragioni, istituzionali e non sociali, si possono
riassumere all’incirca così: il messianismo politico o religioso, fin
ché ha obiettivi immediati — lo Stato ebraico secondo la Legge
e i profeti hic et nunc, l’Avvento imminente del Regno del Si
gnore — invece di portare all’Età dell’Oro conduce fatalmente alla
catastrofe. C’è un midrash della Genesi che esprime mirabilmente
questa concezione. Illustrando la promessa di Dio ad Abramo, il
commentatore contrappone le opinioni di due rabbini: uno è Johan
nan ben Zaccai, l’altro è Aqiba che nel II secolo si schierò con
il messia Bar Kochba. Aqiba pensa che Dio abbia svelato ad
Abramo non solo il mondo presente ma anche quello a venire,
133
il futuro; il primo crede invece che ad Abramo sia stato concesso
solo questo mondo, cioè il presente53. Era un modo di mettere
fine — per il momento — al messianismo apocalittico.
134
X I. La città divisa
135
« fièvre obsidionale » 3 (il « delirio degli assediati ») tanto ricor
rente negli storici della borghesia trionfante. Evidentemente una
lettura di questo tipo trovava alimento nelle pagine di Giuseppe,
gran spregiatore dei « banditi» del I secolo (anche se Renan s’era
concesso di denunciare la mancanza d’obiettività dello storico:
l’uomo « grazie al quale conosciamo questa storia è una specie di
Dumouriez; a volergli credere, gli agitatori non sarebbero stati
altro che un pugno di miserabili, privi di qualsiasi sentimento na
zionale») \
Sarebbe sbagliato credere che questo gioco sia caduto in di
suso: al contrario è facile rinnovarlo, ad esempio rovesciando pura
mente e semplicemente le affermazioni di Giuseppe e i suoi giudizi
di valore e arrivando cosi all’equazione: guerra del 6 6- 74 = guerra
di liberazione nazionale e sociale; oppure negando ogni valore alla
sua testimonianza345, il che permette poi di .sostituirla con ciò che
si preferisce; oppure ancora facendola rientrare in una problematica
totalmente estranea, non solo allo storico, ma anche alla storia di
quel periodo. Così l ’autore d’un libro molto di moda crede senza
dubbio di fare una grossa concessione al realismo storico ammet
tendo che « una rivoluzione comunista non è in nessun modo alla
portata » degli zeloti, ma precisa anche: « Il movimento zelota
è riformista, l ’ideologia religiosa centrata sul Tempio di Gerusa
lemme vi occupa un ruolo determinante, cui si aggiungono gli
interessi economici della piccola borghesia della città di Gerusa
lemme, legati al Tempio. Per gli zeloti non si tratta di una rivolta
che metta fine al modo di produzione subasiatico, ma anzi di una
rivolta per restaurarlo su basi più pure » 6. Bella serie di confu
sioni! È possibile separare il concetto di « riformismo » da quello
di « rivoluzione »? Chi sono questi « riformisti » che si rivelano
anche « reazionari » in quanto, se capisco bene, vogliono restau
3 Antiquités, I, p. III.
4 E . Renan, Oeuvres..., cit., p. 1292; cfr. anche p. 1268, nota 3, 1270
nota 5 e passim.
5 Non è un buon esempio l’articolo piu volte citato di Y . Baer su Zìon
(1971). Un utile riassunto della storiografia contemporanea prò e contro gli zeloti
si può trovare all’inizio dell’articolo — purtroppo assai confuso — di S. Apple-
baum, The Zealots: T he Case for Revaluation, in Journal of Roman Studies, 61
(1971), pp. 155-170. Qui è citata, ad esempio, l’affermazione di J. Klausner « I
comunisti dell’epoca, patrioti entusiasti», in History of thè Second Tempie, v. II,
1954, pp. 122-123: semplice rovesciamento delle asserzioni di Renan.
6 F . Belo, Lecture matérialiste de l'Evangile de Marc. Récit-Pralique-Idéologìe,
Paris, 1974, pp. 124-125 (trad. it. Una lettura politica del Vangelo, Torino, Clau
diana, 1975).
136
rare il Tempio come centro della vita economica e sociale ripor
tandolo a un ruolo che nel I secolo aveva perduto7, invece d’im
boccare l’unica via del progresso che consisterebbe di regola nel-
l’instaurare il modo di produzione schiavistico — una parola d’or
dine, questa, che effettivamente non figurava sulle loro insegne?
Ma le confusioni non finiscono qui: se ne aggiungono altre,
come il « panzelotismo » che consiste nel confondere sotto l’appel
lativo di « zeloti » tutti i movimenti che si scontrano a Gerusa
lemme e nel resto del paese: Sicari, partigiani di Giovanni di
Gischala, seguaci di Simone figlio di Ghiora, compagni di Eleazar
figlio di Simone, anche a costo di identificare contemporaneamente
gli « zeloti » con la setta fondata da Giuda il Galileo8. Viceversa,
altri intendono distinguere radicalmente i virtuosi democratici na
zionalisti che sarebbero stati gli « zeloti » dai Sicari di Masada,
avventurieri capaci di suicidarsi ma non di battersi al momento
dell’assalto romano9. Tutto ciò spiega forse il fatto, in sé piuttosto
strano, che non esista una buona storia moderna della guerra di
Giudea 10. Bisogna dire che il compito non è facile, dato che Giu
seppe è la sola fonte letteraria un po’ particolareggiata, mentre
le fonti rabbiniche, che potrebbero gettare su quella storia una luce
del tutto diversa, piu rispondente al punto di vista della maggio-
137
ranza ebraica, sono insufficienti e discontinue u, e infine le fonti
greche — nella fattispecie, Giuseppe — si portano dietro non solo
la lingua ma anche — non lo si dirà mai abbastanza — la cultura
e la concettualizzazione elleniche.
Quali sono, tuttavia, i punti essenziali? Dopo le esazioni del
prefetto Gessio Floro, tra Roma e la Giudea avviene effettivamente
una rottura. Segno simbolico di questa rottura è la decisione di
Eleazar, figlio del sommo sacerdote Anania e comandante (cioè
capo della polizia) del Tempio, che a un certo momento (Giuseppe
non riferisce la data) persuade i ministri del culto a non accettare
più doni né sacrifici offerti da stranieri: il che, aggiunge Giuseppe,
« significava dare l’avvio alla guerra contro i romani, perché equi
valeva a rifiutare il sacrificio celebrato in favore dei romani stessi
e di Cesare » 112. Giuseppe commenta, giustamente, che tale misura
non era affatto imposta dalla tradizione che invece aveva sempre
accettato il sacrificio fatto in nome degli stranieri13, anche se non
ammetteva la loro presenza fisica nel Tempio. Perciò questa deci
sione ha un’importanza capitale che travalica la rottura politica
pura e semplice, perché spinge alle estreme conseguenze la logica
dei « separati »: Jahveh torna ad essere il Dio d’Israele e solo
d’Israele. Questo modo di concepire l’indipendenza s’esprime assai
chiaramente nelle emissioni monetarie: mentre dopo la rivolta dei
Maccabei il rinascente Stato ebraico aveva coniato solo monete di
bronzo, tra il 66 e il 70 i capi di Gerusalemme emettono cinque
serie di bellissime monete d’argento recanti simboli e leggende
che non si rifanno alla comunità nazionale ebraica ma alla « Libertà
di Sion », alla « Redenzione di Sion », alla «Santa Gerusalemme»14.
Questa rottura è la conclusione d’un processo che ha scosso
in profondità la società ebraica in Palestina, dalla fine del regno
d’Erode (4 a. C .) per quasi tutto il primo secolo. I movimenti
di rivolta vengono dalle campagne, come i movimenti messianici
e anche più di questi, dai quali del resto non sono separabili se
non a prezzo di gravi artifici. Ma a differenza di quanto succede
in altre zone del mondo romano, queste rivolte nate nelle campagne
138
sfociano in enormi manifestazioni di massa a Gerusalemme, dove
s’integrano alla celebrazione delle feste al Tempio, Shavouoth (Pen
tecoste) e Pessah (Pasqua). Per quel che se ne sa, il Tempio non
è più un luogo di pensiero, ma un centro d’attività mercantile e
soprattutto artigianale, se è vero che due anni prima della rivolta
la ricostruzione del Tempio dava ancora lavoro a diciottomila ope
rai che grazie all’iniziativa d’Agrippa avevano evitato la disoccu
pazione 15. Il tempio è il luogo dei sacrifìci, e le feste attirano a
Gerusalemme folle enormi, che il minimo incidente può scatenare.
È un fenomeno straordinariamente ripetitivo: subito dopo la morte
d’Erode, nella Pasqua del 4 a. C., scoppiarono degli incidenti; lo
stesso avvenne a Pentecoste, sotto Sabino, dopo che il proconsole
di Siria, Varo, ebbe insediato una guarnigione a Gerusalemme;
poi di nuovo a Pasqua, durante l’amministrazione di Cumano, nel
49 o 50 — e Giuseppe avverte anche che i Sicari approfittano
delle feste per realizzare le loro azioni16. A volte Giuseppe precisa
chi sono i più diretti responsabili delle sommosse; ad esempio, sotto
Sabino, sono stati soprattutto gli abitanti della Giudea vera e
propria, benché sia venuta gente da ogni dove 1718. Più raro che si
sollevi la popolazione urbana, come accadde sotto Ponzio Pilato,
probabilmente prima del 31, quando il prefetto di Giudea tentò
d’introdurre in città insegne con l’immagine dell’imperatore o quan
do fece costruire un acquedotto a spese del tesoro del Tempio w.
Queste rivolte urbane hanno anche caratteri meno drammatici.
Accade tuttavia che una folla urbana vada a raggiungere un capo
in montagna, come quando, sotto Cumano, gli abitanti di Geru
salemme si unirono a Eleazar figlio di Dineo in un’azione diretta
contro i samaritani19. In un’occasione (la sommossa contro Sabino)
i cittadini si dissociarono espressamente, avvertendo le autorità
romane «che loro non s’erano mossi, che erano stati costretti a far
entrare quelli del contado a motivo della festa religiosa, sì che
lungi dall’aver collaborato coi ribelli erano piuttosto rimasti anche
loro assediati insieme coi romani » 20. Quale che fosse l’importanza
139
del banditismo rurale nella Galilea o nella Perea, non c ’è dubbio
che il grosso dei rivoltosi viene fornito dai contadini della Giudea,
non solo per evidenti ragioni geografiche, ma anche per ragioni di
anzianità nella pratica del giudaismo. È tutta la Giudea che è
malata, dichiara Giuseppe21.
Durante la guerra, man mano che l’occupazione romana gua
dagnava terreno, una folla di campagnoli si rifugiò in città. Nes
suno dubita che abbiano avuto un ruolo decisivo nelle trasforma
zioni avvenute allora22. Infatti Giuseppe fa coincidere l’intervento
massiccio del gruppo degli zeloti con l’arrivo a Gerusalemme, verso
la fine del 6 7, dei profughi di Galilea, guidati da Giovanni di
Gischala, da un lato, e dall’altro lato, con l’ingresso in città di vari
capibanda e briganti provenienti dal contado, all’incirca nello stesso
periodo. « Zeloti: tale, infatti, era il nome che quelli s’erano dati,
come se fossero animati da zelo per le opere buone e non invece
per le azioni più turpi, sfrenatamente. » 23 Giuseppe non fa qui
altre allusioni alla nozione di « zelo », nozione centrale e di capi
tale importanza per capire il significato religioso e sociale del movi
mento 24. Fortunatamente un passo della Mishna permette, ecce
zionalmente, di colmare qui una lacuna. Il trattato in commento
alle decisioni del Sanhedrin dice infatti: « Se qualcuno ruba un
vaso sacro, giura per Kosem o prende un’aramea per concubina,
corre il rischio di essere ucciso dagli zeloti [Quanaim] » 25. Perché
proprio un’aramea, quando un popolo arameo non esiste più, anche
se esisteva una lingua aramaica parlata dagli ebrei e da molti altri?
Ma perché un « arameo » è precisamente quel che c ’è di più vicino
21 Guerra, II , 264-265.
22 Guerra, IV , 90, 136-138; V I, 420-421; M. Smith, art. cit. (supra, cap. X,
nota 35), pensa che il contado della Giudea abbia formato il grosso d d movimento
zelota. Ma si veda V. Nikiprowetzky, Sicaires et Zélotes. Une reconsidération, in
Semitica, X X III (1973), pp. 51-63, tentativo ben riusdto di dimostrare che il clero
di Gerusalemme ha svolto un ruolo predominante alla testa di questa fazione.
Inutile precisare che non c’è affatto da fidarsi delle cifre fomite da Giuseppe sulla
popolazione, sia urbana che rurale. Si veda ultimamente M. Broshi, La population
de Vancienne Jérusalem, in Revue biblique, 82 (1975), pp. 5-14. L ’autore stima
che la popolazione di Gerusalemme poco prima dell’assedio ammontasse a 82.500
persone.
23 Guerra, IV , 161; gli zdoti però erano già intervenuti; cfr. infra, p. 146.
24 Si veda a questo proposito tutto il IV capitolo dell’opera di M. Hengd,
Die Zeloten, d t.; Giuseppe ritorna su questa nozione di zelo, all’incirca negli stessi
termini, in Guerra, V II, 270.
25 Sanhedrin, 9, 16; cfr. M. Hengel, Die Zeloten, d t., p. 69 (sul personaggio
Finehes e sul suo avvenire, vedi le pp. 152-175).
