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nuova serie
Carmelo Bene
Contro il cinema
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Contro il cinema
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www.minimumfax.com
ISBN: 978-88-7521-442-5
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CARMELO BENE
CONTRO IL CINEMA
a cura di
EMILIANO MORREALE
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PREFAZIONE
di Emiliano Morreale*
1.
Carmelo Bene è stato, oltre che uno degli uomini di teatro più geniali del
secolo scorso, uno dei registi più eccentrici del nostro cinema. Ma tra le sue
«opere» possiamo inserire a pieno titolo anche le interviste che ha rilasciato,
le apparizioni e le incursioni nei mezzi di comunicazione più disparati. Forse
l’indicatore migliore della forza del personaggio-Bene, del suo apparire
catastrofico dentro ogni mezzo, è il suo rapporto con la televisione. Non
sono molti gli artisti e gli intellettuali che, inghiottiti nella scatola televisiva,
siano riusciti a fronteggiarne il dispositivo ad armi quasi pari, facendolo
saltare, piegandolo a sé. Tra i pochissimi c’è stato sicuramente Bene – e
come lui, forse, Pier Paolo Pasolini: ma in un modello di tv leggermente
anteriore. Negli ultimi anni di vita, Bene tornò con frequenza sullo schermo
televisivo, in alcuni memorabili happening (celebri quelli da Maurizio
Costanzo), o come commentatore sportivo. Ma memorabili sono state anche
le sue interviste apparse su giornali e periodici. Anzi, fuori dal circo
televisivo, nelle interviste può apparire più evidente l’altezza della sua
riflessione.
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Come ha scritto un ammirato Ennio Flaiano: «Carmelo Bene non minaccia
nessuno, eccetto se stesso».1
Le immagini del cinema, secondo Bene, sono manchevoli non perché non
riuscirebbero a raggiungere la terrena sacralità del reale, ma al contrario
perché vittime dell’inganno della rappresentazione, pesanti, parte di un
rigido rapporto col reale. È qui anche la differenza col coevo discorso di
Godard, che rimane debitore di Brecht e di Rossellini, e soprattutto saldo in
se stesso: l’oblio di sé, la negazione del soggetto, la dépense sono un
progetto che nemmeno sfiora Godard, la cui iconoclastia è quella semmai dei
grandi pedagoghi, come il suo concittadino di Ginevra, Jean-Jacques
Rousseau.
2.
In questo volume sono raccolte le principali interviste che Bene ha rilasciato
sulla propria attività cinematografica. Conversazioni perlopiù pubblicate da
riviste specializzate che verso il suo cinema avevano una particolare
attenzione (i Cahiers du cinéma, Cinema Film), o rilasciate a critici da lui
stimati. Ma questo, specie nelle prime interviste (uscite a ridosso dei primi
due film sullo scorcio degli anni Sessanta), non gli impedisce di confutare,
negare, demolire la forma dell’intervista, le idee di fondo di chi fa le
domande, e l’oggetto stesso della discussione. Contraddicendosi, parlando
per iperboli o per improbabili citazioni («Io cito cose che potrebbero essere
mie. Solamente per ragioni di sintesi dico: L’ha detto anche tizio; così per
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confortarvi, perché non sia sempre io a parlare», dice nell’intervista inedita
del 1969 qui pubblicata), Bene spinge immediatamente l’interlocutore a
chiedersi di cosa sta parlando quando parla di cinema.
Particolarmente accanito appare nel negare ogni connessione più ovvia: con
l’Italia, soprattutto, o con il cinema passato e presente. Poiché spesso gli
intervistatori sono dei cinefili, Bene ha buon gioco a ostentare il proprio
disprezzo per il cinema come qualcosa che cambia o salva la vita: Ejzenštejn
o Chaplin, ma anche Hitchcock o Jerry Lewis, i miti della politique des
auteurs, sono dei mezzi falliti, come l’arte (?) che hanno praticato. Negli
anni successivi, il rifiuto di Bene coinvolgerà il proprio stesso cinema, come
qualcosa di poco interessante, del quale sono da salvare al massimo due-tre
idee, due-tre scene. Nello stesso tempo, il suo sguardo si fa più distaccato,
anche perché la polemica contro il mezzo-cinema è ormai retroguardia.
3.
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Del resto, se il cinema appare a Bene qualcosa di non adempiuto, a darne
conferma è la stessa sua pratica registica. Il suo passaggio nel cinema appare
una meteora, un unicum e, a distanza di decenni, un vero e proprio rimosso,
che rischia di essere ancora più anestetizzato dallo status di classico cui è
stato presto consegnato l’autore. Il cinema, all’interno della sua carriera,
rappresenta una parentesi cronologica ben definita, tra la fine degli anni
Sessanta e la metà dei Settanta, con cinque lungometraggi e altri tentativi
minori. Per dirla con le sue parole, è «il ciclo della dépense. [...] Cinque film
d’“autore”, autore in particolare del proprio disfacimento. [...] Parentesi di
cinema e fulgore di sublimi insensatezze disseminate propriamente in terra
del Sud».3
Quest’ultima frase merita qualche aggiunta. Come per tutti i grandi artisti,
anche l’opera di Bene si presta a molteplici interpretazioni, di cui la più nota
è quella di Gilles Deleuze.4 Ma il cinema e il teatro di Bene affondano le
radici anche nella cultura italiana aulica e popolare, nelle bande musicali del
Salento e nel melodramma verdiano, nel sontuoso estetismo dei cerimoniali
cattolici e in una ironica parodia della cultura scolastica, libresca e
provinciale.
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articola in maniera molto varia. Già Nostra Signora è un film in certo modo
super-italiano: parodia dell’intellettuale italiota oltre che della «vita
interiore», carico di zavorre iper-storicizzate, coppole e tricolori, poeti santi e
navigatori, sembra però quasi negare la storia (il valore del contemporaneo,
e il senso del procedere storico) tramite un uso strategico della geografia e
dell’«antropologia».7
4.
In un «oggetto» coeso come il cinema di Bene, è assai difficile tracciare un
percorso, un’evoluzione. Ogni suo film parrebbe ricominciare da capo, e
contemporaneamente ognuno di essi si propone esplicitamente come
postumo, ultimo, abitato com’è da macerie scenografiche, citazioni,
frammenti. Eppure è lo stesso Bene ad articolare il rifiuto dell’immagine nei
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suoi film come un percorso progressivo (come, si direbbe, le tappe di una
ascesi). Lo stesso cinema nel suo complesso è una tappa in un percorso più
ampio verso l’uccisione dell’immagine. La «quarta parete» smerigliata che
impediva la vista nella prima messa in scena teatrale di Nostra Signora dei
Turchi viene idealmente sostituita dalla lente trasparente dell’obiettivo (e
addirittura del proiettore: Bene è tra i pochi a mettere in evidenza in tutta la
sua importanza ri-fondante il dispositivo della proiezione insieme ai
momenti delle riprese, del montaggio – e del missaggio).
Dopo aver esordito nel 1959 con l’unica messa in scena del Caligola di
Camus autorizzata dall’autore, Bene era alla fine degli anni Sessanta il nome
emergente del nuovo teatro italiano. Il suo esordio nella regia
cinematografica (dopo alcuni esperimenti come Hermitage, 1968) fu dunque
un piccolo evento, accolto da polemiche al Festival di Venezia del 1968 in
piena contestazione. Nostra Signora dei Turchi, che nasce come
proseguimento del romanzo e dello spettacolo teatrale omonimi (ma in verità
con pochi punti in comune con entrambi), prende spunto da un massacro di
cristiani da parte dei turchi, nella Otranto del Cinquecento, per un
andirivieni tra passato e presente. Al centro, una specie di antieroe, di
intellettuale che assume mille forme tra sogno e realtà, spesso a confronto
con figure femminili tra il sacro e il profano. La messa in scena tradizionale
salta del tutto, in un violento conflitto tra parole e immagini, tra musica e
voce, in un montaggio che ricrea e distrugge ogni inquadratura sottolineando
l’artificio e la presenza fisica del supporto cinematografico.
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insieme al film stesso: «Il ribrezzo per l’immagine si andava sempre più
definendo in linguaggio, parodiato vignettisticamente e parodiato sulla via
della phoné».8 Ancora una volta è avvertibile la differenza tra il
«brechtiano» Godard e Bene, che invece è forse il più radicale continuatore
(anche nel cinema) dell’esperienza e delle intuizioni di Artaud.
Don Giovanni sembra tornare in parte a Nostra Signora dei Turchi, col
quale compone idealmente una sorta di «dittico claustrofobico». Sono i suoi
due film più solipsistici, tutti addosso a un non-personaggio centrale, esempi
di un cinema fatto in una stanza, «un set di tre metri quadrati»,9 in cui i
personaggi si agitano convulsi seguendo rituali comici, ascetici, sublimi o
degradati (e mai tragici): vere apocalissi da camera, o postumi di apocalisse.
Il film è forse il punto in cui Bene si spinge più avanti nella ricerca della
«cecità dell’immagine». L’ansia di cecità si manifesta qui non attraverso
l’accecamento, ma attraverso la moltiplicazione degli sguardi e la sfasatura
dei loro raccordi. Le giunte di montaggio fanno compiere il salto
dall’impazzimento dei punti di vista a un grado superiore, materico proprio
nel senso del materiale di cui è fatto il cinema, della pellicola. Don Giovanni
mette in scena (toglie di scena, avrebbe detto il regista) lo scacco di uno
sguardo (maschile), un narcisismo continuamente beffato, i cui cocci
(letteralmente, come lo specchio del finale) vengono raccolti da una
impossibile presenza femminile. Il «seduttore» Don Giovanni è una vittima
che si riflette in mille superfici, e non è più possibile stabilire se esso si
specchi nelle proprie vittime o viceversa.
5.
Dopo l’affondo estremo di Don Giovanni, che pare portare il cinema di
Bene a un punto di non ritorno, è come se i suoi lavori successivi cercassero
variazioni più mediate. Salomè (1972) e Un Amleto di meno (1973) rendono
più sontuoso e colorato il cupio dissolvi messo in scena fino allora.
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vampiro che canta musichette di varietà o che cerca di inchiodarsi da solo
alla croce, ma rimane sempre con una mano libera.
6.
In seguito, Bene passerà alla sperimentazione televisiva e poi a quella sulla
voce, e rinnegherà il cinema. Il suo percorso successivo è una sorta di
progressiva purificazione: i lavori televisivi utilizzeranno il video per una
sorprendente unione di pieno e vuoto, di colori e scenografie sovraccariche
e di nero e bianco assoluti: dal già citato Amleto sovraesposto allo stra-
ordinario lavoro sul colore e il buio di Otello (1979), fino al Manfred (1979)
in cui dallo sfondo nero sbucano solo due mani, e una voce.
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in opposizione alla catarsi tragica, come auspicato e teorizzato sempre
dall’autore.
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3 Carmelo Bene, «Sono apparso alla Madonna», in Opere, cit., p.1132.
7 «Il calendario è una muraglia cinese contro l’innocenza del divenire, che
non dovrebbe ammettere certificazioni come la carta del tempo. La carta del
tempo è un’invenzione delle culture agricole e io fui abortito in terra
d’Otranto, terra nomade per eccellenza» (Carmelo Bene, Giancarlo Dotto,
Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 12). Proprio a partire dal
Salento Piergiorgio Giacchè ha compiuto la sua opera di ricostruzione della
«macchina attoriale» Bene (Piergiorgio Giacchè, Carmelo Bene.
Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 2007, specie pp.
1-33).
9 9. Ivi, p. 1140.
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CONTRO IL CINEMA
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Carmelo Bene:
Nostra Signora dei Turchi
di Jean Narboni
E cos’è successo?
Durante le riprese del suo film, lei si trovava soprattutto davanti o dietro la
macchina da presa?
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Ogni cosa è stata concertata, soprattutto il delirio. Almeno l’intenzione del
delirio. Quanto al delirio – ma questo dopo – fu un vero delirio. Per prima
cosa penso a vivere, poi vivo, la stessa cosa continua. Improvviso partendo
da qualcosa di molto elaborato.
Nel suo film sono presenti e vengono rovesciate tutte le ossessioni, tutti i
miti italiani: la Vergine, il bel canto, eccetera.
L’Italia è ciò che nel film, così come nella vita, meno mi interessa. I miti
italiani non mi riguardano. La Vergine e i Vangeli li lascio a Pasolini.
Ciò non impedisce che questi miti vi appaiano, e che il film non verrà visto
allo stesso modo in Italia e all’estero.
In questo senso allora sì, sono italiano. Culturalmente, più che a qualunque
scrittore di queste parti, mi sento vicino a Borges, o a Huysmans. Bisogna
cercare di disfarsi del proprio condizionamento culturale. Gli italiani parlano
tutti dell’Oriente, della Cina, ma non riflettono mai su se stessi.
No. In fondo è vero, ci sono cose in Nostra Signora dei Turchi che
potrebbero essere considerate specificatamente italiane. Il grande riferimento
in Italia è il melodramma, non la letteratura, come accade in Francia. La
tradizione italiana è musicale. Voi avete una lingua, noi no. Gli italiani
disprezzano il melodramma, eppure quella è la loro unica tradizione; vivono
immersi in una cattiva coscienza intellettuale, culturale... Cantano e non
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pensano.
Davvero?
Davvero.
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tutti entrano in me, allora io sono un gran Narciso e prendo in
considerazione il mondo intero. Non disprezzo gli altri, allora. Li considero
«fratelli». I cristiani non hanno capito nulla.
Siamo entrambi dei «martiri». Bussotti è un musicista che non pensa che a
fare teatro, io un uomo di teatro che sogna di essere musicista. Io sono un
musicista e lui un uomo di teatro, ma io conosco la musica e lui non conosce
il teatro. Un po’ Debussy e D’Annunzio.
No, e me ne dispiace. Ciò che oggi mi secca è il fatto che tutti i musicisti
vogliano spiegare la musica invece di farla.
Bisogna pur che qualcuno ne parli, i critici non ne sono in grado. Questo
vale in tutti i campi, forse con ricadute meno gravi.
Sì. Il film di Kluge è orrendo proprio per questo. Non ama il cinema, ha le
sue ideuzze precostituite sul mondo – interessanti peraltro – e appiccica tutto
quanto su una parvenza di film. Per di più, non ama il circo.
Riguardo al suo film, non ha voluto che parlasse in alcun modo di cinema?
Da un po’ di tempo, anche qui da noi e con un certo vigore, sentiamo gridare
alla morte dell’arte. Qual è la sua opinione?
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esistenza. Quando cerchiamo di stabilirla, è finita. Una volta mi è capitato di
leggere sui Cahiers: «All’arte non resta che sparire, se non viene compresa la
sua stessa inutilità». Sono d’accordo. Gli studenti rivoluzionari sono
diventati dogmatici, hanno preso il posto dei professori. Rudi Dutschke l’ha
capito bene, anche Lefebvre.
E il ruolo del cinema in questo caso qual è? Sempre che ne abbia uno.
Sì, perché non è il disgusto che deve prevalere, ma il gusto del disgusto.
Nello stesso tempo c’è tutta la storia del paradosso dell’attore.
Si sente la musica del Terzo uomo. L’idea è legata al fatto che questa scena
giunge appena dopo quella del doppio. È il titolo del brano che importa, non
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la musica. Se la si ascolta e ci si dimentica del titolo, diventa inutile.
Adoro Les Carabiniers, molto vicino a Jarry, uno dei miei autori preferiti.
Del tutto.
Spero di no.
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Carmelo Bene:
Capricci
di Noël Simsolo
Come in Cocteau?
Sì. Forse ha ragione ad aver pensato a Cocteau; Cocteau è un tipo che aveva
compreso la vita, dunque l’accetto, dato che tutto è falso nei miei film. Come
nella vita. Non credo vi siano stati dei surrealisti, non ci sono che cattivi
realisti.
Per nulla! Nessun limite! Non potevo gettarmi dalla finestra, ma vi era ben
altro. Non c’erano accessori scenici, c’era soltanto una lastra di vetro al
posto del sipario. Il pubblico doveva seguire l’azione attraverso quella specie
di vetrina. Non udiva niente, tranne quando l’attore si degnava di aprire una
finestrella, e così il pubblico era costretto a vedere «azioni», non già a udire
parole. Il lavoro teatrale è stato più importante proprio per questa sfumatura.
Al cinema si sentono molte parole, ma non come a teatro, dove il pubblico è
avvezzo a questo tipo di comunicazione.
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film comunichi, pensando di comprendere. In effetti, gli è proibito
comprendere. Grazie a questo equivoco, il film appare infernale; la pièce è
stata invece uno spettacolo astratto. Questa è l’unica differenza. Capricci è
prossimo al risultato che ho ottenuto con la versione teatrale di Nostra
Signora dei Turchi . È un film più moderno, nel reale senso del termine.
Tre settimane per Capricci . Per Nostra Signora dei Turchi ci sono voluti
quaranta giorni, perché eravamo lontani da Roma e avevamo problemi col
materiale e con la pellicola, che dovevamo aspettare per poter girare: il
montaggio è durato due settimane e ho fatto la post-sincronizzazione in
ventiquattr’ore.
Perché no? Se lei per tre anni ha mangiato, un giorno può decidere di bere;
questo per me è il cinema. Io penso alla musica in termini cinematografici.
Non parlo della colonna sonora, ma della musica delle immagini. È questo
l’aspetto che più mi interessa del montaggio. E soprattutto, il cinema è un
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mezzo più ricco del teatro. Per l’attore, il teatro – con la sua comunicazione
necessaria – è un alibi. Alla fine saluta il pubblico, viene applaudito, gli
strizza l’occhio...
Il cinema è una terza persona che non è destinata solo ai popoli civilizzati; il
teatro invece viene fatto proprio per loro.
Ci sono due parole che lei non dovrebbe pronunciare insieme: la parola
cinema e la parola italiano . Nessuna possibilità.
Il vero pericolo non sono gli americani, ma i falsi americani, gli europei che
vogliono imitare gli americani. Arrivano fino ad applicare delle teorie
economiche gratuite. Penso che il giorno in cui il pubblico del cinema
rinuncerà a Chaplin, in quel momento il cinema potrà iniziare. Bisogna
demistificare a tutti i livelli. Sono d’accordo con Borges quando afferma:
«Non posso esprimermi, posso solo fare citazioni». Non credo
all’espressione.
In Europa, ci si può abbigliare solo coi propri difetti. Bisogna farla finita con
la morale, così come bisogna farla finita con Godard. Lo ripeto, perché è
cruciale se vogliamo prenderci le nostre responsabilità.
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Quando ha dichiarato di essere arabo, intendeva rifiutare l’intera cultura
latina?
Si può dire qualunque cosa! Dico che sono arabo, posso anche dire di non
esserlo affatto... Le risponderò con una citazione: «L’umiliazione è fatta per
l’uomo che ha un passato in attivo e in passivo; con l’umiliazione deve
iniziare una vita nuova». È tratta da L’ultima estate di Pasternak.
Ovviamente concordo, sia sul piano letterario che sul piano dell’esistenza. In
quanto europeo, voglio regolare i miei conti con l’Europa. Proprio per
questo non voglio occuparmi dei costumi, del traffico stradale, di tutto ciò
che si trova nell’ultimo Godard. 1
Ma no, appunto! Con il cinema non sono affatto obbligato. Il pubblico non
sceglie nulla, sono io che mi diverto e scelgo ciò che voglio fare. Quando
giravo Capricci , nessun attore, nessun tecnico ha capito cosa stava
accadendo. Ciò che è spiacevole è che il pubblico non si aspetta dal cinema
ciò che ha ricevuto dalla musica e dalla letteratura: non vi si riconosce.
Con lo stile dei suoi film, lei tenta di indirizzare il pubblico verso alcuni
punti di forza...
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musica.
