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Analecta Gregoriana

Cura Pontificiae Universitatis Gregorianae edita

VOL. LXVII
SERIES FACULTATIS PHILOSOPHICAE
Sectio A (n. 6)

STUDI FILOSOFICI
1

intorno

all'" ESISTENZA ", al MO.NDO l..


al TRASCENDENTE

Relozioni lette nello Sezione di Filosofia


del Congresso lnternozionole per il IV Centenorio
della Pontificio Universita Gregoriano

14 -16 ottobre 19 5 3

ROMAE
APUD AEDES UNIVERSITATIS GREGORIANAE
1954

j
IMPRIMI POTEST

Romae, die 2 Maii 1954.

P. PETRUS M. ABELLAN, s. I.
· Rector Universitatis

IMPRIMATUR

Ex Vicariatu Urbis, die 20 Maii 1~54.

t A. T'RAGLIA
Archiep. Caesarien., Vic. gen.

TYPIS PONTIFICIAE UNIVERSITATIS GREGORIANAE - ROMAE


INTRODUZIONE

Durante il convegno di studi organizzato in occasione del


IV Centenario dell'Universita Gregoriana, i numerosi Uditori,
0

ehe con premura seguirono i lavori della sezione filosofica,


espressero a diverse riprese la speranza ehe le lezioni fossero
pubblicate. Volentieri aderiamo al loro desiderio.
Le relazioni o comunicazioni contenute in questo volume
· sono state lette quasi tutte dagli Autori stessi durante il con-
vegno (dal 14 al 16 ottobre 1953). Alcune pero, non potendo
gli Autori intervenire personalmente, ci sono state mandate.
Tutte si riferiscono - phi o meno strettamente - ad uno dei
tre argomenti ehe erano stati proposti come oggetto di studio.
Nella prima parte si prendono le mosse dall'opera di M.
Heidegger per esaminare diverse questioni di ontologia circa
l'ente e l'essere. Heidegger ha aperto una strada verso l'esse-
re, una strada ehe porta fino alle soglie della metafisica, ma
senza varcarle. Si puo pensare ehe il transito sara possibile a
chi rimane fedele ai suoi principi? La differenza ontologiea
ehe eostituisce il eentro del pensiero heideggerian,p, eome do-
vrebbe esser concepita per somministrare un fondamento alla
metaflsica?
La seconda parte si propone di preeisare la natura e il
valore conoscitivo delle scienze positive e di quella parte della
filosofia ehe e in piu diretto contatto con esse, la eosmologia:
questa « filosofia naturale » si deve considerare come una parte
della metafisica? o eome una scienza mista, media tra la meta-
fisica e la fisica, della quale l'oggetto formale sarebbe l'ente
fisico (sensibile o sperimentabile) in quanto ente? Quali sono
il suo metodo e i suoi rapporti con le scienze?
La terza parte f a risaltare quello ehe ha di particolare la
prova dell'esistenza di Dio: nel modo di eonsiderare il suo
punto di partenza ehe e il mondo finito; nel suo tel"mine ehe e
l'Ente infinito: come si giustifica il passaggio dal finito al-
VI INTRODUZIONE

l'infinito? come si arriva· a conoscere il Trascendente come tale?


Che cosa e richiesto nel soggetto conoscente, come disposizione
psicologica, senza la quale egli non darebbe la sua adesione,
perche la prova sarebbe per lui senza efficacia?
Cercare di conoscere il mondo, di conoscere se stesso, per
l'uomo non e soltanto una legittima euriosita, e un bisogno,
una legge di natura, ma insieme un'impresa ehe supera le sue
forze e della quale non viene mai a capo. Il p~oblema del mon-
do, il problema dell'uomo in fine dei conti e lo stesso ehe il
problema di Dio, di Colui ehe si deve sempre cercare, anche
quando si e trovato. Questa e la scusa degli studiosi ehe sem-
pre .di nuovo si pongono, per penetrare un po' piu avanti, que-
sti problemi perenni.
INDICE
PAG.
lntroduzione V

Filosofia esistenziale e filosofia dell'essere

I. La posizione della fllosofla d,i M. Heidegger di fronte


a1 problema metaflsico (R. P. N. PICARO 0. F. M.) 3
II. 11 problema di Dio nel pensiero di Heidegger (~ P.
C. FABRO C. P. S.) 17
III. A propos de la verite. 1U..1]0E1a (R. P. G. DucoIN 'S. 1.) 31
IV. La conception existentialiste de la verite: confronta-
tion avec la doctrine traditionnelle (R. P. A. DE Vos O.P.) 35
V. Wahrheit und Seinsdenken bei Heidegger (R. P. A. NA-
BER S. 1.) 45
VI. Philosophie als ontologisches Geschehen (R. P. J. B.
LoTZ S. 1.) 59
VII. Das Grundproblem Heideggers und Hegels (R. P. E. Co-
. RETH S. 1.) 81
VIII. La abstracci6n del ser y el Existencialismo (R. P. SA.LV.
GOMEZ NOGALES s. 1.) 91
IX. Provisorischer Atheismus (.ß. D. M. REDING) 123
X. La nozione di possibilita nell'esistenzialismo di Abba-
gnano (R. D. G. GIANNINI) • 131
XI. Histoire et metaphysique (R. P. A. MARC S. 1.) • 139

II

Problemi gnoseologici di cosmologia

1. Die Methode der Kosmologie (R. P. B. TuuM 0. S. B.) 159


II. Les scien-ces positives et les trois sections de la cosmo-
logie (R. P. G. lsAYE S. 1.) • 173
III. Metodo e struttura della flsica (R. D. R. MAs1) • 185
IV. Fisica, cosmologia, metaflsica (R. P. F. SELVAGGI S. I.) 195
VIII INDICE

PAG,
V. Filosofia perenne e flsica moderna (R. P. M. VmAN6 S. 1.) 203
VI. De multitudine inflnita principiorum necessariorum
(R. P. P. HOENEN S. 1.) . 209
VII. Biologische Probleme höherer Ordnung im Lichte des
ontologischen Aktualismus und Symbolismus (C. D.
H. ANDRE) 219
VIII. La vitesse grandeur qualitative comportant un maximum
et la theorie de Ia relativite (R. P. J. ABELE S. I.) 231

III

Scienza dell'Ente trascendente

I. Le caractere special de la preuve de Dieu (,R. D. L. DE


ßAEYMAEKER) 243
II. De transcendentia in probatione existentiae Dei (R. P.
Jos. DEFEVER s. 1.) • 257
III. Considerationes quaedam de indole propria probationis
Dei (R. P. W. BRUGGER S. 1.) • 265
IV. Semplicita e compJ.essita nella dimostrazione dell'esi-
stenza di Dio (.ß. P. C. GIACON S. 1.) • 273
V. Der philosophische Gottesbeweis und die Phänomenolo-
gie der Religion (R. D. B. WELTE) 283
VI. ·Conditiones demonstrationis metaphysicae existentiae
Dei secundum P. J. Olivi (R. P. ADRIANO A Kruzov-
LJAN 0. F. M. Cap.) 305
VII. The special characteristic of the Scotistic proof that
God exists (R. P. Jos. OwENs, C. SS. R.) 311
VIII. L'inquietudine psicologica nelle prove tomiste delJ'esi-
stenza di Dio (R. D. L. BOGLIOLO S. D. B.) 329
IX. Desinteressement et transcendance (R. P. R. ARNou S. 1.) 343
P ABTE PRIMA.

Fllosofla Eslstenzlale
e Fllosofla dell' Essere

1 - Stadl fllo•oflcl
I.

R. P. NOVATUS PICARO, O.F.M.


PaOFBSSORE NEL PoNT. ATENEO « ANTONIANUM >

LA POSIZIONE DELLA FILOSOFIA DI M. HEIDEGGER


DI FRONTE AL PROBLEMA METAFISICO

La filosofla di Heidegger, oggi, non puo essere una risposta al


problema dell'essere, ma soltanto ,uno sforzo per intendere questo
problem!l adeguatamente. Quanto piu diventa tematiea, negli serit-
ti dal 1943 in poi, la questione del superamento della metaflsiea
tradizionale (e eon eio anehe della logiea e della eriteriologia) e
del ritorno all'essere, - superamento e ritorno riehiesti dalla ten-
sione onto-ontologiea negli enti - tanto pili urgentemente lo di-
venta anche la rieerea di un nuovo e pili proporzionato metodo eo-
gitativo-eognitivo ehe permetta di penetrare al fondamento della
metaflsica.
La speeulazione ontologieo-metafisica di Heid. si muove nel
eampo della problemätiea della verita traseendentale dell'essere
quale prineipio della fondazione e intelligibilita degli enti o della
realta. Nell'ente si manifesta la verita dell'essere, ma solo parzial-
mente, solo un raggio di essa, mai in tutta la sua pienezza, poiehe,
essa, tuttavia, si sottrae e si naseonde anehe. La manifestazione
della verita dell'essere avviene sempre solo eome dialettica di verita
e non-verita, di svelamento e naseondimento. L'ideale della super-
metaflsiea, da Heid. intentata, anzi, l'esigenza di essa per potersi
presentare eome assolutamente impegnativa nelle sue affermazio-
ni sarebbe appunto il totale svelamento della verita dell'essere.
Davide flume, alla fine del suo saggio sull'immortalita dell'a-
nima, per una fondazione apodittiea di affermazioni metafisiehe
esige « una nuova speeie di logiea, e nuove facolta dello spiritö
ehe ci rendano eapaei di eomprendere questa logiea > : questa e
esattamente la situazione fllosofiea in eui Heidegger oggi si trova,
se le « affermazioni metaflsiehe > s'intendono eome esposizione del
problema ontologico-metafisico nei suoi veri termini e eome eompi-
to di ereare le eondizioni eogitative singolari, richieste dal ten-
tativo di un progetto di una metafisiea « vera >, in opposizione
a qualsiasi metafisiea soltanto « ontiea >, quali furono tutte le me-
taflsiche da Platone in poi. Tutti gli seritti di Heidegger dell'ul-
' NOVATUS PICARO O. F. M.

timo decennio, sotto vari aspetti, esprimono e circoscrivono essen-


zialmente questa problematica: la necessita del ritorno all'esssere
adeguatamente aceertato, invece ehe all'ente, e con cio il proble-
ma del trapasso dell'e11te nel ritorno al fondamento vero e proprio
della metaflsica.
Per la sol-uzione di questo problema e assolutamente insuf-
ficiente, perche non corrispondente, un prolungamento, oltre l'en-
te dei metodi cognitivi possibili e utili nel campo ontico (indu-
zione, reduzione, generalizzazione, analogia etc.), ma si richiede
una nuova c apertura > ehe ci lasci entrare in una nuova dimen-
sione sia dell'essere sia del pensiero, con strutture completamente
diverse da quelle dell'ordine ontico. II problema di ogni metaflsi-
ca, cioe il problema della possibilita della « resoluzione > assoluta
e totale degli enti, quindi, non puo essere risolto ne in termini
di pura logica, ne per via ascensiva ( prendendo come punto di par-
tenza gli enti per raggiungere l'essere), ma soltanto per via descen-
siva. II punto di partenza di questo processo, cioe l'essere, dev'es-
sere raggiunto per un'esperienza cogitativa del tutto particolare.
Un nuovo metodo, dunque. Ma, questo nuovo metodo richiesto
non puo essere una via per la quale si possa incedere e procedere
secondo principi metodici determinati e stabiliti a priori; cioe non
si puo e non si deve, mediante un metodo predeterminato, sem-
plicemente l'essere, il compito del pensare, inserire quasi a prio-
ri in un ambito gia logicamente e categorialmente determinato. La
conseguenza sarebbe una deourtazione perspettivistica dell'essere,
cioe proprio del compito del pensare. Pensare, invece, dev'essere
apertura incondizionata nel lasciare manifestarsi l'essere stesso.
E l'essere stesso, quando e nella misura in cui si aprira o uscira
dal suo nascondimento, sara poi il fattore determinante e il cri-
terio per il nuovo e corrispondente metodo cognitivo. I metodi filo-
soflco-metafisici communemente in uso presso i fllosofl, secondo
Heidegger, hanno un orientamento ontico e quindi valgono soltanto
per l'ordine degli enti. E sarebbe un'illusione, con conseguenze
tragiche- per la metaflsica, il tentare o l'osare restringere la lo-
gica dell' Assoluto ad una logica degli enti. Come lo Schopenhauer
gi,ustamente osserva, il fllosofo non procede secondo un metodo sta-
bilito in anticipo, cioe stabilito prima della piena conquista del-
l'oggetto dell'indagine fllosoflca, appunto perche cio signiflcherebbe
gia una decurtazione, cÖartazione, delimitazione dell'oggetto da con-
quistarsi (si pensi p. es. alle conseguenze del metodo matematico,
razionalistico etc. per la metaflsica).
I predetti metodi, in fondo, sono deficienti perche presuppon-
gono gia una scissione tra essere, e pensare o conoscere. Invece,
LA POSIZIONE DELLA PILOSOFIA DI M. HEIDEOGER
'
la metafisiea deve retroeedere, e stabilire il suo punto di parten-
za o la sua base in un punto dove questa scissione non e aneora
avvenuta, e dove i due elementi dualistieamente separati si tro-
vano aneora uniti in una genuina, originaria unita. Solo il ritro-
vamento di questo punto potra garantire una eonquista autentiea
.dell'essere ,e, eon eil>, degli enti. Husserl. aveva pure questa esi-
genza quando postulava il ritorno alle eose stesse per liberare la
eonoseenza della realta dalla subordinazione di essa alla ratio do-
minatriee; ma man eo ad essa perehe, in ultima analisi, rimase
liel eampo delle eose meramente presentatisi, nel eampo della de-
serizione strutturale. Heid. radicalizza aneora questo programma
metodieo Husserliano, esigendo il ritorno non alle sole eose, ma
all'esse ip&1um.
La filosofia non eomanda alla realta seeondo le pretese di una
logiea, ma ha da ubbidirle e da accettarla, e quindi ha, con la mas-
sima cura, da eliminare ogni ostaeolo ehe potrebbe sbarrare la
piena visione della realta o ehe potrebbe impedire il manifestarsi
della verita di essa.
II problema della metafisiea e essenzialmente il problema del
pensare, inteso non solo eome strumento di un coneettuale e razio-
nale afferrare la realta ( eioe eome facultas animae), ma piuttosto
e primieramente eome manifestazione o meglio come avvenimento
(Ereignis) dell'essere nel senso del suo svelamento; il pensare,
cioe, considerato non tanto nella sua direzione verso gli enti e
l'essere o nella sua traseendenza rispetto ad essi (questione gno-
seologiea), quanto nel suo essere determinato o fondato nel e per
l'essere stesso. La questione gnoseologiea e secondaria, eioe essa
puo essere determinata • e risolta solo dopo ehe sia determinato e
risolto il problema della fondazione ontologica del pensare. Ed e
prineipalmente sotto questo aspetto ehe Heidegger tenta di pro-
spettare un nuovo orientamento.
Va notato ehe negli scritti di Heid. dell'ultimo deeennio non
si osserva uno sviluppo sistematico ed una evoluzione progressiva
dei suoi problemi; questo sarebbe un filosofare intellettualistico
ehe egli respinge. Ma nei diversi scritti egli tratta sempre le me-
desime questioni, con spesso nuove formulazioni, eon i punti di
partenza diversi, con qualche modifica dell'angulo visuale, ma sen-
za un vero progresso nei punti sostanziali.
Cosi al suo problema fondamentale egli ha dedicato, l'anno
scorso, un piccolo scritto dal titolo Was heisst Denken? 1 ehe, oltre

1-M. HB1DBOOBR, Was heisst Denken? in: Merkur. Deutsche Zeitschrift för
Europäisches Denken, 1962 (VI), pag. 601-611.
6 NOVATUS PICARD O. F. M.

a dare ,una viva impressione del suo caratteristico modo di filo-


sofare, ottimamente circonscrive i termini in cui l' Autore oggi ve-
de il problema del pensare metafisico, e percio ritengo opportuno
di servirmene come base per questa relazione. Questo scritto, come
tutti gli altri, non da una risposta, cioe non risolve il problema,
ma lo espone e lo esplicita perseguendone le intime e piu nascoste
radicazioni. E con cio cerca di indicare quale dovrebbe, rispettiva-
mente potrebbe essere la vera prestazione del pensare, non nel sen-
so di quel ehe comunemente si chiama riflessione o pensiero scien-
tifico, ma nel senso del pensiero essenziale.
Per comprendere il significato, la tendenza e insieme il limite
di queste non facili considerazioni ritengo opportuno, prima di dar-
ne una sintesi, di caratterizzare brevemente la presa di posizione
di Heidegger riguardo alla metafisica occidentale, nonche la co-
sidetta differenza ontologica come base e criterio di quella presa
di posizione e anche della particolare concezione del pensare. Si
puo dire, anzi, ehe questa differenza ontologica costituisce il pre-
supposto fondamentale o meglio il centro della problematicita Hei-
deggeriana in quanto da qui sia la posizione di fronte alla meta-
fisica, sia l'esigenza di un pensare trans-metafisico conseguono co-
me corollari.
In un suo trattato sul Nietzsche, e anche altrove, Heidegger
sintetizza il suo giudizio sulla metafisica in questa condanna: « Nel-
la sua essenza ... la metafisica e nichilismo ». E lo e perche ad essa
metafisica restano nascosti sia il suo proprio sustrato e fondamento,
sia la sua essenza ontologica, e perche essa malgrado ogni pretesa
metafisica nel suo pensare concettuale-rappresentativo e orientata
soltanto verso gli enti e la costituzione e fenomenalita ontica; ri-
spettivamente, soltanto questi sono il suo fondamento e il suo ve-
ro campo. Per conseguenza, la metafisica considera la comprensio-
ne degli enti e della loro verita come la verita dell'essere come
tale, e quindi pretende, nel suo pensare, per cosi dire di ammini-
strare il -rapporto fondante a questo essere. In questa pretesa, poi,
e obliato il reale nascondimento (Verborgenheit) dell'essere mede-
simo. La metafisica non se ne cura, percio e nichilismo ontologico .
.Questo oblio dell'essere caratterizza la metafisica occidentale da
Platone e Aristotele fino a Nietzsche. « Nessun pensatore, finora,
ha mai pensato l'essere », dichiara Heideg. perentoriamente.
L'errore ontologico fondamentale di questa metafisica secondo
Heidegger, dunque, consiste nell'aver preso l'ente e la sua « entita »
(Seiendheit, etantite) per I'essere come tale, cioe nel non aver
visto la fondamentale differenza ehe vige tra ente e essere. Cosi,
la metafisica s'e sbarrata la visione della sua vera base scambiando
LA POSIZIONE DELLA FILOSOFIA DI M, HEIDEGGER 7

le affermazioni meramel!,te ontiche per ontologico-metafisiche, e per


conseguenza s'e preclusa la via e l'accesso al suo vero fondamento.
Donde l'impossibilita di una soluzione del problema della verita,
il disorientamento e la dissoluzione del pensiero metafisico alla
fine dell'« epoca Greca », denunciati drammaticamente dal Nietzsche.
11 ·superamento di questa metafisica ehe Heidegger esige deve quin-
di, eome punto di partenza, prendere proprio quell'elemento fon-
damentale ehe, perche trascurato e dimenticato, la porto alla ro-
vina: la differenza ontologica.
Nei vari tentativi suecessivi di organizzare la sua speculazio-
ne intorno all'essere, Heidegger nella prima redazione della terza
parte (µ.on pubblicata) del primo volume di Sein und Zeit (la quale
parte, dal titolo Zeit und Sein, avrebbe dovuto invertire l'indagine
uel senso di una eonsiderazione procedente non phi dal Dasein,
ma däl Sein selbst, dall'essere) tento di distinguere una tripliee
differenza ·
a) la differenza traseendentale o ontologica nel senso stret-
to: la differenza tra l'ente e la sua « entita » ( Seiendheit; cioe il
modQ entitativo specifieo dell'ente);
b) la differenza quasi-trascendente (transzendenzhaft) o on-
tologica nel senso largo: la differenza tra l'ente e la sua entita da
una parte e l'essere stesso (Sein selbst) dall'altra parte;
c) la differenza traseendente o teologica nel senso stretto;
la differenza tra Dio e ente-entita-essere. Questa differenza fu poi
da Heidegger abbandonata come filosoficamente irrealizzabile 2 •
La struttura dialettiea degli enti, e specialmente del Dasein,
come luogo o zona dello svelamento dell'essere e, nello stesso tem-
po, del suo naseondimento; eome insistenza, nel senso della sua
inevitabile concatenazione -col mondo degli enti, e, nello stesso tem-
po, come ek-sistenza in quanto inevitabilmente si protende oltre
gli enti verso l'essere naseosto; questa tensione onto-ontologica, ehe
si manifesta anche nel tentativo di eonquista della verita ehe sem-
pre si sottrae, costituisce la ragione per cui, negli scritti dal 1943
in poi, metafisieamente rilevante e fondamentale diventa la seeon-
da differenza ( chiamata oggi semplicemente « ontologica »), in quan-
to essa rivela la vera dimensione dell'ontologieo: cioe la differen-
za tra gli entj, e il principio ( Grund) della loro eostituzione on-
tologiea, l'essere. Mentre nella differenza « ontica », come oggi vie-
ne chiamata la prima differenza, si ha solo la differenza tra ente

2 Cf. M. MÜLLER, Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart,


Heidelberg 1949, pag. 75 s.; cf. IoH. B. METZ, Heidegger und das Problem der
Metaphysik, in: Scholastik 1953 (XXVIII), pag. 1-22.
8 NOVATUS PICARD O. F. M.

e ente, e tra ente e il suo essere soltanto onticamente concettualiz-


zato e differenziato, nella differenza ontologica, rispettivamente nel-
l'immediata apertura (Offenheit) di essa, l'essere in se stesso non
gia si esibisce eome realta oggettivo-ontica, bensi come realta on-
tologica puo diventare eontenuto di una possibile « esperienza >
fenomenologiea. None possibile, qui, di presentare un'analisi detta-
gliata di questa « realta ontologiea > ( ehe seeondo Hei-degger non
e da confondersi ne con l'ens i-atümis, ne coll'entita dell'ente gene-
ralizzata, ne eon un prineipio astratto, ne con il noumeno Kan-
tiano, ne eon l'essere nel senso di aetus essendi, ne eon l'essere as-
soluto); ne e qui il luogo di presentare eerte oscillazioni ed oscu-
rita nella sua eoncezione, ne le divergenze tra i diversi interpreti.
Basti qui accentuare ehe l'essere non e una sfera reale separata,
sebbene si abbia una differenza ontologiea, ma ehe si tratta di una
intrinseca identita ontologiea eome tra fondante e fondato poiche
l'essere come principio ( Grund) della eostituzione ontologica del-
l'ente non solo in esso e necessariamente presente, ma anehe solo
. in questo eostituire si •attualizza. Tuttavia l'ente non e un feno-
menalizzarsi dell'essere, quasi un tradursi in eoneretita e individua-
lita, ma l'essere eontiene e impliea sempre un phi, irraggiungibile
e indeterminabile per via diseorsiva-rappresentativa.
II superamento della metafisiea, eioe la nuova metafisica onto-
logica dovrebbe anzitutto dilueidare questo intrinseco rapportarsi
tra essere e ente, nel costituirsi di q,uesto. Solo se l'essere si
presentasse nella sua genuina verita, cioe solo se uscisse dal suo
nascondimento e si rivelasse (d-A111'ßta, Unverborgenheit, Entber-
gung), solo allora sarebbe possibile dilucidare quel rapportarsi, e,
con cio,-interpretare e comprendere l'ente nel suo senso ontologico-
metaflsico e, con cio decidere se nell'ente ci sia e quale sia l'aper-
tura verso l'essere. Cioe la metafisica ontologica deve primiera-
mente pensare l'essere e, nella piena luce di questo, l'ente. La
« luee » dell'essere stesso come chiarezza « rivelante » nella quale
sola e possibile ogni spirituale « vedere » un oggetto, ogni intuito
(Ein-sieht), resta, nella metaflsica tradizionale, non-pensata. Essa
cerea l'essere, e trova soltanto l'ente, l'ens ut sie: « l'ultimo fumo
della realta evaporante ». II superamento di questa sedicente meta-
fisica realistica o spiritualistiea ehe sia, esige e presuppone dun-
que un nuovo orientamento del pensare: esso deve anzitutto essere
eonsapevole delle sue vere dimensioni.

* * *
A queste vere dimensioni, precisamente, nel sopradetto scrit-
to « Was heisst Denken?» (Che eosa signiftea pensare?) Heidegger
LA POSIZIONE DELLA FILOSOFIA 01 M, HEIDEGOER 9

vuole ricbiamare l'attenzione e con cio condurre al pensare au-


tentico. Tenendo presente l'orizzonte problematico-metafisico del pro-
blema del pensare, naturalmente, qui non ei si puo aspettare una
specie di trattato sul pensiero, a mo' dei manuali di psieologia o
gnoseologia ehe Heid. disprezza, per il sempliee f atto ehe solo la
dilueidazione e la ehiarifleazione ontologica dell'uffleio del pensare
rende possibile una trattazione e determinazione della conoseenza
in generale. Le eonsiderazioni sul pensare, eioe, non possono in
eerto qual modo eostituire il capitolo conclusivo di una teoria della
conoseenza (la cogitatio come « facolta delle idee > o eome « fa-
eolta suprema > eec.) ; ma sono una specie di preambolo, non fon-
dabile e elaborabile eon i mezzi metodici della teoria della eono-
seenza. S'impone il ritomo ad un'esperienza genuina e primordiale.
Tra il proeedimento nel rispondere al quesito: W. h. D.? e il
c Was ist Metaphysik?> si nota una certa afflnita. In quest'ultimo
opuseolo, per esporre la essenza della questione metaftsiea, Hei-
degger mostra ehe questa q-uestione non e soltanto una questione
teoretiea ehe s'impone al pensiero concettuale-discorsivo, ma ehe
essa inveee s'identiflea eoll'esistenza medesima in quanto l'uomo
come da-seiend (ek-sistens) gia si vive implieato e ingaggiato in
un evento metaflsico; questo evento all'uomo si rivela in una par-
tieolare esperienza esistenziale. Similmente in « W äs heisst Den-
ken? > il problema del pensiero non viene trattato teoreticamente
(poiehe, in questo easo, gia sarebbe presupposto ehe la nozione e
l'essenza del pensare, almeno in qualche modo, siano note, cioe de-
terminate, mentre Heidegger proprio domanda : ehe eosa significa
pensare?), ma il pensare come problema deve, in maniera origi-
nale, essere svelato, quasi evoeato, eome sustrato reeondito di ogni
nostra esperienza in mezzo agli enti. Coneretamente parlando: si
tratta, in fondo, della differenza ontologica; e questo problema non
viene trattato, analizzato ece. in pura sede teoretiea, ma dey'essere
attinto direttamente e intuitivamente, e cio in quanto signißea iden-
tita e differenza, apertura e naseondimento insieme, eome dell'es-
sere cosi anehe del pensare; eioe, si vedra intuitivamente ehe que-
sto problema in quanto investe il pensare e si manifesta in esso,
deve essere un problema dell'essere, e viceversa, perehe e un pro-
blema dell'essere, il pensare da esso e fondamentalmente e essen-
zialmente determinato e delimitato. II pensare ha la sua radiee nel-
la differenza ontologica, e da essa ha la sua positivita e negativita.
La conelusione alla quale Heidegger in « Was heisst Denken?»
arriva e la seguente: « Noi non perisiamo ancora veramente. Per-
eio domandiamo: ehe eosa significa pensare? » Conclusione ehe
sembra strana. Ma si eomprende subito il significato e il peso di
10 NOVATUS PICARO 0, P, M, ,

questa eonelusione se si ritlette sulle affermazioni immediatamente


preeedenti (in eui, del resto, e eompendiata la sostanza di tutto lo
seritto): « La provenienza essenziante (Wesensherkunft) dell'essere
dell'ente e non-pensata. Cio ehe veramente deve essere pensato (das
Zu-Denkende; il cogitandum) resta sottratto (naseosto). Esso, per
noi, non e aneora diventato memorabile ( denk-würdig). Pereio, il
nostro pensare non e aneora venuto a trovarsi nel suo proprio
elemento >. Noi, cioe, dovremmo imparare a pensare; ma dopo aver
compreso in ehe eosa eonsiste il vero pensare, siamo eostretti a
eoncludere: non possiamo nemmeno veramente pensare perehe la
negativita del nostro pensare sopraffa, nella nostra attuale situa-
zione, l'apparente positivita di esso.
Ho posto qui questa conelusione, l'eeo della differenza onto-
logiea, perehe essa e il Leitfaden di tutta la ritlessione.
Che eosa e dunque pensare? « Noi entriamo in eio ehe e il
pensare >, eomineia Heidegger, « quando noi stessi pensiamo. Af-
flnehe questo tentativo riesea dobbiamo essere disposti a imparare
il pensare >. Certo, l'uomo eome animal rationale deve poter pen-
sare purche voglia. D'altra parte, la possibilita di pensare all'uomo
aneora non garantisee ehe egli lo possa veramente; potere ( ver-
mögen) signifiea: laseiare entrare in noi qualcosa, secondo la sua
essenza, e instantemente eustodire questo ingresso: ma, ,vermögen
nel senso vero e proprio possiamo soltanto cio verso il quale siamo
bene disposti (mögen), e veramente bene disposti possiamo essere.
soltanto verso cio ehe, da parte sua, gia e ben disposto verso noi,
« inelinato > verso la nostra intima essenza: questa « inelinazione >
impegna e ingaggia la nostra essenza, ~ un riehiamo all'essenzia-
le, e un « tenerei » nell'essenziale. Ma, eio ehe ei tiene nell'essen-
ziale, vi ei tiene solo flnehe noi, da parte nostra, lo teniamo e rac-
ehiudiamo, cioe flnehe ne siamo memori e finehe esso da noi e pen-
sato. Cio ehe « ei tiene >, quindi, e eio ehe in se dev'essere pen-
sato (das Zu-Bedenkende). Solo se siamo ben disposti verso questo
cogitandum, « possiamo > pensare, cosi come il pensare lo impa-
riamo badando e attendendo a cio ehe devesi pensare.
Questo e il punto di partenza, e si vede chiaramente come vie-
ne stabilito: per un rendere conseie le implicazioni di qualche atti-
tudine fondamentale umana: vermögen e mögen; inveee di « atti-
tudine » si potrebbe anehe dire « esperienza fondamentale > la qua-
le, resa conseia, manifesta ehiaramente le eondizioni del suo costi-
tuirsi, e, nello stesso momento, le sue esigenze.
Un'analoga « analisi > viene ora istituita per porre _in luee
le implieazioni del cogitandum. Malgrado lo studio dei filosofl e la
fatiea degli stessi bisogna dire, avverte Heidegger, ehe non pen-
LA POSIZIONE DELLA FILOSOFIA DI M. HEIDEGGER 11

siamo ancora. Anzi, cio ehe massimamente da a pensare ( das Be-


denklichste), nel nostro tempo si manifesta come il fatto del no-
stro non-pensare. Quest'affermazione non significa un rimprove-
ro come se ovunque regnasse soltanto spensieratezza e negligenza.
II Bedenkliche e cio ehe da a pensare : esso ci richiama a rivol-
gerci verso di esso, pensando. Non siamo noi a stabilire cio ehe
e da pensare, ne esso si fonda soltanto sul fatto ehe noi lo rap-
presentiamo. 11 Bedenkliche da e esige, cioe da a pensare; da cio
ehe esso ha in se, cio ehe esso stesso e. L'affermazione di poc'an-
zi riguardo al nostro non pensare, quindi, signiflca: non siamo an-
cora, propriamente, entrati nell'ambito di quello ehe, ex se, prima
di tutto e per tutto, vorrebbe essere pensato. E non soltanto per
una nostra insufflciente « conversione » verso esso, ma « piuttosto >
perche il cogitandum medesimo si allontana dall'uomo e gia « da
lungo tempo > s'e allontanato. Come? Quando? Come possiamo sa-
pere qualche cosa di un simile avvenimento? La domanda diventa
ancora piu assillante se viene persino affermata: il cogitandum,
da sempre, sta in questa « a-versi,o ». Ma a-versio avviene solo
dopo una con-versio: se il cogitandum si contiene in una a-versw,
questo avviene soltanto entro la sua con-r>ersio, cioe in quanto ha
gia•dato a pensare, cioe in quanto s'e gia consegnato in qualche
modo indefinibile all'essenza dell'uomo. Percio l'uomo ha sempre
pensato in una maniera essenziale, ha potuto pensare delle cose
profondissime. A questo pensare, il cogitandum resta affldato, ma in
maniera singolare : il pensare, finora, non si accorge ehe, e in ehe
senso, il cogitandum, tuttavia, a questo pensare si sottragga, na-
sconda e neghi.
A questo punto, Heidegger si fa un'obiezione; non e tutto cio
una serie di vuote asserzioni? dove sono le prove? ha tutto cio an-
cora a ehe fare colla scienza? No, risponde, tutto il detto fin qui,
come tutte le seguenti considerazioni, non hanno niente a ehe fare
colla scienza : poiche « la scienza non pensa > secondo il modo dei
pensatori, ne lo puo. Questo non e un difetto, ma una prerogativa
della scienza, perche solo cosl essa e in grado di delimitarsi un
certo camp.o d'indagine, di restare in esso e di trattarlo esaurien-
temente; e solo a questa condizione essa puo « dimostrare », se di-
mostrare signiflca: dedurre o derivare delle proposiziÖni da pre-
supposti adatti. Dal campo della scienza, pero, al campo del pen-
sare non e un ponte ehe ci po-rta, ma solo il salto. 11 rapporto del-
la scienza al pensiero e genuino e fertile solo se l'abisso tra scienza
e pensare e diventato visibile, e precisamente come invarcabile.
II salto ci porta non solamente all'altra parte, ma piuttosto in una
regione completamente diversa ove il voler « dimostrare > signifl-
11 NOVATUS PICABD 0, P, M,

cherebbe nlent'altro ehe l'applicazione di una misura sconveniente


e di eriteri ineffleaci. II tratto fondamentale del pensare, invece,
e la semplice evocazione, il semplice « mostrare > (weisen), eioe la
via a quello ehe, sempre, da e dara a pensare all'uomo; e quasi
un dare via libera all'arrivo di esso.
II cogitandum, abbiamo visto, si sottrae all'uomo negandosi.
doe ri-tenendosi (vor-enthalten). Ma cio ehe si ritiene in se stes-
so, gia sempre ci e « tenuto davanti » : quindi cio ehe si nega, rite-
nendosi in se stesso non sparisce. Pero, come possiamo saperne
qualche cosa, come nominarlo, dato ehe cio ehe si sottrae nega il
$UO arrivo? Tuttavia, questo sottrarsi non e un nulla, e piuttosto
uno evento. Cio ehe si sottrae puo toecare l'uomo pii:t essenzialmente,
e ingaggiarlo pii:t intimamente di qualsiasi presente. In altre parole:
Cio ehe si sottrae in questa maniera, nello stesso momento ei at-
trae, ei trae eon se. L'assenza di esso e solo apparente: eio ehe si
sottrae e presente (west an); nel modo, eioe, dell'attrazione. Quindi,
cio ehe ci attrae, gia ha coneesso, in certo qual modo, l'arrivo.
« Wenn wir in das Ziehen des Entzugs gelangen, sind wir auf
dem Zug zu dem, was uns anzieht, indem es sich entzieht ». Questo
stare nell'« attrazione », questo abbandonarei ad essa, « segna >
(prägen) il nostro essere essenziale: come « segnati > talmente,
noi indichiamo il se-sottraente: questo indicare (weisen) e la no-
stra essenza: noi siamo in quanto segniamo il se-sottraente (in
das Sichentziehende zeigen). Come « mostrante > in questa direzio-
ne, l'uomo e il segnante: eioe « tratto nel se-sottraente, nell'attra-
zione verso questo, e talmente segnante la sottrazione, l'uomo, pri-
mieramente, e uomo. La sua essenza eonsiste nell'essere un tale se-
gnante » ( ulteriore precisazione della tesi delle prime opere: « l'es-
serci e trascendenza > !). E poiche cio ehe nella sua propria eo-
stituzione e segnante ehiamasi un segno, l'uomo e c un segno >,
una cifra, pero senza possibilita di deeifrazione e per con:seguen-
za di interpretazione autentiea, essendosi eio, ehe il segno indica,
~ottratto. E, analogamente, anehe gli enti non possono essere altro
ehe tali eifre indeeifrabili.
Questo pensiero, Heidegger lo illustra ora analiuando alcuni
versetti di uninno di Fr. Hölderlin (ehe egli interpreta colla stessa
devozione con cui i teol<;,gi interpretano le S. Scritture), e prineipal-
mente il primo: « Ein Zeichen sind wir, deutungslos ... > (Una ei-
fra siamo, indecifrabile ... ) dove Heidegger crede di trovare espresse
le sue proprie idee fondamentali. La questione ehe a questo pun-
to si pone e questa: il fatto ehe aneora non pensiamo dipende for-
se dal fatto ehe siamo un « segno ininterpretabile >, ovvero siamo
un « segno ininterpretabile » in quanto ancora non pensiamo? E,
LA POSIZIONE DßLLA FILOSOFIA 01 M, HEIDEGGER lS

nel caso della seconda ipotesi, ehe sembra sia quella di Heidegger:
quale dev'essere l'elemento in eui il pensare ha da muoversi? Que-
sto elemento, il cogitandum, si sottrae e si nega, ne noi possiamo
f orzare il suo arrivo, il suo svelarsi.
« Cosi ei resta soltanto uno, eioe aspettare >. Un'attesa esea-
tologiea flnehe il cogitandum ei si manifesti, ei si sveli, ci si resti-
tuisca nella sua pienezza, dopo essersi sottratto. Questo aspettare,
pero, non signiftca: rimandare il pensare, ma : guardare d'intomo
(Ausschau halten), dentro l'ambito del gia··pensato, per rieereare il
non ancora pensato ehe ancora si naseonde nel gia pensato. Aspet-
tando talmente gia siamo pensando in eammino verso il oogitan-
dum. Questa attesa potra essere delusa, questo cammino potra es-
sere una via sbagliata. Quel ehe eonta e ehe questa attesa sia dispo-
sta ( « intonata >, gestimmt auf ... ) a eorrispondere al cogitandum,
quando e nella misura in cui questo si svelera.
Dunque, noi pensiamo gia, ma, malgrado ogni logiea, il vero
elemento del pensiero ancora ·non ei e stato reso familiare, e, per
conseguenza, noi nemmeno sappiamo in quale elemento il nostro
pensare, flnora, in quanto pensare, si muova.
Perche non possiamo essere sieuri del pensare, eosl eome e
stato flnora? Qual'e il tratto fondamentale di questo pensare? Que-
sto· tratto f ondamentale ·e il Vernehmen ( vosiv) : percepire ua
presente, avvertirlo, · aeeettarlo eome presente. Questo Vernehmen
e Vor-atellen, nel senso sempliee e essenziale ehe noi laseiamo stare
dinanzi a noi un sempliee presente, cosi eome sta. Parmenide, se-
eondo Heidegger, ha determinato, in maniera decisiva, tutto il pen-
siero oeeidentale introducendo una determinazione fondamentale del
pensare secondo la quale l'essenza del pensare resta determinata
da eio ehe il pensare in quanto Vernehmen pereepisee, eioe dal-
l'c ente nel suo essere >. Ora, ehe cosa significa per i Greci e i
posteri questo ente nel suo essere? La risposta a questa domanda
c flnora mai posta perche troppo sempliee > e un salto nel buio:
l'ente nel suo essere signiflea « presenza del presente > (Anwesen
des Anwesenden). 11 pensare come Vernehmen, dunque, percepi-
sce il presenle nella sua presenza: e presentazione del presenle in
quanto c lo pone dinanzi a noi >. Come tale presentazione, il pen-
sare pone il presente in un rapporto a noi, quasi lo ri-porta a noi.
La presentazione diventa cosi rappresentazione (Vor-stellung).
II pensare tradizionale e Vor-stellen il quale si effettua nel
loy~ (giudizio), e la teoria del pensare, conseguentemente, e la
logiea.
Ma qui si pongono pareechie domande. Perche il pensare si
fonda sul Vernehmen ( vosiv), e perehe questo ha il suo spiega-
NOVATUS PICARO O,P,M,

mento nel presentare, e perehe questo presentare e divenuto rap-


presentare? La fllosofia, flnora, si eomporta eome se qui non ei sa-
rebbe nulla da domandare. Per Heidegger, la vera ragione di que-
sto sviluppo e un evento poeo appariseente all'inizio della storia
dell'Oceidente: l'essere dell'ente apparisce (e restera determinante
per tutta la storia) come presenza.
Ma questo tratto dell'essere, la presenza (Anwesen) diventa
misterioso non appena avvertiamo verso dove cio ehe si ehiama pre-
senza costringe il pensare a voltarsi.
Un presente e un « durante > ehe si estende nel non-nascondi-
mento ed e dentro questo, poiche presenza avviene solo se gia e
in atto il non-nascondimento. Non-nascondimento e presenza tem-
porale costituiseono il presente.
E proprio questi due elementi costitutivi dell'essere come pre-
senza, finora, non sono stati pensati. Si, in quanto noi rappresentia-
mo gli oggetti nella loro oggettivita, noi gia pensiamo e eio da mol-
to tempo; ma non aneora pensiamo nel senso rigoroso della eom-
pleta obbedienza all'essere e alla verita di esso, finehe rimane non-
pensato su ehe eosa si fonda e in ehe cosa consiste l'essere dell'en-
te quando apparisce come presenza.
Questo e il vero elemento del pensare, cioe « la provenienza
essenziante dell'essere dell'ente >; ed essendoei l'adito a questo ele-
mento precluso, aneora non pensiamo veramente, pur sapendo
(adesso) l'esigenza fondamentale e il vero orizzonte problematieo
del pensare.

* * *

La « tesi >, eome risultato di questa meditazione, e inevita-


bile: l'uomo ehe si slaneia per attingere e raeehiudere in se la
eonoseenza dell'ente e dell'essere, si urta a un muro impenetrabi-
le di mistero. La dift'erenza ontologiea e un abisso, invareabile in
quanto signifiea un rapporto di assoluta alterita tra ente e essere.
L'ente e l'altro dall'ente (l'essere) sono congiunti dialettica-
mente: l'ente non puo :rpai essere senza quest'altro, e pur tuttavia la
sintesi ontologiea di entrambi resta, in ultima analisi, indetermina-
bile. In altre parole : il rapporto di alterita, invece di permettere di
pensare l'ente e l'essere in relazione, li rende, in ,ultima analisi, irre-
lativi nel senso di una relazione dilueidabile, e cioe staccati.
Questa situazione significa un nullismo ( magari provvisorio)
o meglio, forse, un problematieismo se per questo s'intende l'impos-
sibilita di traseendere eognitivamente la sempliee presenza del pr~
sente, e di attingere, non dieo eonoseendo, ma neanehe pensando il
LA POSIZIONE DELLA FILOSOFIA DI M. HEIDEGGER 15

prineipio dell'ente: sottraendosi questo prineipio (e essenzialmente!


e non soltanto per un errore di Parmenide), anehe l'ente neeessa-
riamente si vela, diventa opaco, null'altro ehe un « segno ininter-
pretabile >. L'uomo eome ek-sistens e Lichtung des Seins, ma e an-
ehe essenzialmente Platzhalter des Nichts. Questo « nullismo > tut-
tavia non sembra essere un agnosticismo voluto, ma un dover ri-
nuneiare per ora, un dovere quasi di coscienza e di onesta, una docta
ignorantia imposta, un rassegnarsi nell'attesa ehe l'ontologicamen-
te priUSt diventi anehe il gnoseologicamente prius. E un'Ontologia
negativa, finora.
E' questa « attesa > veramente füluciosa? Raeehiude essa vera-
mente una fidueia nell'essere, eioe una vera speranza? 0 e essa, piut-
tosto, una diehiarazione di fallimento irriparabile della ratio umana?
Diffieile deeiderlo. ·
Completa ,ubbidienza all'Essere ! Heid. non si stanea di ineul-
eare questo.
Pero, la negazione del valore assoluto della discorsivita del pen-
sare per la fondazione della metafisica; la negazione di un qualsiasi
possibile passaggio dall'ente all'essere; il presupposto fenomenolo-
gieo ehe la conoscenza umana, nella sua forma autentiea e, ontolo-
gieamente, unicamente rilevante, debba essere eselusivamente espe-
rienza immediata; la determinazione totalmente apofantioo del
loyoc; : un in se stesso « apparente > rendere l visibile > per una
possibile intuizione ... : Questi punti ehe earatterizzano la posizione
di Heid. di fr_onte al problema metafisico aggravano tremendamen-
te la situazione della filosofia e sembrano soffocare in germe qualsiasi
tentativo metaftsico. Potra l'uomo mai « pensare > in quelle dimen-
sioni ehe Heidegger stabilisee e eome egli le stabilisee? Questo puo
soltanto un intellectus abs-olutus8.

P. NovATO P1cARD, 0. F. M.

a Questa relazioue, iu redazlone piu breve, e stata pubblicata anche nella


Rivista c Teoresi „ J.963 (VIII) p. 7-21 sotto il titolo: EHere e Pensare •



II.

R. P. CORNELIO FABRO, C. P. S.
DECANO DELLA FACOLTA DI FILOSOFIA
NEL PoNT. ATENEO URBANO « DE PROPAGANDA FmE »

IL PROBLEMA DI DIO NEL PENSIERO DI HEIDEGGER


1) L'accusa di « ateismo » e la radicalita dell'essere.

Anehe se rari, tuttavia non sono maneati eonsensi al pensiero


di Heidegger fin dal suo primo apparire da parte di autori sia prote-
stanti eome eattolici 1 • Tuttavia i dissensi sono stati assai piiI nume-
rosi ·e risoluti i quali si sono polarizzati su due eapi di aeeusa prin-
eipali: il nichilismo e l'ateism,o eome conseguenza.
L'aecusa di « niehilismo » aveva trovato il suo pretesto non sol-
tanto nella tesi di Wa.s ist Metaphysik? ehe metteva il nulla aeeanto,
anzi a fondamento dell'essere, ma dall'intero orientamento ehe il
Dasein aveva in Sein u.nd Zeit come Sein zu Ende ehe si risolveva
eome Sein zum Tode.
L'aeeusa di « ateismo » era venuta di eonseguenza e Sartre pre-
sento il proprio esistenzialismo eome il eompimento della ontologia
fenomenologiea di Sein und Zeit.
La risposta di Heidegger non tardo e non poteva essere piiI ea-
tegoriea: Col Brief ueber Humanismus (1947) respinse l'una e l'al-
tra aeeusa rivendieando la positivita della nuova interpretazione
dell'essere e separando energieamente la propria eausa dall'esisten-
zialismo e dall'ateismo sartriano. Bisogna tuttavia riconoseere ehe

1 In senso positivo per i protestanti, v.: HEINZ-HORST SclIREY, Die Bedeu-


tung der Philosophie M. Heideggers für die Theologie, in « M. Heideggers Ein-
fluss auf Wissenschaften, Bern 1949, p. 90 ss.; fra i cattolici, v. M. SCHMAUS,
Katholische Dogmatik2, München 1939, Bd. I, p. 90, 223, 246 e Bd. IV, 2 (1953),
p. 130 e M. MÜLLER, Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart,
Heidelberg 1949; tr. fr. col titolo: Crise de la metaphysique, Paris 1953. -
Phi numerose e insistenti sono le voci di critica. Cfr. fra i protestanti: G. KRUE-
GER, M. Heidegger und der Humanismus, in « Studia Philosophica » !IX (1949),
pp. 93-129 e K. LöwITH, Heidegger Denker in dürftiger Zeit, Frankfurt a. M.
1953; fra i cattolici, v. J. MÖLLER, Existenzialphilosophie und katholische Theo-
logie, Baden-Baden 1952, spec. p. 181 ss.; J. HoMMES, Zwiespaltiges Dasein,
Die existentiale Ontologie von Hegel bis Heidegger, Freiburg i. Br. 1953.
2 - Studl fllosofici
H COIINELIO FABRO C, P, S,

la posizione heideggeriana sul problema di Dio si distacca da ogni


posizione teologica del pensiero occidentale come quella dell'essere
da cui direttamente deriva, tanto per l'aspetto negativo come quel-
lo positivo.
E' sintomatico, per non dire « paradossale > il f atto ehe Hei-
degger nel Saggio su Rilke caratterizza con Hoelderlin l'epoca mo-
dema come il « tempo dell'indigenza > (dürftige Zeit) sul quale con-
tinuano a calare le tenebre della notte e questo perche il nostro
tempo e determinato dalla « mancanza di Dio > (Fehl Gott.es) 11 •
Infatti fra le deviazioni della civilta modema, Jlerivati dal « sog-
gettivismo > del pensiero moderno, Heidegger pone i seguenti carat-
teri: la scienza, la tecnica delle macchine f acllitata dallo sviluppo e
dall'applicazione delle matematiche, l'arte concepita secondo i ca-
noni dell'estetica dove l'opera d'arte diventa oggetto d'esperienza in-
dividuale e l'arte stessa come l'espressione della vita dell'uomo; la
caltura come attuazione dei supremi valori con il passaggio alla po- ·
litica della cultura. Infine, come quinta apparizione dell'eta mo-
dema la « sdivinizzazione > (Entgoetterung) '· Questo termine - ·
osserva Heidegger - non signiftca la semplice rimozione degli dei,
l'ateismo grossolano. La sdivinizzazione e un processo ehe ha un
doppio aspetto: da una parte l'immagine del mondo si e scristia-
nizzata, in quanto il f ondamento del mondo e stato posto come
lnflnito, l'lncondizionato, l' Assoluto: e dall'altra parte il Cristia-
nesimo ha espresso la sua cristianita in un,a concezione del mon-
do (la concezione cristiana del mondo) e cosi sie modemizzato an-
ch'esso. La sdivinizzazione e la condizione in cui ci si trova per la
mancanza di decisione intomo a Dio e agli dei. Nel suo riprendersi
il Cristianesimo ha il piu grande vantaggio. Ma la sdivinizzazione,
si affretta a notare Heidegger, esclude cosl poco la religiosita ehe
piuttosto e per suo tramite ehe il rapporto agli dei si trasforma nel-
la esperienza religiosa >. Non e difflcile vedere in questa parados-
sale prospettiva la funzione dialettica del nulla accanto all'essere,
ehiarita dagli ultimi scritti •.
Sarebbe quanto mai urgente dissipare una pregiudiziale ehe
si affaccla spesso nella lettura di questi ultimi scritti : c Qual'e il
rapporto di Heidegger al Cristianesimo? > La risposta e tutt'altro
ehe semplice e gli interpreti non hanno ancora trovato una base di
accordo. L'ambiguita della posizione heideggeriana nasce anche qui

• Wozu Dichter? In Holzwege, p~ a.48. - 11 disagio pifa grave - aecondo


Heldeger - 6 ehe la « mancanaa dl Dlo > non 6 plfl avvertlta come mancama.
• Cf. Die Zeit du Weltbil4••• in Holzwege, p. 70.
• Cf. spec. Nachwort a Was ist Jletaph111ilt'P•, p. 40 11.
IL PROBLBMA DJ D10 NEL PENSIBRO DI BEIDEGGER 19

dall'ispirazione storicista: non si sa se e fino a ehe punto egli iden-


tifl.ehi la veritA del Cristianesimo con Je sue manifestazioni storiche
- ovvero se ammetta la divinitA del Cristianesimo eome unica re-
ligione rivelata (la religione B di Kierkegaard), o se la consideri
come una modiflcazione o interpretazione storica della religiosita
fondamentale ch'e attribuita all'uomo (la religione A di Kierke-
gaard) •. Saltuari ma insistenti accenni pendono piuttosto per la pri-
ma ehe non per la seeonda risposta.
II giudizio sul Cristianesimo e esplieito nelle ultime opere in
oui diventa sempre piu operante l'influsso di Nietzsche: egli rim-
provera al Cristianesimo di aver rinnovato la frattura platoniea del
reale eon la distinzione degli esseri inferiori eome ereature e del-
l'Essere superiore eome Creatore rivolgendo questa concezioJie con-
tro Ja concezione elassiea ed approva la definizione ehe Nietzsche
ha data del Cristianesimo come « Platonismo per il popolo » •. Que-
sta solidarieta fra il Cristianesimo e la deviazione della metafisica
greea e insinuata in modo piu esplieito, ma solidarieta eh'e risultata
pregiudiziale per il Cristianesimo e Heidegger si vale del r~hiamo
alla condanna di S. PaoJo della fllosofia greca. II testo e decisivo per
aff'errare il senso esatto dello storieismo heideggeriano. Heidegger
osserva ehe la metafisiea elassiea avendo preso per suo oggetto lo
öv e muovendosi nella sfera dello ens in quantum en, nella sua to-
talita, questa totalita prima e vista in generale eioe la totalita del-
l'ente come tale nei suoi tratti piu generali ( öv xu&olov), ma poi
tale totalita e eonsiderata neJ senso dell'Ente supremo e percil> di-
vino (Öv xa36lou, äxeotutov, &ttov ). A questo modo Ja metafisiea
aristotelica ha consumato l'equivoeo di voler essere a un tempo on-
toJogia e teoJogia: eio ehe ha permesso di essere assunta dalla teolo-
gia eristiana: c 11 earattere teologieo quindi della filosofia greea,
continua Heidegger, non dipende dal fatto ehe Ja metafisica greca fu
piu tardi assunta dalJa Teologia del Cristianesimo e da questa tra-
sformata. Esso piuttosto dipende dal modo nel quale fln da prin-
cipio l'essente si e svelato eome essente. Questo non-naseondimento
dell'essente off'rl anzitutto Ja possibilita ehe la teologia eristiana si
impossessasse della filosofia greca: se eon suo vanlaggio o eon suo
danno, Jo possono deeidere i teoJogi sull'esperienza di cio ehe costi-
tuisee il Cristianesimo in quanto rifJettano a quel ehe sta seritto

• Per questa di1tinzlone fra religlone natarale e religione rivelala in Iüa-


JIIIOORO, v. Afslut, uuid. Efterskrift, P. LI, Sez. 2 A. § 3; S. V. VII, HG 11.;
tr: it. in Antologia Kierkegaardiana, Torino 1952 ,p. 138 SS·
• Einfuehrung in die Metaphysik, Taebingen 1953, p. 80. - Cfr. Der Spruch
des Anazimander, in Holzwege, p. 310.
20 CORNELIO FABRO C, P, S,

nella I" lettera di S. Paolo ai Corinti ( 1, 20): « Non ha Dio reso stol-
ta la scienza di questo mondo »? Ed ecco il monito alla teologia cri-
stiana: « Non vorra la teologia cristiana decidersi ancora una buona
volta per eonsiderare, d'aecordo con le parole dell' Apostolo, la filo-
sofia eome una stoltezza? » Pel suo stesso carattere, ambiguo e bi-
. fronte, la metafisisa si ehiude nell'essente e le resta preclusa l'espe-
rienza dell'essere ehe in esso si nasconde 1 •
Heidegger per conto suo non dice in cosa propriamente consi-
ste il Cristianesimo. Sappiamo pero ch'egli trova inamissibile l'idea
eristiana di ereazione in quanto essa comporta la produzione dal
nulla e quindi nega la verita del prineipio: ex nihilo nihil fit. II nulla
diventa cosi nella concezione eristiana il eoneetto opposto all'essen-
te ehe propriamente e, al summum ens, a Dio come « ens increa-
tum » : ma questo e, per Heidegger un passare oltre al punto fonda-
mentale, perche si trascurano i problemi dell'essere e del nulla e lo
stesso problema ehe « se Dio produce dal nulla, deve precisamente
poter mettersi in rapporto eol nulla. Ma se Dio e Dio, egli 110n puo
conoscere il nulla, dato ehe eome « Assoluto > egli esclude da se
ogni nullita > 8 • L'unieo concetto ·valido del « nulla » non e qucllo
di contrapposto all'ente, ma di farlo appartenere all'essere dell'ente
e quindi d'identifiearlo, in sede teoretiea, con l'ente stesso seeondo
il prineipio hegeliano ehe « il puro essere e il puro nullo sono la
medesima eosa > 9 •
Nell'interpretazione di Heidegger la dottrina della ereazione rap-
presenta il seeondo momento earat\eristico della deviazione del pen-
siero oecidentale: il primo e stato ·la eoneezione platonieo-aristote-
lica di fare dell'essente nella sua totalita eome l'essente stesso la
fondazione nell'apertura dell'essente; il secondo e stato di trasfor-
mare l'essente cosi aperto come totalita in essente eome qualcosa
di creato da Dio, e eio - al dire di Heidegger - sarebbe avvenuto
nel Medio Evo; il terzo infine e stato di aver trasformato l'essente in
oggetto, [ di rappresentazione], e questo e stata l'opera del sogget-
tivismo moderno 10 • II rifiuto di Heidegger alla dottrina eristiana del-
ta creazione e radieato nella sua eritiea al binomio materia-forma
ehe la filosofia medievale avrebbe trasferito dalla sfera della stru-
mentalita esteriore alla concezione dell'ente: l'indieazione ei sem-
bra deeisiva per mettere in ehiaro l'ambiguita in eui si muove su que-
sto punto essenziale tutta la maeehina heideggeriana. Dal testo ri-
1 Einleitung di Was ist Metaphysik?&, p. 18 s.
s Was ist Metaphysik?&, p. 35 s.
e HBGBL, WiBBenschaft der Logik, I Buch; ed. Lasson, 1, p. 67.
10 Cf. Der Ursprung des Kunstwerkes in Holzwege, p. 63 s. Cf. anche Die
Zeit des Weltbildes (1. c., p. 83).
IL PROBLEMA DI D10 NEL PENSIERO DI HEIDEGGER 21

sulta ehiaro ehe Heidegger identifica lo ens creatum del Cristiane-


simo col sinoJo di materia e forma e attribuisce alla filosofia tomi-
stiea questa interpretazione: se non ehe ogni mediocre eonoscitore
deJ pensiero cristiano sa bene ehe Ja dottrina della creazione, affer-
mata dalla Bibbia, e chiaramente insegnata daJ Cristianesimo fin
dal suo primo apparire; cosi come ogni medioere eonoscitore del
pensiero medievaJe eonosee bene ehe per S. Tommaso le nature spi-
rituali sono assoJutamente prive di quaJsiasi materia e pereio for-
me sempliei, eomposte soltanto dell'essenza e dell'atto di esse parte-
cipato. II rapporto dello esse alla essenza creata da esso attuata,
benehe sia ancora rapporto di atto e potenza eome quello della for-
ma alla materia, non si eompie tuttavia allo stesso modo ma in eon-
formita della dialettiea della partecipazione. L'ilemorfismo universa-
le, ricordato da Heidegger, fu sostenuto nel Medio Evo dalla eosidet-
ta seuola agostiniana ma fu avversata per tutta la vita e con estre-
ma energia da S. Tommaso: purtroppo l'originale soluzione tomista
non solo non ebbe seguito nei seeoJi ehe seguirono ma ineontro
preoeeupanti oscillazioni, per l'invadenza del formalismo , nella
stessa seuoJa tomista. L'equivoeo heideggeriano mostra J'urgenza
del ritorno alla genuina metafisica tomista della parteeipazione, le
eui sorti non sono affatto Jegate a quelle del dualismo pJatonieo-
aristoteJismo ignaro della ereazione ne a quelle deJ formalismo sco-
lastieo ignaro dell'autentieo esse e dello statuto ontologico degli en-
ti spirituali u. ·
In questa prospettiva non sorprende piu Ja reeente diehiara-
zione di Heidegger ehe Ja dottrina della fede cristiana sulla erea-
zione non solo ignora la « questione » autentica dell'essere, ma non
e neppure fede bensi indifferenza per la questione stessa. Percio
l'inizio della Bibbia: « In principio ereo Iddio il cieJo e Ja terra ... »
non costituisee affatto una risposta alla questione, perche non ha
nessun rapporto con Ja medesima e questo perche una simile que-
stione esso non la puo per nulla assumere: essa per la fede, e giudi-
cata stoltezza. E' in questa stoltezza invece, secondo Hcidegger, ehe
consiste la filosofia. Percio « una filosofia cristiana » e un ferro di
legno e un fraintendimento. Filosofare equivaJe a domandare:
« Perche, c'e in generale l'assente e non piuttosto il nulla? » Porre

11 Cf. Q. De Spiritualibus creaturis, a. 1. - Nel tomismo autentico si


tratta di essentia ed esse, non di essentia ed existentia, ne di esse essentiae
ed esse existentiae come dice sempre Heidegger (Brief ..., p. 57, 68 s.) ch'egli
considera all'inizio dell'equivoco del moderno ehe si c concluso con Nietzsche
(V. Brief ... , p. 83; HoLZWl!GE, pp. 219, 223, 233 ...). Per le nozioni di esse in
S. Tommaso, v. C. FABRO, La nozione metafisica di parteciPJ1Zione, II ed. Torino
1950, p. 187 ss.
22 CORNELIO FABRO C. P, S,

effettivamente questa questione signifiea: « osare a tal punto dal


problematizzare flno ad esaurire l'aspetto inesauribile di questa que-
stione mediante il disvelamento di cio ch'essa esige di mettere sotto
questione » 12 • Questa e filosofla : al Cristianesimo non resta ehe la
teologia coneepita come elaborazione del mondo dal punto di vista
cristiano, cioe della f ede - la teologia eome riflessione sulla vita
vissuta e non per ricorso alla filosofla, cio ch'e segno - secondo
Heidegger - di maneanza di f ede nella vera grandezza della teolo-
gia e della smania di voler compiacere il bisogno del tempo: tale
c teologia eristiana », agganeiata alla filosofia greca, si risolve in
una metaflsica ed appartiene al processo di seeolarizzazione della
eoscienza oecidentale 13 • Per non illudersi sul senso di queste insi-
nuazioni, basti il legg~re la sibillina - ma esplicita - supposizione
ehe « lo stesso Cristianesimo potrebbe essere una eonseguenza e una
elaborazione del niehilismo « sottinteso cioe quello derivato dalla
metafisiea dell'essente ehe Heidegger eombatte. Tale metaflsica, si
e visto, ha per oggetto la struttura fondamentale dell'essente eome
un tutto in quanto questo va distinto in modo sensibile e sovrasen-
sibile e quello e portato e determinato da questo. La metafisica e
lo spazio storico in eui si eompie il destino ehe il mondo sovrasensi-
bile, le idee, Dio, la legge morale, l'autoritä della ragione, il pro-
gresso, la felieita dei piu, la eultura, la civiltä perdono la loro forza
eostruttiva e si annientano. Heidegger ehiama questa cäduta della
essenza del sovrasensibile la sua c degenerazione » ( Verwuung) e
quindi « l'ineredulitä nel senso di una caduta dalla dottrina della
fede eristiana non eostituisee mai l'essenza e il fondamento, ma e
sempre soltanto una eonseguenza del nichilismo « implieito nella
metaflsiea: l'ateismo e l'ineredulita sarebbe quindi da attribuire al-
la stessa teologia eristiana ehe ha f atto alleanza eon la metafisica.
Questo sarebbe il signifieato del detto di Nietzsche ( e, prima, del
giovane Hegel) ehe « Dio e morto » 14 •

12 Einf. in die Philosophie, p. 6.


11 Cf. Hegels Begriff der Erfahrung in Holzwege, p. 187. - Va aggiunto
pol ehe la teologia medievale si e resa solidale degli errori di fondo ehe la
vcrsione latina ha commesso nel rendere i termini greci di q,ua..; con natura,
lvilQYl!UX con actualitas, ovoCa con substantia, ... mo-xdJ.l,l!VOV con subjectum
e via dicendo: e da questa errata versione ehe precipita la decadenza del
pensiero occidentale, L'errore della version latina e di aver omesso ll riferl-
mento alla eorrispondente esperienza originaria legata a ciascuno di quei ter-
mini greci (Cf. HOLZWEGE, p. 12 ss., 273, 298; Ein/. in die Metaphysik, p. 10,
138, 342, ecc.
1„ Nietzsche Wort « Gott ist tot>, 1. c., p. 204. Hegel e citato a p. 197 e
Pascal alla p. seg. col detto di Plutarco: « Le grand Pan est mort ».
Alla negazione della creazione nell'ambito della religione naturale, corri-
IL PROBLEMA DI D10 NEL PENSIERO DI HEIDEGGER H

2) L'esperüm.za del « sacro » e il problema di Dit>.

L'atteggiamento polemico di Heidegger nei riguardi del proble-


ma di Dio puo essere espresso in questi termini ehe sono solidali con
la sua concezione della verita dell'essere: come il pensiero oeeiden-
tale, a partire specialmente da Aristotele e Platane, ha frainteso il
problema della verita dell'essere, cosi ha compromesso il problema
di Dio. Effettivamente i termini originari dell'essere della fllosofta
greca avevano nel fondo lo stesso signiflcato f ondamentale: infatti
Anassimandro col XQEO>V pensa il presente nella sua presenza, la
µoi{>a di Parmenide indica la struttura fondamentale di questa pre-
senza e altrettanto dicasi del My~ di Eraclito, della (8fo e dello
et8o~ di Platone, della EV8QYELa ( e della stessa oooCa) di Aristote-
le ..., protesi nell'attestazione dell'« apertura » per l'apparire del-
l'essere nell'essente 1111 • La caduta della filosofla, ehe si annunzia
quando lo d8o~ e concepito eome forma aggiunta e staliea di con-
templazione aristotelica, la C8ia e diventata f.'OQcp,J di un corpo, il
(JlJvoAov l'unieo tutto i[risultante] di 1,1,0Qcp11 e GA.'),· cioe lo IQyov
e nella guisa della lveQyEL«. Questa forma di presenza diventa la
« actualitas dello ens actu ». La o,ctualitas diventa realta etfettuale
(Wirklichk.eit). La realta diventa oggettivita (Gegenständlichkeit).
L'oggettivita diventa esperienza soggettiva (Erlebni.s) ... 1 • e cosl
l'essere dell'essente e la sua verita furono obliati in forme sempre
piu gravi flno ·al fallimento totale del pensiero moderno e della ci-
vilta occidentale. Tutto lo sforzo di Heidegger e eoncentrato nel
ricuperare, tanto nel pensiero antico come in quello moderno, la
verita fondamentale ch'esso ha obliata e nasconde per riportarla
all'evidenza: non v'e dubbio ehe le sue analisi di Anassimandro,
Parmenide, Eraclito (con la breve nota su Protagora). e Sofocle per
la concezione presocratica, lo studio sul mito platonico della ca-
verna, i continui accenni ad Aristotele, l'analisi magistrale del
concetto hegeliano di « esperienza » della breve Einleitung alla Fe-
nomenologia e gli studi su Nietzsche ... hanno l'evidente scopo di
chiarire i tratti precisi di tale convergenza. Evidente ne e anche la
tesi principale, quella di liquidare la metafisica e la stessa fllosofla

sponde per quella aoprannaturale la negazione dell'lncamazione e della Re-


denzione in Cristo con la Morte e Riaurrezione come c eventi risolutivi > della
storia. Tale negazione taciuta ma lmplicita nel pensiero dl Heidegger, e stata
sviluppata coi suoi principl dal teologo R. Bultmann con 1a teoria della Ent„
mythologiaierrmg (Cf. Das Euangelium des loannesn, Göttingen 1950, p. es.
p. 38 e passim; v. anche Jesus, Tübingen 1951, p. 7 ss.).
11 Cf. Der Spruch des Anazimander, In Hol:z~ege, p. 342.
11 Cf. Der Unprung des Kunstwerkes, ibld„ p. 68.
24 COBNELIO FABRO C. P. S.

come tecnica di composizioni concettuali ( astrazione, dialettica) al-


la quale sia riservata l'interpretazione della verita dell'essere, per
f ar posto ad una « esperienza preontologica » di tale verita: iI ter-
mine « preontologico » per Heidegger equivale al vero « ontologico »
e sta percio agli antipodi d'irrazionale, vitalistico, istintivo e simili.
Si tratta per Heidcgger di evitare tanto lo scoglio d~lla meta-
fisiea ehe mette Dio distante eome causa dell'essere ma ehe porta
di neeessita al niehilismo, quanto il fenomenismo seettico di Sar.:
tre ehe mette la negazione di Dio a principio della filosofla. Hei-
degger inveee pone il rapporto a Dio eome eostitutivo dell'essere
umano in quanto nel suo rapporto al finito si trova fuori dell'esse-
re e « senza patria » (heimatlos). Heidegger vuol raggiungere la po-
sizione phi radieale, al di qua di ogni problematica, ehe si puo ri-
durre nella seguente formula eondizionale: « Dato ehe la verita
dell'essere eonsiste nell'apertura rispetto al presentarsi dell'essere
dell'essente, soltanto dal presentarsi dall'essere stesso si puo di-
rimere il problema se Dio esiste e meno o come esista » : quindi
e ancora a partire da un'esperienza ehe si deve deeidere e non per
meeeanismi eoneettuali. Esiste una tale esperienza? Heidegger ae-
eusa l'epoca moderna preeisamente di averla obliata eome dell'er-
rore suo maggiore e del suo vero male: si tratta dell'esperienza del
sacro (Das Heilige). Ma anche per Heidegger la manifestazione di
Dio sta al termine di un processo ch'e indieato nelle seguenti tap-
pe: 1) Soltanto partendo dalla verita dell'essere e possibile pen-
sare l'essenza del saero. 2) Soltanto partendo dall'essenza del sacro
e possibile pensare l'essenza della divinita. 3) Soltanto alla luee
dell'essenza della divinita puo essere pensato ed espresso cio ehe
la parola « Dio » deve indieare » 17 • C'e quindi una progressione di
rivelazione ontologica: dall'essere al saero, dal saero alla divinita,
dalla divinita al Dio: il primo passo, e in un eerto senso decisivo,
e quello della « dimensione del saero » da cui si potra giudieare
dell'esperienza di una relazione di Dio all'uomo se cioe Dio sia
vieino all'uomo o a lui si sottrae in questo momento della storia
ehe viviamo. Ma il « saero » non si manifesta ehe nell'apertura del-
ll'essere e quindi al di qua di ogni pensiero riflesso ovvero eon-
eettuale: « II Saero eh'e prima soltanto lo spazio essenziale ( We-
8ensraum) della divinita, la quale a sua volta garantisee la dimen-
sione per gli dei e per il dio, puo allora soltanto apparire se prima
e in lunga preparazione l'essere stesso si e illuminato ed e stato
sperimentato » 1.s. Non per proeesso di diseorso adunque, ma per
« processo di esperienza ».

17 Brief•••. , p. 102.
1s Brief. .. ,. pi, 85 s.
IL PBOBLEMA DI D10 NEL PENSIEBO DI HEIDEGGEB 25

L'essenza del « sacro » e studiata nei Commenti di Hölderlin-


e prende particolare risalto negli ultimi scritti. Heidegger ha mo-
strato ehe per Hölderlin i termini «natura», « caos », il « sacro »,
« l'aperto » ... finiscono per equivalersi: anche il caos e sacro e l'a-
perto indica l'immediato in cui si possono incontrare i mortali e
gli immortali. II « sacro » e al di sopra degli dei e degli uomini ed
e precisamente cio ehe· rende possibile la presenza degli uni agli
altri: « II Sacro, come cio ch'e piu antico dei tempi e sopra gli
dei, fonda nella sua venuta un altro inizio di un'altra storia. II
sacro decide all'inizio circa gli uomini e gli dei, se essi sono e chi
sono e come sono e quando sono » 19 • E' il sacro ehe dona la parola
e viene per suo conto in questa parola: un « sacro » quindi (\i na-
tura cosmica, ehe Spinoza e la teosofia sacra suggerivano all'idea-
lismo tedesco, trasferito da Hölderlin nella poesia e da Schleier-
macher nella teologia.
L'essenza della poesia di Hoelderlin e nell'aver scoperta que-
sta sfera del « sacro » come la sutura di cui ha bisogno l'epoca
moderna ch'e il « tempo degli dei fuggiti e degli dei a venire »,
« tempo dell'indigenza » (eine duerflige Zeit). Tocca al poeta no-
minare gli dei in modo originario cio ehe H. chiama « fondare »
(stiften), al filosofo pensarli dopo nella propria essenza » 20 •
Ma cos'e il Sacro? Per il poeta e l'Altissimo, la serenita (das
Hoechste, da&1 o die Heitere) e la serenita e l'essenza del saluto cioe
dell'angelico ch'e la proprieta degli dei ». C'e percio una solidarieta
intima fra l'Essere e il Sacro perche alla fine l'apparire stesso del-
l'essere si rivela fondato sul sacro: sembra anche evidente la so-
lidarieta fra· il sacro e la divinita, ma qui non e possibile sosta o
conclusione alcuna e tanto meno quando si parla dell'ultima tappa
quella della divinita a Dio.
Negli scritti piu recenti Heidegger ha introdotto per suo conto
il « quadrato » ontologico di cui si struttura la « eosa » col suo di-
venire nell'apertura -dell'essere: la terra e il eielo, i mortali e i
divini. Essi eonvergono per formare un'unita ma in modo ehe
nessuno puo stare senz'altro perche ciäscuno rispeeehia nella sua
guisa l'essenza degli altri. ed e a questo modo ehe e'e il mondo
( Welt) e ehe il « mondo diventa mondo » ( die Welt weitet) 21 • Ma
chi sono questi « divini » (.die Goettliche)? Sono i messaggeri ae-

10 Erlaeut. Hoelderlins ..., p. 73 s.


20 Erlaeut Hoelderlins ..., p. 37, 44.
2 1 Cf. Der Ursprung des Kunstwerkes in Holzwege, p. 33. L'espressione e
gia in Vom Wesen des Grundes: « Welt ist nie, sondern weitet> (III, ed.
1949, p. 40).
26 CORNELIO FABBO C, P, S,

cennanti della divinita: e dalla loro nascosta guida ehe appare il


Dio nella sua essenza, la quale lo sottrae ad ogni contronto eon eio
ch'e presente >,
Un'analisi dell'essenza poetiea del « quadrato > ontologico si
trova negli appunti di un eommento inedito alla liriea di Georg
Trakl: Ein Winterabend (Una sera d'inverno). II viandante ehe va
errando per « oseuri sentieri >, e ehiamato nella easa ospitale dove
l'aspettano pane e vino; ma prima I' « albero della grazia » puo
aver preparato al eereatore il suo ehiaro, aureo splendore. Da
questa visione poetica Heidegger e portato .nell'essenza del suo te-
ma. II ehiamare per nome le cose (i rintoechi della eampana della
sera, la neve sulla finestra, pane e vino nella capanna) porta le eose
piu vieino; eon eio anehe il mondo vien portato piu vieino, il qua-
drato ehe in esso si specehia: terra, eielo, divini, umani. Nel mon-
do chiamato a questo modo « indugiano in qualche modo > le eose.
I mortali sono ehiamati come ospiti nel quadrato del mondo. Nel
linguaggio eoneesso all'uomo non si compie nient'altro ehe l'unift-
eazione di eosa e mondo, il loro intimo seambievole rapporto, ma
anehe il loro essere nel rispettivo distinguersi. Heidegger lo ehia-
ma la « distinzione > e aneh'essa e una dimensione del linguaggio
come linguaggio. Ma quella separazione si manifesta eome « do-
Iore », si compie come dolore. Il viaridante, ehe in Trackl passa
la soglia impietrito dal dolore, connette eio eh'e separato, dall'e-
sterno nell'intemo. Cosl l'uomo ehe poeta e pensa fa presente l'c es-
sere >, la ec-sistenza in eui puo abitare o non abitare lddio >.
Nei commenti a Hoelderlin Heidegger si era fermato al Sa-
ero, serivendo: c II Sacro eertamente appare. II Dio perl> rimane
Iontano ... il Dio manea e la « maneanza di Dio > (Fehl Gottes) e
la ragione del mancare dei c santi nomi ». Nel commento a Rilke
Heidegger sembra considerare questa maneanza per irreparabile,
almeno per ora: anche se tale mancanza di Dio c non nega ne la
eontinuazione del rapporto cristiano a Dio nei singoli e nelle Chie-
se, ne signifiea un giudizio di svalutazione di questo rapporto a
Dio > 112 , si tratta ehe non si deve ne erearsi un dio eon astuzia:
per maseherare quella mancanza e neppure di riehiamarsi soltanto
al solito Dio ehe sarebbe un mostrare di trascurare quella man-
canza. La eonclusione e ehe tocea c attendere. nella mancanza eosl
preparata, ftno a ehe dalla vieinanza al dio maneante venga garan-
tita la parola iniziale ehe nomina l'Alto » 23 •

21Wozu Dichter? in Holzwege, p. '2'48.


2aCf. Das Ding del 1960, pubbl. nel 1961 e Bauen, Wohnen, Denken del 1961,
pubbl. nel 1962.
IL PROBLBMA DI DIO NBL PENSIERO DI HBIDBGGBR 27

La situazione dell'uomo si conferma quindi come quella del-


1' « attesa » del divino : custodire il quadrato nella sua essenza. cioe
rispanniarsi (schonien). Ch'e quanto dire ehe l'uomo debba mante-
nersi presso le cose. abitare questo mondo e pensare l'essere nell'a-
pertura assoluta eome specchio ehe accoglie tutte le immagini
transeunti senza trattenere alcuna.
II Nachwort del 1943. d'accordo coi eommenti a Hoelderlin.
dichiarava la distinzione netta e insormontabile fra pensare e poe-
tare: noi diremmo una distinzione di oggetti, in quanto « il pen-
satore diee l'Essere. e il poeta nomina il Saero ». Essi « abitano vi-
cino sui monti piü separati » e Heidegger tralascia di occuparsi piu
a fondo del loro rapporto il quale rimane aneora da deeifrare;
eosi ehe la reeente teoria del « quadrato » eosmieo-ontologico piü
ehe ehiarire porta un nuovo fattore di ambiguita del problema
stesso. Perehe esso introduee il divino nell'ambito del pensiero stes-
so, risolvendolo eol « rapporto seambievole » dell'immanenza con
le tre .rimanenti dimensioni: il eielo, la terra e i mortali s...
La presenza di Dio, eost come la prescnza dell'essei:e stesso,
.non puo essere data ehe in un'esperienza: dopo Nietzsche, si sa
ehe l'uniea esperienza ehe ha fatto l'umanita e quella del progres-
sivo e fatale allontanarsi da Dio ed ora eol trionfo della tecnica
l'uomo. contemporaneo non sperimenta ehe la « mancanza di Dio >.
L'unica forma di apertura possibile e oggi « l'attesa di Dio > sul
fondamento dell'esperienza del « sacro ». Quest'attesa perl> fluttua
incerta nell'interrogazione senzä- risposta di fronte al Sacro ehe
resta indeeifrabile perehe assorbito in quell'immanenza del collo-
quio primigenio dell'essere eon l'uomo. E' la eonclusione del bre-
ve saggio Der Feldweg ehe aeeenna ai lenti profondi rintocehi
della campana della sera dai quali si allarga la quiete della notte:
« Col suo ultimo rintoeeo la quiete si fa piu quieta ancora. Essa
raggiunge coloro ehe sono stati sacrificati da due guerre mondiali
prima del tempo. II sempliee e divenuto aneor piu semplice. II
sempre-medesimo separa sorpreso e allenta. II conforto del sentie-
ro e ora del tutto ehiaro. Paria l'anima? Paria il mondo? Paria
Dio? L'ultimo atteggiamento e la « rinuneia ehe non prende, ma
da, da l'inesauribile forza del sempliee » 26 •
Sempre quindi l'apertura illimitata, l'attesa di Dio. ·se si vuo-
le: ma non si sa come i mortali lo possano conoseere e nominare.
H « Weder die Menschen noch die Götter Je von sich her den unmittel-
baren Bezug zum Heiligen vollbringen können. bedürfen die Menschen der
Götter und die Himmlischen bedürfen der Sterblichen » (Erlaeut. Hölderlins ...
p. 68). .
21 Der Feldweg, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1949. p. 7.
28 CORNELIO FABBO C, P, S,

E' vero ehe l'uomo trascende ogni essente nello esse, per via del-
lo esse, ma questo trascendere e a sua volta un « insistere » nello
esse quale « illuminazione » (Lichtung) dell'essente, e quindi pro-
prio dell'uomo 26 : lo esse si chiarifica ncll'uomo e per l'uomo, de-
finisce precisamente l'uomo come « custode », « pastore », « luogo » ...
dell'essere. L'immanenza ontologica sostituita all'immanenza gno-
seologica.
L'ambiguita heideggeriana nel problema di Dio e legata quindi
all'ambiguita costitutiva nella quale si pone il problema dell'essere.
Certo, non si deve dire ch'e l'uomo, la soggettivita umana, al pro-
durre I'essere, ma al contrario e l'esscre ehe ha l'uomo, ehe lo
possiede e l'uomo si da come « rapporto all'essere ».
Pero all'essenza dell'essere, secondo l'ultima formula heidegge-
riana, appartiene ehe « l'essere non si mostra senza l'essente, e
mai un essente e senza l'essere » 27 • Cio significa (ed e del resto il
significato continuo dell'opera heideggeriana ehe l'essere dell'essen-
te ch'e l'uomo si attua nella trascendenza del suo « U » temporale
(Da). Percio tale essere non puo ammettere nessuna interiore de-
terminaziöne qualitativa, ehe allora non sarebbe piu Sein ma Seien-
de. Sembra percio di dover concludere ehe l'esse ipsum sta agli
antipodi dello Esse totaliter perfectum ch'e lo Esse subsistens co-
me Ja teologia tomista chiama Dio :- del resto lo stesso Heidegger
esclude espressamente ehe il Sein selbst sia Dio 211 • E' su questa
chiarificaziöne del Sein come Sein selbst rispetto al Seiende, ehe
bisogna insistere se si vuol porre in modo efficace il problema di
Dio in Heidegger, ma il suo linguaggio sempre mobile sembra piut-
tosto avaro nell'indicare uno spiraglio di soluzione. II Sein selbst
e una espressione di S. Tommaso per indicare Dio ch'e lo ipsum

26 « Die Theologie ist hier mediadisiert durch das im Menschen ek-sistfe-


rende Denken des Seins » (G. Krüger, M. Heidegger u.nd der Humanismus, in
« Studia Philosophiccu, IX [1949], p. 104),
2 1 « Zur Wahrheit des Seins gchoert, dass das Sein nie west ohne das Seien-
de, dass niemals ein Seiendes ist ohne das Sein » (Nachwort a Was ist
Metaphysik? s, p. 41). Nella sua prima forma (IV ed. del 1943) la prima frase
si leggeva « wohl west ohne das Seiende ». Fra gli interpreti c'e chi trova
le due espressioni equivalenti nel fondo, e chi le dichiara in formale contrad-
dizione (Cf. nel primo senso: l\f. l\fuELL,ER, Existenzphilosophie im geistigen
Leben der Gegenwart, Heidelberg 1949, p. 50 e nel secondo senso K. LoEWITH,
lleidegger, Denker · in duerftiger Zeit, Frankfurt a. M. 1953, p. 22 ss.). II
Carlini nella trad. it. non conosce la variazione e dä iI testo della IV ed,
(Che cos'e la. metafisica? con estratti della « Lettera sull'Umanesimo »; Fi-
renze 1953, p. 47).
2s « Das Sein - das ist nicht Gott und nicht ein Weltgrund» (Brief ... ,
p. 76).
IL PROBLEMA DI DIO NEL PENSIERO DI HEIDEGGER 29

Esse subsistens, e anehe un'espressione di Hegel ehe puo essere as-


sunta µer la definizione metafisiea di Dio » 211 : la differenza e ehe
in S. Tommaso lo ipsum esse e la suprema determinazione mctafi-
sica di Dio, in Hegel esso e piuttosto la determinazione dialettica
iniziale, in Heidegger e la determinazione dialettiea neutrale ehe si
di!uisee nello storicismo assoluto al quale si vuol dare il signifi-
cato dell'« attesa ». Piu ehe « al di la » pertanto della metafisiea
e teologia cristiana e di ogni teologia e filosofia finora storicamt?nte
apparsc, il pensiero di Heidegger sembra porsi al di qua di qualsia-
si filosofia e teologia, per sperimentare quell'apertura e presenza
dell'essere ehe sia una teofania di pura esperienza, e colga allo
stato naseente l'essere stesso dentro il quale appare il « dio » come
la concreta presenza dell' Assoluto nel tutto. Ma Heidegger e in con-
dizione di prendere direzioni multiple e non si puo prevedere la
posizione futura: quel ch'e certo e ehe non si vede eome la sua con-
cezione dell' Assoluto, con i presupposti attuali, possa arrivare a
un Dio-Persona ehe ha avuto un rapporto storieo decisivo con
l'uomo ed ha dato alla storia una struttura definitiva eome insegna
il Cristianesimo. Heidegger suscitato l'interesse per il problema me-
tafisico puro obliato dal pensiero moderno; ha mostrato all'uomo
moderno 1a radice profonda del « disagio » ehe lo preme d'ogni
parte nel vuoto di essere a cui si e abbandonato; ha indicato la
suprema condizione di salvezza nell'apertura verso l'essere in at-
tesa del « Saero » ehe · ci annunzio il ritorno di Dio perehe e la
« mancanza » e la « fuga di Dio » ehe costituisce l'unico vero male.
L'uomo deve dare il suo impegno ineondizionato per avvertire nei
« segno dei tempi » la venuta di Dio. Altro la filosofia non puo?
L'ultima parola di Heidegger e ehe « dopo ehe gli unici tre - Eracle,
Dionisio e Cristo - hanno Iasciato la terra, ormai la sera del tem-
po cosmico incombe sul mondo e la « notte del mondo » diffonde ir-
reparabilmente la sua tenebra. Sarebbe Heidegger allora, ancora
piu· di Nietzsche, il sintomo ultimo e piu significativo della « aber-
razione » teologica del pensiero moderno?

. n Cf. Encyklop. d. philos. Wiss. $. 85: « Das Sein selbst, so wie die
folgenden Bestimmungen nicht nur des Seins, 'sondern die logischen Bestim-
mungen ueberhaupt, koennen als Definitionen des Absoluten, als die metaphy-
sischen Definitionen Gottes angesehen werden> (ed. Berlin 1840. Bd. I, p. 163;
ed. J. Hoffmeister, S. W. Bd. V, 1949, p. 105).
III

R. P. GEORGES DUCOIN S. I.
PBOPBSSORB NELLA FACOLT.A DI FILOSOFIA DI CHANTILLY (FRANCIA)

A PROPOS DE LA V~IT!l! A-L8THEIA

Les manuels classiques de Philosophie ont l'habitude de distin-


guer deux especes de verite, la verite logique et la verite ontolo-
gique, la premiere seule ayant le droit d'etre appelee <le fa4;on
stricte verite (elle est verite / ormaliter), car la seconde est plutöt
le f ondement ontologique de la verite que la verite.
Si cependant on se reporte au texte ou saint Thomas elabore
sa definition de la verite, on s'ape~oit qu'il distingue une triple
maniere de definir la verite: « tripliciter verit.as et ver.um defini-
ri inuenitur ». Or il semble bien que la troisieme maniere, celle
qui a echappe aux auteurs de Manuels, n'est pas sans ressemblance
avec certains aspects de la verite que HEIDEGGER a developpes,
notamment dans son Opuscule Vom W.esen der Wahrheit1. 11 peut
!tre interessant de relire la fin de I'article 1 de la question 1 du
de Veritate .dans cette perspective.
Ce texte celebre de saint Thomas commence par une deduc-
tion des transcendantaux sur laquelle il n'est pas necessaire de re-
venir. Cette deduction s'acheve par une sorte de definition gene-
rale de la verite: convenientiam ... entis ad intellectum exprimit
hoc nomen uerum. Mais saint Thomas ne se satisfait pas de cette
premiere ebauche de definition, car, puisqu'il est question d'intel-
ligence, il faul faire intervenir l'acte par excellence de l'intelli-
gence qui est la connaissance. C'est ce qu'il f ait dans la phrase
suivante: omnis autem oognitw perficitur per assimilationem co-
{IJU>Scentis ad rem cognitam, ita qrwd assimilatio dicta est causa
c,ognitwnis. Nous pouvons noter dans ce texte l'insistance de saint
Thomas sur le caractere actif de la connaissance : le mot a.ssimi-
lo.tio, comme son suffixe l'indique, exprime plus l'action que l'etat,
et la consequence selon laquelle cette assimilatio est cause de la
connaissance accentue encore ce caractere. 11 nous faut donc re-

1 Edition allemande de 1949, pp. 14-15. Traduction frall(aise de A. de


Waelhens et W. Biemel, pp. 83 sqq.
32 GEORGES DUCOIN S, 1,

tenir que l'intelligence vraie de la notion de verite se fera en con-


siderant le mouvement de l'intelligence qu'est l'acte concret de con-
naissance.
Puisque le vrai exprime la convenance de l'Mre a l'intelligence,
la premiere comparaison entre l'etre et l'intelligence sera pour
voir si l'etre correspond a l'intelligence (comprenons a l'in-
telligence qu'on a de l'etre). C'est en cela, dit saint Thomas,
que consiste formellement la ratio veri; l'essence meme de la
verite est la convenance, la correspondance, la conformite de
la chose et de l'intelligence, correspondentür, adaequati,o rei
et inteUectus. Tout semble dit puisque nous sommes arrives
a la definition formelle de la veritc. Saint Thomas cependant ne
le pense pas, car precisement, comme nous le faisions remarquer,
ce qu'il faul considerer c'est l'acte de connaissance, la connaissan-
ce que l'on ade la realite. Or, puisque le vrai ajoute quelque chose
a l'etre, savoir, la conformite de la realite et de l'intelligence, et
que de cette conformite procede la connaissance vraie de la realite,
nous nous · trouvons devant trois elements qui doivent intervenir
pour comprendre la verite de la connaissance: l'entitas rei, la ratio
veritatis et la cognitio rei. Bien plus ces trois elements ne doivent
pas etre consideres independamment les uns des autres, car une
unite organique les reunit, l'unite meme de l'acte de connaissance:
sie ergo entitas rei praecedit rationem ueritatis, sed cognitio est
quidam uerita.tis effectus. Ces trois elements lies synthetiquement
dans l'acte de connaissance vont permettre de donner une triple
definition de la verite, ou mieux encore vont servir a exprimer les
trois m~nieres selon lesquelles il convient de considerer la verite.
La premiere maniere d'exprimer la verite ne considere que la
realite meme de la chose, entitas rei; c'est le fondement de la ve-
rite, ce qui vient avant la verite proprement dite. Nous l'appelons
maintenant la verite ontologique. « Le vrai c'est l'etre, comme dit
saint Augustin. Et saint Thomas eile egalement d'autres autorites.
II est une autre maniere de considerer la verite en s'attachant
a ce qui fait l'essence meme de la verite, secundum id quod. forma-
liter rationem •veri perficit; c'est la definition formelle de la verite,
veritas est adaequatio rei ,et intellectus, selon la formule attribuee
a Isaac ISRAELI qu'accepte saint Thomas. Nous l'appelons verite
logique.
Mais il est une troisieme maniere de definir le vrai en ne consi-
derant plus seulement le fondement de la verite, c'est-a-dire l'elre,
ni meme l'essence de la verite, c'est-a-dire la conformite de l'etre
et de l'intelligence, mais l'effet de cette conformite, c'est-a-dire
la connaissance vraie que l'intelligence a de la realite, et tertio mo-

A PBOPOS DE LA VlUUTE A-L~THEJA
••
do definitur verum s.ecundum effectum con&equentem. La verite,
appliquee ainsi a la connaissance concrete, marque alors le caracte-
re par lequel la realite est manifestee a l'intelligence, devoilee A
l'intelligence. C'est le sens des autorites citees par saint Thomas:
le vrai est ce qui manifeste, ce qui declare l'etre, verum est mani-
festativum et declariativum esse. Ainsi parle saint Hilaire. Et saint
Augustin: la verite est ce par quoi l'etre est montre, veritas est
qWI. ostenditur id quod est. Ne pourrait-on pas traduire: la verite
est devoilemeilt de l'etre? II semble que nous avons retrouve cette
maniere moderne de considerer la verite familiere a HEIDEGGER.
Bien sö.r il ne s'agit pas de confondre les perspectives tho-
miste et heideggerienne. « De l'essence de la verite » va beaucoup
plus loin que cette simple afflrmation de la verite comme 1U.110e1a.
Ce n'est sans doute pas « la question decisive du sens de l'Etre >
qui y est developpee; mais on peut penser qu'on y trouve une ten-
tative d'approche de l'Etre a partir de l'attitude du Dasein cherchant
la verite de l'etant. Mais il ne faudrait pas par contre reduire la
deduction thomiste a une pure definition formelle de la verite. La
verite logique n'exprime que l'essence abstraite de la verite. Si l'on
veut suivre le mouvement total de l'acte de connaissance vraie, il
faut aller jusqu'a la troisieme defmition de la verite, verite qui
est manifestation de la realite de l'etre. Mieux encore \1 faut con-
siderer l'unite des trois deflnitions dans la seule realite concrete
qui assure l'unite de l'etre et de l'intelligence, la connaissance vraie.
Alors, pour reprendre un vocabulaire classique, la premiere defl-
nition de la verite, verite ontologique, fondement de la verite, ap-
paraft comme la matiere de la verite. La deuxieme deflnition expri-
merait la forme (formaliter ratio veri}. Mais la seule verite concrete
existante est l'unite de la matiere et de la forme, ou, si l'on veut,
la penetration de la matiere par la forme, autrement dit l'ade-
quation, pure essence de la verite, appliquee a la realite existante,
pour permetfre une manifestation, un devoilement de cette reali-
te A l'intelligence connaissante. Et l'on pourrait reprendre presque
textuellement certains developpements de HEIDEGGER, notamment
le chapitre deuxieme ou il montre que le concept courant de verite
adequation ne peut trouver son sens que si l'on y inclut la presen-
tation a l'intelligence de la realite: « L'enonce relatif a la piece
de monnaie se rapporte a cette chose en tant qu'il la rend presente
et dit ce qu'il en est de ce qui est rendu present selon la perspec-
tive directrice du regard » 2 • L'adequation ou conformite de l'intel-
ligence et de la realite qui definit l'essence de la verite ne prend

2 p. 11. Traduction cit~e, pp. 75-76.


3· Studl flloaoflcl
GEORGES DUCOIN S. I.

tout son sens que si on la comprend dans le mouvement par le-


quel l'intelligence face a la realite s'etforce de decouvrir cette reali-
te, de la manifester, de la devoiler, mouvement qui est d'ailleurs
l'acte de l'intelligence, le jugement. Saint Thomas avait trop le
sens de la realite concrete existante pour en rester a la pure essence
de la verite.
IV.
R. P. ATHANA'SIO DE VOS 0. P.
PROFESSORE NEL PoNT. ATENEO « .ANGELICUM >

LA THEORIE HEIDEGGERIENNE DE LA VERITE


CONFRONTATION AVEC LA DOCTRINE TRADITIONNELLE

Toute pensee philosophique est amenee a s'interroger sur le


probleme de la verite. D'une fa~on ou d'une autre le philosophe
doit se prononcer quant a l'essence d'une valeur eternelle que Jas-
pers « situe > dans l'existence humaine en notant « qu'elle nous
donne la force de supporter l'inquietude de la recherche > 1 • Le
probleme de la verite doit meme etre crucial pour une conception
existentialiste de la realite. Rien en effet ne lui semble plus etran-
ger que la dualite pour le moins sous-jacente de l'existant et du
theorique, dont temoigne l'idee meme de verite.
Quoi qu'il en soit, de f ait le probleme qui va nous occuper ici
a ete traite par differents penseurs que l'on peut rattacher au cou-
rant existentialiste et il serait tres instructif de comparer ces varian-
tes de la nouvelle theorie de la verite pour en discuter le commun
denominateur. Mais un tel projet nous conduirait trop loin. Prenons
donc simplement le coryphee de la nouvelle tendance, d'autant
plus qu'il est revenu plusieurs fois sur ce qu'il appelle non seule-
ment la «Wesen» ou l'essence de la verite, mais encore et surtout
son « wesen » c'est-a-dire sa realite profonde 2 •
Meme ici il nous faul .retrecir le champ de notre investigation.
II serait vain de vouloir englober dans une simple communication
tous les elements de la conceptfon heideggerienne de la verite. Non
seulement une fa~on toute particuliere d'aborder les questions phi-
Iosophiques et une terminologie compliquee rendent-elles pareille
entreprise tres malaisee, mais encore serions-nous obliges de tou-
cher aux points fondamentaux de la doctrine generale de Heideg-
ger. Celui-ci rattache « l'essence de la verite » a sa conception pro-
fonde de l'art (Kunstwerk), a une theorie de l'expression (Sprache,
Sagen, Dichtung) et a une explication subtile de l'activite humaine

1 Karl JASN.Rs, Von der Wahrheit, Munich 1947, p. 462.


2 Cfr. Vom Wesen der Wahrheit, 2e ed., Francfort 1949, p. 26.
36 ATHANASI0 DE V0S O, P,

(Freiheit als Sein-lassen des Seienden), en un mot a une definition


nouvelle de l'homme et de la realite comme teile. On devrait meme
y ajouter une conception particuliere de l'histoire et de l'evolution
de la pensee (Denken, geschichtlich), voire une interpretation inae-
ceptable de la philosophie grecque.
Celle longue enumeration de questions philosophiques n'est
pas du tout hors de propos ici. Elle fait entrevoir l'importance du
probleme de la verite chez Heidegger. Ensuite eile souligne com-
bien il est necessaire de limiter notre recherche a un point tres pre-
cis, bien que l'ensemble de l'existentialisme heideggerien ne doive
jamais etre perdu de vue.
L'esprit de l'homme est ainsi f ait qu'il exprime plus f acile-
ment sa pensee, que sans doute il en trahit plus clairement la ten-
dance profonde non dans ce qu'il afflrme mais par ses negations,
dans son refus d'accepter les vues des autres. Un philosophe com-
me Henri Bergson n'avouait-il pas, apres avoir eerit ses ouvrages
les plus celebres, que chacun d'eux avait ete coru;u et lentement.
avait mtiri sous l'influence negative d'une theorie deja existante qui
ne pouvait le satisfaire comme explication d'un aspect determine
de la realite? Et Heidegger insiste lui-meme dans une page bien
connue sur l'importance de la negativite dans « l'existence > hu-
maine •. C'est par ce biais methodique - major est vis negativae
sententiae - que nous entamerons sa theorie de la verite. Celle
methode nous est d'ailleurs en quelque fac;on imposee par notre
auteur. Heidegger a toujours traite le probleme en question en s'ap-
puyant sur une critique, qu'il croit serree et qui a certains peut
sembler impressionnante, de la doctrine traditionnelle. Bien qu'il
insiste sur la simplicite de son intuition profonde, il semble toujours
avoir senti le besoin de deblayer le terrain philosophique en mi-
nimisant la position de l'Ecole en la matiere. Voila un fait que nous
ne pouvons interpreter ici, mais que nous nous faisons un devoir
de constater au prealable.
Nous en trouvons une nouvelle preuve dans un texte recent
qui au surplus a la qualite d'etre bref et de resumer a perfection
la maniere-courante de Heidegger dans sa critique de la verite com-
me « adaequatio ». II ecrit dans Holzwege ce qui suit. « Le peu de
valeur et I'etroitesse qqe_ denote la conception generalement admi-
se de la verite, paraissent dans l'insouciance avec laquelle on fait
usage de ce terme primordial. On parle de verite pour une verite
quelconque, simplement pour dire que quelque chose est vrai. Est
ainsi nommee vraie, la connaissance qui est contenue dans une

s Was ist Metaphysik, Ge !Sd„ Francfort 19ö1, pp. 33-34-.


LA THEORIE HEJDEGGERIENNE DE LA VERITB 37

proposition. Seulement, vrai ne se dit pas uniquement d'une pro-


position, mais aussi d'une chose qui se presente a nous, de l'or vrai
par opposition a du simili. Vrai denote ainsi de l'or authentique,
reel. Qu'enten<l-on ici par ce mot reel? Ce qui est en verite. Voila
donc que Ie cercle se ferme: vrai se dit de quelque chose qui
correspond a la verite et reel est dit de ce qui est en verite » "·
Par cette argumentation dont on trouve une serie d'equivalents
a partir des pages centrales de Sein und Zeit de 1927 jusqu'ä la
« Einführung in die Metaphysik» de cette annee, Heidegger n'en-
tend pas seulement demontrer le caractere simple et original <le
la notion de verite, mais il a surtout en vue de stigmatiser la du-
plicite de l'etre et du connaitre comme l'opposition prealable qui
rend fatalement impossible toute conception philosophique de la
verite, ou comme il le dit lui-meme, qui condamne l'idee de verite
ä rester inauthentique. Dans son dernier ouvrage il note sans am-
bages que « cette separation apparemment inoffensive de l'etre et
de la pensee est precisement la tendance fonciere de l'esprit occi-
dental qu'il s'est propose de combattre » 6 • Nous ne voulons pas
pour autant rejeter toutes les implications d'une teile assertion, no-
. tons seulement qu'elle contient sans aucun doute le refus pour
la pensee theorique de tout pouvoir d'atteindre une realite qui a
l'origine serait distincte d'elle. Une teile position est assez claire
en soi. Qu'il nous suffise d'en noter la consequence immediate pour
le probleme qui nous occupe ici: selon Heidegger l'acception d'une
dualite de la chose et de l'idee reduit necessairement l'essence de
la verite a la seule « Richtigkeit » c'est-a-dire a ce qui est commu-
nement appele « adaequatio rei et intellectus ».
Ici nous voulons passer la parole a Saint Thomas d' Aquin. Un
des tout premiers points de discussion qu'il traita en son temps
a l'Universite de Paris fut precisement la question « utrum ve-
ritas prfocipalius inveniatur in intellectu » et il entamait sa « So-
lutio » par une observation judicieuse quoique de pure Logique -
cette discipline tellement decriee par les modernes et tout specia-
lement par Heidegger. « II n'est pas du tout requis - disait Saint
Thomas - d'attribuer un predicat analogique premierement a ce
qui est la cause que d'autres en soient denommes, mais .bien a
ce qui realise en premier lieu la notion complete dont il est ques-
tion » 6 • Pour une conception adequate et « authentique » de l'essen-
, Holzwege, Francfort 1950, p. 38.
s Einführung in die Metaphysik, Tubingue 1953, p. 89. Notons ici qu'A
la page 155 (dans une note additionnelle de 1953) Heidegger semble accepter de
plein gre la denomination « Existentialismus >.
e De Veritate, Qu. 1, art. 2.
38 ATRANASIO DE VOS O. P.

ce de la verite point n'est donc besoin de rejeter le rapport a l'in-


telligence, autrement dit de le considerer comme secondaire et
derive.
Ecoutons maintenant Heidegger. « A-letheia, la sphere qui etait
prevue pour l'apparition des etres, s'ecroulait avec la philosophie
d' Aristote. Comme debris restaient l'ldee et le Predicat, oüa(a et
xat1}yoe(a. Au fond il n'y avait plus qu'une issue: ce qui gisait
par terre brise en deux parties separees, pouvait en somme ~tre
restaure mais uniquement par un rapport qui aurait le m~me
aspect d'etre separe et factice » 7 • A la lecture d'un texte pareil qui
n'est pas unique dans son genre, on doit se demander si notre au-
teur est tout a fait sincere, s'il croit vraiment que les philosophes
avant lui, du moins a partir d' Aristote puisque les presocratiques
gardent toute sa faveur, que ces philosophes se sont occupes des
entites metaphysiques comme de billes, ou si l'on prefere une com-
paraison plus appropriee, qu'ils ont conc;u l'~tre et le vrai, la subs-
tance et la relation de m~me que tous les ~tres de raison a peu pres
comme des electrons que le physicien s'efforce de reunir dans un
systeme bien agence.
En tout cas Saint Thomas n'hesite pas, dans la « Quaestio »
deja indiquee, a garder jusqu'a la fin de son expose et de toute sa
theorie, la relation de l'etre au connattre comme essentielle pour la
notio-n de verite. Apres avoir distingue ce que plus tard on est con-
venu d'appeler verite logique et verite ontologique, ensuite apres
avoir insiste sur la difference radicale entre le rapport de la chose a
une pensee creatrice d'une part et a une connaissance ·purement
theorique de l'autre, il termine son article par cette phrase: « si uter-
que intellectus intelligeretur auf erri, nullo modo veritatis ratio re-
maneret ».
Ce rappel d'une doctrine parfaitement connue doit nous servir
dans la confrontation que nous avons en vue. Dans son opuscule sur
la verite Heidegger a d'ailleurs lui-m~me resume la theorie qu'il
entend rejeter et remplacer. II l'a fait dans une formule qu'on n'a
pas hesite a nommer « saisissante » 8 • La voici: « Die veritas als
adaequatio rei (creandae) ad intellectum (divinum) gibt die Gewähr
für die veritas als adaequatio intellectus (humani) ad rem (crea-
tam) ». Toutes reserves faites quant a la resonance cartesienne de
cette formule, on peut l'accepter comme l'expression de la doctrine

1 Einfahrung ..., p. 145.


s Vom Wesen der Wahrheit, p. 8; cfr. Revue de Mctaphysique et de
Mornle 1951, p. 46.
LA THEORJE HEIDEGGERIENNE DE LA VERITE 39

commune. II semble donc tres clair que la critique de Heidegger s'a-


dresse a eile.
Essayons maintenant de voir ce qu'il nous propose comme l'es-
sence authentique de la verite. II s'agira surtout de comprendre com-
ment Heidegger s'efforce d'eviter la distinction classique entre ve-
rite logique et ontologique ou plutöt, puisque nous nous canton-
nons avec lui dans le domaine de la Metaphysique ou du reel (par-
lons donc comme lui de l'essence de la verite et non plus de sa no-
tion), comment H entend eliminer la dualite: etre et essence, etre
et verite. Citons d'emblee un texte recent oll l'image poetique ne
doit pas nous distraire de l'idee profonde que l'auteur y a condensee.
« Au milieu des etres pris dans leur ensemble il y a comme une
eclaircie. Une lueur s'affirme (Eine Lichtung ist). Mise en rapport
avec les etres eile est plus etre qu'eux. Elle n'est pas un centre en-
toure d'etres, disons plutöt que le centre lumineux enveloppe les
etres, a peu pres comme le fait le neant que nous pouvons a peine
concevoir. Un etre est seulement etre dans la mesure Oll il se meut
dans cette lumiere, lui appartenant d'une part et d'autre part ne lui
appartenant pas ... Car meme pour autant qu'il reste cache, l'etre
ne peut que se trouver dans l'orbite de cette Iumiere. Chaque .etre
qui se presente a nous et nous accompagne, possede une etonnante
presence qui simultanement se derobe » 9 •
L'essence de la verite consiste donc dans une « eclaircie » (Lich-
tung) ou une « aperite » - pour suivre la traduction communement
admise du mot «Offenheit». Mais le plus souvent Heidegger a re-
cours a un terme voulu par lui comme equivalent du grec A-letheia:
Unverborgenheit, c. a. d. le fait de ne plus etre cache, du moins dans
son entier. C'est la le sens complet du mot dont notre auteur se sert
de preference dans ses ,derniers ecrits.
N'il!_sistons pas sur la valeur quasi-mystique que Heidegger at-
tribue au terme mentionne ni. sur sa traduction pretendiiment phi-
lologique par un mot tres ordinaire de la langue allemande. II est
evident que la theorie de notre philosophe, tout en s'inspirant du
vieux mot grec, n'en est pas deduite. D'ailleurs nous sommes bien
tous a !'heure actuelle assez convaincus de l'insuffisance radicale
des mots - de mots comme tels - a exprimer des concepts pure-
ment metaphysiques, pour que nous puissions chercher chicane a
un metaphysicien a la recherche de termes vraiment aptes a expri-
mer des vues qu'il croit sincerement etre nouvelles. D'autant plus
que si l'on peut differer d'avis quant a ce dernier point, personne

e Holzwege, p. 41.
"ne doutera de la profondeur d'une philosophie que couvre une ter-
ATRANASIO DE VOS O. P.

minologie parfois encombrante.


Mais ce qui doit nous frapper dans le terme que Heidegger em-
:ploie avec insistance pour designer l'essence de la vl!rite, c'est son
caractere negatif. L'idee ne l'est nullement. « Unverborgenheit > de-
signe ce qu'il y a de plus positif dans l'etre - plus etre que l'etre
determine - comme il est dit dans le texte cite. Seulement, le terme
est negatif, il doit necessairement l'etre pour qu'il puisse exprimer
parfaitement la « Lichtung > ou le flamboiement - la luisance de
l'Etre dans un Mre. Car un etre qui eclöt, qui ne reste pas dans
l'obscurite absolue du neant ou du faux ou du possible sans plus,
un tel .etre ne se revele pas completement, ou pour mieux dire -
il n'est pas pure revelation: « un epuisement de son secret serait
pour un Mre l'epuisement de sa vl!rite >, pour paraphraser une pa-
role de Heidegger. Verite signifie donc sortir du secret tout en y
restant et pour cela il faut meme dire que l'apparition d'un Mre
ou son actualisation devant la conscience metaphysique est plus une
«Verborgenheit> qu'une clarte.
Nous ne pouvons nous empecher de rapprocher cette theorie
d'une vue profonde de Spinoza: determinatio negatio est 10 • Mais
peu importe pour le moment le rappel de ce penseur dont Ja pen-
s~e intransigeante autant que paienne nous semble intimement pre-
sente a toute la philosophie moderne. Nous voulons uniquement
poser deux questions critiques, en suivant en cela une methode que
Heidegger semble prl!ferer. Y-a-t-il rien de plus « logique > que la
negation - quoi qu'il en dise dans son « Antrittsrede >? Valait-il
done la peine de tant decrier le logique comme tel et specialement
l'emploi qu'on en fait dans la theorie de la verite, pour le rencontrer
au coeur meme de ce probleme?
Nous pouvons conceder une instance a Heidegger. II s'eff'orce
dans son d~rnier livre de nous faire voir comment le Logos pour-
rait s'admettre, notamment comme « Sammlung > - en union prea-
lable et originale avec la « phusis >. De nouveau ce concept de
« Sammlung > est mis en relation avec le soi-disant premier sens
de « legein >, qui signifie « cueillir > ou Sammeln. L'etre devrait
donc etre pris comme l'unite absolue sans dualite aucune ( sans
« vorhanden >) de la nature ( reelle) et de la quiddite, de l'etre et
de son essence. Sous cette reserve le Logos, qui se trouve tout de
meme du cöte de l'essence et de la quiddite, ne serait pas etranger
a la realite.