140
a un ebreo, pur essendo diverso. L ’archetipo di questo comporta
mento è il gesto del sommo sacerdote Finehes, nipote d’Aronne,
che, avendo sorpreso un israelita a letto con una medianita « si
alzò dal mezzo dell’adunanza e diede di piglio a una lancia, [ ...]
entrò nell’alcova e li trafisse ambedue, l’uomo e la donna, al basso
ventre ». Poiché s’era mostrato « geloso per il suo Dio » — espres
sione che i Settanta rendono col verbo zeloo — Jahveh dichiara
che Finehes ha salvato Israele, e gli accorda « un sacerdozio eterno
per lui e la sua posterità » 26. Il principio drammatizzato in questa
scena fu effettivamente una delle leggi d’Israele. Nel mondo medi-
terraneo la regola più frequente è quella che sarà ripresa anche
dall’Islam, e che consiste nel dire alla città vicina, al popolo vicino:
tu non avrai le mie figlie, ma io sono pronto a impadronirmi delle
tue. Atene mette fine a questa procedura nel 4 5 1 , con la legge di
Pericle che riserva il titolo di cittadino soltanto ai figli di genitori
entrambi pienamente ateniesi. La regola ebraica è opposta: Israele
dice ai gentili-, non voglio le vostre figlie, ma i vostri figli possono
avere le mie se entrano nell’Alleanza.
Come modello di comportamento Finehes ha le sue patenti
d’antichità: il primo libro dei Maccabei mette in bocca a Mattatia,
poco prima di morire, un inno in cui Finehes viene subito prima
di Giosuè : « Il nostro antenato Finehes per l’ardente suo zelo rice
vette solenne promessa di sacerdozio perpetuo » 11. E il IV libro
dei Maccabei, che probabilmente è del I secolo o degli inizi del
II secolo dopo Cristo, parla semplicemente di « Finehes lo Zelo-
ta » 28. Lo zelota non è tanto chi adotta un genere di vita conforme
alla Legge — pratica che rientrerebbe tra le possibili accezioni del
giudaismo — quanto piuttosto chi impone la pratica della Legge
a tutti, con tutti i mezzi. È quanto dirà lo pseudo-Ippolito di
Roma: « Se [gli zeloti o Sicari, che secondo Ippolito sono una
varietà di esseni] sentono [ ...] un uomo non circonciso parlare di
Dio e della Legge, gli preparano un’imboscata, lo catturano e mi-
2é Numeri, 26, 7-13, trad. di Giacomo Mezzacasa (ed. a cura del Pontificio
istituto biblico, già cit.). Raccontando questo episodio, Giuseppe non adopera il
verbo zeloo né la parola zelos (Antichità, IV , 152-154); cfr. M. Hengel, Die
Zeloten, cit., pp. 159-160, e S. G. Brandon, Jésus et les Zelotes, cit., p. 59, nota 2.
27 io Maccabei, 2, 54.
28 40 Maccabei, 18, 12. Traduco cosi, piuttosto che con l’aggettivo « zelante »,
adottato da A. Dupont-Sommer nella sua traduzione di questo testo (Paris, 1939).
141
nacciano di ammazzarlo se non si fa circoncidere » 29. La violenza
di Finehes e il carattere improvviso e quasi clandestino della sua
azione saranno del resto severamente criticati nella tradizione rab
binica, che al limite considera l’intransigente sacerdote come un
traditore contro lo Spirito Santo 30, nonostante l’inequivocabile testo
dei Numeri; ma forse a questa condanna contribuì anche l’uso che
di quel testo avevano fatto gli zeloti. All’orizzonte politico, l’im
magine terrificante di uno Stato puro.
Di tutto questo Giuseppe evidentemente non dice niente, e
del resto in Gerusalemme assediata le « aramee » non dovevano
abbondare. Invece il nostro storico parla diffusamente delle innu
merevoli violazioni della tradizione compiute dagli zeloti, che con
taminano il santuario trasformandolo in fortezza, adoperano le
seghe dei sacrifici per tagliare le sbarre delle porte, compiendo
senza accorgersene le profezie che annunciavano la grande cata
strofe 31. Adempiono anche la « profezia » del portavoce di Giu
seppe, il re Agrippa II , il cinico gaudente che pure aveva posto
agli insorti un problema reale: « Se durante la guerra trasgredirete
le tradizioni dei vostri padri, allora non so a che scopo continuerete
a battervi; infatti il vostro unico intento è di conservare inviolate
le istituzioni patrie. Come invocherete l’aiuto di Dio se deliberata-
mente trascurerete le regole del culto? » 32. Al punto in cui era
arrivata l’evoluzione del giudaismo, uno Stato ebraico guerriero
poteva ancora restare ebraico?
Ma è proprio sicuro che nel racconto di Giuseppe si parli di
uno Stato ebraico? Le misure di tipo economico e sociale prese
dagli insorti suonano assai familiari a uno storico della Grecia,
perché sono provvedimenti correnti nelle città greche in periodo di
crisi: abolizione dei debiti grazie alla distruzione degli archivi,
liberazione degli schiavi, misure brutali nei confronti dei ricchi
(dalla perquisizione all’esecuzione sommaria), istituzione del sor
teggio per le alte cariche (in particolare in questo caso per l’ufficio
di sommo sacerdote), radicalizzazione della gioventù e opposizione
29 Refutatio omnium haeresium, IX, 26; cfr. M. Hengel, Die Zeloten, cit.,
pp. 180-181, e S. G. Brandon, Jésus et les Zélotes, cit., p. 61.
30 Cfr. M. Hengel, Die Zeloten, cit., pp. 172-175, dov’è citato in particolare
il Midrash della Genesi (Bereshit Rabba), 60, 3.
31 Guerra, IV , 196, 202, 262, 298, 386-387.
32 Guerra, I I , 393-394.
142
tra vecchi e giovani3334. Tutto ciò ricorda davvero, come fa notare
Y . B a e r c e r t e famose scene di Tucidide nel III libro (mas
sacri di Corcira) o nel V I (dibattito Alcibiade-Nicia) della Guerra
del Peloponneso. La liberazione degli schiavi è un tipico prov
vedimento della città greca in casi d’emergenza, sia in epoca
classica che in epoca ellenistica35. E quando Giuseppe parla del
demos e della democrazia36, intende, secondo l’uso ellenistico, i
notabili e le istituzioni locali non monarchiche37.
Ma a Gerusalemme tutte queste misure vengono prese? In
effetti il quadro appena tracciato è in parte fittizio. La distruzione
degli archivi e l’abolizione dei debiti è opera dei Sicari e dei sedi
ziosi riuniti attorno al comandante del Tempio, Eleazar, allo scopo
di « cattivarsi la massa dei debitori e mettere impunemente i poveri
contro i ricchi » 38, con un’azione che distrugge « col fuoco i gangli
vitali della città » 39; ma la liberazione degli schiavi, per esempio,
non avviene a Gerusalemme; sarà Simone Bar Gioras che da
Masada lancerà un appello a tal fine, dopo la morte del sommo
sacerdote Anan nel 68 40.
Ora, ciò che più ha colpito gli storici dell’antichità, (non solo
Giuseppe, ma anche Tacito, che pure aveva descritto la conquista
della Britannia e la rivolta della Gallia — contemporanea alla
143
guerra di Giudea — ed era quindi abituato alle lotte antiromane),
non è stata tanto la violenza della rivolta e la sua capacità di resi
stenza, ma la sua incredibile divisione: « Tre erano i capi, e altret
tanti gli eserciti; Simone occupava la cinta esterna delle mura,
Giovanni (detto Bar G ioras)41 la città interna, Eleazar il Tempio.
La forza di Giovanni e Simone stava nel numero e nelle armi,
quella di Eleazar nella posizione, ma non facevano che scontrarsi,
tendersi inganni, appiccarsi fuoco tra di loro: gran parte delle
riserve di grano andò bruciata. A un certo punto Giovanni riuscì a
impadronirsi del Tempio42, mandando una delegazione che col pre
testo di compiere sacrifici ammazzò Eleazar. Da quel momento la
città rimase divisa in due fazioni, finché l’esercito romano non fu
alle porte: allora la minaccia esterna impose la concordia » 43. E
Tacito parla ancora di concordia finale; ma Giuseppe si limita a
dire che di fronte a un primo assalto dei romani Giovanni di
Gischala e Simone figlio di Ghiora « misero da parte gli odi e
le rivalità private e formarono un sol blocco » 44, salvo ritor
nare nemici subito dopo, se è vero che le divisioni tra fazioni dura
rono fino alla caduta della città. Di che natura sono tali fazioni?
Si tratta d’opposizioni personali? E in tal caso, come spiegare che
abbiano potuto trascinare intere folle e non abbiano dovuto cedere
alla pressione esterna? Si tratta invece di lotte di classe? E Simone
Bar Gioras, il liberatore degli schiavi che s’appoggiava ai contadini
dei villaggi prima di guadagnare alla propria causa anche una quan
tità di cittadini che « gli obbedivano come a un re » 45467va contrap
posto a un Giovanni di Gischala, animato solo da « desiderio di
potere, senza prospettive sociali » ? 45
La domanda è cruciale. Prima di rispondervi, e in parte pro
prio per rispondervi, va mostrato in che modo conflitti e fazioni
si generino nel racconto di GiuseppeJ7.
144
L ’insurrezione scoppiata al principio dell’estate del 66 è un
sollevamento essenzialmente urbano48, e questo è un fatto ecce
zionale. Le forze presenti sono da ima parte il re Agrippa II,
assistito dai « maggiorenti, i sommi sacerdoti [ ...] e i notabili dei
farisei » 49, e dall’altra parte i sediziosi (stasiastai) e i rivoluzionari
(neoterizontes) 50. Gli uni occupano la città alta, gli altri la città
bassa e il Tempio. Per una settimana i notabili, aiutati dai soldati
del re, tentano invano di sloggiare i loro avversari che, tutti coa
lizzati tra loro, hanno la meglio, con l’aiuto dei Sicari di Menahem.
I superstiti soldati romani si ritirano nelle torri della fortezza;
il sommo sacerdote Anania viene ucciso51. L ’opposizione tra città
alta e città bassa52 non lascia alcun dubbio sulla natura del con
flitto: si tratta d’una lotta di classe tra ricchi e poveri, quali che
fossero le modalità particolari. Gli insorti, tra cui doveva esserci
gran parte dell’enorme popolazione artigianale di Gerusalemme53,
non sono tuttavia disponibili a qualsiasi avventura. Menahem, figlio
o nipote di Giuda il Galileo e candidato alla regalità messianica,
viene ucciso col concorso del demos, cioè, per quanto è dato di
capire, col concorso dei piccoli notabili integrati nella struttura
politica preinsurrezionale. In queste stesse settimane bruciano gli
archivi54. Il movimento porta alla capitolazione della guarnigione
romana che viene massacrata « e ognuno dei moderati era sbigottito
al pensiero che avrebbe dovuto scontar lui le colpe dei ribelli » 55.
Ciò non significa che il governo instauratosi dopo l’insurrezione
vittoriosa sia rappresentativo di questa: i notabili sono potenti.
Cercano di aprire ai romani le porte della città 56, ma nello stesso
tempo controllano il governo, dato che il sommo sacerdote Anan,
responsabile di questo tentativo di resa, è anche uno dei principali
14 5
dirigenti della città. Ormai Eleazar figlio di Simone e i suoi zeloti57
cominciano a imporsi al « popolo » 58. È proprio questo governo
provvisorio che, sotto la pressione dei ribelli e degli zeloti, prepara
la città ad affrontare l’assedio e la mette in condizioni di resistere,
senza però prendere questa missione molto sul serio, a detta di
Giuseppe 59.
Tutto cambierà dopo la caduta della Galilea, che Giuseppe
racconta nel libro II I e all’inizio del libro IV. I galilei che riescono
a fuggire si rifugiano a Gerusalemme, guidati da Giovanni di
Gischala (Gush Halav). Scoppia una nuova guerra civile, stavolta
con l’intervento massiccio dei rurali. Gli zeloti prendono il potere,
impongono la loro scelta nella nomina dei sommi sacerdoti, provo
cando un conflitto col « popolo » guidato da Anan, conflitto il cui
carattere di classe è ancora una volta evidente: basta seguire il
racconto di Giuseppe. Gli zeloti occupano il Tempio mentre il
demos si costituisce in assemblea. L ’arbitro di questa lotta di classe,
che alla fine del 67 rinnova in un certo senso i fatti del 66, (ma
stavolta gli elementi « moderati » 60 sono i più forti), è Giovanni
di Gischala, che per un certo periodo oscilla tra il « popolo » e gli
zeloti61. Costui è un galileo che ha raccolto un esercito personale
di mercenari, in parte anche in territorio siriano, scrive Giuseppe:
quindi forse non tutti i suoi soldati sono ebrei62. In ogni modo
verremo a sapere, molto più tardi, che Giovanni è stato innalzato
al potere dal fariseo moderato Simeone, figlio di Gamaliele63, il
quale è in ottimi rapporti col « contingente dei galilei » 64; in altre
parole, Giovanni è sostenuto da un gruppo essenzialmente regio
nale. Il potere degli zeloti, nel momento in cui Giovanni partecipa
alle loro azioni, è dunque in parte anche un potere dei galilei. Si
tratta sempre d’un conflitto di classe, perché Anan è, con ogni
146
evidenza, il rappresentante dei possidenti; ma non si tratta soltanto
di lotta di classe.
Tutti gli elementi del dramma sono riuniti quando gli zeloti
si rivolgono a un terzo gruppo, gli idumei “ , i soli in grado, a loro
avviso, di far vincere la guerra civile. I capi moderati tentano
invano di impedire ai nuovi venuti di entrare in città, e Giuseppe
dà tanta importanza aH’avvenimento, che arriva a concedere la
parola a Simone l’Idum eo6566. Anan viene ucciso, e gli idumei, « rove
sciatisi sulla città, depredavano ogni casa e uccidevano chiunque
capitava » 67. Giuseppe data da quel giorno la fine di Gerusalemme
e dello Stato ebraico68. In realtà, in quel momento la città si trova
riunificata per l’ultima volta, e gli idumei accettano persino di
lasciare la capitale, anche se poi non tutti lo fanno69. Il potere
assoluto di Giovanni di Gischala è contestato all’interno dell’eser
cito, e sono proprio gli idumei rimasti, insieme a quanto resta
del « popolo », che occupano una parte della città, mentre Giovanni
e gli zeloti si rifugiano nel Tempio70. Contro Giovanni e contro gli
zeloti, gli idumei, appoggiati da numerosi emigrati, si rivolgono a
Simone Bar Gioras che da tempo occupava una parte di Masada
— i Sicari, che erano padroni del luogo, gli avevano assegnato il
piano inferiore della fortezza — e che in seguito s’era impadronito
dell’Idumea7172. Nella primavera del 69 Gerusalemme è di nuovo
tagliata in due: Giovanni e gli zeloti occupano il Tempio mentre
Simone, gli idumei e il popolo tengono il resto della città Dunque
Simone, il rivoluzionario più ardente, si allea coi moderati contro
Giovanni e gli zeloti; gli idumei arbitrano il conflitto prima in un
senso, poi nel senso opposto. Tutto ciò ha una sua coerenza, in
cui però la lotta di classe non è il fattore dominante.