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Conversazione con Carmelo Bene
a cura di Elias Chaluja, Jacques Fillion,
Lei ha detto di non voler parlare di cinema, questo significa anche non voler
più fare film?
I suoi film, che sembrano esistere da soli e non ispirati ad altro che si è visto
nel cinema, come si legano alla sua esperienza teatrale?
Non è una decisione. Così. Non c’è senso. Un po’ tutto. Prima di fare teatro
scrivevo romanzi. Quindi già il teatro non era la mia prima cosa.
Qui parliamo di cinema. Ho detto che di cinema non parlo... In tutti i modi,
non è una legge, come capita.
Ditemi voi perché mi considerate il più italiano dei registi. Non credo e nego
assolutamente che nei miei film ci sia l’Italia. I film sono niente, sono una
pellicola impressionata. Dov’è l’Italia? La pastasciutta è italiana? Ne ho
mangiata della ottima a New York. La pastasciutta è cinese, l’ha importata
Marco Polo dalla Cina. Verdi è italiano per sbaglio.
Le piace Verdi?
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Moltissimo.
È tutto sbagliato. Il film non è stato capito. D’altra parte, dal pubblico non
voglio niente e soprattutto non voglio pubblico.
Se non vuole pubblico perché far distribuire un film e non vederselo a casa
propria?
Non crede che ciò dipenda dal pubblico oltre che dai distributori che non
vogliono arrivare in periferia?
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Se a lei non interessa il pubblico, quando fa un film lo fa per sé?
Lei vuole far divertire, far ridere questi tre, quattro amici sparsi nel mondo?
Non mi pongo certi problemi. Io faccio vedere le cose. Poi sono fatti miei.
Voi.
Lei sembra usare ciò che di più disgustoso ci sia nella natura umana, nella
maniera più dissacrante, più violenta, brutale e oltraggiosa di cui almeno in
parte sembra compiacersi; c’è qualcosa nella realtà che ancora la ripugna?
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No. Purtroppo.
Molti hanno affermato che Nostra Signora dei Turchi, che è un capolavoro
di autenticità, novità, originalità, sembra contraddetto e demolito da
Capricci, un film pretenzioso, arrivato sugli schermi con qualche anno di
ritardo...
Non c’è forse un ritorno al sentimento, quando lei dice: faccio i miei film
per tre, quattro amici sparsi nel mondo?
Ma questo discorso non vale per il cinema, vale soprattutto per la poesia.
Allora basta, non si può parlare di cinema. Qui neanche vale più: fa i film
per sé o per gli amici... altrimenti si risponde malamente, si risponde in
senso sbagliato, come posso fare io, piuttosto che rispondere esattamente,
che sarebbe altrettanto sbagliato. È qui il problema.
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Anche i Cahiers hanno tradotto le mie intenzioni come desiderio di
riconquistare il sentimento.
Le interviste sono tutte errate. Scusate. Ma sono fuori luogo. Si trattano due
opere come si parla di due film. Si fa ancora del cinema. Vi parlo in tutta
franchezza. Il metodo dell’intervista è erroneo, è da rifiutare.
Poi io avevo preso una decisione tacita tra me e me stesso... che chiunque
non avesse capito Capricci, con quello non avrei parlato...
Ritornando ai motivi non italiani nei miei film... ad esempio in Capricci c’è
una pagina di Roland Barthes sulla cucina... e Roland Barthes è un francese.
La trama di Capricci è pari passo ad Arden of Feversham, anonimo
elisabettiano inglese. Come vedete tutto il copione è inglese. Che cosa c’è
d’italiano, io non lo so. In Nostra Signora dei Turchi d’italiano cosa c’è, la
polemica con la Chiesa? Non c’è polemica con la Chiesa. Se per voi tutto
quello che è italiano è simpatico... Guardate i signori tedeschi, che amo
molto per altre vie: hanno fatto tutti i loro viaggi in Italia, sprecati!
C’è della gente convinta di fare il cinema perché fa dei film; io non faccio
del cinema per fare dei film, questo è importante. D’altra parte, se uno trova
italiano ciò che faccio, fa già un errore talmente di base, aprioristico, che
dopo è impossibile qualunque discorso.
Gli oggetti possono anche essere italiani, ma sono pochi. La paura del
peccato è occidentale, non italiana.
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Se in Nostra Signora dei Turchi balena anche lontanamente la paura del
peccato, vuol dire non aver capito Nostra Signora dei Turchi. Se di qualcosa
manca, manca di peccato.
Se quello che si rimpiange in Nostra Signora dei Turchi (c’è sul libro, ma è
citato anche nel film) è che non c’è né ingiustizia né nemici, che si rimpiange
una barbarie assente, cioè che non si può essere matti, il peccato è
scongiurato. È la prima opera occidentale senza peccato.
Adesso abbiamo le opere, pensate come hanno parlato di gente non letta...
gli agiografi... I critici, siete tutti fuori strada, lo dico molto amichevolmente.
Intervistare un uomo significa significargli il massimo del disinteresse.
Assolutamente.
Se le opere sono state e sono in tutti i tempi male interpretate, è per questo
che oggi ci siamo rivolti all’autore.
Avete qui un altro autore, non avete l’autore di quelle due opere. Quello è il
problema. Un autore che parla è un’altra cosa. È un autore che vede altre
cose, e che potrebbe interpretare quelle nel futuro delle altre che ha
sottomano da fare. Sono due oggetti completamente al difuori di me.
D’altra parte, una cosa che bisogna riconoscere a quei due film è che sono
obiettivi, nel senso che non vogliono commuovere, che non prendono il
pubblico, quindi già il distacco. Figuriamoci ora che sono finiti da anni. È
questo il discorso, che io vi mentirei anche parlando...
...Ma non c’è satira, la satira è banale, è da esseri mediocri. Io non farei mai
una satira. Le satire le facciano i cabaret!
Dov’è Godard? La moglie? La moglie è una persona che non esiste, perché
tutti i criticuzzi italiani o stranieri dicono: la signora Godard; perché come
ente non esiste. Io non l’ho scelta perché è la moglie di Godard... Perché non
citare Fellini o Pasolini, che prima di me in Capricci aveva usato Davoli...
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Trattare della società di consumo... come fa Godard, è un compito da vigile
urbano che non mi interessa.
Le date possono cancellare ogni sospetto. Poi non vedo che male ci sia a
pensare ad altro... perché no?
Gli italiani non si sono mai battuti sulla tesi della solitudine. Nostra Signora
dei Turchi è il contrario dell’Italia.
Se voi mi diceste: vedo L’uomo nero, vedo Les Possédés, vedo Dostoevskij,
vi capirei, anche se non è così. La Germania, sì, c’è. C’è Hegel, c’è Rilke, c’è
Hofmannsthal, ci sono tutti, tranne Goethe che è un coglione. Ma non c’è
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niente d’italiano.
No!!! Cosa vuol dire nascere in un paese dove passano le capre dalla mattina
alla sera... anagraficamente io sono nato nel capo del Sud dell’Italia, in un
villaggio dove si parla greco, dove non esiste la lingua italiana, nemmeno
lontanamente. Non capisco che cosa abbia a che fare io con l’Italia... In
quanto ad abitare in Italia... perché ho un pied-à-terre a Roma? Ne ho un
altro a Firenze, un altro a Mosca, uno a New York, un altro a Parigi, che me
ne frega di vivere a Roma, ho delle suite in tutto il mondo.
Nascere in un paese dove si vedono passare solo le capre, non è più Italia,
può essere la Mancha.
L’unica maniera di parlare con lei o con gli altri autori sarebbe di comunicare
alla nascita dell’opera, di stare in un giro... poi basta.
Poi anche parlandone, in quel caso, io potrei dire cose che non c’entrano;
siccome amo contraddirmi, posso cambiare idea un attimo dopo su quello
che ho detto un attimo prima. L’opera non fa questo gioco, soprattutto nel
teatro, ma il cinema lo fa.
Niente. Significa aprire la bocca e dire parole. Inutile. Avere delle idee o
scambiare delle idee è un’altra cosa. La cosa che non va è fare delle
domande precise, si può andare da altri, che, beati loro, hanno delle risposte
precise o fingono di averle.
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Certo, sono d’accordo. Non ho nulla in contrario. Penso anch’io così.
Amare quindi può essere scambiare delle idee, non delle parole. Un poeta
sceglie la poesia perché è l’arte della sintesi, ora un verso si scrive in un
mese, in due mesi... ora chi ha questo gusto della sintesi rifiuta le parole a
tavolo, perché indubbiamente ha il gusto della selezione. Cioè voi mi fate
una domanda, io ci penso un anno e mezzo... pubblico in un volume la
risposta... allora sì. Parole oppure mestiere. È lì il problema. Io sono un
poeta scrupoloso.
Il guaio è della vita. Perché se l’autore fosse morto, sarebbe un’altra cosa. Se
io amo Raffaello, non posso parlare con lui perché è morto. Allora ogni
autore dovrebbe essere considerato morto.
Ogni autore dovrebbe essere considerato morto dal momento che è stato
autore. Questo è il grave problema. La contemporaneità, la sopravvivenza
dell’autore alla propria opera crea adito al giornalismo e soprattutto
all’equivoco. Ma non ingannate me, sono io che inganno anche voi, è
reciproco, e l’amore che cosa è se non inganno?
Bisogna rinunciare a questo tipo d’amore per crearsene uno mistico, un altro
tutto proprio, di responsabilità propria, di fede... come amare un morto, è
così che si ama un autore.
Morto!
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state parlando con l’autore di Nostra Signora dei Turchi o di Capricci, ma
state parlando con un’altra persona.
No, no, non vado mai al cinema, mai andato, non ci andrò mai.
Lei ha detto che ognuno può prendere una macchina da presa e fare un film.
Per lei esiste la possibilità di esprimersi artisticamente nel cinema?
Il cinema è come una macchina da scrivere, come una tela, come i colori,
come il teatro. È una scelta, però il cinema comporta più compromessi, più
capitali economici... poi non c’è meditazione, perché si è circondati da una
troupe, dall’elettricista che bestemmia, dall’altro che va. Vari inconvenienti
che non si hanno quando si lavora in una stanza, a comporre musica ad
esempio. Nel cinema c’è un falso lavoro di équipe perché l’équipe non
collabora, quindi comporta tutti gli svantaggi del sindacalismo. Quindi non
si può parlare di autori cinematografici, perché giustamente Pasolini, se è un
autore, non lo è grazie al suo cinema né grazie alla sua persona, ma alla sua
voglia schopenhaueriana, d’artista.
Dove metterebbe allora John Ford, che è autore in quanto cineasta, nato nel
cinema, legato al cinema...
Però ci sarà qualcuno che ha parlato con lei di cinema, perché qui c’è
qualcuno che sembra rispondere come se fosse lei; il signore qui. Allora ne
ha parlato con lui dei suoi film o i film stessi gli hanno parlato un linguaggio
tanto chiaro così che può rispondere al posto di Carmelo Bene stesso?
[Allusione a un conoscente di Carmelo Bene, seduto con noi per invito dello
stesso Bene.]
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Siamo diventati amici in seguito a delle cose. Primo, perché non mi ha mai
fatto un’intervista, secondo, perché quando l’ho conosciuto questi problemi
erano già stati superati da lui e da me, terzo, per analogia.
Lei sembra voler rifiutare tutti i registi che arrivano al cinema attraverso il
cinema e salvare quelli che, ad esempio, vengono dalla letteratura.
Non rifiuto niente a priori, ho detto che non ne conosco, che non ce ne sono
stati. Perché no? Potrebbe venire domani un Rimbaud del cinema.
Comunque il cinema ha tanti difetti che anche un poeta perderebbe forza,
non ne guadagnerebbe.
Se mi interessa l’uomo, non mi interessa per parlare delle opere che ha fatto,
ma tutt’al più per conoscerlo, amarlo, andarci a letto, bere assieme, parlare
delle opere future, stabilire delle eventuali collaborazioni. Mai per le opere
già fatte, perché per quelle opere lui è morto.
Non potendo incontrare l’autore, perché morto, è concepibile per lei il voler
rintracciare il dove, come, quando è vissuto quell’autore?
No, scherziamo? Il viaggio non esiste. Io amo Rilke, a patto di non averlo
38
mai conosciuto, a patto che sia morto, a patto di non vedere Monaco. Il
giorno che vedrò Monaco e la casa dove è nato, non l’amerò più.
Io posso amarlo. Il fatto è che se divento simpatico io, voi tradite il giudizio
sulle mie opere. Per me lo sbaglio è solo quello che dicevo prima, parlare
con me a proposito di quelle opere. Il metodo. In fondo, io parlo con voi
non chiedendo quello che avete fatto prima: non ho domandato a lei, a lui, a
lui, ieri dove eravate. No, stiamo parlando così.
Ci sono stati degli autori utili a se stessi, autori che hanno usato una tela,
delle note, una macchina da presa come una psicoterapia, per esempio.
Va bene, se io per esempio con una carta da diecimila lire ci vado al cesso,
perché non c’è altro, le uso per il contingente, però è l’uso peggiore che
possa fare di diecimila lire.
L’arte è utile in questo senso. Se mi viene tirata contro una sedia, io posso
usare un quadro di Raffaello come scudo e ripararmi con questo. Così,
posso evitare un sasso con la Notte di Michelangelo. Si può prendere Paolo
Uccello, tingerlo di rosso e poi dire che quell’arte è comunista. L’utilità non
ha limiti, io posso prendere dei Della Robbia e farmene un bel bidet. Questa
è l’utilità dell’arte.
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Per utilizzare la pellicola, il modo migliore è questo; usa la mezza banda.
Sono dei consigli pratici.
Lei gira il mondo; se gli autori sono morti, i paesi non sono morti...
In tutti i posti dove sono stato, non sono mai uscito dall’albergo. Non perché
mi piacciano gli alberghi o me stesso, perché in albergo visito il paese.
Io direi di chiuderla per non farla uscire. Qualcuno ha detto: «In quanto a
vivere, i nostri servi possono farlo per noi», e aveva ragione. Credo ai servi
perché credo alla vita; finché vivono per me, mi stanno benissimo.
Io cito cose che potrebbero essere mie. Solamente per ragioni di sintesi dico:
L’ha detto anche tizio; così per confortarvi, perché non sia sempre io a
parlare.
Quando faccio l’arte so quello che voglio, quando sono a tavolo so quello
che non voglio. Allora è una questione di non esprimersi.
La seconda. Do fiducia.
Un’elezione, una scelta. L’amore non è una scelta, è una cosa meravigliosa.
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rifiutare di vedere il bello per vedere il distribuito, il contemporaneo? Joyce
ha fatto in Ulisse il più grande esempio di montaggio, a cui nessuno era mai
arrivato. Noi non abbiamo una vita longeva per leggere tutta l’Alessandria
completa che ci è rimasta. Ogni ora tolta a un libro, a certe altre meditazioni,
a un bicchiere di vino e data al cinema è sprecata.
Succede che con i tempi che corrono, con la potenza della distribuzione
dell’Iris International... succede veramente che la gente non legge più.
C’è delle persone che non leggono Omero e vanno a vedere un film di
Godard. Ma è assurdo, signori. State attenti, quanto è passato nel cinema...
Nostra Signora dei Turchi è una eccezione, non perché l’ho fatto io, ma è la
prima volta che si rompe col cinema. E si può vedere Nostra Signora dei
Turchi, veramente, come leggere Le Bateau ivre; non ho detto che Nostra
Signora dei Turchi valga Le Bateau ivre, no, per carità, anche perché non
amo confronti. Ma al cinema vedrete sempre un sottoprodotto della
letteratura passata.
Non crede che sia incoerente voler giudicare ciò che si dichiara di non avere
mai conosciuto?
Non c’è bisogno. Allora voi pensate che elementi come Proust, Joyce,
abbiano letto tutto quello che era stato scritto. No, erano dei geni che hanno
avuto la fortuna di leggere le cose indispensabili, di dividere il loro tempo di
cultura, di applicazione, di lettura per caso pescando a intuito, chissà come,
come Shakespeare, le cose indispensabili.
41
Invece, questa dispersione che viene oggi creata ai danni dell’arte, cioè
dell’espressione, per inseguire il cinema, è assurda.
Sì, perché sono il solo sul quale potrei avere un dubbio, il solo capace di
incertezze.
Dunque non crede che nel cinema ci sia ancora molto da fare?
Non a partire dal cinema; se poi per caso troviamo un film il cui autore sia
un artista, sarà un caso su un miliardo. Non vale la pena perdere delle ore, è
meglio vaneggiare con un bicchiere di vino, è meglio andarsi a documentare.
Per me andare al cinema significa non vivere. Madame Bovary di Flaubert e
Madame Bovary al cinema sono due cose completamente diverse: il primo è
arte, il secondo è merda.
Nostra Signora dei Turchi è uno dei pochi film dove ci sia tanta musica,
come in Ivan il Terribile...
Succede che per il novantanove per cento il cinema sta scimmiottando, come
una scimmia scimmiotta l’uomo, tutte le esperienze che in letteratura, in
pittura dal tempo dei Fenici, da quattromila anni, sono state già esautorate,
consumate, esaurite. Perché cercare un «caso» cinematografico? Io vorrei
darvi dei consigli, voi non li volete, fate!
42
Non ci sembra di aver parlato di cultura...
A parte il cinema, ci resta tutto quel mondo dell’arte di cui lei parla,
soprattutto della poesia... Non crede che ci possa essere più poesia al difuori
dei libri, a volte?
Di questo io ho fatto un mio metodo, non perdo tempo con il cinema, tutto
43
lì.
Ho detto a vedere, non a fare. È diverso. Io sono sicuro, non corro rischi...
Bisogna essere nati in una certa maniera. Bisogna saper scegliere. Leggere un
rigo e poi comprare il libro o no; sbatterlo via.
Queste sono fortune che non capitano a tutti, sono state date a Dante, a
Shakespeare, sono state date a Cervantes, a Omero. Questo non è dato a
tutti. Non si tratta di genio ma d’istinto, di fortuna.
Quando si è letto tutto sì, non avendo letto un cazzo, secondo me, è
sbagliato. Vedete, io stasera ho un libro; secondo voi che cosa è?
Ora io ho letto solo due righe citate di santa Teresa, nella mia infanzia,
eppure sono convinto che questo sia uno dei più bei libri che siano mai stati
scritti e non l’ho letto.
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Incontro con Carmelo Bene
di Noël Simsolo
1.
Aveva già lavorato sul montaggio in ambito teatrale?
45
concetto di immagine. Anche se non vediamo più l’immagine ma solo il
concetto. Le immagini sono diventate simboli, un ciclo di concetti e, invece
di essere visioni acquisite dallo spettatore, non sono altro che uno scambio
consenziente di significati. Tutto ciò è orrendo e pericoloso. L’intero cinema
diventa un coacervo di segni sempre definiti e immobili, mai aperti!
Direi di no, visto che i teatranti sono prevalentemente persone stupide. Tutte
le grandi compagnie vivono giustamente sepolte sotto i concetti. Cercano
continuamente di valorizzare questo aspetto. Anche le compagnie più
giovani cadono in questa trappola. Direi che non hanno ben compreso il
words, words, words di Amleto. Hanno fatto del gesto il «sottotitolo» della
parola. Si deve avere il coraggio di rifiutare tutto il teatro odierno, compresi
coloro che hanno lavorato a un teatro di gesti. Rifiutando la parola,
credevano di sfuggire così al compromesso, ma non arrivano a trovare il
«gesto nel gesto»: cioè non sfuggono al pleonasmo, al sottotitolo (trovo
particolarmente esatto questo termine). Se non raggiungono questo grado di
epurazione, è perché sono dei fanatici della cultura. Malgrado la loro buona
fede, si tratta quasi di un bluff.
Lewis lo conosco solo come attore e credo che incarni tutti i tic presenti nel
cinema americano; ma probabilmente non ho visto i film di Lewis che avrei
dovuto vedere...
