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Il

libro

Ove ha 59 anni. Guida una Saab. La gente lo chiama “un vicino amaro come una
medicina” e in effetti lui ce l’ha un po’ con tutti nel quartiere: con chi parcheggia l’auto
fuori dagli spazi appositi, con chi sbaglia a fare la differenziata, con la tizia che gira con i
tacchi alti e un ridicolo cagnolino al guinzaglio, con il gatto spelacchiato che continua a
fare la pipì davanti a casa sua.
Ogni mattina alle 6.30 Ove si alza e, dopo aver controllato che i termosifoni non stiano
sprecando calore, va a fare la sua ispezione poliziesca nel quartiere. Ogni giorno si
assicura che le regole siano rispettate. Eppure qualcosa nella sua vita sembra sfuggire
all’ordine, non trovare il posto giusto. Il senso del mondo finisce per perdersi in una
caotica imprevedibilità. Così Ove decide di farla finita. Ha preparato tutto nei minimi
dettagli: ha chiuso l’acqua e la luce, ha pagato le bollette, ha sistemato lo sgabello... Ma...
Ma anche in Svezia accadono gli imprevisti che mandano a monte i piani. In questo
caso è l’arrivo di una nuova famiglia di vicini che piomba accanto a Ove e subito fa
esplodere tutta la sua vita regolata. Tra cassette della posta divelte in retromarce maldestre,
bambine che suonano il campanello offrendo piatti di couscous appena fatti, ragazzini che
inopportunamente decidono di affezionarsi a lui, Ove deve riconsiderare tutti i suoi
progetti.
E forse questa vita imperfetta, caotica, ingiusta potrebbe iniziare a sembrargli non così
male…
L’autore

Fredrik Backman è giornalista e blogger di enorme successo. Il


protagonista di questo romanzo nasce nelle pagine del suo blog
dove migliaia di lettori l’hanno amato, al punto di chiedere al suo
autore di trasformarlo in un personaggio di romanzo. Tradotto in più
di trentadue paesi, L’uomo che metteva in ordine il mondo è il libro
più amato di Svezia negli ultimi anni.
Fredrik Backman
L’uomo che metteva
in ordine il mondo

ROMANZO

Traduzione di Anna Airoldi


L’uomo che metteva in ordine il mondo

A Neda. È sempre per farti ridere.


Sempre.
1
Un uomo che si chiama Ove
compra un computer che non è un computer

Ove ha cinquantanove anni. Guida una Saab. È il tipo di uomo che indica le
persone che non gli piacciono un po’ come se fossero dei topi d’appartamento e
il suo indice una torcia della polizia. È in piedi davanti al banco di uno di quei
negozi frequentati da patiti d’informatica che guidano auto giapponesi. Ove
osserva il commesso per un bel pezzo prima di agitargli davanti al naso una
scatola bianca di medie dimensioni.
«Dunque, questo sarebbe un… aaiPadd?» vuol sapere.
Il commesso, un giovane dall’indice di massa corporea a una sola cifra,
sembra a disagio. Sta evidentemente lottando contro l’impulso di strappare di
mano la scatola a Ove.
«Sì, esatto. Un iPad. Ma sarebbe meglio che non lo scuotesse in quel modo…»
Ove osserva la scatola quasi fosse di un genere estremamente inaffidabile.
Come se guidasse una Vespa con addosso una tuta da ginnastica fucsia, e avesse
urlato a Ove: “Ciao, amico!” e poi avesse cercato di vendergli un orologio.
«Mm. Quindi è un computer?»
Il commesso annuisce. Poi tentenna un momento e fa un rapido cenno con il
capo.
«Sì… cioè, è un iPad. C’è chi lo chiama “tablet”, chi “tavoletta per navigare
su Internet”. Ci sono diversi modi di vederla…»
Ove guarda il commesso come se gli avesse appena parlato al contrario.
«Ah!»
Il commesso annuisce, esitante.
«Eh, sì.»
Ove sbatacchia di nuovo la scatola.
«E va bene?»
Il commesso si gratta la testa.
«Ma certo… Cioè, sarebbe a dire?»
Ove sospira e inizia a sillabare le parole lentamente, come se il commesso
avesse problemi di udito.
«Va-be-ne? È un buon computer?»
Il commesso si gratta il mento.
«Be’… sì… è ottimo. Ma dipende dal tipo di computer che le serve.»
Ove gli lancia un’occhiata truce.
«Mi serve un computer! Un normale computer!»
Tra i due uomini cala un silenzio lungo alcuni istanti. Il commesso si
schiarisce la voce.
«Vede, in realtà questo non è un normale computer. Forse per lei sarebbe
meglio un…»
Fa una pausa, cercando un termine con cui immagina che l’uomo davanti a lui
possa avere una qualche familiarità. Poi si schiarisce di nuovo la voce.
«Un laptop?»
Ove scuote il capo con foga e si sporge minaccioso sul banco.
«No, non voglio un CAVOLO di lapptopp. Voglio un computer!»
Il commesso fa un cenno di assenso.
«Un laptop è un computer.»
Ove lo fissa offeso e punta con ostentazione il suo indice-torcia sul banco.
«Lo so perfettamente!»
Il commesso annuisce di nuovo.
«Okay…»
Un altro silenzio, non del tutto diverso da quello che sarebbe potuto calare tra
due pistoleri che di colpo si fossero resi conto di aver dimenticato a casa i
revolver. Ove osserva la scatola a lungo, come se si aspettasse che dicesse
qualcosa.
«Dov’è la porta per la tastiera?» borbotta alla fine.
Il commesso sfrega i palmi delle mani sul bordo del banco e sposta un po’
nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro, come fanno i giovani
commessi quando si rendono conto che ci vorrà molto più tempo di quanto
avessero sperato all’inizio.
«Be’, vede, il collegamento con la tastiera non è previsto.»
Ove inarca le sopracciglia.
«Ah, certo! Perché bisogna comprarla separatamente, eh? Per un mucchio di
DANNATI soldi!»
Il commesso sfrega di nuovo i palmi delle mani sul banco.
«No… cioè… Comunque, con questo computer la tastiera non serve. Si
gestisce tutto direttamente dallo schermo.»
Ove scuote la testa flemmatico, come se avesse appena visto il commesso
leccare il vetro di una gelateria.
«Ma dovrò pur averla, una tastiera. Lo capisce anche lei, no?»
Il commesso tira un lungo sospiro e mentalmente conta almeno fino a dieci.
«Okay. Capisco. Allora non credo che lei debba acquistare questo computer.
Credo che dovrebbe comprare, per esempio, un MacBook.»
L’espressione di Ove lascia intendere che non ne è del tutto persuaso.
«Un Mec-buc?»
Il commesso annuisce entusiasta, come se fosse convinto di aver fatto un
passo avanti decisivo nella trattativa.
«Esatto.»
Ove aggrotta la fronte con diffidenza.
«È uno di quegli stupidi “libri elettronici” di cui si parla tanto?»
Il commesso sospira con l’intensità di un poema epico.
«No. Un MacBook è… un laptop. Con la tastiera.»
«Ah!» esclama Ove.
Il commesso annuisce. Si gratta i palmi delle mani.
«Già.»
Ove si guarda intorno nel negozio e agita ancora un po’ la scatola che ha in
mano.
«Ed è valido?»
Il commesso abbassa gli occhi sul banco, lottando contro l’impulso di
conficcarsi le unghie nelle guance. Poi s’illumina e sorride, improvvisamente
pieno di energia.
«Aspetti qui un secondo: vado a vedere se il mio collega ha finito con il suo
cliente, così può venire a mostrarglielo! È lui l’esperto.»
Ove dà un’occhiata all’orologio e scuote la testa.
«La gente ha anche altre cose da fare, oltre a star qui tutto il giorno ad
aspettare, sa?»
Il commesso annuisce in fretta. Poi si defila. Poco dopo, torna con un collega
dall’aria allegra e rilassata, uno che chiaramente non ha ancora lavorato in un
negozio abbastanza a lungo.
«Salve! Come posso aiutarla?»
Ove pianta l’indice-torcia sul banco con fare imperioso.
«Voglio un computer!»
Il collega non sembra più tanto allegro. Guarda il primo commesso con
un’espressione che insinua che gliela farà pagare.
«Ookaay. Un “computer”, sì. Allora, per cominciare possiamo andare nel
reparto dei portatili» dice il secondo commesso con fare non proprio entusiasta.
Ove lo fulmina con lo sguardo.
«Oh! Lo so cos’è un accidenti di lapptopp! Non c’è bisogno di chiamarlo
“portatile”!»
Il secondo commesso annuisce rassicurante. Dietro di lui, nel frattempo, il
primo commesso bofonchia: «Non ci sto dentro, adesso vado in pausa pranzo».
«Certo, la pausa pranzo è l’unica cosa a cui pensa la gente al giorno d’oggi»
sbotta Ove.
«Come?» chiede il primo commesso, voltandosi.
«La PAU-SA-PRAN-ZO!» scandisce Ove.
2
(Tre settimane prima)
Un uomo che si chiama Ove
fa un’ispezione del quartiere

Mancavano cinque minuti alle sei, la mattina in cui Ove e il gatto si sono
incontrati per la prima volta. Il gatto ha pensato subito molto male di Ove. E la
cosa è stata del tutto reciproca.
Come al solito, Ove si è alzato dieci minuti prima. Non capisce la gente che si
riaddormenta e poi dà la colpa alla sveglia che non ha suonato. Ove non ha mai
avuto una sveglia in vita sua. Alle sei meno un quarto, ogni mattina, si sveglia e
si alza.
Ha preparato la caffettiera con l’esatta quantità di caffè che lui e sua moglie
hanno adoperato ogni mattina per i quasi quattro decenni vissuti in quel quartiere
di villette a schiera. Un misurino per ogni tazza e uno per la caffettiera. Non uno
di più e non uno di meno. La gente ormai non sa più come prepararlo, il vero
caffè. Allo stesso modo, oggigiorno nessuno è più capace di scrivere a mano.
Computer e macchinette per il caffè espresso: che fine può mai fare la società
civile, se la gente non sa più scrivere a mano o preparare un caffè? Eh? Questo si
chiede Ove.
Mentre il vero caffè bolliva, ha indossato i pantaloni e la giacca blu, si è
infilato gli zoccoli di legno, si è cacciato le mani in tasca come fa un uomo di
mezz’età che si aspetti continuamente che il mondo sempre più inetto intorno a
lui lo deluda, ed è partito per la sua ispezione del quartiere. Come ogni mattina.
Quando è uscito, le altre villette erano immerse nel silenzio e nell’oscurità.
C’era da aspettarselo. Cazzarola, lì attorno non abitava più nessuno che si
degnasse di alzarsi prima del necessario, Ove lo sapeva. Ormai ci vivevano solo
liberi professionisti e altri cani sciolti.
Il gatto sedeva con noncuranza al centro del vialetto pedonale tra le
abitazioni. Gatto, poi. Aveva mezza coda e un solo orecchio, e qua e là chiazze
senza pelo, come se qualcuno glielo avesse strappato a manciate. Un gatto
davvero spelacchiato, letteralmente, ha pensato Ove, procedendo di un paio di
passi nella sua direzione.
Il gatto si è alzato. Ove si è bloccato. I due si sono studiati per qualche istante,
come dei potenziali rivali in una locanda di campagna a tarda sera. Ove ha
meditato se lanciargli contro uno dei suoi zoccoli. Il gatto è sembrato maledire il
fatto di non disporre di zoccoli da lanciare a sua volta.
«Sciò!» ha ruggito Ove, talmente all’improvviso che il gatto è trasalito.
L’animale è indietreggiato, ha scrutato il cinquantanovenne e i suoi zoccoli di
legno, infine si è voltato con un piccolo balzo ed è trottato via. Se Ove non fosse
stato una persona ragionevole, avrebbe potuto giurare che, prima di andarsene, il
gatto aveva roteato gli occhi.
“Disgraziato” ha pensato, guardando l’orologio. Due minuti alle sei. Era ora
di mettersi al lavoro, se non voleva essere in ritardo con la sua ispezione.
Sarebbe stata proprio bella.
Così, come ogni mattina, si è messo in marcia sul vialetto pedonale tra le
abitazioni dirigendosi al parcheggio dei residenti. Si è fermato davanti al cartello
che dichiara che il transito è vietato nell’area abitata, e ha sferrato un lieve calcio
di sfida al palo. Non che fosse storto o roba del genere, ma era sempre meglio
verificare, e Ove è il tipo di uomo che verifica lo stato delle cose tirando loro dei
calci.
Poi ha continuato fino ai garage, facendo su e giù davanti a ogni porta per
controllare che nella notte non fossero state scassinate, o che nessuna gang di
vandali vi avesse appiccato il fuoco. Non che sia mai successo, in quel quartiere,
ma d’altra parte nemmeno Ove ha mai saltato un giro d’ispezione. Ha abbassato
la maniglia chiusa del suo garage, dov’è parcheggiata la sua Saab, per tre volte.
Come fa sempre, ogni mattina.
Dopodiché, ha fatto un giro nel parcheggio per gli ospiti, dov’è possibile
lasciare l’auto per massimo ventiquattr’ore, e ha preso scrupolosamente nota di
tutte le targhe in un taccuino che tiene nella tasca della giacca, confrontandole
con quelle che aveva segnato nei medesimi spazi il giorno precedente. Nel caso
in cui la stessa targa fosse apparsa per più giorni di fila nel suo taccuino, Ove
sarebbe tornato a casa, avrebbe telefonato alla Motorizzazione e richiesto i dati
del proprietario del mezzo. Poi avrebbe telefonato all’interessato, informandolo
che era un povero deficiente del cavolo, se non sapeva neanche leggere i cartelli
svedesi. Non che a Ove importi di chi sosta nel parcheggio per gli ospiti. Certo
che no. Ma è una questione di principio. Se sul cartello c’è scritto
ventiquattr’ore, il limite va rispettato. Perché cosa succederebbe se tutti
parcheggiassero in continuazione dove vogliono? Sarebbe il caos, Ove lo sa. Ci
sarebbero macchine ovunque.
Quel giorno, tuttavia, nel parcheggio per gli ospiti non c’erano veicoli non
autorizzati; così, alle annotazioni sul taccuino Ove ha fatto seguire la sua puntata
quotidiana nel locale della raccolta differenziata. Non che la questione gli stia
particolarmente a cuore. Dopotutto, sin dall’inizio lui si è dichiarato fermamente
contrario a tutte quelle assurdità imposte dai tizi trasferitisi lì di recente e alla
loro ossessione per la suddivisione della spazzatura. Ma se bisognava
differenziare, qualcuno doveva pur verificare che venisse fatto. Nessuno aveva
assegnato a Ove questo compito, ma se lui non se ne fosse fatto carico di sua
spontanea volontà, ci sarebbe stata l’anarchia, Ove lo sapeva. Spazzatura
ovunque.
Ha sferrato un debole calcio a un cassonetto, ha imprecato e ha ripescato da
un bidone del vetro un barattolo, borbottando qualcosa su quegli “incapaci” e
svitando il tappo di metallo. Ha buttato di nuovo il barattolo nel bidone del vetro
e ha lanciato il coperchio di metallo nel bidone per la raccolta del metallo.
Quando era presidente dell’associazione dei proprietari del quartiere, Ove
aveva portato avanti con determinazione l’idea di sorvegliare il locale della
raccolta rifiuti tramite videocamere, affinché nessuno vi buttasse “pattume non
autorizzato”. Con suo enorme disappunto, la proposta non era stata approvata:
gli altri proprietari l’avevano ritenuta “un po’ spiacevole”, e avevano giustificato
il rifiuto dicendo che archiviare i nastri delle registrazioni sarebbe stato piuttosto
problematico. Tutto questo malgrado Ove avesse ripetutamente fatto notare che
chi aveva la coscienza a posto non aveva nulla da temere dalla “verità”.
Due anni dopo, quando Ove era stato rimosso dalla carica di presidente
dell’associazione in quello che avrebbe poi definito il “colpo di Stato”, la
questione era stata sollevata nuovamente. A quanto pareva, esistevano delle
videocamere moderne che si attivavano tramite sensori e che inviavano le
immagini direttamente su Internet, come aveva spiegato il nuovo consiglio
direttivo in una lettera scherzosa. Con quelle videocamere si poteva sorvegliare
non solo il locale dei rifiuti, ma anche il parcheggio dei residenti, in modo da
scongiurare atti di vandalismo e furti con scasso. Inoltre, il materiale si
cancellava automaticamente dopo ventiquattr’ore, per non “violare la privacy
degli abitanti”. Per installare le videocamere era necessaria una decisione
all’unanimità. Un unico membro aveva votato a sfavore.
Ove, infatti, non si fidava di Internet. Lo pronunciava accentando il “net”
finale, nonostante sua moglie lo rimproverasse sempre che l’accento andava
posto sulla prima sillaba. Al consiglio direttivo era presto stato chiaro che
quell’Internètt avrebbe osservato Ove buttare l’immondizia solo sul proprio
cadavere. Alla fine, non era stata installata nessuna videocamera. “Meglio così”
aveva pensato Ove. Dopotutto, erano più efficaci le ispezioni quotidiane: solo in
quel modo si sapeva esattamente chi faceva cosa, e si teneva tutto sotto
controllo. L’avrebbe capito chiunque.
Quando, come ogni mattina, ha terminato l’ispezione del locale della raccolta
differenziata, Ove ha chiuso la porta a chiave e per sicurezza ha abbassato tre
volte la maniglia. Poi ha girato i tacchi e ha notato una bicicletta appoggiata alla
parete esterna del deposito delle biciclette, nonostante, proprio al centro della
parete, ci sia un cartello grande e grosso con la scritta DIVIETO DI SOSTA PER LE
BICICLETTE . Accanto alla bici, uno dei vicini aveva attaccato un biglietto scritto
a mano con una calligrafia nervosa, in cui si leggeva: “Questo non è un
parcheggio per le bici! Imparate a leggere i cartelli!”. Ove ha borbottato qualcosa
su quegli “idioti”, ha aperto il deposito delle biciclette e ha portato dentro la bici.
Ha chiuso la porta a chiave e ha abbassato la maniglia tre volte.
Poi ha strappato il foglietto di protesta dalla parete. Gli è venuta voglia di
scrivere al consiglio direttivo per esigere l’acquisto di un cartello di DIVIETO DI
AFFISSIONE da appendere al muro. Ormai la gente credeva di poter andare in giro
ad attaccare i propri biglietti di protesta dove voleva. Cazzarola, quel muro non
era mica una bacheca.
In seguito Ove si è incamminato lungo lo stretto vialetto pedonale tra le
abitazioni. Si è fermato davanti alla propria, si è abbassato verso le mattonelle e
ha annusato intensamente. Pipì. C’era odore di pipì. E con quell’osservazione è
entrato in casa, ha chiuso la porta a chiave e ha bevuto il caffè.
Quando ha finito, ha telefonato per disdire l’abbonamento al telefono e al
quotidiano. Ha aggiustato il miscelatore nel bagno di servizio. Ha cambiato le
viti nella maniglia della portafinestra della veranda. Ha oliato il ripiano in legno
della cucina. Ha riorganizzato le scatole in soffitta. Ha sistemato gli attrezzi nella
rimessa e ha montato gli pneumatici invernali sulla Saab.
E adesso è lì. E la vita non doveva prendere quella piega, è l’unica cosa che
Ove riesce a pensare.

È un martedì pomeriggio di novembre, l’orologio segna le quattro e Ove ha


spento tutte le luci. Ha disattivato i radiatori e staccato le spine di tutti gli
elettrodomestici. Ha oliato il ripiano della cucina, anche se quegli asini dell’Ikea
sostengono che i loro ripiani non hanno bisogno di essere oliati. A casa di Ove i
ripiani della cucina vengono oliati una volta ogni sei mesi, che ce ne sia bisogno
o no, indipendentemente da quel che sostiene una ragazzotta brufolosa con la
polo gialla nel magazzino self-service di un mobilificio.
È in piedi nel soggiorno della villetta a schiera a due piani e soffitta, e fissa
fuori dalla finestra. Il damerino quarantenne con due peli di barba che abita nella
casa sull’altro lato della strada si avvicina correndo. Si chiama Anders. Si è
trasferito lì da poco, massimo quattro o cinque mesi, ed è già riuscito a infiltrarsi
nel consiglio direttivo dell’associazione dei proprietari. Una vera vipera. Ora è
convinto di poter fare il bello e il cattivo tempo in tutto il quartiere. Dev’essere
sicuramente divorziato, e Ove sa che per comprare la casa ha pagato un
sovrapprezzo vergognoso. Tipico di certe canaglie, venir lì ad alzare il valore
degli immobili alla gente per bene, come se quello fosse un quartiere di ricconi.
Per giunta, guida un’Audi. C’era da aspettarselo. Piccoli imprenditori del cavolo
e altri idioti, ecco chi acquista le Audi. Non capiscono un tubo.
Ove affonda le mani nelle tasche dei pantaloni blu. Dà qualche colpetto di
sfida con il piede a un’asse del parquet. Sì, la villetta è un po’ troppo grande solo
per Ove e sua moglie, questo è disposto ad ammetterlo. Ma è interamente
pagata: non c’è una sola corona di mutuo da saldare. Mica come la casa di quel
damerino, garantito. Al giorno d’oggi si parla solo di mutui e prestiti, e la gente
si lascia abbindolare. Tutti fessi. Ove, lui, debiti non ne ha. Ha pagato la sua
parte. Ha lavorato. Non è mai stato malato un giorno in vita sua. Ha dato il
proprio contributo. Si è preso le proprie responsabilità. Ormai nessuno lo fa più,
prendersi le proprie responsabilità. Adesso ci sono solo computer, e consulenti, e
pezzi grossi del Comune che girano per i nightclub a vendere contratti
immobiliari in nero. Paradisi fiscali e portafogli azionari. Nessuno che voglia
veramente lavorare. Un intero Paese pieno di gente che vuole solo uscire a
pranzo tutti i giorni.
“Vedrà come sarà bello prendersela un po’ comoda” hanno detto a Ove ieri al
lavoro, spiegandogli che “c’è crisi” e che non avevano alternative: mandare
gradualmente in pensione la vecchia generazione era diventata una necessità. Un
terzo di secolo nello stesso ufficio, ed è così che chiamano Ove. Una fottuta
“generazione”. Perché oggigiorno sono tutti trentunenni con i pantaloni troppo
stretti, che non bevono più il caffè normale. E nessuno vuole più prendersi le
proprie responsabilità. Un mucchio di uomini con la barba di tre giorni che
cambiano lavoro e moglie e marca di automobile come se niente fosse, non
appena gli fa comodo.
Ove lancia un’occhiataccia fuori dalla finestra. Il damerino corre. Non è la
corsa in sé a dare sui nervi a Ove, nient’affatto. Gli va benissimo che le persone
facciano jogging. È solo che non capisce perché si debbano dare tutte quelle arie.
Che vadano lenti o rapidi, corrono tutti con un sorriso saccente stampato in
faccia, come se combattessero contro un enfisema. Quarantenni smidollati e
superbi: con le loro corsette non fanno altro che urlare al mondo di non saper
fare un accidenti. Ed è proprio necessario vestirsi come un ginnasta romeno di
dodici anni, per farlo? Bisogna assomigliare a una squadra olimpica di slittino,
solo perché si esce a trottare senza meta per tre quarti d’ora?
Per non parlare della ragazza del damerino. Ove la chiama “l’oca bionda”. Di
dieci anni più giovane di lui, si aggira nel quartiere barcollando su tacchi più alti
di una chiave a tubo, come un panda sbronzo, la faccia dipinta da clown e
occhiali da sole così grossi che non si capisce se siano degli occhiali o un casco.
Come se non bastasse, si porta sempre dietro uno di quei cagnolini da borsetta,
che scorrazza senza guinzaglio e abbaia e piscia sulle mattonelle davanti a casa
di Ove. Lei crede che Ove non se ne accorga. Ma Ove se ne accorge.
La vita non doveva prendere quella piega. Tutto lì. “Vedrà come sarà bello
prendersela un po’ comoda” gli hanno detto ieri al lavoro. E adesso Ove è lì, con
il suo ripiano della cucina perfettamente oliato. Non gli era mai successo prima
di oliare un ripiano il martedì mattina.
Guarda fuori dalla finestra verso la casa di fronte, che è identica alla sua. Gli
pare che vi abbia traslocato di recente una famiglia con bambini. Stranieri, a
quanto ha capito. Non sa ancora che macchina abbiano. C’è solo da sperare che
non sia un’Audi. O, peggio ancora, uno di quei catorci giapponesi.
Ove annuisce tra sé, come se avesse appena fatto un’osservazione
particolarmente brillante. Poi alza gli occhi al soffitto del soggiorno. Tra poco ci
fisserà un gancio, e con questo non intende un gancio qualsiasi. Qualunque
consulente informatico affetto da patologie abbreviabili in sigle e con indosso un
pullover color pastello può piantare un normale gancio del cavolo. Quello che
Ove sta per fissare, al contrario, sarà resistente come una roccia. Ha intenzione
di piantarlo così saldamente che, quando l’intera baracca verrà demolita, il
gancio sarà l’ultimo pezzo a soccombere.
Tra qualche giorno, un bellimbusto di agente immobiliare con il nodo alla
cravatta grande quanto la testa di un neonato verrà lì a blaterare sulle
“potenzialità della ristrutturazione” e sulla “resa delle superfici”, e di Ove potrà
dire tutto quello che vuole, potrà perfino definirlo un poveraccio. Ma sul suo
gancio non potrà permettersi di fiatare, se lo ficchi bene in testa.
Davanti a sé, sul pavimento del soggiorno, Ove ha la sua piccola cassetta
degli indispensabili. A casa loro è sempre andata così: tutte le cose comprate
dalla moglie di Ove sono “carine” o “simpatiche”, tutte quelle comprate da Ove
sono “indispensabili”. Hanno una funzione e servono a uno scopo preciso. Ove
le conserva in due cassette diverse: la grande e la piccola. Quella piccola
contiene viti, chiodi, tasselli, chiavi a tubo e altre cose simili. Ormai la gente non
ha più in casa gli attrezzi indispensabili. La gente, ormai, possiede solo cazzate.
Venti paia di scarpe, ma non uno straccio di calzascarpe. Forni a microonde e
computer e televisori a schermo piatto, ma non uno straccio di tassello decente.
Nella cassetta degli indispensabili, Ove ha uno scomparto intero pieno di
tasselli. Li osserva come fossero pedine su una scacchiera. Non ama prendere
decisioni affrettate riguardo ai tasselli. Bisogna avere il tempo necessario. Ogni
tassello è un processo, ogni pezzo ha la sua area di destinazione. La gente,
ormai, non ha più alcun rispetto per la cara e onesta funzionalità: al giorno
d’oggi deve essere tutto bello e digitale, ma Ove le cose le fa come vanno fatte.
Alla vecchia maniera.
“Sarà bello prendersela un po’ comoda” gli hanno detto ieri al lavoro. Sono
entrati nel suo ufficio un lunedì pomeriggio e hanno spiegato che non avevano
voluto affrontare la questione di venerdì perché “non volevano rovinargli il fine
settimana”. “Vedrà che bello potersela prendere con più calma” hanno detto. Ma
che cosa ne sanno loro di cosa significhi svegliarsi un martedì mattina e non
avere più una funzione? Loro, con il loro Internètt e i loro caffè espressi, che
cosa ne sanno dell’assumersi le proprie responsabilità?
Ove guarda il soffitto. Strizza le palpebre. È importante che il gancio sia bene
al centro, decide.

È immerso in queste considerazioni fondamentali quando viene sfacciatamente


interrotto da un suono raschiante e prolungato, nient’affatto diverso dal rumore
che si sentirebbe se un imbranato spilungone tentasse di fare retromarcia su una
macchina giapponese con rimorchio lungo la parete esterna della villetta di Ove.
3
Un uomo che si chiama Ove
fa retromarcia con un rimorchio

Ove scosta di colpo le tende a fiori verdi, che sua moglie ha ripetuto per anni di
voler cambiare. Vede una donna minuta, sulla trentina, con i capelli neri e
palesemente straniera. Sta gesticolando con furia verso un imbranato suo
coetaneo, biondo e troppo alto, incastrato dietro il volante di un’auto giapponese
troppo piccola, con un rimorchio che ha appena finito di strisciare contro la
parete esterna della villetta di Ove.
Con gesti discreti, l’imbranato sembra voler comunicare alla donna che non è
poi così facile come sembra. Con gesti tutt’altro che discreti, la donna pare
volergli rispondere che, molto verosimilmente, tutto ciò ha a che vedere con il
fatto che l’imbranato in questione è un imbecille.
«Ma porca di quella…» sbraita Ove dalla finestra quando una ruota del
rimorchio finisce nella sua aiuola.
Getta a terra la cassetta degli indispensabili che aveva in mano e serra i pugni.
Un paio di secondi dopo la sua porta d’ingresso si spalanca, come se si fosse
aperta volontariamente per timore di venir sfondata.
«Cosa diavolo state facendo?» ruggisce alla donna dai capelli neri.
«Già, me lo chiedo anch’io!» ruggisce lei di rimando.
Ove rimane interdetto per qualche secondo. La guarda di sbieco. Lei ricambia
l’occhiataccia.
«È vietato transitare con le auto sul vialetto pedonale! C’è tanto di cartello! Li
sai leggere o no, i cartelli in svedese? Eh?»
La donna minuta avanza di un passo verso di lui, ed è solo allora che Ove si
rende conto che o è molto incinta, oppure ha quello che Ove classificherebbe
come un ammasso di grasso altamente localizzato.
«Certo che li so leggere, ma non sono io quella che guida!»
Ove la fissa in silenzio per alcuni istanti. Poi si volta in direzione
dell’imbranato alto e biondo, che è appena sgusciato fuori dall’auto giapponese
con le mani alzate in un gesto di scuse. Indossa un cardigan color pastello e ha il
portamento di chi soffre di un’evidente carenza di calcio.
«E tu chi sei?» vuol sapere Ove.
«Quello che guida» risponde l’imbranato, raggiante.
Dev’essere alto almeno due metri. Ove nutre un istintivo scetticismo nei
confronti di tutti quelli che superano l’uno e ottantacinque. L’esperienza gli ha
insegnato che, in quei casi, il sangue non riesce ad arrivare bene al cervello.
«Ah, sì? Davvero? Non sembrerebbe!» strilla all’imbranato la donna incinta
dai capelli neri, che per fortuna è mezzo metro più bassa di lui, prima di
mollargli un ceffone sul braccio con entrambe le mani.
«E la signora, chi sarebbe?» chiede Ove, fissandola.
«Lei è mia moglie» prosegue l’imbranato, sorridendo.
«Non essere così sicuro che lo sarò ancora per molto» sbotta lei, e mentre lo
dice il suo pancione balza su e giù.
«Non è così semplice come semb…» prova a difendersi l’imbranato, ma
viene subito interrotto dalla donna.
«Ti ho detto DESTRA! E tu hai continuato a girare a SINISTRA! Non mi hai
ascoltato! Non mi ascolti MAI!»
Dopodiché si lancia in una filippica lunga mezzo minuto, che Ove presume
essere una lista di imprecazioni in qualche idioma mediorientale.
L’imbranato biondo si limita ad annuire, con stampato in faccia un sorriso
indescrivibilmente armonico. “Proprio il genere di sorriso che, alla gente onesta,
fa venir voglia di prendere a schiaffi i monaci buddisti” pensa Ove.
«Be’, mi scusi tanto. È stato solo un piccolo incidente, ma sistemiamo tutto!»
dice a Ove tutto allegro, quando la donna alla fine tace.
Poi, come se nulla fosse, pesca una scatola rotonda dalla tasca e s’infila sotto
il labbro una presa di tabacco grossa come una palla da golf. Sembra quasi che
voglia dare a Ove una pacca sulla spalla.
Ove fissa l’imbranato come se si fosse appena accovacciato e avesse defecato
sul cofano della sua Saab.
«Sistemiamo cosa?! Hai praticamente distrutto la mia aiuola!»
L’imbranato guarda la ruota del rimorchio conficcata nel terriccio.
«Quella sarebbe un’aiuola?» ribatte con un sorriso disinvolto, sistemandosi il
tabacco in bocca con la punta della lingua.
«Quella è indiscutibilmente un’ai-uo-la!» dichiara Ove.
L’imbranato fa un cenno di assenso. Osserva il terreno per qualche istante.
Guarda Ove come se stesse scherzando.
«Oh, via, a me sembra della semplicissima terra.»
La fronte di Ove si deforma in un’unica, profonda ruga minacciosa.
«È. La. Mia. Aiuola. Punto.»
L’imbranato si gratta la testa esitante e un po’ di tabacco gli finisce sul ciuffo
arruffato.
«Ma se non ci ha piantato niente…»
«Che ti frega di quel che pianto o non pianto nella mia aiuola?!»
L’imbranato si affretta ad annuire, ora chiaramente ansioso di non provocare
oltre lo sconosciuto che ha di fronte. Si volta verso la moglie, come se si
aspettasse il suo supporto, ma lei non ha l’aria di volerglielo concedere.
L’imbranato torna a fissare Ove.
«È incinta. Sa, gli ormoni e tutto il resto…» azzarda ridacchiando.
Sua moglie non ridacchia. Ove nemmeno. La donna incrocia le braccia sul
petto. Ove si porta le mani alla cintura. L’imbranato non sa bene cosa fare dei
propri pugni giganteschi, così li agita in aria, come se fossero fatti di stoffa e
sventolassero indipendentemente dalla sua volontà.
«Mi sposto e ci riprovo» tenta infine, sfoderando un nuovo sorriso
disarmante.
Ove lo guarda senza batter ciglio.
«Il transito sul vialetto è vietato. C’è tanto di cartello.»
L’imbranato fa un passo indietro e annuisce irrequieto. Poi si allontana e
comprime di nuovo il suo corpo ipersviluppato nella macchina giapponese
sottosviluppata. «Mio Dio» borbottano Ove e la donna incinta all’unisono, ciò
che induce Ove a giudicarla un po’ meno severamente.
L’imbranato sposta l’auto in avanti di alcuni metri, ma Ove nota subito che
non raddrizza il rimorchio come si deve. Poi ricomincia a fare retromarcia e
finisce dritto contro la cassetta delle lettere di Ove, lacerandone la lamiera verde.
«No… adesso basta» esclama Ove in un unico lungo sibilo, fiondandosi sul
veicolo e spalancando la portiera.
L’imbranato alza di nuovo le mani in un gesto di scuse.
«Oddio! Scusi! Scusi! Davvero, non so come ho fatto a non vedere la cassetta
nello specchietto, ma è difficile guidare un rimorchio, non si sa mai da che parte
bisogna girare…»
Ove sferra un pugno così forte e improvviso sul tetto dell’auto che
l’imbranato rimbalza sul sedile. Poi si abbassa, e gli urla direttamente
nell’orecchio sinistro.
«Fuori dalla macchina!»
«Come?»
«Esci dalla macchina, ho detto!»
L’imbranato guarda Ove interdetto, ma non sembra avere il coraggio di
protestare. Così, scende dalla sua auto e vi si mette accanto come un bambino in
castigo. Ove punta l’indice in direzione del deposito delle biciclette e dei
garage.
«Mettiti dove non sei d’intralcio.»
L’imbranato annuisce e si allontana, sempre più disorientato.
«Santo Dio. Un invalido con la cataratta avrebbe saputo spostare questo
rimorchio più in fretta di te» borbotta Ove, prendendo posto sul sedile.
Come si fa a non saper fare retromarcia con un rimorchio, si chiede Ove. Eh?
Quanto può essere difficile distinguere la destra dalla sinistra e guardare nello
specchietto? Come fa la gente a sopravvivere senza queste competenze
essenziali?
Pure il cambio automatico, nota Ove. C’era da aspettarselo. Questi imbranati
preferirebbero non guidarla affatto la propria auto, pensa mentre mette in moto la
macchina giapponese e ingrana la marcia. C’è chi vorrebbe che le macchine si
guidassero da sole, oggigiorno. Come i robot. Non c’è nemmeno più bisogno di
imparare a fare un parcheggio decente, ormai. Ma com’è possibile prendere la
patente se non si è capaci di fare un parcheggio decente? Ove crede che non sia
possibile. Ove è convinto che chi non è in grado di parcheggiare non abbia
diritto di votare alle elezioni.
Dopo aver portato l’auto in avanti in modo da raddrizzare il rimorchio, come
farebbe qualsiasi persona con un po’ di sale nella zucca, inserisce la retro. La
macchina giapponese comincia a guaire. Ove si guarda intorno nell’abitacolo.
«Ma che cav… Cosa suoni a fare?» sbotta rivolto al cruscotto, mollando un
pugno sul volante.
«Piantala, ti dico!» sbraita minaccioso a una spia rossa che lampeggia con
particolare insistenza.
Nello stesso istante, l’imbranato bussa piano sul finestrino. Ove lo abbassa e
lo guarda infastidito.
«È il sensore della retromarcia» lo informa l’imbranato.
«L’avevo capito!» urla Ove.
L’imbranato si schiarisce la voce.
«Questa macchina è un po’ speciale. Se vuole, le spiego il pannello di
controllo e…»
Ove sbuffa dal naso.
«Non sono mica un idiota!»
L’imbranato annuisce.
«No, no, certo.»
Ove guarda in cagnesco il pannello di controllo.
«E adesso cosa fa?» domanda.
L’imbranato fa un cenno entusiasta.
«Misura quanta potenza è rimasta nella batteria. Sa, prima di passare dal
motore elettrico a quello a combustione. Perché è una macchina ibrida…»
Ove non risponde e chiude il finestrino. L’imbranato rimane a bocca aperta.
Ove guarda nello specchietto a sinistra, poi in quello a destra. Infine, sempre
accompagnato dal suono mugolante del sensore, fa retromarcia, facendo passare
il rimorchio con precisione millimetrica tra la sua casa e quella dell’imbranato e
di sua moglie.
Quando ha finito, scende dalla macchina e lancia le chiavi all’imbranato.
«Sensori di retromarcia, assistenti di parcheggio, videocamere e stronzate
varie. Un uomo che ha bisogno di tutta ’sta roba per spostare un rimorchio in
retromarcia non dovrebbe neanche pensare di spostarlo, un rimorchio in
retromarcia, per la miseria.»
L’imbranato si limita ad annuire sorridendo.
«Grazie dell’aiuto!» esclama allegro, come se Ove non avesse appena finito
di insultarlo.
«Non dovresti tirare indietro nemmeno un’audiocassetta» risponde Ove
passandogli davanti.
La donna incinta dall’aspetto mediorientale ha ancora le braccia incrociate,
ma non sembra più arrabbiata come prima.
«Grazie!» esclama anche lei e, quando le passa accanto, Ove ha l’impressione
che stia trattenendo una risata.
Ove non ricorda di aver mai visto occhi tanto grandi e scuri in vita sua.
«Questa è una strada pedonale. C’è un cartello di divieto di transito grosso
come un manifesto pubblicitario. Fatevene una ragione, porca miseria» risponde.
La donna continua a sorridere, ma non dice niente. Ove sbuffa, alza i tacchi e
si avvia verso casa.
A metà strada, sulle mattonelle che conducono dalla sua porta d’ingresso alla
rimessa, si blocca. Arriccia il naso, come fanno a volte gli uomini della sua età
così che, insieme al naso, sembra gli si arricci tutto il busto. Poi s’inginocchia,
avvicina il viso alle mattonelle che riposiziona con ordine una volta ogni due
anni senza eccezioni, che ve ne sia bisogno o meno, e annusa di nuovo.
Annuisce tra sé, e
si rialza.
La donna incinta con gli occhi neri e l’imbranato lo fissano senza batter
ciglio.
«Pipì! C’è odore di piscio ovunque!» sbotta Ove.
Punta l’indice verso le mattonelle.
«Okay» dice la donna con gli occhi neri.
«Okay un cavolo!» ribatte Ove.
Poi entra in casa e chiude la porta, sbattendola.

Si lascia cadere sulla panca accanto all’ingresso, dove resta seduto a lungo prima
di riuscire a riprendersi abbastanza per pensare ad altro. “Dannate donne” pensa.
“Che cosa viene qui a fare, insieme a tutta la sua famiglia? Non sanno nemmeno
leggere un cartello, malgrado ce l’abbiano attaccato al naso. Su questa strada non
si può passare in auto. Lo sanno tutti.”
Ove si alza, si toglie la giacca blu e l’appende sull’attaccapanni, accanto al
soprabito di sua moglie. Mentre lo fa, bofonchia: «Idioti» verso la finestra
chiusa. Poi si piazza al centro del soggiorno e fissa il soffitto.

Non sa quanto tempo resta così. Si smarrisce nei suoi pensieri. Fluttua come in
una foschia. Non è mai stato il tipo che sogna a occhi aperti, ma negli ultimi
tempi qualcosa, nella sua mente, si è come piegato. Fa sempre più fatica a
concentrarsi, e questo non gli piace affatto.

Quando suonano alla porta, è come se si riscuotesse da un caldo torpore. Si


stropiccia gli occhi con forza e si guarda attorno, quasi temendo di esser stato
osservato mentre era in trance.
Suonano ancora. Ove si volta e fissa la porta come se quella dovesse
vergognarsi. Avanza di alcuni passi verso l’ingresso, sentendosi rigido come un
gessetto; si chiede se gli scricchiolii provengano dalle assi del parquet, o dalle
sue articolazioni.
«E adesso, cosa c’è?» chiede alla porta ancora chiusa, come se potesse
rispondergli.
«Adesso cosa c’è?» ripete, spalancando l’uscio con tale violenza che la
bimbetta di tre anni viene spinta indietro e finisce con il sedere a terra,
sbalordita.
Accanto a lei c’è un’altra bambina, di sette anni, dall’aria terrorizzata. Hanno
entrambe i capelli neri ed enormi occhi scuri.
«Be’?» domanda Ove.
La bambina di sette anni è sul chi va là. Allunga un contenitore di plastica.
Ove lo prende in mano controvoglia. È caldo.
«Riso!» grida la sorellina giuliva, e si affretta a rimettersi in piedi.
«Al curry, con pollo» conferma la più grande, diffidente.
«Non compro nulla, grazie.»
La bambina di sette anni pare offesa.
«Siamo le tue vicine!»
Ove rimane in silenzio per alcuni secondi. Poi fa un cenno di assenso, quasi
avesse deciso di accettare quella premessa come spiegazione.
«Ah.»
La bimba di tre anni annuisce soddisfatta e agita le maniche troppo lunghe
della felpa.
«Mamma ha detto che tu fame!»
Ove considera per un istante quella piccola imperfezione grammaticale.
«Eh?»
«La mamma ha detto che sembravi affamato, così ti abbiamo portato qualcosa
da mangiare per cena» spiega la bambina di sette anni, un po’ seccata.
«Vieni, Nasanin. Andiamo a casa» aggiunge. Prende la sorella per una mano,
lancia uno sguardo accusatorio a Ove e si volta, allontanandosi.
Ove rimane sulla soglia e le guarda andare via. Vede la donna incinta con i
capelli neri sorridergli dall’altro lato della strada, mentre le bambine corrono in
casa. La bimba di tre anni si gira e lo saluta felice. Anche la donna incinta lo
saluta. Ove richiude la porta.

Si ferma di nuovo nell’ingresso. Fissa il contenitore caldo con il pollo e il riso al


curry come si potrebbe fissare una scatola piena di nitroglicerina. Poi va in
cucina e lo mette in frigo. Non che abbia l’abitudine di mangiare quello che gli
portano delle bambine straniere, ma a casa di Ove il cibo non si butta. Per
principio.
Torna in soggiorno, si mette le mani in tasca e guarda il soffitto. Resta lì per
un bel pezzo a riflettere su quale sia il tassello più adatto allo scopo. Non si
muove finché gli occhi non iniziano a dolergli per tutto quel fissare. Abbassa lo
sguardo e dà un’occhiata disorientata al suo orologio da polso ammaccato. Poi
guarda di nuovo fuori dalla finestra, si rende conto all’improvviso che si è fatto
buio e scuote il capo con rassegnazione.
Non si può iniziare a trapanare quando è buio, lo capirebbe chiunque.
Bisognerebbe accendere tutte le luci e, poi, chissà quando verrebbero spente. Se
la compagnia elettrica crede che lui permetta al suo contatore di girare a vuoto
per giorni interi, se lo può scordare.
Ove chiude la cassetta degli indispensabili e la porta nella camera al primo
piano. Va a prendere la chiave della soffitta, che si trova al suo posto dietro il
termosifone. Torna indietro, allunga un braccio e apre la botola. Tira giù la scala,
sale in soffitta e ripone la cassetta al suo posto, dietro le sedie della cucina che
sua moglie lo ha costretto a metter via perché scricchiolavano troppo. Non
scricchiolavano affatto. Ove sa benissimo che era solo un pretesto perché sua
moglie potesse comprarne altre. Come se la vita fosse fatta solo di queste cose:
comprare sedie per la cucina, mangiare al ristorante, e così via.
Scende giù e ripone la chiave dietro il termosifone. “Sarà bello prendersela un
po’ comoda” gli hanno detto. Un mucchio di damerini trentunenni che lavorano
al computer e che non bevono vero caffè. Un’intera società in cui nessuno sa più
fare retromarcia con un rimorchio, e vengono a dirgli che lui non serve più?
Com’è possibile?
Ove torna in soggiorno. Accende il televisore. Non che gli interessino i
programmi, ma non ha voglia di star seduto da solo come un idiota tutta la sera a
fissare il muro. Va a prendere il cibo straniero in cucina e lo mangia con la
forchetta direttamente dal contenitore.
Ha cinquantanove anni. È martedì sera, ha disdetto l’abbonamento al
quotidiano e ha spento tutte le luci.
E domani appenderà quel maledetto gancio.
4
Un uomo che si chiama Ove
si rifiuta di pagare una commissione
di tre corone

Ove le porge i fiori. Due. Non era certo sua intenzione che fossero due. “Ma è
una questione di principio” pensa, e ha finito per prenderne due.
«Le cose non vanno come devono da quando non ci sei» mormora poi, dando
un calcetto alla terra gelata.
Sua moglie non risponde.
«Stanotte nevicherà» dice Ove.
Al telegiornale hanno detto che non nevicherà, ma, come sostiene di solito
Ove, quello è il modo migliore per sapere che è proprio ciò che accadrà. Così
glielo dice. Lei non risponde. Ove affonda le mani nelle tasche dei pantaloni blu
e abbozza un cenno di assenso.
«Non va bene girare per casa tutti i giorni da solo, se tu non ci sei. Ti dico
solo questo. Così non si può vivere.»
Lei continua a non rispondere.
Ove annuisce e dà un altro calcio alla terra. Non capisce la gente che dice di
non vedere l’ora di andare in pensione. Come si può desiderare per una vita
intera di essere superflui? Diventare un peso per la società. Chi può sognare una
cosa del genere? Tornarsene a casa e aspettare di morire. O, peggio ancora,
aspettare che qualcuno venga a prenderti e ti metta in una casa di riposo perché
non sai più badare a te stesso. Ove non riesce a immaginare niente di più
orribile. Dipendere dagli altri per poter andare in bagno. La moglie di Ove
ridacchia sempre, ironica, e sostiene che lui sia l’unica persona di sua
conoscenza che a un funerale preferirebbe essere l’uomo nella bara, piuttosto che
i suoi amici, accompagnati alla funzione sul pulmino per gli anziani. “E forse è
vero” pensa Ove.
A proposito, il gatto disgraziato era ancora lì quella mattina. Praticamente
davanti alla loro porta. Sempre che uno sgorbio del genere si possa definire
gatto.
Ove si è svegliato alle sei meno un quarto. Ha preparato il caffè. Ha fatto il
giro della casa, tastando tutti i radiatori per sincerarsi che sua moglie non avesse
alzato il riscaldamento di nascosto. Ovviamente, la temperatura era la stessa del
giorno prima, ma Ove ha dato comunque alle manopole un mezzo giro verso il
basso. Per sicurezza. Poi ha preso la sua giacca blu dall’attaccapanni, sfiorando
il soprabito della moglie appeso lì accanto. Ha fatto la sua solita ispezione. Ha
trascritto i numeri di targa e controllato le porte dei garage. Ha notato che
iniziava a far freddo: di lì a poco, avrebbe dovuto sostituire la giacca blu
autunnale con la giacca blu invernale.
Ove sa sempre quando nevicherà, perché succede sempre quando sua moglie
inizia a ripetere che devono alzare il riscaldamento in camera da letto. Roba da
matti, dichiara Ove ogni anno. Nessun cavolo di dirigente della compagnia
elettrica si arricchirà a loro spese solo perché cambia la stagione. Alzare il
riscaldamento di cinque gradi costa migliaia di corone all’anno, Ove l’ha
calcolato. Così, ogni inverno va a prendere in soffitta il piccolo generatore di
corrente a diesel, che ha barattato anni prima con un vecchio grammofono in un
mercatino dell’usato, e lo collega a una stufetta comprata a una svendita per
trentanove corone. Quando il generatore ha caricato la batteria della stufetta,
assemblata dallo stesso Ove, questa si mette in funzione e la moglie di Ove può
accenderla a più riprese sotto il suo lato del letto, prima che vadano a dormire.
Ove, naturalmente, le fa sempre notare che non c’è da sprecare energia per il
gusto di farlo. Nemmeno il diesel te lo regalano. E la moglie di Ove fa come ha
sempre fatto: annuisce e dice che Ove ha proprio ragione. Poi passa l’inverno a
trafficare di nascosto con le manopole dei radiatori. Ogni anno la stessa storia.
Ove dà un altro calcio alla terra. Riflette se raccontarle del gatto. Era ancora lì
quando è tornato dall’ispezione. Ove lo ha guardato. Il gatto ha guardato Ove.
Ove lo ha minacciato con un dito e gli ha intimato di andarsene con tale impeto
che la sua voce è rimbalzata tra le case come una palla da tennis impazzita. Il
gatto è rimasto a fissare Ove per qualche altro istante. Poi si è alzato con fare
estremamente pomposo, come se volesse sottolineare che non se ne andava
perché gliel’aveva ordinato Ove, ma perché aveva di meglio da fare, ed è
scomparso dietro l’angolo della rimessa.
Ove decide di non dirle niente. Immagina che se la prenderebbe con lui per
averlo trattato male. Fosse stato per lei, avrebbero avuto la casa piena di randagi,
più o meno spelacchiati.
Indossa il completo blu, e ha chiuso la camicia bianca fino all’ultimo bottone.
Sua moglie ha l’abitudine di dirgli che, se non deve mettere la cravatta, può
lasciare l’ultimo bottone aperto. Ogni volta, Ove le risponde che non è mica “un
cavolo di affittasdraio greco” e se lo allaccia. Al polso porta il suo vecchio
orologio ammaccato, quello che il padre di Ove ha ereditato da suo padre a
diciannove anni, e che Ove a sua volta ha ereditato quando suo padre è morto.
Aveva appena sedici anni.
La moglie di Ove adora quel completo. Gli dice sempre che è molto elegante,
quando lo indossa. Ove, come ogni persona dotata di buonsenso, è dell’idea che
solo i damerini indossino completi eleganti durante la settimana, ma quella
mattina ha deciso di fare un’eccezione. Si è persino messo le scarpe di cuoio
nero, che ha lucidato con una quantità responsabile di lucido per scarpe.
Quando, prima di uscire di casa, ha preso la giacca blu autunnale
dall’attaccapanni, ha lanciato un’occhiata pensosa al soprabito della moglie. Il
guardaroba è strapieno di altri suoi giacconi e cappotti. “Quando si apre questo
armadio, sembra quasi di finire a Narnia” aveva scherzato una volta una delle
amiche della moglie. Ove, naturalmente, non aveva capito a cosa si riferisse.
Comunque, era innegabile che sua moglie possedesse un numero esorbitante di
soprabiti.
È uscito di casa quando nel quartiere in molti dormivano ancora. Ha
camminato fino al parcheggio. Ha aperto il garage con la chiave. Naturalmente,
Ove possiede anche un telecomando, ma non ha mai capito a cosa serva se
chiunque può benissimo aprire il garage infilando la chiave nella serratura. Poi
ha spalancato la portiera della Saab, aprendo anche quella con la chiave. In tanti
anni, ha sempre fatto così, dunque perché cambiare? Si è seduto al volante e ha
ruotato la manopola della radio di metà giro in avanti e metà indietro. Ha
regolato tutti gli specchietti, come fa ogni volta che sale in auto. Come se i
vandali scassinassero abitualmente la sua Saab e, per dispetto, cambiassero la
posizione degli specchietti e la stazione della radio.
Mentre riattraversava il parcheggio in auto, ha incrociato la straniera incinta.
Teneva la figlia di tre anni per mano. Accanto a lei c’era l’imbranato alto e
biondo. Si sono accorti di Ove e lo hanno salutato tutti e tre allegramente. Ove
non ha ricambiato il saluto. Sulle prime, gli è venuta voglia di fermarsi e di dire
alla donna che non bisogna lasciar correre i bambini per il parcheggio come se
fosse un parco giochi comunale. Poi, però, ha deciso che era meglio non perdere
tempo.
Ha imboccato la strada principale che costeggia il quartiere e ha superato una
fila dopo l’altra di villette identiche alla sua. Quando Ove e sua moglie si erano
trasferiti lì, c’erano solo sei case. Adesso ce ne sono centinaia. Un tempo era
tutto bosco; ora ci sono case e casette ovunque. E tutte comprate con il mutuo,
ovviamente. Al giorno d’oggi si fa così: si compra a credito, si guidano
macchine “ibride” e si chiama l’elettricista anche solo per cambiare una
lampadina. Si posano finti parquet a incastro, si usano stufe elettriche che
consumano una fortuna, e via discorrendo. Del resto, da una società che non
riesce a vedere la differenza tra un tassello decente e un pugno in faccia,
cos’altro ci si può aspettare?
Gli ci sono voluti quattordici minuti per raggiungere il centro commerciale.
Ove ha rispettato tutti i limiti di velocità, anche sui tratti a cinquanta all’ora dove
quegli idioti in giacca e cravatta che si sono trasferiti lì di recente guidano a
novanta. Davanti a casa loro fanno installare dissuasori di velocità e cartelli con
immagini stilizzate di bambini che giocano, ma quando guidano tra le case degli
altri se ne fregano. Ove lo dice sempre a sua moglie, ogni volta che percorrono
quella strada. E va sempre peggio, aggiunge di solito, nel caso in cui
accidentalmente lei non se ne fosse accorta.
Quel giorno, non ha fatto in tempo a percorrere due chilometri che una
Mercedes nera si è piazzata a meno di un braccio di distanza dalla sua Saab. Ove
glielo ha fatto notare frenando tre volte. La Mercedes ha acceso gli abbaglianti
infastidita. Ove ha sbuffato rivolto allo specchietto. Come se tutti dovessero
accostare sul ciglio della strada non appena quegli arroganti decidono che i limiti
di velocità non li riguardano. Eh? Ove non ha accostato. La Mercedes ha
continuato ad accendere e spegnere gli abbaglianti. Ove ha ridotto la velocità. La
Mercedes ha strombazzato. Ove ha rallentato ancora di più. La Mercedes ha
strombazzato con maggiore insistenza. Ove ha tirato dritto a venti all’ora.
Raggiunta la cima di un dosso, la Mercedes ha accelerato con un boato. L’uomo
alla guida, un quarantenne incravattato con dei cavi bianchi di plastica che gli
uscivano dalle orecchie, gli ha mostrato il dito medio dal finestrino. Ove ha
risposto a quel gesto come risponderebbe ogni uomo di cinquantanove anni che
ha ricevuto un’educazione dignitosa: si è picchiettato lentamente la punta
dell’indice sulla tempia. L’uomo sulla Mercedes ha urlato un insulto con tale
veemenza che la saliva gli è schizzata sui vetri, ha sgasato ed è scomparso.
Due minuti dopo, Ove si è fermato al semaforo rosso. La Mercedes era in
coda, davanti a lui. Ove le ha fatto gli abbaglianti. Ha visto l’uomo alla guida
girare la testa così bruscamente che uno dei cavi di plastica bianca è volato
contro il cruscotto. Ove ha annuito soddisfatto.
È scattato il verde. La coda non si muoveva. Ove ha suonato il clacson.
Niente. Ha scosso il capo. Di certo, era colpa di una donna. O di lavori sulla
strada. Oppure di un’Audi. Dopo trenta secondi di nulla di fatto, Ove ha messo
in folle, ha aperto la portiera ed è sceso dalla Saab lasciando il motore acceso. Si
è piazzato sulla carreggiata con le mani sui fianchi, un po’ come si sarebbe
piazzato Superman, se fosse stato indignato per esser rimasto imbottigliato nel
traffico.
L’uomo nella Mercedes ha strombazzato. “Idiota” ha pensato Ove. Nello
stesso istante, la coda ha iniziato a muoversi. Le auto davanti a Ove si sono
avviate. L’auto dietro di lui, una Volkswagen, ha suonato il clacson. L’autista ha
gesticolato impaziente verso Ove. Ove lo ha fulminato con lo sguardo. Senza la
minima fretta, è risalito sulla Saab e ha chiuso la portiera. «Mamma mia, che
premura» ha detto ad alta voce rivolto allo specchietto, ed è ripartito.
Al semaforo successivo si è ritrovato nuovamente dietro la Mercedes. Altra
coda. Ove ha guardato l’orologio e ha svoltato a sinistra. Così, in realtà, il
tragitto per il centro commerciale si allungava, ma c’erano meno semafori. Non
che Ove fosse tirchio, ma chiunque abbia un minimo di cervello sa che si
consuma meno benzina quando ci si muove rispetto a quando si resta fermi. E
come dice sempre la moglie di Ove: “Se c’è qualcosa che si potrà scrivere sulla
lapide di Ove è: ‘Con il carburante è stato parsimonioso’”.
Ove ha raggiunto il centro commerciale da ovest. Ha notato subito che
c’erano solo due posti liberi in tutto il parcheggio. Cosa ci facesse una folla del
genere al centro commerciale durante la settimana andava al di là della sua
comprensione. Evidentemente, al giorno d’oggi la gente lavorava molto meno di
un tempo.
La moglie di Ove sospira sempre rassegnata non appena si avvicinano a un
parcheggio come quello del centro commerciale. Ove vuole stare vicino
all’ingresso. “Sembra una gara a chi occupa il posto migliore” dice lei, mentre
lui fa un giro dopo l’altro imprecando contro tutti gli imbranati in auto straniere
che si ritrova tra i piedi. A volte riescono a fare sei o sette giri prima di trovare
un buon posto e, se Ove alla fine si deve arrendere, accontentandosi di
parcheggiare a venti metri dall’entrata, resta di cattivo umore per il resto della
giornata. Sua moglie non ha mai capito perché. D’altra parte, lei non s’intende
molto di questioni di principio.
All’inizio Ove ha pensato di fare un paio di giri, giusto per dare un’occhiata,
ma poi ha intravisto di nuovo la Mercedes. Arrivava da sud. Quindi era lì che
doveva andare, quel tizio incravattato con gli auricolari nelle orecchie. Ove non
ha esitato un istante. Ha premuto sull’acceleratore e si è buttato nell’incrocio. La
Mercedes ha inchiodato, ha cominciato a suonare il clacson e lo ha seguito. E
così ha avuto inizio il duello.
I cartelli all’entrata del parcheggio obbligavano le auto a prendere a destra,
ma la Mercedes, quando si è resa conto che erano rimasti solo due posti liberi, ha
tentato di superare Ove a sinistra. Ove ha sterzato di colpo, bloccandole la
strada. Poi le due auto hanno preso a inseguirsi affannosamente.
Nello specchietto Ove ha intravisto una piccola Toyota svoltare dalla strada
dietro di loro, seguire il cartello e avanzare lentamente in un lungo giro da
destra. Ove l’ha tenuta d’occhio, mentre si lanciava nella direzione opposta con
la Mercedes alle calcagna. Avrebbe potuto occupare uno dei due spazi liberi,
quello più vicino all’ingresso, e poi essere sufficientemente magnanimo da
cedere l’altro alla Mercedes. Ma che razza di vittoria sarebbe stata?
Allora ha frenato di colpo davanti al primo parcheggio ed è rimasto immobile.
La Mercedes ha strombazzato. Ove non si è mosso. La Mercedes ha
strombazzato di nuovo. Intanto, la piccola Toyota si avvicinava piano da destra.
La Mercedes ha notato la Toyota e ha capito il diabolico piano di Ove, ma ormai
era troppo tardi. Ha suonato il clacson furiosamente, ha tentato di superare la
Saab, ma era impossibile. Ove ha accennato alla Toyota di occupare uno dei due
posti liberi; dopo, si è immesso con calma nell’altro.
A quel punto, il finestrino della Mercedes era talmente schizzato di saliva che,
quando l’incravattato con gli auricolari è passato accanto a Ove, non si riusciva
quasi più a distinguerlo oltre il vetro. Ove è sceso dalla Saab trionfante come un
gladiatore. Poi ha guardato meglio la Toyota.
«Ma porca di quella vacca» ha borbottato di colpo, pieno di frustrazione.
La portiera dell’auto si è aperta.
«Salve!» ha strillato raggiante l’imbranato biondo, divincolandosi dal posto di
guida.
Ove si è limitato a scuotere il capo.
«Buongiorno!» ha esclamato la straniera incinta dall’altra parte della Toyota,
prima di prendere in braccio la figlia di tre anni.
In preda al pentimento, Ove ha guardato la Mercedes allontanarsi.
«Grazie per il posto! Fantastico, davvero» ha esultato l’imbranato.
Ove non ha risposto.
«Come ti chiami?» ha strepitato la bimba.
«Ove» ha detto Ove.
«Io mi chiamo Nasanin!» ha ribattuto lei, felice.
Ove le ha fatto un cenno con il capo.
«Io mi chiamo Pat» ha iniziato l’imbranato.
Ma Ove si era già voltato per andarsene.
«Grazie per il parcheggio» gli ha urlato dietro la straniera incinta.
Ove ha avvertito un certo sarcasmo nella sua voce, e non gli è piaciuto per
niente. Ha mormorato rapido «Sì, sì» senza voltarsi, ed è entrato nel centro
commerciale fiondandosi attraverso le porte girevoli. Appena dentro, ha svoltato
a sinistra e si è guardato intorno più volte, come se temesse che i vicini
cercassero di pedinarlo. Loro, però, si sono avviati nella direzione opposta.
Ove si è fermato fuori dal supermercato con fare sospettoso e ha esaminato il
cartello pubblicitario con le offerte della settimana. Non che avesse intenzione di
comprare del prosciutto proprio in quel supermercato, ma fa sempre comodo
controllare i prezzi. Se c’è qualcosa che Ove detesta con tutto se stesso, infatti, è
quando qualcuno cerca di fregarlo. Di solito sua moglie lo prende in giro,
dicendo che le tre parole che in assoluto Ove odia di più sono “batterie non
incluse”. Di solito, quando lo dice, ridono tutti. Tranne Ove, naturalmente.
Ha oltrepassato il supermercato ed è entrato dal fiorista. E lì ha avuto uno
“scontro”, come lo avrebbe chiamato la moglie di Ove. O una “discussione”,
come preferisce definirla lui. Ove ha appoggiato sul bancone un coupon su cui
c’era scritto “Due fiori per cinquanta corone”. Dato che lui di fiore ne voleva
uno solo, con tutta la calma di cui era in possesso ha spiegato alla commessa
che, in quel caso, sarebbe dovuto costargli venticinque corone. Visto che
venticinque è la metà di cinquanta. Su questo punto, tuttavia, la commessa, una
diciannovenne con il cellulare in mano e la gomma da masticare in bocca e
probabilmente anche nel cervello, non era d’accordo. Ha risposto a Ove che un
fiore costava trentanove corone e che il “2 × 50” valeva soltanto se si
compravano due fiori. Poi ha chiamato il direttore del negozio. A Ove c’è voluto
un quarto d’ora per fargli ammettere che aveva ragione lui.
O meglio, a essere sinceri il direttore, esausto, alla fine ha borbottato qualcosa
come “Vecchio del c…” con la mano davanti alla bocca e ha battuto il prezzo sui
tasti della cassa con tale impeto che Ove ha provato pietà per il registratore. Ma
quel che è giusto è giusto. Ove sapeva benissimo che l’unico obiettivo dei
commercianti era di imbrogliare la gente. E Ove non si faceva imbrogliare tanto
facilmente.
Ove ha posato la carta di credito sul bancone. Il direttore l’ha guardata con
sussiego e ha indicato un cartello con scritto: “Per i pagamenti con carta di
credito inferiori alle cinquanta corone verrà applicata una commissione di tre
corone”. Ed è andata com’è andata.
Così, adesso Ove si trova davanti a sua moglie con due fiori. Perché era una
questione di principio.
«Quelle tre corone se le potevano SCORDARE» dice Ove, con lo sguardo
fisso sulla ghiaia.
La moglie di Ove spesso si lamenta che Ove litiga sempre per tutto. Ma Ove
non litiga affatto, per la miseria. È solo convinto che quel che è giusto è giusto,
punto. Si tratta forse di un modo irragionevole di affrontare la vita? Ove non
crede proprio.
Alza gli occhi e la guarda.
«Di certo sei arrabbiata perché ieri non sono venuto come promesso»
mormora.
Lei non dice niente.
«Ma il nostro quartiere è diventato un manicomio» le spiega lui, sulla
difensiva.
«Un caos totale. Bisogna addirittura uscire a spostare in retromarcia il
rimorchio degli altri, adesso. E non si può nemmeno piantare un gancio in santa
pace» continua, come se lei avesse protestato.
Si schiarisce la gola.
«Non potevo piantare il gancio quando fuori era buio, lo capisci anche tu.
Con le luci accese, che fanno solo girare a vuoto il contatore. Non si può.»
Lei non risponde. Lui calcia di nuovo la terra gelata. Sembra che cerchi le
parole giuste. Tossicchia.
«Le cose non vanno come devono da quando non ci sei.»
Lei non risponde. Ove tasta i fiori.
«Non va bene girare per casa tutti i giorni da solo, se tu non ci sei. Ti dico
solo questo. Così non si può vivere.»
Lei continua a non rispondere. Lui annuisce. Solleva i fiori in modo che possa
vederli.
«Rose rosa: le tue preferite. Al negozio hanno detto che, con questo freddo,
moriranno se le lascio fuori, ma lo dicono solo per rifilarti qualche altra stronzata
più costosa.»
Sembra aspettarsi la sua approvazione.
«E il riso al curry» aggiunge a bassa voce.
«I nuovi vicini. Stranieri. Mangiano riso al curry, e roba del genere. Non è
male, anche se io continuo a preferire la nostra carne con le patate e la salsa.»
Lei rimane in silenzio.
Anche Ove resta zitto, e si fa ruotare la fede intorno al dito. Come se cercasse
qualcos’altro da dire. Fa ancora parecchia fatica a essere quello che porta avanti
la conversazione. Era una delle cose che aveva delegato a sua moglie. Lui, di
solito, si limitava a rispondere, dunque quella in cui si trovano ora è una
situazione nuova per entrambi. Ove si accovaccia, toglie la rosa che ha piantato
la settimana prima e la infila con cura in un sacchetto di plastica. Poi vanga bene
la terra, che è tutta congelata, per piantare i fiori nuovi.
«L’elettricità è aumentata ancora» la informa, alzandosi.
Resta fermo a guardarla con le mani in tasca. Alla fine, posa il palmo della
mano sulla lapide e l’accarezza dolcemente, come se fosse la sua guancia.
«Mi manchi» sussurra.
Sono sei mesi che è morta. E Ove gira ancora per casa due volte al giorno per
tastare i radiatori e controllare che lei non abbia alzato il riscaldamento di
nascosto.
5
Un uomo che si chiamava Ove

Ove era consapevole che gli amici di sua moglie non capivano perché lei lo
avesse sposato. E non poteva dar loro torto.
La gente diceva che era inacidito. Forse avevano ragione, per quel che ne
sapeva. Non ci aveva mai riflettuto. Gli davano anche dell’asociale, e Ove
presumeva intendessero che non gli andava granché a genio stare insieme alla
gente. In quel caso, avevano pienamente ragione: spesso la gente non aveva tutte
le rotelle a posto.
A Ove non piaceva molto chiacchierare, e questo al giorno d’oggi viene
considerato un grande difetto caratteriale. Oggi bisogna saper blaterare di
qualsiasi argomento con qualunque imbecille che ti capiti a tiro, solo perché è
“piacevole”. Ove non sapeva come fare. Forse dipendeva dalla sua educazione.
Forse gli uomini della sua generazione non erano stati preparati a sufficienza per
vivere in un mondo in cui tutti parlano di fare le cose, ma in cui sembra che farle
non abbia alcun valore. Oggigiorno, le persone si pavoneggiano davanti alle
proprie abitazioni appena ristrutturate come se le avessero costruite da sé,
quando a stento sanno maneggiare un cacciavite. E non cercano nemmeno di
fingere il contrario, se ne vantano pure! Evidentemente, saper stendere un vero
parquet, risanare un locale umido, o sostituire gli pneumatici invernali da soli
non serve più a nulla. Saper fare qualcosa come si deve non vale più niente. Se
puoi andare a comprarti tutto, a che serve? A cosa serve un uomo, allora?
Ove intuiva chiaramente che gli amici di sua moglie non si capacitavano del
fatto che ogni mattina lei si svegliasse e decidesse volontariamente di trascorrere
la giornata insieme a lui. Nemmeno lui se ne capacitava. Ove le aveva costruito
una libreria, che lei aveva riempito di romanzi: pagine e pagine di emozioni. Ove
s’intendeva di ciò che poteva vedere e toccare. Calcestruzzo e cemento. Vetro e
acciaio. Attrezzi. Cose che si potevano calcolare. Capiva gli angoli retti e le
istruzioni chiare, i modelli delle costruzioni e i progetti. Le cose che si potevano
disegnare sulla carta. Era un uomo in bianco e nero.

E lei era il colore. Tutto il suo colore.