Nuovo episodio, che porta al confronto tra le tre fazioni
descritte da Tacito: il gruppo degli zeloti propriamente detto,
quello di Eleazar figlio di Simone, si divide da Giovanni di Gischa
la. La città alta e una parte della città bassa restano a Simone,
65 Ibidem , 228.
66 Ibidem , 272-282.
67 Ibidem , 314.
68 Ibidem, 318.
69 Ibidem , 352; cfr. 566.
70 Ibidem , 566-571.
71 Ibidem, 504, 521-528, 577.
72 Ibidem , 577-584.
147
mentre gli zeloti tengono il recinto interno del Tempio73; questi
ultimi, presi tra due fuochi, saranno vinti da Giovanni nella ricor
renza della Pasqua74. Quando l’assedio incomincia (primavera del
70) la città è divisa in due, e lo resterà fino alla fine. Ma gli idumei
s’arrenderanno per primi ottenendo condizioni di favore, come ave
vano fatto dal canto loro, non molto tempo prima, anche i membri
della famiglia reale d’Adiabene e alcuni notabili7576. A questo punto
sono possibili alcune ipotesi. Giuseppe ha forse « serializzato »
— per usare un linguaggio sartriano — i resistenti di Gerusalem
me? Il suo racconto, assolutamente coerente, non offre il minimo
appiglio a quest’ipotesi. Non avrà fatto passare per lotte tra fazioni
quelle che invece erano lotte sociali a tutti gli effetti? Nemmeno
questo risulta, dato che Giuseppe non ha peli sulla lingua nel-
l’usare il più acceso vocabolario della lotta di classe, anche se non
sempre fa distinzione fra i diversi componenti del « canagliume ».
Naturalmente i fattori regionali hanno avuto molto peso, con
tutta evidenza. Abbiamo visto che Giovanni doveva il potere ai
galilei, almeno in parte; e Simone, che è di Gerasa nella Decapoli7é,
s’appoggia agli idumei, salvo far giustiziare i loro leader quando
parleranno di resa7778. Questi stessi idumei, che gli zeloti hanno fatto
venire su consiglio del galileo Giovanni ™, rivendicano il diritto di
entrare a Gerusalemme, « città di tutti », luogo di culto nazionale
e metropoli della patria comune79. Perché allora queste fazioni?
La mia personale risposta è che nel I secolo dell’era cristiana il
giudaismo nazionale era ancora capace di suscitare sacrifici immensi,
ma non era un legame capace di unificare, nemmeno in Palestina,
tutti coloro che si dichiaravano ebrei e si pensavano tali. È infatti
evidente che tutti i membri delle fazioni che si contendevano
Gerusalemme si proclamavano e si consideravano ebrei e inten
devano lottare contro i romani. Ma è altrettanto evidente che non
tutti avevano la stessa concezione del loro essere ebrei, della loro
73 Guerra, V, 5-12.
74 Ibidem , 98-100.
75 Guerra, V I, 356-357, 378-380.
76 Guerra, IV , 503.
77 Guerra, V I, 380.
78 Guerra, IV , 220.
79 Ibidem, 272-281. Per Giuseppe anche gli idumei costituiscono una fazione
a sé stante, come si vede dal riepilogo retrospettivo in cui enumera le varie fazioni
nell’ordine seguente (andando di male in peggio): i Sicari, Giovanni di Gischala,
Simone figlio di Ghiora, gli idumei, gli zeloti (V II, 253-274).
148
« giudeità ». Non è un caso ad esempio che gli zeloti occupino il
Tempio: i loro capi sono di famiglia sacerdotale80. Sono loro che
prendono più sul serio le dimensioni religiose della lotta. Ma da
quale istituzione, da quale gruppo sociale potrebbe venire il legame
unificatore? Il Tempio e il corpo sacerdotale non possono, o almeno
non possono più, svolgere un tale ruolo: lo sviluppo della sina
goga — effetto della Diaspora — ha moltiplicato gli scribi che
non stanno più sotto il controllo diretto del Tempio — come quelli
che redigono gli scritti apocalittici, o quei « dottori che godevano
fama di essere profondissimi conoscitori delle leggi patrie » 8182 e
che coi loro discepoli diedero il via alla rivolta contro l’aquila
d’oro innalzata da Erode sopra la porta principale del Tempio.
Tutti costoro, che più tardi, dopo il 70, saranno il cemento del
giudaismo, non trovano posto nelle vecchie istituzioni e a quanto
pare non possono inventarne di nuove. In ogni caso, non era
certo un patriottismo paragonabile a quello delle città greche che
poteva fornir loro un sistema di riferimento.
A ben pensarci, quel che succede in Palestina — dove inco
mincia la Diaspora — riassume tragicamente la situazione in cui si
trova tutto il giudaismo del I secolo: religione di salvezza univer
salistica e insieme popolo, cultura ora acquisita, ora per così dire
innata. È già straordinario che i principi d’Adiabene, convertiti di
recente, siane venuti a difendere Gerusalemme. In quel periodo il
«popolo ebreo» è, insieme al «popolo romano» — anche se su scala
assai meno vasta — il solo «popolo» nel quale sia possibile venirsi
a integrare, non solo come singoli, ma in massa. Il colmo è che sia
possibile addirittura far parte d’una città greca del popolo ebraico
e contemporaneamente far parte del popolo romano, come l’apo
stolo Paolo: situazione unica, di cui saprà approfittare una setta
ebraica: quella che, come si ricorderà, s’era rifugiata a Pella (più
esattamente, a Pella s'erano rifugiati i seguaci rimasti in Pale
stina) .
Se la nostra analisi della « diversità » palestinese è corretta;
se d’altra parte siamo nel vero quando diciamo che gli zeloti rap
presentano un .giudaismo controcorrente rispetto alle tendenze non
violente che s’erano manifestate nel seno stesso del messianismo
apocalittico se infine è vero che a Qumran un gruppo convinto
80 Ibidem, 228.
81 Guerra, I, 648.
82 Vedi supra, pp. 118-119.
14 9
d’essere l’Israele superstite (il « Resto d’Israele ») sviluppava im
maginarie rappresentazioni d’un Tempio il cui originale stava per
scomparire, allora non è il moltiplicarsi delle fazioni che deve stu
pirci, ma il loro piccolo numero, non la sconfitta finale, ma l’am
piezza della resistenza.
150
X I I . Dopo
151
romani, il comandante della guarnigione, Eleazar figlio di Giairo,
discendente di Giuda il Galileo, convinse i compagni a suicidarsi
dopo aver ucciso le mogli e i figli. Il discorso6 che Giuseppe gli
fa pronunciare, e che ovviamente non ha niente di « storico » nel
senso positivista del termine, è un documento di eccezionale impor
tanza, se non altro per il fatto che stavolta Giuseppe dà la parola
a un avversario e gliela lascia a lungo, senza sentirsi in obbligo
d'insultarlo. Questo discorso, il cui logico sbocco è la morte, una
morte vera che si contrappone alla finta m orte7 di Giuseppe a
Jotapata, può essere considerato una risposta non solo al discorso
contro il suicidio rivolto dallo storico ai compagni nella grotta di
Jotapata, ma anche a quello tenuto ai compatrioti sotto le mura di
Gerusalemme 8.
Il discorso agli assediati era un elogio della non-violenza, cari
catura perversa di una tendenza realissima in seno al giudaismo, e
insieme giustificazione della vittoria romana: « Dio ha abbandonato
i luoghi sacri ed è passato dalla parte di quelli che ora voi combat
tete » 9. Il discorso di Eleazar è un testo apocalittico, il solo che
si trovi nella Guerra giudaica', non un’apocalisse aperta sulla pro
spettiva della riconciliazione e della venuta del Messia o del Regno
dopo il dramma finale, ma un’apocalisse chiusa, orientata verso la
sparizione d’Israele. Il giudaismo, sembra ricordare indirettamente
Eleazar, è una filosofia della vita. Ma questa filosofia non ha più
corso: « Da tempo, a quanto pare, Dio ha decretato contro tutta
quanta la stirpe dei giudei che noi dovessimo cessare di vivere » I0.
Bisognava « rendersi conto che il popolo ebraico, un tempo amato
da Dio, era stato condannato » 11. Rappresentante di una setta per
cui la sola politica possibile è farsi governare direttamente da Dio,
« perché egli solo è il vero e giusto signore degli uomini » 12, Elea
zar deve necessariamente interpretare la storia da lui vissuta come
152
storia della fine di Israele. I romani non c’entrano per niente: è
Dio che ha fatto tutto. Gerusalemme è caduta, il Tempio è bru
ciato; in Siria e in Egitto la Diaspora è stata massacrata. « Questi
può darsi che abbiano fatto una tal fine perché, trovandosi in terra
straniera, non ebbero modo di resistere ai nemici; ma a tutti coloro
che sul patrio suolo intrapresero la guerra contro i romani, che
cosa mancava di ciò che può infondere speranza di sicura vittoria?
[...] Tutto fu preso, tutto cadde in mano ai nemici, come se fosse
stato apprestato per rendere più glorioso il loro trionfo. » 13 111 altri
termini tanto la vita in Diaspora che la vita in Palestina portano
alla catastrofe; è proprio la fine del popolo ebreo. La prima parte
del discorso non basta a convincere i compagni di Eleazar; la
seconda parte, pur sviluppando i temi abbozzati nella prima, arriva
tutto sommato alla conclusione che restano da salvare solo indi
vidui, non un popolo. L ’accento del discorso — un accento plato
nico 14 — poggia sull’immortalità dell’anima, in uno strano modo.
Eleazar invoca perfino l’esempio degli indiani, che « non vedono
l’ora di liberare le anime dai corpi, senza che alcun male li affligga
o li costringa ad andarsene, presi dal desiderio della vita immor
tale, annunciano agli altri che hanno intenzione di morire » 15. Così
l’ellenismo e le altre culture straniere vengono introdotte nell’ulti
mo discorso del più irriducibile rappresentante del nazionalismo
religioso ebraico...
Nel discorso di Eleazar non va visto tanto un omaggio reso
da Giuseppe all’avversario, quanto piuttosto una precisa presa di
posizione del nostro storico contro il messianismo apocalittico di
una parte dei suoi contemporanei. Certo, Giuseppe non ha smesso
di polemizzare con gli avversari sul terreno religioso: lo fa nel
grande discorso del libro V ; lo fa ancora elencando al libro VI
tutti i segni premonitori che avevano annunciato la caduta della
città e denunciando i falsi profeti che fino all’ultimo hanno reso
inevitabile la morte degli ebrei: « A causare la loro morte fu un
falso profeta che quel giorno aveva proclamato agli abitanti della
città che Dio comandava loro di salire al Tempio per ricevere i
segni della salvezza » I6. Del resto in Israele la rivalità tra profeti
13 ìb id e m , 369-371.
14 Y . Baer scrive giustamente (art. cit., in Zion, 1971, p. 168) che gli argo
menti in favore deH’immortalità dell’anima (G u erra, V II, 344-350) vengono (piu o
meno direttamente, questo è un altro discorso) dal Fedone di Platone.
15 G u erra, VTT, 353.
16 G u erra, V I, 285; cfr. anche IV, 103, 324; V, 566, e Antichità, XX, 166.
153
e antiprofeti era tradizionale. Ma nel discorso di Eleazar Giuseppe
non denuncia solo questo, ma qualcosa che va più lontano, l’idea
stessa che vi sia un termine della storia conoscibile all’uomo;
attacca cioè il centro stesso delle rappresentazioni apocalittiche 17.
Nel suo libro non c’è traccia del pensiero che si trova invece nel
vangelo di Luca, dopo l’annuncio (retrospettivo?) della caduta della
città: « Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, finché siano com
piuti i destini delle genti » 18.
L ’autore d’un’apocalisse sicuramente posteriore alla caduta del
la città poneva il problema nei termini seguenti: « Che succederà
dunque dopo questi fatti? Perché se tu distruggi la tua città e
abbandoni la tua terra a quelli che odiamo, come potrà non scom
parire anche il ricordo del popolo d’Israele? » E lui stesso avanzava
una parziale risposta: « Ma adesso i giusti sono morti, i profeti
dormono, e noi abbiamo lasciato la nostra terra; Sion ci è stata
strappata. Non ci resta più nulla, solo l’Onnipotente e la sua
Legge ». « Leggete nelle vostre sinagoghe » 1920, dice ancora l’autore
di questo scritto, inserendo così deliberatamente la sua apocalisse
in una storia in movimento.
Leggere e far leggere, tutto sommato è quel che facevano
Johannan ben Zaccai e i suoi nel dominio imperiale di Jamnia
(Jabneh), territorio che, « sottoposto direttamente all’imperatore,
non dipendeva dal procuratore della Giudea » M. Tohannan, perso
naggio leggendario al quale la tradizione attribuisce una vita di
centovent’anni21, s’era dolorosamente fatto una ragione della distru
zione del Tempio. In un midrash, capi delle truppe ausiliarie arabe
154
al servizio del generale romano, in presenza di Johannan, dicono:
« Finché esiste il Tempio, i regni pagani vi attaccheranno; ma se
il Tempio sarà distrutto, non vi attaccheranno piu » 22. La Legge
nazionale è nella Torah. Nell’attesa d’un'ipotetica ricostruzione del
Tempio e della lontana venuta del Messia, bisogna intanto orga
nizzarsi, creare dei succedanei entro cui inquadrare la v ita23. Johan
nan ben Zaccai, i Tannaim e i rabbini che gli succedettero, gli
Amoraim, svilupperanno un’immensa cultura che però non ha
niente di storico, e ignora tutti i personaggi essenziali della storia
raccontata da Giuseppe.