Per quanto concerne Ejzenštejn, sono convinto che sia necessario uscire da
ciò che si definisce estetica cinematografica, rifiutando in toto il lato mitico
dell’autore di Ottobre. Quanto a Jerry Lewis, se tu credi che porti avanti un
certo discorso incrociando ciò che faccio io, è possibile che tu abbia ragione,
ma come verificarlo, dato che non ci riferiamo agli stessi film? Credo che
Lewis non arrivi a negare la sua personalità da showman, da imbonitore, e
46
che non operi nessuna vera sovversione negli Stati Uniti. Non giunge a
negare i suoi ruoli!
Non ho mai visto un film di Cocteau: ma sono sempre stato d’accordo con
quello che scriveva. E trovo che la sua dimostrazione del rifiuto di conoscere
da parte di chi si rintana nei concetti sia esatta.
2.
Perché fare un film? Le rivolgo questa domanda – un po’ ridicola – dal
momento che è raro vedere qualcuno che non sa nulla di cinema prendere in
mano una macchina da presa e creare una così stupefacente confusione.
47
Il cinema è il peggior mezzo espressivo proprio perché subisce il fenomeno
della registrazione. I cineasti che tentano di trasformare il loro film
servendosi di un montaggio successivo alle riprese ottengono cose false.
Utilizzano cose morte e ne trasformano la realtà legando immagini e suoni
sempre in funzione dei concetti. Fabbricano degli artifici (nel senso
peggiorativo del termine!).
È un falso problema, visto che Ejzenštejn resterà un faro nella storia del
cinema per altre ragioni, non per le sue convinzioni politiche. Quando
vediamo Ivan il Terribile, chi se ne frega della politica. Ciò che importa è
che nel suo lavoro non vi sia traccia di ridondanza. Prendiamo ad esempio la
scena dell’incoronazione di Aleksandr Nevskij. Čerkasov piange e dice al
cugino: Ti eleverò, ma il gesto che accompagna le parole contraddice il
48
significato della sua frase, visto che si appoggia alla spalla del cugino e lo fa
piegare. Il solo limite di Ejzenštejn te l’ho già detto poco fa e non ha in sé
nulla di peggiorativo.
Tuttavia, se gli scritti teorici di Ejzenštejn si spingono più lontano dei suoi
film, questo limite dipende anche dalla politica. La prima parte del Nevskij è
poetica perché anche nelle argomentazioni politiche ed estetiche resta un
fatto: bisogna toccare la realtà; anche in una situazione surrealista (e cos’è il
surrealismo se non il tradimento della vita per colpa della Storia), l’istante in
cui tocchiamo la realtà, è quello la poesia.
3.
In Capricci ci sono due scene emozionanti: quando la ragazza ritrova i suoi
abiti e quando lei rinviene in una macchina dichiarando: Sono diventato un
delinquente.
È quello di cui stavo parlando poco fa: la scena in cui la donna ritrova i
propri indumenti ha per accompagnamento sonoro un brano del Macbeth di
Verdi, cosa molto importante per il ritmo della scena. Ma se qualcuno pensa
che, una volta riconosciuta la fonte della musica, si possano leggere
intenzioni nascoste, si sbaglia di grosso. A contare non è la vicenda di
Macbeth, bensì la visione e la musica la cui scelta è motivata dal suo ritmo.
E l’irresponsabilità dell’arte?
Non è che una frase fatta! Ma possiamo accettarla come rifiuto della vita.
Possiamo anche dire che il film nella sua interezza è un gioco di false piste,
ma è la vita, è Borges, è semplice!
A proposito del colore. Lei parte con tinte equilibrate per poi giungere, alla
fine di Capricci, a una saturazione dominata dal rosso.
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Quel rosso è la somma di parecchie conclusioni del film. In Capricci il
colore, i movimenti della cinepresa, non hanno nessuna importanza, visto
che non c’è una conclusione. Il rosso del finale non è né pittorico né
cromatico: è un discorso intraducibile in parole.
In Nostra Signora dei Turchi il colore a volte è ironico (il primo incontro
con la Vergine). Raggiunge allora un limite del barocco e un’ironia quasi
amara. È diverso da Capricci.
(Da Image et son, n. 235, gennaio 1970. Traduzione dal francese di Rinaldo
Censi)
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Conversazione con Carmelo Bene
di Adriano Aprà e Gianni Menon
Non c’è parola, frase, giudizio che Carmelo Bene enunci nel corso di questa
intervista che non entri a far parte di un metodo, senza il quale il suo
discorso non sarebbe motivato, e la violenza che lo anima giustificata.
Discorso e violenza che stabiliscono uno stretto legame con il resto del suo
lavoro (qui e là, uno stesso metodo e una stessa pratica), cosa che se non
deve farci vedere questa conversazione come un prolungamento vitalistico
dell’altra attività, quella che lo qualifica, ci obbliga comunque a praticare,
più che per chiunque altro, un’inserzione con cui cogliere il testo di questa
intervista sullo stesso versante che produce i suoi film. Tuttavia non
possiamo fare nostro questo discorso, come invece facciamo nostri, e
interamente, il suo cinema (che si sta producendo) e il suo teatro (che dopo
un’attività furiosa sembra essersi esaurito, o trapiantato altrove). Questa
affermazione pone le basi per la risposta alla domanda, inevitabile, che la
precede: se tutto ci oppone a lui perché pubblicare questa conversazione? La
risposta più esauriente per chi può trovare sorprendente, e immotivato, lo
spazio concesso a un discorso che, preso alla lettera, appare impregnato
d’idealismo, è contenuta in un’altra domanda: perché questo salto, questo
solco tra l’opera e il suo commento, tra le idee così come Bene le espone, e
le stesse quando hanno assunto una forma cinematografica? Porsi questa
domanda (che è una risposta all’altra) è meno banale di quanto possa
sembrare, perché non si tratta qui solo dello scarto inevitabile che si produce
tra il discorso di un film e il discorso sul film, ma di registrare una
fondamentale opposizione [...] tra due discorsi.
51
mito (quello dell’opera, dell’autore, del teatro, della scena) e un personaggio
che lo incarna e se ne nutre, mito e personaggi bruciati dalla pratica che
sembra produrli. Ma per una economia propria di questa pratica, l’attività
esercitata su un suo dominio naturale (scena, personaggio) non può fare a
meno di mettere in gioco l’attore, che di questa normalità costituisce la
paranoia. All’ombra di questa paranoia, chi pone delle domande deve
accettare il ruolo della passività e dell’anonimato, perché si trova al margine
di una voce che si nutre costantemente della propria mitologia (non è
davanti al magnetofono, ma in un’altra sede, quella di Nostra Signora dei
Turchi, di Capricci e soprattutto di Don Giovanni, che dobbiamo cercare, di
questa mitologia, l’esaurimento e la critica). [Questa puntigliosa e un po’
contorta premessa, aggiunta per pressione di alcuni redattori – Enzo Ungari e
Franco Ferrini direi, nel ricordo – ma evidentemente condivisa dai due
intervistatori, cerca di porre una «distanza» fra le posizioni teoriche di
Cinema & Film che allora preoccupavano e condizionavano alcuni di noi e
le affermazioni «politicamente scorrette» di Carmelo Bene (il modello era
stato una analoga premessa dei Cahiers du cinéma a un’intervista a Eric
Rohmer). Oggi, ma forse già allora, una tale presa di posizione mi appare un
po’ stonata: segno, in ogni caso, di tempi tanto turbolenti quanto procreativi.
Aggiungo che l’intervista si era svolta a notte inoltrata, con abbondanza di
alcol (soprattutto da parte di chi lo reggeva assai meglio di me), nella casa di
Bene in via Aventina. Adriano Aprà, 2010 – Fra parentesi quadre e in
corsivo alcune integrazioni all’intervista.]
Cinema & Film: Se non abbiamo capito male, il tema principale di questa
conversazione da voi proposta dovrebbe essere il rapporto fra critica e
autori. C’è una occasione e un fatto: il fatto è Don Giovanni, l’ultimo film di
Carmelo Bene, l’occasione è la presenza del film al prossimo Festival di
Venezia. [Di fatto, il film era stato presentato poco prima alla Quinzaine di
Cannes del 1970; non mi risulta una successiva proiezione ufficiale a
Venezia.]
Carmelo Bene: C’è l’esigenza di una nuova critica. Nel mondo, non
solamente in Italia. È necessario stabilire una qualsivoglia propedeutica,
arrivare a un discorso più ampio attraverso un facsimile, una cartina di
tornasole: tanto che si propone, al limite, di parlare di un film specifico, il
mio.
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È una novità. Spesso io mi sono rifiutato con delle persone perché non
avevano opere da farmi vedere e io il discorso fantapolitico lo rifiuto, se non
altro perché fin dall’inizio dei tempi ha sempre danneggiato gli autori. E poi
non è mai servito all’avvento di una critica nuova, vitale, giovane nella
vecchiaia mondiale.
C&F: È interessante che tu, autore, voglia guardarti intorno e attraverso una
serie di scambi di informazioni condurre una azione di allargamento, di
approfondimento, di una tematica così complessa e irrisolta.
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meglio, se non altro per capire in che senso viene usata la parola politica.
Ammetterete che è una parola poco chiara.
Finora, soprattutto dal tono, sembra più che altro un’intervista ai «critici»,
come dite voi (in realtà, almeno per quanto ci riguarda, il termine è
fastidiosamente inadeguato, troppo o troppo poco). Ora se a Carmelo Bene
danno fastidio, com’è noto, le interviste, a noi può dar fastidio essere
intervistati, inquisiti da lui in veste di autore.
C.B.: Eliminiamole, per funzionalità. Io voglio vedere con quali armi una
critica nuova sfida la critica sportiva, ciclistica, dei gazzettieri, che sono un
vero e proprio Cottolengo. Ignorantissimi. Cito, e vi prego di riportare. A
proposito dell’«omaggio» a Godard che tutti si sono affrettati a dire che io
avrei fatto in Capricci, quando io ho già detto chiarissimamente che Week-
end è uno spartitraffico, un semaforo, il film di un vigile urbano: «Des
Grieux avvia il motore della sua macchina, l’auto parte di colpo, a marcia
indietro, mandando per aria almeno tre biciclette posteggiate nelle immediate
vicinanze. Si ferma con uno schianto violento contro la palizzata paraurti».
Questo è l’inizio, eccovi la fine: «Improvvisamente, da tutti gli angoli della
scena, dieci o venti uomini dall’aria ambigua – forse banditi – che, sotto gli
occhi di Des Grieux, attonito, montano sui veicoli, apparentemente in
54
disuso, li avviano e scompaiono tra le quinte. La scena è ora sgombra dei
veicoli. Des Grieux è prostrato col viso completamente immerso nella
polvere della tomba di Manon, per non vedere più nulla di tutta quella
abilità... Con lo scemare del rumore del motore dalle quinte si avverte un
rumore di zoccoli e di cavalli. Dal fondo, frontalmente, un gruppo di dieci
cavalli e relativi cavalieri e amazzoni invade la scena. La luna è alta». Manon,
Edizioni Lerici, scritta nel ’61, pubblicata e messa in scena nel ’64. Vedete?
Sono ignorantissimi, non andavano neanche a teatro. Ma cessiamo di parlare
di costoro: io, dicevo, voglio vedere per quali metodi una critica nuova si
distingue dal ciarpame. Per questo si parla del mio film: in casa Fellini si
parlerà del suo, in casa di De Berardinis si parlerà di quello di De Berardinis
[A Charlie Parker, 1970, di Leo De Berardinis e Perla Peragallo]. E io sono
pronto a seguirvi in quelle case per parlare delle loro opere, perché non sono
affatto un passionista delle mie.
C.B.: Invece è proprio questa la funzione che d’ora in poi voglio assumermi
io.
C&F: Ma si può farlo solo in parte dopo una sola visione del film. Tu stesso
a Cannes con il tuo discorso alla critica prima della presentazione del film e
l’invito a non scriverne, a rimeditare, a rimandare ad altra occasione hai
55
dimostrato di non crederlo possibile.
C&F: Tu stesso non parli come scrivi, se non quando ti atteggi. Tempo fa mi
parlavi di un film visto a Parigi, Freaks di Tod Browning, ma ne parlavi
come? Da spettatore interessato. Me lo hai «raccontato» e hai fatto opera
critica nella misura in cui mi hai stimolato, come spettatore. Ci sono altri
modi, a questo livello?
Giudicare non vuol dire conoscere ma conoscere vuol dire giudicare. Oggi
c’è una critica per cui ignorare vuol dire giudicare. Giudicare. Rivalutiamo il
termine, signori, l’ha già fatto Kant tre secoli fa e non capisco perché oggi
non si siano ancora superati questi scogli da triglia.
P.P.: E si trova allora nella fase ideale per superare questa fase critica e
condividere i nostri discorsi, suggerirci dei materiali.
56
d’essai, nei circoli del cinema, eccetera.
C.B.: Io ho scelto la mia vita. Perché altri devono chiedermi come deve
essere la loro? È una questione di scelte.
Bisogna appunto aver scelto per non essere scelti: uno può manifestarsi
parlando, filmando, bevendo, teatralizzandosi, showdisumanizzandosi.
C&F: Nel momento in cui stai conducendo una operazione pubblica che
definisci politica non ti pare che sarebbe opportuno, oltre a volere e a essere,
usare il termine e la pratica del considerare, e attentamente, la situazione in
cui ti muovi?
C.B.: Il bene si può volere, ma il bello si può potere. È evidente che mentre
si può decidere una vocazione al bene non si può decidere una vocazione al
bello. L’unica domanda da farci e per cui siamo qui è questa: siamo capaci
noi di fare cose belle? Come faccio io a sapere se tu sei capace di farle?
P.P.: E d’altra parte non vi pare compito proprio di una rivista, questo sì
politico, quello di riconsiderare, di scegliere, di riesaminare tutto quanto per
scartare qualcosa e imporre qualcos’altro, per influenzare in nome e a pro di
qualcos’altro?
C.B.: Io, per me, non ho in dispregio il fare una rivista, come non ho in
dispregio il fare una scoreggia o un film.
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Quello che conta è la portata dei gesti che si fanno, delle cose che si
affermano o si negano.
Noi abbiamo avuto la fortuna di essercela potuta prendere con il Duce, così
come i tedeschi hanno avuto la fortuna di potersela prendere con Hitler e gli
altri, di poterli incolpare delle loro sciagure. Perché è una fortuna.
Nella fattispecie ci siamo liberati di fatto di uno statuto fascista che viene
sistematicamente violato (quest’anno lo sarà ancora di più).
Sia chiaro: tutto ciò che è rosso ma non è potabile, solido e non liquido, non
mi piace. Disgraziati! Lasciate stare uno statuto violato. Non sostituitegli un
altro inviolabile. È un sogno. I sogni sono belli, perché realizzarli? I sogni
inoltre si possono tradire, e sempre infatti sono traditi. Come ha fatto
Chiarini, sissignori. Con degli sbagli, certo. Ma è sbagliando che si insegna.
C&F: Chi, due anni fa a Venezia, era dalla parte opposta alla tua, o per
dovere d’ufficio, o per convinzione personale, o per tutte e due le cose
assieme, ha avuto già da molto tempo modo di ripensare all’esperienza. Se
poi non ci ha ripensato è recidivo e sono fatti suoi. Per quanto ti riguarda è
chiaro che per te si trattava di difendere il tuo primo film, assieme a pochi
amici che ritenevano giusto, e soprattutto cosa loro, difenderlo.
C&F: Diciamo allora che eri solo, d’accordo. Appunto, l’operazione era
58
esclusivamente tua, un fatto privato per un film privato.
Oggi però sembra, e dico sembra, che davanti alla stessa mostra, con lo
stesso statuto, con un altro film da mandare, tu assuma un atteggiamento in
parte diverso. Perché?
C.B.: Voglio vedere fino a che punto sono liberi, fino a che punto hanno
realizzato, o distrutto, è lo stesso, il loro statuto interiore.
Politica, per l’uomo – non per il cittadino – è realizzare quello che vuole
anche se è la propria rovina. Questo non mi turba. Nostro è l’intento, l’esito
no. Ma a parte questo. Un critico, o una puttana, chiunque, si allea a me
perché alleandosi realizza quello che vuole per sé. Tu sei qui e parli di quello
che vuoi, non stiamo mica facendo un partito.
Il grave è che parli di cose che dovremmo aver superato da molto tempo:
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per cui ti addebito il prezzo di questo nastro.
C&F: Tu mandi a Venezia il tuo film; è stato invitato, mentre magari c’è chi
non ce lo manderebbe...
C.B.: Facciano. Io mi sono finanziato da me tre film uno dietro l’altro: non
riconosco a nessuno di aver fatto lo stesso, mai.
Una delle cose che si rinfacciano di più alla critica è che per vocazione altra,
non rivelata, per vizi privati, per distrazione, per cecità, per megalomania,
per alchimia maniacale, ha sempre visto le opere attraverso i propri metodi.
Ma questi metodi, invece di diventare chiavardelli capaci di penetrare, mine
in grado di far brillare i passaggi delle opere, diventavano e diventano
ottiche che nulla hanno a che fare con le opere stesse.
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A questo punto, per il critico, uno degli atteggiamenti possibili davanti
all’opera è quello di introdurre violentemente se stesso nell’opera
rifiutandola ma per darne testimonianza a terzi, sperando che ne esca quella
parte di se stesso che è stata riflessa dall’opera.
C&F: Ma guarda che quando uno scrive in una rivista che tira tremila copie
[assai meno, in verità] il problema della mediazione non esiste nemmeno,
non te lo poni.
C.B.: Io non ci ho mai capito niente di quello che scrivete, mai. Vorrei farvi
capire che ci troviamo davanti a una situazione a cui bisogna porre un
argine, che bisogna sbloccare, liquidare. E per fare questo bisogna liquidare
le novantanove pecorelle e tenerne una sola: di un film è il momento di dire
che è un capolavoro o che è una porcheria. Non ci possono essere tutte le
lettere dell’alfabeto, solo A e B, ma interne all’opera pure queste.
Non si tratta di aprirci il cuore, nel modo più assoluto. Le persone nascono
col cuore a sinistra, ogni tanto ne nasce una col cuore a destra: si tratta di
riscontrarsi e di riscontrare questa difformità anatomica. Né più né meno.
Che poi uno usi la critica non come fruizione ma come reinvenzione, questo
l’hanno già fatto Mallarmé, Baudelaire, Gauthier, l’ha fatto Gide. Gide si è
inventato Artaud: l’Artaud di cui si parla è Gide che l’ha inventato.
C&F: C’è un altro atteggiamento critico che mi pare importante, cioè quello
dell’analisi scientifica dell’opera. Ma c’è un’impasse fondamentale: a quel
punto tutte le opere si somigliano, e questo è drammatico. [Questa mia
preoccupazione riflette il dilemma che avevo – e che, sia pure diversamente,
ho anche oggi – fra un’analisi «oggettiva» del testo, che allora tentavo con
l’aiuto della semiologia di Christian Metz, e una critica basata su una scrittura
creativa e «soggettiva».]
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che tutte le opere si assomigliano. Benissimo! Dunque tutte le opere che si
assomigliano noi le bocciamo: il che significa mandare a fare in culo le
novantanove pecorelle buone.
Come rifiutiamo tutta la finta tradizione, neorealistica o realistica che sia, del
cinema internazionale, così rifiutiamo tutto lo sperimentalismo, tutto il
laboratorio che, lungi dal rimanere appunto laboratorio, ci viene
sconciamente, impudicamente esibito.
Qui si mette il dito sulla piaga, la mia piaga: io voglio eliminare dal giudizio,
dalla conoscenza, dall’occupazione, e politicamente, tutte quelle opere che
pur essendo splendide si assomigliano.