L’unica cosa che Ove avesse mai amato, prima di incontrarla, erano i numeri.
Della sua infanzia non serbava grandi ricordi, salvo quella passione per i numeri.
Non era mai stato preso di mira dai compagni ma non aveva neppure fatto il
bullo, non era bravo negli sport ma non era nemmeno una schiappa. Non era mai
stato al centro, ma neanche del tutto fuori; insomma, era uno che non si faceva
notare. Non rammentava molto neppure della sua adolescenza: di certo, non era
il tipo che conserva i ricordi inutilmente. Ricordava di essere stato abbastanza
felice, e che erano venuti anni in cui non lo era stato più.
Ma i numeri, quelli sì che se li ricordava: gli avevano sempre riempito la testa
e fatto compagnia. Ove attendeva con trepidazione le lezioni di matematica, che
per gli altri suoi compagni erano un incubo. Non sapeva perché e, in fin dei
conti, non lo voleva nemmeno sapere. Non capiva per quale motivo si dovesse
discutere del perché le cose sono diventate come sono diventate. Si è quel che si
è, e si fa quel che si può, e bisogna farsi andar bene le cose così come sono,
pensava Ove.
Quando, all’alba di una mattina di agosto, i polmoni di sua mamma avevano
smesso di funzionare, lui aveva solo sette anni. La madre di Ove lavorava in
un’industria chimica. A quei tempi non si prestava molta attenzione alle norme
di sicurezza; come se non bastasse, sua mamma fumava, e parecchio. Aveva
sempre la sigaretta in mano. Era uno dei primi ricordi di Ove: lei che, ogni
sabato mattina, si sedeva alla finestra della cucina nella piccola casa ai margini
della città dove abitavano, e guardava il cielo immersa in una nube impalpabile.
Ove ricorda anche che a volte cantava, e che lui si metteva sotto la finestra con il
libro di matematica sulle ginocchia ad ascoltarla. Certo, aveva la voce un po’
rauca, e qua e là steccava una o due note, ma a Ove piaceva comunque starla a
sentire.
Il padre di Ove lavorava alla ferrovia. Aveva i palmi delle mani simili alla
pelle invecchiata di un toro e, sul viso, rughe così profonde che, quando faceva
uno sforzo, il sudore vi scorreva come in canaletti. Aveva pochi capelli e un
corpo esile, ma i muscoli delle braccia erano così torniti che parevano scavati
nella roccia. Una volta, quando era molto piccolo, Ove aveva accompagnato i
genitori a una festa dei dipendenti della ferrovia. Dopo che suo padre aveva
bevuto qualche birra, alcuni suoi colleghi lo avevano sfidato a braccio di ferro.
Ove non aveva mai visto uomini tanto giganteschi e invasati come quelli che si
erano seduti a cavalcioni sulla panca di legno davanti al suo papà. Ce n’erano
alcuni che dovevano pesare duecento chili. Suo padre li aveva battuti tutti.
Quando erano tornati a casa, quella notte, gli aveva messo una mano sulla spalla
e gli aveva detto: «Solo un imbecille crede che il volume e la forza siano la
stessa cosa, Ove, ricordatelo». E Ove non lo aveva mai dimenticato.
Suo padre non aveva mai alzato le mani, né su Ove né su altri. Ove aveva
certi compagni di classe che, a volte, si presentavano a scuola con un occhio
nero o i segni della cintura sulla schiena. Ove, invece, non aveva mai ricevuto
neanche un ceffone. «In questa famiglia non ci picchiamo» aveva dichiarato suo
padre. «Né tra di noi, né con gli altri.»
Era tenuto in gran conto alla ferrovia. Era taciturno, ma gentile. C’era chi
diceva che fosse troppo gentile, e Ove rammentava che da piccolo non riusciva a
capire come questo potesse essere un difetto.
Poi sua mamma era morta. E suo papà era diventato ancora più taciturno,
come se lei si fosse portata via anche le poche parole di cui disponeva.
Ove e suo padre non parlavano mai senza un motivo, ma a entrambi piaceva
la compagnia dell’altro. Erano felici di starsene seduti in silenzio, ognuno al
proprio lato del tavolo da pranzo. E sapevano tenersi occupati. C’era una
famiglia di uccelli che aveva fatto il nido nel giardino sul retro della loro casa, e
a cui davano da mangiare un giorno sì e uno no. Non tutti i giorni. Ove aveva
capito che questo dettaglio era molto importante, ma non aveva mai saputo il
perché. D’altra parte, non c’era bisogno di sapere proprio tutto.
Per cena, mangiavano salsiccia e patate. Poi giocavano a carte. Non avevano
mai molto, ma avevano sempre abbastanza.
Le uniche parole del marito che, alla sua morte, la madre di Ove non aveva
portato via con sé erano quelle sui motori. Il padre di Ove avrebbe potuto
parlarne all’infinito.
“I motori ti danno sempre quello che ti meriti” soleva dire. “Se li tratti con
rispetto, ti danno la libertà; se li trascuri, te la tolgono.”
Per molto tempo non aveva posseduto un’auto, ma, quando negli anni
Quaranta e Cinquanta i dirigenti della ferrovia avevano acquistato le loro vetture,
negli uffici si era diffusa la voce che quell’uomo taciturno era uno che ci sapeva
fare, e che con lui era meglio restare in buoni rapporti. Il padre di Ove non aveva
mai finito le scuole: dei numeri tanto amati da Ove non capiva granché; però,
capiva i motori.
Quando la figlia del direttore della ferrovia si era sposata, e l’auto che
avrebbe dovuto condurla via dalla chiesa in pompa magna si era rotta, avevano
mandato a chiamare lui. Il padre di Ove era arrivato in bicicletta, reggendo sotto
il braccio una cassetta degli attrezzi così pesante che, quando era smontato,
c’erano voluti due uomini per sollevarla. Qualsiasi fosse il problema al suo
arrivo, alla sua partenza era stato risolto. La moglie del direttore lo aveva
invitato a partecipare al banchetto nuziale, ma il padre di Ove le aveva fatto
capire senza troppe parole che, macchiato d’olio dalla testa ai piedi com’era, non
gli sembrava opportuno sedersi tra gente di un certo livello. Avrebbe accettato
volentieri una sporta con pane e altre vivande da dare al figlio a casa, le aveva
detto. Ove aveva appena compiuto otto anni. Quella sera, quando il padre aveva
preparato la tavola, il ragazzo aveva pensato che era così che dovevano mangiare
i re.
Alcuni mesi dopo, il direttore aveva convocato di nuovo il padre di Ove. Nel
parcheggio antistante gli uffici c’era una vecchia Saab 92, visibilmente
malridotta. Era il primo modello di Saab, che avevano smesso di produrre da
quando era entrata in commercio la molto più avanzata Saab 93. Il padre di Ove
la conosceva bene. Trazione anteriore e motore trasversale che rumoreggiava
come una macchina del caffè. Aveva subìto un incidente, gli aveva spiegato il
direttore, tastandosi le bretelle sotto la giacca: la carrozzeria verde bottiglia era
assai ammaccata sul davanti e, sotto il cofano, c’era parecchio da mettere a
posto. Il padre di Ove si era trovato d’accordo. Poi, però, aveva estratto un
piccolo cacciavite dalla tasca della tuta e, dopo aver esaminato l’auto, aveva
constatato che, sì, con un po’ di tempo e attenzione, e con gli attrezzi giusti,
avrebbe potuto rimetterla in sesto.
«Di chi è?» aveva domandato, rialzandosi in piedi e asciugandosi le dita
sporche di olio con uno straccio.
«Apparteneva a un mio parente» aveva risposto il direttore, mentre tirava
fuori una chiave dalla tasca del completo e la infilava in mano al padre di Ove.
«E adesso è sua.»
Il direttore gli aveva dato una rapida pacca sulla spalla, si era voltato ed era
tornato nel suo ufficio. Il padre di Ove era rimasto nel parcheggio, e aveva
cercato di riprendere fiato. Quella sera aveva spiegato per filo e per segno al
figlio, che lo guardava pieno di meraviglia, tutto ciò che c’era da sapere su quel
portento, che ora sostava nel loro giardino. Era rimasto davanti al volante con il
ragazzo sulle ginocchia quasi tutta la notte, a parlargli del funzionamento di ogni
meccanismo. Gli aveva illustrato la funzione di ogni vite e di ogni cavetto. Ove
non aveva mai visto un uomo tanto orgoglioso come suo padre quella sera. A
otto anni, decise che non avrebbe mai guidato altro che Saab.
I sabati in cui non lavorava, il padre usciva in cortile con Ove, apriva il
cofano dell’auto e gli insegnava nei minimi dettagli i nomi delle varie
componenti e le loro funzioni. Di domenica, andavano in chiesa. Né Ove né suo
padre avevano un rapporto particolarmente stretto con Dio, ma la madre di Ove
ci aveva sempre tenuto, così ogni domenica si sedevano in fondo alla cappella,
con lo sguardo fisso sul pavimento fino al termine della funzione. Ove
trascorreva quel tempo a pensare più a quanto gli mancasse la madre che a
quanto gli mancasse Dio. Dopo, Ove e suo padre facevano un lungo giro con la
Saab per la campagna. Era il momento della settimana che Ove preferiva.
Quello stesso anno, per non restare a casa da solo quando non doveva andare
a scuola, Ove aveva iniziato a seguire il padre alla ferrovia. Era sporco e mal
pagato, ma, come soleva borbottare suo padre, era “un lavoro onesto, e non c’era
tanto da sputarci sopra”.
A Ove i colleghi del padre piacevano tutti, tranne Tom. Tom era un uomo alto
e chiassoso, con i pugni grandi come il pianale di un autocarro e gli occhi che
sembravano alla costante ricerca di un animale indifeso da prendere a calci.
Quando Ove aveva nove anni, suo padre lo aveva mandato ad aiutare Tom a
svuotare un vagone fuori servizio. Con un grido di giubilo, Tom aveva raccolto
da terra una valigetta dimenticata da un passeggero distratto. Era caduta dal
portapacchi, disseminando il suo contenuto sulle assi di legno del pavimento, e
Tom aveva subito iniziato ad arraffare tutto ciò che gli capitava sott’occhio e a
infilarvelo dentro alla rinfusa.
«Quello che troviamo ce lo teniamo» aveva sghignazzato, rivolgendo a Ove
un’occhiata che lo aveva fatto sentire come se avesse degli insetti che gli
correvano sotto la pelle.
Tom gli aveva dato una pacca sulla schiena così violenta da fargli tremare le
clavicole. Ove non aveva fiatato. Mentre uscivano, il ragazzo era inciampato in
un portafoglio. Era di una pelle così soffice che, quando lo aveva raccolto, gli era
parso di avere in mano un batuffolo di cotone. E non aveva nessun elastico che
lo tenesse insieme, come il vecchio portafoglio di suo padre che cadeva a pezzi,
ma solo un bottoncino d’argento che, quando lo si apriva, schioccava. Conteneva
più di seimila corone. Un vero patrimonio per chiunque, a quel tempo.
Quando Tom se n’era accorto, aveva cercato di strapparlo di mano a Ove, ma
lui si era opposto. Con la coda dell’occhio, Ove aveva fatto in tempo a scorgere
il pugno di quel colosso che si serrava e aveva capito di non avere scampo. Così,
aveva chiuso gli occhi, in attesa del colpo fatale.
Nessuno dei due si era avveduto dell’arrivo del padre di Ove; se lo erano
semplicemente trovato in mezzo. Tom aveva incrociato il suo sguardo un breve
istante e, per la furia, aveva inspirato così forte da rantolare. Il padre di Ove non
si era spostato e, alla fine, Tom aveva abbassato il pugno e aveva fatto un passo
indietro.
«Quello che troviamo ce lo teniamo, è sempre stato così» aveva ringhiato al
padre di Ove, indicando il portafoglio.
«Sì, ma lo tiene chi lo trova, se crede» aveva risposto il padre di Ove, senza
abbassare lo sguardo.
Gli occhi di Tom si erano fatti color pece. Era indietreggiato di un altro passo,
continuando a tenere in mano la valigetta. Tom lavorava alla ferrovia da sempre,
e Ove non aveva mai sentito nessuno, tra i colleghi del padre, pronunciare una
sola parola buona sul suo conto. Era disonesto e malvagio, ecco cos’aveva
sentito dire dai ferrovieri dopo che avevano bevuto un paio di birre alle loro
feste. Suo padre, invece, non l’aveva mai giudicato. «Quattro figli e una moglie
malata» ricordava ai colleghi, guardandoli dritto negli occhi. «Uomini migliori
di Tom fanno cose ben peggiori, in una situazione come la sua.» A quel punto, i
colleghi cambiavano discorso.
Il padre aveva indicato il portafoglio che Ove teneva in mano.
«Decidi tu» lo aveva esortato.
Ove aveva puntato lo sguardo dritto a terra, e aveva sentito gli occhi di Tom
perforargli la testa. Poi, con voce flebile ma risoluta, aveva decretato che
l’ufficio oggetti smarriti sarebbe stato il posto migliore dove lasciarlo. Il padre
aveva annuito senza dire una parola, lo aveva preso per mano e, insieme, si
erano incamminati in silenzio lungo i binari. Ove aveva sentito Tom gridargli
dietro con la voce piena di una furia gelida. Non aveva più dimenticato quel
tono.
La donna all’ufficio oggetti smarriti non aveva creduto ai suoi occhi, quando
padre e figlio avevano posato il portafoglio sul bancone.
«E c’era solo questo sul pavimento? Non avete trovato una borsa, una
custodia, o altro?» aveva domandato.
Ove aveva scrutato suo padre, ma lui era rimasto in silenzio.
La donna si era accontentata.
«Molta gente non avrebbe mai restituito tutti questi soldi» aveva detto a Ove,
sorridendo.
«Molta gente è senza cervello» aveva risposto lapidario suo padre, poi aveva
preso Ove per mano ed era tornato con lui al lavoro.
Dopo aver percorso circa duecento metri lungo i binari, Ove si era schiarito la
gola e, facendosi coraggio, aveva chiesto al padre perché non avesse detto niente
della valigetta che Tom aveva preso.
«Nella nostra famiglia non ci interessa fare la spia» gli aveva risposto suo
padre.
Ove aveva annuito, e avevano continuato a camminare in silenzio.
«Avevo pensato di tenere i soldi» aveva bisbigliato Ove dopo un po’,
stringendo più forte la mano del padre, come se temesse che lui gliela lasciasse.
«Lo so» aveva detto suo padre, stringendogliela a sua volta.
«Ma ero certo che tu l’avresti consegnato, mentre a quelli come Tom non
sarebbe mai passato per la mente» aveva proseguito Ove.
Il padre aveva fatto un cenno di assenso, e l’argomento non era mai più stato
toccato.
Se Ove fosse stato il tipo di uomo che riflette su come e quando si diventa
quel che si è, forse avrebbe indicato in quell’episodio il momento in cui aveva
imparato che ciò che è giusto è giusto. Dato che, però, non gli piaceva
invischiarsi in certi ragionamenti, per lui quello era semplicemente stato il
giorno in cui aveva deciso di essere il meno diverso possibile da suo padre.

Il padre di Ove era morto pochi giorni dopo il sedicesimo compleanno del figlio:
investito da un vagone fuori controllo. A Ove erano rimasti: una Saab, una casa
fatiscente a una decina di chilometri dalla città e un vecchio orologio da polso
ammaccato. Senza che riuscisse a spiegare perché, aveva smesso di essere felice.
Non lo sarebbe stato per molti anni a venire.
Al funerale, il pastore aveva provato ad accennare a una famiglia adottiva, ma
si era presto reso conto che Ove non intendeva accettare elemosine. Inoltre, Ove
gli aveva fatto capire che, da quel momento in avanti, non ci sarebbe stato più
bisogno di riservargli un posto alla funzione della domenica. Non perché non
credesse in Dio, aveva dichiarato, ma perché si era convinto che quel Dio fosse
solo un dannato farabutto.
Il giorno seguente, si era recato all’ufficio paghe della ferrovia per restituire
parte dello stipendio mensile del padre. Le impiegate erano rimaste di stucco,
così Ove aveva dovuto spiegare con una certa impazienza che, poiché suo padre
era morto il sedici, non ci si poteva certo aspettare che i restanti quattordici
giorni del mese fossero retribuiti. E siccome il padre percepiva lo stipendio in
anticipo, Ove era andato a restituire la differenza.
Le impiegate, sbigottite, lo avevano pregato di sedersi e aspettare, e Ove
aveva ubbidito. Dopo circa un quarto d’ora era arrivato il direttore, che aveva
scrutato quel bizzarro sedicenne seduto su una sedia di legno nel corridoio, con
in mano la busta paga del padre defunto. Il direttore sapeva benissimo che non ci
sarebbe stato modo di far accettare al ragazzo lo stipendio a cui, secondo lui, suo
padre non aveva diritto, così aveva offerto a Ove la possibilità di lavorare al
posto del genitore il resto del mese. Ove aveva trovato la proposta ragionevole, e
aveva comunicato a scuola che non avrebbe frequentato le lezioni per due
settimane. Non ci aveva mai più messo piede.
Aveva lavorato alla ferrovia per cinque anni. Poi, una mattina, era salito su un
treno e l’aveva incontrata. Per la prima volta da quando era morto suo padre, si
era messo a ridere. E, in seguito, la sua vita non era stata più la stessa.

Perché la gente diceva che Ove vedeva il mondo in bianco e nero. Ma lei era il
colore. Tutto il suo colore.
6
Un uomo che si chiama Ove
e una bicicletta che deve stare
al posto delle biciclette

Ove vuole solo morire in santa pace. È chiedere troppo? Ove non crede. Certo,
avrebbe dovuto risolvere la faccenda già sei mesi prima. Subito dopo il funerale
di lei. Adesso, cazzarola, può ammetterlo. Ma, allora, non era possibile. Allora,
aveva ancora un lavoro: non poteva mica, di punto in bianco, mollare tutto per
farla finita.
La moglie di Ove era morta di venerdì, era stata sepolta la domenica e il
giorno dopo, lunedì, Ove era andato a lavorare. Perché è così che si fa. Sei mesi
più tardi, senza alcun preavviso e sempre di lunedì, i suoi capi sono venuti a
dirgli che non avevano voluto affrontare l’argomento di venerdì perché “non
volevano rovinargli il fine settimana”. E, martedì mattina, Ove ha oliato il
ripiano della cucina.
Ha pianificato tutto lunedì a pranzo. Ha pagato in anticipo il servizio di
pompe funebri e si è accordato per venire sepolto accanto a lei. Ha telefonato
all’avvocato e scritto una lettera con istruzioni precise, che ha riposto in una
busta insieme a tutti i documenti importanti, all’atto di acquisto della casa e alla
documentazione della Saab. Ha infilato la busta nella tasca interna della giacca.
Ha spento tutte le luci, disdetto l’abbonamento al quotidiano e saldato tutte le
bollette. Non ha nessun mutuo o prestito aperto. Nessun debito. Nessuno dovrà
preoccuparsi di fare pulizia. Ove ha bevuto il suo caffè. Ha lavato la tazza.
È pronto.
L’unica cosa che vuole è morire in santa pace, pensa, mentre, seduto nella
Saab, guarda fuori dal garage aperto. Se solo riesce a evitare i vicini di casa,
forse può andarsene quel pomeriggio stesso.
Vede il giovane sovrappeso che abita nella casa accanto alla sua trascinarsi
davanti al suo garage, in direzione del parcheggio. Non è che Ove pensi male
degli obesi. No davvero. La gente può essere come vuole. Solo, non li ha mai
capiti. Non capisce nemmeno come si faccia a diventarlo. Quanto accidenti può
mangiare una persona? Come si fa a diventare il doppio di quel che si era? Ove
pensa che, per riuscirci, ci voglia una certa determinazione.
Il giovane si accorge di Ove e lo saluta, allegro. Ove annuisce con
discrezione. Il giovane resta lì fermo e continua ad agitare la mano, con tale
energia che il suo ventre enorme tremola sotto la maglietta. Quando era in vena
di ironia, Ove diceva sempre a sua moglie che quel ragazzo era l’unica persona
di sua conoscenza che potesse sferrare da solo un attacco a un branco di ciotole
di patatine. Di solito, lei rispondeva che non era una bella cosa da dire.
Diceva proprio così: “Ove, non è una bella cosa”.
A sua moglie quel giovanotto obeso stava simpatico. Quando aveva saputo
che sua madre era morta, aveva cominciato a portargli dei piatti pronti, preparati
da lei. Lo faceva regolarmente, una volta alla settimana. “Così, ogni tanto,
mangia qualcosa di fatto in casa” diceva. Ove le faceva notare che i contenitori
non tornavano mai indietro, e aggiungeva sarcastico che quel tizio non vedeva la
differenza tra cibo e contenitore. La moglie di Ove gli intimava di smetterla, e
lui taceva.
Prima di scendere dalla Saab, Ove aspetta che il grassone traballi fuori dal
suo campo visivo. Controlla la maniglia dell’auto tre volte. Chiude la porta del
garage. Abbassa la maniglia tre volte. Risale il vialetto che si snoda tra le villette
e si ferma fuori dal deposito delle biciclette. C’è una bici appoggiata alla parete
esterna. Di nuovo. Proprio sotto il cartello che dichiara esplicitamente che in
quel punto è vietato parcheggiare le biciclette.
Ove la solleva. Il copertone anteriore è bucato. Apre il deposito con la chiave,
sistema la bicicletta accanto alle altre e richiude la porta. Ha appena abbassato la
maniglia tre volte quando sente una voce tardo-adolescenziale lamentarsi dietro
di lui.
«Oh! Ma che cacchio fai?»
Ove si volta e incrocia lo sguardo di un moccioso a un paio di metri di
distanza.
«Metto una bicicletta nel deposito delle biciclette.»
«Ma non puoi!» protesta il moccioso.
Avrà al massimo diciotto anni, sospetta Ove, guardandolo meglio. Più un
teppista che un moccioso, volendo essere pignoli.
«Certo che posso.»
«Ma dovevo aggiustarla!» esclama il teppista, strillando come un altoparlante.
«È una bicicletta da donna» ribatte Ove.
«Sì» conferma il teppista con impazienza, come se quel dettaglio non fosse
per nulla rilevante.
«Non può mica essere tua» constata Ove.
«Ma nooo!» geme il teppista, levando gli occhi al cielo.
«E allora, di chi è?» domanda Ove, affondando le mani nelle tasche dei
pantaloni, soddisfatto.
Cala un silenzio circospetto. Il teppista fissa Ove con disprezzo crescente. Dal
canto suo, Ove guarda il ragazzo come se fosse un unico, enorme spreco di
ossigeno. Dietro il teppista, nota, ce n’è un altro, probabilmente il suo compare:
ancora più rachitico e foruncoloso dell’amico, lo tira per la manica della giacca,
mormorandogli di “non fare casini”. Il primo teppista calpesta ostinatamente il
nevischio. Come se fosse tutta colpa del nevischio.
«Della mia ragazza» borbotta alla fine.
Lo dice in tono rassegnato, più che infervorato. Indossa scarpe da tennis
troppo larghe e jeans troppo stretti, a giudizio di Ove. E una giacca sportiva
chiusa fin sul mento, per proteggersi dal gelo. Ha il viso emaciato e devastato
dall’acne, una peluria quasi invisibile sulle guance e una cresta che pare tenuta
insieme con della colla industriale.
«E dove abita?» lo incalza Ove.
La canaglia fa un gesto vago con il braccio in direzione della villetta in fondo
alla strada. Quella in cui vivono con le loro figlie i comunisti che hanno portato
avanti la crociata per la raccolta differenziata. Ove annuisce.
«Allora può venire tranquillamente a prendersela nel deposito» sentenzia.
Poi picchietta un dito con ostentazione sul cartello di divieto di sosta, si volta
e s’incammina verso casa sua.
«Oh! Vecchio del cazzo!» strilla il teppista dietro di lui.
«Zitto!» sibila il suo amico.
Ove non risponde.
Passa accanto al cartello che vieta chiaro e tondo il transito delle auto sul
vialetto pedonale. Quello che la straniera incinta evidentemente non era in grado
di leggere, anche se Ove sa molto bene che è impossibile non vederlo, perché è
stato lui a installarlo. Percorre di cattivo umore la stradina tra le villette,
pestando i piedi come se volesse appianare l’asfalto. “Che ammasso di cretini,
questo quartiere” pensa, mentre cammina. Tra il damerino con l’Audi e l’oca
bionda, che abitano quasi di fronte a casa sua, e quella famiglia di comunisti in
fondo alla strada, con le loro figlie adolescenti che portano i pantaloncini corti
sopra i fuseaux e che assomigliano a orsetti lavatori arrabbiati, è un vero circo
equestre. “Adesso i comunisti saranno in vacanza in Thailandia, c’è da
scommetterci” riflette tra sé Ove.
Nella casa accanto alla sua vive il venticinquenne obeso. Un capellone, per
giunta: ha la chioma lunga come quella di una donna indiana, e porta delle strane
magliette. Qualche anno prima sua madre si è ammalata ed è morta. Si fa
chiamare Jimmy. Ove non sa che lavoro faccia, ma di certo sarà qualcosa di
strano. Qualcosa di moderno che ha a che vedere con i computer.
Nella villetta successiva abitano Rune e sua moglie. Non che Ove possa
definire Rune un suo nemico. Anche se, in effetti, è esattamente quello che è. Se
deve essere onesto, Ove è convinto che Rune sia responsabile di tutto quanto è
andato storto nell’associazione dei proprietari. Lui e Anita si sono trasferiti nel
quartiere nello stesso periodo di Ove e sua moglie. Ai tempi, Rune guidava una
Volvo, ma più tardi si è comprato una BMW . E questo la dice lunga su quanto si
possa ragionare con Rune, secondo Ove.
È stato Rune ad architettare il colpo di Stato che ha destituito Ove dal ruolo di
presidente dell’associazione. E guarda com’è ridotto il quartiere, adesso. Bollette
dell’elettricità salatissime, biciclette parcheggiate fuori dal deposito, e gente che
fa la retro con il rimorchio al centro del vialetto pedonale. Nonostante ci siano
cartelli che indicano chiaramente che è vietato. Ove li aveva avvertiti, per la
miseria, ma nessuno gli aveva prestato ascolto, così non aveva mai più messo
piede alle riunioni dell’associazione dei proprietari.
Ogni volta che pronuncia tra sé “riunioni dell’associazione dei proprietari”,
Ove ha un moto di disgusto, quasi gli venisse da sputare. Gli sembra che sia
un’espressione volgare, degna di una smorfia di fastidio.
A una quindicina di metri dalla sua cassetta delle lettere scassata, scorge l’oca
bionda. Sulle prime non capisce cosa stia facendo. Oscilla sui trampoli in
minigonna e rivolge gesti isterici verso la facciata della casa di Ove. Il suo
microcane, che di solito lei tiene dentro la borsetta, le scorrazza intorno
abbaiando come un ossesso, e molto probabilmente ha già pisciato sulle
mattonelle di Ove. Ove non è nemmeno certo che sia un cane. Più una ciabatta
con occhi e orecchie, riflette nauseato.
L’oca bionda strilla verso la sua facciata con tale stizza che gli occhiali da
sole le scivolano sulla punta del naso. La ciabatta continua ad abbaiare. “Questa
imbecille ha davvero perso la ragione” pensa Ove, fermandosi un paio di metri
dietro di lei. Solo allora si accorge che non ce l’ha con la facciata, ma con il
gatto spelacchiato, contro il quale getta un sasso dopo l’altro.
Il gatto con mezza coda e senza un orecchio è rannicchiato contro un angolo
della rimessa. Sul pelo, o per lo meno su quel che gliene resta, sono visibili
piccole chiazze di sangue. La ciabatta digrigna i denti. Il gatto le risponde
soffiando.
«Non ti permettere di soffiare al mio Prince, brutto gattaccio!» starnazza l’oca
bionda, poi agguanta un altro sasso dall’aiuola di Ove e lo getta contro il felino,
che riesce a schivarlo.
Il sasso centra il davanzale esterno di una finestra. L’oca bionda afferra
un’altra pietra e si prepara a lanciarla. Ove avanza fulmineo e si ferma appena
dietro di lei, così vicino da sentire il suo alito pesante.
«Butta un altro sasso nella mia proprietà, e io scaravento te e il tuo cane nella
tua!»
La giovane ruota su se stessa e incrocia lo sguardo di Ove. Lui tiene le mani
in tasca, lei le agita strette a pugno, come se cercasse di scacciare una mosca
grossa come un forno a microonde.
«Quella bestiaccia schifosa ha graffiato Prince!» sbotta la tipa piena di rabbia.
Ove guarda la ciabatta: gli sta ringhiando contro. Poi guarda il gatto, ferito e
sanguinante, ma sempre a testa alta: “Un irriducibile” pensa.
«Il gatto sanguina. Quindi, è evidente che il tuo cane si è difeso» dice Ove
senza scomporsi. «È finita pari.»
«Col cazzo! Io lo uccido, quel bastardo!» incalza la bionda.
«No che non lo fai» risponde Ove, freddo.
L’oca assume un’espressione minacciosa.
«È sicuramente pieno di orribili malattie e di chi sa quanti virus schifosi!»
Ove guarda prima il gatto, poi l’oca, e sorride.
«Se è per questo, probabilmente lo sei anche tu, ma nessuno ti lancia contro
delle pietre.»
La bionda si raddrizza gli occhialoni. Il labbro inferiore comincia a tremarle.
«Che svergognato!» sibila.
Ove annuisce e lancia un’occhiata alla ciabatta, che subito cerca di mordergli
una gamba, ma lui pianta un piede a terra e il cane si ritira impaurito.
«Quel coso dev’essere tenuto al guinzaglio nell’area abitata» puntualizza
Ove.
Lei si passa una mano nei capelli tinti e sbuffa così forte che Ove si aspetta
quasi di vederle uscire del fumo dalle narici.
«E quello allora?!» strepita, indicando il gatto.
«Fatti gli affari tuoi» risponde Ove.
L’oca lo osserva come riescono a fare solo le persone che si sentono
palesemente superiori ma al contempo profondamente ferite. La ciabatta scopre i
denti ed emette un debole ringhio.
«Cos’è, credi di essere il padrone della strada, cerebroleso del cazzo?» gli
dice.
Ove si limita a indicare con calma la ciabatta.
«La prossima volta che piscia sulle mie mattonelle, lo faccio secco.»
«Prince non ha mai pisciato sulle tue fottute mattonelle!» si sfoga lei,
avanzando di due passi con i pugni levati in aria.
Ove non si muove di un millimetro. Lei si ferma. Sembra che si prepari a
dargli uno schiaffo, ma poi cambia idea.
«Vieni, Prince» esorta il cagnolino con un cenno della mano.
Dopo, punta l’indice contro Ove.
«Appena arrivo a casa, racconto tutto ad Anders e, caro mio, ti pentirai del
tuo atteggiamento.»
«Be’, di’ pure al tuo Anders di piantarla di mettersi con il culo all’aria davanti
alla mia finestra per fare stretching ogni domenica mattina» ribatte Ove.
«Cerebroleso del cazzo» sbotta lei di nuovo, incamminandosi verso il
parcheggio.
«E, già che ci sei, digli che guida una macchina di merda!» aggiunge Ove.
L’oca fa un gesto inequivocabile in direzione di Ove. Poi sparisce insieme
alla ciabatta.
“Che se ne vadano tutti a quel paese, lei, la sua bestia e il suo Anders” pensa
Ove, mentre si dirige verso la rimessa. Vede le chiazze di pipì sulle mattonelle
accanto all’aiuola: non c’è dubbio che sia il piscio di quel cagnaccio. Se non
avesse cose ben più importanti da fare, andrebbe dritto a casa di quegli incivili e
preleverebbe la ciabatta per farne uno zerbino. Adesso, però, ha altro a cui
pensare. Entra nella rimessa, e afferra il trapano elettrico e la cassetta delle
punte.
Quando esce, il gatto è ancora lì a leccarsi le ferite.
«Ora vattene» gli intima Ove.
Il gatto non si muove. Ove scuote il capo.
«Mi hai sentito? Non è che, perché ho preso le tue difese, adesso siamo
amici.»
Il gatto resta dov’è. Ove sospira rassegnato.
«Cazzarola, spelacchiato di un gatto, il fatto che sia intervenuto con quella
stronza che ti ha lanciato addosso i sassi non significa che mi faccia piacere
averti tra i piedi. Capito?»
Gli agita il trapano davanti al muso.
«Ficcatelo bene in testa, okay?»
Il gatto sembra riflettere sulle parole di Ove.
«Sparisci!»
Il gatto continua a leccarsi le chiazze di sangue sulla pelliccia senza alcuna
premura. Guarda Ove come se fossero in trattativa e lui stesse soppesando
un’offerta. Poi si alza lentamente e si allontana con passo felpato, svanendo
dietro l’angolo della rimessa. Ove non lo degna nemmeno di un’occhiata, ed
entra in casa sbattendo la porta.

Perché adesso può davvero bastare. Adesso Ove vuole morire in santa pace.
7
Un uomo che si chiama Ove
fissa un gancio con il trapano

Ove indossa i pantaloni eleganti e le scarpe della festa. Stende con precisione il
telo di plastica sul parquet, come se stesse ricoprendo una preziosa opera d’arte.
Non che il pavimento sia nuovo, anche se l’ha lamato meno di due anni fa. E non
è per sé che stende il telo: sa bene che non si lasciano tracce di sangue, quando ci
si impicca. Non è nemmeno perché teme la polvere dell’intonaco, che scenderà
dal soffitto quando lo trapanerà. O perché resteranno dei segni sul parquet,
quando allontanerà lo sgabello con un calcio. Tra l’altro, sotto le gambe dello
sgabello ha incollato dei feltrini, quindi non dovrebbe lasciare proprio nessun
segno. No, il telo di plastica che Ove stende con grande attenzione sul pavimento
dell’ingresso, del soggiorno e di buona parte della cucina, quasi pensasse di
riempire d’acqua l’intera casa, non è per lui. È per il maledetto viavai di quei
damerini di agenti immobiliari, che entreranno a casa sua come lupi affamati
prima ancora che il personale dell’ambulanza abbia fatto in tempo a portar via il
suo cadavere. Per nessun motivo vuole che quei fetenti graffino con le loro
scarpe firmate il suo pavimento, se lo ficchino bene in testa.
Posiziona lo sgabello al centro del soggiorno. È coperto di macchie di
vernice, come minimo di sette colori diversi. Qualche anno prima, la moglie di
Ove si era messa in testa di fargli tinteggiare una stanza della villetta ogni sei
mesi. O meglio, per essere più precisi, aveva deciso di cambiare il colore delle
pareti delle stanze, a rotazione, ogni sei mesi. Lo aveva detto a Ove, e Ove le
aveva risposto che poteva scordarselo. Lei, allora, aveva chiamato un
imbianchino per un preventivo, e poi aveva riferito a Ove il prezzo. Così, ogni
sei mesi, Ove era stato costretto ad andare a prendere in soffitta il suo sgabello
per tinteggiare.
Quando si perde qualcuno a cui si voleva bene, si sente la mancanza di cose
bizzarre. Piccoli dettagli. Il suo sorriso. Il modo che aveva di girarsi nel letto
quando dormiva. Tinteggiare le pareti per lei.
Ove apre la sua cassetta delle punte. La punta, non il trapano, è l’elemento più
importante quando si trapana. Così come è più importante avere sulla propria
auto degli pneumatici seri, piuttosto che freni in ceramica e altre sciocchezze
simili. Chiunque abbia un minimo di cervello lo sa. Ove si ferma in mezzo alla
stanza e misura il soffitto con un’occhiata. Poi esamina il contenuto della
cassetta delle punte come un chirurgo che cerchi i suoi strumenti. Ne sceglie una,
la inserisce nel trapano, la prova alcune volte schiacciando il pulsante, in modo
che il trapano ringhi un po’. Scuote il capo, decide che non è quella giusta, e la
cambia. Prima di ritenersi soddisfatto, ripete l’operazione quattro volte. Infine,
attraversa il soggiorno reggendo in mano l’attrezzo come se fosse un enorme
revolver.
Si ferma accanto allo sgabello e fissa il soffitto. Si rende conto che deve
prendere le misure perché il foro sia perfettamente centrato. Non c’è niente di
peggio che fare un buco nel soffitto a caso, senza prendere bene le misure, pensa
Ove.
Così va a cercare un metro e misura a partire da tutti e quattro gli angoli. Due
volte, per essere sicuro. E poi fa una croce esattamente al centro del soffitto del
soggiorno.
Scende dallo sgabello. Fa un giro per controllare che il telo di plastica sia
steso come si deve. Ruota la chiave nella serratura della porta d’ingresso e la
apre, così che non la rovinino quando entreranno a prenderlo. È una porta di
ottima qualità: resisterà ancora per molti anni.
S’infila la giacca e si accerta che la busta sia nella tasca interna.
Da ultimo, volta verso la finestra la foto della moglie sul davanzale, in modo
che dia sulla rimessa. Non vuole incrociare il suo sguardo, mentre farà quel che
sta per fare. D’altra parte, non ha neppure il coraggio di capovolgere la foto sul
davanzale. Lei si arrabbiava sempre, quando finivano in un posto dove non c’era
una bella vista. Aveva bisogno di un panorama, “qualcosa di vivo da guardare”,
ripeteva in continuazione. Dunque, Ove volta la sua foto verso la rimessa.
“Magari quel gatto spelacchiato passa ancora di lì” pensa. Alla moglie di Ove
piacevano i gatti, spelacchiati o no.
È pronto. Afferra il trapano, prende il gancio, sale sullo sgabello e inizia a
trapanare. La prima volta che suonano alla porta, dà per scontato di aver sentito
male e ignora il campanello. Al secondo squillo, capisce che c’è davvero
qualcuno che sta suonando alla porta, e continua a far finta di niente.
La terza volta, Ove si interrompe e osserva la porta su tutte le furie. Come se,
con la sola forza del pensiero, potesse convincere chiunque si trovi all’esterno a
sparire. La cosa non funziona affatto. Evidentemente, l’interessato è persuaso
che l’unico motivo razionale per cui Ove non ha aperto la porta al primo squillo
sia che non ha sentito il campanello.
Ove scende dallo sgabello, avanza sul telo di plastica in soggiorno e
raggiunge l’ingresso. Possibile che sia così difficile farla finita in santa pace?
Eh? Ove non riesce a capirlo.
«Sì?» domanda, spalancando la porta.
L’imbranato tira indietro il testone giusto in tempo per non ricevere il battente
in faccia.
«Salve!» esclama la straniera incinta accanto a lui, mezzo metro più in basso.
Ove guarda in su verso l’imbranato, poi in giù verso la donna. Con mano
esitante, l’imbranato si sta assicurando che tutte le parti del suo viso siano ancora
a posto.
«Questo è per lei» continua la donna con gentilezza, mettendo in mano a Ove
un contenitore di plastica azzurro.
Ove lo osserva scettico.
«Sono biscotti» gli spiega lei, incoraggiante.
Ove annuisce lentamente, come per convincersi che si tratta di biscotti, e non
di una bomba a orologeria.
«Com’è elegante» gli dice la donna, sorridendo.
Ove annuisce di nuovo.
Poi restano lì tutti e tre, con l’aria di aspettare che qualcuno parli. Alla fine, la
donna guarda suo marito e scuote il capo rassegnata.
«Amore, potresti smettere di toccarti la faccia, per favore?» sussurra,
dandogli un colpetto sul fianco.
L’imbranato alza gli occhi, incrocia lo sguardo di sua moglie e fa un cenno di
assenso. Poi, guarda Ove. Ove guarda la donna. L’imbranato indica il contenitore
e si illumina.
«Lei è iraniana, sa? Portano da mangiare ovunque.»
Ove lo fissa inespressivo. L’imbranato sembra piuttosto perplesso.
«È per questo che vado d’accordo con gli iraniani. A loro piace far da
mangiare, e a me…» azzarda con un sorriso un po’ troppo ampio.
S’interrompe. Ove pare straordinariamente disinteressato.
«… a me piace mangiare» conclude l’imbranato.
Sta per mettersi a tamburellare con le dita, ma poi guarda sua moglie e decide
che è una pessima idea.
Ove incrocia lo sguardo della donna, che esprime lo stesso sfinimento di chi
abbia a che fare con un bambino che non smette di fare i capricci.
«Sì?» ripete.
Lei raddrizza la schiena e fa scorrere le mani sul pancione.
«Volevamo solo presentarci, visto che adesso siamo vicini di casa» sorride.
Ove le risponde rapido e conciso.
«Okay. Piacere.»
Tenta di chiudere la porta, ma lei la tiene aperta con il braccio.
«E poi volevamo ringraziarla per averci aiutato a spostare il rimorchio. È
stato molto gentile!»
Ove grugnisce. Tiene aperta la porta di malavoglia.
«Non c’è di che.»
«Sì, invece, è stato gentilissimo» protesta lei.
Ove lancia uno sguardo non proprio di stima all’imbranato.
«Un uomo adulto dovrebbe saper spostare un rimorchio in retromarcia da
solo.»
L’imbranato lo fissa come se non capisse se si tratta di un insulto o meno.
Ove decide di lasciarlo nel dubbio. Indietreggia e si accinge a chiudere la porta.
«Piacere di conoscerla. Io mi chiamo Parvaneh» dice la straniera incinta,
infilando un piede in casa di Ove.
Ove osserva il piede, e poi il viso della donna. Fatica a credere che abbia
davvero fatto quello che ha appena fatto.
«Io mi chiamo Patrick!» esclama subito dopo l’imbranato.
Né Ove né Parvaneh sembrano prenderne nota.
«È sempre così scortese?» domanda Parvaneh incuriosita.
Ove pare offendersi.
«Ma… Cazzarola, io non sono scortese.»
«Un po’ scortese, sì.»
«Non è vero!»
«Mm. Le sue parole sono come carezze» risponde lei con un tono che Ove
sospetta sia eminentemente sarcastico.
Ove lascia andare la maniglia della porta ed esamina il contenitore che ha in
mano.
«Biscotti arabi, eh? Ma saranno buoni?» borbotta.
«Persi» lo corregge lei.
«Eh?»
«Io vengo dall’Iran. Quindi non sono araba: sono persa» gli spiega Parvaneh.
«Tu sei persa?»
«Esatto.»
«Be’, è il minimo che si possa dire» concorda Ove.
La risata della donna lo coglie in contropiede. È come una bevanda gassata,
versata troppo rapidamente e che trabocca dal bicchiere. Non s’intona per niente
con tutto quel cemento grigio e con quelle mattonelle da giardino allineate. È
disordinata, e chiassosa, e non si attiene a nessun regolamento condominiale.
Ove indietreggia di un passo. Il piede gli s’impiglia nel nastro adesivo che
fissa il telo di plastica sul pavimento. Quando cerca di staccarlo, stizzito, solleva
un angolo del telo. E quando cerca di scrollarsi di dosso sia il nastro sia il telo,
inciampa e solleva altra plastica. Ritorna in equilibrio. È arrabbiato. Resta fermo
sulla soglia e si ricompone. Impugna la maniglia e guarda l’imbranato, cercando
di cambiare argomento.
«E tu che cosa fai?»
L’imbranato si stringe nelle spalle e sorride, impacciato.
«Il consulente informatico!»
Ove e Parvaneh scuotono la testa in modo così armonico che si potrebbe
interpretare il loro gesto come una coreografia di nuoto sincronizzato. A
malincuore, Ove si ritrova per qualche istante a pensare un po’ meno male di lei.
L’imbranato non sembra essersi accorto di nulla. In compenso, osserva con
curiosità il trapano, che Ove tiene in mano con la stessa disinvoltura con cui di
solito i guerriglieri africani impugnano le loro armi automatiche quando i
giornalisti occidentali li intervistano poco prima che assaltino i palazzi
governativi. Poi, si sporge in avanti e sbircia in casa di Ove.
«Che cosa sta facendo?»
Ove lo guarda come si guarderebbe chiunque abbia il coraggio di domandare
“Che cosa sta facendo?” a un uomo con un trapano in mano.
«Sto trapanando.»
Parvaneh fissa il marito e alza gli occhi al cielo: se non fosse per la sua
pancia, che dimostra come, nonostante tutto e per la terza volta, stia
contribuendo alla sopravvivenza del genoma di quel cretino, Ove potrebbe
perfino trovarla simpatica.
«Oh» replica l’imbranato facendo un cenno d’assenso.
Si sporge di nuovo in avanti, getta un’occhiata dentro casa e osserva il
pavimento del soggiorno, ricoperto con cura dal telo di plastica. Si illumina,
guarda Ove e ridacchia.
«Si potrebbe pensare che stia facendo a pezzi un cadavere!»
Ove lo osserva in silenzio. L’imbranato tossicchia, titubante.
«Cioè, sembra quasi una scena di “Dexter”» dice, con un sorriso sempre
meno convinto.
«È una serie tv… su un tizio che ammazza la gente» spiega l’imbranato, quasi
bisbigliando e facendo un passo indietro.
Ove scuote il capo, esasperato.
«Ho da fare» dice in fretta, rivolto a Parvaneh, e rinsalda la presa sulla
maniglia.
Parvaneh sferra una gomitata d’intesa al marito. L’imbranato sembra farsi
coraggio, sbircia Parvaneh e poi guarda Ove con l’espressione di chi si aspetti di
venir colpito da un momento all’altro con una fionda.
«Sì, ecco, in realtà siamo venuti perché avrei bisogno di alcune cose in
prestito…»
Ove inarca le sopracciglia.
«Quali “cose”?»
L’imbranato si schiarisce la gola.
«Una scala. E una chiave a brufola.»
«Vuoi dire una chiave a brugola?»
Parvaneh annuisce. L’imbranato pare incerto.
«Non si chiama chiave a brufola?»
«A brugola» lo correggono all’unisono Ove e Parvaneh.
Parvaneh gli fa un cenno ansioso con la testa e alza un dito trionfante in
direzione di Ove.
«Si chiama così, te lo conferma anche il signore!»
L’imbranato mormora qualcosa d’incomprensibile.
Parvaneh ridacchia e scuote la testa.
L’imbranato non la prende molto bene.
«Okay, ho sbagliato. Comunque, non capisco perché devi fare dell’ironia.»
«Perché sì!»
«Non va bene!»
«Sì che va bene!»
«No che non va bene!»
Lo sguardo di Ove si sposta incredulo dall’uno all’altra.
«Invece sì» dice lei.
«Invece no. Non è che una cosa deve per forza essere vera, solo perché lo dici
tu» ribatte lui.
«Ma lo dicono tutti!»
«Non è che tutti hanno sempre ragione!»
«E allora? Lo cerchiamo su Google?»
«Certo! Vai su Google! E, già che ci sei, vai pure su Wikipedia!»
«Dammi il tuo cellulare.»
«Usa il tuo, di cellulare!»
«Non ce l’ho qui.»
«Oh, che palle!»
Ove rotea gli occhi allibito. La lite continua. Marito e moglie gli sembrano
due scaldabagni rotti che strepitano in contemporanea.
«Mio Dio» mormora alla fine.
Parvaneh inizia a mimare quello che Ove presume sia l’atto di schiacciarsi un
brufolo. Fa anche delle piccole pernacchie con le labbra per irritare l’imbranato.
Funziona. Sia sull’imbranato sia su Ove, che si arrende.
Entra in casa, si toglie la giacca, depone il trapano, si infila gli zoccoli di
legno, esce e si dirige verso la rimessa, passando davanti a quei due. È sicuro che
loro non si siano nemmeno accorti che gli è passato accanto. Quando inizia a
tirar fuori la scala, li sente ancora bisticciare.
«Ma aiutalo, Patrick!» sbotta Parvaneh appena vede uscire Ove dalla rimessa.
L’imbranato afferra la scala con dei movimenti goffi. Ove lo osserva come si
osserverebbe un cieco al volante di un autobus di linea, e nota che, durante la sua
assenza, un’altra persona ha invaso la sua proprietà.
La moglie di Rune, Anita, che abita nella casa in fondo alla strada, osserva
timidamente lo spettacolo accanto a Parvaneh. Ove decide che l’unica cosa
razionale da fare è ignorarla. Ha l’impressione che, altrimenti, la situazione gli
scapperebbe di mano. Tende all’imbranato un barattolo pieno di chiavi a brugola,
ordinatamente suddivise per lunghezza.
«Oh, quante!» esclama l’imbranato meditabondo, osservando il barattolo.
«Di che misura ti serve?» gli chiede Ove.
L’imbranato lo guarda senza capire.
«Mm… Media?»
Ove lo guarda molto, molto a lungo.
«Che cosa devi farci, con questa roba?» gli chiede alla fine.
«Devo rimontare un mobile dell’Ikea che abbiamo smontato prima del
trasloco. Solo che poi ho dimenticato dove ho messo la chiave a brufola» spiega
l’imbranato senza vergognarsi minimamente.
Ove guarda la scala, e poi l’imbranato.
«E la scala, a cosa ti serve? Hai messo il mobile sul tetto?»
L’imbranato ridacchia e scuote la testa.
«Ha ha ha! Nooo, la scala mi serve perché la finestra del primo piano è
bloccata. Non si riesce ad aprirla.»
Pronuncia l’ultima frase come se Ove potesse non capire il significato della
parola “bloccata”.
«Così hai intenzione di aprirla da fuori?» domanda Ove.
L’imbranato annuisce. Ove sembra voler aggiungere altro, ma poi cambia
idea. Si volta verso Parvaneh.
«E tu, perché sei qui?»
«Supporto morale» trilla lei.
Ove non sembra del tutto convinto. Nemmeno l’imbranato.
Lo sguardo di Ove si sposta controvoglia sulla moglie di Rune. È ancora lì.
Gli sembrano passati anni dall’ultima volta che l’ha vista. Per lo meno,
dall’ultima volta che l’ha guardata sul serio. È invecchiata. Al giorno d’oggi
sembrano tutti invecchiare alle spalle di Ove.
«Che c’è?» la interroga Ove.
La moglie di Rune abbozza un sorriso pacato e intreccia le mani sulla pancia.
«Ehm… Sì, Ove, lo sai che non voglio disturbarti con queste cose, ma si tratta
dei caloriferi di casa nostra. Non riescono a scaldarsi» dice piano. Poi sorride a
Ove, all’imbranato e a Parvaneh, in quest’ordine.
Parvaneh e l’imbranato ricambiano il sorriso. Ove guarda il suo orologio da
polso ammaccato.
«Ma qui non lavora più nessuno, a quest’ora di un giorno feriale?» si
domanda.
«Io sono in pensione» risponde la moglie di Rune, come se volesse scusarsi.
«Io sono in maternità» dice Parvaneh, accarezzandosi la pancia con
spensieratezza.
«Io sono un consulente informatico!» esclama l’imbranato.
Ove e Parvaneh scuotono di nuovo la testa contemporaneamente.
La moglie di Rune si fa forza.
«Allora… per i caloriferi…»
«Gli hai tolto l’aria?» le chiede Ove.
La donna fa segno di no con un’espressione incuriosita.
«Credi che possa dipendere da quello?» domanda.
Ove alza gli occhi al cielo.
«Ove!» strilla subito Parvaneh, come una maestra che rimproveri un suo
alunno.
Ove la guarda di traverso. Lei ricambia l’occhiata.
«Smettila di essere scortese» lo redarguisce.
«Ti ho detto che non sono scortese, porco cane!»
Parvaneh non gli toglie gli occhi di dosso. Ove grugnisce e si appresta a
chiudere la porta. “Adesso basta” pensa. Lui vuole solo morire in santa pace.
Possibile che quegli imbecilli non riescano a rispettare il suo desiderio di farla
finita?
Parvaneh posa comprensiva una mano sul braccio della moglie di Rune.
«Non si preoccupi. Ove l’aiuterà senz’altro.»
«Sarebbe davvero gentile da parte tua, Ove» ribatte fulminea la moglie di
Rune, illuminandosi.
Ove si ficca le mani in tasca e dà un calcio al telo di plastica sollevatosi dal
pavimento.
«Non può pensarci tuo marito? In fondo, è casa sua…»
La moglie di Rune scuote il capo malinconica.
«Purtroppo, no. Rune da un po’ di tempo è molto malato. Dicono che è
l’Alzheimer. Non riesce, come dire, a restare lucido a lungo, ecco. E poi è su una
sedia a rotelle. È stata dura, negli ultimi tempi…»
Ove fa un cenno di assenso. Adesso ricorda che sua moglie gli aveva parlato
ripetutamente dei problemi di salute di Rune, ma lui è sempre riuscito a
dimenticarsene.
«Già, già» commenta impaziente.
Parvaneh punta di nuovo gli occhi su di lui.
«Adesso basta, Ove!»
Ove le lancia una rapida occhiata, come se volesse rispondere qualcosa, ma
poi abbassa gli occhi.
«Va’ da lei a dare aria ai caloriferi, Ove. È chiedere troppo?» gli ordina
Parvaneh, incrociando decisa le braccia sul pancione.
Ove scuote il capo.
«Non si dà aria ai caloriferi, si TOGLIE aria dai caloriferi… Diamine!»
Poi alza lo sguardo e passa in rassegna i suoi interlocutori, a uno a uno.
«Non avete mai tolto l’aria da un termosifone?!»
«Io, mai» risponde Parvaneh, senza scomporsi.
La moglie di Rune si volta verso l’imbranato con un’espressione
interrogativa.
«Io non ho la minima idea di cosa si debba fare» chiarisce lui, flemmatico.
La moglie di Rune annuisce rassegnata, e torna a fissare Ove.
«Mi faresti davvero un favore, Ove, se non è troppo disturbo…»
Ove fissa dritto davanti a sé, esasperato.
«Avreste dovuto pensarci prima. Prima del vostro maledetto colpo di Stato»
dice a bassa voce, come se le parole gli uscissero a scatti tra una serie di piccoli e
discreti colpi di tosse.
«Che cosa?» domanda Parvaneh.
La moglie di Rune si schiarisce la voce.
«Ti prego, Ove, non chiamarlo colpo di Stato…»
«Lo chiamo come mi pare» risponde Ove imbronciato.
La moglie di Rune guarda Parvaneh e sorride scoraggiata.
«Rune e Ove non sono mai andati molto d’accordo. Prima di ammalarsi, mio
marito era il presidente dell’associazione dei proprietari del quartiere. Quando è
stato eletto, si è scatenata una specie di conflitto, per così dire, tra Rune e Ove,
che aveva ricoperto la carica fino a quel momento.»
Ove alza gli occhi e sguaina un dito per correggerla.
«Un golpe, bello e buono! Ecco cos’è stato!»
La moglie di Rune sorride a Parvaneh.
«Be’, sì, ehm… Dopo la sua nomina, Rune ha proposto di cambiare
l’impianto di riscaldamento delle villette, e Ove pens…»
«E cosa accidenti ne sa Rune dei sistemi di riscaldamento? Eh?» chiede Ove
con astio, ma riceve subito un’occhiata fulminante da Parvaneh, che lo spinge a
lasciare il commento a metà.
La moglie di Rune fa un cenno d’assenso.
«Okay, okay, Ove. Lasciamo perdere: hai senz’altro ragione tu. Comunque,
ora Rune è molto malato e tutta questa storia non ha più importanza.»
Mentre lo dice, alla moglie di Rune trema il labbro inferiore. Poi, però, si
ricompone, alza fiera la testa e si schiarisce la voce.
«I servizi sociali vogliono portarmelo via e metterlo in una casa di riposo»
annuncia.
Ove si ficca di nuovo le mani in tasca e fa un passo indietro. Ne ha
abbastanza.
Nel frattempo l’imbranato ha deciso che, per alleggerire l’atmosfera, è ora di
cambiare argomento, e indica il pavimento dell’ingresso.
«Cosa sono quei segni?»
Ove abbassa lo sguardo sulla porzione di parquet lasciata scoperta dal telo di
plastica.
«Sembra quasi che qualcuno abbia… sgommato sul pavimento. Cos’è, va in
bici dentro casa?»
Parvaneh scruta il volto di Ove, che indietreggia di un altro passo per
bloccare la vista all’imbranato.
«Non sei proprio capace di farti gli affari tuoi?»
«Be’, ma è strano…» riprende l’imbranato, un po’ confuso.
«È stata la moglie di Ove, Sonja. Era…» lo interrompe con gentilezza la
moglie di Rune, ma ha appena finito di pronunciare il nome di Sonja che Ove a
sua volta la interrompe, scattando in avanti con una furia cieca negli occhi.
«Adesso basta! CHIUDI QUELLA BOCCA!»
Tutti tacciono, scioccati dalla violenza della reazione. Quando rientra in casa
sbattendo la porta, a Ove tremano convulsamente le mani.

Dietro la porta, sente Parvaneh chiedere spiegazioni alla moglie di Rune. Poi,
sente la moglie di Rune che esita, cercando le parole giuste. Infine, la sente dire:
«Oh, è meglio che torni a casa. La moglie di Ove… No, niente. Sa com’è: la
vecchiaia mi fa parlare a sproposito…».
Ove ascolta le sue risa forzate e la sente allontanarsi dietro l’angolo della
rimessa. Poco dopo, se ne vanno anche gli altri due vicini.
E nell’ingresso di Ove rimane soltanto il silenzio.
Ove si lascia cadere sulla panca e respira pesantemente. Le sue mani
annaspano, come se stesse cercando di tenersi a galla nell’acqua gelida. Il cuore
gli martella nel petto. Gli accade sempre più spesso, negli ultimi tempi. Deve
quasi riprendere fiato, come un pesce che sia stato versato fuori dalla sua boccia
di vetro. Il medico del lavoro diceva che era un disturbo cronico, che non doveva
agitarsi. Ma come si fa?
“Sarà bello starsene un po’ a casa a riposarsi” gli hanno detto i suoi capi.
“Specialmente per chi, come lei, ha qualche problemino al cuore”.
Prepensionamento, lo chiamano, ma Ove pensa che sarebbe meglio se dicessero
le cose come stanno. Di fatto, lo hanno liquidato. Un terzo di secolo nello stesso
posto di lavoro, e gli parlano di “problemini”.
Ove non sa per quanto tempo resta seduto sullo sgabello con il trapano in
mano e il cuore che gli batte all’impazzata. Sulla parete accanto alla porta c’è
una foto di Ove e di sua moglie Sonja. È stata scattata quasi quarant’anni prima,
quella volta che erano andati in vacanza in Spagna in pullman. Lei indossa un
abito rosso, è abbronzata e ha l’aria felice. Ove le è accanto e la tiene per mano.
Ove fissa la foto per almeno un’ora. È di questo che sente maggiormente la
mancanza, ed è quello che vorrebbe tanto poter fare ancora: tenerla per mano.
Lei aveva un modo tutto suo di piegare l’indice nel palmo di Ove, come se
volesse nasconderlo dentro la sua mano. E, quando lo faceva, Ove aveva
l’impressione che niente al mondo fosse impossibile. Ecco cosa gli manca di più
di lei.
Si alza lentamente. Entra nel soggiorno. Sale sullo sgabello. Poi fissa una
volta per tutte il suo gancio al centro del soffitto. Scende dalla scala e osserva il
risultato. Torna nell’ingresso e indossa la giacca, tastando la busta nella tasca
interna.
Ha cinquantanove anni. Ha spento tutte le luci. Ha lavato la sua tazza del
caffè. Ha fissato un gancio nel soffitto del soggiorno. È pronto.
Va a prendere la corda dall’appendiabiti nell’ingresso. Passa per l’ultima volta
il dorso della mano sul soprabito della moglie. Poi torna in soggiorno, fa un nodo
scorsoio e fissa la fune al gancio. Sale sullo sgabello e infila la testa nel cappio.
Dà un calcio allo sgabello, chiude gli occhi e sente la corda serrarsi attorno al
collo come le fauci di un enorme predatore.
8
Un uomo che si chiamava Ove
e le orme di suo padre

Lei credeva nel destino. Era convinta che ogni strada percorsa nella vita, in un
modo o nell’altro, finisse per condurre ciascuno al proprio destino. Quando
Sonja faceva quei discorsi, Ove borbottava qualcosa di impercettibile e si dava
un gran da fare con le sue cassette degli attrezzi. Ma non la contraddiceva mai.
Per sua moglie, forse, il destino era qualcosa. Per Ove, invece, era qualcuno.
È una cosa strana rimanere orfani a sedici anni. Perdere la propria famiglia
molto prima di avere avuto il tempo di formarne un’altra con cui sostituirla. È un
tipo di solitudine del tutto speciale.
Ove aveva lavorato due settimane alla ferrovia in sostituzione di suo padre.
Aveva lavorato sodo e con dedizione. E aveva scoperto che ci provava gusto.
Lavorare gli dava una sensazione liberatoria: poteva toccare le cose con mano e
vedere il risultato concreto dei suoi sforzi. Di certo Ove non aveva mai detestato
la scuola, ma d’altra parte non capiva a cosa potesse servire. Gli piaceva la
matematica, ma in quella era avanti già di due anni rispetto ai compagni e,
francamente, delle altre materie non gli interessava poi molto. Il lavoro in
ferrovia, invece, era decisamente un’altra cosa. Qualcosa di molto più adatto a
lui.
Quando, l’ultimo giorno, aveva finito il turno, si era sentito amareggiato e giù
di corda. Non solo perché sarebbe dovuto tornare a scuola, ma anche perché si
era reso conto che non sapeva come avrebbe fatto a mantenersi. Il padre era stato
un brav’uomo sotto molti aspetti, ma in eredità non gli aveva lasciato altro che
una casa malridotta, una vecchia Saab e un orologio ammaccato. E di accettare
l’elemosina della parrocchia non se ne parlava, che quel Dio se lo ficcasse bene
in testa, diamine. Ove lo aveva detto forte e chiaro mentre era nello spogliatoio
della ferrovia, forse tanto a se stesso quanto a Dio.
«Ti sei preso la mamma e il papà prima del tempo, perciò te li puoi tenere, i
tuoi soldi!» aveva ruggito rivolto al soffitto.
Poi, aveva radunato le sue cose e se n’era andato. Naturalmente, non aveva
mai saputo se fosse stato Dio o qualcun altro ad ascoltarlo, ma quando Ove era
uscito dallo spogliatoio aveva trovato ad aspettarlo l’assistente del direttore.
«Ove?» gli aveva domandato quello.
Ove aveva annuito.
«Il direttore ti comunica che hai fatto un buon lavoro in queste settimane» gli
aveva detto l’uomo rapidamente.
«Grazie» aveva risposto Ove, e si era incamminato per la sua strada.
L’uomo lo aveva afferrato per una manica. Ove si era fermato.
«Il direttore vorrebbe sapere se ti va di restare qui, per continuare a fare un
buon lavoro.»
Ove lo aveva guardato in silenzio: più che altro, per capire se fosse uno
scherzo. Poi aveva annuito lentamente.
Si era allontanato di pochi passi, e subito l’uomo lo aveva richiamato.
«Il direttore dice che sei proprio come tuo padre!»
Ove non si era voltato. Ma, mentre se ne andava, la sua schiena si era
raddrizzata impercettibilmente.
Così, aveva finito col ricalcare le orme di suo padre. Aveva lavorato duro, non
si era lamentato e non si era mai dato malato, nemmeno un giorno. Gli uomini
del suo turno pensavano che fosse taciturno e anche un po’ bizzarro: dopo il
lavoro non voleva mai seguirli per bere una birra, né sembrava particolarmente
interessato alle donne, cosa che di per sé era più che strana. Ciononostante, era
figlio di suo padre e nessuno dei colleghi aveva mai avuto conti in sospeso con il
padre di Ove. Se qualcuno gli chiedeva di darci sotto, Ove ci dava sotto. Se gli
chiedevano di coprire un turno, Ove lo copriva senza esitazione. Nel giro di poco
tempo, quasi tutti i colleghi gli dovevano almeno uno o due favori. E lo
consideravano uno di loro.
Quando una notte, durante il peggior temporale dell’anno, il vecchio camion
che usavano per andare avanti e indietro lungo i binari si era rotto a qualche
chilometro dalla città, Ove era riuscito a ripararlo con il solo aiuto di un
cacciavite e di mezzo rotolo di nastro isolante, conquistandosi il rispetto di tutti i
vecchi della ferrovia.
Ogni sera, a cena, come aveva sempre fatto con suo padre, mangiava salsiccia
e patate. Si sedeva al tavolo della cucina e fissava fuori dalla finestra.
Cincischiava con il cibo. Poi si alzava, prendeva il piatto e andava a mangiare
nella Saab.
Ogni mattina si recava al lavoro. E la vita proseguiva così. Ove amava la
routine: gli piaceva sapere cosa lo aspettava. Dopo la morte di suo padre, aveva
iniziato a distinguere sempre più chiaramente chi faceva il proprio dovere da chi
era uno scansafatiche, chi si dava da fare da chi si limitava a parlare a vanvera.
Perciò, Ove parlava poco e cercava di darsi da fare il più possibile.
Non aveva amici. D’altro canto, non aveva nemmeno nemici, a parte quel
violento di Tom, certo, che quando era stato nominato caposquadra aveva colto
ogni occasione per rendere la vita di Ove un inferno. Gli assegnava i lavori più
pesanti, gli urlava contro in continuazione, lo prendeva in giro a pranzo, lo
mandava a lavorare sotto i vagoni e li metteva in movimento quando Ove
giaceva senza protezioni sulle rotaie. Un giorno, Ove aveva evitato per un pelo
di essere investito, ed era rimasto scioccato. Tom gli aveva riso dietro,
urlandogli: «Attento che fai la fine di tuo padre!».
Ove aveva abbassato la testa e non aveva aperto bocca. Non vedeva l’utilità
di sfidare un uomo grosso il doppio di lui. Ogni giorno si recava alla ferrovia e
faceva il suo lavoro, e se a suo padre era andata bene così, poteva andar bene
anche a lui, almeno era quel che pensava Ove. Gli altri lavoratori avevano
imparato ad apprezzarlo, per questo. «Tuo padre sosteneva che chi non parla
tanto raramente dice stronzate» gli aveva confidato uno dei colleghi più anziani,
un pomeriggio. E Ove aveva sorriso. C’era chi capiva, e chi non capiva.
Così, c’era chi aveva capito perché Ove si era comportato come aveva fatto, il
giorno in cui era stato convocato nell’ufficio del direttore. E chi no.
Ove aveva appena compiuto diciott’anni: erano passati quasi due anni dal
funerale di suo padre. Tom era stato fermato per aver rubato dei soldi dalla cassa
di un treno. Nessun altro, a parte Ove, lo aveva visto prenderli, ma lui e Ove
erano i soli a trovarsi sul convoglio quando il denaro era scomparso. E, come gli
aveva spiegato compunto l’assistente del direttore quando lo aveva convocato,
nessuno al mondo avrebbe potuto pensare che, tra i due, il colpevole fosse Ove.
Ove era stato invitato a sedersi su una sedia di legno nel corridoio. Era
rimasto lì seduto, con lo sguardo fisso sul pavimento, per quindici minuti, prima
che la porta si aprisse. Tom era uscito dall’ufficio del direttore con i pugni tanto
stretti che la pelle, sulle nocche, era bianca per lo sforzo, e aveva fatto di tutto
per incrociare lo sguardo di Ove. Ove aveva continuato a fissare il pavimento
anche dopo che era entrato nell’ufficio del direttore.
All’interno, c’erano diversi uomini in giacca e cravatta dall’aria serissima. Il
direttore faceva su e giù dietro la scrivania, con un’espressione sul viso che
suggeriva che era troppo adirato per restare fermo.
«Vuoi sederti, Ove?» gli aveva chiesto uno degli uomini ben vestiti.
Ove lo aveva guardato negli occhi. Sapeva benissimo chi era. Una volta suo
padre gli aveva riparato l’auto, un’Opel Manta blu dal motore enorme. L’uomo
gli aveva sorriso con gentilezza e aveva fatto un rapido gesto verso la sedia in
mezzo alla stanza, come per dirgli che adesso era tra amici e poteva stare
tranquillo.
Ove aveva rifiutato di sedersi. L’uomo dell’Opel Manta aveva annuito,
comprensivo.
«Allora. Si tratta di una pura formalità, Ove. Nessuno qui dentro crede che sia
stato tu a prendere i soldi. Tutto quel che devi fare è dirci chi è stato.»
Ove aveva abbassato lo sguardo sul pavimento ed era rimasto in silenzio per
un minuto buono.
«Ove?» lo aveva sollecitato l’uomo dell’Opel Manta.
Ove non aveva risposto. Alla fine, il direttore aveva rotto il silenzio con voce
bassa e spazientita.
«Rispondi alla domanda, Ove!»
Ove aveva continuato a tacere, fissando il pavimento. Gli uomini in giacca e
cravatta intorno a lui erano confusi.
«Ove… devi rispondere alla domanda. Sei stato tu a prendere i soldi?» aveva
chiesto di nuovo l’uomo dell’Opel Manta.
«No» aveva detto Ove con fermezza.
«E allora chi è stato?»
Ove non aveva fiatato.
«Rispondi alla domanda!» gli aveva ordinato il direttore.
Ove aveva alzato gli occhi, e aveva raddrizzato impercettibilmente la schiena.
«Io non racconto quel che fanno gli altri» aveva detto.
Per diversi secondi nella stanza era calato il silenzio.
«Ove, sai bene che se non ci dici chi è stato e se noi abbiamo uno o più
testimoni che sostengono che sia tu il colpevole… be’, saremo costretti a
sospettare di te» aveva spiegato l’uomo dell’Opel Manta, un po’ meno gentile di
prima.
Ove aveva annuito, ma era rimasto zitto. Il direttore lo aveva studiato come
un giocatore di poker scruta i suoi avversari. Ove non aveva mosso un muscolo.
Poco dopo, il direttore lo aveva congedato con tono risoluto.
«Adesso puoi andare, Ove.»
E Ove se n’era andato.
Quindici minuti prima, nello stesso ufficio, Tom aveva scaricato l’intera colpa
su Ove. Quella mattina, inoltre, due ragazzi della squadra di Tom si erano fatti
avanti, ansiosi di conquistarsi l’approvazione dei superiori, e avevano dichiarato
di aver visto con i loro occhi Ove mentre prendeva i soldi. Se Ove, dal canto suo,
avesse accusato Tom, sarebbero stati pari, ma le parole di Tom si opponevano al
silenzio di Ove. Così, la mattina seguente, il caporeparto aveva ordinato a Ove di
svuotare il suo armadietto e di recarsi nell’ufficio del direttore.
Alla fine del turno, Tom si era fermato davanti alla porta dello spogliatoio con
una smorfia di soddisfazione sul viso.
«Ladro» aveva sibilato in direzione di Ove.
Ove gli era passato accanto senza alzare lo sguardo.
«Ladro! Ladro! Ladro!» aveva scandito ad alta voce uno dei ragazzi che
avevano testimoniato contro Ove. Lo aveva ripetuto finché un collega anziano,
un buon amico del padre di Ove, non gli aveva mollato un ceffone sull’orecchio,
facendolo tacere.
«LADRO!» aveva gridato allora Tom, ancora più forte, e quell’insulto era
risuonato nella testa di Ove per più giorni.
Ove era uscito senza voltarsi e aveva fatto un respiro profondo. Era furioso.
Non tanto per essere stato chiamato ladro, non gl’importava granché di come lo
chiamavano, quanto piuttosto per la vergogna di avere perso il lavoro a cui suo
padre aveva consacrato la vita intera: quell’umiliazione gli bruciava nel petto
come un ferro infuocato.
Durante il tragitto fino all’ufficio del direttore, mentre camminava per
l’ultima volta con la tuta stretta a sé in un fagotto, aveva avuto il tempo di
riflettere su quell’esperienza. Gli era piaciuto lavorare alla ferrovia: compiti seri,
attrezzi seri, un vero lavoro. Così aveva deciso che, quando la polizia avesse
fatto quel che doveva fare con i ladri in una situazione del genere, avrebbe
provato a trasferirsi in un posto dove poteva trovare un lavoro come quello.
Forse avrebbe dovuto viaggiare parecchio: Ove s’immaginava che, con la fedina
sporca, sarebbe stato necessario allontanarsi di molto dal suo luogo di origine,
affinché la gente non facesse più caso a lui. D’altra parte, non aveva nulla che lo
trattenesse lì. Non aveva niente che lo trattenesse da nessuna parte, si era reso
conto mentre camminava. Comunque, lui non era uno che raccontava cosa
facevano gli altri. Per questo sperava che suo padre, dal cielo o da dove diavolo
si trovava in quel momento, lo perdonasse per aver perso il lavoro.
Era rimasto seduto sulla sedia nel corridoio per quasi quaranta minuti, prima
di essere invitato a entrare da una signora vestita di nero che indossava austeri
occhiali da vista. La donna aveva chiuso la porta alle sue spalle. Il direttore era
seduto alla scrivania con le mani intrecciate davanti a sé. Ove gli si era fermato
di fronte, con la tuta stretta tra le braccia. I due si erano guardati come si
osservano dei ritratti in un museo.
«È stato Tom a prendere quei soldi» aveva detto il direttore.
Non era una domanda, ma una semplice constatazione. Ove non aveva
risposto, e il direttore aveva ripreso a parlare.
«Ma gli uomini della tua famiglia non raccontano quel che fanno gli altri.»
Nemmeno quella era una domanda, e Ove aveva continuato a non rispondere.
Il direttore, però, aveva notato che raddrizzava impercettibilmente la schiena alle
parole “gli uomini della tua famiglia”.
Il direttore aveva annuito tra sé, aveva inforcato gli occhiali, e aveva fissato la
pila di carte sulla sua scrivania, iniziando a scrivere qualcosa su un foglio. Ove
era rimasto zitto e immobile per un bel po’. Poi si era schiarito piano la gola. Il
direttore aveva alzato gli occhi con un’espressione sorpresa, come se non si
aspettasse più una sua reazione.
«Sì?»
«Gli uomini sono quello che sono non per quello che dicono, ma per quello
che fanno» aveva detto Ove.
Il direttore lo aveva scrutato a lungo. Erano più parole di quante gliene
avessero sentite pronunciare gli operai della ferrovia da quando aveva iniziato a
lavorare lì, due anni prima. A essere sincero, Ove non sapeva nemmeno da dove
gli fossero venute. Sentiva solo che dovevano essere dette.
Il direttore era tornato alla sua pila di carte, e aveva ripreso a scarabocchiare.
Poi aveva spinto il foglio sul tavolo in direzione di Ove, facendogli segno di
firmarlo.
«Conferma che hai dato le dimissioni spontaneamente» gli aveva spiegato.
Ove aveva firmato. E aveva raddrizzato la schiena, con un’ombra indomita
sul viso.
«Può chiamarla, adesso. Sono pronto.»
«Chi dovrei chiamare?» aveva domandato il direttore.
«La polizia» aveva detto Ove con i pugni chiusi lungo i fianchi.
Il direttore aveva scosso rapidamente il capo ed era tornato alle sue carte.
«Sembra che quelle testimonianze siano andate perse, in tutta questa
confusione.»
Ove aveva spostato il peso da un piede all’altro, senza ben sapere cosa
farsene di quell’informazione. Il direttore lo aveva congedato senza guardarlo.
«Ora puoi andare.»
Ove si era voltato ed era uscito nel corridoio. Aveva chiuso la porta, e si era
sentito mancare. La donna che lo aveva introdotto poco prima lo aveva raggiunto
subito e, senza che lui avesse il tempo di protestare, gli aveva messo in mano un
altro foglio.
«Il direttore ti comunica che sei stato assunto come spazzino sui treni
notturni. Presentati al tuo superiore domattina presto» gli aveva detto,
bruscamente.
Ove l’aveva fissata. Poi aveva guardato il foglio.
«Il direttore dice che non avevi preso tu quel portafoglio quando avevi nove
anni. E che non hai preso niente adesso, diamine. E che non è da lui sbattere
sulla strada il figlio di un uomo in gamba, che è a sua volta un ragazzo in
gamba.»
Così era accaduto che, per due anni, Ove aveva fatto lo spazzino sui treni
notturni. E una mattina, poco dopo aver staccato il turno, l’aveva vista. Con le
sue scarpe rosse, la spilla d’oro e tutti quei capelli castani dorati. E quella risata
che, per il resto della sua vita, lo avrebbe fatto sentire come se qualcosa gli
corresse a piedi nudi dentro il petto.

La moglie di Ove era convinta che ogni strada percorsa nella vita finisse per
condurre ciascuno al proprio destino. E per lei, forse, quel destino era qualcosa.
Ma per Ove era qualcuno.
9
Un uomo che si chiama Ove
sfiata un termosifone

Dicono che il cervello lavori più rapidamente, quando sta per spegnersi. Come se
una scarica improvvisa di energia costringesse le capacità mentali ad accelerare a
tal punto che, per contro, il mondo circostante sembra muoversi al rallentatore.
Così, mentre penzola nel soggiorno, Ove fa in tempo a pensare a diverse cose.
Più che altro, però, pensa a un termosifone.

Perché esistono un modo giusto e uno sbagliato di agire, lo sanno tutti. E anche
se sono passati molti anni dalla lite sul riscaldamento centralizzato scatenatasi
all’interno dell’associazione dei proprietari, e anche se Ove non ricorda
esattamente quale fosse il modo di agire che lui riteneva giusto, ricorda con
esattezza che il modo di Rune, in ogni caso, era sbagliato.
Ovviamente, il riscaldamento era solo uno dei problemi. Rune e Ove si
conoscevano da quasi quarant’anni, e litigavano da almeno trentasette.
In tutta onestà, Ove non ricordava nemmeno più come la cosa fosse iniziata.
Era il genere di litigio in cui una serie di conflitti minori si accumula e si
intreccia in maniera tale che, alla fine, non c’è più nulla da fare. Era una lite che
continuava, e continuava, senza mai riuscire a sfogarsi del tutto. Finché Ove e
Rune fossero stati in vita, non sarebbe mai terminata.
E poi c’erano le automobili. Ove acquistava solo Saab. Rune solo Volvo.
L’avrebbe capito chiunque che, tra loro, non poteva correre buon sangue.
Eppure, all’inizio erano stati amici. O, almeno, amici quanto potevano esserlo
due uomini dello stampo di Ove e Rune. Di fatto, era stato soprattutto grazie alle
loro mogli. Le due coppie si erano trasferite nel quartiere nello stesso periodo, e
Sonja e Anita erano subito diventate migliori amiche.
Se torna indietro con la memoria, Ove deve ammettere di non aver
disprezzato Rune in quei primi anni. Insieme, avevano fondato l’associazione dei
proprietari del quartiere: Ove ne era il presidente, Rune il vicepresidente. E
avevano unito le forze quando il Comune aveva deciso di tagliare il bosco dietro
le loro case per costruire nuove abitazioni. Il Comune naturalmente sosteneva
che quel progetto esisteva da molti anni, prima ancora che i due si trasferissero
nelle loro villette, ma con quel genere di argomentazioni non si andava molto
lontano, con Rune e Ove. «Adesso è guerra, maledetti!» aveva ruggito Rune al
telefono. E guerra era stata. Ricorsi e citazioni in giudizio e raccolte di firme e
appelli sui giornali. Un anno e mezzo più tardi, il Comune si era arreso e aveva
iniziato a costruire altrove.
Quella sera, Rune e Ove avevano bevuto ciascuno il proprio bicchierino di
whisky sulla veranda di Rune. A dire il vero non erano particolarmente felici di
quella vittoria, come avevano commentato le loro mogli, rassegnate. Piuttosto,
erano delusi perché il Comune aveva ceduto così in fretta. Erano stati i diciotto
mesi più divertenti della vita di entrambi.
«Non c’è più nessuno pronto a battersi per i propri principi?» aveva chiesto
Rune.
«Nemmeno un’anima» aveva risposto Ove.
Così, avevano brindato ai loro indegni nemici.
Tutto ciò era accaduto molto tempo prima del colpo di Stato nell’associazione
dei proprietari. E prima che Rune si comprasse una BMW .
“Idiota” aveva pensato Ove quel giorno, e per tutti gli anni a seguire. «Come
cavolo si può instaurare una conversazione civile con uno che guida una BMW ?»
rispondeva Ove a Sonja, quando lei gli domandava perché non riuscissero più
neppure a instaurare una conversazione civile. Al che, di solito, Sonja roteava gli
occhi e borbottava: «Sei proprio matto».
Ma Ove non pensava affatto di essere matto. Secondo Ove, era fondamentale
mantenere un po’ di ordine nella propria vita, tutto qui. Non si poteva vivere
come se ogni cosa fosse intercambiabile. Come se la lealtà valesse quanto un
soldo bucato. La gente, ormai, cambiava le cose con tale rapidità che saper
costruire un oggetto durevole era diventato superfluo. Della qualità non fregava
più niente a nessuno: né a Rune, né agli altri vicini e soprattutto a quei deficienti
dei capi di Ove. Oggigiorno non si poteva piantare un chiodo senza consultare
Internet, ma, prima che il mondo fosse invaso dai laptop, le cose si costruivano,
e meglio di adesso. Santo Dio, nel 1889 avevano tirato su la torre Eiffel, e adesso
non sapevano progettare una dannata casa a un piano senza fare una pausa per
ricaricare la batteria del cellulare?
Oggi ogni cosa era già obsoleta prima ancora di venire utilizzata. E nessuno
sapeva più fare niente come si deve. Più Ove si guardava intorno, più gli
sembrava di assistere al trionfo senza riserve della mediocrità.
Nessuno che sapesse più cambiare da sé gli pneumatici. O installare un
miscelatore. Posare delle piastrelle. Stuccare un muro. Compilare la propria
dichiarazione dei redditi. Fare retromarcia con un rimorchio. Erano tutte
competenze che avevano perso la loro rilevanza. Ove ne parlava spesso con
Rune. Ma, poi, Rune si era comprato una BMW .
Si era matti solo perché si credeva che dovessero esserci dei limiti? Ove era
convinto di no.
Non ricordava esattamente come fosse iniziata la faida con Rune.
Semplicemente, era andata avanti e non era stato più possibile ricomporla. Prima
della questione del riscaldamento centralizzato, c’era stata quella dei parcheggi,
degli alberi da abbattere, della neve da spazzare, dei tosaerba, del veleno per topi
nel laghetto di Rune. Per più di trentacinque anni, ogni sera dopo cena erano
usciti ognuno sulla propria veranda e si erano guardati in cagnesco. Poi, un
giorno di qualche anno prima, era finito tutto. Rune si era ammalato e non era
più uscito di casa. Ove non sapeva nemmeno se ce l’avesse ancora, la BMW .
Doveva ammettere che una parte di lui sentiva la mancanza di quel
disgraziato.