Nella letteratura rabbinica c’è un testo di possibile origine
zelota24, il calendario dei Digiuni (Megillath Taanith), che ad
esempio festeggia la partenza dei romani da Gerusalemme, e anche
la partenza dei « pubblicani » 25. Ma qualsiasi ricerca di carattere
propriamente storico scompare per parecchi secoli26.
Nella Diaspora occidentale non sembra che la caduta di Geru
salemme sia stata sentita come una catastrofe di dimensioni cosmi
che. Il IV libro degli Oracoli Sibillini, che come il III libro è uno
strumento della propaganda ebraica, e che è posteriore al 79 d. C.
(allude infatti alla grande eruzione del Vesuvio), inserisce la caduta
della città « in una lunga tirata, molto commossa, sulle principali
città greche, minacciate di terribili calamità: Gerusalemme viene
citata tra la povera Corinto e la povera Antiochia, sul loro stesso
piano: ” Anche a Gerusalemme verrà dall’Italia crudele tempesta
di guerra e brucerà il gran tempio di Dio, quando insensati calpe
steranno il rispetto delle cose sante e alle soglie del santuario com
piranno strage orrenda ” » 27. E l’autore dell’oracolo ha messo le
155
mani avanti fin dall’inizio: « Perché Dio non ha faccia, immagine
di pietra eretta in un tempio, muta e sorda, vergogna e sciagura
per gli esseri umani; non è visibile sulla terra, né misurabile con
occhi mortali, né da mano mortale modellato; lui che penetra tutti
d’un solo sguardo, nessuno lo può vedere » 28.
In questa grande trasformazione, Giuseppe non svolge sol
tanto il ruolo — indiscutibile — di traditore che s’arricchisce sulle
rovine della Giudea29 e scrive un libro con la cauzione dei Flavi
e di Agrippa II Giuseppe svolge anche il ruolo di storico. Ma
la Guerra giudaica non finisce con la caduta di Masada 31: Giuseppe
continua il racconto, passando in Egitto dove si svolge una nuo
va avventura dei Sicari, fino a Cirene dove per l’ultima volta
tentano la marcia messianica attraverso il deserto: « Gionata, un
grandissimo farabutto che di mestiere faceva il tessitore, persuase
non pochi poveri a seguirlo e se li trascinò dietro nel deserto,
promettendo loro prodigi e apparizioni » 32. E non è finita: il
governatore della Pentapoli (Cirenaica), Catullo, in seguito a questi
fatti mette sotto accusa Giuseppe e altri ricchi ebrei, denunciati
da Gionata come suoi complici33. Gionata fu torturato e bruciato
vivo, mentre l’accusatore, Catullo, « grazie alla mitezza degli impe
ratori, se la cavò soltanto con un rimprovero » 34; ma ciò non gli
impedì di morire della morte dei persecutori, tra atroci sofferenze,
« sconvolto da paurose allucinazioni e gridando senza posa che
vedeva intorno a sé gli spettri delle sue vittime » 3S. Stavolta, con
l’omaggio di rito alla verità storica, la Guerra Giudaica finisce
davvero: ma non la storia ebraica. Il Contro Apione la riorganiz
zerà attorno all’apologià della Legge concepita come politela ideale;
le Antichità giudaiche, (che si estendono fino ai delitti del procu
ratore Floro, e quindi si sovrappongono ai primi due libri della
Guerra) « raccolgono memoria di tutto quello che è successo a noi
ebrei in Egitto, in Siria e in Palestina, di tutto quello che abbiamo
subito dagli assiri e i babilonesi, delle atrocità che ci hanno inflitto
i persiani e i macedoni e da ultimo i romani, a cominciare dalla
28 Oracoli Sibillini, IV , 8-12.
29 Vita, 422, 425.
30 Contro Apione, I, 50-51.
31 La tentazione di far finire la guerra con la caduta di Masada era cosi
forte, che il primo « traduttore » di Giuseppe ir, latino, lo Pseudo-Egesippo, non
ha saputo resistervi.
32 Guerra, V II, 438.
33 ìbidem , 441-448.
34 Ibidem, 451.
35 ìbidem , 452.
156
nascita del primo uomo fino al dodicesimo anno del regno di
Nerone » 36. Ma l'infaticabile storico non ha ancora finito, e prima
di annunciare altri quattro libri sulle dottrine ebraiche — che non
usciranno mai — si propone di scrivere « una nuova sintesi della
guerra e delle nostre vicende fino al giorno d’oggi » 37 (93 d. C.).
La storia continua.
157
A ppendice
Flavio Giuseppe e Masada*
1. Racconto e archeologia
161
Le ultime righe dell’articolo contengono informazioni pratiche ad
uso dei visitatori. Come c ’era d’aspettarsi, dalla descrizione del
luogo si scivola immediatamente alla sua storia e all’effetto che
produce su di noi, uomini del XX secolo. Inutile dire che l’aspetto
« impressionante » del luogo non dipende solo dall’altezza della
rupe (ce ne sono di non meno alte)3 né dall’ampiezza della vista
sul Mar Morto e sul territorio che la Bibbia chiama « paese di
Moab » (la Transgiordania), né dalle difficoltà dell’ascensione al
l’epoca in cui i visitatori dovevano salire per il cosiddetto « sentiero
del serpente » 4, oggi sostituito da una funicolare.
L ’archeologo e uomo politico israeliano Y . Yadin ha dedicato
a Masada un’opera divulgativa dal titolo molto significativo: Ma-
sada. H erod’s Fortress and thè Zealots Last Stand5, cioè Masada:
fortezza d ’Erode e ultima base degli zeloti. Erode è il fondatore, ma
il libro è incentrato sull’episodio dell’assedio. Accanto a una ricca
documentazione archeologica e alle fotografie degli scavi, il lettore
vi trova una serie di riproduzioni che non hanno niente di scien
tifico, come la fotografia con le reclute dell’artiglieria corazzata
israeliana che prestano giuramento a Masada, i francobolli com
memorativi e la medaglia con la dicitura, in ebraico e in inglese,
« W e shall remain free men, Masada will never fall again » (Ri
marremo uomini liberi, Masada non cadrà mai più) 6.
Persino i titoli dei capitoli fanno trasparenti allusioni alla
storia contemporanea giocando sul senso delle parole: il penultimo,
intitolato I pionieri, è dedicato ai viaggiatori e agli archeologi che
hanno preceduto Yadin, mentre l ’ultimo, I volontari, parla di chi
ha eseguito gli scavi. Ma entrambi i titoli evocano altre realtà:
« pionieri » (halutzim) vengono chiamati i fondatori del moderno
Stato d’Israele, mentre i « volontari » hanno formato il nucleo
162
dell’esercito. In altre parole, Masada rientra ormai nella categoria
dei luoghi di pellegrinaggio. Ne esistono molti altri, in Palestina
e fuori, come il Santo Sepolcro o Troia, o la casa di Shangai dove
fu fondato, nel luglio 1921, il partito comunista cinese.
Che cosa sia un luogo di pellegrinaggio lo ha spiegato Maurice
Halbwachs1*7*: è l’incontro d’un luogo e d’un racconto, nella menta
lità e nella pratica collettiva. Se il luogo non è designato con
precisione nel racconto (e al limite è sempre cosi) eventualmente
se ne fabbrica uno, con un procedimento che può prendere varie
forme, da quella più ingenua e artigianale (in Terra Santa si può
visitare l’albergo della parabola del « buon samaritano ») a quella,
già più elaborata, del turismo ideologico (come a Shangai)$. Quan
do poi questo procedimento è alimentato contemporaneamente dal
l’immaginazione e dall’erudizione, allora tocca il vertice dei risul
tati: la letteratura sulla Troia omerica ne è l’esempio più illustre9.
Il sito di Masada non pone problemi d’identificazione: Masada
era a Masada. Gli otto accampamenti romani non ancora scavati
e la rampa d’accesso costruita dagli assediati sono la prova mate
riale dell’assedio. Ma il fatto che nel caso specifico il luogo sia
reale non elimina il problema.
Innanzitutto va notato che Masada è un luogo di pellegri
naggio moderno 10, « Masada — scrive Yadin — è assurta a simbolo
163
immortale del coraggio senza speranza, simbolo che ha commosso
i cuori di tutte le generazioni, da diciannove secoli a questa parte.»11
Frase eloquente, ma falsa: specialmente se Yadin si riferisce ai
cuori degli ebrei. Lui stesso ci dice che la località è stata risco
perta solo nel 1838, dai viaggiatori americani E . Robinson e
E . Smith 112. Allora Masada era una roccia come tante altre, che
gli arabi chiamavano Kasr es Sebbeh. Ci vollero il sionismo e la
formazione del moderno Stato d’Israele per restituire a Masada il
suo nome e per farne un simbolo.
Ma non si tratta solo del luogo. Per creare un simbolo poteva
bastare un testo che contenesse in germe la giustificazione d’un
pellegrinaggio. Ma nel caso specifico, il testo è quello di Flavio
Giuseppe13; ed è veramente singolare che un mito nazionalista
moderno s’appoggi su un autore ai cui occhi l’episodio di Masada
non rappresenta certo l’equivalente di quel che la crocifissione è
per gli evangelisti, tanto per intenderci. Per Giuseppe, Masada
non è il momento del martirio dei combattenti per la libertà di
Israele, né il coronamento d’una resistenza gloriosa, ma una delle
ultime battute d ’una rivolta che ai suoi occhi era stata un disa
stroso errore, eroico forse, ma soprattutto contrario alla volontà
di Dio e dei notabili.
A Yadin questa difficoltà non sfugge affatto. Dopo aver ricor
dato che Joseph Ben Mattatyahu, comandante delle forze ebraiche
in Galilea, era poi passato dalla parte dei romani, il nostro autore
aggiunge: « Tuttavia, nessuno ha raccontato in modo piu sconvol
gente gli avvenimenti di quella tragica notte di primavera del
l’anno 73, sulla cima di Masada. Quali ne siano state le ragioni
— rimorsi di coscienza, o qualche altra causa che ignoriamo —
il racconto è così particolareggiato, il tono così sinceramente com
mosso — ad esempio nel riferire il discorso d’Eleazar Ben Jair —
che ogni parola lascia trasparire la simpatia e l’ammirazione di
Giuseppe per l’eroismo dei compatrioti da lui abbandonati » 14.
Certo questa è l’unica interpretazione che permetta di fondare il
mito di Masada su un Flavio Giuseppe per così dire consenziente.
Ma è un’interpretazione giustificata? Tanto per cominciare, abbia
mo il diritto d’affermare che Masada fu l’ultimo rifugio degli
zeloti, come fa Yadin nel titolo delle edizioni inglese e italiana del
11 Masada, p. 201.
12 Ibidem, p. 239.
13 Guerra, V II, 252-407.
14 Masada, p. 13.
164
suo libro, e come fanno innumerevoli altri autori, che sarebbe
inutile citare? 15 È innegabile che gli zeloti — quelli che ardono
di zelo, di gelosia per il Dio d’Israele — ebbero un ruolo fonda-
mentale nella guerra del 66-74, e che la nozione di zelo è essen
ziale per capire il comportamento politico degli ebrei, dai Maccabei
fino alle rivolte antiromane1617. Per Giuseppe, gli zeloti che combat
terono contro i romani avevano usurpato un nome di cui non erano
degni11. Più precisamente, Giuseppe non chiama zeloti tutti gli
ebrei in rivolta, ma solo i compagni di Eleazar figlio di Simone, che
occupano il Tempio poco prima dell’assedio di Gerusalemme, e lo
tengono fino a quando, vinti dalle truppe di Giovanni di Gischala,
sono costretti ad allearsi con lu i18.
Niente impediva a Giuseppe di scrivere che a Masada si era
insediato un gruppo di quelli che considerava sedicenti zeloti e
autentici criminali. Il fatto è che non l’ha scritto. Nella Guerra
giudaica i ribelli che occupano Masada tra il 66 e il 74 e control
lano la fortezza per tutta la durata del conflitto (a parte un breve
periodo in cui la dividono con Simone Bar Gioras) non sono
zeloti, ma Sicari.
Ora, nonostante alcune incongruenze, sulle quali non intendo
dilungarmi1920, i Sicari costituiscono nell’opera di Giuseppe un
gruppo ben definito, dotato di caratteristiche salienti; non è pos
sibile confonderli con generici « patrioti ». Il lettore sa già che
per Giuseppe i Sicari costituiscono la « quarta setta » e sono, per
cosi dire, dei farisei che maneggiano il pugnale (la sica) w. Tra i
vari gruppi ebrei in rivolta contro Roma, sono quelli che ricorrono
più sistematicamente al terrorismo. Tutti i mezzi sono buoni per
165
negare il consenso allo Stato usurpatore, ai suoi rappresentanti,
ai suoi complici, ai suoi simboli. Abbiamo già avuto occasione
d’osservare che la celebre scena del « rendete a Cesare » è una
polemica contro i Sicari21. Come si ricorderà, nel 66 capo dei
Sicari era Menahem, discendente del fondatore della setta, Giuda
il Galileo. È questo Menahem che s’impadronisce di Masada e torna
a Gerusalemme con un atteggiamento « da vero re », col risultato
di venire assassinato22. Eleazar Ben Jair, suo successore e parente,
si rifugerà allora a Masada e la terrà fino alla fine, cioè fino al
suicidio collettivo degli assediati23. Secondo Giuseppe da allora
Masada rimase al margine della grande rivolta, ma è perfettamente
lecito dubitare di questa versione dei fatti, e anzi ci sono buoni
argomenti per contestarla: gli scavi ad esempio hanno portato
alla luce, oltre a vari documenti come il testo ebraico della Sa
pienza di Ben Sirach (un’opera che non si ricollega direttamente
ai Sicari) anche una gran quantità di monete battute a Gerusa
lemme dal 66 al 70 24; ciò dimostra che Masada non era tagliata
fuori dal centro politico della rivolta. Ma sarebbe stato necessario
tirare da questo fatto le debite conclusioni, cosa che Yadin non fa.