Perché abbiamo bisogno di pietre miliari che siano diamanti di paragone, tali
cioè che, anche a costo dell’originalità, siano inattaccabili.
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fare sì delle cose mie ma in tutti i modi non potrò che confermare che sono
dei capolavori. Non ci son santi! Il trovatore sarà comunque superiore al
mio saggio, se non altro perché viene prima, ma non cronologicamente:
perché è stato già detto, passato, «messo in opera».
Se poi parlo di una cazzata, allora io posso fare un capolavoro, e l’altro che
l’ha fatta rimane ed è uno che ha fatto una cazzata, e deve essere chiaro.
Ma a che pro?
Cioè mi offri la possibilità di due giudizi, perché mi dai due opere. Grazie!
Vivaddio! La soggettivazione della critica, intesa in questo senso, non ci
esime dal giudicare, cioè dalla conoscenza dell’opera, ma così noi offriamo a
63
un terzo pubblico una doppia mediazione. Avremo una ambivalenza, una
doppia possibilità, perché il concetto scientifico sarà sposato in quanto la
metodologia avrà acquistato in ambiguità.
Sarà sì una critica soggettiva, ma se uno non è in grado di fare una prima
analisi dell’opera, cioè di mettermi in fila tre, dico tre, elementi (su trecento,
su tremila; poi te la faccio rivedere e ne scopri qualcun altro, un po’ alla
volta), vuol dire che non ha la dote, non sa «la virtù magica» cioè scientifica,
e allora non avrà neanche quella ambigua, seconda, che autorizza a
fortemente soggettivizzare. Quindi i terzi non avranno l’oggettività, e magari,
del resto, non se la meritano nemmeno.
C&F: Sembri parlare d’altro ma in realtà non stai facendo, stasera, che
parlare del tuo film.
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Nel tuo film quello che colpisce è che l’esteriorizzazione apparente, alla
Nostra Signora dei Turchi, il fuoco insomma, lascia il posto in realtà a una
metodologia del fuoco. [La cauta adesione di Bene a questa mia formula
critica mi ha ridato il coraggio di tenere testa quando la conversazione
sembrava essere entrata, almeno per me, in una sorta di punto morto.]
C&F: Non vorrei che fosse una domanda conclusiva. Allora faccio un’altra
domanda a Carmelo Bene.
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Si impazzisce una volta sola, l’altra si può rinsavire, ma allora si cambia.
Non si tratta di dire pane al pane e vino al vino, ma di rifiutare il pane e il
vino. Non è giusto per il paradosso, e questo non è un paradosso: paradosso
è la fede nella vita, questo è il problema.
Ora, visto che si può impazzire una volta sola, visto che rifiutiamo e pane e
vino perché abbiamo lo stomaco rovinato, io dico che a chi piace Don
Giovanni non può piacere né Hitchcock, né Renoir, né Bertolucci, né
Pasolini, né Fellini, né eccetera.
Tutt’al più, siccome il cinema è anche giovane, dal cinema si potranno trarre
quattro o cinque film. Per il resto non occupiamoci del pane. Ci sono fornai
che lo fanno e per fortuna c’è anche chi lo mangia: lasciamolo sfornare,
ingerire, digerire, eliminare. Non ci interessa.
C.B.: Sono i miei amici morti. Oppure, siccome spesso io mi sento morto,
cito me stesso convinto di citare altri e viceversa.
C&F: Ecco, ci sono anche i miei morti, che poi non sono morti ma perlopiù
vivi, ma fa lo stesso. Sono tanti e contano per noi oggi in quanto sappiamo
che appartengono al passato. Tu, che parli di quattro o cinque film, ne hai
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visti certamente di più...
La storia del genio – genio è chi fa quello che vuole e se ne procura i mezzi
– è fatta di gente che non ha letto Alessandria – perché è inumano, le gare su
chi ha letto di più non si fanno – ma che sa, che ha fortuna, che sfoglia un
libro, legge una frase, gli interessa e scopre mezzo mondo.
Certo tu, che hai visto mille film e ne salvi dieci, vali quanto me che ne ho
visti dieci e ne salvo uno. Ma non di più, non di più.
C.B.: No. Perché non c’è un autore, in tutta la storia del cinema, che sia
immune da ciò. Escluso Buster Keaton.
C.B.: Non ne ho bisogno. Ma poi non credere. Ejzenštejn l’ho visto quasi
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tutto, e così quel coglione di Buñuel, e anche quel guittetto di Chaplin,
ributtante. Sono tutti fenomeni meschini e piccolo borghesi.
C.B.: Malamente. Per una mia realtà di umanista, di antropologo, non per
narcisismo da stronzo megalomane come dicono gli infami gazzettieri, che
d’altra parte non sanno nemmeno cosa voglia dire narcisismo.
In Don Giovanni io stesso mi nego come autore nel momento in cui nego
tutto il cinema del secolo. Accusare me di narcisismo, nel senso in cui i
volgari usano il termine, è il massimo dell’impudenza, è inaudito.
Nella sua lunga «carriera» teatrale e in occasione dei suoi due primi film,
Carmelo Bene non ha mai sentito il bisogno di fare una operazione del tipo
di quella che sta facendo ora. Un incontro, uno scontro, come questo per
esempio, sarebbe stato impensabile.
C.B.: Perché vogliono il mio sangue e non il mio dolore. Perché non mi
fanno né bene né male. Se esistesse, la Madonna farebbe i miracoli ma
sentendosi bestemmiata darebbe degli schiaffi. Io esisto, ma perché non
dovrei compiere il miracolo di schiaffeggiare?
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Per chi ha capito Don Giovanni (e parlo solo di questo), io voglio ottenere la
grazia che riveda se stesso. Non si minimizzino queste cose.
C.B.: Tu non hai capito: io sono un dogma. Non sono Gesù, non posso
evangelizzare né essere evangelizzato. Sono la Madonna. Sono Vergine. E
puttana. Ma per te sono un dogma: quindi tu ignorami, conoscimi se vuoi,
ma ignorami. E soprattutto non parlarne a nessuno: perciò puoi scriverne.
Ma in nome di Dio, si cerchi di far capire quello che è stato compiuto da un
istrione quale io potevo essere considerato fino all’altro ieri in nome di una
metodologia altamente critica. Non per megalomania ma per coscienza dei
grandi vivi morti e morti vivi. La critica non può essere che un nostro
desiderio di essere, bisogna rinnegare tutto quello che si è fatto finora, e
farlo magari con i film. Tanto riusciremo tutti a fare i nostri film prima o poi,
sapete com’è, e i film sputtaneranno quello che abbiamo scritto e viceversa.
Anch’io ho scritto tre libri, inutili, perché non c’è fruizione, non c’è neanche
mancata fruizione, non ci si può neanche tradire. Insomma, se uno vuol fare
la puttana non la può fare: neanche questo.
C.B.: No, io non credo che il film sia un suicidio dell’autore. Così si adopera
molto male la metodologia del fuoco.
C&F: Intendo parlare della lucidità. Insomma, il film non finisce sulla luce,
finisce sul nero.
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C.B.: Il nero è la luce, il nero è la luce.
È il barocco che ha cominciato a fare della metodologia del fuoco e non una
messa a fuoco.
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P.P.: L’uso sindacale del barocco. A tanto non si era ancora arrivati. Io
speravo che tu dicessi che il barocco è lo stile, il solo modo che corrisponda
alla attuale frantumazione del potere, e invece...
Certo, avrei potuto usarlo anche in senso governativo. E dire che magari
Carmelo Bene rappresenta forse il potere, un potere di oggi o di un prossimo
domani.
Solo così si può realizzare una nuova critica, come una nuova religione della
vita, delle aspirazioni non frustrate.
C&F: Insomma, una cosa almeno è chiara: che l’opera da sola non basta.
Questo è il guaio: l’arte è quello che vogliamo sia la vita e perciò non puoi
dire «impara l’arte e mettila da parte», perché non puoi né impararla né
metterla da parte.
Detto questo c’è il problema della critica. Qui io credo che la posizione mia
sia molto chiara.
Ma voglio avere il potere per toglierlo ad altri, il mio avere il potere consiste
nel fatto che essi non lo abbiano, in nome di nessuna ideologia, partito,
classe. Noi, dell’intera Europa, siamo oggi in una situazione per cui,
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sfasciatisi certi codici, si può, si ha la fortuna di potere profittare di se stessi.
Un abuso. Ma è l’unica possibilità.
C&F: Però tu sai benissimo che qualsiasi battaglia presuppone uno spazio e
che ci saranno delle convergenze, se non proprio alleanze, con forze
ideologicamente etichettate, quali più quali meno, quali con forze dietro e
quali no.
C.B.: Sono dei morti, sì, ma i cadaveri si gonfiano, tendono a occupare più
spazio. E i morti poi risorgono, bisogna ucciderli in continuazione.
Sono tanto ignoranti che ormai boicottano rassegne non si sa perché. Erano
assenti, per ordine di scuderia, anche al recente seminario veneziano
sull’underground americano, rifiutando così anche quel minimo di
conoscenza filologica di cui hanno tanto bisogno e che sarebbe loro dovere
apprendere, visto che si tratta di gente pagata.
C&F: È abbastanza ovvio. Ma sotto non c’è soltanto una normale battaglia di
potere o, a seconda di come si mettono le cose, di rimpiazzo. C’è altro. C’è
un partito che ha perso una ventennale egemonia sull’intellighenzia più o
meno e bene o male rappresentativa del paese. Nel momento in cui,
inaspettato, non voluto, tantomeno suscitato, un movimento di opposizione
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alle infrastrutture culturali gli scoppia fra le mani e crea spinte e controspinte
che tendono a riunirsi altrove, sotto nuove etichette, con altre forze, minori,
anche confuse, disperse, fastidiosamente impreparate, quel partito a questo
punto non sa più cosa fare. Da un lato se ne appropria, dall’altro rivendica
diritti mai conquistati, infine si assenta, chiede tempo e lascia fare.
Uno dei risultati di un qualsiasi successo di opposizione da parte tua sarà una
maggiore libertà di azione per autori che già lavorano ma che non sono
certamente i compagni di strada che tu vorresti. Ed è solo uno dei problemi
che non puoi non porti.
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I registi? Perché, esiste il cinema?
di Oreste Del Buono
Carmelo Bene nello studio televisivo della rubrica Cinema 70, uno scampolo
di registrazione prima delle vacanze. Sensazionale. Per ventisei settimane su
quella poltrona girevole di plastica nera si sono avvicendati i Grandi Maestri
abbastanza presuntuosi da fingersi bonari, i piccoli Maestri verbosi e insicuri
e i Non Maestri disinvolti sino all’intolleranza. Ventisei settimane di facce
compunte, di completi studiati, casual o formal, di gerghi detestabili, di
conformismi puntuali. Per questo Bene appare sensazionale. O magari solo
diverso, che è già moltissimo. I neri capelli lunghetti, ma per nulla alla
moda, anzi da attrice di prosa degli anni Venti, da flapper maturata, da
fratellino di Oscar Wilde. I neri occhi accalamarati nella bianchissima faccia
spettrale. E ancora nero l’abito di velluto sulla camicia, nera con il caldo che
fa. E sempre neri gli stivaletti, con tanti bottoni, all’antica. Non square, non
hippy. Invece così decadente da suscitar quasi tenerezza.
«Il cinema italiano e no, il cinema parte da zero, nel senso che non c’è mai
stato». Carmelo Bene ruota sulla poltrona girevole, farfuglia, accende una
sigaretta, poi un’altra, ammicca, si alza. Sensazionale. Si comporta davanti
alle telecamere come se fosse a casa sua, il primo che non si lasci dominare
dal mezzo, che lo adoperi, al contrario, per rinnovare, rinsaldare, esaltare la
sua leggenda, piccola magari, per pochi, ma già leggenda, di artista
presuntuoso, geniale anarchico. Ma pur sempre nato nei dintorni di Lecce,
educato dagli Scolopi e dai Gesuiti, quindi anche dotato di vigile furberia,
dell’accorto pragmatismo di tutte le generazioni in lotta con la vita che lo
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hanno preceduto, di sconcertante lucidità in qualsiasi sfrenatezza. Parlando,
si ripete, torna indietro, perde il filo, finge di non ritrovarlo, devia, si
impenna, si arrabbia, si cita, si ricita, tronca le frasi al momento più
interessante o più deludente. Parla, parla, tre quarti dell’intervista
risulteranno impossibili da trasmettere, la vendetta del mezzo
irriverentemente adoperato, i limiti reali o immaginari della televisione.
«Io conosco gli uomini e non i cittadini. La differenza tra uomo e cittadino è
un fatto fondamentale per me, è quello che, se vogliamo, mi ha portato dal
teatro al cinema. Nel teatro mi sentivo un poco cittadino. La comunicativa...
un attore può dire cose straordinarie, ma se è condannato ad avere un
fascino, a essere bravo, a essere comunicativo, questa comunicativa io la
chiamo corruzione nel senso che è vero, sì, fa, trasmette, consente di lasciar
passare cose che altrimenti non passerebbero, ma al tempo stesso le
compromette. E inoltre la presenza del pubblico mi ha sempre dato molto
fastidio. Ecco la ragione della scelta del cinema... Nostra Signora dei Turchi
è un’esperienza giovanile. Se il film è bello, è bello perché è giovane.
Capricci è un ripensamento, perché già non ero più io quando giravo la
seconda inquadratura di Nostra Signora dei Turchi, ero un altro da
quell’altro che aveva girato la prima. Sono un altro quando ancora adesso
mi riaccendo una sigaretta, un altro da quell’altro che si accendeva
quell’altra sigaretta qualche minuto fa. Quanto a Don Giovanni, il mio terzo
film, che presenterò al Festival di Venezia... io sono morto, mi sono
superato. In questo, Don Giovanni è un capolavoro. Dico capolavoro a
ragion veduta. Se pensiero è pensiero del pensiero, è l’idea addirittura, la
luce la stella, ci sono le stelle del mattino, ma non è detto che la stella sia il
mattino. Non è che annunci il mattino. È un manifestarsi del mattino. Cito.
Di conseguenza sono anch’io in malafede. La malafede cos’è? È lo stile,
laddove lo stile lo si voglia portare agli altri. Si può dire che, per intima
contraddizione, la malafede stia nel comportamento. Sono in malafede
quanto Gesù...»1
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otto anni fa ha inaugurato con il Teatro Laboratorio un suo singolare modo
di spettacolo, scegliendo testi disparati, da Pinocchio a Salomè, da Amleto a
Faust, per sfregiarli con la più clamorosa, irriverente e fervida crudeltà.
Discusso dai critici teatrali dapprima, poi discusso dai critici cinematografici
peggio ancora che da quelli teatrali, si prepara a scatenare intorno a Don
Giovanni una vera e propria battaglia. Non è certo il tipo che eviti le
polemiche. «Io non dormo da trent’anni. I critici cinematografici dormono
da molto di più. Questi critici sono nati senza vocazione. Se uno domanda a
un bambino: tu cosa farai da grande?, le risposte che può ottenere sono: farò
lo spazzino, farò il direttore generale di una banca, farò l’attore, farò
l’ingegnere navale. Questo dell’ingegnere navale è un desiderio comune a
molti bambini. Nessun bambino, però, dirà mai: farò il critico
cinematografico. Questi critici sono arrivati a occuparsi di cinema senza
vocazione. Di cinema hanno finito per occuparsi a causa, non so, di disguidi
editoriali, contrattempi della vita, questioni familiari. Io mi proibisco una
famiglia, ma non la escludo per gli altri. Comunque considero la posizione
dei critici cinematografici attualmente un ripiego, così, un en passant e una
impasse, e questo è grave. Fosse solo un en passant...»
Carmelo Bene, a casa sua. Una strada verde e quieta sull’Aventino, lì accanto
abita Vittorio De Sica. Un cortile su cui si affacciano quattro palazzi.
L’appartamento è nel cortile, difeso da un cancelletto, da una rete metallica,
da un cane lupo che anfana e abbaia. L’appartamento consiste di due stanze.
Alle pareti scaffali con libri, un paio di quadri smisurati. Un tavolo da lavoro
arruffato di fogli sporchi o intatti, la macchina per scrivere, con infilata nel
rullo una cartella riempita a metà. Una cartella del libro contro la critica
cinematografica che Carmelo Bene sta preparando, per farlo uscire per il
Festival di Venezia. L’orecchio mancante è il titolo, il libro divora l’insonnia
delle sue notti. Carmelo Bene è appena alzato, stravolto. Si attacca alla
bottiglia di Coca-Cola formato familiare, come al seno materno. «Questi
signori fanno non tanto un mestiere che non compete loro quanto un
mestiere che non si aspettavano, né certo la loro mamma li aveva prodotti a
quello nel senso dello specifico... Quindi, noi vediamo i cosiddetti autori di
cinema da un lato, che ci hanno fornito solo letteratura virata, e la maggior
parte dei nostri bravi critici cinematografici, non solo dei nostri, anche dei
loro, eh... cioè non è bene a mio avviso limitarsi da Palermo al Tirolo,
bisogna andare oltre lo stesso Tirolo, perché ci sono anche da quelle parti
76
delle cose da sindacare, non sul piano sindacale, s’intende... Questi critici
cinematografici senza vocazione si sono trovati davanti a un cinema senza
vocazione. Il problema in poche parole è oculistico, un fatto d’occhi. Ma
pensi che in una recensione al mio primo film, Nostra Signora dei Turchi,
un’autorità come Gianluigi Rondi ebbe a scrivere... Ma vuol sentire cosa ha
esattamente scritto Gianluigi Rondi?»
Ad ogni modo, lui non sta a sentire se io lo voglia sentire. Scuote l’onda
nera dei capelli che gli nasconde quell’occhio. Fruga tra i fogli sporchi o
intatti, mettendo in pericolo una pila di libri in bilico sull’angolo del tavolo, i
sonetti di Shakespeare, san Giovanni della Croce, Don Chisciotte, Góngora.
Poi tira fuori un grosso album, lo apre, ed è singolare che l’album sia bello e
nuovo, con tutti i ritagli delle recensioni ai suoi film ordinati
cronologicamente, conservati sotto il cellophane. Sfoglia l’album. «Il titolo
della recensione dice: Anche il cinema demenziale ha scoperto Venezia. Lo
so che l’autore del pezzo non è quasi mai responsabile del titolo. Ma
andiamo avanti, senta: Dopo il cinema impressionista, il neorealismo, la
Nouvelle Vague, ecco il cinema informale, disordinato e confuso, in quanto
difficile da catalogarsi e accettarsi... Dico, ma è possibile scrivere così? E
Kant, Gianluigi Rondi lo ha mai letto, Kant? La ricorda la licenza liceale?...
Io, alla licenza liceale, sono stato bocciato proprio per un lapsus su Kant. Il
professore che mi esaminava era un napoletano, severissimo. Perché non
m’interroga anche su Hegel?, ho detto, sperando di rimediare. E lui: Se non
conosce Kant, è impossibile che parli di Hegel. Perché non m’interroga
anche su Feuerbach? Se non conosce Kant, è impossibile che parli di
Feuerbach. E allora di chi è possibile che parli, professore? Di nessuno, vada
via, scompaia. Forse è per questo che Kant mi è restato tanto impresso... Ma
senta ancora Gianluigi Rondi: Accettiamo, se vogliamo, l’informale per
quello che riguarda le arti figurative, ma per il momento almeno per quello
che riguarda il cinema... Per lui, per Gianluigi Rondi, evidentemente, il
cinema è tutto un fatto d’orecchi, un problema in poche parole acustico...»
77
l’otorino le curasse gli occhi, non sarebbe demente anche lui? Non so, la
situazione attuale del cinema e della critica cinematografica di qua e di là del
Tirolo è questa... E per questo sto scrivendo L’orecchio mancante, tanto più
nemici di quanti ne ho... Il mio libro tratta del cinema e della critica
cinematografica di qua e di là del Tirolo. Contiene l’esame del cinema che
non è cinema, della critica cinematografica che non è critica cinematografica.