Dicono che il cervello lavori più rapidamente, quando sta per spegnersi. Come se
si riuscissero a pensare mille pensieri nella frazione di un secondo. Così, Ove fa
in tempo a pensare a un bel po’ di cose da quando molla un calcio allo sgabello
sotto i suoi piedi a quando cade e, con un enorme schianto, atterra sul pavimento
del soggiorno scalciando rabbiosamente. Dopo, rimane sdraiato sulla schiena
inerme e osserva il gancio, che naturalmente è ancora saldo come una roccia nel
soffitto, per quella che gli sembra un’eternità. Alla fine, fissa scioccato la corda,
che si è spezzata in due lunghi monconi.
Il mondo è proprio andato in malora, pensa Ove, se neanche le corde tengono
più. Possibile che, al giorno d’oggi, nessuno sappia più fare una corda come si
deve? Mentre cerca di rimettersi in piedi, Ove lancia insulti ad alta voce. «Una
semplicissima CORDA, cazzarola. Non un reattore nucleare! Eh?» urla.
«No, ormai la qualità non esiste più» sentenzia Ove, rialzandosi. Si spazzola i
vestiti. Si guarda intorno. Sente le guance scottare, non sa se sia più per la
collera o per la vergogna, e fissa fuori dalla finestra. Le tende sono aperte: lo
avrà visto qualcuno?
È proprio un maledetto classico, pensa, che non ci si possa nemmeno
ammazzare in modo ragionevole. Raccoglie la corda rotta e la butta nella
spazzatura in cucina. Ripiega il telo di plastica e lo ficca in un borsone dell’Ikea.
Mette il trapano e le punte nelle loro cassette e va a riporre tutto nella rimessa.
Si ferma qualche istante a pensare a Sonja, che gli ripeteva in continuazione
di liberare un po’ di spazio, lì dentro. Lui si rifiutava sempre. Sapeva benissimo
che era solo una scusa perché lei potesse andare a comprare altre baggianate, di
cui si sarebbe stufata nel giro di pochi mesi e che gli avrebbe ordinato di metter
via sugli scaffali liberi nella rimessa. Adesso è troppo tardi per sistemare, pensa.
Adesso non c’è più nessuno che voglia andare a comprare baggianate. Adesso
far pulizia creerebbe solo un vuoto enorme. E Ove odia il vuoto.
Ove si ferma davanti al banco da lavoro, prende una chiave inglese e un
piccolo catino di plastica. Esce, chiude a chiave la rimessa, e abbassa la maniglia
tre volte. S’incammina sul vialetto tra le abitazioni, svolta all’ultima cassetta
delle lettere, suona alla porta. Anita apre. Ove la guarda senza dire una parola.
Vede Rune seduto sulla sedia a rotelle in soggiorno, che fissa con sguardo vacuo
fuori dalla finestra. Sembra che non abbia fatto altro, negli ultimi anni.
«Dove sono, ’sti termosifoni?» bofonchia Ove.
Anita fa un sorrisino sorpreso e annuisce, allo stesso tempo disorientata e
ansiosa.
«Oh, Ove, mi faresti davvero un favore se non è troppo dist…»
Ove entra in casa senza farla finire di parlare e senza togliersi le scarpe.
«Sì, sì, sì. Tanto, ormai, questa giornata di merda è rovinata.»
10
Un uomo che si chiamava Ove
e la casa che si era costruito da sé

Una settimana dopo essere diventato maggiorenne, Ove aveva sostenuto l’esame
per la patente, superandolo brillantemente. Poi, aveva risposto a un annuncio sul
giornale e aveva percorso venticinque chilometri a piedi per acquistare la sua
prima Saab. Aveva venduto la vecchia 92 del padre per comprare una 93 azzurra,
usurata e piuttosto malmessa a dire il vero, ma Ove era felice: comprare la sua
prima automobile lo aveva fatto sentire finalmente un uomo adulto. Un uomo
vero.
A quel tempo, nel Paese erano in atto profondi mutamenti. La gente si
trasferiva in città dalle campagne, ogni famiglia si comprava la tv e sui giornali
si cominciava a parlare di “classe media”. Ove non aveva ben capito cosa fosse,
ma era consapevole di non farne parte. La classe media abitava in quartieri
residenziali di villette a un piano, con prati all’inglese accuratamente tosati.
Quartieri simili stavano sorgendo ovunque nelle periferie delle città, compresa
quella di Ove: lo chiamavano “sviluppo territoriale”. La casa dei genitori di Ove,
un tempo sperduta in una terra di nessuno, aveva finito per ostacolare quello
sviluppo. E se c’era qualcosa che la classe media non apprezzava era che si
ostacolasse lo sviluppo.
Ove aveva ricevuto diverse lettere da vari uffici municipali in merito a una
certa “ridefinizione dei confini comunali”. Non gli era ben chiaro il significato di
quell’espressione, ma evidentemente la casa dov’era nato e cresciuto, e dove
ancora viveva, era d’intralcio al nuovo piano regolatore. Il Comune avrebbe
voluto acquistarla, così da poterla demolire e procedere oltre, e lo aveva
comunicato a Ove senza mezzi termini.
Ove non sapeva bene cosa lo aveva spinto a rifiutare. Forse non gli era
piaciuto il tono delle lettere. O forse era stato per rispetto: perché la casa era
tutto quel che gli restava della sua famiglia.
Comunque fosse, quella sera aveva parcheggiato la sua prima auto in
giardino, ed era rimasto seduto dietro il volante per parecchie ore a osservare
casa sua. Non si poteva negare che fosse fatiscente. Il padre era bravo con i
macchinari, ma l’edilizia non era il suo forte. Ove stesso non ne capiva un
granché. Ultimamente, adoperava solo la cucina e la stanzetta antistante, mentre
tutto il primo piano si stava lentamente trasformando in un parco divertimenti
per roditori. Aveva osservato la casa dall’auto, quasi aspettandosi che, prima o
poi, cominciasse a ristrutturarsi da sé. L’edificio si trovava sulla linea di confine
tra due Comuni. Era l’ultima abitazione di un piccolo paese, ormai disabitato,
nei pressi di un bosco, accanto al quale negli ultimi mesi era sorta un’ampia area
di alloggi popolati da uomini con la cravatta e dalle loro famiglie.
Agli incravattati non andavano a genio né quel giovane solitario né la sua
baracca in fondo alla strada. I loro bambini non dovevano giocare attorno alla
casa di Ove. Ove aveva intuito che gli incravattati preferivano vivere vicino ad
altri incravattati. E a lui andava benissimo. Ma era anche vero che erano stati
loro a trasferirsi nella strada di Ove, non il contrario.
Così, per una strana forma di ribellione, che per la prima volta da anni gli
aveva fatto battere il cuore un po’ più rapidamente, Ove aveva deciso di non
vendere la sua casa al Comune. Al contrario, si era messo in testa di
ristrutturarla.
Naturalmente, non aveva la minima idea di come fare. Non sapeva
distinguere una livella da una pignatta. Quindi, dato che con i turni di notte
aveva tutta la giornata libera, aveva fatto visita a un’impresa edile e aveva
chiesto se avrebbero potuto assumerlo. Ove pensava che fosse il posto migliore
per imparare a costruire case, e inoltre non aveva mai bisogno di troppe ore di
sonno. L’unico lavoro che potevano offrirgli, al momento, era come fattorino,
aveva detto il capomastro. Ove aveva accettato.
Di notte puliva i treni sulla linea a sud della città. Tornato a casa, dormiva tre
ore e passava il resto della giornata a galoppare da un’impalcatura all’altra,
ascoltando muratori e geometri che discutevano di tecniche di costruzione. Il
giorno di riposo lo trascorreva, solo e sudato, trascinando avanti e indietro sacchi
di cemento e assi di legno, demolendo pezzo a pezzo e ricostruendo l’unica cosa
che suo padre gli avesse lasciato oltre alla Saab e all’orologio da polso. Si
sarebbe potuto dire che le competenze edilizie di Ove crescevano di pari passo
con i suoi muscoli.
Il capomastro aveva preso in simpatia quel giovane laborioso e, un venerdì
pomeriggio, lo aveva portato con sé fino a un mucchio di legname da
costruzione avanzato: assi segate su misura, che si erano rotte e che sarebbero
finite nell’inceneritore.
«Se per caso mi distraggo un attimo e qualcosa di tuo interesse dovesse
sparire, penserò che tu gli abbia dato fuoco» gli aveva detto il capomastro, e se
ne era andato.
La voce che Ove stava ristrutturando casa sua si era diffusa tra gli operai
dell’impresa edile, e alcuni di loro si erano recati a trovare il ragazzo, incuriositi.
Quando Ove aveva dovuto aprire un varco nella parete del soggiorno, era stato
un muratore robusto con gli incisivi storti a insegnargli a valutare la capacità
portante dei muri, dopo avergli dato dell’idiota per venti minuti di fila. Quando
aveva posato il pavimento della cucina, un suo collega ancora più robusto, a cui
mancava il mignolo di una mano, gli aveva insegnato a effettuare le giuste
misurazioni, dopo averlo chiamato “imbranato” tre dozzine di volte.
Un pomeriggio, alla fine del turno, aveva trovato una piccola cassetta di
attrezzi usati accanto ai propri vestiti. “Al pivello” c’era scritto su un biglietto.
I lavori procedevano lentamente, ma la casa prendeva forma. Vite dopo vite,
asse dopo asse. Naturalmente, nessuno gli aveva mai fatto i complimenti, ma del
resto, che bisogno c’era? Un buon lavoro era una ricompensa sufficiente, diceva
sempre suo padre, e Ove era d’accordo.
Evitava i vicini più che poteva. Sapeva di non essere gradito, e si teneva alla
larga. L’unica eccezione, dovuta a un caso, era rappresentata da un signore
anziano che abitava con la moglie nella casa accanto alla sua. Era l’unico di tutto
il quartiere a non indossare la cravatta, anche se Ove era convinto che da
giovane l’avesse portata.
Dopo la morte del padre, Ove aveva continuato a dar da mangiare agli uccelli
ogni due giorni. Se ne era dimenticato un’unica volta e quando, la mattina
seguente, era uscito per rimediare, c’era mancato poco che si scontrasse con il
signore anziano. Il vecchio aveva in mano del mangime e aveva squadrato Ove
dalla testa ai piedi: sembrava offeso, ma non aveva detto niente. Ove aveva
annuito ed era rientrato in casa. Da quel momento, si era occupato degli uccelli
rispettando la regola dei giorni alterni.
I due non si erano mai parlati. Una mattina, però, quando il vecchio era uscito
sulla veranda, aveva visto Ove intento a dipingere il proprio lato della
staccionata che divideva le due proprietà. Alla fine della mattinata, anche l’altro
lato era stato dipinto. Il vecchio non aveva fatto commenti, ma quando Ove
quella sera era passato davanti alla sua finestra gli aveva indirizzato un cenno di
saluto. Il giorno dopo, fuori dalla porta di Ove era comparsa una torta di mele.
Ove non mangiava una torta di mele fatta in casa da quando era morta sua
mamma.
Ove aveva ricevuto altre lettere dagli uffici municipali. Il tono era sempre più
minaccioso, e i tentativi per convincerlo a vendere il terreno sempre più
pressanti. Ormai Ove gettava via le buste senza nemmeno aprirle. Se volevano la
casa di suo padre, dovevano andare lì e provare a prendersela con la forza,
proprio come anni prima Tom aveva cercato di prendergli il portafoglio.
Qualche giorno più tardi, passando accanto alla casa dei vicini, Ove aveva
visto il vecchio dar da mangiare agli uccelli insieme a un bambino. Doveva
essere il suo nipotino. Li aveva guardati di nascosto dalla finestra della camera
da letto. Il modo in cui l’anziano e il bambino parlavano, come se
condividessero un segreto, gli aveva ricordato qualcosa.
Quella sera, aveva mangiato nella Saab.
Il giorno in cui aveva piantato l’ultimo chiodo e aveva terminato di
ristrutturare la casa, Ove si era fermato orgoglioso a osservarla dal giardino, con
le mani affondate nelle tasche dei pantaloni blu.
Aveva scoperto che le case gli piacevano. Forse perché erano così facili da
capire. Si potevano misurare e disegnare su carta. I tubi perdevano se non li
isolavi correttamente, i muri cedevano se non li rendevi stabili. Le case erano
oneste: ti davano ciò che ti meritavi. Il che, purtroppo, non si poteva sempre dire
delle persone.

Erano passati i giorni, e le settimane. Ove andava al lavoro, tornava a casa,


mangiava salsiccia e patate. Non si sentiva mai davvero solo, anche se non aveva
nessuno che gli tenesse compagnia. Una domenica in cui, come al solito, Ove
stava trafficando con la sua cassetta degli attrezzi, in giardino si era
materializzato un signore allegro con la faccia rotonda e un completo azzurro un
po’ troppo stretto. Aveva la fronte imperlata di sudore e aveva chiesto a Ove se
potesse dargli un bicchiere d’acqua. Ove lo aveva accontentato e, mentre quello
si dissetava, avevano scambiato due chiacchiere. O meglio, era stato soprattutto
l’uomo con la faccia rotonda a parlare. A quanto pareva, stava anche lui
ristrutturando casa sua, in un’altra parte della città. Nel giro di pochi minuti, era
riuscito a farsi invitare nella cucina di Ove per un caffè. Naturalmente, Ove non
era abituato a quel genere di sfrontatezza, ma dopo un paio d’ore trascorse a
chiacchierare di edilizia e tecniche di costruzione, aveva dovuto ammettere che
non era del tutto sgradevole avere un po’ di compagnia, per una volta.
Poco prima di andarsene, l’uomo gli aveva domandato quasi di sfuggita come
avesse assicurato l’abitazione. Ove gli aveva detto la verità, e cioè che non ci
aveva mai pensato. Suo padre non era mai stato un amante delle assicurazioni.
L’uomo con la faccia rotonda aveva assunto un’espressione perplessa e aveva
dichiarato che, se fosse accaduto qualcosa alla sua baracca, per lui sarebbe stata
una catastrofe. Dopo alcune esortazioni, Ove non aveva potuto fare altro che
dargli ragione. Non aveva mai pensato seriamente alla faccenda e per questo, in
effetti, si era sentito uno sciocco.
L’uomo con la faccia rotonda gli aveva domandato se poteva fare una
telefonata e Ove lo aveva accompagnato volentieri fino all’apparecchio
nell’ingresso. Grato per l’ospitalità ricevuta in una calda giornata estiva, l’uomo
aveva rivelato di aver trovato un modo per ricambiare la gentilezza. Lui lavorava
per una compagnia di assicurazioni e, con quella telefonata, era riuscito a
strappare un prezzo straordinario per far sottoscrivere a Ove una polizza.
Sulle prime, Ove si era mostrato scettico e aveva tentato di giocare al ribasso.
«Sei un vero uomo d’affari» gli aveva detto l’uomo con la faccia rotonda,
senza nascondere la sua ammirazione.
Udendo quelle parole, Ove si era sentito più fiero di quanto si fosse aspettato.
L’uomo con la faccia rotonda gli aveva dato un biglietto da visita con il suo
numero di telefono, gli aveva detto che era stato un piacere e che sarebbe tornato
volentieri a trovarlo per un caffè e due chiacchiere. Era la prima volta che
qualcuno esprimeva il desiderio di fare due chiacchiere con Ove.
Ove lo aveva pagato in contanti, assicurando casa sua per un anno. I due si
erano stretti la mano.
L’uomo con la faccia rotonda non si era più fatto vivo. Una volta Ove aveva
cercato di telefonargli, senza ottenere risposta. Aveva avvertito una punta di
delusione, ma aveva deciso di non pensarci più. Quando lo aveva chiamato un
altro agente di un’altra compagnia assicurativa, Ove aveva almeno potuto dire
con la coscienza a posto di avere già un’assicurazione. Ed era pur sempre
qualcosa.
Ove aveva continuato a evitare i suoi vicini. Non voleva certo cercare grane.
Piuttosto, sembrava che le grane avessero deciso di cercare Ove, suo malgrado.
Alcune settimane dopo il completamento dei lavori a casa di Ove, uno degli
uomini con la cravatta aveva subìto un furto con scasso. Era il secondo nel giro
di poco tempo, nella zona. Poco più tardi, gli incravattati avevano organizzato
una riunione, nella quale avevano convenuto che quel farabutto nella sua
catapecchia alla fine della strada fosse il sospettato numero uno. Non capivano
dove avesse preso i soldi per tutti i suoi interventi di ristrutturazione. Quella
sera, sotto la porta d’ingresso di Ove qualcuno aveva infilato un biglietto con
scritto: “Vattene, se ci tieni alla pelle!”. La notte seguente gli avevano lanciato
un sasso contro la finestra, spaccando il vetro. Ove l’aveva sostituito. Non aveva
mai affrontato gli incravattati: non ne vedeva l’utilità. Ma nemmeno aveva
intenzione di andarsene.
La mattina dopo, si era svegliato di buon’ora sentendo puzza di bruciato.

Era balzato su dal letto con un movimento fulmineo. La prima cosa che aveva
pensato era stata che, evidentemente, chi gli aveva lanciato il sasso non si era
ritenuto soddisfatto. Mentre scendeva le scale, aveva agguantato d’istinto un
martello. Ove non era certo un violento, ma non si sapeva mai, si era detto tra sé.
Quando era uscito sulla veranda indossava solo le mutande. I lavori pesanti
che aveva fatto negli ultimi mesi lo avevano trasformato in un giovanotto che,
come minimo, si sarebbe potuto definire muscoloso. Alla vista di quel ragazzo a
torso nudo e con un martello in pugno, i vicini, che si erano radunati in un
drappello sulla strada per osservare l’incendio, erano indietreggiati di alcuni
passi, in allerta.
Allora Ove si era reso conto che a bruciare non era casa sua, ma quella del
suo vicino, il signore anziano che dava da mangiare agli uccelli, la cui sagoma
era emersa di lì a poco dal fumo. La moglie si reggeva al suo braccio e tossiva.
Quando il vecchio l’aveva lasciata e si era voltato, avanzando di nuovo verso le
fiamme, in tanti tra la folla gli avevano urlato di lasciar perdere. «È troppo tardi!
Aspetti i pompieri!» avevano gridato. Il vecchio non li aveva ascoltati. Quando
aveva cercato di introdursi nella sua abitazione, alcuni detriti infuocati erano
caduti dal primo piano, ostruendo l’ingresso.
Ove aveva valutato la situazione per alcuni lunghi istanti. Era in piedi nel suo
giardino, controvento, e si era accorto che alcune faville avevano intaccato qua e
là l’erba secca tra casa sua e quella del vicino. Nel giro di pochi minuti,
l’incendio si sarebbe certamente propagato in quella direzione: bisognava
correre subito a prendere la canna dell’acqua. Aveva visto che il vecchio tentava
invano di spostare i detriti infuocati e di entrare in casa. Gli incravattati avevano
urlato nuovamente il suo nome, cercando di convincerlo a desistere, ma la
moglie del vecchio invocava un altro nome.
Quello del nipotino.
Ove aveva ondeggiato avanti e indietro sui calcagni. Aveva osservato le
fiamme che serpeggiavano nell’erba. Sinceramente, non aveva pensato molto a
quel che avrebbe dovuto fare. Piuttosto, si era chiesto cos’avrebbe fatto suo
padre. E appena se lo era domandato, non aveva più avuto dubbi.
Ove aveva guardato la sua casa un’ultima volta, borbottando qualcosa, e
aveva contato le ore che gli erano occorse per rimetterla in sesto. Poi, aveva
scavalcato la staccionata e si era fiondato nel fuoco.
L’abitazione del vicino era satura di un fumo così denso e vischioso che gli
era sembrato di ricevere una badilata in faccia. Il vecchio stava lottando per
sollevare una libreria che sbarrava l’accesso alla camera di suo nipote. Ove
l’aveva spinta via come se fosse fatta di carta, ed era avanzato rapido. Quando
erano usciti di nuovo alla luce dell’alba, il vecchio reggeva tra le braccia il
bambino ricoperto di fuliggine, e Ove aveva lunghi graffi sanguinanti sul petto e
sulle braccia.
La gente sulla strada correva di qua e di là, strillando. Poco più tardi, il suono
delle sirene aveva riempito l’aria, ed erano stati circondati dai pompieri.
Ancora in mutande e con i polmoni dolenti, Ove aveva visto le prime fiamme
intaccare la veranda di casa sua. Si era precipitato sul prato, ma era stato
allontanato in malo modo da una schiera di uomini in divisa. Di colpo erano
ovunque e gli avevano impedito di avvicinarsi alla sua abitazione.
Un uomo con la camicia bianca si era piantato davanti a lui a gambe larghe e
gli aveva spiegato che non potevano consentirgli di spegnere l’incendio per
conto suo: era troppo pericoloso. Purtroppo, aveva aggiunto, nemmeno i
pompieri erano autorizzati a spegnerlo prima di avere ottenuto i permessi
necessari dalle autorità.
Poiché la casa di Ove si trovava sul confine esatto tra due Comuni, era
indispensabile ricevere chiare indicazioni via radio da chi di dovere, prima di
poter procedere.
«Le regole sono regole» aveva dichiarato l’uomo con la camicia bianca
inespressivo, quando Ove aveva protestato.
Ove aveva dato uno strattone all’uomo ed era corso affannosamente verso la
canna dell’acqua. Invano: il fuoco lo aveva preceduto. Quando finalmente i
pompieri avevano ricevuto le indicazioni necessarie per iniziare le operazioni di
spegnimento, la casa era già completamente avvolta dalle fiamme.
Ove si era fermato in giardino e l’aveva osservata bruciare, abbattuto.
Qualche ora dopo, era entrato in una cabina telefonica per chiamare la
compagnia assicurativa, e aveva scoperto che non avevano idea di chi fosse
l’uomo allegro con la faccia rotonda. Nessuna polizza sulla casa era stata
registrata a nome di Ove. L’impiegata aveva sospirato.
«Ce ne sono tanti di truffatori che bussano di porta in porta. Spero almeno che
lei non lo abbia pagato in contanti!»
Ove aveva riattaccato, e aveva stretto forte i pugni nelle tasche.
11
Un uomo che si chiama Ove
e un imbranato che non sa aprire
una finestra senza cadere da una scala

Sono le sei meno un quarto e la prima vera nevicata ha avvolto come un manto
freddo l’intera area residenziale addormentata. Ove prende la giacca blu
dall’appendiabiti, esce per la sua ispezione quotidiana e, con sorpresa mista a
disappunto, trova il gatto che staziona davanti alla sua porta. Sembra proprio che
sia rimasto lì tutta la notte.
Ove richiude la porta con particolare impeto, apposta per spaventarlo.
Evidentemente, però, l’animale non ha cervello a sufficienza per battersela, e
resta al suo posto sulla neve, leccandosi la pancia. Che arrogante. A Ove non
piace affatto l’arroganza: non gli piace negli esseri umani, figurarsi in un gatto.
Ove scuote il capo e gli si piazza di fronte a gambe larghe, come per chiedergli:
“E adesso, come la mettiamo?”. Il gatto solleva senza troppo impegno la testa e
lo fissa, impavido. Ove gli fa segno di allontanarsi. Il gatto non si muove.
«Questa è proprietà privata!» grida Ove.
Quando vede che il gatto non accenna ad andarsene, Ove perde la pazienza e
gli lancia contro uno dei suoi zoccoli di legno. Non sa bene cosa lo abbia spinto
a farlo; sua moglie se la sarebbe presa a morte per un gesto del genere. Ma che
importa?
Il gatto, comunque, non reagisce. Lo zoccolo lo manca di un buon metro e
mezzo e finisce contro la parete della rimessa, rimbalzando piano e adagiandosi
nella neve. Il gatto guarda indifferente prima lo zoccolo, poi Ove. Non sembra
granché intimidito. Poco dopo si alza, si avvia con nonchalance verso la rimessa
e scompare dietro l’angolo.
Ove va a riprendersi lo zoccolo, camminando con un piede scalzo sulla neve,
e lo fissa come se dovesse vergognarsi per non aver centrato il bersaglio. Poi si
ricompone e inizia il suo giro. Solo perché oggi morirà, non c’è bisogno di
lasciare campo libero ai vandali.
Abbassa le maniglie dei garage, dà calci ai cartelli, annota i numeri di targa
delle auto nel parcheggio degli ospiti e controlla il locale della raccolta
differenziata.
Torna a casa arrancando nella neve ed entra nella rimessa. C’è odore di
acquaragia e muffa, come in ogni rimessa che si rispetti. Scavalca gli pneumatici
estivi della Saab e i barattoli delle viti miste. Si spinge fino al banco da lavoro,
facendo attenzione a non rovesciare i secchi di vernice. Sposta le sedie da
giardino e la griglia del barbecue, e stacca il badile dal gancio. Lo soppesa un po’
in silenzio, come si potrebbe fare con una spada.
L’unica cosa che riesce a pensare è che la vita non doveva prendere quella
piega. Si lavora sodo, ci si comporta bene, si risparmia. Ci si compra la prima
Saab. Ci si fa un’educazione, si prende il diploma, si fa un colloquio, si ottiene
un lavoro onesto, si ringrazia, non ci si ammala mai, si pagano le tasse. Si fa il
proprio dovere. Si incontra una donna, la si sposa, si continua a lavorare sodo, si
ottiene una promozione. Ci si compra una Saab ultimo modello. Si va in banca,
si accende un mutuo da ripagare in cinque anni, ci si compra una villetta a
schiera che la moglie ritiene adatta per crescerci i figli. Si saldano i debiti. Si
risparmia. Ci si compra una nuova Saab. Si va in vacanza in posti dove, nei
ristoranti, suonano musica straniera e servono vino rosso sfuso, che la moglie
trova esotico. Poi si torna a casa e al lavoro. Ci si prende le proprie
responsabilità. Ci si comporta bene. Si fa il proprio dovere.
Pian piano, si mette assieme una cassetta degli attrezzi di tutto rispetto. Si
monta un banco da lavoro nella rimessa. Si sostituiscono le grondaie. Si rifà
l’intonaco. Si ridipingono gli infissi. Si sostituiscono le mattonelle in giardino
una volta ogni due anni, che ce ne sia bisogno o meno. Si fanno tutte queste
cose, per finire a oliare il ripiano della cucina di martedì mattina. Ma che senso
ha?
Quando Ove esce dalla rimessa con il badile in mano, il gatto è di nuovo sulla
neve davanti a casa sua. Ove gli punta gli occhi addosso, sinceramente sbigottito
dalla sua sfrontatezza. Che disgraziato. Dalla pelliccia, o meglio, da quel che
gliene rimane, gocciola della neve sciolta. Ove nota che, sul muso, ha una lunga
cicatrice che corre da un occhio al naso. Se è vero che i gatti hanno sette vite,
questo qui deve averne già bruciate cinque o sei.
«Vattene» esclama Ove.
Il gatto lo scruta a lungo, come se si trovasse dalla parte della scrivania di chi
decide durante un colloquio di lavoro.
Ove impugna il badile e gli lancia addosso un mucchietto di neve. Il gatto si
fa da parte e lo guarda indignato. Sputa un po’ di neve. Soffia. Poi si allontana di
nuovo, sparendo dietro l’angolo della rimessa.
Ove si mette all’opera.
Ci mette quindici minuti esatti a liberare la superficie di mattonelle tra la casa
e la rimessa. Lo fa con estrema cura: linee dritte, angoli retti. Ormai, nessuno
spala più la neve come si deve. Al giorno d’oggi, ci si limita a sgombrare la
strada con quei soffiatori e tutti quegli altri congegni assurdi. La gente, ormai,
spala la neve a caso, avanzando come un rullo compressore. Sembra che nella
vita conti solo questo: farsi strada.
Quando ha finito, Ove si appoggia al badile e guarda sorgere il sole
all’orizzonte, oltre le case addormentate. È rimasto sveglio gran parte della notte
a riflettere su come fare per morire in santa pace. Ha persino fatto una lista,
elencando una serie di alternative. Dopo un’accurata valutazione dei pro e dei
contro, ha scelto l’opzione che gli è apparsa più semplice. Certo non gli piace
l’idea che la Saab resti accesa e consumi litri di benzina per niente, dopo che lui
sarà morto, ma se vuole riuscire nel suo intento dovrà accettarlo, tutto qui.
Rimette a posto il badile nella rimessa, rientra in casa e indossa il completo
blu. Finirà per essere tutto sgualcito e per avere un pessimo odore. La moglie di
Ove andrà su tutte le furie, quando lo vedrà arrivare.
Ove beve il caffè, ascoltando la radio. Lava la tazza e asciuga il ripiano della
cucina. Poi va a spegnere tutte le luci e i radiatori. Controlla che la macchina del
caffè abbia la spina staccata. S’infila la giacca e gli zoccoli, e torna nella
rimessa. Ne esce con in mano un lungo tubo di plastica arrotolato. Chiude a
chiave la porta della rimessa e quella di casa, abbassando tre volte la maniglia
come suo solito, e s’incammina sul vialetto tra le abitazioni.
Una Škoda bianca arriva da sinistra e lo coglie talmente di sorpresa che, per
poco, Ove non piomba sul cumulo di neve accanto alla rimessa. Tornato in sé,
Ove minaccia il conducente alzando il pugno in aria.
«Imbecille, non sai leggere?» sbraita.
L’uomo alla guida, un tizio esile con la sigaretta in mano, deve per forza
averlo sentito, ma non fa una piega. Quando la Škoda svolta all’altezza del
deposito delle biciclette, l’uomo incrocia lo sguardo di Ove: lo fissa dritto negli
occhi, abbassa il finestrino, e solleva le sopracciglia con fare sprezzante.
«Il transito è vietato nell’area abitata!» ribadisce Ove, indicando il cartello e
correndo dietro alla Škoda con i pugni serrati.
L’uomo allunga il braccio sinistro fuori dal finestrino e, senza nessuna
premura, fa cadere la cenere della sigaretta. I suoi occhi azzurri mostrano
un’indifferenza totale. Osserva Ove come se davanti avesse non una persona, ma
un animale in gabbia: come se Ove fosse una macchia da rimuovere con uno
straccio leggermente inumidito.
«Leggi il cart…» strepita Ove e sta per raggiungerlo quando l’uomo, il cui
sguardo rimane del tutto inespressivo, rialza il finestrino e riparte.
Ove gli urla dietro, ma quello lo ignora. Fila via verso i garage e, poi, si
immette con calma sulla strada principale, come se i gestacci di Ove non lo
infastidissero minimamente.

Ove rimane immobile: gli tremano le mani dalla rabbia. Appena la Škoda si
dilegua, si volta e procede tra le abitazioni con tale foga che per poco non
scivola. Sulla neve davanti alla villetta di Rune e Anita, ci sono due mozziconi.
Ove li raccoglie quasi fossero prove schiaccianti nell’indagine su un omicidio, e
se li infila in tasca.
«Ciao, Ove» lo saluta con cautela Anita, alle sue spalle.
Ove si volta verso di lei. È sulla soglia, avvolta in un cardigan grigio così
largo che la fa sembrare un sacco della raccolta differenziata.
«Sì, ciao» risponde Ove.
«Era del Comune» dice lei, con lo sguardo rivolto al punto in cui è scomparsa
la Škoda bianca.
«Il transito è vietato nell’area abitata. Possibile che nessuno lo capisca?»
ribadisce Ove.
Lei annuisce.
«Dice che hanno l’autorizzazione.»
«Non hanno un caz…» esclama Ove, ma si blocca di colpo e stringe i denti.
Ad Anita tremolano le labbra.
«Vogliono portarmi via Rune» lo informa.
Ove fa un cenno con il capo, e rimane in silenzio. Ha il tubo di plastica in una
mano; l’altra è conficcata in tasca. Per un breve istante riflette se sia il caso di
dire qualcosa, ma poi abbassa gli occhi, gira i tacchi e se ne va. Dopo aver
percorso alcuni metri, si rende conto che deve liberarsi dei mozziconi di
sigaretta, se non vuole portarseli dietro nella tomba.
Sul tragitto verso casa, incontra l’oca bionda e il suo cane ciabatta, che
naturalmente, non appena vede Ove, comincia a latrare. La porta della loro casa
è spalancata. Ove presume che stiano aspettando quell’Anders. La ciabatta ha
dei ciuffi di pelliccia agli angoli della bocca. L’oca bionda sogghigna soddisfatta.
Mentre le passa accanto, Ove la fissa negli occhi e lei non distoglie lo sguardo.
Anzi, allarga ancora di più le labbra, come se ridesse di lui.
Ove passa tra la sua casa e quella dei vicini. L’imbranato è sulla soglia.
«Salve, Ove!» gli grida.
Ove vede la sua scala appoggiata precariamente alla facciata della villetta.
L’imbranato sorride con un’espressione ebete. A quanto pare si è svegliato
presto, stamattina. Presto per un consulente informatico, s’intende. Ove vede che
ha in mano un coltello: probabilmente, ha intenzione di adoperarlo per far leva
sulla finestra bloccata del primo piano. La scala di Ove, su cui l’imbranato si
accinge a salire, è piantata, storta, su un grosso cumulo di neve ghiacciata.
«Buona giornata!» esclama allegro l’imbranato, appena Ove lo supera.
«Sì, sì. Come no» risponde Ove senza voltarsi.
La ciabatta abbaia furiosamente davanti alla casa dei suoi padroni. Con la
coda dell’occhio, Ove nota che l’oca bionda continua a ridere beffarda nella sua
direzione. Questo lo disturba. Non sa bene perché, ma lo disturba fin nel
midollo.
Mentre percorre la strada, costeggiando il deposito delle biciclette in
direzione del parcheggio, cerca il gatto, ma non lo vede da nessuna parte, e deve
ammettere che un po’ gli dispiace.

Apre la porta del garage e la Saab, infilando come sempre la chiave nella
serratura della portiera. Dopodiché rimane in piedi al buio, con le mani
sprofondate nelle tasche dei pantaloni, per più di mezz’ora. Non sa esattamente
perché, ma sente che l’atto che sta per compiere esige di venir ponderato in
silenzio e con una certa solennità.
È inevitabile che la vernice della Saab si sporchi un po’, riflette. È un peccato,
ma che cosa può farci? Sferra qualche calcio alle gomme, per testarne la solidità.
Buone almeno per altri tre inverni, constata soddisfatto. Di colpo, gli torna in
mente la lettera che ha nella tasca interna della giacca e la estrae, per accertarsi
che si sia ricordato di dare istruzioni sugli pneumatici estivi. Sì, se ne è
ricordato. Alla voce Saab + accessori ha annotato “Pneumatici estivi nella
rimessa”, dando istruzioni così chiare che le capirebbe anche un imbecille, e
spiegando che i bulloni dei cerchioni si trovano nel bagagliaio. Ove ripone la
lettera nella busta, e la infila di nuovo nella tasca interna della giacca.
Lancia un’occhiata verso il parcheggio e pensa al gatto spelacchiato. Non che
gli interessi il suo destino: spera solo che non gli sia capitato nulla, altrimenti sua
moglie ne farà un dramma, si capisce. Non vuol essere rimproverato per via di
quel rompiscatole. Tutto qui.
Ove sente il suono della sirena di un’ambulanza che si avvicina, ma non ci fa
troppo caso. Si siede al volante e mette in moto. Preme l’alzacristallo del vetro
posteriore e lo abbassa di cinque centimetri. Scende dalla macchina. Chiude la
porta del garage. Fissa il tubo di plastica all’estremità di quello di scappamento.
Vede fuoriuscire lentamente il fumo dall’altro capo del tubo. Lo infila nel
finestrino abbassato. Si siede in macchina. Chiude la portiera. Raddrizza gli
specchietti. Ruota la manopola della radio di mezzo giro in avanti e mezzo
indietro. Appoggia la nuca al poggiatesta. Chiude gli occhi. Annusa il gas di
scarico che, centimetro cubo dopo centimetro cubo, riempie il garage e i suoi
polmoni.
La vita non doveva prendere quella piega. Si lavora, si saldano i debiti, si
pagano le tasse, si fa il proprio dovere. Ci si sposa, nella buona e nella cattiva
sorte, finché morte non ci separi. Non era quello, l’accordo? Ove se lo ricorda
bene. Ed ecco che la morte li ha separati, ma francamente Ove non si aspettava
che morisse prima lei.
Ove sente dei colpi alla porta del garage. Li ignora. Raddrizza la piega dei
pantaloni. Si osserva nello specchietto retrovisore. Pensa che, forse, avrebbe
dovuto mettersi la cravatta. A Sonja piaceva molto, quando la indossava. Lo
guardava come se fosse l’uomo più elegante della Terra. Chissà come lo
guarderà, ora. Se si vergognerà che sia andato da lei con un completo tutto
sgualcito, e per giunta senza lavoro. Se lo giudicherà uno stupido: uno che si è
lasciato liquidare come un pivello, solo perché le sue competenze sono diventate
obsolete a causa di qualche computer. Se lo guarderà ancora come faceva prima,
continuando a considerarlo una persona affidabile. Uno che sapeva prendersi le
proprie responsabilità, e riparare uno scaldabagno, se necessario. Se continuerà a
piacerle, adesso che è solo un vecchio privo di qualsiasi funzione.
Fuori picchiano di nuovo come forsennati. Ove fissa la porta nello
specchietto, seccato. Altri colpi. Ove pensa che ne ha davvero abbastanza.
«Ne ho abbastanza!» sbraita, aprendo la portiera della Saab con tale violenza
che il tubo di plastica scivola fuori dall’auto e cade con un tonfo sul pavimento
di cemento.
Il gas si diffonde ovunque.

Evidentemente, la straniera incinta non ha ancora imparato che è meglio non


stare attaccati a una porta, se dall’altra parte c’è Ove. E così si prende la porta
del garage dritta sul naso, quando Ove la apre di scatto, come per liberare una
corda che si è impigliata in una recinzione.
Ove la vede e si immobilizza. Lei si copre il naso con entrambe le mani e lo
fissa con il preciso sguardo di chi abbia appena ricevuto la porta di un garage sul
naso. La spessa nuvola di gas inizia a dissiparsi, ma il garage rimane avvolto in
una nebbiolina viscosa e puzzolente.
«Ma porc… Cazzarola, devi fare più attenzione quando sei vicino a una
porta!» sbotta Ove.
«Che cosa stai facendo, Ove?» lo incalza Parvaneh, osservando perplessa la
Saab con il motore acceso, e il tubo di plastica che vomita gas di scarico sul
pavimento.
«Io… Mah, niente» borbotta Ove con l’aria di chi vorrebbe soltanto
richiudere la porta del garage e continuare a farsi gli affari propri.
Dalle narici della donna comincia a sgorgare il sangue. Parvaneh tiene una
mano sul viso e agita l’altra verso di lui.
«Ho bisogno di un passaggio fino all’ospedale» dice, reclinando la testa
all’indietro.
Ove pare scettico.
«No, senti, datti una calmata! È solo un po’ di sangue dal naso.»
La straniera impreca in quello che Ove immagina sia persiano e stringe forte
la punta del naso tra pollice e indice. Poi scuote la testa con impazienza facendo
gocciolare il sangue sulla giacca.
«Non per il sangue dal naso!»
Ove è quasi imbarazzato. Non sa cosa dire, e si ficca le mani in tasca.
«Ah, no? Be’… E per cosa, allora?»
Lei geme.
«Patrick è caduto dalla scala» spiega, con il mento in aria.
«Chi è Patrick?» chiede Ove al mento.
«Mio marito» risponde il mento.
«L’imbranato?» domanda Ove.
«Proprio lui» ribatte pronto il mento.
«Dunque, è caduto dalla scala?» ripete Ove, per sicurezza.
«Sì. Cercava di aprire la finestra, e ha perso l’equilibrio.»
«Ah. Eh… c’era da aspettarselo, porco cane, si vedeva lontano un miglio
che…»
Il mento si abbassa e la donna spalanca gli enormi occhi scuri. Sembra
alquanto infastidita.
«Dobbiamo discutere ancora a lungo?»
Ove si gratta la testa, perplesso.
«No, no… Ma non puoi andarci da sola, all’ospedale? Con quel catorcio
giapponese che avete?» protesta.
«Non ho la patente» risponde lei, asciugandosi il sangue colato sul labbro.
«Come, non hai la patente?» chiede Ove, quasi che non riuscisse a concepire
una cosa del genere.
La straniera sospira con impazienza.
«Non ho la patente, e basta. Qual è il problema?»
«Ma quanti anni hai?» le domanda Ove, esterrefatto.
«Trenta» risponde lei, esasperata.
«TRENTA! E non hai la patente!? Cos’è, hai dei problemi? Eh?»
Lei emette un suono lamentoso, tenendosi una mano sul naso mentre, con
l’altra, schiocca rapida le dita davanti a Ove.
«Ove, ascoltami, ti prego! L’ospedale. Devi portarci in ospedale!»
Ove pare offeso.
«“Portarci”!? Puoi sempre chiamare un’ambulanza, se tuo marito non è in
grado di aprire una finestra senza cadere da una scala…»
«L’ho già fatto! L’hanno già portato in ospedale, ma sull’ambulanza non c’era
posto per me e le bambine. E, con questa neve, non si trovano taxi liberi in città
e gli autobus sono tutti imbottigliati nel traffico!»
Il sangue le riga una guancia. Ove digrigna i denti.
«Va’ a fidarti degli autobus. Gli autisti dei mezzi pubblici sono un branco di
ubriaconi, non lo sapevi?» mormora a testa bassa, quasi cercando di nascondersi
nel colletto della camicia.
La straniera annuisce pensosa, come se la faccenda la riguardasse solo fino a
un certo punto.
«Ecco. Ragion per cui devi portarci tu.»
Ove le punta contro l’indice, ma in maniera non troppo convinta. Quella
donna ha il potere di metterlo in soggezione.
«Io non “devo” un bel niente. Per chi mi hai preso? Non sono mica il servizio
trasporto disabili!» prorompe.
Lei si limita a stringersi il naso tra il pollice e l’indice; sembra che non abbia
ascoltato una sola parola di quello che Ove ha appena detto. Agita la mano libera
con stizza, indicando il tubo di plastica per terra, da cui trabocca una nuvola di
fumo sempre più densa.
«Ove, non c’è tempo di polemizzare, dài. Finisci quel che stavi facendo, e
andiamo. Vado a prendere le bambine.»
«Quali BAMBINE???» le grida dietro Ove, senza ottenere risposta.
Parvaneh ha già girato l’angolo, in direzione del deposito delle biciclette e
delle villette.
Ove resta come imbambolato, con la frase che intendeva pronunciare troncata
a metà in gola. Affonda i pugni in tasca e lancia un’occhiata al tubo sul
pavimento del garage. Che colpa ne ha lui, pensa, se la gente non è in grado di
salire su una scala senza combinare guai?
Una parte di lui, tuttavia, s’immagina cos’avrebbe detto Sonja in una
situazione del genere.
Così, alla fine, Ove stacca il tubo di plastica dallo scappamento con la punta
della scarpa. Sale sulla Saab. Controlla gli specchietti. Inserisce la retro e scivola
fuori nel parcheggio. Non che gli interessi davvero di aiutare la straniera incinta
a recarsi all’ospedale. Ma Ove sa bene che, se l’ultima cosa che farà da vivo sarà
provocare un’emorragia a una donna incinta e poi lasciare che vada in ospedale
da sola in autobus, dovrà sciropparsi una dannata ramanzina da sua moglie.
E dato che di benzina, per andare all’altro mondo, ne consumerà comunque
parecchia, può anche andare e tornare dall’ospedale. “E, poi, speriamo che
questa rompiscatole mi lasci in pace” pensa.

Ma ha il presentimento che non succederà.


12
Un uomo che si chiamava Ove
e il giorno che ne ha avuto abbastanza

La gente diceva che Ove e sua moglie erano come il giorno e la notte.
Intendendo che lui fosse la notte, era ovvio. A Ove la cosa dava un po’ fastidio.
Sonja, invece, se la rideva e, strizzando l’occhio, ribatteva che in effetti il
ragionamento non faceva una piega, se non altro perché di notte si risparmiava
energia elettrica.
Ove non aveva davvero mai capito per quale motivo Sonja lo avesse scelto.
Lei amava le cose astratte, come la musica, i libri e le parole strane. Ove era un
uomo concreto: gli piacevano i cacciaviti e i filtri dell’olio. Lui viveva con le
mani ficcate in tasca; a lei piaceva andare a ballare.
«Basta un solo raggio di sole per scacciare le ombre» gli aveva detto una
volta, quando lui le aveva chiesto perché dovesse per forza essere sempre così
allegra.
Lo aveva letto in un libro di un frate italiano che si chiamava Francesco,
aveva aggiunto.
«Tu non m’inganni, tesoro» aveva proseguito con un sorrisino ironico,
accoccolandosi contro il suo petto. «Ove, a te piace danzare, quando nessuno ti
vede. E io ti amerò sempre, per questo. Che tu lo voglia o no.»
Ove non aveva mai compreso esattamente cosa volesse dire. Non era mai
stato un amante della danza. Gli sembrava un’attività troppo confusionaria, e a
lui piacevano le cose precise: le linee diritte e le informazioni esatte. Era per
questo che, a scuola, aveva sempre amato la matematica. Perché offriva risposte
giuste e sbagliate, punto. Non come le altre materie, in cui gli alunni erano
incoraggiati a “esprimere le proprie opinioni”. Come se fosse un modo per
risolvere i problemi. Ove preferiva di gran lunga far di calcolo. Lì, quel che era
giusto era giusto, e quel che era sbagliato, sbagliato.
Sapeva benissimo che c’era chi lo considerava solo un vecchio brontolone
che non si fidava mai di nessuno. Ma il non fidarsi dipendeva esclusivamente dal
fatto che nessuno gli aveva mai dato motivo per fare il contrario.
Perché nella vita di ogni uomo c’è sempre un momento in cui si decide che
genere di persona si è. C’è chi si lascia calpestare, e chi no. Punto.
Le notti dopo l’incendio, Ove aveva dormito nella Saab. Il primo giorno,
aveva cercato di rimuovere la cenere e le macerie con le proprie mani. La
mattina del secondo giorno, aveva dovuto prendere atto che non ci sarebbe mai
riuscito. La casa era perduta, insieme a tutti i lavori di ristrutturazione che aveva
fatto.
La mattina del terzo giorno, aveva visto arrivare due uomini che indossavano
la stessa camicia bianca del capo dei pompieri. Si erano fermati accanto alla
staccionata, del tutto indifferenti al disastro che avevano davanti. Si erano
presentati non con il loro nome, ma con quello dell’istituzione che
rappresentavano. Come se fossero dei robot, spediti in avanscoperta da una nave
ammiraglia.
«Le abbiamo inviato delle lettere» aveva detto la prima camicia bianca,
tendendogli una pila di documenti.
«Molte lettere» aveva precisato la seconda camicia bianca, annotando
qualcosa su un blocco.
«Lei non ci ha mai risposto» aveva continuato la prima camicia, come se
stesse rimproverando un cane.
Ove era rimasto fermo a gambe larghe di fronte a loro, senza rispondere.
«Una vera disgrazia» aveva detto la seconda camicia bianca, con un rapido
gesto verso quella che era stata la casa di Ove.
Ove non aveva potuto fare altro che annuire.
«L’inchiesta sostiene che si è trattato di un innocuo guasto elettrico» aveva
spiegato la prima camicia, indicando un foglio che aveva in mano.
Ove avrebbe avuto qualcosa da ridire sulla scelta dell’aggettivo “innocuo”,
ma era rimasto zitto.
«Come già detto, le abbiamo mandato delle lettere» aveva ribadito la seconda
camicia, minacciandolo con il blocco.
Ove aveva continuato ad annuire.
«I confini del Comune verranno ridefiniti» aveva proseguito la seconda
camicia bianca.
«L’area dove sorge la sua casa è destinata ad altre costruzioni» aveva detto la
prima camicia, lanciando un’occhiata alle villette degli incravattati.
«Be’… dove sorgeva la sua casa» lo aveva corretto la seconda camicia.
«Il Comune è disposto a riscattare la sua proprietà al valore di mercato»
aveva comunicato la prima camicia bianca.
«Cioè… al valore di mercato attuale, dato che sull’area non esiste più una
casa» aveva chiarito la seconda camicia.
Ove aveva afferrato le carte che gli porgevano, e le aveva scorse velocemente.
«Non ha molta scelta» aveva detto la prima camicia.
«Tra l’altro, la decisione non spetta a lei, bensì al Comune» aveva specificato
la seconda camicia.
La prima camicia aveva picchiettato con impazienza la penna sui documenti.
Ove aveva fissato l’uomo dritto negli occhi. Quello aveva indicato una riga in
calce: c’era stampato “firma”.
Ove aveva continuato a leggere le carte in silenzio. Gli doleva il petto. Gli ci
era voluto un lungo, lungo istante per capire di cosa si trattava.
Era odio.
Odiava gli uomini con le camicie bianche. Non riusciva a ricordare di aver
mai odiato nessuno in vita sua, ma adesso gli sembrava di avere una palla
infuocata al posto del cuore. In quella casa Ove era cresciuto. Aveva imparato a
camminare. Suo padre gli aveva insegnato tutto quel che c’era da sapere sul
motore di una Saab. E, adesso, i rappresentanti di una qualche istituzione
decidevano che ci avrebbero costruito sopra qualcos’altro. Un uomo con la
faccia rotonda gli vendeva un’assicurazione inesistente. Un uomo con la camicia
bianca impediva a Ove di spegnere un incendio. E, adesso, altre due camicie
bianche blateravano di “valore di mercato”.
Comunque, Ove non aveva davvero scelta. Avrebbe potuto studiare le carte
che aveva in mano finché il sole avesse smesso di sorgere, ma non sarebbe
cambiato niente.
Così, aveva firmato con una mano, stringendo l’altra a pugno in tasca.

Aveva lasciato il luogo dove un tempo sorgeva la casa dei suoi genitori, senza
mai voltarsi a guardare. Aveva preso in affitto una stanzetta da una signora
anziana in città. Restava lì a fissare il vuoto tutto il giorno. La sera, andava al
lavoro e puliva i treni. Una mattina, lui e gli altri spazzini erano stati pregati di
recarsi in direzione, prima di cambiarsi, per ritirare la nuova uniforme.
Mentre attraversava il corridoio, Ove aveva incontrato Tom. Era la prima
volta che si vedevano da quando Ove si era accollato la colpa del furto sul treno.
Un uomo più saggio di Tom avrebbe evitato di incrociare lo sguardo di Ove.
Avrebbe cercato di fingere che l’incidente non fosse mai accaduto. Ma Tom non
era quel genere di uomo.
«Guarda, guarda. È venuto a trovarci il ladruncolo!» aveva esclamato con un
ghigno.
Ove aveva ignorato la provocazione e aveva cercato di tirare dritto, ma aveva
ricevuto una gomitata da uno dei colleghi più giovani di Tom. Così, aveva alzato
gli occhi. Il giovane sghignazzava senza ritegno.
«State attenti ai portafogli, per carità!» aveva urlato Tom, e la sua voce era
echeggiata per tutto il corridoio.
Ove aveva stretto al petto la nuova divisa che aveva in mano. Era entrato in
una cabina vuota dello spogliatoio, si era tolto la biancheria sporca, si era sfilato
l’orologio ammaccato del padre e lo aveva posato sulla panca. Quando si era
voltato per entrare nella doccia, aveva visto Tom che lo fissava sulla soglia.
«Abbiamo saputo dell’incendio» gli aveva detto.
Si capiva che Tom voleva dargli del filo da torcere. Ove era rimasto in
silenzio: aveva deciso di non dare a quell’uomo corpulento con la barba nera la
soddisfazione di metterlo in imbarazzo.
«E dire che il tuo papà era tanto orgoglioso di te… Lui non sarebbe mai sceso
così in basso da bruciarsi la casa!» gli aveva gridato Tom, quando Ove era già
nella doccia.
Ove aveva udito i colleghi più giovani ridere in coro. Aveva chiuso gli occhi,
aveva appoggiato la fronte alla parete e si era lasciato scorrere addosso l’acqua
calda. Era rimasto sotto il getto per oltre venti minuti. Era stata la doccia più
lunga di tutta la sua vita.
Quando era tornato nello spogliatoio, l’orologio del padre era scomparso. Ove
aveva frugato tra i vestiti sulla panca, lo aveva cercato su tutto il pavimento, e
dentro ciascun armadietto.
Nella vita di ogni uomo c’è sempre un momento in cui si decide che genere di
persona si è. C’è chi si lascia calpestare, e chi no. Punto.
Forse era stata l’ennesima provocazione di Tom. Forse era stato l’incendio.
Forse il falso assicuratore. Forse le camicie bianche. O, forse, era semplicemente
troppo. Ma in quel momento Ove si era sentito come se qualcuno gli avesse
sganciato la cintura di sicurezza. Il suo sguardo aveva assunto una sfumatura più
tetra. Era uscito dal locale ancora nudo e gocciolante. Aveva percorso il
corridoio fino allo spogliatoio dei capisquadra, aveva sferrato un calcio alla porta
e si era fatto strada tra gli uomini sbigottiti. Tom si stava tagliando la lunga barba
davanti a uno specchio all’altro capo della stanza. Ove lo aveva afferrato per una
spalla e aveva ruggito così forte da far oscillare le pareti di lamiera.
«Dammi l’orologio!»
Tom lo aveva squadrato dall’alto in basso con uno sguardo pieno di
arroganza.
«Io non ce l’ho il tuo cazz…»
«DAMMELO!» aveva gridato Ove prima che quello potesse terminare la
frase, a voce così alta che tutti i presenti avevano ritenuto opportuno voltarsi
verso i loro armadietti.
Un attimo dopo, Ove aveva strappato la giacca dalle mani di Tom e aveva
estratto l’orologio dalla tasca interna. Lui era rimasto muto come un bambino in
castigo.
Poi era partito il pugno. Uno solo. Era stato più che sufficiente. Tom era
crollato a terra come un sacco di farina bagnato. Quando il suo corpo robusto
aveva raggiunto il pavimento, Ove se ne stava già andando.
Nella vita di ogni uomo c’è sempre un momento in cui si decide che genere di
persona si è. Punto.

Tom era stato portato all’ospedale. Gli avevano chiesto diverse volte cosa fosse
accaduto, ma lui si era limitato a vagare con lo sguardo, bofonchiando che era
“scivolato”. Nessuno dei suoi colleghi più giovani, che si trovavano nello
spogliatoio insieme a lui, ricordava di avere visto nulla.
Ove non aveva mai più rivisto Tom. E non aveva mai più permesso a nessuno
di imbrogliarlo.
Aveva continuato a lavorare come spazzino notturno, ma si era licenziato
dall’impresa edile. Ormai non aveva più una casa da ristrutturare e, in ogni caso,
aveva imparato così tanto sulle tecniche di costruzione che i vecchi con gli
elmetti di plastica gialla non avevano più niente da insegnargli.
Come regalo di commiato, aveva ricevuto una cassetta degli attrezzi. Questa
volta, erano nuovi. “Al pivello. Cerca di costruire qualcosa che duri” c’era
scritto sul biglietto.
Ove, però, non sapeva che farsene, così si era portato in giro la cassetta di qua
e di là per diversi giorni. Alla fine, la sua padrona di casa aveva avuto pietà e gli
aveva chiesto se volesse riparare delle cose per lei.
Più tardi, quell’anno, Ove aveva fatto domanda per arruolarsi nell’esercito.
Aveva ottenuto il punteggio massimo in ogni prova fisica. Il responsabile del
reclutamento aveva preso in simpatia quel ragazzo taciturno e forzuto, e aveva
incoraggiato il suo desiderio di intraprendere la carriera militare. Ove aveva
riflettuto che diventare soldato poteva essere un bene per lui. Aveva visto che i
militari indossavano la divisa ed eseguivano ordini. Disciplina e metodo. Tutti
sapevano cosa dovevano fare: avevano una funzione. Mentre si recava a
effettuare la visita medica obbligatoria, si era sentito felice come non gli
succedeva da anni. Come se di colpo gli fossero stati dati uno scopo, una
destinazione, un’identità.
La sua felicità era durata poche ore.
Il responsabile del reclutamento aveva dichiarato che la visita medica era
“una pura formalità”, ma, quando il dottore aveva premuto lo stetoscopio sul
petto di Ove, aveva sentito qualcosa che non avrebbe dovuto sentire. A Ove era
stata prescritta un’altra visita da un medico in città. Una settimana più tardi, gli
era stato comunicato che aveva una rara malformazione cardiaca congenita. Era
stato esonerato dal servizio militare. Ove aveva telefonato per protestare. Aveva
scritto diverse lettere. Si era fatto visitare da ben tre dottori nella speranza che
qualcuno avesse commesso un errore. Non era servito a niente.
“Le regole sono regole” aveva detto un uomo con la camicia bianca in
caserma, l’ultima volta che Ove aveva tentato di reclamare.
Ove era così adirato che, per tornare a casa, non aveva nemmeno aspettato
l’autobus, ma si era fatto diversi chilometri a piedi fino alla stazione. Per
calmare la rabbia. Poi era stato colto da una tristezza infinita: seduto sulla
banchina ad attendere il treno, si era sentito abbattuto come non lo era stato dalla
morte del padre.
Qualche mese dopo avrebbe passeggiato lungo gli stessi binari con sua
moglie, e la tristezza di quel giorno sarebbe stata soppiantata dall’euforia. Ma,
ovviamente, Ove non poteva ancora saperlo.
Tornato al suo lavoro di spazzino, Ove era diventato più torvo e silenzioso
che mai. La signora presso cui abitava era talmente stufa di vederlo così infelice
che lo aveva convinto ad affittare un garage nelle vicinanze. Se gli piaceva tanto
trafficare con viti e bulloni, aveva detto, quel locale faceva proprio al caso suo.
Là, Ove aveva smontato e rimontato la Saab per intero. Aveva pulito e
riassemblato ogni pezzo, per vedere se ne era capace. E per avere qualcosa da
fare. Poi l’aveva venduta, guadagnandoci qualcosa, e ne aveva comprata
un’altra, un modello più recente, che pure aveva smontato e rimontato pezzo
dopo pezzo. Sempre per vedere se ne era capace, e per avere qualcosa da fare.
I suoi giorni erano trascorsi così, lenti e metodici. Finché, una mattina,
l’aveva incontrata. Aveva gli occhi azzurri, le scarpe rosse, e portava i lunghi
capelli castani raccolti con un grosso fermaglio dorato.
Da quel momento, Ove non aveva più avuto pace.
13
Un uomo che si chiama Ove
e un clown che si chiama Beppo

«Ove è divetteeenteee» ridacchia felice la bimba di tre anni.


«Come no» borbotta sua sorella molto meno entusiasta, prendendola per
mano e incamminandosi come un’adulta verso l’ingresso dell’ospedale.
La loro mamma sembra intenzionata a sgridare Ove, ma poi decide che non è
il momento e barcolla anche lei verso l’ingresso, tenendosi una mano sulla
pancia come se temesse che stia per esplodere.
Ove la segue trascinando i piedi. Se ne frega che, secondo lei, sia “più
semplice pagare e finirla di litigare”. Per lui, è una questione di principio. Se il
custode intende davvero multarlo perché ha osato mettere in discussione il fatto
che si debba pagare il parcheggio fuori da un ospedale, allora il suddetto custode
merita che gli si gridi dietro “pseudopoliziotto”, ciò che Ove puntualmente ha
fatto.
All’ospedale si va per morire, o per lo meno c’è sempre il rischio, pensa Ove.
Non basta che lo Stato incassi per tutto quello che uno fa da vivo: si deve pagare
il parcheggio anche quando si sta per morire. Ove non è d’accordo. Ove si
rifiuta, e l’ha spiegato al custode, che gli ha sventolato sotto il naso il blocchetto
delle multe. E subito quella testarda di Parvaneh si è offerta di pagare.
Le donne proprio non capiscono le questioni di principio.
Quando, nel garage, Parvaneh gli aveva chiesto cosa diavolo stesse facendo,
Ove aveva emesso un suono come chi strusci una cassapanca sul parquet.
Adesso, sente la bambina di sette anni lamentarsi che i suoi vestiti puzzano di
gas di scarico. Malgrado abbia tenuto i finestrini abbassati, non è riuscito ad
arieggiare l’abitacolo della Saab a sufficienza. La bimba di tre anni, dal canto
suo, è al settimo cielo: andare in macchina con i finestrini aperti, quando fuori la
temperatura è sotto lo zero, per lei è stata un’avventura memorabile. Sua sorella,
evidentemente, la pensa in maniera diversa: durante l’intero tragitto verso
l’ospedale, ha nascosto il viso nella sciarpa e lanciato occhiate scettiche a Ove:
era molto infastidita perché continuava a scivolare sui fogli di giornale che Ove
aveva steso sui sedili posteriori affinché non imbrattassero dappertutto. Ove
aveva tentato di stendere un foglio di giornale anche sul sedile anteriore, ma
Parvaneh l’aveva tolto prima di sedersi. Ove era rimasto contrariato, ma non
aveva aperto bocca e si era limitato a fissare la pancia della donna, come se
temesse che gli partorisse in macchina.
«Restate qui, per piacere» dice Parvaneh alle bambine, quando entrano
nell’atrio del pronto soccorso.
L’ospedale è uguale a tanti altri: pareti di vetro, panche che odorano di
disinfettante, infermieri in camice bianco e zoccoli di plastica colorati, persone
anziane che si trascinano avanti e indietro per i corridoi, sostenendosi a
deambulatori traballanti. Attaccato al muro, c’è un cartello che informa che
l’ascensore 2 della scala A è fuori servizio, e che i visitatori del reparto 114 sono
pregati di usare l’ascensore 1 della scala C. Accanto a quell’avviso ce n’è un
altro, che comunica che l’ascensore 1 della scala C è fuori servizio e si invitano i
visitatori del reparto 114 a adoperare l’ascensore 2 della scala A. Di fianco c’è
un terzo avviso, che comunica che il reparto 114 rimarrà chiuso tutto il mese per
il rinnovo dei locali. Sopra quel caos di messaggi è stato incollato un foglio A4
con il ritratto di un pagliaccio, in cui si comunica che il clown, che sostiene di
chiamarsi Beppo, quel giorno farà visita ai bambini dell’ospedale.
«Dov’è andato Ove?» domanda irritata Parvaneh.
«In bagno, credo» mormora Sette anni.
«Claun!» esclama Tre anni, indicando il foglio appeso al muro.
«Lo sai che qui bisogna PAGARE per andare in bagno?» sbotta Ove alle
spalle di Parvaneh, facendola sussultare.
«Ah, eccoti. Hai bisogno di soldi?» chiede lei con un’espressione tesa.
Ove sembra offeso.
«Perché dovrei avere bisogno di soldi?»
«Per il bagno!»
«Io non devo andare in bagno.»
«Ma se hai appena detto che…» inizia lei. Poi si ferma e scuote il capo.
«Lasciamo perdere. Per quanto tempo hai pagato il parcheggio?» gli
domanda.
«Per dieci minuti.»
Parvaneh emette un gemito.
«Ma lo sai anche tu che ci vorranno più di dieci minuti, no?»
«Allora uscirò e pagherò per altri dieci minuti» risponde Ove, come se fosse
un’ovvietà.
«Perché non l’hai fatto subito?» chiede lei, ma appena la domanda ha lasciato
le sue labbra sembra pentirsene.
«Perché è esattamente quello che vogliono! Ma da me non beccheranno
neanche un soldo extra, ficcatelo bene in testa!»
«No, senti, non ce la facc…» sospira Parvaneh, portandosi una mano alla
fronte e guardando le figlie.
«Restate qui buone con lo zio Ove mentre la mamma va a vedere come sta il
papà, okay?»
«Mm» annuisce Sette anni scontrosa.
«Sìììì!» strilla Tre anni esaltata.
«Stai scherzando?» dice Ove.
Parvaneh non si scompone.
«Cosa vuol dire “con lo zio Ove”? Dove credi di andare?» chiede Ove.
Con grande fastidio di Ove, la straniera non sembra registrare affatto la
vastità del suo turbamento.
«Dovrai restare qui a tenerle d’occhio» dichiara lei brevemente e scompare
nel corridoio prima che Ove riesca a opporsi.
Ove la segue con lo sguardo. Forse si aspetta di vederla correre indietro,
ridacchiando che era solo uno scherzo. Ma Parvaneh non lo fa. Così, Ove si
volta verso le bambine e le osserva come se fossero due criminali da sottoporre a
un interrogatorio serrato.
«LIBRO!» strilla Tre anni, trottando verso un angolo della sala d’attesa dove
c’è un cesto pieno di giochi in scatola, pupazzi e libri illustrati.
Ove annuisce tra sé e, appurato che la mocciosa appare ragionevolmente
autonoma, rivolge la sua attenzione alla sorella maggiore.
«E tu, invece?»
«Io, cosa?» ribatte Sette anni indignata.
«Ehm… hai bisogno di mangiare, o di andare in bagno, o roba del genere?»
La bambina lo guarda come se Ove le avesse appena offerto una birra e una
sigaretta.
«Io ho quasi OTTO ANNI. In bagno posso andarci DA SOLA!»
Ove apre le braccia.
«Certo, certo. Cazzarola, scusami tanto se te l’ho chiesto.»
«Mm» sbuffa Sette anni.
«Ove detto parolaccia!» strilla la sorellina, che è ricomparsa sgambettando
davanti a Ove.
Ove osserva con diffidenza quel concentrato di energia che sfida la
grammatica. La piccola ricambia lo sguardo e gli sorride.
«Leggi!» gli ordina poco dopo e solleva verso di lui il libro che ha scelto dal
cesto, arrampicandosi sulla panca della sala d’attesa.
Ove si siede controvoglia a un buon metro di distanza da lei. Tre anni sospira
impaziente. Un attimo dopo, infila la testa sotto il braccio di Ove, appoggia le
mani sulla sua coscia e protende il viso verso i disegni variopinti sulla pagina.
Ove osserva esitante il libro, come se il volume gli avesse spedito una lettera
della catena di sant’Antonio, nella quale dichiara di essere un principe nigeriano
con una “very lucrative business offer”: è sufficiente che Ove gli fornisca il
numero del suo conto corrente, il prima possibile, per favore, e gli invierà una
somma di denaro per “dare avvio alla collaborazione”.
«“C’era una volta un trenino”» attacca Ove, con l’entusiasmo di chi stia
leggendo ad alta voce la propria dichiarazione dei redditi.
Poi gira pagina. Tre anni lo ferma e lo fa tornare indietro. Sette anni scuote il
capo esasperata.
«Devi dire anche cosa succede sulla pagina. E fare le voci» gli spiega.
Ove la fissa perplesso.
«Ma che cazz…»
Tossisce imbarazzato nel bel mezzo della frase.
«Quali voci?» si corregge.
«Le voci delle fiabe» risponde Sette anni.
«Ove detto parolaccia!» constata Tre anni.
«Non è vero» dice Ove.
«Sì, sì» dice Tre anni.
«Io non faccio nessuna cazz… Ehm, io non faccio nessuna voce!» dichiara
Ove.
«Be’, allora non sei tanto bravo a leggere le fiabe» nota Sette anni.
«Be’, forse tu non sei capace di ascoltarle!» obietta Ove.
«O forse tu non sei capace di raccontarle!» sbotta Sette anni.
Ove guarda scettico il libro.
«Ma che cagata è questa? Un treno che parla? Non ci sono macchine?»
«No, ma ci sono dei vecchi rincitrulliti» borbotta Sette anni.
«Io non sono vecchio» sibila Ove.
«Claun!!» esulta Tre anni.
«E non sono nemmeno un CLOWN!» ruggisce lui.
Sette anni alza gli occhi al cielo in modo sorprendentemente simile a sua
madre.
«Non ce l’ha con te, ma con il pagliaccio dell’ospedale…»
Ove si guarda intorno e vede un tizio in costume da clown fermo sulla soglia
della sala d’attesa. Ha un enorme sorriso disegnato in faccia, che lo fa apparire
incredibilmente ridicolo.
«CLAAAUUN» ulula Tre anni, mettendosi a saltellare su e giù sulla panca
come se facesse abitualmente uso di amfetamine.
Ove ne ha sentito parlare. Oggigiorno, a un numero spropositato di bambini
sono diagnosticate patologie comportamentali indicate con strani acronimi, e poi
li si riempie di medicine contenenti amfetamine.
«Ma chi è questa bella bambina? La vuol vedere una piccola magia?»
esclama il clown con voce suadente, puntando come un alce sbronzo verso di
loro. I ciabattoni rossi che ha ai piedi sono talmente goffi e ingombranti che,
conclude Ove tra sé, solo un completo idiota può indossarli di buon grado
piuttosto che cercarsi un lavoro serio.
Il clown sorride a Ove.
«Lo zio ce l’ha una moneta da cinque corone?»
«No. Lo zio non ce l’ha» risponde secco Ove.
Il clown pare sconcertato, e assume un’espressione non del tutto adatta a un
clown.
«Dài, amico… Dammi ’sta moneta. La uso per il gioco di prestigio, e poi te la
ridò» sussurra con un tono acido, in netto contrasto con il suo personaggio e che
rivela come, sotto i panni del clown, ci sia un giovane disperato sui venticinque
anni.
Ove incrocia il suo sguardo. Il clown, pur indietreggiando cautamente di un
passo, non demorde.
«Forza, è per i bambini. Giuro che te la restituisco.»
«E dagliele, ’ste cinque corone!» lo esorta Sette anni.
«CLAAAUUN!» grida Tre anni.
Ove la guarda e arriccia il naso.
«Okay, okay» borbotta ed estrae la moneta dal portafoglio.
Poi riprende a fissare il pagliaccio.
«Ma deve tornare indietro. Immediatamente. Ho il parcheggio da pagare.»
Il clown annuisce e, senza tanti complimenti, afferra le cinque corone.

Dieci minuti dopo, Parvaneh entra nella sala d’attesa e si guarda intorno,
disorientata. Il locale è vuoto.
«Sta cercando le sue figlie?» domanda un’infermiera dietro di lei.
«Ehm… sì» risponde Parvaneh, perplessa.
«Sono là» dichiara la donna, e indica una panca accanto alle ampie porte di
vetro che danno sul parcheggio.
Ove è seduto con le braccia incrociate e l’aria furiosa. Alla sua destra, Sette
anni fissa il soffitto annoiata; alla sua sinistra, Tre anni sorride giuliva, come se
le avessero appena detto che potrà mangiare il gelato a colazione tutti i giorni per
un mese. Davanti a loro stazionano due guardie in divisa, con i volti parecchio
accigliati.
«Sono le sue figlie?» chiede a Parvaneh uno dei due, che decisamente non ha
l’aspetto di chi mangi gelato a colazione.
«Sì. Cos’hanno fatto?» ribatte Parvaneh, preoccupata.
«LORO non hanno fatto niente» risponde l’altro uomo, fissando Ove con
sguardo accusatorio.
«E io neanche» bofonchia Ove, stizzito.
«Ove picchia claun!» strilla Tre anni esaltata.
«Taci, pettegola» la redarguisce Ove.
Parvaneh lo fissa a bocca aperta.
«Non era bravo a fare le magie» si lamenta Sette anni.
«Possiamo andare a casa, adesso?» chiede poi a sua madre, alzandosi dalla
panca.
Parvaneh fissa prima le figlie, poi Ove e le due guardie.
«Aspetta un attimo… Quale… quale clown?»
«Claun Beppo» la informa Tre anni, annuendo esperta.
«Doveva fare una magia» dice Sette anni.
«Bella magia del cavolo» precisa Ove.
«Doveva far sparire la moneta di Ove» spiega Sette anni.
«E poi ha cercato di restituirmi un’altra moneta, da una corona invece che da
cinque!» interviene Ove, guardando offeso le due guardie, come se fosse
sufficiente a giustificare la sua aggressione.
«Ove picchia claun, mamma!» ridacchia Tre anni, come se fosse la cosa più
divertente che le è mai capitata.
Parvaneh osserva a lungo Ove prima di parlare, rivolgendosi ai due uomini in
divisa.
«Mio marito ha avuto un incidente. Sono appena stata da lui, e adesso vorrei
portare le bambine a fargli visita» spiega pacata alle guardie.
«Papà caduto!» dice Tre anni.
«Certo, certo. Non c’è problema» annuisce una guardia.
«Ma lui resta qui» chiarisce l’altra, indicando Ove.
«Io non ho picchiato nessuno» sibila Ove. «Ho solo dato una spintarella a
quel cretino, pseudopoliziotti del cavolo» aggiunge a voce bassa.
«Tanto non era bravo a fare le magie» ripete Sette anni in difesa di Ove,
mentre si avvia verso il reparto insieme alla madre e alla sorella.