10 Lettre l Jarig Jelles (60); cfr. Opera, ed Gebhardt, IV, p. 240.


LA THJloRJB BEIDEOOERIENNE DE LA VBRJTj ,1
Encore une fois nous procederons dans notre critique par ques-
tions, maintenant sous forme de dilemme. Ou bien Heidegger entend
precisement accentuer l'irrealite de toute essence ou quiddite prise
separement de l'etre dans lequel eile est realisee ou incarnee, donc
dans un etat d'abstraction pure et simple. Alors nous sommes tout
a fait d'accord avec lui et il n'y a la aucune raison de rejeter le lo-
gique. II s'agit uniquement de ne pas lui donner :une valeur qu'il
n'a pas et nous vo:ulons meme mettre au credit de l'auteur l'insistan-
ce avec laquelle il a depuis toujours propose cette verite. Ou bien
Heidegger a implicitement en vue - et nous insistons de nouveau
sur ce point - de refuser toute saisie du reel, meme la plus reduite
qui soit, a l'intelligence theorique - ce qui ·est aux antipodes d'une
metaphysique saine et fructueuse.
Analysons maintenant un deuxieme element qui est intimement
lie au premier, a la « Unverborgenheit ». En insistant sur le carac-
tere negatif de ce terme nous avons quelque peu f orce la distinction.
En somme il s'agit de deux etapes dans l'analyse d'une meme idee,
deux etape~ que Heidegger distingue d'ailleurs lui-meme. lci sa theo-
rie s'eelaircira completement, to:ut en sombrant dans la nuit du mys-
tere, dans un abtme, comme il ecrit. Seulement, tout en nous in-
clinant devant le meme mystere de l'Mre et de sa verite, nous ne
pouvons que trouver obscure l'explication nouvelle et definitive que
Heidegger essaie d'en fournir. Voici donc le fond de sa pensee.
La verite englobe la non-verite. Non la faussete ni l'erreur, cer-
tainement pas le ne;mt, ni meme un mouvement de va-et-vient en-
tre verite et non-verite comme si l'une en appelait a l'autre pour
constituer l'essence meme de la verite par une sorte de dialectique
a la maniere de Hegel. Notre philosophe exclut nommement toutes
ces acceptions, tout en decretant de nouveau en guise de conclusion,
que verite et non-verite sont essentiellement unies. Evidemment la
ehose semble plus acceptable quand eile est presentee en allemand
par la dualite « Unverborgenheit-verbergen ». Heidegger s'ingenie
a nous en convaincre. Citons deux textes recents. Dans celui de Holz-
wege l'explication est plus poetique quoique toujours fondamentale,
la Einführung in die Metaphysik donne la synthese en une formule
qui semble definitive - comme une deflnition.
« Dans l'immediat, les etres nous paraissent Mre familiers, ins-
pirant conflance, de tout repos. Pourtant la presence lumineuse
de l'etre ( die Lichtung) est dominee par une obscurite persistante
sous la double forme d'un refus (Versagen) et d'une dissimulation
(/Verstellen). Ce qui inspirait confiance ne resiste pas a un contact
plus intime; il inspire de la frayeur. La verite · elle-meme,c. a. d.
c Unverborgenheit » est tiraillee par un refus. Non qu'il s'agisse
ATHANASIO DB VOS 0, P,

d'un vide ou de quelque erreur, comme si Ja verite etait simplement


'ne plus etre cache ', ce qui impliquerait que Je secret fut comple-
tement revele. Dans ce cas Ja verite ne resterait plus elle-meme. A
I'essence de la verite entendue comme « Unverborgenheit » appar-
tient en propre ce refus de soi par une double fa~on de se cacher.
Verite comporte essentiellement non-verite u.
« Selon un mot d'Heraclite, q,uaL~ xQu:immOm q,U.Ei : l'apparal-
tre en acte (aufgehendes Erscheinen) tend de soi a se cacher. Puisque
Etre signifie • apparaitre en acte' ou sortir du mystere (Verborgen-
heit), il doit essentiellement garder cette appartenance a l'abtme
(Verborgenheit) dont il provient. Cette origine affecte necessaire-
ment l'Etre, l' Apparattre comme tel» u.
L'essentiel dans tout cela nous semble assez simple. Heidegger
veut affirmer ici a sa maniere ce que depuis tant de siecles tous les
grands philosophes ont essaye de f ormuler dans des termes de plus
en plus affines et ce qu'on est habitue a nommer de nos jours « le
mystere de l'etre » : qu'il y a dans ce qui nous entoure une part
d'intelligibilite et d'autre part une obscurite radicale. Pour nous,
philosophes chretiens, I'explication de ce mystere reside dans une
double incommensurabilite de notre esprit incame: d'une part de-
vant l'acte pur, du oote oppose devant la pure matiere. En un mot,
Ia dualite d'intelligible et de non-intelligible est vue d'un angle bien
determine: elle est le fait d'une deficience de notre intelligence et
d'une imperfection fonciere non seulement de l'etre materiel mais
encore de tout etre cree.
Limitons-nous a cette deficience qui caracterise notre savoir.
Alors qu'il ne peut etre contradictoire d'admettre a la fois que l'etre
comme tel soit intelligible en soi mais que l'intelligibilite etfective-
ment saisie demeure toujours determinee par le mode de connaitre 1111
puisqu'aussi bien le rapport a un connaissant est de l'essence meme
de l'intelligible et de la verite, la meme opposition entre turniere et
deficience de luminosite est moins acceptable quand il s'agit d'un
seul et meme terme auquel les deux se referent formellement.
Heidegger a decide de rompre avec la conception dualiste de l'etre
et de la pensee et par le fait meme, etant admis qu'il s'agit pour lui
d'expliquer la meme realite, il est amene a reconnattre son equiva-
lent dans l'etre comme tel, donc sans qu'il lui reste une possibilite
de reduire ulterieurement l'opposition entre intelligible et non-intel-

11 Holzwege, p. 43.
12 Einfilhrung .., p. 87.
1,s « De eo quod est idem re et differens ratione nihil prohibet contradic-
toria praedicari >, dit S. Thomas dans De Potentia, Qu. 7, art. 1, ad 6m.
LA THEORIE HEIDEGGERIENNE DE LA VERITE 43

ligibilite, verite et non-verite dans le meme etre et sous le meme


rapport. Car sur le plan ou nous nous trouvons, au point d'insertion
de la verite a l'etre, la premiere etant par surcroit declaree l'element
le plus foncier ,il n'y a plus lieu de ,distinguer encore. II nous sem-
ble tres significatif que Heidegger doive, pour le fond de la question,
emprunter au philosophe d'Ephese l'idee brumeuse de lutte et de
guerre (polemos) comme fondement et raison ultime des etres.
Ne peut-on pas legitimement demander ici pourquoi une valeur
d'etre - la verite - qui est censee appartenir par essence a l'hom-
me, doit etre refusee a 1a pensee theorique qui non seulement est
consideree comme l'operation la plus elevee puisqu'elle saisit l'etre,
mais a laquelie Hei,degger lui-meme ne refuse pas tout credit meta-
physique? N'ecrit-il pas dans son livre de 1950: « Un etre se refuse
a nous excepte quant a ce pauvre residu que nous touchons cn di-
sant que l'etre est. Il y a la UD commcncement de revelation d'e-
tre » 14 • Pourquoi refuse-t-il de continuer dans cette voie? ll n'y
a a cela qu'une seule .raison: sa reluctance devant la pensec abstrai-
te dont il meconna1t la vraie nature, en la prenant uniquement dans
un sens rationaliste comme si la « conceptio » de notx:e intellect -
pour employer le terme de S. Thomas l'5 - etait necessairement
un « double » de l'etre comme tel. A cet egard la mise au point que
Heidegger fait vers la fin de son « Einführung » nous paratt bien
indiquer l'equivoque qui subsiste dans son esprit. Ce qui lui sem-
ble avoir ete fatal dans l'evolution de la philosophie depuis Aristote
n'est pas simplement le fait que la « nature » ait ete prise comrile
« idee » mais plutöt que cette derniere ait ete consideree comme l'es-
sence meme et le fondement de l'etre: « die einzige und massgeben-
de Auslegung des Seins» 16 •

M Holz·wege, p. 42.
15 De Potentia, Qu. 8, art. 1; a confronter avec Contra Gentiles IV, 11 et
avec Summa Theol. P. I, Qu. 87, art. 1, ad 3m.
16 Einführung ... , p. 139; a la page prccedente on peut lire dans le meme
sens: « So kann denn 011<1L<1 beides bedeuten: Anwesen eines Anwesenden und
dies Anwesende im Was seines Aussehens ». -Nous voulons signaler apres
coup une page d'Endre von Ivänka dans Scholastik. En guise de conclusion
a une note critique (W:as bleibt von der Existenzphilosophie?) il preconise
une renaissance de l'augustinisme et continue ainsi - c'est nous qui souli•
gnons: « freilich eines Augustinismus, der von einer Erkenntnislehre losge-
löst werden müsste ... und durch eine wirkliche Theorie der Gegenstandserkennt-
nis ergänzt werden müsste, die nur von der ' aristotelischen ' Seite bezogen
werden kann. Dafür hat uns gerade die existentialische Einseitigkeit und ihre
Konsequenz, die monistische Absorbierung des Erkennens durch das Dasein
erst recht die Augen geöffnet» (l. c. 1952, p. 407). On ne saurait plus bricve.ment
formuler l'idee critique qui nous a guide dans !es pages qui precedent.
V.
R. P. ALOYS NABER S. I.
PaOFBSSORE NBLLA PONTIFICIA .UNIVBRSITA GREGOBIANA

WAHRHEIT UND SEINSDENKEN BEI MARTIN HEIDEGGER

« Ein Denken, das an die Wahrheit des Seins


denkt, begnügt sich zwar nicht mehr mit der Meta-
physik; aber es denkt auch nicht gegen die Meta-
physik. Es gräbt ihr den Grund und pflügt ihr den
Boden>,

Mit diesen Worten aus der «Einleitung> zu « Was ist Meta-


physik>. (6. Aufl. S. 9.), deutet uns Heidegger selbst an, was wir
auf die uns gestellte Frage etwa zu antworten haben. Die Frage lau-
tet: wie lässt sich heute H. s Stellung zur Ontologie charakterisie-
ren und worin besteht wohl der Ertrag seiner Philosophie für unser
Seins-Denken? Und tatsächlich wäre es kaum möglich, in Kürze die
gebührende Antwort zu geben, hätte nicht schon unser Philosoph
selber wesentlich vorgearbeitet. Er tat es insbesondere in verschie-
denen der kleineren Abhandlungen des letzten Jahrzehntes, die,
jede in ihrer Weise, in fortschreitender Ausdrücklichkeit, eine wei-
tere Stufe seines methodischen « Rückganges in den 'Grund der Me-
taphysik > darstelien. Unter ihnen scheint sich für unseren Zweck
besonders die Schrift: « Vom Wes.en der Wahrheit:. 1 zu eignen, die
thematisch den ontologischen Möglichkeitsbedingungen des Seins-
Denkens nachspürt. Denn dies Wesen der Wahrheit wird schliess-
lich in der Wahrheit des Wesens - (verbal genommen), - also
des Seins selbst erblickt. So erschliesst uns diese Schrift tatsäch-
lich H. s. Grundeinstellung zum Sein: eine eigenartig überspitzte
Unmittelbarkeit des Seins, die dann aber ihrem Wesen nach zu-
gleich in dialektischer Gegenwende, zumal wegen Vernachlässigung
des ursprünglich intellektuellen Moments, eine folgenschwere Ver-
kürzung und Einengung der Seins-Erkenntnis bedingt. Zwar bleibt
in der Schrift, - wie H. ausdrücklich in der am Schluss beigefüg-
1 Wir zitieren nach der Ausgabe von 1949, einfach durch Angabe der
entsprechenden Seitenzahl der Schrift, im Text selbst. - Es sei noch eigens
verwiesen auf die vorzügliche Einführung in den Gedankengang der Abhand-
lung: A. de Waelhens und. Walter Biemel, Heideggers Schrift « Vom Wesen
der Wahrheit>, (Deutsche Ausgabe in « Sympo1ion > III), der wir manche
wertvolle Anregung verdanken.
,6 ALOYS NABER .S. I.

ten « Anmerkung > erklärt - « die entscheidende Frage nach dem


Sinn, d. h .... nach der Wahrheit des Seins und nicht nur des Seien-
den, ... absichtlich unentfaltet >. (S. 26) Aber sie liegt doch klar dem
ganzen Gedankengang zugrunde und erweist sich auf Schritt und
Tritt als das alles bestimmende und tragende Motiv. Und, wie
die betonte Entgegenstellung von Wahrheit des Seins und des Sei-
enden zu verstehen gibt: ist auch hier wieder die Sicht die der on-
tologischen Differenz, die H. s ganzes Ringen um die Wiederge-
winnung der Ontologie beherrscht.
Nach einigen einleitenden Klärungen zum Warum und Wie
von H. s neuer Fragestellung, folgen wir schrittweise seiner onto-
logis-chen Rückführung der Wahrheit, soweit dies zum Aufweis der
Tatsache, der Eigenart und der Reichweite der menschlichen Seins-
Erkenntnis wichtig ist, - um dann zur vorgetragenen Neubestim-
mung der Wahrheit und den mit ihr gegebenen, weittragenden Fol-
gen für die dem Menschen zukommende Seins-Erkenntnis kurz Stel-
lung zu nehmen.
* * *
Ontologisch, d. h. von seiner eigentümlichen Ausrichtung auf
das Sein des Seienden gefordert, - ist schon die Zurückweisung
der bisher geläufigen Auffassung von der Wahrheit, von der die
Schrift ihren Ausgang nimmt.
Denn H. s Leitgedanke hier, wie übrigens in seinem ganzen
philosophischen Werk, ist es, den philosophierenden Menschen sei-
nem vielgestaltigen Verhalten nach wiederum zur ursprünglichen
unmittelbaren Nähe des Seins zurückzuführen. Dem Sein soll wie-
der der ihm zukommende, ursprünglich alles bestimmende Vorrang
zurückerstattet werden. Das bedeutet aber für H. ein Wegräumen
zumal all der verschiedenartigen subjektbedingten begrifflich-dis-
kursiven Tätigkeiten und Elaborate, mit denen sich jedes mehr
oder weniger rationalistisch seinsentfremdete Denken die schlicht
vernehmende, ursprünglich unmittelbare Seins-Erfahrung verbaut 2 •
In etwa derselbe Leitgedanke, der seinerzeit auch Hegel vor-
schwebte, da er sich anschickte, über Kants Versubjektivierung des
Denkens hinweg, auf seine Weise der Ontologie wieder zum Durch-
bruch zu verhelfen. Auch da galt es, den ganzen subjektiv trans-
zendentalen Apparat von Formen und Kategorien, samt der die me-
taphysische Tiefenschicht des Seins verdeckenden phänomenalen

12 Weil nunmehr H. das Sein nicht mehr vom Menschen her, « als vom
Dasein entworfen :. ... ansieht, - sondern, umgekehrt, klar das Wesen des Men-
schen vom Sein her, als die « Lichtung des Seins >, ... bestimmt: - wird, der
Einfachheit halber, von einer ausdrücklichen Bezugnahme auf die transzenden-
tal phänomenologische Fragestellung von « Sein und Zeit> abgesehen.
WAHRHEIT UND SEINSDENK:EN BEI MARTIN HEIDEGGER 47

Wirklichkeitswelt wegzuräumen, zu übersteigen, um im spekulati-


ven Denken wiederum - allerdings hier unter Beibehaltung des be-
grifflich diskursiven Denkelements, - das unmittelbar schlicht er-
fahrende Schauen des Seins herzustellen.
Oder, um noch auf einen anderen, H. geistesverwandteren Den-
ker der letzten Generation hinzuweisen : wiederum aus demselben
Leitgedanken heraus will auch H. Bergson den begrifflich diskur-
siven Verstand und sein ganzes, im Grunde einer rein utilitaristisch
berechnenden Zielsetzung verhaftetes Tun ausgeschlossen wissen,
damit auf dem Wege eines unmittelbaren metaphysischen Erlebens
(Intuition), der Zugang zur ursprünglichen « Zeit-Wirklicheit > frei
werde.
Wenn ferner Bergson als die verantwortlichen Urheber dieses,
jede wahre, weil seinsnahe Metaphysik im Keim erstickenden Ueber-
wuchems des begrifflich rationalem Denkens, in erster Linie Kant
und Platon hinstellt: so ist nach H. einfachhin die gesamte abend-
ländische Philosophie von Platon bis herauf zu Nietzsche diesem
Grundübel verfallen. Und dies aus dem einfachen Grund, weil sie
sich - ohne dass man sich darüber je ernntlich Rechenschaft ge-
geben hätte - ganz der von den Griechen du· klassischen Zeit, zu-
mal von Platon und Aristoteles ausgearbeiteten Logik verschrieb,
die längst der ursprünglichen Seins-Erfahrung entfremdet, an deren
Stelle ein ausschliesslich an der rationalistisch gefassten Idee orien-
tiertes Denken setzte. Also ein Denken, dem nicht mehr das urs-
prüngliche Sein Quellgrund, Mass und Richtschnur war, sondern
die abkünftige, letztlich subjektgebundene Idee und die daraus ent-
pringenden Denknotwendigkeiten. Wie H. dies des näheren ver-
steht wird sich weiter unten ergeben. Jedenfalls ist schon von diesem
Leitgedanken her ersichtlich, sowohl worum es bei der eingangs er-
wähnten « Metaphysik > geht, als im besonderen auch, weshalb wir
bei der eine solche Metaphysik tragenden Auffassung der Wahrheit
nicht stehen bleiben können. Auch hier gilt es also, das vordringliche
und beherrschende psychologisch-subjektive Element auszuschei-
den. Denn schliesslich ist doch das Urteil, - das nach dieser Auf-
fassung als der Ort der Wahrheit gilt - etwas nur Gedachtes; ein
Inhalt des Bewusstseins dessen, der urteilt; eben eine Vorstellung
oder Verbindung von Vorstellungen im « Gehäuse des Bewusstseins >.
Alles Momente, die offenbar einer unbefangenen Phänomenologie
der Erkenntnis nicht standhalten.
Noch aus einem anderen, für ihn nicht minder gewichtigen Be-
denken (oroert H. die Ablehnung der herkömmlichen Lehre von der
Wahrheit. Diese wäre schon von vornherein ungebührlich metaphy-
sisch, ja theologisch vorbelastet. Als ein für alle Mal gültig und
48 ALOYS NABER .S. I,

als selbstverständlich hingestellt, gibt diese Auffassung sich den


Anschein, als könne die Bestimmung der Wahrheit einfachhin von
der jeweils vertretenen Deutung des Seins und des Seienden im
Ganzen absehen; welch letztere ihrerseits doch wiederum von der
je in ihr mit eingeschlossenen Auffassung vom Menschen abhängig
ist. Was für H. umsomehr ins Gewicht fällt, als einzig aus dieser
doppelten Grundlage heraus erstmals auch die wesentliche Ge-
schichtlichkeit des Menschen und seiner Wahrheit verstanden wer-
den könne.
Wie es sich damit verhält, wird sich weiter unten zeigen.
Richtig ist jedenfalls dies: dass, im Hinblick auf ein methodisch
einwandfreies Vorgehen, selbstverständlich bei der Grundlegung
einer Metaphysik jeder inhaltliche Vorgriff, der einer unberechtig-
ten Voraussetzung gleichkäme, gewissenhaft vermieden werden
muss. Denn, nicht erst H., sondern bereits Aristoteles stellt uner-
bittlich den Grundsatz auf: einzig von den im Phänomen klar ge-
gebenen Sachverhalten dürfen wir uns zunächst leiten lassen; die-
se werden dann schon von selbst das reflektierend eindringende
Denken unweigerlich über sich hinausführen. In welchem Sinne
und wie weit sie uns in die Quellgründe der Ontologie werden zu-
rückgeleiten können, muss sich dann zeigen.

* ., *

So wollen wir zunächst Schritt für Schritt H.s Rückgang nach-


vollziehen, wie er uns, getreu seinem transzendental- methodischen
Vorgehen, vom offensichtlich gegebenen Phänomen der Ueberein-
stimmung zu den ontologischen Bedingungen ihrer inneren Mö-
glichkeit, zuni eigentlichen Wesensgrund der Wahrheit hinabführt.
Damit werden der Reihe nach all die für den nunmehr klar on-
tologischen Realismus H.s wesentlichen Elemente, in der ihnen je
zukommenden Leistung, hervortreten.
Um einem Missverständnis vorzubeugen, wie es nur zu leicht
vom Standpunkt des gesunden Menschverstandes aus entstehen
könnte, sei eingangs erst noch mit H. betont, dass es beim Wesen
der Wahrheit nicht etwa um diese oder jene « wirkliche > Wahrheit
geht, sondern einzig um das jeglicher Wahrheit Gem~insame, um
das sie erstmals als Wahrheit Auszeichnende und Begründende;
also um da·s Eine, das die Vielfalt ermöglicht und trägt.
Die Ausgangsfrage ist somit diese: wie ist überhaupt Ueber-
einstimmung als solche möglich? Offenbar besagt nun Uebereinstim-
mung eine bestimmte Weise der Beziehung, eine Angleichung zwi-
schen Aussage und Ding. Ihr Zustandekommen ist - im Sinne des
WAHRHEIT UND SEINSDENKEN BEI MARTIN HEI-DEGGER '9

betonten Realismus unseres Philosophen - eher eine Leistung, ein


« Ereignis » des Seienden als des Erkennenden, wenn auch natur-
gemäss beide beteiligt sind. Einerseits zeigt sich im «Vor-stellen>,
- das deshalb nicht im Sinne psychologischer « repraesentatio >,
sondern als Geschehen am Ding verstanden ist, - das Ding, so
wie es ist. Es erscheint also in seinem An-sich; ist selbst das
Scheinende, Leuchtende, und nicht etwa im Sinne Kants « blosse
Erscheinung», eines an sich grundsätzlich Verborgenen, oder gar
« blosser Schein». Vielmehr gehört das « von sich her Sichtbar
sein » ursprünglich konstitutiv zur erscheindenen Wirklichkeit. Die
wiederhergestellte ursprüngliche Nähe zum Seienden an sich, ist,
wie für Hegel, so auch für H. charakteristisch.
Anderseits setzt dies Vor-stellen als seine ermöglichende Be-
dingung die Offenheit, die Offenständigkeit des Menschen voraus.
Nicht als ob die Offenheit vom Menschen gesc_haffen würde; viel-
mehr ist der Mensch erst Mensch durch seinen ursprünglichen Be-
zug zum Offenen. Dies ist nur eine neue Wendung des wuchtigen
Grund-satzes H.s: der Mensch ist das « Da > des « Seins >, « Da-
sein». Und durch sein Stehen im Bereich der Offenheit wird das
so Offenbare zum «Anwesenden», und als solches «erfahren>.
Beides zusammen macht das aus, was immer schon das « Seiende >
genannt wurde. So wird denn ... « das Seiende selbst vorstellig beim
vorstellenden Aussagen, so dass dieses sich einer Weisung unter-
stellt, das Seiende so, wie es ist, zu sagen> (S. 11). Damit ist das
Wahre, als das Richtige, zurückgeführt auf das, was es als Rich-
tiges ermöglicht, die Offenständigkeit. Denn nur durch sie ist der
Bezug möglich, der ein « sich richten nach>, die « Anweisung
eines Richtmasses» besagt. So ist erwiesen, dass « die Wahrheit
nicht ursprünglich im Satz, in der Aussage beheimatet ist > ( S. 12).
Das ist vollberechtigt, insofern der Nachdruck auf dem « urs-
prünglich> liegt; denn der Ursprung der Wahrheit, ihr Grund und
Masstab liegt nicht in der Aussage, sondern klar im vorpraedika-
tiven Geschehen. Tatsächlich aber - dies sei hier schon nebenbei
vermerkt - greift H.s Folgerung wesentlich weiter: es gilt für
ihn als ausgemacht, dass dem Satz, dem praedikativen Aussagen,
überhaupt keine Wahrheit von wirklich ontologischer Geltung oder
Tragweite zukommt; dass es also für den Menschen auch einzig
im vorpraedikativen Geschehen, also im unmittelbar konkreten Er-
fahren des so entdeckten Seienden als solchen, Wahrheit im « ei-
gentlichen>, vom Sein gültigen Sinn gäbe. Eine Wahrheit, die
somit auch ganz der Ebene des konkret geschichtlichen, endlichen
Seins-Erlebnisses verhaftet bliebe. Die ungeheure Tragweite dieser
Annahme, - übrigens einer Grund-These H.s schon von « Sein und
4 - Studi filoaofici
so ALOYS NABBB .S. J.

Zeit> her, - wird in anderem Zusammenhang noch eigens her-


vorgehoben.
So viel steht jedoch fest: Wahrheit, als Uebereinstimmung und
Richtigkeit, gründet in der Offenständigkeit und dem ein Richt-
mass vorgebenden Verhalten:
Damit aber erhebt sich auch schon die weitere Frage nach
dem Grunde der inneren Möglichkeit des offenständigen und des
durch sie ein Richtmass vorgebenden Verhaltens.
Diesen inneren Grund bestimmt H. als « die Freiheit>, im Sin-
ne eines « Seinlassens von Seiendem >; und dies nicht bloss im
üblichen negativen Sinne gemeint, als ein « Absehen von >..., son-
dern in der durchaus positiven Bedeutung eines « sich Einlassens
auf das Seiende », eines c Zurücktretens vor dem Seienden, damit
dieses in dem was es ist und wie es ist, sich offenbare >.
Und zwar geht es dabei nicht um dieses oder jenes Seiende,
sondern um das Seiende als Seiendes, d. h. auf das, was es als
Seiendes ermöglicht, das Sein des Seienden. Diese Lichtung des
Seins ist der ursprüngliche Grund der Wahrheit, ist die Wahrheit
selbst. So möchte uns H. durch dieses c Sich-Einlassen auf das
Oft'ene und seine Offenheit, in das jegliches Seiende hereinsteht
und das es mit sich bringt> (S. 15), in die ursprüngliche Erfah-
rung des Offenen versetzen, wie sie den ersten griechischen D~n-
kem eigen ,tar, und damit in « den Bereich der ursprünglich we-
senden Wahrheit, in das c Unverborgene >. Mit Nachdruck betorit
H. diesen Gedanken : c Die so verstandene Freiheit als Sein-lassen
des Seienden erfüllt und vollzieht das Wesen der Wahrheit im
Sinne der Entbergung von Seiendem. Die Wahrheit ist kein Merk-
mal eines richtigen Satzes, der durch ein menschliches Subjekt von
einem Objekt ausgesagt wird und dann irgendwo, man weiss nicht
in welchem Bereich, « gilt >; sondern die Wahrheit ist die Entber-
gung des Seienden, durch die eine Offenheit west >. (S. 16).
So verstehen wir, warum die Freiheit in tieferem Sinne als
das Wesen der Wahrheit bezeichnet wird: im Walten dieser Frei-
heit wird die Entbergung vollzogen. Noch mehr: sie wird offenge-
halten, die Entborgenheit wird verwahrt. Und « in ihr Offenes ist
alles menschliche Verhalten und seine Haltung aus-gesetzt>. Des-
halb ilt der Mensch in der Weise der Ek-sistenz >. (S. 16). D. h.
in diese lichtende Offenheit, die durch das Sein geschieht, ja, die
das Sein ist, ist grundsätzlich alles menschliche Tun und Verhalten
hineingestellt. Allem haftet die transzendentale Ausrichtung auf
das Sein an.
Doch hat diese seins-offene, positive, zunächst für eine Onto-
logie vielversprechende Seite der Freiheit - im Hinblick auf das
WAH8HEIT VND SEINSDENKBN BEI MARTIN HEIOEGGER II

ganze Wesen der Wahrheit- noch eine, ihr ebenfalls ursprünglich


wesensverbundene, negativ dialektische Gegenseite: das Wesen der
Wahrheit ist notwendig zugleich Unwahrheit; die Seins-Entbergung
ist notwendig zugleich Seins-Verbergung. Eine Behauptung, die uns
jedenfalls auf den ersten Blick in nicht geringe Verlegenheit brin-
gen mag; die aber auch, auf ihre tatsächliche Bedeutung zurück-
geführt, wenn nicht in sieh, so doch in ihrer Verkettung mit schon
früher angedeuteten H. sehen Grund-Setzungen, die durch die
grundsätzliche Oft'enheit des Seienden im Ganzen geweckten Aus-
sichten auf die mögliche Seins-Erkenntnis bedeutend herabsetzen
muss.
Zu dieser Kehrseite der Wahrheit leitet H. selbst über, wenn
er seine IJetrachtung vom Wesen der Freiheit mit der Bemerkung
absehliesst: c weil die Wahrheit im Wesen Freiheit ist, deshalb
kann der geschichtliche Mensch im Sein-lassen des Seienden das
Seiende auch nicht das Seiende seinlassen, das es ist und wie es
ist. Das Seiende wird dann verdeckt und verstellt. Der Seheifi kommt
zur M;aeht. In ihr kommt das Unwesen der Wahrheit zum Vor-
schein>. (S. i 7).
Diese Unwahrheit entspringt nicht erst - wie das gewöhn-
liche Denken wohl meinen möchte, - nachträglich, dem blossen
Unvermögen und der Nachlässigkeit des Menschen. Denn, wie das
Wesen der Wahrheit sich nicht in der Richtigkeit der Aussage er-
schöpft, sondern im ursprünglichen Verhalten zum Sein des Seien-
den, ja im Sein gründet, so kann auch die Unwahrheit nicht mit
der zufälligen Unrichtigkeit des Urteils gleichgesetzt werden. Sie
c muss vielmehr aus ~m Wesen der Wahrheit kommen>; auch
sie muss gleich ursprünglich mit ihr im Verhalten zum Sein des
Seienden gründen. -
Das neue hier in Frage stehende Moment der Freiheit, - im
Hinblick auf die Wahrheit, - ist nun die c Stimmung> - ver-
standen jm existenzial ontologischen Sinne von « Sein und Zeit > - .
Sie gehört wesensmässig zum Seinlassen und durch sie ist die Of-
fenbarkeit des Seienden mit konstituiert, ja wird die Oft'enbeit we-
sen11mässig zugleich Verborgenheit. Indem das Seiende im ganzen
de~ Menschen durchstimmt, indem dieses Stimmen über sein Ver-
halten zu jeglichem Seienden entscheidet, bleibt doch eigentlich das
Stimmende, d. h. die Ganzheit, verborgen. Und dies nicht, weil die
Ganzheit immer weiter ausdehnbar wäre; .weil sie, als Summe ver-
standen, immer mehr umfassen könnte; vielmehr der Ganzheit-
scharakter als solcher bleibt verborgen. So geschieht es, dass, indem
der Mensch im Seinlassen des Seienden das Seiende entbirgt, ihm
doch das Seiende als solches verborgen bleibt. Tatsächlich sagt
52 ALOYS NABER S, [,

also Entbergung, Lichtung des Seienden, notwendig auch schon


Verbergung des Seins des Seienden.
Diese Verbergung geschieht in doppelter Weise: zunächst und
zumeist durch Verstellen. Der Ausblick auf die Ganzheit des Sei-
enden als solchen auf das Sein des Seienden, wird verdeckt, verhin-
dert dadurch, dass der Mensch am einzelnen Seienden oder in einem
bestimmten Ausschnitt des Seienden, in einer ihn interessierenden
Teilsicht des Seienden ... haften bleibt, in ihr aufgeht. Man den-
ke nur an die natürliche « Verfallenheit », die « Uneigentlichkeit >
des Menschen. Doch ist diese Art der Verbergung grundsätzlich zu
beheben: alles kommt an auf die notwendige Entschlossenheit zur
Freiheit im c Erstreiten> der Wahrheit.
Schicksalhaft schwerwiegender hingegen ist die andere Weise
des Verbergens : durch Versagen. Es ist der Entzug des Seienden
in seinem Sein; das Sein selbst entzieht sich uns, versagt sich uns.
Indem das Seiende durch das Sein gelichtet, durchsichtig wird,
bleibt das lichtende Sein selbst uns verborgen, wie uns auch ver-
borgen bleibt die innere Beziehung des Gründens des Seienden im
Sein. Gegenüber diesem sich Versagen des Seins aber ist der Mensch
machtlos. Er kann das Sein nicht erzwingen, - etwa durch ein ab-
straktiv diskursives Tun, wie der Intellektualist meinen möchte.
Einzig c Abwarten > kann der Mensch, bis das Sein ihm weitere
Gunst erweist.
c Abwarten >, nicht in rein negativem Sinn genommen, als
ein Verschieben des Denkens. Vielmehr ist es ein Sich-bescheiden
mit dem Verzicht auf ein ungeduldiges Erzwingen-wollen; doch
so, daß auch in diesem Sich-fügen in die nur dürftig gewährte
Mitteilung des Seins wiederum der alles durchseelende Zug zum
Sein waltet mbia,
Weil nun diese beiden Weisen des Verbergens zum Wesen der
Lichtung gehören, die c nur geschieht als dieses zwiefache Ver-
bergen > - deshalb entspricht diesem zutiefst dialektisch einen
Doppelgeschehen der ursprünglich entbergenden Verbergung - als
gleich ursprünglicher dialektischer Doppelsachverhalt, die Wahr-
heit, die wesentlich zugleich Unwahrheit ist. Dies ist so gemeint:
die Unwahrheit ist nicht etwa das Gegenteil der Wahrheit; sie ist
ni«tht etwas von ihr Getrenntes, ihr Gegenüberstehendes. Sondern
sie verhält sich zur Wahrheit, wie die Entborgenheit, - die das
Wesen der Wahrheit ausmacht, - sich zur Verborgenheit verhält.

2bia Tremich zusammengefaßt finden sich Sinn und Bedeutung dieser Pro-
blemlage, samt ihren näheren und entfernteren Voraussetzungen im neuen
Buch von Karl Uwith, Heidegger Denker in dürftiger Zeit, Frankfurt 1953.
·•
WAHRHEIT UND SEINSDENKEN BEI MARTIN HEI-DEGGER 53

Nun hörten wir aber, wie die Entborgenheit nur als entbergende
Verborgenheit west, ja nur aus der Verborgenheit als ihrer urs-
prünglichen « Voraussetzung » hervorgeht. Somit ist auch die Un-
wahrheit gleichsam das « vor-wesende Wesen » der Wahrheit, ihre
ursprüngliche Voraussetzung, genau wie die Verborgenheit «älter>
ist, als die Entborgenheit, die nur aus ihr heraus geschieht.
Zur Klärung dieses zunächst eigenartig paradoxen Sachverhalts
sei etwa verwiesen auf die uns geläufige Entgegensetzung von Po-
tenz und Akt, wie sie etwa im menschlichen Wahrheitsvollzug,
- als Ganzes genommen-, ja wie sie in jedem menschlichen, in
jedem kreatürlichen Geschehen, ... notwendig immer den einen, in-
nerlich aus den beiden komplementär entgegengesetzten Momenten
erwachsenden, Sachverhalt annimmt: wobei der Akt auch als aus
der « früheren » Potenz hervorgehend gilt. In etwa analog wäre
das beschriebene dialektische Urverhältnis von Wahrheit und Un-
wahrheit, wie es ja dem Erkenntnisvollzug zugrunde liegt, dur-
chaus verständlich.
Dem « entbergend verbergenden » Sein entspräche der, auch
nach uns, jedes menschliche Erkennen wesentlich auszeicl,mende
Vorblick oder Vorgriff auf das Transzendentale Sein. « Entbergend »
wirkt dieser Vorgriff auf das Sein insofern, als es alles Erkennen
von Seiendem immer schon in den miteröffneten Horizont des
Seins stellt; also über alle kategoriale Bestimmungen des Seien-
den hinaus auch das sie tragende und begründende Sein dieses
Seienden mitsetzt. Aber zugleich auch « verbergend > ist dies al-
so gelichtete Sein, weil trotz der erschlossenen transzendentalen
Dimension auf das Sein, der inhaltliche Reichtum und die ganze
Tiefe des Seins vorerst noch gänzlich verschlossen bleiben. Deshalb
galt dieses Sein den Denkern unserer Tradition immer schon zwar
als das Erst-erkannte, in dessen Licht einzig alles· Uebrige erkannt
werden könne; zugleich aber doch als der zunächst « dunkelste Be-
griff> (confusissima notio). Womit freilich die weitere Frage noch
in keiner Weise mit entschieden ist, ob nicht doch für das mensch-
liche Denken Mittel und Wege bestünden, dies zunächst unersch-
lossene Sein, - wenn nicht « zu erzwingen», - so doch in etwa
weiter zu er-schließen. Die Antwort darauf wird sich von selbst
ergeben, wenn wir erst noch H.s Schlußfolgerungen des näheren
gesichtet haben.
* * *
Wir sind H. in der schrittweisen Rückführung der Wahrheit
auf die ontologischen Bedingungen ihrer Möglichkeit gefolgt. Da-
mit sind nun auch alle Momente aufgewiesen, die nach H. die
"eigentümliche Stellung des Menschen zum Sein charakterisieren und
.\LOYS NABBR ,S, 1,

die folglich berücksicht werden müssen, wenn es gilt, uns absch-


liessend über die damit von H. dem Menschen zugesprochene Seins-
erkenntnis und insofern auch über den wirklichen oder doch
grundsätzlich möglichen Ertrag seines Denkens für die Ontologie,
Rechenschaft zu geben. ·
Sehen wir zunächst diese für die Stellung des Menschen zum
Sein des Seienden bezeichnenden Momente in kurzer Zusammen-
schau.
Wie die entbergende Verborgenheit, die sich also c ereignet>,
ein das Da-sein ursprünglich durchherrschendes 'Geschehen ist, -
so ist das Da-sein ebenso ursprünglich aufgeschlossen für das
Walten der Zwiespältigkeit im Wesen der Wahrheit. Das Da-sein
weiss um sie, es eignet sie sich an als seinen eigentlichen Grund.
Von diesem seinen Grunde her, in dem das Da-sein steht, ist zu-
gleich ersichtlich, wie auch das Sein des Fragenden selbst in die
Frage hineingenommen ist, wenn das Da-sein zu Recht als das Ste-
hen in der Lichtung des Seins gekennzeichnet wurde. Das Schick-
sal des Da-seins ist ursprünglich und gänzlich auf sein Verhalten
zum Sein, auf « das Geschick des Seins > zurückverankert. Einer-
seits steht der Mensch, - als Da-sein - durch die ek-sistente
Freiheit immer schon in der entbergend verbergenc!en, und deshalb
allerdings gar « dürftigen » Lichtung des Seins. Damit ist grund-
sätzlich all sein Tun und Verhalten in die transzendentale Dimen-
sion des Seins gestellt, wodurch zugleich sein eigentliches Men-
schentum und seine Geschichtlichkeit ursprünglich begründet ist.
Andererseits aber - kraft der waltenden Verbergung, die als
Erst-Verborgenes eben den Grundbezug auf das Sein des Seienden
verbirgt, - vergisst das Da-sein je schon diesen Grundbezug; es
wird « insistent >, d. h. es klammert sich an das Seiende, das Gang-
bare, um das es ihm gerade geht; es sucht in ihm seinen Halt,
um sich · über die innere Unsicherheit wegzutäuschen : die schick-
salhafte « Verfallenheit > des Menschen. Aber mit dem Vergessen
dieses Grundbezugs schwindet dieser, der des Menschen tiefste
Bestimmung ausmacht, nicht; vielmehr drängt und treibt er ihn
immerfort, von einem Seienden zum andern, an seinem Geheim-
nis vorbei. H. nennt diese ursprüngliche Unruhe im Menschen c die
Irre». Auch in ihr waltet somit, als immer lebendige Nötigung,
eben die Unwahrheit, ~ etwa im Sinne von Hegels Macht des Ne-
gativen, - die ihn, wenn er sie als solche erfährt, zugleich auch
sein innerstes Wesen, den Grundbezug zu seinem Geheimnis, -
wieder erfahren läßt.
Rückblickend auf den also ermittelten, dem Da-sein ebenso ur-
WAHRHEIT UND SBINSDBNKBN BBI MARTIN HEIDEGGER 55

sprünglich wie grundsätzlich unverlierbar eignenden Grundbezug


zum Sein, faßt denn auch H. den Ertrag seiner Ausführungen, -
der sachlich inhaltlichen, wie der methodischen Seite nach, - in
diesem Satz der c Anm e r k u n g > zusammen: c Das im Vor-
trag erreichte Wissen erfüllt sich in der wesentlichen Erfahrung,
daß erst aus dem Dasein, in das der Mensch eingehen kann, eine
Nihe zur Wahrheit des Seins für den geschichtlichen Menschen
sich vorbereitet>, (S. 27).
Sachlich gewonnen ist eine tief er und greifbarer erfaßte
Seinsverbundenheit des konkret geschichtlichen Menschen, die
nunmehr sein ganzes Verhalten durchherrscht.
Methodisch jedoch spielt - nach wie vor, - diese ·seinsver-
bundenheit einzig auf der Ebene des konkret erfahrenden Daseins;
also immer nur im be-denklichen Analysieren der verschiedenen.
vom Ganzen des Seins her durchstimmten Erfahrungen und Befind-
lichkeiten; wie da etwa sind : die eben erwähnte Erfahrung der
.
c Irre > als solche; oder der im c Abwarten » weiterer . Gunst des
Seins erfahrene Zug zum Sein, das· so auch darin schon c anwest >:
sowie auch noch andere dieser ursprünglichen Befunde. - wie
das c Heilige>. usw. - deren Analyse uns H. in anderen Schriften
dieser Periode bietet. Sie alle sind letztlich der ebenso vielfältige
Ausdruck der alles durchwaltenden Seins-Ausgerichtetheit, wie ·sie
immer schon c ausgesprochen > ist im klassischen Motiv des c er-
sten Bewegers >, wenn wir dies nur von der physisch-kosmischen,
auf die alles umfassende metaphysische Ebene übertragen. Freilich
hier erst nur vorlogisch erfahren.
Nun ist es gewiß für das Dasein von höchster Bedeutung, in
feinhörig seinlassender Hingabe all diese ursprünglich menschli-
chen Ganzheitserfahrungen abzuhorchen und zu analysieren, wie
sie da konvergieren hin zu dem einen Sein, als dem ursprünglichen
c Logos > - im Sinn H.s von c legein = sammeln >, - als der
einen ursprünglichen c Versammlung». In ihrer Weise führen sie
das also reflektierende Da-sein zum Erleben seiner schlechthinigen
Kontingenz; und dies ist ein an sich schon kostbarer Gewinn für
den zur Freiheit des Seinlassens entschlossenen Denker, der also
über die «Metaphysik> hinausgeht und « ihr den Boden pflügt>.
Aber bei solch erlebnismäßig konkretem Nachvollziehen stehen
bleiben wollen, wäre eben doch ein Sich-bescheiden mit dem blos-
sen c Pflügen>, ohne je zu fruchtbringendem Sähen und Ernten
zu kommen. Oder, um ein bekanntes Wort von Kant zu gebrauchen:
ein Stehen bleiben beim « bloßen Buchstabieren von Erfahrungen >.
Und dies in der Meinung, als käme dem Menschen wirklich nur
dieses vor-begriffliche, schlicht erlebnismäßige Seins-vernehmen zu,
56 ALOYS NABBR .S. I.

mit seiner radikalen Geschichtlichkeit, seiner konkret erfahrenen


Endlichkeit und folglich auch seiner ebenfalls rein geschichtlichen
Wahrheit.
Das bedeutete nun aber zunächst eine durchaus willkürliche,
unberechtigte Verkürzung und Einengung der wirklich ursprün-
glich dem Menschen zukommenden Seinsoffenheit. Denn es über-
sieht einen wesentlichen, ebenso ursprünglichen wie unleugbaren
Sachverhalt : warum sollte der Mensch nicht bei allem ursprünglich
rein vernehmenden Erfahren vom Sein des Seienden, eben dies
immer schon irgendwie mitvernommene Sein dieses je Seienden
nicht als solches im Blickpunkt des Denkens festhalten, ja es als
gründendes Sein schlechthin, - unter· Absehen von den je Seien-
den, in denen es durchleuchtet, - nun auch « sagen >, « zur Spra-
che bringen > können? Wir sehen darin immer schon die ursprün-
gliche, wirklich ontologische Abstraktion oder Transzendentalisa-
tion des Seins vollzogen, die nun auch schon der erste entscheidende
Schritt ist für die Ausarbeitung einer auch begrifflich-diskursiven
Ontologie, die wirklich ontologisch ist und bleibt, insofern sie klar
im Meta-ontischen, also in der eigentlich ontologischen Tiefenschicht
aufruht, der wirklich das Sein einziger Quellgrund und Maßstab ist.
Zwar ist dies zunächst scheinber ein gar dürftiger Ansatz im
Sein; eben ensprechend der dem Menschen, als unterster Stufe
der intellektuellen Schau, eignenden dürftigen unmittelbaren Seins-
Offenheit. Aber diesen Ansatz gilt es nun auszubauen, fruchtbar
zu machen durch wirklich ontologisch- metaphysisches Denken.
Dies aber stellt eine doppelte Forderung, die eine inhaltlicher, die
andere methodischer Art.
Inhaltlich muß sich dies Denken wirklich auf ontologischem Bo-
den bewegen, ohne ins Ontische abzugleiten, worin sich das be-
griffliche · Denken «natürlicherweise> heimischer fühlt. Es gilt
denn « die Anstrengung des ontologischen Begriffs auf sich zu neh-
men > : das voll freie Seinlassen all jener seinshaften Sachverhalte
die das Seiende zum Sein hin übersteigen. Diese müssen das « Zu-
Bedenkende » sein. Einmal das je gründende Sein selbst, das über-
all mitvernommen wird als das alles Gründende, Lichtende. Denn
was sollen wir uns sonst unter dem Lichtenden des Seins denken,
wenn nicht den « sammelnd-gründenden » Logos des Seins, wie
er als der in etwa immer 'Gleiche und doch wieder bei aller
Gleichheit je verschiedene « Grund > mit eröffnet ist und der dann
auch, als transzendentaler Vorgriff auf das Sein, durch das «ist>
der urteilsmäßigen Aussagen immer schon als absolute Seins-set-
zung mitvollzogen wird. Eine wirklich ontologisch verankerte Ur-
teils- und Erkenntnisauffassung, wie sie der aristotelisch-scolasti-
WAHBHEIT UND SEINSDENKEN BEI MARTIN HEIDEGGER 57

sehen Philosophie immer geläufig blieb 3 • - Als weitere ontolo-


gische Befunde melden sich alsbald eben die ursprünglich irgend-
wie verschiedenen Weisen des Gründens, insofern je nach der Ver-
schiedenheit der Seienden auch ursprünglich verschiedene Grund-
beziehungen zwischen den je Seienden und dem sie begründenden
Sein nahelegen. Sodann erst recht, die bei solchem Sichten dieser
obwaltenden Wesensbeziehungen aufleuchtenden « Seins-Notwen-
digkeiten » wie wir sie in den ersten « Seinsgesetzen » - etwa in
dem ontologischen Satz vom Grunde, usw. «aussprechen». Es wäre
nicht schwer, läge jedoch außerhalb der hier gestellten Aufgabe,
im Lichte der Geschichte der echten Ontologie diese ausweitende
Sichtung streng ontologischer Sachverhalte weiterzuführen, bis zur
Herausarbeitung des Begriffs vom « lpsum Esse », - im Sinn des
schlechthin absoluten «Grundes», wie er der großen Tradition im-
mer der alles zusammenhaltende Schlüßelbegriff war. Wobei wir
uns klar bewußt bleiben, daß in diesem « zur Sprache bringen » des
alles durchwaltenden Seins-logos uns einzig die je sich uns ersch-
ließenden Seins-Sachverhalte, also das eigentlich sich selbst immer
mehr zur Aussprache aufdrängende Sein führen.
So wird sich dann von selbst eine fruchtbare « Philosophie der
Mitte » entfalten, die bei aller Ehrfurcht vor dem typisch Mensch-
lichen und Geschichtlichen all unseres Philosophierens, - das im-
mer menschlich u~d geschichtlich bleiben wird, in klarem Gegensatz
zur zeitlosen Unbewegtheit der Erkenntnis der reinen Geister, -
doch ebenso klar die alles Menschliche und 'Geschichtliche überstei-
gende Welt der im eigentlichen Sinn doch wieder schlechthin gülti-
gen, «absoluten» Wahrheit und der absoluten Werte behauptet
Denn eine nur geschichtliche, endliche Wahrheit müssen wir als
in sich widerspruchsvoll ablehnen. Genau so wie eine nur relative
Wahrheit in sich widerspruchsvoll und nicht sinnvoll zu Ende denk-
bar ist. Denn wer immer das Relative als solches erkennt, ist im-
mer schon über das Relative hinaus.
Allerdings ist eine also ontologische Metaphysik nur durch-
führbar aufgrund einer zweiten Forderung, mehr denkmethodischer
Art: die Beschaffung eines dieser ontologischen Wirklichkeit an-
gepaßten denkerischen Werkzeuges, das sich notwendig von dem

s Diesen Tatbestand scheint H. leider ganz zu übersehen. Er kennt nur


die UrteilsaufTassung wie sie dann wieder beim neueren Rationalismus auf-
kommt: das Urteil sinkt zur bloßen BegrifTsanalyse herab, oder, wie bei Kant,
zur rein kategorialen Synthese. In beiden Fällen wird allerdings der transzenden-
tale Bezug auf das Sein gänzlich verkannt, unterschlagen: der Erkenntnisvorgang
spielt nunmehr einzig auf der Ebene der Wesensbestimmung des Seienden; das
Sein ist versunken, « vergessen ».
58 ALOYS NABBR .S, 1,

auf der Ebene des bloß Ontischen gebräuchlichen abheben muß.


Wir meinen die eigentlich ontologische Abstraktion oder « Trans-
zendentalisation >, die ontologische oder « analoge > Begriffsbildung
und den ihr entsprechenden Diskurs, usw. Wegen der gerade heute
wieder grundlegenden Wichtigkeit dieses methodischen Anliegens
einer Ontologie, wird ihm im .Rahmen dieser Vorträge eine eigene
Abhandlung eingeräumt"·
In diesem Sinn einzig im Sein gründend und in ihrem Aufbau
einzig vom sich zeigenden Sein her gespeist und normiert, war je-
denfalls die - im Gegensatz zu jeglicher letztlich von der « Idee >
oder der « ratio > her entsprungenen und geführten rationalisti-
schen Metaphysik, - eigentlich « intellectualitische Seins-Philoso-
phie », wie sie ein Aristoteles und ein Thomas von .Aquin be-
gründet und ausgebaut haben. Nun ist freilich jeder einigermaßen
philosophiegeschichtlich gebildete Leser nicht wenig verwundert,
wenn er bei H., der sich doch sonst überall als Meister erweist in
der fein sich einfühlenden und nüancierten Wiedergabe von ges-
schichtlichen Gedankenströmungen, nun die in verschiedenen zu-
sammenhängen fast in denselben Ausdrücken wiederkehrenden
Schilderungen der abendländischen Metaphysik mit Aufmerlisam-
keit durchgeht. Als ob sich diese Denker alle, - vom wirklich aus-
geprägten Rationalisten bis zum phänomenologisch aufgeschlosse-
nen, sich durchwegs an das schlichte Seinsvernehmen ausrichten-
den « lntellektualisten >, - einfach mit dem diktatorischen Macht-
wort «Rationalisten> abfertigen ließen. Dabei wird doch gerade
das Charakteristische jenes Seins-Denkens übersehen, das unseres
Erachtens heute wiederum berufen wäre richtunggebend in die .
reichlich verworrene philosophische Situation einzugreifen. Denn
richtungweisend kann nur eine Philosophie sein, die sich immer
wieder von neuem auf das ursprünglich zu vernehmende Sein zu-
rück besinnt; die aber zugleich auch, gelehrig und vertrauend, sich
vom aufleuchtenden und denkerisch aufgearbeiteten Seins-Logos
weiterleiten läßt, bis dem im Menschen vom Sein entzündeten
Drang zur Wahrheit des Seins Genüge geschehen ist. Nur diesem
seinsmutigen Denken wird es auch beschieden sein, auf dem von
der geduldigen phänomenologischen Kleinarbeit wieder c gepflüg-
ten » und urbar gemachten Grund und Boden neue Ernten erblühen
zu lassen. Denn nach unserer Ansicht liegen jene Gefilde nicht jen-
seits der Metaphysik, nicht über sie hinaus, - sondern stellen den
immer schon als einzig fruchtbar erachteten Grund und Boden jeder
echt seinsnahen Metaphysik dar.

" S1&HB: « Philosophie als ontologisches Geschehen> von Job. B. Lotz.


VI

R. P. JOH. B. LOTZ S. I.
PRoFESSOBE NELLA PONT. UNIVBRSITA GREGORIANA
E NELLA FACOLTA DI FILOSOFIA S. 1., PULLACH

PmLOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN

Als Mitte, um die im Philosophieren Heideggers alles schwingt,


tritt immer mehr die ontologische Differenz hervor. Sie meint den
Unterschied zwischen dem Seienden und dem Sein, wobei sich das
Sein als Grund des Seienden ebenso von diesem abhebt wie es sich
darauf bezieht.
In einem Vortrag auf dem internationalen Philosophenkongress
von Brüssel sind wir den vier Auslegungen nachgegangen, die die
ontologische Differenz im Positivismus, im Idealismus Hegels, in
der Existenzphilosophie von Jaspers und in Heideggers Fundamen-
talontologie gefunden hat. Damals deuteten wir auch abschließend
an, wie sich diese Differenz von scholastischen Ansätzen her verste-
hen und entwickeln lässt. Hierbei kam es auf drei tra<litionelle Lehr-
stü~ke an, nämlich auf die formale Abstraktion, die analoge Er-
kenntnis und den metaphysischen Diskurs 1 •
Im folgenden soll versucht werden, eine lebendige Begegnung
der ontologischen Differenz mit den drei genannten Lehrstücken
herbeizuführen. So wird sich einerseits die ontologische Differenz
in. ihrer ganzen Tiefe enthüllen, wodurch zugleich auf die Eigenart
und den Ort der anderen Auslegungen einiges Licht fällt. Anderseits
werden die drei Lehrstücke neu in Bewegung kommen, indem sie,
auf den Ursprung der Problematik zurückgenommen, ihren Sinn
und ihre Fruchtbarkeit deutlicher erweisen.
Unsere Darlegungen stehen unter dem Titel « Philosophie· als
ontologisches Geschehen>, weil der Vollzug des Philosophierens
wesenhaft ontologisch, also darin immer schon als innerste bewe-
gende Kraft die ontologische Differenz am Werke ist. Zugleich soll
unser Titel sagen, daß wir nicht bei dieser Differenz als einer ab-
strakt begrifflichen Unterscheidung stehen bleiben, sondern auf das
1 Ontisch-Ontologisch als Ga•undspannung des Philosophierens, besonders
heute: Actes du XI. Congres international de Philosophie, III, 57-63. Amsterdam•
Lounin 1953.
60 JOH. B, LOTZ S. I.

konkrete Geschehen, in dem sie ursprünglich aufbricht, zurückge-


hen wollen. Einzig so kann aus den Phänomenen selbst bestimmt
werden, was das Wesen der ontologischen Differenz ist und wie
sie mit jenen drei Lehrstücken innerlich zusammengehört. Einzig
so kann sich von der Sache selbst her zeigen, daß die drei Lerhstük-
ke nichts anderes als die voll entfaltete ontologische Differenz sind,
und diese selbst nur den unentfalteten Keim jener Lehrstücke bildet.

I.
Zunächst ist schärfer zu umreißen, in welchem Sinne wir die
Philosophie als Geschehen und näherhin als ontologisches Gesche-
hen sehen dürfen.
Die Philosophie ist ein Geschehen, insofern sie etwas ausge-
sprochen Menschliches ist, das einzig im Vollziehen des Menschen
seine volle Wirklichkeit erreicht. Sie ist weder ein eigenes· Reich
ewiger Wahrheiten (das es als etwas Für-sich-bestehendes im Sinne
Platons überhaupt nicht gibt), noch fällt sie ohne weiteres mit der
Seinsordnung zusammen. Vielmehr entfaltet sich das Philosophie-
ren als das menschliche Nachvollziehen der Seinsordnung, weshalb
alle philosophischen Aussagen einzig in diesem Vollziehen ihre volle
Wirklichkeit haben. Infolgedessen kommt den davon losgelösten
und in Büchern niedergelegten Sätzen eine verminderte Wirklich-
keit zu, die erst dann zur Vollwirklichkeit wird, wenn die betref-
fenden Sätze wieder von einem Menschen vollzogen werden. Die
Bücher enthalten eigentlich nur Anweisungen zum Vollzug phi-
losophischer Gedanken und sind daher allein für den verständlich,
der den entsprechenden Vollzug zu leisten vermag. Danach können
wir sagen, daß die Philosophie nur insoweit zu ihrer Vollwirklich-
keit kommt oder ganz ist, als sie vom Menschen vollzogen wird;
sie ist als Geschehen, oder insofern sie geschieht.
Weil die Philosophie den Charakter des Geschehens hat, ist
sie wie dieses zeitlich und geschichtlich. Deshalb unterliegt sie im
menschlichen Vollziehen dem Werden, das Wandlungen von Jahr-
hundert zu Jahrhundert und oft schon von Mensch zu Mensch mit
sich bringt. Ausserdem ist sie von jedem Zeitalter und von jedem
Philosophen immer neu zu vollziehen, da sie ja nur im jeweiligen
konkreten Vollzug zu ihrer Vollwirklichkeit gelangt, wodurch sie
auch das Gepräge der jeweiligen Situation an sich trägt. Das besagt
aber nicht, daß dem p]J.ilosophierenden Menschen nur eine relative
'Wahrheit' zugänglich sei; doch ist damit gegeben, daß die abso-
lute Wahrheit, die er wirklich und jederzeit erreicht, stets unvoll-
ständig bleibt und immer nur unter der jeweiligen Perspektive
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 61

gesichtet wird. Diesen Tatbestand können wir mit Heideggers Wor-


ten aussprechen: die philosophische Wahrheit erfährt in ihrer Ent-
hüllung notwendig zugleich ihre Ver-hüllung; als reine Enthüllung
ohne Verhüllung wäre sie nicht mehr menschlich, sondern göttlich.

Das Geschehen, um das es hier geht, ist deshalb Philosophie,


weil es ontologisch ist, weil in ihm die ontologische Differenz auf-
bricht. Und zwar öffnet sich diese Differenz nicht erst im ausdrück-
. liehen oder wissenschaftlichen Philosophieren, sondern schon in
jenem, das ~ls nicht-ausdrückliches und vorwissenschaftliches Ge-
schehen allem menschlichen Tun innewohnt. Wenn nämlich der
Mensch auf menschliche Weise dem Seienden, das ihn umgibt und
das er selbst ist, begegnet, wird dieses stets und notwendig als
Seiendes vollzogen. Das Seiende der Erfahrung aber als Seiendes
vollziehen, heißt, es als etwas verstehen, dem Sein zukommt. Das
ist nun damit gleichbedeutend, daß das Sein selbst, wodurch das
Seiende ein solches ist, sich zeigt, wenigstens soweit es zum Verste-
hen des betreffenden Seienden als eines solchen erforderlich ist.
Hierin leuchtet die ontische Auszeichnung des Menschen vor
allem anderen Welthaften auf. Das Untermenschliche bleibt im
Umgang mit seiner Umwelt und mit sich selbst dumpf oder un-
durchlichtet, weil dabei zwar das Seiende ins Spiel kommt, nie
aber als Seiendes, weshalb auch das Sein nie hervortritt. Der Mensch
hingegen ist immer schon onto-logisch, weil er das Seiende auf den
Logos oder Grund des Seins zurücknimmt; sein Umgang mit dem,
was ihn umgibt, und mit dem, was er selbst ist, entfaltet sich in
der Helle oder Lichtung des Verstehens von Sein. Daß in ihm das
Sein aufgeht, macht das tiefste Wesen des Menschen oder das in-
nerste Leben seines Geistes aus.
Darin stimmt Heidegger zunächst mit Thomas von Aquin über-
ein. Nach Heidegger ist das Wesen des Dasein die Ek-sistenz,
nämlich das Hinausstehen oder Mitten-inne-stehen im Sein; inso-
fern in ihm die Lichtung des Seins geschieht, ist der Mensch das
Da des Seins oder Dasein. Nach Thomas aber ergreift der Men-
schengeist zuerst das Sein, das alle anderen Erfassungen durch-
leuchtet und so erst ermöglicht; durch das Aufgehen des Seins
ist der Mensch in seinem Wesen als Geist konstituiert 2 • Die geläu-
fige Definition, die ihn als « animal rationale » bestimmt, steht da-
mit nicht_ im Widerspruch 8 ; denn sie besagt, spekulativ verstan-
2 De Veritate, q. 1, a. 1.
Zu der Wesensbestimmung des Menschen als animal rationale nimmt
111
Heidegger kritisch Stellung in: Vber den Humanismua. Frankfurt 1949, bes. 12-
16, 19, 28 f.
62 JOH. B. LOTZ S, 1.

den, daß sich im Menschen als ' rationale ' das Sein ent-hüllt, das
aber in ihm als • animal • geschichtlich ver-hüllt bleibt.

Nach allem vollzieht der Mensch in seinem geschichtlichen Da-


sein immer schon die ontologische Differenz; sein Dasein ist on-
tologisches Geschehen oder die konkret gelebte ontologische Diff'e-
renz. Deshalb ist dann sein Phill>sophi,eren als Vollwirklichkeit der
Philosophie ebenfalls ontologisches Geschehen. das sich lediglich
durch den höheren Grad der Reflexion oder als das denkerisch
reflex vollzogene Dasein von dem gelebten Leben unterscheidet. Da
die philosophische Reflexion im gelebten Dasein gründet, muss sie
im Sinne_ der richt1g verstandenen phänomenologischen Methode
sich stets an diesem ausweisen. Insbesondere hat sich die wei-
terführende Auslegung der ontologischen Differenz an deren ur-
sprü~glichem Aufbrechen auszurichten; die abstrakte Formel ist
aus dem konkreten Geschehen zu entwickeln und immer neu mit
Sinn zu füllen. weil sie sonst starr. zweideutig und leer zu wer-
den droht. ·
Von hier aus wird sich auch die Spannung zwischen der re-
lativen 'Wahrheit' und der absoluten Wahrheit klären. Das ge-
lebte Dasein ist nie so relativ. daß es nicht immer schon absolut
wäre; und die philosophische Reflexion ist nie so absolut, daß
sie nicht immer noch relativ wäre. Als Geschehen bleibt die Phi-
losophie dem konkreten Seienden verhaftet und damit den ge-
schichtlichen Grenzen der Zeitalter, der Menschen und der Situa-
tionen unterworfen; als onto-logisches Geschehen aber erhebt sie
sich zum Sein selbst und übersteigt damit alle jene Grenzen, indem
sie über das Seiende hinaus- oder auch in dieses hineindenkt. in-
dem sie es nicht nur wahrnimmt, wie es erscheint, sondern als
das -begreift, was es ist "· Abschließend könnte man sagen: das
gelebte Dasein ist vorwiegend Geschehen und so im Seienden. ist
jedoch zugleich ontologisch; die philosophische Reflexion hinge-
gen ist vorwiegend ontologisch und so im Sein. ist jedoch zugleich
Geschehen. Ob sich beide Male, nämlich sowohl für die philoso-
phische Reflexion wie auch für das gelebte Dasein, im Relativen
wirklich das Absolute öffnet, hängt von dem Sein ab, das in der
ontologischen Differenz aufgeht und das im folgenden näher zu
bestimmen ist.

• Vgl. J. Lorz, Von der Geschichtlichlc,it der Wahrheit: ScholasUk :ff


(1962) 481-503,
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES eBSCHEHBN
••
II

Nunmehr wenden wir uns dem ersten der eingangs genannten


Schritte zu, in denen sich die Entfaltung der ontologischen Dift'e-
renz vollzieht, nämlich der formalen Abstraktion. Damit eindeutig
hervortritt, was sie meint, müssen wir uns ihr stufenweise nähern.
Gehen wir davon aus, daß der Blick des Menschen, wenn er
mit Seiendem in seiner Erfahrung umgeht, zunächst ganz auf das
Seiende gerichtet ist. Doch schließt dieser Umgang als Bedingung·
seiner Möglichkeit ein, daß darin immer schon das Sein enthüllt
ist, wenn auch nicht thematisch und zumeist nicht beachtet. Wir
dringen also nicht erst durcb Schlußfolgerung vom Erfahrenen aus
zum Sein vor, sondern dieses geht im Erfahrenen selbst auf, in-
sofern das Seiende einzig im Lichte des Seins als solches uns ge-
geben, uns gegenwärtig, für uns da ist. Damit zeigt sich das Sein
als wesentlich fundierendes Moment innerhalb des Erfahrenen und
ist deshalb auf seine Weise auch selbst ein Erfahrenes. Infolgedes-
sen dürfen wir in einem noch genauer zu bestimmenden Sinne von
Erfahrung des Seins sprechen; das Sein ist eine Gegebenheit, die
sich in unserer Erfahrung des Seienden phänomenologisch auf-
weisen läßt 6 •
Inwiefern bezüglich des Seins mit Recht von Erfahrung die
Rede sein kann, wird sich klären, wenn wir die Eigenart gerade
dieser Erfahrung scharf herausarbeiten. Sicher reicht hier der ge-
wöhnliche Begriff' von Erfahrung nicht aus, gemäß dem sie sich
immer unci nur auf Seiendes erstreckt; denn das Sein ist nirgends
als Seiendes unter dem Seienden antrefJbar und deshalb weder der
äußeren noch der inneren Gestalt dieser Erfahrung erreichbar. Um
darüber hinauszukommen, müssen wir bedenken, daß das Sein im-
mer schon dem Seienden als der Grund, durch den dieses seiend
ist, innewohnt. Daher bedarf es lediglich eines Tiefblickes, der das
Sein aus der Konkretheit des Seienden herausliest oder ·der die
Konkretheit des Seienden auf das Sein hin durchdringt. Weil hier-
bei das Sein vom Seienden. abgehoben wird, nennt man diesen Vor-
gang ' Abstraktion '; man könnte ihn auch ' Illumination ' heißen,
insofern das Seiende auf das Sein· hin und vom Sein her durch-
leuchtet wird. Auf diese Weise zeigt sich das Sein, nicht als Seien-
des, wohl aber als der innere Grund jedes Seienden, durch den al-
lein etwas ein Seiendes ist und durch dessen Heilwerden allein et-

1 Vgl. Actes du XI. Congrls international de Philosophie, Volame JV:


Ex~ence et Mftaphysiqae. Amsterdam-Louvain 1963.

...
64 JOH, B. LOTZ S, I,

was von uns als Seiendes vollzogen werden kann. Demnach ist das
Sein als Grund des Seienden eine Gegebenheit, die von der Abstrak-
tion oder Illumination angetroffen oder vorgefunden wird, weshalb
wir diese als Erfahrung höherer Stufe bezeichnen dürfen. Infolge-
dessen kann mit Recht von Erfahrung des Seins die Rede sein,
wobei die hier gemeinte Erfahrung nicht ein Gegensatz zur Abstrak-
tion, sondern gerade diese selbst ist.

Die Eigenart der Erfahrung, die dem Sein zugeordnet ist, wird
noch deutlicher hervortreten, wenn wir die Abstraktion, mit der
sie zusammenfällt, genauer umgrenzen. Vielfach denkt man bei
diesem Wort zunächst an die empirische, ontische oder auch be-
wußte Abstraktion. Sie heißt empirisch, weil sie es mit dem Gegen-
stand der Erfahrung im geläufigen Sinne, also mit dem Seienden
zu tun hat; sie heißt ontisch, weil sie das bereits konstituierte Seien-
de oder Ontische hinnimmt, ohne auf den Grund seiner Konstitu-
tion zurückzugehen; sie heißt bewußt, weil sie sich als wissendes
Durchgliedern des gewußten Seienden in seine Merkmale und Auf-
bauelemente betätigt. Diese Abstraktion ist nicht ein ursprüngli-
ches Erfahren, sondern folgt der Erfahrung als nachträgliches Zer-
legen des immer schon Erfahrenen. Deshalb eröffnet sie auch nicht
eine neue Dimension, sondern bewegt sich innerhalb des Feldes,
das durch die ihr zugrundeliegende Erfahrung betreten ist; da-
mit bleibt sie im Ontischen.
Ganz anders verhält es sich mit der metaphysischen, ontolo-
gischen oder auch unbewußten Abstraktion. Sie heißt meta-phy-
sisch, weil sie das Physische oder Seiende übersteigt, weil sie es
mit dem Inhalt der Erfahrung höherer Stufe, also mit dem Sein
zu tun hat; sie heißt onto-logisch, weil sie das Ontische auf den
Logos oder Grund seiner Konstitution zurückführt; sie heißt un-
bewußt, weil sie ohne wissendes Zutun des Menschen geschieht
und jedes Wissen sowie jegliches Gewußte als ein solches allererst
ermöglicht. Diese Abstraktion ist ein ursprüngliches Erfahren, das
eine neue Dimension eröffnet. Sie überschreitet das On auf seinen
Logos oder das Seiende auf das Sein hin und ist mit der Erfah-
rung des Seins oder dem Aufgehen der ontologischen Differenz
identisch.
Leicht einzusehen ist, daß es sich hier ( scholastisch gespro-
chen) nicht um die totale, sondern um die formale Abstraktion
handelt. Erstere nämlich entfaltet, vom konkreten Seienden aus-
gehend, stufenweise das zugehörige Allgemeine, das immer unbe-
stimmter und deshalb immer umfassender wird; sie kommt also
über das Seiende oder Ontische nicht hinaus, bleibt in dem aus
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 65

Träger und Form ( etwas, dem Sein zukommt) zusammengewach-


senen ( con-cretum) Ganzen ( totum) und wird mithin ' total ' ge-
nannt. Letztere hingegen vollzieht gerade den überstieg vom Seien-
den zum Sein; sie durchdringt das zusammengewachsene Ganze
auf seinen Grund hin und läßt so das Sein als aktuierende Form
des Seienden und schließlich als reine, nicht mehr auf einen Trä-
ger bezogene oder dem Seienden zugehörige Form hervortreten,
weshalb sie ' formal ' heißt. Erst von hier aus kann man die Frage
entscheiden, ob der Endpunkt der totalen Abstraktion, nämlich das
Seiende, nicht mehr als dieses oder jenes, sondern als solches, ob
dieser Endpunkt lediglich die abstrakteste Formel des Ontischen
selbst ist oder ob er darüber hinausführt 6 •

Das über die Abstraktion Gesagte gibt uns als weiteres schwe-
res Problem auf, wie denn eine nicht nur nachträglich zerlegen-
de, sondern ursprünglich eröffnende oder erfahrende Abstraktion
möglich sei und wie diese unbewußt geschehen könne.
Weil einzig der Mensch dessen, was ontologische Erfahrung
im Gegensatz zu der bloß ontischen genannt werden darf, fähig
ist, muß in ihm der ermöglichende Grund solchen Erfahrens ruhen.
Weil es seine ontische Auszeichnung ist, immer schon onto-logisch
zu sein, muß in ihm der Aufstieg oder Rückgang vom Seienden
zum Sein vorgängig zu aller Erfahrung oder als apriorische Struk-
tur angelegt sein 7 • Demnach ist es das Wesen des Menschen, das
Sein im Seienden zu erschließen oder sich selbst und alles andere
auf den Grund der Gründe zu versammeln, statt an das Seiende
zerstreut und fern dem Sein dahinzutreihen. Er ist wesenhaft die-
se Bewegung, im äußersten Außen immer schon beim innersten
Innen, im jeweiligen Besonderen immer schon beim alles Umfas-
senden, im gegebenen Nächsten immer schon beim verborgenen.
Letzten zu verweilen. - Die hier gegebene Umschreibung der Ei-
genart des Menschen deckt sich genau mit der gewöhnlichen Aus-
sage, er sei ein Körper-Geist; das kann ja, dynamisch gedeutet,
nichts anderes heißen, als daß in ihm die Selbstentfremdung des

e Die totale Abstraktion allein scheint im Seienden als solchem nichts


weiter als die abstrakteste Formel des Ontischen zu sehen; weil sie über
dessen Bereich nicht hinausblickt, kann sie ebensowenig verneinen wie bejahen,
daß es noch etwas darüber Hinausliegendes gibt. Das läßt sich erst bejahen,
wenn der mit der formalen Abstraktion beginnende Weg zu Ende gegangen
wird. Einzig vom Sein her wird ein Begriff des Seienden möglich, der nicht
mehr auf das Ontische beschränkt ist.
7 Vgl. J. LoTz, Zum Problem des Apriori: l\felanges Jos. l\farechal, II, 62-
75. Bruxelles-Paris 1950.
5 - Studi filosofici
66 JOH. B, LOTZ S, I.

Nebeneinander und Nacheinander immer schon durch die Innig-


keit des Ganz-mit-sich-eins-seins oder des Bei-sich-seins bewältigt
ist, was mit der Rückkehr vom Seienden zum Sein zusammenfällt.
Wenn der Mensch in Tätigkeit tritt, kommt also ohne weiteres
sein Wesen samt dem damit notwendig gegebenen Apriori ins Spiel.
Daher nimmt er nicht nur das Seiende, das er selbst ist, sondern
auch jedes andere Seiende auf das Sein zurück. Sobald ein Seiendes
in seine Strömung gerät oder von ihm selbst in diese hereingeholt
wird, wird es von der menschlichen Seinsdynamik durchformt und
durchleuchtet und so auf das Sein hin transparent 8 • Hierbei ge-
langen sowohl das Seiende als auch die Seinsdynamik durch ihre
gegenseitige Befruchtung in ihre volle Verwirklichung; wie das
Seiende durch die Seinsdynamik aus der Verborgenheit in die Aus-
drücklichkeit des Seins erhoben wird, so gewinnt die von sich aus
unbestimmte Seinsdynamik erst am bestimmten Seienden ihren ak-
tuellen Vollzug. ·

Damit ist der erste Entfaltungsschritt der ontologischen Diffe-


renz, nämlich die formale Abstraktion, hinreichend verdeutlicht.
Er stellt sich dar als ontologische Erfahrung in der ursprünglich
eröffnenden Abstraktion, ermöglicht durch die dem Menschen ei-
gene apriorische Struktur. Nachdem wir so vom Seienden zum
Sein gekommen sind, ist nun das Sein selbst des näheren zu un-
tersuchen.

III

Der zweite Schritt zur Entfaltung der ontologischen Differenz,


durch den sich das im ersten Schritt enthüllte Sein erst als das
zeigt, was es ist, wurde von uns als analoge Erkenntnis bezeichnet,
worin, wie sich bald klären wird, die Analogie des Seins selbst
eingeschlossen ist.
Dem Eindringen in das Sein stellen sich schwierige Hinder-
nisse entgegen. Sie alle haben ihre Wurzel darin, daß der Mensch
zunächst und zumeist dem Seienden zugewandt ist, ·während das
Sein für ihn nur einen kaum beachteten Hintergrund bildet. Da-
her kommt es zu mannigfachen Mißverständnissen, die das Sein
zu einem leeren, nichtssagenden 'Grenzbegriff oder zu einer rein
formal-logischen Verbindungsfunktion im Urteil herabsetzen, die
ihm jedenfalls eine eigene und vom Seienden verschiedene Proble-
matik absprechen. Schließlich kann man sich so in das Seiende

s Vgl. J. LoTz, Sein und Wert 1. Paderborn 1938.


PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 67

verlieren, daß man darüber hinaus nichts mehr zu sehen vermag,


weshalb das vom Seienden sich abhebende Sein in das Nichts ver-
kehrt wird 9 •
Die eben geschilderte Situation des Menschen vor dem Sein
besteht nicht nur gelegentlich oder zufällig oder etwa nur in der
Neuzeit, sondern ist im Lauf der Geschichte immer dieselbe, weil
sie aus dem Wesen sowohl des Menschen als auch des Seins gar
keine andere sein kann. Beide sind ihrer Eig~nart nach so, daß
sich das Sein dem Menschen in der Ent-hüllung immer zugleich
ver-hüllt, in der Ent-deckung immer· zugleich ver-deckt, in der
Mitteilung seiner selbst imm«:r zugleich sich entziehL Die wesent-
lich untrennbare Durchdringung dieser Momente kennzeichnet un-
aufhebbar die menschliche Seinsbegegnung; das ist seine Grund-
situation, über die sich der Mensch nie hinausschwingen kann. Das
Sein öffnet sich dem Menschen notwending immer nur als Hinter-
grund des Seienden;· doch gilt es, diesen Hintergrund oder das in
der Verhüllung Enthüllte, das in der Verdeckung Entdeckte, das
im Entzug Sich-mitteilende sorgfältig zu beachten und auszuschöp-
fen, es nach dem, was es ist, wirklich zum Sprechen zu bringen 10 •
Dazu bedarf es der Rückwendu,ng zu dem, was sich ohne Un-
terlaß in und aus allem Seienden vernehmen läßt. Rückwendung
heißt mit dem Fremdwort 'Reflexion'. Ihre erste Stufe gehört,
wie wir gesehen haben, zum Wesen jedes menschlichen Tuns, in-
sofern darin das Seiende jederzeit auf seinen letzten Grund, eben
auf das Sein zurückgebeugt oder zurückgeführt wird. Jetzt handelt
es sich um eine zweite Stufe der Reflexion, die sich auf die erste
zurückbeugt und sich nicht wie diese auf das Seiende, sondern auf
das Sein richtet. Statt sich am Seienden festzuhalten, gibt sie sich
dem Geschehen der Enthüllung des Seins ganz hin, läßt sie sich
von der Bewegung in den letzten Grund erfassen und mitnehmen.
So kommt das verborgene Geheimnis des Seins selbst zu Worte,
wobei sich ihm der Mensch als Medium zur Verfügung stellt, nicht
aber es durch seine eigenen Begriffe und Worte zer-redet und so
zum Verstummen bringt.
Hiermit ist schon gesagt, daß die am Seienden ausgebildete
Begrifflichkeit der ersten Reflexion nicht ausreicht, um in der
zweiten Reflexion das Sein zu fassen u. Jene Begrifflichkeit ist näm-

9 Hier deuten wir auf die Uneigentlichkeit hin, die Heidegger im einzelnen
herausgearbeitet hat, Sein und Zeit; 7. Aufl. Tübingen 1953.
10 Zu diesen Zusammenhängen vgl. M. HEIDBOOBR, Holzwege. Frankfurt 1950.
n Die doppelte Reflexion hat tiefsinnig G. MARCBL entwickelt; vgl. R.
TROISFONTAINES, De l'E:,;istence a l'litre. Louvain-Paris 1953, bes. I, 199-210.
68 JOB. B, · LOTZ S. I,

lieh in ihrer Eigenart vom Begrenzten, vom einander Entgegenge-


setzten und Ausschließenden geprägt, während es hier gerade um
das unbegrenzt alle Begrenzungen Obersteigende urid um das alles,
auch Subjekt uno Objekt sowie sämtliche Kategorien, Umfassende
geht. Was nicht eines unter anderem, sondern das Eine über allem
anderen ist, bedarf einer eigenen Begrifflichkeit und Erkenntnis-
weise, weil es sonst dem ihm nicht gemäßen Zugriff entflieht und
sich gänzlich entzieht. Wer das Sein doch wieder in eine höhere
Stufe des Seienden umfälscht, kommt nie zu einer echten Begegnung
mit ihm selbst, bleibt an seiner verminderten Pseudo-Gestalt haften.
Hier ist nun der Ort der analogen Erkenntnis und der Analogie de11
Seins. '

'Analog• heißt wörtlich: nach Verhältnis. Analog ist die Er-


kenntnis, soweit sie das Eine nach seinem Verhältnis zu dem Anderen
erfasst; in unserem Falle wird das Sein nach seinem Verhältnis zum
Seienden erkannt, weil uns das Sein nur in und aus dem Seienden
oder als dessen Grund, nicht aber direkt in sich selbst oder ohne
Vermittlung durch das Seiende zugänglich ist. Allßlog ist auch das
Sein, insofern das Seiende einzig durch sein Verhältnis zum Sein
oder gegründet im Sein ein Seiendes ist 12 ; wie man leicht sieht, ist
diese Analogie, des Seins in der analogen Erkenntnis als Möglich-
keitsbedingung eingeschlossen oder vorausgesetzt. Doch bleibt die
Frage, warum uns das Sein allein durch die Vermittlung des Seien-
den aufgeht. Die Erklärung dafür liegt im Menschen, und zwar
darin, daß er kraft seines Wesens, auf das Seiende bezogen, kei-
nen unmittelbaren Bezug zum Sein hat und deshalb der Vermitt-
lung des Seienden bedarf.
Wie stellt sich nun das Sein des näheren dar, das die analoge
Erkenntnis als Grund des Seienden erfasst? Als erstes ist klar, daß
das Sein nicht selbst ein Seiendes ist; sonst könnte in ihm nicht
der Grund alles Seienden oder des Seienden ala solchen liegen. Da-
. her tritt das Sein· als das Andere zu allem Seienden oder zum Seien-
den als solchem auf; es zeigt sich als das Nicht-aeiende, weshalb
Heidegger es auch das Nichts nennt llS, Zu beachten ist, daß hier
u Man könnte meinen, hier handele es sich nur um eine Analogie des Seien-
den, weil das Seiende allein in einem Verhältnis steht, nämlich durch sein
Verhältnis zum Sein seiend ist. Doch hat gerade dieses Verhältnis ein dem
Seienden immanentes Sein in sich, weshalb das Seiende durch das ihm im-
manente Sein im Verhältnis zu dem für es transzendenten Sein steht. Insofern
sich also im Sein selbst das Verhältnis seiner immanenten zu seiner transzen-
denten Gestalt spannt, sprechen wir mit Recht von der Analogie des Seins,
die erst die Analogie des Seienden gründet. Vgl. S. 73 f.
1a Vgl. das Nachwort zu: Was is( Metaphysik? 4. Autl. Frankfurt 1943.
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 69

das Wort 'Nichts' eine andere Bedeutung als oben hat H, Dort
bedeutete es die Auflösung oder Verflüchtigung des Seins in das
Leere oder Nichtige, wodurch das Sein verschwand und nur das
Seiende blieb; hier aber besagt das Nichts den unüberbrückbaren
Gegensatz des Seins zum Seienden, seine unzurückführbare An-
dersheit, wodurch gerade der Eigencharakter des Seins hervorge-
hoben und dieses als es selbst bejaht wird. Von hier aus erweist
sich das Nicht oder Nichts als wesentliches Element der Analogie
des Seins, als die Möglichkeitsbedingung, kraft deren erst das Sein
der Grund alles Seienden oder des Seienden als solchen sein kann
und ohne die das Sein selbst wieder nur ein höheres Seiendes wä-
re. Am Sein als dem Nicht-seienden oder Nichts scheitert jede vom
Seienden geprägte oder (wie man gewöhnlich sagt) univoke Be-
grifllichkeit 15 ; daran vermag sich auch nicht, weil es keine posi-
tiven Gehalte darbietet, eine neue höhere Begrifflichkeit zu entfal-
ten 16 • Die ihm allein gemäße Weise des Verhaltens ist das Schwei-
gen vor dem Unbegreiflichen oder Unaussprechlichen, vor dem Ge-
heimnis. Dieses Schweigen ist der Raum, in dem sich die analoge
Erkenntnis bewegt und ohne den sie das Sein wieder zum Seien-
den herabdrückt und so verfehlt u.
In d-er analogen Erkenntnis, die das Sein als Grund des Seien-
den erfasst, verbindet sich mit dem ersten negativen ein zweites
positives Element u,. Gerade daraus nämlich, daß das Sein als der
Grund des Seienden als solchen auftritt, läßt sich durch Aussagen
bestimmen, was das Sein, das sich zunächst als das Nicht-seiende
von seinem Anderen abgrenzt, in sich- selbst besagt. Das ist deshalb
möglich, weil das Sein, indem es als gründender Grund das Seien-
de sein läßt, diesem von sich selbst mitteilt; das Seiende kann nicht
im Sein gründen, ohne daß dieses in ihm widerleuchtet. Was das
Seiende als solches ist, ist es allein durch das Sein, weshalb es

14 Wir verweisen hier auf S. 67.


15 Das Wort «Scheitern> spielt in einem dem hier gebrauchten verwandten
Sinne bei Jaspers eine wichtige Rolle; Philosophie. Berlin 1932, bes. III. Bd.
Metaphysik.
16 Eine höhere Begrifflichkeit kann sich nicht entfalten, solange das Sein
lediglich als das Nicht-Seiende gesehen wird. Da aber das Sein selbst aus
seinem innersten Wesen verlangt, daß darüber hinausgegangen werde, gibt
es doch eine höhere Begrifflichkeit, wie bald zu zeigen ist.
11 Das Sein wird doch wieder zum Seienden herabgedrückt von der ratio•
nalistischen Philosophie des 18. Jahrhunderts, deren Bande auch manche Spä-
tere nicht ganz abzuwerfen vermochten.
1s Das zweite positive Element scheint bei Jaspers zu fehlen; vgl. J. LoTz,
Analogie und Chiffre: Scholastik 15 (1940) 39-56. Dasselbe ist wohl auch von
Heidegger zu sagen.
70 JOB, B, LOTZ S, I,

auch als solches einzig vom Sein her verstanden werden kann;
nun aber könnte das Seiende nicht aus dem Sein verstanden wer-
den, wenn dieses selbst in keiner Weise verstanden wäre; daher-
schließt das Verstehen des Seienden als eines solchen notwendig
das Verstehen des Seins ein, wenigstens soweit es zum Erhellen
des Seienden erforderlich is~. Außerdem ist in der negativen Bestim-
mung des Seins als des Nicht-Seienden wesenhaft ein positiver Ge-
halt verborgen, den es nur ausdrücklich hervorzuheben gilt; wenn
vom Sein einerseits all das zu verneinen ist, was das Seiende als
solches kennzeichnet, so ist anderseits all das von ihm zu bejahen,
was es befähigt, der Grund des Seienden als solchen zu sein 19 •
Hieraus kann und muß sich eine neue höhere oder analoge Be-
grifflichkeit entwickeln, die auch onto-logisch ( auf den Grund des
Seienden. bezüglich) heißen darf, wenn wir die univoke Begrifflich-
keit ontisch nennen. Von dieser ist sie durch das Nichts und das
Schweigen getrennt, weil sie das unbegreifliche und unaussprech-
liche 'Geheimnis nicht auflöst, sondern nur als solches verdeutlicht;
davon nach Inhalt und Struktur bestimmt, trägt sie ein einzigar-
tiges, in univoke Begrifflichkeit nie umsetzbares Gepräge an sich.

Der zweite Entfaltungsschritt der ontologischen Differenz stellt


die Weise heraus, auf die sich der erste Entfaltungsschritt vollzie-
hen muß, damit er sich ganz als er selbst verwirklicht. Tatsächlich
ist die ontologische Abstraktion allein durch den Rückgang auf die
analoge Erkenntnis und die Analogie des Seins gewährleistet, weil
nur so wirklich das Sein und nicht lediglich das Seiende erreicht
wird. Die ontologischen Abstraktion enthält unentfaltet schon das,
was die analoge Erkenntnis und dann die Analogie des Seins ent-
faltet ausprägen, weshalb die letzteren nur die entfaltete Gestalt
der ersteren sind.
Doch hat sich mit dem Gesagten das Sein noch nicht völlig
eindeutig bestimmt. Sicher ist das Seiende einzig durch sein Ver-
hältnis zum Sein gegeben; nun fragt es sich, ob auch das Sein ein-
zig durch sein Verhältnis zum Seienden gegeben oder ob es ur-
sprünglich und wesentlich unabhängig vom Seienden als solchem
und deshalb auch von allem Seienden es selbst ist 20 • Wie man

111 Während das erste negative Element der Analogie ßlit der « via nega-
tionis > zusammenfällt, deckt sich das zweite positive Element mit der « via
afflrmationis >. Beide zusammen drücken aus, daß es sich nicht lediglich um
ein Steigern innerhalb derselben Ordnung des Seienden handelt, sondern um
ein Hinübergehen in die neue andere Ordnung des Seins.
20 Die hier spielende Problematik hat Heidegger neu angeregt, indem
er im Nachwort zu « Was ist Metaphysik?> von c:Ier 4• .zur 6. Aufl. eine wich-
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 71

leicht sieht, erwachsen daraus die weiteren Fragen, wie das Sein
im Falle seiner letzten Bindung an das Seiende noch Sein und wie
es im Falle seiner letzten Freiheit vom Seienden noch in diesem
und damit dem Menschen zugänglich bleibt.

IV

Die angedeutete Problematik führt zum dritten Entfaltungs-


schritt der ontologischen Differenz, nämlich zum metaphysischen Dis-
kurs, der allein imstande ist, über das an das Seiende gebundene
Sein hinauszuführen und zu dem vom Seienden freien Sein vorzu-
stoßen.
Zunächst sieht es so aus, als ob der Diskurs innerhalb des
Seins keinen Ort habe, als ob er nur dem Seienden gemäß sei.
Besagt er doch wesentlich den Fortgang vom Einen zum Anderen,
wobei das Zweite im Ersten nicht enthalten ist, weshalb jenes in
diesem nicht unmittelbar erfahren, sondern nur mittelbar durch
Schlußfolgerung erkannt werden kann.
Wirklich hat es der ontische Diskurs, der sich innerhalb des
Seienden bewegt, mit einem solchen Unterschied des Einen vom
Anderen zu tun, wie er innerhalb des Seins nicht möglich ist. Da
nämlich das Seiende immer eines unter anderem und deshalb be-
grenzt ist, steht es, innerhalb seiner Grenzen auf -sich selber be-
schränkt, neben und außer jedem anderen; foglich vermag nur der
Diskurs den Obergang vom Einen zum Anderen zu vollziehen. Zu-
gleich jedoch setzt der Diskurs im ersten Seienden einen Hin-
weis auf das zweite voraus, der zwar noch nicht die Erkenntnis
des zweiten, wohl aber der Ansatzpunkt ist, der diskursiv zu die-
ser entwickelt werden kann und sie überhaupt erst ermöglicht.
Weil also der· Hinweis dem Diskurs als dessen Möglichkeitsbedin-
gung vorausgeht, muß er genau wie das erste Seiende unmittelbar
erfahrbar sein; daher bringt der Diskurs schon im Seienden ledig-
lich das unmittelbar Erfahrene zu seiner vollen Entfaltung.
Der ontologische Diskurs, der sich innerhalb des Seins bewegt,
hat es stets und wesentlich mit dem Einen und Selben zu tun; kann
es doch kein Anderes geben, das neben und außer dem allumfassen-
den Sein liegt und zu dem als einem Anderen man von dem Einen

tige Änderung vornahm. Frilher hieß es, daß das Sein « wohl west ohne das
Seiende >, während Jetzt gesagt wird, daß das Sein « nie west ohne das Seiende >.
Vgl. M. MÜLLER, Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart. Hei-
delberg 1949, 50 f. Anm.
72 JOH, B, LOTZ S, 1,

fortgehen muß. Infolgedessen hat der Diskurs bezüglich des Seins


nicht den Sinn des Hinüberschreitens von Einem zu Anderem, son-
dern den des in dem Einen kreisenden Entfaltens. Dies vorausge-
setzt, erhebt sich notwendig die Frage, wie ein solche·s Verfahren
noch wirklich Diskurs sei, da ja qieser eine Vielheit verlangt; kraft
deren das Zweite im Ersten nicht als unmittelbar Erfahrbares ent-
halten ist.
Um das zu· klären, haben wir zwei Arten von Vielheit zu un-
terscheiden. Die ontische Vielheit waltet zwischen den verschiede-
nen Seienden, von denen eines nicht das andere ist,. weil beide durch
ihre Begrenztheit je auf sich selbst beschränkt sind. Die ontolo-
gische Vielheit hingegen kann ihre Wurzel nicht in der Begren-
. zung (gehört diese doch wesenhaft dem Bereich des Seienden an),
sondern einzig in der Fülle haben, und zwar auf doppelte Weise.
· Erstens enthält das Sein als das Eine und Selbe eine geordnete
Fülle oder einen innerlich strukturierten Reichtum in sich. Er be-
sagt von sich allein aus nicht eine eigentliche Vielheit, weshalb ihn
eine ontologische Erfahrung, deren Fassungsvermögen entsprechend
weitgespannt wäre, mit einem Blick, also erfahrungsmäßig und ohne
Diskurs, ausschöpfen könnte. Nun ist aber dem Menschen eine sol-
che Kraft und Weiträumigkeit des Erfahrens versagt; weil seine
Erfahrungsfähigkeit begrenzt ist, begegnet er dem Sein anfänglich
nur in seiner unbestimmtesten, noch aller Fülle beraubten Gestalt.
Dessen ganzen Reichtum vermag er nur allmählich in vielen Schrit-
ten zu erfassen, indem er also die in sich einige Fülle des Seins
durch eine Vielheit von Bestimmungen sich aneignet; demnach
fällt hier die Vielheit als solche in unsere Bemächtigung des Seins.
Zweitens besteht innerhalb des Seins als des Einen und Selben eine
Spannung zwischen seiner endlichen und seiner unendlichen Ge-
stalt, zwischen seiner abgeleiteten Verwirklichung und seinem in-
nersten Grund. Dieser ist das Sein selbst in seiner absoluten Fülle
und hebt sich dadurch von allen endlichen Gestalten des Seins ab.
So findet sich im Sein eine gewisse Vielheit, die aber ·von der on-
tischen Vielheit wesentlich verschieden ist und deshalb die Einheit
des Seins nicht aufhebt, was alles weiter unten näher erläutert
wird 21 •

21 Die erste Weise der ontologischen Vielheit wird hier nicht näher ent-
faltet, obwohl in einer durchgeführten Systematik die erste Weise den Weg
für die zweite bereitet. Außerdem hat die erste Weise zunächst die noch nicht
diskursive apriorische Synthese zur Folge, worauf dann ein entsprechender
Diskurs aufbaut, während der zweiten Weise nur der ontologische Diskurs
augeordnet ist. ·
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN '73

Obwohl daher das Sein als das Eine und Selbe im metaphysi-
schen Diskurs ins Spiel kommt, legt es sich doch in eine Vielheit
auseinander, weshalb das anfänglich Erfahrene noch nicht" alles
Weitere erfahrbar umschließt und der metaphysische oder ontolo-
gische Diskurs nicht nur möglich, sondern auch nötig ist. Weil
es aber immer um das Eine und Selbe geht, steht beim Sein das
unmittelbar Erfahrene in einem innigeren Zusammenhang mit dem
mittelbar Erschlossenen als beim Seienden. Aus dem gleichen Grun-
de trägt hier das bereits Erfahrene wesentlich und unabtrennbar
den ebenfalls erfahrenen Hinweis auf das noch Ausstehende in sich;
darum kann man auch mit noch tieferem Recht als beim Seienden
sagen, daß der Diskurs lediglich das Erfahren zu seiner vollen Ent-
faltung bringt. Nach allem gibt es einen die Erfahrung des Seins
ergänzenden und dieses zu seiner Fülle führenden Diskurs, der
sich jedoch als Fortgang innerhalb des Einen und Selben grund-
sätzlich vom ontischen Diskurs unterscheidet.

Nachdem wir die Eigenart des metaphysischen Diskurs ein-


germaßen erläutert haben, ist nunmehr dessen Vollzug wenigstens
in seinen Hauptumrissen anzudeuten. Dabei gilt es nach dem Ge•
sagten ein Doppeltes zu klären: nämlich erstens, was wir vom Sein
unmittelbar erfahren, und zweitens, was wir vom Sein mittelbar
erschließen.
Unmittelbar erfahren wird von uns das Sein im Seienden, in-
sofern diesem Sein zukommt oder dieses Sein hat, genauer ge-
sprochen: insofern diesem ein gewisser Bestand an Sein zukommt
oder dieses am Sein teil-hat. Dabei wächst das Seiende aus den bei-
den Momenten Sosein und Dasein zusammen, in die das Sein aus-
einandertritt; denn dem Seienden kommt Dasein oder Wirklich-
keit auf die Weise zu, die durch sein Sosein oder seine Wesenheit
umschrieben wird. So-sein aber sagt nicht Sein-schlechthin oder
Sein in jeder Weise, auf die etwas sein kann, sondern Sein nur un-
ter einer gewissen Rücksicht oder Sein auf diese bestimmte Weise
unter Ausschluß aller seiner anderen Weisen; So-sein bedeutet da-
her Nicht-ausschöpfen des Seins und damit Begrenzung oder End-
lichkeit. Also ist das Sein im Seienden durch die Zweiheit der ein-
ander ergänzenden Momente Dasein und Sosein und damit durch
Endlichkeit gekennzeichnet. Das ist die 'Gestalt, in der das Sein
von uns unmittelbar erfahren wird 22 •

12 Heidegger hebt vom Seienden das Sein ab, das als dessen Grund da'I
Seiende sein läßt. Er zielt auf das Sein selbst, sieht es aber als endlich und
geschichtlich, wobei er den Bereich des vordiskursiv Erfahrenen nicht über-
.JOH, B, LOTZ S, I,

Sie trägt in sich den ebenfalls erfahrenen Verweis auf die an-
dere Gestalt des Seins. Dabei ist entscheidend : das Sein, wie es
im Seienden auftritt, ist wegen seiner Endlichkeit nicht ·das Sein
selbst, kündigt aber zugleich das Sein nach seinem eigentlichen
Selbst an, läßt es irgendwie durchleuchten, steht unter seinem be-
stimmenden Einfluß, bezieht sich darauf als auf seinen ermögli-
chenden Grund. Näherhin zeigt sich die endliche Gestalt, die wir
im Seienden vorfinden, als dem Sein nicht letztlich gemäß, weshalb
dieses selbst auf seine andere, ihm ganz gemäße Gestalt hindeu-
tet, die als solche notwendig das Seiende und die Endlichkeit
überschreitet. Daher muß sie im Gegensatz zu der Zweiheit von
Dasein und Sosein durch die Identität oder Selbigkeit dieser Mo-
mente gekennzeichnet sein. An die Stelle ihrer Zweiheit tritt das
in sich eine Sein, das nach seinem eigentlichen Selbst als das Eine
auf höhere Weise erfüllt, was Dasein und Sosein zusammen voll-
bringen, das infolgedessen alle Weisen, auf die etwas sein kann,
oder alle Weisen des Soseins in sich vereinigt und damit unend-
lich ist 213 •
Der Diskurs, der mittels des Verweises von der erfahrenen end-
lichen Gestalt des Seins zu dessen unendlicher Gestalt fortschreitet,
kann mit Recht • Dialektik des Seins' genannt werden 24 • Die end-
liche Gestalt ist dem Sein nicht gemäß, weil sie einen unaufhebba-
ren Gegensatz zu dessen eigentlichem Selbst bildet. Die unendliche
Gestalt hingegen ist dem Sein gemäß, weil sie dieses in jeder Hin-
sicht als es selbst verwirklicht und ~o seinem eigentlichen Selbst
voll entspricht oder sich mit ihm ganz deckt. Die erwähnte Dialek-
tik setzt nun bei dem der endlichen 'Gestalt eigenen Gegensatz an.
Dieser Gegensatz besteht, weil eine endliche Gestalt nie das
Sein ausschöpft. Es gibt nicht die endliche Gestalt, sondern im-

schreitet. Zugleich läßt er die Möglichkeit des über-endlichen und über-geschicht-


lichen Seins offen. Nach allem scheint sich sein Denken zwischen den beiden
Gestalten des Seins zu bewegen, die wir entwickeln. Vgl. das in Anm. 20 ge-
nannte Werk von M. MOLLER; J. LoTz, Heidegger und das Sein: Universitas 6
(1951) 727-734, 839-845.
2a Die Analogie des Seins spannt sich vom Seienden mittels der ihm imma-
nenten endlichen Gestalt des Seins zu dessen transzendenter unendlicher Ges-
talt hin. Vgl. Anm. 12.
H Die hier gemeinte Dialektik unterscheidet sich wesentlich von Hegels
Dialektik. Sie meint nicht: die endliche und die unendliche Gestalt des Seins
gehören so wesentlich zusammen, daß jene ein Moment in dieser ist und die-
se sich durch jene entfaltet; solche Dialektik leugnet letztlich die Analogie des
Seins. Unsere Dialektik meint: der zu überwindende Widerspruch treibt das
Denken voran; damit nicht aus dem Gegensatz, der dem Seienden innewohnt,
ein Widerspruch werde, muß es auf das unendliche Sein zurückgeführt werden.
Vgl. E. CoRBTH, Dialektik und Analogie des Seins: Scholastik 26 (1951) 57-86.
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 7S

mer nur eine endliche Gestalt, da es zu deren Wesen gehört, sich


in eine Vielheit aufzuspalten, immer eine unter anderen zu sein.
Eine endliche Gestalt aber kann das Sein nie ausschöpfen, schon
deshalb nicht weil sie nur eine neben anderen ist oder nur eine
Seinsweise neben anderen in sich einfängt, während das Sein nach
seinem innersten Selbst nicht auf nur eine Seinsweise eingeengt ist,
sondern sie alle umgreift; den'n Sein sagt eben nicht, bloß auf diese
oder jene Weise sein, sondern sein schlechthin oder auf alle Wei-
sen zugleich. Daher besteht wirklich ein Gegensatz zwischen dem
innersten Selbst des Seins und seiner endlichen Gestalt, insofern
jenes alle Grenzen verneint, diese aber stets bestimmte Grenzen
bejaht.
Der Gegensatz wird zum zerstörenden Widerspruch, wenn er
Ja und Nein auf genau derselben Ebene oder unter genau der
gleichen Rücksicht setzt. Das wäre aber der Fall, wenn die end-
liche Gestalt zum innersten Selbst des Seins erhoben würde; und
das geschieht, wenn man sie als die einzige und letzte Gestalt des
Seins sieht, weil dieses dann seinem innersten Selbst nach nicht
über sie hinausliegt, sondern sich einzig und l•etztlich in ihr kon:.
stituiert. Hieraus ergibt sich die Seinsdialektik, die, damit aus dem
Gegensatz kein Widerspruch werde, hinter der endlichen Gestalt
des Seins seine andere unendliche als die wirklich letze aufleuch-
ten läßt. In dieser allein konstituiert sich das Sein nach seinem
eigentlichen und innersten Selbst; sie allein gibt ·auch, insofern sie
den Grund der von ihr abgeleiteten endlichen Gestalt bildet, die
Möglichkeit, deren eigentümliche Gegensatzstruktur zu verstehen.

In dem metaphysischen Diskurs, den wir soeben vollzogen ha-


ben, liegen l>ereits die Antworten auf die oben gestellten Fragen.
Das Sein ist in seinem innersten Selbst nicht einzig und letztlich
durch sein Verhältnis zum Seienden, sondern ursprünglich und
wesentlich unabhängig von diesem konstituiert; eine letzte Bin-
dung des Seins an das Seiende käme seiner Zerstörung gleich. Da-
mit sind wir zu dem Sein selbst vorgedrungen, das bei Thomas von
Aquin « Ipsum Esse » heißt u; es wird auch das absolute, nämlich
das von allen Bindungen an das Seiende losgelöste Sein genannt.
Unsere Untersuchung des Seins als des Grundes des Seienden gip-
felt also darin, daß das Sein nicht nur Grund des Seienden ist, son-
dern mit seinen innersten Selbst über das Gründen des Seienden
hinausschreitet; das absolute Sein kann Grund von Seiendem sein,

25 Summa theol. l, q. 3, a. 7; q. 13, a. 11.


'16 JOB, B, LOTZ S. I,

muß aber nicht notwendig und wesentlich Seiendes gründen 26 • In


dieser Freiheit gegenüber allem Seiendem tritt uns das absolute Sein
als das göttliche Sein und schließlich als der persönliche Gott ent-
gegen, was freilich noch einer weiteren eingehenden Entwicklung
bedarf. Wegen seiner Freiheit ist es allein der Huld des göttlichen
Seins zu verdanken, wenn es menschliches und untermenschliches
Seiendes gründet und darin uns entgegenkommt oder sich von uns
vernehmen läßt. So erscheint jeder Schritt unseres metaphysischen
Diskurses in die Tiefe des Seins hinein als ein wachsendes Sichöff-
nen Gottes zu uns her, wobei die logisch zwingende Kraft des Be-
weises erst durch das personale Sich-hingeben an das Geschehen die-
ser Begegnung zur vollen Auswirkung kommt.
Nach dem Rationalismus haben es die hier spielenden Zusam-
menhänge lediglich mit dem höchsten Seienden zu tun, während es
doch tatsächlich um die volle Entfaltung des Seins bis zum lpsum
Esse geht 21• Der metaphysische Diskurs führt also nicht vom Sein
wieder zum Seienden zurück, sondern vollzieht innerhalb des Seins
den Rückgang bis in dessen innersten Grund. Hier erhebt sich eine
wichtige Schwierigkeit, bei der wir noch ein wenig verweilen müs-
sen. Wenn die ganze Bewegung innerhalb des Seins als des Einen
und Selben kreist und jeder Fortgang zu einem Anderen wegfällt,
dann scheint der Pantheismus unvermeidlich zu sein. Es sieht so
aus, als ob der Diskurs, der dem Sein allein entspricht, den Theis-
mus ausschließe, weil dieser eben doch den Fortgang zu einem An-
deren verlangt. Etwas anders gewendet, läßt sich derselbe Einwand
formulieren: das Sein, das wir im endlichen Seienden erfahren, ist
entweder, wenn auch auf die unbestimmteste Weise, das göttliche
Sein oder ist es nicht. Im ersten Falle haben wir zwar nicht einen
Fortgang zu einem Anderen, wohl aber den Pantheismus, da dann
göttliche Sein als konstituierendes Prinzip zum Seienden gehört;
im zweiten Falle hingegen wahren wir .zwar den Theismus, kommen
aber nicht um den Fortgang zu einem Anderen herum, da dann das

28 Obwohl uns das absolute Sein als das Andere des Seienden aufgeht,
so ist es doch nicht von sich aus in dem Sinne das Andere des Seienden, daß
es erst durch dieses ist, was es Ist. Vielmehr ist das absolute Sein allein durch
sich selbst (also unabhängig von dem Existieren des Seienden) gesetzt. Aller-
dings ist die Mßglichkeit des Seienden mit dem absoluten Sein notwendig
gegeben, aber nicht als etwas für dieses Konstituierendes, sondern als etwas
aus dem In sich konstituierten absoluten Sein Folgendes,
21 Im Liebte des Rationalismus sieht auch Heidegger die Behandlung der
Gottsfrage in der bisherigen Metaphysik; vgl. Vber den Humanismus, 19 f., 35.
Für sein eigenes Denken hingegen steht die Fra1e nach Gott Im engsten Zu-
sammenhang mit dem Sein; vgl. ebd. 26, 36 f.
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 77

dem Seienden immanente Sein auf das transzendente göttliche Sein


als etwas Anderes bezogen ist.
Bei unserer Antwort gehen wir von zwei eindeutig klaren Richt-
punkten aus. Erstens ist das dem Seienden immanente und unmit-
telbar erfahrene Sein nicht das göttliche Sein selbst, auch nicht in
einer noch ganz unbestimmten Gestalt. Alles, was wir im Seienden
vor dem Diskurs vorfinden, ist nicht-göttlich; insbesondere unter-
wirft die endliche Gestalt das Sein wesentlich der Zweiheit von Da-
sein und Sosein und damit der Endlichkeit, die der Identität dieser
beiden Momente und damit der Unendlichkeit entgegengesetzt ist.
Wenn also das unmittelbar erfahrene Sein nicht dasselbe wie das
göttliche Sein ist, dann bietet sich dieses irgendwie als ein Anderes
dar.
zweitens aber kann ebensowenig bestritten werden, daß das
göttliche Sein im Vergleich zum Seienden und dessen Sein nicht
im gleichen Sinne ein Anderes ist, wie ein zweites Seiendes gegen-
über einem ersten als ein Anderes auftritt. Ergibt sich doch die
Andersheit zweier Seiender untereinander daraus, daß jedes von
beiden nur einen und zwar einen jeweils verschiedenen Ausschnitt
des Seins verkörpert, weshalb keines von beiden der letzte Grund
des anderen sein kann. Das absolute, unendliche Sein hingegen ist
zwar als solches ein Anderes als das Seiende mit seinem relativen
und endlichen Sein; zugleich aber umfasst jenes die ganze Fülle
des Seins und nimmt daher all das auf unendliche Weise in sich
voraus, was dieses enthält und besagt, weshalb jenes auch den letz-
ten Grund für dieses bildet. Foglich ist das göttliche Sein gegen-
über allem Seienden und dessen Sein so sehr ein Anderes, daß im
Vergleich damit die Andersheit zweier Seiender untereinander ge-
ring erscheint; zugleich aber ist das Seiende durch sein Sein so
sehr auf das göttliche Sein als ein Nicht-anderes bezogen (im gött-
lichen Sein findet ja das Seiende sich selbst wieder, freilich auf
unendlich oder unsagbar es selbst überschreitende Weise), daß alle
Nicht -andersheit zweier Seiender untereinander unendlich dahinter
zurückbleibt.
Auf diesem Hintergrund suchen wir nunmehr zu klären, wie
die Sein-sduzlektik eine Bewegung innerhalb des Einen und Selben
ist. Nach Thomas von Aquin kommen der endliche und der unend-
liche Geist in der höchsten Stufe des Lebens überein, weshalb sieb
der Fortgang vom Menschen zu Gott, ohne deren Verschiedenheit
zu verflüchtigen, innerhalb einer und derselben Lebensstufe voll-
zieht, nie aber von einer Lebensstufe zu einer anderen hinü~er-
schreitet 28• Wie man das Höchste nicht auf ein noch Höheres hin
28 Summa contra gentiles, IV, 11,
'78 JOB, B, LOTZ S, I,

übersteigen kann, so ist es auch nicht möglich, vom Allumfassenden


zu etwas Anderem fortzugehen, weil es jenseits des All-umfassenden
nichts mehr gibt. Infolgedessen muß der metaphysische oder onto-
logische Diskurs, der seinen Ort im all-umfassenden Sein hat, sich
innerhalb des Einen und Selben bewegen, wenn er nicht in das
Seiende zurückfallen und damit zum ontischen Diskurs herabsin-
ken will. Von einem Fortgang zu etwas, das gegenüber dem Sein
etwas Anderes wäre, kann also keine Rede sein.
, Das schließt jedoch nicht aus, daß innerhalb des Seins durch
den Diskurs ein gewisser Fortgang geschieht, nämlich der Fort-
gang des Seins in seinen eigenen innersten 'Grund; denn als innerster
ist dieser Grund wesentlich ein Anderes zu dem durch ihn Gegrün-
deten ,also zum Seienden und dessen Sein. Freilich führt dieser For.t-
gang nur deshalb nicht aus dem Sein hinaus, weil der innerste
Grund, zu dem er sich hinbewegt, eben das lpsu:i;n Esse oder das
Sein nach seinem eigensten Selbst ist. So geht das Sein nur in sich
selbst zurück, und das göttliche Sein ist, vom Sein her gesehen, ein
Nicht-anderes; die unendliche Gestalt des Seins ist ein Anderes ein-
zig gegenüber seiner endlichen Gestalt und damit gegenüber dem
Seienden, wobei sich aber, wie wir sahen, die hier vorliegende ein-
zigartige Andersheit mit einer ebenso einzigartigen Nicht-andersheit
durchdringt.
Damit der metaphysische Diskurs wirklich eine Bewegung in-
nerhalb des Einen und Selben sei, muß nicht nur sein Endpunkt
im Sein verbleiben, sondern auch sein Anfangspunkt bereits im Sein
liegen, was noch zu verdeutlichen ist. Tatsächlich treten wir, indem
wir das Seiende als solches erkennen, immer schon in den Raum
des Seins-schlechthin ein; wenn wir ferner die dem Seienden eige-
ne endliche Gestalt des Seins als endliche erfassen, wird wiederum
das.·Sein sichtbar, das zuinnerst nicht endlich ist, sondern alle end-
lichen Weisen hinter sich läßt. Wenn die ontologische Differenz
aufzubrechen beginnt, stehen wir also trotz der Begrenztheit des
Seienden und seines Seins von Anfang an in dem Einen und Selben,
das der metaphysische Diskurs entfaltet, nämlich in dem Sein, das
zwar noch nicht als göttlich, aber auch nicht mehr als endlich be-
stimmt ist. - Dieses unbestimmte Sein weckt die Frag·e; was darin
eigentlich spricht, was sich darin letztlich meldet, oder von woher
dieser Raum, der nicht vom Endlichen getragen wird, sondern der
das Endliche trägt, eröffnet ist. Damit kündigt sich im Sein das
göttliche lpsum Esse an, und zwar so, daß diese Ankündigung
( nicht das lpsum Esse selbst) zum unmittelbar Erfahrenen gehört,
das ohne sie nicht wäre, was es ist, nämlich das Sein. Hieraus er-
gibt sich noch deutlicher, daß uns von Anfang an das Eine und Sei-
PHILOSOPHIE ALS ONTOLOGISCHES GESCHEHEN 79

be eröffnet ist, worin der metaphysische Diskurs bis zur Erkennt-


nis Gottes fortschreitet und ohne das dieser Diskurs und somit jeder
Gottesbeweis unmöglich wäre.
Das Sein bringt notwendig die TMJ11szendenz mit sich; Sein
ist mit Tra·nszendieren über das Seiende gleichbedeutend. Daher
tritt, wenn im Seienden und dessen endlichem Sein das Sein aufgeht,
auch die Transzendenz hervor. Wie nun der metaphysische Diskurs
nicht den Schritt vom Seienden zum Sein vollzieht, sondern das
bereits erfasste Sein lediglich in seinen innersten Grund hineinführt,
so hat er auch (was letztlich dasselbe besagt) den überstieg der
Transzendenz nicht erstmals zu leisten, sondern eigentlich nur in
seiner vollen Kraft und Tragweite auszuarbeiten. Bei dieser Ausar-
beitung braucht jener Diskurs nichts von außen an das Sein heran-
zubringen, weil dieses stets alles Erforderliche in sich selbst trägt
oder aus sich selbst hergibt 29 • Das Sein selbst drängt in seinen in-
nersten transzendenten Grund hinein und zeigt so seinem eigentli-
chen Selbst nach als Grund und Ursache, wodurch zugleich der Satz
vom Grunde und das Kausalitätsprinzip einsichtig werden 30 • Da-
nach ist die Ausarbeitung der Transzendenz im metaphysischen
Diskurs einerseits gewiß ein Kausalschluß, anderseits aber von völ-
lig eigener Art, was für die Struktur des Gottesbeweises von grund-
sätzlicher Bedeutung ist. All das bestätigt.noch einmal, daß sich der
metaphysische Diskurs innerhalb des von Anfang an eröffneten Ei-
nen und Selben als dessen Entfaltung bewegt.