Cos’è?... Mah, ho provato a dividere i critici cinematografici in tre categorie,
per comodità di classificazione. I gazzettieri, i travesti, i supermaschi. I
gazzettieri sono il coro, quelli che parlano per parlare, rumore di fondo. I
travesti sono i peggiori, quelli che concepiscono la critica come mediazione.
Nani che cercano di possedere gigantesse, gente che ha della capra e del
cavolo, cantautori del mai visto, spastici, convitati di pietra, sfruttatori del
buio pomeridiano, alpini da pianura...» La foga degli insulti – il
compiacimento delle immagini, lui parla sempre per immagini, è il più
figurativo degli interlocutori – gli ha tolto il fiato, Carmelo Bene si rioccupa
dei suoi capelli, quell’onda riottosa innamorata del suo occhio, mi guarda
come se si rendesse conto improvvisamente della mia presenza e se ne
domandasse la ragione. «E poi ci sono i supermaschi... La critica che
reinventa l’opera al livello pretestuale. Tutti con un film nel cassetto, e non
ci sarebbe nulla di male. Purché lo facessero, il film...»
Quella che si fosse reso conto della mia presenza era una speranza o una
deliberata illusione? Carmelo Bene sospira quasi languido, ma d’un languore
di febbre, una febbre di parole, parole. «Del resto, i critici non capiscono
mai in qualsiasi campo. Guardi il calcio. Ebbene, se la poetica nazionale è il
calcio, noi abbiamo un poeta, e allora lo attaccano, lo vituperano, lo
costringono a non giocare. Il poeta è, ovviamente, Gianni Rivera... E cosa
sono state le partite Italia-Svezia e Italia-Uruguay? Uno squallore, tutti lì a
difendere la tattica preferita, la tattica che ci porta inevitabilmente alla
sconfitta in pace e in guerra. Gianni Rivera è l’unico poeta del calcio, ma ha
il torto, il merito, di non rientrare negli schemi dei critici, non è collocabile
nel loro catalogare e accettare...» È tardi, nella stanza libri, quadri, fogli,
persone s’imbevono di oscurità, solo il bianco della faccia di Carmelo Bene
risplende sempre. Continua a parlare, parlare di calcio con la stessa voluttà,
la stessa forza di convinzione, la stessa saggia eccentricità con cui poco fa
parlava, parlava di cinema. Saggia eccentricità o eccentrica saggezza, sotto
l’apparente distrazione ho l’impressione di avvertire la più puntigliosa
78
coerenza, la coerenza di chi lotta per non perdere il diritto di non avere nulla
da perdere. Genio o mistificatore, appassionato e gelido, calcolatore e
temerario, Carmelo Bene, comunque, non è collocabile in nessun catalogare
e accettare, neppure nella mia impressione già svanente. E poi, si sa, gli
italiani sono tutti commissari tecnici della nazionale di calcio: poco fa,
quando lui parlava, parlava di cinema, potevo stare zitto, ma ora parla, parla
di calcio, ho da dire la mia, non potrei tenermela dentro.
(Da L’Europeo, n. 31, 30 luglio 1970; poi, con il titolo «Esiste il cinema?», in
Oreste Del Buono, Il comune spettatore, Garzanti, Milano 1979)
79
Carmelo Bene:
«Dovrei stare a Louvre»
Per quale motivo nei suoi film sono sempre presenti motivi liturgici, apparati
religiosi, e via dicendo?
No, volevo soltanto sapere se lei nelle sue opere è stato influenzato dalla sua
«cultura» meridionale, dato che è nato a Lecce...
Ma, guardi, io non vorrei parlare più, poiché penso sia inutile. Faccio delle
cose, dei film, che si vedono, si discutono, e ritengo che questo sia
sufficiente. Sono quindi il meno indicato a parlare delle mie opere perché
probabilmente parlandone direi tutt’altra cosa.
NO.
Non la sorprende che i suoi film irritino tante persone? Non si è mai chiesto
il motivo?
Io trovo che abbiano ragione. Parlando ad esempio del Don Giovanni, trovo
80
che non abbia alcun senso averlo mostrato qui a Venezia, dove è un’opera
completamente fuori posto.
Vedendo il suo film viene l’idea che probabilmente sarebbe meglio che il
Don Giovanni fosse visto da persone che non si intendessero completamente
di cinema. Ritiene che il pubblico dei cineclub, dei cinema d’essai sia il più
indicato per vedere e giudicare il suo film?
Senta, vorrei ora farle una domanda che forse potrà sembrarle ingenua: che
cosa è necessario – a suo avviso – per poter fare del cinema?
Mah, è la stessa cosa che chiedere cosa ci vuole per essere poeti. È chiaro
che una cinepresa costa più di una Olivetti, questo è ovvio.
Nessuno.
Lei ha cominciato la sua attività artistica a teatro. Per quale motivo ora lavora
81
prevalentemente col cinema?
No, assolutamente. Solo ritengo inutile chiedere qualcosa a uno che fa delle
opere. I suoi film, i suoi libri, le sue creazioni artistiche parlano per lui. È
inutile voler chiedere o aggiungere altro.
Vedendo il suo film mi è capitato di pensare a lei come regista di un film sui
vampiri, soprattutto per la sua consumata abilità nel creare atmosfere cariche
di suspense e di mistero. Qual è la sua opinione in merito?
No, per ora non ho alcun progetto. Non ho nessuna intenzione concreta o
precisa.
Lei sa che qui a Venezia, oltre ai critici ufficiali, sono convenuti assai
numerosi giovani studenti universitari dei vari corsi sul cinema che sono
tenuti in alcune università italiane. Ebbene a tutti questi il suo film è piaciuto,
anche se avendo io chiesto a parecchi di loro di raccontarlo o di spiegarlo,
tutti unanimemente mi hanno detto che questo è praticamente impossibile.
Qual è la sua impressione al riguardo?
Che coincide con quella di alcuni critici più intelligenti. Biraghi infatti mi ha
detto che il film a lui è piaciuto e che è il primo a rendersi conto che sia
82
un’ingiustizia doverlo recensire secondo i moduli tradizionali. Comunque è
chiaro che l’analisi strutturale o contenutistica del film non ha oggi più alcun
senso.
Qual è allora secondo lei la funzione della critica? Io per esempio ho visto il
suo film che mi è piaciuto molto. Ma come posso fare una critica dettagliata
sul suo film? Posso scrivere che mi è piaciuto e basta? Non è possibile. Che
mi suggerisce in proposito?
Nulla. Lei potrebbe forse scrivere di altre cose interessanti prendendo come
spunto iniziale il mio film. Mai riferire. Nemmeno io potrei riferire
un’inquadratura del mio film. Mentirei agli altri e a me stesso. Un attimo
dopo io stesso non sono più quello di un attimo prima.
E la funzione mediatrice del critico? Non crede che abbia una sua validità o
ragion d’essere?
Senta, Bene, ma lei così facendo non corre il rischio di mitizzare certe
espressioni e certi aspetti della cultura?
Tutto è stato già detto e fatto, come dice Shakespeare. Non esiste il mito,
esiste la realtà; tutto ciò che è fuori, tutto ciò che è irreale è volgare. Il mito è
volgare perché è finito.
83
Carmelo Bene o della responsabilità
di un’arte critica
di Noël Simsolo
Che cosa si può dire e scrivere? Ma poi, perché parlare di questo cineasta
che è impossibile classificare, circoscrivere, afferrare?
C’è chi nutre per lui un’ammirazione sconfinata: che attore, che genio, che
Narciso! Ma, anche, quante elaborazioni fantasmatiche, che grossa
84
problematica sessuale! Non avete letto quello che dice di lui Aristarco, su
Cinema 71, dove dimostra in maniera inequivocabile che Carmelo Bene è un
invertito? Carmelo Bene, dice Aristarco, è una femmina: femmina come il
teatro, femmina come il melodramma.
Bruxelles 1969. Una spettatrice chiede: «Che cosa cercava, girando questo
film, signor Bene?»
02. Roma
Carmelo Bene cena al tavolo di un ristorante di piazza del Popolo. In Italia è
ormai noto, il mondo cinematografico indigeno comincia a essere inquietato
dalla sua presenza: non si sa che collocazione dare ai suoi film, ma sta di
fatto che non lasciano indifferenti, e ciò vale soprattutto per i grandi
mattatori della pellicola. Carmelo Bene non ama parlare di sé o di quello che
fa. Ma ho appena assistito all’ultima fase del montaggio di un suo
cortometraggio tratto da Huysmans (il film, prodotto dalla televisione
italiana, doveva essere proiettato verso la fine del 1971, ma ancora non lo si
85
è visto), e mi permetto di insistere. Huysmans, che visse e scrisse senza
troppa fortuna sullo scorcio del XIX secolo, fu dapprima ammiratore e
seguace di Zola, poi abbandonò il naturalismo per scrivere libri di
ispirazione «blasfema»: En Rade, À Rebours, En Marge, Là-Bas
(quest’ultimo tradotto in italiano col titolo L’abisso). Convertitosi al
cattolicesimo negli ultimi anni della sua vita, lasciò qualche altra opera degna
di nota, come En Route, La Cathédrale, eccetera. A quanto pare, Carmelo
Bene si è sempre interessato a questo scrittore: all’inizio di uno dei suoi libri,
cita il protagonista di À Rebours, Des Esseintes. Gli chiedo che ne pensa del
proprio lavoro. Risponde, un po’ brusco, che Ventriloquio, tratto da À
Rebours, è una sorta di divertissement commissionatogli dalla Rai-Tv.
Carmelo ha scelto il brano del romanzo in cui Des Esseintes ricorre, per
eccitarsi, ai servigi di una ventriloqua. «Questo», afferma, «mi dà modo di
inserire qualche trovata registica». Sono andato a rileggermi il brano del
nono capitolo di À Rebours, cui si è ispirato Carmelo Bene:
Teneva la donna fra le braccia, quando, da dietro l’uscio, rintronò una voce
rauca: «Apri! So benissimo che sei là dentro con un ganzo, adesso ti faccio
vedere io, sporcacciona!» E subito, al pari di quei libertini eccitati dal terrore
di essere colti in flagrante, all’aperto, su un argine, ai giardini delle Tuileries,
su un prato o su una panchina, ritrovava provvisoriamente le forze, si
gettava sulla ventriloqua, la cui voce continuava a clamare fuori dalla stanza,
e provava gioie inaudite, frutto del batticuore, del panico che prova l’uomo
quando si precipita verso il pericolo, l’uomo sorpreso, schiacciato
dall’evidenza della propria depravazione.
Questo il testo che sta alla base del film; ma, come sempre, l’operazione
eseguita dal cineasta tende a dissimulare l’aneddoto, la vicenda, dietro un
velario di immagini e di suoni, in apparenza spropositato, in realtà
perfettamente controllato e assolutamente rigoroso. Il film non è più un
«racconto»: assurge a poesia.
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cattolicesimo come Huysmans: «Dopo aver fatto En Route, bisogna rifare la
strada “à rebours”, ma questo non vuol dire rifare Nostra Signora dei
Turchi». Comunque, secondo Carmelo Bene, chi non ha capito Capricci non
è in grado di capire nessuno dei suoi film successivi. Quanto al suo terzo
lungometraggio, prosegue, questo vuol essere la distruzione della critica: il
Cinema, non più il «cinema nel cinema». Tutt’altra cosa, dunque: il teatro e
tutto il resto sono semplici parole, ma quello che Carmelo Bene fa non è più
cinema; è una sorta di canto e in pari tempo è il gesto, anche se, da un punto
di vista dinamico, il canto è l’esatto contrario del gesto: non esistono più
contraddizioni. Forse, soggiunge, ha raggiunto la «perfezione di una
malattia»: una malattia innata in noi e che Lautréamont aveva compreso
perfettamente, e così Jarry, e così Villiers de l’Isle-Adam, ma che dopo di
loro nessuno più ha compreso.
Huysmans, dice ancora Bene, è stato così intelligente da mettere sullo stesso
piano Flaubert ed Ernest Hello (1828-1885), scrittore, quest’ultimo,
pressoché sconosciuto e autore di vari racconti e saggi sul cristianesimo.
Huysmans afferma che abbiamo perduto la fede. Flaubert non si chiede
neppure più «Che cosa devo fare?» Ed è appunto questa la crisi dell’artista
Des Esseintes. Invece, Hello possiede ancora la fede ma non è un artista:
l’arte o la fede, dunque. È questa la crisi di Huysmans, uomo e scrittore, crisi
che, secondo Carmelo Bene, sarebbe ancora oggi di tutti noi. La crisi, in altre
parole, non sarebbe stata superata; il dilemma dell’arte senza la fede e della
fede senza l’arte non è risolto. Il guaio è che purtroppo siamo ancora tutti
Là-Bas, nell’Abisso, e l’abisso è su questa terra.
È nato a Lecce nel 1937. È un bambino come tanti altri. Cresce, diventa un
adolescente. Lavora in un circo, e questo lo porta al teatro; ma in Italia non
si può essere un attore comune, perché tutti gli italiani sono imitatori e
87
commedianti. E poi, perché la cultura? Meglio diventare un «guitto». Nel
1959, a Roma, si crea un piccolo mito personale recitando Caligola di Albert
Camus sulle scene del Teatro delle Arti. Ma c’è qualcosa di marcio nel regno
del teatro, e Carmelo si cimenta allora nell’adattamento e nella regia, prende
a calci le convenzioni, abbandona la comoda posizione dell’artista per
quella, assai più disagevole, del critico. Rischia, tenta il tutto per tutto,
trovando ogni tanto dei paladini in Moravia e Pasolini. «Una cosa la si può
scrivere, la si può musicare, se ne può parlare, la si può bere; si può farne
quel che si vuole», dice Carmelo Bene.
«Ero truccato, ero in costume», dice Carmelo, «ma il mio viso non era per
niente grottesco. Anzi era bellissimo, e il contrasto accentuava la forza
dell’opera di Jarry».
Amami! È tanto, sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi! Flora, vestiti e
vattene! Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se ne è andata.
Tornando verso lo specchio: adorami!
88
preparato a settanta.
Prese un cilindro, uno dei tanti suoi da teatro, e ne trasse dal fondo una
corona di spine. Se ne cinse il capo e tornò allo specchio.
89
non umano di Mario Schifano, in Necropolis di Brocani, e in altri ancora.
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Pienamente in possesso delle mie facoltà mentali, sollevo lo Stato Italiano da
qualsivoglia responsabilità artistica del mio «comportamento», e il
competente Ministero del Turismo almeno dal mio «Spettacolo».
Carmelo Bene
91
Verdi, Cocteau, Huysmans, Villiers de l’Isle-Adam, Oscar Wilde.
Quest’ultimo nome offre a Carmelo Bene il destro per puntualizzare le sue
idee in fatto di critica. Prende un foglio di carta, ci scrive su:
La critica può sparire a patto che la critica sia stata portata a termine; e può
cominciare il cinema.
Le citazioni
Carmelo Bene non se ne serve mai come di cartelli indicatori, ma piuttosto
come di maschere che consentono al cineasta di commisurare il proprio
lavoro, in pari tempo sollecitandone le possibilità creative. Siamo di fronte
alla paradossale situazione propria di chi fa del cinema e che può essere così
espressa, parafrasando Stravinskij: «Il cinema, al pari della musica, è
incapace di esprimere checchessia».
92
Le citazioni sono di ordine:
«Il colore, i movimenti della cinepresa, non hanno nessuna importanza, visto
che non c’è una conclusione. Il rosso del finale non è né pittorico né
cromatico: è un discorso intraducibile in parole.
Esotismo/Erotismo
L’amore è un atto senza importanza poiché si può compierlo all’infinito.
Tutti girarono la testa a guardare colui che aveva pronunciato tale assurdità.
93
Alfred Jarry, Il supermaschio
94
Dice Carmelo Bene: «Se ci si rifiuta di essere contemporanei, bisogna
prendere posizione. Io non mi interesso degli operai perché non mi interesso
di me stesso».
Parigi. Durante una discussione, nel corso della quale erano stati fatti i nomi
di Godard e di Glauber Rocha, qualcuno istituisce un distratto paragone tra
Ejzenštejn e Carmelo Bene. Un altro ribatte che un film come Don Giovanni
è la distruzione, inquadratura per inquadratura, di Ejzenštejn. Replica
Carmelo: Ejzenštejn è sempre l’estetica della miseria, mai la miseria
dell’estetica. Non si tratta dunque di distruggere Ejzenštejn, ma noblesse
oblige.
«Come sempre, la rappresentazione poteva durare due minuti, due ore o una
notte intera. Tutto dipendeva dal pubblico. I biglietti erano cari: sei, settemila
lire. Se uno spettatore se ne usciva con una battuta di spirito, allora basta,
calava il sipario e i biglietti non venivano rimborsati. Al pubblico non
restava che prendersela con l’idiota che si era creduto tanto intelligente».
Il cameriere porta la carne e il vino. Carmelo Bene guarda con occhio triste il
tournedos, lo studia un momentino, poi richiama il cameriere e gli dice,
indicando il piatto: «Cameriere, c’è qualcosa di marcio nel regno di
Danimarca».
95
Se a teatro io illumino di rosso un personaggio e questi tende il braccio,
perché non posso illuminare il braccio di verde? La gente si stupirebbe,
direbbe che non è plausibile, ma se un gesto comincia in rosso e finisce in
verde, ecco, questo sarebbe un modo per troncare quel gesto, smontandolo.
«Il cinema è in ritardo; nessuno vuol capire che fare dell’arte e fare della
critica sono ormai la stessa cosa. In campo letterario, gli scrittori francesi
della fine dell’Ottocento l’avevano già capito, un bel po’ prima dei
surrealisti. Del resto, il surrealismo è il tradimento della vita a opera della
storia.
«Quando si è in due, uno può anche dire sì, ma il pericolo è proprio che
l’altro risponda sì. Perché allora non c’è più niente da fare. Se l’altro
risponde no, allora è l’inizio, l’avvio a una pseudocomunicazione. La società
intera è fatta di sì e di no. Non si fa che rispondere, invece di porre
domande, senza fine, domande, domande, domande e ancora domande.
«Il gesto è unico. Si dispone di un’unica vita e di un unico gesto. E tale gesto
non deve essere mai arrestato. Se l’arresti anche solo per dirmi bravo! è
finita; ma è finita anche se ti fermi per dirmi che non sei d’accordo con me.
Lo ripeto: bisogna rifiutarsi di essere contemporanei. Provo vergogna per
quelli come me, ritengo anzi che occorra assumere un atteggiamento
aristocratico, e occorre il coraggio di sostenerlo. È la migliore soluzione.
Non so dire se sono un idealista ma, certo, mi vergogno di essere un
cineasta».
96
08. Si gira Salomè
Settembre 1971, Cinecittà. Da quattro mesi, Carmelo Bene gira un
adattamento del dramma di Oscar Wilde con un cast formato da Veruschka,
Donyale Luna, Lydia Mancinelli, Davoli e, naturalmente, Carmelo Bene. La
lavorazione è difficilissima, con una scenografia immane, palmizi artificiali,
fiori di plastica e praticabili coperti di Scotchlite, ciò che rende ardua
l’illuminazione perché il diaframma corrispondente allo Scotchlite è diverso
da quello occorrente per il trucco o i costumi. Ci vogliono ore e ore per
girare una sola inquadratura e l’operatore, Mario Masini, urta di continuo
contro nuovi ostacoli. Si serve di un proiettore frontale fissato alla cinepresa
Super16. Su un’aiuola galleggiante, coperta di rose artificiali, quattro attori
attendono il ciak. L’inquadratura sarà un’inflazione di erotismo e di
esotismo. Dichiara Carmelo Bene: «Fin dall’inizio ho esasperato al massimo
esotismo ed erotismo, tracciando così i binari di tutto il film. Sull’aiuola, un
uomo si masturba al chiar di luna, sotto lo sguardo voglioso di un efebo.