Un’ora più tardi, sono di nuovo nel garage di Ove. A quanto pare, l’imbranato ha
un braccio e una gamba ingessati e dovrà restare in ospedale qualche giorno.
Mentre Parvaneh lo informava, Ove aveva dovuto mordersi il labbro per non
farsi scappare una smorfia di disgusto.
Ove toglie i fogli di giornale dai sedili della Saab, che puzza ancora
orribilmente di gas.
«Davvero, Ove. Sei sicuro che non vuoi che paghi la multa?» gli chiede
Parvaneh.
«È tua la macchina?» grugnisce Ove.
«No, ma…»
«E allora» si limita a rispondere lui.
«Però, dato che è stato un po’ per colpa mia…» tenta lei, premurosa.
«Non sei mica tu a dare le multe. È il Comune. Quindi non è colpa tua, ma di
questo dannato Comune» dice Ove, sbattendo la portiera della Saab.
«E di quegli pseudopoliziotti dell’ospedale» aggiunge, ancora in collera per
essere stato costretto a rimanere seduto sulla panca con loro finché Parvaneh non
era tornata indietro. Come un fottuto criminale. Parvaneh lo guarda a lungo in
silenzio. Sette anni è stanca di aspettare e s’incammina verso casa. Tre anni
regala a Ove un sorriso raggiante.
«Sei divetteeente!» esclama.
Ove la guarda e si ficca le mani in tasca.
«Già, già. Un giorno metterai giudizio anche tu.»
Tre anni annuisce euforica. Parvaneh osserva prima Ove, poi il tubo di
plastica sul pavimento del garage, infine torna a guardare Ove. È un po’ nervosa.
«Se vuoi venire a riprenderti la scala…» dice, come se fosse immersa in ben
altre riflessioni.
Ove dà un calcio distratto all’asfalto.
«E abbiamo anche un calorifero che non funziona» continua lei, fingendo
indifferenza. «Sarebbe gentile da parte tua se gli dessi un’occhiata. Patrick non è
capace di metterlo a posto» dice, stringendo la manina di Tre anni.
Ove scuote lentamente il capo.
«No. No, c’era da aspettarselo.»
Parvaneh annuisce. Poi il suo viso s’illumina, aprendosi in un sorriso
soddisfatto.
«Non puoi certo lasciar morire di freddo le bambine, stanotte. Eh, Ove? Ti
hanno già visto alzare le mani sul clown, non credi sia abbastanza?»
Ove le lancia un’occhiata torva. Poi, a malincuore, constata che no, non può
certo lasciar morire di freddo delle bambine solo perché quell’incapace del loro
padre non sa aprire una finestra senza cadere da una scala. Sonja ci rimarrebbe
malissimo se, quando finalmente riuscirà a farla finita, le si presentasse di fronte
in qualità di infanticida.
Così, Ove raccoglie il tubo di plastica dal pavimento e lo appende a un gancio
sulla parete. Chiude la Saab con la chiave. Abbassa la porta del garage. Controlla
la maniglia tre volte e va a prendere la cassetta degli attrezzi nella rimessa.

C’è tempo per togliersi la vita anche domani.


14
Un uomo che si chiamava Ove
e una donna su un treno

Aveva le scarpe rosse, un grande fermaglio dorato nei capelli e, appuntata sul
petto, una spilla d’oro su cui si riflettevano i raggi del sole che penetravano dal
finestrino. Erano le sei e mezzo del mattino, Ove aveva appena staccato il turno
e, in realtà, per tornare a casa avrebbe dovuto prendere un altro treno. Ma poi
l’aveva vista sulla banchina, con tutti quei capelli castani e gli occhi azzurri e le
risatine argentee, ed era risalito sul convoglio che aveva appena terminato di
pulire. Non sapeva bene perché. Non era mai stato un uomo particolarmente
impulsivo o interessato alle donne. Quando l’aveva rivista, però, era stato come
se il cervello gli fosse andato in tilt, aveva riflettuto più avanti.
Aveva convinto uno dei macchinisti a prestargli i suoi pantaloni e la camicia
di ricambio, affinché lei non lo vedesse nella sua uniforme tutta sporca, ed era
andato a sedersi accanto a Sonja. Era stata la decisione migliore che avesse mai
preso in tutta la sua vita.
Ove non aveva idea di cosa dirle, ma tutto si era sistemato senza difficoltà.
Non aveva fatto in tempo ad accomodarsi sul sedile che lei si era voltata allegra,
gli aveva sorriso affettuosamente e aveva esclamato: «Buongiorno!». A quel
saluto, Ove non aveva potuto fare altro che rispondere a sua volta:
«Buongiorno!». Era stato facile. Poco dopo, lei aveva notato che Ove
occhieggiava i libri che teneva sulle ginocchia e si era affrettata a sollevarli, per
fargli leggere i titoli. Ove era talmente confuso che aveva capito solo la metà
delle parole che contenevano.
«Ti piace leggere?» gli aveva domandato Sonja.
Ove aveva scosso la testa, incerto su come procedere.
«Io adoro leggere!» aveva esclamato subito lei, riprendendo la parola.
Poi aveva iniziato a raccontargli di cosa trattavano quei libri. E Ove si era
reso conto che, per il resto della sua vita, gli sarebbe piaciuto starle seduto
accanto e, semplicemente, ascoltare la sua voce.
Era la cosa più incantevole che gli fosse capitato di sentire. Quella donna
parlava come se ridesse in continuazione. Le sue frasi risuonavano come
bollicine di champagne; vale a dire, come sarebbero risuonate delle bollicine di
champagne se avessero ridacchiato. Ove non sapeva bene come mandare avanti
la conversazione senza sembrarle uno sciocco, ma aveva compreso in fretta che
quello, per lei, non era affatto un problema. A Sonja piaceva parlare tanto quanto
a Ove stare in silenzio. In seguito, Ove avrebbe concluso che era questo che la
gente intendeva quando diceva che due persone si completavano a vicenda.
Molti anni dopo quell’incontro, lei gli avrebbe rivelato che lo aveva trovato
un tipo un po’ strambo, all’inizio. Brusco e spiccio nei modi. Ma aveva le spalle
larghe, e braccia così muscolose che tendevano il tessuto della camicia, e occhi
gentili. Quando Sonja parlava, lui l’ascoltava attento e lei ci aveva preso gusto.
Inoltre, il tragitto fino alla scuola era talmente lungo e noioso che avere qualcuno
che le facesse compagnia era un piacevole diversivo.
Sonja studiava per diventare insegnante. Prendeva il treno ogni giorno: due,
per la precisione, e poi un autobus. Complessivamente, faceva un’ora e mezza di
viaggio nella direzione opposta a quella di Ove. Era stato solo dopo che avevano
attraversato fianco a fianco i binari e raggiunto la fermata dell’autobus che lei si
era decisa a chiedergli che cosa facesse. Ove si era reso conto di trovarsi ad
appena una quindicina di chilometri dalla base militare, dove avrebbe potuto
prestare servizio se non avesse avuto problemi di cuore, e le parole gli erano
uscite dalla bocca quasi automaticamente.
«Faccio il militare laggiù» aveva detto un po’ imbarazzato, sollevando un
braccio.
Lei aveva annuito, allegra.
«Allora, forse ci rivediamo sul treno questa sera. Io torno a casa alle cinque!»
Ove non aveva avuto la prontezza di risponderle. Lo sapeva chiunque che un
militare non rincasava dalla caserma alle cinque, ma, evidentemente, Sonja lo
ignorava. Così, si era limitato a fare spallucce. Poi, lei era salita sull’autobus e se
ne era andata.
Ove aveva intuito subito che la faccenda non sarebbe stata semplice da
gestire. Ma non poteva farci nulla. Quindi si era voltato, aveva seguito le
indicazioni per il centro della cittadina universitaria, e si era messo in marcia.
Aveva chiesto informazioni e aveva trovato un sarto, aveva varcato la soglia
della bottega con passo autorevole e aveva domandato se si sarebbe potuto far
stirare una camicia e un paio di pantaloni e, se sì, quanto tempo ci sarebbe
voluto. «Se aspetta, dieci minuti» gli era stato risposto.
«Bene. Tornerò alle quattro» aveva comunicato Ove ed era uscito dal
negozio.
Aveva ripercorso a piedi l’intero tratto fino alla stazione e si era coricato su
una panca nella sala d’attesa. Alle quattro meno un quarto si era ripresentato dal
sarto, aveva aspettato con indosso soltanto le mutande che gli venissero stirati
camicia e pantaloni, era tornato alla stazione e aveva fatto il viaggio di ritorno
insieme a lei. Il giorno dopo, la scena si era ripetuta. E anche il giorno
successivo. Il quarto giorno, il bigliettaio gli aveva detto chiaro e tondo che non
poteva utilizzare la sala d’attesa della stazione come una camera d’albergo. Ove
aveva annuito, e poi aveva spiegato che c’era di mezzo una donna. Il bigliettaio,
allora, aveva fatto una smorfia e gli aveva permesso di dormire nel deposito
bagagli. Evidentemente, anche i bigliettai delle stazioni ferroviarie sapevano
cosa volesse dire innamorarsi.
Ove era andato avanti a quel modo per tre mesi, finché lei si era stancata di
non essere mai invitata fuori a cena. E si era invitata da sé.
«Domani sera ti aspetto qui alle otto. Voglio che indossi la giacca e che mi
porti in un bel ristorante» gli aveva detto scendendo dal treno un venerdì sera.
E così erano usciti insieme.

A Ove non avevano mai chiesto come fosse la sua vita prima di incontrarla. Ma,
se l’avessero fatto, avrebbe risposto che non ce l’aveva, una vita.

Sabato sera aveva indossato la vecchia giacca marrone di suo padre. Gli stava un
po’ stretta sulle spalle. Poi, aveva mangiato due salsicce e sette patate, che aveva
preparato nell’angolo cottura della sua stanza in affitto, ed era andato ad avvitare
alcune viti, come gli aveva chiesto la padrona di casa.
«Esce con qualcuno?» gli aveva domandato sorpresa la signora, quando si era
presentato nell’ingresso.
Non lo aveva mai visto con la giacca. Ove aveva annuito imbarazzato.
«Sì» aveva risposto con un filo di voce.
La donna aveva abbozzato un sorrisino.
«Se si è vestito così, deve essere qualcuno di molto speciale» aveva
commentato, facendo finta di niente.
Ove aveva annuito di nuovo. Mentre usciva, aveva sentito la signora urlargli
dalla cucina.
«I fiori, Ove!»
Ove era rientrato rapidamente e l’aveva fissata senza capire.
«Di certo gradirà un mazzo di fiori» aveva spiegato lei con una certa enfasi.
Ove aveva tossicchiato e aveva richiuso la porta dietro di sé.
L’aveva aspettata alla stazione, con la sua giacca marrone un po’ troppo
stretta e le scarpe fresche di lucido, per oltre un quarto d’ora. Diffidava delle
persone che si presentavano in ritardo. Suo padre gli aveva sempre detto che non
c’era da fidarsi di chi arrivava tardi. “Se non si può fare affidamento su qualcuno
per la puntualità, allora non bisogna fidarsi nemmeno per cose più importanti”
era solito borbottare quando un dipendente arrivava al lavoro con tre o quattro
minuti di ritardo, come se non fosse un problema. Come se la ferrovia fosse lì ad
aspettare i loro comodi tutte le mattine.
Più passavano i minuti, più in Ove montava l’irritazione, che dopo un po’ si
era tramutata in angoscia: si era convinto che Sonja lo avesse preso in giro,
dandogli quell’appuntamento. Non si era mai sentito così stupido in tutta la sua
vita. Era chiaro che non lo voleva incontrare; come aveva potuto illudersi?
Appena lo aveva capito, la vergogna gli aveva riempito il petto come una colata
lavica: gli era venuta voglia di scaraventare il mazzo di fiori in un cestino della
spazzatura e di andarsene via senza neanche voltarsi.
Non sarebbe stato in grado di spiegare per quale motivo fosse rimasto. Forse
perché sentiva che un appuntamento era comunque un impegno. O forse per
qualche altra ragione, un po’ più difficile da definire.
Quella sera, ovviamente, non lo sapeva ancora, ma nel corso degli anni a
venire avrebbe trascorso così tanti quarti d’ora ad aspettare Sonja che, se suo
padre ne fosse stato al corrente, sarebbe diventato pazzo. Quando lei era
comparsa, però, con una lunga gonna a fiori e un golfino così rosso che Ove
aveva dovuto spostare il peso del corpo da un piede all’altro per l’emozione, Ove
aveva deciso che, anche se quella donna era incapace di arrivare in orario, la
cosa gli andava bene comunque.
Quando, un’ora prima, la fiorista gli aveva chiesto che cosa volesse, lui le
aveva detto che era proprio una bella domanda. Dopotutto, era lei l’esperta, non
il contrario. La donna era parsa un tantino perplessa, ma alla fine aveva
domandato se il destinatario avesse per caso un colore preferito. «Rosa» aveva
risposto Ove sicuro di sé, pur non avendo la minima idea di quale fosse la tinta
prediletta da Sonja.
Alla fine lei era arrivata, ed era rimasta lì, davanti alla stazione, con i fiori
premuti contro il petto e quel golfino rosso, che faceva sembrare il resto del
mondo una foto in bianco e nero.
«Sono bellissimi» gli aveva detto sorridendo sincera, in un modo che aveva
indotto Ove a fissare il pavimento e a sferrare calci ai sassi.
Ove aveva qualche problema con i ristoranti. Non aveva mai capito perché si
dovessero spendere un sacco di soldi per mangiare fuori, quando lo si poteva
tranquillamente fare a casa. Non era un amante degli ambienti raffinati, né delle
pietanze ricercate, ed era consapevole di non essere un gran conversatore. A ogni
modo, quella sera aveva mangiato in anticipo e aveva la pancia piena: le avrebbe
lasciato ordinare quel che voleva dal menu, e lui avrebbe potuto prendere il
piatto meno costoso, piluccandolo qua e là. Inoltre, se lei gli avesse chiesto
qualcosa, Ove non avrebbe avuto la bocca impegnata per risponderle. Lo
reputava un ottimo piano.
Mentre Sonja faceva la sua scelta, il cameriere lo aveva osservato con la coda
dell’occhio e non era riuscito a trattenere una piccola smorfia. Ove aveva intuito
quel che stava pensando, e cioè che la loro era una coppia molto mal assortita, e
che lei era fin troppo bella per uno come Ove. A essere sinceri, Ove condivideva
in pieno la sua opinione.
Poi, lei gli aveva raccontato con entusiasmo dei suoi studi, dei libri che aveva
letto e dei film che aveva visto. Quando lo guardava, Ove si sentiva come se
fosse l’unico uomo sulla faccia della Terra, ma era consapevole che, alla fine,
quel che era giusto era giusto. Non poteva continuare a mentirle. Così, si era
fatto coraggio, si era schiarito la gola e le aveva confessato la verità. Non faceva
il servizio militare, ma lo spazzino sui treni, e l’unica ragione per cui non glielo
aveva detto subito era che gli faceva davvero piacere la sua compagnia. Ove
aveva dato per scontato che quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta che
cenavano insieme, e non voleva lasciarle l’impressione di essere uscita con un
impostore. Quando aveva finito di raccontare la sua storia, aveva appoggiato il
tovagliolo sul tavolo e aveva estratto il portafoglio dalla tasca della giacca.
«Mi dispiace» aveva borbottato pieno di vergogna, sferrando un lieve calcio
alla gamba della sedia.
«Volevo solo sapere come ci si sentiva a essere guardati da te» aveva
bisbigliato, a voce così bassa da farsi udire appena.
Quando si era alzato, lei si era sporta in avanti e aveva posato la mano sulla
sua.
«Non ti ho mai sentito pronunciare tante parole tutte insieme» aveva detto
con un sorriso.
Ove aveva bofonchiato che sì, forse era vero, ma che le cose rimanevano
com’erano. Le aveva mentito, ed era desolato. Allora lei lo aveva pregato di
rimettersi a sedere e lui le aveva obbedito. Non si era arrabbiata, anzi. Era
scoppiata a ridere e, al termine della risata, gli aveva detto che non era poi così
difficile intuire che non fosse un militare, dato che non indossava mai la divisa.
«Inoltre, lo sanno tutti che durante la settimana i militari rimangono a dormire
in caserma, e non tornano a casa alle cinque.»
Certo mentire non era una bella cosa, aveva aggiunto, ma immaginava che
Ove avesse i suoi motivi per farlo. Le era piaciuto il modo in cui l’ascoltava
attento. E farlo ridere. Per lei era più che sufficiente, gli aveva detto.
Poi, gli aveva chiesto cosa volesse fare nella vita, quale fosse il suo sogno nel
cassetto, per così dire. E lui, senza la minima esitazione, aveva risposto che
voleva costruire case. Progettarle, e trovare il modo migliore di tirarle su. Ove
credeva che Sonja si sarebbe rimessa a ridere. Invece, lei si era infuriata.
«Ma, allora, perché non lo FAI?» aveva esclamato.
Ove non aveva saputo trovare una risposta decente a quella domanda.
Il lunedì successivo lei era andata a fargli visita a casa. Sotto braccio, aveva i
dépliant di un corso d’ingegneria per corrispondenza. La padrona di casa di Ove
aveva osservato piena di ammirazione quella bella ragazza, che saliva le scale a
passi decisi. Poi, aveva dato a Ove una pacca sulla spalla, sussurrandogli che il
mazzo di fiori si era rivelato un ottimo investimento, e Ove non aveva potuto
darle torto.
Quando era entrata nella sua stanza e si era seduta sul letto, Ove si era
fermato sulla soglia, con le mani affondate nelle tasche. Lei lo aveva guardato e,
come al solito, si era messa a ridere.
«Siamo una coppia, adesso?» gli aveva domandato.
«Ehm, sì. Si può dire di sì» aveva risposto lui, impacciato.
Era andata così.
Era previsto che il corso d’ingegneria durasse due anni, ma il tempo che Ove
aveva dedicato a imparare le tecniche di costruzione si era rivelato utile. Ove
non era un genio, ma ci sapeva fare con i numeri e con le case. E, a conti fatti,
era quella la cosa importante. Aveva sostenuto l’esame dopo appena sei mesi,
superandolo brillantemente. Si era iscritto a un altro corso, e poi a un altro
ancora. Alla fine, era riuscito a farsi assumere nell’ufficio di un’impresa edile,
dov’era rimasto per oltre un terzo di secolo. Aveva lavorato sodo, non si era mai
dato malato, aveva saldato i debiti, pagato le tasse e fatto il proprio dovere.
Aveva comprato una villetta a schiera a due piani in un quartiere residenziale di
recente costruzione, in prossimità di un bosco. Sonja voleva sposarsi, e Ove le
aveva chiesto la mano. Voleva anche dei figli, e lui non vedeva ragione per non
assecondare il suo desiderio. I loro bambini sarebbero cresciuti in quel bel
quartiere residenziale, circondati da altri bambini, era inteso.
Quarant’ anni più tardi, il bosco era sparito per far spazio a una selva di nuove
case e, un giorno, in un letto d’ospedale, lei gli aveva stretto la mano
mormorandogli che non doveva preoccuparsi. Che sarebbe andato tutto bene.
“Sì, come no” aveva pensato Ove, con il petto che martellava di rabbia e dolore,
ma lei gli aveva ripetuto piano: «Andrà tutto bene, mio amato Ove, vedrai», e gli
aveva appoggiato la testa sul braccio. Poi, aveva piegato l’indice nel palmo della
sua mano, aveva chiuso gli occhi e se n’era andata.
Ove era rimasto seduto con la mano nella sua per molte ore, finché due
infermiere erano entrate nella stanza e, il più delicatamente possibile, gli
avevano spiegato che dovevano portarla via. Allora, Ove si era alzato dalla
sedia, aveva annuito tra sé e si era recato alle pompe funebri per sbrigare tutte le
questioni burocratiche. Sonja era stata sepolta domenica, e lunedì Ove era andato
a lavorare.

E se qualcuno glielo avesse chiesto, Ove avrebbe risposto che una vita, prima di
lei, non ce l’aveva. E nemmeno l’avrebbe avuta dopo.
15
Un uomo che si chiama Ove
e un treno che sarà in ritardo

L’uomo paffuto dall’altra parte del pannello in plexiglas ha i capelli pettinati


all’indietro con il gel e le braccia coperte di tatuaggi. “Non gli bastava spalmarsi
una confezione di margarina in testa ogni mattina; doveva anche imbrattarsi tutto
d’inchiostro” pensa Ove. Non capisce come un uomo adulto possa avere il
coraggio di andare in giro con la pelle che sembra la fodera di una giacca. Tra
l’altro, non sono nemmeno dei disegni veri e propri, ma solo un’accozzaglia di
decorazioni senza senso.
«La macchina non funziona» lo informa Ove.
«No?» ribatte l’uomo dietro il plexiglas.
«“No”, cosa?»
«No, cioè, sì… non funziona.»
«È quello che ho appena detto!»
Il tizio appare titubante.
«Forse dipende dalla sua carta. La striscia magnetica è sporca?» azzarda.
Ove reagisce come se l’uomo dietro il plexiglas avesse appena messo in
dubbio la sua virilità.
«La striscia magnetica non è sporca, ficcatelo bene in testa» gli urla,
puntandogli il dito contro.
L’uomo ammutolisce e alza le mani in segno di resa. Poi, scuote il capo e
tenta di spiegare a Ove che, quel giorno, la macchina è stata usata da altri clienti
senza problemi. Ove liquida l’informazione come del tutto irrilevante e
puntualizza che, degli altri clienti, a lui non importa un fico secco: quel che gli
importa è che adesso la macchina non funziona. L’uomo dietro il plexiglas
domanda a Ove se abbia dei contanti. Ove gli risponde di farsi gli affari suoi.
Dopodiché, tra i due cala un silenzio di tomba.
Alla fine, l’uomo dietro il plexiglas chiede di poter dare un’occhiata alla
carta. Ove lo guarda come se si fossero incontrati in un vicolo buio e il tizio gli
avesse chiesto di poter “dare un’occhiata” al suo orologio.
«Niente stronzate» lo avverte, spingendo con esitazione la carta sotto il
pannello.
L’uomo afferra la carta e, senza alcun imbarazzo, se la sfrega sulla gamba dei
pantaloni. Come se Ove non avesse mai sentito parlare di quel tipo di truffa noto
come skimming. Come se Ove fosse un completo idiota.
«Cosa cavolo fai?» grida Ove, e sbatte il palmo della mano sul plexiglas.
L’uomo gli restituisce la carta.
«Provi adesso» dice.
Ove pensa che l’uomo dietro il plexiglas dovrebbe finirla di fargli perdere
tempo. Lo capirebbe chiunque che, se la macchina non funzionava mezzo
minuto prima, non funzionerà neanche adesso, cazzarola. Ove appoggia l’indice
contro il plexiglas.
«Provi, per favore» lo prega l’uomo dietro il pannello.
Ove emette un sospiro di rassegnazione e passa nuovamente la carta di
credito nel lettore, senza distogliere lo sguardo dal plexiglas. La macchina
funziona.
«Glielo avevo detto!» sogghigna l’uomo dietro il pannello.
Mentre la ripone nel portafoglio, Ove fulmina la carta con gli occhi come per
rimproverarla di averlo tradito.
«Buona giornata» cinguetta felice l’uomo a Ove.
«Si vedrà» borbotta Ove, allontanandosi verso la banchina.
È da vent’anni che tutti non fanno che ripetere a Ove di usare la carta di
credito. Malgrado a Ove i contanti siano sempre andati più che bene. Malgrado i
contanti siano andati bene all’umanità per diverse migliaia di anni. Ove non si è
mai fidato delle banche e delle loro diavolerie elettroniche, ma sua moglie lo
aveva costretto a procurarsi una di quelle maledette carte. Quando, poi, lei era
morta, la banca gli aveva inviato una nuova carta, intestata unicamente a lui.
Adesso, dopo che ha comprato i fiori per la sua tomba per sei mesi, sul conto
restano centotrentasei corone e cinquantaquattro centesimi. Ove sa perfettamente
che quei soldi finiranno per sparire nelle tasche di qualche direttore di banca, se
lui muore senza averli spesi.
Ma ora che Ove vuole usare quel dannato pezzo di plastica, ecco che la carta
fa le bizze. O ecco che nei negozi applicano un mucchio di commissioni extra. E
questo dimostra soltanto che Ove ha sempre avuto ragione. Cazzarola, ha
proprio intenzione di dirlo a sua moglie. Sarà la prima cosa che farà quando la
incontrerà di nuovo, per la miseria.
Perché adesso, comunque, può bastare. Adesso Ove deve morire.

Quella mattina è uscito di casa prima che il sole avesse la forza di trascinarsi
sopra l’orizzonte, al pari di tanti suoi vicini. Ha studiato attentamente gli orari
dei treni. Ha spento tutte le luci e i termosifoni, ha chiuso a chiave la porta
d’ingresso e ha lasciato la busta con le istruzioni sullo zerbino, immaginando che
l’avrebbero trovata quando si fossero recati lì per occuparsi della casa.
È andato a prendere il badile e ha spalato la neve con la precisione di sempre.
Poi ha riportato il badile nella rimessa, che ha chiuso a chiave. Se fosse stato un
briciolo più attento, avrebbe notato il buco a forma di gatto nel cumulo di neve,
quando si è incamminato verso il parcheggio. Ma aveva altro per la testa, e non
l’ha notato.
Non ha preso la Saab per recarsi alla stazione, ma ci è andato a piedi. Questa
volta, nessuna straniera incinta, oca bionda, moglie di Rune o corda di dubbia
qualità dovevano intralciare i suoi piani. Aveva sfiatato i loro caloriferi, prestato
i propri attrezzi, e fatto da tassista fino all’ospedale. Adesso potevano darsi tutti
quanti una calmata. Adesso Ove toglieva il disturbo.
Ha ricontrollato gli orari dei treni un’ultima volta, e ha ripercorso
mentalmente il suo piano. Questa volta, nessuno gli avrebbe impedito di
rispettarlo. Sua moglie era sempre stata un disastro nel rispettare i piani. Con le
donne era così: Ove aveva imparato a sue spese che non sapevano rispettare un
piano nemmeno se glielo si incollava addosso. Quando lui e Sonja dovevano fare
un viaggio in auto, Ove stendeva una tabella di marcia, decidendo dove
avrebbero fatto rifornimento e quando avrebbero bevuto il caffè, per ottimizzare
i tempi. Studiava le cartine, calcolava l’esatto tempo di percorrenza di ogni
tappa, i modi in cui avrebbero evitato il traffico dell’ora di punta, e le scorciatoie
migliori, che nessun navigatore satellitare riusciva a individuare. Ove aveva
sempre una strategia di viaggio ben precisa. Sua moglie, al contrario, si metteva
sempre in testa delle scemenze, tipo che dovevano “seguire l’istinto” e
“prendersela comoda”. Come se, in quel modo, nella vita si arrivasse da qualche
parte. All’ultimo minuto, poi, si rendeva conto che doveva fare una telefonata, o
che aveva dimenticato una sciarpa, o era ancora indecisa su quale soprabito
mettere in valigia. O qualcos’altro. Per non parlare del fatto che scordava sempre
il thermos pieno di caffè sul ripiano della cucina, e lo sapeva chiunque che, in un
viaggio in auto, quella era l’unica cosa davvero fondamentale. Quattro soprabiti
in valigia, e niente caffè. Così, erano costretti a fermarsi all’autogrill ogni
mezz’ora per comprare quella brodaglia costosa che servivano lì, e finivano per
arrivare a destinazione ancora più in ritardo. E quando Ove si arrabbiava, lei
doveva sempre domandargli perché fosse così importante avere una tabella di
marcia quando si viaggiava in macchina. “Non abbiamo mica fretta” diceva.
Non riusciva proprio a capire che, per Ove, era una questione di principio.
Punto.
Ove affonda le mani nelle tasche dei pantaloni sulla banchina della stazione.
Non indossa la giacca. Era tutta stropicciata e puzzava troppo di gas di scarico:
se le si fosse presentato davanti conciato in quel modo, avrebbe rischiato che
Sonja gli facesse una scenata con i fiocchi. La camicia e il maglione che ha
messo sotto il giaccone non le piacciono tanto quanto la giacca, ma almeno sono
puliti. Ci sono quasi quindici gradi sotto zero. Ove non ha avuto tempo di
sostituire il giaccone blu autunnale con quello invernale, e l’aria gelida lo fa
rabbrividire. Negli ultimi tempi è stato piuttosto distratto, deve ammetterlo. Non
ha riflettuto seriamente su come ci si debba vestire quando si arriva ai “piani
alti”. All’inizio, aveva pensato che fosse indispensabile sfoggiare una certa
eleganza. Adesso, però, più ci pensa e più si rende conto che probabilmente
nell’aldilà faranno indossare una sorta di uniforme, per evitare che si faccia
confusione. Dopotutto, ci sarà ogni genere di persone, di ogni ceto e
provenienza, una più strampalata dell’altra. Ove è certo che, una volta arrivato
sul posto, avrà le idee più chiare, sul vestiario e su tutto il resto.
La banchina è quasi deserta. Sull’altro lato del binario ci sono alcuni giovani
capelloni insonnoliti con enormi zaini in spalla, che Ove presume siano pieni di
droga. Poco lontano da loro, un uomo sulla quarantina con un completo grigio e
un cappotto nero legge il giornale. Un po’ più avanti, un gruppetto di pensionate,
con lo stemma del consiglio regionale sul petto e i capelli dai riflessi lilla,
chiacchierano senza sosta, fumando sigarette al mentolo.
Sul lato di Ove non c’è nessuno, a parte tre dipendenti del Comune sui
trentacinque anni con i calzoni da lavoro e i caschi gialli, che fissano assorti un
buco nell’asfalto. L’area intorno a loro è delimitata alla bell’e meglio da un
nastro arancione. Uno dei tre ha in mano un bicchiere di caffè del 7-Eleven, un
altro sta mangiando una banana, il terzo cerca di digitare qualcosa sul cellulare
senza togliersi i guanti e, com’è ovvio, non ci riesce benissimo. Intanto, il buco
resta lì dov’è. Non c’è da stupirsi che il mondo precipiti in una crisi finanziaria,
pensa Ove, se l’unica cosa che la gente fa è mangiare banane e contemplare per
ore un buco per terra.
Guarda l’orologio. Manca un minuto. Si posiziona in fondo alla banchina,
lasciando sporgere le suole delle scarpe oltre il bordo. A occhio e croce, sarà alta
un metro e mezzo, al massimo uno e sessanta. Uno psicanalista direbbe di sicuro
che la scelta di Ove di morire investito da un treno è “emblematica”. Ove se ne
infischia. Del resto, gli psicanalisti non gli sono mai piaciuti. Non vuole che
nessuno si senta responsabile della disgrazia, dunque ha deciso di saltare quando
il treno sarà vicinissimo, così che l’impatto avvenga contro la fiancata della
motrice, invece che contro il finestrino e davanti agli occhi del malcapitato
macchinista. Guarda il punto da cui arriverà il convoglio e conta lentamente tra
sé. È essenziale coordinarsi alla perfezione, riflette. Il sole che sorge lo abbaglia
dispettoso, come un bambino che abbia appena imparato a usare una torcia.
Ed è allora che sente il primo urlo.
Ove non fa in tempo ad alzare gli occhi che vede l’uomo con il completo
grigio e il cappotto nero oscillare avanti e indietro, come se gli avessero iniettato
una dose massiccia di Valium. Accade tutto in pochi secondi: gli occhi
dell’uomo si rivoltano nelle orbite e il suo corpo comincia a essere scosso da
spasmi nervosi. Le braccia sussultano come se fossero colpite da scariche
elettriche. Poi, come in un video al rallentatore, il giornale gli cade dalle mani e
lui perde conoscenza. Piomba sui binari con un tonfo simile a quello che
farebbe, cadendo, una cassa di miscela di cemento. E resta lì disteso.
Le pensionate del consiglio regionale si mettono a strillare in coro in preda al
panico. I capelloni con i megazaini fissano le rotaie sbalorditi e immobili, come
se muovendosi temessero di cadere pure loro. Ove li guarda infastidito per un
lungo istante.
«Ma porca di quella vacca maledetta» sibila infine tra sé.
Balza giù sui binari.
«AIUTAMI!» grida a uno dei capelloni sulla banchina.
Quello avanza lentamente fino al bordo del marciapiede. Ove afferra l’uomo
con il completo sotto le ascelle e lo solleva, come sa fare solo chi, pur non
avendo mai messo piede in palestra, ha trasportato per tutta la vita due blocchi di
cemento per braccio. Lo issa da solo, come nessun damerino che guida un’Audi
e sfoggia pantaloncini da jogging aderenti riuscirebbe a fare.
«Non potrà mica stare sui binari, non vi pare?!» esclama.
I capelloni annuiscono smarriti e, finalmente, trascinano l’uomo al centro
della banchina, mentre le pensionate continuano a lanciare urla isteriche. L’uomo
viene adagiato sul marciapiede: il suo torace si alza e si abbassa piano ma con
regolarità. Ove rimane sui binari. Sente arrivare il treno. Non è proprio quel che
aveva pianificato, ma dovrà andar bene ugualmente.
Si va a mettere con calma in mezzo alle rotaie, si ficca le mani in tasca e fissa
i fari. Sente la sirena di avvertimento, che gli ricorda il fischio di un arbitro.
Sente le rotaie vibrargli impetuosamente sotto i piedi, come un toro zeppo di
testosterone che cerchi di disarcionarlo. Espira. Nel mezzo di quell’inferno di
scosse e segnali, e dello stridio angosciato dei freni del treno, avverte un
profondo sollievo.
Finalmente.
La morte.

L’istante che segue gli sembra lungo come se a frenare fosse stato il tempo. Tutto
intorno a lui si muove al rallentatore e, nelle sue orecchie, l’esplosione di rumori
si trasforma in un ronzio. Il treno si avvicina come un aratro trascinato da due
vecchi buoi, con i fari che lampeggiano disperatamente. Ove fissa la luce e,
nell’attimo che intercorre tra due bagliori, incrocia lo sguardo del macchinista.
Deve avere al massimo vent’anni: probabilmente, i colleghi anziani lo chiamano
ancora “pivello”.
Ove punta gli occhi in quelli del pivello. Serra i pugni nelle tasche e si
maledice mentalmente per ciò che sta per fare, ma è più forte di lui perché, in
fondo, quel che è giusto è giusto.
Il treno si trova a una ventina di metri di distanza quando, seccatissimo ma in
fondo tranquillo come chi stesse andando a prendersi una tazza di caffè, Ove fa
un balzo di lato e risale sulla banchina.
Quando il macchinista riesce a fermarlo, il convoglio è esattamente all’altezza
di Ove. Il pivello ha il viso bianco come un lenzuolo e trattiene a stento il pianto.
I due uomini si guardano attraverso il finestrino, come si guarderebbero gli
ultimi due superstiti del pianeta se s’incontrassero in un deserto apocalittico e si
rendessero conto che c’è un altro essere vivente sulla Terra. Uno è sollevato da
quella scoperta; l’altro, deluso.
Il pivello fa un cenno a Ove. Ove annuisce di rimando, rassegnato.
Va bene che Ove vuol farla finita, ma non ha nessuna intenzione di rovinare la
vita a qualcun altro, tanto meno a un pivello di appena vent’anni, incrociando il
suo sguardo poco prima di trasformarsi in poltiglia sul suo finestrino. No. No di
certo. Né suo padre né Sonja gli perdonerebbero una cosa del genere.
«Oh, tutto okay?» grida uno dei caschi gialli alle sue spalle.
«È risalito proprio per un pelo!» esclama un altro casco.
Lo osservano con lo stesso sguardo ipnotico con cui, pochi istanti prima,
fissavano il buco nell’asfalto. Sembra proprio la loro competenza primaria,
quella di osservare le cose senza far niente. Ove ricambia lo sguardo.
«Per un pelo, davvero» conviene il terzo casco.
Ha ancora la banana in mano.
«Poteva finir male» ridacchia il primo casco.
«Malissimo» precisa il secondo.
«Poteva proprio morire» commenta il terzo.
«Può ringraziare il cielo!» esclama il primo con foga.
«Sì, come no» mormora Ove, immusonito.
«C’è mancato poco, e sarebbe morto spiaccicato» continua il terzo e, con la
massima disinvoltura, dà un morso alla banana.
Il treno è fermo sul binario con tutte le luci rosse di emergenza accese; sbuffa
e fischia come un uomo obeso che abbia fatto uno sforzo sovrumano. Dai vagoni
iniziano a uscire, barcollando sulla banchina, vari esemplari di pendolari:
consulenti informatici, liberi professionisti e altri cani sciolti. Ove affonda le
mani nelle tasche dei pantaloni.
«Adesso i treni saranno tutti in ritardo, cazzarola» dice, osservando il viavai
caotico sul marciapiede.
«Già» commenta il primo casco.
«Altroché» ribatte il secondo.
«In forte, forte ritardo» concorda il terzo.
Ove emette un sospiro stridulo, non troppo diverso dal rumore di un pesante
cassetto da ufficio che si sia incastrato in una cerniera arrugginita. Oltrepassa i
tre uomini senza dire una parola.
«Dove va? Lei è un eroe! Ha salvato la vita a quell’uomo!» gli grida dietro il
primo casco, sorpreso.
«Gli ha proprio salvato la vita!» urla il secondo.
«Un eroe!» esclama il terzo.
Ove non risponde. Attraversa l’atrio della stazione, passa davanti al pannello
in plexiglas e all’uomo tatuato, e si avvia verso casa sulle strade coperte di neve.
Nel frattempo, la città si è risvegliata, con le sue automobili straniere, i suoi
computer, i mutui a tasso variabile e tutte le altre centinaia di stronzate che
caratterizzano la vita moderna.
«E anche questo giorno è andato alla malora» constata amaramente Ove tra
sé.
Quando arriva davanti al deposito delle biciclette accanto al parcheggio,
s’imbatte nella Škoda bianca. Proviene dalla casa di Rune e Anita. Sul sedile del
passeggero c’è una donna dall’aria risoluta, che indossa occhiali da vista e
stringe al petto una cartelletta piena di fascicoli. Al volante c’è il tizio
mingherlino, che anche stavolta ha la sigaretta in mano. Ove deve fare un balzo
di lato per non essere investito, quando la macchina gira l’angolo.
Mentre gli passa accanto, l’uomo solleva il mozzicone fumante, e lo getta
fuori dal finestrino in direzione di Ove, abbozzando un sorrisetto altezzoso.
Come se fosse Ove ad avere torto e a intralciargli la strada, e lui volesse
mostrarsi magnanimo.
«Idiota!» sbraita Ove alla Škoda, ma il tizio non reagisce.
Prima che l’auto scompaia dietro l’angolo, Ove ne memorizza il numero di
targa.
«Tra poco toccherà a te, vecchio stronzo» sibila una voce malevola alle sue
spalle.
Ove si gira di scatto con i pugni istintivamente sollevati, e si ritrova faccia a
faccia con il proprio riflesso negli occhiali da sole a specchio dell’oca bionda. La
donna tiene in braccio la ciabatta, che ringhia contro di lui.
«Erano i servizi sociali» ghigna l’oca, indicando la casa di Rune.
Con la coda dell’occhio, Ove vede Anders uscire in retro dal garage con la
sua Audi. Ha quei nuovi fanali a forma di onda, nota. Così che, anche al buio, a
nessuno possa sfuggire che sta arrivando un’autentica auto di merda guidata da
un autentico pezzo di merda.
«E a te cosa interessa?» le chiede.
Le labbra dell’oca si assottigliano in una smorfia: è quanto di più simile a un
sorriso possa produrre una donna dalla bocca che sembra un canotto e con il
cervello grosso come un’arachide.
«M’interessa perché oggi sono venuti per quel fottuto vecchio in fondo alla
strada, ma la prossima volta sarai tu a finire in casa di riposo!»
Sputa a terra e s’incammina verso l’Audi. Ove la guarda andar via con il petto
che si solleva pesantemente sotto la giacca. Quando l’auto svolta, lei gli fa il dito
medio da dietro il finestrino. Il primo impulso di Ove è quello di correre loro
dietro: fermare quello schifoso ammasso di lamiere tedesco, il damerino, l’oca, il
cagnaccio e i fari a forma di onda, e fare tutto a pezzi. D’un tratto, però, gli
manca il respiro, come se avesse appena corso a perdifiato nella neve. Si china in
avanti, appoggia le mani sulle ginocchia e, malgrado sia su tutte le furie, inspira
profondamente. Il cuore picchia come se il suo sterno fosse la porta dell’ultimo
bagno pubblico funzionante del pianeta.
Dopo alcuni minuti, Ove raddrizza la schiena. Davanti al suo occhio destro, il
campo visivo tremola lievemente. L’Audi è svanita. Ove si volta e si avvia piano
verso casa con una mano sul petto.
Giunto a destinazione, si ferma davanti alla rimessa e fissa il buco a forma di
gatto nel cumulo di neve.
Dentro c’è il suo amico spelacchiato.
Ci mancava solo quello.
16
Un uomo che si chiamava Ove
e un camion in un bosco

Prima che quel ragazzo burbero e un po’ maldestro, dal corpo muscoloso e dai
malinconici occhi azzurri, si sedesse accanto a lei sul treno, in vita sua Sonja
aveva amato solo tre cose senza la minima riserva: i libri, suo padre e i gatti.
Naturalmente era stata corteggiata, e molto. Gli spasimanti si erano presentati
in tutte le forme possibili: alti, bassi, bruni, biondi, spiritosi, soporiferi,
presuntuosi, timidi, belli e brutti. Se non fossero stati scoraggiati dalle storie che
si raccontavano sul vecchio, che, a quanto pareva, teneva diverse armi da fuoco
nella casa di legno in mezzo al bosco dove abitava con sua figlia, forse sarebbero
stati anche più audaci. Nessuno di loro, però, l’aveva mai guardata come aveva
fatto il giovanotto che quella mattina, sul treno, aveva preso posto al suo fianco:
come se lei fosse l’unica donna sulla Terra.
I primi tempi, le sue amiche avevano dubitato del suo buonsenso. Sonja era
molto bella, e la gente non mancava di farglielo notare. Inoltre, amava ridere e,
indipendentemente da quel che le capitava, era una persona positiva e fiduciosa.
Mentre Ove era… Be’, Ove era Ove. Come aveva fatto una come lei, che si
sarebbe potuta permettere il massimo, a scegliere un uomo tanto scontroso?
Agli occhi di Sonja, però, Ove non era né burbero, né inquadrato o spigoloso.
Per lei, Ove era il mazzo di fiori rosa lievemente avvizziti che lui le aveva
offerto al loro primo appuntamento. Era la giacca marrone del padre, un po’
stretta sulle sue spalle larghe. E tutti i suoi principi, la sua etica del lavoro, la
convinzione che quel che era giusto era giusto: non per ricevere medaglie,
diplomi o pacche sulla spalla, ma semplicemente perché doveva essere così.
Sonja sapeva che non se ne trovavano più molti, di uomini del genere, e aveva
intenzione di tenerselo stretto. Forse non le scriveva poesie, non le faceva regali
costosi, né le cantava serenate. Ma nessuno degli altri suoi corteggiatori aveva
viaggiato in treno per ore ogni giorno, per diversi mesi, solo perché gli piaceva
starle seduto accanto e ascoltarla.
Quando gli accarezzava l’avambraccio, che era grosso come la sua coscia, e
gli faceva il solletico finché il viso imbronciato di Ove si apriva in un sorriso,
come una forma di gesso che si spacchi e lasci fuoriuscire una scultura
meravigliosa, qualcosa dentro di lei cantava. E quegli istanti erano solo suoi.
«Dicono che gli uomini migliori nascano dai propri errori, e che spesso
diventino molto meglio di chi non ha mai sbagliato» aveva sussurrato a Ove la
sera in cui erano usciti a cena per la prima volta, quando lui le aveva rivelato di
avere mentito sul servizio militare.
Non si era arrabbiata con lui, per quello. Negli anni a venire si sarebbe
arrabbiata, eccome, ma quella sera no. E, da allora in avanti, lui non le aveva mai
più mentito.
«Chi lo dice?» le aveva chiesto Ove, fissando la tripla serie di posate disposte
sul tavolo, come se guardasse una scatola che qualcuno gli aveva appena aperto
davanti al naso dicendogli: “Scegli la tua arma”.
«Shakespeare» aveva risposto Sonja.
«Merita?» le aveva domandato lui.
«Assolutamente. È fantastico» aveva annuito lei con foga.
«Non l’ho mai letto» aveva mormorato Ove rivolto alla tovaglia.
«Sei sempre in tempo» aveva ribattuto Sonja, posando teneramente una mano
sulla sua.
Nel corso dei quasi quattro decenni che lei e Ove avevano trascorso insieme,
Sonja era riuscita a far leggere l’opera omnia di Shakespeare a centinaia di
studenti con problemi di apprendimento, ma con Ove era stato impossibile.
Quando avevano traslocato nella villetta a schiera, però, Ove aveva passato un
bel po’ di sere nella rimessa e, una volta terminato il lavoro, nel loro soggiorno
era comparsa la più bella libreria che lei avesse mai visto.
«Dovrai pur metterli da qualche parte, tutti i tuoi libri» aveva borbottato lui,
raschiandosi un graffio sul pollice con la punta del cacciavite.
Lei lo aveva abbracciato e gli aveva sussurrato che lo amava.
Solo una volta gli aveva chiesto come si fosse procurato le bruciature che
aveva sulle braccia. E quando Ove, controvoglia e per frammenti, le aveva
raccontato la storia dell’incendio, Sonja aveva intuito quanto doveva essere stato
drammatico per lui perdere la casa dei genitori. Così, quando qualche sua amica
le chiedeva perché lo amasse, lei rispondeva che la maggior parte degli uomini,
davanti a un incendio, fugge. Ove, invece, gli era corso incontro.
Ove aveva incontrato il padre di Sonja solo una manciata di volte. Abitava molto
più a nord, nella stessa casa nel bosco dove aveva vissuto con sua figlia. Era un
posto fuori dal mondo, come se, osservando una mappa della regione, l’uomo
avesse scelto di stabilirsi nel punto più lontano possibile dal resto della gente. La
madre di Sonja era morta di parto, e il padre non si era mai più risposato. «Ce
l’ho una donna, solo che adesso non è in casa» sbottava le poche volte che
qualcuno osava sollevare la questione in sua presenza.
Sonja si era trasferita in città all’inizio del ginnasio. Quando gli aveva
proposto di seguirla, il padre l’aveva guardata con un’indignazione infinita.
«Che cosa ci vengo a fare? A incontrare gente?» aveva ringhiato. Pronunciava
sempre la parola “gente” quasi fosse un insulto. Allora Sonja lo aveva lasciato
dov’era e, a parte la visita della figlia nel fine settimana e qualche viaggio con il
camion fino al negozio di alimentari nel paese vicino, il vecchio aveva solo
Ernest a tenergli compagnia.
Si poteva dire senza esagerare che Ernest fosse il gatto più grosso del mondo.
Quando era una bambina, Sonja aveva l’impressione che fosse un pony. Andava
e veniva da casa come gli pareva, ma non abitava lì: nessuno sapeva davvero
dove abitasse. Sonja lo aveva chiamato Ernest, in onore di Ernest Hemingway. A
suo padre i libri non erano mai interessati, ma quando, a soli cinque anni, la
figlia aveva iniziato a sfogliare il quotidiano da sola, il vecchio aveva capito che
era il caso di intervenire. «Certe baggianate non le può mica leggere una
bambina, sennò darà fuori di matto» aveva dichiarato, mettendola a sedere sul
banco della biblioteca del paese. L’anziana bibliotecaria non aveva capito bene
cosa intendesse; d’altra parte, che la bambina possedesse doti intellettive fuori
dal comune era indubbio. Così, alla puntata al negozio di alimentari si era
aggiunta la sosta in biblioteca, dove, a dodici anni, Sonja aveva letto tutti i libri a
disposizione almeno due volte. Quelli che le piacevano di più, come Il vecchio e
il mare, li aveva riletti così tante volte da perdere il conto e, alla fine, il gatto era
stato battezzato Ernest. Non aveva il dono della favella, ma seguiva il padre di
Sonja ovunque, perfino a pescare. Il vecchio apprezzava quella compagnia
silenziosa e, quando rincasavano, divideva il pescato in parti eque.
La prima volta che Sonja aveva portato Ove nella casa di legno nel bosco,
Ove e il vecchio erano rimasti seduti uno di fronte all’altro con la bocca cucita,
fissando ognuno il proprio piatto per almeno un’ora, mentre la ragazza si
arrampicava sugli specchi per intavolare una conversazione civile. Nessuno dei
due uomini capiva cosa diavolo ci facesse lì, se non che evidentemente era
importante per l’unica donna che stava loro a cuore. Entrambi si erano opposti
vivamente a quell’incontro, adducendo ciascuno ragioni diverse, ma invano. Il
padre di Sonja si era dimostrato ostile sin dall’inizio. Tutto quel che sapeva di
Ove era che veniva dalla città e che non amava molto i gatti: due caratteristiche
che, a suo parere, erano motivi più che sufficienti per qualificarlo come una
persona inaffidabile.
Ove, a sua volta, aveva la sensazione di trovarsi a un colloquio di lavoro, e
provava un fortissimo disagio. Nei brevi e rari istanti in cui Sonja smetteva di
parlare, nella stanza calava quel silenzio che può nascere solo tra un padre che
sta per perdere la propria figlia e l’uomo che è destinato a portargliela via. Alla
fine, Sonja aveva sferrato un calcio sotto il tavolo a Ove per spronarlo a dire
qualcosa. Ove aveva sollevato gli occhi dal piatto, notando il suo sguardo
trepidante. Si era schiarito la gola e si era guardato intorno, alla ricerca di
qualcosa che colpisse la sua attenzione. Perché Ove aveva imparato che, se non
si aveva nulla da dire, era sempre possibile fare domande. Se c’era qualcosa che
riusciva a addolcire anche l’interlocutore più maldisposto, era indurlo a parlare
di sé.
Alla fine, lo sguardo di Ove si era spostato oltre il vetro della finestra della
cucina ed era caduto sul camion del vecchio.
«Quello è un L10 , no?» aveva borbottato, indicando l’automezzo con la
forchetta.
«Già» aveva risposto il vecchio con gli occhi fissi sul suo piatto.
«Li fabbrica la Saab» aveva dichiarato Ove con un breve cenno del capo.
«La Scania!» aveva ruggito subito il vecchio punto sul vivo, fiondandogli
un’occhiataccia.
La stanza si era di nuovo riempita di quel silenzio imbarazzato che può
nascere esclusivamente tra un giovane innamorato e il genitore della sua ragazza.
Ove aveva ripreso a fissare accigliato il piatto. Sonja aveva sferrato un calcio a
suo padre sotto il tavolo. Il vecchio l’aveva guardata risentito. Poi, però, aveva
notato il fremito agli angoli della bocca di Sonja e non se l’era sentita di vederla
scoppiare a piangere. In fin dei conti, non era così sciocco e senza cuore. Perciò,
malgrado il fastidio che provava, si era schiarito la gola e aveva giocherellato
con la forchetta nel piatto.
«Solo perché qualcuno in giacca e cravatta, alla Saab, ha agitato il portafoglio
e ha acquistato la fabbrica, non smette mica di essere la Scania» aveva grugnito
a bassa voce, con un tono lievemente meno accusatorio di prima, mentre sua
figlia gli sferrava un altro calcetto nello stinco.
Il padre di Sonja aveva sempre guidato camion della Scania, e non riusciva a
capire come si potessero comprare altre marche. Che poi l’azienda, dopo anni di
inflessibile lealtà da parte sua, si fosse fusa con la Saab era stato un tradimento
imperdonabile, ma non costituiva una ragione sufficiente per cambiare. Ove, che
a sua volta si era interessato molto alla Scania proprio e unicamente in virtù della
fusione con la Saab, aveva osservato pensoso il camion fuori dalla finestra
mentre masticava una patata.
«Va bene?» aveva domandato, di punto in bianco.
«Mah… non tanto» aveva bofonchiato scontrosamente il vecchio, prima di
tornare al suo piatto.
«Nessuno di quei modelli va bene: non li costruiscono più come si deve. Se lo
porto da un meccanico, però, mi chiede un patrimonio per ripararlo» aveva
aggiunto, con l’espressione di chi ha detto tutto quel che c’era da dire
sull’argomento.
«Se me lo permette, posso dargli un’occhiata» aveva proposto Ove entusiasta.
Era la prima volta che Sonja lo vedeva entusiasmarsi per qualcosa.
I due uomini si erano scrutati per qualche istante. Il vecchio aveva annuito e
Ove aveva fatto un rapido cenno di assenso. Dopodiché, si erano alzati con
movimenti neutrali e decisi, come avrebbero potuto fare due sicari che si fossero
appena accordati per andare ad ammazzare qualcuno. Un paio di minuti più
tardi, il padre di Sonja era tornato in cucina sorreggendosi al suo bastone e si era
lasciato cadere sulla sedia, immerso nel suo solito borbottio di eterna
insoddisfazione. Era rimasto seduto per un bel pezzo a riempire la pipa con cura;
alla fine, aveva fatto un cenno alla tavola ancora imbandita.
«Buono.»
«Grazie, papà» aveva sorriso sua figlia.
«Sei tu che hai preparato. Non devi ringraziarmi» aveva detto lui.
«Ti ringraziavo per qualcos’altro» aveva ribattuto Sonja, iniziando a
sparecchiare. Poi, gli aveva dato un bacio affettuoso sulla fronte mentre, con la
coda dell’occhio, osservava Ove che trafficava con il motore del camion in
giardino.
Il vecchio non aveva fatto commenti: si era limitato ad alzarsi sbuffando
sommessamente e, con la pipa in mano, era andato a prendere il giornale dal
ripiano della cucina. A metà strada verso la poltrona del soggiorno, si era
fermato sui suoi passi, appoggiandosi al bastone.
«Va a pesca?» aveva grugnito, senza guardarla.
«Non credo» aveva risposto Sonja.
Il padre aveva annuito ed era rimasto in silenzio per un lungo istante.
«Mm. È sempre in tempo per imparare» aveva detto tra sé alla fine. Poi, si era
infilato la pipa in bocca ed era sparito nel soggiorno.

Era il più bel complimento che Sonja gli avesse mai sentito fare a qualcuno.
17
Un uomo che si chiama Ove
e un gatto spelacchiato in un cumulo di neve

«È morto?» domanda Parvaneh sgomenta, accorrendo più veloce che può,


compatibilmente con il pancione, e fissando il buco nella neve.
«Non sono un veterinario» risponde Ove.
Non lo dice scontrosamente, ma come una semplice informazione. Non
capisce com’è che quella donna spunti fuori di continuo nei momenti meno
opportuni. Adesso non ci si può più nemmeno chinare in santa pace su un buco a
forma di gatto nella neve davanti a casa propria?
«Santo cielo, devi tirarlo fuori!» grida lei, dandogli una pacca sulla spalla con
la mano avvolta in una muffola.
Ove non sembra a suo agio, e spinge più a fondo i pugni nelle tasche della
giacca. Fa ancora un po’ fatica a respirare.
«Io non devo fare niente» dice.
«Ma sei rimbecillito?» sbotta lei.
«Non vado tanto d’accordo con i gatti, compreso questo» la informa Ove,
piantando i talloni nella neve.
Quando si volta, però, lo sguardo di Parvaneh lo convince a fare un passo di
lato.
«Forse sta dormendo» azzarda Ove, sbirciando dentro il buco.
«In caso contrario, lo recuperiamo quando sgela» aggiunge.
Appena la muffola vola di nuovo furiosamente verso di lui, Ove constata che
allontanarsi di un passo dalla donna è stata un’idea più che sensata.
Un attimo dopo, Parvaneh si inginocchia ed estrae l’animaletto congelato,
stringendolo tra le braccia sottili. Assomiglia a quattro bastoncini di pesce
surgelati, incollati a una vecchia sciarpa infeltrita.
«Apri la porta!» grida a Ove, completamente fuori di sé.
Ove preme le suole sulla neve. Non ha certo iniziato la giornata con
l’intenzione di far entrare donne o gatti in casa sua, e avrebbe davvero voglia di
dirlo chiaro e tondo, ma Parvaneh punta dritto nella sua direzione con passo
risoluto, come se il fatto di poter travolgere Ove, o chiunque altro le intralci la
strada, le fosse del tutto indifferente. Ove non ha mai avuto a che fare con una
persona tanto cocciuta. Di colpo, prova ancora quella sensazione di aver corso a
perdifiato, e lotta contro l’impulso di mettersi una mano sul petto.
Parvaneh continua ad avanzare. Lui si scansa. Lei marcia oltre, e il piccolo
fagotto di pelliccia gelato che tiene in braccio trasmette a Ove, suo malgrado,
una valanga di ricordi di Ernest. Il vecchio, sciocco e grasso Ernest, che Sonja
amava così tanto che, quando lo vedeva, il suo cuore iniziava a dar fuori di
matto.
«APRI LA PORTA!» sbraita Parvaneh, ruotando la testa come se volesse
infliggersi un colpo di frusta.
Ove pesca le chiavi nella tasca della giacca come se fosse qualcun altro a
muovergli il braccio. Gli è estremamente difficile accettare quello che sta
facendo: la sua coscienza gli urla “NOOO!” nel cervello, mentre il resto del
corpo sembra avventurarsi in una sorta di contestazione adolescenziale.
«Prendi delle coperte!» ordina Parvaneh, correndo in casa senza togliersi le
scarpe. Ove resta fermo alcuni istanti per riprendere fiato e, infine, si trascina
dentro anche lui.
«Ma fa un freddo cane! Accendi i caloriferi!» prorompe Parvaneh come se
fosse un’ovvietà, mulinando con impazienza le mani verso Ove dopo aver
deposto il gatto sul divano.
«Qui non si accende nessun calorifero» risponde Ove.
Perché adesso può davvero bastare, pensa. Resta parcheggiato sulla soglia del
soggiorno e si chiede se c’è il rischio che Parvaneh lo colpisca di nuovo con la
muffola, se le domanda di stendere almeno dei giornali sotto il gatto. Quando lei
si volta verso di lui, però, decide di non volerlo scoprire. Ove non crede di aver
mai visto una donna così infuriata.
«Ho una coperta di sopra» dice alla fine ed evita il suo sguardo, sviluppando
un improvviso interesse per la lampada nell’ingresso.
«Allora vai a prenderla!» lo esorta lei.
Ove la manderebbe volentieri a quel paese; invece, si sfila le scarpe e
attraversa il soggiorno, tenendosi ben fuori dal raggio di azione del suo guanto.
Mentre sale le scale, s’interroga sul perché debba essere così dannatamente
difficile avere un minimo di pace, in quel quartiere. Giunto al primo piano, si
ferma e fa alcuni respiri profondi. Il dolore al petto è scomparso: il cuore batte di
nuovo normalmente. Ogni tanto gli capita, ma dopo un po’ passa, così ha smesso
di preoccuparsene. Adesso, poi, del suo cuore non sa neanche più bene cosa
farsene, quindi ha davvero poca importanza che funzioni o meno.
Sente arrivare delle voci dal soggiorno. Stenta a credere alle proprie orecchie:
per essere le stesse persone che puntualmente gli impediscono di farla finita, i
suoi vicini non hanno proprio nessun pudore a spingere un uomo onesto sull’orlo
della follia e del suicidio. Perché è quel che stanno facendo con lui, pensa Ove,
questo è poco ma sicuro.
Quando ridiscende in soggiorno con la coperta in mano, Ove ci trova il
giovane obeso della casa accanto, intento a fissare incuriosito il gatto e
Parvaneh.
«Ehi, amico!» lo saluta allegro il grassone.
Ha indosso solo una maglietta con le maniche corte, sebbene fuori si congeli,
letteralmente.
«Ehi, cosa?» chiede Ove e conclude tra sé che, ormai, non si può neppure
salire e scendere le scale di casa propria senza che di sotto aprano un ostello.
«Be’… ho sentito gridare, e sono venuto a vedere se era tutto a posto»
risponde il giovane e, mentre scrolla le spalle, il grasso che ha sulla schiena
tremola formando solchi profondi nella maglietta.
Parvaneh strappa la coperta di mano a Ove e comincia a infagottare il gatto.
«Così, però, non lo scalderete mai» dice il giovane, sorridendo.
«Non t’immischiare» ribatte Ove, che di sicuro non è un esperto nello
scongelare gatti, ma d’altra parte non ama nemmeno che la gente piombi in casa
sua e inizi a dare ordini su come bisogna procedere.
«Ove, chiudi il becco!» tuona Parvaneh, rivolgendo al grassone uno sguardo
di supplica.
«Che cosa dobbiamo fare? È congelato!»
«Non dirmi di chiudere il becco» bofonchia Ove.
«Morirà!» esclama Parvaneh.
«Eh, addirittura… È solo un po’ infreddolito» s’intromette Ove, tentando di
riprendere il controllo di una situazione che, a suo parere, ha preso una piega fin
troppo delirante.
La donna si porta l’indice alle labbra e gli fa segno di star zitto. Ove ha
l’espressione sconcertata di chi abbia appena assistito a un triplo salto mortale
senza rete.
«Lo prendo io» li interrompe il giovane allungando le braccia verso il gatto,
senza badare minimamente allo sguardo imbestialito di Ove, il cui unico
desiderio è di mettere in chiaro che non si entra in casa della gente per prendere
in braccio i gatti a destra e a sinistra, senza neanche chiedere il permesso.
Quando Parvaneh lo solleva, vede che il muso dell’animale ha cominciato a
mutare colore, da lilla a bianco. Ove sembra un po’ meno sicuro e gli lancia
un’occhiata ansiosa. Poi, a malincuore, fa un passo indietro.
Il grassone si leva la maglietta.
«No, sentite… adesso può davvero… Ma CHE COSA FAI?» balbetta Ove.
Il suo sguardo vaga da Parvaneh, che è in piedi accanto al divano con in
braccio il gatto in via di scongelamento, al giovane a torso nudo, il cui grasso
tremolante lo fa assomigliare a un’enorme confezione di gelato che qualcuno
abbia sciolto e poi ricongelato.
«Dammelo» dice il giovane senza badargli, e allunga le braccia grosse come
tronchi d’albero verso Parvaneh.
Quando lei glielo porge, se lo preme contro il petto come se cercasse di farne
un involtino primavera gigante.
«Comunque, io mi chiamo Jimmy» dice a Parvaneh, sorridendo gentile.
«E io Parvaneh» risponde Parvaneh.
«Bel nome» dice Jimmy.
«Grazie! Significa “farfalla”» cinguetta Parvaneh.
«Fico!» commenta Jimmy.
«Così lo soffochi» dice Ove, osservando preoccupato il gatto.
«Oh! Tranqui, Ove» dice Jimmy.
Ove stringe la labbra fino a formare una sottile riga esangue. Poi sferra un
calcio a un’asse del parquet. Non sa bene cosa significhi quel “tranqui”, ma non
ha nessuna intenzione di calmarsi solo perché glielo intima un intruso obeso.
«Mi sa tanto che preferisce congelare a morte in modo dignitoso, piuttosto
che venir strangolato da qualcuno» dice a Jimmy, senza staccare gli occhi dalla
palla di pelo gocciolante.
Il faccione tondo di Jimmy si apre in un sorriso paziente.
«Easy, Ove. Sono un ciccione, lo sappiamo, e puoi pensare quel che ti pare di
noi ciccioni, amico, ma ti assicuro che siamo il massimo per generare calore!»
Parvaneh sbircia inquieta sopra il braccio del ragazzo e posa con cautela il
palmo della mano sul muso del gatto.
«Inizia a scaldarsi» esulta, voltandosi trionfante verso Ove.
Ove annuisce. Pensa di rispondere qualcosa di sarcastico, ma a quella notizia
si scopre stranamente sollevato. È una sensazione che lo fa sentire a disagio;
così, quando la donna lo guarda, afferra il telecomando e si mette a schiacciare i
tasti, per controllare che funzioni.
Non che gli importi molto del gatto. Ma a Sonja farebbe piacere sapere che
sta meglio, pensa.
«Faccio bollire un po’ d’acqua!» li informa Parvaneh e, con un movimento
fulmineo, sorpassa Ove e irrompe nella sua cucina, aprendo le ante degli
armadietti.
«Ma cazzarola!» esclama Ove, mollando immediatamente il telecomando e
seguendola.
Quando la raggiunge, Parvaneh è immobile al centro della stanza con il
bollitore in mano. Appare disorientata e un po’ commossa, come se solo ora
avesse capito tutto. È la prima volta che Ove la vede ammutolire. La cucina è
sgombra e ordinata, ma ricoperta di un sottile strato di polvere. C’è odore di
caffè rimasto sul fuoco un po’ troppo a lungo. Gli interstizi tra gli
elettrodomestici non sono perfettamente puliti, e ovunque ci sono oggetti della
moglie di Ove: piccoli soprammobili sul davanzale della finestra, forcine
dimenticate sul piano di lavoro in legno, la sua calligrafia sui Post-it attaccati
alla porta del frigorifero.
Il pavimento è coperto di tracce di gomma, come se qualcuno avesse fatto
avanti e indietro in bici infinite volte per tutta la casa. Il fornello e il ripiano della
cucina sono notevolmente più bassi della norma, come se fossero stati costruiti
per un bambino. Parvaneh li fissa, come fa chiunque li veda per la prima volta.
Ove è abituato: li ha costruiti lui, dopo l’incidente. Ovviamente, il Comune si era
rifiutato di contribuire, e avevano dovuto arrangiarsi.
Parvaneh sembra essersi inceppata a metà di un movimento. Senza guardarla
negli occhi, Ove le toglie il bollitore di mano, lo riempie lentamente d’acqua e
inserisce la spina nella presa.
«Non lo sapevo, Ove…» mormora imbarazzata.
Ove resta chino sull’acquaio, dandole le spalle. Lei si fa avanti e gli posa
piano una mano sulla schiena.
«Scusami, Ove. Davvero. Non avrei dovuto fiondarmi nella tua cucina senza
chiedere.»
Ove si schiarisce la gola e annuisce, ma non si volta. Non sa quanto tempo
restino così. Parvaneh gli lascia la mano sulla schiena a lungo, con naturalezza.
Ove decide di non scostarla.
La voce di Jimmy rompe il silenzio.
«Scusate, c’è qualcosa da mangiare?» grida dal soggiorno.
Ove si divincola da Parvaneh, scuote il capo, si passa rapido il dorso della
mano sul viso e si avvia verso il frigorifero, continuando a non guardarla. Poi
torna in soggiorno e mette un würstel in mano a Jimmy, che ridacchia con
gratitudine. Ove si piazza ad alcuni metri di distanza da lui, e lo osserva
inflessibile.
«Be’, come sta?» gli chiede alla fine, con un breve cenno al gatto tra le sue
braccia.
Sembra che, pian piano, l’animale stia riacquistando forma e colorito.
«Molto meglio, direi. Non credi anche tu?» ghigna Jimmy, e trangugia il
würstel in un solo boccone.
Ove lo osserva perplesso: il grassone suda come un pezzo di carne su una
piastra bollente. I loro sguardi si incrociano, e Jimmy assume un’espressione
malinconica.
«Sai… volevo dirti che… è stato uno schifo sapere di tua moglie, Ove. Mi era
simpatica. E cucinava da paura.»
Ove lo guarda e, per la prima volta quel giorno, non ha il suo solito aspetto
infuriato.
«Mm. Era brava… a far da mangiare» conviene.
Va alla finestra, controlla la maniglia e pizzica la guarnizione. Parvaneh è
sulla soglia della cucina con le mani sul pancione.
«Può restare finché non si è scongelato del tutto, poi ve lo portate via» dice
Ove ad alta voce, sollevando un sopracciglio in direzione del gatto.
Con la coda dell’occhio, vede che Parvaneh lo fissa attenta, come un
giocatore di poker che cerchi di scoprire quali carte ha in mano il suo avversario.
La cosa lo mette enormemente a disagio.
«A casa mia non può stare» dice lei poco dopo. «Le bambine sono…
allergiche» aggiunge.
Ove nota la breve pausa prima dell’aggettivo “allergiche”. Guarda sospettoso
il viso della donna riflesso sul vetro, ma non risponde. Poi si volta verso Jimmy.
«Allora, lo prendi tu» gli ordina.
Jimmy, che adesso non solo gronda sudore ma comincia anche a ricoprirsi di
chiazze rossastre, osserva il gatto che ha tra le braccia: ha iniziato a dondolare il
moncone di coda che gli resta e a strusciare il muso bagnato nella massiccia
riserva di adipe del braccio del giovane.
«Sorry, amico, non credo sia una buona idea» dice Jimmy scrollando le
spalle, tanto che il gatto ondeggia su e giù come se fosse sulle montagne russe.
«E perché no?» vuol sapere Ove.
Jimmy scosta il gatto dal petto, allungando le braccia in avanti. La pelle è
talmente paonazza che sembra in fiamme.
«Sono un po’ allergico anch’io…»
Parvaneh caccia un urlo, corre a togliergli il gatto dalle mani e lo avvolge di
nuovo nella coperta.
«Dobbiamo andare all’ospedale!» grida.
«Io, all’ospedale, non sono gradito» borbotta Ove.
Quando vede che Parvaneh è sul punto di gettargli il gatto addosso, abbassa
gli occhi e geme rassegnato. “Tutto quel che voglio è poter morire in pace”
pensa, pestando un piede sul parquet, che scricchiola leggermente. Ove guarda
Jimmy. Poi, guarda il gatto. Spazia con lo sguardo sul pavimento bagnato e
osserva Parvaneh, scuotendo la testa.
«Andiamo con la mia macchina» sibila.
Prende la giacca dal gancio e apre la porta d’ingresso. Dopo un paio di
secondi, infila di nuovo la testa in casa e lancia a Parvaneh un’occhiata truce.
«Ma non ho intenzione di venire qui davanti con la macchina, perché è
viet…»
Lei lo interrompe dicendo qualcosa in farsi, che naturalmente Ove non
capisce ma che presume sia un insulto, imbacucca meglio il gatto nella coperta e
gli passa davanti, uscendo sul vialetto innevato.
«Le regole sono regole» dice Ove con voce cupa, immobile davanti alla porta,
ma lei non gli risponde e s’incammina verso il parcheggio.
Poi, Ove si gira verso Jimmy e gli punta l’indice contro.
«E tu, infilati una maglia. Altrimenti sulla Saab non sali, ficcatelo bene in
testa.»

Questa volta, Parvaneh paga il parcheggio dell’ospedale e Ove non discute.


18
Un uomo che si chiamava Ove
e un gatto che si chiamava Ernest

Non era che a Ove non piacesse quel gatto in particolare: non gli piacevano i
gatti in generale, punto. Li aveva sempre considerati degli esseri estremamente
inaffidabili. Specie quando, come nel caso di Ernest, erano grossi come motorini.
In effetti, era difficile stabilire se Ernest fosse un gatto insolitamente grande, o
un leone straordinariamente piccolo, ma di una cosa Ove era convinto: non si
poteva stringere amicizia con qualcuno che, se avesse voluto, avrebbe potuto
sbranarti mentre dormivi.
Sonja, però, amava Ernest di un amore senza riserve, e Ove aveva imparato a
tenere quel genere di argomentazioni razionali per sé. Non era così stupido da
denigrare l’oggetto dell’affetto di sua moglie, non foss’altro perché sapeva per
esperienza diretta come ci si sentisse a essere amati da lei, malgrado nessuno
capisse il motivo. Così, lui ed Ernest avevano appreso l’arte della tolleranza, o
per lo meno a tenersi a distanza durante le visite di Ove e Sonja al vecchio, a
parte un’unica volta, quando Ernest aveva morso Ove perché lui gli si era
inavvertitamente seduto sulla coda.
E anche se Ove non riusciva a comprendere come a quel gattaccio
voluminoso fosse permesso di occupare per intero una sedia, e stendere la coda
su un’altra, aveva dovuto accettarlo. Per amore di Sonja.
Ove non aveva mai imparato a pescare, ma l’autunno successivo alla sua
prima visita al vecchio il tetto della casetta nel bosco era stato riparato, e le
infiltrazioni erano state debellate. Inoltre, il camion della Scania si metteva in
moto al primo colpo non appena si girava la chiave, e non aveva più dato
problemi. Il padre di Sonja non si era mai mostrato particolarmente grato.
D’altra parte, non aveva neanche più menzionato il fatto che Ove venisse “dalla
città”. E, per il vecchio, questa era una prova di stima non da poco.
Così erano trascorse due primavere, e due estati. Alla terza, in una tiepida notte
di giugno, il padre di Sonja era morto. Ove non aveva mai visto piangere
nessuno come aveva pianto Sonja quando aveva ricevuto la notizia. I primi
giorni, non si era praticamente alzata dal letto. Ove, che, malgrado l’avesse
affrontata diverse volte nella sua vita, con la morte aveva un rapporto piuttosto
contrastato, era rimasto seduto a fissare il muro nella cucina della casa nel bosco.
Il pastore del villaggio aveva fatto loro visita per discutere i dettagli del funerale.
«Un brav’uomo» aveva commentato brevemente, indicando su un mobile del
soggiorno una foto che ritraeva Sonja e il vecchio.
Ove aveva annuito e, non sapendo cosa rispondere, era uscito in giardino a
controllare se il camion avesse bisogno di qualche piccola manutenzione.
Il quarto giorno, Sonja si era messa a pulire la casa con una tale frenesia che
Ove le si era tenuto alla larga, come chi è dotato di buonsenso si tiene alla larga
da un tornado imminente. Aveva gironzolato nel giardino alla ricerca di qualcosa
con cui ingannare il tempo. Aveva riparato la legnaia, che era stata danneggiata
da una tempesta, e l’aveva riempita di legna che aveva tagliato con l’accetta.
Aveva falciato l’erba, e segato i rami degli arbusti che entravano nel giardino dal
bosco circostante. Alla sera del sesto giorno, sul tardi, avevano chiamato dal
negozio di alimentari.
Tutti avevano detto che era stato un incidente, ma nessuno che avesse mai
incontrato Ernest poteva credere che si fosse lanciato contro un’auto per caso. Il
dolore fa fare strane cose agli esseri viventi.
Quella notte, Ove aveva guidato sulle stradine di campagna più veloce di
quanto avesse mai fatto in vita sua, mentre Sonja teneva in grembo la grossa
testa di Ernest, piangendo disperata. Quando erano arrivati dal veterinario il
gatto era ancora vivo, ma le lesioni che aveva subìto erano troppo gravi, e la
perdita di sangue troppo consistente.
Dopo aver atteso per due ore fuori dalla sala operatoria, Sonja aveva dato a
Ernest un bacio sul muso, sussurrandogli piano: «Addio, mio caro amico». Poi,
aveva sussurrato ancora più piano:
«E addio, mio caro, caro papà.»
Il gatto aveva chiuso gli occhi e, subito dopo, aveva esalato l’ultimo respiro.
Nella sala d’aspetto, Sonja aveva posato la fronte sull’ampio petto di Ove.
«Mi mancano così tanto, Ove» aveva sospirato. «È come se il cuore mi
battesse fuori dal corpo.»
Erano rimasti in silenzio per un lungo istante, e lui l’aveva stretta forte tra le
braccia. Alla fine, lei aveva sollevato il viso verso quello di Ove e lo aveva
fissato negli occhi seria.
«Adesso dovrai amarmi il doppio» gli aveva detto.
Allora Ove le aveva mentito, rassicurandola che lo avrebbe fatto, malgrado
sapesse molto bene che era impossibile amarla più di quanto già faceva.
Avevano seppellito Ernest accanto al laghetto dove il gatto seguiva il padre di
Sonja a pescare. Quando gli avevano chiesto di dare la benedizione, il pastore
non si era tirato indietro. Poi, Ove e Sonja erano tornati in città. Lungo la strada,
si erano fermati in un paese: Sonja aveva un appuntamento, Ove ignorava con
chi. Era una delle qualità di Ove che lei apprezzava di più, gli aveva rivelato più
tardi. Sonja, infatti, non conosceva nessun altro che fosse capace di restare in
macchina per un’ora ad aspettare, senza esigere di sapere cosa stesse aspettando,
o quanto tempo ci sarebbe voluto. Non che Ove non si lamentasse. Si lamentava,
eccome, specialmente se doveva pagare il parcheggio, ma non le chiedeva mai
cosa facesse. E l’aspettava sempre.
Quando Sonja era risalita in macchina dopo aver chiuso la portiera della Saab
nel modo più cauto possibile, come aveva imparato che bisognava fare affinché
Ove non la guardasse offeso e lei si sentisse come chi ha appena preso a calci
qualcuno, aveva posato una mano sulla sua.
«Credo che dovremmo comprarci una casa tutta nostra, Ove» gli aveva detto
con dolcezza.
«Ma a cosa ci serve?» aveva chiesto Ove.
«Credo che i bambini debbano crescere in una casa» aveva risposto lei,
prendendogli la mano e portandosela piano sul ventre.
Ove era rimasto a lungo in silenzio. A lungo persino per Ove. Aveva
osservato pensoso la pancia di Sonja, come se si aspettasse che, da un momento
all’altro, innalzasse una bandiera. Poi aveva raddrizzato la schiena, aveva ruotato
la manopola della radio di mezzo giro in avanti e di mezzo indietro, e aveva
regolato gli specchietti, annuendo tra sé.
«Allora, dobbiamo comprarci anche una macchina familiare» aveva detto alla
fine.
19
Un uomo che si chiama Ove
e un gatto che, quando è arrivato,
era già messo male

Ove guarda il gatto. Il gatto guarda Ove. A Ove non piacciono i gatti, e ai gatti
non piace Ove. Ove lo sa: glielo ha insegnato l’esperienza con Ernest, anche se,
fra tutti i gatti che ha conosciuto, Ernest è quello di cui Ove ha pensato meno
peggio.
Questo gatto non assomiglia a Ernest neanche un briciolo. Tranne che per la
presunzione, che comunque, conclude Ove tra sé, deve essere una caratteristica
comune a tutti i gatti. È così spelacchiato e macilento che potrebbe benissimo
venir scambiato per un grosso ratto, e sembra perfino che durante la notte abbia
perso altro pelo.
«Te l’ho detto, donna, non vado d’accordo con i gatti!» ha spiegato Ove a
Parvaneh, mettendo in chiaro che, prima che quello sgorbio fosse ospitato in
casa sua, avrebbero dovuto passare sul suo cadavere.
E adesso lo sgorbio è lì. Ove guarda il gatto, e il gatto guarda Ove. E, con suo
grande rammarico, Ove non è ancora quel che si definisce un cadavere. Roba da
non crederci.