Im dritten EntfaltÜngsschritt der ontologischen Differenz er-


füllt sich der zweite; dieser würde sich ohne jenen in nichts ver-
flüchtigen. In der Tat finden die analoge Erkenntnis und die Ana-
logie des Seins allein im metaphysischen Diskurs ihre Begründung,
weil sich nur so jenes lpsum Esse erschließt, von dem alles, was
uns an Sein begegnet, ausstrahlt und ohne das jedes Sein ver-
schwände. Analoge Erkenntnis und Analogie des Seins enthalten be-
reits unentfaltet den metaphysischen Diskurs, weshalb dieser als
die entfaltete Gestalt jener bezeichnet werden darf.

20 « Enti non polest addi aliquid quasi extranea natura »: De ver. q. 1,


a. 1. Das soll aber nicht heißen, daß alles dem Sein analytisch entnommen
werden kann; vielmehr handelt es sich um die apriorische Synthese.
ao Indem sich das Sein in seine analoge Tiefe hinein öffnet oder vom Seien-
den durch das endliche Sein auf das unendliche Sein zurückgeht, läßt es
zugleich den in ihm enthaltenen Kausalzusammenhang hervortreten. Danach
bezieht das unendliche Sein als das wesenhaft unverursachte alles Seiende als
wesenhaft verursachtes auf sich.
80 .TOH, B, LOTZ S. 1,

Unsere Darlegungen in ihrer Gesamtheit überblickend, stellen


wir fest, daß Abstraktion, Analogie und Diskurs tatsächlich die
drei Entfaltungsstufen der ontologischen Differenz sind. Jene Stu-
fen finden die ganze Tiefe ihres Sinnes einzig in dieser Differenz;
ebenso zeigt sich die ganze Fülle des Gehaltes dieser Differenz ein-
zig in jenen Stufen. Das Zusammenspiel der Differenz mit den Stu-
fen macht sichtbar, daß das Sein in seiner Enthüllung zugleich ver-
hüllt ist. Das Sein wird ent-hüllt, insofern es immer schon das un-
mittelbar Erfahrene ist, innerhalb dessen als des Einen und Selben
sich die drei Entfaltungsstufen bewegen. Das Sein bleibt ver-hüllt,
insofern das unmittelbar Erfahrene nicht ohne weiteres voll zugäng-
lich ist, sondern einzig in den drei Stufen und damit in einem nie
abschließbaren Fortgang zur Entfaltung kommt. Die ontologische
Differenz in der Gestalt der drei Stufen ist die dem Menschen ent-
sprechende Eröffnung des Seins; sie macht sein Philosophieren zum
ontologischen Geschehen, in dem sich ebenso seine 'Größe wie seine
Grenze ausprägt.
VII

R P. EMERICH CORETH S. I.
PROFESSORE NELLA UNIVERsrrA DI INNSBRUCK

ZUM VERHÄLTNIS HEIDEGGERS ZU HEGEL

·In der gegenwärtigen Diskussion um Heidegger drängt sich im-


mer mehr eine Frage in den Vordergrund, die zum rechten Ver-
ständnis seines Denkens von grosser Bedeutung ist : die Frage nach
dem Verhältnis Heideggers zu Hegel. Allen vereinzelten Berührungs-
punkten vorausgehend will ich versuchen, die Gemeinsamkeit der
Grundproblematik Heideggers und Hegels knapp zu skizzieren 1 und
zwar im Anschluss an drei zentrale Begriffe, unter denen die ge-
meinsame Problematik fassbar ist: Transzendentalphilosophie, Fun-
damentalontologie und Phänomenologie.
Es sei noch vorausgeschickt, dass es mir dabei nicht darum
geht, einen Einfluss Hegels auf Heidegger oder eine Abhängigkeit
Heideggers von Hegel nachzuweisen. Bei den relativ wenigen aus-
drücklichen Hinweisen auf Hegel, die sich in Heideggers Schriften
finden, wäre es schwer, eine dir~kte Abhängigkeit im einzelnen
nachzuweisen, obwohl sie zweifellos in nicht unbedeutendem Aus-
mass besteht. Unabhängig von dieser historischen Frage sei nur
die sachliche Frage nach dem Gemeinsamen und Trennenden in
der Grunproblematik beider Denker gestellt.

I.

Die Philosophie Heideggers muss - erstens - wesentlich im


Zuge der t r a n s z e n d e n t a I e n F r a g e verstanden werden,
die seit Kant dem Denken gestellt ist. Sie liegt der Existenzialphilo-
sophie Heideggers ebenso wesentlich zugrunde wie dem transzen-
dentalen Idealismus Hegels. Das faktisch-empirische Begegnen und
Sich-zeigen von Seiendem, das Sich-verhalten des Daseins zu Seien-

1 Derselbe Fragenkreis erscheint breiter ausgearbeitet unter dem Titel « Das


fundamentalontologische Problem bei Heidegger und Hegel > in der Zeitschrift.
« Scholastik>, 1954 Heft I.
6 - Studt filo11oftci
82 BMBBICH CORETH S. 1.

dem wird von Heidegger auf die apriorische Bedingung der Möglich-
keit befragt, d. h. auf das im W esensgrun-de des menschlichen Da-
seins immer schon sich vollziehende Geschehen der « Lichtung des
Seins>. Soll Seiendes uns begegnen können, so muss das Sein des
Seienden als der Horizont, innerhalb dessen Seiendes uns begegnet,
apriori erschlossen sein. Diese Erschlossenheit des Seins, die Offen-
barkeit des Seins im Seinsverständnis des Daseins ist -das Wesens-
merkmal des Menschen: er ist Dasein als das « Da des Seins >, als
die« Ortschaft der Wahrheit des Seins>, d. h. der Unverborgenheit,
der Offenbarkeit des Seins. Dieses ursprüngliche Geschehen im
Grunde des menschlichen Wesens auf seine ontologisch konsti-
tutiven Strukturen zu analysieren, das Sein des Seien-den, das sich
ursprünglich im Dasein entbirgt, ausdrücklich in seiner Eigenart
zu erfassen, ist Sinn und Ziel der transzendentalphilosophischen
Problematik Heideggers.
Damit wird aber die transzendentale Frage von Heidegger über
Kant hinaus in zweifacher Hinsicht wesentlich weitergeführt: ihre
Ausgangsbasis wird phänomenologisch erweitert und ihr Ziel wird
ontologisch vertieft.
1. Einerseits wird die Ausgangsbasis der transzendentalen Pro-
blematik phänomenologisch erweitert. Kant hatte gefragt nach den
apriorischen Möglichkeitsbedingungen gegenständlichen Erkennens.
Bei Heidegger geht es nicht allein um das Erkennen. Dieses ist viel-
mehr ein untergeordnetes und abkünftiges Moment, ein modus de-
ficiens des « In-der-Welt-seins » im ganzen. Es geht vielmehr um
den gesamten Daseinsvollzug, um die Ganzheit des « In-der-Welt-
seins » und d. h. um die 'Gesamtheit menschlicher Verhaltungen
zu Seiendem. Diese ursprünglich-einheitliche Ganzheit soll auf den
sie allererst ermöglichenden Grund zurückgeführt werden.
Schon darin trifft sich Heidegger offenkundig mit Hegel, der
sich ja in der « Phänomenologie des Geistes» die Aufgabe stellt,
nicht nur die verschiedenen Formen des Wissens, sondern die
Gesamtheit menschlicher Bewusstseinserfahrungen einzufangen und
auf ihren apriorischen Möglichkeitsgrund zurückzuführen, der
schliesslich im « absoluten Wissen» offenbar wird.
2. Anderseits - und -dies ist noch wichtiger - wird die trans-
zendentale Problematik bei Heidegger über Kant hinaus in der
Weise fortgebildet, dass ihr Ziel ontologisch vertieft wird. Kant un-
terscheidet bekanntlich die Begriffe« transzendent> und« transzen-
dental>, kennt also einen zweifachen Begriff der Transzendenz.
Diejenige Transzendenz aber, die allein Kant als berechtigt zulässt
und um die allein es in der transzendentalen Fragestellung gebt,
ist eine « Transzendenz in die Subjektivität>. Das Objekt als sol-
HEIDEGGER UND HEGEL 83

ches soll vom Subjekt her erklärt werden, d. h. durch die apriori-
schen Strukturen des Subjekts als solchen. Damit wird aber das
Subjektsein des Subjekts nicht erklärt, sondern vorausgesetzt und
so die Subjekt-Objekt-Relation selbst nicht erklärt, sondern voraus-
gesetzt. Insofern bleibt Kant folgerichtig im Bereich blosser Erschei-
nung - für das Subjekt-, sein Denken bleibt Subjektivismus und
Heidegger kann ihm mit Recht den Vorwurf machen, dass er sich
im Raume der « Metaphysik der Subjektivität» bewegt, die aller-
dings - nach Heidegger - die ganze Geschichte abendländischen
Denkens beherrscht.
Darum stellt sich Heidegger die Aufgabe, die transzendentale
Grundfreilegung noch weiterzutreiben bis zu dem letzten Wesens-
grund des Menschen, an dem das Subjekt selbst und damit die
Subjekt:Objekt-Relation als solche überstiegen und zugleich be-
gründet, d. h. auf den, Subjekt und Objekt in gleicher Weise um-
greifenden und tragenden Seinsgrund hin überstiegen wird, der im
Menschen ursprünglich offensteht. Als Möglichkeitsgrund der Sub-
jektivität überhaupt erweist sich so die Transzendenz - jetzt im
spezifisch Heideggerschen Sinn : nicht ontische Transzendenz auf
Seiendes, welche ja von neuem die Subjekt-Objekt-Relation _nicht
übersteigend begründen, sondern voraussetzen würde, sondern on-
tologische Transzendeuz als « Lichtung des Seins » oder - wie
Heidegger einmal formuliert - als « offenstehendes Innestehen in
der Unverborgenheit des Seins» 2 , welches « das transcendens
schlechthin» ist, somit über jedes Seiende und über jede seiende
Bestimmtheit eines Seienden hinausliegt :a.

II.

Damit stehen wir schon beim Zweiten. Denn dieses ursprüng-


liche Geschehen, das zwar jedem Verhalten des Daseins zu Seien-
dem als Möglichkeitsbedingung zugrundeliegt, ohne jedoch selbst
thematisch ausdrücklich zu werden, in transzendentaler Analyse
thematisch ausdrücklich vor den Blick zu bringen, d. h. einen Zu-
gang zu gewinnen zum Sein, das sich im Wesen des Menschen ent-
birgt, - das ist die Problematik, die Heidegger F u n d a m e n t a l -
o n t o I o g i e nennt.

2 M. HEIDBGGER, Was ist Metaphysik? 5. Aufl. Frankfurt 1949, 15 (Einlei-


tung).
s M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, 5. Aufl. Halle 1941, 38.
EMERICH COBETH S, I,

1. Nun trifft sich aber auch diese Fragestellung mit einem der
tiefsten Anliegen Hegels - sosehr, dass die « Phänomenologie des
Geistes » geradezu als Fundamentalontologie bezeichnet werden .
kann. Die Phänomenologie ist ja nach Hegels Absicht nichts an-
deres als die Einführung zum Systen der absoluten Wissenschaft
und d. h. zunächst: sie ist die Hinführung des Denkens auf den
Standpunkt, auf dem die « Wissenschaft der Logik » möglich wird.
Diese aber ist eine Ontologie und zwar - um Heideggers Unter-
scheidung zu gebrauchen - nicht nur im ontischen ~inn als Wis-
senschaft vom Seienden im ganzen, sondern im ontologischen Sinn
als Wissenschaft vom Sein des Seienden. Das Seiende im ganzen
soll vom absoluten Seinsgrund her, dem Sein des· Seienden, begrif-
fen werden.
Der Standpunkt des Denkens aber, den die Phänomenologie
erreicht und auf dem die Logik - Hegels Ontologie - möglich
wird, ist das « absolute Wissen », in dem das ursprünglichste
apriorische Geschehen im Grund des endlichen Geistes offenbar
wird, in dem das endliche Subjekt sich selbst als ein von seinem
Gegenstand - seinem Andern - Verschiedenes übersteigt und so
den « Gegensatz des Bewusstseins» von Subjekt und Objekt « auf-
hebt», also die endliche Subjekt-Objekt-Relation transzendiert. Der
endliche Geist erfährt sich so als den Ort, an dem das Sein alles
Seienden - Hegels Absolutes - offenbar wird, Bewusstsein ge-
winnt.
So ist das von Heidegger immer wieder gestellte Problem schon
von Hegel auf seine Weise beantwortet im absoluten Wissen. Was
darin begriffen wird, ist nicht mehr ein innersubjektives Apriori
des endlichen Subjekts als solchen, sondern apriorische « Lichtung
des Seins überhaupt im Wesensgrunde des Geistes. Die Transzen-
denz, die in der transzen<!entalen Ursprun~senthüllung freigelegt
wird, ist nicht mehr - wie bei Kant - eine Transzendenz in. die
Subjektivität, sondern eine Transzendenz über das Subjekt als sol-
ches hinaus und hinein in die das Subjektsein des Subjekts erst
begründende Offenheit des Seins überhaupt•.
2. Mit dieser tiefen Gemeinsamkeit zwischen Heidegger und

• Allerdings wird auch Hegel von Heidegger noch der « Metaphysik der
Subjektivität » zugerechnet, weil sich bei Hegel das Sein des Seienden, He-
gels Absolutes, im Geist offenbart und als « absoluter Geist » erscheint. Hei-
degger, dem selbst ein ontologischer GeistbegrifT fehlt, missversteht den zutiefst
ontologischen GeistbegrifT Hegels. Er versteht unter Geist soviel als Subjekt.
Insofern nun für Hegel der Geist der tragende und entspringenlassende Grund
aller Wirklichkeit ist, würde dies eine Reduktion alles Seienden auf die Subjek-
tivität bedeuten, Hegels Denken wäre « Metaphysik der Subjektivität ».
HEIDEGGBR UND HEGEL 85

Hegel verbindet sich allerdings ein Gegensatz, der - vorläufig -


etwa so formuliert werde kann: Bei Heidegger wird das Sein vom
Menschen her gesehen, bei Hegel der Mensch vom Sein, d. h. vom
Absoluten her. Bei Heidegger ist das Sein das vom Dasein entwor-
fene, im Seinsverständnis verstandene Sein, ja es scheint unterzu-.
gehen im menschlichen Seinsentwurf und _damit unterzugehen in
der Endlichkeit des entwerfenden Daseins. Bei Hegel dagegen wird
der Mensch, der endliche Geist, von vornherein vom Sein, d. h.
vom Absoluten, her verstanden, sosehr dass das einzelne endliche
Subjekt aufgehoben wird in der Unendlichkeit des Absoluten.
Zu diesem so formulierten Gegensatz ist aber einerseits - Hei-
degger betreffend - zu sagen, das die gegebene Charakteristik zwar
von « Sein und Zeit » gilt oder sich wenigstens als mögliche Deu-
tung diese~ Werkes nahelegt, aber keineswegs mehr von den spä-
teren Schriften, etwa dem Humanismusbrief un!l der späteren Ein-
leitung zur Vorlesung « Was ist Metaphysik». Hier wird das We-
sen des Menschen durchaus vom Sein her gesehen als die « Lich-
tung des Seins», als die « Ortschaft der Wahrheit des Seins»,
« das als der Wurf sich das Wesen des Menschen ... erworfen hat.
Dergestalt geworfen steht der Mensch ' in ' der Offenheit des
Seins» 6 , das allerdings selbst endlich bleibt.
Auf der anderen Seite - bei Hegel - wird zwar das endliche
Subjekt in die Unendlichkeit des Absoluten aufgehoben, aber so,
dass gerade dadurch. nie ein wahrhaft Absolutes und Unendliches
im Sinne aktueller Unendlichkeit erreicht wird, sondern das Unend-
liche selbst zur dialektischen Einheit des Endlichen und des Unend-
lichen wird, dass es Wesenszüge des Endlichen, im besonderen des
endlichen Geistes annimmt und dessen Seins- und Erkenntnisweise
absolut gesetzt erscheint als Sein und Erkennen des Absoluten
selbst. Das heisst aber: das Unendliche wird verendlicht.
So nähern sich doch wieder von beiden Seiten her die jewei-
ligen Auffassungen über das Verhältnis zwischen dem Menschen
und dem Sein. Gemeinsam aber ist das Grundlegende, dass der
Melisch - das Dasein bzw. das Bewusstsein - als das Wesen be-
griffen wird, in dem das Sein selbst sich ursprünglich lichtet und
so erst die M!>glichkeitsbedingung für ein gegenständliches Verhal-
ten zu Seiendem bietet.

a M. HEIDBGGBR, Platons Lehre von der Wahrheit mit einem Brief ilber den
Humanismus, Bern 1947, 100.
86 EMBRICH CORBTH S, 1,

III.

Von diesem Ansatz her stellt sich nun die Aufgabe, jenes aprio-
rische Geschehen ausdrücklich ans Licht zu bringen, d. h. das Sein,
das sich im Menschen offenbart, ausdrücklich zu erfassen. Als Me-
thode der Durchführung dieser Problematik tritt nun bei Heidegger
die Phänomenologie auf. Dieses Wort steht hier in merk-
würdiger Parallele zu Hegels Werk, dem die durchaus entsprechen-
de Aufgabe gestellt ist und das den Titel « Phänomenologie des
Geistes > trägt. Die Frage legt sich nahe, ob etwa die Gemeinsam-
keit des Wortes eine Gemeinsamkeit oder wenigstens Verwandt-
schaft der im Wort genannten Sache, nämlich der Methode, an-
deutet.
Freilich darf hier die Bedeutung des Wortes nicht überschätzt
werden, da Heidegger von Husserl herkommt und dieser weder in
der Wahl des Wortes noch in der Bestimmung der Methode selbst
auf Hegel zurückgreift. Dass umgekehrt Hegels Phänomenologie
nicht unter Zugrundelegung eines Husserlschen Methodenbegriffes
gedeutet werden kann, dürfte selbstverständlich sein, obschon auch
das schon geschehen ist. Die Frage ist also, was das Wort hier
und dort meint.
1. Entscheidend für das Verständnis Heideggerscher Phänome-
nologie ist seine Bestimmung des « phänomenologischen Phäno-
menbegrifts >, der vom « vulgären Phänomenbegriff > scharf abge-
hoben wird. Phänomen im vulgären Sinne ist das empirisch An-
schaubare. Was aber im vulgär verstandenen Phänomen « je vor-
gängig und mitgängig, obzwar unthematisch; sich schon zeigt, kann
thematisch zum Sichzeigen gebracht werden > 41 und das ist nach
Heidegger das Phänomen der Phänomenologie. Es ist also etwas,
was sich thematisch « zunächst und zumeist gerade nicht zeigt>,
sondern verborgen ist und erst « zum Sichzeigen gebracht werden
muss>, was aber « zu dem, was sich zunächst und zumeist zeigt,
gehört, so zwar, dass es seinen Sinn und Grund ausmacht> 1 • Es
ist also der immer schon unthematisch implizierte Möglichkeits-
grund, der erst thematisch freigelegt werden muss. Insofern dies
der Phänomenologie zur Aufgabe gestellt ist, ist diese bei Heidegger
grundsätzlich in den Dienst transzendentaler Grundfreilegung ge-
nommen.
Insofern aber das Sein des Seienden in ausgezeichneter Weise

e Sein und Zeit 31.


1 Sein und Zeit 3ö.
HEIDEGGER UND HEGEL 87

derart ist, dass es sich zunächst und zumeist gerade nicht zeigt,
aber in jedem Sich-zeigenden als dessen Grund mitgegeben ist,
kann H eidegger die entscheidende Schlussfolgerung ziehen: « On-
0

tologie ist nur als Phänomenologie möglich. Der phänomenologi-


sche Begriff von Phänomen meint als das Sichzeigende das Sein des
Seienden» 8 • Und damit wird die Phänomenologie bei Heidegger
grundsätzlich und ausschliesslich in den Dienst fundamentalonto-
logischer Seinserschliessung gestellt.
Dies bedeutet aber eine schwerwiegende Vorentscheidung über·
die Eigenart des apriorischen Grundes, den es erst aufzuweisen
gilt, und d. h. über die Eigenart des Seins.
Bei Kant war die transzendentale Methodik von der Ueber-
zeugung getragen, dass die apriorischen Gründe nie unmittelbar in
sich se!bst zur Gegebenheit kommen, sondern sich immer nur
mittelbar aus dem faktischen Vollzug gegenständlicher Erkenntnis
durch Analyse und Deduktion rückschliessend aufweisen lassen,
. weil sie ·keinerlei inhaltliche Qualitäten sind, die selbst zum Gegen-
stand einer wie immer gearteten Anschauung werden können, son-
dern rein formale Bestimmungen, die jeweils an der empirischen
lnhaltlichkeit aufl~uchten.
Bei Hegel ist es ähnlich: Alle Bewusstseinsstufen, welche die
Phänomenologie durchläuft, sind gegenständlich bestimmt, deshalb
geht sie « durch alle Formen des Verhältnisses des Bewusstsein~
zum Objekte durch» 9 • Die ganze Bewegung ist aber formal be-
stimmt und diese formale Bestimmung, die dialektische Bewegung,
kommt erst am Ende der transzendentalen Rückführung im « ab-
soluten \Vissen » zum Begreifen ihrer selbst, ohne jedoch aufzuhö-
ren, re1n formal zu sein, und ohne irgendwie zum Inhalt zu werden.
Heidegger .dagegen fordert eine phänomenologische Unmittel-
barkeit « schlicht hinsehende·n Vernehmens» 10, dem der apriori-
sche Grund, das Sein des Seienden, fassbar werden soll. « Unmittel-
barkeit » bedeutet hier nicht, dass die vorgängige Unmittelbarkeit
des zunächst und zumeist Sichzeigenden sowie die vermittelnde
Wegräumung der Verdeckungen und Verstellungen des Phäno-
mens ausgeschaltet werden könnten. Aber sie vermitteln eine neue,
wir dürfen in Hegels Terminologie sagen: vermittelte Unmittelbar-
keit phänomenologischen Sich-zeigens.
Nun wird aber diese Unmittelbarkeit nicht im logisch-rationa-

s ebd.
e Hl!GELS WtERKE, Jubiläumsausgabe (H. Glockner), Stuttgart 1927 ff., Bd.
IV 44.
10 Sein und Zeit 33.
88 EMERICH COBBTH S, 1,

len Denkvollzug erreicht, sondern in Erlebnisgehalten emotionaler,


also vor-logischer, vor-rationaler, vor-prädikativer Art, in - onto-
logischen, nicht ontischen - Stimmungen, Befindlichkeiten usw ..·In-
sofern besteht hier ein scharfer Gegensatz zu Hegel, der gerade in
der logisch-rationalen Denkbewegung der« spekulativen Vernunft>
das ursprüngliche Geschehen im Wesen des Geistes erfassen will.
Wenn Heidegger auch später nie mehr - weder ausdrücklich noch
tatsächlich - die Phänomenologie als Methode der Seinserschlies-
sung wieder aufnimmt, so bleibt doch seine Forderung nach un-
mittelbarem Erfahren des Seins und zwar auf vor-prädikative Wei-
se durchaus in Geltung. Und so bleibt in dieser Hinsicht auch sein
Gegensatz zu Hegel bestehen.
2. Doch mildert sich auch dieser Gegensatz zwischen Heideg-
ger und Hegel, wenn Folgendes beachtet wird : Einerseits - bei
Hegel - ist dialektisch-spekulatives Denken nicht eine willkürlich
subjektive Denkmethodik, die sich von aussen her des Gegenstan-
des bemächtigt, sondern die Bewegung der Sache selbst, die im
Denken zu sich kommt, ja es ist die Bewegung des Seins selbst,
die jeweils den Gegenstand entspringen lässt. Insofern es aber in
diesem Sinne eine Bewegung ist, die den einzelnen endlichen Geist
übersteigt und ihn nur zum « passiven > Ort ihrer Erscheinung
macht, kann Hegel hier von einem « reinen Zusehen > 11 reden, ein
Wort, das zu Heideggers « schlicht hinsehendem Vernehmen > und
zu den Grundanliegen moderner Phänomenologie in seltsamer Pa-
rallele steht.
Anderseits - bei Heidegger - bleibt in der Vermittlung jener
Unmittelbarkeit, d. h. in der Freilegung des phänomenologischen
Phänomens, Hegels dialektische Negation deutlich wirksam. Dies
hängt damit zusammen, dass Heideggers « ontologische Differenz >
zwischen Seiendem und Sein, bzw. zwischen ontischem und onto-
logischem Erkennen in etwa Hegels Unterscheidung zwischen « ab-
straktem Verstand> und « spekulativer Vernunft> entspricht. In
beiden Fälllen ist es ein zweischichtiges Denken: Ontisches bzw.
abstraktes Erkennen ist dem empirisch-gegenständlichen Seienden
zugeordnet. Es ist die Ebene, auf der die formale Logik ihr Recht
hat, weil es sich hier uin das Faktische und Einzelne handelt, das
noch nicht auf seinen· Grund hin überstiegen ist. Dies geschieht
erst auf der Stufe ontologischen bzw. spekulativen Denkens. Zwi-
schen beiden Schichten steht die Negation und in ihrem Vollzug·
besteht die ~ Umkehrung des Bewusstseins>, die Heidegger aus-

11 Hegel W. 11 77.
HEIDEGGER UND HEGEL 89

drücklich von Hegel übernimmt 12 • So erscheint das Sein zunächst


als Nichts, d. h. als das Nichts des Seienden, und wird deshalb im
Entgleiten des Seienden im Ganzen in der Angst erfahren. Aber
_das Nichts ist der « Schleier des Seins », « dieses Nichts west als
das Sein». Wie Hegels Negation nicht logische Kontradiktion, son-
dern Position eines korrelativ Entgegengesetzten ist, wie das Nichts
am Anfang der Logik nicht ein absolutes Nichts meint, sondern als
Inbegriff der ungegenständlich-metaphysischen Sphäre steht, in der
das Seiende aufgehoben und auf _seinen Grund reflektiert ist, so
meint auch Heideggers Nichts nicht ein reines Nichts als Produkt
gedanklicher Negation, sondern eine positive, wenn auch nicht nach
Art des Seienden gegenständlich fassbare Wirklichkeit, in der alles
Seiende gründet : das Sein.
Die Negation, bzw. bei Hegel die « Negation der Negation»,
hat hier wie dort dieselbe Funktion der Ausschaltung der empirisch-
ontischen Verdeckungen, damit der Seinsgrund selbst, durch die
Negation vermittelt, offenbar werde. Dabei bleibt die so vermittelte
Grundfreilegung, die in der ontologischen bzw. spekulativen Er-
kenntnis erreicht wird, wesentlich zurückgebunden an die Vermitt-
lung ontischen bzw. abstrakten Erkennens. Die neue Unmittelbar-
keit ist nur durch vermittelnde Negation erreichbar: sie setzt eine
erste Unmittelbarkeit voraus, von der sie sich negativ absetzt. So
besteht gerade hierin eine weitgehende Gemeinsamkeit beider
Denker.
Zum Abschluss noch ein kurzer Hinweis auf das, was sich aus
Heideggers phänomenologischer Methodenbestimmung ergibt. Un-
mittelbar phänomenal aufweisbar ist immer nur etwas inhaltlich,
qualitativ Bestimmtes, etwas, das der Sphäre des Soseins angehört.
Wenn nun das Sein phänomenologisch aufgewiesen werden soll,
so wird es von vornherein in der Soseinsordnung angesetzt, mag
es auch innerhalb dieser Sphäre von weitester Allgemeinheit sein.
So bleibt tatsächlich Heideggers ~ Sein des Daseins», das er in« Sein
und Zeit » als « Sorge » bestimmt, eine washeitliche Struktur im
Grunde des menschlichen Wesens. Die Sorge ist die « formal exi-
stenziale Ganzheit des ontologischeh Strukturganzen » und bedeu-
tet : « Sich vorweg schon sein in der Welt als sein bei innerwelt-
lich begegnendem Seienden » 13 • Wenn sich die Strukturganzheit wei-
ter in der Zeitlichkeit auslegt, d. h. im menschlichen Zeitentwurf,

12 « Die Philosophie ist - aus dem Blickpunkt des gesunden Menschenver-


standes gesehen - nach Hegel die 'verkehrte Welt'»: Heidegger, Was ist
Metaphysik? 22.
13 Sein und Zeit 192.
90 EMBRICH CORETH S, I.

so bleibt auch damit das Sein des Daseins im Raume washeitlicher,


Strukturen, ohne dass diese auf ein metaphysisches Sein hin über-
stiegen würden.
Daraus ergibt sich etwas, das paradox erscheint - paradox
nämlich solange, als man an der üblichen Entgegensetzung von
Essenz- und Existenzphilosophie festhalten wollte: dass Heideg-
ger einen durchaus essenzialen Seinsbegriff hat. Da das Sein aber
aller inhaltlichen Bestimmtheit des Seienden vorausliegt, kann es
nicht anders als formal sein, d. h. es muss eine formale Grundstruk-
tur des Soseins bedeuten, ganz ähnlich wie Hegels Seinsbegriff eine
formale 'Grundstruktur der Wesensordnung ausdrückt.
Und wie es bei Hegel die formale Gesetzlichkeit der diälekti-
schen Bewegung ist, dynamisches « Werden > als Selbstverwirkli-
chung und -entfaltung des eigenen Wesens in stetem Ausgriff auf
Anderes, so ist es bei Heidegger die dynamische Struktur des Sich-
vorweg-seins in stetem Vorgriff auf die Möglichkeiten des eigenen
Seinsvollzugs im Entwurf von Welt und Zeit.
Vo~ hier aus müsste man noch in zahlreiche Vereinzelungen
hinein dem Verhätlnis Heideggers zu Hegel nachgehen. Doch wird,
wie mir scheint, der ganze umfangreiche Problemkreis nur dann in
der richtigen Perspektive gesehen, wenn zunächst die tiefe Gemein-
samkeit der tragenden Grundproblematik deutlich gemacht ist, was
- wenn auch nur in gröbsten Umrissen - die Absicht dieses Re-
ferates war.
VIII

R. P. SALV. GOMEZ NOGALES S. I.


PßOFESSOBE NELLA FACOLTA DI FILOSOFIA
·« 8. M, V, DEL RECUERDO > MADRID

LA ABSTRACCION DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO

Dificilmente podriamos abordar un tema mas espinoso en las


actuales. circunstancias de la filosofia contemporanea. Cada pala-
bra del titulo de nuesti.-a conferencia parece envolver. una parado-
ja. Una fuerte reaccion en contra del idealismo ha suscitado una
oposicion radical a toda abstraccion en sectores bastante consi- .
derables del mundo filosofico moderno. Segun ellos, abstraer es
lo mismo que paralizar intelectivamente la corriente vital del cos-
mos para obtener instantaneas pasajeras que no reproducen ni
con mucko toda la riqueza de la realidad concreta.
Pero si la abstraccion es sospechosa para muchos filosof os
modemos, la abstraccion del ser es inconcebible. El ser es to-
talidad, la abstraccion es necesariamente parcialidad. No es pues
posible encontrar al ser por via abstractiva. Por ultimo, el existen-
cialismo es la filosoffa de lo individual y de lo concreto. Parece
por tanto inutil el planteamiento del problema de la abstraccion
del ser dentro del existencialismo. ·
Y sin embargo, hemos creido del mayor interes este carea-
miento de la concepcion abstraccionista del ser con la filosofia
existencialista. Ello nos obligara a una revision de la teoria de
la abstraccion del ser a la luz de las tendencias filosoficas de
nuestros dias. De esta ~anera apareceran con mas brillantez las
posiciones bien fundamentädas de la filosofia tradicional y podre-
mos enriquecerla con las aportaciones que siempre trae consigo
una mayor reflexion sobre los problemas eternos de la humanidad.
Dos elementos hay que tener en cuenta en el problema de la
abstraccion: la realidad que se abstrae y la facultad que la capta.
EI objeto y el sujeto. En nuestro caso el objeto es el ser y el sujeto
el hombre. Veamos que nos dice la filosofia existencialista sobre
cada uno de los dos polos que entran en juego en la abstraccion
para ver si sus procedimientos nos cierran a cal y canto todos los
accesos hacia una concepcion abstraccionista del ser.
92 SALV. GOMEZ NOGALES S. I.

Es imposible dar una idea detallada de todos los que de algu-


na manera profesan hoy las corrientes existencialistas 1 • Vamos a
fijarnos tinicamente en aquellos autores que han cristalizado como
los jefes de la escuela en sus principales direcciones.

SöREN KIERKEGAARD.

Se ha considerado como el fundador de la escuela, mas o me-


nos consciente, a Sören Kierkegaard, nacido ef 5 de mayo de 1813.
Los primeros pasos en su filosofia coinciden con los comienzos de
la tragedia de su vida. La desgracia le hace consciente de su pro-
pia personalidad, le separa del medio ambiente y le deja a solas
con su interior finito y limitado. La soledad de· 1a desgracia segun
el fllosofo danes constituye al individuo en su individualidad per-
sonal para enfrentarle con su propio problema.
1,Podria la razon o la filosofia resolver este problema? Antes
de responder a esta pregunta conviene tener en cuenta que la filo-
sofia contra la que principalmente dirigio sus ataques Kierkegaard
fue la de Hegel. Hegel era para Kierkegaard el sabio que sacrifico
al hombre en aras de la racionalidad impersonal 2 • Ha hecho del
hombre un genero, y en el genero se ha esfumado el individuo.
Pero el genero no interesa mas que a la filosofia, y sobre la fi-
losofia estä la religion, a la que le importa el individuo mucho
mas que el genero. EI ser no puede ser producto de una idea ab-
soluta. Esto equivaldria a convertirlo en objeto del pensamiento y
a sumergimos en este objeto quitando nuestra atencion de lo uni-
eo que la merece :· el sujeto que piensa. Es necesario renunciar al
objeto para fijarse tinicamente en el sujeto. « La tinica verdadera
objetividad es la de nuestra propria subjetividad > 18•
Su aversion por la filosofia especulativa y por los sistemas
es reconcentrada. Es un absurdo querer reducirlo todo a un siste-
ma. « EI humorista, nos dice Kierkegaard en su diario, no puede
nunca llegar a ser un sistematico, porque ve en cada sistema el
resultado de un esfuerzo renovado siempre por prensar al mundo

1 La bibliografia general sobre el tema es abundantisima. Para lo refe-


rente al mundo hispänico, puede servir de orlentacion el fndice bibliogräflco
publicado en la Revista « Pensam >.
2 Sobre las relaciones entre la ßlosofia de Kierkegaard y la Hegeliana
cfr. J. WAHL, Etudes Kierkegaardiennes, Paris, 19492, ps. 86-172.
a M. F. Sc1ACCA, La Filosofla-hou. Trad. de Claudio Matons Rossi, Barce-
lona, 1947, p. 110.
LA ABSTRACCI6N DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 93

entero en un solo silogismo, mientras que el ( el humorista) ob-


serva principalmente al inconmesurable. Vive en la plenitud » 4 •
Tenemos pues que escaparnos, dice Kierkegaard, de la carcel
de la filosofia para arribar a las playas de la religi6n. Hay que
huir del « pensamiento objetivo » de la filosofia para fijarse en
el « pensador subjetivo », t'.mico que interesa a Ja religi6n. Ir tras
el objeto es perderse a si mismo, pensar en todo menos en si mismo.
Renunciar pues a_ todo para volver a la interioridad propia, he
aqui el lema de la filosofia kierkegaardiana. Llevar de esta ma-
nera en las entraiias la pasi6n de nuestra propia personalidad es
sustituir la facultad de « especular » por Ja de « existir ». Lo prin-
cipaJ no es conocer sino vivir nuestra propia existencia.
Para llegar a la cumbre de este vivir nuestra propia existen-
cia seiiala Kierkegaard tres estadios. Es de notar que estos tres
estadios no tienen nada que ver el uno con el otro. Para recorrerlos
no hay que ir por via racional. La raz6n conoce a su objeto, pero
desconociendose a si misma. Para recorrer estos tres estadios hay
que encender en nosotros una gran pasi6n por vivir nuestra pro-
pia existencia. Esta pasi6n hace que nos lancemos a la carrera para
poseernos a nosotros mismos. Pero la pasi6n es un arma de dos
filos que lo mismo puede destruir que perfeccionar nuestra propia
existencia. « Yo no he querido, dice Kierkegaard, de ninguna ma-
nera todo instinto incircunciso, toda pasi6n hirsuta como una bar-
ba inculta » 6 • La pasi6n autentica ha de ir seiioreada por la re-
flexi6n. Es la pasi6n de Ja idealidad, o en otros terminos la fe, la
que transforma al hombre en el espiritu haciendole participe de
la misma vida divina.
No hay continuidad en el paso de un estadio a otro. Hay que
dar un « salto » como veremos enseguida. EI primer estadio es el
estetico 6 • En esfe nos dejamos seducir por el atractivo momentaneo
de las cosas olvidandonos de nuestra propia existencia 7 • Todo el
goce consiste en un momento. Cuando lo queremos aprisionar se
nos ha esc~pado de las manos. EI fruto natural de este incesante

• Die Tagebücher. Trad. al alemän por Teod. Haecker, München, 19493,


16 - Julio - 1937, p. 80.
6 Journal (fragmentos). Trad. por Ferlov y Gateau, Gallimard, 1941, p. 206.
6 Puede verse descrito este estadio en la. parte la de la Bd. II: Entweder -
Oder, en la trad. alemana de las obras completas: Gesammelte Werke. Un-
verkürzt herausgeg. von Hermann Gottsched und Christof Schrempf, 19222. Fue
traducida tambien al frances con el titulo « L'Alternative » por P. H. Tisseau,
Bazoges - en - Pareds, Vendee, 1940.
7 Le Concept d'Angoisse, trad. por P. H. Tisseau, 1936, ps. 146-146. Cfr.
L'Alternative, 2a parte, p. 204.
SALV, OOMEZ NOOALES S. 1,

huir el placer es el tedio, y del tedio brota la desesperacion. En


este momento se encuentra el esteta en una encrucijada, ya que su
desesperacion puede ser parcial o total, segun que la voluntad de
renuncia sea completa o incompleta. Sera parcial si en vez de re-
nunciar a este efimero gozar permanecemos amarrados a la tierra
alimentando!}os del recuerdo de los goces pasados. En cambio,
sera total si nos obliga a romper deflnitivamente con todo lo flnito
haciendo de este trampolin para « saltar > al estadio inmediato.
Ante esta encrucijada hay que elegir, y entonces entra en
juego nuestra libertad: Esta sera tanto mas perfecta cuanto la
desesperacion nos obligue mas a elegir la renuncia absoluta. Nunca
somos tan libres como cuando no tenemos mas remedio que elegir
lo que elegimos. Por eso el momento cumbre de la libertad es la
muerte, cuando la opcion versa sobre lo unico necesario 8 • EI esteta,
mientras no se decide absolutamente, trata de ocultar el vacfo de
la vida con nuevos goces efimeros y esta cometiendo el grave pecado
de c no querer profunda e intimamente » 8 • Cuando viene la deses-
peracion hay que obrar totalmente a la desesperada. El « yo debe
absolutamente elegir y elegirse segun lo que hay en el de infinito
y eternö > 10•
El esteta· al desesperar absolutamente da un salto y se enca-
ra con el deber. Es el estadio etico n. En el el hombre se siente do-
minado por un imperativo categorico que no puede eludir y al
que debe sacrificar continuamente sus gustos esteticos o sensiti-
vos. Pero tambien en este estadio fracasamos. Crelamos poder en-
contrar la felicidad en el cumplimiento del deber. Pero a pesar de
todo, el sufrimiento sigue y la etica con su aspiracion a la feli-
cidad no puede explicarlo. EI individuo ha de quedar sometido a
la ley comun, cori lo cual pierde su categorla de individuo y queda
sacrificado a los intereses de la comunidad. Pero sobre todo la
etica queda derrotada ante el pecado. No olvidemos que Kierkegaard
es protestante. La etica, dice, supone que se puede practicar la vir-
tud sin desfallecer. Pero viene el pecado, y una de dos, o se trata

s « Para conocerse hasta el mas alto grado, hay que estar angustiado hasta
el mas alto grado, hasta la muerte y el anonadamiento » (Der Pfahl im Fleisch.
Trad. alem. de Th. Haecker, 1914, p. 66). Cfr. Die Tagebiicher, 2a parte. Trad,
de Hermann Ulrick, 1930, p. 139-141.
8 M. F. Sc1ACCA, La Filosofia-hoy, p. 116.
10 R. JoLivBT, Las doctrinas uistencialistas desde Kierkegaard a J.-P. Sartre.
Trad. de Arsenio Pacios, Madrid, 1960, p. 48. ·
11 Describese el estadio etico en la obra « Entweder-Oder», citada en la
nota (&), Tambien en la Bd. IV de la misma trad, Stadien auf dem Lebens-
weg, 19a22.
LA ABSTRACCI6N DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 95

de explicarlo y entonces se elimina la culpa, o se admite sin ex-


plicarlo y entonces fracasa la etica al encontrarse con el absurdo.
Hay pues que renunciar a la etica para dar el salto al unico esta-
dio verdadero: el religioso. Para dar este ultimo salto no hay otro
recurso que el de admitir el absurdo 12 • Solo cuando nuestra razon
se encuentra fracasada esta el hombre dispuesto para enfrentarse
cara a cara con el mismo Dios por medio de la fe. EI modelo en
esto es para KierKegaard Abrahan, que al obrar contra la etica en
la voluntad de sacrificar a su hijo se fia de Dios y Dios se lo de-
vuelve. Abrahan es condenado en el tribunal de la razon, pero es
absuelto en el de la fe. Surge pues la desesperacion en el estadio
etico al encontrarse el hombre sumergido en la culpa. Y entonces
no tiene mas remedio que salir de si mismo para ponerse en contac-
to con Dios. Solo entonces vive con toda verdad su propia existen-
cia. « No hay mas existencia autentica que aquella quese situa ante
Dios, esta en relacion con el Trascendente y el Absoluto > 18• « La
existencia autentica no se puede comprender mas que en relacion
con el cristiänismo » 14•
Resumiendo brevemente, tenemos desde el punto de vista ob-
jetivo dos extremos: el hombre y Dios, las unicas realidades au-
tenticas que nos interesan en esta vida. Desde el punto de vista
gnoseologico no los podemos conocer existencialmente a manera de
objetos: Hay que conocerlos, pues, por otra via, por la via de la
pasion hacia si mismo (el sujeto} que culmina en la fe. EI excitan-
te que nos determina a recorrer el camino es la angustia y la de-
sesperacion, y en los momentos de desesperacion se da opcion a
la libertad propia para trazarse su propia existencia. En las pro-
fundidades del ser individual y absurdo, al negarse a si mismo, se
revela el misterio de Dios de· una manera inefable, no com·o objeto,
sino como la afloracion subita de una fantasia infinita. No hay pues
objeto y sujeto, no hay mas que existente, y en el toda la riqueza
pasional de sus vivencias, en las cuales va implicado el misterio
de Dios, no a manera de contacto mistico, sino en un estar delante
enigmatico e irracional a manera de signo 111 • « La relacion divina
se conoce negativamente. EI aniquilamiento de si mismo es la for-
ma esencial de la relacion divina > 118 •

12 L. CHssrov, Kierkegaard u la filosofia ezistencial. Trad. de J. Ferrater,


Buenos Aires, 1947, p. 61.
1a Traite du desespoir. Trad. de Ferlov y Gateau, Gallimard, 1932, ps. 165 ss.
a Post-scriptum. Trad. de P. Petit, Gallimard, 1941, p. 255.
15 Ib. ps. 160, 173, 185. L'Ecole du Christianisme. Trad. de P. H. Tisseau,
Bazoges-en Pareds, Vendee, 1936, p. 158.
1e Post-scriptum, p. 31 t. Cfr. ps. 307-318.
96 SALV. GOMEZ NOGALES S. I.

KARL JASPERS.

EI segundo de los protagonistas del existencialismo que vamos


a estudiar es Carlos Jaspers, nacido en Oldenburg el aiio 1883. Li-
cenciado en Medicina se dedico primeramente a la psiquiatria. Lle-
ao a publicar un tratado de psicopatologia 11 • Inicia sus tareas
filosoficas en el campo de la psicologia. Su primera obra de filo-
sofia se titula « Psychologie der Weltanschauungen> is. No
es pues
extraiio que el hombre ocupe en su filosofia un papel capitalisi-
mo. Pretende hacer una labor no ontologica, sino esencialmente
metafisica. « La filosofia que procede del seno de la existencia
posible, dice Jaspers, no tiene como fin ultimo la misma existen-
cia; su fuerza la lleva mäs allä de la existencia y tiende a ha-
cerla desaparecer a su vez en la Trascendencia ... La filosofia de
la existencia es por su esencia metafisica > 19 •
Jaspers nos da un conjunto de su filosofia en su ohra funda-
mental «Philosophie> publicada en 1932 2'11. Consta de tres partes
correspondientes a los tres estadios del ser y del conocer. La pri-
mera parte es una filosofia de las ciencias. Su ohjeto es el mun-
do (Dasein): yo y las cosas: el campo de mi experimentacion.
Su fin, orientarnos en el mundo (Welterintierung). Su facultad el
intelecto. -
La segunda parte describe la existencia. Su facultad es la
razon, Ja unica capaz de verificar el esclarecimieµto de la exis-
tencia (Existenzerhellung). Se nos descubre en una experiencia
fundamental (Grundoperation). Tres son sus caracteristicas: la
historicidad que integra la situacion en- mi mismo haciendo desa-
parecer la duplicidad del saber objetivo entre el sujeto y su situa-
cion 21 • La segunda nota es la libertad, en cuanto que creo libre-
mente mi propia situa<;ipn al elegirla. La tercera es la comuni-
cacion : « EI acto de abrirme a otro es al mismo tiempo · para el yo
el acto de realizarse como persona > ~. La ultima parte de su obra

Una amplia bibliografia sobre Kierkegaard puede encontrarse en la obra


antes citada de J. WAHL, Etudes Kierkegaardiennes, Paris, 19492.
11 Allgemeine Psychologie, fiJ.r Studierende, Aertzte und Psychologen, Ber-
lin, 1913.
1s Berlin, 1919.
19 Philosophie. Erster B. Philosophische Weltorientierung, Berlin, 1932,
ps. 27-28. Cfr. p. 33 y el t. III llamado Metaphysik.
20 De estas tres partes, la I se llama Weltorientierung; la II, Existenzer-
hellung y la IJII, Metaphysik. Editada en Berlin por Julius Spinger.
21 Ib. II, ps. 221-223.
22 Ib. p. 64.
LA ABSTRACCI6N DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 97

estä dedicada a la relaci6n a la Trascendencia, pues la existencia


descubre su radical intencionalidad a la Trascendencia en el mismo
acto en que adquiere conciencia de su existencia.
Pasemos ya a examinar la concepci6n jasperiana de los dos
elementos. sujeto y objeto. Distingue dos clases de conciencia: una
general igual en todos y otra individual 2111 • La general Harnada
intelecto es inmanente en sentido kantiano. No puede conocer la
cosa en s1, ya que su conocimiento estä mediatizado a nuestras
afecciones subjectivas u. EI intelecto no puede captar en ninguna
de sus experiencias a la Trascendencia '26 •
La conciencia individual es la facultad del esclarecimiento de
la existencia. Sus materiales son los mismos del mundo empiri-
co : « Lo que es experimentable en el tiempo y cognoscible en un
modo in temporal > 118 • Su tendencia es a concebir la Trascenden-
cia a la manera mun!lana del Dasein: « La raz6n no puede con-
cebir a la Trascendencia mäs que como «Dasein>, en el mismo
plano que el mundo ... La Trascendencia resulta asi « el otro Da-
sein>, el de mäs alla, el que no esta aqut > 21 •
Hay que superar esta crisis. Pensamiento y objeto son re-
ciprocos. La Trascendencia no puede estar « frente a mi > 28 como
un objeto, esto seria no salir de la inmanencia. La Trascendencia
estä mäs alla de todo .objeto « trans, über ... hinaus>. La Tras-
cendencia no se puede probar ni experimental ni deductivamente:
« Que la Trascendencia es no se puede asegurar por fijaci6n empt-
rica ni por conclusion apodictica. EI ser de la transcendencia se
alcanza en el trascender, sin que esto signifique observaci6n ni
invenci6n > 29•
Huelgan pues todas las pruebas tradicionales, que no son mas
que enunciados 16gicos faltos de la corriente vital de la existen-
cia •, asi como todos los motivos de credibilidad .n. Dios no puede
ser e:ipresado en conceptos. « Nunca poseere lo que existe con un

2a Cfr. E:datenzphiloaophie, Berlin 1938, ps. lö y ss.


H Ib.
211 Ib. Adema\s en Vernunft udtl Existenz, Gronlngen, 1935, ps. 30 ss.
ze Vease el ultimo texto cltado en la nota precedente.
u Philoaophie. Dritter B., Berlin, 1932, p. 138. Traducimos por c raz6n >
el termino c Verstand überhaupt>.
zs Ib. ps. 8 ss.
n La expresi6n c über... hinaus > es de uso muy frecuente en Jaspers.
Vease por ejemplo Philosophie, Erster B„ p. 27.
El texto entre comillas esta tomado de Philos. Dritter B., p. ~O.
80 Ib.
81 Ib. Enter B„ ps. 303 ss.

7- Stadt ftlpoftct
98 SALV, OOMEZ NOGA.LBS S, J, ' .r

contenido del conocimiento > 32 • Si no puedo concebir la existencia,


mueho menos la Trascendencia. Esta es algo impensable (Undenk-
bare) 18.3, porque no es un objeto "• ni nuestro pensamiento puede
abarcar lo infinito en un concepto finito. Nuestras expresiones so-
bre Dios no tienen mas valor que el de signos representativos 36•
Con todo no es co~pletamente inutil la conceptualizaci6n de
la Trascendencia. Puede conducir a ella de dos maneras: ·negativa-
mente, en cuanto ,que al negar las categorias conceptuales estamos
en disposici6n de trascenderlas. Con esto habremos conseguido ha-
cer f racasar a la 16gica que hubiese impedido nuestro aceeso a la
Trascendencia con sus deducciones, con su naturalismo mundano y
con su antropomorfismo 36 • Este fracaso que representa el avan-
ce del intelectualismo en filosofia puede expresarse en esta f 6r-
mula: « es pensable que hay un impensable > 87 • Pero la conceptua-
lizaci6n tiene ademas un valor positivo: el esfuerzo por represen-
tarnos a la Trascendencia hace que nos fijemos en la orientaci6n
esencial de la existencia hacia la Trascendencia 418 •
6 C6mo se verifica el arribo a la Trascendencia? En ciertas
situaciones limites llegamos a comprender la existencia, pero no
oomo una cosa cerrada, sino como algo abierto a « otro > que no es
ella. Por su libertad ha de realizarse a si misma, pero con el
complemento de algo que le ha de venir de fuera. « No conserva su
posibilidad mas que si se siente fundada en la Trascendencia.
Pierde la abertura a su propio devenir si se toma a si misma por
el Ser propiamente dicho. Al abrir la brecha a traves del mundo
empirico la libertad tiene la tentaci6n de decidir por si sola la
cuesti6n del ser, pero la libertad no se puede tomar a si por el ser
supremo: estä todavia en el tiempo, en el camino en que la existen-
cia debe realizarse. La existencia no es el ser en si >39•
Pero si no es el ser en si, al comprenderse, toca al ser en si por
una espeeie de contacto inefable: « Al realizar la traseensi6n, no eo-
nozco el ser objetivamente como euando me oriento en el mundo;
ni tengo conciencia de el (inne-werde) como la tengo en el eselare-
cimiento de la existencia; no conozco mas que en una aeei6n inte-

32 Ib. Dritter B., p. 3.


33 llb. p. 67 y en otros muchos pasajes.
3, Ib. Erster B., ps. 300-301.
a11 Ib. Dritter d„ p. 66.
ae Ib. ps. 66-67.
a1 c Es ist denkbar, dass es gibt, was nicht denkbar ist > (lb. p. 38).
aa Ib. ps. 66-67 y 200.
88 Ib. ps. 4-ö.
LA ABSTRACCI6N DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 99

rior (inneren Tun) que aun en el fracaso sigue en contacto con el


ser propiamente dicho > "'°.
Esta Trascendencia jasperiana no puede confundirse ni con el
dios de los teistas ni con el de los panteistas: no podemos pensar
la Trascendencia como un dios individual, separado del mundo, ni
decir que todo es transcendente y que Dios es el ser que contiene
todo. Esta dialectica nos lleva a mantener contradicciones -n. Tam-
poco es el Dios dogmatico de la revelaci6n. EI dogma se opone a la
libertad de la existencia. Ni podemos dar culto a Dios que esta es-
condido: « En el mundo tengo relaci6n real con las cosas y los
hombres: Dios estä oculto "2 • Jaspers desprecia la oraci6n que se-
gun el tiene algo de magia y de descargo de la propia responsabili-
dad en i>ios 43 • No quede darse un Dios comun para todos, cada uno
· tiene que encontrar su ·Trascendencia, la que esta relacionada con
su propia existencia.
1, Que es pues la Trascendencia? « La Trascendencia, nos dice
J aspers, es el ser que no es Dasein, ni conciencia, ni existencia, sino
que lo trasciende todo. Es el Absoluto en oposici6n con la finitud, la
relatividad, la incompleci6n de todo lo que es para la conciencia y
en la conciencia > ""· « Se presenta ante mi como la realidad sin po-
sibilidad, como la realidad absoluta, mäs alla de la cual no hay
nada: ante ella permanezco mudo » 415 • No tiene libertad, porque no
tiene nada que realizar ~.
La existencia tiene una posibilidad, porque no es algo acabado,
sino algo que tiene que hacerse. La Trascendencia en cambio esta
en el Umite de esas posibilidades, es el campo donde se proyecta la
realizaei6n de todas las posibilidades de la existencia. Si la existen-
cia se encerrase circularmente sobre sf misma, se cerrarla el cami-
no a sus posibilidades reduciendose a la nada. S6lo abriendose al
« otro > es posible la existencia, ya que unicamente en la Trascen-
dencia « la libertad encuentra la posibilidad de perfeccionarse » "'·
Por eso no puede darse una Trascendencia comun, sino la que en-
cuentro como realizaci6n de las posibilidades de mi propia existen-
cia.

"° Ib. p. 3.
n llb. Erster B., p. ö2.
42 Ib. Zweiter B., p. 314.
" Ib. ps. 120, 122-124, 208, 273-274, 314-318; Dritter B., ps. 126-127, 1ö2,
200-204.
" Ib. Erster B., p. ö0.
o Ib. Dritter B., p. 9.
,e Ib. p. ö.
41 Ib.
100 SALV, OOMEZ NOGALES S, 1,

6Tendremos que decir por tanto que la Trascendencia jasperia-


na es puramente subjectiva y que no ha rebasado la inmanecia?
Todo depende de la interpretaci6n que se de al termino « envolven-
te > (Umgreifende). Hay pasajes en los que el « Umgreifende > pa-
rece ser identificado con la Trascendencia 48 • Otros en cambio en
los que se dice que el Dasein, la existencia y la Trascendencia no
son mäs que maneras diversas en las que se nos aparece el « Um-
greifende > absoluto (Weisen des Umgreifenden).
Para dirimir esta cuestion el P. Lotz, en un generoso esfuerzo
de comprensi6n, ha ideado una interpretaci6n ingeniosa de los ter-
minos jasperianos. Dice que el « Umgreifende > y la Trascendencia
no se identifican totalmente. EI mundo, la existencia y la Trascen-
dencia serian modos del « Umgreifende > a la manera como en la
Escolästica el ser tiene sus modos que, sin identificarse totalmente
con ellos, los trasciende en su comprensi6n confusiva 49 • Sea lo que
fuere de esta interpretaci6n del P. Lotz, no pueden desatenderse las
expresiones en que Jaspers afirma rotundamente que el Dasein, el
existente y el Trascendente son de un orden totalmente distintos.
Pero 6 c6mo podeµios ponernos en contacto con la Trascenden-
cia? Convirtiendo la propia existencia en una cifra de la Trascen-
dencia. c Lo mismo que en la conciencia en general; dice Jaspers,
es la experiencia el mediador entre sujeto y objeto, del mismo modo
lo es la cifra entre la existencia y la Trascendencia > 00• c La cifra
es el ser que hace de la Trascendencia una presencia y sin que la
Trascendencia tenga nunca que objetivarse en un ser-objeto ni la
existencia en un ser-sujeto > 411 • La cifra es como el punto de inser-
cion en que existencia y Trascendencia coinciden: c La Trascen-
dencia inmanente es inmanencia, pero que al punto se desvanece:
es trascendencia, pero echa como cifra una lengua en el coraz6n del
ser empirico ... Trascendencia e inmanencia han sido antes pensa-
das como exclusivas la una de la otra: es necesario sin embargo que
en la cifra, entendida como Trascendencia inmanente, se cumpla
para nosotros su ~ialectica viva y presente, en .donde la Trascen-
dencia no debe zozobrar > 12• Hay que concebirla como una manera

.a Vernunft und Existenz, Groningen, 1935, ps. 30-;15. Para la 2a opini6n


de los« Wlsen des Umgreifenden > cfr. Existenzphilosophie, Berlin, 1938, ps. 15-
18, 22, etc.
,e J. B. Lcrrz, Analogie und Chiffre, Scholastik, Hi (1940) 39-56. Especial-
mente ps. 42 ss •
• 10 Philosophie, Dritter B., p. 137.
11 Ib.
12 lb.
LA ABSTRACCI6N DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 101

de objetividad metafisica, como el lenguaje con que la Trascenden;.


cia habla a la existencia posible 63 •
No puede ser conocida conceptualmente: « La objetividad me-
tafisica, dice J aspers, se llama cifra, porque no es en si misma la
Trascendencia sino su lengua, como lengua no es comprendida ni
entendida por la conciencia en general; la naturaleza de la lengua
y el modo como nos habla se dirige a la existencia posible » 64 • Este
lenguaje de la cifra es como una especie de actividad interior por
la cual adquiero conciencia de entrar en la intimidad del ser M. Leer
las cifras es como abrir una brecha a traves de la corteza del Dasein
para asomarse hacia una lontananza infinita. Querer aprehender
esa penumbra como una realidad positiva de una manera anäloga
a la realidad empirica, seria entenebrecer por completo la traspa-
rencia de la cifra. Esta aparici6n de la Trascendencia en la cifra
es instantänea, movediza, evanescente. Estä impregnada de histori-
cidad. Las distintas instantäneas que la cifra nos ofrece dan la im-
presi6n de algo ca~biante, ya que al mudarse las distintas aparien-
cias del Dasein, la existencia percibe el continuo desvanecimiento
de la intuici6n de la Trascendencia bajo la forma temporal del paso
de un objeto a otro. Sin ser pues puramente subjetiva surge de la
circunstancia hist6rica de cada existencia. Por eso su lectura es li-
bre y no puede haber un Dios comlin, sino el que cada uno capte
en las cifras de su propia existencia. EI criterio para descubrirlo no
es pues l6gico, ni tampoco caprichoso, sino existencial.
En resumidas cuentas, admite Jaspers que el mundo, el hom,-
bre y Dios son distintos, pero no desconectados. EI mundo y· el hom-
bre son, en su propia existencia abierta al hombre, una cifra de
Dios. Y si la interpretaci6n del P. Lotz es autentica, ambos estarian
englobados en el « Umgreifenden » a la manera como el ente anä-
logo de los escolästicos comprende a los modos del ser ~.

MARTIN HEIDEGGER

Otro de los representantes mäs tipicos del existencialismo, qui-


zä el de mäs empaque filos6fico, es Martin Heidegger, nacido en
Messkirch el aiio 1889. No vamos· a meternos ahora en la polemica

53 Ib. p. 129.
H Ib.
55 Jb. ps. 153, 162.
56 Como obra de consulta sobre Jaspers aconsejamos especialmente el estu-
dio de M. DUFRENN.E y P. R100Eua: « K. Jaspers et la philosophie de l'existence »
(preface de K. Jaspers), Paris, 1947. '
102 1 SA.LV. OOMEZ NOGALES S. I.

de si el pensamiento de Heidegger se mantiene fiel a su obra fun-


damental primitiva « Sein und Zeit» 417 • Sea de este hecho lo que
fuere, nosotros vamos a descubrir el pensamiento de Heidegger te-
niendo en cuenta las ultimas publicaciones, en las que perfila sus
posiciones haciendose eco de las crlticas que suscitaron en la opi-
ni6n publica sus primeros escritos.
Todo el intento de la fllosofia heideggeriana quede resumirse
en estas palabras del « Sein und Zeit»: « 6 Se puede fundamentar
la ontologia ontol6gicamente o es necesario un fundamento 6ntico
o que ente (seiende) puede asumir la funci6n fundamentante? > 68 •
Se trata pues de buscar el fundamento ultimo de la ontologia que
podriamos definir segun la mentalidad de Heidegger como la cien-
cia humana del ser.
Heidegger ha ianzado una grave acusacion contra la fllosofla
que le ha precedido. Segun el ha permanecido encerrada en el en-
te (seiende) y al palpar su vaciedad se ha hundido en el nihilismo
de los valores suprasensibles. Toda la filosofia moderna esta teii!f.da
de un subjetivismo hermeticamente cerrado como consecuencia de
no haber advertido en la esencia del hombre su relaci6n originaria
al ser. 69• EI idealismo kantiano no puede ya llenar las aspiraciones
del mundo moderno eo. Este encerramiento en el ente, con el consi-
guiente olvido del ser, ha suscitado una angustia providencial que
esta reclamando en nosotros la vuelta hacia la verdad del ser 61 •
EI problema que el trata de resolver ha escapado tambien al
existencialismo. « Mis tendencias ·mos6ficas ... no pueden ser clasi-
ficadas como Existenzphilosophie ... La cuesti6n que me preocupa
no es la de la existencia del hombre, es la del Ser en su conjunto
y en cuanto tal ... La cuestion unica de « Sein und Zeit » no ha sido
tratada de ninguna manera por Kierkegaard, ni por Nietzsche, y
Jaspers la deja enteramente a un lado » 62 •
Sus pretensiones son las de fundamentar todo el arbol de la
filosofia, aun la misma metafisica 63 • La metafisica tradicional tiene
como objeto al ente en cuanto tal. EI ente aparece nimbado con la

11 Sobre este punto veanse las observaciones atinadas con que el P. Cefi.al
prologa la 2'a ed. de la obra de A. DB WABHLBNS « La Filosofia de Martin Hei-
degger », Madrid, 1952.
111 Sein und Zeit, Max Niemayer, Halle, 19415, p. 437.
ff Was ist Metaphysik? Einleitung, Vittorio Klostermann, Frankfurt,
19495, p. 11.
oo tJber den Humanismus, Vittorio Klostermann, Frankfurt, 1949, p. 5,
a1 Was ist Met.? 1. c. p. 12.
62 Bulletin de la Soc. Franc. de Philos., Oct.-Dec. (1937) 193.
68 Was ist Met.? 1. c. p. 7.
LA ABSTRACCIÖN DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 103

luz del Ser. Pero la metafisica no se preocupa ni d,el Ser ni de la


luz que lo patentiza o de su cU.11-&eLa N, Esta verdad o patencia del
Ser sera el fundamento de la misma metafisica descuidado por la
filosofia tradicional y descubierto ahora por Heidegger. No viene,
pues, a destruir la metafisica, sino a hacerla renunciar a su titulo
de fllosofia primera. La filosofia primera quedara constituida por
la ciencia que trata de la verdad del Ser, es decir de la Ontologia
Fundamental"· EI objeto de esta Meta-Metafisica no sera el ente
(seiende), sino el Ser (Sein).
Esta revelaci6n del ser no podra adquirirse por via del cono-
cimiento representativo. EI pensamiento conceptual congela la cor-
riente vital de la experiencia del Ser 66 y obtiene una exterioridad
del Ser: el ente; pero las profundidades del Ser se le han escapado.
Ante este escondimiento y olvido del Ser nace la angustia de su au-
sencia, que hace despertar en nosotros el pensar esencial. Con esta
angustia el pensamiento se hace mas pensante 61 , retrotrayendose a
un estadio anterior al del conocimiento abstractivo de Ia: metafisi-
ca68. Hay que ponerse en un momento anterior al del conocimiento
objetivo para acercarse mas al Ser. Quiza illuminaria este esfuerzo
heideggeriano de acercamiento al Ser la tendencia de su maestro
Busserl al pretender con su metodo fenomenol6gico llegar a la cosa
misma (Zu dem Sachen selbst). Este acceso al Ser hay que realizarlo
dentro del hombre mismo descubriendo la relaci6n de la esencia
humana al Ser en el momento en que nos sentimos angustiados con
su ausencia 69• Para descubrir la verdad del Ser hace un analisis fe-
nomeno16gico de la f 6rmula tradicional que define a la verdad co-
mo « adaequatio intell~tus et rei ». EI origen de esta f6rmula es
adulteraci6n del concepto primitivo de la verdad perpetrada prime-
ram~te por Plat6n y luego por el cristianismo, que han traido como
consecuencia poner a la verdad esencialmente en el juicio. Hay que
situarse en un plano anterior al 16gico, critico o psicol6gico, vol-
viendo al sentido primitivo de la verdad en la filosofia griega. « La
esencia de la verdad no es la generalidad vacia de una universalidad
abstracta » ro, sino algo previo a toda verdad de conocimiento obje-
tivo o de su proposici6n oral.

84 Ib.
e& llb. p. 9.
&8 Ib. p. 20.
81 Ib. p. 1·2'.
88 Ib. p. 8,
89 Kant und das problem der Met., Gerhard Shulte-Bulmke, Frankfurt,
1934, p. 218.
10 Vom Wesen der Wahrheit, Vittorio Klostermann, Halle, 19492, p. 25.
IN SALV, OOMBZ NOOALES S. L

Para que se de la c adaequatio > de la filosofia tradicional se


requieren por parte del Ser una transparencia o revelaci6n, y por
parte del hombre una actitud o comportamiento (Verhalten) de
presencia o descubrimiento 11, que consiste en c dejar surgir la cosa
delante de nosotros como objeto y en someterse a ella para expresar-
la tal como se presenta > 12• Esta verdad previa a la verdad del jui-
cio, esta especie como de revelaci6n antepredicativa es llamada por
Heidegger verdad 6ntica ?a. La verdad 6ntica no es otra cosa que
el ejercicio de la libertad del Dasein consistente en un dejar-ser
(Sein-lassen), en el que el hombre (Dasein) se entrega a lo real
descubierto para acomodarse a el en todo y hacer posible la con-
mensuraci6n de la representaci6n con el objeto. EI lugar en que
se verifica esta revelaci6n es el hombre. En el descubrimos « la re-
laci6n del Ser con la esencia del hombre y la relaci6n esencial del
hombre con la patencia del Ser como tal > "·
Este salir de si mismo, de todo contenido conceptual, im-
pulsados por la preocupaci6n (Sorge) de la ausencia, para tras-
ladarse ä las cercanias del Ser, no como algo exterior, sino co-
mo la esencia misma del hombre, recibe el nombre de ec-sistentia.
Para evitar el equivoco de cierta exteriorizaci6n mäs bien habria
que llamarla c insistencia > (Inständigkeit). Es como un estar in-
ternamente en la exterioridad de la revelaci6n del Ser. 0 en otros
terminos un estar hacia afuera en la alteridad inobjetiva de la
patencia del ·Ser, que es la misma esencia del hombre u. Con esto
el hombre deberia definirse no como c animal rationales >, sino co-
mo ecsistente '16 ,
EI acto de darse es la libertad del hombre que viene de esta
manera a coincidir con la verdad del Ser. He aqui c6mo la define
Heidegger: c Este entregarse a la patencia de lo real no se pierde
en ella, sino que se realiza como un replegarse ante lo real, para
que este se manifieste en lo que es y como es, para que asi la ade-
cuaci6n representativa pueda recibir, tomar de el su medida. Este
dejar ser significa que nos exponemos a los seres, al ente en cuanto
tal, que todo nuestro comportamiento se transporta a lo que es
manifiesto > 77 • Esta lib_ertad como abertura y entrega al Ser es el
Cfr. Vom Wesen des Grundes, en Jahr. f. Phil. und phänom. Forschung, Max
Niemayer, Halle, 1929, p. 5.
11 Was ist Met.? 1. c. p. 10. Cfr. Vom Wesen der Wahrheit, 1. c. p. 11.
72 Vom Wesen der Wahr., I. c. ps. 11 y 12.
73 Vom Wesen des Grundes, 1. c. p. 6.
" Was ist Met.? 1. c. p. 13.
111 Ib. p. 14.
78 Vber den Humanismus, l. c. p. 13.
77 Vom Wesen der Wahr., 1. c. p. 15.
LA ABSTRACCION DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 105

fundamento de toda posible relaci6n del hombre con el mundo y


con las cosas e incluso el fundamento de la Trascendencia.
Una 11ltima pregunta. 6Con que facultad nos abrimos al Ser?
No se puede hablar de facultad, mas bien habrla que llamarlo
c estado-de alma > (Befindlichkeit) 18 • « EI acto de revelacion 6nti-
ca, nos dice Heidegger, se acomoda al estado cenestesica del hom-
bre puesto junta al existente y en los compartamientos impulsi-
vas y volitivos fundados en este estado en presencia del exis-
tente> '79, •

Mäs que de una facultad cancreta (sentimiento, voluntad, etc.)


habrla que hablar del hombre concreto todo entero « acordado > y
c templado > segun la sintania reveladara del Ser 80 •
En todo la que hasta ahora hemos expuesto de la filosofia de
Heidegger no nos ha hablado para nada del prablema de Dias. 6Hay
algun sitio para Dias en el sistema de Heidegger? Cuanda apareci6
c Sein und Zeit > toda la hermeneutica de sus comentadores se de-
clar6 en sentido negativa. A este respecta no deja de ser significa-
tiva la siguiente confesi6n de Sartre en su conferencia sobre el
tema c EI Existencialisma es un Humanismo >: c Lo que compli-
ca las cosas es que hay dos especies de existencialistas : unos que
son cristianos y entre ellos colocare a J aspers y Gabriel Marcel,
de confesi6n cat6lica; y de otra parte estan los existencialistas
ateos, entre los que hay que calocar a Heidegger, a los existencia-
listas franceses y a mi mismo > 81 •
Aun hoy dia, cuando Heidegger ha sido mas explicito sobre
sus creencias trascendentales para defenderse cantra las acusacio-
nes de la crltica mundial, he aqui la cansecuencia ultima a la
que le han llevado sus reflexiones fenamenol6gicas: « EI hombre
esta mas bien 'lanzado' por el propio Ser en la verdad del Ser,
para que ec-sistiendo de esa suerte, resguarde la verdad del Ser,
para que a la luz del :ier aparezca el ente coma ente que es. Si
aparece, y c6mo aparece; si ingresan, se presentan y retiran el
Dios y los dioses, la historia y la naturaleza en la abertura del
Ser, y c6mo acontece, toda esta no es decidido par el hambre > 82 •
En un articula de « Le Figaro Litteraire » el periodista Roger
Van Hecke reproduce una conversaci6n sostenida con Heidegger,
en la que se defiende contra el reproche de ateismo que algunos -

1s Sein und Zeit, 194111, ps. 133-134 ss.


78 Vom Wesen des Grundes, 1. c. p. 6.
so Vom Wesen der Wahr., l. c. ps. 18-19.
81 1. c. p. 17. .
82 Vber den Hum., l. c. p. 19.
106 SA.LV, OOMEZ NOGALES S, 1,

le habian echado en cara: c Se me llama agn6stico. Es f also. Yo


dejo intencionalmente el problema de Dios aparte, porque hay en
el una mala inteligencia que consiste en una falsa interpretaci6n
del pensamiento griego por el cristianismo. La filosofia de la Edad
Media incorporandose a la ftlosofia de Arist6teles sufri6 una f al-
sificaci6n y no es mas que una simple yuxtaposici6n de esta sobre
el espiritu cristiano. La c Physis > no es un mundo ya hecho como
lo han querido los cristianos; sino un mundo en formaci6n; que se
manifiesta. La verdad son estas manifestaciones sucesivas de la
naturaleza > 83 •
Hasta ahora lo unico cierto que podemos decir de Dios es que
es un ente en sentido heideggeriano. 6 Podriamos pasar del ente
divino al Ser divino como podemos hacerlo del ente del Dasein a
sur Ser? He aqui la respuesta del mismo Heidegger: « Con la de-
terminaci6n existencial de la esencia del hombre no se ha decidido
nada sobre la existencia de Dios, Dasein Gottes o su no-ser, ni
sobre la posibilidad o imposibilidad de los dioses. No s6lo es, pues,
precipitado sino err6neo sostener que la interpretaci6n de la esen-
cia del hombre partiendo de la referencia ä~ esta esencia a la
verdad del Ser sea ateismo > iu. c Por la interpretaci6n ontol6gica
del Dasein como Ser-en-el-mundo no se ha decidido nada sobre
un posible ser-hacia-Dios, ni positiva ni negativamente pero por
el esclarecimiento de la Trascendencia se obtiene - como pri-
mera cosa - un concepto suflciente del Dasein en consideraci6n
al cual se podra preguntar en adelante si hay, y c6mo esta cons-
tituida ontol6gicamente la relaci6n del Dasein hacia Dios > 811 • La
raz6n de la neutralidad de su filosofia por el problema de Dias
hasta el presente es, dice Heidegger, « por consideraci6n a las fron-
teras que le han sido puestas al pensar como pensar y precisamen-
te por aquello que le es dado como lo que ha de pensar por la
verdad del Ser > 86 •
Pero si la fllosofia de Heidegger no ha dicho nada positivo so-
bre el problema de Dios, podemos permitirnos el lujo de hacer
ciertas conjeturas sobre las posibilidades de su metodo fenomeno-

Dia 4 de Noviembre de 1950.


83
Ober den Hum., 1. c. p. 36.
84
85 Ober den Hum., 1. c. p. 36. Es una reproducci6n de la nota que public6
en 1929 en « Vom wesen des Grundes> p. 28. Hay una pequena variante. En-
tonces decia que en adelante habla que mirar al ente (Seiende) del Dasein
para determinar la naturaleza de su relaci6n a Dios. Aqui en cambio suprime
la palabra Seiende y dice que hay que mirar al concepto del Dasein del que
acaba de hablar.
86 Ib. p. 37.
LA ABSTRACCION DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 107

16gico basandonos en la siguiente confesi6p. del mismo Heidegger:


c Este estado de revelaci6n del ente dio la posibilidad para que
la teologia cristiana se asimilase la filosofia griega, lo cual si fue
para su fruto o para su perjuicio Io han de establecer los filosofos
por Ia experiencia de lo cristiano, reflexionando para ello en lo
que estä escrito en la I Epistola del Ap6stol S. Pablo a los Corintios
o-f1x\ sµcoQ«VEV Ö 9Eo; riJv 11o<p(av TOii xoaµou 6No ha hecho Dios lo-
cura la sabidurfa de este mundo? (1 Cor. 1, 20). Empero la ao<p(a
ToO x6aµou es lo que segun 1, 22 los « ., EllTJvE; tTJTOOatv, lo que
los griegos buscan. Aristoteles llama a la :n:QC.O'tTJ <pLÄ.oao<p(a (filoso-
fia primera) taxativamente la tTJTOuµeVT) (buscada). 6Se resuelve
Ia teologia cristiana a tomar por fin en serio las palabras del Apos-
tol y, de acuerdo con ellas, a la filosofia como una locura? > 87 •
A esto a:iiadamos las declaraciones de Heidegger a R. Scherer, re-
cogidas por el P. Ceiial en Ia genial introducci6n a la ,2.• ed. de
Ia obra de W aehlens « la filosofia no puede llegar a Dios; lo que
ella llama Dios es un concepto mundano, sublimado cuanto se quie-
ra, pero inmanente, algo en consecuencia enteramente distinto del
concepto cristiano de Dios. Dios es una realidad solo dable a la
experiencia religiosa, no a la filosofia. La filosofia no puede ir
mas alla de Ia idea de Ser; en ella se implica ciertamente lo Ab-
soluto, pero la filosofia por si misma, sin la experiencia de la pa-
labra de Dios, no puede decir que ese Absoluto sea Dios mismo.
Al filosofo .se le hace Dios presente bajo el velo de su ausencia;
este velo solo lo puede romper una teologia de la palabra de Dios
revelada > 88 •
En resumidas cuentas Heidegger nos ha dado los siguientes
datos con miras a una concepcion abstraccionista. Se da la abs-
traccion en ia concepcion de los entes al modo de la filosofia
tradicional. Pero esta abstracci6n ha seccionado tambien al Ser
dejändolo fuera. Un pensar mäs profundo ha descubierto al Ser
en una zona inobjetiva. Este Ser descubierto no es Dios. Asi lo
dice expresamente. Heidegger: « EI ' Ser ', eso no es Dios, ni es
un fundamento del mundo. EI Ser es mäs amplio y lejano que
todo ente > 89• Reconociendo el peligro que hay en la busqueda hei-
deggeriano del Ser de desligarlo tanto del conocimiento objetivo
que nos lo volatilice sacändolo por completo de la esfera de todo
conocimiento, todavia queda la posibilidad de que el Ser descu-

a, Was ist Met. l. c. p. 18.


88 Nota preliminar a la 2'a ed. espaiiola de « La Filosofia de Martin Hei-
degger >, Madrid, 1952, ps. LXX-LXXI.
89 Vber den Hum., I. c. p. 19.
108 SALV, GOMEZ NOGALES S, I,

bierto sea extensivo al area de la divinidad. En este caso se podria


establecer este paralelo : lo que el ente ha sido para la filosofia
tradicional con respecto al hombre y a Dios, podria serlo el Ser
en la filosofia heideggeriana con respecto al Dasein y al Trascenden-
te. Todo depende de la posibilidad que haya de captar al Ser del
Trascendente por las vias f enomenol6gicas con que describimos al
Ser del Dasein. · ·
Ya un poco a priorf podemos predecir que por vias experimen-
tales le serä un poco dificil a Heidegger, por no decir imposible,
llegar al contacto directo del Ser del Trascendente. Ante la im-
posibilidad de que la ciencia humana arribase a las f ronteras de
la .divinidad, no le quedarla mäs recurso que la revelaci6n. Asi
parece haberlo expresado Heidegger a un estudiante al final de ·
. una de sus conferencias: « Ser y Dios no son identicos. No se de-
be intentar pensar en la naturaleza de Dios por medio del Ser ...
Si yo tuviese que ·escribir una teologia, nunca emplearia la pala-
bra Ser ... La revelaci6n de Dios es para el hombre como la expe-
riencia de Dios ... Fue un grave error del pensamiento occidental
tomar al Ser por Dios, error que se infiltr6 hasta en la Biblia > 90 •
De esta manera quedarla ocluido en el sistema de Heidegger el
acceso a una autentica analogia del ser 91 •

J. P. SARTRE.

Otra figura interesante para nuestro estudio seria la de


J. P. Sartre representante del existencialismo ateo. Tambien reac-
ciona violentamente contra el sistema kantiano por el dualismo
que establece entre fen6meno y noumenon 92 • Su metodo descubre

90 Esta conferencia fue pronunciada en Zurich. De ella da cuenta R. Savioz


en la Revue de Theol. et de Philos. (Lausanne) 4 (1961) 297-300. Nosotros
tomamos la cita de la Rev. Portuguesa de Filos. 8 (1952) 426.
91 Sobre el tema de la abstracci6n en Heidegger existe ·un interessante es-
tudio del P. lturrioz en la revista « Pensamiento > I (1945) 353-357.
Como trabajos de interes para el asunto de que tratamos en Heidegger
pueden consultarse con fruto los siguientes:
J. B. Lon, S. J„ Heidegger und das Sein, Universitas 6 (1951).
J. MöLLBR, Existentialphilosophie und katholische Theologie, Baden-Ba-
den, 195-2'.
A. NABER, Von der Philosophie des «Nichts> zur Philosophie des « Seins-
selbst >, Gregorianum 28 (1947) 357-358.
N. P1cARD, O. F. M., Nuovi orizzonti dell'Ontologia di Martina Heidegger,
Acta Pont. Acad. Rom. S. Thom. Aq., Nova Series, vol. XII'I, Esistenzialismo, 1947.
92 L'etre et le neant, Paris, 1943, p. 12.
LA ABSTRACCION DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 109

es el ser contingente humano desligado de todo ser necesario y ab-


soluto. Reconoce que este ser contingente injustificado es un absur-
do y este reconocimiento produce en nosotros un sentimiento de
« nausea ». Al reflexionar sobre nosotros sorge la conciencia, que
al convertirnos en un objeto ocasiona como una especie de des-
doblamiento de la propia personalidad. Al distanciarnos de nosotros
por esta reflexi6n gnoseol6gica, nos negamos a nosotros mismos
creylmdonos iden\icos a ese duplicado de nosotros sin serlo. EI
hombre, es, por tanto, una aspiraci6n incontenible a ser lo que
es sin la esperanza de realizarse nunca.
Esta captaci6n plena de si mismo en una identidad absoluta,
s6lo seria posible en una esencia divina. Pero esto equivaldrla
a la realizaci6n de una esencia en si que es un absurdo. Con lo
cual llegamos a la definici6n del hombre mas desesperante y blas-
fema que pudiera concebirse : « toda realidad humana es una pa-
si6n, en cuanto que proyecta perderse para fundir el ser y para
constituir al mismo tiempo el « En si », que escapa a la contingen-
cia, siendo su propio fundamento el « Ens causa sui », que las re-
ligiones llaman Dios. De esta manera, la pasi6n del hombre se
pierde en cuanto hombre para que Dios nazca. Pero la idea de Dios
es contradictoria, y nosotros nos perdemos en vano; el hombre es
una pasi6n inutil » 98 •
Con esto venimos a la conclusi6n del nihilismo absoluto en-
carnado en la onfologia sartriana, y cuya confesi6n paladina po-
dria sintetiz;frse en estas frases del fil6sofo dramaturgo: « La na-
da, si no esta sostenida por el ser, se. disipa en cuanto nada y vol-
vemos a caer en el ser. La nada no se n a d i f i c a , sino sobre
el fondo del ser; si puede darse la nada, no es antes ni despues del
ser, ni de una manera general fuera del ser, sino que esta en el
seno mismo del ser, en su coraz6n, como un gusano » N. No existe
Dios y por lo tanto somos libres, aunque con una libertad ne-
cesaria 911.
Ante un existencialismo tan demoledor el dialogo es impo-
sible. Donde no hay ser, es inutil tratar de abstraer nada. Y donde
no hay Dios el acceso a la analogia es innecesario 116 •

83 Ib. p. 208.
"Ib. p. 57.
811 EI existencialismo es un humanismo, ps. 36-37.
es Una bibliografia abundante la podra encontrar el lector en la obra
de J. AD-6R1z, S. J., « Gabriel Marcel. EI existencialismo de la esperanza >, Bue-
nos Aires, 1949.
110 SA.LV, GOMEZ NOGALES S, 1,

GABRIEL MARCEL.

Por ultimo existe una corriente existencialista que sin sa-


lirse del ambito del exfstencialismo pretende seguir las lineas fun-
damentales de la doctrina catolica. EI mas representativo de esta
direcci6n es Gabriel Marcel. Anota en su Diario: « Tengo la im-
presi6n de haber eliminado hoy lo que podrla quedar en mi to-
davia de idealismo. Impresi6n de exorcismo » 97 • En la conferen-
cia dada en Madrid hace unos aiios el mismo nos confes6 que los
j6venes de su generacion estaban totalmente decepcionados del
idealismo. Pusieron sus esperanzas en Bergson. Pero tambien este
les defraud6.
Las calamidades de la guerra despertaron en el un ansia vi-
va de c~nocer si existe Dios y si el alma es inmortal 98• Mas para
investigar si existe Dios, es necesario saber primero que es existir.
De aqui naci6 su sistema que podrlamos denominar « fllosofia del
existir ». Decimos del existir mas bien que de la existencia, pues
la existencia es algo abstracto, y la fllosofia de Marcel quiere ba-
sarse unicamente en la experiencia existencial del ser concreto.
He aqui c6mo nos describe el mismo sus preocupaciones metafi-
sicas : « Quiza se de uno cuenta con bastante exactitud de lo que
fue mi preocupaci6n metaffsica central y constante si digo que se
trataba para mi de descubrir c6mo el sujeto, en su misma condi-
ci6n de subjeto, se articula a una realida<f que deja, desde este pun-
to de vista, de poderse representar como objeto sin por eso dejar
nunca de ser a la vez exigida y reconocida como realidad. Semejan-
tes investigaciones solamente eran posibles a condici6n de superar
un psicologismo que se Iimita a definir y caracterizar actitudes sin
tomar en consideraci6n su orientaci6n, su intencionalidad concreta.
Asi, aparece la convergencia absoluta de lo metaffsico y de lo re-
ligioso que se manifiesta desde mis primeros escritos ... Lo que mis
pasos tendfan, en definitiva, a excluir, era la noci6n de un pen-
samiento que definiese en cierto modo objetivamente la estructura
de lo real y se considerase desde entonces calificado para deci-
dir acerca de _el. Yo proponia, al contrario, en principio, que la em-

87 EI 26 de Junio de 1927 o 1928 con motivo de la lmprepi6n que le pro-


dujo la lectura del P. Garrigou-Lagrange sobre Dios. :2tre et Avoir, Paris,
1935, ps. 35-36. Vease especialmente la nota de la p. 35 comentario a su
aversi6n a la f6rmula cartesiana « cogito •·
88 Asi nos lo confes6 ~l abiertamente en los datos autobiogräftcos con
que comenz6 su conferencia de Madrid en el Consejo Superior de Inv. Cient.
Cfr. Ezistentialisme chretien. Regard en arri~re, Paris, 1947, ps. 311 ss•.
LA ABSTRACCJ6N DEL SER Y EL EXJSTENCJALISMO 111

presa no podia llevarse a cabo mäs que dentro de una realidad fren-
te a la que el fll6sofo no puede colocarse como se instala uno frente
a un cuadro -para contemplarlo > 99 •
De nuevo la misma tendencia a ir contra la objetivaci6n de
las cosas y hacia un mayor acercamiento a la realidad misma. Hay
que ir « a aquella realidad interior de la presencia en el seno
del · amor, que trasciende infinitamente toda verificacion concebi-
ble, puesto que se ejerce en el seno de un inmediato que se situa
mäs alla de toda mediaci6n pensable » 100 • EI metodo difiere del
de esa otra « filosofia esencialmente espectacular > que nos legara
la antigüedad 101 : « En el fondo, el metodo es siempre el mismo:
es el profundizar de una cierta situacion metafisica fundamental
de la que no basta decir que es ella misma, puesto que consiste
esencialmente en seJ" yo » 102 • La fllosofia hay que vivirla en noso-
tros mismos: c Aquel que no ha vivido un prohlema de filosofia,
que no ha sido oprimido por el, no puede, en modo alguno, com-
prender lo que ese problema ha significado para quienes lo han vi-
vido antes que el » 108 •
EI campo de experimentacion es el hombre en su realidad hu-
mana concreta y pura, descarnado de todos los aditamentos acumu-
lados por la costumhre, circunstancias sociales y prejuicios que
desfiguran nuestra propia personalidad 104 • Para ello hay que ha-
cer un gran esfuerzo a fin de « traducirla sin adulterarla > IW1, es
decir, para reproducir en nosotros « aquella realizacion interior
de la presencia » de que antes nos hablaba 108 por la que nos situa-
mos ante el ser sin intermediarios. Marcel corrige el principio car-
tesiano: « cogito ergo sum > 101, para volver al principio tradicio-
nal: « nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu > :ios.
Lo primero que nos da la experiencia no es un « cogito >, sino un

99 Ib. p. 318.
100 Positions et Approches concretes du Mystere ontologique. Es un apen-
dice de « Le Monde casse », Paris, 1933, p. 261. Cfr. Don et liberte, Giom. dl
Met. 2 (1947) 485-486.
1Qd. Stre et Auoir, I. c. p. 24.
102 Ib. p. 25.
1oa ,Du Refus a l'inuocation, N. R. F., 1940, p. 87.
104 Ib. ps. 91-93.
101 Positions et Approches, I. c. p. 261.
1oe Ib.
101 DBS.CARTBS, Discours de la Methode suiui des Meditations Metaphysi-
ques, Paris, 1927, Med. 3.
10s Este efato comun en la filosofia escolastica tiene su origen en la doc-
trfna aristotelica de que todos nuestros conocimientos tienen su origen en
los sentidos (De An. N 5, 417 b 18-26; III 8, 432' a 32). Sto. Tomas recoge esta
misma doctrina (De Verit. q. 10,a. 6). '
112 SA.LV. GOMEZ NOOALES S. I.

« sum >. Pero un « sum > no de cualquier manera, sino ligado a


mi cuerpo, hasta el punto de que aun el conocimiento del mundo
externo esta condicionado a mi cuerpo : s6lo puedo conocer su
existencia en la medida que se pone en contacto con mi cuerpo 109•
Pero « la existencia del mundo de que aqut se trata, no es
la de un conjunto de objetos o cosas yuxtapuestas que, a menudo
y hasta invariablemente, unicamente las necesidades de la acci6n
nos obligan a distinguir unas de otras; es una a modo de presen-
cia maciza y activa que nos eleva a nosotros mismos a la existen-
cia 1110• Lo mismo que digo este es mi pensamiento, puedo decir
este es mi cuerpo. Es decir, que la experiencia me da una reali-
dad encamada 1111 : un alma en mi cuerpo y un ser en el mun-
do 1112 • En este conocimiento del cuerpo hemos dado con el existente.
No lo conocemos como objeto: « De este cuerpo yo no puedo decir
ni que es yo ni que no es yo, ni que es para mt (objeto). De un
golpe la oposici6n del sujeto y del objeto se encuentra trascendi-
da mi. Las demas cosas del universo estan de alguna manera re-
lacionadas con mi cuerpo y no las puedo conocer sino a traves
de el. « Decir que una cosa existe ... es decir que en alguna mane-
ra estä unida a mt como mi cuerpo > 1lW. •
Pero esta posesi6n del cuerpo y del mundo en el conocimien-
to existencial no han de absorberme de tal forma que me convier-
ta en ellos. Esta intromisi6n de lo poseido con tendencia a la
identidad destruirla al ser. Tengo que dominar, por medio de un
acto reflejo, ia rela.ci6n del objeto al sujeto, a fin de que la pre-
sencia de lo exterior sea motivo de una libre creaci6n personal,
como una expresi6n viviente de mi propia realidad. Este domi-
nio es posible unicamente por el amor, que es entrega a una rea-
lidad superior UG y con esto el hombre se abre a las cosas, y naee
en el la esperanza que metafisicamente desembocara en la prue-
ba del trascendente: « hay en el ser, dice Marcel, mas alla de
todo lo dado, de todo lo que puede ofrecer materia de inventario
o servir de base a una computaci6n cualquiera, un principio miste-
rioso de convivencia conmigo mismo, que no puede no querer lo

(10&)Stre et Auoir, I. c. p. 9.
110Existentialisme et Pensee chr"ienne, en Temoignages (Cahiers de la
Pierre-Qul-Vire, 1947). p. 164.
111 Stre et Auoir, lc. p. 11.
1112 Du Refus ci l'lnuocation, l. c. p. 33. Cf. Ell!istentialisme et Pensee chre-
tienne, lc. ps. 162-162.
11a Sire et Auoir, l. c. p. 12.
1u. Ib. p. 11.
11& Ib. p. 232-244.
LA ABSTRACCION DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 113

mismo que yo quiero, al menos si lo que yo quiero merece, efec-


tivamente, ser querido y es en realidad querido por todo mi yo > 116 •
Esta esperanza tiene que acoplarse a la ayuda de esfuerzos
ajenos para la conquista del ideal comun, asi como para recibir
de los demas los auxilios necesarios para no descaecer en la mar-
cha hacia ese ideal. « La esperanza, dice Marcel, es la disponibi-
lidad de un · alma bastante intimamente comprometida en una ex-
periencia de comuni6n para realizar el acto trascendente a la opo-
sici6n del querer y del conocer, por el que afirma la perennidad
viviente, cuyo premio y cuyas premisas ofrece a la vez esta ex-
periencia » 111 •
Esta pugna entre el querer y el conocer nos lleva a precisar
dos nociones de capital importancia en "1a teorla del conocimiento
de Marcel. Por una tendencia integral amorosa nos ponemos en
contacto con el ser. Pero este contacto es una de esas intuiciones
c centrales > que « cuanto mäs ocupa el fondo del ser al que ilumi-
na, menos susceptible es precisamente de volver sobre si y de apre-
henderse > llll, Es decir, que no hay mäs conocimiento posible del
existir que el de algo inefable e inexhaurible en la riqueza de su
fecundidad concreta. La realidad solo puede ser conocida en forma
de misterio 119 • Pretender estrujar su inteligibilidad para obtener
una visi6n nitida y clara en la objetividad de una abstraccion, re-
cortada segun los moldes de nuestra limitaci6n, es convertir el mis-
terio en problema. Serla si se quiere hacer ciencia: recortar los ob-
jetos a la medida de nuestra inteligencia con el fin pragmatico de
dominarlos en las distintas experiencias parciales de nuestro labo-
ratorio. Pero no sera hacer ftlosofia. « Sin el misterio la vida serla
irrespirable > en frase del misco Marcel 120 • En el misterio la rea-
lidad del ser no es afirmada por mi juicio, sino que ella misma
se afirma al sentir de una manera misteriosa nuestra participa-
ei6n en el ser 121..
Una ontologia de este genero, dice Marcel, estä orientada ha-
cia la revelacion cristiana, no como una exigencia, pero s1 eomo
una preparaci6n 122• Hay una semejanza rayana en la identidad en-

111 Positions et Approches, 1. c. p. 278.


111 Homo Viator, Aubier, 1944, ps. 90-91.
111 Positions et Approches, 1. c. ps. 275-276.
1Jl9 8tre et Auoir, 1. c. p. 27.
~o Du Refus d: l'lnuocation, 1. c. p. 198.
121 Positions et Approches, 1. c. p. 267.
122 Resumen de la comunicaci6n presentada por G. Marcel al Congreso
Int. de Filosoffa de Roma (Nov. 1946) hecho por M, F. S. en Glom. di Met. 2
(1947) 201: « L'esistenzfalismo non ~ n~ crfstiano n~ non cristiano, ma la
8 - Stadt ftloaoftct
SALV, OOMEZ NOGALES S, 1,

tre los caminos por los que conducen a Dios la mistica y la meta-
fisica : « Lo que yo he notado, en todo caso, es Ja identidad oculta
del camino que conduce a Ja santidad y del que conduce al meta-
fisico a Ja afirmaci6n del ser; la necesidad, sobre todo para una
filosofia concreta, de reconocer que aqui se trata de un solo y mis-
mo camino 128• J

He aqui brevemente los jalones de este camino. EI ser revela


el misterio de la presencia en la forma de subjetividad. Por eso
querer objetivarlo por via experimental es desvanecer el misterio
y exterio'rizarse en el saber cientifico. EI amor me revela al ser
de otro enfrentando mi yo a un tu, y abriendome el sentido de
una adaptaci6n teleol6gica al resto del universo. Ambas presen-
cias hacen presentir a nuestra raz6n y a nuestro coraz6n la llama-
da amistosa del tu a nuestra propia presencia. Esta entrega con-
fiada a Ia· llamada del tu facilisimamente se convierte en la fe
en el Tu Absoluto: « De esta concepci6n general del tu, es eviden-
temente posible elevarse a una noci6n renovada de la vida reli-
giosa o mistica prppiamente dicha. Porque se puere decir en cierto
sentido que Dios es el Tu que no puede llegar a ser nunca el sin
abuso, sin traici6n. Esto es lo que yo he querido decir cuando he
escrito, ·por ejemplo, que cuando hablamos de Dios no es de Dios
de quien hablamos. Y ahi esta, bien entendido, lo que se puede
mirar como el fundamento metafisico de Ja invocaci6n y de Ja
plegaria > 1H,
Se podrla obj etar que esta preparaci6n para Ja revelaci6n es
una petici6n de principio. Prepara a ella porque el pensamiento
moderno esta impregnado de Ja revelaci6n. Marcel admite Ja con-
secuencia, que no es mas que el corolario de su analisis existen-
cial. En el ser concreto objeto de su experiencia interviene el
dato del cristianismo. Marcel nos dice que serla incurrir en el
error racionalista pretender buscar una filosoffa valida _para todo
pensamiento « en general > o para toda conciencia « cualquiera que
sea > 126• No hay que confundir, prosigue Marcel, lo universal con
lo general. Lo individual y concreto puede tener un valor univer-
sal por lo mismo que refleja una realidad ontol6gica. « Cuanto
mas sepamos reconocer el ser individual en cuanto tal, nos en-
contraremos mejor orientados y como encaminados hacia una apre-

filosofia esistenziale autentica si orienta necessariamente verso il Cristia-


nesimo >.
12a :Stre et Auoir, l. c. p. 1•2'3.
1H E:t:istentialisme et Pensee chretienne, I. c. ·p. 165.
:wa E:dstentialisme chretien, 1. c. p. 310: usa el t6rmlno alemän « Glau-
ben überhaupt••
LA ABSTRACCION DEL SER Y EL EXISTENCIALIS.MO 11S

bensi6n del ser en cuanto ser » 126 • Pero de ninguna manera puede
convertirse en general, puesto que lo general abstrae de lo on-
to16gico.
En esta aversi6n a la abstracci6n de lo general 1,queda com-
prometida la escolästica? No es fäcil la respuesta a esta pregun-
ta. Es muy probable que en un diälogo familiar puntualizase mäs
nuestro autor ciertas frases, que nos hiciese ver la compatibilidad
con la filosofia ti:adicional, dändoles un sentido distinto del que
a primera vista tienen sus palabras. Que su änimo no haya sido
enfrentarse con la escolästica, se desprende con bastante certeza
de la siguiente confesi6n del mismo Marcel: « Pienso que el cris-
tiano fil6sofo y capaz de escarbar bajo las f6rmulas escolästicas
con que se le nutre bastante a menudo encontraria de nuevo casi
_necesariamente los datos fundamentales de lo que yo he llamado
filosofia concreta » 127 •

SiNTESIS.

Acabamos de recoger todos los materiales hist6ricos que nece-


sitamos para ver si es compatible el existencialismo con una teo-
rla de la abstracci6n del ser, y si hay en el algunos elementos
aprovechables para retocar y perfilar nuestra concepci6n de la
analogia.
Ante todo precisemos brevisimamente que entendemos por abs-
traccion del ser. Corno es natural al establecer el paralelismo entre
una •filosofia moderna y la filosofia tradicional tenemos que pres-
cindir necesariamente de las diferencias de matices dentro de la
escuela para fijarnos unicamente en los elementos comunes y ver
si hay alguna posible compatibilidad de _los misrnos con el exis-
tencialismo.
La escol:istica distingue entre los fundamentos ontol6gicos pa-
ra la abstracci6n del ser y el valor significativo del concepto asi
abstraido. En cuanto a los fundamentos ontol6gicos, no existe dis-
crepancia alguna entre los autores catolicos. Por parte del ser
admite una pluralidad de seres finitos, jerarquizados segun su
diversa perfecci6n y con una dependencia del ser infinito. Este
nexo causal postula ontol6gicamente cierta relaci6n de semejan-
za entre el efecto y su causa, que no acorta en nada la distancia
infinita intermedia entre ambos. Por parte del conocimiento huma-

12& Du Refus a l'Invocation, I. c. p. 193.


121 Ib. p. 108.
116 SALV, OOMBZ NOGALBS S, 1.

no reconoce la ley fundamental de su limitaci6n. Al no poder abar-


car en una comprension intuitiva la realidad global se ve precisa:-
do a captar las cosas de una manera parcial segun los distintos
aspectos de las mismas. Esta captaci6n parcial o abstracci6n no
supone de ninguna manera una vivisecci6n de la cosa en si, algo
asi como un mosaico o rompecabezas, en el que nuestro entendimien-
to desmenuzara la realidad desfigurandola.
Entender asi la teorla de la abstracci6n seria f alsiflcar por
completo el concepto que de ella se formaron los grandes esco-
lasticos. Ya Sto. Tomas habia descartado este error cuando nos
decia: « Universalia quocumque modo aggregentur, nunquam ex
eis fiet singulare » 128• EI singular no es un mosaico de universa-
les. A este respecto es de capital importancia observar que la
escolastica distingue dos clases de abstracciones, la parcial y la
total. La total, que es la unlca predicativa, no deja fuera nada de la
cosa. Se fina s61o en un aspecto de la misma, pero no desligado de
ella, sino como esta en la realidad, ofreciendo a nuestro entendi-
miento la lectura de la esencia de la cosa misma a traves de la
manifestaci6n limitada de su aspecto.
EI valor signiflcativo del concepto de ser se basa en la ley
psicologica que rige- nuestras abstracciones. Todas las cosas se
encuentran emparentadas en el ärbol genea16gico del ser. Segun
la mayor o menos semejanza que distingue a los diversos grupos
etnol6gicos de esta gran familia del ser, podemos ir entresacando
las notas comunes a esos seres. La ultima nota que marca el aire
de familia comun a todos es la de ser. Supuesto el fundamento
onto16gico de la semejanza universal mi entendimiento puede des-
cubrirla en todos los· seres para mirarlos unicamente bajo el pris-
ma de aquello en que todos convienen. Sin dejar fuera ningun ser,
ni siquiera sus diferencias, los enfoca solamente bajo el. angulo de
luz que promana de aquella semejanza universal.
Resumiendo, pues, he aqui los elementos necesarios para cons-
truir una teoria sobre la abstraccion del ser: seres contingentes,
Ser infinito, nexo causal, y por tanto posibilidad de tränsito desde
el contingente al Infinito al encontrarse Este implicado en la rela-
ci6n dinamica del contingente. Por ultimo, percepci6n conceptual
abstractiva de este nexo sea en forma de dinamicidad atributiva,
sea en forma de proporcionalidad estatica, pero siempre en la pe-
numbra misteriosa de la percepci6n confusiva de la comunidad
del ser.

12s I Sent. d. 36, q. 1, a. 1 in c.