Due soldati nudi – un uomo e una donna – fanno a braccio di ferro,
carezzandosi con lo sguardo».
«Quando ho fatto Nostra Signora dei Turchi, Capricci e Don Giovanni, non
avevo dubbi su di me e sul mio lavoro; con Salomè è diverso, Salomè è un
grosso rischio. Certo, avevo già messo in scena il dramma a teatro, ma il
film è tutt’altra cosa. Non si può neppure fare un paragone. Questo film
devo farlo e, invece, non dovrei. Bisognerebbe aspettare un anno, prima di
fare un film. Ma ormai...
«Salomè è un’esperienza che nasce dalle mie mani. È una grossa impresa
tecnica e devo essere sicuro dei miei collaboratori. Se i tecnici non vogliono,
va tutto a carte quarantotto. Ma se ne vengono a capo, Salomè sarà
certamente il primo, vero film a colori.
97
frontale. Inoltre, molti degli attori non sono né professionisti né italiani. E
l’aspetto più difficile risiede non tanto nel fatto che non capiscono l’italiano,
bensì nella necessità di dirigerli con precisione e nell’ottenere che parlino il
linguaggio del cinema».
00. Conclusione
«Esiste la conoscenza che è nell’atmosfera e nella cultura; ed è l’atmosfera
appunto, non la storia dei documenti: è la storia che esiste in concreto».
Quando, nel melodramma, il soprano dialoga col suo amante, noi udiamo il
98
coro e l’anima nera cantare insieme, mentre l’orchestra prosegue il suo
discorso. Tale sovrapposizione consente la critica di ognuno dei discorsi e
del procedimento nel suo insieme. Da questo gioco di costruzione, che
istituisce un atto inscindibile, si origina una bellezza diversa da quella
propostaci dalla cultura. È questo il cinema di Carmelo Bene, un cinema in
cui finiamo per non riconoscere più gli elementi che compongono il film,
per scoprire, al loro posto, una emozione nuova. Non è più l’emozione
artistica, ma l’emozione critica: un appello all’intelligenza.
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Dopo il teatro e il cinema
la tv secondo Carmelo
di Italo Moscati
100
della rappresentazione tradizionale o rinnovata da consumare, e come ricerca
di una inedita partitura da eseguire senza orchestra. La terza, la prosecuzione
della sperimentazione sul linguaggio televisivo iniziata con Bene! Quattro
diversi modi di morire in versi, due puntate dedicate a Blok, Majakovskij,
Esenin e Pasternak.
Va precisato che questo Amleto ha alle spalle una esperienza teatrale e una
cinematografica (con il titolo Un Amleto di meno). In sintesi, è uno sviluppo
della interpretazione di Laforgue, poeta ottocentesco amato dagli irregolari
della letteratura. Il principe, soffocato dall’educazione ricevuta e da
un’angoscia in cui pure si specchia, si sottrae alla responsabilità di vendicare
il padre, e si aggrappa al mito piccolo borghese dell’arte. Gl’importa poco di
farla pagare allo zio e alla madre che si è alleata con lui, e anzi ne è l’amante
(come sappiamo). Progetta di partire per una tournée con Kate, un’attrice del
gruppo di guitti ammessi al castello di Elsinore dove aleggia lo spettro
dell’assassinato. Ma il vero regista dell’azione è proprio lo zio che corregge
l’attore in un delitto non dissimile da quello che ha commesso. I bauli per la
tournée sono pronti. Amleto ci finirà dentro come in una bara, colpito a
morte da Laerte, fratello di Ofelia, «idiota a furia di umanità» (come dice
Laforgue). Arriva alla fine Fortebraccio ma è soltanto un’armatura vuota.
Dal punto di vista del metodo, la realizzazione nelle sue tre tappe espressive
(ripeto: teatro, cinema, tv non fanno differenza sotto questo aspetto)
persegue una decisa tendenza. Carmelo Bene detesta la falsa riproduzione
realistica e crea una dimensione che si rifà alla partitura musicale perché ne
apprezza il tessuto compatto, fuso. Gli piacerebbe che l’ascolto si
intersecasse alle immagini per restituire un unico flusso. Non per stordire o
sedurre, con il piacere dei suoni o il fascino delle immagini, ma per andare
101
insieme al pubblico alla ricerca più profonda. Non tanto, quindi, per stupire
e suscitare emozioni quanto per tracciare un itinerario di sensibilità.
Freddamente, e anche con l’istinto sicuro di uomo di spettacolo, vuole
spazzare via i luoghi comuni della comunicazione, interrompere i saldi e
grigi circuiti del trattamento, stabilire un contatto per trasgressione.
È una scelta di lusso. Cioè, non è stata una scelta imposta dall’indisponibilità
di uno studio televisivo attrezzato per il colore. Per l’Amleto mi serviva il
bianco e nero in senso e-spressivo. Volevo sottolineare violentemente i
contrasti e abolire il grigio. Tutte le sfumature di grigio che inquinano le
immagini del bianco e nero quando è usato in maniera distratta o
abitudinaria. Basta pensare a una qualsiasi trasmissione. Il grigio spegne i
contorni. Annega i personaggi e le scene in una generale uniformità.
Perché questa puntigliosità? E quali altri criteri hai seguito per raggiungere i
risultati che ti sei ripromesso?
102
Mi sono riproposto di ottenere una evidente aggressività, nel senso che
attraverso i contrasti fra un netto bianco e un netto nero si può portare lo
spettatore ad afferrare le diversità e quindi le intenzioni del programma,
senza essere trascinati in quel clima di osservazione morbida e passiva creato
dall’invadenza dei grigi. Ciò mi ha posto grandi problemi. Ad esempio, per
quanto riguarda i costumi, ho dovuto trasformare quelli che avevo usato
nella rappresentazione teatrale, rifacendoli o addirittura mettendo toppe
laddove i colori cambiavano nel singolo costume. Ho scelto soltanto quanto
era utile per marcare il bianco o il nero.
Un costume viola fa meglio risaltare il nero, tanto per fare un caso. Un’altra
preoccupazione che ho avuto è stata quella di abolire i campi medi. Tutti,
critici e registi, affermano che in tv non si possono adoperare i campi lunghi,
ovvero riprendere e restituire i personaggi o le cose sullo sfondo di una
scena, e che si deve ripiegare sul campo medio, ovvero sulle figure o le cose
più vicine alla telecamera. Non è così, almeno in questo Amleto. Ho
alternato primi, primissimi piani, sui volti degli attori e il mio, vicini o
vicinissimi all’occhio della telecamera, con i campi lunghi. Questi sono veri
e propri «totali» dell’intera scena all’interno dello studio. L’ho fatto, anche
questo, per evitare di cadere in un vizio del linguaggio televisivo
consuetudinario, aggiungendo un altro elemento di contrasto, accanto al più
definito uso del bianco e nero.
A che cosa ti sono servite queste scelte? Non sono certamente solo tecniche.
Che cosa c’è dentro?
103
sulla quale indagare minuziosamente. La telecamera diventa una specie di
occhio esplorativo che coglie tutto, anche i più piccoli dettagli, e offre la
possibilità di raccontare potendo selezionare un materiale enorme.
Lo si può comprendere facilmente se, oltre alle cose dette, si pensa alla
combinazione tra video e suono. Tutti, più o meno, badano più al primo che
al secondo. Il suono è spesso scadente quanto il video, le immagini. Perché?
Perché i microfoni sono posti lontano da chi parla, in posizioni tali da
garantire una ripresa panoramica, che non aiuta a cogliere il suono (le
parole, la musica e i rumori) necessario ma lo spappola e lo impasta.
Nell’Amleto abbiamo cercato di evitarlo, non lasciando nulla di intentato per
amplificare la resa fonica. Per cui, il suono rispetta un progetto molto
accurato. Do infatti grande importanza alla colonna sonora. Arrivo a
realizzarla per prima cosa e poi a farla diventare la guida del lavoro di
composizione delle immagini. È un montaggio continuo, minuzioso, sia sulla
guida sonora che sulle immagini. Queste le abbiamo spremute al massimo,
cercando e tornando a cercare le migliori, quelle che erano aderenti alla
rappresentazione e allo scavo di quel paesaggio umano di cui dicevo.
104
Chiedi magari a un Ceroli di fare le scene. Ed ecco che il palcoscenico si
riempie. Ma il pubblico «sentirà» quel legno.
Guardarsi sul video nello studio non è forse una prova di narcisismo?
L’attore può attardarsi anziché criticarsi...
Per quel che mi concerne, devo dire di no. Sono sempre stato accusato di
narcisismo da quando faccio teatro. È una accusa che non temo. Io cerco
l’autodistruzione e il dinamismo. Voglio dire che se mi guardo sul video
mentre recito è per distruggere ciò che vedo e cambiare. Per rendere più
105
dinamica, cioè non noiosa e compiaciuta, l’interpretazione. È una chance
della televisione che, alle spalle, non ha una ricerca seria, anche se non
mancano i tentativi in questa direzione. L’altra chance è quella di tener conto
della sua immediatezza e di doversi misurare con la privacy di chi guarda. La
privacy viene considerata sovente un dato controproducente: lo spettatore è
isolato nella sua casa e consuma il grigio del suo elettrodomestico. Ma è
proprio sulla privacy che bisogna operare. Non dimenticarla, calcolarla e
sovvertirla. Ritorna il paragone con il cinema. La cinepresa è
documentaristica. La televisione, contrariamente a quanto dicono, non lo è,
o meglio potrebbe non esserlo. Quella che conosciamo è solo nebbia.
Bisogna fare il vuoto per recuperarla. E non c’è bisogno di far correre le
telecamere, basta la telecamera fissa e lavorare poi sul particolare, sui
contrasti...
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L’estetica del piacere: conversazione con
Carmelo Bene
di Maurizio Grande
Lo spettatore dovrebbe sapere tutto, dovrebbe essere ideale, quindi uno che
sa tutto. Non intendo il critico. Critico e artista sono la stessa cosa, se il
critico capisce, al di là della specializzazione, cioè dello scaffale. Viceversa
l’operazione critica di un artista è anche una operazione teorica. Quindi il
pubblico deve sapere tutto, ma fino a che punto? E tutto di che? Io direi che
sapere tutto equivale anche, almeno, a non sapere niente. La cosa grave,
invece, è che il pubblico sa qualcosa, qualcosa che gli hanno da sempre
propinato. Ecco, quello che guasta non è il sapere tutto, che equivale al non
sapere niente (il che sarebbe perfetto), ma sapere quel tantino che crede di
sapere perché glielo hanno dato da portarselo a spasso. Il pubblico
purtroppo sa qualcosa, ma qualcosa di sbagliato.
107
luoghi comuni di una ideologia o di ideologie mal digerite, non meditate e
non trasformate in contenuti sociali, in ricchezza di senso sul piano della
comunicazione e del dibattito culturale. Questo Amleto appare come il
prodotto di una profonda riflessione sulla televisione come linguaggio.
108
piccolo schermo. Tra il Centro Studi e Viale Mazzini non s’intendono, non
esistono rapporti. Gli Studi vanno prenotati, c’è la morte, la mortalità,
l’indisposizione di qualche attore, di qualche regista, di un’équipe che non è
perfetta e che io, grazie a Dio, per la seconda volta ho perfetta. Per quanto
riguarda invece la scelta estetica, penso che sia un merito della Rete 2, non si
può negare, anche se è costretta ad andare allo sbaraglio perché deve pescare
qua e là. Quello che deve fare la televisione è sviluppare il mezzo televisivo.
Quello che non deve fare assolutamente è la riproposta del teatro morto e lo
scemeggiato, quello con la emme. Noi abbiamo lavorato con una console
che fa miracoli nel montaggio, ma ricorrendo anche alla taglierina, come al
cinema, per fare delle «operazioni», come le chiamano. Questi mezzi sono a
disposizione anche degli altri, soltanto che non vengono usati, perché si dice
che il pubblico non li vuole, che il pubblico non vuole niente. Piantiamola
con la storia del pubblico che non vuole niente. È un errore madornale. Si
sta sempre su un testo morto, poi in tv non sanno che fare e dicono: il
piccolo mezzo non si presta, il piccolo schermo non ha il fascino, anzi, per
l’errore di stampa del Corriere della Sera, non ha il fascismo del teatro... Un
titolo molto eloquente per un fortunato errore del proto. Io dico che
quell’errore è giusto in fondo: il piccolo schermo non ha il fascismo del
teatro. Sì è vero. All’opposto di questo non c’è il talento, ma una cosa più
umile, il genio, qualcuno che possa capire il video di qua e di là della
telecamera, e questo è importante.
Sarebbe interessante sapere qualche cosa di più del rapporto fra tecnica e
linguaggio televisivo. Per esempio conoscere il modo in cui in questo
Amleto è stata usata la camera, quale ruolo ha avuto il montaggio, quale il
significato della macchina ferma e del forte contrasto dei piani, perché ci
sono soltanto tre o quattro lievissimi carrelli; e, infine, quali soluzioni
originali per il linguaggio del piccolo schermo ha apportato questo modo di
vedere il bianco e il nero e la soppressione dei grigi e delle «velature» dei
toni. Se questo «linguaggio dei contrasti netti» è un limite paradossale,
raggiungibile soltanto in questi tipi di spettacolo o se, invece, può essere
esteso ad altri «generi» televisivi.
109
elettronico che si porta al datore luci che opera in studio. La camera ferma
non è alla Straub o alla Bergman, ma serve per proiettare gli attori in piena
violenza, con testoni in PPP e campi lunghi, eliminando del tutto il campo
medio, il cosiddetto «totalino» televisivo. La novità è pensare all’ambiente
come a qualcosa da calzare e gettare via subito, come un guanto, per dare un
suggerimento quasi «mentale» dell’ambiente. Le assolvenze e dissolvenze
fatte in macchina, in diretta durante la ripresa, danno proprio l’invenzione di
un personaggio in quanto «io ti penso tu mi appari», e non come le
dissolvenze da Carosello. E poi una strapotenza dell’audio, difficilissima da
ottenere perché dal campo lungo al primo piano bisogna escludere i
microfoni al volo. Insomma un estremo rigore, estrema umiltà e coraggio,
molto coraggio soprattutto. Musica, montaggio, assolvenze e dissolvenze in
diretta danno la misura estetica di questo virtuosismo tecnico che è un fatto
di linguaggio, che è potenziamento del mezzo televisivo e di quanto appare
sul piccolo schermo. Con queste macchine stupende si può fare. Nel cinema
devi fare la truka dopo, devi stampare, eccetera; invece in televisione si
stampa subito e si fanno subito i contrasti. È un mezzo veramente stupendo
che invece usano malissimo. Spero che nell’Amleto questo venga fuori,
anche se, preciso, chi vedrà lo spettacolo con un televisore a colori senza
l’automatico o la levetta che esclude il colore non vedrà il bianco e nero che
io ho realizzato.
110
bianchi e dei neri con la eliminazione dei pastelli. Il colore, che sperimenterò
con la stessa équipe nel Riccardo iii, o il bianco e nero come fatti finalmente
e veramente estetici e non etici, come invece sono stati sempre visti dalla
critica. È un fatto di latitudine, come diceva Pascal, non di morale.
Da questo Amleto non solo vengono fuori i momenti in cui nascono assieme
il linguaggio e la tecnica del mezzo televisivo, il linguaggio colto sul nascere
e nell’affermarsi della tecnica (una tecnica che è a fondamento del
linguaggio in quello specchio delle operazioni che il monitor rilancia indietro
a chi si guarda nello e si vede guardato dallo specchio tecnico); ma nasce
111
anche una coscienza della tecnica che non è soltanto tale, puro strumento
dell’arte e del linguaggio, ma è linguaggio essa stessa, che non è più «mezzo»
ma ha assunto dignità di «arte». Ecco, non solo viene fuori la dimensione
linguistica della tecnica, ma addirittura le sue capacità illusionistiche e il suo
distendersi in altre dimensioni estetiche. Nonostante l’abbattimento dei grigi;
nonostante il perforamento della illusione di profondità nella direzione di
una prospettiva rinascimentale forse nell’inquietudine di una orizzontalità
ritrovata e non perduta, non più azzerata dai significati che la scalzano;
nonostante la cancellatura dell’illusione di profondità nella direzione di una
prospettiva rinascimentale forse negata o travolta, poiché viene fatta apparire
con lampi improvvisi e altrettanto improvvisamente svanisce, nella
negazione di un’illusione appena accennata. Ecco, nonostante tutto questo,
c’è qualcosa d’altro che viene fuori, che si accenna in un nuovo spessore del
gioco: quello per cui vengono annullate le dimensioni stesse del piccolo
schermo in quanto piccolo; perché vengono abolite e retrocesse le illusioni
dimensionali e i confini materiali dello schermo televisivo, per conquistare
uno spazio e una profondità diversa e addirittura una «idea» diversa dello
spazio e delle sue costituenti: profondità, spessore, colore, forme.
Hai centrato il segreto del piccolo schermo, perché diventa piccolo se tu gli
metti gli «omini», cioè mi fai i campi medi e i campi lunghi e me lo tratti
come un grande schermo del panoramico da cinema. Allora il piccolo
schermo diventa veramente un Bignami dell’immagine. Chiaramente il
piccolo schermo rischia sempre di far il Bignami della situazione, perché
secondo loro è destinato a imbecilli e io direi di non destinare mai niente
all’imbecillità. Quanto poi all’attore da video, all’attore televisivo, questo
deve ancora nascere.
Sarebbe come a dire che la pagina stampata, proprio perché è più piccola di
qualunque teleschermo, ci fa ritrovare nel «piccolo testo», mentre se si fa un
in-folio allora siamo al cinema. Non possiamo ridurre al sedicesimo soltanto
l’incapacità dei nostri grandi registi di usare il mezzo televisivo, di
112
affrontarlo. Sennò dobbiamo fare dei libri in cinemascope.
Forse ciò che si chiama «tutto il resto», e che sta fuori di questo Amleto, è
teatro della rappresentazione di cose già significate, mimesi più o meno
raffinata dei valori correnti truccati in vicende drammatiche e scelte
113
esemplari. «Tutto il resto» potrebbe appartenere a una visione dell’arte che si
fa amministrazione del reale e dei suoi istituti sociali cresciuti a ridosso di
una organizzazione del dominio politico e culturale storicamente determinata
ma vista come eterna e immodificabile. Oppure appartiene a una concezione
ancora contemplativa dell’arte: l’arte che non si sporca le mani con il potere
o con la vita quotidiana e preferisce fare da supporto al potere, sublimando
le sue tensioni in un impiego indolore dell’invenzione estetica, in un
maneggiamento subalterno del linguaggio e dei codici dominanti del
comportamento e della organizzazione del senso. Un’arte mutualistica o
ancella di scelte ideologiche extra-artistiche non rivitalizzate dalle cariche
estetiche.