Quella notte, Ove si è svegliato una mezza dozzina di volte perché il gatto,
proprio un bell’insolente, si è arrampicato sul letto e si è coricato accanto a lui. Il
gatto, a sua volta, si è destato altrettante volte perché Ove, ugualmente sgarbato,
lo ha spinto via, facendolo ruzzolare sul pavimento.
Ora che l’orologio segna le sei meno un quarto e Ove si è alzato, il gatto è
seduto in cucina e fissa Ove come se gli dovesse dei soldi. Ove, a sua volta, lo
osserva diffidente, come se il gatto avesse appena suonato alla porta con una
Bibbia sotto la zampa, domandandogli se fosse “pronto ad accogliere Gesù nella
sua vita”.
«Ovviamente, ti aspetti anche che ti dia da mangiare» borbotta Ove.
Il gatto non risponde: si limita ad annusarsi le chiazze di pelo sulla pancia e a
leccarsi con disinvoltura un cuscinetto plantare.
«Be’, non pensare di poter cazzeggiare alla maniera di certi consulenti
informatici, aspettando che i passeri arrosto ti volino in bocca» aggiunge,
puntando l’indice contro l’animale, così che capisca bene chi è il padrone di
casa.
Il gatto dà l’impressione di volergli gonfiare un pallone di gomma da
masticare rosa in faccia.
Ove accende la macchina del caffè. Guarda l’orologio. Guarda il gatto. Poche
ore prima, dopo che hanno lasciato Jimmy all’ospedale, Parvaneh è riuscita a
contattare un suo conoscente, che a quanto pareva era veterinario. Il veterinario è
uscito a visitare il gatto e ha rilevato “serie lesioni da congelamento e forte
denutrizione”. Poi, ha dato a Ove una lunga lista di istruzioni su come l’animale
avrebbe dovuto essere nutrito e “rimesso a posto”. Come se il gatto fosse un
vecchio divano, e Ove un tappezziere.
«Non sono un tappezziere» chiarisce Ove al gatto. Il gatto non risponde.
«Sei qui solo perché con quella donna incinta non si può ragionare» dice Ove,
facendo un cenno alla finestra del soggiorno verso la casa di Parvaneh.
Il gatto sembra occupato a cercare di leccarsi un occhio.
Ove si accovaccia e gli tende quattro calzini. Glieli ha dati il veterinario.
Evidentemente, lo spelacchiato ha bisogno di moto più di qualsiasi altra cosa, e
Ove è disposto a collaborare. “Più quegli artigli stanno lontani dalla carta da
parati, meglio è” pensa.
«Saltaci dentro, su, così possiamo uscire. Sono in ritardo!»
Il gatto si alza e avanza pomposamente verso Ove con passi lunghi e lenti,
come se stesse camminando su un tappeto rosso. All’inizio osserva le calze
scettico, ma poi, quando Ove gliele infila sulle zampe con gesti bruschi, non si
oppone più del necessario. Appena l’operazione è terminata, Ove si alza e lo
squadra a fondo, scuotendo il capo.
«Un gatto con le calze… Che assurdità.»
Il gatto in compenso, dopo aver studiato con cura la sua nuova mise, di colpo
appare straordinariamente soddisfatto di sé, come se gli fosse venuta voglia di
farsi una foto con il cellulare e di postarla sul suo blog. Ove si mette la giacca
blu, si ficca imperiosamente le mani nelle tasche e fa un cenno alla porta
d’ingresso.
«In ogni caso, non puoi restare qui a darti delle arie tutta la mattina. Fuori!»
Così, per la prima volta, Ove ha qualcuno che gli fa compagnia durante il suo
giro d’ispezione nel quartiere. Dà un calcio al cartello di divieto di transito e ne
adocchia un altro, più piccolo, che spunta dal prato coperto di neve lungo la
strada, sul quale c’è scritto VIETATO LASCIARE LIBERI GLI ANIMALI DOMESTICI
NELL’AREA ABITATA . Lo aveva piantato lui quando era presidente
dell’associazione dei proprietari.
«Allora c’era un minimo di ordine, qui» informa il gatto, e si mette in marcia
verso i garage.
Il gatto sembra più intenzionato a fermarsi per fare pipì su qualcosa.
Ove abbassa per tre volte la maniglia della porta del suo garage, controlla il
deposito delle biciclette ed esamina il locale della raccolta differenziata. Il gatto
lo segue con l’andatura strafottente e sicura di sé che potrebbe permettersi solo
un pastore tedesco di sessanta chili della squadra narcotici della polizia. Ove
nutre il sospetto che sia stata proprio quella totale mancanza di pudore a
causargli la perdita della coda. Quando l’animale sembra interessarsi un po’
troppo all’odore di un sacco dell’immondizia, Ove lo allontana senza riguardi
con un piede, spingendolo fuori dal locale.
«No, caro! Cazzarola, non puoi mica mangiare la spazzatura!»
Il gatto lo fissa impassibile. Appena Ove si volta, zampetta fino al prato
innevato sull’altro lato della strada e fa la pipì accanto al cartello piantato da
Ove.
Quella mattina, Ove decide di spingersi con la sua ispezione fino in fondo alla
strada. Davanti alla casa di Anita e Rune, raccoglie un mozzicone di sigaretta e
lo rigira tra le dita. Evidentemente, quel cretino di assistente sociale con la
Škoda è stato ancora lì, e crede di potersene andare in giro nel loro quartiere
come se ne fosse il padrone. Ove impreca e si caccia il mozzicone in tasca.

Quando rincasano, apre una scatoletta di tonno e la posa sul pavimento della
cucina.
«Immagino che, se ti lascio morire di fame, ne faranno una dannata tragedia.»
Il gatto mangia direttamente dalla scatoletta. Ove beve il suo caffè in piedi
davanti al lavello. Quando ha terminato, ripone la tazza e la scatoletta
nell’acquaio, le lava con cura e le mette ad asciugare. Il gatto sembra interrogarsi
sul perché Ove lavi e metta ad asciugare una scatola di latta, ma poi lascia
perdere.
«Ho delle faccende da sbrigare, quindi non possiamo star qui tutto il giorno a
trastullarci» aggiunge Ove subito dopo.
Va bene che lo hanno costretto a una convivenza forzata con quel disgraziato
di un gatto, ma col cavolo che Ove cambierà le sue abitudini a causa sua. Di
conseguenza, lo spelacchiato lo seguirà ovunque Ove si rechi, anche se il felino
non sembra molto contento di doversi sedere sui fogli di giornale che Ove ha
steso sul sedile del passeggero della Saab. Da principio, Ove lo fa accomodare
su due pagine di notizie di spettacolo e, con aria assai offesa, il gatto allontana i
fogli con le zampe posteriori facendoli cadere sul tappetino e spaparanzandosi
sulla fodera in tessuto. Allora, Ove lo solleva afferrandolo per la collottola e gli
infila sotto le chiappe le pagine culturali con le recensioni dei libri appena usciti.
Quando Ove lo lascia andare, il gatto gli rivolge uno sguardo adirato e gli soffia
contro, ma rimane immobile sui fogli, limitandosi a guardare un po’ ferito fuori
dal finestrino. Ove stabilisce che ha vinto il duello, annuisce soddisfatto, ingrana
la prima e si immette nella strada principale. In quel preciso istante, ostentando
la massima indifferenza, il gatto incide con tre artigli un lungo squarcio nel
giornale e affonda entrambe le zampe anteriori nell’apertura, appoggiandole sul
sedile. Mentre lo fa, fissa Ove con uno sguardo infinitamente provocatorio, come
se volesse chiedergli: “E ADESSO, cosa farai?”.
Ove frena così di colpo che il gatto, scioccato, vola in avanti picchiando il
muso sul cruscotto, e guarda il felino come se volesse rispondere: “QUESTO!”.
Per tutto il resto del tragitto, l’animale ignora Ove e rimane rannicchiato in un
angolo del sedile, risentito, a sfregarsi il muso con una zampa. Quando Ove entra
nel negozio di fiori, tuttavia, il gatto coglie l’occasione per passare la lingua sul
volante, sulla cintura di sicurezza e lungo tutto l’interno della portiera del
guidatore, lasciando ovunque lunghe strisce di saliva.
Appena Ove torna con i fiori e scopre che la sua macchina è ricoperta di
saliva di gatto, agita furiosamente l’indice verso l’animale a mo’ di scimitarra. E
il gatto gli morde la scimitarra. Ove si rifiuta di rivolgergli la parola per il resto
del viaggio.
Finalmente arrivano al cimitero e Ove decide di usare le maniere forti:
accartoccia i fogli di giornale e spinge senza troppi riguardi il gatto fuori
dall’auto con la mazza di carta che ha appena creato. Poi prende i fiori dal
bagagliaio, chiude la Saab con la chiave e fa il giro dell’auto per controllare tutte
le portiere. Il gatto lo osserva, seduto per terra. Ove lo sorpassa senza degnarlo
di uno sguardo.
Risalgono insieme il pendio ghiacciato verso la chiesa, svoltano, arrancano
nella neve e infine si fermano davanti a Sonja. Ove spazza via la neve dalla
lapide con il dorso della mano e scuote i fiori che ha con sé.
«Ho portato le rose» borbotta.
«Rosa, come piacciono a te. Dicono che con questo gelo moriranno, ma è
solo per fregarti e farti comprare dei fiori più costosi.»
Il gatto sprofonda nella neve. Ove lo guarda indispettito, poi torna alla lapide.
«Ecco… questo qua è il gatto spelacchiato. Adesso abita da noi. Stava per
morire congelato fuori da casa nostra.»
Il gatto lo guarda indignato. Ove si schiarisce la gola.
«Era già così quando è arrivato» spiega sulla difensiva, con un cenno del capo
prima al gatto e poi alla lapide.
«Non sono stato io a conciarlo in questo modo. Era già messo male»
prosegue.
Sia la lapide sia il gatto rimangono in silenzio. Ove si guarda le scarpe.
Grugnisce. Si abbassa su un ginocchio e rimuove altra neve dalla pietra,
posandoci sopra una mano con cautela.
«Mi manchi» sussurra.
Per un breve istante, gli luccicano gli occhi. Poi sente qualcosa di soffice
contro la pelle. Gli occorrono alcuni secondi per capire che è il gatto, che gli ha
appoggiato piano la testa sulla mano.
20
Un uomo che si chiama Ove
e un’intrusa

Ove rimane seduto nella Saab con la porta del garage aperta per venti minuti
buoni. I primi cinque, il gatto lo guarda spazientito dal sedile del passeggero,
come se riflettesse sull’opportunità di dargli un pizzicotto sull’orecchio. Nei
cinque minuti successivi, muta atteggiamento e pare seriamente preoccupato.
Seguono alcuni attimi in cui l’animale tenta di aprire la portiera con le zampe.
Alla fine, dato che non ci riesce, si stende sul sedile e si addormenta.
“Ottima capacità di problem solving” pensa Ove, mentre lo sente russare.
“Bisogna ammettere che è proprio dotato.”
Osserva il garage di fronte al suo nello specchietto. È quello di Rune. Ove e
Rune hanno passato ore e ore, lì fuori. Un tempo erano amici, e non sono molte
le persone con cui Ove ha stretto amicizia nella sua vita. Ove e Sonja erano stati
i primi a trasferirsi nel quartiere, quando l’area era appena stata edificata e
tutt’intorno c’erano ancora solo alberi. Il giorno successivo, ci avevano
traslocato Rune e Anita. Siccome anche Anita era incinta, lei e Sonja erano
diventate subito migliori amiche. E, come tutte le donne che diventano migliori
amiche, avevano dato per scontato che anche i loro mariti avrebbero fatto
amicizia. In fondo, avevano così tanti interessi in comune. Ove non capiva cosa
intendessero: dopotutto, in garage Rune aveva una Volvo.
Per il resto, Ove non aveva nulla contro Rune: aveva un lavoro rispettabile, e
non parlava a vanvera. Guidava una Volvo, certo, ma, come sosteneva con
fermezza Sonja, non doveva necessariamente essere un completo idiota solo per
questo. Così, Ove lo aveva tollerato. Dopo un certo periodo, Rune gli aveva
perfino prestato degli attrezzi, e un pomeriggio erano rimasti in piedi nel
parcheggio con i pollici nelle cinture a discutere dei prezzi dei tosaerba. Quando
si erano separati, si erano stretti la mano. Come se la mutua decisione di
diventare amici fosse un accordo di lavoro.
Appena i due uomini erano venuti a sapere che nelle altre quattro villette già
terminate del quartiere stava per traslocare ogni genere di persone, avevano
improvvisato una riunione nella cucina di Ove, durante la quale avevano messo
insieme un vero e proprio regolamento, oltre a decidere di piantare cartelli con
vari divieti in tutta l’area, e di istituire un’associazione dei proprietari. Ove si era
proclamato presidente, e Rune vicepresidente.
Nei mesi che erano seguiti, si erano recati insieme alla discarica, avevano
rimproverato chi parcheggiava male, avevano tirato sul prezzo della pittura per
esterni e delle grondaie dal ferramenta, ed erano stati con il fiato sul collo
all’addetto della compagnia telefonica, quando era venuto a tirare i cavi e a
posizionare le prese nei muri, indicandogli bruscamente con la mano dove e
come avrebbe dovuto procedere. Perché, malgrado non avessero la minima idea
di come andavano installati i cavi del telefono, sapevano bene entrambi che, se
non li sorvegliavi, quei mascalzoni finivano sempre per imbrogliarti. Tutto qui.
A volte, le due coppie cenavano insieme. Vale a dire che, mentre le loro mogli
chiacchieravano del più e del meno sedute a tavola, Ove e Rune dopo una
ventina di minuti erano già nel parcheggio a dar calci ai copertoni delle rispettive
automobili e a confrontare l’ampiezza del bagagliaio, il raggio di sterzata e altre
simili faccende essenziali, trascorrendo la serata così.
Le pance di Sonja e Anita lievitavano e, secondo Rune, ciò rendeva i loro
cervelli “del tutto friabili”. A quanto pareva, da quando era entrata nel terzo
mese Anita aveva smesso di sollevare qualsiasi cosa, perfino il giornale dal
tavolo. Sonja, in compenso, aveva sviluppato un umore che cambiava più
rapidamente di quanto si aprisse una porta da saloon in un film con John Wayne,
e ciò aveva spinto Ove ad aprire la bocca ancora meno di prima. Sonja era
irritata anche da questo. E se non sudava, aveva freddo. Non appena Ove si
stancava di bisticciare, e acconsentiva ad alzare il riscaldamento di qualche
grado, ecco che lei ricominciava a sudare e lui doveva correre ad abbassarlo di
nuovo. Oltretutto, Sonja mangiava banane in quantità tali che il commesso del
negozio di alimentari doveva credere che, a casa propria, Ove avesse aperto uno
zoo.
«Gli ormoni ballano la danza di guerra» aveva scherzato Rune con fare da
intenditore, una sera in cui lui e Ove erano seduti a fare due chiacchiere nella
veranda di casa sua.
Rune aveva raccontato di aver trovato Anita in lacrime davanti alla radio, il
giorno prima, semplicemente perché stavano trasmettendo “una bella canzone”.
«Una bella… canzone?» aveva domandato Ove riluttante.
«Esatto. Una bella canzone» aveva confermato Rune.
I due avevano scosso il capo all’unisono e avevano ripreso a fissare l’oscurità
in silenzio.
«Bisogna tagliare il prato» aveva detto Rune dopo un po’.
«Ho comprato delle nuove lame per il tosaerba» aveva commentato Ove.
«Quanto le hai pagate?» aveva chiesto Rune.
E così andava avanti la loro amicizia.
Di sera, Sonja ascoltava musica. Per la pancia: perché, a suo dire, in quei
momenti il bambino si muoveva. Ove di solito indugiava sulla sua poltrona,
fingendo di guardare la tv. In realtà, era preoccupato per come sarebbero andate
le cose quando il pupo avesse deciso di venire al mondo: per esempio, si
chiedeva se lo avrebbe giudicato molto severamente perché a Ove la musica non
piaceva poi tanto.
Non era che Ove avesse paura. Solo, non sapeva come prepararsi per
diventare padre. Aveva anche chiesto a Sonja che gli procurasse qualche
manuale, ma lei si era messa a ridere. Ove non aveva capito perché: in fondo,
c’erano manuali su qualsiasi argomento.
Comunque, dubitava che sarebbe stato un granché come padre. In effetti, non
amava particolarmente i bambini e, dopotutto, lui stesso non era stato un granché
come bambino. Sonja gli aveva consigliato di parlarne con Rune, dato che “si
trovavano nella medesima situazione”, ma Ove non ne vedeva il motivo: Rune
non sarebbe mica diventato il padre del figlio di Ove, bensì del suo. In ogni caso,
Rune sembrava condividere l’idea che non avessero molto di cui discutere, per
fortuna. Così, quando dopo cena Anita andava a trovare Sonja per parlare di
dolori qui e dolori lì, Ove e Rune si scusavano dicendo di avere delle “cose da
fare” e si spostavano nella rimessa di Ove, dove rimanevano in silenzio a
cincischiare con gli attrezzi sul banco da
lavoro.
Quando, per la terza sera consecutiva, si erano ritrovati lì, con la porta chiusa
e senza sapere bene cosa fare, avevano convenuto che dovevano trovare
qualcosa di cui occuparsi prima che, come si era espresso Rune, “i vicini inizino
a credere che qui dentro si tengano affari equivoci”.
Ove aveva concordato che era una buona idea, e si erano rimboccati le
maniche. Non avevano parlato molto mentre le costruivano, ma si erano
consultati per fare i disegni, prendere le misure e controllare che gli angoli
fossero smussati a dovere. Alla fine, una sera tardi, quando Anita e Sonja erano
al quarto mese, nelle camerette di ciascuna abitazione era comparsa una culla
azzurra.
«Se è femmina, si può carteggiare e ridipingere di rosa» aveva balbettato
Ove, mostrandola a Sonja.
Lei gli aveva gettato le braccia al collo, che si era subito inumidito di lacrime.
Ormoni completamente impazziti, appunto.
«Voglio che mi chiedi di diventare tua moglie» aveva sussurrato lei.
E Ove gliel’aveva chiesto. Si erano sposati in Comune in tutta semplicità.
Nessuno dei due aveva una famiglia, quindi alla cerimonia avevano partecipato
solo Rune e Anita. Sonja e Ove si erano scambiati gli anelli e poi erano andati
tutti e quattro al ristorante. Ove aveva pagato il conto, e Rune lo aveva aiutato a
verificare che “non li avessero fregati”: naturalmente, dopo un’ora buona passata
a fare somme e divisioni, avevano scoperto che il totale era errato e avevano
minacciato il cameriere di sporgere denuncia se non avesse messo le cose a
posto. Era poco chiaro chi doveva essere denunciato, e per cosa, ma alla fine il
cameriere si era arreso e, tra imprecazioni e gesti stizziti, era tornato in cucina e
aveva preparato un nuovo conto. Nel frattempo, Rune e Ove si erano rivolti un
accigliato cenno d’intesa, senza preoccuparsi minimamente che le loro mogli,
stufe di aspettare, li avessero lasciati lì a discutere per prendere un taxi e tornare
a casa.

Ove annuisce tra sé mentre, seduto nella Saab, osserva il garage di Rune. Non
riesce a ricordare l’ultima volta in cui l’ha visto aperto. Spegne la luce dell’auto,
fa una rapida carezza al gatto, che si sveglia con un sussulto, e scende.
«Ove?» chiede incuriosita una voce sconosciuta.
Un istante dopo, una donna, evidentemente la padrona della voce sconosciuta,
fa capolino nel garage. È sulla quarantina, indossa dei jeans consunti e una
giacca a vento verde troppo grande, è struccata e ha i capelli disordinatamente
raccolti in una coda di cavallo. Senza farsi troppi problemi, entra nel garage e si
guarda intorno interessata. Il gatto avanza di un passo e le soffia in segno di
avvertimento. Lei si ferma. Ove affonda le mani nelle tasche.
«Sì?» domanda.
«Ove!» esclama di nuovo l’intrusa con un tono esageratamente vivace, come
chi voglia cercare di vendere biscotti e, allo stesso tempo, finga di non volerli
affatto vendere.
«Non compro niente» ribatte Ove, accennando con la testa alla porta del
garage e chiarendole che può anche andarsene da dove è arrivata.
La donna non sembra curarsi minimamente di quell’indicazione.
«Mi chiamo Lena! Sono una giornalista del quotidiano locale e…» esordisce,
allungando una mano.
Ove guarda la mano, e poi guarda l’intrusa.
«Non compro niente» ripete.
«Come?»
«Stai certamente vendendo abbonamenti porta a porta, ma a me non
interessa.»
La donna pare disorientata.
«Ehm… no, ecco… Io non vendo il quotidiano. Ci pubblico i miei articoli.
Sono una giornalista» riprende, arrotando la “erre” come fanno di solito i
giornalisti quando credono che l’unico problema che la gente assennata ha con
loro sia di non capire quel che dicono.
«Comunque, non voglio niente» risponde Ove, spingendola gentilmente fuori.
«Ma, Ove, io voglio parlare con lei!» protesta la donna, cercando di insinuarsi
di nuovo nel garage.
Ove agita le mani come se stesse sbattendo un tappeto invisibile.
«Ieri lei ha salvato la vita a un uomo alla stazione! Volevo intervistarla a
questo proposito» strilla l’intrusa in maniera concitata.
Vorrebbe anche aggiungere dell’altro, ma di colpo si accorge di aver perso
l’attenzione del suo interlocutore. Lo sguardo di Ove si è spinto oltre la testa
della donna, rabbuiandosi all’istante.
«Oh, no, porco cane» bofonchia.
«Senta… io… volevo chiederle…» tenta lei, ma Ove l’ha già superata e si è
messo a correre verso la Škoda bianca, che ha appena svoltato dal parcheggio e
si sta avvicinando alle abitazioni.
Quando Ove la raggiunge e batte il pugno sul vetro, la donna con gli occhiali
sul sedile del passeggero viene colta così alla sprovvista che i fascicoli che ha in
mano le volano ovunque. L’uomo con la camicia bianca al volante, invece,
abbassa il finestrino, apparentemente impassibile.
«Sì?» chiede.
«Il transito è vietato nell’area abitata» sibila Ove, indicando con la mano
aperta prima le case, poi la Škoda, poi l’uomo al volante e, infine, il parcheggio.
«Quindi, in questo quartiere si parcheggia nel PAR-CHEG-GIO!»
L’uomo con la camicia bianca osserva le case, il parcheggio, e poi Ove.
«Ho il permesso del Comune di guidare nel quartiere e parcheggiare davanti
alle abitazioni. Quindi, la prego di spostarsi.»
Ove è talmente scioccato da quella risposta che gli occorrono diversi secondi
per formulare una replica che non consista solo in imprecazioni. Nel frattempo,
l’uomo con la camicia bianca afferra un pacchetto di sigarette dal cruscotto e se
lo picchietta sulla coscia.
«Faccia attenzione, per favore» lo prega.
«Che cosa sta facendo qui?» prorompe Ove, di rimando.
«Questo non è affar suo» risponde il tizio, e la sua voce è più fredda di quella
di un messaggio registrato.
S’infila una sigaretta in bocca e l’accende. Ove respira con tale difficoltà che
il petto gli sussulta sotto la giacca. La donna sul sedile del passeggero raccoglie i
fascicoli e si raddrizza gli occhiali. L’uomo con la camicia bianca sospira, come
se Ove fosse un bambino capriccioso che si rifiuta di smettere di correre in
skateboard sul marciapiede.
«Comunque, lo sa benissimo cosa siamo venuti a fare. Dobbiamo occuparci
di Rune nella casa là in fondo.»
Mette fuori il braccio dal finestrino e scuote la sigaretta, così che un po’ di
cenere vola sullo specchietto.
«“Occuparci”?» ripete Ove.
«Già» annuisce indifferente l’uomo.
«E se Anita non fosse d’accordo?» sibila Ove, tamburellando con l’indice sul
tettuccio dell’automobile.
L’uomo con la camicia bianca guarda la donna con gli occhiali e abbozza un
sorriso rassegnato. Poi si volta verso Ove e parla molto lentamente. Come se,
altrimenti, Ove non fosse in grado di comprenderlo.
«La decisione non spetta ad Anita. Spetta alla commissione d’inchiesta.»
Il respiro di Ove si fa più affannoso. Sente il cuore battergli in gola.
«Tu non guidi la macchina nel quartiere» si limita a dire a denti stretti.
Ha i pugni chiusi e uno sguardo altamente minaccioso. Ciononostante,
l’uomo con la camicia bianca non si lascia intimidire. Spegne la sigaretta sulla
portiera della Škoda e fa cadere a terra il mozzicone con nonchalance, facendo
capire a Ove che né lui né la sua collega hanno tempo da perdere con le
chiacchiere insensate di un vecchio demente.
«E che cosa farà esattamente per fermarmi, Ove?» gli domanda l’uomo.
Quando sente pronunciare il suo nome, Ove ha l’impressione che gli abbiano
lanciato contro un ariete. Fissa l’uomo con la camicia bianca a bocca aperta, poi
vaga con lo sguardo sull’automobile.
«Come fai a sapere come mi chiamo?»
«So molte cose di lei» dice l’uomo.
Ove fa appena in tempo a scostarsi che quello rimette in moto la Škoda e
avanza verso le villette. Ove, sotto shock, lo guarda andare via.
«Chi era?» chiede la donna con la giacca a vento alle sue spalle.
Ove si gira di colpo.
«Come fate tutti a sapere come mi chiamo?» richiede, fulmineo.
L’intrusa indietreggia di un passo e si porta una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, senza distogliere lo sguardo dai pugni di Ove.
«Come le ho detto, scrivo per il quotidiano locale… Abbiamo intervistato le
persone che si trovavano sulla banchina della stazione ieri mattina…»
«Come fate a sapere come mi chiamo?» ripete Ove, ora con la voce tremante
di rabbia.
«Quando ha comprato il biglietto del treno, lei ha usato la carta di credito. Mi
sono fatta dare la lista dei pagamenti allo sportello, e sono risalita al suo
recapito» dice la giornalista, facendo un altro passo indietro.
«Ma lui?! Come fa LUI a sapere come mi chiamo?» sbraita Ove, agitando un
braccio nella direzione in cui è scomparsa la Škoda, tanto che le vene sulla
fronte gli vibrano come dei serpenti sotto la pelle di un tamburo.
«Be’, questo proprio non lo so» risponde lei.
Ove ansima e la inchioda con lo sguardo, come se cercasse di capire se sta
mentendo.
«Davvero, non ne ho idea: non ho mai visto quell’uomo prima d’ora» assicura
l’intrusa.
Ove la guarda più intensamente. Alla fine, annuisce risoluto tra sé. Si volta e
s’incammina verso casa sua. Lei lo chiama, ma lui non reagisce. Il gatto lo segue
nell’ingresso, e Ove richiude la porta. Intanto, in fondo alla strada l’uomo con la
camicia bianca e la donna con gli occhiali e i fascicoli suonano alla porta di
Anita e Rune.
Ove si lascia cadere sulla panca. Trema per l’umiliazione. Aveva quasi
dimenticato quella sensazione di annientamento e di totale impotenza: la
consapevolezza che non ci si può battere contro gli uomini con la camicia
bianca.
E adesso sono tornati. Non passavano di lì da quando lui e Sonja erano
rientrati dalla Spagna. Dopo l’incidente.
21
Un uomo che si chiamava Ove
e posti dove, nei ristoranti,
suonano musica straniera

Ovviamente, il viaggio in pullman era stato un’idea di Sonja. Ove proprio non
capiva che senso avesse. Se dovevano andare da qualche parte, potevano
benissimo usare la Saab. Sonja, però, si ostinava a dire che i pullman erano
“romantici”, ed era chiaro che per lei era tremendamente importante. Così, lui
l’aveva accontentata. Anche se in Spagna parlavano come dei balbuzienti,
suonavano musica straniera nei ristoranti e andavano a dormire in pieno giorno.
E anche se all’andata, sul pullman, la gente beveva birra di mattina. “Roba che
nemmeno al circo” aveva riflettuto Ove.
Ove aveva fatto del suo meglio per essere più critico del solito, ma Sonja era
talmente al settimo cielo per tutto che aveva finito per contagiarlo un po’. E poi,
quando l’abbracciava, lei rideva così forte che Ove sentiva la sua risata in tutto il
corpo, e questo non poteva non fargli piacere.

Avevano alloggiato in un piccolo hotel, con una piccola piscina e un piccolo


ristorante gestito da un piccolo uomo che, a quanto aveva capito Ove, doveva
chiamarsi Shosse. Si scriveva “José”, ma era evidente che in Spagna avevano
un’idea tutta loro delle pronunce. Shosse non parlava svedese, però era molto
interessato a parlare ugualmente. Sonja sfogliava avanti e indietro un libretto,
cercando di dire “tramonto” o “prosciutto” in spagnolo. Ove era dell’idea che,
solo perché lo dicevi in un’altra lingua, il prosciutto non smetteva di essere la
coscia del maiale, però evitava di fare
commenti.
In compenso, aveva cercato di far notare a Sonja che non avrebbe dovuto dare
soldi ai mendicanti che chiedevano l’elemosina per strada, perché di certo li
avrebbero usati solo per comprarsi da bere, ma lei non ne aveva voluto sapere.
«Con i soldi che gli do faranno quello che vogliono» gli aveva detto.
E quando Ove aveva protestato, lei aveva sorriso, aveva preso le grosse mani
del marito nelle sue e le aveva baciate.
«Ove, quando una persona dona qualcosa a un’altra, non è chi riceve a essere
benedetto. È chi dona.»
Il secondo giorno, Sonja si era coricata dopo pranzo. Perché in Spagna si
usava così, aveva detto, e “se sei a Roma fa’ come i romani”. Ove, naturalmente,
sospettava che Roma e i romani non c’entrassero un fico secco, ma che come
scusa calzasse alla perfezione. Dopotutto, da quando era rimasta incinta sua
moglie dormiva sedici ore al giorno: era come andare in vacanza con un
poppante.
Nel frattempo, Ove era andato a fare una passeggiata. Era sceso fino al
villaggio e aveva osservato le case: erano tutte in pietra, e non ce n’era una che
avesse un telaio decente alle finestre. Molte abitazioni non avevano nemmeno i
gradini davanti alla porta. Ove lo aveva trovato un tantino barbaro. Cazzarola,
non si potevano mica costruire le case in quel modo.
Stava tornando in albergo, quando aveva visto Shosse chino su una piccola
utilitaria fumante, ferma sul ciglio della strada. All’interno c’erano due bambini
e una donna anziana con uno scialle sulla testa, che non sembrava
particolarmente in forma.
Appena Shosse aveva notato Ove, gli aveva rivolto dei gesti concitati e uno
sguardo pieno di panico. «Segnooor» lo aveva chiamato, proprio come aveva
fatto ogni volta che gli aveva rivolto la parola da quando Ove aveva messo piede
nell’hotel. Ove immaginava volesse dire “Ove” in spagnolo, ma non ne era del
tutto sicuro: in fondo, il libretto di Sonja lui non l’aveva mai aperto. In ogni
caso, Shosse aveva indicato l’auto e aveva gesticolato di nuovo furiosamente in
direzione di Ove. Ove si era ficcato le mani in tasca e si era fermato a debita
distanza con aria circospetta.
«Hospital!» aveva gridato Shosse, accennando alla donna anziana in
macchina. In effetti non era ben messa, aveva stabilito Ove tra sé dopo averle
lanciato un rapido sguardo. Shosse aveva indicato prima la donna e poi il motore
fumante sotto il cofano, ripetendo disperato «Hospital! Hospital!». Dopo aver
studiato attentamente quello spettacolo, Ove era giunto alla conclusione che
Hospital fosse la marca dell’auto fumante.
Si era chinato in avanti e aveva sbirciato il motore: non sembrava molto
complicato.
«Hospital» aveva ripetuto Shosse, annuendo diverse volte con un’espressione
impaurita sul viso.
Ove non sapeva cosa rispondergli: evidentemente, quella faccenda delle
marche di automobili era cruciale lì in Spagna e, dopotutto, a lui la cosa non
creava nessun problema.
«Saab» aveva detto, puntandosi chiaramente un dito sul petto.
Shosse lo aveva fissato perplesso per qualche istante. Poi aveva indicato se
stesso.
«Shosse!»
«Non ti ho mica chiesto il tuo cavolo di nome, ho detto so…» aveva
cominciato Ove, ma si era interrotto non appena aveva incrociato lo sguardo,
lucido come uno specchio d’acqua, dell’uomo dall’altra parte del cofano.
A quanto pareva, Shosse capiva lo svedese ancor meno di quanto Ove capisse
lo spagnolo. Ove aveva sospirato, lanciando un’occhiata disorientata ai bambini
sui sedili posteriori: tenevano la donna per mano e sembravano terrorizzati. Poi,
era tornato al motore.
Si era arrotolato le maniche della camicia e aveva fatto segno a Shosse di
spostarsi.
Per quanto cercasse nel suo libro, Sonja non aveva mai saputo esattamente
perché, per il resto della settimana, lei e Ove avevano mangiato gratis al
ristorante di José. Né riusciva a capire per quale motivo, ogni volta che vedeva
suo marito, quell’ometto spagnolo s’illuminava come il sole, allungava le
braccia ed esclamava: «Señor Saab!!!». Tutto questo, comunque, la faceva
sempre scoppiare a ridere.
Come i sonnellini per Sonja, le passeggiate al pomeriggio erano diventate per
Ove un rituale quotidiano. Il terzo giorno, Ove era passato accanto a un uomo
che stava costruendo una recinzione e si era fermato a spiegargli che, così, non si
poteva costruire una recinzione. L’uomo non aveva capito una parola, e Ove
aveva concluso che avrebbe fatto prima a mostrargli quel che intendeva. Il
quarto giorno, aveva aiutato il parroco del villaggio a tirar su un muretto intorno
alla chiesa. Il quinto giorno, aveva accompagnato Shosse in campagna, dove
aveva aiutato un suo amico a liberare un cavallo che era rimasto impantanato in
un fosso.
Molti anni dopo, a Sonja era venuto in mente di fare qualche domanda al
marito e, quando Ove le aveva raccontato tutto, lei aveva scosso il capo a lungo,
sorpresa. «Quindi, mentre io dormivo, tu te la svignavi e aiutavi le persone in
difficoltà a… costruire recinzioni?! Be’, Ove… si può dire tutto sul tuo conto,
ma sei il supereroe più bizzarro di cui abbia mai sentito parlare.»
Durante il viaggio di ritorno in pullman, Ove aveva tenuto la mano sulla
pancia di sua moglie e aveva sentito il bambino scalciare per la prima volta.
Piano, come se qualcuno gli avesse toccato il palmo attraverso un guanto da
cucina molto spesso. Erano rimasti seduti così per un bel po’ ad avvertire quei
lievi colpetti sordi. Ove non aveva detto niente, ma Sonja lo aveva visto
asciugarsi gli occhi con la mano quando, alla fine, si era alzato dal sedile
borbottando che “doveva andare in bagno”.
Era stata la settimana più felice della vita di Ove.
Sarebbe seguita la peggiore in assoluto.
22
Un uomo che si chiama Ove
e qualcuno in un garage

Ove e il gatto sono seduti in silenzio nella Saab, che è parcheggiata nell’area
scarico merci davanti all’ingresso dell’ospedale.
«Smettila di fare quella faccia, come se fosse colpa mia» dice Ove al gatto.
Il gatto lo guarda con un’espressione più delusa che arrabbiata. Ove lancia
un’occhiataccia fuori dal finestrino. È più o meno dello stesso umore.
Non dovrebbe trovarsi lì. Lui li odia, gli ospedali; eppure, in meno di una
settimana ci è dovuto andare tre dannate volte. Non è affatto giusto, né
ragionevole, ma non ha avuto scelta. A essere sinceri, Ove sente di aver ceduto a
un vero e proprio ricatto.
Quella giornata, infatti, è partita con il piede sbagliato sin dal primo istante.

Per cominciare, durante la loro ispezione mattutina Ove e il gatto hanno scoperto
che qualcuno aveva abbattuto il cartello di divieto di transito nell’area abitata.
Ove ha raschiato via con l’unghia del pollice un po’ di vernice bianca da un lato
del palo e si è subito profuso in una sequela di imprecazioni talmente colorite
che persino il gatto è rimasto un po’ sgomento. Nei pressi della casa di Anita e
Rune, poi, ha trovato dei mozziconi di sigaretta sul marciapiede. Era così
infuriato che ha dovuto ripetere il giro d’ispezione un’altra volta solo per far
sbollire la rabbia. Quando è tornato indietro, il gatto era accovacciato sulla neve
e gli ha rivolto uno sguardo d’accusa.
«Non è colpa mia» ha borbottato Ove prima di entrare nella rimessa.
Ne è uscito con il badile in mano. Si è avviato verso il vialetto tra le
abitazioni e si è fermato in mezzo, mentre la sua giacca blu si alzava e abbassava
al ritmo dei suoi respiri. Poi, si è voltato verso la casa di Rune digrignando i
denti.
«Non è colpa mia se quel babbeo è diventato vecchio» ha proseguito.
Il gatto, però, non l’ha considerata una spiegazione accettabile e ha iniziato a
miagolare. Ove, allora, gli ha puntato il badile contro.
«Credi che sia la prima volta che ho a che fare con le autorità? Eh? La
decisione su Rune… Credi che abbiano finito? Non finiranno MAI! Faranno
commissioni d’inchiesta e discussioni e ricorsi e sproloqui infiniti… Tutte le loro
porcate burocratiche! Lo capisci? Uno pensa che faranno in fretta, e invece ci
vorranno mesi! Anni! Credi che io abbia intenzione di aspettare tutto questo
tempo solo perché quel babbeo non è più autosufficiente?»
Il gatto non ha risposto.
«Tu non ne capisci niente di queste cose! Lo sai?» ha sibilato Ove,
voltandosi.
Mentre spalava la neve, ha avvertito lo sguardo del gatto sulla schiena.

Già. A essere onesti, comunque, non è quello il motivo per cui adesso Ove e il
gatto sono dentro la Saab nel parcheggio davanti all’ospedale. Anche se c’è un
legame piuttosto stretto con il motivo per cui, mentre Ove stava spalando la
neve, la giornalista con la giacca a vento verde un po’ troppo grande è
ricomparsa di fronte a casa sua.
«Ove?» lo ha apostrofato di nuovo, come se temesse che, dall’ultima volta in
cui era andata lì a disturbarlo, avesse cambiato identità.
Ove ha continuato a spalare, senza dare alcun segno di aver notato la sua
presenza.
«Vorrei solo porle qualche domanda…» ha tentato lei.
«Valle a porre da qualche altra parte. Qui non devono stare» le ha risposto
Ove, lanciandosi la neve attorno con tale foga che era difficile stabilire se stesse
spalando o scavando.
«Volevo sol…» ha ripreso la donna, ma ha dovuto interrompere la frase a
metà perché Ove e il gatto sono rientrati in casa, sbattendole la porta in faccia.
I due si sono accucciati nell’ingresso in attesa che quella rompiscatole se ne
andasse. Ma lei non se ne è andata. Anzi, ha cominciato a tirar pugni sulla porta
e a strillare: «Ma lei è un eroe!!».
«Quella donna è una pazza scatenata» Ove ha detto al gatto.
Il gatto non ha sollevato obiezioni.
Quando la giornalista si è messa a picchiare e a urlare ancora più forte, Ove
non ci ha visto più: ha spalancato la porta, si è portato l’indice davanti alla bocca
e l’ha zittita, come se si trovassero non su un vialetto pedonale ma in una
biblioteca universitaria.
Al che, lei ha sorriso, agitando davanti a Ove quella che doveva essere una
specie di macchina fotografica. O forse era qualcos’altro: dopotutto, di questi
tempi non è più così semplice sapere cos’è o cosa non è una macchina
fotografica.
Mentre cercava di fotografarlo, la donna ha messo un piede in casa di Ove. E
forse non avrebbe dovuto farlo.
D’istinto, Ove ha sollevato una delle sue grosse mani e le ha dato una spinta,
lieve ma sufficiente a farla quasi capitombolare nella neve.
«Ti ho già detto che non voglio niente!» ha ribadito, esasperato.
Lei è tornata in equilibrio e ha ripreso a scuotere la macchina fotografica
verso di lui, strillando qualcosa. Ove non le ha prestato ascolto. Ha guardato
l’apparecchio come se fosse una pistola e, alla fine, ha deciso di svignarsela. Era
evidente che con quella donna non si poteva ragionare.
Quindi, Ove e il gatto sono usciti, hanno chiuso a chiave la porta d’ingresso e
si sono incamminati il più velocemente possibile verso il parcheggio. La
giornalista è corsa loro dietro.

E, sì, in tutta onestà, quello non è il motivo per cui ora Ove si trova davanti
all’ospedale. Tuttavia, quando più o meno un quarto d’ora dopo Parvaneh ha
bussato alla porta di casa di Ove con la figlia di tre anni per mano e nessuno le
ha aperto, ha udito delle voci provenire dal parcheggio. E questo ha, per così
dire, un bel po’ a che fare con il motivo per cui Ove adesso si trova davanti
all’ospedale.
Parvaneh e Tre anni hanno svoltato l’angolo e hanno visto Ove in piedi di
fronte alla porta chiusa del suo garage, con i pugni ostinatamente ficcati in tasca.
Il gatto gli era accovacciato accanto, con un’espressione colpevole sul muso.
«Cosa stai facendo?» gli ha domandato Parvaneh.
«Niente» ha risposto Ove. Sia lui sia il gatto hanno abbassato gli occhi
sull’asfalto.
Dal garage si sono levati dei colpi sordi.
«Che cos’era?» ha chiesto Parvaneh, fissando stupita la porta.
Ove ha rivolto tutta la sua attenzione a un frammento di asfalto davanti ai
suoi piedi. Il gatto, da parte sua, se solo avesse potuto si sarebbe volentieri
messo a fischiettare.
Dal garage sono arrivati altri colpi.
«Chi c’è?» ha domandato Parvaneh ad alta voce.
«Chi c’è?» le ha fatto eco la porta del garage.
Parvaneh ha sgranato gli occhi.
«Santo cielo… Hai rinchiuso qualcuno nel garage?!» ha ruggito, agguantando
Ove per un braccio.
Ove non ha fiatato. Parvaneh lo ha scrollato, come se cercasse di far cadere
delle noci di cocco.
«OVE!»
«Sì, sì, sì! Ho dovuto farlo, ma non era mia intenzione» ha balbettato lui,
divincolandosi.
Parvaneh ha scosso il capo.
«Non era tua intenzione!?»
«No, non era mia intenzione» ha ripetuto Ove, convinto che fosse sufficiente
a chiudere la discussione.
Quando si è reso conto che Parvaneh si aspettava una spiegazione più
dettagliata, si è grattato la testa e ha sospirato.
«Okay. È una giornalista. Comunque… Cazzarola, sinceramente non avevo
pensato di rinchiudere lei! La mia idea era di rifugiarmi nel garage con il gatto,
ma poi lei ci ha seguiti e… be’, è rimasta chiusa dentro.»
Parvaneh ha iniziato a massaggiarsi le tempie.
«Non ce la faccio…» ha sospirato.
«Ahiahiahi!» ha esclamato Tre anni, minacciando Ove con l’indice.
«C’è nessuno?» ha domandato la porta del garage.
«No, non c’è nessuno!» è sbottato Ove di rimando.
«Ma se vi sento parlare!» ha detto la porta del garage.
Ove ha emesso un sospiro profondo e ha lanciato un’occhiata rassegnata a
Parvaneh, come se pensasse: “Vedi un po’… siamo arrivati al punto che anche le
porte dei garage mi rivolgono la parola…”.
Parvaneh ha avvicinato il viso alla porta e ha bussato piano. La porta ha
risposto con altri colpi, quasi si aspettasse che, da quel momento in avanti,
avrebbero comunicato con una specie di alfabeto Morse. Parvaneh si è schiarita
la gola.
«Perché vuoi parlare con Ove?» ha chiesto, adoperando l’alfabeto più
convenzionale.
«È un eroe!»
«Un… cosa?»
«Sì, scusa. Allora… Io mi chiamo Lena, lavoro al quotidiano locale e volevo
fare un’interv…»
Parvaneh ha guardato Ove scioccata.
«Un eroe?»
«Quella lì sta dando i numeri alla grande!» ha protestato Ove.
«Ha salvato la vita a un uomo che è caduto sui binari, alla stazione!» ha
strillato la porta del garage.
«Sei sicura di aver contattato l’Ove giusto?» ha chiesto Parvaneh.
Ove si è offeso.
«Ah, be’. Quindi, adesso è escluso che io possa essere un eroe» ha borbottato.
Parvaneh lo ha fissato con occhi stretti e sospettosi. Tre anni ha tentato di
afferrare quel poco che restava della coda del gatto, gridando esaltata: «Micio!».
Il micio non è sembrato entusiasta, e ha cercato di sfuggirle, rifugiandosi dietro
la gamba di Ove.
«Ove, che cos’hai fatto alla stazione?» ha chiesto Parvaneh con voce bassa e
confidenziale, allontanandosi di due passi dal garage.
Intanto, Tre anni dava la caccia al gatto intorno ai piedi di Ove.
«Oh, ho solo tirato su un tizio incravattato dalle rotaie, ma non c’è mica
bisogno di fare tutte queste storie» ha mormorato.
Parvaneh ha trattenuto a stento una risata.
«E nemmeno di ridacchiare» ha aggiunto Ove stizzito.
«Scusami» ha detto Parvaneh.
La porta del garage ha gridato qualcosa che assomigliava a un: «Ehi? Siete
ancora lì?».
«No!» ha urlato Ove.
«Ma perché è così arrabbiato?» ha domandato la porta.
Ove si è sporto titubante verso Parvaneh.
«Io… non so come disfarmene» le ha confessato con negli occhi quella che,
se non lo avesse conosciuto bene, Parvaneh avrebbe quasi creduto fosse
un’espressione di supplica.
«Non ce la voglio lì dentro, da sola, con la Saab!» ha sussurrato serio.
Parvaneh ha annuito per fargli capire che condivideva i suoi timori. Ove ha
abbassato una mano mediatrice fra Tre anni e il gatto prima che la situazione ai
suoi piedi degenerasse. La piccola, infatti, voleva abbracciare il gatto, ma il gatto
sembrava pronto a uno scontro a fuoco da serie poliziesca americana. Ove ha
acchiappato Tre anni, che è esplosa in un attacco di risolini, e l’ha presa in
braccio.
«Voi due, cosa ci fate qui?» ha domandato Ove a Parvaneh, mentre le porgeva
la bimba in preda alle risa come se fosse un sacco di patate.
«Dobbiamo prendere l’autobus per andare a recuperare Patrick e Jimmy
all’ospedale» ha risposto lei.
Alla parola “autobus”, gli zigomi di Ove hanno avuto un fremito di fastidio.
«Noi…» ha ripreso poco dopo, come se si fosse persa dietro un pensiero.
Ha guardato la porta del garage, e poi Ove.
«Non vi sento! Parlate più forte!» ha strillato la porta.
Anche Ove si è allontanato di due passi dal garage. Parvaneh gli ha sorriso, di
colpo sicura di sé, come se avesse appena terminato di risolvere un cruciverba
particolarmente difficile.
«Ascolta, Ove, facciamo così: se ci accompagni all’ospedale, ti aiuto a
disfarti di questa giornalista. Okay?»
Ove ha levato gli occhi al cielo. La cosa non lo convinceva neanche un po’.
Di certo non aveva nessuna intenzione di tornare all’ospedale. Parvaneh ha
allargato le braccia.
«Oppure, dico alla giornalista che ho qualche storiella da raccontarle sul tuo
conto» ha detto, inarcando un sopracciglio.
«Storiella? Quale storiella?» ha gridato la porta del garage, riprendendo a
rimbombare furiosamente.
Ove l’ha fissata con aria abbattuta.
«Questo è un ricatto» ha detto a Parvaneh.
Parvaneh ha annuito soddisfatta.
«Ove picchia claun!» ha esclamato Tre anni, lanciando un’occhiata al gatto
come chi la sa lunga. Del resto, la palese avversione di Ove nei confronti degli
ospedali aveva bisogno di essere illustrata per chi non fosse stato presente
l’ultima volta che si era manifestata.
Il gatto ha continuato a ostentare indifferenza, ma deve aver riflettuto che a
chiunque, con intorno un essere tanto snervante quanto Tre anni, sarebbe venuta
voglia di menar le mani.
«Io non mi piego a un ricatto!» ha dichiarato Ove risoluto, puntando l’indice
contro Parvaneh e segnalando così che, per lui, la questione era chiusa.

Dunque è per questo che, adesso, Ove si trova davanti all’ospedale. Il gatto
sembra convinto che Ove si sia macchiato di alto tradimento per averlo costretto
a fare l’intero viaggio sul sedile posteriore accanto a Tre anni. Ove raddrizza i
giornali che ha steso sui sedili. Si sente preso in giro. Quando Parvaneh gli ha
detto che lo avrebbe aiutato a “disfarsi” della giornalista, non aveva un’idea
precisa di cos’avesse in mente. Certo non pretendeva che la facesse svanire in
una nuvola di fumo, o che l’abbattesse con una vanga e la seppellisse nel
deserto, o cose simili.
Tutto quel che Parvaneh aveva fatto, però, era stato aprire la porta del garage,
dare alla giornalista il proprio biglietto da visita e dirle: «Chiamami, così
parliamo di Ove». Ma che razza di modo era, quello, di disfarsi di qualcuno? Un
gran bel modo del cavolo, ecco cosa pensava Ove.
Adesso, naturalmente, è troppo tardi per protestare. Adesso, per la terza volta
in meno di una settimana, Ove è davanti all’ospedale, in attesa e su tutte le furie.
Un ricatto bello e buono, ecco cos’è stato.
Oltretutto, deve anche sorbirsi gli sguardi accusatori del gatto, che gli
ricordano il modo in cui a volte lo guardava Sonja.
«Non verranno a prendere Rune. Dicono che lo faranno, ma l’inchiesta andrà
avanti per anni» dice Ove al gatto.
Forse lo dice anche a Sonja. Forse anche a se stesso. Chi lo sa.
«Tu, però, smettila di fare la vittima. Se non fosse per me, ora vivresti con
quella piccola peste e non ti sarebbe rimasto granché attaccato alla coda.
Pensaci!» sbotta, cercando di cambiare argomento.
Il gatto si rotola su un fianco e, per tutta risposta, si addormenta. Ove scruta
di nuovo fuori dal finestrino. Sa bene che Tre anni non è affatto allergica. E che
Parvaneh gli ha mentito perché voleva che fosse lui a prendersi cura dello
spelacchiato.

Cazzarola, non è mica un vecchio demente.


23
Un uomo che si chiamava Ove
e un pullman che non è mai arrivato
a destinazione

“Ogni uomo deve sapere per cosa battersi.” Era così che dicevano. O, almeno,
era quello che una volta Sonja gli aveva letto ad alta voce da uno dei suoi libri,
Ove non ricordava quale: dopotutto, sua moglie aveva tanti di quei libri. In
Spagna ne aveva comprati una valigia intera, malgrado lo spagnolo non lo
capisse nemmeno. «Lo imparo mentre leggo» si era limitata a dire, come se
funzionasse così. Ove le aveva spiegato che preferiva pensare con la propria
testa, piuttosto che leggere quello che avevano pensato un mucchio di altri inetti.
Sonja aveva sorriso e gli aveva accarezzato una guancia. Su quello, Ove non
aveva obiezioni da sollevare.
Aveva caricato sul pullman le sue valigie, che come al solito erano piene fin
quasi a scoppiare. Quando era passato accanto all’autista, aveva sentito che
puzzava di vino, ma si era detto che, se in Spagna si usava così, tanto valeva
lasciar perdere. Era seduto sul sedile quando Sonja gli aveva preso la mano e se
l’era messa sul ventre, facendogli sentire il bambino che scalciava per la prima e
ultima volta. Poi, Ove si era alzato per andare alla toilette e, mentre si trovava a
metà del corridoio, il pullman aveva sbandato e aveva urtato la barriera
spartitraffico in mezzo all’autostrada. Era seguito un unico istante di silenzio,
come se il tempo avesse trattenuto il respiro. Infine, c’era stata l’esplosione. Le
schegge di vetro ovunque. Lo stridore spietato della lamiera che si piegava. Lo
schianto violento delle macchine contro l’automezzo.
E le urla. Non le avrebbe mai dimenticate.
Ove era stato sbalzato lontano e ricordava solo di essere caduto sulla pancia.
Aveva cercato disperatamente Sonja con lo sguardo nel tumulto di corpi, ma lei
era scomparsa. Si era lanciato in avanti, tagliandosi nella pioggia di vetro che
scendeva dall’alto, ma aveva avuto l’impressione di essere trattenuto da una
bestia rabbiosa. Come se il diavolo in persona lo avesse agguantato per la gola,
costringendolo a terra in una furiosa umiliazione. L’impotenza assoluta: quella
che lo avrebbe perseguitato ogni notte per il resto della sua esistenza.
La prima settimana era rimasto al suo capezzale giorno e notte finché, con
gentilezza, le infermiere non lo avevano mandato a cambiarsi e a farsi una
doccia. Ovunque gli rivolgevano sguardi di commiserazione e “porgevano le
condoglianze”. C’era addirittura stato un medico che era entrato nella stanza e,
con voce indifferente, gli aveva detto di prepararsi all’eventualità che Sonja non
si svegliasse più. Ove lo aveva scaraventato fuori dalla porta: una porta che era
chiusa a chiave.
«Non è morta! Finitela di comportarvi come se lo fosse!» aveva sbraitato in
corridoio.
Da quel momento in avanti, nessuno all’ospedale aveva più osato disturbarlo.

Il decimo giorno, mentre la pioggia picchiava contro la finestra e la radio


annunciava il peggior nubifragio degli ultimi decenni, Sonja aveva schiuso le
palpebre in due fessure sofferenti, aveva riconosciuto Ove e gli aveva stretto la
mano, piegando l’indice nel suo palmo.
Poi, si era riaddormentata. Quando si era svegliata di nuovo, le infermiere si
erano offerte di parlarle, ma Ove aveva insistito con forza per farlo lui stesso.
Con voce controllata, mentre le accarezzava le mani come se fossero molto,
molto fredde, le aveva raccontato tutto. Dell’autista che puzzava di vino, del
pullman che aveva sbandato, strisciando contro la barriera spartitraffico, e della
collisione. Dell’odore di gomma bruciata. Del rumore assordante dello schianto.
E di un bambino che non sarebbe mai nato.
Lei aveva pianto. Un pianto antico, inconsolabile, che gridava e dilaniava, e
che aveva lacerato entrambi per ore incalcolabili. Il tempo, il dolore e la rabbia si
erano mescolati in un’unica, lunga tenebra assoluta. E Ove si era reso conto che
non si sarebbe mai perdonato per non essere rimasto seduto sul sedile a
proteggerli. Quel dolore lo avrebbe accompagnato per sempre.
Sonja, però, non sarebbe stata Sonja se avesse lasciato vincere le tenebre.
Così, una mattina, Ove non ricordava quanto tempo dopo l’incidente, aveva
semplicemente preteso di iniziare la fisioterapia. E quando Ove l’aveva guardata
soffrire, come se fosse la sua colonna vertebrale a urlare a ogni movimento come
un animale straziato, lei aveva chinato il capo contro il petto del marito e aveva
sussurrato: «Possiamo occuparci della vita, o possiamo occuparci della morte,
Ove. Dobbiamo andare avanti».
E così era stato.
Nei mesi successivi, Ove aveva incontrato un numero infinito di uomini e
donne con la camicia bianca. Sedevano dietro scrivanie di legno chiaro in
svariati uffici istituzionali, e avevano tutto il tempo del mondo per istruire Ove
in merito a quali carte andassero compilate e per quale scopo, ma nemmeno un
minuto per discutere di quali provvedimenti concreti fosse necessario prendere
affinché Sonja si rimettesse.
Già all’ospedale si era presentata un’impiegata di uno di questi uffici, e aveva
spiegato briosamente che Sonja poteva essere trasferita in una “clinica”, dove
erano ospitate altre persone nella sua stessa situazione. A sentir lei, era possibile
che lo sforzo quotidiano di accudire sua moglie avrebbe “sopraffatto” Ove. Non
lo aveva detto chiaro e tondo, ma quel che intendeva era lampante: non credeva
che Ove se la sarebbe sentita di restare con sua moglie. «Nelle attuali
circostanze…» aveva proseguito, facendo cenni discreti verso il letto. Parlava
come se Sonja non fosse presente nella stanza.
Questa volta la porta non era chiusa a chiave, ma Ove aveva scaraventato
fuori anche lei.
«L’unico posto dove andremo è a casa NOSTRA! Dove ABITIAMO!» aveva
ruggito nel corridoio e, pieno di frustrazione, le aveva lanciato dietro una scarpa
di Sonja.
Poi era dovuto uscire a chiedere alle infermiere, che erano quasi state centrate
dalla calzatura, se per caso avessero visto dov’era finita. La sua frustrazione non
aveva fatto altro che acuirsi, ma il risultato era stato che, per la prima volta
dall’incidente, Sonja aveva riso di gusto. La sua risata era sgorgata senza che lei
avesse la minima possibilità di trattenerla. Aveva riso così tanto che la sua voce
era rotolata sui muri e sul soffitto, come se avesse voluto sconfiggere la forza di
gravità. E Ove aveva avvertito il petto sollevarsi lentamente, come da sotto le
macerie di una casa crollata a causa di un terremoto. Quella risata aveva dato al
suo cuore lo spazio per battere ancora.
Era tornato nella villetta e aveva ricostruito la cucina per intero, aveva
rimosso il vecchio piano di lavoro e ne aveva montato uno nuovo, più basso. Era
perfino riuscito a trovare un fornello apposito. Aveva rifatto gli stipiti delle porte
e applicato dei dossi sui gradini di ogni soglia. Il giorno dopo il rientro a casa
dall’ospedale, Sonja aveva ripreso a studiare e in primavera si era laureata. Sul
giornale era comparso l’annuncio per un posto di insegnante nella scuola più
malfamata della città: un incarico per il quale nessun docente con un buon titolo
di studio e tutte le rotelle a posto si sarebbe mai presentato di sua spontanea
volontà. Gran parte degli alunni era affetta da patologie abbreviabili in sigle,
prima ancora che le patologie abbreviabili in sigle fossero inventate. «Non c’è
speranza per questi ragazzi» le aveva detto il preside, sfinito, durante il
colloquio. «Qui non si insegna, si fa custodia cautelare.» Sonja aveva annuito,
senza ribattere nulla. Il posto aveva avuto un’unica candidata, e a quei ragazzi
Sonja era riuscita a far leggere Shakespeare.
Nel frattempo, Ove aveva covato così tanta rabbia che certe sere Sonja
doveva pregarlo di uscire di casa per impedirgli di fare a pezzi i mobili.
L’addolorava vedere le spalle di suo marito gravate da tutta quella volontà di
distruggere. Avrebbe voluto distruggere l’autista del pullman. L’agenzia di
viaggio. La barriera spartitraffico dell’autostrada. I produttori di vino. Tutto e
tutti. Picchiare finché ogni disgraziato fosse stato soppresso: era tutto quel che
voleva. Aveva stipato un po’ di quella collera nella rimessa. Ci aveva riempito il
garage. L’aveva sparsa a terra durante i suoi giri d’ispezione nel quartiere.
Siccome, però, gliene rimaneva ancora, alla fine l’aveva riversata nelle lettere.
Aveva scritto al governo spagnolo. A quello svedese. Alla polizia. Ai tribunali.
Nessuno aveva voluto assumersi la responsabilità. Nessuno sembrava
interessato. Rispondevano citando commi e paragrafi, e delegando la questione
ad altre autorità. Scaricavano il barile, insomma. Quando il Comune si era
rifiutato di costruire una rampa di accesso alla scuola dove lavorava Sonja, Ove
aveva scritto nuove lettere e fatto richieste per mesi. Aveva pubblicato inserzioni
sui giornali e minacciato azioni legali. Con l’implacabile sete di vendetta di un
padre depredato c’era poco da scherzare.
Eppure, Ove aveva dovuto fermarsi davanti alla presuntuosa indifferenza
degli uomini con la camicia bianca. Con loro, era impossibile battersi: non
perché avessero lo Stato dalla loro parte, ma perché quegli uomini e quelle
donne erano lo Stato. L’ultima richiesta che Ove aveva avanzato era stata
respinta. La sua battaglia era finita perché le camicie bianche avevano deciso che
doveva finire. Ove non li avrebbe mai perdonati per questo.
Per un po’, Sonja aveva assistito a tutto quel movimento senza interferire.
Aveva lasciato che Ove si battesse e s’infuriasse, sperando che prima o poi la sua
collera si sarebbe esaurita. Ma una sera di maggio, di quelle che giungono come
una dolce promessa dell’estate, gli era scivolata accanto sulla carrozzina,
lasciando lievi tracce sul parquet. Ove era seduto al tavolo della cucina a scrivere
una delle sue lettere: lei gli aveva tolto la penna, aveva infilato la propria mano
dentro la sua e aveva piegato l’indice contro il suo palmo ruvido, posando piano
la fronte contro il suo petto.
«Ora basta, Ove. Basta lettere. Con tutte le tue lettere, in questa casa non c’è
più posto per la vita.»
Lo aveva guardato negli occhi, gli aveva sfiorato la guancia con la mano
libera e aveva sorriso.
«Basta, mio amato Ove.»
E così, lui aveva smesso.

La mattina seguente, Ove si era alzato all’alba, era andato alla scuola di Sonja
sulla Saab e aveva costruito la rampa per sedie a rotelle con le sue mani. Da quel
giorno in avanti, ogni sera Sonja era rientrata a casa con la luce negli occhi,
raccontandogli dei suoi ragazzi e delle sue ragazze. C’era chi entrava in classe
scortato dalla polizia, e usciva sapendo citare poesie vecchie di quattrocento
anni. C’era chi la faceva piangere, ridere e cantare, tanto che la sera la sua voce
riecheggiava tra le pareti della villetta. In tutta onestà, Ove doveva ammettere di
non provare molta simpatia per quei piccoli buoni a nulla dislessici, però non era
tanto meschino da non apprezzare il bene che facevano a Sonja.
“Ogni uomo deve sapere per cosa battersi.” Dicevano così. Lei si batteva per
quel che era giusto, per i figli che non aveva mai avuto. E Ove aveva deciso che
si sarebbe battuto per lei.

Perché era l’unica cosa al mondo che sapesse fare bene.


24
Un uomo che si chiama Ove
e una piccola peste che disegna a colori

Al ritorno dall’ospedale, la Saab è così stipata che Ove non perde d’occhio
l’indicatore del livello della benzina, temendo che si abbassi a vista e, già che
c’è, gli faccia pure un inchino canzonatorio. Nello specchietto retrovisore, vede
che Parvaneh mette in mano a Tre anni carta e pastelli a cera, senza
minimamente preoccuparsi di chiedere il permesso.
«Deve proprio disegnare in macchina?» chiede Ove.
«Preferisci che diventi irrequieta e inizi a tirar fuori l’imbottitura dai sedili?»
domanda a sua volta Parvaneh.
Ove non risponde: si limita a guardare nello specchietto Tre anni, che agita un
grosso pastello lilla davanti al muso del gatto sulle ginocchia di Parvaneh e gli
urla: «COLORA!». Il gatto osserva vigile la bambina, evidentemente poco
incline a intraprendere la carriera di pittore.
Patrick è seduto accanto a loro e fa strani gesti, cercando una posizione
sufficientemente comoda per la sua gamba ingessata, che ha appoggiato nella
fessura tra i sedili anteriori. L’operazione non è così semplice, dato che c’è il
rischio di far scivolare via i giornali che Ove ha steso sia sui sedili sia sui
tappetini.
Tre anni fa cadere il pastello, che rotola sotto il sedile del passeggero
occupato da Jimmy. Con un movimento che, considerata la sua mole, rasenta
un’acrobazia olimpionica, Jimmy riesce a chinarsi in avanti e a ripescarlo dal
tappetino. Lo studia alcuni istanti, ridacchia, poi si volta verso la gamba tesa di
Patrick e disegna una grossa faccina sorridente sul gesso. Appena la vede, Tre
anni scoppia in una risata fragorosa.
«Adesso ti metti a imbrattare anche tu?» esclama Ove.
«Fico, no?» ride Jimmy e alza la mano, con l’aria di voler scambiare un
cinque con lui.
Ove gli rivolge un’occhiata che lo spinge ad abbassare la mano prima ancora
di averla sollevata del tutto.
«Sorry, amico, è stato più forte di me» dice Jimmy un po’ imbarazzato,
mentre porge il pastello a Parvaneh.
La sua tasca trilla: Jimmy estrae un cellulare grande quanto la mano di Ove e
comincia a tastare freneticamente il display.
«Di chi è il gatto?» domanda Patrick da dietro.
«Micio di Ove!» risponde Tre anni senza esitazione.
«No, non è mio» la corregge subito Ove.
Parvaneh gli sorride sorniona nello specchietto.
«Sì che lo è!» dice.
«NO che non lo è!» ribadisce Ove.
Parvaneh ride. Patrick sembra assai perplesso. Lei lo accarezza sul ginocchio
per farlo star buono.
«Non dargli retta. È il suo gatto.»
«È solo un dannato randagio, ecco cos’è!» ribatte Ove.
Il gatto solleva la testa per capire cosa sia tutto quel trambusto: alla fine,
conclude che quella gente non merita la benché minima attenzione e si
acciambella di nuovo sulle ginocchia di Parvaneh. O, se si vuol essere pignoli,
sul pancione di Parvaneh.
«Allora, non sarebbe meglio portarlo da qualche parte?» domanda Patrick,
contemplando l’animale al suo fianco.
Per tutta risposta, il gatto apre un occhio e gli soffia contro.
«“Portarlo” dove?» lo incalza Ove.
«Ma sì… in un ricovero per gatti o roba sim…» comincia Patrick, ma non
riesce a finire la frase perché Ove sbraita.
«Qui non si porta nessuno in un maledetto ricovero!»
Ove non ha altro da aggiungere. Patrick cerca di non sembrare turbato.
Parvaneh cerca di trattenere una risata. Nessuno dei due ci riesce tanto bene.
«Possiamo fermarci da qualche parte a mangiare un boccone? Ho una fame
da lupi» s’intromette Jimmy, cambiando posizione sul sedile e facendo
rimbalzare l’intera Saab.
Ove osserva il gruppo di persone che sta trasportando, e ha l’impressione di
essere stato rapito e condotto in un universo parallelo. Per un breve istante
medita di uscire di strada, ma poi si rende conto che, così, rischia di portarseli
dietro tutti quanti anche nell’aldilà. Quindi, rallenta e aumenta ulteriormente la
distanza di sicurezza dall’auto che li precede.
«Pipì!» strilla Tre anni.
«Ci fermiamo, Ove? Nasanin deve fare la pipì» urla Parvaneh, come se i
sedili posteriori si trovassero a duecento metri di distanza da quelli anteriori.
«Sì! Così possiamo anche papparci qualcosa» annuisce Jimmy, speranzoso.
«Okay. Tra parentesi, anch’io devo andare in bagno» dice Parvaneh.
«Il McDonald’s ha i bagni» li informa Jimmy prontamente.
«Allora vada per il McDonald’s. Fermati lì, Ove» decide Parvaneh.
«Qui non si ferma proprio nessuno» dice Ove severo.
Parvaneh lo fissa nello specchietto. Ove ricambia con un’occhiata truce. Dieci
minuti dopo, Ove è seduto nella Saab ad aspettarli fuori dal McDonald’s. È
entrato pure il gatto: quel traditore. Parvaneh esce e bussa sul finestrino.
«Sicuro che non vuoi niente?» gli chiede dolcemente.
Lui fa segno di no. Lei annuisce rassegnata. Lui richiude il finestrino. Lei gira
intorno all’auto e monta sul sedile del passeggero.
«Grazie per esserti fermato» dice Parvaneh sorridendo.
«Sì, sì» risponde Ove.
Lei riprende a sgranocchiare le sue patatine. Lui si sporge in avanti e rimette a
posto i fogli di giornale sul tappetino ai suoi piedi. Parvaneh inizia a ridere; Ove
non ne comprende il motivo.
«Ho bisogno del tuo aiuto, Ove» dice all’improvviso.
Ove non sembra per niente entusiasta.
«Pensavo che potresti aiutarmi a prendere la patente» prosegue.
«Eh?!» esclama Ove, come se non avesse capito bene.
Lei fa spallucce.
«Patrick dovrà tenere il gesso per mesi, e bisognerà che porti io in giro le
bambine. Pensavo che potresti darmi qualche lezione di guida.»
Ove è così interdetto che dimentica perfino di essere arrabbiato.
«Quindi non hai la patente?»
«No.»
«Allora, non era uno scherzo?»
«No.»
«Te l’hanno ritirata?»
«No, no. Non l’ho mai avuta.»
Sembra che il cervello di Ove abbia bisogno di qualche secondo per
assimilare quell’informazione, per lui assolutamente inverosimile.
«Scusa, ma che lavoro fai?» le chiede.
«Cosa c’entra?» risponde lei.
«C’entra eccome.»
«L’agente immobiliare.»
Ove annuisce.
«E non hai la patente?»
«No.»
Ove scuote il capo con un’espressione tetra, come se il non avere la patente
fosse da considerarsi una sorta di reato, o quantomeno un segno di profonda
immaturità. Parvaneh abbozza di nuovo il suo sorrisino sornione, accartoccia
l’involucro delle patatine e apre la portiera.
«Mettiamola così, Ove: vuoi davvero che qualcun ALTRO mi insegni a
guidare nel quartiere?»
Scende dall’auto e si avvia verso il cestino dei rifiuti. Ove non risponde: si
limita a sbuffare.
Nella portiera appare il faccione di Jimmy.
«Posso mangiare in macchina?» chiede il grassone, con una crocchetta di
pollo che gli sbuca dalle labbra.
All’inizio Ove pensa di proibirglielo, ma poi si rende conto che, se lo facesse,
non partirebbero più, così stende quanti più fogli di giornale possibile su tutti i
sedili e i tappetini dell’auto, manco dovesse ritinteggiare un soggiorno.
«Dai, salta su, così finalmente possiamo andarcene» geme, gesticolando in
direzione del ragazzo. Jimmy annuisce contento. Il suo cellulare trilla di nuovo.
«E fa’ smettere di suonare quell’aggeggio. La mia auto non è una sala giochi»
dice Ove mentre mette in moto.
«Sorry, amico, è per lavoro: mi arrivano mail a palla» dice Jimmy, tenendo in
equilibrio il pacchetto di crocchette in una mano, mentre con l’altra pesca il
cellulare dalla tasca.
«Allora dopotutto ce l’hai, un lavoro» constata Ove.
Jimmy fa un cenno di assenso entusiasta.
«Programmo app per l’iPhone!»
Ove decide di non chiedergli di approfondire.
A questo punto, per una decina di minuti nell’auto cala un relativo silenzio,
fino a quando la Saab non scivola nel parcheggio di fronte al garage di Ove. Ove
si ferma all’altezza del deposito delle biciclette, mette in folle senza spegnere il
motore e lancia un’occhiata significativa ai suoi passeggeri.
«Fermati pure qui, Ove. Patrick può camminare benissimo fino a casa con le
stampelle, non ti preoccupare» dichiara Parvaneh, con un tono che più ironico
non si potrebbe.
Ove indica con tutta la mano il cartello, ormai un po’ sbilenco, che annuncia il
divieto di transito nell’area abitata.
«Il transito è vietato nell’area abitata.»
«Okay, Ove, grazie comunque del passaggio!» s’intromette Patrick, ansioso
di non creare problemi.
Si trascina fuori dall’abitacolo come meglio può, mentre Jimmy tira su la sua
stazza dal sedile anteriore, anche lui alla meno peggio: ha la maglietta tutta
macchiata di grasso di hamburger.
Parvaneh solleva Tre anni e la posa a terra. La bambina sventola qualcosa e
pronuncia frasi insensate. Parvaneh le fa un cenno affermativo, torna alla
macchina e infila la testa dentro la portiera anteriore, tendendo un foglio a Ove.
«Che cos’è?» chiede Ove, senza prenderlo né mostrare particolare interesse.
«Il disegno di Nasanin.»
«E cosa me ne faccio?»
«Ti ha disegnato» risponde Parvaneh, mettendoglielo sul volante.
Ove lo guarda controvoglia. È pieno di righe e arzigogoli.
«Questo è Jimmy, questo è il gatto, questi siamo Patrick e io. E questo sei tu»
spiega Parvaneh.
Quando dice le ultime parole, indica una figura al centro. Tutto il resto è stato
disegnato con il pastello nero, ma la figura in mezzo è letteralmente
un’esplosione di colori. Giallo, rosso, blu, verde, arancione e lilla tutti insieme.
«Sei la persona più divertente tra tutte quelle che conosce: è per questo che ti
disegna sempre a colori» dice Parvaneh.
Poi chiude la portiera e se ne va.
Passano parecchi secondi prima che Ove si decida a gridarle dietro: «Come
“sempre”? Cosa cavolo vuol dire che mi disegna “sempre” così?». Ma, a quel
punto, si sono già allontanati tutti.
Ove raddrizza un po’ indignato i fogli di giornale sul sedile del passeggero: il
gatto si arrampica dal sedile posteriore e vi si sdraia sopra. Parcheggia la Saab
nel garage in retromarcia. Chiude la porta. Lascia l’auto in folle senza spegnere
il motore. Annusa i gas di scarico, che pian piano riempiono il garage, e lancia
un’occhiata pensosa al tubo di plastica appeso al muro. Per alcuni minuti, tutto
quel che si sente sono i respiri del gatto e il borbottio ritmato del motore.
Sarebbe facile rimanere lì così, in attesa dell’inevitabile. Sarebbe l’unica cosa
logica, si rende conto Ove. La desidera da molto, ormai: la fine. Sonja gli manca
così tanto che a volte fatica a stare nel proprio corpo. Sarebbe l’unica cosa
sensata: restare lì finché i gas di scarico non cullino lui e il gatto nel sonno, verso
la fine.
Quando Ove guarda il gatto, però, spegne il motore.