La storiografia contemporanea ha giustamente combattuto la
illusione positivista che le fonti siano trasparenti. Attraverso i
racconti degli storici precedenti — specialmente quando, come in
questo caso, ci è rimasto un solo racconto degli avvenimenti -—
bisogna cercare di capire quel che è successo di fatto, o di capire
almeno il racconto stesso25. Come si pone questo problema nel
caso di Masada? Da una parte abbiamo il sito archeologico e gli
scavi, con gli oggetti, le monete, i manoscritti che ci hanno resti
tuito; dall’altra parte abbiamo il racconto di Flavio Giuseppe, che
non è un testo univoco, anche se contiene un certo numero di
notizie che provvisoriamente possiamo considerare dati di fatto:
fondazione della fortezza da parte d’Erode nel quadro d’una rete
di fortificazioni destinata a tenere a bada il popolo ebreo, descri
zione del palazzo a picco sul precipizio. Tutte informazioni che
non riguardano direttamente la nostra indagine e che proprio per
questo possiamo permetterci di non discutere. Restano le pagine
166
del libro V II, che sull’esempio di Tucidide Giuseppe ha strutturato
in parte come racconto, in parte come discorso. Il racconto ci dice
come morirono i 96 0 ebrei, uomini, donne e bambini, che si tro
vavano nella fortezza assediata. Il discorso è tenuto da Eleazar
Ben Jair per convincere gli uomini a uccidere le donne e i figli
e a darsi quindi la morte. È evidente quindi la classica opposizione
logos-ergon (a parole... — di fatto...). Ma anche il discorso è
duplice: infatti in un primo momento Eleazar non riesce a convin
cere tutti: « Le sue parole non suscitarono reazioni unanimi nei
presenti; alcuni erano impazienti di mettere in atto la sua esorta
zione e quasi esaltati al pensiero d’una fine così gloriosa, mentre
i più miti provavano compassione per le mogli e i figli, e certa
mente anche per se stessi di fronte alla morte, e si scambiavano
occhiate piene di lacrime, mostrando chiaramente di non condivi
dere quella risoluzione » 26. Per convincere gli assediati ci vuole
un secondo discorso.
Certo Giuseppe ha preso precauzioni eccezionali per unificare
tutto rinsieme. Mentre gli altri discorsi disseminati nella sua opera
sono pezzi di retorica paragonabili a quelli che si leggono in Tito
Livio e Dionigi d’Alicamasso, senza nessun tentativo di dissimu
larne l’artificiosità, qui Giuseppe usa il procedimento che Barthes
chiama « effetto di realtà » 27 per farci credere che il discorso è
stato pronunciato davvero con quelle precise parole. Lo storico
avverte infatti, al momento opportuno: « Una donna anziana e una
parente di Eleazar — persona, questa, d’intelligenza e cultura supe
riori alla media delle donne — si rifugiarono insieme a cinque bam
bini nei condotti sotterranei dell’acqua potabile, sfuggendo all’at
tenzione degli altri, tutti presi dalla strage » 28. Effettivamente non
solo ci voleva un (una) superstite, ma bisognava anche che fosse una
persona eccezionalmente colta, con una compagna29 e dei bambini
per testimoni. Anche se Giuseppe ha lasciato all’anonima e colta
parente di Eleazar il tempo d’ascoltare il discorso e d’assistere ai
167
primi sgozzamenti, non per questo il racconto è meno sospetto: ma
che sia stato messo lì apposta perché gli prestassimo fede, su questo
non ci sono dubbi. Tutto consegue in modo coerente: i romani
entrano nella fortezza, « ma non vedendo alcun nemico, solo una
paurosa solitudine dovunque e fiamme e silenzio, non riuscivano
a capire che cosa fosse accaduto; alla fine lanciarono un grido di
guerra, come quando si dà il segnale di tirare con l’arco, per vedere
se si faceva vivo qualcuno. Il grido fu udito dalle due donne, che,
risalite dal sottosuolo, spiegarono ai romani l’accaduto, e una spe
cialmente riferì con precisione tutti i particolari del discorso e della
vicenda » 3#. Evidentemente è sottinteso che il racconto cosi parti
colareggiato proviene dalla donna colta, senza che Giuseppe abbia
bisogno di dirlo esplicitamente.
Ebbene, forse non c ’è da stupirsene, ma questo racconto è
stato spesso creduto, e nonostante i « progressi della storiogra
fia » 31 continua ad essere riproposto dalla moderna retorica storio
grafica. Eccone qualche esempio: mentre Renan si mantiene pru
dentissimo al riguardo e si limita a scrivere che gli ebrei di Masada
« s’uccisero tra loro [ . .. ] per istigazione di Eleazar » 32, Padre Abel
si sbilancia molto di piu: « Ma un’arringa infuocata di Eleazar
li [gli assediati] determina a morire piuttosto che cadere nelle mani
del nemico [ . . . ] ; l’ultimo incendiò il palazzo e si trafisse con una
spada ». Non manca nulla, nemmeno il racconto delle due donne:
« La più giovane delle due, parente di Eleazar, riferì il terribile
dramma » 33. Stesso racconto — più conciso — nella nuova edi
zione dello Schurer: « Quando Eleazar vide che non c’era più
speranza di resistere all’assalto, arringò gli uomini della guarnigione,
chiedendo loro d’uccidere le famiglie e poi d’uccidersi. Così fu
fatto » 34. Vengono però eliminate le due donne che spiegavano
come s’erano svolti i fatti, col risultato di rendere incomprensibile
tutta la storia. Ma la palma spetta a Yadin: « Quella notte, sulla
cima rocciosa di Masada, Eleazar non ci mise molto ad analizzare la
situazione: non c ’erano vie d’uscita » 35. Tuttavia anche Yadin
sopprime la testimonianza delle due signore.
30 Guerra, V II, 403-404.
31 Si vedano le considerazioni, a giusto titolo pessimistiche, di M. I. Finley,
Progress in Historiography, su Dedalus, estate 1977, pp. 125-142.
32 E . Renan, L ’Antécbrist, Paris, 1873, in Oeuvres complètes, Paris, 1949,
v. IV , p. 1446.
33 F . M. Abel, Histoire de la Palestine àepuis la conquéte d’Alexandre
jusqu’à Vinvasion arabe, Paris, 1952, v. I I , p. 42.
34 E . Schurer, op. cit., a cura di Vermes e Millar, pp. 511-512.
35 Masada, p. 12.
168
Ora, per capire Masada, ci vuol altro che continuare a ripetere
il racconto di Giuseppe, anche se non è facile, perché, per ripren
dere un’immagine di Bismarck, ci si ritrova a far il giocoliere con
tante bocce che volteggiano quasi tutte per aria. Bisogna tener
conto del rapporto del testo col sito archeologico, ma anche del
rapporto tra discorso e racconto all’mterno del testo, e all’interno
del discorso bisogna considerare la relazione tra la prima parte
e la seconda. Inoltre per studiare Giuseppe si può cominciare dai
suoi scritti, ma non ci si può assolutamente fermare a questi. Di
scorso e racconto ci vengono da un autore a cavallo tra due culture:
come non confrontarli da un lato con la letteratura storica greco
romana (dove non mancano i racconti di assedi e suicidi collettivi;
si pensi a Numanzia e a Sagunto) e con la letteratura ebraica
dall’altro lato? Il racconto di Giuseppe non potrebbe forse rien
trare in queste letterature? E siamo poi sicuri che non ci siano
mediatori tra il libro di Giuseppe e gli storiografi moderni? Per
un caso fortunato, uno di questi mediatori è noto e la sua opera s’è
conservata, a testimonianza di come un testo continui a « lavo
rare », secondo l’espressione di Claude L efort37.
169
Si tratta della cronaca conosciuta sotto il nome di Josippon,
che abbraccia tutta la storia ebraica da Adamo a Masada e che
— come il lettore ricorderà — è abbondantemente ricalcata sulla
versione latina delle Antichità e della G uerra 38. Come la tradizione
rabbinica aveva adattato al personaggio di Johannan ben Zaccai
alcuni episodi che in Flavio Giuseppe avevano per protagonista lo
stesso Giuseppe, cosi l’autore dello Josippon reintegra nel pensiero
ebraico l’opera storiografica del traditore passato ai romani, appor
tandovi una serie di trasformazioni cui abbiamo già accennato ma
che conviene analizzare più da vicino39. Tralasciamo particolari
come il nome di Masada (Metzada) che diventa M ezira40; il fatto
essenziale è che il discorso non viene più pronunciato da Eleazar
Ben Jair, capo duna setta dissidente, ma da un « sacerdote Elea
zar » fuggito da Gerusalemme e sulla cui ortodossia non esistono
dubbi, dato che si tratta d’un personaggio del tutto immaginario.
Il racconto stesso è radicalmente diverso. È vero che, nell’impos
sibilità di continuare la resistenza, gli uomini della guarnigione
uccisero le donne e i figli, per risparmiare loro la schiavitù; ma, si
precisa anche, le esequie delle vittime furono celebrate in modo
corretto anche se sommario. Quanto agli uomini, è escluso il sui
cidio (malvisto dalla tradizione ebraica): morirono tutti combat
tendo. Dopo il discorso di Eleazar, che quindi non è più un appello
al suicidio, e dopo il racconto degli eventi successivi, un certo
« sacerdote di nome Giuseppe » riprende la parola per una lunga
lamentazione contro i capi dell’insurrezione di Gerusalemme. Così
andava riscritta la storia secondo l’ortodossia ebraica del tempo.
Nessuno dubiterà della necessità d’approssimarsi il più possi
bile ai fatti come sono realmente accaduti, wie es eigentlich gewe-
sen, secondo la formula di Ranke. E nessuno potrebbe negare che,
per riuscirci, bisogna tenersi lontani da ima lettura ideologica come
quella dello Josippon o di Yadin. Ma il testo base, quello di Giu
seppe, è poi immune da ima struttura ideologica? E quest’ideo
logia, una volta identificata e capita, va scartata? Che resterebbe
di Gesù se scartassimo la testimonianza dei Vangeli? Che reste-
Gerusalemme, con i Sicari che si ritirano a Masada dopo l’assassinio del loro capo.
Cfr. Midrash, Shir Hashirim. Tuta (fine) citato da L . H . Feldman, art. cit. (supra,
nota *), p. 228, con un interessante commento filologico; Guerra, I I , 447.
38 Cfr. supra, p. 57 e note 15-17.
39 Per i racconti su Johannan ben Zaccai, cfr. supra, pp. 132-133; per le
modifiche al racconto di Giuseppe, vedi supra, p. 58.
40 Probabilmente — mi suggerisce Maxime Rodinson — a causa di uno
scambio tra Rech e Daleth, avvenuto per sbaglio in epoca molto antica.
170
rebbe di Salamina, se scartassimo Erodoto ed Eschilo, con la scusa
che erano partigiani? Possiamo forse illuderci che basti « neutraliz
zare » questi testi per ottenere la verità? La verità bisogna postu
larla, come Kant postula la cosa in sé, senza sperare di raggiun
gerla 41. Ma per il momento, il compito che ci si presenta è più
modesto e pratico: far dialogare logoi e erga, discorsi e fatti,
tenendo presente che sono di natura diversa.
Certo non si può dire che gli archeologi di Masada si siano pro
posti di leggere il racconto di Giuseppe senza dare per scontato in
che relazione stesse il testo con gli scavi o con gli avvenimenti stori
ci: «Uno degli scopi della nostra missione era di verificare il raccon
to di Giuseppe in base agli elementi che avremmo man mano sco
perto » 42. C ’era da aspettarsi che una ricerca cominciata all’insegna
di Giuseppe si sarebbe conclusa allo stesso modo, cosi come Omero
ha dominato tutte le ricerche archeologiche a Troia, dal principio
alla fine. È già stupefacente che la descrizione dello storico sia
risultata grosso modo esatta. Più precisamente, sono state ritrovate
tracce indiscutibili della guarnigione ebrea e di quella romana che
ne prese il posto. È stato provato che la fortezza fu incendiata,
senza ovviamente poter dimostrare che l ’incendio era stato appic
cato dai difensori. Per certi aspetti — come la scoperta di mano
scritti « qumranici », della sinagoga e del bagno rituale — gli scavi
hanno fatto progredire le nostre conoscenze al di là della testimo
nianza di Giuseppe, senza per questo contraddirla formalmente.
Ma per quanto riguarda in particolare la morte degli ultimi
difensori della piazzaforte, che rapporti ci sono tra scavi e testo?
Riassumiamo per prima cosa il racconto di Giuseppe. Dopo aver
sgozzato donne e bambini, i difensori « tirano a sorte dieci di loro
che avrebbero dovuto sgozzare gli altri ». Tutti si sdraiano allora
accanto ai cadaveri dei familiari, mentre gli esecutori procedono
al loro compito. A questo punto i « dieci » tirano a sorte uno di
loro che compie la stessa operazione. Quest’ultimo infine « incen
diò il palazzo, si ficcò la spada in corpo fino all’elsa, e stramazzò
accanto agli altri ». In tutto ci furono 960 vittim e43. Inutile dire
che i cadaveri non vennero lasciati sul posto. Gli scavi hanno
riportato alla luce ventisette scheletri, di cui venticinque stavano
in una grotta. Di questi ultimi sei erano donne e quattro bambini44.
171
Siccome questi resti hanno avuto onoranze di Stato per decreto
delle autorità israeliane, Yadin ci tiene a dissipare il dubbio che
potessero appartenere a soldati romani o a monaci bizantini43*45. Non
avendo avuto accesso ai dossier degli scavi, posso solo due che
forse su questo punto preciso Yadin ha ragione.