Non posso sentire «Casta diva» mentre qualcuno sferruzza da un lato o con
quell’alberello messo accanto, perché mi limita l’astratto della grandezza
della musica di Bellini. Non sopporto che Scarpia per scrivere un biglietto
114
debba prendere una penna d’oca, oppure che Riccardo nel Ballo in maschera
non possa cantare «Ah! L’ho segnato il sacrifizio mio» senza prima avere
fatto finta di firmare. È gravissimo, perché l’azione in Verdi, soprattutto in
Verdi, è già drammatica, è drammatizzata nella musica. Non mi puoi fare un
pleonasmo là sopra arredandomelo. Non si possono arredare Verdi o Strauss
o Wagner o Bellini Rossini Donizetti. Perché arredarli! Non possiamo
accusare Verdi di aver tollerato delle messinscene. Per i suoi tempi nella
musica è avanti fino a Stravinskij, qualche volta oltre e ancora avanti, ma
non limitiamolo perché ha accettato i libretti di Francesco Maria Piave o
Cammarano. Allora come la vedo? La vedo un servir la musica, un servire i
cantanti, un cercare di non mandarli a cantare in fondo alla scena, di non
fargli fare la capriola mentre fanno un do di petto cosiddetto o un la o un si
naturale. Mai fare queste cose qui. Cercare veramente di usare alla Skrjabin
la partitura musica e la partitura luci, che si vengano incontro e si fondano
veramente ed esaltino alcuni momenti; togliendo tutto lo psicologico, poiché
questo è già contenuto, se vi fosse mai, nella musica. Ma nella musica è
contenuto a livello privato dell’autore che la scrisse. Se Bellini abbia avuto
tre sbocchi di sangue mentre faceva «Vi ravviso luoghi ameni», per esempio,
va bene, riguarda Vincenzo Bellini, ma la sua opera è perfetta e nega quegli
sbocchi di sangue. Allora si torna all’attore, all’ampiezza dei suoi registri, ma
da non confondere con l’amplificazione, come si fa amplificando il volume
quando l’attore non ha voce. Non parliamo in piazza o a Wembley. Il colore
della musica è l’ampiezza e la gamma dei suoi registri, e così della voce,
come fu quella di Maria Callas. C’è un colore anche nel parlato, nel
recitativo, nel cantato, nel fraseggio, e non nell’acuto o nel do di petto. Gli
attori non sanno che cos’è un diaframma e non sanno contraddire quello che
dicono, contraddire al tempo stesso, e non dire prima e poi dire no. Si tratta
di scantonare a un padronato, a una verità qualunque, a un padrone
qualunque, all’andare a braccetto di arte e potere. Perché l’arte sia sconfitta
se diventa padronale. Perché sia battuta se si incorona di niente, di quel
niente che è il potere. Allora, da un lato c’è chi fa dell’arte, che è inutile, che
è un niente, ma che esiste; dall’altra parte c’è chi sta col potere che è
veramente il niente assoluto, che esiste solamente, però, nella realtà del
sangue altrui che sparge. È come la definizione che dà Stendhal di Dio: Dio
ha una sola scusa, che non esiste. A non è. Nietzsche gliela invidiava da
pazzi, l’unica cosa che invidiava.
115
Questo dislocamento del principio logico di identità non tocca soltanto il
rovesciamento del sapere filosofico e quel tanto che ne è filtrato nella storia
per diventare sapere sociale e reticolato intellettuale delle operazioni del
pensiero e delle mete del comportamento, ma tocca anche il rapporto che c’è
tra sapere filosofico, sapere sociale e scelte estetiche, individuali o collettive.
Tocca il modo di essere di un artista oggi e il modo di leggere l’arte oggi. Per
questo motivo l’attraversamento di una filosofia del negativo o della
negatività (che è qualcosa di più complesso che una ideologia del rifiuto) è
una delle condizioni del fare spettacolo (teatrale, cinematografico o
televisivo) di Carmelo Bene, una delle condizioni che consentono e spiegano
la sua rilettura dei testi classici e i suoi modi della messa in scena, e, primo
fra tutti, il suo modo di essere attore pensante prima che involucro fisico di
fatti ed eventi scenici.
Si parla spesso di «tipi d’attore», si dice che uno è diverso dall’altro: quello è
un mostro del teatro leggero, quell’altro del dramma eroico, quell’altro
dell’epica. Il fatto importante, veramente, è che l’attore sia fuori di sé, anche
soltanto per tre minuti, a teatro. La Callas arrivava a essere fuori di sé, era
maniaca per dieci ore al giorno, maniaca del professionismo. Per questo, si
disse, muore la Tebaldi muore un soprano, un grande soprano: muore la
Callas muore un mondo, muore il mondo, quel mondo. Quindi l’attore è
fuori di sé. È chiaro che richiede mezzi, ricchezza di registri, eccetera.
L’attore che non si schifa, l’attore che non odia il pubblico, ma proprio
perché se stesso, il discorso di Eliogabalo, non mi interessa. Si dice: ma è
bravo... Ma già il fatto che sia bravo è grave, calandosi in una parte o in più
parti, a sketch...
116
rappresentare un carattere oltre questa sostanza del rifiuto delle «parti» a
teatro, che non viene più accettato in quanto tale, in quanto ordine della
scena e del senso. Mercuzio fa violenza al testo e alla scena perché non vuole
rinunciare alla «parte», non vuole «finire» il suo tempo, uscire di scena,
morire sul serio. La «parte» non deve finire, perché in realtà non c’è «parte»
che contenga il desiderio dell’attore a teatro.
Per molta critica si tratta di «abuso» del testo, come se Shakespeare non
avesse abusato di Bandello. Quanto all’Amleto, se uno mi dicesse: va bene,
però... non è Shakespeare. Altra mania. Qualcuno ha pure detto di aver visto
uno Shakespeare attendibile solo da me. Ma è un paradosso anche questo.
Che vuol dire «attendibile»? Tutti gli Amleti sifilitici che ci hanno rifilato
sempre. Quando dice: Nostro figlio è grasso, ha il fiato corto e perderà.
Quindi l’Amleto nasce grasso perché Burdage era grasso. E basta. È il suo
prim’attore ed è grasso. Perché ne hanno fatto tutto questo? Dryden fece una
restaurazione di Shakespeare... Scambiarono l’in-quarto con l’in-folio,
fecero un gran casino; fino al 1920 o al 1930 Shakespeare fu dato da Dryden,
mai più da Shakespeare. Il romanticismo tedesco e il basso romanticismo
tedesco, quello italiano, tutto fraintese. L’ignoranza degli attori, l’ignoranza
dei teatranti: per la Madonna, hanno intabarrato tutto. Amleto deve essere
magro, deve essere sifilitico, come Osvaldo...!
117
Qualcuno ha preso sul serio questo Freud nell’Amleto. Ma io lo metto in
bocca a Polonio, proprio per denunciarlo... Per dire: Fuori! Questo qui deve
restare fuori...
Freud deve restare fuori perché Freud rimanga, e non il suo «utilizzo», un
caso tra tanti altri di pezze d’appoggio o di citazioni eleganti o di snobismo
intellettuale.
Esatto. Che stia fuori per restare. Ma non con la sua disamina dell’Amleto,
che è penosa, che non mi interessa, assolutamente, ma con Al di là del
principio di piacere. Infatti io reitero le inquadrature di Polonio apposta,
perché la terza volta deve far ridere, visivamente deve già far ridere senza
nemmeno capire le parole, senza identificarsi in una «parte». Queste,
d’altronde non esistono nemmeno più nell’editoria, oggi, vista la libertà che
c’è. Nel teatro si mette un altro saggio. Che poi sono trucchi editoriali per
smaltire meglio un prodotto: è un fatto di distribuzione, sono accorgimenti
distributivi. Mi rifiuto di pensare all’attore «per tipi». Torno all’esempio
dell’opera. Tu senti cantare Domingo, ma anche il grande Di Stefano (per me
la più bella voce che il mondo abbia mai avuto), la Caballé, e trovi che sono
eccelsi cantanti. Quando cantava ed era in vena la Callas non potevi dire che
era un soprano: così la minimizzi o minimizzi i soprani... non c’entra. Come
quando si viene a dire: Ah! Però nel teatro leggero è un dio. Johnny Dorelli:
Eh, però nel teatro leggero è un dio. Non c’entra niente.
118
soprattutto. Che non è tale soltanto perché ha quindici attori e chi dà le luci e
chi fa il resto. Ma che, come attore, anche da solo potrebbe gestire lo stesso
linguaggio, diventando luce, suono e... Questo è importante. Che anche da
solo uno può benissimo essere teatro e scena, non c’è bisogno di essere in
tanti.
119
avrebbe chiamati Dodici, chiaramente...
Anche il modo televisivo usato da Carmelo Bene nella «lettura» dei poeti
russi testimonia ancora quello che ha già chiamato «paradosso del
linguaggio», linguaggio della esasperazione figurale, linguaggio all’eccesso,
eccesso di linguaggio nella macchina televisiva. Il paradosso. Perché non si
creda che Carmelo Bene presti un fiore all’occhiello della Rai, bensì la
costringe, nonostante tutto, a fare queste cose, e magari con successo per
l’Apparato e la Burocrazia dell’Ente del piccolo schermo...
Loro fanno tutto... Non vorrei cascare nell’incantatore di serpenti, nel «Mago
del Nord»... Dicono: più va avanti, più diventa formalista. Per Romeo e
Giulietta son cascati nella trappola del formalismo. Klossowski s’è accorto
della perversione. Ma io sostengo che bisogna essere Klossowski per capire,
non c’è niente da fare. Nietzsche diceva che l’esistenza è un fenomeno
estetico, l’esistenza. Veramente, se c’è spettacolo materialista, è quello mio.
Quello che loro non accettano dove non capiscono, è quando questo
materialismo non è dialettico. Il materialismo è sempre stato accoppiato
all’attributo «dialettico». Non dovrebbe essere così. Non è né rivoluzionario
né rivoluzionante e neppure post-rivoluzionario. Tutti hanno fatto
dell’umorismo su Stirner. Cosa non facile, perché noi stiamo constatando
oggi, e vedremo – se arriveremo al 2000, prima di entrare in coma –
vedremo quanto Stirner, e quanto Marx, è stato grande. Come Bataille.
Cretini, diceva, cari compagni, Kafka è proprio quello che il partito
comunista estromette, e non può che essere quello. Non può, non può...
Ah!, lo estromette? Allora non ci interessa. Quindi, parla della superviolenza
di Kafka. Bisognerebbe spiegare l’estetica con la differenza tra valore d’uso
e valore di scambio...
120
istituzionalizzata del senso. Occultamento del denaro riconsegnato allo
spreco e all’istantaneità che non consente accumulo.
Sì, ma queste teorie sono di Max Stirner già: Caro Pilato, la verità è il
padrone. Nietzsche è impazzito lì. Chiaramente c’è la volontà di potenza, in
un Io che già accetta l’amor fati, o almeno accetta il divenire. Ma Nietzsche
l’ha capito. Su questo è impazzito... Un uomo che aveva, come Nietzsche,
rovesciato la filosofia, liquidato il padronato del sistema filosofico, il sistema
filosofico; uno che diceva: Domani si daterà la storia non da Cristo ma prima
e dopo Nietzsche. Lui che ha rimpianto tanto quest’Io, in fondo si chiamava
solo Federico Nietzsche! Era in fondo la soggettività assoluta. Chiaramente,
per andare in fondo coerentemente alla propria filosofia, nella Volontà di
potenza è impazzito. È impazzito perché rispuntava nell’eterno ritorno
dell’uguale il soggetto. Ma andiamo a Stirner. Nell’Unico si dice: Sono
l’Unico indicibile, io sono l’ultima tramontante stella... eh!, per la
madonna... E dal momento che io mi svolgo dall’unico creatore – perché
Dio sono diventato io – all’unico creato, ho fondato la mia causa su nulla. E
Nietzsche nella Volontà di potenza è impazzito proprio perché non se la
sentiva di recuperare il soggetto, perché nell’innocenza del divenire lo aveva
recuperato solo come accettazione dell’amor fati... Ecco il suo amore per
Bizet... Un uomo che aveva scritto tutti i tomi che aveva scritto, aveva fatto
una polemica col mondo intero, con i mondi passati e a venire, si trovava
121
stretto, chiaramente, scacciato da se stesso. E la follia l’ha premiato in
questo. Questo devono capire. Quando scopre che il cane morde la coda e
non c’è altro modo, la Cavani non può cambiare questo, e metterlo come un
voyeur. Questo è gesuitismo, e chiamarlo anche Al di là del bene e del male
è di una gravità infinita, perché sta al di qua, sta proprio nel bene e male.
Questa è religione. Quando Fofi diceva a me cattolico, non capiva che il
religioso è lui, mistico-religioso. Il cattolicesimo non ha mai avuto religione.
Guarda la storia della Chiesa...
Così si torna al bianco e al nero della televisione, o, per meglio dire, al suo
regno dei grigi. Il grigio è così un velo, mentre il bianco e il nero stanno lì a
toglierli i veli. Il grigio è passaggio, compromesso, è passare in mezzo e
restarci in mezzo, nello scoloramento dei toni per attingere l’uniforme del
mezzo, la medietà come valore e come linguaggio. Bianco e nero non è né
vestire né denudare, è qualcosa che è al di là del vestire e del denudare...
122
di qua e di là non si è mai nell’eccesso: o sei nella post-rivoluzione o sei
prima della rivoluzione, e quindi sei o nel bene o nel male, ma non sei al di
là. Non c’è il dispiacere: ecco dove lui centra il minore, lo centra nel milieu
come eccesso. Questo è dato solo dalle opere grandi e rivoluzionarie.
È l’esperienza del bilico, stare con e stare nel bilico, senza uscita, senza
uscirne. È il bilico, il non essere in nessun luogo, il non avere luogo. Il
bilico non ha una topica. È l’«impossibile» di Bataille, stare nel mezzo senza
essere né da una parte né dall’altra. È questo il paradosso, che vuol dire
anche «irrappresentabile». Linguaggio dell’eccesso, linguaggio all’eccesso
senza contorni di lingua o di codice normalizzante, ma semplice e complessa
e profonda distensione nel linguaggio, distensione del linguaggio e
dell’esperienza estetica, distensione dell’estetico senza luoghi deputati...
123
pagare per Ivan. Ne hanno fatto uno scrupolo di coscienza di questo grande
dissoluto che era Kafka, porco, dissoluto, finalmente il vero, grande porco
della letteratura. Non c’è nessuno più porco di lui. Questo Bataille l’ha
capito. L’inventore dell’eros è Kafka. Quando lui infatti palpa... fa palpare
tutte queste donne, chiavare in aule di tribunale, fottere, incularsele, è
pornografia, è alta pornografia. E questo è importante. Non è sesso, è
pornografia pura, eccesso del desiderio, il vero senso che ha l’osceno.
Eccedere il desiderio è importante. Klossowski dice addirittura:
Trasgrediamo la trasgressione, proviamo, via... Ed ecco Baffomet...
Il senso è osceno, proprio il senso, quello che si produce fuori della scena. È
questa pornografia. Tutto ciò che è fuori della scena e che ti si attacca
addosso, ti si radica dentro, mette radici profonde, non come la
rappresentazione che salva dal senso certificando i significati.
124
americano è fatto in magnetico, è fatto in ampex e poi si tirano le copie in
pellicola... L’imbecillità non ha limiti. Questi continuano a imperversare sui
giornali: «Purtroppo ancora questo narcisismo del primo piano»...
125
Parliamo di Bene
di Doriano Fasoli
Irriverente e geniale, Carmelo Bene è stato uno dei pochi artisti italiani che
ha cercato di sperimentare un diverso modello di cinema e di televisione.
Doriano Fasoli l’ha incontrato per Duel.
126
errore madornale. Piantiamola con queste balle. E intanto continuano a
propinargli giorno e notte le stesse miserie, gli stessi sceneggiati di sempre,
badando troppo ai contenuti, ai contenuti pseudopolitici, lavorando troppo
sui campi medi. E lavorare su campo medio è lavorare sulla mediocrità.
Ecco perché la gente ancora pensa che la tecnica sia un fatto neutro e perché
la televisione le appare ancora soltanto come un canale di registrazione e di
emissione, da utilizzare – così come è ridotto – come un qualunque
elettrodomestico, che Eduardo De Filippo giustamente metteva in contatto
con un aspirapolvere». I critici – prosegue Bene ininterrottamente – «hanno
poi le loro belle responsabilità. Non sono degni studiosi e anche quando lo
sono, nel momento in cui sono obbligati a recensire – non si sa bene poi da
chi – diventano mediocri. Non riescono a svincolarsi dalla tematica di
qualcosa o dalla immagine fine a se stessa. Invece vogliono solo immagini...
Gilles Deleuze nel suo gentile saggio in cui mi chiama “la rigueur, par
excellence” [in “Un manifesto di meno”, n.d.r.], oltre a osservare che i miei
film non sono teatro filmato aggiunge che bisognerebbe analizzarli
particolarmente. È vero, ma non l’ha fatto quasi nessuno, esclusi Fofi,
credo, e Maurizio Grande. La verità è che nessuno sa che cazzo vuol dire
cinema, o televisione, o che quando si fa la televisione non si deve fare
cinema. Ma come: se c’è qualcosa che io ho portato nell’uno e nell’altro
(oltre che in teatro) è la tecnicità (da téchne, che è l’arte per i greci)... l’al di
là dell’arte fino all’automatismo, fino ad oltre la perfezione, tecnologica
proprio. Per il Riccardo iii montavo nella stanza attigua a quella di
Antonioni, al quale – allora alle prese con Il mistero di Oberwald – di tanto
in tanto davo suggerimenti proprio a tal proposito. Facevo turni di otto-nove
ore al giorno e ho impiegato nove mesi e mezzo per il montaggio,
rimettendoci del denaro, perché non viene pagato il montaggio... E il Don
Giovanni, per esempio? Per più di una settimana, di giorno e di notte, io e
Mauro Contini, il montatore, lo abbiamo ritoccato con gli inchiostri di china
Kodak, a mano, fotogramma per fotogramma. Insomma ho fatto pazzie io,
buttato “argento”, fatto i “bagni”, dormito negli stabilimenti... Ho svuotato la
mia esistenza, mi sono giocato tante vite ma la vita non l’ho vista mai».
Irrefrenabilmente, Bene prende poi – nonostante «il mio astio per il cinema»
– a enumerare mille altri espedienti tecnici a cui fece ricorso, mille altre
trovate geniali, per arrivare a parlare del primato incredibile di 4200
inquadrature che vanta Salomè, con quell’orgia di colore così «sfondato»,
127
così musicalmente ed eroicamente gestito (come scrisse Sergio Colomba),
ottenuto tecnicamente attraverso lo Scotchlite, i parchi-lampade viaggianti e
le macchine da presa continuamente in movimento.
128
Intervista a Carmelo Bene
di Goffredo Fofi
Tra gli uomini più lucidi e intelligenti, oltre che artista geniale, che il nostro
paese abbia diritto di vantare, in mezzo a tanti sbracati e sbraitanti divazzi e
divazze televisive. Ascoltiamolo Carmelo, a teatro, dove ha da dirci
l’insensato della nostra condizione e solitudine con i modi di un’arte ormai
unica (chi può stargli alla pari? E non solo in Italia). E stimoliamolo, con la
nostra poca intelligenza applicata e mediocre, a dirci di più, sul teatro e sul
cinema, sull’Italia e sugli italiani...
Ma chi l’ha detto che è stato Leopardi l’autore dei Canti... o Campana quello
129
dei Canti orfici... Nemmeno per idea. Campana era un povero pazzo. E io,
nei miei spettacoli, cerco di togliere la parola all’autorità dell’autore. Bisogna
ritornare al prima della parola, al dopo del dopo. Non ci sono più artefici...
nessun artefice... la voce è un fatto di flusso.
Ma Carmelo Bene è una persona «religiosa»? Non nel senso del credente,
che è un’altra cosa...
Religioso? Sì. Ma io penso che dovremmo essere religiosi non foss’altro che
per pigrizia. L’azione è volgare, il gesto stanca comunque. Non lo fare! Non
essere aggressivi, ecco un fatto religioso. Per pigrizia! Un termine che
andrebbe rivalutato: i dandy l’avevano molto adoperato, ma non ha mai
avuto il posto d’onore che si meriterebbe. Si è fatto posto allo spleen, a tutto
quanto, e non alla pigrizia. La pigrizia imperiale, senza colonie!
130
È per questo che non fa più cinema?
Mentre tutti, invece, cominciano. Non c’è forse italiano che non si sia
prodotto in qualche filmetto, magari Super8, video... Non un italiano
immune dal cinema...