LA ABSTRACCI6N DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 117

6Podemos encontrar todos estos elementos en el existencialis-


mo? Hay un principio comun a todos los existencialistas que pa-
rece comprometer seriamente Ia teoria de Ia abstracci6n. Es Io que
el P. Cenal ha Ilamado con acierto el « prejuicio antiobjetivista » 1211 •
Segun ·este principio le esta vedado al conocimiento conceptual
la captaci6n del ser. ÄI objetivarlo, creen los existencialistas, lo
desfiguran, y ya no tenemos al ser sino a lo mas su caricatura. Es
necesario hacer desaparecer Ia oposici6n entre objeto y sujeto pa-
ra Ilegar a la identidad absoluta entre el que conoce y Io conocido,
unica en la que puede encoi:itrarse Ia verdad como adecuaci6n. Es
el ideal de la unidad absoluta exigido ya en Ia antigüedad por
Plotino.
Pero no nos fiemos s6Io de las palabras y atendamos a Ia
circunstancia hist6rica que motiva la antiobjetividad del existen-
cialismo. No hay ni uno s6Io que no haya empezado su filosofar
con un gran esfuerzo por superar el idealismo circundante. EI fdea-
Iismo y el racionalismo cartesiano, cada uno desde un punto de
vista distinto, ocultan un grave error, que pugna contra el sen-
tido de sinceridad y realismo caracteristicos del existencialismo.
Ya vimos que Sartre reaccionaba en terminos violentos contra Ia
separaci6n que Kant habia establecido entre objeto y sujeto, entre
el fen6meno y la ese~cia de las cosas. EI existencialismo trata de
hacer saltar esas barreras fundiendo objeto y sujeto en una mis-
ma realidad. Claro estä que esta fusi6n puede tener sus peligros,
y que hay que precisar bien su sentido para no incurrir en el agnos-
ticismo absoluto. Pero tampoco hemos de escandalizarnos dema-
siado de ciertas frases antiobjetivas postuladoras de nuevas ma-
neras de conocimiento, cuando podemos encontrarlas parecidas en
Sto. Tomäs con un sentido perfectamente ortodoxo. Tambien para
el Doctor Angelico la existencia estä fuera de toda noticia ( « extra-
genus notitiae ») 130 • Si pues la existencia no es objeto del conoci-
miento ordinario ( de la « scientia visionis ») hay que buscar para
ella otra clase de conocimiento.
Por tanto cuando oimos hablar a Gabriel Marcel de una segun-
da reflexi6n o a Heidegger de un pensamiento mäs pensante, po-
demos interpretar estas frases no privando a Ia existencia de todo
contenido cognoscitivo, sino buscando para ella el camino adecuado
para sorprenderla en su escondimiento tras el objeto directo de
nuestros conocimientos abstractivos. Por lo demas esa fusi6n ob-
jetivo-subjetiva ha servido notablemente para esclarecer la evi-

1211 Actes du Xleme Congres lnt. de Philos. vol. III, 1953, p. 23.
1ao De Verit. q. 3, a. 3, ad 8.
118 SALV. OOMBZ NOGALBS S. 1.

dencia con que la escolastica miraba ciertos problemas, sobre todo


de tipo gnoseol6gico, enriqueciendola con analisis existenciales, en
los que el ser y sus primeros principios han aparecido a nuestros
ojos con todo el resplandor de algo subjetivo al ser analizados en
la intimidad de nuestra propia conciencia. EI entendimiento ha
descubierto al ser en la reflexi6n sobre su propia existencia huma-
na y con esto ha fundamentado la certeza de su capacidad para cap-
tar al ser en todos los objetos reales de su conocimiento. Hay
que reconocer sin embargo que el existencialismo no siempre se ha
detenido ahi, sino que rebasando los datos de la experiencia exis-
tencial e impulsado por su prejuicio antiobjetivista, ha pretendido
replegar tanto al conocimiento ante el objeto que ha volatilizado al
conocimiento y se ha quedado sin el objeto en un irracionalismo
absoluto.
Y no es que rechacemos de plano el principio de que al ser
hay que descubrirlo con el hombre todo entero. En este punto la
resonancia alcanzada por el existencialismo no tiene otra explica-
ci6n que la de haber sabido hablar al hombre todo entero. EI hom-
bre no es s61o pensamiento, es tambicn sentimiento, fantasia y co-
raz6n. Y cuanto mas una verdad responda a las exigencias vita-
les de la naturaleza humana, estaremos mas dispuestos a abrazarla.
La apologetica cristiana ha tenido en cuenta esta psicologia del hom-
bre y sabe plegar sus argumentos a las circunstancias temperamen-
tales de cada individuo. Esta labor de adaptaci6n de la fllosofia
a mis circunstancias hist6ricas y a las de aquellos con quienes tra-
tamos es el gran merito del existencialismo y la gran lecci6n para
nuestro apostolado cientifico. Lo unico que necesita el existencia-
lismo es no ahogar la voz de la inteligencia en la corriente vital,
cuando quiera penetrar con sus intuiciones esenciales en la natu-
raleza de las cosas para descubrir en ellas su dinamicidad tras-
cendente.
Pero el existencialismo no es solo una reacci6n y en parte
una superaci6n del idealismo, sino que es tambien un ataque di-
recto contra el racionalismo de Descartes. Ya vimos que G. Marcel
rechazaba el criterio de evidencia cartesiano de la idea clara y
distinta. Contra ella oponia su teoria sobre el misterio como base
de todo conocimiento estrictamente filos6fico. Con es.to apuntamos
una tendencia del existencialismo que supone un gran esfuerzo por
la construcci6n de una nueva metafisica. Le achaca a toda la fi-
losofia precedente el haberse perdido tras la idea, tras el objeto,
y haber descuidado la realidad. Se hizo excesivamente abstrac-
cionista desatendiendo toda la riqueza y fecundidad de la realidad
individual y concreta. No es del todo inexacta esta acusaci6n. i..a
LA ABSTRACCI6N DEL SER Y EL EXISTENCIALISMO 119

historia de la filosofia va descubriendo algunos capitulos de la esco-


lastica, por cierto en sectores hist6ricos muy reducidos, en los que
dificilmente puede verse libre de un abstraccionismo exagerado.
A fines del siglo XVII se podia enseiiar sin rebozo que el objeto de
la metafisica eran las ideas ahstractas no las naturalezas singula-
res, y que con mantenernos dentro del terreno de nuestras ideas
el error era imposible m. Contra este abstraccionismo abusivo, cuyo
desenlace 16gico fue el id~alismo, el existencialismo siente ansias
de ponerse en contacto con la realidad. Cuando Hierkegaard se en-
ter6 en 1841 de que Schelling pretendia sustituir la filosofia de
Hegel con otra mas realista, se · traslad6 inmediatamente a la ca-
pital de Prusia para escucharle. He aqui c6mo anota en el diario
sus impresiones:
« Estoy contento, inefablemente contento, de haber escuchado
la segunda lecci6n de Schelling. Durante mucho tiempo he gemido;
y las ideas han estado gritando calladamente dentro de mi durante
mucho tiempo; cuando pronunci6 la palabra 'realidad', 'relaci6n de
la filosofia con la realidad', brinc6 alegramente el fruto del pensa-
miento en mi como en Isabel. Recuerdo exactemente casi todas las
palabras que dijo desde este momento. Tal vez aqui haya claridad.
Esta unica palabra me evoca todos mis sufrimientos y dolores fi-
los6ficos > 132 •
Todo el intento, pues del existencialismo, es construir una me-
tafisica mas experimental, que no se contente s6lo con las f6rmulas
estereotipadas y frias que fueron elaboradas en otro tiempo como
fruto de largas y finas vivencias experimentales; sino que analice
el proceso vital por el que la experiencia ha cristalizado en esas
abstracciones para hacer resaltar toda la evidencia que de ellas se
desprende. Para ello hay que evitar dos escollos: uno es el de la ex-
cesiva claridad y otro el de las deducciones aprioristicas. Hay algu-
nos autores que por el prurito de la claridad escamotean las dificul-
tades de la realidad y s6lo presentan el aspecto f:icil de las cosas.
EI resultado de este metodo es el de la superficialidad. Esto no pue-
de aquietar a los espiritus serios, que buscan la claridad hasta don-
de pueda encontrarse, pero que no pretenden hacer de la filosofia
una ciencia matematica a lo Descartes, sino que. se encaran con la
realidad en toda su 6ntica complejidad. Sahen que disponen de un
instrumento de trabajo limitado y no se asustan cuando descubren
zonas del ser a las que el entendimiento tiene que acercarse con to-
da la prudencia de quien no esta seguro de pisar terreno firme. Sa-

111 JoANNBS CLER1cus, Logica Ontologia et Pneumatologia, 1692, p. 3.


1a2 Die Tagebücher. Trad. alem. de Th. Haecker, München, 1949a, p. 134.
120 SALV. GOMEZ NOOALES S. 1.

her distinguir entre lo probable y lo cierto, y no proponer las ver-


dades probables con la seguridad de· 1as ciertas es seiial de gran sa-
biduria. Es admitir la realidad sin adulterarla, con sus luces y som-
. bras, con sus claridades y sus misterios.
EI segundo escollo que hay q\ie evitar es el del apriorismo. El
resultado de largas investigaciones cientificas suelen ser ciertas for-
mulas magistrales cargadas de sentido que solo sabrän interpretar
los que hayan seguido paso a paso la genesis de aquellas elucubra-
ciones. Al llegar a estas formulas existe la tentacion de seguir el
vuelo del pensamiento que facilisimamente salta de una idea a otra
de espaldas a la experiencia, sin haber tenido la prudencia de com-
probar esas consecuencias con el proceso empirico que debia acom-
paiiar siempre todos sus pasos. Esto suele ser muy frecuente en la
interpretacion historica. Al exponer la sentencia de un autor corre-
mos el peligro de mezclar conclusiones nuestras con las frases del
autor, sobre todo si vamos con el prejuicio de su refutacion y no
tenemos la serenidad suflciente para ir siguiendo la mente del au-
tor. Esto nos darä una exposicion habilmente preparada .para la
replica, pero comprometerä tambien nuestro sentido de objetividad
y de fidelidad a la historia. Algo de esto puede ocurrirnos tambien
en la interpretacion de la realidad. Es muy fäcil dejarse arrastrar
por el brillo de una singesis sistemätica en la que se reßeje toda
la potencia intelectiva de un genio. Pero quiza no lo sea tanto el ir
comprobando pacientemente nuestras conclusiones con una experi-
mentacion vivencial de la realidad. En este sentido el existencialis-
mo supone un gran esfuerzo, de exito poco feliz en algunos de sus
resultados, pero laudable en su conato de marchar siempre al brazo
de la experiencia concreta.
Quede pues como consecuencia que tanto el antiobjetivismo de
los existencialistas, como el reconocimiento de los misterios del
conocer, como su metafisica de la experiencia concreta, pueden re-
cibir un sentido ortodoxo dentro de la fllosofia tradicional, y, de-
purados de los extremismos que revisten en ciertas frases de los
existencialistas, no se opondria a una recta teoria de la abstrac-
cien.
Pero 6no parece contradecir a la abstra.ccion una metafisica
de la experiencia concreta e individual? Lo individual nunca po-
drä tener el sentido de universalidad que exige la abstraccion. Con
esto hemos tocado el punto vulnerable del existencialismo en la
materia que tratamos de estudiar. Todos los existencialistas estan
de acuerdo en admitir la abstraccion. La mayoria de nuestros co-
nocimientos vulgares son generalizaciones abstractivas. Las cien-
cias, con una orientacion pragmatica de dominar sus objetos, echan
LA. A.BSTRACCIÖN DEL SER Y EL EXISTENCIA.LISMO 121

mano de la misma universalizaci6n para sus leyes fisicas. Pero el


ser, nos dicen todos los existencialistas, no puede ser captado en
la frialdad de esa generalizacion objetiva y despersonalizada. Al
ser hay que descubrirlo en la concrecion de mi propio existir
humano.
Mas esta vivencia existencial, captada en un ser contingente,
corre un doble peligro: el del subjetivismo y el del aprisionamien-
to en lo contingente. En cuanto al subjetivismo se puede insistir
tanto en lo individual que mi experiencia no pueda tener dere-
chos universales. Algo de esto apuntaban Kierkegaard y J aspers.
Tanto acentuan la inefabilidad de la revelaci6n personal del ser y
la libertad de la interpretaci6n de las cifras, que no nos queda mäs
recurso que o el silencio o la anarquia en la construcci6n de tan-
tas metafisicas como individuos. Es evidente que no es esta la ac-
titud de todos los existencialistas. En Sartre y Heidegger hay un
intento positivo de establecer la ciencia del ser, välida por lo tanto
como ciencia para todos los hombres. Y en todos si no existe la
pretensi6n de una experiencia universal, al menos subyace en sus
escritos el deseo de cierta universalidad metodol6gica de tal modo
que todos siguiendo su camino puedan llegar a la experiencia per-
sonal. Pero si son fieles a su procedimiento fenomenol6gico de des-
cripci6n y analisis de las situaciones existenciales concretas, lo in-
dividual nunca podra adquirir el caracter de lo universal, a no
ser que se le permita al entendimiento el acceso al terreno de las
esencias, no a una esencia acabada que destruiria su perfectivi-
dad contingencial, sino a una esencia estructurada en sus lineas
fundamentales que determine el campo de sus posibilidades evo-
lutivas. S6Io asf es posible el paso de una ciencia analitica mera-
mente descriptiva a una metafisica de valor universal.
El segund·o escollo es el del contingentismo. Sartre ha nau-
fragado en el. De Heidegger aun no sabemos si ha vislumbrado la
tabla de salvaci6n. Kierkegaard y Jaspers sintieron toda la asfixia
desesperante y angustiada de su contingencia, y en medio de con-
vulsiones ag6nicas vislumbraron algo que no acaba uno de ver si
son delirios de un moribundo, o cenestesias inefables semiincons-
cientes ante un mas alla que no se sabe a punto fijo lo que es.
EI unico que ha sabido descubrir en el contingente su proyecci6n
hacia el Trascendente es G. Marcel; mas para eso ha tenido que re-
basar el criterio de la pura revelaci6n fenomenol6gica echando
mano del « pensamiento metafisico » tll!3.

133 Pesitions et Approches, I. c. p. 27.


122 SALV. GOMBZ NOGALES S. I.

He aqui pues para terminar como quedan en el existencialis-


mo los elementos que hemos exigido para una teoria de la abstrac-
cion del ser. En la linea del ser, a excepcion de Heidegger y Sartre
todos admiten la bipolaridad contingente e Infinito. El nexo en-
tre ambos queda gravemente comptometido en el agnosticismo que
rodea al Trascendente. En la linea del conocimiento, con todos los
valores positivos que antes hemos registrado, podrlamos encontrar
un doble obstaculo a la abstraccion del ser: el antiobjetivismo,
si esfuma totalmente el contenido conceptual; y el metodo f eno-
menologico, si impide al entendimiento volar en la direccion de una
sintesis conceptual que rebase los limites de la experiencia con-
creta basandose en la reflexion dinamica imbricada en las esen-
cias de las cosas.
IX.

R. D. MARCEL REDING
l'ROFESSORE NELL'UNIVERSIT.A DI GRATZ (AUSTRIA)

PROVISORISCHER ATHEISMUS

An einem Dezemberabend des vergangenen Jahres (1952) traf


ich unerwartet mit Sartre zusammen. Die Rede kam rasch auf den
Atheismus. Das Ergebnis des Gespräches war die Formel Sartres:
mon atheisme est absolu, mais provisoire. Zwar absoluter, aber nur
provisorischer absoluter Atheismus. Was damals vorgebracht wur-
de, sei hier zusammengezogen wiedergegeben und weitergeführt.
Ein Oberblick über Sartres Argumente gegen die Existenz Gottes
soll das Verständnis des folgenden ermöglichen.

I. SARTRES GRÜNDE GEGEN GOTT

Sartres Atheismus ist oft behandelt worden 'l, Wer sich für ge-
naue Textangaben interessiert, sei auf das Buch von Paissac ( Le
Dieu de Sartre, Paris 1950) verwiesen. Wir beziehen einige Gedanken-
gänge aus dem später erschienenen Theaterstück « Le Diable et le
Bon Dieu > (Paris 1951) in unsere Erwägungen mit ein.
« 'Gott ist tot > ist die Oberzeugung, die Sartre von Nietzsche
übernimmt und philosophisch zu unterbauen versucht. Gott spreche
nicht mehr zu uns; vielleicht habe er diese Welt verlassen, vielleicht
habe er nie existiert, der Glaube an ihn sei möglicherweise eine Il-
lusion. Letzterer Fall träfe zu, wenn es sich beweisen liesse, dass es
keinen Gott gibt. Sartre versucht diesen Beweis. Prüfen wir seine
Argumente.
I. Wenn Gott existiert, kann der Mensch nicht frei sein; der
Mensch ist aber frei; also existiert Gott nicht.
Gott wäre der Schöpfer der Menschen. Dazu müsste sich Gott
eine Idee vom Menschen machen, wie der Erzeuger sie sich von dem
1 So von Pedro Descoqs in L'E:,;istentialisme, Revue de Philosophie, Annee
1H6 S. 39-89. Dort eine ausführliche übersieht über die damalige Literatur
S. 39 Anm. I; Kurz in meiner Arbeit über « die Existenzphilosophie, Düssel-
dorf 1949; ausführlich in dem angeführten Buch von Paissac.
124 MARCEL REDING

Erzeugnis macht, das er herstellt. Ein solches Erzeugnis kann aber


nie frei sein, es ist in allen seinen Eigenschaften vom Erzeuger her-
vorgebracht 2 •
2. Aber gesetzt auch, die Schöpfung sei mit der Freiheit ver-
träglich, wie lässt es sich reimen, dass Gott durch seine Ratschlüs-
se alles in der Welt - auch das Obel, z. B. den Hungertod eines
Kindes - mit Notwendigkeit heraufführt? 18 •
3. Und überdies: müsste der allmächtige Gott, wenn er existier-
te, den Menschen mit seinem sengenden Blicke. nicht einfach hin
zunichte machen? Die « andern » versuchen den einzelnen durch•
ihren unterjochenden Blick zu Sachen herabzuwürdigen, die man
besitzen kann. Der Mensch kann sich gegen Mitmenschen weh-
ren, seine Existenz, seine Freiheit verteidigen. Aber gegen den ab-
soluten Blick Gottes könnte er das nicht. Soll es freie Existenz
geben können, darf es den absoluten Blick Gottes und d. h. Gott
selber nicht geben•.
4. Wohl der originellste Einwand gegen Gott, der sich durch
Sartres ganzes Hauptwerk « L'Etre et le Neant > hindurchzieht,
ist der Gedanke der Widersprüchlichkeit der Idee Gottes und dass
es infolgedessen Gott nicht geben kann. Der Gedankengang ist fol-
gender: das Sein spaltet sich in zwei Regionen auf, das Ansich:-
sein und das Fürsichsein. Das Ansichseiende ist, was es ist, es
untersteht dem Identitätsprinzip. Das Fürsichseiende untersteht
diesem Prinzip nicht: es ist, was es nicht ist. Beide Regionen stehen
sich widersprüchlich entgegen. Sie können nicht miteinander zur
Einheit gebracht werden.· Gott jedoch als der höchste Wert müsste
die Einheit beider darstellen. Das ist aber unmöglich. Folglich ist
die Idee Gottes widerspruchsvoll, Gott kann nicht existieren.

II. DER WERT DER EINZELNEN 'GRÜNDE.

Im Gespräch mit Sartre wurde gerade bei dem stärksten Ge-


dankengang, dem der Widersprüchlichkeit der Idee Gottes ein-
gesetzt.
I. Geben wir einmal zu, die Idee Gottes sei· widerspruchsvoll.
Was folgt daraus? Dass es Gott nicht gibt? Für das klassische Den-

·Gedankengang aus L'exi11ten6iali11me est un humanisme.


2
Dieser Gedanke ist neben andern besonders in Le Diable et le Bon Dieu
111
herausgearbeitet.
' Ein wichtiger Hinweis auf die fundamentale Bedeutung der religiösen
Praxis und einer Erziehung, die nicht am Wort kleben bleibt, sondern auf
persönliche Erfahrung hinzielt.
PROVISORISCHER ATHEISMU.S 125

ken wäre dieser Schluss unumgänglich, nicht aber für Sartre. Denn
für ihn gibt es zum mindesten eine Region des Seins, die dem
Identitätsprinzip nicht untersteht, das Fürsichsein. Für diese Re-
gion ist Widersprüchlichkeit nicht gleichbedeutend mit Nichtexi-
stenz. Dann ist es aber fraglich, inwiefern der Widerspruch in der
Idee Gottes ein beweis gegen die Existenz Gottes sein soll. Sartre
aüsseste denn rauch, die Widersprüchlichkeit einer Idee beweise
nichts gegen die in ihr gemeinte Wirklichkeit. Leider habe er die
religiöse Wirklichkeit niemals erlebt. Bis dahin bleibe er bei sei-
nem Argument und deshalb gelte, wie er sich ausdrückte: Mon
atheisme est absolu mais provisoire.
Dafür aber, dass ihm religiöse Erfahrung nie zuteil geworden
sei, gab er gute Gründe an : die mangelhafte religiöse Erziehung zu
Hause infolge des verschiedenen religiösen Bekenntnisses der El-
tern, und die Unfähigkeit, sich später in dem Religionsunterricht
etwas unter dem Wort « Gott > vorzustellen.
2. Der Einwand gegen die Schöpfung beruht hauptsächlich auf
einer allzu einfachen Parallelisierung von handwerklichem und
göttlichem Tun. Gewiss : den Schöpfungsakt kann man sich irgend-
wie durch Vergleiche nahe-bringen, man sollte dabei aber nicht ver-
gessen, dass es immer nur hinkende Vergleiche sind, und dass Gott
trotz mancher Ähnlichkeit mit der Schöpfung doch der ganz an-
dere ist. Die Idee, nach denen Gott schafft, sind im letzten nichts
anderes als die göttliche Wesenheit selber, an der die verschiede-
nen Schöpfungswirklichkeiten verschieden teilnehmen 6 •
3. Muss der Blick Gottes den Menschen nicht einfach zur Sa-
che machen? Das wäre dann der Fall, wenn Sartres im übrigen
feine Analysen des Blickes umfassend wären. Sie stimmen durch-
aus in dem, was sie behaupten, stimmen aber nicht mehr, wenn
sie den Anspruch der Ausschlieslichkeit erheben. Es gibt neben
dem unterjochenden, existenzzerstörenden, bösen Blick auch den
Blick der Mutter, des Vaters, des Freundes, des Kameraden usw.
Weshalb sollte der Blick Gottes nur zerstören müssen? Vielleicht
offenbart sich auf dem Hintergrund dieser Auffassung ein prote-
stantisches Gottesverständnis, für das Gott nur der zürnende, stra-
fende, übermächtige Richter ist.
4. Kann es menschliche Freiheit neben der göttlichen Vorse-
hung und W eltriegung geben? - Wenn Gott den Menschen als
freies Wesen schafft, so setzt er bei der Schöpfung diese Freiheit
auch in Rechnung. Die von ihm geschaffene Freiheit hat gewiss

11 Vgl. S. th. I 44, 3 e. a.


126 JIARCEL REDING

ihre geschöpflichen Schranken, aber sie bleibt immer Aktfreiheit,


Wahlfreiheit und Wertfreiheit. In der Sicht und der Auswahl mög-
licher Betätigung dieser Freiheit ist Gott dem Menschen immer vo-
raus. Seine Vorsehung und seine Weltregierung, .die sich für diese
mit Ausschluss anderer Möglichkeiten der Freiheit entscheidet,
tasten den freien Akt als solchen nicht an. Von dem Augenblick
an, wo Gott freie Wesen will, kann Er nicht wollen, dass sie zu-
gleich nicht frei seien. Er kann sich aber andererseits in einer end-
lichen Welt mit endlichen. Geschichten nicht für alle Möglichkeiten
der Freiheit. entscheiden. Vielmehr: gesetzt, Er hat sich für eine
Ordnung entschieden, in der der Mensch X seine Freiheit frei aus-
übt, kann Er nicht zugleich eine Ordnung gewollt haben, in der
es dem Menschen X mit all seinctn Möglichkeiten nicht gäbe. Deshalb
kann auch der göttliche Blick menschliche Freiheit nicht vernich-
ten wollen. Denn wenn Gott den Menschen d. h. ein freies Wesen
will, kann Er es nicht zugleich als nicht frei wollen oder es seiner
Freiheit berauben. Das ist einfach unmöglich. An den Schranken
des Widerspruchs verliert die Allmacht ihren Sinn. Obwohl Gott
allmächtig ist kann er nicht wollen, dass ein Dreieck oder ein Vier-
eck ein Kreis sei.

III. METHODOLOGISCHES ZUR DISKUSSION MIT SARTRE

In den herkömmlichen Auseinandersetzungen mit Sartre leistet


man die nützliche Arbeit, dass man von einer genauen Analyse
seiner Texte ausgeht, ihm in seinen Unterscheidungen folgt und
ihn von dorther zu überwinden versucht. Diese Methode kann aber
deswegen kaum zu einem überzeugenden Ergebnis führen, weil sie
sich jeweils das Gelände vorschreiben lässt, auf dem gefochten
werden soll, statt zu überlegen, ob der Kampf nicht an anderer
Stelle mit sachgerechteren Mitteln ausgetragen werden müsste. Um ·
methodisch sauber vorzugehen, müsste man folgende Gesichtspunk-
te in Betracht ziehen.
I. Sartres Philosophie bedient sich der phaenomenologischen
Methode; sein Hauptwerk: « L'Etre et le Neant > führt den Unter-
titel: « Essai d'ontologie phenomenologique >. Diese Methode be-
steht nicht primär im Räsonieren und Deduzieren, sie ist kein ent-
arteter Rationalismus, sondern sie besteht zunächst im Sehen von
erlebten Wesen_heiten und Wirklichkeiten. Um ein altes, bekanntes
Wort Busserls ins Gedächtnis zu rufen: « Das unmittelbare « Se-
hen>, nicht bloss das sinnliche, erfahrende Sehen, sondern das Se-
PROVISORISCHER ATHEISMUS 127

hen überhaupt als originär gebendes Bewusstsein welcher Art im-


mer, ist die letzte Rechtsquelle aller vernünftigen Behauptungen> 6 •
Auf das Sehen kommt es an. Nicht zunächst darauf, aus ei-
nigen Phaenomenen voreilig ein geschlossenes System zu bauen
und von diesem her dann zu fragen, was noch weiter in das System
hineinpasst. Das System müsste ohnedies für neu einströmende
Wirklichkeiten offenstehen. Wirklichkeiten, die nicht hineinpassen,
dürfen deswegen nicht unterschlagen werden. Und blieben dabei un-
versöhnliche Entgegensetzungen bestehen, was würden sie bewei-
sen? Etwa die Nichtwirklichkeit einer entgegengesetzten Reihe?
Mitnichten. Höchstens das Versagen unseres Denkens. Nicolai Hart-
mann, der einen scharfen Blick für Aporien· und Antinomien im
Denken hatte, hat das gut gesehen: « Antinomien beweisen nichts
gegen die reale Koexistenz des antinomisch Geschiedenen, auch
wann sie sich als echte Antinomien erweisen, d. h. unlösbar sein
sollten. Sie beweisen nur die Unfähigkeit des Gedankens, die Koe-
xistenz zu begreifen»"· Die Beschränktheit des Systemdenkens, die
gerade im Neukantianismus auf dem Gebiete der Religionsphiloso-
phie Triumphe feierte, ist durch die Phaenomenologie durchbro-
chen worden, und man sollte sie nicht gerade im Namen eben der-
selben Phaenomenologie wieder zur Herrschaft bringen wollen.
Es ist sehr wohl möglich, dass ein Philosoph die religiöse Wirk-
lichkeit nicht erlebt hat 8 • Dann sollte er vielleicht am besten nicht
darüber reden. Will er es trotzdem darüber tun, darf er Religion
nicht ohne weiteres leugnen. Wir wünschen auch keine musik-
philosophischen Ausführungen aus der Feder eines Tauben oder
eines völlig Unmusikalischen, keine Gedichtsanalysen eines Men-
schen, der für Dichtung keinen Sinn hat und sie deshalb für Un-
sinn oder überhaupt für unexistent erklärt.
Wer über Religion .reden will ohne religiöse Erfahrung zu be-
sitzen, sollte sich möglicher Auskunft bei den grossen religiösen
Menschen holen bei den Heiligen, bei den Mystikern 9 • So kann er
zu einer gediegenen Phänomenologie kommen. Das ist seihst für den

a Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philo-


sophie, Halle a. d. S., 1913, S. 36.
1 Ethik, 2 Aufl. Berlin und Leipzig 1935, S. 737.
s The foundation of all religious Iife is the encounter between God and
man. Without such an encounter, Religion would be no more than an illusion,
a deception or a selfdeception >, S. H. BERGMAN, Philosophu and Religion in
Proceedings of the Xlth International Congress of Philosophu, Vol. XI, Amster-
dam-Louvain S. 11.
9 Vergl. z. B. BBRGSON, Les deux sources de la morale et de la religion,
3. Aufl. Paris 1932 S. 243 ff. - JosEPH MARECHAL, Etudes sur la Psuchologie
des Mystiques I 2. Aufl. Bruxelles-Paris 1936.
128 MARCEL REDING

nützlich, der echt religiös est. Eigene Erfahrung kann durch Fremd-
erfahrung nur angereichert und von Schiefheiten befreit wel.'den.
Weshalb auch nicht den Glauben der Völker her anziehen? Wil-
helm Schmidt hat in seinen Bänden über den« Ursprung der Gottes
Idee » ein so gewaltiges Material zusammengetragen, dass es ver-
fehlt wäre es einfach zu ignorieren; Wie kann ausgerechnet ein
Phänomenologe sich auf 'Grund eigener Konstruktionen über die
religiösen Phänomene hinwegsetzen, Phänomenologie ist nicht Ar-
beit eines Kopfes unter Milliarden. Die ganze Menschheit verar-
beitet seit jeher - sei es auch i,.ur präreflexiv - ~ie ihr gegebenen
Phänomene. Die Forschungen von Schmidt haben gezeigt, dass die
Zahl der gottlosen Völker nicht so gross ist, wie flüchtige ~eisende
durch fremde Gebiete naiverweise annahmen, sondern, dass viele
unter den primitivsten ohne fremden Einfluss einen sehr reinen
Gottesglauben besitzen.
Gott ist zunächst eine Wirklichkeit, die erlebt wird, kein kon-
struierter Begriff. Es ist Sache der Philosophie, Begriffe zu bilden,
die diese Wirklichkeit irgendwie intentional zu meinen vermögen.
Gelingt das einer Philosophie nicht oder führt ein System in der
Verlängerung seiner Bemühungen zum Widerspruch gegen erfah-
rene Wirklichkeiten, dann wäre das eher denn ein Argument für
das Nichtbestehen einer Wirklichkeit, ein höchstwahrschei,nliches
Zeichen dafür, dass dieses System falscli ist.
2. Wenn man Gott leugnen will, sollte zunächst gesagt werden,
welches Sein unter dem Namen Gottes, der geleugnet wird verstan-
den wird. Einen Götzen leugnen wir auch und es besteht der drin-
gende Verdacht, dass Sartre geläufig dort, wo er von Gott spricht,
nur einen Götzen meint.
3. Man müsste sich weiterhin über die Art der Leugnung ver-
ständigen. Der Physiker· ist A-theist, insofern er nicht von Gott
spricht. Der Metaphysiker kann 'Gott leugnen wollen, wenn er
nicht von ihm spricht, es kann aber auch sein, dass er in seiner
Arbeit nich nicht bis zu Gott gelangt ist. Ob letzteres, z. B. für
Heidegger zutrifft oder nicht, soll hier nicht untersucht werden.
Man kann Gott direkt oder indirekt, ausdrücklich oder unaus-
drücklich, ernsthaft oder bloss des Gesprächsspiels wegen - wie
es manchen Sophisten taten· - leugnen.

IV. KÜNFTIGE MÖGLICHKEITEN.

Welcher Art ist der Atheismus Sartres? Tatsächlich scheint


er absolut und kämpferisch zu sein. Ist er das rechtmässig? Wir
PROVISORISCHER ATHEISMU.S 129

müssen mit einem Nein antworten. Nimmt ein Phänomenologe


seine Arbeit ernst, kann er über einen Gegenstand nicht reden
wollen, der ihm erfahrungsmässig verschlossen bleibt. Der Möglich-
keit des Gegebenwerdens sollte er sich trotzdem immer offenhal-
ten. Seine Stellungnahmen können keine endgültige sondern höch-
stens vorläufige sein. Mit dieser Vorläufigkeit verträgt sich aber ·
echte Absolutheit genau so wenig wie der Kampf gegen den
Gottesglauben. Die Vorläufigkeit müsste zur Toleranz, zur Haltung
der Offenheit führen und zur Bereitschaft, das System neuen Wirk-
lichkeiten zu eröffnen, sobald sie sich erschliessen.
Gott ist wie der Tod schweigsam und wie der Tod auch rät-
selhaft. Deshalb braucht Er aber noch nicht tot zu sein.

9 - Studi filo1ofici
X.
R. D. GIORGIO GIANNINI
PlloFESSORE NEL PoNT. ATENEO UTERANENSB

LA NOZIONE DI POSSIBILITA' NELL'ESISTENZIALISMO


DIN.ABBAGNANO

L'aeeento nuovo, ehe earatterizza da alcuni anni la posizione


esistenzialistiea di N. Abbagnano, e rappresentato dalla partieolare
insistenza eon la quale il eh. professore dell' Ateneo torinese ha eer-
eato di riehiamare l'attenzione dei filosofi sulla eategoria della pos-
sibilita 1 • Mentre in prineipio il suo esistenzialismo si distingueva
dalle altre eorrenti affini per la nozione di « problematieita >, ehe
veniva manipolata in tutti i sensi e approfondita dialettieaxnente eon
rigore speeulativo notevole '2, sembra ehe ora l'A. parli piu volentieri
di « possibilita >, sforzandosi anehe, eon ehiaro e ben delineato im-
pegno teoretieo, di precisarne la nozione onde prevenire qualsiasi
fraintendimento. Non e maneato nemmeno un ampio riferimento
esemplifieativo alla seienza moderna per illustrare la rieehezza dei
temi ehe si irradiano dalla eategoria del possibile; e non vi e alcun
dubbio ehe I' A. abbia voluto reeare il suo bravo eontributo speeula-
tivo all'affermazione neopositivistiea del eireolo di Torino.
Sostanzialmente nulla di nuovo. La nozione di possibilita eom-
pariva anehe prima eome motivo dominante dell'intera eostrgzione,
in quanto identificata eon la problematieita e intimamente eonnessa
eon la « possibilita traseendentale >, ehe rimane sempre il « deus ex
maehina > di questo esistenzialismo. Tuttavia, ora ehe I' A. ha sen-
tito la neeessita di insistere tanto su una nozione piu familiare alla
1 Cf. in particolare i seguenti scritti: Esistenzialismo positiuo, Torino 1948;
II posaibile e il uirtuale, in c Actas del prim. congr. nacion. de fll. >, tomo FI,
Mendoza 1949, pp. 643-48; La mia prospettiua filosofica, nel vol. in collabo-
razione, Padova 1950, pp. 9-27; DEWEY: Esperienza e possibilita, in c Riv. crit.
di storia della fil. >, 1951, fase. IV, pp. 6-16; L'appello alla ragione e le tecniche
della ragione, in c Riv. di filosofia >, 1952, vol. XLIII, n. 1~ pp. 24-44; Con-
temporaru science and freedom, in c The review of Metaph. >, 1952, vol. V,
n. 3, pp. 361-78.
2 Cf.: La struttura dell'esistenza, Torino 1939; Introduzione all'esistenzia- ·
lismo, Milano 1942 (ristampa, Torino 1947); Filosofia, religione, scienza, To-
rino 1947.
132 OIOBOIO OIANNINI

tradizione filosofiea, non sara inutile riprendere i suoi temi sotto


questo nuovo aspetto, per vedere in eonereto quale valore esso possa
assumere nei riguardi della metafisiea.
Che eosa intende precisamente l' A. per possibile? La definizione
ehe egli ne da e la seguente: « Intendiamo per possibile cio ehe puo
essere o non usere ed e solo come tale > 13 ; ed aggiunge poi due de-
terminazioni partieolarmente importanti: « La dove il possibiie si
presenta, og.ni cosa e un possibile e soltanto un possibile », e: « II
possibile non e tale in c.ontrapposizi.one al reale, ma il reale stesso e
il possibile »"·Per apprezzare eonvenientemente il signifieato di que-
sta definizione e delle relative determinazioni, sara bene tener eon.-
to di altre determinazioni, questa volta di indole negativa, ehe l' A.
ha eura di premettere alla nozione positiva di possibile. La prima
determinazione negativa e ehe il possibile non e il virtuale ( o il po-
tenziale, in senso aristotelieo): il virtuale eselude il possibile e vi-
eeversa. Infatti eio ehe e virtuale deve realizzarsi, perehe, essendo
per sua natura la preformazione e la predeterminazione dell'essere
attuale, se non si realizza, manea ogni base per rieonoseerlo e di:-
ehiararlo virtuale 6 • La seeonda determinazione negativa e ehe il
possibile non e il contingente: il eontingente non ha niente a ehe
fare eol possibile. lnfatti il eontingente, se non e necessario per se, e
tuttavia neeessario per altro, e si distingue dal neeessario non per
il suo earattere di possibilita, ma per il suo earattere di dipendenza
estrinseea e di determinazione eausale eteronoma 6 • In eonelusione:
il possibile non e ne il virtuale ne il eontingente perehe questi, in
un modo o nell'altro, si risolvono nel neeessario; il possibile, inveee,
esclude in modo assoluto qualsiasi riferimento ad altre eategorie di-
verse da quella della possibilita, e non rieonosee alcun fondamento
all'infuori di se medesimo. Per eui « la eategoria del possibile, una
volta ammessa e rieonoseiuta, diseioglie in se tutte le altre e si pre-
senta eome la sola eategoria deeisiva > "·
Phi esattamente e positivamente, il possibile e una eategoria
finita e d.el. finito; 11 possibile non e finito per rapporto all'infinito,
ma per sua propria eostituzione e struttura, per rapporto a se stes-
so. E' flnito perehe inelude la possibilita del suo non-essere; la flni-
tudine non si aggiunge estrinsecamente al possibile, mll appartiene
al possibile in quanto possibile. 11 possibile puo non essere: eeeo la
sua finitudine. Mediante questa notazione, intesa a salvaguardare
a II po1111ibile e il virtuale, p. 643.
4 lbid., p. 644, 646.
11 La mia prosp. fil., p. 16.
e Ibid„ p. 16.
1 Ibid., p. 16.
LA NOZIONE DI POSSIBILITA NELL'ESISTENZIALISMO DI N. ABBAGNANO 133

scrupolosamente il carattere di finitudine come momento in se con-


cluso, l' A rivendica al suo esistenzialismo la peculiare fisionomia di
« filosofia positiva ». Questa consiste, in ultima analisi, nell'affer-
mazione piu autentica della possibilita 8 • Secondo l'A., i filosofi del-
la possibilita sono Kant e Kierkegaard: Kant e il filosofo della pos'.'
sibilita positiva, Kierkegaard il fllosofo della possibilita negativa.
Dato ehe la possibilita autentiea verifiea simultaneamente i due
aspetti positivo-negativo, tra Kant e Kierkegaard non vi e opposizio-
ne, ma eomplementarieta, in quanto eonsiderano un aspetto parziale
si, ma vero, della possibilita. Kant, avendo rieondotto la eonoseenza
nei limiti dell'esperienza possibile e avendo rieonoseiuto la possibi-
lita dell'esperienza nelle forme a priori e la possibilita della vita
morale nell'imperativo eategorieo, ha inteso senza dubbio la possi-
bilita in senso esistenziale e non semplieemente eome assenza di eon-
traddizione (eome prima di lui, da WolfT in poi, si era fatto), ma ha
avuto il torto di considerare solo l'aspetto positivo della possibilita.
Kierkegaard, d'altra parte, mediante il eoneetto di angoseia, ha eon-
siderato la possibilita solo nella sua forma annientatriee e distrug-
gitriee, eioe seeondo il suo aspetto negativo. Ora ogni possibilita
conereta realizza sempre simultaneamente i due aspetti, positivo e
negativo; essa non e soltanto « possibilita ehe-sl », ma anehe « possi-
bilita-ehe-no » : p. es. la possibilita di eonoseere e sempre possibi-
lita di non conoseere, eioe possibilita del dubbio, dell'errore e del-
l'oblio 9 •
La possibilita, dunque, e eio ehe puo essere e non essere e ehe
e solo eome .tale. Ma, si domanda l'A., dal momento ehe l'esistenza e
immersa nell'orizzonte delle possibilita, eome fara l'uomo a diseer-
nere le possibilita vere e autentiehe da quelle false e flttizie?
Dei problema sono state proposte tre soluzioni, le quali pero
sono inaeeettabili, poiehe, rendendo impossibile la scelta ehe e es-
senzialmente eonnessa eon la possibilita, eondueono alla negazione
dell'esistenza eome possibilita. La prima soluzione (quella di Sar-
tre) rieonosce l'equivalenza di tutte le possibilita umane; ma eio si-
gnifiea la perdita di tutte le possibilita, giaeehe la seelta e resa im-
possibile. La seconda soluzione ( quella di Heidegger) riconosce l'e-
quivalenza di tutte le possibilita meno una, la possibilita della mor-
te. La seelta rimane possibile, ma di fatto viene resa neeessaria e
predeterminata, non potendo essere ehe una sola. La terza soluzione
(quella di Jaspers) rieonosee ehe tutte le possibilita si equivalgono

s lbid., p. 17.
9 Esistenzial. posit., pp. 31-33; cf. Storia della /iloso/ia, II, 2, Torino 1960,
p. 180 ss.
134 GIORGIO GIANNINI

per la loro eomune impossibilita di raggiungere l'essere; donde la


medesima eonelusione circa l'impossibilita della scelta 10 •
La soluzione dell'Ä. e la seguente: l'autenticita delle possibi-
lita ehe costituiscono l'esistenza va stabilita in base ad un criterio
intrinseco alla natura delle stesse possibilita, e tale criterio e la pos-
sibilita della possibilita, eioe la possibilita « trascendentale > 11 • Ve-
ra possibilita e solo quella ehe, rapportandosi a se stessa, si conso-
lida nel suo fondamento, e rivela in tal modo il suo vero aspetto di
possibilita; qualsiasi riferimento · a qualcosa di estrinseco rende im-
possibile l'affermazione della possibilita come tale. Ecco in ehe sen-
so l'esistenzialismo dell' A. puo rivendicare la caratteristica della
« positivita ». Chi volesse eontravvenire a tale canone, concependo
per es. la possibilita in modo da giustificare o, ehe e lo stesso, da
•predeterminare il passaggio dal possibile al necessario, deformereb-
be la natura autentica della possibilita. La possibilita si risolvereb-
be nella necessita, e eome tale instaurerebbe una situazione ehe ha
niente a ehe fare con la situazione umana. « Al filosofo annunziato-
re e banditore dell'infinito e ehe in nome dell'infinito parla agli al-
tri uomini considerandoli tutti compresi e presenti nella sua filo-
sofia, va ·sostituita la piu modesta e efficiente figura del filosofo ehe
parla da uomo ad altri uomini, cercando d'intravedere, per essi e
eon essi, le vie, gli ostaeoli e i pericoli del destino comune » 12 •
Sebbene la possibilita non sia destinata a realizzarsi in modo in-
fallibile e sicuro, essa tuttavia puo realizzarsi, anzi solo la possibi-
lita puo realizzarsi, e cio nel senso ehe solo essa, in quanto lascia
aperta la prospettiva del futuro, puo dar luogo a un processo di
realizzazione. Ma sia sempre ben chiaro ehe la realizzazione della
possibilita non e la trasformazione della possibilita in un'altra ca-
tegoria. « Essa e eomprensibile soltanto nell'ambito della stessa ca-
tegoria del possibile ... Realizzandosi, il possibile si fonda sulla sua
stessa possibilita, si rafforza in essa e per essa come possibile. Se
chiamiamo possibilita trascendentale la possibilita di un possibile,
la realizzazione del possibile e il suo rapportarsi con la possibilita
trascendentale » m. In altri termini: la realizzazione della possibi-
lita e un procedere oltre la possibilita per riaverla come possibi-
lita, in modo ehe la sua situazione finale coincida con la situa-
zione iniziale. Ritornano qui i motivi piu salienti dell'esistenzia-
lismo dell' A. ehe non e qui il luogo di ripetere 14, ma ehe ei
lbid., pp. 33-36.
10
lbid„ pp. 36-39.
11
12 La mia prosp. fil., p. 27.
1a lbid., p. 20.
H Cf. il nostro studio: Le idee generatrici dell'esistenzialismo di N. Ab-
bagnano e il loro significato, in c Giornale di metaf. >, 1950, n. 5, pp. 590-628.
LA NOZIONB DI POS.SIBILITA NELL'ESISTENZIALISMO DI N. ABBAGNANO 135

eonfermano nella nostra impressione iniziale, quando notavamo


ehe il riehiamo fatto dall' A. in questi ultimi anni per ripensare i
suoi temi alla luce della eategoria della possibilita, non cambia
nulla di sostanziale nella sua posizione esistenzialistiea.

* * *
Sorvoliamo sui restanti sviluppi speculativi, ehe permettono al-
l' A. di spiegare un'innegabile abilita dialettiea, ma ehe, a nostro av-
viso, non ineidono sul signißeato delle affermazioni ehe gia eono-
seiamo, e veniamo senz'altro ad aleuni rilievi eritiei 1 s.
Innanzi tutto, la nozione di possibilita, difesa a spada tratta
dall' A., ei sembra eontraddittoria: e eio non per il confronto con
una nostra nozione, ehe l' A. potrebbe giudieare arbitraria, ma in
base ad una eritiea interna. A parte ehe ad un problematieista eo-
me I'A. la contraddizione non puo far paura, il confronto eol prin-
eipio di non-contraddizione rimane sempre l'argomento deeisivo per
saggiare la eonsistenza logica di una determinata posizione specula-
tiva. La eontraddizione ehe ei sembra di riseontrare nella nozione di
possibilita quale la eoneepisee l' A., e ehe essa, mentre da un lato e
invoeata per spiegare tutto, eome il « deus ex maehina > della ftlo-
sofla, dall'altro, viene svuotata preeisamente di ogni signifleato ri-
volto ad una spiegazione, appunto perehe in base ad essa si sostiene
ehe in fllosofla non vi e niente da spiegare.
E' invooata per spiegare tutto: infatti l'A. provoea eontinua-
mente alla possibilita per« spiegare » ehe eosa e l'esistenza, per eo-
glierne il senso tipieamente umano, per stabilire il signifleato auten-
tieo delle articolazioni dialettiche del suo esistenzialismo, ehe sean-
diseono la realta stessa, quali p. es. il mondo, la storia, il tempo, la
morte. In una parola: l' A. media tutta la realta attraverso la eatego-
ria della possibilita.
Dall'altro lato, la poswibilita viene intesa in un sens.o ehe impli-
ca l'imposs,ibilita di quolsiasi spiegazwne: infatti essa viene conee-
pita eome la realta stessa ehe non puo giustifiearsi se non rappor-
tandosi a se stessa. A rigore, l' A. non puo dire: « la realta e possi-
bilita >, ma deve dire: « la possibilita e possibilita », giaeehe se si
suppone per un momento ehe la possibilita si identifiehi eon qualeo-
sa di estrinseeo, essa ha gia perduto il suo earattere autentieo e non
e piu la possibilita. Si arriva esattamente alla posizione parmenidea,
per la quale il giudizio o e tautologieo o e falso. Per usare ·un'arguta

11 Gli sviluppi piil notevoli sono svolti nello scritto citato: L'appello alla
ragione e le tecniche delta ragione.
136 GIOBGIO GIANNINI

espressione dello Seiaeea, la possibilita dell' A. mentre si autofonda,


si autoafl'onda; essa non rieonoseendo aleun fondamento all'infuori
di se stessa, si rivela ehiaramente sfornita di qualsiasi fondamento.
E' eontradditorio voler spiegare tutto mediante la possibilita · e dire
ehe la realta e possibilita, quando preeisamente in base alla possi-
bilita, eonsiderata seeondo la piu ,rigida immanenza a se stessa,
viene eliminata ogni esigenza di spiegazione. Se la possibilita si spie-
ga eon se stessa, quando si afl'erma ehe la realta e possibilita, non
si spiega la realta in termini di possibilita ,ma si laseia la realta sen-
za spiegazione. Ma non ha nemmeno senso dire ehe la realta e pos-
sibilita, perehe, dal momento ehe dalla possibilita non si esce e po-
sta l'identita perfetta tu realta e possibilita, sarebbe eome dire ehe
la realta e realta: un'affermazione ehe non signifiea nulla.
Notiamo, in seeondo luogo, ehe le earatteristiehe attribuite dal-
l'A. alla possibilita signifieano proprio la negazione della possibi-
lita quale egli la intende. Se, infatti, per possibile si intende eio ehe
puo essere o non MSere e ehe, se e, e solo eome tale, e poi si sostiene
ehe esso non riconosce alcun fondamento all'infuori di se stesso, ehe
la possibilita non si realizza se non rapportandosi alla possibilita
· della possibilita, eioe alla possibilita traseendentale, - si viene a
distruggere eompletainente la nozione data, in quanto il possibile
ehe si autofonda non e phi eio ehe puo essere o non essere, ma e
proprio eio ehe non puo non essere, eioe il neeessario. E allora si
eomprende perehe l' A. insiste tanto sul fatto ehe se si coneepisse
la possibilita in modo da giustifieare il passaggio alla necessita, si
risolverebbe la possibilita nella necessita. La ragione e molto sem-
plice: il possibile, quale egli lo eoneepisee, non e il possibile, ma il
neeessario. 11 possibile e una nozione relativa, non assoluta; essa
non e intelligibile ehe in rapporto all'essere di eui e un'imitazione;
pereio, una delle due: o si eoneepisee eome possibile, e allora ri-
manda, per sua natura, al eontingente e, attraverso questo, al ne-
eessario; o si eselude gia in partenza ehe esso rimandi al eontingen-
te e al neeessario, ma abbia solo in se stesso la sua intelligibilit:i, e
allora non e piu il possibile, ma il neeessario. Quando l' A. diee ehe la
possibilita e tale per la sua stessa possibilita, eioe per la possibilita
traseendentale, intende evidentemente superare la possibilita rima-
nendo nella possibilita, ma eio puo avvenire solo se la possibilita
si identifiea eon la neeessita. Puo rapportarsi a se stesso solo cio ehe
in se stesso, e non fuori, ha la sua ragion d'essere.
Aneora un rilievo. L' A. diee: il possibile non e tale in eontmp-
posizwne al reale, ma il possibile e il reale stesso. Ora il possibile e
eio ehe puo essere o non essere; quindi, se il possibile e il reale, il
reale e eioe ehe puo essere o non essere; ma eio ehe puo essere o
LA NOZIONE DI POS.SIBILIT1 NELL'ESISTENZIALISMO DI N, ABBAGNANO 137

non essere non e aneora iI reale, perehe il reale e eio ehe e. Dunque,
se il possibile e il reale stesso, il reale e eio ehe non e aneora reale,
eioe il reale non e il reale. E notiamo bene ehe reale per l' A. non si-
gnifiea eio ehe non diee eontraddizione, perehe in tal easo si potreb-
be eertamente affermare ehe il possibile e reale; ma reale per l'A.
signifiea essere attuale, dal momento ehe egli intende tutta la realta
in senso esistenziale. E allora qui sorge una nuova eomplieazione.
Se il possibile e reale e reale signifiea essere attuale, l'essere attua-
le e cioe ehe puo essere o non essere; ma un essere attuale ehe, ri-
manendo atttiale, sia cio ehe puo essere o non essere, o e un essere
attuale ehe puo essere o non essere attuale, ed e, in tal easo, assur-
do; o e eio ehe in tanto e attuale in quanto puo essere o non essere
attuale, e allora non e il possibile, ma il contingente, proprio quel
eontingente ehe, in un modo o in un altro, e legato alla neeessita.
La prima ipotesi, tuttavia, sembra piu probabile; percio non vediamo
come si possa useire dalla eontraddizione. ·
Coneludendo: il difetto ehe si riseontra nella nozione di possi-
bilita difesa dall'A. e di non eonsentire in alcun modo il passaggio
al neeessario; ed e difetto talmente notevole da deformare eomple-
tamente il eoneetto di possibile fino a negarlo nella maniera piu
radieale. Eppure l' A. non ei sembra eosi ehiuso aU'istanza di una
traseendenza eoerente e oggettiva, se ha potuto serivere: « L'uomo
e temporalita; ma non potrebbe essere neppure temporalita se non
si aneorasse all'eterno. II suo essere eela eontinuamente nella sua
eostituzione la minaeeia del nulla; e eontinuamente lo ehiama e lo
spinge verso un essere ehe e al di la di qualsiasi minaecia > 16 • Ci sia
leeito ehiedere: eome e possibile ehe quell'essere « ehe e al di la di
qualsiasi minaecia > sia la possibilitd tras.cendentale, cioe l'essere
stesso ehe « eela continuamente nella sua costituzione la minaeeia
del nulla » rapportato a se stesso? non e assurdo ehe cio ehe reea
eontinuamente in se la minaeeia del nulla sia, nello stesso tempo,
al di la di qualsiasi minaecia? Chiederemmo troppo all' A. se lo in-
vitassimo a sostituire il « traseendentale » eon il « traseendente >? 17•

1s Introduz.. all'esistenz.ial., Torino 1947, p. 69.


17 « Queste note eon eui Abbagnano qualifiea l'essere appartengono alla
metafisiea eterna. Ma eon esse s'intreeeiano altre note di cui nessuno po-
trebbe sostenere Ja eongruenza eon le prime. Cio ehe era ' traseendente • diventa
' traseendentale •, senza ehe si veda in qual modo una pura forma e legalita
della ftnitudine possa avere i earatteri della traseendenza prima atrermati. Cio
ehe era •·eonereto ', 'determinato ', ' stabile', diventa una pura 'possibilita tra-
seendentale •, anzi, molto phi di una possibilita univoea, diventa la possibilita
di tutte le possibilita > (L. STEFAN1N1, Critica costruttiva dell'esistenzialismo
ateo, in « Giornale di metaf. >, 1949, n. 1, p. 46).
XI.

R. P. ANDREA MARC S. I.
PaOFBSSORE NBLLA FACOLTA DI FILOSOFIA DI PARIS

HISTOIRE ET METAPHYSIQUE

Ce pages ont pour origine quelques livres recents d'historiens


ou de philosophes: RENE GROUSSET, Bilan de l'Histoire, 1946; -
N1cOLAS BERDIAEFF, Le Sens de l'Histoire, 1948; -ARNOLD J. ToYN-
BEE, L'Histoire, Un Es&ai d'interpretation, (traduit de l'anglais par
Elisabeth Julia) 1951. Elles supposent au prealable une theorie de
Ja connaissance, de la liberte, de la moralite, ainsi que de l'6tre, que
des ouvrages anterieurs ont exposee 1 • Elles envisagent l'histoire
humaine en tant que realite, non pas precisement en tant que
science.
Pour organiser Ja pensee, il est nature! de partir de l'element
de l'histoire le plus obvie peut-6tre: elle est d'abord la connaissance
de l'individuel, non pas de l'individuel fictif, tel que le represente
l'art a l'imagination, mais de l'individuel reel, tel qu'il se localise et
se date dans l'espace et le temps. Elle a donc un aspect chronolo-
gique, voire biographique, en m6me temps que geographique. L'in-
dividuel ainsi compris est toujours singulier, car il est un 6tre
.dans le temps irreversible: il est encore un 6tre unique, aussi inca-
pable de se repeter que le temp~ de revenir sur son cours. Mais en
tant qu'individuel, l'.6tre historique est une realite particuliere dans
la hierarchie des realites, dont se compose l'6tre. L'individu n'est
jamais seul, mais avec d'autre\, qui lui sont associes. Son histoire
se situe dans une autre histoire, plus vaste, celles d'individus plus
ou moins nombreux, familles, provinces, nations, elles aussi loca-
lisees, datees dans l'espace et le temps. Mais qu'il s'agisse d'un
6tre particulier, d'une institution, ou d'une societe entiere, l'indi-
vidu reste le centre animateur. Comme il peut et doit 6tre profon-

1 Voir Pagchologie Reflezive, 1949, Desclee-De Brouwer, Paris. - Dialec-


tique de l'Alfirmation, 1962, Desclee-De Brouwer. - Dialectique de l'Agir, 1963,
Vitte, Lyon.
Les auteurs indiques ne sont pas etudies dans leur ensemble. Trois de
leurs ouvrages sont seulement utilises dans les perspectives de ce travail. Cela
vaut surtout de Berdiaeff; tirer parti de quelques-unes de ses idees n'empkhe
pas de faire des reserves sur bien d'autres.
HO ANDREA MABC S, I,

dement ontologique, ainsi que l'edifice construit sur lui, la philo-


sophie de l'histoire est une metaphysique de l'histoire, dont la base
est une metaphysique de l'Mre singulier.
Cela s'avere d'autant plus necessaire, si vous remplacez le ter-
me individu par celui de perwnne. Plus que toute autre la person-
ne humaine est le lieu d'eclosion de l'histoire et de la societe, parce
qu'elle les fait et les connatt comme telles. Ne prend-elle pas en
main sa propre histoire? N'en est-elle pas l'auteur des qu'elle · 1a
produit, la gouverne en toute conscience et liberte? N'est-ce pas
encore eile, qui la raconte? Quand il s'agit d'etres differents d'elle,
eile est, seule, leui historienne; dans l'histoire naturelle par exem-
ple. La personne est historique parce qu'historienne; auteur de
l'histoire realite et de l'histoire science. L'idee d'histoire est liee
a celle de la personne libre, consciente, spirituelle, immortelle, mal-
gre sa soumission au temps comme au mouvement dans la natu-
re. Cette personne y est savante aussi bien qu'agissante. A ce pro-
pos notons la remarque de Henri Marrou au sujet du fran~ais, de
l'allemand et de l'italien: « Le genie de chacune .de ces langues
s'est toujours refuse a integrer de telles distinctions (histoire-rea-
lite, histoire-science) dans l'usage vivant; et a bon droit, car le pre-
mier aspect n'existe pas a l'etat pur, ou du moins est insaisissable,
sinon sous la forme du second > 2 • Ainsi la question que pose la no-
tion d'histoire se rattache aux problemes du devenir, du temps, de
la liberte, de la destinee de l'homme. Toutes questions, qui sont
d'ordre metaphysique.
Or si la personne a par elle-meme de l'unite, son devenir et son
histoire en auront. Pour ce motif ils diront en meme temps con-
servation et creation; c'est dire que l'acquis ne sera pas perdu,
lorsque .du nouveau sera invente. A cette condition l'etre s'enri-
chira car son capital croitra. Et voici les questions que cela pose.
Quelles ressources la personne aura1t-elle en elle-meme et dans son
milieu, pour -reussir cet enrichissement? Que doit etre le de-
venir, pour qu'un tel developpement soit possible? Quel est enfln le
sens de celui-ci? Quel est son aboutissement?
Les ressources creatrices de la personne sont constituees par
.des facultes inten'tion.nelles tournees vers l'avenir pour le prevoir
et donner un sens, une direction au present, mais aussi suscepti-
bles de progres. Teiles seront les facultes sensibles, l'intelligence,
la volonte, qui permettent de concevoir, de se proposer, d'executer
des projets dans le monde de l'espace-temps. Teile sera l'organisa-

2 Philosophie Critique de l'fllistoire et « Sens de l'Histoire >, (Actes du


vr•- Congres des So~ietes de Philosophie de Langue Fran~aise, 1952, p. 7).
HISTOIRE ET METAPHYSIQUE 141

tion du corps comme pouvoir de motricite, pour se deplacer dans


cet espace et s'y orienter selon Ia configuration du sol et la na-
ture du terrain avec les possibilites de travail et d'habitation qu'il
offre et les rencontres qu'il permet. L'homme ainsi prend posi-
tion, se fait une situation dans un lieu, en fonction du milieu.
L'histoire est geographie humaine.
A cette faculte de prevision s'ajoutent la memoire et la for-
mation des diverses aotitudes ou talents, savoirs, savoir-faire. Les
uns et les autres retiennent le passe, pour l'empecher de disparai-
tre et pour l'utiliser en vue du.present. Le souvenir a pour but de
subvenir a. nos täches, d'y mieux pourvoir. Par leur organisation les
actes produits facilitent les suivants, en leur donnant plus de sii-
rete, de rapidite, plus de spontaneite et de reflexion, plus de presen-
ce et de liberte d'esprit, pour assurer notre vie.
Mais ce pouvoir de prevision, de prevoyance, et cette thesau-
risation par la memoire ou par l'epanouissement des « habitus >
supposent une nature determinee du temps. Pour qu'il y ait une
histoire et une suite, il est essentiel que le temps ait une va-
leur ontologique et soit de l'etre. II est une conception du temps
qui le pulverise en instants discontinus ou le dissout en elements
hostiles; elle en fait un neant. Pour elle, comme le passe n'est
plus et que l'avenir n'est pas encore, le present ne vaut guere
mieux, puisqu'etant de l'avenir, qui tombe dans le passe, il est
ce qui n'est pas encore et devient ce qui n'est plus. II n'a donc
pas de consistance et ses trois elements, en se devorant mutuel-
lement, rendent impossible toute conservation, toute creation, tou-
te croissance. Entre eux, il faul d'abord supprimer ce divorce, puis-
que le present, se retrouvant toujours identique a lui-meme, doit
necessairement ne point passer, pour que tout se passe en lui. II
comporte un acte interieur de synthese, qui se degage de }'ephe-
mere et l'apparente a l'eternel, en le constituant toujours present,
c'est-a-dire supratemporel et simultane a soi. II y a des lors en lui
le correlatif de ce qui est en nous memoire; il se prete a l'acte uni-
ficateur et conservateur de celle-ci, qui peut a son tour s'inserer en
lui. Comme le temps est historique par sa continuite, qui fait sa
tenue, la memoire peut l'etre comme lui et peut de plus etre histo-
rienne. La metaphysique s'insinue dans l'un et dans l'autre dans
la meme mesure que l'etre.
Voici qui confirme ces dires. Si Je present se determine par le
passe, il se determine aussi par l'avenir, car au jeu des causes ef-
fi.cientes se joint ceJui des causes finales. Puisqu'en vertu de Ja con-
tinuite du temps, tous ses moments sont solidaires, Je present garde
le passe en devan~ant l'avenir, vers lequel il s'elance; ce cöte pros-
142 ANDREA MABC S. 1.

pectif l'empeche de s'arreter a soi. Toutes les periodes du temps


restent avant toiit fonction du present, qui se grossit d'elles pour
.etre simultaneite totale. Ainsi dans le temps de l'histoire se mani-
feste l'eft'ort vers une simultaneite toujours plus pleine avec soi,
laquelle est une image de l'etemite. Pour la metaphysique de l'his-
toire le passe demeure et l'avenir s'anticipe; ainsi l'un et l'autre
s'integrent au present au nom de l'eternite, et luttent contre l'ac-
tion deletere du temps fugitif.
Or cette parfaite correspondance de la prevision, de la me-
moire et du temps dans leur rapport a l'eternel n'est possible que
dans l'Mre humain, esprit incarne sans doute, mais esprit quand
m~me. Parce· qu'il est intentionnel, le temps est pour lui le mi-
lieu d'epreuve de ~a liberte, qui est libre arbitre. 11 lui donne de
deliberer, puis de decider et de choisir. 11 est le champ de rencon-
tre entre le bien et le mal. Mais notre esprit est dans le temps
en s'en degageant lorsqu'il s'y engage, car il le domine. 11 le con-
tient plus qu'il n'y est contenu. L'etre spirituel est capable d'une
perspective historique sur soi: il est donc historien. S'il est dans
l'histoire, dont il est le connaisseur et l'auteur par sa conscience
et sa liberte, cette histoire est sa propre histoire et la connattre est
pour lui la condition de se connattre. 11 ne peut etre conscience
de soi sans Mre son propre historien, son autobiographe. Comme
Newman ecrivit l'Apologia pro vita 1U11, d'autres composent leurs
«Memoire.,». La prevision, la prevoyance, la memoire, le temps
sont les premieres ressources de l'homme historique, historien: ce
· ne sont pas les seules.
L'homme est dans le temps en etant dans l'espace, c'est-a-dire
dans le monde de la nature et la societe de ses seniblables. S'il
devient dans son ~tre personnel, il ne devient pas seul mais dans
tout l'univers et l'humanite. Outre sa liberte personnelle et ses
initiatives, les elements de l'histoire sont encore l'interaction de
l'homme et de la nature, l'interaction de l'homme et de l'homme.
Si le rapport de l'homme avec la nature constitue l'ordre economi-
que, le rapport de l'homme a l'homme constitue le politique: si le
politique et l'economique sont synthetises dans le social, l'histoire,
pour toute personne libre, fait partie de sa realite spirituelle, en
s'accomplissant aussi bien dans le macrocosme objectif que dans le
microcosme subjectif. La metaphysique de l'histoire. envisage l'hom-
me dans l'afflrmation totale de son ~tre interieur comme point
de convergence de toutes les f~rces cosmiques. Le politique ne peut
etre humain s'il n'implique pas l'economique et le politique est im-
plique par l'economique pleinement humain:. 11 f aut ajouter que
l'un et l'autre reclament le culturel et reciproquement. D'ou l'in-
HISTOIRE ET METAPHYSIQUE 143

vention d'institutions pour le fonctionnement du social; l'organi-


sation d'entreprises en vue de garantir l'avenir; des archives enfin,
des musees, des monuments et inscriptions, pour ne pas perdre le
passe. Tout cela est pour la societe ce que sont pour la personne par-
ticuliere les « Habitus » : ils en constituent la memoire et la pre-
vision, les aptitudes d'aclion, les organismes intentionnels de gou-
vemement, d'administration.
Le social n'est pas encore integralement constitue, car le rap-
port de l'homme a l'homme a pour caractere premier, dans la dis-
tinction des sexes,~ le rapport homme-femme, dont le mariage pro-
duit la famille. Due au sexe, la distinction de l'homme et de la
femme se lie au biologique et se fonde sur le rapport homme-nature.
Etablie sur l'amour, leur union eclaire, par cet amour, les rela-
tions des personnes humaines, pour qu'elles ne soient pas que des
relations de domination 18 • Entre deux personnes, le mariage ne
determine la relation d'epouse et d'epoux que pour constituer entre
elles et d'autres celle de parents et d'enfants, et entre ceux-ci celle
de fratemite, qui surmonte la distinction des sexes. S'ouvrant sur
une pluralite indefinie, eile precise l'ideal universel de l'humanite.
Par la se dessinent l'armature et l'axe de toute societe, pour que
s'accomplisse le passage du groupe familial au groupe ethnique et
national, et qu'aux rapports de justice et d'interM s'ajoutent ceux
de l'amour et du desinteressemeilt comme ressorts de l'histoire.
L'exploitation de la nature par l'homme ne doit pas viser a celle
de l'homme par l'homme, mais au contraire a la liberation de l'hom-
me dans la dignite, l'epanouissement de sa personne. Le but pri-
mordial n'est pas la production, la fabrication en serie d'objets d'u-
sage; il est la proliferation des consciences, la multiplication des
personnes par la famille, afin d'engendrer l'humanite veritable. A
l'opposition de contrariete, c'est-a-dire a la lutte du maitre et de
l'esclave doit se substituer la relation pure, c'est-a-dire la « reci-
procite des consciences ». L'histoire humaine est genealogie, pour
etre heritage, education, culture, tradition, testament des ancetres
a leurs descendants, comme si l'humanite ne voulait faire qu'un
seul homme, qu'une seule famille. Ideal trop souvent dementi par
les faits, mais qui les condamne sans appel, comme un contre-
sens. Dire que la dialectique du mattre et de l'esclave est une loi
de l'histoire, c'est constater un fait, ce n'est pas exprimer un droit.
Ce parallelisme de structure psychologique historique entre
la personne et la societe n'a rien que de normal, puisque l'histoire

s GASTON FEssARD, Le Mystere de la Societe; Le sens de l'Histoire, (Recher•


ches de &ience Religieuse, 1948).
.ANDREA MARC S. I.

d'une societe se joue par le moyen de ses membres. Dans l'un et


l'autre cas les voies du progres sont les memes; les memes aussi
les possibilites de sclerose. Faisons notres ici les observations de
Toynbee. Une civilisation nait par le passage d'une attitude sta-
tique a une attitude dynamique. L'homme fait face a l'epreuve,
au probleme, a la difficulte; ils constituent des defis stimulants, qui
provoquent sa riposte. Ce defi peut venir du milieu physique, de
Ia rudesse du climat; la facilite nuit et endort. Les signes de
croissance sont que Ie champ d'action passe de l'exterieur a l'in-
terieur et que la societe affronte un defi plus moral que physique;
elle progresse vers l'autodetermination et l'autoarticulation indivi-
du-societe. Cela par une renovation continuelle et par l'influence
de personnalites ou d'elites, qui restent la minorite. Les veritables
elites sont les minorites creatrices, qui seduisent; elles entratnent
par la vertu du mimetisme et de la docilite des masses., Ce ne sont
pas les minörites dominantes, qui contraignent, exploitent, recou-
rent au meurtre. Le peril est la perte de cette autodetermination,
l'asservissement au milieu, aux institutions qui se figent dans la
routine, le mecanisme. Tout est une affaire de tension entre l'au-
tomatisme et la spontaneite.
Cette loi du risque calcule, de la decouverte et de l'invention
perpetuelles, est deja celle de la personne, qui doit tirer beaucoup
de peu, quelque chose de rien. Qui ne risque rien n'a rien. Elle n'est
apte a l'action que si elle forme en son esprit des arts, des scien-
ces, des talents professionnels, et dans sa volonte les vertus de pru-
dence, de justice, de force, de temperance, autour desquelles gra-
vitent les autres. Ainsi eile se mattrise, s'ajuste a son milieu, se for-
tifie contre les obstacles, s'aguerrit contre le danger, complete l'une
par l'autre la prudence et l'audace, que soutient l'esperance. Ainsi
eile enracine en eile l'optimisme de la difflculte, de la vraie difflculte.
Au lieu de tomber dans la facilite de la routine machinale et de la
repetition, elle est toujours renouvellement, acquisition. Pour au-
tant qu'elle doit etre progres, la loi de l'histoire personnelle et ·so-
ciale reste l'entrain a l'effort, l'initiative dans l'activite. Si la mar-
che a l'avenir requiert l'utilisation de l'acquis et du passe, le rythme
de l'histoire est l'harmonie de deux mouvements, l'un majeur, qui
est irreversible, l'autre, mineur, qui se repete. Une roue n'avance
qu'en tournant sur elle-meme, mais en s'appuyant sur le sol.
Un contraste se dessine entre l'etre historique et l'etre histori~n,
puisque leur orientation est de sens inverse. L'histoire-science regar-
de le passe fixe dans ses determinations, afin de le ressusciter de sa
tombe grace a la memoire, aux archives, aux documents. Ou qu'ils
soient conserves, sur la pierre ou sur le parchemin, ces documents
HISTOIBE ET METAPHYSIQUE HS

sont de nature perissable a plus ou moins longue echeance. La me-


moire ne depasse pas aisement ni de beaucoup la sphere de la cons-
cience personnelle. Au contraire l'histoire-realite se tourne vers l'a-
venir toujours indecis, et malgre le proverbe: Un Tiens vaut mieux
que deux Tu l'auras, eile joue le present reel pour l'avenir qui ne l'est
pas. Cela cache vraiment un mystere quant a l'intelligence et quant
au sens de l'histoire, et quant a la valeur meme de l'histoire-science,
pour le determiner.
Marrou objecte a Toynbee l'impossibilite technique de penser
la totalite de l'histoire universelle. Or un jugement sur le sens .de
l'histoire « postulerait une connaissance vraie de l'histoire univer-
selle, de l'histoire totale, car c'est tout le passe de l'humanite qui
aboutit a mon present, qui explique toute mon histoire. Il faut se
demander si « sur le plan rationnel, une teile connaissance est
compatible avec la structure et les limites de la condition humai-
ne >. Or si cela vaut de l'histoire-science du passe, a plus forte
raison de l'histoire realisatrice du present en fonction de l'avenir,
qui n'est pas. Soumis au temps, remontant dans le paSße jour apres
jour, accumulant les documents les uns apres les aut-res, notre savoir
est condamne a un progres indefini, qui ne pourra jamais conclure,
parce qu'il ne pourra jamais comprendre tout le passe, c'est-a-dire le
prendre d'une seule vue simultanee. Il est encore plus incapable
de comprendre l'avenir et de le prendre d'un seul regard, puis-
qu'il ne peut le prevoir avec certitude. Et Marrou d'afflrmer: « la
notion d'un sens de l'histoire n'est pas une idee philosophique >"
car son origine est dans la theologie chretienne.
L'homme, qui est homme de science, et, dans le cas, de scien-
ce historienne, est encore homme d'action, qui reflechit son action;
il est_ par la philosophe, s'il la reflechit dans ses tout premiers prin-
cipes de l'agir. Procedons donc en philosophe par une autre metho-
de que l'historien. Les premieres pages de ce travail nous en four-
nissent le moyen, sans qu'il faille remonter ou descendre le cours
des Ages, pour penser la totalite de l'histoire universelle, dans sa
signiflcation essentielle. Si le theologien a le dernier mot, le :phi-
losophe cependant doit apssi dire le sien.
L'homme historique n'a pas seulement a decider de sa posi-
tion dans ce monde en face de ses semblables et l'historien ne borne
pas a cela son recit. Ce n'est en nous que l'exterieur. Or en chacun
de nous n'y a-t-il pas un interieur, une conscience, qui est, au fond,
le lieu veritable de l'histoire personnelle, que seule .peut connattre
la personne singuliere? N'est-ce pas de ce centre secret que jaillis-

, MARROU, art. cit., pp. 8-9. - Voir Esprit, Juillet 1952, p. 121.
1O- Stadt ftlo,oftct
1'6 ANDREA MARC S. J.

sent les decisions, qui se manifestent dans l'histoire exterieure?


Dans cet interieur de sa conscience, l'homme n'est-il en face que
du monde et que de ses semblables?
Berdiaeff remarque, (p. 22), et il n'est pas le seul, que dans la
suite des evenements, les facteurs economiques, tout en jouant un
1"6le tres important, n'empechent pas que les forces materielles, qui
s'exercent au cours de l'histoire, reposent elles-mames sur une b~se
spirituelle. Assurement toute la vie economique humaine possMe
un fond spirituel. Que suit-il de la pour l'intelligence de la notion
d'histoire?
Pour qui comprend la personne humaine co!Jlme une fln en
soi, il est impossible, sinon contradictoire, de comprendre son bis•
toire uniquement en fonction du temps, de l'economique, du po-
litique, du national et -du familial; bref ! en fonction de ses rela-
tions avee la nature et avec les autres hommes. Le fait crucial de
la mort est la ! Si l'homme meurt tout entier, il n'y a pas de mo-
tif de proclamer chaque atre humain une fln en soi. Qu'a-t-il d'ab-
solu, pu!squ'il passe et cesse? En quoi se differencie-t-il du simple
animal? Son histoire devra se considerer comme celle de celui-ci
et ce qui se dit de chaque atre devra se redire de chaque genera-
tion. Aucune personne, aucune generation ne sera une fln en soi,
mais toutes s'envisageront comme des moyens pour la construction,
clans l'avenir, d'une generation bienheureuse, qui nous est etran-
gere, inconnue. Le sens de l'histoire et la solution du destin ne
sont plus que dans le passage d'une epoque a une autre a travers
le temps. Cela reserve a la tombe, a la mort, une masse enorme de
generations et de vies malheureuses et douloureuses (Berdiaeff,
p. 171). C'est comme une religion de mort et non de resurrection,
<Jui n'apporte aucune prol_!!esse pour tous les vivants. c II n'y a au-
cune raison d'accorder toutes les preferences a la gener;llion qui
apparattra un jour au sommet, de lui reserver le bonheur et la fe-
licite au prix du sacrifice de celles qui l'auront precedee et qui au-
ront vecu au milieu des souffrances des douleurs 'et des imperfec-
tions. Notre conscience se refuse a accepter de tels faits:. (p. 171).
La contradiction d'une teile doctrine la r~nd moralement inadmis-
sible. Cette generation, qui apparattrait au sommet, · reste mortelle
comme les autres et ne paraitra que pour disparattre, pour en ap-
peler d'autres apres eile. Ne travailler jamais que pour ce qui sera
demain, n'esl-ce pas travailler toujours pour ce qui ne sera, n'est
jamais aujourd'hui? Travailler pour ce qui doit Mre, c'est au ·rond
travailler pour ce qui est deja quelque part.
Au contraire ·si la personne transcende le temps, ou eile s'en-
gage, tout va changer. II est, tout d'abord, comprehensible qu'elle soit
HISTOIRE ET METAPHYSIQUE 147

une fin en soi, puisqu'elle n'est pas mortelle tout entiere; elle ne
l'est que dans son corps, pas dans son äme. Tout pour eile n'est
pas ici-bas dans le temps, mais le meilleur est ailleurs. « Que l'hom-
me subisse l'inßuence du milieu, rien n'est plus certain, mais cet-
te inßuence ne s'exerce que sur des destinees secondaires, qui se
deroulent dans notre monde » (p. 65).
II y a plus encore. Lorsque l'homme s'analyse dans son Mre et
son agir, a la lumiere de l'etre comme tel, il se reconnatt en face
de Dieu, son origine et sa fln. D'ou l'importance des theses, qui ti-
rent de l'.etre et de 1:agir humain, l'idee de Dieu d'abord, puis l'af-
firmation de son existence, comme eternel present, et qui, a la suite
de cette mise en presence de l'homme et de Dieu, etudient l'evolu-
tion du desir humain, entre autres celle du desir d'entrer dans
I'absolu de l'acte createur, selon les modernes, ou, selon les me-
dievaux, du desir de voir Dieu. Elles concluent finalement que sa
realisation est liee a l'hypothese d'une eventuelle et libre inter-
ventiön de Dieu dans l'histoire et dans l'humanite. Cela ne peut
etre absurde ni en contradiction avec l'idee d'histoire humaine.
A partir de ce moment la conception de l'histoire et de son
sens, ainsi que celle de notre destinee, sont renouvelees deflnitive-
ment. Le contraste du· fini et de l'inflni, qui travaille l'esprit hu-
main, tout au long de son histoire, revele toute son importance.
Mais si l'humanite doit Mre dans l'attente d'un passage even-
tuel de Dieu, il faut ajouter que ce sens de l'histoire est une enig-
me, un mystere et comme le mystere des mysteres. Dieu n'est-il pas
bien au-dehors et au-dela de l'histoire dans son eternite? S'il pa-
rait dans l'histoire et le temps, s'y mele, comment restera-t-il l'e-
ternel, le transcendant? Comment ne deviendra-t-il pas le tempo-
rel, le temporaire? S'il passe parmi nous ne devra-t-il pas, d'une
facon ou d'une autre, s'humaniser? Ne cessera-t-il pas d'etre ce
qu'Il est pour devenir ce que nous sommes? Voila justement le mys-
tere et c'est le röle du philosophe que de le situer tationnellement
comme une eventualite, une nouveaute hypothetiques sans aucun
precedent, qu'il ne peut preciser davantage. Le sens de l'histoire
et le destin de l'homme sont la presence du inonde a Dieu dans
l'attente d'une presence de Dieu dans le inonde. L'histoire n'est
pas purement profane, puisqu'elle porte en eile, avec l'obbligatiori
d'etre morale, meme religieuse par son attente, la possibilite de
devenir « sainte » et divine. Au milieu des ruines et des cadavres,
parmi lesquels eile avance et sur lesquels eile n'edifle que des cho-
ses mortelles, ( ce qui, pour Grousset, fait d'elle un cauchemar),
c'est la seule lueur d'esperance ! Encore faut-il soigneusement no-
ter que cette lueur est faible et cette esp~rance incertaine aux yeux ·
148 ANDREA MARC S. I.

de la seule raison. Le Bulletin Tlwmiste, qui est ici resume et qui


rend compte de tous les debats sur la question, l'affirme nettement:
une telle esperance n'est fondee sur aucun droit de notre part, ni
sur aucune exigence legitime, elle n'est realisable que par une ini-
tiative divine entierement libre et gratuite 111• En face du destin,
Grousset ob·serve (p. 155) que le primitif a l'impression d'une me-
nace diffuse.
A toutes ces incertitudes et a ces inconnues le Christianisme
repond par le fait de l'lncarnation, qui nous livre, dans le Christ,
une personne divine en. deux natures, l'une divine et l'autre hu-
maine. Mais la solution du probleme est un mystere, au sens pre-
cis du mot 6 • C'est quelque chose d'humain, qui se voit, donc est
· accessible a nos sens, mais est charge par Dieu d'une presence et
d'une signification divines. En meme temps que quelque chose de
cache, il est une manifestation du dessein de Dieu sur le monde.
Ce caractere de mystere ne l'empeche donc pas d'etre une solution
aux· questions, dans la mesure meme ou il est un fait. Qu'il soit
permis au philosophe de se mettre au service du theologien et
d'appliguer a ce cas les considerations precedentes sur l'histoire 1
Pour la societe les voies du progres sont dans une riposte au
defi, surtout lorsqu'elle affronte un defi plus moral que physique,
afin de progresser dans l'autodetermination spirituelle et l'autoar-
ticulation personne-societe. Or jamais comme avec le Christ n'a
ete affronte un defi plus exclusivement moral et spirituel. De Lui-
meme il ne change rien a la nature du politique, de l'economique,
du social et du familial; ll nous laisse le soin de les ameliorer.
Mais ll renverse le courant de l'histoire le plus malfaisant dans
le politique et l'economique: celui de l'exploitation de l'homme par
l'homme, de la dialectique du ma1tre et de l'esclave, du recours a
la violence et au meurtre. ll revele la dignite, la valeur absolue de
l'etre humain, quel qu'il soit, aux yeux de Dieu. ll revele l'amour
primordial de Dieu pour_ tous les hommes et toutes les generations
sans exception, au point qu'Il veut eire notre pere et faire de nous
tous ses enfants. ll elargit le familial, en brise les particularismes,
pour constituer l'humanite toute entiere, si elle y consent, en une
f amille unique par les rapports de fratemite divine, ou tous se
partagent les memes biens pour y communier, sans les morceler.
A ce niveau les differences et les querelles du mattre et de l'esclave
sont surmontees. Tous sont egaux dans une meme filiation divine

Bulletin Thomiste, 1932, pp. 661-676 et 1936, pp. 673-690'.


11
a A. Pd, o. p., Pour une Mystique des Mysteres, (La Vie Spirituelle, Sup-
plement, Novembre, 1962, pp. 386-386).
HISTOIRE ET METAPHYSIQUE 149

adoptive. Sans doute II maintient le mariage, en tant que source


du familial, et par consequent la distinction de l'homme et de la
femme; mais II lui donne un sens nouveau. En face d'Adam et
d'Eve, maries et parents, voici Jesus et Marie, le fils et la mere,
vierges tous les deux. De ce fait la virginite prend une valeur et
un role ·historiques. En effet le progres ·dans l'histoire est l'oeuvre
de persönnalites creatrices, qui restent une minorite, mais sedui-
sent par la puissance du mimetisme et par la docilite des masses.
C'est vrai dans le cas du Christ comme nulle part ailleurs. II ap-
pelle leJ; hommes a sa ·suite pour L'imiter. Par la persuasion de
son exemple et la contagion de son amour. Et pour que son appel
retentisse a travers les siecles, au-dela du lieu et de l'epoque ou
II vit, II etablit une institution, l'Eglise, organisme de propagation
de la foi, ainsi que de l'administration et de la dispensation de la
vie surnaturelle. II l'oriente vers l'avenir terrestre des generations,
mais en visant des ici-bas l'avenir eternel. II donne en ~lus un sens
net a la mort comme ouverture sur une survie future, mais sans
permettre pour autant de nous desinteresser des taches terrestres.
Le sacriflce du Calvaire prepare la Resurrection, qui triomphe a
jamais de la mort. Le Christ est pleinement engage dans notre his-
toire. Bien qu'II paraisse n'y avoir que passe comme les autres,
puisqu'II est mort, ressuscite, monte au ciel, II y est demeure mys-
terieusement gräce a son Eglise, puisqu'II lui a promis d'~tre avec
eile jusqu'a la consommation des siecles. Lui, qui est l'eternel, II a
le sens du temps et de la patience 7 , c'est-a-dire de l'histoire. II n'en
dechire pas la trame; II en epouse les faiblesses et les lenteurs; II
s'y insere silencieusement dans un milieu ouvrier, selon toutes ses
conditions d'espace et de temps. II s'y est revele, II s'y revele encore
par une suite d'approches insensibles. Aussi en est-II le centre. Et
si la civilisation, par ses ameliorations techniques, marque un ecart
entre le progres des connaissances scientifiques et la moralite
(Grousset, p. 108), II a pour intention que cet ecart soit supprime.
Nous pouvons donc admettre les jugements suivants de Ber-
diaetr. « Le sens de la genese et du sort de l'homme ne se revele
que si l'on admet des rapports reciproques entre Dieu et lui,
entre Dieu et le monde. C'est l'homme, en verite, qui se trou-
ve au centre du monde, et c'est par lui et pour lui que le
destin du monde est determine » (p. 47). Nous ne pouvons par-
ler « de destinees humaines qu'a la condition. de reconnattre que
l'homme est un enfant de Dieu, non du monde » (pag. 64). Le temps

., LB Gu1LLOU, o. p, Le Sens du temßs et de la Patience, (Vie Spirituellt1,


1953, pp. 29 sq.).
150 ANDREA MARC S, I,

ne vaut que pour la rencontre de l'homme et de Dieu. L'histoire sup-


pose une liberte capable de s'accomplir et d'aboutir, donc une esca-
tologie, une marche de l'humanite vers un but final. Dönc toute phi-
losophie moniste est antihistorique par le fait qu'elle nie la dualite
de l'homme et de Dieu (pp. 38, 94, 209).
Teiles etant maintenant les bases essentielles a la notion d'his-
toire, il est possible d'etablir certaines categories de cette histoire.
La premiere rem-arque est l'importance historique du peuple juif et
l'opposition du juif et du paien en face du chretien, tout en notant
que l'opposition du juif et du paien n'exclut pas toute interference
entre eux. Sur ce point il faul tenir compte du Pere Fessard.
Le peuple juif est sorti d'un milieu ethnique monotheiste et
son Dieu, a }'inverse de ceux de tant d'autres nations, est jaloux,
c'est dire qu'il ne se prete a aucun syncretisme. L'importance histo-
rique de l'ancien Israel tient a ce que pour lui le processus histori-
que etait associe a l'idee de messianisme. Ses regards etaient tou-
. jours tournes vers l'avenir dans l'attente d'un evenement decisif
pour sa destinee. Or la philosophie de l'histoire est inseparable
de l'escatologie sans laquelle il est impossible d'apprehender l'idee
d'un mouvement, qui tend a un aboutissement (Berdiaeff, pp. 33,
35). Sous ce point de vue Israel est a l'oppose des Grecs, qui perce-
vaient le cosmos comme un monde acheve; ils n'y voyaient ni fin
ni commencement, mais un mouvement circulaire, un retour eter-
nel des memes choses et des memes evenements. Comme ils ne con-
naissaient pas la liberte a proprement parler, leur philosophie et
leur religion montrent, avant tout, la resignation devant le destin
(pp. 32-34). Un jugement pareil est a porter sur la pensee hindoue.
Elle ignore l'histoire veritable et n'y voit qu'un enchainement ex-
terieur des phenomenes, depourvu de sens interne, et sans plan in-
terieur. Si eile admet dans la vie spirituelle la revelation d'un uni-
vers superieur et divin, Dieu est pour eile immanent et sa presence
se manifeste dans les profondeurs les plus cachees de la conscience,
par des moyens qui n'ont rien a voir avec une destinee historique.
Cela porte plus a une contemplation interieure opposee a une exis-
tence spirituelle dans l'histdire exterieure (pp. 35, 73, 76).
Ces deux categories historiques du juif et du paien representent
en face du devenir chretien les deux attitudes possibles de l'homme.
N'est-il pas « toujours divise entre le besoin d'incarner l'absolu dans
le s·ensible - besoin qui fait le paien idolatre - et l'exigence, es-
sentielle a la raison, de transcender tout donne, - exigence qui fait
le juif incredule et rejete » 8 • Attitudes existentielles, exigences qui

s GASTON FESSARD, Theologie et Histoire, (Dieu l'ivant, 8, p. 52).


HISTOIBE ET METAPHYSIQUE 151

ne soJ).t pas relatives a une epoque, mais transcendent le temps. En


les reconciliant toutes les deux, en satisfaisant a l'une et a l'autre
dans l'Incarnation du Christ, le Christianisme, qui ecarte l'ido-
latrie, realise ce qu'avaient pressenti les Juifs et permet une vraie
metaphysique de l'histoire.
11 introduit en effet l'idee de la non-repetition absolue et de l'in-
dividualite absolue des phenomenes, laquelle etait inaccessible au
monde paien (Berdiaeff, p. 36). Pour lui un fait unique, exception-
nel, le Christ est au centre du processus cosmique et il est a la fois
historique et metaphysique, etant l'il:.tre parmi les Mres. 11 donne a
l'histoire et au lemps la valeur ontologique authentique, en les in-
tegrant dans l'eternite; il fait d'eux le drame de la rencontre de
l'homme et de Dieu. « Le Christianisme proclame l'irreductibilite
de la nature spirituelle de l'homme, l'impossibilite de la deduire
d'une ambiance inferieure, non humaine, et il lui assigne des origi-
nes divines, se trouvant ainsi en contradiction avec la conception
evolutionniste et naturaliste de l'homme, qui voit dans celui-ci un
enfant du siecle > (p. 107). Pour la premiere fois il pose le theme
de la personne humaine et se preoccupe de son eternelle destinee,
etrangere aux juifs comme aux paiens; il affirme la vraie liberte,
qui ne se resigne pas devant le sort; il n'admet point l'existence d'un
invincible fatum (pp. 35, 94,215). 11 revele que pour Dieu le per-
fectionnement de l'homme ne resulte pas d'un processus de neces-
site. Le secret de tout, c'est la revelation de Dieu a l'homme et
de l'honime a Dieu, lequel attend de nous des creations audacieuse-
ment libres, a la nostalgie de l'homme, dont il a voulu Je libre
amour (pp. 65, 184, 50).
Et voici le drame juif. Peuple particulierement historique; spe-
cialement adapte au sens de l'histoire du fait de son esperance mes-
sianique, il est comme le noeud des destinees de l'humanite toute
entiere. Son röte etait de reveler Dieu dans l'histoire, en L'attendant
d'abord, en L'accueillant ensuite, en Le reconnaissant (p. 74). Or
lui, qui devait recevoir le Messie dans l'histoire, il L'a refuse. Com-
ment cela s'est-il produit?
L'erreur juive fuf d'identifier le Dieu, createur unique, avec
les destinees d'Israel. Comme si ce Dieu, jaloux des autres dieux,
n'etait que pour une seule nation ! Pour Israel son Dieu etait trans-
cendant sans doute, situe a une auteur infinie; mais ce qui comptait
dans l'humanite, c'etait moins l'individu singulier que le peuple.
La pensee juive, tout d'abord ne se preoccupe point de l'immortali-
te de l'äme et n'adopte que tardivement l'immortalite personnelle,
regardee comme un privilege exclusif de Dieu. Si donc les Juifs de-
siraient passionnement la justice, ils la desiraient dans les destinees
152 ANDREA MARC S. 1.

terrestres et le royaume de Dieu ne pouvait a leurs yeux se realiser


que dans ce monde. Par son aspiration a la justice, le JÜ.daisme im-
pliquait un principe religieux; mais il impliquait une opposition a
Dieu, comme a une vie immortelle, en bornant cette aspiration a la
justice sur terre ... En attendant le vrai Messie, Fils de Dieu, il at-
tendait le faux messie oppose au Christ; il a donc repudie le pre-
mier (pp. 77-78). Avec une exigence authentique de la fin de toute
l'histoire, la religion juive comportait une pretention fausse, parce
que nationale et terrestre. C'etait la une manifestation de l'arbitrai-
re humain, qui ramenait a ses proportions les vues de Di~u. Ce vieux
theme semite devient le point de depart d'une ere nouvelle (p. 91).
dont le Christ reste le centre.
· La mise a mort du Christ a ete suivie de sa Resurrection, de
son Ascension. Apres etre apparu dans l'histoire, II en est sorti par
sa mort et par son Ascension. Par sa Resurrection, II n'y est donc
pas visiblement rentre comme durant sa vie. II y reste invisible par
son Esprit Saint. Et voici les l~ns de ces episodes. Si en s'incar-
nant, Jesus a reussi en Lui la synthese du temps et de l'etemite, du
fini et de l'infini; son but ne fut pas precisement d'enclore l'eter-
nite dans l'histoire, mais de ramener l'histoire dans l'etemite, qu'elle
prepare, pour s'y achever. L'epoque de sa venue parmi nous l'ap-
prend. Elle se produil au moment oll dans le monde prechretien,
juif ou paien, des experiences, comme celle de la mort de Socrate,
servent pour Platon de point de depart a l'orientation vers un uni-
vers superieur, Oll les destinees humaines flniront par trouver leur
solution. La pensee en vient a s'interesser a ce qu'il y a de profon-
dement personnel en chacun de nous, pour l'expliquer par des f ac-
teurs qui depassent l'ici-bas. La verite chretienne se manifeste au
moment ou la vieille religiosite nationale commence a s'ebranler, oll
l'esprit humain se preoccupe du sort de l'individu, puisqu'il n'a
trouve sa solution ni dans le monde de l' Ancien Testament ni dans
celui du paganisme (p. 87). Alors que chez les Juifs Ja conscience
messianique est ecartelee par un tiraillement entre le messianisme
national et le messianisme universel, les temps sont mdrs pour le
Christianisme, qui doit ~tre dans l'histoire le sens des patiences et de
la douceur de Dieu, non de ses violences.
Quant aux jugements a porter sur l'histoire, voici les principes
directeurs, qui se degagent maintenant. Toute philosophie de l'his-
toire est obligaloirement escatologique et messianique; il est im-
possible de penser dans l'histoire et le temps la fln de l'histoire et
du temps (pp. 209, 214). L'histoire ne peut aboutir qu'au-dela de
ses limites. En eile rien de deflnitif ne peut se rencontrer et ses de-
boires montrent que la vocation de l'homme est d'ordre metahisto-


HISTOIRE ET METAPHYSIQUE 153

rique (pp. 164, 165, 172, 178, 187). De la le sens et la necessite de la


mort. L'histoire tend a un monde au-dela d'elle, monde qui presen-
tement a une realite surtout interieure et cachee dans les coeurs;
l'avenement d'un etat absolu n'est possihle qu'en dehors des bomes
de l'histoire, dont les echecs ne prouvent pas le non-sens (p. 182).
Dans l'histoire il n'y a pas de classe ni de generation privilegiee; cha-
que classe et chaque personne, chaque generation est une fin en soi.
Tous Ies Ages de l'humanite~ tout etre humain cherche a se rappro-
cher du divin comme a nouer des .rapports avec l'absolu. Si nous
sommes travailles par un desir de transfiguration organique et spi-
rituelle, bien que mecanique et technique, de la vie, seule la reli-
gion peut et doit accomplir cette transformation ontologique (pp.
175, 204). Les deux voies inegales de l'histoire humaine sont la sou-
mission au divin ou au mal. La liberte du mal a existe des le debut
du grand processus historique, et si le mal n'avait pas ete possible,
Je monde eflt commence par la fln, non par le commencement, car
il aurait ete des l'abord sous le regne de Dieu parfait (pp. 163-164,
34). II est impossible de mattriser dans l'histoire terrestre le princi-
pe obscur, irrationnel, car en eile le mal, la souffrance, l'imperfec-
tion sont inevitables. Le sens de l'histoire est le conflit du bien et
du mal; parce qu'elle est travaillee par des forces chretiennes posi-
tives et des elements negatifs non-chretiens, qui constituent la lutte
du Christ et de l' Antechrist.
En fonction de ces reflexions, Berdiaeff propose des jugements
de valeur sur les periodes de l'histoire. D'abord la survivance eton-
nante dÜ peuple juif, laquelle s'oppose a la conception materialiste
de l'histoire. D'apres celle-ci il aurait dfl disparaitre depuis long-
temps, si son existence n'etit ete que le produit de facteurs positifs.
Sa destinee a une base distincte et mystique. Incapable d'humilite
devant la providence, il reste tourmente; il est le partisan de l'idee
que l'histoire est l'exploitation de l'homme par l'homme (pp. 72-73,
83, 85.). Sa crucifixion du Christ a fait de lui le peuple crucifie.
Le christianisme a pour principe que l'histoire ne doit pas etre
cette exploitation. Si pour lui le politique a pour apparence la dis-
tinction du maitre et du serviteur, tout pouvoir a pour but d'assu-
rer la vraie liberte des travailleurs ou des sujets. Si l'economique
vise apparemment la production pour la satisfaction des besoins,
plus profondement il doit orienter cette production vers la liberte
spirituelle de tous. Dans ce sens sont dirige~ les rapports de l'homme
avec l'homme.
Quant aux rapports homme-nature, ce meme christianisme fait
cesser ·1a domination elementaire de la ·nature sur l'homme rendu
conscient de ses origines divines et libere de ses origines animales
ANDREA MARC S, 1,

(p. 97). L'homme descend dans sa vie interieure pour y lutter; du


particularisme juif ou paien il monte avec le Moyen Age a un con-
cept universaliste de l'humanite. L'idee germe d'une histoire uni-
verselle, inconnue de l'antiquite (pp. 101, 103). A la periode ou
l'homme se rattache organiquement a la nature, parce qu'il est ani-
miste (paganisme), succede le christianisme, qui est une lutte de
l'esprit contre ces forces de la nature. Une troisieme vient avec le
passage du l\Joyen Age aux temps modernes, lequel est un passage
du divin a l'humain. La Renaissance n'est plus une communion avec
la nature, ni une lutte contre eile, mais une transformation de cette
nature en instrument de fins humaines (pp. 129, 130). L'homme la
mecanise par ses techniques. Or la periode chretienne de l'histoire
a rendu possible cette mecanisation, en nous affranchissant de tou-
te demonolatrie et de l'idee que la nature etait comme un organis-
me vivant. L'anthropocentrisme devient possible grace a la mat-
trise technique de l'homme, qui se voit le centre du monde.
Mais l'intervention du machinisme bouleverse la vie humaine,
car eo la liberant sous un aspect, il l'asservit sous un autre. L'hom-
me s'est vu desarticule jusque dans l'art. Un individualisme, qui
ne se soumet a rien, ebranle et perd l'individualite; l'humanisme
devient antihumaniste (pp. 131, 133, 135). Pour Nietzsche l'humanis-
me est un obstacle au surhumain, tandis que pour Marx l'homme
est un instrument au service du collectif. D'ou la disparition de la
personne. Or ce collectivisme socialiste est d'origine juive, en tant
qu'il r~ve un paradis terrestre, non a l'aide du Messie, mais grace
a une classe messianique: le proletariat (p. 85). D'ou la contradic-
tion avec la vie eternelle.
Rien en tout cela qui ne souligne la formation d'un processus
a l'inverse de celui qui est au point de depart de l'histoire moderne;
c'est une reaction contre les tendances auxquelles l'humanite est
redevable de sa liberte; c'est une entree dans·une periode nocturne
(pp. 150-151, 159). Plus que jamais le christianisme garde son röle
de reveler Dieu dans l'histoire. Moins que jamais la religion ne peut
~tre un element partiel de la vie, refoule dans un coin cache. « Elle
doit operer cette transformation ontologique et reelle de la vie que
la culture n'atteint que symboliquement et la civilisation par des
moyens techniques > (p. 204). Par eile seule, les rapports homme-
nature cesseront d'~tre fausses et l'homme se reconciliera avec
l'homme comme avec la i:iature, car il se reconciliera avec Dieu .. Le
surhumain ne sombrera pas dans l'inhumain, mais sauvera l'hu-
main.
Aux aper~us de Berdiaeff, joignons, pour conclure, ceux de
Grousset et de Toynbee. Puisqu'il n'est de progres dans l'histoire
HISTOIRE ET METAPHYSIQUE 155

de la civilisation, que par la riposte a un defi stimulant sur le plan


moral, et que grace a des personnalites creatrices, entrainantes, il
n'est dans l'histoire qu'une seule personnalite vraiment creatrice,
divinement originale, redemptrice: Notre Seigneur Jesus Christ.
Seul II vaut la peine d'~tre imite. II n'est pas de plus decisive riposte
que la sienne a un plus grave defi ! Le plus grand risque et la plus
certaine esperance, le plus beau danger et la plus tranquille assu-
rance, la plus grande sagesse et la plus magnanime audace sont
avec Lui ! II e~t l'unique sauveur, car personne n'a comme Lui l'in-
telligence de la mort et de la vie, de l'ideal et du reel. Porte dans
l'histoire, scelle par sa mort et sa resurrection, son jugement sur
le monde est definitif. Bourdaloue et Bossuet y voient le jugement
dernier deja proclame, bien que son execution solennelle soit encore
en sursis.
PARTE SECONDA.

Problemi gnoseologici di Cosmologia


I.

R. P. BEDA THUM 0. S. B.
PROPESSOBE NEL PONTIFICIO ATENEO ANSELMIANUM
E NELL'.UNIVEBSITA DI SALZBURG (AUSTRIA)

DIE METHODE DER KOSMOLOGIE.