Non si può certo dire altrettanto quando il nostro archeologo
afferma d’aver trovato presso la Porta sud (quella che dà accesso
alla sorgente) una prova archeologica del sorteggio. In realtà sono
stati trovati « undici piccoli ostraka di strana foggia, assai diversi
da quelli raccolti a Masada fino a quel momento ». Ognuno di
questi cocci reca un nome. « Nomi del resto piuttosto eccentrici,
quasi dei soprannomi, come Yoav o Joab ” l’uomo della valle” ,
che può sembrare un nome comune, ma era rarissimo all’epoca
del secondo Tempio e poteva convenire solo a un temperamento
di eccezionale gravità. » Il seguito vale la pena di citarlo per esteso:
« Avevano davvero trovato gli ostraka che erano serviti per il
sorteggio? Non lo sapremo mai con assoluta certezza. Ma come
non contemplare questa possibilità, quando uno degli undici cocci
portava il nome di Ben Jair? Un semplice « Ben Tair », a Masada,
in quel momento, non poteva indicare altri che Eleazar Ben Jair.
Non potrebbe darsi dunque che il gruppo fosse composto dai dieci
militari sopravvissuti dopo l’esecuzione, i quali avrebbero poi tirato
a sorte fra loro? » 46. Ecco una bellissima serie di paralogismi.
Volendo per forza far coincidere scavi e racconto, Yadin finisce col
dimenticare quel che il racconto dice. Giuseppe parlava di due
sorteggi. Il primo, che coinvolge tutti gli uomini della guarnigione,
serve a designare dieci (e non undici) esecutori. Ovviamente, non
c ’è nessun motivo per cui queste dieci persone avessero nomi spe
ciali, e tanto meno c ’è motivo di supporre che tra loro ci fosse
il capo della guarnigione. Yadin scivola invece, senza avvertirne
i lettori, verso un’ipotesi completamente diversa. I nomi apparter
rebbero al capo supremo della guarnigione e ai suoi dieci collabo
ratori, un po’ come il polemarco e i dieci strateghi della battaglia
di Maratona. Ma che cosa resta allora del primo sorteggio e di
tutto il racconto di Giuseppe? A Masada sono stati trovati molti
ostraka, di cui la maggior parte portano lettere dell’alfabeto ebraico,
43 Masada, p. 197. Altre informazioni mi sono state date a voce sul posto,
nel corso d’una visita guidata da D. Asheri e M. Amit, entrambi professori all’uni
versità ebraica di Gerusalemme. Il Preliminary Report di Yadin, pp. 90-91, non
fornisce ulteriori delucidazioni su questo punto.
46 Masada, p. 201.
172
altri recano caratteri greci e altri infine nomi propri. L ’ipotesi di
Yadin, che alcuni di questi cocci « servissero al razionamento in
vigore tra gli zeloti durante l ’assedio » 47 è perfettamente ragio
nevole. Ma si potrebbe fare una decina di altre ipotesi non meno
ragionevoli.
Del resto, per capire fino a che punto Yadin sia ossessionato
dalla volontà di trovare a tutti i costi tracce di personaggi storici,
basta un particolare. Prima degli ostraka della Porta sud ne sono
stati scoperti altri, di cui uno col nome banalissimo di Jehohanan,
ossia Giovanni. E Yadin commenta: « Si è tentati d’identificare
questo Jehohanan con Jehohanan Ben Levi (Giovanni di Gischala),
ma per il momento non ne abbiamo prove ». Meno male: Giovanni
di Gischala svolge un ruolo fondamentale nel racconto di Giuseppe,
però a Masada non ha mai messo piede 4748. Finiamola quindi di chie
dere ai reperti archeologici risposte che non sono in grado di dare,
e domandiamoci invece se il racconto di Giuseppe sulla fine degli
assediati non si chiarisca meglio alla luce di Giuseppe stesso.
2. Discorso e apocalisse
47 Ibidem , p. 191.
48 Report, p. 113, nota 100.
49 Guerra, II I, 341-342. Su tutto questo episodio, cfr. supra, pp. 27-28.
50 Ibidem , 344; Maria Damiti ritiene che questo sia un elemento di sim
metria con il racconto di Masada.
173
ciare il futuro, m’arrendo volontariamente ai romani e resto in
vita, ma ti prendo a testimone che parto di qui non come traditore,
ma come tuo servo » 51. Il lettore ricorderà il seguito: i compagni
di Giuseppe rifiutano d’arrendersi, e, respingendo un’arringa di
Giuseppe contro il suicidio (sulla quale avremo occasione di ritor
nare) gli lasciano la scelta tra la fine dei traditori e una morte
eroica52. Giuseppe propone allora un sistema di morte collettiva
simile a quello che — stando al suo racconto — sarà poi adottato
a Masada: « sgozzarsi reciprocamente per estrazione a sorte 53.
Come è noto, alla fine Giuseppe, rimasto solo superstite con un
altro compagno, lo persuade a salvarsi. L ’episodio si chiude quindi
con un rifiuto della morte. Ai due sopravvissuti (Giuseppe e il
compagno) corrispondono le due sopravvissute di Masada: in en
trambi i casi i superstiti servono a raccontare come sono morti
gli altri.
Vita e morte: a Jotapata, Giuseppe parla in prima persona
contro il suicidio, e questo ci garantisce che, almeno a suo modo
di vedere, togliersi la vita era contrario alla tradizione ebraica.
A Masada, Eleazar parla invece a favore del suicidio, adducendo
argomenti di varia provenienza (dagli orfici agli stoici), tutti co
munque attinti alla filosofia greca. Suicidarsi vuol dire liberare
l’anima, permetterle di avere quel rapporto immediato con Dio che
ai viventi è concesso solo nel sonno: « Perché dovremmo temere
la morte, quando amiamo riposare dormendo? » S45. Eleazar riesuma
insomma la vecchia equivalenza soma-sema. A Jotapata, Giuseppe
spiegava invece che anima e corpo sono strettamente uniti e come
imparentati, sono ta philtata55. Poco importa che in entrambi i casi
vocabolario e argomentazioni siano ripresi dalla filosofia greca e
non dalla Bibbia; l’essenziale è che Giuseppe, a differenza di
Eleazar, invoca l’autorità di Mosè, « il più saggio dei legislatori »56.
Ma il discorso d’Eleazar presenta di per sé alcune particola
rità notevoli, a cui in parte abbiamo già accennato e su cui è ora
necessario tornare57. Innanzitutto è il solo discorso diretto di qual
51 Ibidem , 353-354.
52 Ibidem , 359-360.
53 Ibidem , 390.
54 Guerra, V II, 350. Per un’analisi delle tonti greche, cfr, W. Morel, Bine
R ede bei Josephus, in Rh. Mus., N. F. 75 (1926), pp. 106-114.
55 Guerra, II I, 362. La fonte è certamente Platone, Leggi, IX, 873 c (legge
sui suicidi).
56 Ibidem , 376.
57 Cfr. supra, pp. 151-154 e note (in particolare, la nota 8).
174
che rilievo che Giuseppe attribuisca a un personaggio « negativo »,
a un suo avversario come lo era il capo della sètta dei Sicari58.
In secondo luogo, è un discorso in due parti, dove l’esito della
seconda parte è la morte. Infine, e soprattutto, contiene tutta una
filosofia della storia ebraica che si potrebbe riassumere cosi: Dio
ha abbandonato il popolo ebreo per sempre, non resta dunque che
morire. Sarebbe assurdo attribuire questo pensiero a Giuseppe,
quando l’intera sua opera costituisce una protesta contro una simile
concezione. Ma non è difficile trovare nella Guerra un discorso
esplicito che fa da contraltare, in « positivo », al discorso di Elea-
zar. Abbiamo già visto che l’episodio di Masada era in molti punti
simmetrico al racconto di Jotapata e alla preghiera di Giuseppe;
ma un parallelo anche piu illuminante si trova nel libro V della
Guerra, nel discorso che Giuseppe attribuisce a se stesso, sotto le
mura di Gerusalemme. È interessante notare una corrispondenza
già soltanto formale: anche il discorso di Giuseppe si divide in
due parti (e nell’opera non ci sono altri esempi d’una simile bipar
tizione). Tra la prima e la seconda parte il lettore ricorderà i com
menti dell’autore sui sarcasmi di cui lo ricoprono i compatrioti59.
Ma, a differenza di Eleazar, Giuseppe alla fine non convince nes
suno. Eleazar è un profeta di morte ed è ascoltato; Giuseppe è un
profeta di vita ascoltato solo da se stesso e dai romani, nonostante
alla fine del discorso si dichiari pronto a dare la vita pur di ricon
durre i compatrioti « alla ragione » 60. Come il discorso d’Eleazar,
anche quello di Giuseppe contiene una filosofia della storia ebraica,
dove però l’accento non è posto sulla guerra degli uomini, ma su
quella di Dio. Dio solo ha potuto salvare Gerusalemme, non spetta
al suo popolo d’usare violenza. Del resto, aggiunge Giuseppe, biso
gna distinguere nettamente tra l’egemonia politica e la superiorità
religiosa; la prima appartiene a chi ha la superiorità delle armi, agli
imperi che si succedono nell’ordine voluto da Dio, mentre la se
conda si può conciliare con la non violenza. Gli ebrei possono
avere, hanno anzi, questa superiorità religiosa, ma non possono
sperare d’ottenere anche l’altra. Cosi Giuseppe, adducendo l’esem
pio di Geremia, a cui s’assimila, proclama che la via della vita passa
per la resa: « Sebbene Geremia andasse conclamando che erano
invisi a Dio a causa dei loro peccati, e che sarebbero caduti in
175
prigionia se non consegnavano la città, né il re né il popolo lo
condannarono a morte. Voi invece [ ...] mi ricoprite d’insulti e mi
tirate addosso, a me che vi consiglio per il vostro bene » 61. Strana
trasposizione d’un tema effettivamente presente nella coscienza
ebraica del I secolo, come testimonia tra l’altro il « rendete a
Cesare ».
Ma non possiamo continuare a spiegare Giuseppe solo attra
verso Giuseppe. Dato che i testi del nostro storico risentono della
retorica storiografica che fa capo a Erodoto e Tucidide, tanto che
le prime righe del libro sono un’evidente imitazione di questo
ultimo, una prima via, già ampiamente battuta, consisterebbe nel
ricondurre i topoi di Giuseppe nel quadro della storiografia greco
romana. Ma c ’è una seconda via, che prendo qui come ipotesi di
lavoro: studiare i testi di Giuseppe alla luce d’una particolare
forma di letteratura ebraica: l’apocalittica 62. In che consiste questa
letteratura e in che senso può esserci utile? 63
La letteratura apocalittica è nettamente delimitata nel tempo:
accompagna la comparsa della presenza seleucide in Palestina, e
trova una prima grande espressione nel libro di Daniele (verso il
163 a .C .); si prolunga poi fino all’indomani della seconda insur
rezione degli ebrei in Palestina (135 d. C.). Certo è sempre possi
bile farla risalire ancora piu lontano Isi può parlare d’uno « spirito
apocalittico » del profeta Ezechiele); allo stesso modo si può ve
dere un proseguimento della letteratura apocalittica in testi di epoca
molto posteriore, come in certi tardivi rifacimenti cristiani. In
seguito l’apocalittica e il messianismo apocalittico non spariscono
dalla coscienza ebraica, tutt’altro, anche se la saggezza rabbinica
fa del suo meglio per controllare e anzi per soffocare queste ten
denze, che rispunteranno a diverse riprese in altri periodi della
storia (una di queste sorprendenti rinascite, nel X V II secolo, inte
61 Ibidem , 391-393.
62 Non credo che questo tentativo sia già stato fatto. Ad esempio un’opera
importante come quella di F . J . Foakes Jackson, Josephus and thè Jew s, London,
1930, non menziona nemmeno l’esistenza d’una letteratura apocalittica.
63 Sulla letteratura apocalittica, cfr. supra, pp. 109-123. Per la bibliografia
rimando alle opere ritate alla nota 29 del cap. IX, in particolare a quelle di Rowley
e di Russell. À queste si deve aggiungere J . Barr, Jewisb Apocalyptic in Recent
Scholarìy Study, in Bulletin of thè John Rylands University of Manchester, 58, I,
1975, pp. 9-35, e l’utilissima raccolta pubblicata sotto la direzione di L. Monloubou
e H . Cazelles col titolo Apocalypses et tisiologie de l’espèrance, Paris, 1977 (vedi
in particolare i contributi di M. Delcor, P . Grelot, P . M. Bogàert e J . Stiassny).
176
resserà l’intero mondo dell’ebraismo) Ma torniamo allo specifico
della letteratura apocalittica dell’epoca greco-romana. Si tratta di
una letteratura chiaramente legata alla dominazione straniera e alla
resistenza contro i conquistatori, almeno finché resistere sembra
ancora possibile. Scrivevo prima che l’apocalittica esprime la visione
dei vinti, nel pieno senso del termine, e che va vista come espres
sione drammatizzata dei conflitti provocati dall’accolturazione; ma
nifestazioni analoghe si riscontrano in altre società assoggettate,
sia del mondo antico (il caso più noto è l’egiziano Oracolo del
vasaio) sia del mondo moderno(S.
D ’altra parte questa letteratura s’appoggia sul passato per
agire nel presente e prevedere l’avvenire. La profezia non è solo
predizione, ma l’apocalisse predice l’immediato, definisce le condi
zioni — comprese le condizioni temporali — della restaurazione,
o piuttosto dell’instaurazione, del Regno. A tale scopo rilegge e
interpreta i profeti. Quando Geremia annuncia « tutto questo
paese sarà ridotto a rovina e desolazione, e queste genti saranno
soggette al re di Babilonia per settant’anni. Al termine dei settanta
anni punirà il re e le genti di Babilonia, dice il Signore, per la
loro iniquità » 64566, Daniele interpreta: gli anni sono settimane di
anni, di cui sessantanove già trascorse quando l’« Unto » è stato
« eliminato »; siamo quindi nella seconda metà dell’ultima setti
mana 67.
Questa letteratura s’appoggia sul passato, al punto che di
solito si presenta come « pseudoepigrafica »; in questo senso l’Apo
calisse di Giovanni è un’eccezione. Generalmente il testo viene
posto sotto il patronato e la responsabilità dei grandi predecessori,
attribuendolo ad Abramo, Daniele, Elia, Mosè, Baruch e tanti altri.