Ma dove si può trovare allora il genio? Forse sui campi di calcio, quando
giocava Maradona...
Chi non ha talento è un genio, l’ho sempre detto. E ho sempre detto che c’è
bisogno di miti. Non si può vivere senza miti. Là dove le masse sono
davvero bastarde (protagoniste, stirneriane, fuochi fatui continuamente
intervistati nel quotidiano) esse sono gelose, invidiose del diverso,
131
dell’unico. Ce l’hanno col mito. «Dagli al mito». Così con Maradona, o lo
stesso Van Basten, o nel caso del tennis con Borg e con Sugar Leonard sul
ring. Invece, bisogna prendere atto del fatto che «io questo non lo saprò mai
fare». Questo è il fatto, il fatto che questi semidei sono insostituibili. Mentre
nel generale appiattimento ecco tutti ripetere «Dagli al mito!» Quello che ha
sempre sorretto il mal di denti umanoide è stato il mito! Oggi, invece, che
cosa si vuol fare? Il mito democratico! Il mito va invidiato, visto che riesce a
fare quello che nessun altro riesce a fare. E invece... è come quando un
condomino dice che manca di condominio! Che non ha senso di
responsabilità condominiale! Che è un irresponsabile, condominialmente
parlando! Che distinguendosi dalle masse non è un vero democratico! Nella
sconfitta di Maradona «non c’è partita», come si dice nel gergo sportivo:
pensa come sarebbe triste per lui uscire vincente anche fuori dal campo. No,
questa è una società dove uscire perdente è un punto d’onore. A scanso
d’equivoco, bisogna uscire perdenti. In democrazia il mito dev’essere
punito!
Non ci si rende conto che la radio, questo mezzo per ciechi, ha molte più
chance, perché almeno ci priva della volgarità dell’immagine. La televisione
è l’illusione dei fatti perché per farli vedere li deve raccontare, e così li
sputtana. La televisione ti garantisce che i fatti non sono mai accaduti, che
nulla accade! Si parla dei morti e lo speaker dice: «Vedete, hanno il cervello
fracassato, guardate, sono inguardabili!» Perché non basta esibirli, rientrano
già nella fiction.
132
È molto stancante, ma dipende dalle occasioni.
133
«Che i vivi mi perdonino...» : intervista a
Carmelo Bene
di Thierry Lounas
Carmelo Bene non fa parte di nessuna delle avanguardie (da lui considerate
come degli inganni), non è in alcun modo uno sperimentatore di forme, un
artista maledetto o un demiurgo aristocratico. È una massa, la «massa dei
suoi atomi», come ama ripetere; in poche parole né dalla parte delle forme
dominanti e della maestria, né dalla parte del popolo, né da quella dell’arte.
Tra il 1968 e il 1974, questa massa ha «messo in scena» (dopo aver letto
l’intervista si capirà la necessità del virgolettato) cinque «film» (Nostra
Signora dei Turchi, Capricci, Don Giovanni, Salomè, Un Amleto di meno)
che disegnano una delle traiettorie più folgoranti e radicali del cinema
moderno. Egli è nondimeno (soprattutto) «uomo» di teatro, autore di
numerose pièce come Macbeth, Lorenzaccio, Pinocchio, S.A.D.E., Romeo e
Giulietta... Gilles Deleuze, che gli ha dedicato alcune pagine del suo
L’immagine-tempo (come ha detto lo stesso Bene: «Sempre meglio che
ritrovarsi nell’Immagine-movimento») e ha scritto un libro con la sua
collaborazione, così come pure Camille Dumoulié nella sua opera dedicata
all’autore de Il teatro e il suo doppio, hanno parlato di lui come di un
continuatore di Artaud, addirittura di un suo superamento.
134
srotolano indefinitamente».
3. sony: la tecnica per l’ennesima volta ha mostrato i suoi limiti. Per ragioni
che ancora oggi restano oscure, il registratore non ha voluto registrare
l’intervista nella sua interezza. Manca dunque una buona mezz’ora di
discussione. Grazie all’interessamento di Jean-Paul Manganaro, traduttore e
specialista dell’opera di Bene, le lacune sono state colmate con una
conversazione telefonica tra i due, durante la quale le domande che
mancavano all’appello sono state riproposte (stavolta in italiano). Che Jean-
Paul Manganaro sia qui calorosamente ringraziato.
4. Se Carmelo Bene, come lui stesso afferma, lavora per resuscitare l’orale,
la trascrizione scritta di questa intervista si pone inevitabilmente agli
antipodi. Senza dubbio, per restare assolutamente fedeli alla discussione,
avremmo dovuto allegare – e i Cahiers l’hanno fatto in diverse occasioni –
un disco in vinile (oppure un cd). In compenso, circoleranno delle cassette
pirata.
135
di un commento, ma arrischiamone uno, tanto più se è Gilles Deleuze a
farlo: il balbettio, la sua autonomia rispetto al «parlare educato»
maggioritario, il ridurre, l’essere minoritario, il divenire-minoritario
universale).
Voglia anche scusarmi per il poco tempo che posso dedicarle, ma in questo
momento lavoro con un mio collaboratore a un libro che potremmo definire
autobiografico, ma che in realtà è un pretesto per ritornare su un insieme di
questioni cruciali. D’altronde lei arriva proprio al momento giusto. Sto
infatti per descrivere la mia parentesi cinematografica, la folle storia del
cinema. Ho fatto cinque film con pochissimi mezzi, in modo precario. Per
alcuni, cinque film sono pochi, ma per altri, cinque film di Carmelo Bene
sono forse già troppi. Il fatto è che nel 1974 ho deciso di porre fine alla mia
parentesi cinematografica.
Del suo lavoro si è detto a volte che proseguiva quello di Artaud. Lei cosa ne
pensa? In che momento della sua vita ha letto Artaud?
Nel 1959, quando ho iniziato a fare teatro, non avevo letto Artaud. L’ho letto
più tardi grazie alle opere complete pubblicate da Gallimard. È ammirevole
quello che ha fatto: ha crocifisso la lingua, ha distrutto la lingua francese.
Tuttavia, la magnifica teoria che espone ne Il teatro e il suo doppio non è
stato in grado di metterla in pratica, di mostrarla, di presentarla. L’ha solo
rappresentata. Parlo della recitazione dell’attore. Dico spesso «togliere di
scena», in poche parole il contrario di mettere in scena. Per tornare ad
Artaud, dicevo che questo formidabile disastro, questa messa in rovina delle
rovine su cui ha operato, non è stato mai in grado di mostrarla. Io l’ho fatto
e l’ho applicato non solo al giudizio di Dio, alla morale, ma anche al teatro.
Io detesto il teatro. Detesto anche il cinema, la letteratura, in breve detesto
l’arte. Quello che faccio è un «teatro senza spettacolo», o, se vuole, uno
«spettacolo senza teatro», insomma una ricerca impossibile. Ma la ricerca
impossibile non corrisponde all’impossibilità della ricerca. Perché quando si
cerca, non bisogna mai trovare, sennò ciò che si trova non è altro che una
trovata. Per questo la ricerca è impossibile.
La lettura è la fine del ricordo. Non mi riferisco al ricordo dello scritto, che è
136
la morte dell’orale, l’orale defunto. Quando leggo Leopardi, quando recito
Leopardi – ho recitato molte cose: Beethoven, Byron, Schumann, l’Hyperion
di Luporini – leggo per dimenticare lo scritto, per resuscitare la parola. E per
dimenticare lo scritto, ho realizzato il sogno di Baudelaire, che scrive nei
suoi Diari intimi: «Non andrò più a teatro finché gli attori non si decideranno
a parlare con un megafono. Ciò che ho sempre trovato di più bello a teatro è
il lampadario. Tuttavia, vorrei che gli attori montassero su supporti molto
alti, portassero maschere più espressive del volto umano, e parlassero
attraverso dei portavoce». Ho applicato tutto questo alla lettera creando una
strumentazione fonica amplificata, un’amplificazione mostruosa ottenuta
grazie a degli altoparlanti. Quando ho presentato il Macbeth, all’inizio il
pubblico del Théâtre de l’Odéon è rimasto assai stupito. Si sono messi tutti a
gridare e a urlare, ma alla fine era un vero entusiasmo. Grazie a questa
strumentazione fonica amplificata, l’attore invece di dire (l’abbiamo fatta
finita col dire) è nell’ascolto. Non è l’attore che si ascolta, è il luogo
dell’ascolto. Non si tratta del dire, è la voce che è detta: «Cogito ergo est»,
dice Nietzsche. Facciamo un esempio: se guardo questa immagine sulla
copertina del libro di Camille Dumoulié su Artaud, a questa distanza [la
lunghezza del braccio], ecco, questo è l’equivalente sonoro della nuda voce,
cioè il teatro e il melodramma. Se avvicino il libro, la forma globale
scompare e iniziano ad apparire i dettagli. Se ora lo tengo in questa maniera
[davanti agli occhi], tutto scompare perché nulla ha avuto inizio. Ecco
dunque l’equivalente del suono così come io l’intendo. L’attore non esiste
più, manca a se stesso, siamo nell’abbandono, nella morte del significato.
L’interiorità ha reciso la comunicazione. L’attore e lo spettatore non
comunicano più. L’interiorità dell’attore si precipita nell’interiorità dello
spettatore. È un transfert. A questo stadio, la rappresentazione, le parole
intese come volontà non esistono più. Il logos non esiste più. Gli affetti, i
sentimenti, la Patria, Dio, la grammatica, l’anima, lo spirito, non esistono
più. È il mai-detto, il non-detto, che parlano all’interiorità. Ci troviamo nella
sensazione. E infine, pure il corpo se ne va. Ho tentato di raggiungere tutto
questo al cinema, con l’immagine (che detesto), cercando di massacrarla col
montaggio, lavorando sull’inclinazione dei volti, per trovare una musicalità
visiva. Deleuze l’ha chiamata immagine-cristallo. Siamo nel tempo, nel non-
concetto del tempo, nell’attuale, cioè nell’atto e non nell’azione, nel presente
in quanto immediatamente passato, nel passato e nel presente che
coincidono nel divenire. Siamo in questa virtualità che è al centro di Salomè
137
e di Nostra Signora dei Turchi.
138
non è che un buio intollerabile che non è possibile testimoniare. A teatro,
anche in quello che faccio io, ci sono non più di due o tre momenti
d’immediato. Non sono che attimi. Ecco perché tutto il teatro inteso come
rappresentazione non vale nulla ed è da buttare. Qualunque fotogramma di
qualsiasi opera, purché non si tratti di un’opera d’arte, non può eccedere la
forma che nella differenza, la differenza come ripetizione senza concetto.
Bisogna decontestualizzare: si veda Nietzsche e Deleuze. Si pensi alle
ragazzine fotografate da Lewis Carroll. O alle foto di cadaveri, alle foto di
bambini in stato di coma scattate da David Harali... Tutto questo fa parte
dell’immediato. Il teatro non ce lo mostra che una o due volte ogni secolo:
alcuni attimi, mai un intero spettacolo. I pittori che hanno ecceduto l’arte si
contano sulle dita di una mano, e il più grande è Bacon. La sensazione
corporea – noi siamo dei corpi, noi non abbiamo un corpo: il fatto di essere
qualcosa non significa averla – suggerisce ben più energia e più dinamica
dell’intera settima arte cinematografica che si considera in movimento. Non
si sa mai dove il gesto inizi e dove vada a finire, se finisce. Un film che fa
affidamento sull’azione non è che un film già filmato. È un documentario. In
ugual modo il testo, nella drammaturgia, non è che documentazione, anche
se v’è un autore. Poiché l’autore ha tradito ciò che ha già messo in scena
nella sua testa, è stato tradito dal fatto stesso di scrivere un testo per poi
metterlo in scena. È una somma di tradimenti e di azioni in cui ogni
rappresentazione di questa tripla rappresentazione – pensiero, scrittura,
messa in scena – non rappresenta mai la stessa cosa e abolisce
l’immediatezza dell’atto. Ecco perché l’autore non esiste. Si può essere
capolavoro ma non si può fare, in arte, un capolavoro. Tutto il senso di
abbandono ottenuto grazie alla macchina attoriale si basa per l’appunto
sull’oblio dell’azione e sul passaggio all’immediato dell’atto, sul fatto stesso
di essere perduto, senza passare attraverso qualsiasi scrittura di scena. Per
potersi abbandonare, per perdersi, bisogna riempire la scena, considerarla un
campo minato o di handicap, di impedimenti dove i ritardi si contano in
rapporto al tempo. In Lorenzaccio, ad esempio, i tempi vengono talmente
allungati che l’assassino trova già morto colui che avrebbe dovuto uccidere e
anche il motivo per cui doveva uccidere, perché è già stato ucciso dal
rumorista, perché la storia se n’è già fatta carico. Dunque è sempre in ritardo
su se stesso. L’umiltà di Musset è quella di dire: «Io non ero presente». La
macchina attoriale deve fare altrettanto, ma non è semplice. Io vi sono
giunto molto raramente, dato che dura lo spazio di pochi istanti, attimi, mai il
139
tempo dell’intero spettacolo. Già l’attimo è troppo. Il teatro senz’azione, il
teatro dell’immediato, è quel buio che non possiamo comprendere, sottratto
al logos. Come raccontare ciò che vi vediamo? Più che vederci qualcosa
bisogna sapere ascoltare. Come raccontare una sensazione, che è un fatto di
pelle, sottratto a ogni pensiero?
140
compreso il problema e che stimo. Per misurare la disgrazia di un corpo
massacrato al suolo, bisogna calcolare l’altezza da cui è precipitato. E cosa
accade al cinema? Prendiamo l’esempio di un individuo in cima a un
grattacielo. Lo vedete in piedi, poi perde l’equilibrio e cade al suolo. Un
ralenti vi permette di apprezzare la traiettoria. Per quanto mi riguarda,
taglierei la traiettoria, non mostrerei che l’inizio e la fine. Così, saremmo
meno nel descrittivo e un po’ più nell’immediato. Detesto il ralenti, meglio
allora il ralenti infinito. Cinque milioni di fotogrammi o uno solo, è
esattamente la stessa cosa. Sempre a condizione, dovrebbe aver cominciato a
capirlo, che la ripetizione sia una differenza senza concetto, o la differenza
una ripetizione senza concetto. A condizione che si sia nella differenza, che
si ecceda il genere: questo è fondamentale. Considero il teatro l’esercizio più
difficile e più affascinante, poiché vi si pratica il possibile.
Non vado mai al cinema. Non dormo mai, prendo molti sonniferi, mi capita
di vedere qualche film in televisione. Non mi interessa nessun cineasta. Non
mi interessa neppure quello che ho fatto, salvo due o tre momenti:
l’autocrocifissione mancata in Salomè, la pellicola bruciata e fatta a pezzi in
Nostra Signora dei Turchi come parodia del ricordo. Ciò che importa è
l’amplificazione, sia quella del suono che dell’illuminazione. Questa
amplificazione è al massimo un blow-up. Dimostra che più ci si avvicina a
una cosa meno la si può vedere.
141
aveva scritto a Rossini per dirgli che ciò che aveva realizzato era la cosa più
sorprendente che lo sforzo supremo del genio umano ci avesse dato da
ascoltare. Aveva ragione, perché lì tutto il linguaggio viene maltrattato, fatto
a pezzi. Con Schönberg, siamo ancora nella malattia. Allora dico: Ravel e il
primo Stravinskij. C’è gente che storce il naso davanti a Kafka, quando
Kafka è tutto.
142
Partner è stato presentato a Venezia lo stesso anno di Nostra Signora dei
Turchi. Bertolucci avrebbe anche potuto fare qualcosa di interessante, ma
non ci è riuscito. Non bisogna fare capolavori, bisogna essere dei
capolavori, poiché se ci si sottrae dal discorso, dalla comunicazione, dal
soggetto, l’autore non esiste più. Nel mio caso, ci troviamo in un «corpo
d’opera», come nota Deleuze, ma senza l’artificio. Bisogna farla finita col
cinema d’autore. Fin dall’inizio, bisogna distruggere, negare qualsiasi
paternità, sennò si rimpiazza lo stato. La soluzione non è nella rivoluzione
copernicana, ma nella rivoluzione tout court. Si dovrebbe abbattere un
potere per prenderne il posto. Non si sfugge alla macchina. Kafka aveva
capito tutto. Bisogna prenderne atto una buona volta.
No, no, no. C’è un doppio in Brecht, ma il suo attore è nella civilizzazione
mentre si deve essere nella sincerità, presentare e non rappresentare. L’attore
brechtiano recita il suo ruolo come una spia, come un poliziotto, è ridicolo.
Un doppio non è sufficiente. Nella deriva, nel caos del significante, chi è che
recita? Non più io. Dovrebbero esserci dei milioni di doppi. E alla fine di
tutte queste virtualità, c’è ancora quella dello spettatore. Bresson lo sapeva,
grazie a Dio, giocava con il cinema e non con un testo. Non si parla mai di
un testo. Bisogna leggere Sartre. Quando leggo un testo, prendo tutto ciò che
non vi è detto. Dimentico, prendo ciò che manca, siamo ciò che a noi
manca, non è necessario aver letto Saussure o Lacan per capirlo. Bisogna
mancare a qualcosa, è questa la sola possibilità della ricerca, e insieme la
ragione della sua impossibilità.
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Come comprendere la comunità, se non vi è storia, politica, comunicazione?
Tanto peggio. Sta nel peggio. Si pone solo la questione del cittadino, e mai
quella dell’uomo e del suo superamento, della sua miseria. È privato in tutti i
sensi del termine. L’arte popolare non vuol dire nulla, è esecrabile. Per
essere liberi, ci si dovrebbe prima di tutto liberare della libertà. Come per la
trasgressione: si deve trasgredire la trasgressione. È un paradosso, ma è
proprio così: ci si deve liberare della coscienza. Non v’è stata liberazione nel
Sessantotto. Che c’entrano i problemi degli operai con quelli degli studenti?
I loro problemi non mi interessano. Lo spettatore, quando assiste al mio
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«teatro senza spettacolo», è impressionato o infastidito dal cortocircuito, non
dalla polemica.
(Dai Cahiers du cinéma, numero fuori serie «Cinéma 68», 1998. Traduzione
dal francese di Rinaldo Censi)
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Filmografia
Cinema
1968
Hermitage
II barocco leccese
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Masini (la Madonna e il primo amore), Salvatore Siniscalchi (l’editore),
Vincenzo Musso. Produzione: Carmelo Bene. Distribuzione: IFC. Durata:
124 minuti.
1969
Capricci
1970
Ventriloquio
Regia: Carmelo Bene. Montaggio: Mauro Contini. Girato in 16mm presso gli
studi Rai di via Teulada. Interpreti: Carmelo Bene, Lydia Mancinelli.
Produzione: Rai. Durata: 17 minuti. Invisibile.
1971
Don Giovanni
147
e il «confessore»), Gea Marotta (la bambina). La voce over è di J. Francis
Lane. Produzione: Carmelo Bene. Durata: 70 minuti.
1972
Salomè
1973
Un Amleto di meno
Interpretazioni
148
Bis, di Paolo Brunatto (cortometraggio), 1965
Regie televisive
149
Pinocchio ovvero lo spettacolo della provvidenza, 1999
150
Teatrografia
Caligola (regia di Alberto Ruggiero), 1959
Caligola, 1961
Pinocchio, 1961
Amleto, 1961
Salomè, 1964
Manon, 1964
151
Pinocchio ’66, 1966
Amleto, 1974
Manfred, 1979
Hyperion, 1980
152
Lectura Dantis. Eduardo recita Eduardo, 1981
Macbeth, 1983
Canti, 1987
153
Gabriele D’Annunzio: concerto d’autore (poesia da La figlia di Jorio), 1999
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