Die Teile der aristotelischen und mittelalterlichen Physik, die


sich bis heute bewahrt haben und die den Kern unserer neuscholas-
tischen Traktate ausmachen, bestehen aus Darlegungen und Resul-
taten von Untersuchungen, die ihrem Objekt nach ontologisch und
ihrer Methode nach analytisch sind. Von den wenigen Thesen vers-
chiedenen, etwa wesenswissenschaftlichen oder induktiven Charak-
ters darf wohl behauptet werden, das ihnen eine sekundäre und un-
tergeordnete Bedeutung zukommt. Sie stehen an Tiefe und Ein-
dringungskraft hinter den analytischen Aufstellungen zurück
und haben entweder die Rolle vorbereitender Klarstellungen oder
die Aufgabe die analytischen Hauptthesen durch Nebenbetrachtun-
gen zu bekräftigen und in engere Beziehung mit der Erfahrung zu
bringen.
Die naturphilosophische Analytik hat ihren besonderen Cha-
rakter, bezüglich dessen man bei der Lektüre neuerer Werke und
Studien den Eindruck gewinnt er sei nicht immer mit Bestimmtheit
und Klarheit erfasst. Man wird sagen müssen, dass viele Neuscholas-
tiker nicht dazu gelangt sind sich des methodischen Grundgedan-
kens so zu versichern, dass die kosmologische Analyse in ihren Hän-
den ein Instrument lebendigen Forschens hätte werden können, das
es ihnen ermöglicht hätte auch neue Probleme im Sinn und Geist der
alten Naturphilosophie aufzugreifen. Bei N. Hartmann, der unter
den modernen, nicht-scholastischen Denkern die Idee der Seinsana-
lytik am energischsten wieder aufgenommen hat, gleitet sie nur all-
zuoft in eine .Umschreibung wissenschaftlicher Konzeptionen oder
phänomenologischer Befunde ab. Im ersten Teil dieser Relation soll
darum versucht werden die Natur, die Voraussetzungen und Mög-
lichkeiten der analytischen Kosmologie etwas ausfürlicher als ge-
wöhnlich zu untersuchen.
Analytik heisst Prinzipienerforschung, in unserem Falle also
Ermittlung der Prinzipien, auf denen die Gegebenheiten der sichtba-
160 P, BEDA THUM 0, S. B.

ren Aussenwelt beruhen. Die blosse Zielangabe bietet noch keinen


bestimmten Hinweis bezüglich des Wegs, auf dem diese Prinzipien-
erfassung gewonnen werden soll. Man kann zunächst sowohl an
ein interpretatives Verfahren, als an eine Art von Schau der Prinzi-
pien in den Gegebenheiten oder an bestimmte Weisen des Schluss-
folgerns denken. Die Voraussetzungen für eine Entscheidung zwi-
schen diesen Möglichkeiten gewinnen wir erst durch eine Besinnung
auf den Ursprung der Frage nach den Prinzipien und auf die Aus-
gangspunkte und Motive unseres Hinausschreitens über das Feld
der unmittelbar offenliegenden Daten. Für das naturphilosophische
Denken besteht der entscheidende Schritt in der Gewinnung des
Ausblicks auf das Natursein d. h. der Erkenntniseinstellung, in der
wir das empirisch Vorliegende als Kundwerdung und Darstellung
von in sich stehenden, die Formen, das Werden und Vergehen der
Erscheinungen begründenden Seinsheiten denken. Das Gegebene als
Natur auffassen heisst Prinzipien ansetzen, die - wenigstens in der
Linie einer bestimmten Begründungsordnung - von sich aus hin-
reichend sind die Erscheinungen zu tragen und zu determinieren.
Das Gegebene ·wird verankert in einem Sein, das unter seinem W ech-
sel beharrt und in ihm die Gesetze seines Wesens, seine Vermögen
und Möglichkeiten zum Ausdruck bringt, das mit seiner ( relativen)
Autonomie und Begründungsfähigkeit den Seinscharakter der Welt
letzten Endes festlegt. Die Erfassung dieser Naturprinzipien macht
ein Hinausschreiten über die Phänomene notwendig. Man muss die
Natureinheiten als identisch trotz verschiedener Erscheinungsfor-
men denken, die Abfolgereihen der Daten als SelbstenUaltungen
beharrender Wesen, das anscheinend unrückführbare Gegebene als
Folge und Ausdruck verborgener Seinsgründe. Das Denken muss
sich auf ein nicht unmittelbar Zugängliches ausrichten, in einer
Bewegung, deren Ziel sich nur mit sehr allgemeinen Bestimmungen
kennzeichnen lässt oder mit der Forderung die Wirklichkeit so zu
konzipieren, dass sie in sich die hinreichenden Voraussetzungen der
Erscheinungen und ihres Entstehens und Vergehens habe.
Von einen logisch-formalistischen Standpunkt her gesehen ist
diese Auffassung nicht unbedingt denknotwendig. Phänomenismus,
Empirismus und die Vertreter einer phänomenologischen Ontolo-
gie anerkennen sie nicht. Mit Bezug auf gewisse neuere Diskussio-
nen über die Substanzkategorie muss man sogar sagen, dass sie nicht
einmal von allen Philosophen des Realismus in ihrem eigentlichen
Sinne festgehalten wird. Sie enthält sogar in sich selbst gewisse Un-
sicherheiten, wenn es um die genaue Abgrenzung ihrer Anwend-
barkeit geht. Aber sie ist doch nicht ernsthaft in Zweifel zu ziehen.
Sie ist nichts als ein Moment und eine Phase des Aktes, in dem wir
DIE :t4ETHODE DER KOSMOLOGIE 161;

wissend und reflex das Sein so konzipieren, dass es in sich hat,


wodurch es ist was es ist und es als mächtig dazu ansetzen zu sein
wie es ist. Wir vollziehen nur die volle Objektivierung des
Seins, das Zurückgeben seiner Äusserungen, die unsere Wahr-
nehmung und erste Erfassung in den Bereich unserer Subjektivität
hereingenommen hat, an das Ansieh und Insich der Realität. In der
Linie dieses Seinsdenkens gibt es angesichts der Naturerscheinungen
nur noch die Alternative einer Art von radikalem Okkasionalismus.
Die Abzielung auf das Natursein legt zunächst die apriorischen
Voraussetzungen der naturphilosophischen Analyse fest. Alles spe-
zielle Fragen nach den Prinzipien des Naturseins und jeder Ver-
such ihrer Bestimmung beruht auf dem Vorgriff, der im Sich-
Richten des Denkens auf dieses Sein beschlossen ist und der alles
das umfasst, was sich in allgemeingültiger und notwendiger Weise
aus der Idee des Naturseins entwickeln lässt. Die apriorischen Vo-
raussetzungen der Kosmologie bestehen also aus dem Komplex von
Wahrheiten, die von der formalen Theorie des endlichen und ver-
änderlichen Seins vorgelegt werden : das Widerspruchsprinzip, der
Satz vom Grunde in Anwendung auf die Abhängigkeitsverhältnisse
zwischen Prinzipien und Erscheinungen, die Konvertibilität von
Sein und Einheit und die daraus folgenden allgemeinen Bedingun-
gen der Beziehbarkeit verschiedenere Bestimmungen auf das glei-
che Sein gehören beispielshalber dieser Theorie an. .
Die Bestimmungen, die damit getroffen worden sind, legen auch
das Verhältnis zwischen Kosmologie und Metaphysik fest, über
das in den neueren Diskussionen so verschiedene Ansichten ver-
treten werden. Die Naturphilosophie führt ihre Untersuchungen
unter Führung einer Grupe von Einsichten durch, die als ontolo-
gische bezeichnet werden können, weil. sie sich aus der Betrachtung
des Seins qua tale ergeben, wie es sich in der besonderen Perspek-
tive der Beziehung des Gegebenen auf Naturen objektiviert. Diese
Perspektive ist aber nicht die philosophisch endgültige; die Ana-
lytik der Kosmologie zieht die Einsichten einer transzendentalen
und eigentlich metaphysischen Seinsbetrachtung nicht als ihre un-
mittelbaren und nächsten Voraussetzungen heran. Ihre allgemeine
Seinstheorie und, wenn man will, « Ontologie » entspricht einer
Blickweise, der die ganze Weite des Seinsbegriffs noch nicht er-
schlossen ist und der sich insbesondere die Frage nach den Bedin-
gungen der Möglichkeit von endlichem Natursein noch nicht gestellt
hat. Darum bleibt die naturphilosophische Analyse, trotz ihres
« ontologischen » Charakters in einer von der eigentlich metaphy-
sischen Betrachtung klar unterschiedenen Ebene. Der Fall des Pro-
blems der Materie, das in der kosmologischen und metaphysischen
11 - Studi filo,oficl
162 P, BEDA THUM 0, S, B,

Blickrichtung je ein ganz anderes ist, kann dies illustrieren: die


Theorie des Hylemorphismus ist die Beantwortung der naturphi-
losophischen Frage; mit ihr sind wir aber offenbar in die Fragen-
ebene der Metaphysik, der es darum geht, wie ausgehend vom ab-
soluten Sein endliche und relative Seinsautonomie, insbesondere die
eines von der reinen Potentialität der materia prima bedingten
Seins überhaupt gedacht werden kann, noch gar nicht eingetre-
ten. Die Metaphysik sucht einer weitergehenden und radikaleren
Forderung der Einsichtigkeit und Denkbarkeit genug zu tun als
die Naturphilosophie. Sie versucht das Sein von der transzendenten
Intelligibilität und endgültigen Fraglosigkeit des Absoluten her zu
deuten, während die Kosmologie in der Ordnung der einsichtigen
Formen und Zusammenhänge verbleibt, die dem endlichen Sein
selbst immanent sind.
Die Formulierung der Voraussetzungen der kosmologischen
Analyse erlaubt nun auch eine Untersuchung über die Wege, die
ihr zur Verfügung stehen. Die Bedeutung der Oberlegungen, in die
wir damit eintreten, liegt nicht nur darin. dass sie die Grundlinien
einer Methodik und Kritik der naturphilosophischen Spekulation
ziehen; sie sind angesichts sovieler auf dem Gebiet der Naturbe-
trachtung sich anbietender Theorien und Vorschläge von grösster
Wichtigkeit um die ursprüngliche Intention der kosmologischen
Prinzipienerforschung ohne Abirren festzuhalten.
Als erste und grundlegende Weise der Prinzipienertassung ist
die unmittelbare Deutung der Gegebenheiten auf die in ihnen sich
anzeigenden Naturprinzipien hin in Betracht zu ziehen. Ais Real-
gründe haben sie ohne Zweifel die Stellung von Wirklichkeiten, die
in den Erscheinungen zum Ausdruck kommen. Dies scheint die
Erwartung zu rechtfertigen, die Prinzipien liessen sich von einem
auf den Naturgrund gerichteten Blick den Phänomenen entnehmen
und durch ein deutendes « Lesen » in ihnen finden. Tatsächlich ha-
ben Philosophen der verschiedensten Richtungen Erfahrungsbegriffe
mit mehr oder weniger geklärten ontologisierenden Umtönungen
auf die Wirklichkeitsschicht der Prinzipien bezogen und etwa
Räumlichkeit, Zeitlichkeit, verschiedene der empirischen Determi-
nierungsformen usw. als kategoriale Grundbestimmungen des Na-
turseins angesetzt. Andererseits ist es aber dem bedachtsamen Beo-
bachter auch offenbar, .dass dieses unmittelbare Herauslesen-Wol-
len und die rasche Obertragung von Erfahrungsbegriffen die Na-
turphilosophie in die Richtung des weltbild-entwerfenden Denkens
abdrängen und dass sie zu erkenntnistheoretisch ungenügend ge-
sicherten Aufstellungen verführen. Sogar in den Fällen, die von
allen am besten gerechtfertigt sind: dem des Raums und der Zeit,
DIB METHODE DER KOSMOLOGIE 163

können solche ohne Prüfung und Reflexion von der Anschauung


zu den Naturprinzipien fortschreitende Obertragungen den Natur-
philosophen vorzeitig auf gewisse eidetische Züge festlegen und
ihn damit in der Auseinandersetzung mit den Ideen ·der Naturwis-
senschaften in die verkehrte Lage bringen anschauungsgebundener
und denkunfreier zu sein als der Physiker. Vor allem aber ist zu
sagen, dass mit den Deutungen der beschriebenen Art der Aufgabe
der Kosmologie nicht genug getan wird: wir können zwar mit Be-
griffen, die eine Gegebenheit als solche qualifizieren und ihre Be-
sonderheit als Gegebenheitsform kennzeichnen, bei entsprechender
Änderung der Bedeutungsintention eine Realität im Gebiet der Prin-
,:ipien anzeigend und verweisend hervorheben, aber wir besitzen
in ihnen nicht die Bestimmtheiten, die diese Realität in der Ord-
nung der Prinzipien und in der Objektivierungsweise des Den-
kens von Natursein definieren. Es ist etwas Anderes eine Realität
innerhalb des Rahmens des Gegebenen nach der Weise ihres Sich-
Darstellens zu charakterisieren und sie als Form oder Attribut des
Naturseins zu erfassen und äuszudrücken. Wenn wir sagen die
Körper seien ausgedehnt und einem räumlichen Zusammenhang
eingeordnet, haben wir die Aufgabe der Prinzipienforschung noch
nicht erfüllt, sondern nur festgelegt und gestellt, nämlich in einer
der Welt der Prinzipien entsprechenden Begrifflichkeit zu sagen,
was Ausdehnung und Raumbeziehung im Grunde genommen ei-
gentlich seien. Die traditionellen Antworten auf diese Fragen ge-
hen ja auch entschieden über das hinaus, was durch eine einfa-
che Obertragung der Begriffe Ausdehnung und Raum zum Ausdruck
gebracht wird. Eine andere Oberlegung ist schliesslich noch beson-
ders geeignet diese zurückhaltende und einschränkende Beurteilung
zu bekräftigen. Das Herauslesen des Wesens und der Eigenschaf-
ten eines Sich-Offenbarenden aus den Erscheinungen, in denen es
sich darstellt, setzt voraus dass wir von vorneherein einen Ober-
blick über seine möglichen, in Betracht kommenden Formen und
Qualifikationen besitzen. Eine Interpretation ist die Begegnung
zwischen einem vorgängigem Wissen um das was sein kann oder
wenigstens um die allgemeinen Richtungen, in denen die sich dar-
stellende Realität sich ausformen und besondern kann, und der
Kenntnis der im konkreten Falle vorliegenden Darstellungsgege-
benheiten. Die Gewissheit und Zuverlässigkeit des Lesens in den
Phänomenen beruht auf der Einsicht, dass es unter den vorausge-
sehenen Möglichkeiten keine andere gibt, denen die vorliegenden
Phänomene als ihr Ausdruck entsprechen würden. Ohne eine ge-
wisse Vorauskenntnis der durch die Deutung erreichten Sphäre
wäre es ja unmöglich darüber Gewissheit zu haben, dass eine Ge-
16' P, BEDA THUM 0, S, B,

gebenheit eine bestimmte Realität darstellt. Diese zweite Vorausset-


zung der Deutung umreisst nun die ziemlich engen Grenzen, inner-
halb derer sie in der analytischen Prinzipienerkenntnis eine Rolle
spielen kann. Die Möglichkeiten, die wir antizipieren und über-
blicken können bestehen in den Alternativen, die sich an die all-
gemeine Idee des Naturseins knüpfen, wie etwa die von Einheit und
Vielheit, von Unabhängigkeit und Abhängigkeit, von Isolierung und
Zusammenhang und ähnlichen anderen, die sich in Begriffen der
formalen Theorie des endlichen Seins ausdrücken lassen. Bestim-
mungen solcher Art vermögen wir also auf dem Weg unmittelba-
rer Deutung zu erreichen. Dagegen dürfen wir nicht erwarten auf
ihm Aufschlüsse über die spezifische oder generische Natur der
Prinzipien zu erhalten, weil unsere vorgreifende Erkenntnis forma-
ler Art ist und eine Obersicht über die möglichen materialen W e-
sensformen nicht zu geben vermag.
Die Gefahren, die von seilen der immer wieder erstehenden
Tendenz Anschauungsbegriffe in den Kontext der ontologischen For-
schungen zu übertragen die Naturphilosophie bedrohen, lassen sich
jetzt klarer kennzeichnen. Wenn man ihr stattgibt, wird man dazu
kommen die eidetische « Wesensgesetzlichkeit > auf eine Stufe mit
der ontologischen Notwendigkeit zu stellen und das phänomenolo-
gisch Letzte und Irreduzible als Letztes auch in der Ordnung der
Seinskategorien anzunehmen. Am Ende steht der Verlust des on-
tologischen Ausblicks überhaupt. Man wird versuchen das Wesen
der Dinge mit An.schauungsbegriffen festzulegen oder empirische
Attribute mit dem Natursein schlechthin gleichzusetzen und das
Reale etwa als das im Raum Sich-Ausbreitende oder das in der
Zeit Sich-Entfaltende zu definieren. Damit wird aber die analyti-
sche Fragestellung überhaupt preisgegeben; die Distanz, die die
ursprüngliche Konzeption des Naturseins zwischen den Reichen der
Gegebenheiten und der Seinsprinzipien aufgerichtet hat, geht ver-
lustig und mit ihr der Antrieb zum ontologischen und erst recht
natürlich zum metaphysischen Denken.
Die unmittelbare Deutung der Erscheinungen in den angege-
benen Grenzen bildet zwar den ersten Schritt der kosmologischen
Analyse, aber sie isi nicht ihre einzige oder ihre fruchtbarste Me-
thode. Das charakteristische Verfahren der Kosmologie entwickelt
sich aus der Gegenüberstellung der in den Erscheinungen unmittel-
bar angezeigten Tatsachen mit den formalen Sätzen der allgemei-
nen Theorie des Naturseins. Die Fragestellungen, die sich daraus
ergeben, bewegen sich um die Möglichkeit des in der Erfahrung
· kenntlich Gewordenen angesichts der formalen Forderungen, die
im Begriff des endlichen Seins beschlossen sind. Sie führen und
DIE METHODE DER KOSMOLOGIE 165

lösen sich zu Schlussfolgerungen, in denen. Bestimmungen des Na-


turgrunds als notwendige Voraussetzungen der Möglichkeit der
Phänomene gewonnen werden. Die aristotelische Ermittlung der
Voraussetzungen der Bewegung ist das klassische Beispiel dieses
konfrontierenden und schlussfolgernden analytischen Verfahrens.
Es ist nicht überflüssig einige Oberlegungen darüber anzustellen.
Die Erfahrung stellt den einen der Ausgangspunkte des Verfahrens
dar. In seine das Endergebnis hervorbringende Phase tritt sie aber
nur ein als in der oben beschriebenen Weise ontologisch gedeutete
und damit ihres materialen Gehalts entkleidete. Die Folgerungen,
die man aus diesen nach einem formalen Vorgriff auf das Sein der
Prinzipien interpretierten Gegebenheiten durch Zusammenhalten
mit den Sätzen der allgemeinen Theorie des Naturseins ziehen kann,
werden· also notwendigerweise selbst formalen Charakters sein. Wir
können nur solche Bestimmtheiten erschliessen, die unter dem ab-
strakten, das ganze Verfahren beherrschenden Gesichtspunkt not-
wendig und hinreichend sind; wir gelangen aber nicht zu dazu· die
hinreichenden Voraussetzungen der Phänomene schlechthin zu er-
fassen. Eine c: materiale· » Wesenserkenntnis würde aber gerade dies
bedeuten: die hinreichenden Bedingungen in der Sphäre der Prin-
zipien im Begriff ausdrücken zu können. Man muss demnach schlies-
sen, dass das vorliegende analytische Verfahren eine Wesenser-
kenntnis, aus der die allgemeinen und konstanten materialen Züge
der Erscheinungen ableitbar und erklärbar wären, zu gewinnen
nicht imstande ist. Es wird also im Allgemeinen nicht möglich sein
von der· gewonnenen Prinzipienerkenntnis aus die empirischen Ge-
gebenheiten auf deduktive~ Wege wieder zu erreichen.
Man erhält den Eindruck, dass diese Konsequenz sich bei den
Kosmologen nicht immer zu klarer Bewusstheit erhoben hat und
dass der Gedanke der analytischen Kosmologie sehr oft durch die
Idee einer Elementaranalytik oder einer Erkenntnis propter quid
in der Folgerichtigkeit seiner Durchführung beeinträchtigt wurde.
Z. T. allerdings handelt es sich bei den kosmologischen Themen,
die in absteigenddeduktiver Weise behandelt und dargestellt wer-
den, um spezielle Frage, für die auch eine spezielle Erkenntnissi-
tuation besteht oder wenigstens zu bestehen schien. Es ist uns ge-
wiss möglich bestimmte, begrenzte Sachverhaltskomplexe auf der
Grundlage von einsichtigen Prinzipien materialer Art theoretisch
darzustellen, wenngleich zu sagen ist, dass Theorien dieses Cha-
rakters zumeist nur eine eidetisch-phänomenologische Bedeutung
besitzen und nicht in eine Linie mit den Untersuchungen über die
ontologischen Prinzipien zu stellen sind. Die Missverständnisse fin-
den sie~· aber auch dort, wo die Fragestellungen ohne Zweifel ana-
166 P, BEDA THUM 0, S, B,

lytischer Art sind. Schon Aristoteles selbst legt das Ergebnis seiner
Bewegungsanalyse in der Form einer Definition vor. Die Theorie
des Hylemorphismus wird oft zur Aufstellung einer Wesensdefi-
nition der Körperlichkeit herangezogen und als solche anderen Auf-
fassungen, wie dem Mechanizismus, Dynamismus und Energetis-
mus, die tatsächlich das materiale Wesen des Körperlichen zu be-
stimmen versuchen, entgegengestellt, obwohl die Materie-Form-
Lehre eine Theorie ganz anderer Art ist und ihre Oberlegenheit
und philosophische Solidität gerade auch dara_uf beruht, dass sie
sich nicht auf den ungewissen und in Illusionen endigenden Ver-
such einlässt von einer Fundamentalbestimmung aus die allgemei-
nen Charakteristiken des Körperlichen ableiten zu wollen.
Man könnte noch daran denken und die Hoffnung hegen, dass
der Fortschritt der analytischen Forschung die Distanz zwischen
der Erkenntnis der formalen Voraussetzungen und des materialen
Wesens allmählich verringern werde. Wir haben ja nicht nur die
Tatsache der Veränderung als Basis aufsteigenden Erschliessens;
die transeunte Kausalität, die verschiedenen Formen ganzheitlicher
Komplexe, die Zusammenhänge zwischen den Bedingungen im
Grossen und den lokalen Zuständen und Vorgängen, um. nur einige
Beispiele zu nennen, bieten gleichfalls Ausgangspunkte für analy-
tische Problemstellungen und Schlüsse. Da sie sich auf das näm-
liche Sein beziehen und da wir wenigstens in einer allgemeinen
Weise die Bedingungen der inneren Einheit aufzustellen vermögen,
eröffnen sich hier tatsächlich Möglichkeiten eines weiteren Ein-
dringens in das Sein der Naturprinzipien. Die Bestimmungen, die
wir auf den verschiedenen Linien der Analyse finden, ergänzen und
präzisieren sich gegenseitig im Hinblick auf die Einheit des Seins,
die sie alle verbindet. Es ist wohl sicher anzunehmen, dass die
analytischen Untersuchungen in dieser Weise noch wichtige
Fortschritte werden erzielen können. Dies besagt indes nicht, dass
sie sich damit allmählich einer Wesenserkenntnis annähern wer-
den. Eine solche Erwartung wäre nur dann gerechtfertigt, wenn
die Erweiterung und Ausdehnung der analytischen Betrachtungen
fortschreitend auch die materialen, ontologisch zunächst nicht in-
terpretierbaren Aspekte der Erscheinungen erfassen und mit ent-
sprechenden Momenten des Prinzipienreichs in Beziehung setzen
würde. Nur unter dieser Bedingung wäre eine Ableitbarkeit der
Phänomenbestimmungen aus den analytisch erreichten, in einer
formal-ontologischen Begrifflichkeit formulierten Erkenntnissen
überhaupt denkbar. Die oben genannten Beispiele weiterführender
analytischer Fragestellungen weisen aber in nichts darauf hin, dass
durch sie ein Fortschritt in dieser Richtung herbeigeführt werden
DIE METHODE DER KOSMOLOGIE 167

könne. Die Abstraktheit und ·formale Allgemeinheit des ersten Vor-


griffs wirkt sich auch in ihnen aus und es ist kein Grund angebbar,
der zu der Erwartung berechtigte eine Vermehrung der Ausgangs-
punkte solcher abstrakter Oberlegungen werde die bisher als on-
tologisch irrelevant übergangenen Seiten der Erscheinungen doch
noch in einen bestimmten Zusammenhang mit den Prinzipien
bringen.
Die letzte Erwägung berührte bereits den Fragenkreis der em-
pirischen Ausgangspunkte, dem wir uns nun zuwenden müssen, um
wenigstens einen summarischen Oberblick über die mit der analy-
tischen Methode verknüpften Probleme zu gewinnen. Wir haben die
Ausdrücke « Gegebenheit > und « Phänomen > bislang in der Un-
bestimmtheit und Mehrdeutigkeit belassen, die ihnen die Verschie-
denheit der Erkenntnisperspektiven und Erkenntnistheorien aufer-
legt. Man wird vielJeicht heute geneigt sein den Gegebenheitsbegriff
der Phänomenologie als den philosophisch massgebenden anzuneh-
men. Die Folge bestünde in einer sehr einengenden Festlegung auf
Daten eines bestimmten anschaulichen Charakters. Es scheint mir
nicht, dass wir hier in eine Diskussion dieser Frage einzutreten ha-
ben. Die Kosmologen werden im Allgemeinen schon durch ihre
Beschäftigung mit den Naturwissenschaften und durch die Anerken-
nung ihres Gegebenheitsbegriffs davon abgehalten sich der Führung
der Phänomenologie zu überlassen. Gewiss ergibt sich für den Kos-
mologen angesichts der Aufstellungen der Wissenschaften die Auf-
gabe, die für die jeweils erreichte Schicht der Gegenständlichkeit
primären und grundlegenden Tatsachen herauszuarbeiten und sie
aus den Umkleidungen einer zu technischen Begrifflichkeit zu be-
freien. Das ursprünglich Vorliegende, die « nackte Tatsache >, die
es hier fes!zustellen gilt, bestimmt sich indes nach ganz anderen
Gesichtspunkten als das authentische Phänomen. Die Fragen, die
sich dem Kosmologen hier stellen, gehören in den Zusammenhang
einer im Geist des Realismus durchgeführten Kritik der Wissen-
schaften. Eine genaue Begründung der Leitgedanken einer solchen
Kritik müsste wieder sehr weit ausholen. Es sei darum gestattet
unter B,erufung auf einige einfache, aber prinzipiell wichtige Tat-
sachen die Hauptlinien der Problematik zu zeichnen, die sich bei
der Festlegung und Sicherung der empirischen .Ausgangspunkte für
den Kosmologen ergibt.
Zunächst ist zu konstatieren, dass Fälle eintreten können, in
denen die Arbeit der· Naturwissenschaften die ursprünglichen An-
sätze ontologisch-analytischer Oberlegungen radikal verändern. Als
Beispiele und Belege seien erwähnt die Vorstellungen über den Vor-
gang der organischen Zeugung, die Auffassungen über das rarum
168 P, BEDA THUM O. S. B,

et densum, die viel diskutierte Frage über die Existenz von transfor-
mationes substantiales im Bereich des Anorganischen, die durch
die Ergebnisse der Physik mindestens auf neue Grundlagen gestellt
worden ·ist. Auch dfe eigene Entwicklung der modernen wissen-
schaftlichen Anschauungen kann natürlich Veränderungen der em-
pirischen Ansätze mit sich bringen; als einfache Beispiele seien
genannt die Vorstellung vom absoluten Raum und ihre Preisgabe
in der rieÜen Physik oder die impetus-Theorie, die am Anfang der
neuzeitlichen Mechanik steht und von der heute zu sagen ist, dass
sie für uns wenigstens nicht mehr die einzige mögliche Deutung
der freien Bewegung darstellt. Andererseits ist es aber auch sicher,
dass die wissenschaftlichen Formulierungen nicht ohne Weiteres
und nicht nach ihrem Wortlaut als Feststellungen von Tatsachen
anzunehmen sind, in denen der Kosmologe nach ontologisch bedeut-
samen Aspekten AÜsschau zu halten habe. Die Ausdrucksweise der
Wissenschaften ist so sehr abhängig von der Methodik ihrer Beo-
bachtungen und Messungen und so sehr durchsetzt von sekundä-
ren begrifflichen Konstruktionen, dass es unbedingt notwendig wird
sie einer unterscheidenden Kritik zu unterwerfen und eventuell so-
gar in einer ~euen Sprache zu interpretieren um durch die Schicht
von indirekten Kennzeichnungen und verdinglichten Begriffskon-
struktionen zu den schlichten Fakten zu gelangen. Die Forderung,
die wir damit erheben, ist der der neuempiristischen Wissenschafts-
theoretiker ähnlich; sie hat aber in Wahrheit, weil vom Standpunkt
des Realismus aus erhoben, eine andere Bedeutung. Die Weil, mit
der die Forschung sich beschäftigt, ist für uns nicht ein System
von Sinnesdaten und Messoperationen, sondern die Naturwirklich-
keit mit ihren Strukturen und Zusammenhängen. Die Wissenschaf-
ten dringen in diese Wirklichkeit auch tatsächlich ein: indem sie
in ihren Theorien lernen die Vorgänge immer genauer und vollstän-
diger zu prognostizieren, leisten sie eine immer fortschreitende Fak-
torenanalyse der Naturvorgänge, denn Voraussagen, die sich in den
verschiedensten Bedingungen bewähren, würden nicht möglich sein
ohne eine gewisse, wenigstens indirekte Kenntnis der Determinan-
ten des Geschehens. Die Genauigkeit und der Umfang des Voraus-
sehbaren geben zuverlässige Kriterien um zu bestimmen wo und
inwieweit die Forschung die natürliche W eltaufl'assung oder eine
wissenschaftliche Theorie die andere übertrifft in der Enthüllung
der Struktur der Wirklichkeit. Auch die Wissenschaft leistet dem-
nach eine Analyse, nicht zwar in Richtung auf die ontologischen
Prinzipien, aber auf die elementaren und fundamentalen bestim-
menden Momente der Naturprozesse und Naturgebilde, die der vor-
wissenschaftlichen Erfahrung infolge der grossen Komplexität der
DIE METHODE DER KOSMOLOGIE 169

makroskopischen Gegebenheiten verborgen bleiben und von denen


auch ihre eigene Tendenz zum typologischen und analogischen Den-
ken sie ablenkt. Durch die Oberwindung der globalen und typenhaf-
ten Bestimmungen des nicht-wissenschaftlichen Weltbilds wird die
Wissenschaft für die Kosmologie wichtig; sie kann Fortschritte
solcher Art erreichen, dass die philosophische Analyse vielmehr von
ihren Ergebnissen aus ihre Oberlegungen zu beginnen hat, als von
den einfachen Beobachtungen der täglichen Erfahrung.
Die neuscholastischen Kritiker haben oft das Hauptgewicht
ihrer ·Prüfung auf die Darstellungs- und Kennzeichnungsweise der
Wissenschaften verlegt und sind infolgedessen zu ziemlich abwer-
tenden Einschätzungen ihrer Bedeutung für die Kosmologie gelangt.
Tatsächlich nämlich sind die Begriffe, mit denen die Substrukturen
der ErscheiI)ungen beschrieben werden, weit davon entfernt We-
sensbegriffe zu sein; sie sind zumeist Kennzeichnungen, die irgend-
wie zugeordneten Erscheinungen entnommen sind. Aber ihr indi-
rekter und oft mit ungewährleisteten Vorstellungen in Verbindung
stehender Charakter nimmt ihnen nicht ihren unterscheidenden und
indikativen Wert. Die Unvollkommenheit der wissenschaftlichen
Begrifflichkeit macht die Forschungsergebnisse keineswegs bedeu-
tungslos für die Naturphilosophie. Die ontologische Analyse geht
ja, wie wir sahen, nicht von materialen Wesensbestimmungen aus,
sondern von gewissen formalen Zügen an den Erscheinungen. Sol-
che formale Aspekte aber können sehr wohl auch in der Darstel-
lungsweise der Wissenschaften noch hervortreten.
Schwierige Probleme bereiten dem Kosmologen die Unvollen-
detheit und, wie es heute scheint, die prinzipielle Unvollendbarkeit
der wissenschaftlichen Analyse. Der Naturphilosoph kann sich nicht
dadurch der Gefahr falscher Fragestellungen mit Sicherheit ent-
ziehen, dass er sich streng an die durch die fortgeschrittensten wis-
senschaftlichen Analysen gesicherten Fakten hält. Auch das Wirk-
lichkeitsbild einer wissenschaftlichen Theorie kann noch in einem
gewissen Sinne eine bloss phänomenologische Bedeutung haben und
in zusammenfassender Form Vorgänge, Gebilde und Verhältnisse
vorlegen, die sich bei weiterer Analyse auf Strukturen von ganz
unvermutet neuer Art zurückführen. In den Theorien aber, die
vielleicht endgültig zu den elementaren Realitäten vorgedrungen
sind, sieht er sich vor eine Form der Beschreibung gestellt, die nicht
mehr genau zu unterscheiden erlaubt, was in ihren Kennzeichnun-
gen auf die Seite des Objekts selbst oder des störenden Einflusses
der Messung zu setzen sei. Die metrischen Methoden, die in den
Händen der Forschung bislang ein Mittel der Entsubjektivierung
unserer Naturauffassung gewesen sind, verfallen nun ihrerseits der
170 P, BBDA THUM O, S, B,

Relativität bezüglich der experimentellen Beobachtungsmethoden.


Wie sollen wir dann aber eine sichere Basis für die naturphiloso-
phische Betrachtung finden? Zunächst ist natürlich zu sagen, dass
gewisse Ausgangspunkte durch die weitestgehenden Änderungen un-
seres Weltbilds überhaupt nicht berührt worden sind und durch
die wissenschaftliche Forschung nicht berührt werden können. Dass
sich in der Natur Prozesse vollziehen, dass es in ihr gleichartige,
relativ stabile Einheiten' gibt, dass diese in gegenseitiger Abhän-
gigkeit stehen, also die Voraussetzungen der klassischen Probleme
des Werdens, der Individualität und der Interaktion werden in
jeder wissenschaftlichen Theorie bleiben müssen, weil sie schon
durch die Möglichkeit Experimente anzustellen und aus ihnen all-
gemeine Gesetze abzuleiten bestätigt werden. Nach der Analogie
dieser Fälle lassen sich auch anderweitig gewisse allgemeine
Züge aus den wissem~chaftlichen Aufstellungen herausheben, die
weder durch eine mangelnde Analysis noch durch Störungen vor-
getäuscht sein können und von solcher Besc'haft'enheit sind, dass
sie in den unerreichten Grundrealitäten selbst sein müssen, um in
komplexen Phänomenen oder in der Reaktion mit anderen Objek-
ten in Erscheinung treten zu können. Dies wird von Fall zu Fall
spezielle Prüfungen und Oberlegungen erfordern, für die sich all-
gemeine Prinzipien und Kriterien kaum mehr angeben lassen. Si-
cher ergibt sich aus dem Gesagten, dass wir in vielen Fragen der
Kosmologie heute eine vorsichtigere Haltung einnehmen und uns
der empirischen Fundamente mit grösserer Sorgfalt versichern müs-
sen. Das mit voller Sicherheit Erschliessbare wird unbestimmter
und abstrakter sein als in den klassischen Theorien oder sich evl,n-
tuell in eine Mehrheit von Möglichkeiten aufspalten, zwischen de-
nen wir nicht mit unbedingter Sicherheit zu entscheiden imstande
sind.
Kann man hoffen, dass ein schärferes Bewusstsein der Methode
und der erkenntnistheoretischen Probleme der scholastischen Na-
turphilosophie zu einem stetigeren Fortschritt und zu einer grösse-
ren Einheitlichkeit in der Behandlung der moden>,en Probleme ver-
helfen wird? Trotz der schwierigen Fragen, die die Erkenntnistheo-
rie der naturwissenschaftlichen Forschung aufrollt, wird man dies
bejahen dürfen. Die ephemeren Theorien und Thesen, die in den
kosmologischen Studien so oft zu finden sind, entstehen zum aller-
grössten Teil daraus, dass eine methodologisch oder erkenntnistheo-
retisch nicht klare Situation irgendwie forciert wird. Eine grössere
methodische und kritische Umsicht lässt unschwer den hypotheti-
schen und unsicheren Charakter so mancher Konklusionen erken-
nen, die zu sehr dem Wunsch stattgeben zu möglichst bestimmten
DIE MEfflODE DER KOSMOLOGIE 171

und spezifizierten Einsichten zu gelangen. Die kritische Reflexion


ihrerseits ist nicht ebenfalls an den Rhythmus des Wechsels und
Fortschritts gebunden, der das Kommen und Gehen der naturwis-
senschaftlichen Theorien und Weltbilder beherrscht. Sie hat eine
1

weit grössere Reichweite und kann das sorgfältige Denken über die
Folge rasch sich ablösender Auffassungen hinausheben.
II

R. P. GASTONE ISAYE S. I.
PROFESSORE NELLA FACOLTA FILOSOFICA DI EEGENHOVEN-LoVANIO

LES SCIENCES POSITIVES ET LES TROIS SECTIONS


DE LA COSMOLOGIE

La cosmologie est une partie de la metaphysique, laquelle a pour


objet formel l'etre en tant qu'.etre.
Parmi les premiers principes, justifiables critiquement, se trou-
vent ceux qui afflrment l'objectivite de la pensee humaine et l'intel-
ligibilite humaine de l'objet. L'etre en tant qu'etre et l'intelligible en
tant qu'intelligible sont convertibles. L'intuition de cette convertibi-
lite est exprimee dans le langage courant; car les deux termes sont
admis comme equivalents a un meme troisieme: afflrmable en tant
qu'affirmable.
Mais alors, tous les concepts 'metaphysiques peuvent etre ou
intuitionnes dans, ou definis a partir de l'affirmation en tant qu'af-
firmation.
Par contre, les determinations sensibles, telles que rouge, ou
bleu, ou chaud, ou rectiligne, ou circulaire, n'ont jamais pu etre de-
finies a partir du jugement comme jugement 1 •
II y a donc heterogeneite entre les determinations metaphysi-
ques et les determinations sensibles. Et d'autre part, il y a, dans
les deux cas, une certaine objectivite. Nous devons donc admettre
une relation positive entre la metaphysique des corps ( animes ou
mineraux) et les sciences non metaphysiques.
Mais cette relation ne sera pas toujours la meme. T,rois sections

1 Elles n'affectent donc pas l'ftre en tant qu'itre. Cela ne les empl!che
pas d'itre ohjectives; afflrmer que la neige est noire, c'est se tro.mper; afflrmer
que la neige est hlanche, c'est avoir raison. Mais une teile objectivite est neces-
sairement imparfaite. Outre les considerations critiques qui precedent, nous
pourrions faire appel a un argument valable pour quiconque admet l'existence
de purs esprits. La mime determination ontologique correspond a des con-
tenus de conscience differents selon qu'il s'agit d'une conscience angelique ou
animale; et comme c'est le contenu de conscience angelique qui est le plus
parfaitement conforme a la determination entitative, le contenu de conscience
animale n'est qu'imparfaitement objectif. Et ceci est vrai que cet animsl soit
raisonnahle ou non.
GASTONE ISAYE S, 1,

de la cosmologie ( et de la psychologie) pourraient Mre definies pre-


cisement selon la diversite de la relation au sensible.

I. - CosMOLOGIE DEDUCTIVE

De meme que,. dans le compose humain, l'ame a une dependan-


ce extrinseque a I'egard de la matiere premiere, ainsi une premiere
section de la metaphysique ne dependra qu'indirectement de la per-
ception sensible.
Cette section se developpe deductivement, a partir de l'analyse
du jugement. lntellectus intelligit se intelligere. Ce point de depart
est une operation bien reelle.
Dans cette realite, l'intelligence degagera ce qui est necessaire
au jugement comme jugement. Les premiers principes sont dans
ce cas. Des lors, il sera possible de refuter l'adversaire hypercritique
des premiers principes: l'objection meme, etant un jugement, con-
cede in actu exercito ce qui est necessaire au jugement comme ju-
gement. Constater reflexivement cette concession implicite, c'est re-
darguere elenchice comme Aristote, c'est « retorquer > ou faire c re-
torsion >. Tous les points de depart de la metaphysique deductive
peuvent etre justifies critiquement par retorsion, du moins dans
l'ordre de l'intellection.
Le raisonnement d_eductif pourra donc se developper.

1. - Dependance
Une teile methode depend de la sensibilite. Car pour reflechir sur
un jugement, il faut en avoir un. Si ce jugement, objet de reflexion,
etait deja lui-meme un· acte de reflexion, il portait sur un acte in-
tellectuel anterieur, volition ou jugement. Mais il a bien fallu com-
mencer ce processus par un jugement non reflexe, par un « juge-
ment direct ». Mais comme les termes de celui-ci n'etaient plus re-
flexifs, ils devaient porter sur le monde exterieur; et comme I'hom-
me n'est pas un ange, ce monde exterieur a du etre saisi par une
sensibilite. Ce jugement direct, qui a du intervenir pour rendre pos-
sibles les reflexions metaphysiques, avait des termes tels que < rou-
ge » ou «sonore>.
2. - Dependance indirecte
Par ailleurs, la metaphysique deductive ne depend qu'indirec-
tement de la sensihilite. En etfet, la metaphysique deductive etudie
le jugement direct uniquement en ceci que c'est un jugement; eile
LBS SCIENCBS POSITIVES ET LES TBOIS SECTIONS DB LA COSMOLOGIE 175

veut en degager les necessites de l'afflrmation comme afflrmation.


Des lors, la reflexion ne considere pas les elements contingents du
jugement direct, le fait qu'on parle de rouge plutat que de bleu.
Meme si le jugement direct avait ete faux, la metaphysique se-
rait encore vraie et les conclusions metaphysiques correctement
etablies. Car ce jugement faux etait une operation bien reelle du moi.
intelligent. Ce qui est necessaire a l'afflrmation comme afflrmation
se trouvait dans ce jugement faux. Les reflexions du metaphysicien
restent donc vraies; vraies aussi les conclusions qu'en tirera un rai-
sonnement correct.
La dependance de la metaphysique deductive a l'egard du sensi-
ble est donc indirecte. Car nous appelons dependance directe celle
dans laquelle la verite du terminus a quo est necessaire a la legiti-
lliite des conclusions. Ex {also sequitur q,uodlibet; or, meme si le
jugement direct est faux, la metaphysique reflexive et deductive sera
vraie, non quodlibet; donc la metaphysique deductive ne suiura pas
(au sens d'une consequence logique) du jugement direct considere
selon sa teneur.
On voit la conclusion. La scienoe positiue aura beau progresser,
eile aura beau apporter de nouveaux faits, voire corriger ses affir-
mations anterieures, cela n'aura aucune influence sur la metaphysi-
que deductive. Car celle-ci est indifferente a la verite ou a la faussetc
du jugement direct sur lequel eile reflechit.

3. - Ob jections

Deux difflcultes se presentent.


D'abord, pourquoi une metaphysique deductive ne pourrait-el-
le pas partir de determinations sensibles, et ensuite, au cours de
8Jlllogismes, passer a des determinations metaphysiques.
C'est qu'il y a heterogeneite entre la metaphysique, definissable
a partir de l'afflrmation comme teile, et le sensible, non definis-
sable a partir de l'afflrmation comme teile. Or, le syllogisme requiert
identite entre les termes de sa conclusion et les termes correspon-
dants de ses premisses. Le syllogisme ne passe pas valablement d'un
ordre a un autre s'il y a heterogeneite. C'est pour cela que des points
de depart purement geometriques ne donnent pas par deduction va-
lable des conclusions sur les qualites sensibles, couleurs, etc.
Pour la meme raison, les theories scientifiques les plus abstru-
ses restent dans l'ordre sensible, meme si elles n'admettent pas de
verification intuitive. Car, pour que le savant puisse les admettre, il
doit pouvoii' affirmer leur valeur explicative, done pouvoir en de-
176 GASTONE ISAYE S, I,

duire les f aits experimentaux. Or ceux-ci sont d'ordre sensible. Donc


les theories scientifiques sont d'ordre sensible.
Seconde objection: oous n'irez pas loin avec vos deductions 1
Soit. La cosmologie deductive n'est peut-etre pas tres longue.
Voici tout de meme un certain nombre de theses.
1. - (Existence du compose de matiere et de forme). L'homme
qui forme le jugement, l'homme qui afflrme, est compose de matiere
premiere et de forme substantielle. L'objet d'afflrmation c conna-
turel » a l'homme est compose de meme.
2. - (Principe d'individuation). Toute forme qui, a cause de son
individualite meme, n'ep,uise pas son degre de perfection substan-
tielle, est « rec;ue » dans (ou « mesuree > par) une matiere premiere.
3. - (Activite des corps). Tout corps agit vraiment. Une ope-
ration corporelle comporte un changement reel: et ce changement,
malgre l'unite de l'operation, est successif (motus sens.u stricto).
L'action corporelle est soumise a des lois. Mais la necessite des lois
n'est qu'hypothetique, car eile est soumise a deux restrictions, qui
resultent de la liberte humaine, et (these du miracle) de la liberte
divine. ·
4. - (These de la quantite). L'individu corporel ne possede pas
l'unite de simplicite, ni dans sa substance, ni dans ses accidents
operatifs. La quantite accidentelle et l'accident qualitatif sont in-
separables. La matiere premiere ne s'oppose pas par elle-meme a
une division du corps, mais la forme substantielle peut s'y opposer.
5. - Tous les corps constituent un univers.

4. - Interpretatwns metaphysiquu immediates.

Une question peut encore se poser. Le metaphysique ne se de-


duit pas valablement du sensible. Mais, outre la deduction, il f aut
considerer l'intuition et l'induction. Laissons ouverte la question
d'une cosmologie inductive ( 3° section). Mais n'est-il pas possi-
ble de saisir intuitivement la convertibilite entre une certaine deter-
mination sensible et la determination intelligible correspondante.
La reponse est affirmative. Car,dans l'unite du compose humain,
l'intelligence peut saisir l'activite sensitive elle-m~me, du moins cer-
tains elements necusairu de l'operation sensitive. Et ces memes
elements sont vecus par la sensibilite. 11s sont done saisis selon deux
contenus de conscience.
Voici quels sont ces elements.
La sensibilite comporte necessairement une connaissance et un
appetit.
LES SCIENCES POSITIVES ET LES TROIS SECTIONS DE LA COSMOLOGIE 177

Quant a l'appetit, nous experimentons sensiblement une attrac-


tion; le correspondant intelligible est le bien.
Quant a la connaissance, eile oppose necessairement sujet et ob-
jet, selon une exteriorite (au sens originaire de ce mot) pour lasen-
sibilite, selon une distinction pour l'intelligence.
La connaissance sensible atteint necessairement son objet spa-
tialement et temporellement, a quoi repondent respectivement pour
l'intelligence l'unite (deficiente) et la duree (deficiente aussi, acti-
vite selon la succession) de l'~tre corporel.

II. - LES SCIENCES c INFORMEES » PAR LA METAPHYSIQUE

Une fois deduite, la metaphysique fondee sur le jugement com-


me jugement, peut apporter quelque chose aux sciences: une justi-
fioation critique.
II n'est pas question de deduire une these scientifique a partir
de theses metaphysiques : le raisonnement syllogistique ne passe
pas legitimement de l'intelligible au sensible.
II ne s'agit pas de rendre legitime la methode scientifique. Avant
la justification critique des premiers principes (par la retorsion aris-
. totelicienne), les hommes afflrmaient legitimement l'objectivite de
leur pensee, et mettaient legitimement en oeuvre le principe de con-
tradiction et le principe du syllogisme. Leur intuition sufflsait. Mais
devant un adversaire hypercritique, tel que le sceptique radical, il
a f allu trouver une justification critique (la retorsion). Celle-ci mon-
tre precisement que les prearistoteliciens avaient le droit de se pas-
ser de justification critique. (Tandis qu'une conclusion de raison-
nement n'est pas legitimement affirmee avant le raisonnement lui-
m~me).
Ainsi le savant, prephilosophe, peut admettre legitimement ses
principes methodologiques. Mais s'il se presente un adversaire hy-
percritique, le philosophe devra intervenir.

1. - Mathematiques.

Alors que la physique s'occupe d'experiences contingentes, les


mathematiques considerent les necessites de la sensibilite comme tei-
le. Elles comporteront une geometrie et une cinematique.
Et la sdence cf.u nombre?
Dans l'origine de la numeration, chez l'enfant notamment, il y
a d'abord un stade concret, oil l'on ne fait pas abstraction de la sin-
12 - Stadl filosofici
118 GASTONB ISAYB S. 1.

gularite des objets. Puis, gräce a une induction selon le mode du


physicien, on arrive a des lois, mais d'ordre physique. Le stade ma-
thematique ne commence que lorsqu'on additionne, non plus des
objets physiques, mais des placea. Deux places plus deux places
font quatre places, qu'elles soient occupees par des pommes, des
chaises, des mouches, ou des vaches. Nous sommes arrives a une
necessite geometrique, appartenant a une topologie intuitive.
En ce qui concerne ces premiers principes de la numeration,
l'intuition peut-dle etre justifiee critiquement par u.ne retonion'l
II faul distinguer. II y a retorsion si l'on considere la nume-
ration comme exprimant les proprietes du predicat universel par
rapport aux sujets singuliers 2 • En effet, l'adversaire hypercritique
pose son objection par un jugement dont le sujet est singulier et le
predicat universel, par exemple: « votre these est fausse >. Mais les
proprictes ainsi definies ne sont pas celles du nombre arithmetique,
car elles expriment le rapport du predicat quel qu'il soit au sujet
q11el qu'il soit, elles sont donc definies a partir du jugement comme
jugement et appartiennent a la metaphysiqru.
Les proprietes arithmetiques, rattachees a la spatialite neces-
saire du jugement direct, n'ont pas le meme privilege (car l'adver-
!:aire peut objecter par un jugement reflexe). Mais si l'adversaire
n'est pas interieur au philosophe critique, si c'est un autre homme
qui objecte, les necessites du dialogue sont mises en oeuvre. Et,
moyennant cette restriction, une retorsion pourra intervenir. Car le
dialogue entre hommes doit obeir aux necessites spatiales et tempo-
relles, meme s'il exprime des jugements reflexes. Par exemple, le
son a sera prononce (ou le dessin de la lettre a sera ecrit) un cer-
tain nombre de fois. Et l'objectant tient a ce nombre, car l'omission
ou l'addition de certaines lettres changera le sens de la phrase et
pourra m~me transformer l'objection en adhesion in acta ngnato.
Le fait .d'enoncer une objection renferme donc, exercite, la conces-
sion d'une numeration arithmetique, au moins elementairea.
Conclusion: la metaphysique est immanente per modum for-
mae au savoir mathematique. Elle apporte au mathematicien l'exi-
gence d'unite scientifique, la valeur des premiers principes logi-
ques, un critere de discrimination entre determinations mathema-

2 Allusion A la theorie des ensemble et au logicalisme de Bertrand Russell.


_ a Ceci dit, nous ne pretendons pas que toute Intuition matheinalique sera
jusliftable critiquement par retorsion. M.Sme en metaphysique, il y a distinc-
tion inadequate entre le domaine de I'intuilion et celui de la retorsion. Par
exemple, I'homme a I'intuition de sa volition libre, intellectus inlelligit se
uelle; mais nous n'avons pas de retorsion immediate contre celui qui nierait
la volilion.
LES SCIENCES POSITIVES ET LES TROIS SECTIONS DE LA COSMOLOGIE 179

tiques et determinations non mathematiques, et enfin une methode


de retorsion applicable a la justification critique de certains prin-
cipes mathematiques.

Ces remarques pourraient etre appliquees a la geometrie et a la


cinematique.
Mais ici, la critique des mathematiques, malgre son äme meta-
physique, semble entrer en conflit avec des faits positifs.
En cosmologie deductive, nous n'avons afflrmc ni l'infinite de
l'espace ni sa divisibilite indefinie. Ces questions concernent les
sciences. Mais si la physique contredit les mathematiques, ne con-
damne-t-elle pas du meme coup l'apport de la metaphysique a la
philosophie des mathematiques? Or, la relativite generalisee contre-
dit l'infinite de l'espace, la microphysique contredit la divisibilite
indefinie, Ia relativite restreinte contredit la cinematique classique.
De nouveau, il faul distinguer.
II y a des principes authentiquement mathematiques, confor-
mes a la discrimination philosophique des objets formels, apparte-
nant donc aux necessites de toute sensibilite possible (par exemple
les principes de la numeration) ou du moins aux necessites de la
a
sensibilite humaine teile qu'elle ete creee dans notre monde cor-
porel (par exemple, l'axiome des trois dimensions).
Mais il y a aussi des habitudes d'imogination, auxquelles, par
une induction illegitime (par une physique trop hätive), nous attri-
buons une necessite stricte.
Notre imagination s'exerce a l'echelle humaine. Par exemple,
eile est radicalement incapable de discerner du cercle le myriagone
regulier. Elle reste inerte devant l'echelle microphysique comme de-
vant l'echelle des espaces et des vitesses astronomiques. Et comme,
a l'echelle humaine, la difference entre Ie monde physique et Ia geo-
metrie euclidienne (ou la cinematique classique) est indiscernable,
une physique trop hätive conclut a un caractere universel (applica-
ble a toute echelle) des habitudes imaginatives. Nous disons « con-
clut ». II y a raisonnement (au moins implicite), il n'y a pas intui-
tion.
II n'y a pas davantage retorsion. Si vous niez le postulat d'Eu-
clide, vous ne le concedez pas ipso facto. Meme chose pour la formu-
le classique de la composition des vitesses, et pour le principe de di-
visibilite indefinie. En ce qui concerne ce dernier, une excellente il-
lustration de notre expose pourrait etre donnee par la discussion
des arguments de Zenon. Par exemple, Zenon, se basant sur le fait
qu' Achille rattrapera la tortue, en deduit que le temps et l'espace
180 GASTONE ISAYE S. I.

sont indefiniment divisibles; mais dans sa deduction il a insere une


fausse intuition, comme le montrerait le film de la course.

2. - Sdences experimentales.

La valeur de l'induction est justifiee critiquement de plusieurs


manieres.
Si l'on a deja fait une c.osmologiie deductiue, on sait deja que
les corps agissent selon des lois. Ces lois intelligibles (mais incon-
nues de l'homme) correspondent a des lois d'ordre sensible; ceci,
parce que les determinations sensibles sont objectives (imparfaite-
ment, il est vrai). La possibilite de connattre ces lois et la valeur de
l'induction se deduisent de la.
Avant la cosmologie, la critique de la raison speculatiue revele
dans l'intelligence une exigence d'unite qui peut fonder la valeur de
l'induction.
La critique de la raison pratique donnera la m~me conclusion.
Et ici, une retorsfon est possible, du moins a l'adresse d'un adver-
saire exterieur. Car celui-ci veut me poser son objection. Pour ce
faire, il parle ou il ecrit. Mais s'il n'y a pas de lois physiques, l'arran-
gement de mouvements musculaires qu'il dispose a cet effet n'a pra-
tiquement aucune chance d'arriver au resultat envisage, c'est-a-dire
a un arrangement de sons successifs exprimant l'objection. Dans
le cas de l'objection la plus breve, il faudra au moins essayer de faire
entendre quelque chose comme: « II n'y a pas de lois physiques >.
On a une chance de reussir contre soixante millions de milliards de
chances d'echouer. C'est encore pis si l'objection s'allonge. Or l'ob-
jectant, par le fait m~me de son action, concede qu'il a au moins une
probabilite serieuse d'arriver a se faire comprendre. Donc il conce-
de l'existence de lois physiques.
Ainsi, pour des raisons analogues a celles du paragraphe pre-
cedent, la metaphysique est immanente per modum f ormae a la
science experimentale.

III. - COSMO.LOGIE INDUCTIVE

Comme nous l'avons vu, la seule deducti.on ne permet pas d'in-


terpreter metaphysiquement les determinations sensibles.
L'intuition permet d'interpreter metaphysiquement quelques
determinations sensibles, tres peu nombreuses : bien. sensible, ex-
teriorite, espace, temps.
LES SCIENCES POSITIVES ET LES TROIS SECTIONS DE LA COSMOLOGIE 181

Ceci permettra deja une utilisation metaphysique de conclusions


fournies par l'induction scientifique.
Nous en trouvons un exemple dans le discours pontifical du 22
novembre 1951. Divers raisonnements scientifiques, partis de faits
positifs et comportant des inductions, convergent vers cette conclu-
sion que l'univers corporel aurait commence iI y a environ cinq mil-
liards d;annees. Cette these relative ,au temps du physicien, peut im-
mediatement, par intuition, etre interpretee metaphysiquement: le
monde corporel a une duree limitee. A partir de la, le metaphysi-
cien pourra prouver I'existence de Dieu.
Mais une .autre induction, d'un type special, permet de trouver
une interpretation metaphysique du sensible, et donc de faits po-
sitifs.

1. - Principe de l'interpretation inductive.

Cette induction doit exister et eile existe.


Elle doit exister.
Car la fin derniere de l'intelligence est la fin derniere de tout
l'homme. Donc la fin propre de la sensibilite est subordonnee a la
fin derniere de l'intelligence. Donc la sensibilite doit servir a l'in-
telligence.
Et ce principe vaut pour la sensibilite en tant que faculte de
connaissance. Donc l'intelligence doit pouvoir utiliser le fait que la
sensibilite reussisse dans son action, c'est-a-dire le fait que l'opera-
tion sensitivo-rationnelle denommee jugement direct atteigne la ve-
rite. Et ceci depasse la dependance indirecte qui caracterise la me-
taphysique deductive. De plus, notre principe vaut non seulement
pour les elements necessaires de la sensibilite mais aussi pour les
determinations contingentes du jugement direct. Et ceci deborde le
d9maine de l'interpretation metaphysique intuitive.
Donc il faut autre chose que la deduction et autre chose que
l'intuition. II faul une interpretation par induction.
Mais l'inductfon scientifique ne suffit pas. Une loi inductive de
la physique etablit une connexion universelle entre deux types de
phenomenes sensibles. L'interpretation metaphysique inductive po-
sera une connexion universelle entre un certain type de phenomene
sensible et une certaine determination intelligible. Le~ experiences
qui fondent les deux inductions differeront elles aussi.
Et comme les determinations metaphysiques sont saisies dans
notre propre vie intellective ( et volitive), les experiences qui doivent
fonder l'interpretation inductive saisiront des connexions entre vie
interieure d'ordre intelligible et vie interieure d'ordre sensible.
18Z GASTONE ISAYH S, I,

C'est pourquoi la cosmologie inductive commence pa.r une psy-


chologie inductive. Elle comportera une serie d'inductions et de de-
ductions alternees. Elle livrera successivement les criteres sensibles
qui correspondent a l'homme, a la Mte, a la plante, au mineral. Et
cet ordre ne pourra pas ~tre renverse.

2. - L'exist.ence des ql.ltllre regnes.

Pour etablir l'existence d'animaux raisonnables distincts de


moi, je dois etablir un premier critere. Ce sera le langage articule
(ou son equivalent visuel, tactile, etc.).
Le point de depart sera foumi par des experiences internes qui
mettent en connexion mes pensees et certains sons articules qui,
auparavant, etaient pour moi des moyens d'action mais non un lan-
gage. (Les sons en question sont ceux que mon entourage adulte
emploie comme des termes reflexifs, termes de seconde intention).
L'induction va eriger ces sons articules en critere de l'Mre qui af-
firme. Des deductions appliqueront ce critere a mon entourage.En
suite de quoi les sons articules pourront ~tre saisis comme des ma-
nifestations intentionnelles de la pensee, comme un langage.
Connaissant d'autres personnes, je pourrai faire de nouvelles
experiences et une nouvelle induction. Je decouvrirai ainsi un deu-
xieme critere de l'humanite, a savoir une sorte de definition ana-
tomique et physiologique d,e l'homme.
Nouvelle induction et nouvelle deduction pour les -betes. M~me
chose pour les plootes et enfin pour les mineraux.
Bien entendu, la repartition des objets corporels en quatre re-
gnes ne tranchera pas tout de suite les questions de frontieres. En
presence de certains corps, je ne saurai s'il f aut les classer dans
tel regne ou dans le regne voisin. Ma connaissance du critere devra
se preciser, toujours par induction.

3. - Individu, espece, cause ef(iciente, finalite.

La premiere notion metaphysique de l'individualite est acquise


dans la saisie du moi intelligent. La difficulte ne sera donc pas de
savoir comment mes molecules ( ou mes atomes !) ne sont que des
parties d'individu mais comment des molecules (ou des atomes?)
mineraux sont des individus. Ici, comme dans la question prece-
dente, I'ordre a suivre est l'inverse de l'ordre « scientiste ».
En procedant de proche en proche et de haut en bas, nous ar-
riverons a attribuer a une certaine structure spatiale et temporelle
LES SCIENCES POSITIVES ET LES TROIS SECTIONS DE LA COSMOLOGIE 183

le caractere .de critere de l'individualite. En descendant de regne en


regne, nous eprouverons une difflculte croissante a preciser notre
critere. Cette difflculte est exprimee par le langage courant, selon
lequel il y a un cheval et un pommier, mais du fer, et non un fer.
L'indetermination a l'echelle microphysique marquera l'eva-
nouissement de notre critere. Aussi, nous I'admettrons tout naturel-
lement, une particule microphysique n'est pas un individu mais une
partie d'individu. L'individu mineral se situera a l'echelle de l'atome
ou de la molecule ( avec la difflculte de definir cette demiere dans
les corps composes).
Correlativement, la notion d'espece se definira: facilement dans
le regne humain, plus difficilement dans le regne animal et le ve-
getal. Mais dans le. regne mineral, oit le critere de l'heredite, si im-
parfait qu'il soit par ailleurs, cesse de s'appliquer, l'incertitude va
croitre. La stabilite des groupements de proprietes physico-chimi-
ques interviendra; mais il y aura Iieu d'eliminer ces edifices acciden-
tels dont la stabilite serait explicable par des considerations pure-
ment geometriques ou mecaniques. L'incertitude du critere de l'in-
dividualite (atome ou molecule?) se retrouvera ici: les corps dits
« composes > sont-ils autre chose que des edifices accidentels?
La notion de dependance est decouverte dans l'experience inter-
ne. Dans un raisonnement, la conclusion ( operation reelle de I'es-
prit) depend ontologiquement du point de depart ( autre operation
reelle). La volition (m~me quand eile est libre) depend de la con-
naissance: ignoti nulla cupido. On veut un moyen parce qu',on veut
la fin.
Une dependance, caracteristique de notre materialite, se trou-
vera (intuitivement aussi) dans l'aspect passif de notre operation
sensitive.
Puis, considerant les autres hommes, les animaux, etc., nous
poserons comme critere sensible de la causalite efflciente la succes-
sion irreversible ( avec une certaine ressemblance du second phe-
nomene au premier).
La find.ite appellerait des remarques analogues. Pensons au
« miracle > des singes dactylographes qui ecriraient toute une bi-
bliotheque. Et nous poserons comme critere sensible de la finalite
la synthese d'une complexite teile que son unification soit meca-
niquement improbable.
18' GASTONE ISAYE S. I.

4. - Le transcendant.
Et d'abord la transcendance relative: la spiritualite _de l'ame
humaine.
Ayant reconnu l'existence d'autres hommes, je puis leur ap-
pliquer les conclusions de la psychologie deductive: l'operation ju-
dicative impliquc rNlcxion parfaite, donc une operation que la for-
me substantielle 11ossMe ratione sui, donc la spiritualite de cette
forme.
Gn autre probleme sera le critere de la liberte dans l'operation,
critere nl•ce~saire par exemple a l'exercice de la justice humaine.
Comme il n'y a pas de decision libre qui soit moralement indifferen-
te, un crilere pourra Mre donne par les signes d'une conscience mo-
rale au sens strict.
Ensuite la transcendendance absolue, divine.
Quanta la preuoe philosophique de l'existence de Dieu, si l'on
veut, pour la deuxieme voie de saint Thomas, partir d'une causalite
dans le monde exterieur, on pourra recourir au critere de la succes-
sion irreversible (avec ressemblance ... ).
Pour la cinquieme voie, le point de depart pose J?ar saint Tho-
mas s'explicite et se precise par notre critere .de la finalite: unite
synthetisante mecaniquement improbable.
Quant a l'apologetique par le miracle, les criteres de l'interven-
tion dh•ine ne sont pas sans analogie avec les signes d'une decision
libre humaine. Sans doute, les objections purement metaphysiques
contre le miracle sont d'un autre ordre. Mais le prejuge scientiste,
lui, est deja refute par Ia liberte de l'bomme.

5. - Conclusion.
La premiere section de la cosmologie ne depend qu'indirecte-
ment de la sensibilite. Les progres des sciences positives n'aft'ectent
nullement cette cosmologie deductive.
Par contre, les sciences dependent d'une demarche metaphysi-
que quant a la justification critique des lois logiques generales et
des principes methodologiques propres aux mathematiques ou a la
physique. Les faits positifs ne peuvent modifier ce qui a ete ainsi
justifie critiquement. Par contre ils peuvent reviser des habitudes
d'imagination qu'on aurait erigees indilment en principes autben-
tiques.
Enfin la cosmologie inductive depend d'experiences que la scien-
ce peut enrichir et preciser. Cette section de la cosmologie presup-
pose une psychologie inductive.
III

R. D. ROBERTO MASI
J>ROFES.SORE NEI PONTIFICI ATENEI LATERANENSE E URBANO
DE PROPAGANDA FIDE

METODO E STRUTTURA DELLA FISICA

Mi ehiedo ehe eosa avrebbe detto S. Tommaso, "Se ritornasse


nei nostri giorni a disculere .di filosofia della natura; se dobbiamo
giudieare dal suo atteggiamento di fronte alla eultura dei suoi tem-
pi, ei e lecito pensare ehe I' Angelieo si sarebbe eomportalo eon gran-
de liberta in riguardo di antiehe posizioni della nostra scolastiea,
diffieilmente sostenibili dopo le reeenti seoperte scientifiehe, ed
avrebbe aeeettato eon onesta e eon entusiasmo le nuove eonquiste
della scienza. La verita deve sempre essere aceettata eon entusia-
smo. E' bensi vero ehe non e facile distinguere cio ehe e definiti-
vamente aequisito nella moderna scienza e cio ehe e eadueo. Ma
eerlamente grandi passi sono stati fatti e la neo-seolastiea e aper-
ta a tutte le seoperte e a tutte le nuove eonquiste della verita.
Nella diseussione sulla divisione delle scienze bisogna lener
presente questo senso di adattamento; una scienza, intesa eome
eomplesso di eonoseenza di una dala eategoria di eose, esiste eon-
eretamente, con il suo metodo, eon le sue rieerehe. E se vogliamo
parlare di epistemologia, dobbiamo tener presente la seienza spe-
rimentale, eosi eome si presenta oggi, non una scienza astratta, eo-
me si pensa dovrebbe essere. Giaeehe la scienza e sapere e tende al
sapere, ma vi puo arrivare in diverse maniere; non solo in quanto
la stessa eosa puo essere oggetto di scienze diverse, ma anehe in
quanto la stessa seienza puo adoperare diversi atteggiamenti per
raggiungere il suo scopo. Le seguenti eonsiderazioni riguardano la
scienza sperimentale eome e, non come dovrebbe essere. Dei resto
questo dover essere dipende da una partieolare eoneezione del sa-
pere scientifieo sperimentale, eioe da presupposti, ehe hanno un
l~rgo margine di arbilrarieta.

* * *

Nello studio della scienza sperimentale si possono seguire tre


metodi.
186 ROBERTO MA.SI

I. - II primo metodo, ehe ehiamo realista-sperimentale adope-


ra eome strumento di rieerea non solo l'esperienza, ma anehe ragio-
namenti filosofiei. E' questo il metodo dell'antiea fisica e si rieol-
1„ga ad Aristotele. E' noto ehe la fisiea di Aristotele era una parte
della filosofia.
Aristotele ereo ed espose ampiamente la sua teoria della seien-
za deduttiva nei Secondi Analitici: seienza equivalente a ragiona-
mento. Dentro questo sehema deduttivo egli volle inquadrare an-
ehe la fisica, eioe la scienza sperimentale. In questo senso manea
ad Aristotele la teoria della seienza sperimentale induttiva; benehe
in pratiea egli eonobbe eertamente l'induzione e l'applieo in tantis-
simi easi, speeialmente nella biologia, in eui era versatissimo, ap-
partenente com'era ad una famiglia di mediei illustri.
Un altro aspetto della fisica aristoteliea e il suo earattere fi-
losofieo : il eontenuto della seienza aristoteliea ha senso filosofieo,
uprime, adopera, eonelude a eoneetti filosofiei. Questo atteggia-
mento apparisee bene, oltre ehe da tutta l'impostazione delle opere
fisiehe, in un luogo ove Aristotele propone espressamente il meto-
do della fisica, nei eapitoli 3-9 del secondo libro della Physioo.
Per es. nel eap. 7, dopo aver ripetuto la divisione delle eause in
qualtro specie, Aristotele preeisa ehe la fisica deve essere studia-
ta per mezzo delle quattro eause (Phys. 1 II, 7, 198 a 22sgg.). E
nel eapitolo 9 Aristotele insiste sulla eausa finale, ehe viene posta
eome ultima ragione dei fenomeni naturali. La fisiea di Aristotele
e dominata dalla finalita.
Pertanto, anehe a preseindere ehe la fisiea aristoteliea e de-
duttiva, almeno nel suo aspetto esterno, resta il punto fondamen-
tale ehe essa e sostanzialmente impermeata di eoneetti fllosofiei;
e una parte della filosofia.
Questo atteggiamento e restato per tutto il medio evo, sino ai
grandi seienziati del rinaseimento, Baeone, Galileo, Newton.
Oeeorre notare ehe il rinaseimento ha seoperto il metodo in-
duttivo in opposizione al metodo deduttivo della fisiea aristoteliea
e medievale; mentre e restato sostanzialmente il contenuto filosofl-
eo. Si rieordi invero ehe Baeone eereava eon il suo metodo indut-
tivo la forma della eosa, eioe la legge e la struttura intima della
eosa, la realta in se stessa; Galileo eoneepiva il mondo seeondo la
metafisiea meeeanieista; Newton inizia il suo eapolavoro, Philoso-
phiae naturalis principia mathematica eon un seholion, ove si pre-
mettono a tutta la trattazione eoneetti fllosofiei; basti per tutti il
eoneetto di tempo e di spazio assoluto, ehe furono la eausa di
tanti disorientamenti ed ineiampi nella fisiea. Ma anehe tutta la
fisiea meeeanieista antiea e reeente ha un contenuto fllosofieo, in
METODO E STRUTTURA DELLA FISICA 187

quanto intende indicare con i suoi modelli meccanici il vero stato


delle cose, la realta oggettiva.
Secondo questo metodo la fisica viene intesa con un conte-
nuto concettuale della stessa specie di quello filosofico; la differen-
za tra filosofia della natura e scienza sperimentale consiste sola-
mente in elementi secondari. Per es. la filosofia della natura studia
le eause ultime, la scienza le eause prossime. Ma in sostanza la
scienza, in questo sehema, puo aiutarsi eon tutti i mezzi a dispo-
sizione dell'intelligenza umana, anehe eon principi filosofiei e me-
tafisiei, per es. il prineipio di finalita, di eausa effieiente, di ragion
suffieiente, il eoneetto di sostanza e di aecidens, la teoria .della ma-
teria e della forma, eee. Dei resto questo e il metodo naturale di
studiare il mondo materiale, metodo cioe adatto alla intelligenza
umana, ehe per naturale tendenza eorre subito alla rieerea delle
essenze e ehiede le eause ontologiehe dell'aeeadere eorporeo.
Ma questo metodo realista-sperimentale non e risultato sem-
pre adatto allo sviluppo .della scienza. L'insueeesso della fisiea ari-
stotelica e di tutta la seienza medievale e dovuto speeialmenle alla
mancanza di metodo induttivo, meutre Galileo e Newton promos-
sero una grandiosa riforma della seienza sperimentale per mezzo
del metodo induttivo, del raffinamento delle rieerehe sperimenlali
e eon l'uso della matematica. In questi grandi il eontenuto filosofi-
co della seienza resta: non per nulla Newton intitolava il suo li-
bro: Principi matematiei .della f ilos.ofia naturale. Ed in seguito il
contenuto filosofieo del metodo realista-sperimentale ha determinato
molte diffieolta, ehe sono state superate solo togliendo ai eoneetti
fisici un signifieato metafisieo; cito per es. il eoneetto di spazio e
di tempo assoluto, tolti di mezzo dalla relativitil einsteiniana ed i
modelli meeeaniei a ontenuto ontologieo della fisiea meeeanieista,
eliminati dalla meeeaniea quantiea. · ··
II metodo realista-sperimentale studia il eorpo indirizzandosi
direttamente, sebbene mediatamente, alla eomprensione dell'essen-
za. Ed in realta tutte le proprieta della materia debbono dipen-
dere dall'essenza del eorpo; in astratlo e possibile una seienza del-
la materia ehe, partendo dalla definizione dell'essenza, ehiaramen-
te intesa, arriva eon metodo deduttivo alle ultime eonseguenze, alle
proprieta fisieo-ehimiehe dei eorpi, ehe sono studiate dalla seienza
sperimentale: potremmo dimostrare la legge di Coulomb, Ie Ieggi
della radiattivita in filosofia, eon un ragionamento. Ma di fatto e
impossibile alla nostra intelligenza questa penetrazione totale del-
l'essenza dei corpi e non ci riesee allora possibile eollegare le leggi
fisiehe alle essenze della materia. Pertanto siamo eostretti studiare
separatamente i due aspetti della materia, l'aspetto interno ontolo-
188 ROBERTO MASI

gico e l'aspetto esterno delle proprieta fisiche. Percio non sappia-


mo con certezza quali elementi fllosofici possono venire applicati al-
la spiegazione dei f atti fisici ne ci e possibile collegare insieme i
due ordini, filosofico e fisico, se non con considerazioni piuttosto
generiche.
Queste sono le ragioni dell'insuccesso del metodo realista-spe-
rimentale nello sviluppo odierno di molti capitoli della scienza spe-
rimentale.

* * *

II. - In oppos1z10ne al precedente, c'e un altro metodo nella


scienza, ehe e venuto dalla filosofla: e il metodo positivista.
E' sorto nel secolo XIX, determinato dalla coscienza ormai ac-
quisita delle conquiste scientiflche, ehe si andavano moltiplicando,
venendo cosl ad incidere sul tenore di vita sociale, con le molte
risorse e comodita ehe la scienza offriva all'umanita. Mentre si co-
statava ehe la filosofla, specialmente la metafisica, smarritasi in
dispute secolari, era aft'ogata in un mare di incertezze senza otte-
nere nulla di concreto : la fllosofia hegeliana specialmente, magnift-
ca ma inconcludente. Ed allora si disinteressarono delle spiegazio-
ni metafisiche, limitandosi, secondo il metodo positivo, a costatare
e collegare i fenomeni per mezzo di leggi. Questa idea da Augusto
Comte si trasmise a tutto il positivismo, rafforzandosi specialmen-
te nel pensiero di Ernesto Mach, il celebre fisico filosofo. E dal Mach
e passata al moderno positivismo logico, iniziato dal Wiener Kreis,
ehe ottiene un drastico positivismo con il principio di verificabi-
lita. Questo principio era gia presente nel pensiero di Mach, ma ·e
stato sviluppato dal positivismo logico, ove ricevette diverse for-
mulazioni. L. Wittgenstein scrive ehe « il senso di una proposizione
e la convenienza e la non convenienza con le possibilita dell'esi-
stenza e non esistenza dei f&tti elementari > ( Tractatus logico-phi-
losophicus, 4.2, Londra 1949, p. 87 sgg.). Rodolfo Carhap pili chia-
ramente aft'erma ehe il significato di una proposizione e nel metodo
della sua verifica; « der Sinn eines Satzes in der Methode seiner
Verification liegt > ( Ueberwindung der Metaphysik durch logische
Analysis der Sprache, in Erkenntnis, II (1931), p. 236).
II principio di verificabilita vuol dire ehe esiste tutto e solo cio
ehe e misurabile.
Questo atteggiamento filosofico e il risultato del metodo scien-
tifico stabilitosi negli ultimi decenni, specialmente con il concetto
di deflnizione operativa od analisi operazionale, esposta da Alberto
Einstein nella celebre nota Elektrodynamik bewegter Körper ( 1905),
METODO E $TRUTTURA DELLA FISICA 189

ove sono proposti i eoneetti basilari della relativita. Per la psieolo-


gia un atteggiamento simile venne indieato da J. B. Watson nel suo
lavoro Behavior: An introduction t.o comparative psychology ( 1914),
con eui la psicologia si indirizzo verso lo studio del eomportamen-
to. Nel 1925 W. Heisenberg eon una eelebre nota (Zeit. f. Physik,
33, 1925, p. 879 sgg.) rendeva aneora piu eoseiente questo atteggia-
mento operazionale, osservando ehe non e leeito adoperare in fi-
siea modelli e sehemi ehe non sono stati mai sperimentati, ma bi-
sogna limitarsi al puro osservabile.
In eonformita eon questo indirizzo filosofieo e seientifieo, si puo
adoperare il metodo positivista della sperimentabilita, basandosi
sul principio ehe solo lo sperimenlabile e misurabile esisle nella
seienza. Corpo sara allora cio ehe misuro eosi e eosi, eolore eio ehe
misuro eosi e eosi, valenza eee. La misura o sperimentabilita di-
venta elemento definitorio e eriterio ultimo di verita.
Questo metodo positivista evita i difetti del primo, in quanto
eselude il perieolo ehe nella seienza vengano introdotti eoneetti ehe
non hanno senso o ehe sono in eontrasto eon le altre realta fisi-
che. Si pensi per es. allo spazio e al tempo assoluto di I. Newton,
all'etere, al flogisto, ai fluidi elettrici e magnetici, ece. I quali eon-
eetti, benehe furono di qualche utilita nella scienza, riuscirono alla
fine di ostaeolo insormontabile e solo dopo furono eliminati la
scienza pote progredire; sappiamo quanto dannoso alla ehimiea fu
il concetto di flogisto. Tutte queste nozioni sono di tipo metafisieo e
non sono sperimentabili.
Sieeome l'esperienza •diventa l'elemento definitorio delle no-
zioni ehe entrano a far parte della scienza, solo quei eoneetti ehe
l'esperienza approva potranno essere introdotti; ed essendo stati
confrontati eon lo stesso eriterio, si allontana il pericolo ehe pos-
sano essere in eontrasto tra di loro. E neppure saranno in eontra-
sto con le leggi ed i prineipi della seienza sperimentale, ehe appunto
sono alla base dell'esperienza definitoria.
Questo metodo, fondato sull'esperienza, potrebbe sembrare ot-
timo; ma qualora sia spinto sino in fondo, anehe se resta solo me-
todo e non assurge a principio filosofieo, eome aeeade nel neo-po-
sitivismo, ha il grave difetto di rendere impossibile il eostituirsi ra-
zionale della seienza. Impedisee infatti la giustifieazione eritiea del-
la scienza in quanto seienza, eon l'impedire la determinazione dei
prineipi metafisiei, senza dei quali ogni sapere e impossibile, per
es. l'esistenza del soggetto pensante, la possibilita e verita del co-
noseere. il prineipio di eontraddizione, la definizione di verita, eee.
Se infatti questi principi fossero veri in quanto sperimentabili e per
quanto sperimentabili, come potrebbero fondare gli stessi eoneetli
190 BOBBBTO MASI

di esperienza e di sperimentabilita, ehe a loro volta non possono


avere signifieato e valore se non dipendentemente da questi stessi
principi? Se non presuppongo la possibilita di eonoseere, eome mi
~ara possibile fare un'esperienza? Senza il prineipio di eontraddi-
zione nessun risultato del piu perfetto esperimento ha valore. Ed
inoltre, forzando il prineipio di verifieabilita si giunge a vanifieare
l'oggetto stesso di studio; perehe se solo lo sperimentabile in quan-
to tale esiste, solamente dell'impressione mia soggettiva ho io l'espe-
rienza, eui non posso assieurare ehe eorrisponda qualehe eosa al
di fuori. Parlando per es. del rosso, non intendo indieare una eosa
esterna rossa, ma solo la mia impressione, ehe io ehiamo rosso.
l\lentre gli uomini si sono messi d'aeeordo a ehiamare rosso quel
contenuto di eoseienza ehe io ho vedendo quella parte dell'are~ba-
leno. La scienza tratterebbe di questo eontenuto di eoscienza. In-
oltre io non posso sapere se esistono veramente altri uomini simili
a me. Io non eonoseo se gli altri uomini, qualora ci sono, guardan-
do la stessa parte dell'areobaleno, hanno la stessa impressione ehe
io ehiamo rosso. Ne mi e possibile fidarmi delle esperienze degli
altri. Evidentemente eon queste premesse, nessunä scienza speri-
mentale e possibile.
Pertanto il metodo positivista, totalmente fondato sulla speri-
mentabilita, si dimostra impossibile, anehe se venga aeeettato solo
eome metodo e non eome prineipio filosofico. Benehe metodo, rag-
giunge gli stessi assiomi metafisiei ehe sono a f ondamento di ogni
seienza. E' il metodo del fenomenismo estremo, ehe si trasforma
immediatamente nella negazione della scienza, la quale inveee deve
eostruire.

* * *

III. - -E' possibile eostruire la seienza sperimentale eon un


terzo metodo, ehe evita i difetti del primo e del secondo e ne ,rae-
eoglie i pregi. Un metodo ehe, rispettando le esigenze dell'esperi-
mento e tenendo eonto del progresso delle seienze, salvi tuttavia la
possibilita metafisiea del eritieo eostituirsi della seienza. II prin-
eipio fondamentale di questo terzo metodo, ehe ehiamo fenomeni-
sta-sperimentale, e la sperimentabilita, come nel secondo metodo :
. esiste nella scienza tutto e solo eio ehe e sperimentale; la scienza
studia i eorpi nella loro sperimentabilita, nella loro misurabilita,
seienza dell'osservabile in quanto osservabile.
Questo prineipio pero non deve essere applieato agli elemen-
ti, ehe sono neeessari per lo stesso f ondamento della seienza. Lo
seienziato dovra aceettare dalla metafisiea i principi ehe fondano
METODO E STRUTTURA DELLA FISICA 191

la scienza sperimentale, per es. l'esistenza del soggetto pensante,


l'esistenza dell'oggetto di ricerca, la possibilita di conoscerlo, il prin-
cipio di contraddizione, ecc. Premessi questi elementi, ogni ulterio-
re sviluppo sara basato sull'esperienza, nel senso ehe esiste tutto
e solo cio ehe e misurabile. Percio, pur sapendo del valore dei prin-
cipi metafisici, per la difficolta di applicarli senza errore, non si
accetta l'applicazione di essi se no.n dopo il controllo dell'esperien-
_za. Per es. il principio di causa e certamente vero; se pero non
riesco a controllar10 su di un fenomeno; posso dire ehe queslo e,
fisicamente, acausale. Secondo questo metodo tutti i principi meta-
fisici e tutti i calcoli matemalici ehe prevedono il risultato di una
misura, sono da considerarsi come delle ipotesi, ehe debbono essere
confermate dalla realta sperimentale. Ed ancora tutte le leggi fi-
siche, ehe raggruppano fatti gia sperimentati, sono sempre ipotesi
per i fatti futuri, verificabili dall'esperienza.
Le affermazioni ehe la scienza fa dentro questo metodo non
hanno significato filosofico di realta, ma solo di sperimentabilila,
di misurabilila, di apparenza sperimentale: la traduzione . in lin-
guaggio filosofico e possibile solo attraverso l'esperienza ehe con-
trolla la teoria. Dentro questo metodo va intesa la definizione ope-
ratoria, ehe si e dimostrata tanto utile alla fisica moderna, per
mezzo della quale un oggetto fisico e definito indicando il modo
con cui viene misurato. Per es. il fisico definisce il tempo per mez-
zo del modo ·con cui si misura, cioe non chiede la defmizione di
tempo, ma il metodo di misura; analogamente non chiede ehe cosa
e il campo di forze ed il potenziale, ecc. ma si fa la misura; e
definisce, per es. il fosforo, descrivendone le proprieta sperimenta-
bili, non indicando l'essenza metafisica (genere prossimo e diffe-
renza specifica) o l'essenza fisica (materia e forma). II criterio di
verita e la misurabilita.
Dei reslo chi ha pratica delle ricerche fisiche sa bene ehe in
genere il fondo ultimo dei moderni concetti fisici e svuotato di
ogni significato metafisico e filosofico; mi riferisco specialmente al-
la fisica sperimentale e teorica riguardanle l'atomo, ehe costitui-
sce la parte piu perfetta della scienza sperimentale. Ed anche la
biologia e la psicologia sperimentale vanno spogliandosi di con-
cetti filosofici.
lntendo parlare qui della scienza nella sua tecnica specifica
e non mi riferisco alle elaborazioni filosofiche, ehe gli scienziati si
compiacciono di costruire sulle loro scoperte scientifiche; perche
allora essi non fanno piu scienza, ma filosofia della scienza.
192 ROBERTO MASI

* * *

Quale di questi tre metodi e migliore?


II seeondo, eome gia dissi, non si sostiene, perehe distrugge gli
stessi fondamenti della seienza: va seartato assolutamente. Piu ehe
un metodo fisieo e un principio filosofieo. Restano gli altri due me-
todi, il realista sperimentale e quello fenomenista sperimentale. II
primo e piu eonfaeente alla mente umana, l'altro piu effieaee, spe-
eialmente in alcuni problemi partieolari. Ma io penso ehe tutti e
due i metodi possono in qualche modo essere aeeettati, seeondo i
diversi eampi di studio. Pertanto la moderna seienza eontiene eapi-
toli in eui si adopera il primo metodo ed altri in eui si adopera
quello fenomenista-sperimentale.
Quello ehe veramente l'umana intelligenza eerea e la realta
stessa nel suo signifieato ontieo ed ontologieo; ad esso si rivolge
insistentemente; la eonoseenza di questo .eostituisee la vera seien-
za. Cio vale in ogni conoseenza umana, anehe in quella della seien-
za positiva. Aeeade pero ehe alle volle e faeile raggiungere la realta
sperimentale nel suo signifieato ontologieo ed allora si adopera il
primo metodo, realista sperimentale; alle volle e inveee molto piu
diffieile ed allora si preseinde dall'elemento ontologieo se si adope-
ra il terzo metodo, fenomenista sperimentale. E' aeeaduto ehe qual-
ehe volta si uso il primo metodo, ma essendo stati erroneamente
applieati i prineipi metafisici, si eommisero errori imperdonabili,
ehe arrestarono il progresso della seienza, per es. lo spazio assoluto,
il tempo assoluto, il flogisto, eee. Altre volle invece il metodo rea-
lista-sperimentale d~ede buoni risultati, per lo meno approssimati,
per es. le teorie modellistiche, la teoria dell'atomo di Dalton, l'a-
tomo planetario di N. -Bohr, il retieolo eristallino, ece. sono dentro
l'ambito di una eoneezione realistiea, in quanto si intendeva deseri-
vere il vero modello del mieroeosmo : si voleva veramente dire ehe
l'atomo e una pallina piceola pieeola, oppure un sistema solare in
miniatura, eee. Si rieordi pure il proeedimento della meeeaniea ra-
zionale, eome esempio di eoneezione realista. Anehe nell'astronomia
si e sempre adoperato il metodo realista-sperimentale in quanto si
e sempre inteso studiare l'astro nella sua reale struttura eome
apparisee dalle osservazioni, anehe se spesso sehematizzato, per fa-
eilitare i ealcoli.
11 terzo metodo, fenomenista-sperimentale, si e iniziato teoriea-
mente eon P. Duhem; A. Einstein lo ha adoperato pratieamente
e eon esso ha fondato la teoria della relati_vita. W. Heisenberg lo
ha usato in pieno nella sua meeeaniea delle matriei. Nella attuale
METODO E STRUTl'URA DELLA FISICA 19S

fisic'a teoriea, tutta dominata da.Ha meeeaniea quantistiea, il meto-


do seguito e prevalentemente quello fenomenista-sperimentale. In-
tesa la fisiea piu reeente in questo senso, e piu facile interpretarne
tanti eoneetti, ehe non possono avere un signifleato ontologieo. Cosi,
per es., l'indeterminismo fisieo delta meeeaniea quantiea, la eon-
trazione dello spazio e la dilatazione del tempo nella teoria della
relativita, eee. Non e detto ehe tutta una teoria debba intendersi
neeessariamente in senso fenomenistieo. Alcuni eoneetti si possono
intendere solo in senso fenomenistieo, per es. l'indeterminazione,
altri inveee possono immediatamente tradursi in linguaggio reali-
sta, per es, il livello energetieo dell'atomo. Benehe mentre si svolge
la teoria fisica e-neeessario dare sempre a tutti gli elementi signi-
fieato fenomenista-sperimentale, per evitare di introdurre eoneetti
non eontrollati dall'esperienza e di adoperare abusivamente eoneetti
metafisiei o matematiei.
In pratiea nelle questioni piu sempliei e piu immediate si
puo adoperar:e il metodo realista sperimentale; ma nei problemi piu
eomplessi, speeialmente della fisiea atomiea ed aneor piu di quella
nucleare, adoperando il metodo realista, e faeile useire fuori di stra-
da eon sbagliate interpretazioni realistiehe delle esperienze: e noto
infatti ehe nel mondo atomieo e subatomieo tanti eoncetti del ma-
eroeosmo non sono piu applieabili. E' piu sicuro allora attenersi
alle esperienze per quello ehe dieono e nulla piu in senso solamen-
te fenomenista.
Se eonsideriamo le diverse parti della fisiea moderna tenendo
presenti questi due metodi, ei sara piu f acile distinguere nelle at-
tuali astrattissime teorie fisiehe il eontenuto filosofieo.

13 - Studi filoao(fci
IV

R. P. FILIPPO SELVAGGI S. I.
Pl\OFESSORE NELLA PONTIFICIA UNIVERSITA GREGORIANA

FISICA, COSMOLOGIA, METAFISICA

La presente eomunieazione si inserisee direttamente nel tema


gia trattato nelle relazioni e eomunieazioni ehe l'hanno preeeduta.
Questo fatto mi dispensa da una lunga introduzione: il problema
sul quale intendo di esporre brevemenle il mio punto di vista e il
problema delfa natura della seienz? fisiea e delle sue relazioni eon
la filosofia naturale o eosmologia e la metafisiea. Problema quindi
strettamente epistemologieo e pienamente moderno, in quanlo vie-
ne imposlo al filosofo dall'evoluzione piu reeenle delle seienze. La
seienza elassiea, possiamo dire fino alla fine del seeolo seorso, non
aveva suseitato un problema propriamente epistemologieo, ma solo
problemi eosmologiei e al piu metodologici, in quanto aveva avan-
zato nuove teorie intorno alla natura della realta fisica e aveva ri-
ehiesto nuovi sviluppi del metodo induttivo, sperimentale e ipoteti-
eo deduttivo. Solo lo sviluppo della termodinamica prima e poi le
teorie della relativita e dei quanti sono stati l'oeeasione di problemi
veramente epislemologici.
La seienza moderna ha la sua piu precisa earatteristiea nel me-
todo della defmizione operativa. Per eomprendere l'importanza di
questa earatteristiea, oeeorre subito dire ehe eon essa non si lralla
solamente del melodo della scienza. II metodo della scienza moder-
na rimane il metodo ioduttivo e deduttivo, complieali dall'introdu-
zione delle ipotesi, ehe danno luogo a quella specie di ragionamento
ehe Aristotele ehiamava ragionamento dialettico. La definizione ope-
rativa inveee e un eanone fondamentale della scienza, giaeehe ri-
guarda la definizione stessa dell'oggetto della scienza, quindi anehe
i semplici eoneetti e i giudizi primi e non solo i ragionamenti, nei
quali solo si puo parlare vropriamenle di melodo. Orbene, il prin-
eipio della definizione operativa diee ehe oggetto della fisiea sono
solo quegli enti e relazioni ehe si possono rilevare mediante espe-
rienze o operazioni fisiehe, anehe ideali, eioe se non pratieamente,
almeno eoneettualmente possibili. Cio .ehe per principio non puo
essere rilevato mediante esperienze almeno eoneettualmente pos-
196 FILIPPO SELVAGGI S, I.

sibili, non e oggetto della fisiea, ma al piu della metafisica. Con


quest'ultima preeisazione eseludiamo senz'altro l'interpretazione po-
sitivistiea della fisiea moderna, ehe, come hanno notato gia gli ora-
tori ehe mi hanno preeeduto, e assolutamente insostenibile in eam-
po filosofieo ed e parimenti insuffieiente a dar ragione della stessa
seienza fisiea.
Si tratta ora di approfondire il significato di ente fisieo, cioe
definibile operativamente. La questione da risolvere e la seguente:
l'ente fisieo, definibile operativamente, seeondo il metodo della fisi-
ea moderna, e una realta ontologiea, un ente oggettivo, un intelli-
gibile, ovvero una realta fenomeniea, soggettiva, un puro sensibile,
un puro osservabile, ehe non nega, ma prescinde eompletamente
da ogni ontologicita? Nel primo easo la definizione operativa, di cui
si parla nella nuova fisiea, non eomporta un mutamento radieale
della dottrina gnoseologiea aristotelico tomista, ma solo una precisa-
zione, precisazione importante e feconda, ma solo precisazione; nel
secondo caso-invece si avrebbe una vera rivoluzione, una nuova inter-
pretazione gnoseologiea della scienza fisica, la quale non rientrereb-
be piu nella classica definizione di scienza come cognitw rerum per
causas, ma piuttosto dovrebbe essere configurata nella formula del-
la conoscenza sintetica a priori di Kant o rientrerebbe nell'interpre-
tazione neopositivistiea della scienza ed imporrebbe quindi una net-
ta separazione lra scienza e filosofia, essendo quella nel campo pu-
ramente fenomenico, questa nel campo ontologico.
La seconda soluzione e stata proposta, fra gli seolastiei, per pri-
mo da Jacques Maritain, dietro le orme del Duhem, e viene difesa
con varie sfumature da molti autori, degni di rilievo. Secondo que-
sli autori, dunque, la filosofia prende eome oggelto l'essere reale,
l'intellegibile ontologico; le scienze invece, e specialmente la fisica,
per un'astrazione di nuovo genere, non eercano l'intelligibile, ma il
sensibile, non il noumeno, ma il fenomeno, non l'essenza, ma la mi-
sura, non la eausa, ma la legge, non la spiegazione, ma la descri-
zione. Le prove di queste asserzioni vengono generalmente cereate
nelle correnti affermazioni dei piu eelebri scienziati modemi, piu
ehe in un'analisi approfondita delle scienze nel loro reale sviluppo;
8i bada piu a cio ehe gli scienziati dieono, quando in veste di filo-
sofi parlano della loro seienza, ehe non a cio ehe essi fanno, quando
come scienziali nel laboratorio o al tavolo di studio eostruiseono la
loro scienza.
Una tale interpretazione delle scienze, nonostante l'autorita dei
suoi patroni, non ci sembra sufficientemente fondata, per varie ra-
gioni.
In primo luogo, perehe le asserite oposizioni - si noti bene:
FISICA, COSMOLOGIA, METAFISICA 197

diciamo opposizio'ne con esclusione o almeno perfetta astrazione de-


gli aspetti opposti, non semplice distinzione - fra intelligibile e
sensibile, fenomeno e noumeno ecc. sono filosoficamente insostenibi-
li; esse derivano dall'opposizione tra ragione e senso, asserita per pri-
mo da Parmenide, dagli atomisti greei e da Platone e, poi, ripresa
da Descartes, Spinoza, Leibniz, fino alla sua eonsacrazione defini-
tiva nella critica kantiana. Fu merito di Aristotele l'aver operato,
con la dottrina della forma in metafisica e dell'astrazione in lo-
gica, la sintesi non degli opposli, ma degli aspetti complementari
della realta. La ricerca posiliva di uno di questi aspetti non puo
eseludere e neppure prescindere dall'altro, anzi e una via per il
raggiungimento dell'altro: nel sensibile noi scorgiamo l'intelligibi-
le, nel fe'nomeno il noumeno, attraverso gli accidenli e le opera-
zioni noi defmiamo la sostanza, con la misura e la legge scopriamo
l'essenza e la eausa, la descrizione, quindi, non si oppone alla spie-
gazione, ma e una via per questa.
Inoltre, e principalmente, riteniamo di dover rigettare l'inter-
pretazione delle scienze, proposta dai neoscolaslici summenzionati,
perche contraria a quello ehe fanno gli scienziati nella realizzazione
della loro seienza. Di fatto le scienze ricercano la realta ontologica,
l'essere reale, benche non nella sua piu ampia generalita, ma sotto
una formalita peculiare, l'essere, la realta in quanto osservabile.
II metodo ipotetico dedutlivo, usato nelle scienze sperimentali, im-
pone delle particolari cautele per non confondere un'ipotesi, anehe
se scientifieamente fondata, con un fatto o una tesi positivamente
dimostrati. Pero anche l'ipotesi, benche solamente probabile e non
certa, ha un valore non puramente fenomenico o economico, ma
anche ontologieo benche probabile e non eerto, e un'anticipazione
probabile della verita, ehe non puo essere se non onlologica, e una
ipotesi sul reale. La matematizzazione progressiva delle scienze spe-
rimentali non le svuota del loro contenuto reale, non le riduce a
puri schemi mentali, costruiti con enti di ragione, giacche la fisica
matematica non si riduce a matematica pura e la stessa matemali-
ca tratta dell'en.te quanto e non dell'ente di ragione.
Vogliamo insistere alquanto su questa matematizzazione della
flsica e sul suo valore gnoseologico. La scienza, si dice da alcuni,
riduee la realta flsica e le sue proprieta a un insieme di numeri
ehe non hanno piu nulla a ehe fare con le sensazioni realmente
vissute, ehe hanno dato origine alla ricerca scientifica. Per esem-
pio, il concetto di forza meec:mica ha avuto origine dalla sensa-
zione dello sforzo muscolare, ehe si compie nello spostare un peso;
in seguito all'elaborazione scientifica del eoncetto e alla sua defi-
nizione operativa mediante un appropriato metodo di misura, la
198 PILIPPO SBLVAOOI S, 1,

forza meeeaniea si riduee a una funzione matematiea dell'aeeele-


razfone, ehe a sua volta e matematieamente definita eome la deri-
vata seconda dello spazio rispetto al tempo; il eoneetto seientifieo
di forza meceaniea e quindi completamente defl.nito dall'espressio-
ne matematiea: f = m.a e non ha ehe il nome in eomune eon la
sensazione soggettiva dello sforzo museolare.
. Questa interpretazione delle espressioni matematiehe della fi-
siea ineontra varie difflcolta. In primo luogo, infatti, ei sembra in-
eorrere nell'equivoeo, gia aeeennato, di eonfondere una sempliee
espressione matematiea,' un numero puro, eon un'espressione nu-
meriea della fisica. I numeri della flsiea sono dei numeri pregnanti,
dotati di determinate dimensioni fisiehe, ehe risultan.o nel loro
signifieato dal procedimento operativo attraverso eui i numeri so-
no ottenut\. Non sono dei numeri astratti, ma dei numeri qualifi-
eati. Sette metri, sette gradi eentigradi e sette amperes non sono la
stessa eosa; e non si possono indift'erentemente sommare o moltipli-
eare. sette gradi eentigradi eon sette amperes. L'analisi dimensio-
nale e un importante eapitolo della fisiea, ehe tende a _stabilire le
norme per evitare questa eonfusione.
Un altro torto di questa eoneezione e quello di disconoseere il
earattere oggettivo delle nostre sensazioni immediate. Nel fatto psi-
ehico della sensazione entrano indubbiamente elementi soggettivi e
bisogna pereio distinguere l'oggetto ehe si sente dal modo eon eui
si sente. Attribuire il modo del sentire alla realta esterna sarebbe
un errore simile a quello di Platone, ehe metteva nella realta og-
gettiva i earatteri di universalita e di astrattezza delle idee. Ma il
rieonoseimento degli elementi soggettivi della sensazione non puo
distruggere il f atto stesso fondamentale, ehe eioe, attraverso i sensi,
l'uomo entra in eöntatto e eonosee il mondo reale esterno. E questo
eontatto non viene eliminato quando si passa dalla sensazione im-
mediata e eonfusa alla pereezione mediata ma piu preeisa ehe si
ottiene mediante gli strumenti di misura : il ealore ehe io posso
sentire immediatamente eon la mano, non e qualche eosa di di-
verso da quello ehe misuro eon un termometro. L'arbitrarieta del
proeesso di n:iisura preseelto non nuoee aft'atto al valore realistieo
della misura eft'etluata, la quale fornisee un'informazione ben 'de-
terminata sul mondo reale esterno e eonserva un nesso reale e
non puramente storico o. nominale eon la realta pereepita dalla
sensazione immediata.
Ne si diea ehe l'operativita dei eoneetti riehiesta dalla fisiea
moderna sia qualeosa di eompletamente nuovo, ehe situi la seien-
za moderna in un piano gnoseologieo diverso da quello della seien-
za antiea e quindi della filosofia. II eoneetto operativo in quanto
FISICA, COSMOLOGtA, METAFISICA 199

tale non si oppone al eoneetto essenziale, anzi anehe nella filoso-


fla antiea molte essenze vengono definite mediante operazioni, fisi-
ehe se si tratta di enti materiali, non fisiehe se si tratta di enti
ill}materiali o di essenze ehe, pur verifieandosi anehe in enti mate-
riali, traseendono pero i limiti delta materia. Rieordiamo aleuni
degli esempi piu eomuni: il eorpo, seeondo S. Tommaso, si defi-
nisee c ex eo quod habet talem naturam ut in eo possint designari
tres dimensiones > (De ente .et essentia, e. 3); il vivente si defini-
see per la possibilita di operazioni immanenti e la possibilita del-
l'operazione del ragionare e la differenza speeifiea dell'essenza del-
l'uomo. La definizione operativa e quindi u.na definizione essenziale
giaeehe per mezzo dell'operazione propria di una sosta.nza (o me-
glio per mezzo delta possibilita di tale operazione) si definisce l'es-
senza stessa della sostanza.
Quanto abbiamo detto ei sembra suffleiente a eoneludere ehe
l'oggetto formale delta fisiea eome l'ente definibile operativamente,
seeondo il metodo della fisica moderna eoineida eon l'oggetto for-
male della seienza del primo grado di astrazione, eioe l'ente ma-
teriale ehe ritiene nella sua definizione la materia sensibile. Rite-
nendo ora la definizione della metafisica eome la seienza del terzo
grado di astrazione, eioe la seienza delt'ente in quanto ente, del-
l'i.ntelligibile in tutta fa sua massima generalita, dobbiamo rieer-
eare quale sia il posto proprio della eosmologia.
Due sono le sentenze proposte generalmente dagli seolastiei a .
questo· riguardo. Alcuni ritengono ehe la eosmologia o filosofia na-
turale appartenga propriamente al primo grado di astrazione e ehe
quindi la sua distinzione dalle seienze moderne sia solo una di-
slinzione pratica e non speeifiea. Questa sentenza pero ei sembra
ehe non tenga suffleiente eonto della reale natura delle seienze e
della eosmologia: in esse non differisee solamente il metodo di ri•
eerea, ma differisee anehe la formalita seeondo la quale viene eon-
siderato l'ente materiale e questa diversita induee una differenza
speeifiea tra flsiea e eosmologia, ehe in questa sentenza non puo es-
ser giustifieata. Altri, dopo il Wolf, ritengono ehe la eosmologia
sia una parte della seienza del terzo grado di astrazione, una parte
della metafisiea, una metafisiea speeiale. Con cio pero si dimentiea
la natura propria del terzo grado di astrazione, ehe considera l'ente
immateriale.
A noi sembra ehe la soluzione debba essere rieereata in una
dottrina ehe e esplieitamente proposta da S. Tommaso ( Comm. in
Boet de Trin., q. 5, a. 3, ad 6 et 7; C.omm. in Post. Anal., l. I,
leet. 25; in Phys., l. II, leet. 3), benehe non venga da lui applieata
al easo nostro. S. Tommaso infatti afferma ehe quanto piu una
200 FILIPPO SBLVAGGI S. I.

seienza e astratta, tanto piu i suoi prineipi sono applieabili alle


altre seienze; per eui i prineipi della matematiea sono applieabili
alle eose nalurali, ma non al eontrario. Da eio viene, prosegue l' An-
gelieo, ehe delle eose naturali e matematiehe si hanno tre ordini
di scienze: alcune puramente naturali, come la fisica, alcune pu-
ramente matematiche, eome la geometria e l'aritmetica, ed alcune
medie, ehe applieano i principi matemalici alle cose naturali, co-
me la musica e l'astrologia. Queste scienze medie o miste sono piu
afflni alla matematica ehe alla fisica, perehe in esse la eonside-
razione fisica e quasi materiale e la eonsiderazione matematiea e
quasi formale, eome nella musica, ehe eonsidera i suoni non in
quanto sono suoni, ma in quanto sono numerabili. Ora cio ehe
S. Tommaso dice della subordinazione della fisiea alla matematiea,
vale a maggior ragione nei riguardi della metafisica e, pertanto,
oltre la fisiea pura e la melafisica pura deve essere possibile un ter-
zo or<line di seienze, medie fra la fisiea e la metafisiea, le quali appli-
eano i prineipi metafisiei alle eose naturali. Queste seienze medie o
miste saranno piu afflni alla metafisiea ehe alla fisiea, perehe in
esse eio ehe e fisico e quasi materiale e eio ehe e nietafisieo e quasi
formale. Tali sono di fatto la cosmologia e la psicologia, biolo-
giea e sensitiva, e in generale la filosofia naturale, ehe eonsidera
l'ente mobile, materiale, sensibile, non in quanto e mobile, mate-
riale e sensibile, eome fa la fisiea, ma in quanto e ente, in quanto
eioe verifiea in se i prineipi e le proprieta traseendentali dell'ente.
Questa soluzione ehe eonsidera la eosmologia eome seienza me-
dia fra la fisiea e la metafisiea, ei sembra quindi pienamente eonfor-
me alla dottrina di S. Tommaso, mentre ritiene la parte di verita
delle due opposle sentenze difese generalmente dagli seolastiei. Es-
sa non solamente afferma ehe l'oggetto formale (o oggetto formale
quo) e metafisico, in quanto metafisici sono i prineipi delle dimostra-
zioni, ma ehe an ehe il soggetto formale ( o oggetto formale qu.od)
e metafisieo, giacehe eonsidera l'ente materiale e sensibile, in quan-
to ente, e tutte le eonelusioni delle sue dimostrazioni sono in ter-
mini metafisiei. Esempi: Partes continui non sunt entia in aetu,
sed in potentia aetui proxima; quantitas est aeeidens a substantia
eorporea realiter distinetum; impenetrabilitas est (vel non est)
vis activa, pertinens ad genus causae efflcientis; motus est aetus
entis in potentia in quantum in potentia; corpus naturale est eom-
positum ex dupliei prineipio, uno potentiali et altero aetuali; ato-
mi et moleculae sunt ( vel non sunt) entia per se una, in quibus
elementa non exsistunt aetu sed virtute. ·
Determinata cosi la natura della cosmologia, e f aeile eompren-
derne l'importanza e insieme i Jimiti. La eosmologia e metafisiea ·
FISICA, COSMOLOGIA, METAFISICA 201

applieata (non metafisica speeiale !) ; non bisogna quindi esigere da


essa eio ehe eon la sola applieazione dei prineipi metafisiei non
si puo ottenere. II difetto degli antiehi, e anehe phi dei medievali,
non e quello di aver fatto una eattiva filosofia naturale, ma solo
quello di aver f atto della eattiva fisiea o, aneor phi, quello di aver
ereduto di fare della fisiea, seienza dell'ente in quanto sensibile,
quando in realta non faeevano ehe filosofla naturale. Parimenti il
merito degli scienziati moderni non e quello di aver fatto astrazio-
ne dal eoneetto di ente o di aver rinuneiato alla rieerea delle eau-
se, ma quello di aver realmente ed effettivamente eereato l'ente in
quanto sensibile, l'ente in quanto osservabile, e le eause del dive-
nire nel medesimo ordine dell'osservabilita, il merito eioe di aver
realizzato la seienza del primo grado di astrazione in tutta la sua
purezza.
V

R. P. MARIO VIGANO' S. I.
PftOFESSORE NELLA FACOLTA FILOSOFICA
ALOISIANUM DI GALLABATE

FILOSOFIA PERENNE E FISICA MODERNA

Scopo di questa relazione e di esaminare un aspetto delta di-


battuta questione dei rapporli tra cosmologia e scienze. ehe potrem-
mo. un po• drastieamente sintetizzare nell'antitesi: Filo80(i.a Pe-
renne e Fisica MtOderna e ehe forma uno degli argomenti piu spes-
so e piu efflcacemente arreeati a sostegno della loro tesi dai difen-
sori delta eompleta autonomia delta cosmologia rispetto alle scienze
positive.
In realta. fatti, teorie ed ipotesi formano eome un unico bloeco
nelta fisiea moderna, dato ehe i fatti aequistano un significato
filosofico in quanto inquadrati in una teoria, e le teorie ben dif-
ficilmente sono distinguibili dalle ipotesi maneando ordinariamente
un c experimentum crucis > ehe faccia passare da queste a quelle.
Anzi, ho detto male parlando di un « unico blocco >, avrei dovuto
dire una massa fluida a contorni variabili, senza solida consisten-
za per cui alla fisica antica contrapponiamo la fisica classica in-
staurata da Galileo e Newton. e a questa la moderna ehe richiama
i nomi di Planck ed Einstein; ma poi dentro la stessa fisica mo-
dema abbiamo accanto ad una teoria quantistica classica una mec-
canica quantistiea piu nioderna in continua elaborazione e supe-
ramento. e lo stesso Einstein ci ha dato sueeessivamente almeno
tre teorie delta relativita, questo per non dir nulla delta fisica ato-
mica e nucleare dove le teorie si succedono con rapidita anche mol-
to maggiore. Percio ad ogni annuale raduno dei fisici ci dobbiamo
aspettare qualche grossa novita. onde e eerto ehe fra dieci anni la
fisiea sara profondamente mutata. molte idee oggi in auge saranno
tramontate. molte altre. forse piu numerose. oggi impensabili, sa-
ranno sorte; ehe cosa sara poi la fisica fra cento anni. per non dire
fra mille anni, e un problema ehe puo essere affrontato solo dalta
sbrigliata fantasia di un romanziere.
Ma di fronte a questo dinamismo e a questa instabilita delta
fisiea modema sta la statica immobilita delta filosofia perenne ehe
28' MARIO VIGANÖ S. I.

puo gloriarsi della sua diretta discendenza dal grande Aristotele,


giacche, come ogni verita, essa e immutabile ed eterna.
In questo stato di cose voler tentare un accostamento della
cosmologia scolastica alla fisica moderna potrebbe sembrare come
un voler fondare un superbo palazzo su mobile arena, un volersi
esporre-a tutte le inutili acrobazie di un vano concordismo de-
stinato ad essere superato ancora prima di giungere a compimento.
Di qui una tattica molto piu saggia e prudente di alcuni sco-
lastici, condivisa volentieri per ben altre ragioni da non pochi fi-
sici, propende per una netta separazione tra fllosofia e scienza, ad
adottare cioe. anche qui la massima cavouriana di « libera Chiesa
in libero Stato », ciascuna disciplina proceda liberamente per la
propria via, segua i propri metodi senza preoccuparsi dell'altra.

Certo e questa la via meno disagiata riuscendo ad evitare molti


scogli. Ma, attenzione ! questa via, battuta fino in fondo, eondurreb-
be inevitabilmente alla teoria della duplice verita, alla coesistenza
cioe di una verita seientifica aeeanto ad una verita filosofiea, an-
ehe se antitetiehe. La teoria della dupliee verita poi porterebbe lo-
gieamente alla negazione di ogni verita, cioe al eompleto seettiei-
smo, o, almeno, alla negazione di una delle due verita. II filosofo,
naturah:Qente, e l'esperienza lo conferma, considerera la verita scien-
tifiea eome una forma inferiore di verita, una verita provvisoria,
ipotetica, come una larva di verita, e proeedera fiero delle sue
verita spirituali, eterne, universali. Lo seienziato da parte sua, ed
anehe questo e largamente eonfermato dall'esperienza, eonsiderera
la verita filosoflea eome avulsa dalla realta eonereta, eome atti-
vita non della ragione, ma del sentimento e della f antasia, non
eome seienza, ma eome mito e poesia.
E' vero ehe lo scienziato autentieo in generale oggi e molto
phi modesto a causa dei nuovi enigmi ehe gli si presentano sempre
piu numerosi e oseuri quanto piu proeede nell'investigazione della
natura; ma per lo piu questa sua rieonquistata modestia Io spinge
a rifugiarsi in una forma di positivismo antimetafisieo, e pereio
stesso negatore di ogni vera fllosofia. Ma poi verra il volgarizzatore
inteso a far eolpo sul grande pubblieo mettendo in primo piano
non quanto la seienza ha di piu assodato, ma quanto ha di piu
paradossale; e il pubblieo rimarra abbagliato delle reali o sup-
poste eonquiste della seienza, ma non altrettanto interessato delle
speculazioni della filosofia ehe pur avrebbe la missione di essere
la maestra e l'edueatrice della soeieta. Non voglio essere pessimista,
ma credo ehe la massima eavouriana applieata ai rapporti tra
seienza e filosofia non riesea a tutto vantaggio di quest'ultima; per
FILOSOFIA PERENNE E FISICA MODERNA 205

cui, anche come semplice norma pratica, la tesi .della completa se-
parazione non mi pare fondata.
Ma anche meno fondata mi semhra questa tesi in linea di prin-
cipio, specialmente quando si considerino non i rapporti tra scien-
za e filosofla in genere, ma quelli tra fisica e cosmologia in par-
ticolare.
E' vero ehe la fisica si evolve rapidamente e profondamente,
ma non gia per subite rivoluzioni, ma piuttosto per naturale evo-
luzione come un organismo vivente in. periodo di pieno sviluppo,
in cui i lineamenti esterni camhiano in seguito ad un profondo me-
taholismo interno, ma l'individualita rimane inalterata. Cosi l'av-
vento delle teorie moderne non ha affatto sepolta tra i ferri vecchi
la fisica classica ehe continua ad essere oggetto di insegnamento
non solo nelle scuole medie, ma per gran parte anche nelle scuole
superiori.
Ma vi e ben di piu. Questa stessa evoluzione della fisica con-
tiene un importante insegnamento an ehe per il filosof o mostrando
quanto la natura sia piu ricca e complessa di quel ehe potevamo
pensare e come difflcilmente si lasci costringere dentro gli schemi
delle nostre teorie flsiche e dei nostri sistemi filosofici. Dico anche
dei nostri sistemi filosofici, perche le conquiste della scienza toc-
cano spesso da vicino la nostra concezione del mondo, la W eltan-
schauung, e, di riflesso, la filosofia. L'esempio classico e costituito
dalla rivoluzione copernicana, ma potremmo f acilmente enumerare
tutta una serie di problemi filosofici in parte vecchi come la flloso-
fla stessa, ma posti sotto nuova luce dalla scienza moderna, in
parte completamente nuovi.
Ricordiamo, a modo di esempliflcazione, il problema della co-
stituzione dell'universo, particolarmente in riguardo alla flnalita;
il prohlema del continuo flsico, del tempo e dello spazio, della ma-
teria e dell'energia, degli elementi e dei composti, del mondo inor-
ganico e della vita, tutti vecchi prohlemi sui quali la scienza mo-
derna proietta nuova luce e, spesso, accumula nuovo mistero. A
questi si aggiungono i nuovi problemi sconosciuti alla fllosofla clas-
sica, per es. le nuove matematiche, le leggi statistiche, la relati-
vita, o, §e vogliamo restare sul terreno solido dei f atti meglio accer-
tati, diciamo la interpretazione delle trasformazioni di L9rentz, la
natura quantistica dell'energia, dell'elettricita e della materia, l'in-
terpretazione dei metodi della meccanica quantistica cosi astratti
eppur cosi fecondi, lo spiraglio aperto sull'intima natura degli ele-
menti dal sistema periodico e dai recenti studi di fisica nucleare,
la serie delle cosidette particelle elementari la cui lista di questi
giorni sembra andare straordinariamente allungandosi; tutti risul-
206 MARIO VIGANO s. 1,

tati destinati eertamente a svilupparsi ed evolversi, ma non eerto


a tramontare dal eielo della flsiea.
a,
Tre seeoli f mentre i1 eanoeehiale svelava a Galileo le nuove
meraviglie del eielo, il grande Pisano senza prove deeisive, ma
unieamente fondato su solidi indizi e su un aeuto intqito sosteneva
il sistema eliocentrieo ehe veniva a intaeeare non pieeola parte del-
le eoneezione fllosoflehe del tempo. La fllosofla uffleiale dell'epoea,
la Seolastiea, preferl disinteressarsi, anzi prese posizione netta-
mente ostile ~lla rivoluzione seientifiea ehe si stava compiendo. Al-
euni aspetti dell'episodio furono esagerati, ma esso non va nep-
pur minimizzato per quanto riguarda la sua ripereussione sulle
sorti della Seolastiea dei seeoli seguenti; eome non va pero di-
mentieato ehe, se enorme danno arrecavano alla Seolastiea gli op-
positori di Galileo, non minor rovina le arrecavano quegli Seola-
stici ehe nel seeolo seguente flno al secolo seorso ed oltre, aeeettando
eieeamente i dogmi della nuova scienza, abbandonarono ineonside-
ratamente i grandi prineipi della fllosofia tradizionale.
Oggi non e solo questo o quel punto della filosofla ehe viene
Iilesso in dubbio dalla fisiea, ma e una revisione radieale di tutti i
nostri eoq_eetti ehe essa sembra esigere. Io eredo ehe, eome gia alla
naseita della seienza moderna eosl oggi, sarebbe errato e dannoso
alla filosofia aeeontentarsi di guardare eon sprezzante sussiego ai
risultati o pretesi risultati della scienza fatta adulta, ma sarebbe
del pari errato ed anehe piu dannoso aeeettare supinamente tutti
i nuovi dogmi proelamati in nome della seienza. La sorte della
· Seolastiea sarebbe stata diversa se eon vero senso eritieo essa aves-
se serenamente esaminato le nuove teorie determinandone, per quan-
to possibile, il grado di probabilita, diseernendo aeeuratamente
quanto da esse veniva rimesso in diseussione e quanto rimaneva
intatto dell'antieo patrimonio eulturale, e sapendo all'oeeorenza
anehe aspettare pazientemente ehe nuove rieerehe preeisassero i
punti dubbiosi e eontroversi.
Questa, eredo, e una preziosa lezione della storia alla fllosofla
d'oggi ehe non voglia, eome l'antiea Seolastiea, segregarsi da una
eosi importante branea della eultura moderna qual'e la seienza
ai nostri giorni.

E' alla luee di questo il)segnamento ehe eredo possiamo rie-


saminare l'antitesi iniziale Filosofla Perenne - Fisiea Moderna per
vedere di preeisarne la vera portata. Certo quando parliamo di Fi-
losofia Perenne non possiamo intendere una fllosofla eristallizzata,
starei per dire mummifieata, in un eomplesso intangibile : anehe
la filosofia seolastiea infatti e fllosofla umana e pereio perfettibile,
FILOSOFIA PERENNE E FISICA MODERNA 207

progressiva. Ma ben puo dirsi perenne per eontrapposto a tanti al-


tri sistemi di filosofia modema fondati sul presupposto ehe quanto
li ha preeeduti sia radiealmente errato e pereio tutto sia da rifare
dalle fondamenta ad ogni nuova generazione.
Per spiegare meglio il mio pensiero paragonerei la filosofla pe-
renne alla matematica perenne: I moderni trattati di matematiea,
infatti, si sono mantenuti ben piu fedeli agli antiehi Elementi di
Euelide, anehe nei partieolari, di quel ehe il piu rigido peripatetieo
si sia mantenuto fedele ad Aristotele, ma eio non toglie ehe la ma-
tematiea da l;:uelide ad oggi abbia fatto enormi progressi e si vada
aneor oggi sviluppando in moltissime direzioni. E' sorta frattanto,
e vero, anehe la geometria non euelidea, ma essa nulla toglie del
valore non solo pratieo, ma anehe teorieo della geometria eueli-
dea, sulla quale, se mai, proietta nuova luee.
Sotto questo aspetto potremmo parlare anehe di fisiea peren-
ne per indieare l'elemento eerto, definitivo ehe pur nel susseguirsi
delle nuove seoperte e nell'evolversi delle teorie rimane immutato.
Solo va osservato a questo proposito ehe per effetto della natura
della fisiea, molto piu legata all'esperienza partieolare di quel ehe
lo siano, la metafisiea e la matematiea fondate su di un'esperienza
piu generiea, l'elemento per_enne in queste ultime seienze e molto
piu vasto e defmitivamente preeisato di quanto non lo sia nella fi-
siea. La eosmologia P!lrtecipando della fisiea e della metafisiea si
trova in uno stadio inte·rmedio di stabilita.
Ma si deve rieonoseere un altro aspetto di verita da tenersi
sempre presente nell'antitesi Filosofia Perenne - Fisica Moderna,
un aspetto di verita fondato sulla diversita di metodo: la filosofia
e eminentemente deduttiva, la fisiea moderna si fonda in gran parte
su di un metodo seonosciuto forse alla Iogiea elassiea, sulla spiega-
zione cioe di fatti partieolari mediante ipotesi piu o meno plausi-
bili, ehe dal eonfronto eon ulteriori esperienze dovranno essere mo-
difieate, eorrette, sviluppate fmo ad abbraeeiare eategorie sempre
piu vaste di fenomeni. Non eredo si possa mettere in diseussione
la legittimita e la feeondita di questo metodo, e neppure la sua ea-
pacita di giungere ad approssimare sempre piu la realta; ma sla
il fatto ehe e neeessario molto senso eritieo per giudieare del grado
di eertezza e di approssimazione di una teoria sempre suseettibile
di evoluzione e di sviluppi anehe profondi. Gia ho rieordato molti
esempi di teorie definitivamente aequisite alla fisiea anehe se non
tutte in forma definitiva, e pereio non sto a ripetermi.