Il fatto in sé è banale nella letteratura greco-romana68; meno banale
177
è invece che la pseudoepigrafia comporti una rilettura. A dire il
vero la stessa pseudoepigrafia è una forma particolare di rilettura.
Il libro dei Giubilei è una rilettura e una nuova versione della
Genesi, l’autore del libro di Daniele rilegge e riscrive Geremia.
Ma può anche succedere che l’opera non sia attribuita a un ebreo
ma a un personaggio della mitologia pagana, come gli Oracoli sibil
lini che da Alessandria si rivolgono a un pubblico non ebreo 69,
Altro aspetto importantissimo degli scritti apocalittici è che
ci sono giunti in parecchie lingue, e che queste versioni provengono
da popoli che non avevano nessuna ragione d’interessarsi alla « vi
sione dei vinti » in quanto questa aveva di prettamente ebraico,
benché con la cristianizzazione fossero anch’essi divenuti rappre
sentanti del Verus Israel. Molti di questi scritti tipicamente ebraici
sono stati conservati non solo in greco — come sarebbe perfetta
mente normale — ma anche in copto, in etiopico, in siriaco, in
slavo, mentre ad esempio nessun testo egiziano ci è giunto tradotto
in una lingua straniera che non fosse quella degli occupanti greci
(anche se esistono delle rispondenze testuali tra l’Oracolo del vasaio
e il II I libro degli Oracoli Sibillini) 70. Il fatto è che un testo come
quello di Daniele71 s’universalizza facilmente, nella misura stessa
178
in cui viene tradotto, se è vero, come scrive Bikerman, che « gli
ebrei divennero il ” popolo del Libro ” quando questo libro fu
tradotto in greco » 72. Del resto le premesse di questa letteratura
suscettibile di essere universalizzata erano state poste da tempo,
fin dall’epoca dell’esilio, coll’elaborazione di temi come quello del
« Servo di Jahveh » nel Deutero-Isaia73. Un esempio molto chiaro
d’universalizzazione ce lo dà un testo apocalittico che esiste soltanto
in greco, e che possiamo datare con precisione (poco prima del
78 a. C .): il prologo di E s te r1*, in cui Mardocheo è tramite d’una
inattesa trasformazione. Infatti non è più il popolo ebreo a trovarsi
minacciato di morte, o colpito da morte temporanea (come quella
179
di Gesù) ma un popolo di giusti '5 e di umili (tapeinoi) infelici, ai
quali viene promessa la gloria di « divorare i potenti » (endoxoi).
Questo stesso scritto e altri consimili testimoniano infine di
un’altra caratteristica fondamentale della letteratura apocalittica
ebraica, l’uso di tutto un arsenale d’espedienti retorici attinti alla
cultura ellenistica, cioè alla cultura dominante: ad esempio è palese
che l’autore del prologo di Ester conosce la tragedia greca. E gli
esempi di simili aggiustamenti si potrebbero moltiplicare 7576,
Torniamo adesso a Flavio Giuseppe e al discorso di Eleazar,
figlio di Jair. Il principio base del pensiero apocalittico e messia
nico è che la restaurazione (e l’avvento) del Regno è possibile sin
d’ora, immediatamente77, fermo restando che dev’essere preceduta
dalle tribolazioni e addirittura dalla morte. Si ricorderà che Giu
seppe, nel raccontare come perirono tra le fiamme molti abitanti
di Gerusalemme che s’erano rifugiati nei portici del cortile esterno
del Tempio, accusa della loro morte un « falso profeta » che li aveva
incitati a salire al Tempio « per ricevere i segni della salvezza »
quel giorno stesso, quando il Tempio era già in preda alle fiamme 78.
È contro questo spirito apocalittico che Giuseppe ha scritto tutta
la Guerra giudaica, e proprio per avversione a questa folle speranza
afferma d’aver trasferito sulla persona di Vespasiano le attese susci
180
tate dal messianismo79. In questo contesto, che cosa rappresenta
una « predicazione di morte » 80 come il discorso d’Eleazar, cosi
sorprendente in bocca a un ebreo? La prima e la seconda parte
del discorso hanno in comune un tema apocalittico, ma d’una
apocalisse che conosce solo il primo momento del sogno di Mardo
cheo, senza il momento della salvezza, e che, al di là della caduta
di Masada, al di là della rovina dello Stato ebraico, annuncia la
line dello stesso popolo ebreo. Il tema è presente fin dall’inizio.
I Sicari hanno giurato « di non essere servi dei romani né di nessun
altro, all’infuori di Dio »; ma avrebbero dovuto capire fin dall’ini
zio della guerra che « il popolo ebraico, amato un tempo da Dio,
era stato condannato ». E la condanna è totale: non c’è, non ci sarà
piu un « resto d’Israele »: « Speravamo forse di poterci salvare
e restare liberi, noi soli di tutto il popolo ebreo, come se fossimo
innocenti davanti a Dio e non ci fossimo macchiati di nessun de
litto, noi che ne siamo stati maestri agli altri? » 81. Facendo pro
nunciare questo discorso dal capo dei Sicari — « quelli che per
primi calpestarono la legge e incrudelirono contro i connazionali,
senza mai risparmiare una sola parola di tracotanza, senza lasciare
mai nulla di intentato pur di rovinare le loro vittime » 82 — Giu
seppe mette in bocca a Eleazar una confessione di colpevolezza
che implica una predizione di morte definitiva.
Lo stesso tema viene ripreso e sviluppato nella seconda parte,
quella che nel racconto di Giuseppe scatena la morte collettiva. Sia
detto una volta per tutte, non intendiamo mettere in dubbio che
il fatto narrato sia realmente accaduto, anche se attestato da una
unica fonte; dopo tutto, benché Giuseppe personalmente ritenga
il suicidio contrario alla tradizione ebraica, la morte dei difensori
di Masada può rientrare in una serie di episodi simili la cui stori
cità è indiscutibilmente provata. Ad esempio Razis, « anziano di
Gerusalemme », durante la guerra mossa da Nicànore contro Giuda
Maccabeo (160 a.C.) «incalzato da ogni parte, rivolse la spada
contro se stesso, generosamente preferendo morire che cadere in
mano di criminali e subire oltraggi indegni della sua nascita. [...]
181
Poiché respirava ancora, infiammato d’ardore, si rialzò tutto gron
dante sangue, e malgrado le terribili ferite, si slanciò di corsa facen
dosi largo nella mischia. Infine, ritto sopra una ripida roccia, ormai
esangue, si strappò le viscere e prendendole a piene mani le scagliò
sulla folla, pregando il Signore della vita e dell’anima di restituir
gliele un giorno. Cosi mori » 8384. Racconto caratteristico, come si
vede, di un suicidio individuale « in nome di Dio », di cui la fine
di Masada sarebbe un esempio collettivo. Comunque sia, nella se
conda parte del discorso di Eleazar il tema della fine del popolo
ebreo viene ampliato. Gerusalemme è caduta, il Tempio distrutto,
distrutta anche la Diaspora di Cesarea, di Siria, d’Egitto. Distrutta
la popolazione ebraica di Scitopoli (Beth Shean) che pure aveva
preso le parti dei nemici greco-romani. Tutto è morto per Eleazar,
mentre per Giuseppe niente è morto definitivamente M. Ma se la
tematica della prima parte era ancora fondamentalmente ebraica, la
seconda introduce un tipo di argomentazione interamente nuovo:
Eleazar non solo svolge una serie di considerazioni sull’immortalità
dell’anima derivate dalla filosofia greca (il che rientra perfettamente
nel lavorio d’adattamento di cui parlavamo prima), ma addirittura
porta un esempio preso apertamente e direttamente dal mondo non
ebreo, l’esempio dei saggi dellTndia, che i greci chiamavano « gim-
nosofisti » e noi chiamiamo fachiri. Il modello dei gimnosofisti
viene dopo gli esempi presi dalla tradizione ebraica — o meglio:
presentati come tali — e si pone quindi come argomento decisivo.
I saggi indiani « consegnano il corpo alle fiamme », « presi dal
desiderio_della vita immortale; [...] e non ci vergogniamo allora
d’essere inferiori agli indiani di fronte al pensiero della morte,
e di gettare nel fango, con la nostra viltà, le leggi dei padri, che
tutto il mondo c ’invidia? » 8586. Modello straniero e tradizione nazio
nale s’alleano in questo singolare discorso. E certo l’esempio degli
indiani doveva essere diffuso un po’ dappertutto, anche nella tradi
zione ebraica, visto che Filone d’Alessandria parla d’un gimnoso-
fista Calanos che volle dare l’esempio ad Alessandro e si fece bru
ciare vivo ma si ammetterà che suona comunque assai strano in
182
bocca al capo di una setta ebraica87. Se la città « che si credeva
fondata da Dio » 88 è caduta, se agli occhi di Eleazar l’intero popolo
ebreo è votato alla morte, allora l’apocalisse non conduce al Regno
ma alla distruzione. Per Giuseppe, mettere le parole e gli argomenti
che abbiamo visto in bocca a Eleazar è un modo — forse tortuoso,
come a volte gli capita — d’indicare da dove veniva, secondo lui,
il vero pericolo di morte. Proprio perché ai suoi occhi Masada
non era la fine del popolo ebreo — il racconto infatti prosegue
anche dopo — e proprio perché per lui i praticanti dell’apocalisse
erano falsi profeti, Giuseppe ha scritto il discorso di Eleazar in
forma d’apocalisse, l’unica in tutta la sua opera: ma un’apocalisse
senza sbocco, un’apocalisse di morte.
pp. 92-136) si troveranno vari riferimenti al suicidio sul rogo nella letteratura
ebraica e greco-romana. Su Calanos, cfr. pp. 93-96. Lo stesso Giuseppe, citando
Aristotele, parla di « filosofi » che vengono chiamati « Calanoi » (Contro Apione,
I, 179).
87 Ad esempio se ne stupisce H . Lindner, op. cit., p. 38.
88 Guerra, V II, 376.
183
00
4^
L e dinastie degli A sm oneì e degli Idurnei
(le due date indicano la durata del regno)
ASM ONEI
Mattatia f 166
Giovanni Ircano I
135-104
ID U M EI ,--------L _ ------------ ,
Aristobulo Alessandro Janneo oo Alessandra
104-103 103-76 I 76-67
i I------------h
Antipatro I f 70 Ircano II Aristobulo II
| 67-63 f 30 67-63 1 49
) Cipro | |------- *1--------- 1
Antipatro I I t 43 (Nabatea) Alessandra cc Alessandro Antigono Mattatia
I-------------- !------------- I | - 40-37
Erode il Grande co Doride oo Mariamme I co Mariamme II oo Maltacea oo Cleopatra
37-4 (ebrea) | ' | ,----- i j
Antipatro II I Aristobulo Erode Filippo Archelao Erode Antipa Filippo il Tetrarca
14 14 oc la figlia dAreta oo Salomè
I oc Erodiade
185
Arìsteo, 97. Caligola, 88, 90, 93, 94.
Aristobulo I, detto il Filelleno, 74. Carmelo, 131 n.
Aristobulo II, 82, 112. Caspìn, 71.
Armenia, 76. Catullo, 156.
Aronne, 69 n., 72, 80, 122, 141. Cele-Siria, 62 n.
Artaserse II, 96. Ceriale, 104.
Ascalon, 102. Cesare, 44, 47, 92.
Aseneth, 92. Cesarea, 46, 47, 75 n., 77, 79, 82,
Asia, 30, 88, 106. 99-102, 182.
Asia Minore, 65. 78. Cilicia, 76, 106.
Assalonne, 106. Cipro, 47, 48, 88, 111 n.
Asmonei, 82, 124, 161. Circo Massimo, 33.
Astapa, 169 n. Cirenaica, 99.
Atene, 35, 50, 78, 89, 141, 144 n. Cirene, 106, 156.
Ateneo, 35 n. Ciro. 96, 116, 163 n.
Atrongeo, 126. Clazomene (Ionia), 46.
Augusto (Ottaviano), 44, 47, 77, Claudio, 90, 104.
78, 88, 91, 154 n. Cleopatra, 46.
Aziz. 76. Cleooatra, regina d’Egitto, 77 n.
Cleopatra II, 85.
Babilonia, 36, 37, 52, 65, 96, 97, Commagene, 76.
157 n., 177, 179 n. Coo. 78, 89.
Bacchide, 80. Coponio, 103.
Bagoses, 96. Corcira. 89, 143.
Balaam, 154 n. Corinto, 89, 155.
Bar Kochba, 133. Crasso, 36.
Baruch. 114, 116, 177. Creonte, 40.
Basso, Sesto Lucilio, 151. Creta, 88.
Batanea, 75. Cuma, 36.
Belial, 92, 122. Cumano, 139.
Beltshassar, vedi Daniele.
Ben Gorion, vedi Giuseppe Ben Damasco, 48 n., 98.
Gorion. Daniele, 58, 63, 65, 66, 114-118,
Ben Sirach, vedi Gesù Ben Sirach. 154 n., 176-178.
Ben Zaccai, vedi Johannan Ben Dario, 96.
Zaccai. David, 74, 75, 83, 118-120, 162 n.
Berenice, 75, 78. Decapoli, 101, 102, 105, 112.
Berito, 78. 99. Deio, 78.
Beroso, 54. Demetrio I, 80, 123.
Beth Shean, vedi Scitopoli. Demetrio II, 69.
Beyrouth, vedi Berito. Demetrio I II, 81.
Britannia, 31, 143. Demostene, 50.
Diaspora, 82, 84, 87, 88, 95-101,
Calcis, 76. 106, 109, 125, 149, 153. 182.
Calanos, 182, 183 n. Diodoro, 125 n., 169 n.
186
Dione Cassio, 53, 86, 99. Esdra, 69, 96.
Dionigi di Alicarnasso, 32, 33 n., Essent, 53, 110, 113, 121. 122,
167. 125, 129, 141.
Domiziano, 28, 33. Ester, 71, 96, 97, 179, 180.
Drusilla, 76. Ettore, 78.
Eubea, 88.
Efraim, 118, 119. Eufrate, 36, 37, 88.
Egesippo, 120 n. Eunus, detto Antioco, 127.