La mattina dopo, si alzano alle sei meno un quarto. Uno beve il caffè e l’altro
mangia il tonno. Quando hanno finito la loro ispezione, Ove spala con cura la
neve dal vialetto davanti a casa sua. Dopodiché si sofferma fuori dalla rimessa,
appoggiato al badile, a osservare il quartiere.

Poi attraversa la strada e inizia a spalare anche davanti alle altre case.
25
Un uomo che si chiama Ove
e un pezzo di lamiera ondulata

Ove aspetta fin dopo la colazione, quando il gatto esce spontaneamente per fare i
suoi bisogni. A quel punto, afferra un barattolo di plastica dal ripiano più alto del
mobile in bagno. Lo soppesa sul palmo della mano, come se fosse sul punto di
lanciarlo da qualche parte. Lo fa rimbalzare su e giù, come se, così facendo,
potesse dedurre la quantità esatta delle pillole che contiene.
Alla fine, i medici avevano prescritto a Sonja così tanti antidolorifici che, nel
loro bagno, avrebbe potuto rifornirsi un narcotrafficante colombiano. A Ove le
medicine non piacciono affatto. Dei farmaci non si fida: ha sempre avuto la
sensazione che siano tutti placebo, il cui unico effetto è psicologico, e che come
tali facciano presa solo su chi ha un cervello debole. Però, sa che le pillole sono
un ottimo modo per togliersi la vita. E di pillole, in casa, ce n’è in abbondanza. È
sempre così dove vive, o ha vissuto, un malato di cancro.
Chissà perché non ci ha pensato prima.
Ove sente provenire dei rumori dalla porta d’ingresso. Il gatto è tornato prima
del solito: sta miagolando. Dato che nessuno gli apre, inizia a grattare la porta
con le unghie. Emette un verso lamentoso, come se lo avessero imprigionato in
una trappola per orsi. È come se presentisse qualcosa. Ove sa che rimarrà deluso
per il suo gesto, ma non ha altra scelta.
Si domanda che cosa si provi dopo avere ingerito una dose di antidolorifici
superiore alla norma. Lui non ha mai fatto uso di droghe, né si è quasi mai
stordito con l’alcol: non gli è mai piaciuta la sensazione di perdere il controllo.
Con gli anni, ha capito che questo è proprio ciò che la gente comune ama e
desidera, ma per Ove solo un completo idiota può pensare che perdere il
controllo sia un’esperienza desiderabile. Si chiede se avrà la nausea, se sentirà
qualcosa quando gli organi si arrenderanno e smetteranno di funzionare. Oppure
se, semplicemente, si addormenterà, e il suo corpo cederà alla morte.
Il gatto ormai ulula nella neve. Ove chiude gli occhi e pensa a Sonja. Non
vuole che sua moglie creda che lui sia il genere di uomo che getta la spugna e
decide di farla finita, ma in effetti è tutta colpa sua. È stata lei a volerlo sposare.
E, adesso, lui non sa più bene come si faccia a dormire senza la punta del suo
naso nell’incavo tra il collo e la spalla. Tutto qui.
Svita il tappo del barattolo, versa le pillole sul bordo del lavabo e le osserva,
come se si aspettasse che, da un momento all’altro, possano trasformarsi in
piccoli robot assassini. Ovviamente, ciò non accade e Ove non ne è sorpreso.
Adesso sembra che il gatto stia sputando della neve sulla porta di casa di Ove.
Poi, però, quel rumore si interrompe di colpo e viene sostituito da un suono
completamente diverso.
Latrati canini.
Ove alza gli occhi al cielo. Alcuni secondi dopo, sente nuovamente ululare il
gatto, questa volta di dolore. Poi, altri latrati, e la voce dell’oca bionda.
Ove ghermisce i bordi del lavabo. Chiude gli occhi, come se fosse possibile
scacciare quei rumori molesti solo sbattendo le palpebre. Naturalmente, non
funziona. Alla fine, sospira e raddrizza la schiena. Raccoglie le pillole
sparpagliate e le rimette nel barattolo di plastica. Scende le scale. Attraversa il
soggiorno e appoggia il barattolo sul davanzale della finestra. Oltre il vetro, vede
l’oca bionda sul vialetto tra le abitazioni: sta prendendo la rincorsa verso il gatto.
Ove apre la porta nello stesso istante in cui la donna si appresta a sferrare un
calcio in testa all’animale. Il gatto è abbastanza lesto da schivare il suo tacco
affilato e indietreggia rapido verso la rimessa di Ove. Intanto, la ciabatta ringhia
e sbava con tale furia che pare letteralmente affetta dalla rabbia. Ha del pelo agli
angoli della bocca. Ove si rende conto che è la prima volta che vede l’oca senza
occhiali da sole: nei suoi occhi verdi brilla la perfidia allo stato puro. Lei prende
la rincorsa e cerca di sferrare un altro calcio, ma poi scorge Ove e si blocca, con
il labbro inferiore tremante di collera.
«Io quello lo ammazzo!» sibila, indicando il gatto.
Ove scuote il capo molto lentamente, senza toglierle gli occhi di dosso. Lei
deglutisce. C’è qualcosa nello sguardo di Ove, qualcosa di atavico, che fa
vacillare la sua sicurezza e dissolve i suoi modi aggressivi.
«È uno schif… uno schifoso randagio e… deve morire! Ha graffiato Prince!»
balbetta.
Ove non dice nulla, ma il suo sguardo si fa ancora più cupo. Perfino il cane
inizia ad allontanarsi.
«Vieni, Prince» dice l’oca a bassa voce, scuotendo il guinzaglio.
La ciabatta si volta e trotterella via senza farselo ripetere. Con la coda
dell’occhio, l’oca guarda Ove un’ultima volta prima di sparire dietro l’angolo. È
come se, con la sola forza del suo sguardo, Ove le avesse dato uno spintone sulla
schiena. Ove resta immobile e respira affannosamente. Si porta una mano stretta
a pugno sul petto e sente il cuore martellare incontrollato. Emette un gemito. Poi
guarda il gatto, e il gatto guarda lui. Ha una ferita sul fianco, e chiazze di sangue
sulla pelliccia.
«Porca di quella vacca, le tue sette vite sono quasi agli sgoccioli, eh?»
esclama Ove.
Il gatto si lecca una zampa con aria indifferente, come se l’ultimo suo
problema fosse tenere il conto di quante vite gli restano. Ove annuisce e fa un
passo di lato.
«Entra, su.»
Il gatto attraversa la soglia a passi felpati. Ove chiude la porta.
Si ferma al centro del soggiorno. Sonja lo osserva da ogni angolo. Solo
adesso lo nota: ha appeso le sue foto in modo che lei lo segua con lo sguardo
ovunque si trovi. Sul tavolo della cucina, sulla parete dell’ingresso, a metà scala,
sul davanzale della finestra del soggiorno, dove il gatto è appena balzato,
sedendosi proprio accanto a lei. Sta guardando Ove di sbieco e, con una zampa,
fa cadere il barattolo delle pillole, che atterra sul pavimento con un tonfo.
Mentre Ove lo raccoglie, il gatto lo scruta come se da un momento all’altro
volesse urlargli: “Ti ho sgamato!”.
Ove dà un lieve calcio a un’asse del parquet, si volta, entra in cucina e ripone
il barattolo in un armadietto. Prepara il caffè e riempie una ciotola d’acqua,
mettendola davanti al gatto.
Bevono in silenzio.
«Gattaccio testardo che non sei altro» dice Ove alla fine.
Il gatto non risponde. Ove solleva la ciotola vuota e la posa accanto alla sua
tazza nell’acquaio. Per un bel pezzo, resta con le mani lungo i fianchi e l’aria
pensosa. Poi si volta e avanza verso il vestibolo.
«Vieni con me» ordina al gatto senza guardarlo.
«Daremo una bella lezione a quella ciabatta schifosa, e alla sua padrona.»
S’infila la giacca blu e gli zoccoli di legno, e fa uscire l’animale. Guarda un
istante la foto di Sonja appesa al muro. Sta ridendo. “Tutto sommato, forse la
morte può attendere un altro po’” pensa, e segue il gatto fuori.

Prima che la porta si apra, passano diversi minuti. Lo scatto della serratura è
preceduto da un lungo rumore strisciante, come se un fantasma stesse
camminando per casa trascinandosi dietro catene molto pesanti. Alla fine, Rune
fa capolino, e rivolge a Ove e al gatto uno sguardo assente.
«Hai in casa un pezzo di lamiera ondulata?» gli chiede Ove, senza perdere
tempo in convenevoli.
Rune lo fissa alcuni secondi con estrema concentrazione, come se il suo
cervello avesse ingaggiato una lotta frenetica contro forze estranee per approdare
a un ricordo.
«Lamiera?» ripete ad alta voce, quasi saggiando la parola, proprio come
qualcuno che si è appena svegliato e cerchi intensamente di ricordare ciò che ha
sognato.
«Esatto, lamiera» annuisce Ove.
Rune lo perfora con lo sguardo. Le sue pupille sono lucide come un cofano
perfettamente lustrato. È emaciato e ricurvo, e ha la barba grigia, quasi bianca.
Un tempo, era un uomo robusto che incuteva un certo rispetto, ma ora i vestiti
gli pendono dal corpo come stracci. È diventato vecchio. “Vecchio davvero”
pensa Ove, e questa consapevolezza lo travolge con una forza imprevista. Lo
sguardo di Rune vaga ancora alcuni istanti. D’un tratto, però, la bocca gli si
increspa leggermente.
«Ove?» esclama.
«E chi diavolo dovrei essere? Il papa?» risponde Ove.
Il viso cadente di Rune si rompe in un ghigno assonnato. I due uomini, che
una volta erano amici, vale a dire amici come due tipi dello stampo di Ove e
Rune potevano permettersi di diventare, si squadrano lentamente. Uno rifiuta di
dimenticare il passato, e l’altro non può farne a meno.
«Sei invecchiato» dice Ove.
Rune ridacchia.
Subito dopo, si sente la voce inquieta di Anita e la donna compare sulla soglia
con passettini nervosi.
«C’è qualcuno, Rune? Che cosa fai lì?» grida impaurita, prima di vedere Ove.
«Oh… ciao, Ove» dice, imbarazzata.
Ove resta lì con le mani in tasca. Anche il gatto si metterebbe volentieri così.
Se solo avesse le tasche, o le mani. Anita è una donnetta bassa e grigia: indossa
pantaloni grigi e un cardigan fatto a maglia grigio, anche i capelli e la pelle sono
grigi. Ove, però, nota che ha gli occhi lievemente arrossati e il viso gonfio,
quando si asciuga in fretta le lacrime e sbatte le palpebre per scacciare il senso di
disagio. È tipico delle donne della sua generazione. Indomite, allontanano da sé i
loro dispiaceri come se, ogni mattina, uscissero sulla soglia di casa e li
spazzassero via con una scopa. Anita prende delicatamente Rune per le spalle
sulla sedia a rotelle e lo riporta davanti alla finestra del soggiorno.
«Ciao, Ove» ripete in tono gentile, anche se sempre un po’ sorpreso, appena
torna alla porta.
«Che cosa posso fare per te?» gli chiede.
«Avete un pezzo di lamiera ondulata in casa?» domanda Ove.
Anita pare disorientata.
«Lamiera dondolata?» mormora confusa.
Ove fa un lungo sospiro.
«No, no, no. Lamiera on-du-la-ta.»
Anita sembra al punto di partenza.
«Mah… Non so. Dovrei averla?»
«Rune ce l’ha di sicuro nella rimessa» dice Ove, tendendo una mano.
Anita annuisce. Prende la chiave della rimessa dalla parete e la posa nel
palmo di Ove.
«Ondulata. Una lamiera?» ripete.
«Sì» risponde Ove.
«Ma noi non abbiamo il tetto in lamiera.»
«E cosa c’entra?»
Anita annuisce e scuote la testa in un unico movimento.
«No… no, certo.»
«La lamiera uno ce l’ha comunque» dice Ove, come se fosse scontato.
Anita annuisce di nuovo, quasi tentasse di convincersi che, in effetti, un pezzo
di lamiera ondulata è una cosa che tutte le persone perbene tengono da qualche
parte a casa loro. Così, giusto per averla.
«E tu non ce l’hai ’sta lamiera?» azzarda lei, tanto per fare conversazione.
«L’ho finita» dice Ove.
Anita annuisce ancora, comprensiva, come si annuisce quando si viene messi
di fronte al fatto incontestabile che no, non è strano che chi non ha una casa con
il tetto in lamiera utilizzi comunque una quantità tale di lamiera ondulata da
esaurire le proprie scorte.
Un minuto dopo, Ove riappare trionfante alla porta trascinando un pezzo di
lamiera ondulata grande quanto un tappeto da salotto. Anita non ha la minima
idea di come un oggetto di tali dimensioni abbia trovato spazio dentro la rimessa
a sua insaputa.
«Te l’avevo detto» dichiara Ove, restituendole la chiave.
«Già… Sì, l’avevi detto» si sente in dovere di ammettere Anita.
Ove si volta verso la finestra. Rune lo sta guardando. Proprio mentre Anita fa
per rientrare in casa, Rune ridacchia di nuovo e solleva la mano in un rapido
cenno di saluto. Come se in quel momento, per un brevissimo istante, avesse
capito esattamente chi è Ove e che cosa ci fa lì. Ove emette un sospiro pesante
come un pianoforte che venga spinto su un pavimento di legno.
Anita si ferma e si volta, esitante.
«Sono tornati quelli dei servizi sociali. Vogliono portarmi via Rune» dice,
evitando di incrociare lo sguardo di Ove.
Quando pronuncia il nome del marito, la sua voce freme come carta di
giornale spiegazzata. Ove tasta la lamiera.
«Dicono che non sono in grado di badare a lui, ora che è molto malato e tutto
il resto. Dicono che deve essere messo in una casa di cura» aggiunge.
Ove continua a tastare la lamiera.
«Morirà se lo metto in una casa di cura, Ove. Tu lo sai…» sussurra lei.
Ove fa un cenno di assenso e fissa i mozziconi imprigionati nel ghiaccio tra
due mattonelle del vialetto d’ingresso. Con la coda dell’occhio, vede Anita
inclinarsi un po’. Le tremano le mani. Qualche anno prima, Sonja gli aveva
spiegato che era per via di quell’operazione all’anca, ricorda. «Sclerosi multipla
al primo stadio» aveva detto. Quasi contemporaneamente, Rune aveva
manifestato i primi segnali dell’Alzheimer.
«Vostro figlio potrebbe venire qui a darvi una mano, no?» mormora piano
Ove.
Anita alza gli occhi e sorride con indulgenza.
«Johan? Oh, no… Lui vive in America, adesso. E poi è così pieno d’impegni.
Sai com’è, con i giovani!»
Ove non risponde. Anita pronuncia la parola “America” come se quell’egoista
di suo figlio si fosse trasferito su un altro pianeta. Ove non lo ha visto far visita
ai genitori una sola volta da quando Rune si è ammalato. Evidentemente, per i
suoi vecchi non ha più tempo.
Anita trasale come se si fosse resa conto di aver detto qualcosa di
sconveniente, e abbozza un sorriso pieno di vergogna.
«Scusami, Ove, non voglio farti perdere tempo con le mie chiacchiere» dice,
rientrando in casa. Ove rimane immobile con la lamiera in mano e il gatto al suo
fianco. Poco prima che lei richiuda la porta, però, borbotta qualcosa
d’incomprensibile. Anita si volta, e lo guarda sorpresa.
«Come?»
Ove sposta il peso da un piede all’altro, senza guardarla. Prima di girare i
tacchi, ripete in un soffio, come se le parole gli sgusciassero fuori
involontariamente:
«Ho detto che, se hai ancora problemi con quei cavolo di termosifoni, puoi
venirmi a chiamare. Io e il gatto siamo a casa.»
Il viso raggrinzito di Anita si tende in un sorriso. La donna avanza di mezzo
passo fuori dalla porta con l’aria di voler ribattere qualcosa. Forse qualcosa su
Sonja: su quanto le manchino la sua migliore amica e la vita che vivevano
quando si erano trasferite nel quartiere quasi quarant’anni prima. Su quanto le
manchino perfino le liti di Rune e Ove.
Ove, però, è già lontano e si sta avviando verso la sua rimessa, dove recupera
la batteria di scorta della Saab e due grosse pinze di metallo. Poi, stende la lastra
di lamiera sulle mattonelle tra la rimessa e casa sua, ricoprendola con cura di
neve.
Si ferma accanto al gatto e medita sulla sua creazione per un bel pezzo. Una
perfetta trappola per cani nascosta sotto la neve e imbottita di elettricità, pronta a
colpire. La considera una vendetta assolutamente equilibrata. La prossima volta
che la bestia di quella cretina deciderà di pisciare sulle mattonelle di Ove, si
ritroverà a farlo su una lamiera elettrificata. “Ci sarà da divertirsi” pensa Ove.
«Gli verrà un bello shock» spiega con soddisfazione al gatto.
Il gatto inclina la testa e osserva la lamiera.
«Sarà come prendersi un fulmine dritto nell’uretra» prosegue Ove.
Il gatto lo guarda a lungo, come se pensasse: “Non dirai mica sul serio,
vero?”. Ove affonda le mani in tasca e scuote il capo.
«No, no» sospira poi.
Rimangono in silenzio per un po’.
«No, no, certo» aggiunge Ove, grattandosi il mento.
Poi raccoglie la batteria, le pinze e la lamiera, e riporta tutto nella rimessa.
Non perché non pensi più che l’oca bionda e il suo cagnaccio si meritino una
bella scarica elettrica. Lo pensa ancora, cazzarola. Però, improvvisamente, si è
ricordato di quel che Sonja gli aveva detto sulla differenza tra l’essere cattivi
perché si deve e l’essere cattivi perché si può.
«Comunque, era una bella idea» ribadisce al gatto mentre rientrano in casa.
Il gatto non sembra del tutto convinto.
«Perché fai quella faccia? Credi che non avrebbe funzionato? E io ti dico di
sì, invece! Avrebbe funzionato. Ficcatelo bene in testa!» gli grida dietro Ove.
Il gatto entra nel soggiorno con andatura decisa e probabilmente pensa: “Sì,
certo, come no…”.

Dopodiché, i due si siedono a tavola e pranzano.


26
Un uomo che si chiama Ove e una società
in cui nessuno sa più riparare una bicicletta

Non che Sonja non avesse mai esortato Ove a farsi degli amici. Ogni tanto lo
faceva, ma non lo aveva mai spinto in maniera particolarmente assillante, né si
era mai lamentata che lui non frequentasse nessuno, e Ove la considerava come
la più grande dimostrazione del suo amore. Non è da tutti riuscire a convivere
con chi ama la solitudine. Sonja, però, non aveva mai protestato più del
necessario. «Ti ho preso come sei» diceva. E a Ove andava benissimo così.
Questo, naturalmente, non le aveva impedito di rallegrarsi negli anni in cui
Ove e Rune avevano condiviso quella che, tutto sommato, si poteva definire
un’amicizia. I due non comunicavano poi tanto: Rune parlava pochissimo, e Ove
quasi per niente. Tuttavia, Sonja non era così stupida da non capire che, per
quanto taciturno fosse, perfino Ove a volte apprezzava il fatto di avere qualcuno
con cui non parlare. Ne era passato di tempo, da quegli anni.
«Ho vinto» esclama Ove appena sente arrivare il postino.
Il gatto salta giù dal davanzale della finestra del soggiorno e si avvia verso la
cucina. “Non sa perdere” pensa Ove mentre si dirige nell’ingresso. Erano anni
che non scommetteva con qualcuno sull’orario di arrivo della posta. Di solito lo
faceva con Rune quando erano a casa in ferie, d’estate, e avevano sviluppato un
complesso sistema di margini e mezzi minuti per determinare chi ci azzeccasse
di più. Allora, infatti, quando la posta arrivava ancora intorno a mezzogiorno, era
necessario fissare una precisa graduatoria per stabilire il vincitore. Al giorno
d’oggi, inutile dirlo, non è più così. “Cazzarola” riflette Ove “oggi la posta può
arrivare anche a metà pomeriggio, o in qualsiasi altro momento: è come se
venisse distribuita quando fa comodo all’ufficio postale, e chi la riceve può solo
ringraziare il cielo che sia stata recapitata.” Ove aveva cercato di scommettere
anche con Sonja, dopo che lui e Rune avevano smesso di parlarsi, ma lei non
capiva le regole. Così, per un bel po’ aveva lasciato perdere.
Quando Ove spalanca la porta, il ragazzo piega agilmente il busto all’indietro
per non prendersi il battente in faccia. Ove lo guarda meravigliato: indossa
l’uniforme da postino.
«Sì?» chiede Ove.
Sulle prime, il ragazzo non sembra intenzionato a rispondere: cincischia, con
in mano un giornale e una lettera. Ove si rende conto che si tratta del moccioso
che, qualche giorno prima, aveva rimproverato per la bici fuori dal deposito delle
biciclette. Una bici che il moccioso aveva detto di dover “aggiustare”, ma Ove sa
come funziona in questi casi: per quei buoni a nulla “aggiustare” significa
“rubare e vendere su Internet”, ecco.
Anche il ragazzo riconosce Ove, e non pare entusiasta della scoperta, un po’
come quelle cameriere che non si capisce se vogliano darti il piatto con la tua
ordinazione oppure tornare in cucina a sputarci sopra un’altra volta. Guarda Ove
con circospezione, poi abbassa gli occhi sulla corrispondenza che ha in mano,
poi guarda di nuovo Ove. Alla fine gli porge il giornale e la lettera con un
burbero: «Tenga». Ove li afferra senza togliergli gli occhi di dosso.
«La sua cassetta delle lettere è scassata, così ho pensato di darglieli a mano»
lo informa il ragazzo.
Indica l’ammasso di ferro piegato in due davanti a casa di Ove, dopodiché
accenna alla lettera e al giornale. Ove abbassa lo sguardo per esaminarli. Il
giornale è una specie di quotidiano locale: uno di quelli che ti rifilano gratis,
anche se hai un cartello grande e grosso con su scritto che non vuoi quel tipo di
roba nella tua cassetta della posta. E la lettera sarà sicuramente pubblicità,
immagina Ove. Certo, il suo nome e l’indirizzo sono scritti a mano, ma è un
tipico trucchetto pubblicitario: ti fanno credere che sia una vera lettera,
indirizzata proprio a te, tu la apri e, zac, diventi vittima del marketing. Ove lo sa
come funziona.
Il ragazzo si dondola sui talloni con lo sguardo rivolto a terra, come se stesse
valutando l’opportunità di dire qualcosa.
«C’è altro?» domanda Ove.
Il ragazzo si passa una mano sulla chioma unta.
«Ehm… Cioè… Volevo solo sapere se Sonja era sua moglie» squittisce,
rivolto alla neve.
Ove pare diffidente. Il ragazzo indica la busta.
«Ho letto il cognome. Avevo un’insegnante che si chiamava così. Volevo
solo… Sì, va be’.»
Il ragazzo sembra mandarsi a quel paese da solo per aver aperto bocca, e fa
per andarsene. Ove si schiarisce la gola e sferra un calcio al parquet sulla soglia.
«Sì… Sì, lo era. Perché?»
Il ragazzo si ferma e si gira verso Ove.
«Eh… cacchio. Mi piaceva. Volevo solo dirglielo. Io sono… Cioè… Non
sono così bravo a leggere e scrivere.»
Ove pensa di rispondere che la cosa non lo meraviglia per niente, ma poi
lascia perdere. Il ragazzo si tocca i capelli, impacciato, come se sperasse di
trovare la frase giusta dentro la sua zazzera disordinata.
«È l’unica insegnante che ho avuto che non mi considerava un cretino»
sbotta, con la voce ispessita dall’emozione.
«Mi ha fatto leggere quello lì… come si chiama… Shakespeare, sa? Io non
sapevo quasi leggere, ma lei mi ha messo in mano ’sto librone gigante, e alla fine
mi è pure piaciuto. Mi è dispiaciuto molto quando ho sentito che era morta,
ecco.»
Ove non risponde. Il ragazzo guarda a terra e scrolla le spalle.
«Sì, insomma… solo questo.»
Tace. Poi restano entrambi lì, il cinquantanovenne e l’adolescente, ad alcuni
metri di distanza uno di fronte all’altro, a dar calci alla neve. Come se si
palleggiassero il ricordo di una donna che si ostinava a vedere in certi uomini più
potenziale di quanto ne vedessero loro stessi. Sembra che nessuno dei due sappia
bene come maneggiarlo, quel ricordo.
«Cosa devi farci con la bici?» domanda Ove alla fine.
«Ho promesso alla mia ragazza di ripararla» risponde il moccioso, piegando il
collo verso la villetta in fondo alla strada, proprio di fronte alla casa di Anita e
Rune, dove abitano quei differenziatori di spazzatura comunisti quando non si
trovano in Thailandia, o dove diamine sono in vacanza adesso.
«Be’, insomma… Non è ancora la mia ragazza. Ma credo che lo diventerà.
Tipo.»
Ove osserva il ragazzo con lo sguardo rassegnato che gli uomini di mezza età
di norma rivolgono ai mocciosi adolescenti, quando li sentono parlare nel loro
gergo sgrammaticato di mocciosi adolescenti.
«Ce li hai gli attrezzi?» gli chiede.
Il moccioso scuote la testa.
«Come fai a riparare una bici senza attrezzi?» esclama Ove, più sorpreso che
indignato.
Il ragazzo si stringe nelle spalle.
«Non lo so.»
«Ma, allora, perché hai promesso di riparargliela?»
Il ragazzo tira un calcio alla neve. Poi si gratta il viso con la mano, cercando
di nascondere la vergogna che prova.
«Be’… cacchio… perché sono innamorato di lei!»
Ove non sa bene cosa dire, per cui arrotola il quotidiano e la lettera e li sbatte
sul palmo della mano a mo’ di manganello. Resta così per un bel pezzo,
totalmente assorto in quel gesto monotono.
«Devo andare» borbotta il ragazzo, tentando di voltarsi.
«Vieni qui dopo il lavoro, e ti tiro fuori la bici.»
Le parole sembrano provenire dal nulla. Come se Ove le avesse più pensate
ad alta voce che pronunciate.
«Ma devi portarti gli attrezzi» aggiunge.
Il moccioso s’illumina.
«Dài, amico! Sul serio?!»
Ove si sta ancora battendo il manganello di carta sulla mano. Il ragazzo
deglutisce.
«Ehm… Cioè, volevo dire… davvero? Io… cioè… Oh, cazzo… oggi non
posso venire! Devo andare al mio secondo lavoro! Però domani sì, amico! Tipo,
vengo domani!»
Ove inclina leggermente il capo e squadra il ragazzo come se non fosse una
persona in carne e ossa, ma il personaggio di un cartone animato. Il moccioso fa
un sospiro profondo e si concentra.
«Domani? Le va bene se torno domani?» ripete.
«Quale secondo lavoro?» chiede Ove, come se stesse interrogando un
concorrente nella finale di un quiz televisivo.
«Alla sera e nei weekend lavoro in un bar» dice il ragazzo, con gli occhi
colmi della speranza di poter salvare il suo rapporto di fantasia con una ragazza
che non sa nemmeno di essere la sua ragazza: la speranza che può avere solo un
moccioso adolescente dalla chioma unta.
«Al bar gli attrezzi ci sono! Posso portare la bici lì!» prosegue ansioso.
«Secondo lavoro… Non te ne basta uno?» domanda Ove, indicando con il
manganello di carta il logo delle Poste sul petto del moccioso.
«Sto mettendo via i soldi» risponde il ragazzo.
«Per che cosa?»
«Una macchina.»
Ove non può fare a meno di notare che, quando pronuncia la parola
“macchina”, il moccioso raddrizza impercettibilmente la schiena. Segue un
istante di silenzio; poi, Ove si batte di nuovo il manganello sul palmo della mano
con cautela.
«Che macchina?»
«Sono andato a vedere una Renault!» dichiara il ragazzo giulivo,
raddrizzandosi un altro po’.
Per alcuni secondi, sembra che il tempo si arresti. Se stessero facendo le
riprese di un film, la cinepresa potrebbe compiere un giro panoramico di
trecentosessanta gradi intorno ai due interlocutori prima di mostrare Ove che,
infine, perde la calma.
«Una RENAULT!? Ma, cazzarola, non vorrai mica comprarti una macchina
FRANCESE?!»
Il ragazzo fa per rispondere qualcosa, ma non ci riesce perché Ove riprende
subito a parlare, scuotendo il busto come se cercasse di scacciare una vespa
ostinata.
«Santo Dio, che razza di pivello! Non ne sai niente, di macchine?»
Il moccioso abbassa umilmente la testa. Ove fa un sospiro profondo e si
prende la fronte con la mano, come se fosse stato colpito da un’improvvisa
emicrania.
«E come fai a portare la bici al bar se non hai la macchina?» mormora piano.
«Io… be’… veramente, non ci avevo pensato» risponde il ragazzo.
Ove scuote il capo.
«Una Renault… Non ci posso credere» ansima.
Il ragazzo annuisce. Ove si sfrega gli occhi pieno di frustrazione.
«Come hai detto che si chiama quel cavolo di bar dove lavori?» bofonchia.

Venti minuti dopo, Parvaneh apre stupita la porta di casa. Ove continua a
picchiarsi il manganello di carta sulla mano.
«Ce l’hai uno di quei cartelli verdi?»
«Prego?»
«Bisogna avere uno di quei cartelli verdi, se vuoi fare le esercitazioni di
guida. Ce l’hai, o no?»
Lei annuisce.
«Sì… Sì, ce l’ho, ma cos…?»
«Vengo a prenderti tra due ore. Usiamo la mia macchina.»
Ove si volta e si allontana a passi pesanti sul vialetto, senza attendere la
risposta.
27
Un uomo che si chiama Ove
e un’esercitazione di guida

Era capitato, nel corso dei quasi quarant’anni che avevano vissuto nel quartiere,
che alcuni avventati vicini domandassero a Sonja quale fosse il vero motivo
della profonda ostilità tra Ove e Rune. Per quale ragione due uomini, che un
tempo erano stati amici, di colpo avevano iniziato a odiarsi con tanta
frastornante intensità?
Sonja, di solito, rispondeva tranquilla che la faccenda era poco complicata,
ma un po’ lunga da spiegare. Molto semplicemente, quando i due si erano
trasferiti con le mogli nelle loro rispettive villette, Ove guidava una Saab 96 e
Rune una Volvo 244. Qualche anno dopo, Ove si era comprato una Saab 95 e
Rune una Volvo 245. Tre anni più tardi, Ove aveva acquistato una Saab 900 e
Rune una Volvo 265. Nel decennio seguente, Ove aveva comprato altre due Saab
900 e poi una Saab 9000. Rune, invece, aveva preso un’altra Volvo 265, poi una
Volvo 745, e infine una Volvo 740. In seguito, Ove aveva acquistato una seconda
Saab 9000 e Rune una Volvo 760, dopodiché Ove si era comprato la terza Saab
9000 e Rune una Volvo 760 Turbo.
Un bel giorno, Ove si era recato dal concessionario per dare un’occhiata al
modello appena lanciato della Saab, la 9-3, e quando la sera era tornato a casa
aveva scoperto che Rune si era comprato una BMW . «Una B-M-W !!!» aveva urlato
a Sonja. «Come si fa a ragionare con una persona del genere? Eh?»
Forse quello non era l’unico motivo per cui i due si detestavano tanto,
spiegava Sonja. Ma o lo si capiva, o non lo si capiva e, se non lo si capiva, allora
non c’era nemmeno bisogno di raccontare il resto.
I più, naturalmente, non capivano, riflette Ove, mentre osserva infastidito
Parvaneh togliere il giornale che lui ha steso sul sedile della Saab pochi minuti
prima. Per riuscire a sedersi, la donna deve spingere il sedile tutto indietro; poi,
per arrivare al volante, è costretta a tirarlo avanti. L’operazione richiede diversi
minuti, e Ove ha tutto il tempo di proseguire nelle sue riflessioni. “Ormai la
gente non ha più idea di cosa sia la lealtà” pensa. Al giorno d’oggi,
un’automobile è solo un “mezzo di trasporto”, e la strada una mera
complicazione tra due punti. Ove è convinto che sia per questo che il traffico è
diventato così folle. “Se le persone tenessero un po’ di più alla propria auto, non
guiderebbero come degli idioti” pensa.
L’esercitazione non inizia molto bene. O, per essere più corretti, inizia con
Parvaneh che cerca di salire sulla Saab con una bibita in mano, e decisamente
non avrebbe dovuto farlo. Poco dopo, si mette a giocherellare con la radio per
trovare un canale “più divertente”, e forse non avrebbe dovuto fare neanche
quello.
Ove raccoglie il giornale dal tappetino, lo appallottola e lo stringe in mano
come se fosse la versione casalinga di una palla antistress. Lei agguanta il
volante e fissa il quadro strumenti come una bambina curiosa.
«Da dove iniziamo?» domanda con zelo, dopo aver acconsentito a lasciar giù
la bibita.
Ove sospira. Il gatto, appisolato con un occhio aperto sul sedile posteriore, di
colpo sembra desiderare ardentemente di potersi allacciare la cintura di
sicurezza.
«Schiaccia la frizione» risponde Ove, un po’ bruscamente.
Parvaneh si guarda intorno confusa. Poi si gira verso Ove e abbozza un
sorriso servile.
«Qual è la frizione?»
Il viso di Ove si deforma in una maschera di incredulità.
«Ma cazzar… Santo cielo, possibile che non lo sai?!»
Lei si guarda di nuovo intorno, questa volta puntando gli occhi sul cambio,
come se credesse che la frizione si trovi da quelle parti. Ove si mette una mano
sulla fronte. Parvaneh assume un’espressione stizzita.
«Te l’ho detto che voglio prendere la patente per le auto con il cambio
automatico! Perché mi costringi a guidare la tua macchina?»
«Perché così prenderai una patente vera!» la incalza Ove, accentuando
l’aggettivo “vera” e facendo capire che, dal suo punto di vista, la patente per una
macchina con il cambio automatico vale tanto quanto una macchina con il
cambio automatico.
«Smettila di urlare!» urla Parvaneh.
«Non sto urlando!» urla a sua volta Ove.
Sul sedile posteriore, il gatto si rannicchia stando estremamente attento a non
finire in mezzo a quei due, qualsiasi cosa stiano facendo. Parvaneh incrocia le
braccia sul petto e guarda fuori dal finestrino risentita. Ove batte il manganello
di carta sulla mano, metodicamente, per un bel po’.
«La frizione è il pedale a sinistra» grugnisce alla fine.
Dopo un sospiro talmente profondo che a metà deve fermarsi per riprendere
fiato, aggiunge:
«Quello in mezzo è il freno. E a destra c’è l’acceleratore. Alzi lentamente la
frizione finché non trovi il punto di trazione, dài gas premendo sull’acceleratore,
lasci andare la frizione e vai.»
Parvaneh lo considera un modo come un altro di chiedere scusa. Annuisce e
si concentra: afferra il volante, mette in moto ed esegue gli ordini. La Saab viene
proiettata in avanti con un balzo e, dopo una breve pausa, prosegue a singhiozzo
verso il parcheggio per gli ospiti, rischiando di finire contro un’altra auto. Ove
tira il freno a mano con tutte le sue forze. Parvaneh toglie le mani dal volante per
coprirsi gli occhi e manda un urlo terrorizzato. La Saab si ferma di botto. Ove
ansima, come se il freno a mano fosse il traguardo di un percorso a ostacoli. I
muscoli del viso gli fremono come se qualcuno gli avesse schizzato del succo di
limone negli occhi.
«E adesso che cosa faccio?!» strilla Parvaneh, quando si rende conto che la
Saab è a due centimetri dai fanali posteriori dell’auto che ha davanti.
«Retromarcia. Metti la retro» dice Ove a denti stretti.
«Merda, le sono quasi andata addosso!» esclama Parvaneh.
Ove lancia un’occhiata alla carrozzeria e subito rilassa i muscoli, facendo un
cenno di noncuranza.
«Non importa. È una Volvo.»
Per uscire dal parcheggio e immettersi sulla strada principale impiegano un
quarto d’ora. Una volta sulla carreggiata, Parvaneh tira la prima così tanto che la
Saab vibra come se stesse per esplodere. Ove le dice di cambiare marcia, e lei
risponde che non sa come si fa. Nel frattempo, a giudicare dai rumori sul sedile
posteriore, si direbbe che il gatto stia tentando di aprire la portiera e sgusciare
fuori.
Quando arrivano al primo semaforo rosso, un enorme SUV nero con due
giovani dal cranio rasato si posiziona così vicino al loro paraurti che Ove teme
per l’incolumità della targa della Saab. Parvaneh lancia un’occhiata tesa nello
specchietto. Il SUV dà gas in modo aggressivo, come se si trovasse non in coda a
un semaforo ma sulla griglia di partenza di un gran premio. Ove si volta e guarda
attraverso il lunotto. I due giovani hanno il collo coperto di tatuaggi: “Come se il
SUV non bastasse a segnalare al resto del mondo che sono due perfetti imbecilli”
pensa.
Scatta il verde. Parvaneh lascia la frizione, la Saab tossicchia e poco dopo
l’intero quadro strumenti si rabbuia. Parvaneh gira con ansia la chiave di
accensione, ma riesce solo a far gracchiare l’auto in modo straziante. Il motore
romba, tossisce e si spegne di nuovo. L’autista tatuato strombazza e il passeggero
comincia a gesticolare.
«Tieni schiacciata la frizione e premi un po’ sull’acceleratore» dice Ove.
«Lo sto facendo!» risponde lei.
«No che non lo fai.»
«Lo faccio, eccome!»
«Adesso sei tu che urli.»
«NON STO URLANDO, CAZZO!» grida lei.
Il SUV riprende a strombazzare. Parvaneh schiaccia la frizione. La Saab
scivola indietro di un paio di centimetri e sbatte contro il SUV . Il clacson dei
tatuati si scatena.
Parvaneh gira disperatamente la chiave, ma il motore non ne vuole sapere di
riavviarsi. Allora decide che tanto vale mollare tutto e si nasconde il viso tra le
mani.
«Ma porco cane… cosa fai, ti metti a piangere?» esclama Ove.
«NON STO PIANGENDO, CAZZO!» strilla lei, così forte che un po’ di
saliva le schizza sul cruscotto.
Ove si fissa le ginocchia, tamburellando con le dita sul bordo del manganello
di carta.
«È solo che è tutto così difficile, lo capisci?» singhiozza lei, appoggiando
rassegnata la fronte sul bordo del volante in una posizione che, considerato il suo
pancione, non deve essere molto comoda.
«Cioè, sono INCINTA, cazzo!» sbotta dopo qualche secondo, alza la testa e
guarda Ove come se fosse colpa sua. «Sono solo un po’ STRESSATA! Nessuno
sa più dimostrare un minimo di comprensione del cazzo per una cazzo di donna
incinta che è solo un po’ STRESSATA?!»
Ove si contorce a disagio sul sedile. Parvaneh sbatte i pugni sul volante e
bisbiglia che l’unica cosa che voleva era “bere un cazzo di succo di frutta”. Poi,
allunga le braccia posandole sul volante, affonda il viso nelle maniche del
giaccone e ricomincia a piangere.
Intanto, il SUV dietro di loro non smette di strombazzare e a quel punto Ove,
come si dice in gergo, “sbrocca”. Spalanca la portiera, scende dalla Saab, gira
intorno al SUV e apre con foga la portiera del lato di guida.
«Cos’è? Non sei mai stato un principiante in niente, tu?»
I due tatuati sono colti alla sprovvista.
«Brutto stronzo di merda di un fottuto babbeo!» sbraita Ove con il fragore di
una cascata contro il giovane dal cranio rasato.
L’autista non fa in tempo a rispondere: Ove lo agguanta per il collo della
maglia e lo tira goffamente fuori dalla macchina. È un tizio muscoloso, peserà
più di un quintale, ma Ove lo stringe in una morsa implacabile. Il tatuato è
talmente sorpreso dalla forza di quella presa che non ha nemmeno la prontezza
di fare resistenza. Ove spinge il giovane, che deve avere come minimo
trentacinque anni meno di lui, contro la fiancata del SUV così violentemente da
far sobbalzare la carrozzeria. Pianta la punta dell’indice sulla fronte del tatuato e
lo fissa dritto negli occhi, avvicinandosi tanto da alitargli in faccia.
«Suona il clacson un’altra volta ed è L’ULTIMA cosa che fai su questa Terra.
Intesi?»
Il tatuato sposta fulmineo lo sguardo sull’amico, altrettanto se non più
muscoloso di lui, nell’abitacolo e poi sulla fila di auto che si è rapidamente
formata dietro il SUV . Nessuno accenna a venirgli in soccorso. Nessuno
strombazza. Nessuno si muove. Sembra che pensino tutti la stessa cosa: se un
uomo dell’età di Ove affronta senza esitazione un giovane con il cranio rasato e i
tatuaggi sul collo, sbatacchiandolo in quel modo contro la sua auto, allora non è
del tatuato che c’è da aver paura.
Gli occhi di Ove sono neri di collera. Dopo una breve riflessione, il tatuato si
convince che il vecchio davanti a lui fa sul serio e il mento gli si abbassa quasi
impercettibilmente.
Ove annuisce in segno d’intesa e lo lascia andare. Fa dietrofront, gira attorno
al SUV e risale sulla Saab. Parvaneh lo fissa a bocca aperta.
«Adesso mi ascolti» dice Ove con calma, richiudendo piano la portiera.
«Hai avuto due figlie e stai per sfornare un terzo marmocchio. Sei venuta qui
da un Paese straniero e di certo sarai sfuggita a guerre e persecuzioni e a tutto
l’inferno possibile. Hai imparato una nuova lingua, hai studiato, hai provveduto
al tuo mantenimento e tieni insieme un’intera famiglia di incapaci. E che mi
venga un colpo se ti ho mai visto avere paura di una qualsiasi stronzata sulla
faccia della Terra.»
Ove punta gli occhi in quelli di Parvaneh, che non osa fiatare, e indica con un
gesto imperioso i pedali ai suoi piedi.
«Non ti sto chiedendo di fare un intervento chirurgico a cuore aperto. Ti
chiedo di guidare una macchina con il cambio manuale. Ci sono acceleratore,
freno, frizione. Se i più grandi idioti della storia del pianeta hanno capito come
funziona, ce la puoi fare anche tu.»
Infine, Ove pronuncia le sette parole che Parvaneh ricorderà per sempre come
quanto di più simile a un complimento abbia mai ricevuto da lui.
«Perché tu non sei un’idiota totale.»
Parvaneh si scosta i capelli dal viso, si asciuga le lacrime e riafferra
goffamente il volante con entrambe le mani. Ove annuisce, si allaccia la cintura
di sicurezza e si mette comodo.
«Adesso schiaccia la frizione e fa’ come ti dico.»

Quel pomeriggio, Parvaneh impara finalmente a guidare.


28
Un uomo che si chiamava Ove
e un uomo che si chiamava Rune

Sonja diceva che Ove era “rancoroso”. Per esempio, alla fine degli anni Novanta
si era rifiutato di fare acquisti nella panetteria del quartiere per otto anni, dopo
che avevano sbagliato a dargli il resto delle brioche. Ove, dal canto suo, ribatteva
che era “ancorato ai principi”. In definitiva, usavano parole diverse per
esprimere lo stesso concetto.
Ove sapeva che sua moglie ci era rimasta male quando lui e Rune non erano
più riusciti ad andare d’accordo. Con la loro ostilità, avevano mandato a monte
la possibilità che Sonja e Anita restassero amiche come lo erano prima. Ma
quando un conflitto si protrae per tanti anni, risolverlo può diventare
impossibile, per il semplice fatto che nessuno sa più come sia iniziato. Ove, in
effetti, non ricordava più bene come fosse iniziata la faida con Rune.
Sapeva solo com’era finita.

Una BMW . C’era chi capiva, e chi non capiva. Certa gente credeva che emozioni
e automobili non avessero niente in comune, ma per Ove e Rune le auto erano
una cosa seria, e una ragione più che sufficiente per diventare nemici giurati.
Tutto era cominciato in modo assolutamente innocuo non molto tempo dopo
che Ove e Sonja erano rientrati dalla Spagna. Quell’estate, Ove aveva posato
delle nuove mattonelle nel suo giardino e Rune aveva eretto una recinzione
attorno alla propria porzione di prato. Ove, allora, ne aveva piantata una ancora
più alta intorno alla sua. Rune, per tutta risposta, si era recato in un negozio di
fai da te e, alcuni giorni più tardi, era andato in giro nel quartiere vantandosi di
aver “costruito una piscina”. Una piscina un cavolo, aveva sbraitato Ove a Sonja:
non era altro che un piccolo stagno per suo figlio, ecco cos’era. Per un certo
periodo, Ove aveva pensato di denunciarlo alla commissione edilizia come
costruzione abusiva, ma poi Sonja gli aveva detto di piantarla e lo aveva spedito
fuori a tagliare l’erba per “darsi una calmata”. Ove aveva tagliato l’erba, sì, ma
questo non lo aveva calmato nemmeno un briciolo, cazzarola.
Il prato si estendeva sul retro delle case di Ove e Rune, e della villetta in
mezzo a loro, che Sonja e Anita si erano affrettate a battezzare la “zona
neutrale”. Nessuno sapeva che funzione avesse: evidentemente, quando il
quartiere era stato progettato, qualche geometra doveva aver pensato che fosse
opportuno inserire un prato qua e là, per nessun motivo particolare se non che
sul disegno appariva gradevole. Quando Ove e Rune avevano istituito
l’associazione dei proprietari, ed erano ancora amici, avevano stabilito che Ove
sarebbe stato il “responsabile del prato” e si sarebbe occupato della tosatura. Lo
aveva fatto per molti anni. Una volta i vicini avevano proposto di collocarci un
tavolo e delle panche, in modo da trasformarlo in una sorta di spazio comune,
ma naturalmente Ove e Rune avevano stroncato l’idea sul nascere: si sarebbero
soltanto creati un accidenti di andirivieni e un mucchio di chiasso.
Così, per un certo periodo, avevano vissuto tutti felici e contenti. Per quanto
si potesse essere felici e contenti, quando di mezzo c’erano uomini come Ove e
Rune.
Poco tempo dopo che Rune aveva costruito la “piscina”, un ratto aveva fatto
la sua comparsa sul prato di Ove, attraversando di corsa l’erba tagliata di fresco
e sparendo tra gli alberi dall’altra parte. Ove aveva convocato immediatamente
un’assemblea straordinaria per quello che aveva definito un “affare urgente” e
aveva preteso che tutti mettessero del veleno per ratti intorno alle proprie
abitazioni. I vicini, ovviamente, avevano protestato: nel bosco avevano visto
ricci e altri animaletti, e temevano che anche loro potessero mangiare il veleno e
fare una brutta fine. Anche Rune aveva reclamato: era convinto che i ratti
avrebbero disseminato il veleno nella sua piscina. A quel punto, Ove aveva
invitato Rune ad abbottonarsi la camicia e ad andare da uno psicologo per
guarire dall’allucinazione di abitare in Costa Azzurra, e Rune allora gli aveva
giocato un tiro mancino, dicendo che Ove si era solo illuso di aver visto il ratto.
Erano scoppiati tutti a ridere, e Ove se l’era legata al dito. La mattina dopo, Rune
si era ritrovato l’intero giardino cosparso di mangime per uccelli, e aveva dovuto
dare la caccia con la vanga a una dozzina di ratti grossi come aspirapolvere per
due settimane di fila. Dopo questo episodio, Ove aveva ottenuto l’autorizzazione
a piazzare il veleno, e Rune gli aveva borbottato dietro che l’avrebbe pagata.
Due anni più tardi, Rune aveva vinto il secondo round, quando durante
l’assemblea annuale dell’associazione dei proprietari gli era stato accordato il
permesso di abbattere un albero che, da una parte, ostacolava il sole pomeridiano
sulla casa di Rune e Anita, ma, dall’altra, impediva alla camera da letto di Ove e
Sonja di essere inondata dalla luce accecante del mattino. Inoltre, era riuscito a
far bocciare l’agguerrita contromozione di Ove, che esigeva dall’associazione il
pagamento della sua nuova tenda da sole.
L’inverno seguente, tuttavia, Ove si era vendicato vincendo il terzo round,
quando Rune aveva voluto proclamarsi “responsabile dello sgombero neve” e, al
contempo, accollare all’associazione l’acquisto di uno spazzaneve gigante.
Cazzarola, Ove non aveva nessuna intenzione di permettere a Rune di andarsene
in giro con quel dannato aggeggio, e di spruzzare la neve sulle sue finestre, a
spese dell’associazione dei proprietari, e all’assemblea lo aveva detto chiaro e
tondo.
Così, a Rune era stato in effetti assegnato l’incarico di sgomberare la neve
davanti alle abitazioni, ma, con suo enorme disappunto, lo avevano costretto a
spalarla con il badile. Per ripicca, Rune aveva liberato i vialetti d’ingresso di
tutte le case del quartiere tranne quello di Ove e Sonja. Ove non aveva fatto una
piega e, al solo scopo di far arrabbiare Rune, a metà gennaio aveva noleggiato un
enorme spazzaneve per ripulire i dieci metri quadrati davanti alla sua porta.
Rune era quasi ammattito per il nervoso, Ove se lo ricorda ancora oggi con
grande soddisfazione.
L’estate successiva, Rune aveva trovato il modo di rifarsi comprando uno di
quei ridicoli trattorini tosaerba. Con menzogne e cospirazioni, durante
l’assemblea annuale era riuscito a soffiare a Ove l’incarico di responsabile del
taglio del prato dietro le villette, visto che, come aveva detto con un sorriso
sardonico indirizzato a Ove, ora disponeva di un’“attrezzatura un po’ più
adeguata” di chi deteneva l’incarico prima. Ove, naturalmente, non aveva potuto
dimostrare l’esistenza di menzogne e cospirazioni dietro la decisione del
consiglio direttivo di approvare il nuovo titolo di Rune, ma non aveva dubbi che
fosse andata così. «Dannato sbruffone di un motorino»: ecco come Ove
chiamava il tosaerba ogni volta che Rune passava davanti alla sua finestra seduto
sul seggiolino, con la presunzione di un cowboy in sella a un toro.
Per dispetto, quattro anni dopo Ove era riuscito a ostacolare il piano di Rune
di cambiare le finestre di casa sua, perché dopo trentatré lettere e una dozzina di
telefonate incollerite la commissione edilizia aveva capitolato, assecondando la
linea di Ove, che sosteneva che quelle finestre avrebbero rovinato l’aspetto
architettonicamente uniforme del quartiere. Durante i tre anni seguenti, Rune si
era rifiutato di riferirsi a Ove se non come a “quel maledetto principe dei
cavilli”. Ove lo aveva preso come un complimento. L’anno dopo, le finestre le
aveva cambiate lui.
Con l’avvicinarsi dell’inverno successivo, il consiglio direttivo aveva deciso
che il quartiere aveva bisogno di un nuovo impianto di riscaldamento
centralizzato. Rune e Ove, c’era da aspettarselo, avevano opinioni
diametralmente opposte sul tipo di impianto necessario, così era scoppiata quella
che gli altri vicini avevano definito la “faida per il riscaldamento”, e che si era
presto trasformata in una lotta all’ultimo sangue.
E avanti di questo passo.
Come diceva Sonja, comunque, c’erano stati anche dei bei momenti. Non
erano stati molti, ma donne come lei e Anita conoscevano l’arte di farne tesoro.
Un’estate degli anni Ottanta, per esempio, Ove aveva comprato una Saab 9000 e
Rune una Volvo 760. Erano entrambi così soddisfatti dei loro acquisti che erano
rimasti in buoni rapporti per diverse settimane. Sonja e Anita erano persino
riuscite a farli cenare insieme in svariate occasioni. Il figlio di Rune e Anita, che
ormai era diventato adolescente, con tutto il corollario di paturnie e impertinenza
che quell’età porta con sé, sedeva a capotavola a mo’ di accessorio inviperito.
“Quel ragazzino è nato arrabbiato” commentava Sonja con voce addolorata ogni
volta che lo vedeva. In ogni caso, Ove e Rune in quei giorni andavano così
d’accordo che, dopo cena, bevevano addirittura un bicchierino di whisky
insieme.
Alla fine di quell’estate, tuttavia, avevano avuto la malaugurata idea di fare
una grigliata e, ovviamente, si erano messi a litigare sulla “procedura più
efficace” per accendere il barbecue sferico di Ove. Nel giro di un quarto d’ora, la
lite si era inasprita a tal punto che Sonja e Anita avevano convenuto che,
dopotutto, era meglio mangiare ognuno a casa propria. Prima di parlarsi di
nuovo, i due uomini avevano fatto in tempo a comprare e rivendere una Volvo
760 (Turbo) e una Saab 9000i.
Nel frattempo, i vicini si erano susseguiti uno dopo l’altro. Alla fine erano
apparsi così tanti volti nuovi sulle porte delle altre villette del quartiere che, agli
occhi dei primi arrivati, avevano finito per formare una massa grigiastra. Dove
un tempo c’era stato il bosco, era pieno di gru edili. Ove e Rune osservavano
perplessi tutto quel viavai, in piedi davanti a casa loro con le mani affondate
nelle tasche dei pantaloni. Sembravano le vestigia pietrificate di un’epoca
remota, e una schiera di boriosi agenti immobiliari con i nodi alla cravatta grossi
come ananas li teneva d’occhio da lontano, come gli avvoltoi curano i vecchi
bufali d’acqua, attendendone la fine: non vedevano l’ora di piazzare qualche
dannata famiglia di consulenti nelle loro case, Ove e Rune lo sapevano bene.
Il figlio di Rune e Anita se n’era andato appena aveva compiuto vent’anni,
all’inizio degli anni Novanta. In America, Ove era stato informato da Sonja. In
pratica, non lo avevano più rivisto. Prima di Natale, Anita riceveva una
telefonata. «Ormai è così pieno di impegni» diceva sempre, cercando di tenersi
su di morale, malgrado Sonja la vedesse soffocare il pianto. Ci sono ragazzi che
mollano tutto e non si guardano più indietro. Punto.
Rune non ne aveva mai parlato, ma per chi lo conosceva da tempo era
evidente che, dopo quell’evento, si era accasciato: il suo corpo si era accorciato
di qualche centimetro, ed era come se non riuscisse più a respirare bene come
prima.
In seguito, Rune e Ove erano venuti ai ferri corti un numero imprecisato di
volte a causa del riscaldamento centralizzato. L’ennesima volta, Ove se n’era
andato dall’assemblea annuale dell’associazione dei proprietari su tutte le furie,
e aveva deciso che non vi avrebbe più partecipato. L’ultima battaglia l’avevano
combattuta quando, intorno al 2000, Rune aveva acquistato uno di quei piccoli
tosaerba automatici prodotti in Asia, che vagava sul prato dietro le abitazioni
tagliando l’erba da solo. Un giorno, rientrando dalla casa di Anita, Sonja aveva
raccontato entusiasta a Ove che Rune poteva programmare la macchina con il
telecomando, in modo che tagliasse l’erba secondo “schemi precisi”. Ben presto,
però, Ove si era reso conto che lo “schema preciso” di quel robottino di merda
era ronzare come un forsennato fuori dalla finestra della camera da letto di Ove e
Sonja per tutta la notte. Così, una sera Sonja aveva visto Ove uscire dalla
portafinestra sul retro con un cacciavite in mano e, la mattina dopo, il robottino
era inspiegabilmente finito dritto nella piscina di Rune.
Poco più tardi, Rune era entrato in ospedale per la prima volta. Non aveva
comprato altri tosaerba, né aveva più dato a Ove filo da torcere. Ove non sapeva
bene come fosse iniziata la loro ostilità, ma sapeva che era finita in quel
momento. Dopodiché, per Ove c’erano stati solo ricordi e per Rune la
progressiva assenza di ricordi.
Certa gente era convinta che emozioni e automobili non avessero niente in
comune, ma, quando avevano traslocato nel quartiere, Ove guidava una Saab 96
e Rune una Volvo 244. Dopo l’incidente, Ove aveva comprato una Saab 95 per
far posto alla sedia a rotelle di Sonja. Lo stesso anno, Rune aveva acquistato una
Volvo 245 per far posto al passeggino del figlio. Tre anni dopo, Sonja aveva
cambiato la vecchia sedia a rotelle con una pieghevole, più moderna, e Ove
aveva comprato una Saab 900, station wagon. Lo stesso anno, Rune aveva
acquistato una Volvo 265 perché Anita aveva cominciato a parlare di avere un
secondo figlio.
In seguito, Ove aveva comprato altre due Saab 900 e poi la sua prima Saab
9000. Rune una Volvo 265 e, dopo qualche tempo, una Volvo 745. Altri figli non
ne erano arrivati. Una sera, Sonja era tornata a casa e aveva raccontato a Ove che
Anita era stata dal medico.
Una settimana dopo, nel garage di Rune era comparsa una Volvo 740, berlina.
Ove l’aveva vista mentre lavava la Saab. Quella sera, fuori dalla porta di casa
sua Rune aveva trovato una mezza bottiglia di whisky, ma nessuno dei due aveva
fatto commenti.
Forse il dolore per i figli che non erano arrivati avrebbe dovuto riavvicinarli.
Ma il dolore è infido: se non viene condiviso, è capace di separare
profondamente le persone. Era possibile che Ove non riuscisse a riconciliarsi con
Rune perché, dopotutto, Rune un figlio l’aveva avuto, anche se ormai non
sapeva quasi dove fosse. E forse Rune non riusciva a far pace con Ove perché
quell’invidia sotterranea lo metteva a disagio. Forse, nessuno dei due riusciva a
perdonare se stesso per non aver saputo dare alla donna che amava ciò che
desiderava davvero. Così, il figlio di Rune e Anita era diventato adulto,
tagliando la corda alla prima occasione, e Rune era andato a comprarsi una di
quelle BMW sportive, in cui c’è spazio solo per due persone e una borsetta.
«Perché ormai siamo solo io e Anita» aveva detto a Sonja un giorno che si erano
incontrati nel parcheggio. «Non si può mica guidare Volvo tutta la vita» aveva
continuato con un sorriso sghembo, nascondendo le lacrime. Quando Sonja
gliel’aveva raccontato, Ove aveva capito che una parte di Rune si era arresa per
sempre. Forse era soprattutto per questo che Ove non lo aveva mai perdonato, e
che Rune, in fondo, non aveva mai perdonato se stesso.

Certa gente credeva che emozioni e automobili non avessero niente in comune.
Ma si sbagliava di grosso.
29
Un uomo che si chiama Ove
e un finocchio

«Scusa ma, sul serio, dove stiamo andando?» domanda Parvaneh con il fiatone.
«A sistemare una cosa» risponde Ove in fretta, tre passi davanti a lei, con il
gatto che trotterella al suo fianco.
«Quale cosa?»
«Una cosa!»
Parvaneh si ferma a riprendere fiato.
«Qui!» esclama Ove, bloccandosi di colpo davanti a un piccolo bar.
Dalla porta a vetri esce un buon profumo di croissant appena sfornati.
Parvaneh guarda il parcheggio sul lato opposto della strada, dove hanno lasciato
la Saab. A ben vedere, bastava attraversare per raggiungere il locale; Ove, però,
era convinto che il bar si trovasse all’altro capo del quartiere. Allora Parvaneh
aveva proposto di parcheggiare da quelle parti, ma lì la sosta costava una corona
in più all’ora, quindi non se ne parlava proprio.
Così, hanno lasciato la macchina in quel parcheggio e poi hanno camminato
per tutto il quartiere alla ricerca del bar. Ove, infatti, è il genere di uomo che,
quando non sa bene dove andare, si limita a procedere, nella ferma convinzione
che prima o poi la sua destinazione si manifesterà come d’incanto. Quando, ora,
scoprono che il bar si trova di fronte al posto in cui hanno parcheggiato, Ove
chiaramente si comporta come se fosse la cosa più naturale del mondo. Parvaneh
si asciuga il sudore dalla fronte.
Poco lontano, sul marciapiede, un uomo con la barba sporca siede per terra
appoggiato al muro con un bicchiere di carta davanti. Fuori dal locale Ove,
Parvaneh e il gatto incrociano un ragazzo mingherlino sulla ventina, che ha
quella che sembra fuliggine attorno agli occhi. Ove ci mette un po’ prima di
accorgersi che è il compare del moccioso della bici fuori dal deposito. Ha un
aspetto ancora più rachitico di quando l’ha incontrato la prima volta. Tiene in
mano un piatto di carta con due panini e sorride cauto a Ove. Ove si limita a
rispondere con un cenno del capo, come se volesse fargli sapere che, anche se
non ha intenzione di ricambiarlo, il sorriso è stato ricevuto.
«Perché non mi hai fatto parcheggiare accanto a quella macchina rossa?»
domanda Parvaneh quando entrano nel bar.
Ove non risponde.
«Ce l’avrei fatta!» dice lei, sicura di sé.
Ove scuote stancamente il capo. Due ore prima non sapeva nemmeno dove
fosse la frizione, e adesso se la prende perché non l’ha lasciata parcheggiare.
Attraverso la finestra, Ove scorge con la coda dell’occhio il moccioso dagli
occhi bistrati chinarsi e porgere i panini all’uomo con la barba sporca.
«Ciao, Ove!» grida una voce così acuta e zelante da risultare ridicola.
Ove si volta e vede il ragazzo della bici. È dietro un lungo bancone lucido in
fondo al locale. Indossa un cappellino, nota Ove. Al chiuso.
Il gatto e Parvaneh si accomodano ognuno sul proprio sgabello davanti al
bancone, Parvaneh continuando ad asciugarsi il sudore dalla fronte malgrado lì
dentro non faccia per niente caldo. Fa più freddo che in strada, in effetti. Lei si
serve dell’acqua da una brocca e, quando non guarda, il gatto beve dal suo
bicchiere senza troppi riguardi.
«Vi conoscete?» domanda Parvaneh sorpresa, fissando il ragazzo.
«Sì. Cioè… Ove e io siamo amici, tipo» annuisce il giovane.
«Davvero? Anche Ove e io siamo amici… tipo!» sorride lei, con
un’imitazione bonaria del suo entusiasmo un po’ troppo esplicito.
Ove si ferma a debita distanza dal bancone. Come se avesse paura che, se si
avvicina troppo, qualcuno cercherà di abbracciarlo.
«Mi chiamo Adrian» si presenta il ragazzo.
«E io Parvaneh!» dice Parvaneh.
«Prendete qualcosa?» chiede Adrian, voltandosi verso Ove.
«Oh! Per me un latte macchiato» risponde beata Parvaneh. Poi si deterge di
nuovo la fronte con un tovagliolino.
«Se possibile con latte freddo!»
Ove sposta il peso del corpo dal piede destro al sinistro e si guarda intorno
con circospezione. Non gli sono mai piaciuti i bar. Sonja, al contrario, li adorava:
poteva passarci domeniche intere “solo a guardare la gente”, come diceva lei.
Ove, di solito, le sedeva accanto cercando di leggere il giornale. È da quando è
morta che non mette piede in un bar. Alza gli occhi e si rende conto che Adrian,
Parvaneh e il gatto aspettano una risposta.
«Un caffè. Nero.»
Adrian si gratta la testa sotto il cappellino.
«Cioè… tipo, un espresso?»
«No. Un caffè normale.»
Adrian passa a grattarsi il mento.
«Caffè normale… nero?»
«È quel che ho detto.»
«Con il latte?»
«Se c’è il latte, non è nero.»
Adrian sposta una zuccheriera sul bancone, più che altro per non starsene con
le mani in mano e apparire un idiota. “Non gli riesce tanto bene” pensa Ove.
«Un caffè nero. Un normalissimo caffè nero, filtrato» ripete Ove.
Adrian annuisce.
«Ah… quello! Sì. Ecco, veramente non so come si fa.»
Ove lo guarda come si guarderebbe chiunque dica di non saper versare
dell’acqua in un serbatoio, mettere della polvere in un filtro e premere un
pulsante. Poi indica la macchina del caffè filtrato alle spalle del ragazzo: è quasi
completamente nascosta da un’immensa astronave d’acciaio, che Ove intuisce
sia la macchina con cui fanno l’espresso.
«Oh, già.»
Adrian accenna all’apparecchio come se gli fosse appena venuto in mente
qualcosa.
Poi si rivolge di nuovo a Ove.
«Cioè… Non so come funziona, tipo.»
«Ma porca di quella…» borbotta Ove, passando dall’altra parte del bancone.
Allontana il giovane ed estrae la caraffa dalla macchina. Parvaneh si
schiarisce sonoramente la voce. Ove la fulmina con lo sguardo.
«Sì?» le chiede.
«Sì, cosa?» ripete lei.
Ove inarca le sopracciglia. Lei alza le spalle.
«Qualcuno vuol dirmi cosa ci facciamo qui?» domanda.
Ove va a riempire d’acqua la caraffa.
«Il ragazzo ha una bicicletta da riparare.»
Parvaneh s’illumina.
«La bici che hai appeso dietro la Saab?»
«L’hai portata qui?» esclama Adrian tutto contento, sorridendo a Ove.
«Hai detto che non hai la macchina, no?» risponde Ove, mentre inizia a
frugare in un armadietto alla ricerca di un filtro.
«Grazie, Ove!» grida Adrian, avanzando di un passo verso di lui come se
volesse dargli una pacca sulla spalla. Poi, però, torna in sé e si ferma, rendendosi
conto che sarebbe una sciocchezza.
«Quindi, è tua la bici?» sorride Parvaneh.
Adrian annuisce, ma subito dopo scuote la testa.
«Cioè, non è mia. È della mia ragazza. O meglio, di quella che vorrei tanto
fosse la mia ragazza… tipo.»
Parvaneh ridacchia.
«Insomma, Ove e io abbiamo fatto tutta questa strada solo per lasciarti una
bici che dovresti riparare per una ragazza?»
Adrian fa un cenno affermativo. Parvaneh si sporge sul bancone e assesta un
buffetto sul braccio di Ove.
«Sai, Ove, a volte si potrebbe quasi credere che tu abbia un cuore!»
Lo dice con un tono beffardo, che a Ove non piace per niente.
«Gli attrezzi, ce li hai?» chiede Ove a Adrian, ritraendo il braccio.
Adrian annuisce.
«Allora, va’ a prenderli. La bici è sulla Saab nel parcheggio qui di fronte.»
Adrian abbozza un rapido cenno d’assenso e scompare in cucina. Pochi
minuti dopo, torna reggendo una grossa cassetta degli attrezzi e si affretta verso
la porta.
«E tu non fiatare» dice Ove a Parvaneh.
Parvaneh ha sulle labbra quel genere di sorriso che lascia intendere che non
ha alcuna intenzione di ubbidirgli.
«Gli ho portato la bici solo perché così la smette di lasciarla fuori dal nostro
deposito» bofonchia.
«Certo, certo» annuisce Parvaneh, ridendo.
Ove riprende a cercare il filtro. Sulla porta, Adrian letteralmente si scontra
con il moccioso dagli occhi bistrati.
«Devo… ehm… solo prendere una cosa» prorompe rivolto al suo compare,
come se, al posto delle parole, dalla bocca gli uscissero stelle filanti.
«Lui è il mio capo!» spiega poi a Ove e Parvaneh, indicando Occhi bistrati.
Parvaneh si alza subito e allunga educatamente la mano. Ove è impegnato a
setacciare i cassetti dietro il bancone.
«Che cosa stai facendo?» domanda il ragazzo, guardando con un certo
interesse lo sconosciuto che si è barricato dietro il bancone del suo bar.
«Il tuo amico deve riparare una bicicletta» risponde Ove, come se non ci
fosse bisogno di ulteriori spiegazioni. «Dove li tieni i filtri per il caffè normale?»
lo incalza subito dopo.
Occhi bistrati si limita a fare un cenno. Ove lo guarda strizzando le palpebre.
«Cos’è, trucco?»
Parvaneh lo zittisce. Ove pare risentito.
«Be’?! Non si può chiedere?»
Occhi bistrati abbozza un sorrisetto nervoso.
«Sì, è trucco» annuisce, iniziando a sfregarsi gli occhi.
«Ieri sono andato a ballare» aggiunge e quando, con la destrezza di un
complice, Parvaneh pesca una salvietta umidificata dalla borsa e gliela porge, le
sorride con gratitudine.
Ove fa una smorfia e torna al suo caffè.
«Anche tu hai problemi con le bici, l’amore, le donne?» domanda, quasi di
sfuggita.
«No, no. Non con le bici, almeno. E neanche con l’amore, per il momento. E
sicuramente… sicuramente non con le donne!» risponde il ragazzo.
Mentre lo dice, gli fremono leggermente gli angoli della bocca. Poi rimane in
silenzio e, dopo una decina di secondi, inizia a giocherellare con l’orlo della
maglia. Ove schiaccia il pulsante della macchina del caffè, la ascolta percolare,
si volta e si appoggia al bancone, come se appoggiarsi al bancone e adoperare gli
elettrodomestici di un bar dove non si lavora fosse la cosa più normale del
mondo.
«Finocchio, eh?» sbotta, fissando negli occhi il moccioso.
«OVE!» strilla Parvaneh, colpendolo di nuovo sul braccio.
Ove lo ritrae, con l’aria parecchio offesa.
«Ma si potrà chiedere!?»
«Non si dice… così!» sbuffa Parvaneh, evidentemente restia a pronunciare
quella parola.
«Finocchio?» ripete impassibile Ove.
Parvaneh tenta di mollargli un altro ceffone, ma stavolta Ove è più rapido e
riesce a evitarlo.
«Non dire così!» gli ordina.
Ove, genuinamente perplesso, si volta verso Occhi bistrati.
«Non si può dire “finocchio”? Allora, oggigiorno, cosa si dice?»
«Si dice omosessuale. Oppure… LGBT » esplode Parvaneh prima di riuscire a
trattenersi.
Ove guarda prima lei, poi il moccioso.
«Tranquillo, puoi chiamarmi come vuoi» dice lui, sorridendo. Poi, va dietro il
bancone e s’infila il grembiule.
Parvaneh emette un gemito e fissa Ove, scuotendo la testa con un’espressione
di biasimo. Ove, a sua volta, scuote la testa e le rivolge un’occhiata altrettanto
critica.
«Certo, certo…» sibila Ove, mulinando la mano soprappensiero, come se
stesse cercando l’espressione giusta nel bel mezzo della coreografia di un ballo
latinoamericano.
«Allora… sei o non sei un finocchio?» riprende.
Parvaneh guarda Occhi bistrati come se volesse comunicargli che Ove è
appena evaso da un reparto psichiatrico di massima sicurezza, dunque non è il
caso di offendersi. Occhi bistrati, del resto, non sembra minimamente offeso.
«Sì. Sì, sono uno di quelli.»
«Ah, ecco» annuisce Ove. Si volta e si versa il caffè dalla caraffa bollente.
Poi prende la sua tazza e, senza aggiungere una parola, esce nel parcheggio.
Occhi bistrati evita di fare commenti in merito al fatto che si porta via la tazza:
dopotutto, deve sembrargli un dettaglio piuttosto trascurabile, considerato che
quell’uomo si è già proclamato barista nel suo bar e lo ha interrogato sulle sue
preferenze sessuali nei cinque minuti scarsi in cui hanno fatto conoscenza.
Fuori, accanto alla Saab, Adrian ha l’aspetto di chi si sia smarrito in un bosco.
«Tutto bene?» chiede Ove, tanto per dire qualcosa. Beve un sorso di caffè e
osserva la bicicletta, che il ragazzo non ha ancora sganciato dalla macchina.
«Mm… Ecco… Cioè…» balbetta Adrian, grattandosi il petto.
Ove lo osserva per una trentina di secondi. Beve un altro sorso di caffè e
annuisce, con la stessa espressione scocciata di chi si renda conto che l’avocado
che ha acquistato per preparare il guacamole è troppo acerbo. Mette la tazza in
mano al ragazzo, si avvicina alla Saab e tira giù la bicicletta. La capovolge
sull’asfalto e apre la cassetta degli attrezzi che Adrian ha appoggiato lì vicino.
«Il tuo vecchio non ti ha insegnato a riparare le biciclette?» dice senza
guardarlo, mentre si china a esaminare il copertone bucato.
«Il mio vecchio è dietro le sbarre» risponde Adrian grattandosi una spalla, a
suo agio come chi cerchi disperatamente un buco nero in cui gettarsi e sparire
per sempre.
Ove alza gli occhi e lo scruta. Il ragazzo fissa l’asfalto. Ove si schiarisce la
voce.
«Be’… non è poi così difficile, cazzarola» borbotta infine, invitandolo con un
gesto ad accovacciarsi accanto a lui.
Ci mettono dieci minuti a rappezzare il buco. Ove impartisce istruzioni in
tono monocorde; Adrian resta muto tutto il tempo, ma si dimostra attento, rapido
nei movimenti e, nota Ove, abbastanza capace. “Forse non è poi così maldestro
con le mani come lo è con le parole” riflette Ove. Quando hanno terminato, si
puliscono le mani su uno straccio preso dal bagagliaio della Saab senza guardarsi
negli occhi.
«Spero che la ragazza se lo meriti» dice Ove, mentre richiude il baule.
Adrian non sa bene cosa rispondergli.