Ho sottolineato, e non eredo si possa esagerare nell'insistervi,


eome una eosmologia ehe tenga adeguato eonto della scienza mo-
208 MARIO VIGANO S. I.

derna non puo edifiearsi senza gravi perieoli se non si aeeompa-


gna eon un aeeurato esame eritieo di quelli ehe passano per i risul-
tati della seienza. Ma e evidente ehe questo esame eritieo e aneor
piu l'elaborazione filosoflea del materiale eosl raeeolto non pue es-
sere eondotto a termine eon frutto senza una eompetenza seien-
tifiea suffieientemente profonda e vasta ad un tempo, aeeompagna-
ta da una pari eompetenza filosofiea indispensabile per aequistare
la sensibilita neeessaria per diseernere quegli elementi ehe inte-
ressano la filosofia e per illuminarli e eoneatenarli al lume dei prin-
cipi della metaflsiea in un armonico sistema filosofieo.
Ma questa eompetenza in due diseipline eosi vaste e di indole
eosl diversa non si aequista faeilmente ne e da tutti; una suffieien-
te eompetenza su tutto il eampo della seienza e della filosofia poi,
quale sarehbe necessaria per un vasto lavoro di sintesi, credo sia
oggi un'impresa superiore alle forze di un uomo, per cui sarebbe
utopistico sognare di poter attendere un novello Aristotele o S. Tom-
maso, e cio tanto piu se si tien eonto ehe non basta essersi messi
una volta al corrente di un determinato ramo della scienza, ma il
difficile e il mantenervicisi.
In questo stato di cose non vedo ehe una soluzione possibile,
anche se lunga e fatieosa: la preparazione di giovani filosofi della
natura pazientemente e solidamente forniti di una suffieiente for-
mazione seientifiea e filosofiea, i quali poi abbiano a lavorare in grup-
pi, « in tandem >, eome si usa dire dai flsiei tra i quali questo la-
voro eollettivo e oggi molto sviluppato.
Non mi naseondo ehe e un lavoro fatieoso e irto di diffieol-
ta, speeialmente agli inizi; ma sono persuaso ehe svolto pazien-
temente, eon la dovuta solidita e eon lo spirito eritico di eui ho
parlato, puo essere un lavoro estremamente feeondo per il filosofo
a cui schiude nuovi vastissimi ed interessanti eampi di ricerca fl-
nora in gran parte inesplorati: ne meno utile riuseirebbe allo scien-
ziato ehe pur eontinuando come scienziato a lavorare direttamente
nel dominio dell'osservabile e del sensibile, come uomo non potreb-
be rimanere indifferente vedendo come le sue eonquiste nelle mani
del Filosofo Cristiano possono divenire nuove preziose pietre per
la costruzione del Tempio della Sapienza, nuove note aggiunte al
Cantico delle Creature al loro Creatore.
VI

R. P. PIETRO HOENEN S. I.
PROFESSOBE NELLA PONTIFICIA UNIVERSITÄ. GBEGORIANA

DE MULTITUDINE INFINITA PRINCIPIORUM


NECESSARIORUM IMMEDIATORUM

In praeparando opere, quod aget de noetica geometriae ut est


origo noeticae generalis, quasdam indagationes instituimus, quae
manifestant mentem humanam in evolvendis scientiis, i. e. in de-
ductione ex primis principiis intellectivis, ex intellectu sensu aris-
totelico, non tantum in initio sed dein semper de novo indigere
c appellatione ad phantasma », indigere principiis immediatis in- ·
tuitivis, quae non ratiocinando innotescunt, sed per se intelligi-
bilia sunt; quae eodem modo innotescunt ac illa prima principia
indemonstrabilia, quae sunt initium scientiae.
Id praesertim negatur vel ex ofllcio excluditur ab illa methodo,
quae hodie c axiomatica » per excellentiam vocatur; sed inquisitio
noetica ipsius huius methodi videtur negare hanc exigentiam axio-
maticam. Immo videtur statuere talia principia necessaria, imme-
diata, nova, in ipsa deductione semper iterum intrare, in infinitum.
Et ita haec inquisitio videtur esse ß!Omenti pro noetica generali,
videtur manifestare naturam intellectus humani.
In sequentibus paginis id inveniemus in duabus scientiis, in
quibus id non expectatur: in arithmetica et in logistica.

I. DE AXIOMIATICA. Si haec vox sumitur sensu praegnante moder-


no, dift'ert ab axiomatica Euclidis i. e. Aristotelis. Axiomatica sensu
m()derno deductioni (syllogisticae) scientiae praemittit systema
propositionum primitivarum, quae axiomata vocantur, quorum sen-
sus materialis ( i. e. qui respicit ipsum objectum scientiae, quae de-
ducitur) ignotus supponitur; saltem ad illum sensum attendere non
Iicet; attendendum est ad solam structuram logicam. Et systema il-
lud supponitur esse completum ( non autem f acile definitur in quanam
re haec completudo consistat) ita ut, in decursu ratiocinii deduc-
tivi, iam non liceat propositionem introducere, quae non in ipso
systemate axiomatum_ enuntietur nec sit propositio antea ex axio-
14 - Studi filoaofici
210 PmTRO HOENEN S, 1,

matibus deducta. Etiam in casu, in quo ipsa axiomata ex inspec-


tione datorum sensitivorum, per « appellationem ad phantasma >,
statuuntur (cfr. Gregor. 1951 pag. 425 sq.), vel saltem (quia sen-
sus negligi debet) eis datis conformia sunt, in decursu deductionis
talis inspectio vel appellatio ad phantasma severe prohibetur, ut
« rigor > deductionis salvetur.
Hoc systema axiomatum, vel propositionum primitivarum pro
geometria (sive euclidica sive non-euclidica) paucas tantum propo-
sitiones continet (et opus laudabile existimatur dirhinuere nume-
rum horum axiomatum). Comparantes hanc paucitatem (pauper-
tatem dicere possumus) cum immensa ( ditissima) multitudine
conclusionum geometricarum·, non possumus non mirari; admi-
rari debemus fertilitatem deductionis ratiocinativae, syllogismi vir-
tutem. Idem iam quodammodo invenitur in deductione classica geo-
metriae juxta methodum Euclidis (Aristotelis), quae .,sensum ver-
borum minime negligit. Tanta est vis ratiocinii syllogistici.
Inde in nonnullis philosophiis orta est similis methodus, quam
in ipsa philosophia ( eam interdum deductionem « globalem > vo-
cant) introducere conantur.
In examine autem noetico operationum mentis nostrae cons-
truentis geometriam haec non videntur subsistere, nec in axioma-
tica moderna, nec apud Euclidem. In decursu deductionis mens
humana appellatione a_d phantasma geometricum semper iterum in-
digere videtur; atque bis appellationibus in singulis casibus cor-
respondent propositiones novae primitivae, quae nullo modo ex ra-
tiocinio innotescunt. Hae propositiones forte non omnes sunt no-
minandae « dignitates >, axiomata, si hoc nomen, ut antiqui et
scholastici f aciebant, univers?lissimis principiis reservamus. Sunt
tarnen, etiam in terminologia Aristotelis et S. Thomae, propositio-
nes vere primitivae, sive « immediatae >, c!µeaoL, nam sine termino
medio, sine ratiocinio cognoscuntur, et quidem ut propositiones per
se, necessariae, sola intuitione (formaliter abstractiva) in phantas-
mate oriundae (cfr. Gregor. 1951 pag. 434 sq.).
In ipsa geometria haec data intuitiva, quae in decursu deduc-
tionis adhibenda sunt, plerumque, si non semper, sunt elementa
topologica. Et etiam apud geometras (v. g. Poincare) in hisce « in-
tuitio > invocatur. Sed etiam alibi inveniuntur; et de his casibus
nunc agere intendimus. In arithmetica (algebra) et in logistica, quae
loco syllogismi alias regulas deductionis adhibet, in diversis ope-
rationibus talis appellatio ad phantasma, quae ad judicia expri-
menda per propositiones immediatas et necessarias ducit, inve-
nitur; simul cum syllogismo mentali; etiam in logistica, ·quae
syllogismum ejicere vult I Haec, quae in noetica sane non sunt negli-
DE MULTITUD, INFIN, PRINCIP, NECESSARIORUM IMMEDIATORUM 211

genda, in sequentibus considerantur, et suo modo in aliis scie11tiis,


etiam philosophicis, recurrunt.
2. DE ARITHMETICA. Etiam arithmeticam modo axiomatico (sen-
su moderno) evolvere conati sunt, et quidem ex paucis propositio-
nibus primitivis (interdum ex « pure logicis »). A Peano iam inde
a permultis annis systema axiomatum arithmeticae propositum est;
sed sine ullo dubio non. omnes veritates arithmeticae, et nomina-
tim veritates speciales, ita deduci possunt. Et in genere dicimus:
in deductione arithmetica ( algebraica) recursus ad phantasma ta-
lis, ut supra describebatur, evitari non polest. Sit aequatio valde
elementaris a~ = bx + c (1). Ut valor symboli x calculetur (ut ae-
quatio solvatur) habemus regulas universales, quae permittunt ta-
lem aequationem, quae valida supponitur, in aliam, etiam validam,
transformar~. Talis regula est: translatio termini (vel plurium ter-
minorum simul) ex uno membro aequationis in alterum, mutato
signo. Ita ex data aequatione (1), quae valida supponitur, haec al-
tera sequitur, etiam valida: ~ - bx- c = 0 (2).
Interrogamus: quid fit in mentre nostra dum talem operatio-
nem perficimus, et dein validitatem eius quod resultat afflrmamus?
Analysis noetica dicit: omnis applicatio « regulae translationis »
supponit hanc veritatem universalem : omnis aequatio quae per
« translationem » resultat ex quavis aequatione valida, et ipsa est
valida. Haec est propositio « maior ». Addimus in mente « mino-
rem » quae dicit: atqui ex hac aequatione (valida) ax8 = bx + c
per translationem (duorum terminorum ex membro secundo) ori-
tur a~-bx-c = 0. Ergo haec est valida (affirmatur).
Animadvertimus primo : processus mentis nostrae ( non verbis
expressus) consistit in syllogismo in Barbara, accuratius dicitur « ty-
pi Barbara ».
Dicimus potius hoc ,ratiocinium pertinere ad « typum » Bar-
bara; non est enim in modo classico, qui hoc nomine indicatur, sed
ei valde simile. Nam eius « maior » est triplicif.er universalis. Si
plene enuntiatur dicendum est: qu.aevis aequatio, quae per quam-
vis « translationem » resultat ex qu.avis aequatione valida, est va-
lida. Et minor erit: haec aequatio (2), per hanc translationem {de-
terminatam in mente) resultat ex ista aequatione ( 1) valida. Con-
clusio immediate resultans est: (2) est valida. Notandum est pro-
nomina « haec » et « ista » non indicare singularia, sed specifica in
specie specialissima, « individua » ; sunt igitur universalia. Sed ad-
denda est quaedam correctio: primum « quaevis » in maiore non
independenter determinari polest, sed dependenter a determinatio-
nibus duorum aliorum ( « quaevis » ad « haec » vel « ista ») et qui-
dem turn speciftce tum individualiter. Inde maior accuratius dicitur
212 PIETRO HOENEN S. 1.

« dll'pliciter universalis >. Tales syllogismi et eorum consequentiae


rectae a mente humana_ statim intelliguntur, non minus immediate
ac syllogismus classicus in Barbara. Haec pertinent ad thesaurum
logicae « utentis > sed nondum systematice examinata sunt, non-
dum pertinent ad « logicam docentem >. Naturaliter igitur intue-
mur in tali syllogismo mentali rectitudinem consequentiae et veri-
tatem consequentis.
Tales syllogismi mentales, in quibus praemissae multipliciter uni-
versales occurrunt, frequentissimi sunt in deductionibus scientiarum.
Eorum systema nondum constructum est ad instar systematis syllogis•
morum classici. In hac materia multae investigationes faciendae erunt,
et quidem secundum methodum classicam aristotelicam, ni fallimur: spe-
cimina abundant in mathematicis. Logistica utique construit talem « lo-
gicam relationum »; sed quia non considerat activitatem naturalem men-
tis humanae, sed loco eins introducit alias operationes, quae symbola
tanquam objecta habent, ipsam naturam huius mentis non attingit. Est
opus ingeniosum et laudabile, sed non magis manifestat indolem activi-
tatis naturalis.
Haec igitur erat prima observatio nostra: in omni tali processu
arithmetico, in mente humana fit syllogismus (typi Barbara); non
exprimitur verbis, tarnen mentaliter dirigit actus affirmandi conclu-
siones; id non facit ( ut alibi iam dicebamus) ut norma extrinseca
operationum, sed ut activitas ipsius intellectus (rationis), ut « na-
tura > non ut « natura caeca > sicut in intellectu carentibus ( et
etiam in instinctu hominis) sed ut natura, quae necessitatur qui-
dem sed per intuitionem objecti. Est igitur syllogismus « in actu
exercito »; investigatio nostra noetica non introducit syllogismum,
sed eius praesentiam et activitatem detegit, facit eum transire ex
actu exercito in actum signatum.
Et talis operatio videtur adesse in singulis fere gressibus huius
scientiae arithmeticae. Aliae operationes, in quibus idem invenitur,
sunt « substitutiones >, quae dicuntur, in formulis algebraicis. De
hac operatione statim ubi agemus de logistica.
Altera observatio quam facimus magis directe pertinet ad sub-
jectum huius elucubrationis, quae de multitudine principiorum im-
mediatorum agit. Haec altera observatio respicit minorem illius
syllogismi, quae erat : per translationem indicatam ex aequatione
(1) oritur necessario aequatio (2).
Interrogamus : quomodo constat de hac propositione necessaria
et univerMli in specie individua? Analysis noetica manifes tat: de•
bemus operationem « translationis » executioni mandare; id quod
exigit manipulationem externam, sive actualem (in charta) sive
repraesentatam in phantasmate (id tantum in casibus simpliciori-
DE MULTITUD, INFIN, PBINCIP, NECESSARIORUM IMMEDIATORUM 213

bus possibile erit), et insuper exigit inspectionem empiricam eius


quod ,resultat. Sed huic inspectioni empiricae, huic appellationi ad
phantasma, sicut et ipsi activitati manipulationis, associatur in-
tuitio mentis, intelligentis id quod resultat esse necessarium. lnde
non dicimus: in hoc experimento singulari, in hac hora, in hoc loco,
resultat aequatio (2), sed necessario resultat, ex se semper et ubi-
que resultat aequatio eadem in specie individua 1 • Affirmatio huius
aequationis est propositio universalis, quia in « materia necessaria >
et ex activitate nostra necessa,ria circa hanc materiam. Hae neces-
sitates a nobis naturaliter cognoscuntur, sine ratiocinio, per abstrac-
tionem naturaliter formalem-intuitivam. Et hie urgendum est hanc
cognitionem per se etiam activitatem nostram externam attingere.
NoTA. Hie animadvertimus sensum termini « propositio universalis >
non semper bene intelligi. Saepe ita explicatur: est propositio quae ab
omni intellectu humano admittitur vel admittenda est; hie sensus ter-
mini non est primarius. Propositio est universalis, si .aflirmat aliquid
de omni objecto de quo agit. Et ideo affi.rmanda est ab omni intellectu,
non vice versa. Quia dispositio aflirmata in se est necessaria, ideo est
objeetiva, ideo admittenda ab omni intellectu. In noetica operationes
eognoscitivae essentialiter ut respicientes objectum, non subjectum, con-
siderantur. In nostro casu agitur de universalitate in specie individua,
ideo eius casus occurrentes solo numero differunt.

Hae propositiones universales in specie individua, sub .respectu


earum originis ex abstractione intuitiva omnino aequiparandae sunt
cum axiomatibus, quae sunt prima principia tanquam « dignita„
tes ». Illa minor est prima propositio hoc sensu quod est immediata,
non cognoscitur per medium syllogisticum, immo ita cognosci non
polest; cognoscitur per appellationem ad intuitionem. Sed non est
« axioma » quia ex ea non multa deducuntur, in genere semel tan-
tum adhibetur.
In hoc casu simplicissimo a~quationis ( 1) de qua supra, suf-
flcit rapida inspectio phantasmatis; in casibus complicatis haec in-
1 Haec iam observata sunt a mathematico Hardy in articulo quem alibi
quoque citavimus (Gregor. 1951 pag. 439) Mathematical proof in Mind, 38
(1929) pag. 17: « If Hilbert has made the Hilbert mathematics with a par~
ticular sheet of paper, and I copy them on another sheet, have I made a
new mathematics? Surely it is the same mathematics, and that even lf he
writes in pencil and I in ink, and bis marks are black while mine are red >,
( « Si Hilbert construxit mathematicam hilbertianam in particulari folio papy-
raceo, et ego transcribo illam in alio folio, num construxi novam mathema-
ticam? Absque dubio est eadem mathematica, etiam si ipse utitur stilo plum-
beo et ego atramento, et eius signa sunt nigra et mea rubra >). Hardy hisce
verbis bene describit necessitatem harum operationum et observationum, et
sf.mul causam huius necessitatis, quae est nostra abstractio formalis intuitiva.
214 PIETRO HOENEN S. 1.

spectio maiorem sollicitudinem ·exigere poterit, sed elementa noeti-


ca, quae ibi intrant, manent eadem.
Altera animadversio, quae « minorem > syllogismi supra in ac-
tum signatum perducti respicit, erit igitur haec: in singulis f ere
gussibru talis deductionis arithmeticae mens humana necessario
debet appellare ad novum phantasma, ad cognoscendam veritatem,
quae per propositionem primam, immediatam exprimitur. Et ita
adest explicatio miri f acti f aecunditatis deductionis logicae ex pau-
cis axiomatibus; aliae propositiones primae i. e. immediatae, in
singulis fere gressibus inveniuntur: in infinitum.
Resumamus: in singulis f ere gressibus deductionis arithmeti-
cae adest syllogismus in actu exercito, et pro huius minore re-
quiritur appellatio ad intuitionem intellectivam in phantasmate.
Et addimus: in hoc recursu ad data sensitiva adest elementum or-
dinis spatialis, elementum geometricum. Quare in axiomatica mo-
derna haec in ipsa geometria excluditur?
Utrumque elementum, quod in singulis illis gressibus deductio-
nis arithmeticae in mente nostra adest, applicatur tacite; id tamen
a nemine, etiam ab illis qui hoc in geometria carpunt, tanquam de-
f ectus rigoris logici consideratur. Haec « taciturnitas > toll{ polest
per inquisitionem noeticam, quae ut iam dictum est, ex « actu exer-
cito > facit « actum signatum ». Inde etiam palet hos actus exer-
citos non posse vocari « inconscios >. Nam intelligibiliter dirigunt
operationes mentis nostrae; et ideo etiam ibi non adest defectus ri-
goris. Eadem duo elementa inveniuntur in alia operatione frequen-
tissima circa formulas algebraicas, scilicet in « substitutione ». Hanc
examinabimus in logistica. ·

3. DE LOGISTICA. Hoc prima f acie mirum erit: in logistica revera


invenimus methodos operativas, quae semper iterum appellationem
ad data sensitiva f acere de.bent, quamquam hae methodi introductae
sunt ad hoc evitandum, et praesertim, nt videtur, ad evitandam il-
lam « taciturnitatem » de qua supra. Deductio logistica, etiam quae
ipsam hanc artem construit, incipit quoque a syslemate axiomatum.
Ut deductio fiat, necessario etiam introducendae sunt « regulae ope-
rationum », secundum quas logisticus formulas iam datas (in pri-
mis axiomata) in alias transformat. In hoc enim consistit deductio
logistica; hae regulae sunt vere normae extrinsecae operandi. In
hoc « calculo logico » istae regulae habent idem munus ac in scien-
tia leges logicae, quae tarnen ( ut supra dictum est) per se non sunt
normae extrinsecae sed ipsa activitas naturalis intelligens mentis
humanae, forte perfectionata per artem logicam. Secundum exigen-
tias logisticas (saltem recentius) hae regulae expressis verbis for-
DB MULTITUD, INFIN, PRINCIP, NBCBSSARIORUM IMMBDIATORUM 215

mulantur, et, quando applicantur, id symbolice expresse indicatur.


Operationes quae hisce regulis, normis extrinsecis, diriguntur, tan-
quam objecta habent sola symbola iam data.
Distinguuntur regulae primitivae et regulae derivatae. Nomi-
namus duas, quae videntur esse principales, « substitutionem > ( le-
gitimam) et regulam consequentiae (sive « schematis > deductivi).
Applicando autem has regulas in efficiendo transformationes - in
deducendo modo logistico - debemus appellare ad intuitionem sen-
sitivam simul et intellectivam, eodem modo ac in operationibus al-
gebraicis supra descriptis. Et etiam in logistica, in singulis gressibus
differentibus deductionis habemus intuitiones differentes secundum
species individuas. Et tune, ut in casu formulae algebraicae, habe-
mus syllogismum typi Barbara, et in eo judicium implicitum sive
explicitum, determinatum in specie individua, quod non est deduc-
tum. Et id etiam invenitur apud eos logisticos qui, invehentes in Ari-
stotelem, syllogismum üt « culmen stupiditatis > describunt, « the
apotheosis of stupidity >,
Videamus breviter specimen substitutionis, et quidem eam quae
constituit primissimum gressum in deductione primi theorematis
( * .2.01) ex opere classico in hac arte Principia jWathematica (1 pag.
100). Hoc theorema, verbis expressum, enuntiat « si p implicat non-
P, tuncpestfalsum >; (p est symbolum propositionis). Demonstratio
incipit per substitutionem symboli non-p pro symbolo p in axiomate,
quod vocatur « tautologia » et quod dicit : « p vel p implicat p >
( * 1.2). Ex hac substitutione specifica et indicata, resultat formula
( 1): « non-p vel non-p implicat non-p >. Affirmtttio huius resulta-
ti substitutionis est applicatio regulae generalis primitivae substi-
tutionis legitimae: « propositio quae per talem substitutionem legi-
timam, ( seil. symboli propositionis novae pro symbolo propositio-
nis ubicumqut! hoc in formula data invenitur) oritur, est valida si
formula data est valida >. Sed ipsum contentum resul\ati i. e. for-
mula specifica ex substitutione resultans non cognoscitur nisi per
manipulationem realem et intuitionem in datis sensitivis (sicut su-
pra in casu formulae algebraicae pro « minore >). Nam interroga-
mus: undenam scimus, formulam ( 1) et non aliam resultare per
substitutioneni indicatam in formula axiomatis? Formula resultans
non videtur in regula ipsa generali, haec tantummodo universaliter
legitimitatem substitutionis statuit; ut inde habeatur resultatum
specificum quod quaeritur, ulterius per activitatem nostram deter:.
minanda est - hoc fit in singulis applicationibus regulae genera-
lis alio et alio modo - et necessaria est inspectio datorum sensiti-
vorum, appellatio ad intuitionem. In nostro casu haec operatio est
simplicissima, ita ut attentionem f ere lateat, sed possunt dari casus
PIETRO HOENEN S, 1,

etiam valde complicati. Iste intuitus sensitivus simul est cum intui-
tione intellectiva necessitatis, sicut in casu algebraico; resultatum,
etiam quoad « contentum > sive « determinationem > specificam,
cognoscitur ut necessarium, non contingens. Dein ex applicatione
regulae generalis supra enuntiatae substitutionis Iegitimae (ex
« maiori >) formulam resultantem, cum contento specifico, affirma-
mus, et est judicium necessarium, non contingens.
In hac igitur primissima operatione deductionis ex libro Prin-
cipia Mathematica redeunt ea, quae supra inveniebamus. Id brevi-
ter indicamus. In mente nostra iterum adest syllogismus typi Barba-
ra. Nam ita ratiocinamur: omnis formula, quae resultat ex quavis
substitutione legitima in quavis formula valida, est valida, afflr-
manda. Et ad hanc maiorem duo addimus : 1° hae.c substitutio de-
terminata est legitima et 2° ex ea resultat haec (nova) formula. Ergo.
In casu nostro substitutio erit legitima, si pro p, ubicumque
hoc symbolum in formula originali occurrit, aliud symbolum pro-
positionis substituitur. Id quod videtur cognosci ex alio syllogismo.
(Id etiam in casu algebraico occurrere videtur, sed est minoris mo-
menti).
Et haec semper, in singulis casibus substitutionis, iterum re-
currunt; etiam in aliis mediis deductionis logisticae, quae est ars
quaedam combinatoria secundum .regulas determinatas, primitivas
et deductas; in infinitum multiplicantur propositiones primitivae,
immediatae, et cognitae ut necessariae; in infinitum. Et tacite sup-
ponuntur, id quod logistici praesertim evitare volebant.
Animadvertamus adhuc : haec phantasmata vel data sensftiva
in genere non tantum continet multitudinem symbolorum, sed et-
iam eorum ordinem spatialem, geometricum. In ipsis scientiis non
geometricis, in ipsa deductione necessarius est recursus ad phanta-
smata geometrica; et hae methodi valde laudantur · propter suum
« rigorem > deductivum. Quare igitur, nomine rigoris hie recursus
in ipsa geometria excluditur?

* * *
Resumamus. In operationibus arithmeticae, scientiae quae est
typus claritatis et necessitatis et exactitudinis, inveniebamus quasi
continuam « appellationem ad phantasma >, cui intuitio intellecti-
va associatur; sicut id invenimus in statuendis axiomatis scientia-
rum, ita et in earum evolutione, in ipsa deductione. Et haec appella-
tio quasi continua ducit ad multitudinem propositionum necessa-
riarium (quae ut tales cognoscuntur) immediatarum; quae in omni
calculo arithmetico in actu exercito activitatem nostram intellecti.:
vam dirigunt, quae ipsae deduci non possunt. Simul invenimus mo-
DE MULTITUD, INFIN, PRINCIP. NECESSARIORUM IMMEDIATORUM 217

do quasi continuo syllogismos in. actu exercito. Et haec in infini-


tum multiplicari possunt.
In tali calculo arithmetico sensus determinatus numerorum et
operationum in mente nostra semper est praesens. In calculo logisti-
co stricto (non autem in omni systemate logistico) etiam sensus de-
terminatus numerorum excluditur, jubemur saltem ad eum non at-
tendere et semper evitare etiam tacitam appellationem ad intuitio-
nem. Tarnen etiam ibi adest, praeter veri nominis syllogismum, ap-
pellatio ad phantasma et intuitio necessitatis eius quod resultat.
Haec q:uoque intuitio est intellectiva, haec quoque in infinitum mul-
tiplicatur in calculo, qui judiciis, in actu exercito praesentibus, di-
riguntur. In infinitum multiplicantur judicia immediata.
Et in utroque casu hoc quoque attentione dignissimum est: Ha-
bemus quoque activitates humanas externas, manipulationes, quae
secum ferunt conscientiam suae necessitatis (in effectibus), suae
exactitudinis, sui rigoris. Activitates illae participant intelligibilita-
tem ipsius materiae intelligibilis, quae est earum objectum. Haec
quoque in noetica sunt maximi momenti, in applicatione adagii Ari-
stotelis et S. Thomae: « facientes cognoscunt >.
In bis omnibus suo modo adagium verificatur : in hac vita homo
sine phantasmate cogitare nequit.

• • •
Aristoteles in Anal. Post. I c. 32 88 b 3 habet effatum: « prin-
cipia non multo minora sunt conclusionibus ». Antea opinabar Ari-
stotelem hie alludere ad ea quae hie dicebamus, vel ad similia; prin-
cipia prima, immediata, non essent pauca. Puto tarnen eum aliud
quid intendere. Principium hie non videtur indicare principia imme-
diata, sed simpliciter « praemissam > syllogismi. Ita S. Thomas
(lect. 43 n. 7) eum explicat dicendo: « plurima eorum quae princi-
piis coassumuntur ad conclusiones alias inducendas sunt etiam con-
clusiones >. Simili modo etiam Philoponus i. h. I.
VII

PaoP. Da. HANS ANDRi!:


PROPESSORB IN WALBERBERG

BIOLOGISCHE PROBLEME HÖHERER ORDNUNG IM LICHTE


DES ONTOLOGISCHEN AKTUALISMUS UND SYMBOLISMUS.

Was die moderne Biologie in den fruchtbarsten Berührungs-


punkt mit dem ontologischen Aktuaiismus echter, eigenständiger
Naturphilosophie bringt, ist die Rehabilitierung des ontologisch
fundierten Kraftbegriffes, der aktiven Potenz. Dieser Begriff muß
von dem naturwissenschaftlichen Kraftbegriff, der methodisch völ-
lig zu recht besteht aber als Produkt au·s Masse Beschleunigung ei-
ne reine Maßangabe sein will, klar unterschieden werden. Denn die-
ser naturwissenschaftliche Kraftbegriff unterscheidet weder Tätig-
keit und Tätigkeitsvermögen, noch macht er einen Unterschied zwis-
chen Tätigkeit und Wirkung. Naturphilosophisch ist Kraft das
nächste unmittelbare Prinzip der Tätigkeit oder Wirksamkeit: die
aktive Potenz. Am nächsten kommt heute wieder diesem echten
Kraftbegriff die vitalistische Biologie durch ihre Einführung der
Vitalagentien als aktive Vermögen, welche Rehabilitierung ich in
meinem Werk : c Vom Sinnreich des Lebens > eingehend und im
Anschluß an eigene Experiinentaluntersuchungen zu begründen ver-
suchte. Man unterscheidet dann bei der Pflanze :
1. Das Ernährungsvermögen in seiner Lenkung des Stoff- und
Energiewechsels
2. das Wachstums- bezw. Entwicklungsvermögen in der Unter-
gliederung von
a) Wurzelbildungsvermögen
b) Laubsproßbildungsvermögen
c) Blüten- und Fruchtbildungsvermögen
3. das Fortpflanzungsvermögen ( Zeugunsvermögen)

Die Unterscheidungsnotwendigkeit der Vermögen, die man auch


als einem Materialgrund zugeordnete « Verwirklichungsfelder > be-
zeichnen kann, hatte ihren sachlichen Anhaltspunkt in den Experi-
mentalergebnissen selber. So konnten bei meinen bei der Schnee:-
220 HANS ANDRE

beere durch die Strauchentblätterung ausgelösten Verlaubungsvor•


gängen bei den Blütenknöspchen das Aktualisierungsfeld Laub•
sproßbildung mit der Blütenbildung gegenläufig « inter{erieren »
und dadurch, ihren Realunterschied in allen möglichen monströsen
Zwischenformen zwischen Förderung des einen und Unterdrückun(.(
des andern offenbar machen. Die Pflanze als Tätiges oder als Sub•
jekt ihrer Tätigkeit ist aber auch selbst von. ihren Tätigkeitsvermö•
gen zu unterscheiden. Sie erweist sich in allen ihren embryonalen
oder embryonalisierungsfähigen Teilen als ein und derselbige blei•
bende Träger dieser Vermögen, die den veränderlichen Bedürfnissen
proportioniert aus der Tätigkeitsbereitschaft in die aktuelle Tätigkeit
selber übergehen. Die Tätigkeitsvermögen sind von ihrem substanziel-
len Träger, also dem Wesen der Pflanze, auch deshalb real verschie-
den, weil man bei bestimmten Pflanzen z.B. das Blütenbildungsvermö•
gen dauernd unterdrücken kann, ohne daß die Pflanze aufhörte,
der ein und derselbige bleibende Träger dieses Vermögens zu sein.
Die Vitalagentien der Pflanze, z. B. dieses Blütenbildungsvermögen,
sind auch von ihren Wirkungen real verschieden, denn sonst müßte
das Hervorbringende zugleich das Hervorgebrachte sein, _das Aktuie•
rende das Aktuierte. Die Vitalagentien sind zudem, als der Pflanze
selbst zukommende also bleibende innere Tätigkeitsprinzipien zu
fassen, da sie sich als dauernde Befähigungen zu den gleichen Tä-
tigkeiten erweisen. Da die Pflanze selbst durch dieselben ihre Wirk-
samkeit entfaltet, kann diese Wirksamkeit nicht mit Gott und dem
göttlichen Willen gleichgesetzt werden. Und doch können die im
Subjekt wurzelnden Tätigkeitsvermögen nicht rein aus sich selbst
aus der Tätigkeitsbereitschaft in die Tätigkeitswirklichkeit über-
gehen, vielmehr ist es ursprü,nglichst immer die göttliche Kraft, die
die Eigenkraft des Geschöpfes auslöst oder ent=bindet und so des-
sen Eigenkraft seiner actio verbindet. So kann man also sagen, daß
der geschöftliche Akt in Bezug auf alles, was in ihm an Vollkom-
menheit gegeben ist in Wahrheit wirkursächlich ganz von der ge-
schöpflichen Ursache und zugleich ganz von Gott ist, von der ge-
schöpflichen Ursache als Zweitursache, von Gott als Erstursache.
So strömt Gott nicht nur unaufhörlich den Geschöpfen das Sein
ein sondern ein Strom göttlicher Impulse und mit ihm göttlicher
Ratschlüsse geht unaufhörlich durch alle geschöpflichen Ereignis-
verkettungen hindurch. Die unter solchen Voraussetzungen erst
eintretenden Ereignisverkettungen können also nur hypothetisch
nicht absolut notwendig erfolgen und die ganze Welt-Ordnung un•
tersteht immer völlig der göttlichen Welterhaltung und göttlichen
Weltlenkung in der universal das Sein den Dingen einströmenden
und deren Tätigsein universal erstauslösenden Kraft. Den so wich-
BIOLOGISCHE PROBLEME HÖHERER ORDNUNG 221

tigen Begriff der auslösenden Ursächlichkeit, der das Ineil.:ander=


Zusammen von Erst- und Zweitursächlichkeit analog zu ,·erdeut-
lichen gestattet, ist durch den großen Katalyseforscher P,rof. Dr. Al-
win Mittasch naturphilosophisch wieder zur Geltung gebracht und
für das Verständnis der gesetzlichen Vorgänge zu einem unentbehr-
lichen Schlüssel geworden. Die Biokatalysatoren müssen vom Vi-
talagens einen ordnenden Impuls empfangen, daß sie « jetzt, hier,
so > selber wieder einen auslösend lenkenden Impuls an das Sub-
strat abgeben, in dem die chemischen Prozessen aus der Bereit-
schaft zum Ablauf in dieser oder jener Richtung in den Ablaufs-
vollzug gebracht werden und so durch die Verwandlung in der
Stoffmetamorphose der Gestaltmetamorphose dienend sich einglie- ·
dern. Gott ist die souverän seinbegründende, ins Dasein rufende,
und die souverän erstauslösende Kraft, nach außen hin reine Wir-
kung, während der wirkende Akt völlig in Gott bleibt. Seine reine
Transzendenz ist die Voraussetzung seiner tiefsten Immanenz in
der Schöpfung, da er sie so ganz von Innen heraus - den Dingen
-innerlicher als sie sich selbst sind - zu erhalten und regieren ver-
mag und in nichts sich mit ihr verwickelt. Als Weltseele gadacht
würde er zusammen mit der Welt ein Monstrum bilden, das « vom
Fraße seiner eigenen Kinder lebt.> (Franz v. Baader).
In Zusammenhang damit, daß die "Naturkräfte· als den Dingen
innere Tätigkeitsprinzipien aufzufassen sind, ergibt sich eine be-
sondere Formulierung des Begriffes Natur.
Natur stammt sprachlich von dem lat. natura, dem genau das
griechische Wort physis entspricht. Beide Worte deuten auf den
Zusammenhang mit dem Geborenwerden, der Geburt.
Sie meinen
1.) zunächst die natür-liche, d. h. geburtliche, von der Ge-
burt herrührende oder gewachsene Eigenart eines Lebendigen.
Im weiteren Sinne heißt dann
2.) Natur die Wesensart jedes Seienden, wie sie ihm von sei-
nem Ursprung her zukommt.
Obwohl man oft Natur vom Wesen nicht unterscheidet, so
fügt docht streng genommen Natur ein dynamisches Prinzip zum
Wesen hinzu. Es wird dann
3.) Natur definiert als der innere Grund, das innere Prin-
zip des Wirkens und Erleidens (principium intrinsecum motus et
quietis) derjenigen Dinge, die wir mit den Sinnen wahrnehmen.
Diese Natur ist der jedem Naturding innewohnende Bauplan in
Verknüpfung mit der damit hineingelegten Neigung zu den ihm
eigentümlichen, zweckbestimmten gleichartigen Tätigkeiten, deren
Richtschnur man naturphilosophisch als Naturgesetz formuliert.
222 HANS ANDRE

Die Naturwissenschaft faßt das Naturgesetz nicht als Norm der


einer inneren Neigung entspringenden Tätigkeiten auf, sondern
mehr als die in eine mathematische Gleichung zu bringende Ab-
hängigkeitsbeziehung meßbarer Größen. Nur die Biologie versucht
auch gewisse finale Normen der vitalen Zielstrebigkeit festzustellen,
die eine naturontologische Fassung des Naturgesetzes in unserem
Sinne nahe legen, wenn nach letztverbindlicher Untergründung die-
ser Sachverhalte gefragt wird. In der organischen Natur besteht auf
Grund der immanenten Lebenstätigkeit die Tendenz zu einer grund-
legend durch das Licht vermittelten Aufwertung produktiv verfüg-
barer Energie (Ektropie), in der anorganischen Natur eine Ten,denz
zur Abwertung (Entropie), zum Ausgleich in der maximal ungeord-
netsten Energieform der Wärme (Resultat: der allgemeine Wärme-
tod des Universums). Energieaufsammlung und Energiezerstreuung
sind also zwei gegenläufige Prozesse im Naturgeschehen, von de-
nen der erste von den im Lebensprinzip, also in der Form wurzeln-
den Assimilationsvermögen unter werkzeuglicher Beteiligung der
Sonnenstrahlung getragen ist, der zweite seine naturontologische
Wurzel in der Materie hat, insofern dieselbe je gesteigerter ein-
schränkend maßgeblicher Untergrund für die anorganischen
Formprinzipien ist, die vermehrte Außenabhängigkeit der Bewe-
gung mit sich bringt, deren Extremfall die Wärmebewegung ist.
Ein erwärmter Körper gibt auch sofort Wärme wieder ab, wenn
er mit einem kälteren verbunden ist und so strebt die Wärmener-
gie einem wachsenden Ausgleich zu. Der Stoff- und Energiewechsel
des W armblütlers wirkt diesem Ausgleich entgegen, hat also ek-
tropische Tendenz. Aber auch der Organismus kann seine ektropi-
sche Tendenz nicht dauernd aufrecht erhalten sondern verfällt
dem natürlichen Tod als Folge einer wachsenden Korrelationsstö-
rung in seiner Lebenstätigkeit, bei der er ja immer nur insofern
spontan selbstbewegend ist, als er durch einen Teil den anderen
bewegt, also der innersten einschränkenden Abhängigkeit im Ver-
hältnis von Teil zu Teil unterworfen ist. Grenzfälle mit Partialtod
sind die einen Wurzelstock besitzenden Pflanzen, wenn dieser im-
mer in dem Maße rückwärts abstirbt als er vom weiter wächst,
also eine sich steigernde Einschränkung der Ernährungsmöglich-
keit (wie sie schließlich beim Höhenwachstum der Bäume eintre-
ten muß) aufhebt. Bei den überorganischen Vermögen: Vernunft
und Wille, besteht ein innerer Grund des Aufhörens in ihrem
Kreisschluß zwischen gewolltem Urteil und beurteiltem Wollen
nicht, weshalb der Tod des Menschen nur ein Partialtod ist, ver-
bunden mit der Hineingeburt der auch unabhängig vom Leibe in
sich existenzfähigen Seele in die jenseitige Welt.
BIOLOGISCHE PROBLEME HÖHERER ORDNUNG 223

Was die Ontologie des Lebendigen angeht, so erweist der on-


tologische Aktualismus seine besondere Fruchtbarkei.t in der Tiefe.n-
aufschließung der Polarismen. In meiner vor vierzehn Jahren bei
Gustav Fischer, dann Jena, erschienenen Schrift: « Die Polarität
der Pflanze> machte ich auf eine gewisse Verhältnisgleichheit auf-
merksam, die zwischen dem Erde und Himmel produktiv mitei-
nander verbindenden Lichtempfindlichmacher in der Pflanze, dem
Blattgrün oder Chlorophyll, und der Pflanze selber besteht. Der
Vergleich ergab sich aus dem Zusammenhang von Struktur- und-
Wirkbild einer chemischen Verbindung. Ich wies z. B. darauf hin,
daß hochentwickelte Molekulargebilde unter Wahrung ihrer che-
mischen Ringstruktur durch den Stoffwechsel hindurchgehen und
sich nur an der Peripherie Atome an- und abgliedern, um damit
das Energie liefemde Geschehen zu beherrschen und zu regulieren
ohne selbst einer einschneidenden Änderung unterworfen zu sein.
In der inneren im Stoffwechsel nicht untergehenden Festigkeit sol-
cher Ringe liegt schon eine Analogie zur Selbständigkeitswahrung
der Gesamtpflanze gegenüber den wechselnden Außeneinflüssen. Im
Blattgrün vereinigen sich nun vier sogen. heterozyklische Pyrrol-
ringe, die durch polare Stellung der Kohlenstoffatome gegen das
Stickstoffatom sich auszeichnen, wobei die bodenherkünftige Stick-
stoffkomponente das Auflockerung vermittelnde Element gleichsam
den «Wurzelpol> darstellt, der in besonderer Weise die erdgerecht
aufschließende Wirkform garantiert. In einer die Grundkonzeption
meiner Schrift positiv aufnehmenden Kritik wies der Hamburger
Naturforscher Prof. Dr. Friedrich Brock darauf hin, daß man bei
aller analogienhaften Aufdeckung von Polarismen doch im Auge
behalten müsse, daß die Welt der chemischen Formeln ein Pro-
dukt unserer Vorstellungswelt bleibt und als solches jederzeit einer
Revision unterziehbar ist, während die biologischen Daten sich un-
mittelbar aus unserer Anschauung ergeben. Unterdessen ist aber
durch das Feld-Elektr-0nen-Mikrosk0,p das viergliedrige Pyrolring-
gefüge einer dem Blattgrün strukturell gleichwertigen chemischen
Verbindung sichtbar gemacht und fotografiert worden und hat da-
bei die reizvolle Gestalt eines vierblättrigen Kleeblattes enthüllt.
Man denkt an GOlethes Ausspruch: « Morphologie ruht auf der
Oberzeugung, daß alles, was sei, sich auch andeuten und zei(}en
müsse. Von den ersten physischen und chemischen Elementen an
bis zur geistigsten Äußerung des Menschen lassen wir diesen Grund-
satz gelten>. Ontologisch ist das darin begründet, daß die We-
sensf(?rm auch Prinzip der durch die Sichtbarkeit vermittelten Ein-
sehbarkeit ist. Daß das Chlorophyll als Blattgrün die Pflanze so-
zusagen in die ihr wesensgemäßeste Trachtfarbe einkleidet, da es
22' HANS ANDRE

- als Ausdruck der Potenz-Akt-Proportionierung - den Dunkel-


hintergrund des für Einstrahlung <>ffenen Blau mit dem aktiv aus:.
strahlenden Lichthintergrund des sonnenfarbenen Gelb verbindet,
sei nur beiläufig bemerkt. Die Farbigkeit als Tönung der Licht-
haftigkeit ist hier selbstverständlich nur qualitätsgehaltlich, cha-
rakterologisch, nicht physikalisch gemeint. Prof. Eduard May (in
« Kleiner Grundriß der Naturphilosophie», Meisenheim 1949, S.
51-52) äußert sich im Hinweis auf meine oben genannte Schrift,
« daß sie (ähnlich wie die Arbeiten Armin Müllers} deutlich er-
kennen lassen, daß man auch bei einem nicht (im naturw. Sinn ge-
meinten} kausalen Ansatz die einzelnen Probleme angehen kann
und daß die Art der Forschung und Deutung und mithin der je-
weiligen Erkenntnis von der Art der Fragestellung und dem dies-
bezüglichen (apriorischen) Ansatz abhängt. Der exakten Naturphi-
losophie, die sich nicht gleich von neuen ' Weltbildmöglichkeiten '
blenden läßt, eröffnet sich hier ein weites, noch kaum bearbeitetes
Feld logischer und methodologischer Forschung».
Als Ansatz sehr fruchtbarer Art zur Aufschließung echter Po-
larismen erwies sich mir meine « Philosophie der Blüte» (Die Be-
gegnung, Maiheft 1947). Goethe weist bereits in seinem Farbenkreis
darauf hin, daß, wenn aus Grün nach der einen Seite Gelb hervor-
geht und sich über Orange zum warmen ungebrochenen Hochrot
steigert, auf der anderen Seite Blau, das zum kalten gebrochenen
Violett wird, nun die warme durchlichtete Plus-Seite mit der kal-
ten durchdunkelten Minus-Seite in der Vereinigung von Hochrot
und Violett die « Blüte » des Purpur ergibt. Dieses Schema: Pola-
rität, Steigerung nach Plus- und Minusseite und Kulmination habe
ich auf die Generationswechselstufen im Pflanzenreich übertragen.
Je höher die Pflanze gebildet ist, desto deutlicher zeigt sich die
Erscheinung der Blüte, es steigert sich die Polarität von Vorzug
und Mangel; denn die höheren Pflanzen lassen die Erscheinung des
Generationswechsels, der noch bei den Farben im Wechsel von
kleinem Vorkeim mit großem Blattwedel besteht, nicht mehr
äußerlich sichtbar werden, sondern schließen in die Blüte das nun
gänzlich verarmte Geschlechtspflänzchen ein. Durch diesen Mangel
wird der Pflanze der Vorzug der Blütenbildung zuteil. So verstehen
wir nun aber auch, wie wir immer den Kulminationspunkt oder die
.Aufgipfelungshöhe in einer Aufstufungsreihe deren «Blüte> be-
zeichnen können, denn analog findet auch hier immer eine j-e tiefer
aufgeschlossene Ermangelung mit einem je reicheren Vorgebot am
Eigenen zur Begegnung sich zusammen. Denken wir an die Erde-
Sonne-Gezweiung in unserem Planetensystem, an das reziproke Ver-
BIOLOGISCHE PROBLEME HÖHERER ORDNUNG 225

hältnis zwischen Organbelehrungsbedürftigkeit und geistiger Selbst-


belehrungsmacht beim Menschen, an die Rückverbindung zwischen
dem äußerst hilfs-und belehrungsbedürftigen Kind mit dem es er-
nährenden und erziehenden Eltern, was ja erst zum Sichzusammen-
finden im menschlichen Familienleben, der «Blüte» der Gemeins-
chaft, führt.
In der Unterordnung des gänzlich reduzierten Gametophyten
unter den Sporophyten, der die hoch entwickelte Blumenblüten-
pflanze selber ist, entfaltet der Gametophyt die einem parasitären Or-
ganismus extrem entgegengesetzte Funktion in der Höchstform der
Ernährungsfürsorge für den jungen Embryo, dem er das für ihn
sich auflösende Nährgewebe (Endosperm) zubildet. In diesem Zu-
sammenhang wird es aufschlußreich die Herkunft des Parasitären
ins Auge zu fassen. In einer Besprechung « Zur Phylogenie des
Stoffes » weist der Botaniker und bedeutende Biochemiker Kurt
Mothes darauf hin, daß gewisse Purpurbakterien mit Hilfe des Bak-
teriochlorins, das mit dem Blattchlorophyll eng verwandt ist, pho-
tosynthetisch assimilieren, also autotroph sind. Sie können aber
durch Umschaltung ihres Stoffwechsels bei derselben Art oder we-
nigstens im engsten Verwandtschaftskreis zu chemosynthetischen
und damit heterotrophen Lebewesen werden. Man braucht da nur
noch den Verlust des chlorophyllähnlichen Farbstoffs anzunehmen
und erhält einen Stoffwechseltyp, der anderen chemosynthetischen
Formen, die man als die eigentlich ursprünglichen anzusprechen
geneigt war, entspricht. Mothes bemerkt dann weiter: « Die Frage
nach der Herausbildung einfachsten Lebens wird durch diese neuen
Untersuchungen außerordentlich verwickelt und verdunkelt. Jeden-
falls gibt es keinen Grund, die Stoffwechseltypen, die ihrer Oeko-
logie nach als einfach und anspruchslos ( chemosynthetisch) bezeich-
net werden, entwicklungsgeschichtlich als die älteren anzusehen ...
Die Vorstellung einer Urzeugung ist wahrlich dem vergangenen
Jahrhundert leichter gefallen als dem jetzigen».
Mothes' Hinweis auf die Wahrscheinlichkeit einer Herkunft der
in ihrer physiologischen Integrität verarmten (depotenzierten) For-
men aus ursprünglich vollkommeneren (integren) weist im Werde-
gang des Lebens auf der Erde viele Erfahrungsparallelen auf. So
gehen bei bestimmten pflanzlichen Formenkreisen, bei denen sich
eine Tendenz zur sog. Wuzelsprossung verknüpft mit Unterdrück-
ung des Hauptsprosses geltend macht, als Endergebnis oft monströ-
se Parasiten hervor. Daß die unechten Viren in Parallele zu solchem
Absinken der stammesgeschichtlich schöpferischen Zeugungspotenz
als depotenzierte Bakterien anzusehen sind, drängt sich uns unmit-

15 - Studi filo,ofici
226 HANS ANDÜ

telbar auf. Die romantische Naturphilosophie sprach von « Afteror-


ganismen>, deren Herkunft man auf Afterzeugung zurückführte.
Einen haltbaren Sinn könnten diese Begriffen auch heute noch ge-
winnen. Dazu hinführen könnte uns die Tatsache, daß dem Orga-
nismus entnommene und auf ein Nährsubstrat ausgepflanzte Zellen
zu einem gleichsam « namenlos > gewordenen weiterwuchernden
Zellkomplex absinken können, also zwar noch lebend sind, aber
unter völligem Verlust der Integrität des Mutterorganismus. Eine
eigentliche Afterzeugung in der Richtung solcher pathologischer Ve-
runähnlichung durch Integritätsverlust würde dem Krebs zugrunde-
liegen. Sie bedeutete also einen depotenzierten Abstieg in der Rich-
tung auf Entählichung der selbständig wuchernden Zellen hin. Die
Scholastiker sprechen von transitorischen ( vorübergehenden) For-
men,· .die in solchen Zerfallsstufen entstehen. Die ungezwungenste
Deutung der echten Viren wäre dann die, daß sie .den Extremfall
von Desintegration durch Afterzeugung, also durch den Gegenvor-
gang zur schöpferisch aufbauenden Zeugung darstellten. Sie wären
Abspaltungsprodukte der lebenden Substanz, die jedoch noch auto-
katalytische Eigenschaften besitzen, d. h. in der lebenden Zelle .des
Wirtsorganismus ihre Entstehung beschleunigen könnten. Sie sind
aber nicht mehr von der Zelle des lebenden Organismus so « in den
Griff » werkzeuglicher Benutzung wie die echten Nukleoproteide zu
bekommen und wirken daher auch bei künstlich durch sie erzeugten
Blütenmetamorphosen entstaltend oder deformierend. Als bloßes
Werkzeug und dazu noch als gleichsam unhandlich gewordenes
Werkzeug sind sie außerstande, den Werkmeister, der sie in Griff
zu nehmen bestimmt ist, selber aufzubauen und so als Vorstufe der
lebenden Organismen angesehen zu werden. Auch durch sie wird
die Entstehung des Lebens aus toter Materie noch unverständlicher
als sie früher war. Man muß sich überhaupt darüber klar sein, daß
eigentliche Entstehungs- oder Ui:sprungsfragen innerhalb der quan-
tifizierenden Wissenschaft und mit der ihr eigentümlichen Metho-
dik nicht behandelbar sin~. Naturontologisch aber kann man nur
sagen, daß ohne Schöpfung die erste Entstehung des Lebens des
zureichenden Grundes entbehrt. Diese Schöpfung kann· aber entwe-
der eine direkte, unmittelbare, oder eine indirekte, potentielle, mit-
telbare, sekundäre gewesen sein. In einer Polemik gegen Avicenna,
der eine Art Urzeugung der lebenden Wesen lehrte, betont Thomas:
« Bei .der ersten Einrichtung der Dinge ... war das tätige Prinzip das
Wort Gottes, das aus der Elementarmaterie lebende Wesen hervor-
brachte, entweder fertig (in actu), wie einige Heilige meinen, oder
potentiell (virtute}, wie Augustin glaubt; also nicht deshalb weil,
wie Avicenna glaubte, Wasser oder Erde in sich die Fähigkeit habe,
BIOLOGISCHE PROBLEME HÖHERER ORDNUNG 227

alle Tiere hervorzubringen, sondern deshalb, weil gerade diese Fä-


higkeit, daß aus der Elementarmaterie kraft des Samens oder der
Sterne Tiere hervorgebracht werden können, aus der den Elemen-
ten ursprünglich mitgegebenen Kraft ist (S. Theol. I, q. 71 art. un.
ad 1). -
Thomas will damit sagen : Die Materie allein aus sich kann le-
bende Wesen nicht hervorbringen, sondern wenn lebende Wesen aus
der Materie entstehen, so geschieht das vermöge der der Materie
von Gott ursprünglich mitgegebenen Fähigkeit. Ähnlich sagt Augus-
tinus : _« Etwas anderes ist es, ein Geschöpf aus dem innersten und
höchsten Angelpunkt der Ursachen bilden und ausstatten - wer
das tut, ist allein der Schöpfer 'Gott - , etwas anderes aber, gemäß
den von Gott verteilten Kräften und Fähigkeiten eine Tätigkeit von
außen heranbringen, so daß das Geschöpf dann oder dann, so oder
so hervortritt; denn jene Geschöpfe sind sämtlich ursprünglich und
uranfänglich schon in einer gewissen Struktur der Elemente
geschaffen, treten aber erst bei gegebener Gelegenheit hervor. Denn
wie die Mütter schwanger sind mit ihren Sprößlingen, so ist die
Welt selbst schwanger mit den Ursachen dessen, was wird. Diese
aber werden in der Welt nur von jener höchsten Weisheit geschaf-
fen, in der es kein Entstehen und kein Vergehen, keinen Anfang
und kein Ende gibt».
Mit dem Hinweis, daß unechte Viren äußerst reduzierte Bakte-
rienabkömmlinge, echte Viren Abspaltungsprodukte lebenden Plas-
mas sind, und daß es naheliegt, auch heterotrophe Bakterien (da-
runter die Krankheitserreger) aus ursprünglichst grünen Urformen
abzuleiten, ergibt sich für uns noch ein neues Problem. Es würden
danach in der Natur Verlustmutationen in Umbildungsreihen zu-
gleich nach anderer vereinseitigender -Richtung Gewinnmutationen
von raffiniertester Angepaßtheit sein können, deren Erfolge nach
außen hin aber Krankheit und Zerstörung sind. Armin Müller nennt
als instruktivstes Beispiel hierfür die Tollwut ( Lyssa) und meint,
es könne hier geradezu von einer Besessenheit des Wirtstieres von
dem Virus gesprochen werden, der wie ein Dämon auf Grund eines
unvorstellbar intimen symbiontischen Kontaktes mit Struktur und
Funktion des befallenen Organismus in raffiniertester Weise ner-
vöse Mechanismen und seelische Dispositionen desselben durchaus
zu seinen Gunsten systematisiert und in zeitlicher Abstimmung auf-
einander in Gang setzt und aufs höchste steigert, um dann, nach-
dem der Weiterverbreitung (durch Beißwut, Speichelfluß, Bewe-
gungsdrang zum Umherschweifen usw.) Genüge getan, mit seinem
Opfer unterzugehen. In. der progressiven Paralyse richtet sich der
zerstörerische Abbauprozeß direkt gegen die Spitzenfunktion des
228 HANS ANDRE

gesamten Nervensystems, in dem sie gerade dessen führende Bezir-


ke in der Großhirnrinde zu allererst zerstört und so den Menschen
persönlich tief entmächtigt. Müller nennt deshalb die Auswirkungs-
richtung des Parasiten kreissotrop (gegen das mächtiger Seinsollen-
de zuerst gerichtet}. So gibt es also unter den 'Gliedern der irdischen
Ereignisverkettungen von ihrer natürlichen Urvollkommenheit ab-
gesunken"', aber Hand in Hand damit höchst zweckmäßig einseitig
spezialisierte Kleinwesen, die vollkommeneren Organismen zum
Verhängnis werden und sie ähnlich zerstören, wie etwa der Zweck-
versklavung verfallene einseitig technisierte Organisationsformen
den Organismus der Kultur immer mehr aufzufressen bestrebt sind,
weil sie in der Hierarchie der Kräfte auf die führend seinsolle~den
zerstörend sich zurückwenden (wenn diese an=fällig geworden
sind). In der Schöpfung muß also primär schon angelegt sein, daß
in ihr produktiv-schöpferische Ereignisabläufe mit zerstörerischen
sich überkreuzen können, da sie ein Schicksal und eine Hoffnung
mit dem Menschen - sowohl der bereichernden und medizinalen
als auch der juridischen Ordnung nach - teilt und - als gleich-
sam ganz aus seinen Maßen genommen - dies auch zeichenhaft
oder physiognomisch zum Ausdruck bringt. Ist doch das Gegenstück
des zer$lörerischen Zusammentreffens einer regressiven Devolution
mit dem Produkt einer progressiven Evolution das Zusammentref-
fen des extrem verarmten Gametophyten mit dem höchst hinauf-
gestalteten Organ des Sporophyten die Blumenblüte, in der die
Zellen des heterotroph gewordenen Gametophyten die Umkehr des
Parasitären anzeigen, nur noch Nährgewebe bilden, das « stirbt >
d. h. sich auflöst für den jungen Embryo, damit derselbe « hun-
dertfältige Frucht > bringen könne.
Gerade durch seine Behandlung des Lyssa (-Tollwut=} Pro-
blems hat Armin Müller an eine Problematik von abgründiger Tiefe
herangeführt. Die anscheinende Dysteleologie von Seinsbezirken,
die infolge des Ausfalls der höheren, mit Hilfe des Lichtes selb-
ständig ernährungsmächtigen Aktualitätssphäre zur niederen hete-
.rotrophen übergehen, bezeugt gerade negativ-positiv die Umkehr-
polungsmacht oder Aufschließungsmächtigkeit des Aktes gegenü-
ber der Potenz, der er nur in Unterordnung unter sich innerhalb
der integren Wegbahnung die ihr eigentlich zubestimmte Erfüllung
mitteilt. Der Träger einer wegen Ausfall der höheren Aktuierungs-
sphäre nicht mehr zur Aufschließung und Unterordnung zu brin-
genden Potenz, hat sieh dann von dem vollkommenen Aktuierungs-
modus - etwa einer autotrophen Algen = Urform emanzipiert
wird zum Parasiten, schließlich auch zu einer selbst wieder dege-
nerierten Bakterienform oder zu einem echten Virus, einem vom
BIOLOGISCHE ;l'ROBLEME HÖHERER ORDNUNG 229

Plasma abgespaltenen Nukleoproteid-Partikel. Statt der ursprüng-


lich in ihm frei-legbaren integren Aktuierung strebt er eine Son-
deraktuierung innerhalb eines ,emanzipierten - anscheinend nur
auf die Selbsterhaltung bezogenen - Telos an und zwar in einer
Orgie der Selbstverwirklichung auf eigene Faust, die zu seinem
eigenen Untergang führt. Der Volltreffer seines zum Nutzen sei-
ner selbst abgelenkten Zerstörungswerkes erinnert in der Raffi-
niertheit seines emanzipierten Telos an die der Diebe. Die er-
staunlichen Leistungen des Scharfsinnes, der im Dienste des Un-
rechts steht, verblüffen jeden, während derselbe Mensch in seinem
Berufsleben bei normaler, auch intelligenter Verrichtung seiner
Tätigkeiten, nicht auffallen würde. In der Natur selber sind selbst-
verständlich jene Sonderfälle eines emanzipierten Telos nicht mo-
ralisch zu bewerten sondern gehen nur Zeugnis für eine infolge
der geschöpflichen Defektibilität in sie eintretbaren Störung, Zeu-
gnis auch für den inneren Entsprechungszusammenhang zwischen
.der moralischen und physischen Welt, in den der über die Verwei-
gerung des Opfers ausgesprochene Paradiesesfluch seine Spuren
eingrub, und legen vielleicht auch bis zu einem gewissen Grad.!
die Annahme dämonisch in die Natur eingetretener Störungen
nahe. Sie sind eine Analogie - aber eine in sich selbst morali-
scher Beurteilung durchaus sich entziehende Analogie für das, was
im menschlichen Bereiche das Sichhineinbegeben aus der höheren
in die niedere Aktualitätssphäre im Abbau der ersteren sich ereig•
net. Es setzt die Ohnmacht in der Stärke sich .durch statt
der « Stärke in der Ohnmacht » ( Paulus) und bezeugt gerade in
den negativen Zügen ihres emanzipierten Telos die Positivität
des Erfüllungstelos und die Hinspannbarkeit der Potenz zum
von sich aus erfüllungsmächtigen Akte. Das Licht kann nicht
die Bestimmung in sich tragen, Verfinsterung zu organisieren,
und der Akt der Wurzelfassungsmacht kann nicht die Be-
stimmung mit sich bringen, sich nach unten zu verlieren und
somit die Potenz der Scholle nicht aufzuschließen und zu aktuie-
,ren, sie nicht zur Erfüllung in Blüte und 'Frucht emporzubeziehen. ·
Einer prästabilierten Harmonie eine prästabilierte Disharmonie aus
zwei Ur=Prinzipien entgegenzusetzen, ist die größte Absurdität in
sich selber, denn nur das von sich aus sinnträchtige Sein meint
die Aktualitas in allem Aktuellen und aus diesem Grunde die
Vollkommenheit aller Vollkommenheiten. Vielleicht hat selbst Nietz-
sche das geahnt in seinen zwanglos in den ontologischen Aktua-
lismus des hl. Thomas übertragbaren Versen:
230 HANS ANDRE

« Höchstes Gestirn des Seins


- das kein Wunsch erreicht,
- dQ,S kein Nein befleckt,
Ewiges Ja des Seins,
,ewig bin ich dein Ja/ > 1

1 Zur ausführlichen Begründung des Dargelegten vergl. meine Schrift:


c Vom Sinnreich des Lehens>. Eine Ontologie gläubiger Wurzelfassung. Verlag
Otto Müller, Salzburg 1962. Daselbst ist auch das über den Generationswechsel
und die Blüte als Polarititsereignis Gesagte an Farbtafeln demonstriert.
VIII

R. P. JEAN ABEL:8 S. I.
PRoFESSOBE NELLA FACOLTÄ FILOSOFICA DI VALS (FBANc1A)

LA VITESSE
GRANDEUR QUALITATIVE COMPORTANT UN MAXIMUM
ET LA TH:S:ORIE DE LA RELATIVIT:S:

II est peu de problemes qui aient ete aussi discutes entre philo-
sophes scolastiques au Moyen-Age que celui de la mesure des quali-
tes. La plupart s'accordaient a etendre la notion de mesure a l'or-
dre de la qualite, mais ils se divisaient sur la reponse a donner a
la question suivante: comment se fait l'accroissement de la qua-
lite dans un sujet? Est-ce, comme le proposaient les uns, par ad.-
dition de nouveaux elements de la qualite consideree aux elements
preexistants? Est-ce, comme le soutenaient les autres, par trans-
forma.tÜ>n d'un etat qualitatif preexistant en un nouvel etat quali-
tatif n'ayant aucun element commun avec le precedent, mais sus-
ceptible d'atre classe par rapport a lui et a d'autres dans une echel-
le ordinale de per(ectit>n?
Saint Thomas, qui fait sienne cette seconde theorie, la com-
plete souvent par l'affirmation de l'existence d'un l'IIQ;rimum qui
constitue, pour une qualite donnee, la per(ection de son espece
et qui joue le role d'u,nite de muure vis a vis de la multiplicite
des degres selon lesquels cette qualite est participee, soit par di-
vers sujets, soit successivement par le m~me sujet en lequel eile
s'accrott.
Dans la discussion de ce probleme il y a lieu d'envisager se-
parement trois domaines distincts. Le premier, qui sert de point de
depart aux deux suivants, restreint la question posee aux seules
qualites sensibles ou materielles: sons, couleurs, gravite, vites-
se, etc... Le second l'etend aux qualites spirituelles, en particulier
aux vertus. Le troisieme domaine resulte d'une transposition du
probleme de la mesure de l'ordre predicamental de la qualite a
l'ordre transcendental de l'~tre et conduit a une formulation parti-
culiere de la quarta .uia: Dieu existe comme mesure supreme de
tous l.es degres d' eire.
232 JEAN ADELE S. I.

Cet aspect metaphysique de la mesure a ete longuement etudie


par le R. P. Gaston Isaye dans un cahier des Archives de philosophie
(vol. XVI, cahier 1, 1943). Nous le laisserons completement en de-
hors de notre perspective, ainsi d'ailleurs que l'application de la
theorie de la mesure aux qualites spirituelles. Notre objet est donc
restreint au seul probleme cosmologique de l.a mesure des qu.alites
materielles. Nous I'etudierons en connexion avec les moyens d'ex-
pression des mathematiques· modernes et nous l'appliquerons a une
grandeur particuliere, la vitesse, qui a cesse depuis longtemps d'~-
tre consideree comme une qualite, mals bien a tort comme nous
esperons le montrer. •
D'autres avant nous ont deja songe a rapprocher la conception
scolastique de la mesure des qualites de certaines donnees de la
physique positive. Dans ses Etudes sur Leonard de Vinci Duhem,
apres avoir expose la polemique ci-dessus evoquee, ajoutait: « Cet-
te question se rattache par des liens fort etroits et fort apparents
a certaines discussions de la physique moderne; pouvons-nous par
exemple definir ce qu'il convient d'entendre par le mot « tempera-
ture » sans analyser de nouveau, comme les analysaient les mai-
tres du Moyen-äge, les caracteres qui distinguent la categorie de la
qualite de Ia categorie de II! quantite? » (op. cit. t. III, p. 316).
Le R. P. Hoenen dans sa Cosmologia ( 1. II, c. II) a largement
traite la question de la mesure des qualites et conclu son etude par
l'affirmation suivante que nous faisons pleinement nötre: « L'ap-
plication de la mesure et de la methode mathematique aux quali-
tes, aussi bien en physique experimentale qu'en physique theori-
que, ne detruit pas leur nature qualitative et permet de les attein-
dre avec incomparablement plus de rigueur et de precision qu'on
ne pourrait le faire sans cette methode ».
Nous adoptons aussi le developpement qui suit cet assertum
et dans lequel l'auteur suggere qu'on pourrait pousser l'emploi des
nombres pour la mesure des qualites au-dela d'une simple ordina-
tion, a condition de prendre comme objet de comparaison les inter-
v.alles de variation des qualites et de leur faire correspondre, non
des differences numeriques, mais des rapports. C'est cette suggestion
que nou.§ allons reprendre a notre compte, en l'elaborant dans un
cadre mathematique plus large que la simple theorie des propor-
tions, condition indispensable pour pouvoir aborder ensuite le do-
maine complexe des vitesses.
LA VITESSE, GRANDEUR QUALITATIVE COMPORTANT UN MAXIMUM 233

I.
La. theorie des groupes
OtHlre .approprie ä l.a mesure des qualites

Le besoin ·d'etendre aux grandeurs geometriques continues l'o-


peration de la mesure, appliquee d'abord aux collections d'unites
separees qu'il suffit de « compter >, a conduit les matliematiciens
a adjoindre aux nombres entiers, d'abord les nombres fractionnai-
res, puis le zero et les nombres negatifs, enfin. les nombres irration-
nels; l'ensemble de ces nombres etant nommes « reels > pour les
opposer aux nombres « imaginaires » dont l'introduction repond a
un autre besoin.
Comme les nombres entiers dont ils constituent une extension,
les nombres reels derivent de l'operation repetee de l'addition, ge-
neralisee elle-meme par l'algebre en vue de cette extension. C'est
precisement parce que la methode de mesure des quantites derive
de l'addition qu'on ne peut l'app_liquer, teile quelle, aux qualites
dont la nature exclut qu'elles puissent s'accroitre par addition d'e-
lements homogenes.
Mais il apparatt possible de transposer les proprietes que posse-
dent les nombres reels, du fait de leur generation par l'operation
de l'addition, en des proprietes identiques ou analogues resultant
d'une operation autre que l'addition, tout en .restreignant les nom-
bres consideres a ceux auxquels cette operation confere les dites
proprietes.
Un exemple tres simple, quoique deja applicable a la mesure
de certaines qualites, va nous en convaincre. Isolons parmi les nom-
bres reels les nombres positifs entiers, fractionnaires et irrationnels,
le zero et les nombres negatifs etant exclus. En substituant la mul-
tiplic.ation a l'addition on peut mettre en correspondance, chacune a
chacune, les quatre proprietes suivantes dont jouissent: d'une part
l'ensemble des nombres reels vis a vis de l'addition, d'autre part l'en-
semble des nombres positifs vis a vis de la multiplication.
1° De meme que l'addition de deux nombres reels engendre
toujours un autre nombre reel, c'est-a-dire un elemcnt appartenant
au meme ensemhle; de meme la multiplication de deux nombres
positifs engendre toujours un autre nombre positif, appartenant
lui aussi a l'ensemble considere.
2" L'addition et la multiplication sont toutes deux des ope-
rations· .aswciatives, c'est-a-dire que l'on a d'une part, a, b, c, etant
des nombres reels: (a + b) + c = a + (b + c): et d'autre part,
A, B, C etant des nombres positifs: (A X B) X,C = A X (B X C).
23' JEAN ADELE S. 1.

3° De m~me que l'addition de zero a un nombre reel laisse


ce nombre inchange: (a + 0) = a: de m~me la multiplication par
l'unite d'un nombre positif laisse ce nombre inchange: (A X 1) = A.
4° De m~me qu'a tout nombre reel, positif ou negatif, cor-
respond son « oppose >, c'est-a-dire un nombre reel respectivemenl
negalif ou positif dont l'addition au precedent donne zero:
a + (- a) = ( - a) + a = 0: de m~me a tout nombre posilif corres-
pond son « inverse >, c'est-a-dire un autre nombre positif dont la mul-
1 1
tiplication par le precedent engendre l'unite: A X - =- XA = 1.
A A
On peut retrouver le groupement de ces quatre proprietes dans
bien d'autres ensembles, vis a vis d'autres operations jouant le
röle de loi de oomposition des elements de ces ensembles. II n'est
d'ailleurs pas indispensable que ces ensembles soient formes de
nombres. Leurs « elements > peuvent ~tre des objets de nature quel-
conque, de m~me nature toutefois. On dit alors que chacun de ces
ensembles forme un « groupe >. Les deux groupes ci-dessus rappro-
ches l'un de l'autre sont: le gro'Ul)e additif des nombres reels et
le groupe multiplicatif des ,wmbres positifs.
La substitution du second de ces groupes au premier va deja
nous permettre de transposer la mesure des quantites a une qua-
lite sensible: la hauteur des sons. On sait que les sons musicaux
sont ordonnes ~pontanement par notre sens auditif suivant une
echelle de sons de hauteur croissante, a laquelle les physiciens f ont
correspondre une echelle de nombres positifs croissants: les « fre-
quences > situees entre 60 et 6000 « cycles par seconde >. Mais il
est remarquable que les musiciens ne s'interessent qu'aux seuls iu-
tervalles qui separent ces frequences. Dans les difl'erentes regions
de l'echelle des frequences sonores ils retrouvent un m~me interval-
le fondamental1 celui « d'octave »; et ils le partagent en intervalles
partiels, leis que ceux de « tierce >, « qqinte > etc. qu'ils oomposent
ensuite en intervallu resultants. Les mieux doues ou les plus exer-
ces d'entre eux font ces operations de mesure sans s'aider d'ins-
truments avec une aisance et une precision qui etonnent.
Voici maintenant ou interviennent les groupei: aux intervalles
sonores reconnus egaux par les musiciens ne correspondent pas des
dift'erences egales mais· des rapports egaux de frequences et la c.om-
positi.on de deux intervalles partiels en un intervalle resultant ne
repond pas a une addition mais a une multiplication des rapports
qui speciflent les intervalles entrant en composition. Nous avons la
un exemple remarquable d'.operati.on de mesiure qualitative ayant
m~me structure que les operations fondamentales de la mesure des
LA VITESSE, GBANDEUR QUALITATIVE COMPORTANT UN MAXIMUM 235

quantites, mais dans laquelle le groupe mult'iplicatif des nombres


positifs se substitue au groupe additif des nombres reels, en res-
pectant par le f ait m@me le caractere specifique qui oppose la qua-
lite a la quantite.
II nous reste encore un progres a accomplir. Par suite de l'a-
nalogie qui existe entre quantites et qualites, le langage spontane
qui exprime souvent par les m@mes mots des concepts simplement
analogues designe sous le nom de « somme > ce qui est en realite
un « produit >. Plutöt que de tenter de le corriger, il est plus sim-
ple de le valider en substituant, nux nombres qui expriment les
frequences des differentes « notes > musicales, leurs logarithmes.
Les proprietes elementaires des logarithmes mises en oeuvre par
la « regle a calcul > permettent, comme on le sait, d'operer un pro-
duit en ajoutant deux longueurs et d'obtenir un rapport en effec-
tuant une difference. Puisqu'a l'intervalle fondamental d'octnve re-
pond un rapport de frequences egal a 2 et que le logarithme de-
cimal de 2 est approximativement 0,3 nous pouvons, en multipliant
ce .demier nombre par mille pour supprimer la virgule, diviser l'in-
tervalle d'octave en 12 parties dont chacune vnut 25 unites, le pro-
duit de 12 par 25 etant precisement egal a 300. Si nous donnons le
nom de c savart > a l'unite d'intervalle musical ainsi deflnie, cha-
que demi-ton de la gamme « temperee » vaut 25 savarts et les in-
tervalles de « seconde », « tierce », « quarte >, etc. valent respecti-
vement, suivant que ces intervalles sont separes par un ton entier
ou un seul demi-ton: 50-100-125 ... savnrts.
II y a la plus qu'un simple artifice destine a valider un lan-
gage de soi incorrect et a f aciliter la division de la gamme. La
deflnition et les proprietes des logarithmes sont fondees sur l'exis-
tence d'une correspondance sui generis entre le groupe additif des
-nombres reels et le groupe multiplicatif des nombres positifs. A
une suite croissante de nombres positifs A, B, C, ... on peut faire
correspondre une suite croissante de nombres reels a, b, c, ... choi-
=
sis de telle sorte que, si l'on a C A X B, on ait aussi c = a + b.
Lorsque semblable correspondance est realisee entre deux groupes
on dit que ceux-ci sont isomorphes ou encore qu'ils ont meme struc-
ture. Lorsqu'il y a isomorphisme entre un groupe ordonne d'ele-
ments de nature quelconque et le groupe additif des nombres reels
on peut affirmer l'existence d'une fonction analogue a la fonctwn
logarithmiq,ue qui permet de remplacer la loi de composition, ca-
racteristique du premier groupe, par l'operation de l'addition, ef-
fectuee sur des nombres du second.
Chaque fois donc que l'experience nous mettra en presence de
qualites realisees en divers degres susceptibles de former une suite
236 JEAN ADELE S, I.

ordonnee satisfaisant aux conditions constitutives des groupes et a


la condition supplementaire d'isomorphisme avec le groupe addi-
tif des nombres reels, nous sommes assures de l'existence d'une fonc-
tion grA.ce a laquelle les inter,valles de vari.ation de cette qualite
pourront etre composes entre eux en effecluant, sur des nombres
mis en correStpondance avec les degres quolitatifs par des mesures
physiques don·t les resultats seront transformes par ladit,e fonction,
l'operation fondamentale de l'addition. Comme tout le calcul al-
gebrique repose, au point de depart, sur l'operation de l'addition,
on voit que c'est tout le calcul algebrique qui pourra ainsi etre
applique aux qualites, en respectant leur nature.
Cette conclusion n'est qu'une simple generalisation de ce qu'ad-
mettent, sans contestation possible, tous ceux qui ont une connais-
sance elementaire des bases physiques et mathematiques de la mu-
sique.
Sur un point cependant notre expose reste incomplet, car
nous avons omis une consideration qui joue un röle important dans
la conception thomiste de la mesure des qualites: l'existence d',un
mt:trximum. La question ne se pose pas dans l'exemple des sons mu-
sicaux, on sait en effet que l'oreille devient progressivement insen-
sible aux mouvements vibratoires de l'air lorsque leur frequence
depasse cinq ou six mille cycles par seconde. Nous allons donc
prendre un autre exemple, moins engage d'ailleurs dans le sensible,
ou cette particularite se trouve realisee: la mesure des vitesses.

II.
La vitesse
grandeur qualitative comportant un maximum

Nous etonnerons sans doute en presentant la vitesse com-


me une qualite. N'est-elle pas definie comme le rapport de
deux quantites: la distance spatiale parcourue par un mo-
bile et la duree du parcours? S'arreter a cette objection serait ou-
blier qu'il est de la nature du rapport de s'affranchir de particu-
larites communes aux deux termes mis en rapport. C'est ainsi que
l'on ne change pas la valeur du rapport de deux grandeurs de me-
me espece quand on change l'unite avec laquelle l'une et l'autre
sont mesurees. C'est precisement cette independance du.. rapport
vis a vis de l'unite de mesure qui l'oppose a la « dift'erence > et
justifie sa substitution a celle-ci dans la mesure des intervalles
qualitatifs. II est donc comprehensible qu'avec la mise en rapport
de deux ·grandeurs d'espece differente puisse disparattre le carac-
LA VITESSE, GRANDEUR QUALITATIVE COMPORTANT UN MAXIMUM 237

tere quantitatif commun a celles-ci. En voici un exemple: on defi-


nit la « quantite de chaleur » comme le produit de la temperature
par la masse d'une certaine quantite d'eau. La temperature, gran-
deur manifestement qualitative parce que non-additive, admet donc
pour expression le rapport de deux quantites.
Pour etablir positivement le caractere qualitatif de la vitesse,
montrons d'abord qu'il est possible d'ordonner des vitesses inde-
pendamment de toute mesure d'espace et de temps. Lorsque sur une
route rectiligne un automobiliste parvient a « doubler » la voiture
qui le precedait auparavant, il sait qu'a l'instant Oll il la depasse
sa vitesse est superieure a celle de son rival, sans qu'il soit neces-
saire pour cela de connaitre le nombre de kilometres a l'heure at-
teint par l'un et par l'autre. Sur un autostrade a sens unique ·oll
quatre voitures peuvent avanc~r de front nous pouvons imaginer
qu'a l'instant m~me Oll celle de droite est depassee par celle qui
roule immediatement a sa gauche, celle-ci est egalement depassee
sur sa gauche par une troisieme et celle-ci a son tour par une
quatrieme. Nous obtenons ainsi une serie ordonnee de vitesses crois-
santes, independamment de toute mesur·e quantitative. Nous pou-
vons m~me, par de telles experiences de depassement, comparer
des graduations arbitraires portees sur des « indicateurs de vites-
se » analogues aux tachymetres a force centrifuge qui se trouvent
sur le tableau de bord des voitures automobiles, mais •qui ne se-
raient pas gradues en kilometres a l'heure.
Depassons maintenant ce stade de l'ordination et abordons la
composition des vitesses. Considerons un nageur remontant ou des-
cendant le cours rectiligne d'un fleuve. II acquiert par ses eft'orts
une vitesse qu'il lui est naturel de rapporter a l'eau sur laquelle il
prend appui, mais pour les spectateurs situes sur la rive il possede
une vitesse composee de celle par lui acquise et de celle que com-
munique a l'eau la denivellation des terrains parcourus par le fleu-
ve. Cette vitesse composee est parfois appelee vitesse « absolue >,
ses deux composantes etant la vitesse « relative > et la vitesse « d'en-
tratnement ». Mais le mot absolu signifie seulement la decision de
s'arr~ter au demier repere considere. Le physicien sait fort bien
qu'il pourrait poursuivre indefmiment le changement de repere,
sans en decouvrir un qui serait « absolument fixe ». En d'autres
termes, l'echelle des vitesses dont il dispose n'a pas de zero absolu
analogue a celui des temperatures; tel est, nous le verrons, le sens
du principe de relativite. Ce que nous composons, sous le nom de
vitesses, ce ne sont que des intervalles de vitesse, ce qui confirme
le caractere qualitatif de cette grandeur. Nous allons voir <!e plus
238 JEAN ADELE s. 1.

que, meme ainsi restreinte, la composition des vitesses n'est pas


additive, du moins pour des vitesses tres elevees.
Cette propriete, qui acheve de caracteriser la vitesse comme
qualite, decoule d'une autre propriete, encore plus caracteristique
d'une qualite selon saint Thomas: il existe un maximum des vi-
tesses. A l'epoque ou la theorie de la relativite annonc;a qu'aucun
mobile materiel ne pouvait atteindre la vitesse de la turniere, au-
cune experience ne verifiait encore cette vue theorique. Mais aujour-
d'hui, grace aux accelerateurs de particules dont les dimensions at-
teignent et meme depassent celles des pieces d'artillerie lourde, les
physiciens ont reussi a accelerer des electrons jusqu'a des vitesses
qui ont atteint successivement: 99 %, puis 99,9 %, enfin, 99,99 %
de la vitesse de la furniere. On peut donc regarder aujourd'hui com-
me fermement etablie par l'experience l'existence d'une borne su-
perieur,e des -vitesses.
Non seulement il s'ensuit que la composition des vitesses n'est
pas additive, mais l'existence acquise d'un maximum permet de
preciser la f o-rme mathematique de la lo-i de composition des vi-
tesses. Une demonstration, due au R. P. Pierre Malvatix S. 1., eta-
blit que la forme la plus simple de cette loi qui soit compatible
avec l'existence d'un maximum n'est autre que la loi einsteinienne
de composition des vitesses. Celle-ci se trouve donc justifiee inde-
pendamment de toute consideration sur la simultaneite. C'est au
contraire la mesure du temps qui est dependante de la mesure des
vitesses et doit s'aligner sur sa loi essentielle.
Si, conformement au principe de saint Thomas, le maximum
constitue une unite naturelle, puisque nous n'atteignons que des
inter-valles de vitesse, ceux-ci ne sont objectivement determines que
par leur situation d l'interieur d'un int,ervalle fo.ndamental, celui
que bornent ( en tenant compte que les vitesses ont, sur une droite,
un « sens ») la valeur positive et la valeur negative de la vitesse-li-
mite. Alors qu'un intervalle musical est determine par le simple
« rapport » de deux frequences, un intervalle de vitesses est deter-
mine par un « birapport », c'est-a-dire par le « rapport anharmo-
nique de quatre nombres ». La vitesse limite etant prise pour uni-
te, ces 4 nombres sont: (- 1, + 1, a, b); a. et b designant deux
vitesses constantes le long d'une droite, determinees par rapport a
un repere quelc-d.nque. ( En langage mathematique ce birapport est
un « invariant du groupe des vitesses » ). Nous pouvons donc con-'
clure que le birapp<>rt est la forme mathematiq-ue la mieux ajusUe
a la conceptwn philosophiqu,e de la mesure des qualites qui reJ)l>us-
se leur additivite et· leur assigne comme unite, non un minimum
comme pour les quantites, mais un maximum.
LA VITESSE, GRANDEUR QUALITATIVE COMPORTANT UN MAXIMUM 239

III.
Signification de la theorie de la relativite restreinte

La theorie de la relativite restreinte, qui comptera bientöt un


demi-siecle d'existence, a ete etablie par son auteur sur deux prin-
cipes: le principe de relativite (ou mieux: de reciprccite) des vites-
ses et le principe d'invariiance (ou mieux: d'is.otropie) de la vitesse
de la lumiere. En voici la teneur et, selon nous, la signification.
Selon le principe de relativite le physicien ne dispose d'aucune
ressource qui lui permette de discerner parmi une famille de syste-
mes inertiaux (ou galileoo.s: systemes materiels en translation rec-
tiligne uniforme les uns vis a vis des autres et depourvus de ro-
tation par rapport aux etoiles) un systeme « absolument immobile ».
Ainsi qu'il a deja ete dit, ce principe prend a DOS yeux la si-
gnification suivante: les mesures de vitesse de translation faites par
le physicien n'atteignent que des « intervalles de yi.tesse ».
Le principe d'isotropie s'enonce ainsi: en tout systeme inertial
la turniere se propage, dans un espace vide de matiere ( restriction
essentielle), avec la meme vitesse dans toutes l,es directions. La de-
finition einsteinienne de la simultaneite a distance, a partir de si-
gnaux lumineux, est une application de ce principe.
Pour nous qui, antecedemment a l'examen du probleme de la
mesure du temps, sommes deja en possession de la loi einsteinienne
de com.position des. vitesses, le principe d'isotropie n'est qu'une sim-
ple application de cette loi a un cas-limite, celui ou une des vitesses
entrant en composition est supposee egale a la vitesse de la turniere
dans le vide, celle-ci etant elle-meme identifiee avec la vitesse-limite.
Nous avons vu d'autre part que la loi de composition des vitesses
d'Einstein ne contient rien de plus qu,e l'existence d'une vitesse-li-
mite. II est donc logiquement possible de substituer l'affirmation de
cette existence, erigee en principe, au principe de l'isotropie de pro-
pagation de la turniere. Celle substitution presente plusieurs avan-
tages.
La loi de composition des vitesses est plus generale que son
application a un cas-limite, eile le contient sans etre contenue en
lui. Elle est de plus independante de l'hypothese supplementaire
selon laquelle la vitesse de la turniere dans le vide atteindrait ri-
goureusement la vitesse-Iimite. Les theoriciens de la conception cor-
pusculaire de la turniere envisagent aujourd'hui l'attribution aux
« photons » d'une vitesse legerement variable suivant leur energie,
c'est-a-dire suivant leur frequence. Aucun d'eux des lors n'attein-
drait la vitesse-limite, quoiqu'ils s'en rapprochent de beaucoup plus
240 JEAN ADELE S. 1.

pres que les corpuscules materiels les plus rapides. Bien qu'elles en
soient proches au point de se confondre empiriquement avec eile,
la non-identite de ces vitesses sufilt a retirer a la loi d'isotropie le
caractere d'un principe pout ne lui laisser que le caractere d'une loi
experimentale.
En developpant, suivant les idees exposees dans les pages pre-
cedentes une theorie de la mesure directe des vitesses, on peut eta-
blir les f ondements de la the.orie de la relativite rest11einte antece-
demment d la resolution du probleme de la mesure du temps. La vas-
te synthese spatio-temporelle d'Einstein et de l\linkowski, a laquel-
le nous ne marchandons pas notre admiration, nous apparatt des
lors, non comme la base, mais comme le couronnement de l'edifice.
Nous retrouvons la une vue de cosmologie aristotelicienne: l'analyse
du mouvement doit preceder celle du temps.

CONCLUSION

Par l'examen d'un probleme particulier nous avons cherche a


montrer l'appui mutuel que peuvent se preter d'une part les prin-
cipes de la cosmologie scolastique, d'autre part les donnees experi-
mentales et les instruments de pensee de la science moderne. L'in-
terpretation proposee ci-dessus de la theorie de la relativite exigerait
d'etre plus amplement exposee et justiflee; nous y consacrons un
livre qui parattra prochainement sous le titre: Vitesses et univers
relativiste 1 • Puissions-nous par la contribuer au rapprochement de
deux disciplines dont la symbiose serait enrichissante pour l'une
comme pour l'autre.

1 A parattre aux editions S.E.D.E.S. A Paris, Collection : Esprit et Methode.


Notes matbematiques de Pierre MALVAUX, :J:ndex commente des principaux ter-
mes du vocabulaire relativiste.
PARTE TERZA

Scienza dell' Ente trascendente

16 - Studi filoaofict
1

R.Mo MoNs. LOUIS DE RAEYMAEKER


PßESIDE DELL'JSTITUTO SUPERIORE DI FILOSOFIA
DELL ID°NIVERSITÄ CATTOLICA DI l..oVANIO

LE CARACT8RE SPltCIAL DE LA PREUVE DE DIEU

Les preuves de l'existence de Dieu ont fait l'objet d'innombra-


bles etudes, mais l'accord des esprits n'est pas pres de s'etablir a leur
sujet. A plus d'un egard la situation paratt etrange, car non seule-
ment les partisans et les adversaires desdites preuves s'opposent ir-
reductiblement les unes aux autres, mais meme dans le premier grou-
pe de penseurs il regne une diversite d'opinions et des dissenti-
ments qui ne laissent pas de deconcerter: les arguments presentes
par les uns sont rejetes par les autres et vice versa, et I'on n'en trou-
ve point qui entratne l'assentiment de tous.
A vrai dire, ces preuves subissent le sort de toute doctrine me-
taphysique; et pour decouvrir les raisons profondes des divergences
qui se manifestent a leur propos, il faudrait y consacrer une etude
qui deborderait largement les cadres assignes a ce debat.
Nos projets sont plus modestes. Nous posons comme etabli que
l'existence de Dieu se prouve a partir des donnees de l'experience
par le moyen de la causalite; en d'autres termes, nous tenons pour
prouve que la realite finie, quelle qu'elle soit, s'explique integrale-
ment par l'Etre infini, la Cause creatrice; et nous nous demandons
uniquement a quelles conditions cette demarche intellectuelle a pu
dftment s'eft'ectuer. II vaut la peine, en effet, de souligner certains
traits caracteristiques qui tiennent a I'e.ssence de toute preuve de
Dieu. On est fonde a croire que c'est a ces points essentiels que se
rencontrent les difflcultes majeures, et que c'est la egalement que
se trouvent les raisons qui empechent tant d'esprits droits et bien
intentionnes de s'entendre sur le sens et la valeur des preuves tra-
di tionnelles.

A premiere vue, ce qui est propre a l'argument en question,


c'est qu'il s'occupe d'etablir la realite de l'lnfini. Car il n'y a qu'un
Etre infini. Des lors il ne paratt nullement etonnant que la voie qui
nous y conduit soit irreductible a toute autre.
D'emblee, on pressent des difficultes. On est enclin a penser que
cette voie doit se situer dans une region qui n'est plus celle ou s'ap-
244 LOUIS DE RAEYMAEKER

pliquent legitimement les idees et les principes universels: car si


l'Etre infini est unique, comment n'echapperait-il pas a l'emprise
d'une raison qui ne se developpe que sur la base de l'universel? Ce-
pendant dans ce cas, il serait vain de vouloir prouver, par la raison
discursive, son existence a partir du fini.
L'histoire etablit que, de fait, bon nombre de penseurs ont ete
de cet avis. Remarquons d'abord, que dans l'antiquite grecque, avant
Plotin, le terme « infini > ne se prenait generalement qu'au sens de
imparfait, inacheve, informe; au contraire, « flni > signiflait ter-
mine, acheve, parfait. C'est a peine si l'un ou l'autre philosophe,
tels Anaximandre et Melissus, se hasarderent a parler d'un infmi
au sens d'une realite parfaite sans restriction, sans limite. D'ailleurs
Melissus fut durement traite par Aristote pour s'etre exprime de
la sorte. C'est Plotin qui in.troduisit deflnitivement la notion d'un
inflni de perfection, sans pour autant repudier l'ancien sens et no-
tamment ce que Hegel appellera le mauvais inflni. Or, Plotin, qui
demeure dans la ligne des conceptions de l'intelligence deflnies
par Platon, Aristote, l'Ecole stoicienne, tient l'inflniment parfait,
l'Un, pour non-concevable, pour un au-dela de l'intelligence, parce
que celle-ci est accordee a l'etre comme a son objet formel et que
le domaine de l'Mre se trouve defmi et delimite par les categories.
Sans doute, Plotin entrevoit qu'il ne faut pas forcer la note sur
ce point et il lui arrive de dire, au moins une f ois, que l'Un est com-
me un etre, otov o'Öa(a, et comme une intelligence, olov voii~ (Enn.
J,tJ, 9, 9), mais il ile devoile pas la nature de cette analogie entre
le flni et l'inflni.
II serait interessant de voir comment le Pseudo-Denys l' Areo-
pagite s'est attaque a cette question (l'Etre divin, dit-il, n'est ni
« ceci >, ni « cela >, mais « etre > sans plus) et comment la haute
scolastique herita du probleme et s'eft'o~a. non sans succes, de le
resoudre. Auparavant, Jean Scot Erigene avait signale la meme
difflculte avant meme d'etre entre en contact suivi avec les
oeuvres grecques d'inspiration neoplatonicienne. Dans son De
Praedestinatione, il explique qu'une connaissance veritable de
Dieu ne peut s'obtenir qu'au moyen des idees d'«Mre, de vrai et
de bien,' ainsi que de quelques autres notions empruntees a l'acti-
vite spirituelle; mais aussitöt il ajoute: si l'on admet que toutes
nos idees proviennent d'une experience qui ne contient que des
realites flnies, voire materielles,· est-il possible d'expliquer l'idee
d'inflni?
C'est un probleme auquel on se heurte tout au long de l'epo-
que moderne. Descartes se tourne vers l'inneisme. Les representants
de l'empirisme ne peuvent four-nir aucune reponse positive, a moins
LE CARACTERE SPECIAL DE LA PREUVE DE DIEU 245

d'en appeler a une experience du divin. Kant s'evertue a mettre


en evidence que c'est la nature meme de la raison theorique qui
lui interdit de s'engager dans le domaine metaphysique.
L'existentialisme actuel ne peut negliger l'etude du probleme,
d'autant plus qu'il insiste specialement sur une propriete de l'exis-
tence, a savoir celle d'etre inevitablement en situation et par
consequent d'etre toujours liee a des limites et a des conditions.
De l~ les negations de J.-P. Sartre concernant l'etre de Dieu; de la,
pur ailleurs, l'appel de K. Jaspers a une foi philosophique, ainsi
que la distinction introduite par G. Marcel entre le probleme et le
mystere. De son cöte, M. Heidegger s'efforce de ne pas se laisser
enfermer pans cet etre-ci et cet etre-la, c'est-a-dire dans les
« etants »; il en degage l'etre ( Sein) et le declare irreductible a au-
cun. etant (Seiendes). Nul ne sait ou cela le menera.
II serait des plus utile de faire une etude historique detaillee
de ce probleme afin d'en degager nettement les termes. Nous n'y
pouvons songer dans cette communication. Retenons seulement que,
de nos jours plus que jamais, le probleme se trouve pose avec in-
sistance et precision et que nous ne pouvons nous soustraire a l'im-
perieux devoir de l'etudier sincerement et avec soin.

Une premiere condition requise pour que l'on puisse construi-


re une preuve de l'existence de l':ttre infini, c'est de disposer d'un
point de vue permettant d'embrasser a la fois le fini et l'Infini. Quel
est ce point de vue? Les scolastiques repondent: c'est l'etre; car
l'idee d'etre est universellement enveloppante, transcendantale. Re-
ponse precieuse et qui fournit la piece maitresse de toute construc-
tion metaphysique valable. Mais eile exige une justification et il
semble que, se fiant, non sans quelque raison, au sens commun,
les scolastiques ne se soient pas beaucoup preoccupes des diflicul-
tes que recele leur these. Or, c'est sur ce point fondamental que les
philosophes actuels portent leur effort principal de reflexion et
ils n'ont pas tort de formuler les exigences critiques les plus ri-
goureuses.
S'il est vrai qu'aucun contenu intellectuel n'est inne, comme le
pretendent 1es thomistes, on ne peut prendre l'idee d'etre pour une
forme a priori de l'esprit ou pour un principe-source d'ou l'on pour-
rait deduire la structure du reel; tout au contraire, on doit la con-
siderer comme une idee acquise au cours d'une experience. Or
il est impossible que cette acquisition soit le resultat d'un processus
d'induction: l'idee d'etre ne se forme pas comme les concepts de
chien ou de chat, de cristal ou d'atome, bref comme les concepts
246 LOUIS DE l\AEYMAEKER

mis en oeuvre par les sciences empiriques; car l'induction ne me-


nera jamais qu'a des resultats limites, partiels, separes du transcen-
dantal par une distance infranchissable. D'ailleurs, l'etre est l'ob-
jet formel de l'intelligence et il est donc present a l'esprit des la
premiere demarche intellectuelle. Des lors il f aut admettre qu'on
peut aborder les donnees d'experience autrement que ne le font les
sciences empiriques et que ces donnees recelent autre chose que
ce que l'homme de science y peut decouvrir. Quelle est cette autre
maniere de proceder, qui serait propre a l'activite philosophique?
La question passionne nos contemporains. H. Bergson, Edm. Hus-
serl, beaucoup d'autres, se sont efforces d'y repondre. Au XI• Con-
gres international de Philosophie qui vient de se tenii: a Bruxel-
les, nombreuses furent les communications intitulees « experience
et metaphysique » et elles remplissent tout un volume des Actes
du Congres.
Les sciences empiriques se bornent a enregistrer les faits en
vue de noter la regularite de leurs sequences: les lois qu'elles for-
mulent sont donc integralement empiriques. Mais pour exact et
precieux que soit ce travail, il est loin d'epuiser le contenu de
l'experience: nous ne sommes pas seulement des appareils enre-
gistreurs de faits; Ies donnees reelles nous « disent » quelque chose,
nous y penetrons par l'intelligence (intus-legere), elles nous mani-
festent un « sens », nous leur reconnaissons une « signification >
(comme s'expriment les existentialistes). Autant dire que, de quel-
que maniere, nous pouvons en deceler la constitution profonde, no-
tamment la nature essentielle, la structure significative. Sans doute,
faut-il se garder de toute exageration; le nombre d'essences reelles
qu'il est en notre pouvoir de decrire n'est pas considerable; on a
pu se gausser du butin que pretendaient rapporter les chasseurs
d'essences des siecles passes; on peut en faire autant des resul-
tats que s'imaginent atteindre nos contemporains, existentialistes
ou non, qui manient souvent sans grand discernement la methode
phenomenologique en vue de devoiler la structure essentielle, la
signification des donnees. Mais quoi qu'il en soit des abus, il est cer-
tain que la realite s'ouvre a notre esprit jusqu'a un certain point.
D'ailleurs, la science enipirique elle-meme n'est possible qu'a cette
condition : nous ne sommes a meme de limiter methodiquement
nos recherches au domaine relevant de la technique empirique que
sur la base d'une saisie intellectuelle plus large et plus profonde
qui fournit une certaine com-prehension des donnees de l'experien-
ce et qui y releve, au moins d'une fa~on confuse, le trace d'un
ordre transempirique, fondamental et constitutif.
Bien des problemes se posent a propos de la nature et des
LE CARACTERE SPECIAL DE LA PREUVE DE DIEU 247

limites de cette connaissance, mais la question principale, selon


beaucoup de philosophes et, en particulier, selon les scolastiques,
se rapporte a la connaissance de l'eti:e, parce que c'est en elle que
toute autre vient s'enraciner.
Pour avoir valeur philosophique, la connaissance de l'etre doit
consister en une veritable intellection et depasser la saisie pure-
ment empirique, l'enregistrement du fait comme tel. C'est ainsi
que l'entendaient les anciens; selon Aristote, par exemple, le pro-
pre de l'homme est de donner un « sens » au mot « est ». Quel est
ce sens? 11 en est qui pensent que la connaissance de l'etre est sj
spontanee que tout homme la possede et en use, - ce qui est vräi,
- et qu'elle est si simple et evidente qu'il n'y a pas lieu de s'y arre-
ter pour en determiner le sens precis, - ce qui est des plus con-
testable.
De l'avis de M. Heidegger, la pensee philosophique s'est deve-
loppee, de Platon a nos jours, sur la base d'une erreur radicale
concernant l'etre: on aurait eu le tort de confondre l'etre et l'etant,
de ne voir dans l'etre (Sein) que l'etant (Seiendes). Maintenant qu'il
a denonce l'erreur, M. Heidegger estime qu'il a ouvert une ere nou-
velle a la reflexion philosophique.
Que faut-il en penser? D'une maniere generale, il est exact que
les philosophes ont ete victimes de pareille confusion; il est inexact
qu'ils l'aient ete tous.
Pour Platon, l'etre est une idee definie, comme les autres idees:
celles-ci y participent toutes et elle-meme participe a d'autres, no-
tamment a l'idee de non-etre ou d'alterite (ce qui implique sa ne-
cessaire ·finitude). De son cöte, Aristote identifie purement et sim-
plement l'etre et les differentes categories; aussi bien admet-il que
l'etre a plusieurs sens irreductibles, -ro ~e ö ÄeyE-rm µev :n:ollaxcös 1
Plotin, qui souscrit a ces conceptions, se croit oblige d'affirmer que
l'Un est un au-dela de l'etre. La plupart des scolastiques ne voient
aucune distinction entre essence et etre; ils prennent les mots .ens
et res pour des synonymes ou, tout au plus, y voient-ils une dif-
ference qui ne se fonde que dans l'ordre logique. La philosophie
moderne et contemporaine tout entiere, en particulier les courants
criticistes et idealistes, se sont engages dans la meme voie.
Mais l'on ne peut oublier que saint Thomas s'est inscrit en
faux contre cette conception, des l'instant ou il a considere l'esse,
non seulement comme une per{ectio, un actus,· une valeur ( ce qui
est tout autre chose qu'une donnee brute contre laquelle on ne
fait que se heurter), mais comme une perfection qui est irreduc-

1Metaph. T. (IV), 2, 1003 a. 33.


2'8 LOUIS DE RAEYMAEKER

tible a celles qui se rencontrent dans la ligne de l'essence des


etres; bien plus, comme la valeur f ondamentale a laquelle toute
valeur quidditative, substantielle ou accidentelle, participe a la ma-
niere dont la puissance participe a l'acte. L'esse, perfection par ex-
cellence, est en. fin de compte la seule perfection, en ce sens que
les differentes determinations quidditatives qu'on peut distinguer
n'en sont que des modifications, des realisations limitees, bref des
participations. L'esse, a quoi tout participe, ne participe lui-pieme
a rien. Ainsi donc le principe fondamental de realite, de valeur
et d'intelligibilite se trouve deplace: ce principe n'est plus l'essence,
mais l'esse qui se distingue de l'essence; ce n'est plus la forme,
l'acte essentiel quidditatif, mais l'actus essendi, par rapport auquel
tout acte essentiel est puissance 2 • Des lors, l'esse, qui est l'acte
de toute essence, est le principe d'un ordre de participation qui
s'etend a tout sans exception. La transcendantalite de cet ordre
se trouve donc etablie. Conception propre a saint Thomas et qui
distingue foncierement sa metaphysique de celle de tous ses de-
vanciers, de celle d' Aristote tout autant que de celle des neopla-
toniciens; comme aussi de celle d'Avicenne, car en affirmant entre
l'essence et l'esse le rapport de puissance et d'acte, ce n'est plus a
l'essence prise en elle-meme qu'il accorde une valeur absolue, com-
me le fait Avicenne, c'est a l'esse qu'il accorde ce primat. Concep-
tion qui se distingue radicalement de celle des autres scolastiques,
notamment de celle des scotistes et des suareziens. On est en droit
de s'etonner que l'ecole thomiste ait si souvent perdu de vue l'ins-
pir-ation metaphysique veritable, aussi profondement originale que
feconde, du Docteur Angelique; pourtant ce n'est qu'a partir de
l'esse correctement compris qu'il devient possible d'apercevoir l'u-
nite organique du systeme de saint Thomas. ·
Pour ce qui regarde le probleme pose plus haut, on peut con-
clure comme suit. Il faut etablir avec soin le caractere transcen-
dantal de la connaissance de l'Mre, en mettant vivement en lu-
miere que l'esise est la perfection par excellence, l'actualite de tout
ce qui a valeur de realite. Pour ce faire, il faut se referer a l'expe-
rience humaine prise en son entier. ll s'agit de voir comment le
caractere propre a l'.esse, tel qu'il se manifeste dans le contenu
de l'experience, est d'exiger absolument une extension transcen-
dantale. ll s'agit par la-meme de marquer que la saisie de l'esse
2 « Esse est actualitas omnis formae vel naturae ... Oportet igitur quod
esse comparatur ad essentiam quae est aliud ab ipso, sicut actus ad potentiam >.
Summa theolog., 1•, q. 3, a. 4. « Omnium autem perfectiones pertinent ad per-
fectionem essendi >. lbid., q. 4, a. 2. « Unumquodque autem inquantum babet
de esse, intantum est cognoscibile >. lbid., q. 16, a. 3.
LE CARACTERE SPECIAL DE LA PREUVE DE DIEU 249

(y compris evidemment celle de ses proprietes transcendantales)


difl'ere de toute autre, a savoir de toute connaissance quidditative,
et que cette difference est une difference de nature qui ne peut
se ramener a une difference de degres d'abstraction. C'est pour-
quoi l'intellection de l'etre presente une structure et des qualites
originales, qui ne se trouvent nulle part _ailleurs et dont il est
necessaire de se .rendre compte une fois pour toutes, - ·mais qu'il
n'y a pas lieu d'examiner en cet endroit.