Egitto, 29, 45, 46 n., 65, 84-87, Euripide, 39.
89-93, 97, 99, 115, 153. 156, Europa, 30, 88.
157 n., 178 n., 180, 182. Eusebio di Cesarea, 48, 49, 54,
Eleazar Ben Tair, figlio di Giairo, 111, 120 n.
41, 53 n., 58, 111, 131, 152- Ezechiele, 176.
154, 164-168, 170, 172-175, Ezecia, 128.
180-183.
Eleazar, figlio di Anania, 130, 138, Fado (Cusoio Fado), 45, 125-
143. Farisei (Perushim), 80-82, 105,
Eleazar, figlio di Dineo, 139. 113, 118 n., 121 n., 129. 146,
Eleazar, figlio di Simone, 131, 137, 165.
144, 146, 147, 165. Felice, 26, 76, 101, 129.
Eleazar, sommo sacerdote, 95. Festo, 130.
Elefantina, 84. Filadelfia (Amman), 40, 101.
Elia, 177. Filelleno, vedi Aristobulo.
Elima il Mago, 48 n. Filippi, 47.
Eliodoro, 41, 67. Filippo, 107.
Emesa, 76. Filippo V, 169 n.
Emmaus, 78. Filone d’Alessandria, 44, 58, 86 n.,
Emone, 40. 88, 89, 91-95, 99, 100, 131,
Engaddi, 161, 162 n. 182.
Enoch, 110. Finehes, 140 n., 141, 142.
Ercole, 36. Fiacco Aulo Avillio, 89, 91-94.
Erode il Grande, 33, 36, 40, 41, Fiacco Pomponio, 76.
44, 57 n., 63 n., 74-79, 82, 88, Flavi, 28, 53, 151, 156.
92, 101, 105, 109, 116. 120, Floro Gessio, 33, 46, 138, 156.
122, 124, 125, 128, 138, 139,
149, 154 n., 161, 162, 166, Gabinio, 104.
169 n. Gadara. 101, 102.
Erode Antipa, 78, 120 n., 125. Galaunitide, 75.
Erode di Calcis, 76. Galgaco, 30.
Erode Filippo II di Batanea, 79, Galilea, 27, 29. 103, 107, 108,
124. 128, 140, 146, 164.
Erode l’Idumeo, vedi Erode il Gallia, 143.
Grande. Gallo, 108.
Erodoto, 41, 54 n., 171, 176. Gamala, 108, 128.
Eschilo. 171. Gamaliele, 47, 126, 127.
187
Garizim, 70, 103. Giovanni Ircano I, 34, /3, 74, 79,
Gaza, 65, 74, 102. 80, 81 n., 82.
Gazara (Gezer), 78. Giovenale, 45 n.
Gerasa, 101, 102, 105, 148. Giuda, 68 n., 87, 96, 119.
Geremia, 51, 60, 116, 175. 177, Giuda, figlio di Ezecia, 128.
178. Giuda il Galileo. 45, 58, 127-130,
Geconia (Joakìn), 52. 132, 137, 145, 152, 166.
Gerico, 71, 126. Giuda l’Esseno, 112.
Geroiamo, santo, 53. Giuda Maccabeo, 68, 69 n., 71, 72,
Gerusalemme, 25-27, 29, 30, 32, 80, 84, 181.
33, 36, 41, 45-48, 54, 56, 60, Giudea, 26, 27, 29, 33, 40, 43-45,
62, 63, 66-69, 73-75, 77, 81, 48, 49, 62, 64, 65, 72, 75, 76,
85-88, 94, 95, 97, 98, 101-107, 79 n., 83-85, 88, 92 n., 98, 100-
111, 112, 118, 120n., 122, 123, 106, 108, 109, 112, 119 n., 125,
126, 129-133, 136-140, 142- 127, 132, 134 n., 135, 137-140,
149, 151-155, 165, 166, 169 n„ 144, 154-156.
170, 180-182. Giuditta, 71.
Gesù Ben Sirach, 64, 115, 166. Giulia, 78.
Gesù Cristo, 49. 54, 55, 58, 101, Giuseppe Ben Gorion, 57, 58 n.,
103, 106-108, 111, 112, 119- 59.
121, 131 n., 171, 180. Giuseppe, figlio di Giacobbe, 91-
Gesù, sommo sacerdote, 42. 93, 1 3 1 n.
Gezer, vedi Gazara. Giuseppe Tobiade, 67 n.
Giacomo di Giuda il Galileo, 130. Giusto di Tiberiade, 29, 102, 107,
Giaffa, vedi Jopoe. 109.
Giasone di Cirene, 81. Golan, 71, 108.
Giasone (Giosuè), 66, 67. Gourion, vedi Giuseppe Ben Go
Gionata, figlio di Absalom, 73. rion.
Gionata, fratello di Giuda Macca Grecia, 30, 50, 51, 70, 78. 142,
beo, 72, 73, 82, 113, 130, 156. 157 n.
Gionata, sommo sacerdote, 79,
130. Hasidim, 68, 69, 80, 81.
Giordano, 75. 101. 112. 125, 126. Hebron, 64 n.
Giosuè, 71, 73, 82, 126, 141. Helenos, 90.
Giosuè, sommo sacerdote, vedi Hillel, 36, 41, 169 n.
Giasone. Herodion, 151.
Giovanni Battista, 125.
Giovanni Crisostomo, 54. Idumea, 100, 102, 147, 157 n.
Giovanni di Gischala (Gush Ha- Idumei, 82.
lov), 41, 52, 137, 140, 144, Ilio, vedi Troia.
146-148, 165, 173. India, 65, 182.
Giovanni Evangelista, 58n., 103n., Ippolito di Roma, 110n., 129,
107, 113, 119-121, 124, 131 n., 141.
132, 177. Iran, 65.
Giovanni l’Esseno, 109. Ircano I, vedi Giovanni Ircano.
188
Ircano II, 74, 82, 91, 112. 113. Marco Agrippa, 78.
Isacco, 33, 39, 40. Marco, san, 101, 111 n., 112, 1Ì9,
Isaia, 64, 122 n., 179, 181 n. 120 n, 129 n, 131 n.
Isauria, 169 n. Mardocheo, 179, 181.
Israele, 33, 40, 49, 56, 60, 65, Marmarici, 169 n.
68, 70, 103, 111, 112, 114, Mar Morto, 161, 162.
117-122, 138, 141, 150, 152- Marsiglia, 35.
154, 162 n , 164, 181. Marso, 76.
Italia, 30, 155. Masada. 27, 41, 53 n., 57, 58, 109,
111, 131, 137, 143, 145 n., 147,
Jaddous, 97. 151, 156, 161-166, 168-175,
Jàmmia (jabneh), 133, 154. 181-183.
Javan, 119. Mattatia, 41 n., 68-70, 81, 141.
Joiakin, vedi Geconia. Matteo, san, 101 n., 103, 111 n.,
Joppe (Giaffa), 73, 102. 112 n., 119, 120 n., 129 n.,
Jorarib, 68. 131 n.
Johannan Ben Zaccai, 132, 133, Meleagro, 35. 101 n.
134 n., 154, 155, 170. Menahem, figlio di Giuda il Gali
Jotaoata, 27, 102 n., 152, 170, leo, 111, 112, 130, 131. 145,
173-175. 151, 166, 169 n.
Julia gens, 78. Menahem l’Esseno, 124.
Menelao, 67, 112.
Khtrbet Qumran, 109. Mesopotamia, 37.
Kition, 111 n. Metilio, 102 n.
Kosem, 140. Mezira (Masada), 58, 170.
Moab, Paese di, 162.
Laranda in Isauria, 169 n. Modim. 68, 69.
Leontopoli, 85, 99. Mosè, 82, 85, 97, 103, 125, 174,
Libano, 76, 107. 177.
Libia, 88.
Licia, 169 n. Nabucodonosor, 33, 65.
Licurgo, 39 n. Nahum. 122, 123.
Livia, 154 n. Natamele, 107.
Luca, santo, 48, 101 n., 103 n., Naucrati, 89.
106, 111 n., 119 n., 120 n., Nazareth, 107.
126, 129 n., 130 n., 154, 180 n. Neemia, 69, 84, 87, 96.
Nerone, 26, 45, 75 n„ 101, 134 n.,
Maccabei, 33, 68, 113, 121,128 n., 157.
137 n., 138, 165. Nicànore, 105, 181.
Macedonia, 50, 79 n. Nicia, 143.
Macheronte, 151. Nicodemo, 58 n.
Maco, 77. Nicola, 107.
Magna Grecia, 35. Nicola di Damasco, 77, 78 n., 124.
Manetone, 54. Ninive, 122, 123.
Maratona, 172. Numanzia, 169.
18 9
Omero, 35, 171. Qohélet, 64.
Onia I I I , 112. Qumran, 80, 109-111, 113, 117,
Onia IV, 85. 121 n., 122, 149.
Onia il Giusto, 112.
Ottaviano, vedi Augusto. Razis, 181.
Remo, 33.
Palestina, 36, 37, 39, 44, 47, 63, Roma, 26, 28-35, 47, 49, 50, 53,
64 n., 77, 82, 85, 86, 88, 92, 56, 72 n., 75 n., 82, 86, 87 n.,
96-100, 109, 119, 125, 127, 88, 92, 94, 95, 104, 105, 111,
138, 148, 149, 151, 153, 156, 138, 157 n.
163, 176. Romolo, 33.
Panion, 63.
Paolo di Tarso, 46-49, 109, 126, Sabino, 139.
149. Sadok, 72.
Paolo Quinto Sergio, 47, 48 n. Saddok, 129.
Pella, 101. 112, 149. Sadducei, 80, 113, 129.
Pelononneso, 144 n. Sagunto, 169.
Pentapoli (Cirenaica), 156. Salamina, 30, 171.
Perea, 75, 126, 140. Salomè, 154 n.
Pergamo, 34. Salomone, 110, 116, 118.
Pericle, 40 n., 41 n., 69 n., 141. Samaria, 77, 92, 100, 103, 123.
Perushim, vedi Farisei. Samuele, 125.
Persia, 84. San Giovanni d’Acri, vedi Tole-
Petra, 102 n. maide.
Petronio Arbiter, 35. Saul, vedi Paolo di Tarso.
Petronio, 95.
Scitopoli, 71, 101, 102, 182.
Pharos, 86.
Sebaste, 77, 92, 102.
Platone, 93, 153 n., 174 n.
Sedecia, 51, 52 n.
Plinio il Vecchio, 43.
Seffori, 107.
Plutarco, 54 n.
Polibio, 31, 49-51, 67, 143 n., Seleucidi, 65.
Seleuco IV Filooatre, 67.
169 n.
Pompeo, 33, 62, 73, 91, 101, 104, Serse, 30.
118, 125. Shammai, 41.
Ponto, 76. Sibilla, 36.
Ponzio Pilato, 103, 104, 119, 120, Sicari, 99, 110n., 128-131. 137,
124, 139. 139, 141, 145, 147, 148n., 151,
Poppea, 26, 27 n., 46. 156, 165, 166, 169 n., 175, 181.
Porfirio, 53. Sicilia, 36, 127.
Prassitea, 39 n. Sidone, 119.
Pseudo Egesippo, 54, 156 n., Silva Lucio Flavio, 151.
1 6 7 n. Simeone, figlio di Gamaliele, 146.
Putifarre, 92. Simone, 126.
Simone Bar Gioras, figlio di Ghio-
Quadrato, 104. ra, 111. 113. 131, 137, 143,
Quirinio, 127-129. 144, 147, 148, 151, 165.
190
Simon e, figlio di Giuda il Galileo, Tiro. 67, 119, 146 n.
130. Tito, 25, 28, 29, 31, 33, 45, 52,
Simone FEsseno, 125. 79, 86, 98, 99, 116, 132-134,
Simone lo Zelota (il Cananeo), 151.
111, 112 n. Tito Livio, 53, 167, 169 n.
Simone Fldumeo, 41, 147, 148, Tobiadi, 64.
175 n. Tolemaide (San Giovanni d’Acri),
Simone Maccabeo, 69, 73, 74, 79, 65, 89.
82, 113. Tolomei, 65, 91.
Simonide, 106. Tolomeo II Filadelfo, 85. 95.
Sion. 119, 138, 154. Tolomeo VI Filometor, 62, 73, 85.
Siracusa, 89. Tolomeo V ili, 85.
Siria, 27, 62, 65, 72 n , 76, 90, Traconitide, 75.
95, 102, 104, 127, 128, 139, Transgiordania, vedi Moab.
153, 156, 182. Trimalchione, 35, 36.
Sofocle, 38, 40. Troia (Ilio), 78, 163, 171.
Spagna, 65, 169 n. Tucidide, 32, 35, 38, 40, 41, 143,
Stefano, 106, 109. 167, 176.
Strabone, 96. Turannio, 90.
Stratone, 77.
Sulpicio Severo, 151 n. Ulisse, 36.
Svetonio, 45 n., 48, 53, 131 n.
Varo, 41, 139.
Tacito, 30, 45, 53, 86 n., 102, 126, Vespasiano, 25, 27, 28, 45, 48, 53,
131, 143-145, 147, 152 n. 75 n., 99, 101, 102, 107, 131-
Tannaim, 50, 132, 133, 155. 133, 134 n., 180.
Tarso in Cilicia, 46, 47. Via sacra, 36 n.
Tebaide, 45. Victomela in Spagna, 169 n.
Tempio di Gerusalemme, 25, 37 n., Vologese, 86.
52 n., 60, 61, 63, 66, 67, 70,
74-76, 82, 84, 85, 87, 96, 99, Xisto, 30, 106.
103, 105, 114-116. 122, 125,
129-132, 136-139, 143-151, Zaccaria, 68 n., 118, 119 n.
153-155, 165. 180, 182. Zeloti, 110, 111, 128 n., 130 n.,
Teodoto, figlio di Vetteno, 106. 131, 136, 137. 140, 141, 144 n.,
Teuda, 125, 127. 146-149, 155, 162, 164, 165.
Tiberiade, 51, 76, 105, 125, 128. Zeus, 70.
Tiberio, 44. Zorobabele, 96.
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