Quando tornano nel bar, un uomo basso con la corporatura massiccia e la


camicia tutta macchiata è issato su una scala e sta avvitando qualcosa in quello
che Ove immagina sia un termoventilatore. Occhi bistrati è ai piedi della scala
con una serie di cacciaviti in mano. Lancia occhiate furtive all’uomo e, tra un
passaggio di cacciavite e l’altro, tenta di rimuoversi i resti di ombretto dagli
occhi. Sembra preoccupato di essere colto in flagrante. Parvaneh si volta tutta
contenta verso Ove.
«Lui è Amel! È il proprietario del bar!» lo informa indicando l’uomo
tarchiato sulla scala, ed è come se le parole le scrosciassero dalla bocca.
Amel non si scompone, ma emette una sfilza di consonanti dure, che Ove non
è in grado di decifrare ma che sospetta sia una combinazione di parolacce
relative a varie parti del corpo.
«Cosa sta dicendo?» domanda Adrian.
Occhi bistrati si muove a disagio.
«Ehm… dice… una roba sul termoventilatore, che può andare a fare in…»
Lancia un’occhiata fulminea a Adrian, ma si affretta a riabbassare lo sguardo.
«Cioè… dice che, come termoventilatore, vale tanto quanto un culattone»
ripete a voce così bassa che Ove è l’unico a sentirlo, per il semplice fatto che si
trova alle sue spalle.
Parvaneh, in compenso, è impegnata a indicare Amel.
«Non si capisce cosa dice, ma è chiaro che sta imprecando come un matto! È
una specie di versione doppiata di te, Ove!»
Ove non sembra molto felice di quell’osservazione. E nemmeno Amel, che
smette di avvitare e punta il cacciavite in direzione di Ove.
«È tuo, il gatto?»
«No» risponde Ove, non tanto perché vuole sottolineare che il gatto non è
suo, quanto perché vuole mettere in risalto il fatto che non è di nessuno.
«Gatto fuori! No animali nel bar!» sbotta Amel in modo tale che le
consonanti saltellano nella struttura della frase come bambini disubbidienti.
Ove guarda con interesse il termoventilatore sopra la testa di Amel. Poi il
gatto sullo sgabello. Poi la cassetta degli attrezzi che Adrian tiene ancora in
mano. Poi di nuovo il termoventilatore. Infine, fissa deciso Amel.
«Se te lo metto a posto, il gatto resta qui.»
Lo dice come se fosse una constatazione, più che una proposta. Per qualche
istante Amel sembra perdere la calma ma poco dopo, quando torna in sé, è
passato senza sapere bene come dall’essere l’uomo sulla scala a essere quello
che regge la scala. Ove armeggia nel termoventilatore per alcuni minuti, scende
dalla scala, si pulisce il palmo della mano sui pantaloni, e porge il cacciavite e
una piccola chiave inglese a Occhi bistrati.
«L’hai riparato!» esulta estasiato l’ometto tarchiato con la camicia piena di
macchie, quando il termoventilatore si mette in moto con un brontolio esausto.
Poi si volta e, senza alcun imbarazzo, afferra Ove per le spalle con le mani
raggrinzite.
«Whisky? Vuoi? In cucina ho whisky!»
Ove guarda l’orologio. Sono le due e un quarto del pomeriggio. Scuote il
capo, lievemente a disagio: un po’ per l’offerta del superalcolico a quell’ora, un
po’ perché Amel lo sta abbracciando. Il moccioso con l’ombretto si defila in
cucina, strofinandosi febbrilmente gli occhi.

Mezz’ora dopo, quando il gatto e Ove si avviano verso la Saab, Adrian corre
verso di loro e prende piano Ove per la manica della giacca.
«Amico, non andrai mica a spifferare che Mirsad è…?»
«Chi?!» lo interrompe Ove senza capire.
«Il mio capo» dice Adrian e, vedendo che Ove rimane confuso, aggiunge:
«Quello truccato».
«Il finocchio?» esclama Ove.
Adrian annuisce.
«No, perché suo padre… cioè Amel… non sa che Mirsad è…»
Adrian cerca la parola giusta.
«Un finocchio?» termina Ove.
Adrian fa segno di sì. Ove scrolla le spalle. Parvaneh li raggiunge a passi
ondeggianti, con il fiatone.
«Dove sei stata?» le chiede Ove.
«Sono andata a dargli le monete che avevo» risponde Parvaneh, accennando
all’uomo con la barba sporca seduto sul marciapiede.
«Lo sai che si comprerà soltanto da bere, con quei soldi?» la rimprovera Ove.
Parvaneh sbarra gli occhi e gli rivolge quella che Ove sospetta sia una smorfia
sarcastica.
«No?! Davvero? E io che ero COSÌ convinta che li avrebbe usati per saldare
il suo prestito universitario per il corso di laurea in fisica delle particelle!»
Ove sbuffa e apre la portiera della Saab. Adrian si ferma dall’altro lato della
macchina e non accenna a spostarsi.
«Be’?» chiede Ove.
«Non dire niente di Mirsad, eh? Sul serio…»
Ove gli punta contro l’indice con un gesto imperioso.
«Senti! Tu che vuoi comprarti una macchina francese… non dovresti
preoccuparti così tanto di quel che la gente pensa degli altri: hai già abbastanza
problemi di tuo.»
30
Un uomo che si chiama Ove
e una società senza di lui

Ove rimuove la neve dalla lapide. Scava con vigore nella terra gelata per
piantare i fiori. Si alza e, mentre si spazzola i vestiti, guarda pieno di vergogna il
nome di Sonja inciso sulla pietra. La rimproverava in continuazione di essere in
ritardo, ma adesso è lui che non riesce ad arrivare puntuale come le aveva
promesso.
«C’è stata una gran baraonda ultimamente, tutto qui» mormora alla lapide.

Non sa esattamente quando sia accaduto: quando sia diventato così silenzioso. I
giorni e le settimane dopo il funerale si confondono a tal punto, nella sua
memoria, che non saprebbe dire con certezza cos’abbia combinato in quel
periodo. Dalla morte di Sonja, e fino al giorno in cui Parvaneh e l’imbranato gli
hanno sfasciato la cassetta delle lettere con il rimorchio, gli pare di avere a
malapena rivolto la parola a qualcuno.
Certe sere si dimentica perfino di mangiare. Non ricorda che gli sia mai
successo prima: non da quando l’aveva incontrata su quel treno, per lo meno.
Finché c’era Sonja, avevano la loro routine. Ove si alzava alle sei meno un
quarto, preparava il caffè e faceva il suo giro d’ispezione. Alle sei e mezzo, dopo
che Sonja si era fatta la doccia, facevano colazione insieme. Sonja mangiava le
uova, e Ove dei tramezzini. Alle sette e cinque, Ove la metteva sul sedile del
passeggero della Saab, riponeva la sedia a rotelle nel bagagliaio e
l’accompagnava a scuola. Poi andava al lavoro. Alle dieci meno un quarto
facevano entrambi una pausa. Sonja prendeva il caffè con il latte, Ove lo beveva
nero. Alle dodici pranzavano. Alle tre meno un quarto, altra pausa. Alle cinque e
un quarto, Ove andava a prendere Sonja davanti alla scuola, la metteva sul sedile
del passeggero e riponeva la sedia a rotelle nel bagagliaio. Alle sei in punto si
sedevano al tavolo della cucina e cenavano. Spesso mangiavano salsiccia e
patate, il piatto preferito di Ove. Dopo cena, lei si dedicava ai suoi cruciverba
sulla poltrona, con le gambe immobili allungate davanti a sé, mentre Ove
bighellonava un po’ nella rimessa o guardava il telegiornale. Alle nove e mezzo,
Ove la portava in camera da letto al primo piano. Dopo l’incidente, Sonja aveva
ripetuto per anni che sarebbero dovuti andare a dormire nella stanza per gli ospiti
al pianoterra, ma Ove si era sempre rifiutato. Una decina d’anni dopo, lei aveva
capito che quello era il suo modo di dimostrarle che non intendeva arrendersi.
Che Dio e l’universo e tutto il resto non l’avrebbero avuta vinta. Che quegli
idioti con le camicie bianche potevano andare all’inferno. Così, lei aveva smesso
di ripeterglielo.
Il venerdì sera restavano svegli fino alle dieci e mezzo a guardare la tv, e la
mattina del sabato facevano colazione tardi, a volte anche alle otto. Poi
sbrigavano le commissioni: negozio del fai da te, negozio di arredamento e
vivaio, dove Sonja comprava il terriccio per i fiori e Ove dava un’occhiata agli
attrezzi. Avevano solo una villetta con un piccolo giardino sul retro e una
semplice aiuola di fronte, ma sembrava che ci fosse sempre qualcosa da piantare
e da costruire. Sulla via del ritorno si fermavano a mangiare un gelato: Sonja al
cioccolato, Ove alla nocciola. Una volta all’anno alzavano il prezzo dei gelati di
una corona e in quelle occasioni, come diceva Sonja, Ove “ne faceva una
tragedia”. Quando tornavano a casa, lei scivolava fuori dalla portafinestra della
cucina sulla veranda, e Ove l’aiutava ad accovacciarsi accanto all’aiuola. Per
Sonja, il bello del coltivare le aiuole era che non serviva stare in piedi. Nel
frattempo, Ove girava per casa con un cacciavite in mano. Il bello di quella casa,
per Ove, era che non era mai finita: da qualche parte c’era sempre una vite da
stringere o una mensola da fissare.
La domenica andavano in un bar a bere il caffè. Ove leggeva il giornale,
mentre Sonja parlava. E poi era di nuovo lunedì.
E, un lunedì, lei non c’era più.

Ove non sa esattamente quando sia diventato così silenzioso. Forse ha iniziato a
parlare di più nella sua testa. O forse sta diventando matto: a volte gli sembra
proprio che sia così. È come se non volesse permettere alle altre persone di
comunicare con lui, perché teme che il rumore delle loro chiacchiere offuschi il
ricordo della voce di Sonja.
Fa scorrere le dita sulla lapide, come se le passasse attraverso le lunghe
frange di un tappeto molto spesso. Non ha mai capito tutti quei giovinastri che,
al giorno d’oggi, blaterano a proposito di “trovare se stessi”. Lo ha sentito dire
spesso dai damerini trentunenni, al lavoro. Sembra che l’unica cosa che vogliono
sia avere “più tempo libero”, come se lo scopo del lavoro fosse quello di
raggiungere al più presto il momento di smettere di lavorare. Sonja, di solito, lo
prendeva in giro e sosteneva che fosse “l’uomo più inflessibile del mondo”. Ove
si rifiutava di considerarla una critica: pensava solo che fosse necessario un po’
d’ordine, ecco. Che dovesse esserci una routine, e la possibilità di fidarsi delle
cose. Non riusciva a capire come lo si potesse considerare un difetto.
Per spiegare che tipo fosse suo marito, Sonja raccontava sempre di quando
Ove, a metà degli anni Ottanta, in preda a un momentaneo stato confusionale, si
era lasciato convincere a comprare una Saab rossa, malgrado da quando lei lo
conosceva ne avesse sempre avuta una blu. «I tre anni peggiori della vita di
Ove» ridacchiava Sonja. Da allora, Ove non aveva mai guidato altro che Saab
blu. “Le altre donne si arrabbiano perché i loro mariti non notano quando sono
andate dal parrucchiere; quando mi taglio i capelli io, mio marito mi tiene il
muso per diversi giorni perché non sono come sempre” diceva Sonja.
Questo, più di tutto, manca a Ove: le cose come sempre.
Secondo Ove, nella vita bisogna avere una funzione. E Ove è sempre stato un
uomo funzionale, nessuno può dire il contrario. Ha fatto tutto ciò che la società
gli ha detto di fare: ha lavorato, non si è mai ammalato, si è sposato, ha saldato i
debiti, pagato le tasse, fatto il proprio dovere, guidato un’auto rispettabile. E
come lo ringrazia la società? Venendo nel suo ufficio e dicendogli che se ne può
andare a casa, ecco come.
Così, un lunedì, Ove ha smesso di avere una funzione.

Tredici anni prima, quando Ove aveva comprato una Saab 9-5 station wagon blu,
gli yankee della General Motors avevano pensato bene di acquisire le ultime
quote svedesi della società per azioni. Quella mattina, dopo aver letto la notizia,
Ove aveva chiuso il giornale con una sfilza di imprecazioni che era andata avanti
fino al pomeriggio inoltrato. Da quel giorno, non aveva comprato altre Saab: non
aveva alcuna intenzione di mettere piede in una macchina americana, a meno
che il piede e il resto del suo corpo non fossero stati messi prima in una bara.
Che se lo ficcassero bene in testa, cazzarola. Sonja, naturalmente, aveva letto
l’articolo con un po’ più di attenzione, e non era del tutto d’accordo su come Ove
aveva interpretato la notizia, ma le sue obiezioni non erano servite a nulla. Ove
aveva preso una decisione e intendeva rispettarla. Avrebbe guidato la macchina
che avevano fino a quando o quella o lui stesso non fossero caduti a pezzi. Del
resto, di macchine come si deve oggigiorno non se ne producevano più, aveva
dichiarato. Oggi le auto erano solo un ammasso di elettronica e altre stronzate:
era come guidare un computer. Non si poteva più nemmeno smontarle da soli
senza che i produttori iniziassero a lagnarsi che la garanzia non era più valida.
Quindi, tanto meglio. Sonja aveva commentato che quell’automobile si sarebbe
spenta dal dolore il giorno che Ove fosse stato seppellito. “Può darsi che andrà
così” pensa Ove.
“C’è un tempo per tutto” diceva sempre Sonja. Per esempio lo aveva detto
quando, quattro anni prima, i medici le avevano comunicato la diagnosi. Lei
aveva minori difficoltà a perdonare rispetto a Ove. Perdonare Dio e l’universo e
tutto il resto. Ove, invece, si era arrabbiato. Forse perché sentiva che qualcuno
avesse il dovere di farlo, per il suo bene. Perché era troppo: sembrava che ogni
male andasse a colpire l’unica persona al mondo che, almeno agli occhi di Ove,
proprio non se lo meritava.
Dunque, aveva lottato contro il mondo intero. Aveva litigato con il personale
ospedaliero, con gli specialisti, con il primario. Se l’era presa con le camicie
bianche di innumerevoli istituzioni, di cui non ricordava neanche più i nomi.
C’era un’assicurazione per una cosa, e un’assicurazione per un’altra. C’era una
persona di riferimento perché Sonja si era ammalata, un’altra perché era finita su
una sedia a rotelle, una terza perché smettesse di lavorare e una quarta per
convincere tutte quelle dannate istituzioni che l’unico suo desiderio era proprio
lavorare.
Tuttavia, così come non si poteva lottare contro le camicie bianche, non si
poteva nemmeno lottare contro le diagnosi.
Sonja aveva il cancro.
“Dobbiamo prendere quel che viene” diceva lei. E così era stato. Sonja aveva
continuato a insegnare alle sue adorate canaglie finché ne aveva avuto la forza e,
a un certo punto, Ove aveva dovuto spingerla ogni mattina fin dentro l’aula
perché lei non era più in grado di andarci da sé. Dopo un anno, il suo orario di
lavoro era calato al settantacinque per cento. Dopo due anni, al cinquanta. Dopo
tre, al venticinque. Quando, alla fine, aveva dovuto lasciare il suo posto di
lavoro, aveva scritto una lunga lettera a ciascuno dei suoi allievi, esortandoli a
chiamarla se mai avessero avuto bisogno di qualcuno con cui parlare.
L’avevano chiamata quasi tutti e, poi, si erano presentati a casa in lunghe
carovane. Un fine settimana, erano venuti a trovarla così in tanti che Ove aveva
dovuto uscire e chiudersi nella rimessa per sei ore. Quando l’ultimo, a tarda sera,
era andato via, Ove aveva fatto un giro per la casa, ispezionandola
accuratamente per sincerarsi che nessuno avesse rubato niente. Alla fine, Sonja
gli aveva urlato di non dimenticare di contare le uova in frigorifero, e lui aveva
lasciato perdere. Lei aveva continuato a prenderlo in giro mentre la portava su
per le scale e la metteva a letto e, poco prima che si addormentassero, si era
girata verso di lui e gli aveva nascosto l’indice nel palmo della mano,
affondando il naso sotto la sua clavicola.
«Dio mi ha portato via un figlio, mio amato Ove. Ma me ne ha ridati mille.»
Quattro anni dopo la diagnosi, era morta.
E ora Ove è lì a passare la mano sulla sua lapide. Come se, con le sue carezze,
potesse riportarla in vita.
«Prenderò il fucile di tuo padre in soffitta. So che non ti piace. E nemmeno a
me» dice piano.
Poi inspira profondamente, come se cercasse di farsi forza per impedirle di
dissuaderlo.
«Ci vediamo!» esclama deciso, pestando i piedi per scrollarsi la neve dalle
scarpe.
S’incammina lungo il sentiero verso il parcheggio, con il gatto al suo fianco.
Esce dal cancello nero, gira intorno alla Saab, che ha ancora il cartello verde per
le esercitazioni attaccato al lunotto, e apre la portiera del passeggero. Parvaneh
lo guarda dal lato di guida con i suoi grandi occhi scuri pieni di compassione.
«Ho pensato una cosa» mormora, prima di ingranare la marcia e partire.
«Non dirmela.»
Ma Parvaneh non riesce a trattenersi.
«Pensavo solo che, se vuoi, posso aiutarti a fare un po’ d’ordine in casa. Per
metter via le cose di Sonja e…»
Non fa in tempo a pronunciare il nome di Sonja che il viso di Ove si rabbuia e
s’irrigidisce, come se la collera lo avesse solidificato in una maschera.
«Non una parola di più!» urla, tanto da far vibrare la macchina.
«Ma pensavo sol…»
«Non UNA parola di più! Ci siamo capiti?!»
Parvaneh annuisce e rimane in silenzio. Ove fissa fuori dal finestrino,
tremante di rabbia per il resto del viaggio fino a casa.
31
Un uomo che si chiama Ove
fa retromarcia con un rimorchio. Di nuovo

Dunque, quello doveva essere il giorno della morte di Ove. Accidenti, se doveva
esserlo, finalmente.
Ove ha lasciato uscire il gatto, ha rimesso la busta con la lettera e i documenti
sullo zerbino davanti alla porta d’ingresso, ed è andato a prendere il fucile in
soffitta. Non che l’idea gli piacesse, anzi, ma ha deciso che l’orrore per l’arma
che era appartenuta a suo suocero non superava quello che provava per il vuoto
che Sonja aveva lasciato dietro di sé.
Quindi, era giunta l’ora. Ove sarebbe morto. Da qualche parte, però, qualcuno
doveva essersi reso conto che l’unico modo per impedirgli di farla finita era
escogitare qualcosa che lo facesse arrabbiare abbastanza da dissuaderlo.
È per questo che, adesso, Ove si trova sul vialetto pedonale con le braccia
conserte e gli occhi ostinatamente fissi sull’uomo con la camicia bianca di fronte
a lui.
«Non c’era niente d’interessante alla tv» dice.
Per l’intera durata del loro scambio di vedute, la camicia bianca lo ha
osservato senza tradire emozioni. In effetti, in ogni occasione in cui Ove lo ha
incontrato, è stato più simile a un automa che a una persona in carne e ossa.
Proprio come tutte le altre camicie bianche che Ove ha affrontato nella sua vita.
Quelli che, dopo l’incidente, dicevano che Sonja sarebbe morta. Quelli che si
rifiutavano di assumersi le loro responsabilità, o di individuare chi fosse
responsabile. Quelli che non volevano costruire una rampa per disabili a scuola.
Quelli che non volevano permettere a Sonja di lavorare. Quelli che, negli uffici
delle assicurazioni, spulciavano ogni dannato documento per scovare i cavilli
stampati in caratteri microscopici che consentissero alla compagnia di non
pagare i risarcimenti. Quelli che volevano rinchiudere Sonja in una casa di cura.
Avevano tutti lo stesso sguardo inespressivo, come se non fossero esseri
umani ma gusci vuoti, programmati per distruggere la vita delle persone per
bene.
Tuttavia, proprio mentre dichiara che alla tv non c’era niente di interessante,
per la prima volta Ove nota un debole fremito sulla tempia dell’uomo con la
camicia bianca. Un guizzo di frustrazione, forse. O di collera, probabilmente. O
di puro disprezzo, verosimilmente. Sta di fatto che, per la prima volta, Ove
capisce di essere riuscito a insinuarsi sotto la pelle dell’uomo con la camicia
bianca. Sotto la pelle di una camicia bianca, in generale, se è per questo.
L’uomo stringe i denti, si volta e si allontana: non più con il passo lento e
neutrale di una persona che ha il pieno controllo di sé ed è chiaramente
orgogliosa di appartenere all’istituzione per cui lavora, bensì con qualcos’altro.
Con rabbia. Impazienza. Sete di vendetta.
È da molto, molto tempo che Ove non prova una soddisfazione simile.

Insomma, quel giorno Ove sarebbe dovuto morire. Ha pensato di spararsi un


colpo in testa in tutta tranquillità, subito dopo colazione. Ha rassettato la cucina,
ha fatto uscire il gatto, è andato a prendere il fucile in soffitta e si è messo
comodo in poltrona. Si è organizzato così perché il gatto ha l’abitudine di uscire
a quell’ora per fare i suoi bisogni. È una delle cose che Ove apprezza di più dello
spelacchiato: in casa, non sporca. Ove è fatto della stessa pasta.
Poi, invece, Parvaneh si è messa a picchiare sulla porta, come se la casa di
Ove fosse una toilette chiusa a chiave e lei avesse un bisogno impellente di fare
pipì. Ove ha nascosto il fucile come meglio poteva dietro un calorifero e, quando
ha aperto, lei gli ha quasi lanciato addosso il telefono.
«Be’?» ha chiesto Ove, tenendo il cellulare tra pollice e indice come se
emanasse un cattivo odore.
«È per te» ha gridato Parvaneh, reggendosi il pancione con una mano e
asciugandosi il sudore dalla fronte con l’altra, malgrado fuori ci fosse una
temperatura polare. «Lena. La giornalista.»
«Che cosa dovrei farci, con il suo telefono?» ha domandato Ove.
«Santo Dio. Non è il suo telefono. È il MIO. Mi ha chiamato per parlare con
te!» ha risposto Parvaneh impaziente.
Poi è passata davanti a Ove e si è fiondata nel suo bagno prima che lui avesse
il tempo di protestare.
«Allora!» ha esclamato Ove portandosi il cellulare ad alcuni centimetri
dall’orecchio, e non era del tutto chiaro se si rivolgesse a Parvaneh o alla
persona all’altro capo.
«Salve!» ha strillato Lena, con un tono che avrebbe indotto chiunque, e a
maggior ragione Ove, ad allontanare il telefono di qualche altro centimetro
dall’orecchio.
«È pronto per l’intervista?» ha domandato giuliva.
«No» ha detto Ove, osservando attentamente il cellulare per capire come
riattaccare.
«Ha letto la lettera che le ho mandato?» ha urlato la giornalista ancora più
forte. «E il giornale? Ha letto il giornale? Pensavo che avrebbe potuto dargli
un’occhiata, per farsi un’idea del lavoro che facciamo!» ha proseguito, sentendo
che Ove non rispondeva.
Ove è andato in cucina, e ha sollevato dal tavolo il quotidiano e la lettera che
gli aveva recapitato quell’Adrian in qualità di postino.
«Eh? Li ha letti?» lo ha incalzato la giornalista.
«Datti una calmata: li sto leggendo adesso!» ha ruggito Ove al telefono.
«Mi chiedevo soltanto se le…» ha continuato lei, testarda.
«Ho detto: DATTI UNA CALMATA!» ha sbraitato Ove.
Lena non ha fiatato.
Dal lato di Ove, si è propagato un rumore di pagine di giornale voltate avanti
e indietro. Dal lato della giornalista, si è sentito il ticchettio di una penna a sfera
che tamburellava impaziente contro il piano di una scrivania.
«Adesso non vi documentate nemmeno più?» ha tuonato Ove dopo qualche
minuto, lanciando un’occhiataccia al cellulare, come se il fatto di non
documentarsi dipendesse dal telefono.
«Prego?»
«Qui c’è scritto: “Con i suoi 442 metri, il ristorante Atmosphere nel
grattacielo Burj Khalifa a Dubai è il locale più alto del mondo”» ha scandito Ove
a voce alta.
«Effettivamente, non ho scritto io quell’articolo, quindi non so…»
«Ma, cazzarola, potrai anche assumerti qualche responsabilità!»
«Non capisco…»
«L’informazione che date non è corretta!»
«Senta, Ove. Tra tutti gli articoli che contiene il giornale, si sofferma proprio
sul pezzo in fondo, che è assolutam…»
«E i ristoranti sulle Alpi, allora?!»
Prima di replicare, la giornalista ha fatto un sospiro profondo.
«Okay, Ove. Sicuramente non è corretto, ma come le ho detto non l’ho scritto
io, quell’articolo. Comunque, immagino che l’autore intendesse che è il più alto
partendo da terra, non dal livello del mare.»
«C’è un’enorme differenza!»
«Sì. Sì, senza dubbio.»
Lena ha fatto un altro sospiro, ancora più profondo. Poi, ha raccolto le forze e
si è apprestata a venire al punto della sua telefonata, cioè convincere Ove a
rivedere la sua posizione in merito al non essere intervistato. Ma non ne ha avuto
la possibilità perché Ove, che nel frattempo si era spostato in soggiorno, ha visto
passare una Škoda bianca davanti alla finestra di casa sua. Sostanzialmente, è per
questo che Ove non è morto nemmeno quel giorno.
«Pronto?» ha gridato la giornalista mentre Ove era già fuori dalla porta.
«Ohi, ohi» ha bisbigliato Parvaneh inquieta quando, uscita dal bagno, lo ha
visto correre sul vialetto tra le abitazioni.
L’uomo con la camicia bianca ha fermato la Škoda davanti alla casa di Rune e
Anita, ed è sceso dall’auto.
«Adesso basta! Mi hai sentito!? Tu NON transiti nell’area abitata! Non un
cavolo di METRO in più! Hai capito, sì o no?» gli ha urlato Ove molto prima di
raggiungerlo.
Sfoggiando la massima indifferenza, camicia bianca si è sistemato il
pacchetto di sigarette nel taschino della giacca e ha incrociato con calma lo
sguardo di Ove.
«Ho il permesso.»
«Col cavolo che ce l’hai!»
La camicia bianca ha alzato le spalle, come per scrollarsi di dosso un insetto
fastidioso.
«E che cosa vorresti fare, esattamente, Ove?»
Quella domanda provocatoria lo ha colto impreparato. Ove è rimasto
immobile, con le mani tremanti dalla collera e almeno una dozzina di insulti
pronti a uscirgli di bocca. Con sua grande sorpresa, però, non è riuscito a
formularne neanche uno.
«So chi sei, Ove. So tutto delle lettere che hai scritto dopo l’incidente. Nei
nostri uffici sei una specie di leggenda, sai?» ha proseguito la camicia bianca,
imperturbabile.
La bocca di Ove si è schiusa, ma senza che ne uscisse alcun suono. La
camicia bianca gli ha rivolto un cenno.
«So chi sei, e faccio solo il mio lavoro. Una decisione è una decisione. Tu,
più di chiunque altro, dovresti sapere che non puoi opporti.»
Ove è avanzato di un passo, ma l’uomo con la camicia bianca gli ha posato
una mano sul petto e lo ha spinto indietro. Non con violenza, o con aggressività,
bensì con un gesto lento e deciso, come se la mano non appartenesse a lui ma
fosse direttamente collegata a un robot nella centrale informatica di un ufficio
statale.
«Torna in casa a guardare la tv, piuttosto. Prima che il tuo cuore malandato ti
causi altri problemi.»
Dal lato del passeggero della Škoda è scesa la solita donna con gli occhiali e
una cartelletta piena di fascicoli tra le braccia. La camicia bianca ha chiuso
l’auto con un sonoro bip. Poi, ha voltato le spalle a Ove, come se non fosse mai
stato lì a parlargli.
Ove è rimasto fermo con i pugni chiusi e il mento in avanti come un alce
ferito, mentre quei due entravano in casa di Anita e Rune. Gli ci sono voluti
alcuni minuti per riuscire a spostarsi. Quando alla fine si è mosso, però, lo ha
fatto con una determinazione furente e ha puntato dritto verso la villetta di
Parvaneh, dov’era diretta la stessa Parvaneh.
«È a casa quel buono a nulla di tuo marito?» le ha urlato Ove, superandola sul
vialetto pedonale senza aspettare la risposta.
Parvaneh ha fatto appena in tempo ad annuire che, con quattro lunghe falcate,
Ove ha raggiunto la porta d’ingresso. Patrick gli ha aperto reggendosi sulle
stampelle: sembrava che metà del suo corpo fosse coperta di gesso.
«Ciao, Ove!» lo ha salutato allegro, tentando di sollevare una stampella, ma
poi ha perso l’equilibrio ed è andato a sbattere contro una parete.
«Quel rimorchio che avevi quando vi siete trasferiti qui: dove l’hai preso?» ha
voluto sapere Ove, senza tanti convenevoli.
Patrick si è appoggiato alla parete con il braccio sano, come se volesse dare
l’impressione di esserci andato a sbattere volontariamente.
«Come? Ah… quel rimorchio. Me l’ha prestato un mio collega!»
«Chiamalo. Ti serve ancora!» ha detto Ove e, senza essere stato invitato, è
entrato nell’ingresso e si è messo ad aspettare.
Dunque, è più o meno per questo che anche quel giorno Ove non è morto:
perché, di nuovo, è successo qualcosa che lo ha fatto arrabbiare abbastanza da
dissuaderlo.

Circa un’ora dopo, quando escono dalla casa di Anita e Rune, i due assistenti
sociali trovano la loro piccola auto bianca con lo stemma del Comune bloccata
sul vialetto da un rimorchio. Un rimorchio che, con tutta evidenza, qualcuno ha
parcheggiato storto di proposito, sbarrando la stradina e impedendo così alla
Škoda di ripartire.
Davanti a quello spettacolo, la donna con gli occhiali sembra genuinamente
confusa; l’uomo con la camicia bianca, invece, si dirige senza la minima
esitazione da Ove.
«Sei stato tu a parcheggiare ’sto affare così?»
Ove incrocia le braccia sul petto e lo guarda con distacco.
«No.»
La camicia bianca abbozza un sorriso indulgente. È il genere di sorriso che
sfoderano le camicie bianche quando qualcuno le contraddice.
«Spostalo immediatamente.»
«Non ci penso proprio» risponde Ove.
La camicia bianca sospira, come se la minaccia che sta per pronunciare fosse
indirizzata a un bambino.
«Sposta il rimorchio, Ove. Altrimenti chiamo la polizia.»
Ove scuote il capo con indifferenza e indica il cartello in fondo alla strada.
«Il transito è vietato nell’area abitata. È scritto chiaro e tondo sul cartello.»
«Non hai niente di meglio da fare che star qui a giocare al capoclasse?» geme
la camicia bianca.
«Non c’era niente d’interessante alla tv» dice Ove.
Ed è allora che la tempia dell’uomo con la camicia bianca inizia a fremere.
Come se, nella maschera di decoro che tiene sul volto, si fosse aperta una
piccolissima crepa. L’uomo osserva prima il rimorchio, poi la sua Škoda
bloccata, poi il cartello e, infine, Ove, che è immobile di fronte a lui con le
braccia conserte. Per qualche secondo, sembra soppesare la possibilità di
obbligare Ove con la forza, ma altrettanto rapidamente si rende conto che
sarebbe davvero una pessima idea.
«È un’idiozia, Ove. È un’autentica idiozia» sibila alla fine, con gli occhi di
ghiaccio che, per la prima volta, si riempiono di frustrazione, o verosimilmente
di collera e, senza dubbio, di puro disprezzo.
Ove non muove un muscolo. La camicia bianca si allontana verso i garage e
la strada principale con un’andatura che minaccia vendetta. La donna con gli
occhiali e la cartelletta lo segue di corsa.

Ci si potrebbe aspettare che Ove sfoggi uno sguardo di trionfo. In effetti, se lo


aspettava anche Ove, ma ora si sente solo abbattuto ed esausto: come se non
dormisse da mesi, e non riuscisse nemmeno più a tenere le braccia alzate. Lascia
scivolare le mani in tasca e rientra in casa, ma non fa in tempo a chiudere la
porta che qualcuno bussa di nuovo con insistenza.
«Vogliono portare via Rune ad Anita!» grida Parvaneh in preda allo shock,
spalancando la porta prima che Ove riesca a dare un giro di chiave e a chiudersi
dentro.
«Ah!» sbuffa fiacco Ove.
Il suo tono rassegnato stupisce sia Parvaneh sia Anita, che entra dopo di lei.
Forse stupisce persino lo stesso Ove, che inspira ed espira rapidamente dal naso
fissando Anita: è più grigia e prostrata che mai, e ha gli occhi arrossati dal
pianto.
«Dicono che verranno a prenderlo questa settimana. Che non sono in grado di
curarlo da sola» ansima lei con voce rotta.
«Devi impedirglielo!» esclama Parvaneh, afferrando Ove per un braccio.
Ove lo ritira, evitando di guardarla negli occhi.
«Bah, ci vorranno anni prima che vengano a prenderlo. Figurarsi, con tutta la
burocrazia che c’è di mezzo» risponde Ove.
Tenta di apparire più sicuro di sé di quanto in realtà sia, ma non ha la forza di
preoccuparsi del risultato. Vuole solo che se ne vadano.
«Non sai di cosa stai parlando!» inveisce Parvaneh.
«Sei tu che non sai di cosa stai parlando. Che ne sai, tu, di cosa significa
lottare contro le istituzioni? Eh?» ribatte lui inespressivo, con le spalle curve.
«Ma devi parl…» ricomincia lei tutta infervorata e, mentre l’ascolta, Ove ha
la sensazione di non avere più energia in corpo.
Forse è la vista del viso sfatto di Anita, o forse è solo la consapevolezza che
una battaglia vinta vale ben poco. Una Škoda bloccata non fa alcuna differenza:
torneranno indietro, proprio come hanno fatto con Sonja. Proprio come fanno
sempre. Con i loro commi, i loro paragrafi e i loro documenti. Le camicie
bianche vincono sempre, e gli uomini come Ove perdono sempre le donne come
Sonja. E niente e nessuno potrà restituirgliela.
Alla fine, non gli rimane altro che una lunga serie di giornate prive di senso e
un ripiano della cucina ben oliato. E Ove non ce la fa più. In quell’istante, lo
sente più chiaramente che mai. Non ha la forza di lottare oltre. Non vuole più
battersi. Adesso, vuole solo morire.
Parvaneh tenta ancora una volta di convincerlo, ma lui le chiude la porta in
faccia. Lei, allora, si mette a picchiare sull’uscio con i pugni, ma Ove non
l’ascolta e si lascia cadere sulla panca nell’ingresso con le mani tremanti. Il
cuore gli batte così forte che sembra sul punto di esplodere. Il senso di
oppressione alla gola, come se un’unica, immensa tenebra gli avesse piantato
uno stivale sulla laringe, non gli dà tregua per oltre venti minuti.
Poi, Ove inizia a piangere.
32
Un uomo che si chiama Ove
non apre un cavolo di ostello

Una volta Sonja aveva detto che, per comprendere gli uomini come Ove e Rune,
bisognava innanzitutto capire che erano imprigionati nell’epoca sbagliata. Alla
vita gli uomini come loro chiedevano poche cose semplici: un tetto sopra la
testa, una strada silenziosa, una marca di automobile e una donna a cui essere
fedeli, un lavoro dove si aveva una funzione, una casa dove le cose si rompevano
a intervalli regolari in modo che ci fosse sempre qualcosa da riparare.
“Vogliamo tutti vivere una vita dignitosa, ma la dignità è una cosa diversa per
ciascuno di noi” diceva Sonja. Per gli uomini come Ove e Rune, la dignità era la
consapevolezza di essersela dovuti cavare da soli fin da ragazzi: per questo, da
adulti credevano che fosse un loro diritto non dover mai dipendere dagli altri.
C’era un certo orgoglio nel sapere che si aveva il controllo, o che si aveva
ragione, nel sapere quale strada prendere, e come si dovesse o non si dovesse
stringere una vite. Gli uomini come Ove e Rune appartenevano a una
generazione nella quale si era ciò che si faceva, non ciò che si diceva, ripeteva
sempre Sonja.
Naturalmente, Sonja sapeva benissimo che non era colpa delle camicie
bianche se era finita su una sedia a rotelle. O se aveva perso il bambino. O se le
era venuto il cancro. Ma sapeva anche che Ove non era in grado di convivere
con una collera senza nome. Quella collera, lui doveva etichettarla, classificarla.
Così, quando le camicie bianche, che poi altro non erano che uomini e donne i
cui nomi nessuna persona assennata riusciva a tenere a mente, avevano tentato di
imporre a Sonja quello che lei non voleva, come smettere di lavorare o lasciare
casa sua, Ove aveva lottato contro di loro per il bene di sua moglie. Con
documenti, lettere, inserzioni sui giornali e ricorsi, e perfino costruendo con le
sue mani una rampa per disabili. Per far valere i diritti di Sonja, Ove si era
battuto contro le camicie bianche così a lungo e così ostinatamente che, alla fine,
aveva cominciato a ritenerle personalmente responsabili di tutto quello che era
accaduto a sua moglie e al loro bambino.
E poi, lei lo aveva lasciato da solo in un mondo di cui Ove non capiva più la
lingua.

Quando il gatto torna a casa, Ove è ancora seduto nell’ingresso. La bestiola


gratta sulla porta: Ove apre. I due si fissano. Ove si scansa e lo fa entrare. Poi
cenano e guardano la tv. Alle dieci e mezzo Ove spegne la lampada del
soggiorno e sale al piano di sopra. Il gatto lo segue all’erta, come se presentisse
che ha intenzione di fare qualcosa di cui non è stato informato: qualcosa che non
gli piacerà. Quando Ove si sveste, l’animale si accuccia sul pavimento della
camera da letto con l’espressione un po’ perplessa di chi osservi un gioco di
prestigio.
Ove si corica e resta immobile, in attesa che il gatto finalmente si addormenti
sul lato del letto di Sonja. Ci vuole più di un’ora. Ove non aspetta certo tutto
quel tempo per riguardo nei confronti dello spelacchiato. Semplicemente, non ha
la forza di litigare con lui. Non trova ragionevole dover spiegare i concetti di vita
e di morte a un animale che non sa nemmeno badare alla sua coda. Tutto qui.
Quindi, quando il gatto infine si rotola sulla schiena e inizia a russare con la
bocca aperta, spaparanzato sul cuscino di Sonja, Ove sguscia fuori dal letto
facendo meno rumore possibile, scende in soggiorno e prende il fucile da dietro
il calorifero. Estrae i quattro teli di plastica, che aveva prelevato dalla rimessa e
nascosto nel ripostiglio perché il gatto non li vedesse, e comincia a fissarli alla
parete dell’ingresso con del nastro adesivo. Dopo aver riflettuto a lungo, Ove ha
concluso che quello è il posto migliore dove attaccarli, perché la superficie del
muro è più piccola. Immagina che, quando ci si spara un colpo in testa, si
spargano un bel po’ di schizzi, e preferirebbe non lasciare più disordine del
necessario dietro di sé. Sonja detestava che mettesse la casa a soqquadro.
Ha indossato di nuovo le scarpe e il completo elegante, che puzza ancora di
gas di scarico, ma dovrà farselo andar bene. Soppesa il fucile con entrambe le
mani, come se cercasse di individuarne il baricentro: evidentemente, è convinto
che la cosa giocherà un ruolo fondamentale nella buona riuscita del suo progetto.
Lo gira e lo rigira, e cerca di flettere un po’ la canna come se volesse provare a
piegare l’arma al centro. Non che Ove ne sappia granché di armi, ma ci sarà ben
un modo di capire se si ha a che fare con degli arnesi affidabili e, dato che non si
possono tirare calci ai fucili, Ove presume che sia possibile testarne la qualità
piegandoli e tirandoli, per vedere che cosa succede.
Nel bel mezzo di questa operazione, si rende conto che, in effetti, vestirsi di
tutto punto è stata una pessima idea. Il completo s’inzupperà completamente di
sangue e altra roba, e glielo dovranno togliere. Gli sembra un’idiozia. Così, posa
il fucile, va in soggiorno, si spoglia, piega con cura gli abiti e li appoggia
ordinatamente sul pavimento accanto alle scarpe lustrate. Poi va a prendere la
lettera con le istruzioni indirizzata a Parvaneh, apre la busta e, accanto al
paragrafo intitolato Svolgimento funerale, aggiunge sottolineandolo:
“Seppellirmi con il completo”. Richiude la busta e la posa sopra i vestiti. Nella
lettera, c’è scritto chiaro e tondo che il funerale non dovrà essere una
messinscena. Ove non vuole nessuna cerimonia esagerata e porcherie simili:
desidera soltanto che lo calino nella terra accanto a Sonja. Il lotto è già pronto e
pagato, e nella busta Ove ha lasciato anche i contanti per il trasporto.
In mutande e calzini, Ove torna nell’ingresso e solleva di nuovo il fucile. Lo
specchio appeso al muro gli rimanda l’immagine del suo corpo. Non lo
osservava con attenzione da almeno trentacinque anni. È ancora piuttosto
muscoloso e robusto, di certo più in forma della maggior parte degli uomini della
sua età. Alla pelle, però, è accaduto qualcosa che gli dà un aspetto strano: come
se si stesse sciogliendo, nota. Roba da matti.
In casa e tutt’intorno c’è un grande silenzio. Sembra che l’intero quartiere sia
immerso nel sonno. Molto probabilmente, il gatto si sveglierà per la
detonazione: gli farà prendere un colpo, a quel poveraccio. Ove ci pensa e ci
ripensa; alla fine, posa il fucile e va in cucina ad accendere la radio. Non che, per
spararsi, abbia bisogno di un sottofondo musicale, e senz’altro gli dà fastidio che
la radio accesa continui a far girare il contatore dell’elettricità quando lui non ci
sarà più. Tuttavia, se il gatto si sveglierà per lo scoppio e sentirà la radio, forse
crederà che sia uno di quei pezzi rap che oggigiorno trasmettono in
continuazione. E poi si riaddormenterà. Ove, almeno, se lo augura.
Alla radio non trova nessuna musica che faccia al caso suo, solo le ultime
notizie del giornale locale. Ove si ferma ad ascoltarle. Non che sia tanto
importante conoscere le notizie locali quando si ha intenzione di spararsi un
colpo in testa, ma Ove pensa che non faccia mai male tenersi aggiornati. Parlano
del tempo. Dell’economia. Del traffico. Poi, esortano i proprietari di case e
villette a schiera a prestare attenzione quel fine settimana, perché in città
imperversano diverse bande di ladri. «Sporchi farabutti» borbotta Ove
stringendo il fucile in mano, quando sente la notizia.
Da un certo punto di vista, sarebbe stato assai opportuno che anche altri due
farabutti, Adrian e Mirsad per la precisione, avessero ascoltato il giornale radio
prima di aggirarsi, a un’ora così tarda e senza essere stati invitati, intorno alla
casa di Ove. Se l’avessero fatto, avrebbero potuto intuire che, udendo i loro passi
scricchiolanti sulla neve, Ove non avrebbe affatto pensato: “Oh! Una visita, che
bello!”, ma piuttosto “Eh, i ladri no, porca di quella vacca!”. In ogni caso, se
anche avessero ascoltato il notiziario, di sicuro non avrebbero potuto prevedere
che Ove si sarebbe presentato sulla soglia di casa sua in mutande e impugnando
un fucile da caccia vecchio di tre quarti di secolo, come un Rambo di mezza età
dei quartieri residenziali. Quando lo vede spalancare l’uscio conciato così,
Adrian lancia un urlo talmente stridulo da far tremare i vetri di tutto il quartiere,
si volta e inizia a correre in preda al panico, andando a sbattere contro la parete
della rimessa e quasi perdendo i sensi subito dopo.

Seguono alcune grida sconcertate e un certo tumulto prima che Mirsad e Adrian
riescano a dimostrare la loro identità di semplici farabutti, piuttosto che di ladri
farabutti, e prima che Ove comprenda la situazione.
«Ssh! Sveglierai il gatto, cazzarola!» sibila Ove scontrosamente mentre
Adrian scivola a terra e batte la testa, procurandosi un bernoccolo grande quanto
una lattina di birra.
Mirsad fissa l’arma e comincia a dubitare che l’idea di andare a trovare Ove,
nel cuore della notte e senza alcun preavviso, sia stata poi tanto felice. Adrian si
rialza, facendo leva sulla parete della rimessa, con le gambe tremanti e l’aria di
voler biascicare qualcosa come: “Nonsonobbreaacoo!”. Ove li osserva con
sguardo accusatorio.
«Che cosa credete di fare?» scandisce, minacciandoli con il fucile.
Mirsad lascia cadere piano nella neve il borsone che teneva in mano. Adrian
alza d’istinto le braccia come chi stia per essere rapinato, poi perde di nuovo
l’equilibrio e ripiomba con il sedere a terra.
«È stata un’idea di Adrian» balbetta Mirsad, abbassando gli occhi.
Ove vede che stavolta non si è truccato.
«Cioè, Mirsad ha fatto coming out oggi. Cioè… lo ha ammesso!» tenta di
spiegare Adrian, mentre barcolla davanti alla rimessa tenendosi una mano sulla
tempia.
«Eh?» esclama Ove, alzando di nuovo il fucile con sospetto.
«Ha fatto… coming out, amico. Ha detto di essere…» mugugna Adrian,
leggermente distratto dal fatto che un cinquantanovenne in mutande lo stia
minacciando con un’arma da fuoco, oltre che dalla crescente convinzione di
essersi procurato una commozione cerebrale.
Mirsad raddrizza la schiena e abbozza un cenno di assenso più deciso verso
Ove.
«Ho detto a mio padre che sono omosessuale.»
Lo sguardo di Ove si fa lievemente meno minaccioso, però lui non abbassa
l’arma.
«Mio padre odia gli omosessuali. Ha sempre detto che si sarebbe ammazzato,
se avesse saputo che ce n’era uno in famiglia» continua Mirsad.
Dopo un attimo di silenzio, prosegue.
«Quindi… ecco, non l’ha presa molto bene. Mettiamola così.»
«L’ha sbattuto fuori da casa!» s’intromette Adrian.
«Di casa» lo corregge Ove.
Mirsad solleva il borsone da terra e fa un altro cenno a Ove.
«Non è stata una buona idea. Non avremmo dovuto disturbarti.»
«Disturbarmi per che cosa?» lo incalza Ove.
Visto che lo hanno costretto a uscire in mutande a una temperatura sotto lo
zero, potrà pur sapere perché quei due sono lì, pensa. Mirsad fa un respiro
profondo. Poi, raccoglie le forze e sputa il rospo.
«Mio padre ha detto che sono malato e che non sono più il benvenuto sotto il
suo tetto con le mie… perversioni» dice e, prima di pronunciare “perversioni”,
deglutisce imbarazzato.
«Perché sei un finocchio?» domanda Ove.
Mirsad annuisce.
«Non ho parenti qui in città. Pensavo di dormire da Adrian, ma sua mamma
era a casa con il suo nuovo fidanzato…»
Scuote il capo in silenzio. Deve sentirsi molto stupido.
«È stata un’idea idiota» mormora a bassa voce, prima di voltarsi per
andarsene.
A questo punto, però, Adrian sembra aver ritrovato la voglia di perorare la
causa del suo compare e incespica ansioso nella neve verso Ove.
«Eddai, Ove! Cacchio, qui hai un bordello di posto! Cioè, pensavamo che
Mirsad poteva fermarsi qui, stanotte. È un’emergenza…»
«Qui!? Non ho mica aperto un cavolo di ostello della gioventù!» lo informa
Ove e solleva l’arma puntando la bocca del fucile contro il petto di Adrian.
Il ragazzo si blocca di colpo. Mirsad avanza rapidamente di due passi sulla
neve e appoggia la mano sulla canna.
«Scusaci. Non avevamo nessun altro posto dove andare» sussurra, guardando
negli occhi Ove, mentre sposta con cautela la bocca del fucile lontano
dall’amico.
Ove sembra tornare in sé e abbassa il fucile, indietreggiando di mezzo passo
verso l’ingresso, come se si fosse reso conto solo ora del gelo che avvolge il suo
corpo non sufficientemente vestito, per usare un eufemismo. Con la coda
dell’occhio, scorge la fotografia di Sonja appesa alla parete: il suo abito rosso, il
viaggio in pullman in Spagna quando era incinta. Tante volte l’aveva pregata di
togliere quella dannata foto da lì, ma lei si era sempre rifiutata. Sosteneva che
fosse “un ricordo che vale tanto quanto gli altri”.
Che donna testarda.

Così, quello che doveva essere il giorno della morte di Ove è diventato la sera
prima della mattina in cui Ove si sveglia con non uno ma due coinquilini: un
gatto e un finocchio. Come se la sua villetta fosse un cavolo di ostello. A Sonja
sarebbe piaciuto un sacco: lei gli ostelli li adorava.
33
Un uomo che si chiama Ove
e un giro d’ispezione diverso dal solito

A volte è difficile spiegare perché certi uomini, d’un tratto, fanno quello che
fanno. Capita che lo facciano perché sanno che, prima o poi, lo faranno
comunque, quindi tanto vale farlo subito. Oppure perché si rendono conto che,
forse, avrebbero dovuto farlo molto tempo prima. Ove ha sempre saputo cosa
doveva fare, ma riguardo al tempo, in fondo, siamo tutti degli ottimisti: crediamo
che ci sarà sempre un’altra occasione per fare, o per dire, le cose che ci stanno a
cuore. Poi, l’irreparabile accade e si cominciano a usare espressioni come: “Se
soltanto”.
Ove si ferma sbigottito a metà delle scale. È da quando Sonja è morta che in
casa non c’è quel profumo. Scende con circospezione gli ultimi gradini, fa
qualche passo sul parquet e si ferma sulla soglia della cucina con l’aria di chi
abbia appena scoperto un ladro.
«Hai tostato tu il pane?»
Mirsad annuisce inquieto.
«Sì… Cioè, ho pensato… Ho fatto bene, no?»
Ove vede che ha preparato anche il caffè. Il gatto sta mangiando il tonno sul
pavimento. Ove abbassa la testa, ma non risponde.
«Io e il gatto facciamo un giro nel quartiere» dichiara, invece.
«Posso venire anch’io?» domanda pronto Mirsad.
Ove lo guarda un po’ come se Mirsad lo avesse fermato su una strada
pedonale travestito da pirata e gli avesse chiesto di indovinare sotto quale delle
tre tazze si trova la moneta d’argento.
«Magari posso darti una mano?» aggiunge sollecito.
Ove si dirige verso l’ingresso e infila i piedi negli zoccoli.
«Questo è un Paese libero» borbotta, aprendo la porta e lasciando uscire il
gatto.
Mirsad lo interpreta come un “Molto volentieri!”, s’infila svelto giacca e
scarpe, e li segue.
Se Ove credeva che quella fosse l’unica compagnia non richiesta che avrebbe
dovuto sorbirsi, si sbagliava di grosso.
«Hi boys!» esclama Jimmy, non appena il trio raggiunge il vialetto tra le
abitazioni.
Sta ansimando e ha indosso una tuta da ginnastica verde fosforescente, così
aderente che Ove sulle prime si domanda se si tratti di vestiti o di body painting.
«Ciao» dice Mirsad, vagamente in imbarazzo.
«Piacere: Jimmy!» rantola il ciccione, allungandogli una mano.
Per un istante, sembra che il gatto voglia strusciarsi contro la gamba del
nuovo arrivato. Poi, però, cambia idea: dopotutto, l’ultima volta che sono stati a
contatto Jimmy è finito all’ospedale, dunque decide che è meglio rotolarsi nella
neve. Jimmy ridacchia allegro e si gira verso Ove.
«Amico, ti vedo sempre uscire a quest’ora e ho pensato di aggregarmi, se non
ti dà fastidio. Sai com’è, ho deciso di iniziare a fare un po’ di moto!»
Annuisce felice e, mentre alza e abbassa il capo, il grasso sotto il mento gli
ondeggia come un budino. Ove pare profondamente scettico.
«Ti alzi a quest’ora, di solito?»
Jimmy scoppia in una risata tonante.
«Eh… merda, no, amico! Non sono ancora andato a letto!»

Così, quella mattina, un gatto, un ciccione allergico, un finocchio e un uomo che


si chiama Ove fanno un giro d’ispezione nel quartiere. Mentre camminano in fila
indiana verso il parcheggio, Ove riflette che, probabilmente, ha messo in piedi il
comitato di vigilanza cittadina meno promettente della storia mondiale.
«E tu, cosa ci fai qui?» chiede Jimmy incuriosito, dando un pugno sulla spalla
a Mirsad quando arrivano ai garage.
Mirsad spiega rapidamente che lui e suo padre hanno bisticciato e che, per il
momento, vive da Ove.
«Hai avuto degli scazzi con il tuo vecchio?» vuol sapere Jimmy.
«Non sono cose che ti riguardano» s’intromette prontamente Ove dietro di
lui.
Jimmy pare un po’ meravigliato, ma poi alza le spalle e un istante dopo ha già
lasciato perdere. Mirsad lancia un’occhiata di gratitudine a Ove, che si limita a
sferrare un calcio al cartello di divieto di transito nell’area abitata.
«Sul serio, amico: fai ’sto giro tutte le mattine?» domanda Jimmy giulivo.
«Già» risponde Ove, un briciolo meno giulivo.
«Ma perché?»
«Controllo se ci sono stati furti con scasso, o atti di vandalismo.»
«Davvero? Qui rubano spesso?»
«No.»
Jimmy è perplesso. Ove va a controllare il suo garage e, come al solito,
abbassa la maniglia tre volte.
«Prima che avvenga un furto per la prima volta non c’è mai stato un furto»
borbotta, avviandosi verso il parcheggio per gli ospiti.
Il gatto guarda Jimmy come se fosse molto deluso dalle sue capacità
intellettive. Jimmy mette il broncio e si accarezza la pancia, come per verificare
che non si sia volatilizzata a causa di tutto quel movimento improvviso.
«Hai sentito di Rune?» esclama, raggiungendo Ove con una corsetta.
Ove non risponde.
«Verranno a prenderlo quelli dei servizi sociali» continua Jimmy,
camminandogli a fianco.
Ove estrae il suo taccuino e comincia ad annotare i numeri di targa delle auto.
Evidentemente, Jimmy interpreta il silenzio di Ove come un segnale di via libera
a proseguire. Così, prosegue.
«La storia è che Anita aveva fatto domanda per un aiuto a casa. Sai com’è,
Rune è completamente andato, e lei non ha tutte ’ste forze, tipo. Così i servizi
sociali hanno fatto qualche indagine, poi un tizio l’ha chiamata e le ha detto che,
nel loro interesse, avevano deciso di mettere Rune in un ospizio. Sai, uno di quei
ricoveri per anziani malati di mente. Anita gli ha risposto che potevano
scordarselo, e che non voleva più nemmeno l’aiuto a casa. Allora, il tizio ha
sbroccato e ha iniziato a fare lo stronzo: le ha detto che, ormai, l’inchiesta era
andata avanti, che era stata lei a richiederla, e che era troppo tardi per fare marcia
indietro. Insomma, Anita non ha più voce in capitolo e lo stronzo va dritto per la
sua strada. Ci sei?»
Jimmy tace e fa un cenno a Mirsad, in cerca di supporto.
«Che stronzo…» constata Mirsad esitante.
«Puoi dirlo forte!» annuisce Jimmy, e il grasso gli tremola sotto la casacca
della tuta.
Ove ripone taccuino e penna nella tasca interna della giacca e s’incammina
verso il locale dei rifiuti.
«Ci vorrà un’eternità prima che prendano una decisione definitiva. Adesso
dicono che vogliono portarlo via, ma non avranno l’autorizzazione prima di un
anno o due» sbuffa.
Cazzarola, Ove lo sa come funziona la burocrazia.
«No, no… la decisione definitiva è già stata presa, amico» dice Jimmy,
grattandosi la testa.
«C’è solo da far ricorso, diamine. Credimi, ci vorranno anni!» inveisce Ove, e
procede spedito.
Jimmy lo guarda come se cercasse di stabilire se valga la pena di fare lo
sforzo di seguirlo.
«Ma Anita l’ha fatto! Ha scritto una montagna di lettere per due anni!»
Quando sente quella frase, Ove rallenta. Jimmy avanza sulla neve dietro di
lui.
«Due anni?» chiede Ove, senza voltarsi.
«Come minimo» risponde Jimmy.
Ove calcola mentalmente mesi e settimane.
«Balle. Sonja l’avrebbe saputo» sentenzia subito.
«Anita non voleva che tu e Sonja… Cioè, non voleva…»
Jimmy abbassa lo sguardo e rimane in silenzio. Ove inarca le sopracciglia e,
finalmente, si volta.
«Cos’è che non voleva?»
Jimmy inspira profondamente.
«Disturbarvi… Pensava che aveste già abbastanza problemi» mormora.
Il silenzio che segue è così denso che lo si potrebbe tagliare con un’accetta.
Jimmy non alza gli occhi. Ove non fiata. Entra nel locale della raccolta
differenziata. Esce dal locale. Entra nel deposito delle biciclette. Esce dal
deposito. Qualcosa, nel suo sguardo, è cambiato. “Si è accesa una lampadina”
soleva dire Sonja. Le ultime parole di Jimmy aleggiano come un velo su ogni
suo movimento e, dentro il petto, gli monta una collera sempre più intensa, come
una tromba d’aria che avanzi inesorabile. Ove abbassa aggressivo le maniglie.
Tira calci alle porte. Rientra nel locale dei rifiuti e, quando Jimmy, alla fine,
bisbiglia «Cioè, adesso è fatta, amico, adesso spediranno Rune in un ospizio»,
sbatte la porta con tale violenza che l’intero locale sussulta. Ove resta girato di
spalle e fa sempre più fatica a
respirare.
«Tutto… okay?» domanda Mirsad dopo alcuni istanti.
Ove, allora, si volta e punta lentamente l’indice contro Jimmy.
«È così che ha detto? Che non voleva chiedere aiuto a Sonja perché avevamo
“già abbastanza problemi”?»
Jimmy annuisce, spaventato. Ove fissa la neve a terra, ansimando. Pensa a
come l’avrebbe presa Sonja, se avesse saputo che la sua migliore amica non le
chiedeva aiuto perché loro avevano “già abbastanza problemi”. Le si sarebbe
spezzato il cuore.
A volte è difficile spiegare perché certi uomini, d’un tratto, fanno quello che
fanno. Ove ha sempre saputo cosa doveva fare, e chi doveva aiutare prima di
morire, ma riguardo al tempo, in fondo, siamo tutti degli ottimisti: crediamo che
ci sarà sempre un’altra occasione per fare, o per dire, le cose che ci stanno a
cuore.
O per fare ricorso.
Ove si rivolge di nuovo a Jimmy, un po’ meno determinato di prima.
«Due anni?»
Jimmy fa un altro cenno di assenso. Ove si schiarisce la gola. Per la prima
volta, non appare più tanto sicuro di sé.
«Credevo che avesse appena iniziato. Credevo di… avere più tempo»
sussurra.
Jimmy sembra chiedersi se Ove stia parlando con lui, o con se stesso. Ove
alza gli occhi.
«E adesso dicono che verranno a prendere Rune? Sul serio? Ne sei
assolutamente SICURO?»
Jimmy annuisce ancora. Vorrebbe aggiungere qualcos’altro, ma Ove è già
lontano. Cammina sul vialetto pedonale con il passo di un uomo che stia
andando a vendicarsi di un torto mortale in un film western in bianco e nero. Si
ferma soltanto quando arriva davanti alla villetta in fondo alla strada, dove sono
ancora parcheggiati il rimorchio e la Škoda bianca, e picchia alla porta con tale
veemenza che è irrilevante se verrà aperta o meno, prima che lui la faccia a
pezzi. Anita si affaccia sgomenta sulla soglia. Ove entra nell’ingresso.
«Hai qui le carte dei servizi sociali?»
«Sì, ma credev…»
«Dammele!»

In seguito, Anita avrebbe raccontato agli altri vicini di casa di non aver visto
Ove così arrabbiato dal 1977, quando alla tv parlavano di fondere la Saab con la
Volvo.
34
Un uomo che si chiama Ove
e il ragazzino della casa accanto

Ove si è portato una sedia pieghevole di plastica da aprire sulla neve. Ci vorrà un
po’, lo sa. Succede sempre, quando deve dire a Sonja che farà qualcosa che a lei
non piace. Rimuove con cura tutta la neve dalla lapide, così possono vedersi
come si deve.
Nell’arco di quarant’anni, fanno in tempo ad avvicendarsi parecchi tipi di
persone in un quartiere di villette a schiera. La casa tra Ove e Rune è stata
occupata, negli anni, da gente silenziosa, chiassosa, bizzarra, insopportabile, o
che si vedeva appena. Ci hanno abitato famiglie con figli adolescenti che si
sbronzavano e pisciavano sulla recinzione, altre che cercavano di piantare siepi
non regolamentari in giardino, e altre ancora a cui era venuta l’idea di pitturare la
facciata di rosa. Se c’era una cosa su cui, indipendentemente dalle loro ostilità,
in tutti quegli anni Ove e Rune erano stati d’accordo, era che chiunque
occupasse temporaneamente quella casa fosse un completo idiota.
Alla fine degli anni Ottanta, la villetta era stata acquistata da un tizio che
doveva essere una specie di direttore di banca. Come “investimento”, Ove
l’aveva sentito dire dall’agente immobiliare. Negli anni che erano seguiti, il tizio
aveva affittato la casa a una serie di inquilini. Un’estate ci erano venuti ad
abitare tre giovani, che si erano prodigati per trasformarla in un rifugio per
un’accozzaglia di drogati, prostitute e criminali. Le loro feste si protraevano
giorno e notte, le schegge di vetro delle bottiglie di birra rotte ricoprivano il
vialetto tra le abitazioni come coriandoli, e la musica rimbombava a un volume
tale che, nel soggiorno di Sonja e Ove, tremavano i quadri alle pareti.
Ove era andato da loro per mettere fine a quel pandemonio, e i giovani gli
avevano riso in faccia. Quando si era impuntato, lo avevano minacciato con un
coltello. Il giorno dopo, quando Sonja aveva cercato di farli ragionare, l’avevano
mandata via in malo modo, chiamandola “vecchia invalida”. Quella sera,
avevano tenuto la musica più alta del solito e quando, in preda alla disperazione,
Anita era uscita sulla veranda urlandogli di smetterla, quelli le avevano
scaraventato una bottiglia contro la finestra chiusa del soggiorno.
Non era stata una buona idea.
Per vendicarsi, Ove e Rune le avevano tentate tutte. Si erano lamentati con il
padrone di casa, avevano scritto all’ufficio delle imposte per esaminare la
situazione economica di proprietario e inquilini, avevano telefonato a diversi
avvocati per informarsi su come risolvere il problema, interrompendo il contratto
di affitto. Erano pronti a fare qualsiasi cosa pur di liberarsi di quei vandali:
perfino, come Ove aveva pomposamente dichiarato a Sonja, a “portare quella
sporca faccenda davanti alla Corte suprema”. Alla fine, però, non erano riusciti a
portarla nemmeno fuori dalla porta di casa.
Una sera, sul tardi, Ove aveva visto Rune incamminarsi verso i garage con le
chiavi dell’auto in mano. Quando era tornato, reggeva un sacchetto di plastica il
cui contenuto Ove non era riuscito a identificare. Il giorno dopo, la polizia aveva
arrestato i tre giovani per possesso di sostanze stupefacenti: sostanze che, dopo
una soffiata, erano state rinvenute nella loro rimessa.
Durante la retata, Ove e Rune erano usciti entrambi sul vialetto: i loro sguardi
si erano incrociati, e Ove si era grattato il mento con aria meditabonda.
«Io non saprei nemmeno dove andarla a prendere, la droga, in questa città»
aveva detto.
«In fondo alla strada dietro la stazione» aveva risposto Rune tenendo le mani
in tasca. «Ho sentito dire» aveva aggiunto subito dopo con un ghigno,
sollevando un sopracciglio.
Ove aveva annuito, poi erano rimasti lì in silenzio a godersi lo spettacolo, con
il sorriso sulle labbra.
«Come va la macchina?» aveva domandato infine Ove.
«Come un orologio svizzero» aveva risposto Rune.
Da quel giorno, e per un paio di mesi, si erano mantenuti in buoni rapporti.
Poi, naturalmente, avevano litigato di nuovo per via dell’impianto di
riscaldamento centralizzato. Ma era stato bello finché era durato, come aveva
detto Anita.

Negli anni successivi, c’era stato un viavai di altri inquilini, nei confronti dei
quali Ove e Rune si erano mostrati insolitamente benevoli e tolleranti. Con tutto
quel che avevano dovuto sopportare dai tre festaioli, la gente che era venuta
dopo doveva essergli sembrata una benedizione.
Verso la metà degli anni Novanta, nella villetta si era trasferita una donna con
un ragazzino di nove anni, che Sonja e Anita avevano subito preso in simpatia. Il
padre del bambino li aveva lasciati quando il piccolo era in fasce, erano venute a
sapere, e l’uomo dal collo taurino sulla quarantina che abitava con loro adesso, e
che aveva un alito impossibile da ignorare, era il nuovo amante della madre. Era
a casa di rado, e Anita e Sonja avevano evitato di fare troppe domande:
evidentemente, doveva avere delle qualità che a loro sfuggivano. «Si è preso
cura di noi e, sapete com’è, non è semplice essere una madre single» aveva detto
la donna un giorno, sfoggiando un sorriso coraggioso, e le due amiche si erano
accontentate della spiegazione.
La prima volta che lo avevano sentito alzare la voce, avevano pensato che, a
casa propria, ognuno faceva come voleva. La seconda volta, avevano riflettuto
che anche nelle migliori famiglie capita che ci siano delle discussioni, e
sicuramente non era nulla di grave.
Alla prima occasione in cui l’uomo dal collo taurino si era assentato da casa,
Sonja aveva invitato madre e figlio a prendere un caffè. La donna era piena di
lividi, ma, con una risata nervosa, aveva raccontato di esserseli procurati
andando a sbattere contro un’anta della cucina. Quella sera, Rune aveva
incontrato nel parcheggio l’uomo dal collo taurino, che era sceso dall’auto in
evidente stato di ubriachezza.
La sera dopo, avevano udito l’uomo sbraitare e vari oggetti fracassarsi a terra.
La donna aveva emesso un breve ma lancinante grido di dolore. Quando, pochi
minuti più tardi, Ove aveva sentito il ragazzino urlare in lacrime: «Basta
picchiarla, basta picchiarla, basta picchiarla!», era uscito, piazzandosi a gambe
larghe sulla sua veranda. Rune era già in piedi sulla sua.
Erano nel bel mezzo della loro peggiore faida, quella per il riscaldamento
centralizzato, e non si parlavano da quasi un anno. Quella sera si erano fissati per
un breve istante, ed erano tornati ognuno in casa propria senza dire una parola.
Poco dopo, erano usciti di nuovo, vestiti di tutto punto. L’uomo dal collo taurino,
in preda a un violento scoppio d’ira, aveva tentato di attaccarli non appena aveva
spalancato la porta, ma il pugno di Ove lo aveva centrato alla radice del naso.
L’uomo aveva vacillato, era tornato in equilibrio, aveva sfoderato un coltello da
cucina e lo aveva puntato contro Ove, senza però riuscire ad aggredirlo: il pugno
di Rune lo aveva abbattuto come una mazza. Nei giorni del suo fulgore, Rune
era stato un tipo tosto: c’era da stare attenti a finire in una rissa con lui.
Il giorno seguente, l’uomo aveva lasciato il quartiere per non farvi più ritorno.
Madre e figlio avevano dormito a casa di Anita e Rune per due settimane prima
di avere il coraggio di tornare a casa. Nel frattempo, Rune e Ove si erano recati
in banca, dove avevano prelevato una certa somma, e Anita aveva poi spiegato
alla giovane che avrebbe potuto considerarlo un regalo o un prestito, come
preferiva. In ogni caso, era fuori discussione che l’accettasse. Così, la donna
aveva continuato ad abitare nella villetta con il figlio, un ragazzino grassoccio a
cui piacevano i computer e che si chiamava Jimmy.

Ove si sporge in avanti e osserva serio la lapide.


«Credevo di avere più tempo. Più tempo per… per tutto, ecco.»
Lei non risponde.
«Lo so cosa pensi del piantar grane, Sonja, ma cerca di capire. Non si può
ragionare con quella gente.»
Picchietta l’unghia del pollice sul palmo della mano. La lapide sta dove deve
stare senza dire nulla, ma Ove non ha bisogno che parli per sapere cos’avrebbe
pensato sua moglie, da viva o da morta.
Quella mattina, Ove ha telefonato ai servizi sociali, o come accidenti si
chiamano adesso. Ha telefonato da casa di Parvaneh, dato che ormai il suo
abbonamento è stato disdetto. Parvaneh lo ha esortato a essere “gentile e
accomodante”, ma Ove è partito subito con il piede sbagliato quando lo hanno
messo in comunicazione con “l’addetto responsabile”, ovvero la camicia bianca
con la Škoda. L’uomo ha comunicato senza mezzi termini la sua irritazione per il
fatto che l’auto di proprietà del Comune fosse ancora bloccata davanti alla casa
di Anita e Rune. Al che Ove, lungi dal chiedere scusa e ammettere che, sì, in
effetti era stato un po’ eccessivo privare consapevolmente il funzionario
comunale del suo mezzo di trasporto, gli ha sibilato: «Così forse imparerai a
leggere i cartelli, analfabeta del cavolo!». È stato ben poco gentile e tutt’altro che
accomodante, insomma.
Dopo questo esordio infelice, Ove ha cercato di convincere la camicia bianca
a non trasferire Rune in un ospizio. L’uomo lo ha informato che “analfabeta del
cavolo” era una pessima scelta lessicale per introdurre l’argomento all’ordine del
giorno. È seguita una lunga serie di insulti, palleggiati da un capo all’altro della
linea telefonica, prima che Ove dicesse chiaro e tondo che così, comunque, non
andava bene. Non si portavano via le persone da casa propria, mettendole in un
ospizio, solo perché la loro memoria cominciava a perdere colpi. L’uomo ha
risposto con freddezza che, nello “stato” in cui si trovava la persona in
questione, il luogo in cui l’avrebbero messa o meno faceva una differenza
altamente irrilevante. Per tutta risposta, Ove ha strillato una sfilza di invettive.
Alla fine, credendo di chiudere la discussione, la camicia bianca ha detto una
cosa che non avrebbe dovuto dire.
«La decisione è presa. L’inchiesta è durata due anni. Non c’è niente che tu
possa fare, Ove. Assolutamente niente.»
Poi, ha riattaccato.
Ove ha guardato prima Parvaneh, e poi Patrick. Ha scaraventato il loro
cordless sul tavolo della cucina e ha borbottato che c’era bisogno di “un nuovo
piano, immediatamente!”. Parvaneh sembrava profondamente abbattuta; Patrick,
invece, ha sorriso, si è infilato le scarpe ed è uscito. Con gran disappunto di Ove,
cinque minuti dopo è rientrato insieme al damerino della casa accanto, e con
Jimmy al seguito.
«Che cosa ci fa lui qui?» ha esclamato Ove, indicando il damerino.
«Avevi bisogno di un nuovo piano, no?» ha ribattuto Patrick, facendo un
cenno soddisfatto ad Anders.
«Anders è il nostro nuovo piano!» si è intromesso Jimmy.
Il damerino si è guardato attorno timidamente e, alla vista di Ove, ha assunto
un’espressione un po’ spaventata. Patrick e Jimmy lo hanno spinto senza tanti
scrupoli nel soggiorno.
«Racconta!» lo ha esortato Patrick.
«Cosa c’è da raccontare?» ha preteso di sapere Ove.
«Ehm, dunque… Ho sentito che ha dei problemi con il proprietario di quella
Škoda» ha detto Anders, lanciando un’occhiata nervosa a Patrick. Ove ha fatto
un cenno di assenso appena visibile, ma si capiva che era impaziente di ascoltare
il resto.
«Già… be’, forse non le ho mai detto qual è la mia attività, vero?» ha
proseguito Anders cauto.
Ove si è cacciato le mani in tasca, un po’ meno nervoso. E Anders si è messo
a raccontare. Alla fine, persino Ove ha dovuto ammettere che, dopotutto, quella
proposta da Anders sembrava una soluzione più che efficace.
«Dove è finita quell’oc…?» ha balbettato Ove dopo che Anders aveva
terminato, ma è stato interrotto da Parvaneh, che gli ha sferrato un calcio sotto il
tavolo.
«Volevo dire, quella ragazza con cui vivevi?» si è corretto Ove.
«Oh. Non stiamo più insieme. Se n’è andata» ha risposto Anders, con gli
occhi fissi sulle scarpe.
Poi ha dovuto spiegare che, negli ultimi tempi, la ragazza era un po’ irritata
perché, a suo dire, Ove aveva trattato male lei e il suo cane, e che si era
arrabbiata ancora di più quando Anders non solo si era rifiutato di difenderla, ma
era scoppiato in un attacco di risa incontrollate dopo aver saputo che Ove aveva
apostrofato l’animale “ciabatta”.
«Quindi, se n’è andata, e il giorno dopo ha mandato il suo nuovo fidanzato a
prendere le sue cose. A quanto pare, avevano una storia alle mie spalle da
qualche mese.»
«Nooo!» hanno esclamato Parvaneh, Jimmy e Patrick all’unisono.
«Magari l’avete visto. Girava qua intorno su una Lexus» ha aggiunto Anders.
«NOOO!» ha esclamato Ove.
Quando, quel pomeriggio, la camicia bianca è ricomparsa sulla stradina
pedonale in compagnia di un poliziotto per esigere che Ove liberasse la Škoda
del Comune, sia il rimorchio sia l’automobile bianca erano spariti. Ove è uscito a
godersi la scena, con le mani comodamente infilate nelle tasche. La camicia
bianca gli è andata incontro e, fuori di sé, ha cominciato a strillargli addosso le
cose più assurde. Ove ha sostenuto di non avere la minima idea di cosa fosse
accaduto, ma ha suggerito amichevolmente che, forse, non sarebbe successo
nulla se la camicia bianca avesse rispettato il cartello di divieto di transito. Ha
evitato di menzionare il fatto che Anders fosse il titolare di un’azienda di
soccorso stradale, e che uno dei suoi camion aveva prelevato la Škoda verso
l’ora di pranzo, depositandola in un’enorme cava a una quarantina di chilometri
dalla città. Quando il poliziotto gli ha domandato senza troppi riguardi se non
avesse davvero visto nulla, Ove ha fissato la camicia bianca dritto negli occhi e
ha risposto: «Non lo so. Forse me lo sono dimenticato. Alla mia età, la memoria
gioca brutti scherzi».
Quando, poi, il poliziotto si è guardato intorno e ha chiesto a Ove perché
stesse lì in piedi davanti a casa sua, se non aveva nulla a che vedere con la
sparizione della Škoda, Ove si è limitato a fare spallucce, senza staccare gli
occhi da quelli della camicia bianca.
«Non c’era niente d’interessante alla tv.»
Per la collera, il viso dell’uomo è diventato se possibile ancora più bianco
della sua camicia. Si è allontanato su tutte le furie, giurando che non sarebbe
certo finita lì. E così è stato. Poche ore più tardi, Anita ha ricevuto tramite
corriere una lettera raccomandata, firmata dall’uomo con la camicia bianca in
persona, con ora e data del “prelievo”.