S'il est vrai qu'une discussion de la preuve de l'existence de


Dieu ne peut guere etre feconde aussi longtemps qu'on neglige de
s'entendre sur le sens du terme « etre » (puisque c'est sur l'etre que
se fonde cette preuve totit au long de son developpement), il est
tout aussi vrai qu'il est a peine moins important de s'entendre sur
le sens du terme « infini », etant donne que c'est l'existence de l'~tre
inflni qu'il s'agit d'etablir. Or sur ce point egalement il regne trop
souvent des confusions qui ne laissent pas d'engendrer des ma-
lentendus.
Au premier livre de la Science de la logique, Hegel confronte
les idees de fini et d'infini. Une limite, fait-il remarquer, ne se con-
c;oit que par rapport a un au-dela et, a tout prendre, elle dit rap-
port a l'infini; d'autre part, l'infini implique essentiellement un rap-
port au fini, auquel, de soi, il s'oppose; d'ou il resulte, que les ter-
mes fini et inflni sont correlatifs, qu'ils s'impliquent essentiellement
l'un l'autre.
Ces considerations sont-elles exactes, ou du moins le sont-elles
dans une certaine mesure?
Pour autant que le terme « infini » est negatif, sa signification -
est fonction du vocable « fini ». II est aise de montrer que ce qui est
borne, termine, flni, se conc;oit par opposition a ce qui s'etend au
dela des limites envisagees, qu'il s'en distingue donc comme un
element se distfogue d'un autre qui appartient au meme ensemble:
la partie dit essentiellement rapport aux autres parties du meme
tout et donc aussi a ce tout dans lequel elle se trouve integree. Ceci
ne s'applique pas seulement a la partie entendue au sens etroit,
mais a tout element d'un ensemble et notamment a tout membre
d'un ordre de participation. Qu'il s'agisse d'un morceau de tarte,
d'un pays d'Europe, d'un membre du genre humain, c'est en vertu
de sa deflnition qu'il est insere dans un ensemble et qu'il s'oppose
et s.e rapporte aux autres elements dont celui-ci se compose. La
finitude implique donc la multiplicite et la relativite.
II va de soi que les traits qui marquent la partie comme teile
ne peuvent, pour autant, caracteriser l'ensemble comme tel. Celui-
250 LOUIS DE RAEYMAEKER

ci ne sera donc, ni fini, ni multiple, ni relatif, au sens oil l'est la


partie, mais infini, unique et absolu. L'application peut s'en- faire
notamment au lieu dans l'espace total contenant tous les lieux, au
moment dans le temps qui serait la synthese de tous les moments,
a l'individu humain dans l'humanite qui contiendrait tous les hom-
mes. C'est dans le meme sens que saint .Thomas dit que chaque
ange est, d'une certaine maniere, infini: en efl'et, le Docteur An-
gelique n'admet pas que les anges puissent etre multiplies dans
une meme espece; ce n'est pas par participation que l'ange, selon
lui, possede sa perfection specifique, puisque cet ange est seul a
posseder la perfection de son espece, qu'il ne la partage avec nul
autre et qu'il la realise done d'une maniere complete, illimitee, in-
fmie, - contrairement a l;homme, a qui la perfection humaine ne
revient jamais que dans les limites d'un mode individuel. Ainsi
donc, dans le sens indique, la partie s'oppose au tout et l'element
d'un ordre de participation s'oppose a l'ensemble de cet ordre, com-
me le fini a l'infini, le relatif a l'absolu.
Rien n'empeche d'appliquer ces considerations aux etres flnis
comme tels: tout flni se rapporte aux autres flnis, auxquels il s'op-
pose et dont il se distingue; ensemble, ils comprennent tous les fi-
nis; cet ensemble, ne pouvant plus se rapporter a aucun autre flni,
sera dit, pour autant, absolu, infin1, unique.
Ces remarques sufflsent a montrer que le fini et l'infini, au sens
qui vient d'etre indique, s'impliquent essentiellement et se definis-
sent par leurs rapports mutuels. Mais l'infinite de l'Etre dont il
s'agit dans la preuve de l'existence de Dieu est tout autre chose,
et c'est ce qu'il faut souligner avec le plus grand soin. II s'y agit de
l'infinite d'un etre subsistant, distinct de l'ensemble des finis. Cet
etre infini n'est donc, ni une synthese, ni un ordre, ni un ensemble,
et il ne contient pas formellement les realites flnies comme ele-
ments constitutifs de sa propre realite. Au contraire, il en demeure
entierement independant et c'est en ce sens, le plus strict qui soit,
qu'il est « absolu », n'impliquant aucun Iien reel avec le flni.
Tel est exactement le sens de la « creation », de la production
integralement libre du fini par le Createur. La creature est totale-
ment, a foul point d,e vue, produite par Dieu et donc dependante
de lui; en sorte que Dieu n'est en rien, d aucun point de vue, de-
pendant de sa creature. La creature, comme teile, se definit par la
relation reelle (de dependance) qui l'unit au Createur; celui-ci ne
se definit par aucune relation reelle qui le Iierait a sa creature.
Tout au plus f aut-il mettre une relation Iogique du Createur a la
creature, c'est-a-dire une relation qui conceme la maniere humaine
de connattre l'Etre infini, - mais ceci est un autre probleme.
LE CARACTBBE SPECIAL DE LA PREUVE DE DIEU 251

De nombreux scolastiques admettront cette these. Encore f aut-


il qu'ils se rendent compte de ce qu'elle implique.
La preuve de Dieu tend a etablir l'existence de l'Etre infmi,
de la Cause creatrice. Autant dire qu'avant d'admettre la conclu-
sion de la preuve, l'existence de cet Etre n'est pas tenue pour
etablie philosophiquement. De plus, en attendant de pouvoir se
rallier a ladite conclusion, l'on ne peut savoir si l'idee meme de
l'~tre infini n'est pas intrinsequement contradictoire; a moins d'ad-
mettre l'argument ontologique, mais c'est a bon droit que saint
Thomas le rejette, car nous n'avons aucune vue intellectuelle di-
recte sur la nature divine et si nous en jouissions il serait bien
superflu de construire laborieusement des preuves a posteriori.
Quel est done l'etat de la question?
Si la partie existe, eile implique l'intelligibilite, la possibilite,
du tout dont eile fait partie. C'est pourquoi, etant donne qu'il y a
des etres finis, il faut admettre l'intelligihilite, la non-contradiction,
de l'ensemble (illimite, inflni) des etres flnis. Mais une question se
presente a l'esprit: cet ensemble illimite constitue-t-il vraiment
la seule realite? Dans !'affirmative, cet ensemble ne pourrait plus
se referer a rien (puisque toute autre chose serait contradictoire,
impossible) et il serait donc la realite infiniment, absolument to-
tale. Dans la negative, au contraire, cet ensemble des finis se re-
f ererait a une realite dont il se distingue et il ne serait pas lui-
meme la realite absolument totale. Cependant, - et c'est ici que
se trouve le noeud de la question, - le terme auquel il se refere-
rait ne pouvant etre un terme fini (puisque l'ensemble des flnis
les contient tous, par definition), il serait donc un terme non-fini,
non-relatif, inflni a tout point de vue; du coup, l'on voit se dresser
le probleme fondamental: un terme « absolu » de « reference », c'est-
a-dire un terme auquel tout se refere reellement sans que lui-meme
ne se refere a rien, en d'autres mots, sans qu'il ne soit affecte
reellement par cette reference reelle, n'est-ce pas une flagrante con-
tradiction, tout comme est eontradictoire un cercle carre? Le pro-
bleme est la, exactement, et nulle part ailleurs. Il n'est pas a resou-
dre a priori. Il ne peut non plus se resoudre par constatation di-
recte. Une seule voie reste ouverte : la constatation indirecte, a
savoir la constatation d'une realite fmie, dans laquelle on reconnai-
trait l'exigence reelle d'un terme de reference absolu.
En l'occurrence, il ne faut pas proceder d'une maniere sim-
pliste, en se contentant de postuler, par exemple, que l'ensemble
des finis est evidemment fini puisqu'il ne contient que du flni. Nous
l'avons rappele plus haut: on ne peut, sans plus, attribuer a l'en-
semble, comme tel, des caracteres propres aux parties comme tel-
252 LOUIS DE RAEYMAEKER

les. Nul ne songerait a dire: tout organe du corps humain est ina-
cheve, fini, en ce sens qu'il n'est pas un organisme complet, donc
l'ensemble de ces organes doit lui aussi etre declare inacheve,
fini, puisqu'il ne contient que de l'inacheve, du flni. Ce n'est pas
de la meme maniere qu'un etre particulier est fini eu egard a l'en-
semble des etres et que cet ensemble doit etre dit flni eu egard au
Createur; et il s'agit de prouver, d'etablir en raison, que ce deu-
xieme sens (la flnitude eu egard au Createur), loin d'etre un non-
sens, s'impose lui aussi, aussi bien que le premier (la finitude eu
egard a l'ensemble des finis), parce que ce premier sens, loin de
suffire, implique le second et, en derniere analyse, s'y fonde.
D'ou il ressort que si l'on fait etat du principe ou du fait
que, par telle ou telle de ses tendances, l'homme se trouve na-
turellement oriente vers l'infini, ou que, .d'une maniere generale,
le fmi implique ou reclame l'infini, rien n'est encore prouve; car
toute la question est de savoir de quel infini on est en droit de par-
ler. 11 s'agit, non pas d'afflrmer gratuitement, mais d'etablir en due
forme, que l'infini au sens hegelien du mot, l'inflni au sens de
synthese des finis, ne suffit pas; bien plus, que par toute sa realite
cet inflni reclame un fondement transcendant, un Createur.
Sur ce point egalement, sans doute, l'accord de la plupart des
seolastiques peut s'obtenir; du moins en principe, car dans l'ap-
plication de cette these, notamment dans la maniere de formuler et
de manier le principe de causalite, les difflcultes ne manqueront
pas de surgir.
Effo~ons-nous de prendre plus nettement conscience des ele-
ments du probleme.
La conclusion de la preuve de l'existence de Dieu afflrme la
realite .d'un Etre createur. Cet Etre transcende toutes et chacune
des realites finies; il n'est, sous aucun rapport, un etre particulier
integre dans un ordre d'etres; il n'est donc, a aucun point de vue,
une cause integree dans un ordre de causes; d'aucune maniere, il
ne fait partie d'une serie de causes et il ne peut donc etre, non plus,
le premier terme d'une serie causale. Sans doute est-on convenu
de l'appeler Cause premiere, mais c'est dans un sens bien deflni,
celui de Cause incausee; et il est important de remarqµer que tou-
tes les causes creees doivent s'appeler, dans un seul et meme sens,
des causes secondes, c'est-a-dire des causes egalement (a savoir
totalement et donc immediatement) dependantes de la Cause trans-
cendarite. En d'autres termes, si l'on distingue la Cause premiere
et la cause seconde, il n'y a pas place pour une cause troisieme,
une cause quatrieme, etc. Ce qui est second par rapport a la Cause
LE CARACTERE SPECIAL DE LA PREUVE DE DIEU 253

premiere, c'est I'ordre cree tout entier, y compris toute l'activite


des creatures.
Pour prouver l'existence de la Cause premiere, il faudrait donc
decouvrir une propriete de la cause seconde, de la realite finie, qui
revele qu'elle est creature et qu'elle ne peut exister qu'en depen-
dance totale, des lors actuelle, du Createur. Ou cette propriete· se
rencontre-t-elle? Y a-t-il quelque cas privilegie ou pareil caractere
se manifesterait specialement? On. ne peut le nier a priori. Par ail-
leurs, comme tout etre fini est integralement cree, il ne faudrait
pas s'etonner qu'il y ait l'un ou l'autre signe de dependance to-
tale, de contingence reelle, qui puisse se decouvrir partout, dans
l'homme et en dehors de lui.
Quoi qu'il en soit, il est une operation a eviter, (comme le
f ait remarquer saint Thomas dans chacune des trois premieres voie~
de la Somme theologique), c'est celle qui consisterait a s'engager
dans les series de causes secondes; car la Cause premiere n'est
pas la premiere d'une serie de causes secondes (a savoir la premie-
re cause seconde), et c'est donc peine perdue que de parcourir ces
series de causes secondes, fut-ce jusqu'au bout.
L'observation peut para1tre banale. Elle n'en a pas moins d'im-
portance. En effet, dans la preuve de l'existence de Dieu, si l'on
use volontiers du principe de causalite, generalement on le fait sans
le preciser. Pourtant, s'il y a une distance infinie entre l'etre fini
et l'Etre divin, il y a une meme distance entre la cause seconde et
la Cause premiere, et le moins qu'on puisse demander c'est qu'il
soit fait une distinction entre le principe de causalite qui, le cas
echeant, permet de passer d'un effet a une cause seconde et äe
la sort~ de circuler dans le domaine de l'activite creee, et teile ou
teile raison qui permet de s'orienter tout autrement et de quitter
l'ordre des causes secondes pour se hausser jusqu'a la Cause pre-
miere. Cette derniere operation parait de nature si speciale qu'on
est, pour le moins, en droit de se demander si une meme formule
de causalite peut, sans donner lieu a equivoque, envelopper les
deux processus, celui qui consiste a parcourir l'ordre de l'activite
creee et celui par lequel on s'appuie a cet ordre pour atteindre
une realite transcendante. C'est sur ce point que la philosophie
contemporaine porte son principal effort et c'est a ces difficultcs
tres reelles et fondamentales que nous avons le pressant devoir
de preter l'attention la plus active.
On se rappelle que Proclus, il y a de nombreux siecles, etablit
une hierarchie des perfections, basee sur l'extension des concepts.
Or, selon lui, chaque perfection, ou catcgorie, forme un ordre com-
prenant trois niveaux: celui des individus reunis dans cette catego-
LOUIS DE BAEYMAEKEB

rie (le multiple unifie), celui de la perfection universelle repandue


dans ces individus (l'un engage dans le multiple), enfin celui de
la perfection pure et subsistante (l'un degage de toute multipli-
cite). Par exemple: les ~tres particuliers, l'~tre universel, l'~tre sub-
sistant; les individus humains, l'homme universel, l'homme en soi,
les triangles individuels, le triangle universel, le triangle en soi, etc.
Si cette dialectique platonicienne de l'un peut s'appliquer correc-
tement au premier cas, celui de l'~tre (comme le fait saint Tho-
mas dans la qu.arta uia), nous ne pouvons pas en admettre l'ap-
plication aux autres cas. Manifestement Proclus n'a pas songe a
distinguer le transcendantal et le categorial; qui ne distingue pas,
confond; c'est une confusion que nous lui reprochons. Car le do-
maine des categories se limite aux individus qui s'y rapportent et
il ne se trouve pas oriente vers un empyree d'idees subsistantes,
tandis que le transcendantal exige le Transcendant: les entia et
l'essie universale se fondent sur l'Esse subsistens. Mais c'est cette
voie, celle qui relie le transcendantal au Transcendant qui doit
faire l'objet d'un examen critique. Sans doute est-ce la voie de la ·
causalite, mais d'une causalite metaphysique, creatrice, c'est-a-dire
d'une activite dont la nature demeure irreductible a la eausalite
seconde, propre aux. categories.

II est un troisieme et dernier point qui exige une attention


speciale et qu'il convient de signaler, au moins brievement, e'est la
conclusion elle-m~me de la preuve de l'existence de Dieu. Quelle
est, au juste, la connaissance de Dieu qu'elle procure?
Nous n'avons aucune species pmpria de Dieu: la these est clas-
sique, mais il faut se rendre compte de la verite profonde qu'elle
contient. C'est donc par une species non propria, par un determi-
nant cognitif propre a autre chose que Dieu que nous atteignons
Dieu. Autre chose que Dieu, c'est la creature. C'est donc dans la
representation intellectuelle que nous nous formons de la creature
que s'effectue la connaissance que nous pouvons avoir de Dieu 3 •
Nous ne pensons Dieu qu'en pensant la creature, le fini; en d'au-
tres termes, ce n'est que comme Createur, comme Cause premiere
de la realite finie, que nous connaissons Dieu. Ainsi que le dit
saint Thomas et aussi Hegel, il y a une correlation entre le fini et
l'Infini; mais, selon saint Thomas, - et en cela sa these est le con-
s « Huiusmodi quidem nomina significant substantiam divinam, et prae-
dicantur de Deo substantialiter, sed deftciunt a repraesentatione ipsius ... Di-
vinam substantiam signiftcant: imperfecte tamen, sicut et creaturae imper-
f ecte eam repraesentant ». THOMAS Aq., Summa Theolog., 1•, q. 13, a. 2.
LE CABACTEBE SPECIAL DE LA PREUVE DE DIEU 255

tre-pied de celle de Hegel, - la relation de la creature au Createur


est reelle, tandis que celle du Createur a la creature est simple-
ment logique. Que celle-ci soit logique, cela signifle que, dans la
connaissance, il nous est impossible de separer Dieu de la creature.
Cependant nous nous en rendons compte et c'est pourquoi le Dieu
que nous connaissons de la sorte nous apparatt comme I' Absolu,
sans relation reelle qui le rattache au fini. Sans doute, la nature
de pareille connaissance est-elle mysterieuse. Mais comment la con-
naissance de l'Inflni par le fini ne dehoucherait-elle pas dans le
mystere, puisque, par definition, il est exclu que le fini comprenne
l'lnflni? II reste que c'est ce mystere qu'il s'agit d'admettre, de jus-
tifier, de delimiter avec soin. ·
. Qu'il sufflse d'une remarque pour faire toucher du doigt le
caractere veritablement unique de cette connaissance. Dieu est
le createur de tout ce que je suis et il me contient donc eminem-
ment: je ne me distingue pas de Dieu comme d'un etre « autre
que moi > et il n'est pas, a proprement parler, un « objet > de con-
naissance. D'autre part, il est le createur de tout objet qui puisse
m'apparattre et il le contient donc eminemment: cet objet ne se
distingue pas de Dieu a la maniere dont il se distingue du sujet
que je suis. Bref, l'Etre divin transcende egalement le sujet que
je suis et l'objet que je puis atteindre. La connaissance que j'en
ai ne peut donc se .ramener ni au type subjectif, ni au type objectif
de connattre: eile tient a la visee fondamentale qui se trouve en-
gagee dans toute connaissance d'etre, celle du sujet comme celle
de l'objet, et eile nous fait recom:iattre l'etre flni, celui du sujet
aussi bien que celui de l'objet, comme fonde integralement dans
une realite qui le « transcende >, puisque cette realite doit consti-
tuer son fondement integral, c'est-a-dire ·« createur >.

Ces quelques notes peuvent se resumer. comme suit.


Le propre de la preuve de Dieu est d'etablir la realite de l'Etre
transoendant, etre unique dont tout etre fini se distingue infiniment.
Le seul point de vue qui convienne est celui du transcend011t-
tal: c'est formellement a la lumiere de l'etre que, dans ladite
preuve, le flni doit se considerer.
II s'agit de montrer que le fini, tout le fini, se trouve de soi
rattache a un au-dela du flni, a un Infini transcendant. Ce lien est
d'une nature unique et ce n'est pas par quelque principe propre
aux liens unissant les finis entre eux qu'on pourrait le degager.
S'il est vrai qu'il est en notre pouvoir de nous hausser jusqu'a
connattre le Transcendant, il est tout aussi vrai qu'etant un etre
256 LOUIS DE RAEYMAEKER

fmi il nous est impossible de jamais nous detacher, nous separer,


du flni, pliisqu'il nous est impossible de nous detacher de nous-
m~me. C'est pourquoi notre intelligence limitee, incapable d'em-
brasser l'Inflni, ne pourra jamais atteindre philosophiquement l'Etre
divin qu'en le visant d,ans et a travers l'~tre fini.
Tels sont quelques points propres a la. preuve de Dieu et qui
Ja rendent foncierement differente de tout autre raisonnement.
C'est sur ces points que doivent se concentrer les efforts pour re-
pondre aux exigences de la pensee philosophique vivante.
II

REv. P. IOSEPH DEFEVER S. I.


S. 1. DI
PftOFESSOBE NELLA FACOLT.& FILOSOFICA LoVANIO

DE TRANSCENDENTIA IN PROBATIONE EXISTENTIAE DEI

Quaeritur « quid proprium habeat probatio existentiae Dei, quo


ab aliis probationibus distinguatur >. Et respondeo illud proprium
esse transcendentiam.
Transcendentiam audio per oppositionem ad immanentiam 1 ;
immanentiam autem audio de eo omni quod experiri possumus 2 ,
seu de « experientia empirica, experimentali > qualem eam defl-
niunt Kant et positivistae. Quae experientia complectitur data sen-
sibilia quae subimus et uniflcationem categorialem qua obiectivi-
tatem aliquam saltem praecisivam constituimus; aft'ectiones etiam
aliasque activitates quae talem obiectivitatem concomitantur vel
subsequuntur.
Porro mundus immanentiae est 1. mUJ11dus phaenomenomm
seu apparitionum; non dico apparentiarum, sed eorum quae appa-
rent et quatenus apparent; - 2. mundus aubiectivus; non quo ne-
getur existere in se, sed quatenus non consideratur nisi ut apparens,
nisi proinde in sua relatione ad subiectum humanum; - 3. mun-
dus finit~ cum non appareant neque apparere possint nisi deter-
minata et finita.
Transcendens proinde est ea probatio quae, iter incipiens in
mundo phaenomenorum, in mundo subiecti, in mundo flnito, eun-
dem mundum exsuperare valet et pertingit ad mundum eorum
quae sunt in se et quatenus sunt in se, independenter a subiecto,
immo ad realiter existens Esse illimitatum.
Haec est nunc sententia quam teneo: probatio existential, Dei
sola est quae mundum immanentiae sub triplici aspectu recensito
transcendit: quod in prima parte ostendam. Quo autem transcen-
dat,. debet probatio uti, et de facto utitur, aliqua cognitione idonea.

1 Cfr. E1sLBR, W8rterbuch der philosophischen Begriffe, ad verbum Im-


manent.
2 Cfr. lbid.: « Erfahrungsimmanent ist, was nur als ... Gegenstand mög-
licher Erfahrung existiert ... >.
17 - Studt filoaofict
258 JOSEPH DBFBVBB S. 1.

quae sit et ipsa transcendens, quaeque recte appellata est cognitio


analogica; haec in altera parte tractabo 3 •

I.

In prima parte duo sunt probanda: 1°) nulla alia probatio tran-
scendit mundum immanentem; 2") probatio autem existentiae Dei
eum, sub triplici quem dixi aspectu, transcendit.
1° Probationes quae habentur in re metaphysica censeo esse
reducendas ad probationem existentiae Dei, quia significatio entis,
quod est eorum obiectum formale, tota quanta consistit in parti-
cipatione tou esse divini secundum gradus diversos.
Praeter metaphysicas autem, coeterae omnes pertinent ad scien-
tias, sive naturales sive spirituales. Scientiae vero, etiam spiritua-
les, agunt de rebus quales apparent; utique de obiectis quae singu-
la existunt in ordine rerum, etiam independenter a subiecto cogno-
scente, et existunt unumquodque secundum modum suum respec-
tive proprium; non tarnen de rebus prout sunt entia, prout sunt
existentes, neque prout sunt qua tales intelligibiles.
Scientiae speculantur obiecta sua prout sunt determinate in-
telligibilia: quare non transcendunt mundum flnitum; prout exis-
tunt in sua manifestatione : quare non transcendunt mundum phae-
nomenalem; prout pertinent ad experientiam subiecti : quare neque
mundum subiectivum transcendunt.
Ex his quae hactenus dixi iam clare apparere arbitror scien-
tias numquam exire ex ambitu immanentiae uti eam descripsimus;
nec est mea mens, ad scientias quod attinet, ad magis particularia
descendere.
2° Probatio autem existentiae Dei

1. Trall.8'Cendit mundum phaenomenalem.

Non ita quidem ut eum simpliciter praetermittat; omnis enim


nostra conscientia originem ducit ex experientia sensibili et, quoad
nos, ipsa signifl.catio entis ex ea exsurgit. Verum, ita ut intra ex-
perientiam phaenomenalem ipsum phaenomenon transcendat. Nam,
ubi intelligimus lapidem, simul intelligimus quoniam intelligimus
a De ipsa probatione existentiae Dei deque eins valore reali critice egi in
meo libro « La preuve reelle de Dieu. Etude critique >, Paris - Bruxelles,
Descl~e de Brouwer, 1953. Valorem probationis hie praesupponimus, ut caracte-
rem eius proprium inde eruamus, transcendentiam nempe.
DE TRANSCENDENTIA IN PROBATIONE EXISTENTIAE DEI 259

lapidem, sicut etiam in quavis volitione alicuius obiecti volumus nos


velle. Et hoc quidem implicite tantum in cognitione vel volitione
directa: « obiecta enim praeeognoscuntur actibus ... » '· Sed, ubi .re-
dimus ad actum nostrum reditione completa, in reflexione scilicet
quam vocamus totalem, tune explicite possidemus actum nostrum
intelligendi vel volendi. Quae possessio est quaedam immediatio
inter cognoscens et cognitum, ad consciam usque idehtitatem, est
proinde intuitio activitatis nostrae, qua haec se attingat in suo
esse secundo, ontologice et realiter.
Quapropter haec intuitio activitatis propriae, etsi est imper-
f ecta et se refert toties quoties ad obiectum aliquod sensibile, ni-
hilosecius transcendit hie et nu•nc, tempus et spatium, sensibile et
ipsum conceptum abstractum. Vere ergo transcendit phaenomenon
ex quo tarnen exsurgit, idque transcendit ad «esse», ad ontologiam
existentiae.
Terminus a quo probationis existentiae Dei est quidem « motus
qui palet ad sensum », id est aliquod phaenomenon, sed motus il-
le quatenus simul possidetur ab intellectu; est terminus a quo tran-
scendens. '

2. Transcendit mundum subiectivum.

Debet quidem transcendere illam activitatem subiectivam,


quamtumlibet iam transcendentem, quae seipsam in identitate re-
flexiva possidet; secus enim ad Actum purum pertingere non valeret.
Sed videtur non posse ad ea quae sunt independentia a sub-
iecto transcendere. Oportet enim id quod cognoscimus, puta ·Deum,
denique tandem aliquando appareat in experientia nostra; oportet,
ut sancti Thomae verbis utar, actus cogniti fiat identice actus co-
gnoscentis; et sie Deus, si cognoscitur, erit nobis essentialiter im-
m'anens et a nostra subiectiva activitate dependens: iam non erit
Deus.
Reapse tarnen probatio Dei transcendit etiam mundum subiec-
tivum. Et ratio est quia .reflexio totalis, seu intuitio activitatis spi,-
ritualis, ex qua exordium sumit, non est ·perfecta nec perfecte sibi
immanens. Operatio enim spiritualis in quam reflectit est quidem
immanens, sed ita ut simul adhuc fiat, se moveat ac toties quoties
se perflciat in obiecto ad quod se movet. In eo igitur obiecto tran-
scendit subiectivitatem.
Aliis verbis. Intellectus, cum sit « quo omnia fieri », non est
in actu perfecto seu secundo, nec conscie existit, nisi ubi actu fac-

' S. th., I•, 87, 3.


260 JOSEPH DEFEVER S. I.

tus est aliquod eognitum. Est ergo obiectum cognitum actualis


eS,Sendi perfectio intellectus. Securidum Thomam loquor; sed re-
ßexione intuitiva et eritiea idem facile ad evidentiam usque evin-
citur. Obieetum vero reflexive revelatur simul esse « verbum men-
taliter prolatum », id est conseientiae intellectivae contrarie et re-
lative oppositum, et quidem in ipso actu quo cognoscitur, seu in
quo a subiecto possidetur ut suum (subiecti) proprium esse. Se-
quitur obiectum esse simul: aliud a subieeto seeundum esse -
et ipsam subiecti aetualem essendi perfectionem. Quod autem, ut
est aliud esse, est alieuius actualis essendi perfeetio, influit esse in
illud, est eius eausa; eumque illud in quod inßuit sit aetivitas et
fieri subieeti, est eius causa finalis, aetu existens et inßuens. Quia
denique ea quae in ratione essendi opponuntur ut causa et effec-
tus realiter distinguuntur, sequitur obieetum realiter, secundum
esse, distingui a subieeto a quo cognoscitur, et ut sie distinctum ab
ipso cognosci.
Liquet ergo subiectum transeendere mundum subieetivum im-
manentiae. Nec mirum, siquidem aetivitas subieeti in quam refle-
xio totalis perhibetur, inde ab initio · non erat mere subiectiva nee
perfecte immanens; iam eontinebat influxum obiecti; reflexio to-
talis detexit tantum transcendentiam in actu spontaneo iam exer-
citam.
Notandum est nos ipso facto etiam detexisse aliquam causali-
tatem proprie dictam et realem, nempe verum influxum seeundum
esse; quae eausalitas utique exeedit eategoriam illam kantianam
quae reperitur vigere in mundo experientiae. Sieut prima transcen-
dentia probationi Dei asseeurabat terminum a quo firmum, sie haec
altera principium causalitatis validum.

3. Transcendit mundum finitum.

Et videtur quod non. Admissis enim duabus primis transcen-


dentiis, poterimus discernere intra mundum finitum eausalitatem
veram unius entis finiti in aliud. Sed quomodo ex serie indefinita
causarum finitarum transibimus ad eausam infinitam unicam?
Quomodo poterit abyssus illa transmeari, quae aperitur infinitum
inter et finitum? ·
Et tarnen transcendit, legitime progrediens per viam eminen-
tiae, quam sequitur implicite omnis nostra cognitio, quamque rur-
sus in apertis ponit reßexio totalis.
Refleetenti enim apparet obiectum non tantum perficere et ac-
tuare motum cognoscentis, sed etiam, dum perficit eum, limitare
DE TRANSCENDENTIA IN PROBATIONE EXISTENTIAE DEI 261

et restringere. Activitas autem cognoscens quam obiectum actuan-


do limitat, ·non polest non actualiter suo motu reali transcendere
hoc obiectum; detegitur necessario sese movere ad finem aliquem
a determinationibus obiecti liberum, imo ab omni possibili limite,
et in suo esse pendere ab illo fine illimitato.
Transcendit ergo implicite omnis cognitio, et explicite probatio
Dei, usque ad .realiter existens Esse illimitatum; et per hanc ter-
tiam transcendentiam perficitur probatio existentiae Dei. ·
Transcendit ergo haec probatio mundum phaenomenalem,
mundum subiectivum, mundum finitum; et transcendit sola: tran-
scendere igitur est sibi proprium.

II.

Probatio Dei, quo sie transcendere valeat, debet radicitus et


essentialiter constare cognitione aliqua propria, cuius momenta ex-
plicat, quaeque sit ipsa transcendens, id est quae vere cognoscat
essentiam Dei 11 • Alioquin nesciremus esse praecise Deum, et non
aliud quid, puta « Ding an sich » quam probavissemus existere.
Cognoscere autem semper est in eo ut aliquo modo cogrwscena
in actu sit oognitum in actu; cumque intuitio definiatur identitas
quaedam cognoscentis et cogniti, omne cognoscere erit aliquod in-
tueri. lnde nunc quaeritur qui sit possibilis cognitio quae consti-
tuat actualem identitatem cognoscentis rationalis cum cognito di-
vino. Et respondetur: est possibilis si possibilis est cognitio tran-
scendens quae dicitur analogica. Haec autem est possibilis quia
datur. ·
Non erit utique cognitio intuitiva sensu stricto, ita ut nihil abs-
tracti mediet, et ita ut immediate videatur substantia cogniti: ma-
nifestum est nos tali intuitione non gaudere.
Nec erit intuitio ista deminuta qua obiecta nostra propria co-
gnoscimus, quidditativa nempe, per repraesentationes a sensibili-
bus abstractas, qua scilicet videtur non iam cogniti substantia, sed
tarnen eius apparitio accidentalis. Deus enim in sua essentia neque
sensibus offerri polest, nec eius intelligibilitas, utpote illimitata, a
sensibilibus abstrahi. Quare nullo modo ipsa eius essentia reprae-
sentari polest, et eo sensu remanet nobis « penitus ignota > 18 •

a SANCTUS THOMAS formaliter dicit dari nomina quae conveniant Deo


absolute, aflirmative, proprie, quae significent eius substantiam, eius essen-
tiam. Cfr. S. th., l•, qu. 13, art. 2, 3 et 6.
e C. Gent., III, 49.
262 JOSEPH DEFEVER S, 1,

Relinquitur ut sit cognitio quae ex apprehensione obiectorum


quidditativa ascendat ad Deum, in ea discernens signiflcationem
transcendentem.
Dico: quae ex apprehensione quidditativa sensibilium ascendat.
In hac enim sola, ut iam dictum est, flmus et remanemus conscii,
et nobis aperitur signiflcatio entis. Haec tamen significatio impli-
cite semper excedit .repraesentationem obiecti; ad eam signiflcatio-
nem etiam pertinet, sicut reflexione totali patet, et quod moveba-
mur ad obiectum, et quod in eo nunc actuamur, et quod illud si-
mul praetergredimur, siquidem illud videmus impetum nostrum
simul actuare et determinando refraenare. Ex bis vero tribus mo-
mentis unius cogitationis, unum solummodo, secundum scilicet, id
est obiectum, est rep.raesentatum seu actuali et quidditativae intui-
tioni praesens. Duo alia non sunt nisi in fieri et in continuitate
antecedente · vel consequente cum repraesentatione, neque igitur
nobis intuitioni sunt nisi quatenus dynamice protrahunt eam re-
praesentationem. Repraesentatio igitur ea momenta significat ut
seipsam excedentia.
Ergo, in omni cognitione sumus (actu secundo) obiectum re-
praesentatum quatenus simul actuat et limitat activitatem nostram;
a repraesentatione vero significatur, praeter ipsum repraesentatum,
omne id quod videmus eam excedere. Quod sie sumus et videmus,
est significatio pro nobis prima entis, et quidem in sensu entis
existentis, nempe to « ego sum cognoscens obiectum sensibile qua-
lecumque », quod subiectum et obiectum in unitate aliqua complec-
titur.
Eo modo iam habemus cognitionem transcendentem, quae nem-
pe originem ducat ex experientia, in eaque agnoscat signiflcationem
experientiam transgredientem. Estque ea cognitio analoga, quia per
ens aliquod repraesentatum vere continet significationem entis qua-
tenus etiam non repraesentatur.
Exinde tandem ostendere possumus hanc cognitionem trans-
cendentem realiter continere aliquam identitatem cognoscentis ra-
tionalis cum cognito divino, aliquam intuitionem Dei.
Cum ipso Deo ut est in se, talis identitas non datur; ipse Deus
non videtur, nec in repraesentatione nec in huius dynamica prolun-
gatione, qualis sub reflexione fit conscia. Attamen in ea dynamica
prolungatione implicatur, ideoque cum ea signiflcatur per reprae-
sentationem obiecti.
lmplicatur in ea, quia, ut in Prima parte est ostensum, ubi
me video in activitate mea actuatum et limitatum simul a fine re-
praesentato, debeo concludere ad actionem in me alicuius flnis uni-
DE TRANSCENDENTIA IN PROBATIONE EXISTENTIAE DEI 263

ci non repraesentati, ab omni determinatione et limite liberi, ali-


cuius finis qui simpliciter movet et actuat operationem meam.
Quae implicatio Dei in obiecto afflrmato perficit pro me signi-
ficationem entis. Haec enim significatio, ut a me videtur, id est ut
obiectum repraesentatum quod me actuando limitat, remanet con-
, fusa et deflciens; perficitur autem ubi explicuimus eius depen-
dentiam · a flne illimitato, et apparet tune esse: « participare Esse
illimitatum ». lllun., qu,od in quavis cognitione intentionaliter sum,
est: participatio il>u esse divini.
Quae cum ita sint, iam clare apparet quo pacto, ubi DeUil'
cognoscimus, actu simus cognitum divinum. Ubi scilicet cognosco
obiectum idque transcendo, id est ubi me video per repraesenta-
tionem simul actuatum et refraenatum, ibi datur identitas inter
me cognoscentem et Deum participatum, participatum inquam per
activitatem ineam et per obiectum repraesentatum; ibi datur iden-
titas cum effectu divino qualis sum et qualem me video esse dum
cognosco, cum activitate s,eu causalitate divina terminative sumpta.
- Repraesentatio quidditativa obiecti Deum ostendit, non in seip-
so, sed « confuse » ( ut saepissime dicit sanctus Thomas) in sua
participatione, et sie eum repraesentat « per speciem alienam »;
« sciendum est quod Deus naturali cognitione cognoscitur per phan-
tasmata effectus sui » .,_
Cognitio transcendens Dei quam sie explicare conatus sum,
veriflcat cognitionem analogicam. Vere attribuitur Inflnito esse quod
intelligimus in ente flnito; et tarnen ipsi attribuitur per activita-
tem aliquam transcendentem et ab ipso Deo pendentem; ideoque
attribuitur Deo totaliter aliter ac convenit enti ·finito, secundum mo-
dum qui Deo proportionatur, quique est modus eminentiae.
Denique tandem per modum corollarii indicasse sufflciet cogni-
tionem Dei analogicam duplicem continere analogiam, attrihutio-
nis nempe, et quidem intrinsecae, et proportionalitatis propriae; at-
tributionis, si inter se comparantur Esse divinum et esse finitum:
ab hoc ad Esse Dei viget relatio participationis; proportionalitatis
vero, si consideratur id quod utrique termino, Deo scilicet et obiecto
finito, est dissimiliter simile, « commune », propter quod etiam esse
unius attribuitur alteri modo suae naturae convenienti 8 • Quae ta-
rnen ulterius non evolvo, deflciente tempore.
1 S. th., 1•, 12, 12, ad 2.
s Quoad se, participative « tribuitur » esse divinum creaturae, per creatio-
nem scilicet, estque Deus analogatum princeps; quoad nos vero et secundum
nomen, eminenter « attribuitur » Deo esse creaturae, et est creatura analoga-
tum princeps.
Plura de analogia invenies in opere meo « La preuve reelle de Dieu », Ch.
V, pp. 70-90, in specie pp. 84-90. (Paris-Bruxelles, 1953).
26' .JOSEPH DEFEVER S, 1,

Obiectioni quae moveri solet a criticis et positivistis, necnon a


multis existentialistis et phaenomenologicae methodi cultoribus,
probationem existentiae Dei peccare contra regulas logicae, cum
plus e praemissis eruat quam in eis contineatur, facile, inquisitione
nostra ad finem perducta, respondetur. Immanens, aiunt, non con-
tinet transcendens, nec apparitio illud ipsum quod apparet, nec
cognitio naturaliter subiectiva quod ab ipsa est independens, nec
demum finitum quod est inftnitum. Sed ostendimus transcendens
fuisse praesens et esse contentum inde ab initio, etsi implicite tan-
tum, in quavis cognitione nostra directa; eam reflexio totalis, ad-
iuvante discursu, tantum;modo manifestavit, nil superaddens, ita
ut explicite appareret quod latebat in exercitio cognitionis sponta-
neo. Transcendentiam in visceribus immanentiae seu experientiae
detegere, hoc est proprium probationis existentiae Dei.
III

R. P. WALTER BRUGGER S. I.
J>BOFBSSOBE NELLA FACOLTl FILOSOFICA DI PULLACH (Gmu,rANIA)

CONSIDERATIONES QUAEDAM DE INDOLE PROPRIA


PROBATIONIS DEI

Quaestio de indole propria probationis existentiae Dei, qua sci-


licet ab aliis probationibus distinguatur, tractari potest: sub res-
pectu psychologico, ethico, religioso, methodico-critico, metaphy-
sico. Ponitur autem hie metaphysice quoad essentiam eius ideoque
sub lumine totius metaphysicae.

I.
Ut melius intelligatur, quid proprium habeat probatio existen-
tiae Dei, prius videamus quid intentio nostra sit, si aliquid pro-
bare volumus. Differentiae non vere intelliguntur, nisi ostenditur,
quomodo lege certa ex radice communi enascantur.
Palet probationem non necessario instituendam esse ad gignen-
dam primam certitudinem de aliqua re. Nam probamus etiam ea,
de quibus iam certi sumus. Probatio non certitudinem, sed eviden-
tiam, in qua certitudo fundatur, eamque mediatam respicit. At-
tarnen probatio neque mera via ad evidentiam est, si haec ut imme-
diata impossibilis est. Mediatum et immediatum enim non sese ex-
cludunt, nisi stricte formaliter sub eodem respectu sumuntur. ldem
factum sub diversa ratione immediate et mediate evidens esse pot-
est. Lampadem electricam lucere v. g. immediate visu patere et me-
diate ex causis evidens esse polest, idque eidem cognoscenti. Pro-
batione autem fit, quod veritas aliqua ut vera cognita sit in suis
.relationibus cum aliis veritatibus. Haec est etiam ratio, cur in phi-
losophia eadem veritas variis argumentis cum fructu probetur. Pa-
let inde eam probationem magis cognitionem et scientiam augere,
quae simul cum re causam eius manifestat. Nexus autem inter di-
versas veritates duplici modo cognosci potest: uno modo statuendo
diversas veritates vel diversa facta ut diversa eaque connectendo
vel subiciendo certae legi, quod aequivalet inductioni; alio. modo
266 WALTER BRUOOBR S. I.

statuendo unum factum vel unam veritatem ab eaque procedendo


et quaerendo aliam veritatem, quod aequivalet deductioni sensu lato
( vel etiam sensu stricto, si est a priori ontico).
Si haec ad probationem exislentiae Dei applicantur, patet eam
non posse esse inductionem, cum existentia Dei non independenter
a mundo nota sit neque cum mundo legi communi proprie subesse
possit. Hinc necessario est deductio eaque sensu lato.

II.

Proprium deductionis est extendere certitudinem de una veri-


tate ad aliam ita, ut prior veritas non affirmari et posterior simul,
sine contradictione, negari possit, non autem necessario viceversa.
Nexus consequentiae nihil de exercitio affirmationis dicit, sed· so-
lum possibilitatem qualitatis eius (afflrmatio vel negatio) eam-
·que relative determinat. Coniungit affirmabilitatem utriusque ve-
ritatis simul determinans terminum a quo et ad quem. Nexus hie
exprimitur propositione conditionali :
si propositio p vera est, necessario etiam propositio q vera est.
Vel aliter: si propositio q non vera est, neque propositio p
vera esse polest.
Necessitas nexus et inde sequens impossibilitas simultaneae ve-
ritatis antecedentis et falsitatis consequentis non necessario meta-
physica, sed per se etiam ordinis physici vel moralis esse polest.
Actualiter vero exercito nexu et data veritate propositionis p, me-
taphysice impossibile est propositionem q non esse veram. Praeter
nexum inter p et q etiam de affirmabilitate absoluta propositionis
p constare debet, ut inde propositio q deduci possit.

III.

Unilateralitas nexus inter p et q, vi cuius q ex p, non vero sine


pluribus p ex q deduci polest, in eo .ratiC,nem habet, quod affirma-
bilitas propositionis q in affirmabilitate propositionis p fundatur,
non vero viceversa. Propositio autem affirmari polest, si id quod
repraesentat, suo modo est. Prop·ositio (p, q) ergo affirmari pol-
est, si obiectum eius (p q est (seu suo modo habet esse). Quia
0, 0)

autem omne ens rationis ultimatim in ente reali fundatur, etiam


dicere possumus: p vel q affirmari possunt, si p vel q ultimatim
0 0

saltem in ente reali fundantur (ab eo suum gradum obiectivitatis


mutuant). Ideo ergo q ex p, non vero p ex q deduci posse viden-
CONSIDERATIONES QUAEDAM DE INDOLE PROPRIA PROBATIONIS DEI 267

tur, quia q• secundurn esse suurn (reale vel saltern obiectivurn)


aliquo rnodo ab esse (reali vel obiectivo) tou p0 dependet.
Quae hie dicta sunt et evidentia esse videntur, tarnen duas
difflcultates continent: 1° finis deductionis est absoluta et sepa-
rata afflrrnabilitas propositionis q. Sed nexus conditionalis solurn
statuit afflrrnabilitatern relativarn. Quare quaeritur, undenarn illa
afflrrnabilitas absoluta proveniat et quornodo se habeat ad afflrrna-
bilitatern relativam. - 2° Secundurn supra dicta ornnis deductio
esset stricte dicta seu a priori ontico. lnde autern sequeretur pro-
bationern existentiae Dei ex rnundo esse irnpossibilern. Quod etiarn
afflrrnat rationalisrnus extrernus.

IV.

Ad has difflcultates enodandas haec notanda sunt: aliud est


relatio, afflrrnabilitatis duarurn propositionurn et aliud relativa af-
firrnabilitas unius propositionis. In propositione condicionali rnaio-
ris relatio afflrrnabilitatis duarurn propositionurn (p et q) statuitur.
In rninore p afflrrnatur absolute. Inde sequitur relativa afflrrnabi-
0

litas obiecti q Vi solius deductionis ei non alia afflrrnabilitas


0

convenire polest.
Quaeritur quornodo nihilorninus absoluta et separata afflrrna-
tio conclusionis, quae finis ratiocinantis est, possibilis sit et quo-
rnodo transitus ad earn fiat. Ut vidirnus finis internus et essentialis
deductionis non polest esse nisi afflrrnatio relativae afflrrnabilitatis.
Tarnen conclusione rnanifesturn fit hanc atfirrnationern absolutarn ra-
tionabiliter fieri J)(>8se. Irnrno ratiociniurn ostendit earn virtualiter
iarn factarn esse. Narn conclusio (q) non absolute negari polest,
quin logica consequentia etiarn p negetur; negati q ergo stante p
aequivalet contradictioni p et sirnul non - p. Id ergo quod quoad
nos afflrrnabile est relate ad aliquarn praernissarn absolute affir-
rnatarn, intelligitur etiarn quoad se et absolute afflrrnabile esse.
Ipsa autern haec afflrrnatio forrnalis· et actualis est actus distinc-
tus a conclusione ratiocinii ideoque etiarn stante ratiocinio libera
est et ornitti polest.
Si haec ad probationern existentiae Dei applicantur, vidernus
earn proptet hanc indolern ratiocinii non directe ducere ad afflr-
rnationern existentiae Dei, sed solurn ad iudiciurn de necessaria
afflrrnabilitate eius: secundurn rationern afflrrnari polest, iure ne-
gari non polest.
Ad alterarn difflcultatern solvendarn notandurn est: aliarn esse
afflrrnabilitatern quoad se et quoad nos. Secundurn afflrmabilitatern
268 WALTER BRUGGER S. I.

quoad se solum illud ab alio deduci polest, quod in ordine reali


et obiectivo ab illo dependet (deductio sensu stricto). Sie autem
existentia Dei non ab existentia mundi deduci polest. Aliter res se
babet, si consideratur afflrmabilitas quoad nos, quae non neces-
sario coincidit cum affirmabilitate quoad se. A me autem aliquid
iure afflrmari potest, non simpliciter quia est in se, sed quia mihi
suum esse manifestat. Suum esse reale autem non necessario ma-
nifestat per suam causam (nisi haec cum sua causalitate actuali
vel necessaria aliunde nota sit)·. Manifestat autem esse suum reale
actione sua vel eff'ectu suo. Esse autem obiectivum, non reale
manifestatur mihi eo, quod taleitas obiecti legibus non a lubitu sub-
iecti cogitantis dependentibus regitur. Nexus ergo dependentiae in-
ter propositiones p et q non necessario idem est ac nexus dell.enden-
tiae inter obiecta signiflcata p et q•.
0

V.
In probationibus existentiae Dei, prout v. g. in quinque viis
S. Thomae exponuntur, ab aliqua existentia ad aliam concluditur.
Videamus nunc, quomodo talis probatio ab aliis probationibus exi-
stentiae diff'erat. Ut vidimus existentia per propositionem q signi-
flcata ideo negari non polest, quia logica consequentia etiam exis-
tentia per propositionem p signiflcata neganda esset, cum tarnen
p iam absolute affirmatum sit. Logica autem illa consequentia fun-
datur in propositione conditionali maioris, quae pro casu proba-
tionis existentiae exprimit nexum causalem inter p et q°, ubi
0

p• et q• causa et eff'ectus vel eff'ectus et causa esse possunt. Cum


existentia Dei nullam causam baberi possit, iam ea ratione ab om-
ni probatione existentiae a priori ontico diff'ert.
Ubi p effectum, q° vere causam signiflcant, nexus causalis vel
0

physica vel metaphysica necessitate viget. Videamus primo casum


pbysicae necessitatis seu legis naturalis. Eä statuitur dato certo
pbaenomeno reali p etiam dari in ordine reali certam causam eius
0

q•. Nexus ergo non est solum inter eff'ectum et aliquam causam,
sed inter certum eff'ectum et proportionatam certam causam flni-
tam. Actualiter vigente tali nexu causali ( quod idem est ac stante
reali eff'ectione rei p0 per causam q0 ) metaphysice impossibile est
q° non esse. Nam quod non est, non actu agere polest. Negatio
causae ergo implicaret contradictionem. Propositio vero maior (si
p, etiam q) non enuntiat nexum illum actualiter vigere, sed solum
dicit exigentiam eamque naturalem, physicam et hypotheticam (si
CONSIDEBATIONES QUAEDAM DE INDOLE PROPRIA PROBATIONIS DEI !69

non intercedit alia causa, ut v. g. causa prima), quod causa q rea-


0

lis est, si reale est pbaenomenon p Contradictio illa ergo solum


0

hypothetica est. In casu miraculi p• reale esset ex causalitate pri-


mae causae sine causa q•.
Aliter res est, si nexus in maiore expressus metapbysica ne-
cessitate valet, ut in principio metapbysico causalitatis. Vi eius non
ad certam, sed .solum indeterminate ad aliquam causam concludi
potest, si interim omittimus causam primam. Si causa, stante reali-
tate etrectus, in tali casu negaretur, baberetur contradictio ex sup-
positis, quod scilicet etrectus sine causa reali est impossibilis et
causa tarnen non est realis. Negatio conclusionis seu existentiae cau-
sae in tali casu aequivalet negationi cuiuslibet causae et ideo etiam
negationem nexus conditionalis in maiore expressi (principii cau-
salitatis) includit. Eadem negatio babetur etiam in casu negatio-
nis causae primae. Nam negata causa prima virtualiter omnes cau-
sae negantur.
Probatio ergo existentiae Dei ut causae primae a probatione
determinatae causae pbysicae eo differt, quod illa - supposito ef-
fectu - necessitate metapbysica et absoluta, baec autem solum
necessitate pbysica et bypotbetica nititur. Sicut autem in genere
omnis necessitas physica aliquam necessitatem metapbysicam sup-
ponit et includit, ita etiam probatio determinatae causae pbysicae
semper includit necessitatem causae in genere et etiam causae pri-
mae, sine qua nulla causa omnino esset.
A probatione existentiae causae indeterminate sumptae autem
probatio existentiae causae primae differt eo, ·quod baec explicite
rationem reddit conditionis possibilitatis illius.

VI.

Probatio existentiae Dei ab aliis probationibus existentialibus


non solum eo ditrert, quod - supposita existentia etrectus - ne-
cessitate metapbysica concludit, sed etiam eo, quod terminus pro-
bationis omnino oppositionem ordinis existentiae et essentiae trans-
cendit, et in seipso metapbysica et absoluta necessitate est. lmmo,
cum in ipso non ditrerat quo est et quod est, dici debet ipsa ab-
soluta necessitas, non utique ea, quae relationibus essentialibus in-
fra Deum conveniunt, sed ea, quae est fons transcendens omnis ne-
cessitatis metapbysicae.
Si autem res ita est, non est mirandum, si etiam ex variis ne-
cessitatibus metapbysicis ad transcendentem necessitatem meta-
pbysicam, quae non iam ordine existentiae opponitur, sed est lp-
270 WALTER BRUOOER S. L

sum purum Esse, conciudere possumus. Revera iam supra vidimus:


qui stante maiore (propositione conditionali) conclusionem negat,
consequentia logica etiam minorem p negat, vel potius sibi in ea,
cum eam posuerit, contradicit. Et viceversa, qui stante propositio-
ne p conclusionem negat, virtualiter propositionem conditionalem
negat vel in ea afflrmata sibi contradicit. Sed in casu, ubi propo-
sitio conditionalis nexum physicum exprimit, talis negatio absolute
possibilis est; non vero, si ibi nexus metaphysice necessarius re-
praesentatur. Ulteriys vidimus iam supra: qui stante nexu causali
metaphysice necessario (ergo stante principio metaphysico causa-
litatis) negat causam primam (non ea, post quam aliae; sed ea,
ante quam nulla alia !), is negat quamlibet causam et ideo virtua-
liter etiam necessitatem causalem metaphysicam, et consequenter
necessitatem absolutam transcendentem. Ergo ex solo principio me-
taphysico causalitatis existentia causae primae in se absolute ne-
cessariae probari polest. Hac ratione maxime probatio existentiae
Dei ab omni alia probatione existentiali differt.

VII.
Sed differt etiam ab omni alia probatione essentiali. In omni
quidem probatione essentiali negatio conclusionis virtualiter tran-
sit in aliquam contradictionem formalem relate ad aliquam prae-
missam. Sed haec contradictio est ex obiecto suo finita sicut om-
nis determinatio essentialis ex genere suo finita est. In probatione
vero existentiae Dei, quae ab ordine essentiali metaphysico proce-
dit (ut supra ex principio causalitatis) contradictio ex negatione
conclusionis virtualiter sequens ex obiecto suo infmita est. Nam af-
firmat et tollit simul ipsam necessitatem absolutam et transcenden-
tem, quae est infinita: afflrmat quatenus in praemissis nexum ali-
quem essentialem in illa transcendente necessitate fundatam vir-
tualiter ponit, tollit quatenus hanc eandem necessitatem transcen-
0

dentem negat. Si autem quaelibet contradictio formalis vel virtua-


lis ex obiecto suo intrinsece impossibilis est, maxime hoc valet
de contradictione infinita, qua non una vel alia, sed omnis pos-
sibilitas tolleretur. Cum vero certitudo obiective spectata necessita-
ti obiecti et impossibilitati negationis eius mensuretur, dicendum
est existentiam Dei obiective esse maximae et vere inflnitae certi-
tudinis, maioris quam cuiuslibet, etiam propriae existentiae, maio-
ris etiam quam principiorum cognitionis metaphysicorum. Licet
enim per haec ad illam perveniamus, tarnen intelligimus haec om-
nia non splum quoad se, sed etiam quoad eorum cognoscibilitatem
in illa fundari.
CONSIDERATIONES QUAEDAM DE INDOLE PROPRIA PROBATIONIS DEI 271

VIII.

In antecedentibus pluries sermo fuit de virtuali contradic-


tione seu de contradictione quae logica consequentia a negatione
conclusionis in unam alteramque praemissam derivatur. Talis de-
rivatio, sicut omnino consequentia logica et extensio certitudinis
ab una propositione ad aliam, supponit aliquam identitatem in ob-
iectis simul affirmatis respective negatis. Nam quo iure secus af-
firmatio ab uno ad aliud transire posset? Probatio in ordine reali
eo possibilis est, quod obiectum variarum propositionum, in se unum
et entitative connexum est, ita quod, qui de una propositione cer-
tus est, propter illum nexum entitativum et propter inseparabilem
veritatem utriusque etiam de alia propositione certus fieri possit.
Fundatur ergo in habitudine propositionis vel potius iudicii quod
per eam significatur ad ens in se.
Ab uno iudicio ad aliam realiter concludere possum, quia iu-
dicium essentialiter respicit ordinem entis in se et quia entia in
se, citra id quod de eis formaliter cognoscitur et conceptibus nos-
tris exprimitur, inter se cohaerent. Illud autem, quo iudicium for-
maliter relationem ad ordinem entis in se dicit, est positio obiecti
praedicato expressi tamquam pertinentis ad ordinem entis in se,
seu elementum affirmativum, quod in omni affirmatione vel ne-
gatione continetur et utramque transcendit, quo dicitur (affirma-
tur, ponitur) esse quod est vel non esse quod non est.
Haec affirmatio formaliter quidem circumscribitur et limita-
tur per conceptum praedicati, sed virtualiter omnem talem conten-
tum circumscriptum transcendit eumque in ordinem entis in se
quasi infigit. Quicumque enim aliquid serio affirmat, eo ipso neces-
situtem subit et agnoscit non contradicendo cuilibet alteri conten-
tui ab eodem subiecto iudicanti affirmato. Agnoscit ergo omnia,
quae ab ipso affirmantur, in ordine entis in se communi lege non-
contradictionis cohaerere, seu ea constituere ordinem entis. Agnos-
cit ordinem entis esse in se unum. Agnoscit et virtualiter affirmat
principium unitatis ordinis entis, sine quo non esset talis ordo,
quod est ipsa pura Identitas et transcendens Necessitas. Virtualiter
agnoscit et affirmat Deum.
In fine ergo dicendum: probatio existentiae Dei ab aliis pro-
bationibus eo differt, quod illud vario modo explicitum reddit, quod
virtualiter omnibus aliis probationibus subest eisque suum vigo-
rem confert. ·
IV

R. P. CARLO GIACON S. I.
PßOFESSORE NELL'.UNIVERSITA DI MESSINA

SEMPLICITA' E COMPLESSITA'
NELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO

Si eerea : « Che eosa ha di proprio e speeiale la dimostrazione


dell'esistenza di Dio? » Io penso ehe la earatteristiea propria di que-
sta dimostrazione eonsista nel dupliee aspetto ehe essa ha di as-
soluta semplieita e di assoluta eomplessita, e ehe tale dupliee aspet:.
to dipenda dal fatto ehe la delta dimostrazione e fondata sui due
eoneetti primitivi e semplieissimi di essere e di causa.
La dimostrazione, ehe si svolge nell'atmosfera sia presuppo-
nente i soli dati di una pura f enomologia, sia gia orientata in senso
aristotelieo-tomistico, ha come premessa una eonstatazione di fat-
to, un'affermazione di esistenza, e un prineipio di ragione, quello
di eausalita. Noi eogliamo l'esistenza reale, attuale, di f atto, eon
l'intelligenza, e originariamente e generalmente mediante i sensi.
Noi non siamo intelligenze pure, non intuiamo eon la nostra in-
telligenza esseri reali, esistenti, intelligibili puri; la nostra stessa
intelligenza, anche quando si conosee eome esistente e eome in-
telligenza, si eonosee non eome intelligenza pura, ma eome intel-
ligenza legata in qualche modo al tempo, al moto, alla sensibilita,
alla eorporeita, al divenire, al diseorrere. Con questa intelligenza,
mediante i sensi per riguardo al mondo a noi esteriore e almeno
col Iegame ai sensi per riguardo a se stessa e alla eorporeita cui
va unita, noi eogliamo l'esistenza reale, l'essere, e in conseguenza
di questo contatto ci formiamo il eoneetto di essere, e giudichiamo:
qualche cosa esiste, cioe applichiamo il concetto di essere a una
eosa da noi pereepita come esistente.
II eoncetto di essere ha inizialmente le earatteristiehe del-
l'assoluta semplicita, dell'assoluta indeterminatezza e dell'assoluta
coneretezza: e il piu sempliee e il piu indeterminato di tutti i eon-
cetti percbe tutti gli altri concetti non significano ehe un diverso
modo e una determinazione partieolare di essere, e percio stesso
li contiene tutti e non ne esprime nessuno particolare, esprime con
un signiflcato ehiarissimo e incontrovertibile il predicato attribui-
18 - Studl fllo,oflcl
274 CARLO GIACON S. I.

bile a ogni eosa, dice eh'e eosa ogni eosa e, sebbene in modo non
determinato, e diee di ogni eosa tutto eio ehe e, senza tralaseiare
nulla, senza preseindere da nulla: Pietro e un essere, un sasso e
un essere, e soltan.to il nulla non e un essere; e il predieato e il
eoneetto phi rieeo di tutti perehe contiene tutti i differenti modi
di essere, ed e predieabile di tutti perehe non ne esprime nes,:mno
in partieolare; e un predieato ehe diee tutto il soggetto, e l'unieo
predieato ehe eontiene tutto eio ehe esiste nel soggetto, perehe u.on
traseura ehe eio ehe il soggetto non e, mentre ogni altro predieato
dice soltanto un aspetto o una determtnazione particolare del sog-
getto preseindendo dalle altre; e il predieato ehe si adegua perfet-
tamente al soggetto, ehe non resta in aleun modo al di qua del sog-
getto, ehe lo prende tutto e lo sorpassa e lo traseende: in questo
senso il eoneetto di essere e traseendente, in questo senso traseen-
de tutte le eategorie, tutti i possibili partieolari modi di essere, tut-
ti i possibili predieati di un soggetto, tutto eio ehe il soggetto e
una eosa e e puo essere, ed e, servendoei di esso, ehe pereepiamo
intelligibilmente e direttamente l'esistere reale e attuale sia della
nostra intelligenza sia dell'altro da noi, il quale altro da noi ei e
dato in quanto sensibile e attraverso i sensi. Non abbiamo l'in-
tuizione diretta dell'esistenza di un essere del tutto e solo spiritua-
le; e tutti gli altri eoneetti intelligibili, proprio per poter essere
intelligibili ei riferiseono e ei devono riferire aspetti eomuni e uni-
versali delle eose preseindendo dalla individualita, seeondo la qua-
le le eose non possono non esistere realmente e attualmente; tutti
gli altri eoneetti prescindono dall'esistenza reale e attuale. Non pre-
seinde da questa il eoneetto di essere, il quale, pur essendo eomu-
nissimo e universalissimo, eontiene e rappresenta anehe l'esistere
reale e attuale, l'esistere individuale, secondo il quale le eose esi-
stono di f atto. Col eoneetto di essere eogliamo l'esistere reale c
attuale di noi stessi, degli altri uomini, del mondo sensibile; non co-
gliamo e non possiamo eogliere, essendo intelligenze legale ai sensi,
ne l'esistenza di Dio ne quella di eventuali esseri spirituali puri,
dovendoei essere tra il soggetto eonoseente e l'oggetto eonoseiuto
proporzione di perfezione.
Si diee generalmente ehe tutti i nostri eoneetti sono astratti
e universali. Se coneetto astratto e universale signiftea ehe non e eon-
creto e individuale, ehe non riferisce l'esistenza e l'individualita
della cosa eoncepita, tutti i nostri eoneetti sono astratti e univer-
sali eccetto pero proprio il coneetto di essere, il quale contiene e
rappresenta anehe l'esistenza e l'individualita di tutte le eose se-
eondo la loro diversa relazione all'esistere reale e attuale, benehe
eontenga e debba eontenere l'esistenza e l'individualita delle eose
SEMPLICITA B COMPLESSITA NELLA DIMOSTRAZ, DELL'BSIST, DI DIO 275

in modo non determinato ed esplicito, perche altrimenti non po-


trebbe contenere, oltre l'esistenza e l'individualita, anche tutti gli
altri possibili modi di essere, essere eome sostanza e essere come
accidente, essere come corpo e essere come spirito, e eosl via. II
nostro conoscere e astratto e universale, ma non a tal punto ehe
non possiamo con un concetto perfettamente intelligibile cogliere
l'esistenza delle eose e eoglierle precisatnente in quella individua-
lita secondo cui esistono, benehe non abbiamo poi un coneetto ehe
ei rappresenti l'individualita di eiaseuna eosa, in modo ehe noi
non riuseiamo a distinguere due palle d'avorio perfettamente si-
mili, e una mamma talvolta puo eonfondere due suoi gemelli.
Mediante i sensi siamo a eontatto eon l'individualita delle eose, an-
ehe eon l'intelligenza siamo a eontatto e eonoseiamo le eose in-
dividualmente, benche non abbiamo un eoncetto intelligibile ehe
ei rappresenti tale individualita: da esso noi dovremmo poter riea-
vare tutti i predieati possibili dell'individuo. A eausa poi della eon-
eretezza del eoneetto di essere, anehe tutti i coneetti veramente
astratti e universali partecipano di una qualehe coneretezza, per-
ehe non sono altro ehe aspetti parziali delle eose reali e attuali
ehe ei fanno eonoseere e dalle quali sono stati astratti. Pereio si
diee ehe, sebbene i eoneetti eome tali siano astratti e universali,
il loro eontenuto oggettivo e reale e attuale, esiste veramente nel-
le cose eonerete, e coneretato nelle eose esistenti e individuali. Col
eoncetto quindi di essere la nostra intelligenza si trova in eomu-
nieazione diretta eol mondo della realta, e messa in immediato con-
tatto eol mondo esistente, sa ehe qualehe cosa esiste 1 •
Nella dimostrazione dell'esistenza di Dio entra, oltre al eoneetto
di essere, quello di eausa. Potrebbe essere oggetto di diseussione
chiarire se immediatamente dopo il concetto di essere si formi nel-
la nostra intelligenza, a contatto con la realta, il eoneetto di uno
e di molti, di unita e di molteplieita, oppure quello di eausa e di
effetto: e prima l'esperienza della molteplieita o del divenire? For-
se il eoneetto di uno e di moltepliee e eosl vieino al eoneetto di
essere ehe precede quello di causa ed effetto: si tratta ancora di
una distinzione in seno al coneetto di essere ehe non pone aleuna dif-
ferenza di ordine qualitativo; sembra sia suffieiente l'esperienza del
fatto dell'esistere eome e realmente dato, eioe moltepliee, e non oe-
corra un'esperienza qualitativamente diversa per fondarlo. Que-
sta prima esperienza qualitativamente diversa da quella dell'es-

Su questo argomento ha recentemente scritto un ottimo articolo A. GAz-


1
II primo soggetto e il primo predicato nell'umano giudizio, in « Divus
ZANA,
Thomas Plac. :.; 1951, pp. 372-384.
276 CARLO GIACON S, I,

sere eome tale, e quella del divenire, eioe di un modo partieolare


di essere, modo particolare di essere ehe ontologieamente e secon-
dario, perehe dipende nell'essenza e nell'esistenza dall'essere as-
soluto, ma ehe per noi e il modo eon eui si presenta attuato lo
stesso eoneetto di essere universalissimo: di f atto, non abbiamo
I'esperienza diretta e primitiva del modo di essere assoluto; l'es-
sere ehe a. noi si presenta nella prima esperienza e in seguito e
l'essere in divenire. Questo, dapprima percepito eome essere sol-
tanto, e poi pereepito eome essere in divenire. L'unieo essere reale
e attuale offertoei dall'esperienza e I'essere in divenire, l'essere ehe
non rimane identieo, l'essere ehe muta, senza divenire nulla, l'es-
sere ehe diviene, senza venire dal nulla. Se avessimo soltanto l'e-
sperienza dell'essere, non rieaveremmo dal eoneetto di essere ehe
il eoneetto di nulla e la eonseguente affermazione ehe e impossi-
bile ehe I'essere e il nulla siano la stessa eosa: il prineipio di eon-
traddizione, prineipio essenzialissimo e fondamentalissimo per tut-
ta la speeulazione, ma ehe non f a proeedere in avanti la speeu-
lazione stessa; e il divenire ehe feeonda la speeulazione, ehe fa
differenziare I'essere pensato in essere come eausa e in essere eo-
me effetto, eon tutte quelle eonseguenze ehe eostituiseono la me-
tafisiea della eausa. Come nel eoneetto di essere e ineluso il eon-
eetto di nulla, nel eoneetto di divenire sono inelusi i eoncetti di
eausa e di effetto; se dal concetto di divenire si vuol tenere distin-
to il eoneetto di eausa, il eoneetto di divenire diventa inintelligi-
bile, diventa un sempliee termine e non rimane piu un concetto:
gli e tolto il eontenuto intelligibile, cosi eome se dal eoneetto di
sfera fosse distinto il rapporto tra il raggio e il volume: resterebbe
un'immagine, non sarebbe piu il eoneetto.11 divenire non e eoneepibile
senza il eoneetto di eausa, senza il eoneetto delle quattro eause: mate-
riale e formale, efficiente e finale: il divenire e di una eosa eome so-
strato ehe assume una forma eome determinazione ehe aveva soltan-
to in potenza, divenire ehe non puo essere effettuato ehe da una eau-
sa e:ffieiente, determinata a quel partieolare divenire da una eausa
finale. Sono eause lulle quattro, se per eausa s'intende eio ehe eo-
munque influisce sul darsi e l'esserei dell'effetto, da eui eomunque
dipendono il darsi e l'esserei dell'effetto; ehe se per eausa s'inten-
de, eome generalmente s'intende, eio ehe esereita un'e:ffieienza sul
darsi e I'esserei dell'effetto, la eausa effieiente e immediatamente
designata col termine di eausa; conservata poi alla eausa finale la
sua propri~ earatteristiea, puo instituirsi un parallelo f ra quanto
si deduee dal eoneetto di eausa effleiente e eio ehe si puo e si deve
dedurre dal eoneetto di eausa finale. Si deve eonehiudere ehe il
sinolo materia - forma, sostanza - aeeidente, potenza - atto,
SEMPLICITA E COMPLESSIT..\ NELLA DIMOSTRAZ, DELL'ESIST. DI DIO 277

termini differenti ehe esprimono un'identiea realta, e l'effetto nei


riguardi della eausalita efficiente - finale. Dall'esperienza di un
essere in divenire sono formati in modo eorrelativo i eoneetti di
movente e mosso, di eausa., ed effetto, di sostanza e aecidente, di
potenza e atto; i termini poi di movente, eausa, assoluto e atto puro
designano un'unica identiea eosa, se non anehe un unico identieo
coneetto.
E' infatti movente vero e vera causa, riguardo a un mosso
e a un effetto, non un movente-mosso o una eausa-effetto;
se un movente per muovere d€l,v'essere mosso, non e movente puro,
se una eausa per causare dev'essere eausata, non e eausa pura. Ma
perche il movente sia puro e la causa sia pura e neeessario ehe
non siano della stessa natura del mosso e dell'effetto; la vera
eausa, dieendo indipendenza, sara un assoluto, I'effetto, dicendo
dipendenza, sara un relativo; la vera eausa, dicendo assoluto, dira
perfetto e imperfettibile; l'effetto, dicendo relativo, dira imperfet-
to e perfettibile; l'effetto dira piil e meno, seeondo una misura;
la eausa dira ineommensurabilmente, senza la possibilita d'un. ae-
ereseimento o di una diminuzione, infinitamente, .e quindi anehe
immoltiplieabilmente, unieamente. II eoneetto di vera eausa, di eau-
sa, semplieemente, e il eoncetto di assoluto e di atto puro, e il prin-
eipio ehe ne deriva, come dal eoncetto di essere deriva il prinei-
pio di eontraddizione, e il principio dell'atto puro: l'atto puro, in
ogni genere di perfezione, e nella perfezione di tutte le perfezioni,
e infinito e unieo, la eausa vera, in ogni genere di eausalita, e nel
genere supremo dell'essere, e inflnita e unica. Dal eoncetto poi di
effetto deriva il principio di eausalita: qualunque ente ehe ha le
earatteristiehe dell'effetto, eioe del diveniente, del perfettibile, del
piu e meno, del possibile a essere e a non essere, non. e quello ehe
e se non dipendentemente da una causa. Potrebbe anehe dirsi ehe
il prineipio di causalita riguarda la eausa e l'effetto: della eausa
diee ehe e inflnita nella perfezione e uniea, e dell'effetto diee ehe di-
pende da una causa, ehe se e'e un effetto, e'e la eausa eorrispon-
dente e proporzionata. Con la stessa neeessita eon eui la nostra
intelligenza pereepisee l'eselusione del nulla dall'essere, pereepisee
la dipendenza dell'effetto dalla eausa. Dall'unione poi dell'esperien-
za particolare dell'esistenza di un determinato effetto e del prin-
eipio di eausalita, l'intelligenza deduce sia la necessita dell'esisten-
za della eausa eorrispondente, anche se non percepisce l'esistenza
della causa, sia, almeno in parte, la perfezione di delta causa, do-
vendoei essere una somiglianza tra l'effetto e la sua eausa, do-
vendo la eausa dare secondo quello ehe ha e non secondo quello
ehe non ha, e dovendo l'effetto rieevere eio ehe la eausa gli da.
278 CARLO GIACON S. 1,

Ora: Dio e l'essere assolutamente assoluto, cioe l'essere ehe


sotto qualunque aspetto e eausa e indipendenza, colui ehe e mo-
vente assolutamente immobile, seeondo eioe qualsiasi ordine e ge-
nere di eausalita. Essendo tale per definizione, egli e e dev'essere,
per il principio dell'atto puro, infinito in ogni perfezione e unieo.
La eonoseenza immediata e intuitiva d'un tale essere, e quindi della
sua esistenza, non puo essere proprio ehe di un'intelligenza pro-
porzionata alla sua infinita intelligibilita. Noi non abbiamo una
tale intelligenza, e abbiamo eoseienza di non avere la eognizione
immediata e intuitiva dell'esisteriza di un tale essere. Glj oggetti
della nostra eonoseenza immediata e intuitiva, di quelli di eui per-
eepiamo l'esistenza eome data, siamo noi, gli altri da noi, il mon-
do sensibile. Questi oggetti ci si presentano eome esistenti, e, sul-
lo sfondo dei eoneetti di eausa e di effetto, di perfetto e di imper-
fetto, di infinito e di finito, ei si presentano eome finiti, imperfetti,
effetti. A eausa del principio di eontraddizione eseludiamo ehe
siano nulla, e a eausa del prineipio di eausalita eoneludiamo ehe,
o piil vicino o piu lontano, deve esistere l'assolutamente assoluto.
In seguito ad ulteriori ragionamenti alcuni riterranno di dover
identifieare, in un modo o in un altro, l'assolutamente assoluto eon
la materia, altri eon questo mondo e eon noi stessi, altri di doverlo
eoneepire eome uno spirito traseendente, ereatore di noi e del mon.-
do. In questo senso non e'e stato filosofo ehe non abbia ammes-
sa l'esistenza d'un assolutamente assoluto; non solo l'ammette co-
lui ehe lo fa immanente al mondo, ma anehe eolui ehe l'ha total-
mente identifieato eon noi e eol mondo, poiehe ha dovuto dire ehe
non esistiamo ehe noi e il mondo, ehe noi e il mondo bastiamo a
noi stessi, ehe siamo indipendenti e autosufficienti, ehe siamo gli
assolutamente assoluti. In questo senso e stato detto, fra gli in-
numerevoli altri, da S. Tommaso e da Spinoza, ehe la eonoseenza
dell'esistenza di Dio e una eonoseenza faeilissima e notissima, una
eonoseenza di eui non e privo non soltanto il filosofo, ma anehe
ogni uomo ehe esereiti la sua intelligenza, per quanto poco la
eserciti. La causa di questa faeilita, e riposta nei due eoneetti di
essere e di eausa, eoneetti ehe ei danno rispettivamente la presa
sul i:eale e il trapasso all'assolutamente assoluto. Questo poi po-
tra essere pensato come identifieato eol mondo o eome immanente
al mondo soltanto in eonseguenza, eome s'e detto, di ragionamenti
molto eomplessi e non piu originari e primitivi; seeon-do i eoneetti
originari e primitivi la distinzione tra causa ed effetto, tra per-
fezione assoluta, perfetta ed imperfettibile, infinita ed unica, ed
effetto, relativo, perfettibile finito e moltiplicabile, e assoluta, e
non potra mai parlarsi di un'identificazione tra eausa ed effetto:
SBMPLICIT.& E COMPLESSIT.& NELLA DIMOSTRAZ, DELL'ESIST. DI DIO 279

la causa e necessariamente trascendente l'effetto; soltanto una ul-


teriore confusione tra i concetti di sostanza e accidenti o modi e
quelli di causa ed effetto puo far pensare diversamente.
La prova dell'esistenza di Dio, dell'essere assolutamente as-
soluto, e semplicissima, potrebbe quasi dirsi la piu semplice di tutte,
perche afferma ehe dell'esistenza nostra e del mondo, esistenza ehe
ci e immediatamente data, e data come finita ed imperfetta, esi-
ste la causa proporzionata, cioe infinita, perfetta e unica, le carat-
teristiche della causa in quanto tale. Ma quanto e vero ehe i con-
cetti di essere e di causa sono i piu semplici di tutti, altrettanto e
vero, e non puo non esserlo essendo originari e primitivi, conte-
nendo quindi in qualche modo tutti gli ulteriori, ehe sono pure
i piu complessi. Essi sono i piu semplici perche hanno il meno di
comprensione logica, ma per cio stesso hanno il phi di estensione:
dicono esplicitamente quasi nulla per poter contenere implicita-
mente quasi tutto: sono semplici per un verso e sono complessi
per un altro. Essere e la sostanza e gli accidenti, essere e l'assoluto
e il relativo, essere e la qualita e la quantita; causa e la efficiente e
la finale, la formale e la materiale, tutte quattro sono indispensa-
bili per aversi un effetto; causa e la causa assolutamente incau-
sata, e quella ehe e causa circa un ordine o genere di realta e per-
fezione, ed effetto circa un altro ordine o genere. Se non si sta be-
ne attenti, puo essere facile il passaggio da un modo di essere ad un
altro, da un modo di causare a un altro. Mediante il concetto di es-
sere abbiamo la presa sulla realta attualmente esistente; eppure puo
apparire, ed e apparso, come un concetto astratto, come il concetto
piu astratto di tutti, privo di ogni determinazione, vuoto di tutto,
identico al nulla. Col concetto di essere abbiamo la presa sul reale,
ma questa presa sul reale coinvolge tutta la questione dell'essenza
· del conoscere, se il conoscere sia creativita o intenzionalita, co-
struzione dell'oggetto o apprensione del medesimo. Abbiamo la pre-
sa sul reale, ma l'oggetto immediatamente dato, come esistente
e non dedotto analiticamente, l'oggetto di cui si e consapevoli di
trovarsi immediatamente a contatto, e la modificazione soggettiva
dell'intelligenza e della sensibilita, si sappia o non si sappia, si
presupponga arbitrariamente o si dimostri deduttivamente ehe es-
sa e distinta dalla realta in se e per se, oppure e questa realta in
se e per se? in altri termini: le modificazioni .dell'intelligenza e
della sensibilita, i concetti e le sensazioni sono l' « id quod cogno-
scimus >, oppure l'« id quo cognoscimus >, sono termini o mezzi
di conoscenza? Abbiamo la presa sul reale, ma questa presa e una
persuasione dovuta a un sentimento, priva di intelligibilita, oppure
e perfettamente intelligibile, sl da poterne dedurre conseguenze cer-
280 CABLO GIACON s. 1.

te e feeonde? E' una presa sul reale, ma eome avviene il eontatto


tra intelligenza e sensi? deve ammettersi anehe oggi, e ehe eosa
propriamente fa l'intelletto agente? in qual modo le cose, attraver-
so i fantasmi, produeono l'intelligibile nella « tabula rasa >? al-
l'azione astrattiva preeede una eognizione intellettiva dell'indivi-
duo, ehe mette in luee cio ehe e particolare e singolare e eio ehe
e eomune e universale, oppure non abbiamo, ne prima ne dopo l'a-
zione astrattiva, una eognizione intellettiva della singolarita del sin-
golare? Come mai eonoseiamo ehe un individuo partieolare attua
in se il eontenuto oggettivo dei eoneetti universali? deve ammetter-
si, oltre la fantasia, la eogitativa? ehe eosa signiflea eogliere, con
una facolta sensitiva e non intellettiva, l'individuo eonereto e sin-
golare eome corpo, eome ferro, come uomo, senza avere il eoneetto
universale di eorpo, di ferro e di uomo? D'altra parte se non ei
venisse dato dai -sensi, non potremmo sapere ehe ei troviamo di
fronte piuttosto a un uomo ehe a un pezzo di bronzo; bisogna
ehe la pereezione sensibile di un eorpo, ehe si muove da se, e
diversamente anehe in identiehe eireostanze, faeeia pereepire un'in-
dividuo singolare eome vivente razionale libero, eome uomo, per-
ehe l'intelligenza possa poi aft'ermare ehe il tale individuo e un
pomo e gli attribuisea tutto eio ehe di intelligibile e contenuto nel
concetto di uomo. Non e poi immediatamente evidente ehe eosa on-
tologieamente si trovi nell'individuo, uno e indiviso, ehe eorri-
sponda ai vari distinti eoneetti con ,i quali e eonoseiuto, p. es.,
Pietro: uomo, vivente, eorpo, sostanza, ente.
Quante diffleolta sono state provoeate dal eoncetto di eausa e
dal principio di eausalita ! Eppure sono essi, eoneetto e prineipio,
ehe rendono possibile travalieare l'esperienza, ehe legittimano l'af-
fermazione di un'esistenza non pereepita partendo da un'esisten-
za data. Puo pensarsi, eome e stato pensato, ehe eon i sensi vie-
ne pereepito soltanto il legame di sueeessione tra un fenomeno e
un altro, non un legame di dipendenza; puo dirsi ehe un legame
di dipendenza puo essere aecertato nel mondo dell'esperienza sen-
sibile, flsiea, non al di la di un tale mondo, nel quale non possiamo
sapere se valgano gli stessi prineipi ehe valgono per questo. Per
quel mondo non valgono le eategorie ehe valgono per questo, sep-
pure, a eausa della traseendenza del eoneetto di essere, non sia
appunto legittimo il passaggio : l'intelligenza, ehe e preeisamente
intelligenza dell'intelligibile, sapra tener conto dei limiti imposti
dal passaggio. Certo : travalieando questo mondo, eostituito da es-
seri flniti, dovremmo concepire come dev'essere in se un ente infl-
nito; ora, non riuseiamo a conoseere bene nemmeno gli esseri flniti,
nemmeno il nostro essere personale; eome potremmo avere eon-
SEMPLICITA E COMPLESSITA NELLA DIMOSTRAZ, DELL'ESIST. DI DIO 281

eetti ehe ei rappresentino ehe eos'e l'infinito? II eoneetto di in-


finito e quant'altro mai oseuro e eonfuso; e un. eoneetto nega-
tivo o un eoneetto positivo? V'e l'infinito quantitativo e quello qua-
litativo, l'infinito potenziale e quello attuale. E' molto diffleile per
noi eoneepire la totalita, p. es., dei pensieri d'un'anima immortale,
totalita ehe non ha l'ultimo pensiero. Sappiamo ehe eos'e, piu o
meno bene, un'intelligenza giudieativa e diseorsiva, ma non pos-
'siamo farei un'idea di un'intelligenza in tutto e per tutto intuitiva.
Sono imf>erfetti e inadeguati i nostri eoneetti riguardanti gli esseri
finiti, e non abbiamo a nostra disposizione ehe questi; quale eor-
rispondenza eon la realta potranno avere se vengono applieati al-
l'infinito? E' il problema dell'analogia, di ·quel proeesso eonoseitivo
ehe fa superare l'apparente assoluta ineomprensibilita dell'inflnito,
ed enuelea in dottrina seientifiea il eoneetto eomune di somiglianza,
tra eft'etto e eausa, tra parteeipato e partecipante. Ma anehe dell'a-
nalogia si dann.o varie forme, e quanta aeutezza e indispensabile
per seegliere quelle buone. Potra aecordarsi una eonoseenza del-
l'inflnito prevalentemente negativa, eon una conoscenza positiva,
vera sebbene imperfetta, molto piu imperfetta, sebbene pure vera,
della conoscenza ehe abbiamo delle nature flsiehe? Quali insonda-
bili misteri sono intravisti in questa nostra eonoseenza dell'in-
finito ! L'intelligenza assoluta eonosee se stessa e tutto l'altro da
se, ma tutto l'altro da se non e conosciuto in se stesso, bensi nella
stessa intelligenza assoluta. L'essere assolutamente assoluto e in-
sieme assolutamente necessario e neeessariamente libero; puo vo-
lere l'esistenza dell'altro da se, puo volerla eon un inizio o senza,
e sia ehe lo voglia piuttosto ehe non lo voglia, sia ehe lo voglia
eon un inizio o da sempre, nulla di piu e nulla di meno e in se
e per se, e rimane identico nella sua essenza, energia eapaee di
produrre esseri senza limitazione di perfezione e di numero. E
poi eompare sull'orizzonte il problema della eoneiliazione tra eau-
salita inereata e eausalita ereata, tra eausalita dell' « essere » e eau-
salita del « fleri », tra mozione divina e liberta umana, e prov-
videnza inflnitamente sapiente e buona e l'esistenza sehiaeeiante
e disperante del male .... Tutti questi problemi sono eontenuti uni-
eamente e semplieemente nel coneetto di eausa, perehe eausa si-
gnifiea indipendenza, assolutezza, infinitezza.
L'estrema semplieita dei eoneetti di essere ~ di eausa fa estre-
mamente faeile la dimostrazione dell'esistenza di Dio, ma d'altro
canto quei medesimi eoneetti raeehiudono una eomplessita ehe ren-
de molto eomplieata la dimostrazione stessa. Sebbene infatti sia
vero ehe molte diffleolta riguardano l'essenza e gli attributi di
, Dio, Ie stesse diffleolta si riversano anehe sulla sola esistenza di
282 CARLO GIACON S. I.

Dio, perche se non se ne chiarisce, almeno in qualche modo, l'es-


senza e gli attributi, puo dubitarsi se si sia raggiunto veramente
Dio: l'agnosticismo circa gli attributi intacca la stessa esistenza.
Nonostante la presa diretta sul reale e la chiarezza del concetto di
eausa, Dio, secondo la sola ragione, rimane concepito come un
essere lontano, astratto, quasi evanescente. Per l'intelligenza e que-
sto uno scandalo. Se una qualche spiegazione puo essere data ri-
correndo all'accennata complessita dei concetti e dei problemi, non
sembra trattarsi d'una spiegazione esauriente. Forse dipende da
un legame troppo forte e quasi da una subordinazione dell'intel-
ligenza ai sensi. Che il legame ci sia e ci debba essere, data la na-
tura dell'uomo eomposta di anima razionale e di eorpo, nessuna
maraviglia : e seeondo la natura, e non e necessario ricorrere, co-
me hanno fatto alcuni autori della patristica e della scolastica, a una
punizione divina: l'uomo, ribellatosi a Dio, e slato subordinato alla
materia. Non puo pero negarsi ehe il legame dell'intelligenza ai
sensi sia molto, troppo vivo, e a tutto danno dell'intelligenza. Se e
vivo troppo, e non si tratta di uno o pochi individui, bisognerebbe
conchiudere ehe non e secondo la natura stessa dell'uomo. Puo
pero concepirsi un « disordine > in una .« natura »? Un disordine
nella nostra stessa natura appare pure l'inclinazione piuttosto al
male ehe al bene dominante non in uno o in pochi individui.
Sollevano forse questi disordini il sospetto d'una ferita nella na-
tura? ... La ragione non riesce a dir piu nulla, e invoca una Iuce
dall'alto.
V

R. S. S. DoTT. BERNHARD WELTE


PROFESSORE NELL'UNIVERSITA DI FREIBURGI.-B. (GERMANIA)

DER PHILOSOPHISCHE GOTTESBEWEIS


UND DIE PHÄNOMENOLOGIE DER RELIGION

Edmund Busserl hat in seinen « Ideen zu einer reinen Phäno-


menologie > 1 auf eine bestimmte philosophische Klärungsbedürftig-
keit aller Wissenschaften hingewiesen. Er sah, dass sie sich alle
auf bestimmten Ideen und Grundbegriffen aufbauen, welche in-
nerhalb ihrer nicht mehr zum Thema werden können. Es bedarf
also der Klärung, was diese Grundbegriffe eigentlich bedeuten und
woraus diese Bedeutung anfänglich erw,ächst. In der Sprache Bus-
serls: Es muss der noematische Gehalt der Grundbegriffe erfasst
werden und zwar im Hinblick auf das darin zur Gegebenheit kom-
mende Wesen und im Hinblick auf ihren Ursprung. Das ursprüng-
lich Gemeinte muss deutlich gemacht werden, so, dass darin auch
deutlich wird, um wessentwillen es als das, was es ist, ursprüng-
lich gemeint ist. Zum Beispiel muss für die Naturwissenschaft oder
für die Historie in phänomenologischer Analyse zur Aussage ge-
bracht werden, was im Gang dieser Wissenschaften eigentlich mit
Naturseiendem oder 'Geschichtlichseiendem überhaupt anfänglich
und immer gemeint ist (das grundlegende Noema) und was dies
entscheidend zu dem in diesen Wissenschaften je und immer schon
Gemeinten macht (das phänomenologische Eidos oder Wesen).
Die geforderte Klärung des grundlegenden noematischen Ge-
haltes hat im Sinne der Anregung Busserls nicht so zu erfolgen,
dass irgendwelche Spekulationen über das Wesen z. B. von Na-
tur oder Geschichte von aussen beigebracht werden. Solche Spe-
kulationen können sowohl richtig als auch falsch sein. Aber auch
wo sie richtig sind, klären sie nicht ohne weiteres auf, woher das
ursprünglich gemeinte Noema komme, sie setzen dies vielmehr
immer schon voraus und sagen von aussen etwas Erklärendes hin-
zu. Daher kann die geforderte Klärung prinzipiell nur so geschehen,
dass die grundlegenden eidetischen Gehalte in ihrer Erstgegeben-

1 HAAG 1953, 3. BucH, Seite 94 ff.


2H BERNHARD WBLTB

heit selber aufgesucht und aus dieser einfach erhoben werden,


ohne dass zu diesem erstgegebenen Gehalt etwas hinzugefügt wür-
de. Wie· sehen die Wesen und Gang der Wissenschaften grundle-
gend bestimmenden Gehalte am Anfang, in ihrer Erstgegebenheit
und also in ihrem Ursprung aus? Wir müssen ja schon wissen,
was wir mit Natur oder Geschichte je und von Anfang gemeint
haben, ehe wir darüber zu weiteren Erklärungen fortgehen kön-
nen. Um diese Klärung des anfänglich Gemeinten aus ihm selbst
oder aus seiner Erstgegebenheit geht es. Sie bedeutet, wie man
sehen wird, zugleich einen Rückgang zu den Ursprüngen und
Gründen, aus denen die Grundbestimmungen der Wissenschaften
allererst erwachsen. Nur eine solche Klärung der noetischen An-
fänge und Gründe kann, wenn sie möglich sein sollte, die Wissen-
schaft auf einen geklärten· Boden stellen und auf einen wirkli-
chen Anfang hin durchsichtig machen, ohne eine solche Klärung
aber kann die Wissenschaft im Grunde nicht wissen, wovon sie
spricht und warum sie davon spricht. Der Wille zum Anfängli-
chen, zur philosophia prima, verstanden als phaenomenologia pri-
ma, ist für die Husserlsche Forderung entscheidend. Dieser Wille
liegt auch seinen berühmten methodischen Reduktionen zu Grunde.
Die methodische Forderung Husserls dürfte im Prinzip unan-
fechtbar sein, unabhängig von der Frage, ob er selbst ihr genügend
gerecht werden konnte, ob seine Ausklammerung der Existenzfrage
in jedem Sinne zu Recht besteht, und unabhängig überhaupt davon,
dass seither manches Modifizierende zu seinen Grundgedanken hin-
zugesagt werden musste· 2 •
Es muss aber nun gefragt werden, ob die Forderung nach
der Klärung -der noematischen, eidetischen Grundlagen und An-
fänge auch an die Wissenschaft von der Religion im allgemeinen
und besonders auch an die christliche Theologie gestellt werden
müsse. In der Tat ist est einleuchtend, daß auch in der Wissenschaft
von der Religion im allgemeinen und von der geoft'enbarten im
besonderen gefragt werden muß, woher die ursprünglich sie konsti-
tuierenden Sinngehalte stammen und welches die von den Ursprün-
gen der Sinµgehalte selbst mitgebrachte Bedeutung ist, wie sich
diese in den anfänglich gebenden Akten zeigt und welches diese
Akte sind. Es muss gefragt werden: 1. Was meinen wir eigentlich,
wenn wir c heilig >, wenn wir c Gott > oder wenn wir Ähnliches
sagen? Welches ist der anfängliche noematisch und eidetische Ge-
halt solcher Begriffe? An welchem Maße messen wir, wenn wir

2 Vgl. dazu neuerdings: Max Müller. Phänomenologie, Ontologie und Scho-


lastik. In: Tijdachrift voor Philosophie, 14. Jg. 1962, S. 63 tT.
DER PHILOSOPH, GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM, DER RELIGION 285"

wirkliche oder gedachte Gegenstände mit solchen Noemata mes-


sen? Warum nennen wir Gott 'Gott und das Heilige heilig? Und
2 : Lassen sich Erstbereiche, anfänglich gebende Horizonte für sol-
che Noemata ausmachen, und wo liegen diese? Diese Frage nach
dem Horizont der Gründe und Anfänge ist selbst wieder eine Dop-
pelfrage, sie fragt nach zwei Dingen in einem : nach den Weisen
des anfänglich sich Zeigenden als solchen, und nach den Weisen
des anfänglichen Vernehmens von _solchem sich Zeigendem. Dies
sind grundlegende Fragen für die Konstitution der Theologie als
Wissenschaft.
Aus solcher Anwendung des von Husserl her erfolgten me-
thodischen Anstosses auf den Bereich der Religion entstanden, frei-
lich unter teilweiser Verwandlung, die religions-phänomenologi-
schen Entwürfe und Gedanken von M:ax Seheier, von Rudolf Otto,
von van der Leeuw und anderen, und Heidegger hat noch in « Sein
und Zeit > 8 positiv auf diese für die Theologie fällige Aufgabe hin-
gewiesen, wobei er vor allem auf Ansätze in der protestantischen
Theologie hinblickte. In diesem Bereich sind, vor allem durch Sehe-
ier und Otto, Gedanken entwickelt worden, welche zur Klärung
der ursprünglichen phänomenalen Noemata und Eide der Religion
vorzustossen suchten, freilich unter teilweiser Heranziehung phi-
losophischer Schemata, die sich auf Dauer nicht als haltbar erwie-
sen und die besonders für die Theologie schwer oder garnicht an-
nehmbar sind. Aber jene Versuche haben gleichwohl sehr Bedeu-
. tendes ans Licht gebracht, und auf jeden Fall ist die geistige Fein-
fühligkeit für die Eigengestalt der religiösen Kategorien durch jene
Arbeiten im ganzen bedeutend gewachsen. Wenn die Versuche und
Gedanken dieser Art im katholisch-theologischen Raum bisher auch
verhältnismässig wenig Echo fanden, so ändert dies im Grunde
doch wohl nichts an ihrer prinzipiellen Bedeutung, welche beson-
ders im Lichte der von Busserl entwickelten wissenschaftstheore-
tischen Fragestellung nicht zu übersehen sein dürfte.

Die so herangewachsene Fragestellung bedarf nach vielen Sei-


ten der Entwicklung. Ein wichtiger und eigentümlicher Punkt in
ihrem Bereich, welchen wir hier herausgreifen, sind die Gottes-
beweise. In bezug auf sie soll die angedeutete Frage hier in eini-
gen Grundlinien behandelt werden.
In den Gottesbeweisen geschieht der theoretisch artikulierte,
philosophische Aufweis Gottes und damit der Grundlage des Be-

a Seite 9 10.
286 BERNHARD WELTE

reichs des Heiligen und der Religion überhaupt. Sie haben ihre für
die Theologie massgeblich gewordene Form durch Thomas von
Aquin erhalten.
Man wird nun gewiss nicht behaupten wollen, dass die Region
des Heiligen faktisch erst durch die Gottesbeweise in ihrer theore-
tisch artikulierten Gestalt zugänglich werde. Die Gottesbeweise in
dieser Gestalt setzen vielmehr die Religion und damit das Verstehen
der grundlegenden religiösen Bedeutungsgehalte faktisch immer
voraus. Man muss schon wissen, was man mit -Gott meint, um
nach ihm fragen zu können. Gleichwohl aber stellen diese Gedan-
kengänge doch die theoretische und prinzipielle Artikulation des
für Menschen gegebenen Erstzuganges der Region des Heiligen
ihrem Sinne nach dar. Sie suchen gemäss ihrem Anspruch die
heilige Wirklichkeit Gottes, welche die Region des Heiligen über-
haupt fundiert, grundsätzlich am geistigen Ort ihrer ersten An-
treffbarkeit für die menschliche Vernunft zugänglich zu machen,
wenn auch freilich mit Mitteln der Reflexion, welche im faktischen
Sinne niemals erste sind. So verstanden sind die Gottesbeweise also
zwar nicht der Anfang der Religion, aber es geschieht in ihnen
(oder soll in ihnen geschehen) das Denken diese Anfangs der Re-
ligion.
Sind die Gottesbeweise aber so richtig verstanden, sind sie
wirklich das Denken des Anfangs der Religion, der Erstgegebenheit
Gottes für die Vernunft, dann muss im Zuge der phänomenologi-
schen Fragestellung gefordert werden, dass im Gang ihres Aufwei-
ses auch des n.ou.menale Eidos des Gottes als Gottes, des Heiligen
als Heiligen sich entfalte, dass daraus das mit solchen Worten ur-
sprünglich Gemeinte und Umfasste selbst anfänglich hervortrete.
Und das heisst dann in eins und zugleich: dass das Denken im
Verlauf des Ganges dieser Beweise und durch diesen Gang in die
Grundgestalt geführt werde, die dem Denken des Heiligen als Hei-
ligen entspricht, dass es als selber religiös werde. Wenn der Be-
weis wirklich die Gotteswirklichkeit ·an dem ursprünglich für uns
gegebenen Orte ihre.r Zugänglichkeit aufzeigt, dann heisst dies
doch offenbar, dass in ihm auch die Klärung der Erstgestalt des
noumenalen Gehaltes der religiösen Grundbestimmung geschehen
muss, in eins mit dem Aufweis der Wirklichkeit dieses Gehaltes.
Denn woher sonst sollten diese grundlegenden Bedeutungen ihren
ersten Sinn erhalten oder überhaupt diese Sinngestalten sich für
UQS ausbilden, wenn nicht von dorther, wo deren Wirklichkeit al-
lererst für uns zugänglich wird und unser geistiges Bewusstsein also
von ihr erstbetroft'en sein muss? Die Gottesbeweise müssen - dies
wird hier zunächst nur als ein sich ergebendes Desiderat ausge-
DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 287

sprochen - nicht nur selbst im Phänomenbereich der Religion ste-


hen, sondern sogar die von Husserl geforderte phänomenologische
Klärung dieses Bereiches und seines Ursprunges mitleisten. Man
wird nun nicht sagen wollen, dass die Gottesbeweise des Hei-
ligen Thomas in der Gestalt, in der sie uns gewöhnlich bewusst
sind, den Anschein haben, dieser Forderung zu genügen. Im 'Ge-
genteil, es wird in ihnen, so, wie sie sich zunächst darbieten,
deutlich und sogar ausdrücklich, dass sie in einer Differenz stehen
zum Phänomenbereich des Heiligen und also diesen Bereich nicht
selbst mit sich bringen oder gar erschliessen. Die Beweise führen
- um in der Ordnung der quinque viae zu bleiben - zu einem
primum movens, quod in nullo movetur, zu einer causa efflciens
prima und einem per se necessarium, zu einer causa esse et bonita-
tis, zu einem aliquid intelligens, omnes res ordinans ad finem. Das
sind aber alles Bestimmungen, die in ihrer unmittelbaren Gestalt
gerade nicht in den Phänomenbereich der Religion fallen, noch
gar diesen erst erschliessen. Thomas macht zwar jeweils den Ober-
gang in den religiösen Bereich, indem er hinzufügt: ... et hoc om-
nes intelligent Deum, oder: ... quam omnes Deum nominant, oder
ähnlich. Aber indem er diese Bemerkungen hinzufügt, deutet er
an, dass der in ihnen geschehende Obergang zu dem noumenal-
religiösen Gehalt, zu Gott, gemeint und begriffen als· Gott, nicht
oder jedenfalls nicht allein aus der Kraft des Beweises in der vor-
liegenden 'Gestalt geschieht. Es geschieht, um zu Gott als Gott zu
kommen gerade eine Hinzu{ ügung zum Beweis. Thomas äussert
sich nicht näher darüber, warum «alle» diese Hinzufügung ma-
chen und das metaphysisch in den Beweisen Bestimm~ Gott nen-
nen, worin er also den wesentlichen Grund und das ausweisende
Recht dieser Benennung und dieses Oberganges sieht. Die Differenz
zwischen dem Beweis und der phänomenologischen Forderung
scheint offenbar und ausdrücklich.
Aber haben wir mit diesen Bemerkungen den Gedanken des
Heiligen Thomas wirklich schon tief und umfassend genug er-
fasst? Ich glaube, man kann zeigen, dass, wenn man den Gedanken,
den Thomas als Gottesbeweis formuliert, nicht nur in seiner äus-
seren und für die besonlderen Zwecke der Summa theologica her-
gerichteten Gestalt, sondern in seinem grundlegenden Sinn und
damit in seiner vollen Dimension zu erfassen sucht, dass dieser Ge-
danke dann in der Tat den religiösen Phänomenbereich als solchen
auf eigentümliche Weise aufschliesst und damit das innere, im Ge-
danken selbst liegende Recht jenes Oberganges zeigt, für den sich
Thomas in den quinque viae auf die « omnes » beruft. Dies möch-
ten wir im folgenden wenigstens in einem Grundriss zu zeigen ver-
288 BERNHARD WELTE

suchen. Es sollen die Gottesbeweise des hl. Thomas nach dem in


ihren verborgenen phänomenalen Moment befragt werden. Voll-
ständigkeit dürfen wir uns dabei freilich nicht anmaßen, sie wür-
de unsere Kräfte und unseren Raum überschreiten.

Die verschiedenen Formulierungen der 'Gottesbeweise des Hei-


ligen Thomas sind eigentlich nur Entfaltungen und Illustrierun-
gen eines einzigen Grundgedankens. Auf diesen müssen wir vor allem
achten, um in unserer Sache klarer sehen zu können.
Dieser Grundgedanke ist in c de ente et essentia > cp 5 knapp
und prägnant zusammengefasst: c oportet, quod sit aliqua res, quae
sit causa essendi omnibus reb~s eo, quod ipsa est esse tantum;
alias iretur in infinitum in causis, cum omnis res, quae non est
esse iantum, habet causam sui esse >.
In diesem kurzen Text ist sehr deutlich, dass die geistige Bewe-
gung des Gottesbeweises sich grundsätzlich - und also vor ihren
möglichen Artikulierungen im einzelnen - zwischen zwei bestimm-
ten begrifflichen Termini bewegt, welche schon formell betrachtet
im engsten Zusammenhang stehen und zugleich durch eine eigen-
tümliche Differenz voneinander geschieden sind. Der eine Terminus
ist c esse tantum >, der andere « res quae non ·est esse tantum ».
Diese beiden Termini bezeichnen dabei im Sinne des Heiligen Tho-
mas keineswegs bloß das E r g e b n·i s des Beweises, sie bezeich-
nen auch schon, freilich in anderer Weise, seinen bewegenden Aus-
gangspunkt, sein Prinzip. Darum kann mit dem begründenden cum-
Satz auf di~es Prinzip zurückgewiesen werden. Der Gedanke fängt
an mit der res quae non est esse tantum, d. h. mit dem Seienden
insofern es als solches durch seine Differenz zum c esse tantum >
und damit zugleich durch seinen Zusammenhang mit diesem bes-
timmt ist, und er bewegt sich in der Kraft dieser Differenz und
dieses Zusammenhanges. Das Verhältnis dieser beiden Grundbe-
stimmungen ist der Nerv aller Gottesbeweise. Suchen wir also ge-
nauer auf die ursprüngliche Gestalt und Gegeb~nheit dieser beiden
Bestimmungen und ihres Verhältnisses zu achten.
An unserer Stelle bestimmt Thomas die res, mit welcher nach
ihm der Aufweis Gottes einsetzen muss, durch ihre Differenz zu
dem was er esse tantum nennt. Diese Differenz lässt sich auch
positiv, als Zusammenhang aussprechen: Die res, die nicht das
esse tantum ist, ist zugleich die, der das esse zukommt, cui con-
venit esse " und beides ist der Sache nach dasselbe. Die res, der

• Vgl. S. Gent. I, 25, letzter Abschnitt.


DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 289

das Sein zukommt, ist um dieses Zukommens willen res und ens
und sie ist eben darum. auch nicht selbst das Sein und nicht nur
das Sein, sie ist vielmehr zusammengesetzt im metaphysischen
Sinne, das Sein kommt ihr ja zu.
Inwiefern ist hier die res als Ausgangspunkt des 'Gottesbewei-
ses ins Auge gefasst? Genau insofern, als sie ist. Denn das Wort
« ist > bedeutet nichts anderes als dieses : es kommt Sein zu. Das
« ist > bedeutet das Zukommen oder die Bezogenheit des Seins
auf dieses Seiende. Und in der Bezogenheit zugleich wieder die
Differenz. Etwas anderes ist diese res und etwas anderes der Um-
stand, dass ihr das Sein zukommt, dass sie ist. Sie bedarf des Zu-
kommens, ist also nicht selbst esse tantum. Dieses, dass das Seiende
ist, drückt dessen Differenz wie dessen Zusammenhang mit dem
Sein selber aus. Dies ist die Transzendenz des Seienden als sol-
chem. Wenn also in dieser Transzendenz der Gottesbeweis seinen
wesentlichen Ansatzpunkt hat, dann hat er ihn genau in dem :
dass Seiendes ist. Alle vereinzelnden Ausgangspunkte, wie ens mo-
bile, ens possibile usf. sind nur exemplifizierende Entfaltungen
dieser Grundbestimmung : dass Seiendes ist.
Hier gebietet uns nun der phänomenologische Gesichtspunkt
sogleich zu fragen : wie kommt dieses, dass Seiendes ist, als sol-
ches zum ursprünglichen sich Zeigen seiner selbst, zur phänome-
nalen Entfaltung seines ihm eigenen Noema? Und dementsprechend:
wie ist der geistige Akt, die Noese, beschaffen, in der solches ur-
sprüngliches Sich Zeigen geschieht?
Diese Frage ist nicht damit schon erledigt, dass darauf hin-
gewiesen wird, wir wüssten ja doch alle schon, was dies bedeute,
dass Seiendes ist. Dies ist zwar nicht zu bestreiten, aber für ge-
wöhnlich bewegen wir uns dabei doch in begrifflichen und sprach-
lichen Abbreviaturen der ursprünglichen Bedeutung, deren Gene-
sis zumeist sehr undurchleuchtet ist und damit auch . deren Be-
ziehungen zu den Ursprüngen. Und so muss gleichwohl und mit
Sorgfalt gefragt werden : als was und wie wird dieses, dass etwas
ist, ursprünglich zum Phänomen?
Zumeist und der natürlichen conversio intellectus ad phan-
tasma folgend, sind wir mit bestimmten und begrenzten quiddi-
tates des Seienden befasst, und es kommt darin nur n.ebenher und
in confuso zu·r Gegebenheit, dass solches ist. Wir denken an Men-
schen, Häuser, Bücher, und zwar an solche bestimmten Seienden,
welche in solchen bestimmten Zusammenhängen und Zwecken ste-
hen. Und darin schwebt, immer mitverstanden aber zunächst im-
mer im Unausdrücklichen und Undeutlichen bleibend, das « ist >

19 - Studi filoaofici
290 BERNHARD WELTE

nur mit. Es bleibt in .,verdeckter Phänomenalität und öffnet sich


nicht leicht in seine eigenen Dimensionen. Dass die eigene Phäno-
menalität des c ist » hervortrete und dieses sich in seiner vol-
len Gestalt und seinem eigenen Maß (nicht in einem ihm von
uns willkürlich zugemessenen) zeige, dazu ist also zunächst ein
negatives Verfahren, ein Lassen, eine Reduktion notwendig, wel-
che mit der von Busserl vorgeschlagenen verglichen werden
darf 6 • Das Denken muss seine Verhaftung in der quidditativen
Bestimmtheit ( dieser Mensch, dieses Haus, dieses Buch) verlas-•
sen und damit zugleich auch seine Begrenztheit in die Grenze
und unter die Bedingungen bestimmter Gesichtspunkte. Denn
dieses, dass Seiendes ist, ist selbst keine quidditative Bestimmt-
heit, kein Genus, wie Thomas immer wiederholt, und es hat
als echtes Transzendens immer schon jede 'Grenze und damit
jede Bedingung überschritten. Das Denken muss also, um wirklich
bei dem zu weilen, was es hier zu denken gibt, aus jeder, auch der
letzten Begrenzung (nur dies, nur hier usw.) und aus jeder subjek-
tiven Willkürlichkeit (ich will nur dies, nur jenes) in die' unbe-
dingte und unbegrenzte Gelassenheit kommen, kraft derer es
schlechthin sein lässt, was ist, und sich selbst dem reinen Anspruch
dessen überlä8'8t: dass überhaupt ist, was ist. In solchem ursprün-
glich betreffenden Anspruch beginnt das Seiende erst als Sei-
endes ganz und unbedingt in seiner transzendentalen Totalität her-
vorzutreten, während alle generischen, partikularen und bedin-
genden Gesichtspunkte aus der Ganzheit des Seins ausfallen und
so an diesem vorbeisehen müssen. Der Anspruch, der den Gelas-
senen anspricht, sagt diesem das einfache: es ist wahrhaftig, was
ist, und dies sagt alles und das Ganze. In diesem Anspruch, in wel-
chem das Seiende als Seiendes zu sprechen beginnt für das ganz
gelassene Denken, ist somit auch alles Seiende schlechthin in sei-
ner transzendentalen Allheit umfagen.
Indem das Denken dessen, dass Seiendes ist, so alles denkt
und von allem in Anspruch genommen ist, ist es notwendig auch
vom Sein des Denkers selbst, der solches denkt, und von der eigenen
Seinsaktualität seines Denkens betroffen. Alles, was ich selbst bin
und vollziehe, und alles, um was es mir selbst darin geht, es ist ja
mitumfangen im wirklichem Denken dessen, dass ist, was ist. Denn
auch ich selbst, der ich solches denke, und alles an mir, es ist.
Der Denker und sein Denken sind ganz und gar einbezogen in
5 Dabei muss freilich beachtet werden, dass die Eigentümlichkeit der
Husserl' sehen Reduktionen historisch bestimmt ist: sie setzt die kritische
Philosophie vor Husserl voraus und hat zunächst den Sinn, aus deren Dilemma
herauszuführen.
DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 291

dieses Gedachte. Dieses, dass ist, was ist, kann also nicht in dem
Sinne objektiver Gegenstand sein, als es mir, dem Denkenden, nur
gegenüberstände und ich also ausserhalb seiner w.äre und im Den-
ken von mir selbst abstrahieren dürfte. Eine solche Abstraktion
bedeutete eine willkürliche Begrenzung der Gesichtspunkte, welche
nicht mehr einfach und unbedingt das hier zu Denkende und seine
allumfassende Gewalt sich entfalten liesse. Wo das gelassene und
oft'ene Denken von diesem wirklich angesprochen ist, dass ist, was
ist, da findet es sich auch von sich selbst im ganzen angesprochen.
Es ist dann im Grunde nicht so, dass das Denken dessen, dass Seien-
des ist, dies sein Gedachtes umfängt und begreift, vielmehr findet
es sich selbst gänzlich umfasst und umgriffen von ihm. Damit aber
muss solches Denken, seiner Sache folgend, notwendig selbstbetro-f-
f enes Denken sein. Dies aber ist eine eigene Gestalt des Denkens,
welche von anderen, vor allem von abstrahierenden und objektivie-
renden Formen des Denkens spezifisch unterschieden ist.
Versuchen wir so, einige der grundlegenden Bestimmungen des-
sen, dass Seiendes ist, zusammen mit den ihnen entsprechenden
Weisen des Denkens ins Auge zu fassen, so dürfen wir über dieser
Auseinanderlegung doch nicht vergessen, dass dieses, dass ist, was
ist, und damit auch dessen gemässes Denken ein durchaus Einfa-
ches ist. Es wird in diesen Gedanken zwar alles und das Ganze
gedacht, aber nicht als ein Vieles, sondern als dieses durchaus Eine :
dass ist, was ist. In der Einheit dieser Bestimmung, die zwar wohl
eine metaphysische Spannung enthält, aber durchaus keine eigent-
lichen Teile, in dieser Einheit ist alles umfasst und enthalten so,
dass darin alles eins ist. Es ist das Einfache schlechthin, in dem
alles in die Einheit gesammelt ist : denn alles ist. Dementsprechend
aber wird das Denken dieses schlechthin Einfachen und schlecht-
hin Sammelnden selbst die Gestalt der Ein{achheit und der Samm-
lung haben müssen, der einfachen öffnung, die in dieser Einfach-
heit gerade allem Raum gibt und alles sein Sein aussprechen lässt,
ohne Einzelnem oder Vielem nachzurennen. Hier darf kein Hin
und Her und kein Vielerlei eine Stätte haben. Das gesammelte und
sammelnde Denken, das wir hier im Auge haben müssen, wird ge-
rade nicht an Diesem oder Jenem hängen, noch solches geschäftig
zusammentragen, es wird in der Ruhe und Stille der reinen Öff-
nung in der Gegenwart dessen verweilen, was selbst ruhig und
still, weil einfach, alles umfängt: siehe, es ist, was ist. Dies ist
alles.
Je mehr das Denken diese ausgezeichnete Gestalt gewinnt, der
Gelassenheit und Unbedingtheit, der Selbstbetroffenheit, der Einfalt
und Sammlung, umso mehr wird dieses einfache Geheimnis rein
292 BERNHARD WELTE

und als es selbst hervortreten, uns umfangend und umgreifend


und von uns nie begriffen, umso mehr wird es in seiner abgründi-
gen Grösse uns ansprechen und vielleicht erschüttern (denn die
Ruhe und Sammlung kann. sehr wohl erfüllt sein von Erschütte-
rung), dieses einfache: dass Seiendes ist. Dies aber ist, wie Thomas
deutlich sieht, der Anfang des Heilwerdens Gottes im Denken. Folgt
man den eigenen Dimensionen dessen, was « ist > bedeutet, lässt
man sich diese voll und ungemindert entfalten, - und darauf kam
es uns in dieser kurzen Oberlegung gerade an - dann kommt m.an
auf eine durchaus ausgezeichnete 'Gestalt der geistigen Noese, des
Denkens, innerhalb derer das Noema des «ist» in seiner Eigen-
gestalt, und nicht mehr bloss in formalisierenden Abbreviaturen
sich zu entfalten beginnt. Und wir können in dieser anfänglichen
Phase der Erwägung schon erkennen, dass wir dem spezifischen
Phänomenbereich des Religiösen uns nähern in einer sehr charak-
teristischen Approximation, und zwar allein dadurch, dass wir die
Sache selbst, um die es hier geht und von der Thomas spricht, sich
ihrem eigenen Wesen gemäß entfalten lassen im Denken, und die-
ser Entfaltung zu folgen versuchen, nicht also durch äusserliche
oder gar subjektive Hinzufügungen.