Ove è seduto sulla sedia di plastica accanto alla tomba di Sonja e mormora che
gli dispiace.
«Dai sempre in escandescenze quando litigo con gli altri» dice. «Lo so, ma
stavolta va così. Dovrai semplicemente aspettarmi ancora un po’, lassù, perché
non ho tempo di morire proprio adesso.»
Poi, estrae i fiori vecchi dalla terra gelata, che è dura come una roccia, e
pianta quelli nuovi. Si alza, richiude la sedia pieghevole e si avvia verso il
parcheggio. Mentre se ne va, bofonchia corrucciato: «Perché adesso, che il
diavolo mi porti, è guerra».
35
Un uomo che si chiama Ove
e l’incompetenza sociale

Quando Parvaneh entra di corsa nell’ingresso di Ove e, in preda al panico, si


precipita nel suo bagno senza preoccuparsi di dire “buongiorno”, e tanto meno di
chiedere il permesso, Ove vorrebbe chiederle come accidenti sia possibile
sviluppare, nel giro di quei dannati venti secondi che ci vogliono per attraversare
il vialetto tra le loro case, un stimolo della minzione così impellente da non
riuscire neanche a salutare prima di correre in bagno. Una volta, però, molti anni
prima, sua moglie lo aveva informato che: «L’inferno è niente in confronto al
bisogno di fare pipì di una donna incinta», dunque Ove non apre bocca.
I vicini hanno commentato che, negli ultimi giorni, Ove “sembrava quasi
un’altra persona”. Hanno detto di non averlo mai visto così “coinvolto”, ma
questo, accidenti, è dovuto esclusivamente al fatto che, prima, Ove non è mai
stato coinvolto da loro. Cazzarola, coinvolto dai fatti propri lo è sempre stato,
vorrebbe illuminarli Ove.
Patrick ha paragonato il suo recente affannarsi da una casa all’altra sbattendo
le porte a quello di “un arrabbiatissimo robot che ritorna dal futuro per
vendicarsi”. Ove non ha ben capito cosa volesse dire. Comunque, si è fermato a
casa di Parvaneh per ore e ore, la sera, mentre Patrick cercava come poteva di
convincerlo a non tappezzare di impronte digitali lo schermo del suo computer
ogni volta che voleva indicare qualcosa. Insieme a loro c’erano anche Jimmy,
Mirsad, Adrian e Anders. Jimmy ha cercato di persuadere tutti a ribattezzare la
cucina di Parvaneh e Patrick “Morte nera”, e Ove “Dart Ove”. Ove non ha idea
di cosa significhi, ma sospetta che sia una scemenza bella e buona.
All’inizio, Ove ha proposto di ripetere la trovata di Rune, piazzando della
marijuana nella rimessa dell’uomo con la camicia bianca. Parvaneh, però, non ha
apprezzato molto l’idea, così si sono messi a studiare un piano B. Patrick ha
constatato che Ove non poteva portare a termine il piano da solo, e Ove ha
dovuto ammettere che aveva ragione: allora, ha annuito con determinazione, ha
chiesto in prestito il cordless a Parvaneh e si è spostato in un’altra stanza per fare
una telefonata.
Non che gli andasse a genio, ma la guerra era guerra, punto.

Parvaneh esce dal bagno.


«Hai finito?» le domanda Ove, senza aspettarsi una risposta.
Lei annuisce e fa per andarsene, ma proprio mentre si avvia verso la porta
scorge qualcosa nel soggiorno e si blocca. Ove rimane sull’uscio, però sa molto
bene cosa sta fissando.
«Ah, quella. Bah, non è niente di speciale, dài» borbotta, cercando di esortarla
a uscire.
Dato che lei non si muove, sferra un calcio allo stipite.
«Stava lì solo a prendere polvere. L’ho carteggiata e l’ho ridipinta. Non è
davvero niente di particolare, cazzarola» bofonchia infastidito.
«Oh, Ove» sussurra Parvaneh.
Ove dà un calcio anche all’altro stipite.
«Caso mai fosse femmina, la si può carteggiare di nuovo e pitturare di rosa»
aggiunge lui, schiarendosi la voce. «D’altra parte, al giorno d’oggi anche i
maschi possono avercela rosa.»
Parvaneh osserva la culla azzurra con una mano davanti alla bocca.
«Ma se adesso ti metti a piangere, non te la do» l’avverte Ove.
E quando lei si mette a piangere ugualmente, sospira: «Dannate donne…».
Poi, si volta e s’incammina giù per il vialetto.

Poco più di mezz’ora dopo, l’uomo con la camicia bianca schiaccia il mozzicone
di sigaretta sotto la suola della scarpa e bussa bruscamente alla porta di Anita e
Rune. È chiaramente sul piede di guerra. Si è portato dietro tre giovani
infermieri, come se si aspettasse un’opposizione violenta. Quando Anita apre la
porta, i tre ragazzi sembrano quasi vergognarsi, ma la camicia bianca si fa avanti
brandendo l’ordinanza come se fosse un’ascia.
«È il momento» la informa con una certa impazienza, tentando di entrare.
Anita, tuttavia, gli sbarra la strada.
«No!» obietta, senza spostarsi di un centimetro.
La camicia bianca osserva a lungo quella donna esile, incurvata dal peso
dell’età e delle preoccupazioni. Scuote stancamente il capo e si passa due dita
sulla fronte, tirando la pelle pallida.
«Ha avuto due anni per prepararsi, Anita. Adesso, la decisione è presa. È così,
e basta» dice, cercando nuovamente di entrare.
Anita rimane sulla soglia, irremovibile come una pietra runica sferzata dal
vento, e fa un respiro profondo senza distogliere lo sguardo da quello dell’uomo.
«Che razza di amore è quello che abbandona una persona in difficoltà?
Quando iniziano a esserci degli ostacoli? Mi dica, che amore è?!»
La sua voce è un vibrato di dolore sull’orlo del collasso. L’uomo con la
camicia bianca serra le labbra. Gli fremono gli zigomi per la frustrazione.
«Per la maggior parte del tempo Rune non sa nemmeno dove si trova.
L’inchiesta ha dimostr…» sibila.
«Ma IO lo so!» lo interrompe Anita, rivolta ai tre infermieri.
«IO LO SO dove si trova!» grida.
La camicia bianca sospira, esasperata.
«E chi si prenderà cura di lui, Anita?» domanda con enfasi, riprendendo a
scuotere il capo.
Poi avanza di un passo e accenna ai tre infermieri di seguirlo.
«IO mi prenderò cura di lui!» risponde Anita con uno sguardo tenebroso
come una fossa oceanica.
La camicia bianca continua a scuotere la testa, mettendo un piede oltre la
soglia. Soltanto allora scorge l’ombra alle spalle di Anita.
«E io» esclama Ove.
«E io» gli fa eco Parvaneh.
«E io!» dicono Patrick, Jimmy, Anders, Adrian e Mirsad all’unisono, facendo
capolino dietro ad Anita talmente all’improvviso che sembra stiano per cadere
uno sull’altro.
La camicia bianca si arresta; i suoi occhi diventano sottili fessure.
A quel punto, compare al suo fianco una donna sulla quarantina con i capelli
raccolti in una coda di cavallo trasandata, e con indosso jeans lisi e una giacca a
vento verde un po’ troppo grande.
«Sono del giornale locale e vorrei farle qualche domanda» dice, sollevando
un piccolo registratore.
La camicia bianca la fissa a lungo. Poi, si volta e guarda Ove: i due si
studiano a vicenda. Quando vede che l’uomo con la camicia bianca non reagisce,
Lena estrae un plico di documenti dalla borsa e glielo sventola davanti.
«Questi sono tutti i pazienti di cui si è occupato il suo dipartimento negli
ultimi anni. Tutte le persone come Rune, che sono state prelevate e trasportate in
un ospizio contro la volontà loro e dei loro familiari. Tutte le irregolarità che
sono sorte nelle cliniche e nelle case di riposo dove avevate la responsabilità di
trasferirli. Tutti i casi in cui non è stata applicata la procedura decisionale
corretta» spiega.
Lo dice con il tono di chi stia comunicando a qualcuno che ha vinto
un’automobile alla lotteria, mettendogli in mano le chiavi. Poi prosegue,
sorridendo.
«Il bello dell’indagare sulla burocrazia, per un giornalista, è quando si scopre
che i più bravi a infrangere le regole burocratiche siete proprio voi burocrati. Lo
sapeva?»
La camicia bianca continua a guardare Ove, con le mascelle serrate. Nessuno
dei due fa il minimo rumore.
Patrick si schiarisce la voce ed esce all’aperto appoggiandosi alle stampelle.
Mentre passa accanto alla camicia bianca, fa un cenno al plico di fogli.
«Se per caso si sta chiedendo cos’è la lista sulla prima pagina… be’, è
l’elenco di tutti i suoi movimenti bancari. E di tutti i biglietti aerei e ferroviari
che ha comprato con la carta di credito, e di tutti gli hotel dove ha pernottato
negli ultimi sette anni. E poi c’è tutta la cronologia del suo computer, tutti i siti
web che ha consultato dall’ufficio e tutta la corrispondenza via e-mail, sia di
lavoro sia privata…»
La camicia bianca rimane in silenzio, ma il suo sguardo si sposta adagio da
Ove a Patrick. Ha le mascelle talmente serrate che la pelle ai lati del viso è
livida.
«Non stiamo dicendo che ci sia qualcosa che lei vuole nascondere» chiarisce
con tono garbato la giornalista.
«Niente affatto!» conferma Patrick, scuotendo il capo con fare solenne.
«Ma sa…» riprende Lena, grattandosi distrattamente il mento.
«Se si inizia a scavare nel passato di qualcuno…» annuisce Patrick.
«Di solito si trova sempre qualcosa che questo qualcuno preferirebbe tenere
segreto» sorride la giornalista con indulgenza.
«Che preferirebbe… dimenticare» precisa Patrick, indicando con il capo la
finestra del soggiorno, oltre la quale s’intravede la sagoma di Rune seduto in
poltrona.
Nel soggiorno di Anita e Rune, la tv è accesa. Dalla cucina proviene l’aroma
del caffè appena fatto. Patrick solleva una stampella e posa la punta sul mucchio
di fogli in mano all’uomo, schizzandogli addosso un po’ di neve.
«Fossi in lei, darei un’occhiata soprattutto all’elenco dei siti web» dichiara.
Per un breve istante, restano tutti zitti: Anita e Parvaneh, Lena e Patrick, Ove,
Jimmy e Anders, e la camicia bianca con i tre infermieri. È quel genere di
silenzio che si crea attorno a un tavolo da poker, appena prima che i giocatori
scoprano le carte dopo una puntata.
Alla fine, come se riemergesse da una lunga apnea, la camicia bianca
comincia a sfogliare le carte.
«Dove avete trovato questa roba?» sibila, sempre più teso.
«Su Inter-NÈTT!» sbraita Ove all’improvviso, uscendo dalla villetta con le
braccia conserte.
La camicia bianca alza gli occhi dai documenti. Lena indica i fogli
tossicchiando.
«Può darsi che, in fin dei conti, non ci sia nulla di illegale in questi vecchi
incarichi, ma il mio caporedattore è convinto che, con la giusta attenzione dei
media, ci vorranno comunque mesi al suo dipartimento per portare avanti
un’azione legale. Magari anni…»
Posa con benevolenza la mano sulla spalla dell’uomo.
«Quindi, credo che sarebbe più semplice se ora lei se ne andasse» sussurra.
Poco dopo, con viva sorpresa di tutti e specialmente di Ove, la camicia bianca
se ne va. Si volta e si allontana, con i tre infermieri al seguito. Scompaiono
lentamente dietro l’angolo, come fanno le ombre quando sorge il sole, o come i
cattivi alla fine delle fiabe.

La giornalista annuisce soddisfatta.


«Ve l’avevo detto! Nessuno ha la forza di polemizzare con noi giornalisti!»
Ove si caccia le mani in tasca.
«Non si dimentichi la promessa» ridacchia lei.
Per tutta risposta, Ove emette un suono simile a quando si apre la porta gonfia
d’acqua di una capanna di legno dopo un’alluvione.
«L’ha poi letta la lettera che le ho mandato?» gli domanda Lena.
Lui scrolla il capo.
«La legga!» insiste lei.
Ove biascica quello che potrebbe essere un “sì, sì, sì”, ma anche un pesante
sospiro nasale: difficile stabilirlo. Anders si ferma fuori dalla villetta: sembra che
non sappia bene cosa fare con le mani, così le muove su e giù per un momento,
prima di decidersi a intrecciarle sulla pancia come un tonto.
«Salve» dice alla fine, come se il saluto gli uscisse di bocca nel bel mezzo di
un colpo di tosse.
«Salve» sorride la giornalista.
«Io sono… un amico di Ove» balbetta Anders, ed è come se le sillabe
corressero in una stanza buia, sbattendo una contro l’altra.
«Anch’io» sorride lei.
E poi succede quello che succede sempre, quando tra due persone scocca la
scintilla.

Quando se ne va, Ove può dire di essere riuscito a “parlare senza elementi di
disturbo” con Rune. Hanno trascorso un’ora buona nel soggiorno a chiacchierare
a bassa voce, da soli.

Se Anita non conoscesse alla perfezione le condizioni di suo marito, potrebbe


giurare di averlo sentito ridere di gusto parecchie volte.
36
Un uomo che si chiama Ove
e un bicchiere di whisky

È difficile ammettere di avere sbagliato. Specialmente quando si è sbagliato per


molto, molto tempo.

Sonja diceva che, in tutti gli anni del loro matrimonio, Ove aveva ammesso di
avere sbagliato una sola volta, e cioè quando, nei primi anni Ottanta, era stato
d’accordo con lei su una cosa che poi si era rivelata errata. Naturalmente, Ove
sosteneva che non fosse andata proprio così. Dopotutto, era la cosa a essere
errata, non lui che aveva sbagliato. Ma comunque.
“Amare una persona è come traslocare in una casa nuova” diceva sempre
Sonja. “All’inizio ci si innamora senza riserve: ogni mattina ci si stupisce del
fatto che tutto ci appartenga, come se si temesse che, all’improvviso, qualcuno
possa irrompere dalla porta annunciando che si è verificato un grave errore e che
non era previsto che si abitasse in un luogo così bello. Con il passare degli anni,
però, le facciate si consumano, il legno si scheggia qua e là. Non si è più
sopraffatti dallo stupore ogni mattina, e si comincia ad amare la casa non tanto
per quel che è perfetto, quanto per quel che non lo è. S’impara a conoscerne ogni
angolo e centimetro: come evitare che la chiave si blocchi nella serratura quando
fuori gela, quali assi del parquet affondano leggermente quando le si calpesta, e
come aprire le ante del guardaroba senza farle cigolare. Tutti quei piccoli segreti
che rendono la casa nostra, e di nessun altro.”
Ovviamente, Ove sospettava che Sonja si riferisse a lui quando citava
l’esempio delle ante del guardaroba. E, di tanto in tanto, quando era arrabbiata
con lui, la sentiva chiedersi sbuffando se ci fosse qualche speranza, quando tutte
le fondamenta erano state piantate storte nella terra fin dall’inizio. Ove sapeva
molto bene cosa intendeva.
«Dico solo che deve pur dipendere da quanto costa un diesel. Da quanto
consuma a chilometro, e così via» commenta Parvaneh disinvolta, mentre
rallenta al semaforo rosso e, con un gemito, cerca di mettersi più comoda sul
sedile.
Ove la guarda con infinita delusione: è evidente che non ha ascoltato una sola
parola di quel che ha appena finito di dirle. Ha cercato di insegnarle l’abbiccì del
possedere un’automobile. Le ha spiegato che, per non rimetterci, bisogna
cambiarla ogni tre anni. L’ha istruita sul fatto che chiunque abbia un minimo di
cervello sa che bisogna fare almeno ventimila chilometri all’anno perché la
scelta di un motore diesel invece che di uno a benzina risulti vantaggiosa. E lei
cosa fa? Si ostina a contraddirlo, come al solito. Parla a vanvera, sentenziando
che non si può mica risparmiare comprando qualcosa di nuovo, e che dovrebbe
dipendere dal prezzo dell’auto. Poi chiede: «E perché?».
«Perché sì!» risponde Ove.
«Sissignore» ribatte Parvaneh, roteando gli occhi con tale enfasi che Ove
sospetta che non stia affatto accettando la sua autorità in materia, come sarebbe
lecito attendersi.
«Mentre torniamo, dobbiamo fare benzina» continua, quando scatta il verde.
«E questa volta pago io, senza tante storie» aggiunge.
Ove incrocia le braccia, pronto all’ennesima lotta.
«Di solito, cosa mette nel serbatoio il tuo consorte?»
«In che senso? Questa macchina va a normale benzina, no?» esclama lei,
perplessa.
Ove sospira, come se Parvaneh gli avesse appena detto che vuol riempire il
serbatoio della Saab di caramelle gommose.
«Non intendevo il tipo di carburante. Da quale distributore vi rifornite?»
All’incrocio, svoltano a sinistra. Parvaneh è talmente sicura di sé che Ove
teme che, da un momento all’altro, si metta pure a fischiettare.
«Mah, non so. Perché? Uno qualunque non va bene?»
«Ma di quale benzinaio avete la TESSERA?!»
Mentre lo dice, gli tremano le mani. Perché se Ove è sempre stato scettico nei
confronti di bancomat e carte di credito, ha sempre considerato un’ovvietà
possedere la tessera di un solo benzinaio. Semplicemente, per lui è così che si fa:
si prende la patente, ci si compra la prima macchina, e poi si sceglie la catena di
distributori di benzina a cui restare fedeli. Su questioni importanti come la marca
dell’automobile e il benzinaio non c’è da discutere.
«Non abbiamo nessuna tessera» risponde Parvaneh con la massima serenità,
come se non ci fosse nulla di male.
Nei cinque minuti che seguono, Ove si chiude in un silenzio così sdegnato
che, alla fine, lei azzarda timorosa: «La Statoil, va bene?».
«Quanto costa al litro lì, adesso?» chiede Ove dubbioso.
«Non ne ho idea» risponde lei sincera.
La sua risposta offende Ove a tal punto da lasciarlo senza parole.
Dieci minuti dopo, Parvaneh rallenta e parcheggia sul lato opposto della
strada.
«Ti aspetto qui» dice.
«Non toccarmi i canali della radio» le intima Ove.
«Nooo» bela lei, sfoderando quel sorriso sardonico che, nel corso delle ultime
settimane, Ove ha imparato a conoscere e a detestare.
«È stato bello averti avuto a cena, ieri» aggiunge Parvaneh.
Ove risponde emettendo un suono che, più che una parola, è un tentativo di
ripulire le sue vie respiratorie. Lei gli dà una pacca sul ginocchio.
«Le bambine sono contente quando vieni a trovarci. Ti adorano!»
Ove scende dall’auto senza rispondere. È stato contento anche lui di cenare a
casa loro, questo può ammetterlo. Non che Ove apprezzi particolarmente chi,
come Parvaneh, vuole a tutti i costi fare sfoggio delle proprie straordinarie doti
culinarie. Dopotutto, salsiccia e patate a lui sono sempre andate più che bene.
Comunque, se bisogna proprio fare tutte queste storie, è vero che il suo riso al
curry non gli dispiace: infatti, ne ha mangiate due porzioni, e il gatto una e
mezza.
Dopo cena, mentre Patrick lavava i piatti, Tre anni ha chiesto a Ove di
leggerle una favola della buonanotte. Ove non aveva nessuna voglia di affrontare
una discussione con quella piccola peste: così, un po’ malvolentieri, l’ha seguita
nella sua stanza, si è seduto sul bordo del letto e si è messo a leggere. Con “il
solito coinvolgimento pari a zero di Ove”, come ha commentato Parvaneh, con
gran disappunto di Ove. Quando Tre anni si è addormentata, con metà testa sul
suo braccio e metà sul libro aperto, Ove ha adagiato lei e il gatto nel letto, e ha
spento la luce.
Mentre tornava nell’ingresso, è passato davanti alla camera di Sette anni,
trovandola che smanettava con il computer. Sembra che al giorno d’oggi i
ragazzini non facciano altro. Più tardi, Patrick gli ha spiegato di aver provato a
proporre a sua figlia altri giochi, ma che lei non aveva voluto saperne, e questo
ha migliorato decisamente la disposizione d’animo di Ove nei confronti sia di
Sette anni sia del giocare con il computer. A Ove piace la gente che non fa come
dice Patrick.
Le pareti della stanza erano coperte di disegni, soprattutto schizzi a matita.
“Niente affatto male, per essere di una marmocchia di sette anni con una forte
carenza di abilità finomotorie e di ragionamento logico” ha pensato Ove.
Nessuno dei disegni rappresentava esseri umani: solo e unicamente case. Ove lo
ha trovato molto gradevole.
È entrato nella stanza e le è andato vicino. Sette anni ha distolto gli occhi
dallo schermo del computer con la sua solita espressione scontrosa, e non è
sembrata particolarmente colpita dalla presenza di Ove. Tuttavia, visto che lui
non accennava ad andarsene, alla fine gli ha indicato una grande scatola di
plastica capovolta sul pavimento. Ove ci si è seduto sopra e lei ha cominciato a
spiegargli a bassa voce che il gioco consisteva nel costruire case, e poi nel
costruire città con quelle case.
«Mi piacciono le case» ha mormorato.
Ove l’ha guardata. Lei ha ricambiato lo sguardo. Ove ha indicato una
superficie libera della città, premendo un dito sullo schermo così da lasciarci
un’enorme impronta, e ha chiesto cosa sarebbe successo se avesse schiacciato lì.
Sette anni ha spostato il mouse, ha schiacciato il pulsante destro e, zac, il
computer ha costruito una casa. Ove è parso alquanto sospettoso. Poi, si è messo
più comodo sulla scatola di plastica e ha indicato un’altra superficie vuota. Due
ore più tardi, Parvaneh li ha minacciati di staccare la corrente se non fossero
filati a letto immediatamente tutti e due.
Mentre Ove era sulla porta, pronto ad andarsene, Sette anni lo ha tirato piano
per la manica della camicia e ha indicato un disegno sulla parete proprio accanto
a lui.
«Quella è casa tua» ha sussurrato, come se fosse un segreto tra lei e Ove.
Ove ha annuito. Tutto sommato, forse quella ragazzina non era una completa
buona a nulla.

Ove lascia Parvaneh nel parcheggio, attraversa la strada, apre la porta a vetri ed
entra. Il bar è deserto. Il termoventilatore sul soffitto tossisce come se fosse
avvolto da un denso fumo di sigaro. Amel è dietro il bancone: indossa la sua
camicia macchiata e sta asciugando i bicchieri con uno strofinaccio. Ha la
schiena curva, come se avesse appena esalato un lunghissimo sospiro. Il suo viso
esprime quella combinazione di profonda tristezza e folle rabbia che solo gli
uomini della sua generazione e originari della sua area geografica sembrano
padroneggiare appieno. Ove si ferma in mezzo al locale. I due si osservano per
qualche minuto: uno che non riesce a sbattere fuori di casa un finocchio, e l’altro
che, evidentemente, non aveva potuto farne a meno. Alla fine, Ove annuisce
cupo tra sé, si fa avanti e si accomoda su uno sgabello. Intreccia le mani sul
bancone e osserva Amel con sguardo indifferente.
«Adesso credo che potrei bermelo, quel whisky, se l’offerta è ancora valida»
dice.
Sotto la camicia macchiata, il petto di Amel si solleva e si abbassa in rapidi
respiri. In un primo momento, sembra che voglia aprire la bocca per dire
qualcosa, ma poi si trattiene. Finisce di asciugare i bicchieri in silenzio, ripiega
lo strofinaccio, lo posa accanto alla macchina per l’espresso, e sparisce in cucina
senza dire una parola. Torna con una bottiglia, sulla cui etichetta c’è una scritta
in caratteri incomprensibili, e l’appoggia sul bancone insieme a due bicchieri
puliti.

È difficile ammettere di avere sbagliato. Specialmente quando si è sbagliato per


molto, molto tempo.
37
Un uomo che si chiama Ove
e un mucchio di ficcanaso

«Mi dispiace» brontola Ove, spazzando via la neve dalla lapide.


«Ma sai com’è. Ormai, la gente non ha più il minimo rispetto per la vita
privata degli altri. Ti entrano in casa senza bussare: non si può più nemmeno
stare in bagno in pace» spiega, mentre scava nella terra per togliere i fiori gelati
e piantare quelli nuovi.
La guarda come se si aspettasse un suo cenno di approvazione, che
naturalmente non arriva. Il gatto, però, siede accanto a Ove sulla neve e sembra
che annuisca per lei: specialmente riguardo al fatto di non poter più andare in
bagno in santa pace.

Quella mattina, la giornalista è passata a casa di Ove per lasciargli una copia del
giornale locale. Ove era in prima pagina, con la faccia burbera di sempre. Aveva
mantenuto la promessa che aveva fatto a Lena, acconsentendo all’intervista e
rispondendo alle sue domande, ma non aveva nessuna intenzione di sorridere
come un asino al fotografo, questo gliel’aveva detto chiaro e tondo.
«È un’intervista fantastica!» ha esclamato orgogliosa la giornalista.
Ove non ha risposto, ma lei non se l’è presa. Sembrava impaziente: spostava
il peso del corpo da un piede all’altro e continuava a guardare l’orologio, come
se avesse fretta di andare da qualche parte.
«Non ti faccio perdere altro tempo» ha borbottato Ove, alzando un
sopracciglio.
Lena ha fatto una risatina impacciata.
«Io e Anders andiamo a pattinare sul lago!»
Ove ha annuito, intuendo che la conversazione fosse terminata, e ha chiuso la
porta. Ha infilato il giornale sotto lo zerbino: era perfetto per assorbire la neve e
il fango che il gatto e Mirsad portavano dentro casa in continuazione.
Una volta in cucina, ha gettato nella spazzatura la pubblicità e i giornali
gratuiti che Adrian gli aveva consegnato con la posta, sebbene sulla sua cassetta
Ove avesse attaccato un adesivo con scritto NIENTE PUBBLICITÀ, GRAZIE! a
lettere cubitali. Evidentemente, Sonja non era riuscita a insegnare a leggere a
quella canaglia. D’altra parte, poteva anche dipendere dal fatto che Shakespeare
non scriveva cartelli, ha riflettuto Ove. Già che c’era, ha deciso di approfittarne
ed eliminare tutte le cartacce disseminate per la casa. Sul tavolo della cucina, in
fondo a una pila di volantini e vecchie pubblicità, ha trovato la lettera che gli
aveva spedito la giornalista: quella che Adrian aveva con sé la prima volta che
aveva suonato alla sua porta, e che Ove non aveva ancora aperto.
“Allora, almeno, aveva suonato, il moccioso. Adesso, entra ed esce come se
questa fosse casa sua” ha pensato Ove sdegnato, sollevando la busta in direzione
della lampada come chi cerchi di verificare l’autenticità di una banconota. Poi,
malgrado Sonja andasse su tutte le furie ogni volta che usava quello invece del
tagliacarte, ha preso un coltello dal cassetto e l’ha aperta.

Salve, Ove.
Mi perdoni se la contatto in questo modo. Lena, al giornale, mi ha informato
che Lei non vuol dare grande rilevanza a quel che è successo, ma almeno è stata
così gentile da comunicarmi il Suo indirizzo. Per me, invece, quanto è accaduto
ha un’enorme rilevanza, e non ho intenzione di tenerlo nascosto. Rispetto il Suo
desiderio di non essere ringraziato personalmente, ma vorrei almeno
presentarLe alcune persone che Le saranno grate in eterno per il Suo coraggio e
la Sua generosità. Uomini come Lei non ne fanno più.
DirLe grazie è davvero troppo poco.

Era firmata dall’uomo con il completo grigio e il cappotto nero, che Ove
aveva raccolto dai binari dopo che era svenuto, salvandogli la vita. I medici
avevano constatato che il suo svenimento era stato causato da una complessa
patologia cerebrale, che, se non fosse stata diagnosticata e curata in tempo, nel
giro di qualche anno lo avrebbe portato alla morte. “Quindi, Ove, lei gli ha
salvato la vita due volte” aveva commentato la giornalista quando gliel’aveva
raccontato, con quel tono esuberante che aveva fatto pentire Ove di non averla
lasciata chiusa a chiave nel garage.
Ove ha ripiegato la lettera e l’ha infilata di nuovo nella busta. Poi ha guardato
la fotografia. Tre ragazzini: il più grande adolescente, e gli altri due che
dovevano avere all’incirca l’età della figlia maggiore di Parvaneh. Erano
accovacciati sulla spiaggia, ciascuno con un fucile ad acqua in pugno, e
sembrava che ululassero dal ridere. Dietro di loro c’era una donna bionda, con le
braccia tese come le ali di un grosso rapace, che sorrideva stringendo in ogni
mano un secchiello di plastica traboccante d’acqua. Sotto i ragazzi c’era l’uomo
con il completo grigio, che nella foto indossava una polo azzurra fradicia e
cercava invano di evitare la cascata.
Ove ha buttato la lettera insieme alla pubblicità, ha annodato il sacchetto della
spazzatura e lo ha messo accanto alla porta d’ingresso. È tornato in cucina, ha
preso una calamita dal cassetto più basso e ha appeso la foto sulla porta del
frigorifero, proprio accanto all’esplosione di colori che Tre anni aveva disegnato
per lui mentre tornavano dall’ospedale.

Ove pulisce di nuovo la lapide con la mano, benché abbia già tolto tutta la neve
che si poteva togliere.
«Già. Io, ovviamente, gliel’ho detto che forse volevi startene un po’ in pace,
date le circostanze. Ma questi ficcanaso non mi ascoltano» mugugna, allargando
le braccia davanti alla pietra.
«Ciao, Sonja» dice Parvaneh dietro di lui, salutando la tomba con tanto
entusiasmo che le sue muffole giganti le scivolano quasi via dalle mani.
«Ciaaa!» strilla felice Tre anni.
«Si dice “ciao”» la corregge Sette anni.
«Ciao, Sonja» salutano nell’ordine Patrick, Jimmy, Adrian e Mirsad.
Ove pesta i piedi per scrollarsi via la neve dalle suole delle scarpe e, con un
grugnito, accenna al gatto accanto a sé.
«Sì, be’… il gatto lo conosci.»
La pancia di Parvaneh adesso è così grossa che, quando lei s’inginocchia a
terra con una mano sulla lapide e l’altra appoggiata sul braccio di Patrick, a Ove
ricorda una tartaruga gigante. Non che Ove osi riferirglielo, ovviamente: ci sono
altri modi di passare a miglior vita, Ove lo sa per esperienza, anche se nel suo
caso nessuno sembra funzionare a dovere.
«Questi fiori sono da parte mia, di Patrick e delle bambine» dice Parvaneh,
sorridendo gentile e indicando due rose che Ove ha appena piantato. Poi ne
addita una terza e aggiunge, rivolta alla foto: «E quella è da parte di Anita e
Rune. Ti salutano tanto!».
L’eterogeneo gruppetto comincia ad avviarsi verso il parcheggio, ma
Parvaneh vuole fermarsi ancora qualche minuto davanti alla tomba. Quando Ove
gliene domanda il motivo, lei gli risponde: «Non sono affari tuoi!» con quel
ghigno che fa sempre venir voglia a Ove di darle uno schiaffo. Non una sberla
vera e propria: giusto uno scappellotto, per puntualizzare che non gli va di essere
preso in giro.
Del resto, mettersi a discutere con quella donna è solo una gran fatica,
conclude Ove sbuffando mentre s’incammina verso la Saab.
«Chiacchiere tra ragazze» taglia corto Parvaneh quando, dopo un po’,
raggiunge il parcheggio e si mette al volante. Ove non sa bene cosa ribattere,
perciò decide di lasciar perdere. Sui sedili posteriori, Sette anni aiuta la sorellina
ad allacciarsi la cintura. Jimmy, Mirsad e Patrick, nel frattempo, sono saliti
sull’auto di Adrian. Una Toyota. Di certo non una scelta ottimale per chiunque
sia dotato di un minimo di capacità neuronali, aveva più volte sottolineato Ove
dal concessionario. Ma almeno non era una macchina francese, e Ove era
riuscito a far abbassare il prezzo di listino di quasi ottomila corone,
assicurandosi che il ragazzo avesse anche gli pneumatici invernali compresi
nell’importo. Così, tutto sommato, non c’era da lamentarsi.
Quando Ove lo aveva accompagnato a comprarla, quel moccioso stava
valutando di prendersi una Hyundai: dunque, sarebbe potuta andare peggio.

Mentre rientrano, con grande gioia di Jimmy e delle bambine, si fermano tutti da
McDonald’s. Anche perché Parvaneh deve fare pipì. Soprattutto perché lei deve
fare pipì. Poi tornano nel quartiere, separandosi e andando ognuno a casa
propria. Ove, Mirsad e il gatto salutano Jimmy, Adrian, Parvaneh, Patrick e le
loro figlie, e svoltano l’angolo della rimessa di Ove.
È difficile stabilire da quanto tempo Amel sia lì ad aspettare. Forse, da ore.
Ha la schiena dritta e l’espressione caparbia di un ufficiale di un avamposto
coloniale: come se la sua figura tarchiata fosse scolpita in un grosso tronco, e la
temperatura sotto zero non lo infastidisse minimamente. Tuttavia, quando vede
suo figlio, sposta nervoso il peso del corpo da un piede all’altro.
«Ciao» dice, raddrizzando ulteriormente la schiena.
«Ciao, papà» mormora Mirsad, fermandosi a tre metri di distanza e senza
sapere di preciso cosa fare con le braccia.

Quella sera, Ove cena a casa di Parvaneh e Patrick mentre, nella sua cucina, un
padre e un figlio parlano di delusioni, speranze e virilità in due lingue diverse.
Forse, però, parlano soprattutto di scelte coraggiose. A Sonja sarebbe piaciuto.
Ove lo sa, e gli viene da ridere, ma cerca di trattenersi davanti a Parvaneh.
Prima di andare a letto, Sette anni mette in mano a Ove un foglio su cui c’è
scritto: “Invito alla festa di compleanno”. Ove lo osserva come se fosse l’atto di
un notaio per la cessione di una proprietà.
«Già, già, già. E, naturalmente, bisognerà farti un regalo?» borbotta alla fine.
Sette anni fissa il pavimento e scuote la testa.
«Non devi comprarmi niente. Anche se, in effetti, una cosa la vorrei.»
Ove piega l’invito e lo infila nella tasca posteriore dei pantaloni. Poi si mette
le mani sui fianchi con autorità.
«Cioè?»
«Be’… la mamma dice che è troppo costoso, quindi lascia perdere» risponde
Sette anni senza alzare lo sguardo e scuotendo di nuovo la testa.
Ove le lancia un’occhiata complice, come un criminale che segnali a un altro
criminale che il telefono in cui sta parlando è sotto controllo. La bambina si
guarda attorno nell’ingresso, per accertarsi che né la madre né il padre siano a
portata di orecchio. Poi Ove si abbassa e lei unisce le mani a coppa davanti alla
bocca, sussurrandogli:
«Un iPad.»
Ove rimane di sasso, come se Sette anni gli avesse appena rivelato che
desidera ricevere in regalo un drone.
«È una specie di computer. Dentro ci sono dei programmi speciali per
disegnare. Per bambini!» sussurra lei un po’ più forte.
Nei suoi occhi brilla qualcosa.
Qualcosa che Ove conosce bene.
38
Un uomo che si chiama Ove
e la fine di una storia

Esistono approssimativamente due categorie di persone: quelle che capiscono


quanto siano belli i cavi bianchi, e quelle che non lo capiscono. Jimmy
appartiene alla prima categoria. Ama i cavi bianchi, i telefoni bianchi, gli
schermi del computer bianchi con la frutta morsicata in rilievo sul dorso. In
sostanza, è quel che Ove comprende ascoltandolo blaterare esaltato, durante tutto
il tragitto in auto verso il centro, di cose che chiunque abbia un minimo di
raziocinio dovrebbe trovare straordinariamente noiose. Dopo un po’, Ove
piomba in uno stato meditativo così profondo che le chiacchiere del ciccione gli
arrivano alle orecchie solo come un brusio sommesso.
Ove si è pentito di aver chiesto aiuto a Jimmy nel preciso istante in cui il
grassone è salito sulla Saab con in mano un enorme tramezzino grondante
senape. La situazione non migliora quando, appena entrati nel negozio, Jimmy si
scusa dicendo: «Guardo solo alcuni cavi», e sparisce. «Chi fa da sé fa per tre»
constata Ove, puntando verso il banco. È solo quando Ove sbraita: «Ma
cazzarola, sei completamente lobotomizzato?», rivolto al giovane commesso che
sta cercando di mostrargli l’assortimento dei portatili, che Jimmy attraversa il
negozio e arriva in suo soccorso. In soccorso del commesso, non di Ove.
«Siamo insieme» Jimmy informa il ragazzo, con uno sguardo che funziona
più o meno come una stretta di mano complice per comunicargli: “Non
preoccuparti, sono uno di voi!”.
Il commesso tira un lungo sospiro, non si capisce se di sollievo o di
frustrazione, e indica Ove.
«Cercavo solo di aiutarlo, ma…»
«Ma… mi stai rifilando un sacco di PORCATE, ecco cosa stai facendo!»
strilla subito Ove, senza lasciarlo finire e minacciandolo con la prima cosa che
riesce ad agguantare dal ripiano più vicino.
Non sa esattamente cosa sia, ma assomiglia a una specie di presa a muro
bianca, e comunque trova che sia abbastanza grossa da risultare efficace, se
lanciata addosso a qualcuno. Il giovane guarda Jimmy con quel genere di
tremore agli angoli della bocca che Ove causa così spesso nei suoi interlocutori
che forse sarebbe il caso di dare il suo nome a una sindrome ad hoc.
«Non intendeva niente di male, amico» tenta Jimmy, allegro.
«Stavo cercando di mostrargli un MacBook, e lui ha iniziato a chiedermi che
macchina ho» sbotta il commesso con un’espressione ferita.
«È una domanda legittima» borbotta Ove, annuendo deciso verso Jimmy.
«Io non ce l’ho la macchina! La trovo inutile e voglio spostarmi in modo
ecocompatibile» risponde il commesso in tono stizzito.
Ove guarda Jimmy e apre le braccia, come a dire che quello spiega tutto.
«Con questa persona non si può ragionare» dichiara, evidentemente
aspettandosi un consenso immediato.
Jimmy posa una mano consolatoria sulla spalla del commesso e invita Ove a
“rilassarsi un attimo”. Nient’affatto rilassato, Ove ribatte di essere “calmo come
un orso in letargo”.
«E poi, dove cavolo sei stato fino a ora?» aggiunge con un sibilo.
«Eh? Io? Stavo dando un’occhiata a qualche nuovo schermo, ecco» dice
Jimmy.
«Devi comprarti uno schermo?» chiede Ove.
«No» risponde Jimmy, e lo guarda come se fosse una domanda davvero
strana. Un po’ come quando Sonja diceva: “Ma che cosa c’entra?” quando Ove
le chiedeva se avesse proprio bisogno di un altro paio di scarpe.
Il commesso fa per andarsene, ma Ove allunga subito una gamba,
bloccandolo.
«E tu dove vai? Non abbiamo mica finito!»
Il giovane pare profondamente seccato. Jimmy gli dà alcune pacche
incoraggianti sulla spalla.
«Amico, Ove vorrebbe comprare un iPad. Ce ne fai vedere qualcuno?»
Il commesso fissa Ove piccato. Poi guarda Jimmy. Infine osserva con la coda
dell’occhio il banco, davanti al quale, fino a poco prima, Ove ha gridato di non
volere “nessun cavolo di computer senza tastiera”. Sospira e si fa forza.
«Ookaay… Allora, torniamo al banco. Che modello volete? Da sedici,
trentadue o sessantaquattro giga?»
Ove gli lancia un’occhiataccia, facendogli capire che deve piantarla di
pronunciare combinazioni di consonanti a caso e parole inventate davanti alle
persone serie.
«Ci sono diversi modelli, con memorie differenti» traduce Jimmy, come se
fosse un interprete dell’ufficio immigrazione.
«E, ovviamente, quelli con memoria più capiente costano un mucchio di soldi
in più» sbuffa Ove di rimando.
Jimmy fa un cenno di assenso e si rivolge al commesso.
«Credo che Ove voglia saperne un po’ di più sulle differenze tra i vari
modelli.»
Il commesso geme.
«Almeno, sapete se ne volete uno normale, oppure un 3G ?»
Jimmy si volta verso Ove.
«Lo userà principalmente a casa, o vuol portarselo anche in giro?»
Ove alza il suo indice-torcia e lo punta dritto verso il commesso.
«Ascoltami bene. Lei deve avere il MIGLIORE! Intesi?»
Il ragazzo indietreggia inquieto. Jimmy ridacchia e apre le braccia enormi,
come se si preparasse a un megabbraccio.
«Amico… Ove vuole il migliore, e basta!»
Un paio di minuti dopo, Ove afferra il sacchetto con la confezione dell’iPad
alla cassa, mugugna qualcosa come: «Settemilanovecentonovantacinque corone!
E non è inclusa neanche una schifosa tastiera!» e «Ladri e banditi!», con
particolare enfasi sulla parola “ladri”. Poi, marcia verso la porta. Jimmy si
trattiene un attimo soprappensiero e osserva con l’acquolina in bocca la parete
dietro il commesso.
«Senti, già che sono qui… fammi vedere un cavo.»
«Mm. Che tipo di cavo?» ansima il commesso, prostrato.
Jimmy si sporge in avanti, fregandosi le mani tutto contento.
«Cos’hai da propormi?»

Così accade che, quella sera, Sette anni, che in verità di anni ora ne ha otto,
riceve in regalo un iPad da Ove. E un cavo da Jimmy.
«Io ne ho uno identico, e sono strasoddisfatto!» le spiega Jimmy entusiasta,
indicando la confezione.
In piedi nell’ingresso, Otto anni non sa di preciso che farsene del cavo e di
quell’informazione, così abbozza solo un sorrisino e dice: «Bello… Grazie».
Jimmy annuisce giulivo.
«Be’… c’è qualcosa da mettere sotto i denti?» chiede subito dopo.
Otto anni indica il soggiorno affollato. Sul tavolo, al centro della stanza, c’è
una torta con otto candeline accese, verso la quale Jimmy si dirige senza
esitazione. Otto anni rimane nell’ingresso ad accarezzare incantata la scatola
dell’iPad, come se non osasse davvero credere di averlo tra le mani. Ove si
abbassa verso di lei.
«Mi sentivo sempre così ogni volta che compravo una macchina nuova» dice
piano.
Lei si guarda attorno per controllare che nessuno li veda, poi sorride e lo
abbraccia.
«Grazie, nonno!» sussurra e corre nella sua stanza.
Ove resta lì in silenzio e si sfrega i calli sul palmo di una mano con la chiave
di casa. Patrick si avvicina sulle stampelle, in cerca di sua figlia. Evidentemente,
ha ricevuto il compito più ingrato della serata: convincerla che è più divertente
starsene in soggiorno con indosso il suo vestitino a mangiare la torta insieme a
un mucchio di adulti noiosi, invece che scaricare brani musicali e app per il suo
nuovo iPad in pigiama nella sua stanza. Ove si trattiene nell’ingresso senza
togliersi la giacca, e fissa il pavimento per quelli che devono essere dieci minuti
buoni.
«Stai bene?»
La voce di Parvaneh lo scuote dal suo torpore. È sulla soglia del soggiorno e
tiene entrambe le mani sulla pancia enorme, come se mantenesse in equilibrio un
grosso cesto di panni da lavare. Ove solleva il capo e la osserva con lo sguardo
leggermente offuscato.
«Sì… sì, cazzarola, certo che sì.»
«Vuoi venire a mangiare la torta?»
«Nah. Non mi piacciono le torte. Vado a fare un giro con il gatto.»
Parvaneh lo scruta con i suoi grandi occhi neri. Ultimamente lo fa spesso, un
po’ come se fosse invasa da brutti presentimenti, e la cosa lo mette a disagio.
«Okay» commenta lei, senza troppa convinzione.
«Domani facciamo qualche esercitazione di guida? Vengo da te alle otto?» gli
propone.
Ove annuisce. Il gatto li raggiunge nell’ingresso con i baffi sporchi di torta.
«Hai finito?» gli sibila Ove e, dato che l’animale sembra rivolgergli un cenno
di approvazione, Ove lancia una rapida occhiata a Parvaneh, fa ballare un po’ le
chiavi in mano e conferma a bassa voce: «Domani alle otto, allora».
Quando Ove e il gatto escono sul vialetto pedonale, è ormai sera inoltrata e
l’intero quartiere è immerso in una fitta tenebra invernale, ma le risa e la musica
continuano a diffondersi dalla festa a casa di Parvaneh come un ampio manto
caldo tra le facciate delle villette. “A Sonja sarebbe piaciuto” pensa Ove. Sua
moglie avrebbe senz’altro gradito la trasformazione che la straniera incinta e la
sua sconclusionata famiglia avevano portato nel quartiere: ne avrebbe riso di
gusto, e sa il cielo quanto manchi a Ove la sua risata.
Ove s’incammina verso i garage con il gatto al suo fianco. Sferra calci ai
cartelli. Controlla le porte e abbassa le maniglie. Fa un giro nel parcheggio per
gli ospiti. Dà un’occhiata al locale dei rifiuti. Quando, sempre con il gatto al
seguito, torna indietro e passa davanti alla sua rimessa, vede muoversi qualcuno
accanto alla villetta alla fine della strada, sul lato di Parvaneh e Patrick. Sulle
prime, crede che sia qualche invitato che si sta allontanando da casa loro, ma poi
nota che la figura continua ad aggirarsi intorno all’abitazione deserta dei
differenziatori di spazzatura. A quanto ne sa, quei comunisti devono essere
ancora in Thailandia. Strizza gli occhi, per assicurarsi che le ombre non gli
stiano giocando uno scherzo, e per alcuni istanti, in effetti, non vede più nulla.
Poi, però, proprio quando è sul punto di ammettere che forse la sua vista non è
più quella di un tempo, la figura appare di nuovo. E, dietro di essa, ne
compaiono altre due. Segue il rumore inconfondibile di un martello che colpisce
una finestra coperta con del nastro isolante. È così che si fa per nascondere il
clangore del vetro che va in frantumi. Ove lo sa perfettamente: lo aveva imparato
alla ferrovia, quando dovevano rimuovere i finestrini rotti dei vagoni senza
tagliarsi le dita.
«Ehi! Cosa state facendo?» grida nell’oscurità.
Le figure in lontananza si fermano. Ove sente delle voci.
«Ehi! Dico a voi!» strilla, e corre loro incontro.
Uno dei tizi avanza di alcuni passi nella direzione di Ove, mentre il suo
compare gli urla qualcosa. Ove accelera, caricandoli come un ariete. Fa appena
in tempo a pensare che avrebbe dovuto prendere dalla rimessa un oggetto con
cui difendersi, ma ormai è troppo tardi. Con la coda dell’occhio, scorge il tizio
brandire un arnese lungo e stretto, ma decide di affrontarlo comunque.
In un primo momento, quando sente la fitta al petto, pensa che lo abbiano
assalito da dietro, assestandogli un pugno sulla schiena. Poi, però, la sensazione
di dolore ritorna, più forte, come se una spada gli avesse trapassato il cranio e
trafitto tutto il corpo, per uscirgli dalla pianta dei piedi. Ove boccheggia, ma non
riesce a fare un solo respiro. Poco dopo, crolla come un sacco sulla neve. Ormai
semicosciente, avverte la guancia sfregare contro l’asfalto ghiacciato e sente
qualcosa stringergli l’interno del torace, come un’enorme mano implacabile che
comprima una lattina.
Ove percepisce i passi veloci dei ladri e capisce che se la stanno squagliando.
Non sa quanto tempo rimanga lì così, ma il dolore alla testa continua, incessante
e insopportabile: è come se una serie di luci al neon gli esplodesse nel cervello.
Vorrebbe gridare, ma non ha più ossigeno nei polmoni. Sente il sangue pulsargli
assordante nelle orecchie e alla fine, da molto lontano, avverte la voce di
Parvaneh. La sente avvicinarsi zoppicando sulla neve, il corpo sproporzionato in
equilibrio precario sui piccoli piedi. L’ultima cosa che fa in tempo a pensare,
prima che tutto si faccia nero, è che deve farle promettere di non lasciar entrare
l’ambulanza sul vialetto pedonale.

Il transito è vietato nell’area abitata.


39
Un uomo che si chiama Ove
e la morte

La morte è una cosa curiosa. Viviamo tutta la vita come se non esistesse, ma il
più delle volte è una delle ragioni in assoluto più importanti per vivere. Alcuni di
noi ne diventano consapevoli così in fretta che vivono più intensamente, più
ostinatamente, e in maniera più furiosa. Altri necessitano della sua costante
presenza per sentirsi vivi. Altri ancora finiscono per accomodarsi nella sua sala
d’attesa molto tempo prima che lei abbia annunciato il suo arrivo. La temiamo,
eppure la gran parte di noi teme soprattutto l’eventualità che colpisca qualcun
altro, qualcuno a cui vogliamo bene. Perché la più grande paura legata alla morte
è che ci passi accanto. Che si prenda chi amiamo. E che ci lasci soli.
La gente aveva sempre detto che Ove era “inacidito”. Ma Ove non era affatto
inacidito, cazzarola. Semplicemente, non era uno che andava in giro ridendo in
continuazione. Bisognava essere trattati come criminali solo per questo? Ove
non credeva. Ma qualcosa si rompe, in un uomo, quando seppellisce l’unica
persona che lo abbia mai capito. Non c’è tempo che guarisca quel genere di
ferite.
Il tempo è una cosa curiosa. La maggior parte di noi vive con lo sguardo
sempre rivolto in avanti. Giorni, settimane, anni. A un certo punto, tuttavia, ci si
rende conto di avere raggiunto l’età in cui c’è da guardare più indietro che
avanti. E quando non si ha più molto tempo davanti a sé, bisogna trovare altre
cose per cui vivere. I ricordi, magari. I pomeriggi al sole mano nella mano con
chi si ama. Il profumo delle aiuole fiorite. Le domeniche al bar. I nipoti, forse:
con loro, c’è modo di vivere per il futuro di qualcun altro. Non era che Ove
avesse smesso di vivere, quando Sonja se n’era andata. Semplicemente, aveva
smesso di guardare avanti.
Il dolore è una cosa curiosa.
Quando, in ospedale, si sono rifiutati di lasciar entrare Parvaneh nella sala
operatoria dove avevano portato Ove d’urgenza, per fermarla è stato necessario
che Patrick, Jimmy, Anders, Adrian, Mirsad e ben quattro infermiere
ingaggiassero con lei una lotta furibonda, agguantandole le mani che dimenava
in continuazione. Un medico l’ha pregata di ricordarsi che era incinta,
esortandola a sedersi e a “darsi una calmata”: Parvaneh gli ha rovesciato una
panca sul piede. Un altro medico è uscito da una porta con un’espressione
clinicamente neutra sul volto, comunicando in tono sbrigativo che dovevano
“prepararsi al peggio”: lei ha lanciato un urlo straziante ed è crollata a terra,
come un vaso di porcellana andato in frantumi, prendendosi il viso tra le mani.
L’amore è una cosa curiosa: ci coglie sempre di sorpresa.
Sono le tre e mezzo del mattino quando un’infermiera esce a chiamarla.
Parvaneh non ha voluto allontanarsi dalla sala d’aspetto, nonostante tutti le
abbiano detto che era meglio tornare a casa. Tutti tranne Patrick, che la conosce
bene, e che l’ha vista arrabbiata un numero sufficiente di volte per sapere che
non è una donna a cui si impartiscono ordini impunemente, incinta o non incinta
che sia. Quando entra nella stanzetta in fondo al corridoio, ha i capelli tutti
arruffati, e gli occhi iniettati di sangue e circondati da rivoli di mascara. Sembra
così debole che un’infermiera accorre in suo aiuto, per impedirle di stramazzare
sulla soglia. Parvaneh si sostiene allo stipite, fa un profondo sospiro, abbozza un
sorriso fiacco all’infermiera e conferma che va tutto bene. Poi rimane immobile
un istante, come se per la prima volta cercasse di assimilare la portata di quanto
è accaduto quella notte.
Alla fine si avvicina al letto, si ferma davanti a Ove con gli occhi che si
riempiono nuovamente di lacrime e gli dà una pacca sul braccio.
«Brutto STRONZO!» sussurra, dandogli una seconda pacca. «Tu NON puoi
mica morirmi così, hai capito?!» sibila.
Le dita di una mano di Ove si muovono in modo appena percettibile:
Parvaneh gliele afferra, se le appoggia sulla fronte e ricomincia a piangere.
«Cerca di darti una regolata, donna» bofonchia Ove con la voce impastata.
Per tutta risposta, lei gli dà una terza pacca sul braccio. E lui decide di
starsene zitto per un po’. Quando, però, vede Parvaneh afflosciarsi sulla sedia
con un misto di collera, compassione e puro terrore nei grandi occhi neri, solleva
l’altra mano e le accarezza la testa. Ha il naso intubato e, sotto la coperta, il petto
si alza e si abbassa con fatica, come se a ogni respiro provasse una fitta di
dolore. Le sue parole suonano come un mormorio indistinto.
«Non avrai mica fatto entrare nel quartiere quegli idioti con l’ambulanza,
eh?»
Passano quaranta minuti prima che una delle infermiere osi affacciarsi di
nuovo nella stanza. Poco dopo entra un giovane medico, probabilmente fresco di
laurea, con gli occhiali e gli zoccoli di plastica. Appare talmente a disagio che
Ove ha l’impressione, come dirà più tardi a Parvaneh, che abbia una stecca
infilata nel sedere. Si ferma accanto al letto e legge distrattamente dal foglio che
ha in mano.
«Parr… man?»
«Parvaneh» lo corregge lei.
L’informazione gli entra da un orecchio per uscirgli dall’altro.
«Dunque, lei è indicata qui come “parente più prossimo”» dice, dando una
rapida occhiata prima alla trentenne di evidenti origini mediorientali sulla sedia e
poi al cinquantanovenne di evidenti origini non mediorientali nel
letto.
Nessuno dei due accenna minimamente a spiegare la faccenda. Parvaneh si
limita a pizzicare Ove, ridacchiando: «Ooh! Parente più prossimo!», e Ove
borbotta infastidito: «Chiudi il becco». Allora, il medico sospira e prosegue.
«Il paziente presenta una malformazione cardiaca…» dichiara inespressivo,
aggiungendo una serie di termini tecnici che nessun individuo con meno di dieci
anni di studi di medicina alle spalle, o che non intrattenga una relazione
altamente patologica con le serie mediche televisive, potrebbe comprendere.
Quando Parvaneh lo guarda con una lunga sfilza di punti interrogativi
stampata in fronte, il medico sospira di nuovo, alla maniera in cui spesso
sospirano i giovani medici con gli occhiali e gli zoccoli di plastica, e
verosimilmente una stecca infilata nel sedere, se sono costretti ad affrontare
persone che non hanno nemmeno la buona creanza di laurearsi in medicina
prima di mettere piede in ospedale.
«Il suo cuore è troppo grande» semplifica rozzamente il dottore.
Parvaneh lo osserva a lungo. Poi sposta lo sguardo su Ove. Quindi riprende a
fissare il medico, come se, da un momento all’altro, si aspettasse di vederlo
dimenare le mani in aria ed esclamare: “Scherzavo!”.
Quello, però, rimane tutto d’un pezzo, e allora lei inizia a ridere. Dapprima,
sembra che stia tossicchiando, o tentando di trattenere degli starnuti, ma nel giro
di pochi secondi scoppia in una irrefrenabile risata isterica, che riempie la stanza
e si riversa nel corridoio, spingendo le infermiere a infilare la testa dentro la
porta socchiusa per capire cosa stia succedendo. Parvaneh ride così tanto che
deve tenersi al bordo del letto, e agitarsi una mano davanti al viso per farsi aria.
Sembra che non riesca più a smettere.
«Vede con chi ho a che fare? Eh?» commenta Ove, roteando gli occhi in
direzione del dottore, mentre Parvaneh affonda il viso in uno dei guanciali in
preda a vere e proprie convulsioni.
È evidente che, nel corso del suo lungo iter accademico, il medico non ha
frequentato un seminario per imparare a gestire casi simili. È chiaramente in
imbarazzo. Dopo un po’, si schiarisce la gola impaziente e picchia un piede sul
pavimento per, se così si può dire, ricordare loro la sua autorità. Alla fine,
Parvaneh si calma abbastanza da esclamare: «Il cuore di Ove è troppo grande…
C’è da mooorire dal ridere!».
«Sono io che muoio, cazzarola!» obietta Ove.
Parvaneh scrolla il capo e rivolge un sorriso perplesso al medico.
«Tutto qui?»
Il medico abbassa gli occhi sul foglio.
«Con i farmaci, possiamo tenere il problema sotto controllo. Ma non ci sono
garanzie, in questi casi. Può andare avanti mesi, o anche anni.»
Parvaneh lo mette a tacere con un gesto della mano.
«Non c’è da preoccuparsi» dice, sempre sorridendo. «Ove non è
assolutamente CAPACE di morire!»
Ove sembra molto risentito.

Quattro giorni più tardi, Ove avanza zoppicando sulla neve davanti a casa sua. Si
regge con un braccio a Parvaneh e con l’altro a Patrick. Una donna incinta al
nono mese e un imbranato con le stampelle: “Proprio un bel sostegno” pensa, ma
evita di dirlo ad alta voce. Parvaneh se l’è già presa perché, qualche minuto
prima, Ove si è rifiutato di lasciarle fare retromarcia con la Saab tra le villette.
«LO SO, Ove! Okay? Lo SO che il transito è vietato! Se lo dici un’altra volta,
giuro che prendo il tuo cartello del cazzo e te lo spacco in testa!» gli ha urlato
lei. Ovviamente, Ove l’ha trovata una reazione un po’ eccessiva.
La neve gli scricchiola sotto le scarpe. La finestra del soggiorno è illuminata e
il gatto gli dà il benvenuto nell’ingresso. Sul tavolo della cucina ci sono dei
disegni.
«Le bambine li hanno fatti per te» dice Parvaneh, posando le chiavi di riserva
nel cestino accanto al telefono.
Quando vede che lo sguardo di Ove si sofferma sulla frase in fondo a uno dei
fogli colorati, è lievemente a disagio.
«Ah! Loro… Scusa, Ove. Non far caso a quel che hanno scritto! Sai com’è.
Mio papà è morto in Iran, e loro non hanno mai avuto un nonn…»
Ove non le presta attenzione: solleva i disegni e apre il cassetto più basso.
«Possono chiamarmi come vogliono. Non sono affari tuoi.»
Prende delle calamite e appende i fogli sulla porta del frigorifero. Quello con
su scritto “Al nonno” lo attacca in cima agli altri. Parvaneh cerca di non
sorridere, ma non ci riesce.
«Smettila di ghignare e prepara il caffè, piuttosto. Vado a prendere gli
scatoloni in soffitta» mugugna Ove strascicando i piedi verso le scale.
Quella sera, Parvaneh e le bambine aiutano Ove a fare pulizia. Avvolgono
ogni oggetto di Sonja nella carta di giornale e ripongono con cura tutti i suoi
vestiti negli scatoloni. Un ricordo alla volta. Alle nove e mezzo, quando gli
scatoloni sono sigillati e le bambine si sono addormentate sul divano di Ove con
le dita sporche d’inchiostro di giornale e la bocca impiastricciata di gelato al
cioccolato, di colpo Parvaneh ghermisce senza alcun riguardo l’avambraccio di
Ove. La sua mano è come una tenaglia di metallo. E quando Ove grida:
«AHIA!», lei ribatte ansimando: «ZITTO!».
Poi, devono precipitarsi di nuovo all’ospedale.

È un maschio.
Epilogo
Un uomo che si chiama Ove
e un epilogo

La vita è una cosa curiosa.

L’inverno diventa primavera e Parvaneh passa l’esame di guida. Ove insegna a


Adrian a cambiare gli pneumatici. Va bene che la canaglia ha già dimostrato la
sua incompetenza acquistando una Toyota, ma, cazzarola, dovrà pur sapersi
cambiare le gomme da sé se vuole combinare qualcosa nella vita, spiega Ove a
Sonja quando le fa visita una domenica di aprile. Poi le mostra le foto del
pargolo di Parvaneh: quattro mesi, e grasso come un cucciolo di foca. Patrick ha
cercato di rifilargli una specie di album fotografico digitale, ma Ove gli ha detto
chiaro e tondo che non sapeva cosa farsene. Così, se ne va in giro con una risma
di stampe A4 , tenute insieme con un elastico. Le mostra a chiunque: persino alla
commessa del fiorista.

La primavera diventa estate e, quando arriva l’autunno, la giornalista, che


indossa sempre una giacca troppo grande, si trasferisce a casa del damerino con
l’Audi. Il furgone del trasloco lo ha guidato Ove: era straconvinto che quegli
imbranati non fossero in grado di fare retromarcia tra le abitazioni senza
distruggergli la cassetta delle lettere, che nel frattempo aveva riparato. Lena,
naturalmente, non crede nel “matrimonio come istituzione”, Ove racconta a sua
moglie con uno sbuffo che rivela tutta la sua disapprovazione. La primavera
successiva, Ove torna sulla tomba e mostra a Sonja l’invito a un matrimonio:
non quello di Lena e Anders, però.

Mirsad è molto elegante nel suo completo nero e trema così tanto per il nervoso
che Parvaneh deve dargli un bicchierino di tequila, prima che entrino in
municipio. Jimmy lo aspetta dentro. Ove è il suo testimone. Si è comprato un
completo nuovo. La festa la fanno nel bar di Amel. Per ben tre volte, l’ometto
tarchiato tenta di iniziare un discorso, ma ha la gola troppo impastata per andare
oltre qualche parola. Comunque, chiama un panino “Jimmy”, e Jimmy dichiara
che quella dedica è il regalo più grandioso che abbia mai ricevuto. Abita ancora
nella casa di sua mamma insieme a Mirsad. L’anno dopo, adottano una bambina.
Jimmy la porta da Anita e Rune per prendere il caffè ogni pomeriggio alle tre,
senza eccezioni.
Rune non migliora. Per intere giornate, è quasi irraggiungibile. Tuttavia, ogni
volta che quella bambina corre in casa sua con le braccia tese verso Anita, sul
viso dell’uomo si dipinge un sorriso euforico. Sempre, senza eccezioni.

Nuove case vengono costruite attorno al piccolo quartiere di villette e, nel giro di
pochi anni, quello che era un sobborgo diventa tutt’uno con la città. Patrick non
impara a usare la scala e, tanto meno, a montarsi i mobili dell’Ikea. Una mattina
si presenta alla porta di Ove con due suoi amici, altrettanto incapaci. Anche loro
fanno i consulenti, e abitano lì vicino. Stanno ristrutturando le loro case: si sono
imbattuti in un problema con le travi di un tramezzo, e non sanno come
risolverlo. Ove, naturalmente, lo sa. Così, borbotta qualcosa che assomiglia a un
“imbecilli” e va a mostrarglielo. Il giorno dopo, si presenta un nuovo vicino. Poi
un altro. E poi un altro ancora. In pochi mesi, Ove ha riparato qualcosa
praticamente in ogni abitazione del quartiere. Ovviamente, non perde occasione
per lamentarsi della totale incompetenza della gente. Quando è da solo sulla
tomba di Sonja, però, capita che mormori con voce cupa: “Non è del tutto
spiacevole avere ancora qualcosa da fare, in fondo”.

Le figlie di Parvaneh compiono gli anni e, prima che Ove possa accorgersene,
Tre anni ha già sei anni. Come se fosse cresciuta così, tutto d’un colpo. Ove
l’accompagna al suo primo giorno di scuola. Lei gli insegna a scrivere le faccine
sorridenti negli SMS , e lui le fa promettere di non rivelare mai a nessuno,
soprattutto a Patrick, che si è comprato un cellulare. Otto anni, che ormai di anni
ne ha dieci, fa il suo primo pigiama party. Il loro fratellino dissemina giocattoli
in ogni angolo della casa di Ove. Ove gli costruisce uno stagno in giardino, ma,
quando qualcuno osa chiamarlo “stagno”, Ove sbotta che: «Cazzarola, è una
piscina!». Anders viene nominato presidente dell’associazione dei proprietari.
Parvaneh compra un nuovo tosaerba per tagliare il prato dietro le case di Ove e
Rune.
Le estati diventano autunni, e gli autunni inverni e, una gelida domenica
mattina di novembre, quasi quattro anni esatti dopo che Patrick ha distrutto la
cassetta delle lettere di Ove facendo retromarcia con il rimorchio, Parvaneh si
sveglia di soprassalto, come se qualcuno le avesse posato una mano ghiacciata
sulla fronte. Si alza dal letto, guarda fuori dalla finestra della camera, e controlla
l’orologio. Sono le otto e un quarto. Davanti alla casa di Ove la neve non è
ancora stata spalata.
Attraversa la stradina di corsa, in vestaglia e pantofole, gridando il suo nome.
Apre la porta con la chiave di riserva, si precipita in soggiorno, sale le scale
scivolando sulle pantofole bagnate e, con il cuore in gola, spalanca la porta della
stanza di Ove.
Lui sembra immerso in un sonno profondissimo: i suoi lineamenti non sono
mai stati così sereni. Il gatto è sdraiato accanto a lui, e gli appoggia la testolina
sulla mano. Quando vede Parvaneh, si alza lentamente e si accoccola sulle
ginocchia della donna. Siedono insieme sul bordo del letto e Parvaneh continua
ad accarezzare i capelli sottili di Ove fino a quando i paramedici le spiegano, con
parole gentili e gesti cauti, che devono portarlo via. Allora, lei si china in avanti
e gli sussurra all’orecchio: «Salutami tanto Sonja». Poi, prende dal comodino la
grossa busta su cui c’è scritto “A Parvaneh”, e scende le scale.
È piena di carte e documenti: planimetria della villetta, manuale d’istruzioni
del videoregistratore, elenco dei tagliandi della Saab, dati bancari e polizze
assicurative, il numero di telefono dell’avvocato a cui Ove ha dato “le
disposizioni essenziali”. Una vita intera, contenuta in poche pagine ordinate,
pronte per essere infilate in un raccoglitore. L’epilogo di un’esistenza. Sopra
ogni cosa, c’è una lettera indirizzata a lei. Parvaneh si siede al tavolo della
cucina e la apre. Non è lunga, ma i suoi occhi si riempiono di lacrime già alla
prima riga.

Adrian avrà la Saab. Di tutto il resto, ti occuperai tu. Le chiavi di casa le hai. Il
gatto mangia il tonno due volte al giorno: dopo, bisogna farlo uscire perché in
casa non sporca. Rispettalo. In città c’è un avvocato che ha tutti i documenti
della banca, eccetera eccetera. C’è un conto con 11.563.013 corone e 67
centesimi. Roba del padre di Sonja. Il vecchio aveva delle azioni, ed era tirchio
come pochi. Sonja e io non abbiamo mai saputo che cosa farcene. I tuoi figli
avranno un milione ciascuno quando compiranno diciott’anni, e lo stesso vale
per la figlia di Jimmy e Mirsad. Il resto è tuo. Fa’ solo che non se ne occupi
Patrick, cazzarola. A Sonja saresti piaciuta. Non permettere a quegli idioti dei
nuovi vicini di transitare nell’area abitata.
Ove
In calce al foglio, Ove ha scritto in stampatello: NON SEI UN’IDIOTA TOTALE! E
poi ha disegnato una faccina sorridente, come gli aveva insegnato Nasanin.
Nella lettera ci sono chiare istruzioni sul funerale, che non deve
assolutamente essere “un accidenti di messinscena”. Ove non desidera nessuna
cerimonia: vuole essere semplicemente messo sotto terra accanto a Sonja, punto
e basta. “Niente gente. Niente manfrine!” ha scritto chiaro e tondo.

Al funerale si presentano più di trecento persone.

Quando Patrick, Parvaneh e le ragazze arrivano al cimitero, c’è gente lungo tutti
i muri e i viali. Ognuno ha in mano una candela accesa con la scritta
FONDAZIONE SONJA incisa su un lato. Parvaneh ha deciso che i soldi di Ove
finiranno lì, in un fondo di beneficenza per bambini e ragazzi orfani. Ha gli
occhi gonfi per il pianto, e la gola così secca che le sembra di avere urlato in
continuazione per giorni. La luce delle candele, però, le riscalda il cuore. Patrick
osserva la folla che è venuta a prendere commiato da Ove, dà una lieve gomitata
a sua moglie e ridacchia soddisfatto.
«Porca miseria. A Ove avrebbe dato un gran fastidio, eh?»
Allora, Parvaneh scoppia a ridere. Sì, in effetti a Ove avrebbe dato un gran
fastidio.

Quella stessa sera, Parvaneh mostra la casa di Ove e Sonja a una giovane coppia
di sposi. La ragazza è incinta. Quando attraversa le stanze, gli occhi le brillano
come a chi veda dispiegarsi davanti a sé i futuri ricordi d’infanzia dei propri
figli. Suo marito non sembra altrettanto colpito: indossa dei pantaloni da lavoro,
e si aggira dando calci alle porte e al parquet con aria sospettosa. Parvaneh, però,
capisce guardando gli occhi della ragazza che, indipendentemente da quel che
pensa lui, la decisione è già stata presa. Quando il giovane domanda in tono
burbero informazioni su “quel garage” indicato nell’annuncio, Parvaneh lo
scruta da capo a piedi, annuisce e gli chiede che macchina guidi. Per la prima
volta da quando è arrivato, il giovane raddrizza la schiena, abbozza un sorrisino
quasi impercettibile, e la guarda dritto negli occhi con quel genere di orgoglio
indomito che Parvaneh conosce bene.

«Una Saab» risponde.


Ringraziamenti

Jonas Cramby. Perché sei un autore brillante e un vero gentiluomo. Perché hai
scoperto Ove e sei stato il primo a dargli un nome. E perché sei stato così
generoso da permettermi di scrivere il seguito della sua storia.

John Häggblom. Il mio editor. Perché, con intelligenza e precisione, hai


evidenziato tutte le carenze linguistiche del mio manoscritto, consigliandomi i
cambiamenti da apportare. E perché, con pazienza e umiltà, hai chinato la testa
ogni volta che ho lasciato tutto dannatamente uguale.

Rolf Backman. Mio padre. Perché spero di essere il meno possibile diverso da te.
Indice

Il libro
L’autore
L’uomo che metteva in ordine il mondo
1. Un uomo che si chiama Ove compra un computer che non è un computer
2. (Tre settimane prima) Un uomo che si chiama Ove fa un’ispezione del quartiere
3. Un uomo che si chiama Ove fa retromarcia con un rimorchio
4. Un uomo che si chiama Ove si rifiuta di pagare una commissione di tre corone
5. Un uomo che si chiamava Ove
6. Un uomo che si chiama Ove e una bicicletta che deve stare al posto delle biciclette
7. Un uomo che si chiama Ove fissa un gancio con il trapano
8. Un uomo che si chiamava Ove e le orme di suo padre
9. Un uomo che si chiama Ove sfiata un termosifone
10. Un uomo che si chiamava Ove e la casa che si era costruito da sé
11. Un uomo che si chiama Ove e un imbranato che non sa aprire una finestra senza cadere da una scala
12. Un uomo che si chiamava Ove e il giorno che ne ha avuto abbastanza
13. Un uomo che si chiama Ove e un clown che si chiama Beppo
14. Un uomo che si chiamava Ove e una donna su un treno
15. Un uomo che si chiama Ove e un treno che sarà in ritardo
16. Un uomo che si chiamava Ove e un camion in un bosco
17. Un uomo che si chiama Ove e un gatto spelacchiato in un cumulo di neve
18. Un uomo che si chiamava Ove e un gatto che si chiamava Ernest
19. Un uomo che si chiama Ove e un gatto che, quando è arrivato, era già messo male
20. Un uomo che si chiama Ove e un’intrusa
21. Un uomo che si chiamava Ove e posti dove, nei ristoranti, suonano musica straniera
22. Un uomo che si chiama Ove e qualcuno in un garage
23. Un uomo che si chiamava Ove e un pullman che non è mai arrivato a destinazione
24. Un uomo che si chiama Ove e una piccola peste che disegna a colori
25. Un uomo che si chiama Ove e un pezzo di lamiera ondulata
26. Un uomo che si chiama Ove e una società in cui nessuno sa più riparare una bicicletta
27. Un uomo che si chiama Ove e un’esercitazione di guida
28. Un uomo che si chiamava Ove e un uomo che si chiamava Rune
29. Un uomo che si chiama Ove e un finocchio
30. Un uomo che si chiama Ove e una società senza di lui
31. Un uomo che si chiama Ove fa retromarcia con un rimorchio. Di nuovo
32. Un uomo che si chiama Ove non apre un cavolo di ostello
33. Un uomo che si chiama Ove e un giro d’ispezione diverso dal solito
34. Un uomo che si chiama Ove e il ragazzino della casa accanto
35. Un uomo che si chiama Ove e l’incompetenza sociale
36. Un uomo che si chiama Ove e un bicchiere di whisky
37. Un uomo che si chiama Ove e un mucchio di ficcanaso
38. Un uomo che si chiama Ove e la fine di una storia
39. Un uomo che si chiama Ove e la morte
Epilogo. Un uomo che si chiama Ove e un epilogo
Ringraziamenti

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