Von diesem Punkte aus nun kommt die Transzendenz des Sei-
enden, auf die Thomas hinweist, in einer transzendierenden Be-
wegung des Denkens in Gang dem entgegen, was Thomas das ipsum
esse nennt. Wir suchen diese Bewegung zu verfolgen, indem wir
wiederum auf die ursprünglichen phänomenalen Momente sowohl
der Bewegung, wie auch des in ihr zur Erscheinung Kommenden
so genau wie möglich achten. Diese transzendierende Bewegung,
welche sich an dem, dass ist, was ist, entzündet, hat verschiedene
ursprüngliche Gestalten, unter denen die Verwunderung und die
Frage hervorragen.
Das gesammelte Denken, dem Zuge des von ihm Gedachten
folgend und damit seinem einigen Zuge, es bleibt nicht einfach bei
diesem « es ist, was ist » stehen. Es wird vielmehr vön diesem
selbst, also nicht erst durch eigene und willkürliche Zutat, in Ver-
wunderung und Frage geführt. Und so verwundert sich denn das
Denken von selbst darüber, dass Seiendes ist, und es erhebt sich
in ihm die Frage: was ist nur dies, dass überhaupt etwas ist?
In solchen Bewegungen wird da~ « ist » transzendiert, aber
nicht so, dass es verlassen würde. Im Gegenteil: je tiefer das selbst-
betroffene und gesammelte Denken dessen, dass ist, was ist, sich in
Verwunderung und Frage darüber erhebt, desto entschiedener
l)ER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 293

kommt gerade dieses selbst heraus, dass überhaupt etwas ist, es


entfaltet seine eigene Phänomenalität in der transzendierenden Be-
wegung erst voll und zeigt darin, dass eben dieses selbst, dass ist,
was ist, als solches das Wunderbare und das Fragwürdige ist. Die
Transzendenz liegt nicht neben ihm, sondern bildet dessen eigene
Tiefe.
In Verwunderung und Frage über das Sein des Seienden wird
darum ursprünglich auch jene ausgezeichnete Gestalt des Den-
kens, die wir als Gelassenheit, Selbstbetroffenheit, Einfalt und
Sammlung zu beschreiben versuchten, nicht verlassen. Auch
diese noetische Gestalt wird in Verwunderung und Frage erst
recht, was sie selber ist und gewinnt darin ihre eigene, ihr zugehö-
rige Tiefe. In der Tiefe von Verwunderung und ursprü,nglicher Be-
rührtheit durch die Frage ist das Denken erst recht sich überlas-
send und zugleich an sich selbst betroffen, erst recht einfach und
zugleich gesammelt, aber nun so, dass alles dies als Bewegung wal-
tet. Das gesammelte, selbstbetroffene Denken ist nun in Verwun-
derung und Frage bewegt.
Was geschieht in solcher Bewegung in Verwunderung und Fra-
ge, in solchem anfänglichen Hervortreten des Wunders und der
Fragwürdigkeit dessen, dass überhaupt etwas ist?, Es entfaltet sich
im «ist» eine Differenz. Das Wunderbare und Fragwürdige ist das
Nicht-Selbstverständliche, es ist als solches das, was sich als ab-
ständig oder differierend zeigt gegen die Norm und den Boden der
Selbstverständlichkeit, abständig also von dem im geheimen schon
angesetzten Null- und Normpunkt des Seins. Es braucht nicht zu
sein, es ist unbegreiflich, dass ist, was ist, und doch, o Wunder: es
ist! Das sich verwundernde Denken blickt durch die scheinbare
oberflächliche Geschlossenheit des « ist » hindurch, in dessen ihm
innerlich zugehörendes Anderes (Differierendes) wie in ein unend-
liches Geheimnis. In Hervortreten dieser wunderbaren Differenz
tritt das Seiende erst als solches wahrhaft und anfänglich, gleichsam
wie am ersten Tage hervor. Es ist als Solches in der Differenz ste-
hend und als Solches wunderbar 6 • •

Differenz des Seienden von was? Offenbar von so etwas wie


dem Maß, der Norm, dem Boden des Seins und damit des Verste-
hens, von so etwas also, was selbst das Sein ist, ahne Differenz,
und damit schlechthin, von. etwas, was man in diesem Sinne ab-
solut nennen muss. Das Seiende als solches versteht sich nicht selbst

6 Von hier aus ist leicht die Linie zu ziehen zu dem so oft wiederholten
Gedanken des Heiligen Thomas von der « Zusammengesetztheit » alles abkünf-
tigen Seienden: non est suum esse, es ist in der Differenz.
294 BERNHARD WELTE

und es wird sichtbar als nicht in und aus sich selbst seiend, viel-
mehr schwebend über dem Abgrund des Nicht-Sein-Müssens. In
Frage und Verwunderung bricht eben dies auf, dass das Seiende
nur ist vom Absoluten des Seins selbst her.
Als wie gross und welchen Wesens meldet sich in der Seins-
verwunderung und Seinsfrage dieses Andere, diese Transzendenz,
dieses Maß und dieser Boden schlechthin des Seins und Verste-
hens? Als alles, um(aasend, was ist, und als über alles grenzenlos
hinausgehend, was ist. Was immer ist, ist eben insofern es ist
verwunderlich und fraglich und das Verwundern und Fragen, folgt
es nur seinem eigenen Gesetz und damit dem, von dem es im
Seienden als solchen in Anspruch genommen ist, und wird es also
nicht künstlich abgelenkt oder aufgehalten: es muss sich an jedem
etwa als Seiend Gedachten und ·a:1s Erklärung der Frage Herbeige-
zogenem von neuem entzünden, es muss alle Möglichkeiten des
Seienden ins durchaus Unabsehbare überschreiten und kann bei
keinem Nur-Sei.enden Erklärung finden, bei keinem Nur-Seienden
stehen bleiben, denn ~lies dies bricht als Seiendes immer wieder
neu auf in die Tiefe seines Wunders und seiner Fragwürdigkeit.
Die Verwunderung über dieses, dass Seiendes ist, ist in ihrer rei-
nen, eigenen Dimension unendliche Verwunderung Ünd die Frage
darüber ist' .unendliche Frage. Darin aber wird deutlich, dass Maß
und Boden des Seins und Verstehens des Seienden als Seienden
dieses Seiende selbst unendlich übersteigt. Und doch, o Wunder:
es ist! Die Verwunderung und Frage sinkt transzendierend in den
Abgrund der schlechthinnigen Unendlichkeit, weil ihr das Seiende
als solches ( und also alles Seiende und es selbst mit) im Abgrund
der Unendlichkeit aufgeht.
Wo ist in solchem Denken, Fragen und Sich Wundern der
Ort dieser erscheinenden, absoluten Unendlichkeit? Als wo wei-
lend geht sie in den anfänglichen Bewegungen des Geistes auf?
Der Ort des Aufgehens der Unendlichkeit ist phänomenal zuerst
im Seienden als solchem. Denn dieses selbst wird ja Phänomen als
unendlich wunderbar. Seine Differenz, die in der Verwunderung
phänomenal hervortritt, zum transzendierenden Boden und Grund
des Seins· und Verstehens, s~heidet das Seiende nicht einfach von
dieser Transzendenz. Es ist in seinem Sein selber vielmehr von
deren Geheimnis erfüllt. und durchdrungen und dies wird als das
Innerste und das Sein eigentlich Entscheidende des Seienden als
Seienden sichtbar und tritt in die Phänomenalität. Dieses, dass ist,
was ist, ist selbst und qua tale unendlich wunderbar, erfüllt also
vom unendlichen Geheimnis und weit entfernt davon, in flacher
Äusserlichkeit bloß daneben zu liegen.
DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 295

Der phänomenale Ort des Hervorgehens dieser wunderbaren


Unendlichkeit ist damit ebenso auch die Innerlichkeit des sich
über das Sein verwundernden Denkers und seines Denkens selbst.
Er ist ja, wie wir sahen, selbst betroffen und einbezogen in seinen
Gedanken. In eins niit dem Sein des Seienden der Welt ist sein
eigenes Sein ihm das unendlich Wunderbare. Und so ist um was
es hier geht, im strengen Sinne seine eigenste Sache, eben weil es
die Sache des Seins schlechthin ist.
Aber darüber hinaus wird sichtbar, dass das Geheimnis der
Unendlichkeit, das uns in solcher Bewegung betrifft, auch noch auf
eine innerlichere Weise unser eigenes Leben bestimmt: Es ist in
uns vor unseren ausgebildeten Gedanken und Fragen als diese
ermöglichend. Die Gedanken, die Fragen und die Verwunderung,
also das ursprüngliche Leben unseres Geistes, es entsteht von selbst,
d. h. aus erstem Anfang. Aber die Analyse zeigt, dass gerade dies
lebendige Leben des Geistes erregt und ermöglicht ist von dem
im verborgen anwohnenden unendlichen Maß des Seins, an dem
wir immer schon das Seiende messen in einer Messung, welche
auch die ersten Regungen des Lebens des Geistes schon bestimmt.
Verwun:derung und Frage sind ursprünglicher und natürlicher als
alle sekundären Weisen des Denkens und geistigen Verhaltens, der
geheimnisvolle Maßstab des Seins selber aber ist noch einmal um
eine ganze Stufe ursprünglicher und innerlicher in uns, früher
und innerlicher als selbst die Seinsverwunderung, denn er ermög-
licht diese ja. Das unendliche Geheimnis ist schon in uns, freilich
nicht als ein 'Gedachtes, nicht als eine fertige « angeborene Idee >,
sondern als die stille Vora.U$setzung für alles entscheidende und
anfängliche Fragen und Sich Wundern und damit für das Leben
des Geistes und des Denkens überhaupt. Es lebt, bevor wir selbst
leben, das unendliche Geheimnis des Seins in der Intimität des
Lebens des Geistes als das verborgen Belebende dieses Lebens.
Und dies ist noch einmal ein Grund dafür, dass sich beim ursprüng-
lichen Bedenken des Wunders des Seins zeigt: da geht es im höch-
sten Sinne um mich selbst und um das Innerste meines Lebens.
Da ist die Vita, vitae, meae, um die berühmte Formel Augustins
zu gebrauchen. Solches Denken muss a:lso, seinem eigenen Wesens-
gesetze folgend, im entscheidenden Sinne selbstbezogenes Denken
sein, denn sonst hat es im Grunde vergessen, an was es denkt.
Die in der ursprünglichen Seinsverwunderung und Seinsfrage
sich meldende Transzendenz hat aber noch einen weiteren entschei-
denen phänomenalen Ort. Sie zeigt sich als über alles dmussen
liegend, was nur ist, und eben darum über alles draussen, was
ich in meinem Denken begreifen und in der Sprache zur Aussage
296 BERNHARD WELTB

bringen kann. Eben das, was ist, und also alles, was ist ( schliess-
lich meiner selbst, meines Denkens und meiner Sprache) weist
in der Verwunderung und Frage über sich hinaus. Wird das Ver-
wunderliche und Fragliche in Gedanken wieder auf ein Seiendes,
das ist, zurückgeführt, so muss angesichts dessen die transzen-
dierende Bewegung als Verwunderung und Frage von neuem auf-
brechen, und es ist kein Ende, kein Halt und kein Boden. Indem
das Seiende als solches in seiner Transzendenz für den Geist sicht-
bar wird, steht es vor einer Tiefe, die über alles blosse « ist >
schlechthin draussen liegt, interior intimo meo, superior summo
meo, um wiederum die Worte Augustins zu gebrauchen. Darin eben
liegt ja die höchste Gewalt der Unen-dlichkeit, die in der ursprüng-
lichen Seinsverwunderung und Seinsfrage aufbricht.
Damit ist aber zugleich gesagt, dass vor dieser unendlichen
Transzendenz das Denken in seiner begreifenden und aussagenden
Form am Ende ist. Die Grundform des Begreifens und Aussagens
ist ja eben das «ist>, und es kann keinen Begriff und keine Aussa-
ge geben, in welcher nicht das « ist > gedacht und gesagt würde.
Aber eben dieses «ist> wird ja in der transzendierenden Seinsver-
wunderung und Seinsfrage überschritten. In solchem Oberschritt
wird also das Unausdenkliche, Unbegreifliche, Unaussprechliche ge-
dacht. Man wird sehen, dass dies eine völlig einzigartige Form
der geistigen Noese bedingt, und zwar aus dem Wesen dessen he-
raus, was sich hier dem Denken als zu denken auferlegt. l).as Den-
ken, diesem Wesen folgend und in Sammlung des Seins gewahr,
muss vollends ins Schweigen treten angesichts des in genauem
Sinne Unaussprechlichen, aber das Denken selbst umfangenden und
betreffenden Geheimnisses, das sich ihm da kündet. Denn was
könnte in tieferem und radikalerem Sinne Schweigen genannt wer-
den als das Schwinden und Hinfälligwerden des lst-Sagens vor der
Grösse dessen, was alles. dies ganz überschreitet? Solches gesam-
meltes Schweigen wil"d, immer dem Wesen des Sich Zeigenden fol-
gend, nichts weniger als leer sein, nichts weniger als eine bloße
Negativität, ein bloßes Nicht-Denken und Nicht-Sagen, es wird im
Gegenteil erfüllt sein vom Höchsten, von dem unaussagbaren Ge-
heimnis, das sich im Grunde dessen, dass Seiendes ·ist, auftut und
es wird gerade in seinem Schweigen bei diesem Höchsten weilen.
Thomas hat diese Seite der Transzendenz des ipsum esse mit
seinem oft wiederholten und sehr genauen Gedanken zum Aus-
druck gebracht, das esse selber und damit Gott falle nicht unter
die Ordnung der Kategorien: non est in aliquo genere. Die Kate-
gorien sind die Grundweisen des Seins des Seienden, die Grund-
weisen des «ist> und eben damit auch die Grundweisen des Ur-
teilens und Aussagens. Was nicht in aliquo genere ist.
DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM, DER RELIGION 297

Damit hört aber das Denken dieses höchsten Geheimnisses auf,


im alltäglichen Sinne objektivierbar und formalisierbar zu sein,
Zwar können und müssen wir auch darüber spriechen, dass das
Geheimnis ist, die Unendlichkeit, der Grund, das Sein selbst, am
.Ende Gott.
Die Fülle des im ursprünglichen Schweigen Begegnenden
drängt selbst dazu ebenso wie die Bedingtheiten unseres irdischen
Denkens und Daseins, innerhalb derer gerade das Höchste nicht
unausgesprochen und unentfaltet bleiben darf. Es darf und muss
auch eine positive theologia naturalis entwickelt werden. Allein
sie wird ein einzigartiges Verhältnis zum Worte haben müssen,
da es ja gerade ihre Aufgabe ist, das Unaussprechliche zur Spra-
che zu bringen. In solcher Sprache kann das « ist », das eigentlich
artikulierende Element der Sprache, nicht mehr in seinem un-
mittelbaren u~d direkten Sinne festgehalten werden; denn dadurch
würde das Ausgesprochene ja wiederum in die Region der supre-
ma genera herabgedrückt. So muss also das in der Sprache für
uns unvermeidliche « ist » hier in einem indirekten und über sich
weisenden Sinne gebraucht und damit die Sprache überhaupt ver-
wandelt werden: wo sie nicht vergisst, wovon sie eigentlich spre-
chen will, wird sie, aus dem Schweigen geboren, ein Zeugnis des
Schweigens sein und als Hinweis wiederum über sich selbst hin-
aus in das Schweigen führen, in dem allein das Unaussprechliche
gewürdigt werden kann. Sie wird sprechend des Schweigens voll
sein und von dieser Fülle des Schweigens ihren eigenen Rang, ihre
eigene Sparsamkeit und Grösse haben.
Suchen wir den phänomenologischen Ertrag dieser Überlegung
auszusprechen: wie darf und muss die Noese genannt werden, wel-
che sich uns hier ergibt? Muss man das gesammelte und betroffene,
schweigende und erfüllte Denken an das Unausdenkliche und
Unaussagbare nicht Andacht nennen im ursprünglichen Sinne?
Wie aber muss das einzigartige Noema genannt werden in der
Weise, wie -es hier hervortritt und auftaucht? \Vie müssen wir
nennen, was sich im ursprünglichen Denken so zeigt, dass es da-
rin seine Unaussprechlichkeit und Unausdenkbarkeit zeigt, seine
Unberührbarkeit und Enthobenheit gegenüber menschlichen Ver-
fügen und Bestimmen? Entzogen ins Unberührbare nicht nur
durch eine zufällige Schwäche des menschlichen Denkvermögens,
sondern auch durch die einzigartige Höhe des hier zu Denkenden,
durch seinen alles, weil das Sein des Seienden bestimmenden und
entscheidenden Rang, durch seine schlechthinige ontologische
Reinheit, die es nicht in die Differenz und Zusammensetzung des
298 BERNHARD WELTE

«ist> herabziehen lässt? Das durch ;1bsolute Höhe, absoluten Rang


und absolute Reinheit schlechthin entzogene und doch und zu-
gleich uns selbst und das Ganze des Seins im Innersten Umfan-
gende und uns in Schweigen und Andacht Angehende müssen wir
das Heilige nennen. Das phänomenale Weseri des Heiligen als sol-
chen liegt in den entscheidenden Grundzügen gerade in der Einheit
der angedeuteten Charaktere. Und wir müssen dies Geheimnis,
Mysterium nennen. DeQ.n auch damit meinen wir ursprünglich ein
uns und alles Umfangendes und Angehendes, das uns in diesem
Umfangen un·d Angehen zugleich entzogen ist'·
Das Denken, das sich vom Seienden als solchen zu dessen
transzendierenden Grunde erhebt, kommt, wenn es die ursprüng-
lichen phänomenalen Charaktere dieses Ganges des Denkens genau
beachtet, in den Bereich des Heiligen als Heiligem so, dass diese
Bestimmung nicht bloß von aussen hinzugefügt ist, sondern im
Inneren des Ganges dieses Denkens und aus dessen in der Sache
selber liegender Konsequenz heraus und also wirklich anfängli°ch
hervortritt. Dem entspricht die Gestalt des Denkens selber, wel-
che aus derselben Konsequenz und Achtsamkeit und also wiederum
nicht aus äusserer Hinzufügung die Form der Sammlung, des
Schweigens und der vollzogenen Andacht gewinnt. Der Grundge-
danke des Gottesbeweises, wie ihn Thomas entwirft, führt so sel-
ber in die phänomenalen Anfänge der Religion und denkt diesen
Anfang.

Wir haben von hier aus noch einen Blick darauf zu werfen,
inwiefern sich in der angedeuteten geistigen Bewegung die Wirk-
lichkeit des in ihr hervortretenden unendlichen und heiligen Ge-
heimnisses erweist, worin also das eigentlich beweisende Moment
in der demonstratio Deum esse liegt. Denn bis jetzt wurde nur
die geistige Bewegung in ihrem Ansatz und Grundriss nach ihren
phänomenalen Charakteren untersucht, noch nicht aber deren er-
weisendes Moment.

7 Es mag nicht unniltz sein, zu bemerken, dass es sich bei dieser Ueber-
legung - wie auch im folgenden - nicht um eine Beschreibung Gottes c an
sich > handeln kann, •welche eine unmittelbare Gottesschau voraussetzte, die
nicht des irdischen Menschen Sache ist. Was wir hier versuchen, ist, die Weise
so ursprünglich wie möglich zu erfassen, in der uns das Geheimnis Gottes
in unserem Denken und im Aufschwung unseres lebendigen Geistes zur Gegegen-
heit kommt. Dazu gehört keine ontische Unmittelbarkeit, wohl aber eine spe-
zifische geistige Gegebenheit, welche ihre eigene Phänomenalitit hat.
DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 299

Auch hier kann es uns nicht um eine vollständig entfaltete


Theorie des Gottesbeweises gehen. Wir beschränken uns wiede-
rum darauf, den eigentlich entscheidenden Punkt ins Auge zu fas-
sen und nach seiner phänomenalen Seite hin zu untersuchen.
Wo die Aufmerksamkeit des ·Geistes für das Sein dessen, was
ist, erwacht, wo die Bewegung des Geistes in Gang kommt, weiche
das unendlich Wunderbare und das unendlich Fragwürdige dessel-
ben wahrnimmt und damit der transzendierenden Spannung des
Seins alles Seienden selber folgt, da wird für den Geist sichtbar,
dass das Sein dessen, was ist, in sich selbst betrachtet, ( und also
unter Absehung von dem aliud seiner Transzendenz) kein entschie-
denes Sein und insofern nichtig ist. Dies wird besonders deutlich
dort, wo die transzendierende Bewegung die Gestalt der Frage hat,
und das Sein des Seienden also in seiner transzendierenden Span-
nung den Charakter des Fragwürdigen gewann 8 • Wo wir fragen,
da wissen wir nicht, da sind wir des eigentlichen Seins nicht inne,
und das Fragwürdige ist also als solches für die Perspektive un-
serer Frage nicht entschieden in seinem Sein. Es ist gerade offen
und unentschieden: was es ist, warum es es ist, ja, ob es ist. Und
wenn gerade das Sein dessen, was ist, das Fragliche und Fragwür-
dige und Fragebedürftige wurde, dann hat, wie wir sahen, die Fra-
ge eine schlechthin entscheidende und unendliche Tiefe. Das Seien-
de wird, so betrachtet, endlos fraglich. Der Geist kommt an kein
Ende mit den Fragen : was ist dies, dass ist, was ist, warum ist
dies, ist dies überhaupt? Das Seiende gibt so in sich selber der
wahrhaft endlosen Frage Raum und erweist sich darin als in sich
selber endlos offen, unentschieden im Sein und in diesem Sinne
nichtig. Es bietet in sich selbst keinen entscheidenden Widerstand,
es endlos in Frage zu stellen, und so ist es in sich selber überhaupt
nicht im eigentlich entschiedenem Sinne. Und vergessen wir da-
bei nicht, dass die hier hervortretende unentschiedene Nichtigkeit
mich selbst, der ich dies zu denken versuche, und mit mir das
Ganze dessen, was ist, umfasst und verschlingt.
Gegen solche unentschiedene Nichtigkeit aber erhebt nun gleich-
wohl' das Sein des Seienden selbst im Lichte des die entscheiden-
de Frage fragenden Geistes Widerspruch: es ist doch, was ist, es
ist ,entschieden, was ist, es ist, was ist. Ja, im Lichte der unendli-
chen Frage erhält dieser Widerspruch des Seins des Seienden, wo-
durch es selbst sich in der unendlichen Fraglichkeit und aus ihr
s Die Frage selbst lässt sich durch verschiedene Möglichkeiten hindurch
artikulieren wie Thomas dies richtig in den quinque viae tut. Aber das sind
alles nur Illustrierungen der im Grunde durchaus einfachen Frage nach dem
Sein selbst.
300 BERNHARD WELTE

wiederherstellt, eine unendliche und durchaus entscheidende Ge-


walt. Es ist entschieden und schlechthin entschieden. Es ist,
was ist.
In diesem Widerspruch und dieser Wiederherstellung liegt das
ergo des Beweises. Ist das Sein des Seienden in sich selbst in einer
unendlich unentschiedenen Nichtigkeit, und ist es gleichwohl unend-
lich und schlechthin entschieden, dann ist damit deutlich, dass
die Entschiedenheit seines Seins nicht im Seienden überhaupt liegt
und ihm gleichwohl zukommt, dass sie ihm also ab alio zukommt,
nämlich vom Anderen des Seienden als solchen: omnis res, cuius
esse est aliud quam sua natura (das also kraft seiner Natur nicht
selbstverständlich sondern fraglich ist) habet esse ab alio. Und
es ist damit zugleich klar, dass dieses das Sein des Seienden in
seine Entschiedenheit stellende aliud nicht irgendeins, nämlich nicht
irgendein Seiendes ist. Denn dessen Natur als Seiendes verwies
ja für die Entschiedenheit seines Seins in das aliud, welches dem-
nach gerade das alhid des Seienden als solchem ist: das absolute,
unendliche und unbegreifliche Mysterium, dessen Dimensionen in
der Seinsfrage aufbrachen. Das aber heisst: In der Entschiedenheit
des Seins dessen, was ist, in seiner Wirklichkeit also, ist die Wirk-
lichkeit des unendlichen und heiligen Mysteriums mitgegeben und
im Denken init offenbar als die allein das Sein (und damit alles
Sein) in seinem Sein bestimmende und entscheidende Macht. Das
eine kann, wenn die grundsätzliche Frage und Verwunderung auf-
brach, nicht ohne dieses « Andere » l>ejaht und festgehalten wer-
den. Das Heilige, das kein Wort nennt und kein Gedanke begreift,
ist Wirklichkeit, denn es ist Wirklichkeit, dass ist, was ist.
Angesichts dieser erweisenden Konsequenz müssen wir nun
fragen: welches ist der phänomenale Charakter der Bejahung, wel-
che das Heilwerden dieser Konsequenz herbeiführt, und als was
kommt darin phänomenal das heilige und unaussprechliche Myste-
rium in seiner Wirklichkeit zur Gegebenheit?
In der genannten Konsequenz erweist sich für den menschli-
chen Geist die Wirklichkeit des unendlichen und heiligen Geheim-
nisses, aber diese einzigartige Erweisung erzwingt nicht auf äusser-
liche Weise das Ja des menschlichen Geistes, wie wohl es sich um
eine eigentliche Erweisung handelt. Und warum ist der Erweis
nicht zwingend, d. h. durch sein Hervortreten unmittelbar das Ja
des Geistes herbeiführend? Weil er sich nicht stützt auf die Ober-
blickbarkeit des dem menschlichen Geiste in eigentlicher Weise zu-
geordneten Objekt-Bereiches, auf die Bestimmtheit der endlichen
und materiellen quidditas r.ei sensibilis und auf die für uns im
Grunde eindeutige Deutlichkeit der unter diesen quidditates herr-
DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 301

sehenden Verhältnisse. In diesem Bereiche der objecta propria. der


quidditates rerum sensibilium wird das Ja des Geistes unmittel-
bar durch die deutlich gewordene quidditas selbst und deren Ver-
hältnisse bervorgerufen: intellectus possibilis movetur ... a proprio
objecto. quod est forma intelligibilis, scilicet « quod quid est > ••• 9 •
Der Horizont des quod quid est. ja des kategorialen « ist >
überhaupt sinkt aber in unserem Falle ganz dahin. mit ibm also
auch die zugehörige. unmittelbar. vom Objekt ausgehende motio
des Geistes. Ja das sich in seiner Wirklichkeit erweisende unend-
liche und heilige Geheimnis wird den auf seine spezifischen und ka-
tegorialen objecta propria hingewiesenen menschlichen Geist eher
negativ bewegen. Denn gemessen an dem, was im eigentlichen. ka-
tegorialen Sinne ist und in dem. was es ist, fassbar und deutlich
wird für uns, muss das Unfassbare, Undenkbare. Unaussprech}i-
che. Nicht-(kategorial)- Seiende im Schein erscheinen. nichts zu
sein. darum. weil es nicht etwas ist, nämlich nicht res quae est
quod quid est.
Diese Negativität aber gründet gerade in einer höchsten Po-
sitivität. Als solchermaßen entrückt zeigt sich das grundlegende
Geheimnis nicht kraft eines Mangels, sondern gerade kraft seines
eigensten Ranges: es zwingt den Geist nicht auf niedere Weise,
weil es entzogen ist in den unaussprechlichen Rang seiner Hei-
ligkeit.
Ungeachtet dessen tritt das grosse Geheimnis in seiner Wirk-
lichkeit für den Geist eindeutig und deutlich hervor, der sich in
echter transzendierender, und in der demonstratio artikulierbarer
Bewegung zu ihm erhebt. Aber diese eindeutig sich erweisende Deut-
lichkeit ist, wie man sieht. von solcher Art. dass sie das zustimmen-
de Ja des menschlichen Geistes zwar wirklich und deutlich begrün-
det, aber keineswegs in einfachen endlichen Weisen unmittelbar
herbeiführt. Das Unbegreifliche bestimmt die zu ihm aufblickende
menschliche Vernunft aus der sich erweisenden Macht seines unbe-
greiflichen Ranges so, dass diese Bestimmung sich in einer Region
bewegt, welche hoch über den Weisen bloß endlicher Versicherung
liegt. Die Bestimmung, in der ich vom Unendlichen bestimmt werde,
spricht aus ihrem Rang heraus das an Rang Höchste in mir selbst
an, den freien Selbstbesitz meines Geistes. Der Erweis ist so, dass
das Ja, zu dem er führt und das er begründet, das Ja der Freiheit
meiner selbst zu sein hat. Man kann insofern davon sprechen, dass
der Vorgang des Erweises eine Begründungsform freilegt, welche
den Charakter eines persönlichen Appells hat. Es tritt in dem Grund-

• THOIIAS, de Ver., 14, t.


302 BERNHARD WELTE

vorgang der demonstratio auf eine schlechthin hoheitsvolle und


nicht niedrig zwingende Weise hervor: ich soll bejahen, es ist
unermesslich Grund dazu da. Aber es geht mich selbst an und ich
muss es selbst und also frei vollbringen 10 • ·
Was heisst dies, wenn wir das in seiner Phänomenalität zu
fassen versuchen? Wir bewegen uns pliänomenal im geistigen
Raum der Sammlung, des selbstbetroffenen und selbst vollzo-
genen Schweigens und der Andacht vor der in seiner alles Sein
entscheidenden Wirklichkeit für den Geist hervortretenden unend-
lichen und heiligen Macht. Im Ja zu ihr ist alles, was ist, be-
jaht, im Verlust des Ja sinkt alles in den Abgrund endloser Fraglich-
keit. Es geht um mich selbst und um alles. Der sich erweisende
Hervortritt der Wirklichkeit dieses Höchsten hat den Charakter,
mich selbst in Hoheit zum Ja zu rufen in einem Appell, der mich
im Innersten und im Ganzen betrifft, wenn er nur erst verstanden
ist. Man wird sehen, dass mehr noch als das Schweigen der Andacht
dieses geforderte Ja nur so wirklich werden kann, dass ich es selbst
frei im Schweigen vollbringe. Und man wird sehen können, was das
stille und freie Vollbringen des Ja bedeuten muss, wenn es dem
vollen Wesen dessen entspricht, um was es da geht. Es bedeutet
die stille und wirklich vollzogene Handlung des Geistes, in welcher
dieser sich selbst ganz und schlechthin und mit sich alles, was ist,
de_m rufenden, unendlichen und heiligen Geheimnis anheimgibt und
damit zugleich das Sein dessen, was ist, in derselben Ganzheit aus
diesem entscheidendem und unaussprechlichen Grund entgegen-
nimmt und so im ganzen bejaht.
Eine solchen Noese, eine solche Handlung des in Andacht ge-
sammelten Geistes darf Glaube im religiösen Sinne genannt werden.
Ein solcher Glaube wird mit dem, was man Wissen nennt, die Er-
weislichkeit seines Grundes gemeinsam haben, aber in der Weise
der wahrgenommenen Begründung sowohl wie vor allem in der
Weise des wirklichen, ursprünglichen und wesensgerechten Voll-
zuges sich von den Formen des Wissens, wie sie innerhalb endlicher
Verhältnisse möglich sind, doch einzigartig unterscheiden.
Ein solches Noumenon aber, das mich selbst in solcher Weise
angeht und im Innersten umfängt, bestimmt und ruft, es wird in
diesem persönlichen Appell den phänomenalen Charakter eines frei-
lich selbst wieder ganz unaussprechlichen persönlichen DU haben,
das als Du mich selbst angeht. Damit ist aber phänomenal auf jeden
10 Hierzu kann die oben schon angeführte Thomas-Stelle in vollem Wort-
laut verglichen werden : intellectus possi_bilis non movetur nisi a duobus,
scilicet a proprio objecto, quod est forma intelligibilis, scilicet quod quid est,
... et a voluntate, quae movet omnes alias vires. de Ver. 14, 1.
DER PHILOSOPH. GOTTESBEWEIS UND DIE PHÄNOM. DER RELIGION 303

Fall wenigstens ein entscheidender Anfang und Umriss sichtbar da-


für, dass wir hier von Gott als Gott sprechen dürfen und müssen,
genauer: als Deus meus, wenngleich wir, noch genauer, gerade von
diesem Punkte des Vollzuges an am allerwenigsten mehr sprechen
dürfen, um im Nicht-Mehr-Sprechen vielleicht am allermeisten dies
unaussprechliche Wort, dies wahre arreton rema in seiner eigenen
und ursprünglichen Bedeutung sehen und begreifen zu können:
Deus meus.

Suchen wir das Ergebnis dieser kurzen und nur Umrisse andeu-
tenden Oberlegung, die nach vielen Seiten der Ergänzung und der
Vervollständigung bedarf, in einigen Sätzen zusammenzufassen. Wir
fragten, von der Fragestellung Husserls ausgehend, nach dem Ver-
hältnis der Gottesbeweise zur religiösen Phänomenalität. Ober die-
ses Verhältnis zeigte sich folgendes :
1) Die Gottesbeweise im Sinne des Heiligen Thomas erweisen
sich im 'Grunde als genaue metaphysische Artikulierungen eines
ursprünglichen, geistigen Vorganges, dessen phänomenales Wesen
von Anfang an religiöser Natur ist, ja, überhaupt den erschliessen-
den Anfang der religiösen Phänomenalität darstellt. Die philoso-
phische Artikulierung weist auf eine religiöse Bewegung ursprüng-
licher Art zurück und beschreibt dieselbe im Horizont metaphy•
sischen Wissens. Die religiöse Phänomenalität liegt also nicht
schlechthin ausserhalb des Beweises, sondern im ermöglichenden
Grund von dessen eigenen Wesen. Dies wird sichtbar, sobald man
das im Beweis Gedachte sich voll entfalten lässt und sorgfältig auf
dessen Phänomenalität blickt.
2) Versteht man den Gottesbeweis also auf den religiösen
Grundvorgang hin, den er in metaphysische Sprache artikuliert,
und nicht nur in der isolierten Gestalt dieser seiner Artikulation,
dann leistet er selbst das wesentliche und entscheidende Stück der
von Husserl und seinen religionsphilosophischen Schülern erho-
benen wissenschaftstheoretischen Forderung für die Theologie: Ur-
sprung und anfängliches Wesen der diese konstituierenden Noesen
und Noemata zu erfassen. Zugleich aber geht er um Entscheidendes
über da"s so Geforderte hinaus: er bringt die erweisliche Wirklichkeit
des göttlichen Du ans Licht und hat so eigentliche Wirklichkeitsbe-
deutung, welche Bedeutung von dem Ernst der wirklichen Phäno-
menalität der Religion unablösbar ist. Ihre Noesen sind entweder
ernste, in denen ein wirklicher Hinblick auf Wirklichkeit geschieht,
oder sie sind überhaupt nicht religiös.
304 BERNHARD WELTE

3) Die metaphysische Artikulation und Formalisierung dieses


geistigen Vorgangs, die Thomas meisterlich vollbrachte, hat gerade
den Sinn, diese metaphysische Wirklichkeitsbedeutung des Ur-
sprungs der Religion im ~ahmen und mit den Kategorien eines ge-
schichtlich neu und gross entwickelten theoretischen Bewusstseins
deutlich auszusprechen. Es wurde so die Grundlage des entscheiden-
den Ernst-Charakters der religiösen Noese in diesem theoretischen
Raum deutlich gemacht. Diese spekulative Fassung und Präzision
des erweisenden Charakters der ursprünglichen religiösen Bewegung
ist unerlässlich, vor allein, wenn einmal ein kritisches metaphysi-
sches Bewusstsein historisch erwacht ist. Die religiöse Phänome-
nalität bliebe sonst allzuleicht im Scheine einer blossen und zuletzt
unverbindlichen Subjektivität. Diese metaphysische und theoreti-
sche Artikulierung des Ursprungs der Religion bedarf aber dann
wieder einer sorgfältigen Beachtung ihrer phänomenalen Momente,
damit die religiöse Grundlage und die religiöse Natur dieser geisti-
gen Bewegung nicht aus dem Blickfeld rückt. Der hl. Thomas dürf-
te es nicht nötig gehabt haben, daran erinnert zu werden, wenn er
auch in seinen Aeusserungen darüber sparsam ist.
Es ist unter diesem Gesichtspunkt von grossem Interesse, zu
sehen, dass der grosse Zeitgenosse des Heiligen Thomas, Bonaven-
tura, nicht nur die Einzigartigkeit der Noesen in diesem ganzen Be-
reich erkannte, sondern auch so ausdrücklich wie möglich zu ent-
wickeln und zu fassen suchte als geistige Voraussetzungen des wirk-
lichen Begreifens seiber durchaus theologisch-wissenschaftlich
gemeinten Gedankens. Hierin geht er zumindest in der Ausdrück-
lichkeit merklich über Thomas hinaus. Der Prolog des Itiperarium
mentis in Deum oder die ersten der collationes in hexaemeron sind
hier von grösstem Interesse. Sie sprechen aus, was bei Thomas meist
stillschweigend vorausgesetzt ist und verdienen gerade unter mo-
dernen wissenschafts-theoretischen Gesichtspunkten ein sehr sorg-
fältiges Studium.
VI.

R. P. ADRIANO A KRI20VLJAN
PllEFETTO DEOLI STUDI
NEL CoLLEGIO INTERNAZIONALE DI RoMA 0. F, M. i("Ap,

CONDITIONES DEMONSTRATIONIS METAPHYSICAE


EXISTENTIAE DEI SECUNDUM J. P. OLIVI

Praesertim post Odonem de Rigaud in scholastica mediae ae.;


tatis conatus refloruit quo ostendebatur ideam Dei, in sua signifi-
catione quidditativa, esse realem. Ac praeterea inter theologos sem-
per magis crevit persuasio hoc factum magni esse momenti in Dei
exsistentia demonstranda. Inter auctores huius tendentiae doctri-
nalis in secunda parte s. XIII etiam Petrus J. Olivi adnumerandus
est, immo facile primarium locum occupat. In sua theologia naturali,
quae ceteroquin magnam afflnitatem doctrinalem manifestat cum
theodicea Henrici Gandavensis, cuius Olivi aequaevus est, specula-
tionem de cognitione naturali Dei quaestione de realitate ideae Dei
aggreditur. In exordio vero suae deductionis, propter exigentias
methodi, ortas ex propria indole suae metaphysicae et psychologiae,
ad statum quaestionis bene definiendum problema sequenti modo
proponit: quomodo Deum esse est per se notum quoad nos / FR. PE-
TRUS J. Ouv1, 0. P. M., Quaestiones in secu.n<f.um librum Sententia-
r.um ... vol. III (Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, tom.
VI), Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1926, p. 517-554.
Ac deinde sensum quaesiti sequenti modo declarat. Praeter ve-
ritates quae omnibus et immediate per se notae sunt, necnon prin-
cipia scientiarum, quae sapientibus solis patent, dantur etiam, do-
cet Olivi, veritates quae possunt fieri per se notae, sed tune demum
quando ratio, sensus et comprehensio terminorum in « magna pro-
funditate >, h. e. in plena resolutione comprehenduntur. Quidam
etenim termini talem parfectionem et plenitudinem veritatum in
sua significatione continent, ut magis vel minus intensa inquisitio
necessaria sit, post quam demum menti humanae in terminis inclu-
sa principia patent. Huiusmodi propositio est: Deus exsistit. Solum-
modo post longam ac simul subtilem et vere scientiflcam investi-
gationem nobis apparet immediata habitudo terminorum et eorum
20 - Studt filo110Jici
306 ADRIANO A KRIIOVLJ'AN

realis identitas. Tune propositio: Deus est - fit per se nota quoad
nos. '
Ideo prima conditio in demonstratione exsistentiae Dei est ut
inquiratur verus Dei conceptus et maxime perfectus ab i-ntellectu
humano cogitabilis. Agitur ergo de notione vere scientiftca Dei.
Hac positione initiali Olivi obstat, ut ipse asserit, conatibus
c aliquorum philosophorum et magistrorum et sanctorum solemni-
um et communium > (ibid. p. 518-519), qui a posteriori procedendo
exsistentiam Dei ope caüsae efflcientis demonstrant. Horum etenim
defectus principalis in eo consistit, quod sufflcienter non conside-
rant quid est Deus. Quapropter, uti fit in argumento ex motu, ut ad
Deum vere conducant, c prolongatione >, sicut hodie dicitur, indi-
gent.
Ista adiunctio vel additamentum, de qua etiam nostris tempo-
ribus a peritis modernis plura scripta sunt, secundum Olivi con-
sistit in aliqua perfectione vel (secundum terminologiam olivia-
nam) ratione in summa abstractione a nobis intellecta, quae im-
mediate ad Dei realem exsistentiam conducat: Hunc autem scopum
asserit obtineri, quatenus hac perfectione, certe post intensam me-
taphysicam perscrutationem, acquiritur verus Dei conceptus et ne-
cessitas Dei transcendentis probatur.
lnde sequitur etiam secunda conditio demonstrationis, scilicet:
argumentum quod necessaria deductione Deum exsistere demons-
tret exordium sumat oportet a rationibus perfectis summe abstrac-
tis. Sed Olivi cum argumentum ontologicum S. Anselmi in Proslo-
gion, et quidem repetendo sententiam S. Thomae de Aquino, om-
nino rejecisset, munus non facile habebat, talem viam. reperiendi
qua vitium argumenti ontologici evitaretur et qua ulterius perve-
niretur quam solitis philosophorum argumentis.
Duae viae illi possibiles apparent, quae tarnen inter se intime
cohaerent. Sed analysi viarum relicta, nos tantum leges et princi-
pia proponimus quibus nituntur et quae praeterea metaphysicae
demonstrationis sunt propria.
Prima igitur via procedit per dictas c rationes > in summa abs-
tractione conceptas. Tales rationes sunt imprimis conceptus entis
et proprietates eius transcendentales, uti verum, bonum, unum et
consimilia, quae in summa abstractione et perfectione concepta
quamlibet imperfectionem excludunt, sicut quando dicitur: sum-
mum ens, summum verum, summum bonum ... Per consequens,
Olivi ~rmat, ratio perfecta dicit id « quod est supra omnem per-·
fectionem et universalitatem et abstractionem nobis intelligibilem >
(ibid. p. 527).
Posito igitur conceptu perfectionis absolutae, nunc tota Petri
CONDITIONES DEMONSTRATIONIS METAPHYSICAE EXISTENTIAE DEI 307

Olivi attentio in hoc est ut ostendat quomodo inter hanc rationem


perfectam et eius exsistentiam realem atque actualem necusarius
vigeat nexus. Aliis verbis: quomodo, investigatione peracta, summa
0

perfecta manifestari possit realem existentiam includere, ita ut me-


diante conceptu Dei maxime perfecto ad exsistentiam realem Dei
perveniatur, ac simul appareat quomodo Deum esse sit per se no-
tum quoad nos.
Ut autem necessarius nexus inter perfectionem absolutam et
eius actualem exsistentiam manifestus fiat, sequentia principia con-
sideranda sunt.
Certum est rationem perfectam et summe abstractam, v. g. ra-
tio entis a se, per se non excludere actualis exsistentiae possibili-
tatem. Pariter, possibilitas sola actualis exsistentiae omnino oppo-
nitur perfectioni rationis absolutae, quia, uti iam Avicenna docuerat,
perfectioni summae tota perfectio necessarie competit. Quare Olivi
asserit: « Si huiusmodi rationes non sunt actu, aut si aliquo modo
sunt possibiles non esse, summe sunt impossibiles ad esse, et sum-
mam contradictionem et impossibilitatem includunt in se respectu
ipsius esse» (ibid. p. 527).
Ex dictis principiis iam apparet alia condicio demonstrationis
metaphysicae, quae dicit: tota deductio et investigatio reducenda
est in principium contradictionis. Et hac ratione id quod est per se
notum tantum post longam inquisitionem reducitur quodammodo
in per se notum omnibus et immediate. Attamen neque momento
methodico haec postulatio caret, cum nempe Olivi putet suam po-
sitionem ita a qualibet impugnatione optime defensam esse.
Propterea, longa et subtili investigatione, inquiritur quanam
methodo contradictio in negatione exsistentiae Dei melius reve-
letur.
Huic proposito iterum multum inservit rectus Dei conceptus
secundum quem Deus est ens a se, summe perfectum, extra omne
genus, et exprimitur, uti dictum est, omni ratione summe perfecta.
Nunc vero, ut demonstratio quam 'maxime in principium contradic-
tionis reducatur, in hoc dilemmate comprehendi polest: Deus aut
est actu, aut non est summe perfectus. Negata Dei exsistentia,
negatur eius infinita perfectio. Nam perfectio Dei atque necessitas
etiam eius exsistentiam actualem comprehendunt. Exsistentia ergo
actualis consideratur potius tamquam unum ex Dei attributis, quod,
sicut proprietates essentiales, pari necessitate ei competit. Et ideo
asserere: Deus non exsistit - est idem ac dicere: Deus non est id
quod est, non est talis qualis est, - ergo simul est et non est, quod
est negatio principii contradictionis. Et quo clarius haec contra-
dictio apparet, et quo melius conceptus Dei determinatur, eo ma-
308 ADRIANO A KRIZOVLJAN

gis etiam est per se notum Deum esse. Hie modus proeedendi utique
solummodo de Deo valet, et sie problema de Deo a quolibet alio di-
stinguitur. Quare Olivi eoneludit: « Si etiam veritas istarum ratio-
num non esset aetu in re, tune tarn rationes quam eoneeptus earum
impliearent in se summam eontradictionem > (ibid. p. 5.27).
Ut denique problema veram formam olivianam aequirat unum
faetum adhue eonsideretur. Si ens a se essentialiter dieit exsisten-
tiam aetualem, hoc non signifieat id quod eommuniter dieitur, quod
seilieet in Deo essentia sit ipsum esse, et quidem ipstlm esse subsi-
stens, et quod uti S. Thomas doeet, in e~tibus eontingentibus esse
exsistentiae realiter ab essentia distinguatur. Hoc. utrumque Olivi
negat. Et ideo potius dicendum est quod soli divinae essentiae pro-
prium est ut in sua ratione qua talis essentia ineludat etiam suam
aetualem exsistentiam. Aetualitas divinae essentiae non exigitur ab
essentia uti est esse subsistens, sed potius a sua neeessitate qui-ddi-
tativa, h. e. in quantum est essentia summe perfeeta. Et hac de
eausa Olivi inculcat momentum recti eoneeptus Dei.
Haee sunt prineipia quibus nititur primum argumentum pro
exsistentia Dei. Nune vero breviter de seeundo, quod a posteriori
proeedit.
Huius argumenti prineipia sunt fere eadem ae praeeedentis.
Quid autem in modo proeedendi sit vitandum Aristoteles ipse doeet.
Argumenta enim ab eo desumpta ad exsistentiam Dei demonstran-
dam ideo sunt insuffleientia et ad Deum non ferunt, quia ei veru_s
Dei eoneeptus deerat. Olivi propterea, dum in suo secundo argu-
mento a posteriori et ex ereaturis exsistentiam Dei demonstrare eo-
natur, iterum tamquam suae demonstrationis primam eonditionem
rectum Dei eoneeptum exigit. Propterea etiam demonstrationem
exigit quae, relietis viis indolis physieae, quales ex Averroe mediae-
vales eognoverant, potius ad placita probationis metaphysieae ab
Avicenna propugnata aeeedat, ut possit ex quolibet effeetu, et non
tantum ex hoc vel illo partieulari, immediate et necessario demon-
strare causam simplieiter et totaliter primam exsistere.
In hac re Olivi duo_ praesertim prae oeulis habet: a) naturam ·
metaphysieam argumenti; et b) transcendentiam Dei. Arguinentum
enim quod non probaret exsistentiam Dei tra.nscendentis, non esset
suffleiens. ldeo Olivi imprimis naturam entis contingentis examini
metaphysieo subiieit, ita ut in eo revelentur illa elementa quae
« clamant », h. e. seeundum terminologiam olivianam, quae adhiberi
possunt ad instaurandam demonstrationem metaphysieam exsisten-
tiae eausae simpliciter primae.
Sed nondum hoc suffleit ad naturam demonstrationis definien-
dam. Ne sub finem demonstrationis arguatur illud ex quo probatio a
CONDfflONES DEMONSTRATIONIS METAPHYSICAE EXISTENTIAE DEI -30!1

posteriori exordium sumpserat et in quo nititur, forsan esse ipsum


Deum qui quaeritur, iam ante demonstrationem ope veri conceptus
Dei stabilire oportet quod initium sumitur ab ente quod certe Deus
non est. Hoc etiam necessarium est ut appareat argumentum ad
Deum vere transcendentem pervenire.
Processus vero demonstrationis iisdem fere principiis dirigitur
ac in primo argumento.
Sicut in primo argumento ex natura entis a se deducitur
eius exsistentia actualis, ita hie consideratur res quam jam
scimus certe non esse ens absolutum, et observatur potissime
in suo defectu natur:tli, h. e. in quantum in sua natura proprietates
entis absoluti non possidet. Quemadmodum vim suam primum ar-
gumentum ex perfectione summa entis a se desumet, ita vis secundi
argumenti provenit ex defectu perfectionis in ente contingenti. Res
enim contingentes sine ente absoluto non solum exsistentiam non
haberent, sed etiam in sua natura non possent concipi (ibid. p. 540).
Sicut summum perfectionis in primo argumento ad deducendam ex-
sistentia01 actualem fundamentum praebet, ita defectus plenitudi-
nia perfectionis constituit fundamentum deductionis in secundo.
Nam res quae non est summe perfecta, non vi suae exsistentiae, sed
potius propter imperfectionem suam ontologicam, exigit ens abso-
lutum. Hie autem modus procedendi logicus est, cum etiam .in secun-
do argumento imprimis absolutam perfectionem entis a se Olivi de-
monstrare velit, sine qua de exsistentia entis a se sermo esse ne-
quit. Sed tali perfectione in ente absoluto probata, actualis ejus ex-
sistentia deinde sola analysi te~inorum fit manifesta, sicut in pri-
mo argumento ostensuin est.
Ens ergo contingens principiis metaphysicis Olivi perscrutatur;
sed conaulto evitat sermonem de relatione causali (scilicet de cau-
salitate efficienti) inter ens contingens et absolutum, quo manifes-
tius appareat aolam naturam contingentem sufflcienti evidentia ne-
ceasitatem exsistentiae realis entis a se testari. Unde fit ut expli-
cite exclusa qualibet parte causae efflcientis, maius momentum cau-
sae exemplari tribuatur.
VII.

R. P. JOSEPH OWENS C. SS. R.

THE SPECIAL CHARACTERISTIC OF THE SCOTISTIC


PROOF THAT GOD EXISTS

1. THE PROBLEM OF THE SPECIAL CHARACTERISTIC IN THE DEMONSTRA-


TION OF GOD'S EXISTENCE.

The altogether special characteristic of the proof that God


exists may quite readily be expected to differ according to the dif-
ferent types of thought which undertake such a proof. That proof
may be physical as in Averroes, or moral as in Kant and Newman.
Even the proofs which lay claim to a metaphysical character may
be variously based on the stability and permanence of essences, on
the existence of sensible or spiritual being, on the possibility or cha-
racter or content of human intellection. According to any radical
difference in its respective basis, then, may not each proof of God's
existence show a corresponding radical difference in the special cha-
racteristic which even within the particular philosophy in question
distinguishes it from all other proofs?

II. THE DEMONSTRATION IN DUNS SCOTUS.

a) The Scotistic Treatment of the Anselmian Argument.


In the preamble to the proof of God's existence, John Dons
Scotus in bis major commentary 1 on the Senf,ences likewise exami-
nes the Anselmian argument. He refers it explicitly to its author,
and treats it under the general heading 'Is it immediately evident
that something infinite exists ?' 2 The Franciscan doctor has no
1 Op. O:c. 1, 2, 1-2, no. 11; II, 129. 4-10; and nos. 35-36, pp. 145. 11-146. 14.
For Scotus, just as for St Thomas, there is no thought of interpreting the Ansel~
mian argument as a passage from thought to reality. St Anselm is mentioned
as the author at Op. Oa:. I, 2, 1-2, no. 11: II, 129. 5; and no. 35~ p.. 145. l 1 ~
no. 137, p. 208. 16; no. 146, p. 214. 5; and at Rep. Par. I, 2, 3, no. 8; ed.
Vives, v. XXII, p. 73b; and ibid. 1, 3, 2, no. 1: p. 97b.
2 Utrum aliquod inflnitum esse sit per se notum, ut Deum esse. Op. O:c. 1,
2, 1-2, no. 10; II, 128. 11.
312 JOSEPH OWENS C, SS, B.

quarret with the reasoning « that than which nothing greater can
be thought exists 111• He maintains that this major premiss of the
argument is true. He is concerned only with pointing out that it
is not immediately evident' and so has to be proven. After having
developed his own proof, he allows the Anselmian argument to be
'colored' by the pertinent addition of 'dne contradictio-ne' twice in
its f ormulation, and proves the major premiss by the reasoning con-
tained in his own demonstration, namely that absolutely perfect
being is of its nature uncausable 11 •
This view of the Anselmian argument quite evidently excludes
any properly existential characteristic as necessary for the proof
that God exists. lt presupposes a doctrine of being which permits
reasoning from the nature of supremely perfect being, as concei-
vable by man, to the order of actual exi1tence. In the Scotistic
context, therefore, the univocal nature of being, when conceived ac-
cording to the intrinsic mode of inflnity, somehow involves real
existence without requiring the intervention of any originally
existential judgment.
As a matter of fact, Duns Scotus f ormulates the question of
God's existence in terms of infinite being. He asks: « 1s there
among beings anything actually infinite existing? > 18 • Such a for-
mulation might be expected from the characteristic Scotistic doc-

a Praeterea, quo majus nihil eogitari potest, illud esse ... lbid. no. 11,
p. 129. 4.
• ... dieo quod major est falsa quando accipitur • illud esse per se notum
est ', tarnen major vera, non tarnen per se nota ... Op. O:,;. 1, 2, 1..Q, no. 36; II,
146. 7-9.
11 Op. O:,;. I, 2, 1-2, nos. 137..;138; II, 208. 16-210. 11. The reasoning is:
... summe eogitabile non est tantum in intellectu eogitante, quia tune posset
esse, ,quia eogitabile possibile, et non posset esse, quia repugnat rationi eius
esse ab aliqua eausa, _slcut patet prius in secunda eonelusione de via efflcien-
tiae; ... lbid. no. 138; p. _210. 3-7. E. Bettoni, L'Ascesa a Dio in Duns Scoto
(Milan: Vita e Pensiero, 1943), p. 26, remarks: Quel doppio « sine eontradie-
tione > e neeessario, perche fonda e mette in evidenza, la prima volta, la
possibilita di eio ehe si pensa eome Dio; la seeonda, l'impossibilita di eio
ehe si vorrebbe pensare maggiore di Dio. 1
A second way (Op. O:x:. I, 2, 1-2, n. 139; FI, 210. 12-211. 1) of • eoloring'
the Anselmian argument is based on the Scotistic doctrine of eognition. Wbat
exists is a maius cogitabile; for it is a perfectius cognoscibile, because it is
knowable by intuitive and not merely by abstraet intelleetion. Therefore the
most perfect know~ble thing must be knowable by intuitive eognition - it is
an existent, it exists.
In. both 'eolorings •, aetual existenee follows from the supreme perfection
of the real object of thought.
11 ... quaero ... primo, utrum in entibus sit aliquid existens actu inftnitum.
Op. O:x:. I, 2, 1-2, no. 1; II, 1•2o, 6-8.
THE SPECIAL CHARACTERISTIC OF THE SCOTISTIC PROOF THAT GOD EXISTS 313

trine that ' infinite being ' is the most perfect concept of God na-
turally attainable by men in their present state 7 • But does it also
point to ' infinity ' as the operative notion and special characteristic
of the Scotistic proof for the existence of God?
The answer to this question has to be sought in an examina-
tion of the Scotistic proof, first as regards its external structure,
and secondly as regards its probative content.

b) The Externat Structure of the Sootistic Proof.


1) The Franciscan doctor proposes 8 to show, in the first stage
of his demonstration, that there is among beings an absolutely
first efficient cause, likewise that there is an absolutely ultimate
final cause, and also that there is an absolutely supreme nature.
He looks upon each of these as a ' property ' 9 relative to creatures.
2) The second stage is to show that each of the three prC>perties
is uncausable.
3) The third step is to demonstrate that each of the three
exists in reality 10• Apparently the process by which they are first
established does not immediately show their real existence. This
procedure indicates that their nature is first established and from
that nature their existence is proven. lt does not seem to allow
existence any operative role in the first two stages of the demons-
tration.
4) The f ourth stage is to show that these three relative proper-
lies coincide in one being.
5,) Even then the identity with God of this one existent 'being
has still to be proven by a fifth and final step. The being is shown
to be infinite. Since it exists, God as conceived in the highest way
possible to man, exists n.
Does this external structure indicate any special characteristic
in the demonstration?
The structure implies, evidently, that the first efficient cause,

7 Et istud est perfectissimum conceptibile et conceptus perfectissimus, ab-


solutus, quem possumus habere de Deo naturaliter, quod sit inflnitus ... Op.
Ox. I, 2, 1-2, no. 147; II, 215. 1-3.
s Op. Ox. 1, 2, 1-2, nos. 41-42; II, 149. 13-151. 3.
9 ... ideo primo declarabo esse de proprietatibus relativis entis inflniti ...
lbid. no. 39, p. 149. 1-2.
10 ... prima est quod aliquid sit primum, secunda est quod illud est in-
causabile, tertia est quod illud actu ex'istit in entibus. lbid. no. 42, p. 151. 1-2.
11 Et sie probatu.m est Deum esse quantum ad conceptum vel esse eins, per-
fectissimum conceptibilem vel possibilem habere a nobis de Deo. Op. Ox. I, ~.
1-2, no. 147; II, 215. 4-6.
3H JOSEPH OWBNS C, SS, B.

ultimate final cause, and the supreme nature do not immediately


reveal tpemselves as identical with the Christian 'God. If those
three results had been reached on the basis of existential act, as
in St Thomas, the identity would be immediately evident. But
with Scotus, the question still remains open. All three processes
reach the most perf.ect instance in their respective orders. Aristotle,
using similar processes but equating in true Greek fashion the
notion of perfection with that of finitude, definitely established his
first efflcient cause, final end, and supreme being as finite form u.
Duns Scotus, apparently, is reaching in this stage a result somewhat
between those of Aristotle and of St Thomas. The being so attain-
ed does not appear as finite form nor is it yet seen as existent.
lt is rather a nature which appears f or the moment as neither
finite nor infinite nor existent, but which can be shown by further
reasoning first, to exist, and then, to be infinite. The structure
of the demonstration, accordingly, indicates that Scotus is not at
all proceeding from a properly existential starting-point, but rather
f rom a quidditative notion of being which can be the basis f or
reasoning to actual existence; and that even with this aetual exis-
tenee established, the notion of infinity has to be applied in order
to make the demonstration bear on the Christian God. This would
indieate that inflnity is at least the speeial characteristie whieh
enables the Scotistic demonstration to prove that God exists.
But can the infinity be the characteristic which proves that
existence? in the Anselmian argument as accepted by Scotus in-
finity of perfection seemed required to prove aetual existence.
But here in his own demonstration the existenee is proven in the
third stage, and so before the infinity, which is demonstrated only
in the fifth stage. The actual existenee is proven from the nature
of first cause, ultimate end and supreme essenee. 1s there some
characteristie eommon to these three properties which proves ex-
istence just as does infinity, and if so, what is the relation of that
common characteristic to infinity?
The answer to these queries can emerge only f rom a eareful
and detailed examination of the Scotistie proof. This study should
reveal to what extent the indications from the strueture of the
demonstration are borne out in the aetual reasoning.

12 For a study of this question, cf. J. Owens, 'The Reality of the Aristo-
telian Separate Movers ', Review of Metaphysics. III (1960), 319-337; The
Doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics (Toronto: Pontifical Insti-
tute of Mediaeval Studies, 1961), pp. aßt ff. Scotus (Rep. Par. I, 2, 3, 2; ed.
Vives, v. XXII, i>• 69b) interprets the Aristotelian first being as actually infi-
nite. Cf•. also Op. Oz. I, 2, 1-2, no. 120; III, 197. 2-3.
THB SPECIAL CHARACTBRISTIC OF THE SCOTISTIC PROOF TRAT GOD BXISTS 315

The Scotistic Rea.soning.


c)
1 & 2) The Nature of the First Cause.
In accordance with his proposed plan, Duns Scotus commences
by showing that there is among beings the nature of a flrst efficient
cause 111 • As his starting-point, he takes the manifest being which
is efficiently causable 1 4, that is, capable of being caused efflciently.
In so designating his starting-point, he is emphasizing not the con-
tingent existence of the thing, but its causability, that is, its nature
as causable. Unlike St Thomas, he is starting in the quidditative
or essential order, and not in the existential. True, Scotus has
in mind real being, and for the most part 16 being existing in the
actual world. He is not commencing in thought. But he is giving
the existential characteristic no genuinely operative role. He is
basing his demonstration as a whole on the nature of contingent
things, a nature which even though really existing is of itself
common and so entirely indifferent to being either in the intellect
or in reality.
Upon such a quidditative basis the argument is developed.
Since this nature is causable, it has to be caused by another. But
it cannot be the result of an infinite series of causes. lt establishes,
therefore, the nature of an absolutely first cause 16 ,

There are only two points which Scotus f eels called upon to
defend in the reasoning given in this first stage of the demons-
tration.
One concerns the starting-point. The reasoning, it may be
objected, is based upon contingent things and so is not a demons-

1s Prima autem conclusio ... est ista, quod aliquod effectivum sit simpliciter
primum ... Op. Ox. 1, 2, 1-2, no. 43; II, 151. 4-6.
14 Ibid. no. 43; p. 161. 6-7. The speciftc term used by Scotus is • effec-
tibile '. 'Causabile ', however, is frequently substituted for it In the course
of the argument. 'Causabile' is the quasi-generic term, applicable to the
results of formal, material and final causality as weil as efflcient. Cf.: illud
est ineffectibile, ergo incausabile, quia non est ftnibile, nec materiabile, nec
formablle. tOp. Ox. I, 2, 1-2, no. 67; II, 163. 1-2.
15 Scotus (Op. Ox. I, 2, 1-2, no. 68; II, 164. 12-14) notes that four of the
ftve reasons used in the proof can involve existence. But as he is starting
from the nature of causable things, which as a common nature is indifferent
of itself to being either in the intellect or in reality, he would have no spe-
cial point in either emphasizing or excluding its actual existence,
1s Op. Ox. 11, 2, 1-2, no. 43; II, 161. 7-15o2. 9.
316 JOSEPH OWENS C. SS. R.

tration 11 • Scotus answers that one could argue that a certain truly
contingent nature is the effect of change and so by the nature of
correlatives requires an efficient cause. - This evidently means
that the contingent existence accompanies the nature, but only as
a Dasein; it does not enter the probative force of the argument,
it can be disregarded. - Nevertheless, Scotus continues, in using
the contingent to establish by contrast the necessary, one can take
the proof as dealing with quidditative being or possible being, and
not actual existence (even though later in the third stage of the
demonstration actual existence is to be proven). In this way the
argument proceeds from necessary things 18• - This means that
contingent existence is eliminated from the starting-point of the
proof.
These two answers leave no doubt regarding the essentialist
preoccupation to base the demonstration in the quidditative order.
The first allows the conting~nt existence to be disregarded, the
second eliminates it. This is in. sharp contrast to the procedure
of St Thomas, in which the contingent existence of sensible things
was the starting-point.
The other notion to be defended is the impossibility of an in-
finite series in efflcient causality. An infinite series of essenti.ally
subordinated causes is impossible for flve reasons: 1) The cause
of the totality of essentially subordinated caused things must be
outside that totality. 2) The number of essentially subordinated
causes cannot be infinite. 3) Essential priority presupposes a prin-
ciple which is first. 4) The increasing perfection of causes in a
proposed infinite series would imply a cause of infinite causal

11 Op. O:,;. I, 2, 1-2, no. 46; II, 163. 3-o.


1s ... respondeo quod posset sie argul: aliqua natura est effecta qula ali-
quod subiectum mutatur, et ita terminus mutationis incipit esse in subiecto,
et ita ille terminus vel compositum producitur sive efflcitur; ergo est aliquod
efflciens, per naturam correlativorum, et tune potest esse secundum veritatem
prima contingens, sed manifesta. - Potest tarnen sie argui, probando primam
conclusionem sie: haec est vera ' aliqua natura est effectibilis, ergo aliqua
est effectiva '. Antecedens probatur, quia aliquod subiectum est mutabile, qula
aliquod entium est possibile distinguendo possibile contra necessarium, et
sie procedendo ex necessariis. Et tune probatio primae conclusionis est de esse
quiditative sive de esse possibili, non autem de exsistentia actuali. Sed de
quo nunc ostenditur possibilitas, ultra in conclusione tertia ostendetur ac-
tualis exsistentia. lbid. no. 66, pp. 161, 10-162, 8. Regarding the argument in
the ftrst of the two alternatives, cf,: Notandum vero, pro demonstrante pas-
sionem disjunctam de subjecto aliquo, quod si disjungantur correlativa aliqua,
ut causa et causatum, prius et posterius, ex praemissa quae dicit unum illorum
inesse alicui, sequitur alterum illorum inesse alii, non de existentia, sed de
esse quiditativo. Quaest. Metaph. 1, 1, 49; ed. Vives, v. VII, p. 37a.
THE .SPECIAL CHARACTERISTIC OF THE SCOTISTIC PROOF THAT GOD EXISTS 317

perfection, in a sense in which infinity excludes imperfection and


so dependence of that cause or any other. - Here the power of
the first cause is establishtd as infinite, infinity implying perfection
without imperfection. 5) Causative power does not necessarily
involve any imperfection, and therefore can be present in some
nature without imperfection; for the moment, the existence in real-
ity of this cause does not enter the argument, though later it will
be shown that the possibility thus established is the basis for
concluding to that existence 19 •
The first four of these arguments, Scotus himself points out,
c.an bear on the existence of the first cause; in this case, they
are dealing with manifest contingent things. But they may also
be taken as dealing with « nature and quiddity and possibility »,
and so proceed from necessary things 20 • The fifth, of course, is
not concerned with contingent things at all, but only with the ne-
cessary. Scolus shows no interest whatsoever in the proof of
existence upon the contingent basis; he merely mentions it, without
letting it enter into the sequence of his demonstration as a whole.
The defense of the proposition is completed by showing that
an infinite series of accidentally subordinated causes has to be de-

19 Op. Ox. I, 2, 1-2, no. 53; II, 157. 6-159. 6. The last two reasons are:
Turn quarto, quia superior causa est perfectior in causando, ex secunda diffe-
rentia; ergo in infinitum superior est in infinitum perfectior, et ita infinitae
perfectionis in causando, et per consequens non causans in virtute alterius,
quia quaelibet talis est imperfecte causans, quia est dependens in causando
ab alia. - Tum quinto, quia effectivum nullam imperfectionem ponit neces-
sario; ergo potest esse in aliquo sine imperfectione. Sed si nulla causa est
sine dependentia ad aliquid prius, in nullo est sine imperfectione. Ergo effec-
tibilitas independens potest inesse alicui naturae, et illa simpliciter est prima;
ergo effectibilitas simpliciter prima est possibilis. Hoc sufflcit, quia inferius
ex hoc concluditur quia tale efflciens primum, si est possibile, est in re.
lbid., p. 158. 3 sqq.
20 Aliae autem probationes ipsius a possunt tractari de exsistentia quam
proponit haec tertia conclusio, et sunt de contingentibus, tamen manifestis; vel
accipiantur a de natura et quiditate et possibilitate, et sunt ex necessariis.
Op. Ox. !J, 2; 1-2, no. 58; II, 164. 12-15. On the first alternative, cf.: Uno modo
sumendo pro antecedente propositionem contingentem de inesse, quae nota est
sensui, scilicet quod aliquid sit productum in actu. quod notum est sensui,
quia aliquid est mutatum, quod nec negaret Heraclitus, et sie ex veris evi-
dentibus, non tarnen necessariis, sequitur conclusio. Rep. Par. I, 2, 2, no. 7; ed.
-Vives, v. XXII, pp. 65-66.
Whatever may be said about the proof When taken as proceeding from
contingent existence, it is certainly not the characteristic proof of Duns Scotus,
with which the present study is concerned; - la sua dimostrazione di Dio
e quella ehe parte dalla possibilita. E. Bettoni, L' Ascesa a Dio in Duns
Scoto, p. 59.
318 JOSEPH OWBNS C. SS. R.

pendent upon the first cause in an essentially subordinated series 21 •


The reasoning is based entirely upon the nature of accidentally
subordinated causes, and does not enter the existential order.

The demonstration then goes on to its second stage. lt pro-


ves quite easily that the nature of the absolutely first efflcient
cause is uncausable, by reason of being first. Because it is absolutely
first this cause cannot have any prior effleient cause. Nor can
it have a final cause, for a final cause exercises its eausality only
through an efflcient eause. Having no extrinsic cause it cannot
have any intrinsic cause, for the nature (ratio) of extrinsic eau-
sality is prior to the nature (ratio) of intrinsic causality 22 • The
point stressed in the reasoning is that extrinsic causality expresses
perfection without imperfection 23 ,

3) The Existence of the First Cause.


The third stage in the demonstration proves that. such a first
cause is actually existing, that is, it is a natare truly existing in
actuality 24 • The nature (ratio) of the absolutely flrst efflcient
cause has already been established as uneausable. lt cannot exist
through another. If 'it cain exist, therefore, it can exist of itself;
and it can exist, as the flrst stage in the demonstration has shown.
But if it can exist of itself, it does exist of itself; otherwise non-being
would be able to make something exist, and moreover the first
cause would then be causing itself and so would no longer be ab-
solutely uncausable 21 • « What does not exist of itself is not able
to · exist of itself, because in that case non-being would produee
something in being, which is impossible, and besides, in that ease
it would cause itself and so would not be entirely uneausable > •.
The reasoning is as f ollows. The first cause can exist of itself.
Suppose, then, it does not exist. What could produee it? Certain.ly

21Op. Ox. I, 12', 1-2, nos. 54-55; II, 159. 7-161. s;


22Ibid. no. 57; pp. 162. 9-164. 4.
23 ••• eausalitas eausae extrinsecae dieit perfeetionem sine imperfeetlone.
lbid. p. 163. 10-11.
24 Tertia eonclusio de primo effeetivo est ista: primum effectivum est in
aetu exsistens et aliqua natura vere exsistens aetualiter sicut est effectiva.
lbid. no. 58; p. 164. 5-7.
21 Ibid. pp. 164. 7-165. 3.
2s Quod non est a se non potest esse a se, quia tune non-ens produeeret
aliquid ad esse, quod est impossibile, et adhue, tune Ulud eausaret se et ita non
esset ineausabile omnino. iibid. p. 164. 16 ff.
THE SPECIAL CHARACTERISTIC OF THE SCOTISTIC PROOF THAT GOD EXISTS 319

no other cause, for then it would exist by virtue of that cause and
not of itself. So it would have to be produced by itself as non-
existent. But what is non-existent cannot produce anything what-
soever. If it does not exist, then, the first cause cannot exist. Yet
it can exist, as has already been established. Moreover, even if
as non-existent it could produce itself, it would then be causing
itself and so would no longer be absolutely uncausable. Accord-
ingly, if the first cause is a nature which can exist of itself - and
that has been proven on the basis of quiddity and possibility -
it does exist in actual reality.
There is not the least doubt about this way of concluding to
actual existence. The text is crystal clear. The nature and pos-
sibility of a first cause have been established on the basis of the
nature and quiddity and possibility of manifest things; and this
possibility of the first cause proves that its nature actually exists 21 •
Scotus continues to press home the same point in two other
ways. The existence of the first cause is shown by the conside-
ration that it would not be fitting for the universe to lack the
supreme possible degree of being 28 • Moreover, the existence of the
first efflcient cause follows from its character of ' first '; this means
_that it is uncausable, and since it is not contradictory to entity
(i. e., it is possible), as shown in the initial stage of the demon-
stration, it can exist of itself and so does exist of itself 211 • The
common characteristic in these three ways of expressing the argu-
ment is that actual existence follows from possibility.
Scotus then proceeds to establish the existence of an absolutely
final cause and an absolutely supreme nature, using, as he repeat-
edly insists, the same or similar arguments. He shows that the
second stage in each case concludes that such a nature is uncausable
efficiently, and so allows the third stage to conclude to actual exist-
ence in the manner just shown 30 •

121 E. Gilson, Jean Duns Scot (Paris: Vrin, 1952), pp. 142-143, notes
that this reasoning makes the actual existence of God the source of His
possibility. Nevertheless, as far as the demonstration is concerned, « il est
vrai que l'existence du Premier soit atteinte au moyen de l'essence , ... > Op. cit.
p. 148.
2s Illud ultimum, scilicet de exsistentia primi effectivi, aliter declaratur,
qui inconveniens est universo deesse supremum gradum possibilem in essendo.
Op. IOx. 1, 2, 1-2, no. 68; II, 166. 3-6.
20 ... sie in quantum primum exsistit. Probatur ut praecedens; nam in ratio-
ne talis primi maxime includitur incausabile, probatur ex secunda; ergo si
potest esse (quia non contradicit entitati, ut probatur ex prima), sequitur
quod potest esse a se, et ita est a se. lbid. no. 69; p. 165. 9-13.
30 lbid. DOS. 60-67; PP• 166. 14-168. 11.
320 JOSEPH OWENS C. SS. B.

Exislence, accordingly, follows from possibility. But what is


the characteristic in possible being which allows this conclusion 'l
That characteristic was designated respes:,tively, in the three ways
of expressing the argument, as ' uncausable ', ' supreme ' and ' first '.
Common to these three copcepts is the notion of perfection. The
three, in the sequence of the demonstration, manifest their content
in the proof's second stage, where efflcient causality was shown to
express perfection without imperfection 31 • Because it is unrestrict-
ed by any imperfection, the first efficient cause is UJllca.usiable and
supreme in perfection. The per(ection without imperfection of
lhis cause is the characteristic which permits and reqµires the
reasoning to actual existence.
In Duns Scotus, therefore, when the univocal quidditative be-
ing seen in manifest things is extended to its supreme degree of
perfection, it thereby involves actual existence. In St Thomas, on
the other hand, perfection established on a merely quidditative
basis, no matter what degree it might reach, could never include
the least existential act.

4 & 5) Identity of the First Cause with God.


The fourth stage in the Scotistic demonstration is to establish
the identity of the first efflcient cause with the ultimate fmal cause
and with the absolutely supreme nature. This is done briefly and
without di~culty. The first efficient cause cannot act principally
on account of anything other than itself, and so is the ultimate
final cause; and since its causality is equivocal in respect to olher
causes, it must, being first cause, also be most eminent 32 •

Even with the three-fold primacy located in one and the same
being, however, the identity of this being with the Christian God
is, in accordance with Aristotelian background of the reasoning,
not yet apparent. The fifth stage of the demonstration proves that
such a being is infinite. This is done in four ways.
The first way is through the nature of its efflcent causality.
( Although the infinite causal perfection of the flrst efflcient cause

a1 Cf. aupra, n. 30. Likewise, the flfth reason in the flrst stage of the de„
monstration was: ... effectivum nullam imperfectionem ponit necessarlo; text
aupra, n. 19. Cf. also: Sed sunt aliae primltates, quae non dicunt imperfectio-
nem, ut primitas eminentiae et independentiae triplicis, puta duplicis causa-
litatis, effectiva et flnalis •.., Rep. Par. l, 2, 2, no. 3; ed. Vives, v. XXII, p.. 64a.
sz Op. O:x:. l, 2, 1-2, nos. 68-73; N, 168. 12-173. 18.
THE SPECIAL CHARACTERISTIC OF THE SCOTISTIC PROOF THAT GOD EXISTS 321

had been established in the initial stage of the demonstration 313 ,


this infinite power is now shown by adapting an Aristotelian argu-
ment). The first efficient cause, as far as its power is concerned,
can produce effects through infinite time. Therefore Aristotle's
proof regarding infinite substance seems conclusive in showing that
the first cause has total causative perfection 34 • This infinite power
which is naturally demonstrable, is not, however, omnipotence in
the full theological sense; for that is an article of faith, and not
provable by reason 35 • The notion of creation - passage to being
from non-being absolutely, so important in the demonstration of
St Thomas 00 is not considered a source of argument, first, because
it is accepted only on faith, and secondly, because created being is
not infinitely distant from absolute non-being, but only to the
extent of the quidditative being of the creature, which is finite 31 •
The second way, also in Iine of efficiency, is that the first
efficient cause actually knows intelligibles in infinite number, nu-
merical infinity in this case involving infinite perfection. Since it
is infinite in cognoscibility, it is infinite in being; for the two
correspond, according to Aristotelian doctrine 188 • The third way
is that the human will desires an infinite good. lnfinity, accord-
ingly, is not contradictory to the nature of the good 1119 • This means
that the ultimately final good has to be infinite, for the greater the
good, the greater the finality. The fourth way is that the supreme
being must be infinite in perfection for being does not exclude
infinity, and, as every infinite is greater than the corresponding
finite, infinite perfection is greater than finite perfection 40 •
Infmity, therefore, is proven from perfection. The most per-
fect nature, the greatest good, the most perfect efficient causality
imply for Scotus infinite being. In being, apparently, 'most per-
fect ' and ' infinite ' coincide, because the infinite is greater than
any finite instance, in being just as in quantity 41 • In this way
83 ... inftnitae perrectionis in causando ..., lbid. no. 53; p. 158. 5-6. Text
supra, n. 19.
34 Op. O:r. I, 2, 1-,2, nos. 111-Hl4; II, 189. 2-201. 10.
85 Ibid. no. 119; p. 194. 8-13.
as er. J. Owens, The Modern Schoolman, XXX (1952-53), 43-53; 109-120.
31 Op. O:r. I, 2, 1-2, nos. 121-124; II, 198. 1-201. 10.
ss Ibid. nos. 125-129; pp. 201. 11-205. 7.
89 Ibid. no. 130; pp. 205. S...2:06. 4.
40 Ibid. nos. 131-136; pp. 206. 6-208. 15.
n « ... ßnito autem non est incompossibile esse aliquid perfectius: ... quia
inftnitum non repugnat enti; sed omni finito maius est inflnitum. Ibid. nos.
131-132; p. 206, 8-11 .
... ergo perfectissimum ens est infinitum ». lbid. no. 132; p. 207. l. er. text
infra, n. 55.
21 - Studi filosofici
322 .JOSEPH OWBNS C. SS. B.

Scotus presses home the consideration that actual existence can be


proven f rom infinity in being. If such inflnity is possible, it aetually
exists, according to the third stage of the demonstration. In this
way also the Anselmian argument is tobe explained .a.
In the Scotistie reasoning, therefore, infinity does not follow
logically from existence, but rather precedes it. The flfth stage
of the demonstration could logically have preceded the f ourth. In
fact, the infinity is just an explicit realization " - by application
of the norm that infinite is greater than finite - of what the se-
eond stage of the demonstration proved, namely perfection without
imperfection. The causal perfection was understood as infinite,
even in the seeond stage of the demonstration. But at that stage
Scotus, true to the Aristotelian form of the arguments, did not
eall attention to the fact that this perfection implied infinity in
being. He showed flrst lhat the perfeetion implied actual existence,
and then, without reference to that existence, that it implied inf-
inity in being. Perfeetion without imperfeetion, accordingly, is
what establishes actual existence. But perfection in the Aristotelian
sense would establish neither existence nor inflnity. Perfection
f or Aristotle had meant flnitude. Only when supreme perfection.
is considered as infinite may it be offered as a reason for actual
existence. Infinity, therefore, is the special characteristic which in
the proeedure of Duns Scotus proves both that God exists and that
the existent is God, according to the highest concept of Hi111- that
is naturally attainable.

The con~ent of the Scotistic demonstration, accordingly, bears


out what its introduction and its extemal structure indicated. The

,2 ltem sie suadetur: inflnitum suo modo non repugnat quantitati, id est
In accipiendo partem post partem; ergo nec Infinitum suo modo repugnat en-
titatl, id est in perfeetione simul essendo.
ltem, si quantitas virtutis est simplieiter perfectior quam quantitas molls,
quare erit Infinitum possibile in mole et non in virtute? Quod si est pos-
sibile, est in aetu, sieut ex tertia eonelusione patet, supra, de primitate eft'ee-
tiva, et etiam inferius probabitur. Ibid. nos. 134-135; p. 208. 1-7.
,a Cf.: Si autem intelllgatur absolute summum, hoc est, quod ex natur11
rei non possit exeedi, perfeetio llla expressius eoneipitur in ratione in/initi
entis; non enlm summum bonum indieat in se utrum sit finitum vel infinitum.
Op. 0-1:. 1, 3, 1-2, 4, no. 17; ed. Quaracchi, I, 314 (no. 348e). lt is in thb
baekground that the remark of E. Bettoni is to be understood: E' chiaro perö
ehe gia (i. e. at the third stage) a questo punto l'essere trascendente e rag-
giunto: il balzo fondamentale dal flnito all'inflnito, dall'essere diveniente
all'Essere indiveniente e gia eompiuto. E la vera prova dell'esistenza di Dio
sta qui. L' Ascesa a Dio in Duns Scoto, p. 56.
THE .SPECIAL CHAIIACTERISTIC OP THE SCO'J'ISTIC PROOP THAT GOD EXISTS 323

Franeisean thinker bases his reasoning entirely in the quidditative


order, allows the contingent existence of the manifest things to
be negleeted or eliminated, and reaches a being whose nature is
not immediately recognizable either as existent or as divine. The
perfection of that nature then proves both that it is existent and
that it is God. But to allow either of those conclusions, supreme
perfection has to be understood as infinite; and so in inftnity lies
the answer to the question of the special characteristic.

III. THE NATURE OF THE SCOTISTIC 'INFINITE BEING '•

But ' inftnity ' in regard to God has for Scotus a two-fold sense.
In one sense it. is naturally knowable to man, but as the basis for
the immediacy of the divine omnipotence and for the Trinity it is
known only by revelation.
To what extent, then, does the application of the univocally
eommon notion ' infinity ' identify with God the result of the Scot-
istic demonstration? Certainly it does not express the intrinsic
eonstituent of the divine nature as treated in theology, namely that
nature as haec, nature of itself individual. The whole coneeptual
eontent of ' infinite being ', as conceived by man in bis present
state, is universal in character and univocal to creatures. lt is
a combination of univocal and universal concepts which in exten-
sion is limited to God and is in this way proper to Hirn. But it
does not exhibit any simple nature which is proper to God. lt is
identifted with Him only per accidens. Of itself it does not show
that identity - Aristotle, rather, would be led to deny in it the
infinity even of power that is proper to the God of revelation. The
Christian theologian, however, can see in it a notion to wh.ich all
theological truths can be referred, even though it does not contain
those truths within itself. He can use it as a substitute for the
primary notion in theology, and in this way he sees that it is
identifted with · God in the sense that it can apply to no other
being than 'God '"· Thal is sufflcient for Duns Scotus' purpose in
the commentary on the Sentences.

'" For a textual study of this problem, cf. J. Owens, • Up to Wbat Point
is God Included in the Metaphysics of Dons Scotus ', Mediaeval Studies, X (Til48),
163-177. The main points may be seen illustrated in the following texts: Sie
etiam de ente inftnito, quamvis enim uterque conceptus simpliciter simplex sit
communior conceptu Dei, conveniens univoce Deo et creaturls, tamen post
determinationem uterque conceptus particularisatur, et fit conceptus proprius
Deo, sie quod solum illi convenit. Rep. Par. I, 3, 2, no. 10; ed. Vives, v. X~II.
32-1 JOSEPH OWBNS C. SS. R.

The Scotistic demonstration, therefore, from its basis in uni-


vocal quidditative natures, does not claim to express the intrinsic
constituent of the divine nature, nature of itself individual. The
Scotistic basis for such predication, namely real community, is in
this case entirely lacking ·411 • The proof of St Thomas, on the other
hand, from its basis in contingent existential act, does express the
metaphysical constituent of God's nature as existence which can
be the nature of no creature whatsoever and is therefore univocal
to no finite nature. The Scotistic proof by applying lhe univocal
notion of infmity to the univocal notion of being does not rise to
any content above created nature, but pin-points its ol>jective by
allowing two univocal natures to cross; while the Thomistic de-
monstration does not start with any created nature, but with an
act which is ,not grasped as a nature, and which leads to a nature
above the whole order of created natures, - a nature, howeuer,
which iSl not grasped as an act but is attain.ed only in so far as
it corresponds to the truth in human judgment 46 •
1>·97a. After giving the example that if one does not know what a triangle
ls one can abstract from other figures the notion of figure and from numbers
the notion of primary, and so have a concept restricted to triangle without
knowing the nature of a triangle, the text continues : Sie in proposito, possum
abstrahere conceptum a creatura, qui communls est Deo et creaturae, licet a
conceptu proprio Dei illum conceptum communem abstraherem; et sie verum
est quod in conjungendo illos simul, tantum convenit ille conceptus totalis
Deo, quem possum cognoscere, licet non cognoscam hanc essentiam, ut haec est,
cui convenit talis conceptus. lbid. p. 97ab.
Cf.: ... igitur Metaphysica et naturalis scientia sunt de eodem per accidens;
sed de Deo est naturalis magis per accidens, quia summa ,descriptio, ad quam
pervenit de ipso, quasi remotior est a quidditate Dei, quam summa Metaphysici.
Quaest ltletaph. I, 1, no. 49; ed. Vives, v. VII, p. 37a.
411 ... Deus et creatura non sunt primo diuersa in conceptibus; tamen sunt
primo diversa in realitate, quia in nulla realitate conveniunt;, ... Op. <n.
I, 8, 3, 1, no. 11; ed. Quar. I, 698 (no. 627). lt is here that Scotistic concepts
lose their peculiarly immediate contact with reality. Their universal predica-
bility is based upo~ the· real and positive community of the common nature
seen in sensible things. Thal nature is quidditatively being and is grasped
by the metaphysician in its natural priority to all individual and existential
differences (Op. O:,;. II, 3, 1, no. 7; ed. Quar. v. II, p. 229, no. 236), even
though unitive continence makes it contradictory for the nature to be found
anywhere whatsoever without its pertinent differences (cf. Quaest. Metaph.
VII, 13, nos. 20-21; ed. Vives, v. VII, pp. 420-421). - The result is a meta-
physical order which is utterly unknown to Thomistie thought, and which
establishes a different basis for predication and gives an altogether special
sense to the notions of 'univocal' and 'common •. But the divine nature is
of itself individual and so is a nature which excludes any real community with
other beings. Hence in the present state natural thinking alone cannot show
that there is any per se basis for including the divine nature within the range
of one's concept 'being •. According to merely natural knowledge in the
THE SPECIAL CHARACTERISTIC OF THE SCOTISTIC PROOF THAT GOD EXISTS 325

IV. THE STARTING-POINT OF D'UNS SCOTUS

In the light of the foregoing considerations, one may weil ask


two questions regarding the starting-point of Duns Scotus. First,
how does his initial concept of being, unlike that of St Thomas,
allow a conclusion to the existential order? S~condly, how does it,
so differently from that of Aristotle, allow its supreme perfection
to consist in infinity and not in finitude?
As regards the first question, Duns Scotus as a matter of fact
sees no altogether special type of being in existential act. He
continues to interpret existence, as used by Thomistic reasoning,
according to the Arabian conception of an accident naturally sub-
sequent to essence 47 • Why? There may be, of course, ample psycho-
logical and historical reasons. The natural propensity of the hu-
man intellect renders extremely difficult any thinking in terms
above the essential order 48 ; and the doctrine that· the proper act
and source of being in sensible things escapes the act of concep-
tualization and is grasped originally only in the judgment appears
in St Thomas without progenitors and has been seen by very few
who have lived after him, even among those who have read his
texts. But even apart from all such reasons, would not Scotus'
belief in the impaired capacity of the human intellect in its present
state prevent him from admitting that any higher level of being
was grasped in the act of judgment?
Duns Scotus maintains that the intellect in the present state
of fallen nature idoes not know by natural means what its own

present state, that concept is not seen to extend beyond sensible quiddity and
its derivatives. But through revelation the theologian knows G.od and knows
that the human intellect is of its nature meant to include God in its primary
object. He knows that God is the flrst being, etc., and so he sees that bis com-
mon and univocal concepts of 'flrst being ', etc., apply only to God even though
tbey do not express the divine nature. lln this w.ay only is he able to know
God through naturally formed concepts, and in this way he can apply those
concepts to God in their full univocal nature. Hence in this case there can
be community of concepts without a corresponding community of nature.
416 S T I, 3, 4, ad 2. The rest of the Tomistic procedure in treating the di-
vine natµre - quid non sit (S T I, 3, preamble) - is entirely by way of negation.
47 Nec possunt dicere quod esse angeli flnitet essentiam ejus, quia se-
cundum eos est accidens essentiae, et posterius naturaliter; .•. Op. Ox. • 1, 2,
1-2, no. 141; II, 211. 8-10. Similarly: ... esse est quid posterius essentiae; ...
Rep. Par. I, 2, 3, no. 3; ed. Vives, v. XXII, p. 70a.
418 On this point, cf. H. Bergson, 'Introduction a la Metaphysique ', Revue
de Metaphysique et de Morale, XI (1903), .2'7; E. Gilson, Le Thomisme (5e ed.,
Paris: Vrin, 1944), pp. 60-61.
326 JOSEPH OWBNS C, SS, R,

first object is. That object is being as being, even though to


Aristotle it appeared to be sensible being ""'. True, the intellect in
its present state cannot understand anything that is not contained
in the quiddity of sensible things IIO, But this consideration does
not allow the the.ologian to hold that the flrst object of the human
intellect is the quiddity of a material thing; for according to faith
the same intellect in a beatified soul, unchanged in its nature by
the lu.men gl<>riae, can kn.ow immaterial substance 111 • Rather, this
means that the nature (ratio) of being is common and univocal
to all things 42 • If it were not thus univocal, there would be no way
for the human intellect naturally to know God N. The concept
of being, even as taken from sensible things, is of itself indifferent
to the finite or the infinite 54 •
The human intellect, therefore, in its very first act grasps
without naturally realizing it the nature of being as such. No
matter what its state, it can know nothing whatsoever except in

4 9 Ad aliud negandum est quod assumitur, quod scilicet naturaliter cogno-


scitur ens esse primum obiectum intellectus nostri, et hoc secundum totam
indifferentiam entis ad sensibilia et insensibilia ..., Non sie Aristoteles; sed
secundum ipsum, primum obiectum intellectus nostri est vel videtur esse qui-
ditas sensibilis, et hoc vel in se sensibilis vel in suo inferiori; et haec est
quiditas abstrahibilis a sensibilibus. Op. Ox. Prol. I, 1, no. 33; I, 19. 12-20. 8.
Cf.: Sed primum obiectum intellectus nostri naturale est ens in quantum ens.
Ibid. no. 1 ; p. 2. 8. ... si ideo non cognoscitur quid sit obiectum primum intel-
lectus ..., lbid. no. 36; p. 21. 6-7. On this question, cf. E. Gilson, Jean Duns Scot,
pp. 12-35.
50 Tamen pro statu isto ei adaequatur in ratione motivi quidditas l'ei
sensibilis; et ideo pro statu isto non naturaliter intelliget alia quae non conti-
nentur sub illo primo motivo. Op. IOx. 1, 3, 3, 4, no. 24; ed. Quar, v. 1., p. 351
(no. 391).
51 Op. O:x:. 1, 3, 3, 1, no. 2; ed. Quar. v. 1, p. 330 (no. 372).
,1;2 ... omne per se intelligibile aut includit essentialiter rationem entis, vel

continetur virtualiter vel essentialiter in includente essentialiter rationem entis.


Op. Ox. 1, 3, 3, 2, no. 8; ed. Quar. 1, 338 (no. 381b).
53 ••• Deus non est a nobis cognoscibilis naturaliter nisi ens sit univo-
cum creato et increato. Op. Ox. 1, 3, 3, 2, no. 2; ,ed. Quar. v. I, p. 338 (no. 382b).
Cf.: ... et ita creaturae quae imprimunt proprias species in intellectu, possunt
etiam imprimere species transcendentium, quae communiter conveniunt eis
et Deo. lbid. I, 3, 1-2, no. 18; ed. Quar. I, 315 (no. 349). Like the concept
' being ' in which they are virtually included, it follows that the other tran-
scendentals, though actually indifferent to sensible and insensible being, cannot
be recognized according to .this indifference by the natural knowledge alone
of the human intellect in its present state.
u ... sed intellectus viatoris potest esse certus de Deo, quod sit ens, dubi-
tando de ente finito vel infinit 0, creato vel increato: ergo conceptus entis
de Deo est alius a conceptu isto vel illo, et ita neuter ex se, sed in utroque
illorum includitur ... lbid. no. 6; ed. Quar. I, 309 (no. 346b).
THE SPECIAL CHARACTERISTIC OF THE SCOTISTIC PROOF THAT GOD EXISTS 327

that first object, being as being. Knowing in its initial act the
full univocal nature of being, it has nothing more in this regard
to attain in any further act. To look for such special significance
in the second act, that of judgment, would be nugatory. In such
a doctrin.e the judgment may state a mode of being as a Dasein,
but lt can add nothing whatsoever in the nature of being as such.

From this initial conception of being likewise emerges the ans-


wer to the second question. Aristotle, confined to sensible nature as
the full extent of his starting-point, could see the perfection of being
only in limit. Scotus, believing that the first object of the intellect
had a much wider scope, saw the nature of being, even when known
in sensible things, as neutral to limit and to infinity; such being,
therefore, since it allowed the infinite, could find its supreme perfec-
tion in nothing less 611 •

The theology of Duns Scotus, accordingly, compells him as a


Christian to see in the object grasped by the first act of conceptua-
lization the full univocal nature of being. This nature extends to
everything that has the aspect of being, existence not excluded, and
so when undertood in the fullness of its perfection, that is, in its
intrinsic mode of infinity, it necessarily though without immediate
evidence includes existence. lt can be the starting-point for reaso-
ning to the existence of infinite being. St Thomas Aquinas, on the
other hand, sees in the first act of conceptualization only the nalure
of sensible being wich in no way includes the proper act of being;
but unlike Aristotle, St Thomas looks to the judgment for tµe ori-
ginal knowledge of the proper act of being, and only by reasoning
from that act can he reach the nature of being as such, wich is the
I am wlw am of Exodus.
611 Cf. supra, nn. 41-42. Also: ... cognito ente non statim occurrit intellec-
tui finitas; •.. Rep. Par. I, ,2, 3, no. 8; ed. Vives, v. XXII, p. 73a. The transcen-
dentals, accordingly, need not be identified with any specific nature: ••. omnis
pars essentialis in quocumque genere et omnis species cuiuscumque generis
includit limitationem, et ita quodcumque transcendens esset de se f initum,
et per consequens repugnaret Enti lnfinito, nec posset dici de ipso formaliter;
quod est falsum, quia omnia transcendentia dicuntur J1rf ectiones simpliciter
et conveniunt Deo in summo. Op. Ox. IJ, 3, 3, 2, no. 8; ed. Quar. v. I, p. 337
(no. 380h). The different cultural backgrounds of Aristotle and of Duos
Scotus have of course to be taken into consideration. The aim of the G.reek
culture was to express form, and so tended to see perfection in the finite only.
For Scotus, on the other band, centuries of Christian and Neoplatonic tradi-
tion placed the highest and most perfect above the llmited.
VIII.

REv. D. LUIGI BOGLIOLO S. D. B.


PllOFESSORE NEL PONTIFICIO ATENEO SALESIANO DI TORINO

L'INQUIETUDINE PSICOLOGICA NELLE PROVE TOMISTE


DELL'ESISTENZA DI D10

Premessa.
La parola inquietudine, in questa dissertazione, non vuol ave-
re altro significato ehe quello di S. Agostino contenuto nel celebre
adagio, motivo musicale dello spirito agostiniano, anima della sua
filosofia, posto, quasi epigraficamente, in capo ai libri delle Con-
fessioni: f ecisti nos ad te et inquietum est cor n,ostr.um donec re-
quiescat in tel (Conf. I, c. 1.). II sapere filosofico agostiniano e es-
senzialmente appassionata ricerca di Dio, ansia di volerlo piu per-
fettamente conoscere, amare, possedere. Vi e forse un agostinismo
eterno presente in ogni autentica prova razionale di Dio, e, piu par-
ticolarmente, nelle prove tomiste? Ecco l'interrogativo ehe non pre-
tendiamo di risolvere ma soltanto di avviare verso una risposta.
Una risposta a tale problema, per essere esauriente, esigerebbe un
impegno assai piu vasto di quello ehe e consentito dall'indole di
questo studio. Molte, e tutte attuali e interessanti, sono Ie questio-
ni implicate nel problema anzidetto.
Vi e implicata anzitutto la questione, molto dibattuta fra gli
Scolastici in generale, e fra i tomisti in particolare, del valore pro-
bativo dei cosi detti argomenti « psicologici ». Fra gli stessi tomisti
vi e infatti chi ne ammette e sostiene il valore, p. es. il P. Arnou,
nella sua The,ologw Naturalis; vi e invece chi li nega con accani-
mento degno di miglior causa. Fra questi, quale esempio tipico, ri-
cordiamo il nome di un tomista insigne, il cui valore e al di sopra
di ogni discussione: il P. G. M. Manser. II suo lavoro Das Wesen
des Thomismus, e senza dubbio una delle piu forti opere della re-
cente filosofia tomista. E' troppo importante ed urgente, atteso Io
attuale clima filosofico, dare una risposta possibilmente decisiva a
questo problema.
Vi e implicata inoltre la questione: se, e quale connessione vi
sia, fra gli argomenti ehe partono dal mondo sensibile esterno e
330 LUIGI BOGLIOLO S, D, B,

quelli ehe partono dai mondo spirituale dell'uomo, se e fino a qual


punto gli argomenti psicologici siano presenti nelle cinque vie to-
miste e negli altri simili argomenti e, viceversa, fino a qual punto
questi siano immanenti in quelli. Questione ehe non si puo risolvere
senza rispondere, in qualche modo, alla questione piu generale dei
rapporti f ra interiorita ed esteriorita del conoscere umano. E qui
veniamo a toccare un'altra questione phi generale ancol'.a: quali
siano cioe i rapporti fra psicologia e ontologia, fra queste due disci-
pline e Ia gnoseologia.
Da un punto di vista storico, ecco affiorare un'altra questione
di vivo interesse: quali siano cioe i rapporti fra agostinismo e to-
mismo, fino a ehe punto Agostino sia presente in Tommaso, e que-
sti abbia assimilato e inverato, in una sintesi nuova, l'agostinismo;
quale sia in·somma l'originalita del pensiero tomista; quanto, i due
massimi geni della cristianita, abbiano di comune e quanto di pro-
prio.
La questione proposta implica ancora il problema se, e in qua-
le misura, le prove tradizionali dell'esistenza di Dio, e segnatamen-
te le prove tomiste, possano venir incontro a soddisfare le attualis-
sime esigenze di pensiero: quella dell'interiorita esasperata dall'idea-
lismo, quella di un maggior impegno vitale, fatta drasticamente sen-
tire dall'esistenzialismo. Nessun dubbio ehe, da Blonde! ai giorni
nostri, un impegno umano phi profondo, piu sentito, phi vitale, piu
interioristico sia invocato da tutta la cultura occidentale. cristiana
circa le prove dell'esistenza di Dio. Solo cosi potremo smantellare
le preconcette accuse di esteriorismo, di cosmologismo~ di natura-
Iismo, di freddo intellettualismo, di astrattismo, ehe ancor oggi ven-
gono lanciate contro questo settore della filosofia Scolastica, sia
pure a torto.
Potremo infine risolvere un'altra questione, molto interessante
e importante dal punto di vista interno della Scolastica: se, e in ehe
senso, sia valida una prova dell'esistenza di Dio non soltanto in
ratione cau.salitatis efficientis, ma anche in rdtione causalitatis fi-
inalis.
Anticipiamo subito, genericamente, la risposta a tutti questi
interrogativi ehe abbiamo veduto susseguirsi, inseguirsi e impli-
carsi gli uni negli altri, e sorgere gli uni dagli altri. 11 pensiero del-
1'Aquinate ci sembra tanto ricco di suggestioni e di attualita da con-
tenere una sorprendente risposta affermativa, purche sia studiato
e veduto in tutto il suo grandioso contesto, senza isolame unilate-
ralmente gli aspetti.
11 procedimento tomista nel provare l'esistenza di Dio, pur par-
tendo e mantenendosi da e in una visuale aristotelica della realta,
L'INQUmT, PSICOL, NELLE PROVE TOMISTE DELL'ESIST, DI DIO • 331

approfondisee, sviluppa, generalizza, eompleta, ehiarisee fino ai li-


miti del possibile l'agostiniano: fecisti nos ad te et inquietum eat
cor nostrum donec requiescat in tel Eeeo eio ehe vorremmo rapi-
damente insinuare phi ehe provare.

L'INQUIET1JDINE INTELLETTUALE

11 P. Manser, nella sua gia eitata e per tanti aspetti ammirabile


opera, Das Wesen des Thomismus, afferma reeisamente ehe gli
argomenti psicologiei: seeondo la eoneezione tomista, si risolvono
in una flagrante petitio principii, in un eireolo vizioso ehe suppone
gia provato quello ehe vorrebbe provare 1 • Quanto verremo dieendo
vorrebbe essere una risposta a questa obiezione riportata, al di fuori
di ogni polemica minuta, ai principi generali del pensiero tomista,
tenuto presente nel suo rieeo e eomplesso eontesto, attinto non sol-
tanto alle f onti della Summa Theologiea, ma an ehe agli altri scritti
dell' Aquinate.
Oeeorre anzitutto precisare il signifieato di dilll()strazione. Se
il eoneetto dell'essere include ogni altro eone<etto, in modo ehe non
vi e nulla fuori dell'essere e la perfezione dell'essere e la perfezione
di ogni perfezione, l'atto di ogni attualita, eome ripetutamente af-
ferma S. Tommaso, (S. Theol. I, 4, 1 ad 3; C. G. II, 53; De Pot. III,
7; VII, a. 2, etc.) ogni dimostrazione sara primordialmente un pro-
cedimento ehe va dal medesimo al medesimo, dal medesimo es:.sere
prima eonfusamente conoseiuto al medesimo essere ehiaramente
eonosciuto 2 • In altre parole: ogni dimostrazione e un proeesso da
implieito ad esplicito, da eonfuso a distinto, da oseuro a ehiaro. Sen-
za dubbio e questo, seeondo l' Angelieo il signifieato primordiale
della dimostrazione 8 •
1 « Wlie kommt es nun, dass die Verteidiger des Gottebeweises aus dem
menschlichen Glückessehnen sich auf diese Natürliebe aller Dinge zu Gott stüt,
zen können, die ihrerseits die Kenntnis der creatio und der conser11atio und a
fortiori des Daseins Gottes bereits voraussetzt? Wie kommt das? Immer
dasselbe I Man setzt für Beweis der Existenz Gottes das Dasein Gottes voraus.
Wir haben eine fortlaufende petitio principii ! > (p. 342).
2 La parola italiana essere e ambigua: puo signiftcare tanto ens quanto
esse e sebbene fra questi due signiftcati vi sia naturale continuita, tuttavia
noi qui, evidentemente l'intendiamo nel secondo senso: l'esse.
s « Naturalis cognitionis est accipere principium et terminum. Principium
autem eins est in quadam confusa cognitione omnium, prout scilicet homini
naturaliter inest cognitio universalium principiorum, in quibus sicut in qui-
busdam seminibus vlrtute praexistunt omnia scibilia quae ratione naturali
cognosci possunt. Sed huius cognitionis terminus est quando ea quae virtute
in ipsis principiis sunt, explicantur in actum > (De verit. 18, 4; 10, 6. com. in
Poster. Analyt. 1, lect. 14 etc.).
332 LUIGI BOGLIOLO S. D. B.

La dimostrazione e, phi precisamente ancoJ;"a, un movimento


eireolare ehe va dal medesimo al medesimo, nel senso spiegato; un
movimento ehe traseorre, nel seno dell'essere, tutto per lo meno
eonfusamente eonosciuto, dal noto all'ignoto, meglio aneora dal-
l'attualmente noto a cio eh'e solo virtualmente eonoseiuto •. I due
termini, fra i quali si svolge il movimento eireolare, anteriormente
a qualsiasi diseorso, sono gia presenti nell'anima umana, sebbene
in modo diverso: l'uno ehiaramente, l'altro eonfusamente. S. Tom-
maso non e ne innatista al modo di Platone, per il quale imparare
non e altro ehe rieordarsi, ne puro deduttivista come tanti raziona-
listi e semirazionalisti moderni, per i quali imparare e seoprire qual-
eosa di assolutamente nuovo. Per via della eonoseenza intellettuale
dell'essere, ehe sta al principio di ogni diseorsivita umana, tutto si
fa presente allo spirito, ma in modo imperfetto, implieito, indistinto;
sara compito del ragionamento e della dimostrazione ehiarire, di-
stinguere, esplicitare. S. Tommaso sta di mezzo fra Platone per eui
ogni eosa e gia presente esplicitamente e ehiaramente allo spirito,
si tratta solo di svegliare questa conoseenza, e il razionalismo mo-
derno, per il quale nello spirito non vi e nulla, ma ogni eonoseenza
eoineide con una scoperta assolutamente nuova 15 •
Queste osservazioni generali sulla natura della dimostrazione,
rimettono in questione tutte le asserzioni del Manser. Non si puo
far della teodieea valida senza prima f are una buona metaflsica
della conoscenza e chiarire, fino ai limiti del possibile, la natura del-
la dimostrazione in generale, e tdella dimostrazione di Dio in par-
ticolare. Possiamo senz'altro eoncedere al Manser ehe la dimostra-
zione psieologica dell'esistenza di Dio, eome ogni altra dimostrazio-
ne e un circolo, ma non eerto un circolo vizioso.
La dimostrazione dell'esistenza di Dio assomiglia inoltre a un
cireolo, in quanto l'insufflcienza della realta finita sensibile genera
nello spirito l'inquietudine rieercante, il quale ritorna a studiare ed
analizzare la stessa realta sensibile, finche non riposi nella conqui-

• « Inquisitio rationis ad simplicem intelligentiam veritatis terminatur,


sicut incipit a simplici intelligentia veritatis, quae consideratur in primis prin-
cipiis; et ideo in processu rationis est quaedam convolutio ut circulus, dum
ratio, ab uno incipiens, per multa procedens, ad unum terminatur > (Comm.
in De Div. Nom. VII, lect. 2, n. 713).
15 « Conclusio quam quis addiscit per demonstrationem vel inductionem
nota erat non simpliciter, sed secundum quod est virtute in suis principiis.
Unde nec id quod quis addiscit, erat omnino prius notum, ut Plato posuit, nec
omnino ignotum ... sed erat notum potentia sive virtute in principiis praecogni-
tis universalibus, ignotum autem actu secundum propriam cognitionem. Et hoc
est addiscere reduci de cognitione potentiali seu virtuali aut universali in cogni-
tionem propriam et actualem > (Comm. in Poster. Analyt. I, lect. 3).
L'INQUIET. PSICOL. NELLE PROVE TOMISTE DELL'ESIST. DI DIO 333

sta dell' Assoluto. Questo fatto non e altro ehe la traduzione del prin-
cipio espresso da S. Tommaso cognoscens in actu est cognitum in
actu ehe puo invertirsi dieendo cognitum in actu est cog,noscens in
actu. L'atto del eonoseere realizza un'identifieazione fra soggetto e
oggetto, fra mondo esterno sensibile e mondo spirituale, fra ontolo-
gia e psieologia. Eeeo dove gli argomenti eosmologici e gli argo-
menti psieologici si saldano insieme, dove gli uni implieano gli altri,
gli uni sono immanenti negii altri. Non e possibile, su queste basi
gnoseologiehe e psieologiehe, ehe la finitezza delle eose ehe ci at-
torniano non si tramuti in angoseia spirituale, ehe e l'inquietudine
dell'intelletto ehe non si plaea finehe non abbia seoperta la sufficien-
za di ogni finitezza, nella seoperta di Dio. Quando l'intelligenza eer-
ea la giustifieazione del finito, nelle prove tradizionali, « ex rebus
sensibilibus », non vi e soltanto passaggio dal sensibile finito all'In-
finito, ma, simultaneamente, passaggio da un'inquietudine intellet-
tuale a un ripe>so spirituale. E' vero; in questo easo lo spirito foea-
lizza la sua attenzione sulla finitezza di cio ehe gli e esterno, senza
riflettere ehe nel medesimo istante in eui eonosee la realta estema,
questa e gia_ divenuta interna, senza badare ehe l'invoeazione della
finitezza ontologiea e simultanea, sebbene implicita, all'invoeazione
dell'inquietudine psieologiea. Ne oeeorre drammatizzare irraziona-
listieamente questo fatto, poiche I'inquietudine psieologica, fino a
questo momento, s'identifiea eon l'indagine ansiosa, ma non dram-
matiea, dell'intelletto rieereante. E' un'inquietudine ehe S. Tom-
maso tradurrebbe semplieemente eon la parola inquisitio. Va da se
ehe, trattandosi di una rieerea umana, non e possibile un'ansia del-
l'intelletto ehe non si rifletta su tutto l'uomo e divenga inquietudine
del euore e della volonta. Come si puo mettere l'aeeento sull'insuf-
fieienza del finito sensibile per affermare la neeessita di aseendere
all' Assoluto, eosi si puo aeeentuare l'inquietudine dello spirito per
giungere al Sommo vero, raggiunto il quale lo spirito riposa. Ognuno
dei segni della finitezza: il divenire, l'efficienza subordinata, la eon-
tingenza, la menomazione o imperfezione dell'essere, l'ordine del-
ta natura, dai quali prendono l'avvio le cinque vie tomiste, ed ogni
altro aspetto del finito crea la spinta inquirente dell'intelletto, l'in-
quietudine intellettuale ehe spinge irresistibilmente lo spirito umano
oltre tutto cio ehe e finito. Ognuno degli argomenti ehe partono
dalla finitezza sensibile del reale eela la spinta psieologiea della
mente verso il Sommo Vero, ognuno di questi argomenti eela l'ar-
gomento psicologieo della naturale tendenza dell'intelletto verso lo
Infinito. S. Tommaso, partendo dal fatto ehe l'intelletto puo sempre
pensare una quantita maggiore di qualsiasi data quantita finita, eo-
struisce un argomento psicologico via intellectus, ehe esprime mol-
33' LUIGI BOGLIOLO S, D, B,

to bene la psicologia immanente agli argomenti partenti dal sen-


sibile finito. c lntellectus ,wster intelligendo aliquid in infinitum
extendif.ur, cuiu.s signum ut qr.wd, quantitate finita data, intellec-
tw majorem exco,gitare possit; f rustra tamen esset haec ordinatio
intellectus dd infinitum, nisi esset aliqua res intelligibilis infinita;
oportet igitur aliq,uam rem infinittim esse quam oportet esse mazi-
mam rerum et hanc dicimus Deum > (C. G. I, 43). Meglio non si
potrebbe esprimere l'atteggiamento mentale in qualsiasi prova del-
l'esistenza di Dio. L'argomentazione, implicita in tutte le altre ar-
gomentazioni, e sempre questa. Non importa ehe si consideri il di-
veniente, il contingente, l'imperfetto nell'essere, ognuno di questi
aspetti e un c signum > dell'c ordinatio intellectw ad infinitum >,
ord.i.natio ehe sarebbe vana, anzi negherebbe se stessa se non esistes-
se una c res intelligibilis infinita > ehe chiude il discursw intellet-
tuale, ne placa l'inquietudine, f a riposare lo spirito. La conquista
di Dio e davvero il supremo riposo dello ~pirito umano al di qua
della fede, lo sbocco dell'inquietudine naturale dell'intelletto nella
quiete riposante di una conquista sospirata. L'argomento costruito
da S. Tommaso sulla naturale tendenza dell'intelletto fl vero infi-
nito si puo anche costruire partendo da ognuna delle cinque vie
della Somma e da ogni altro argomento del genere. Ogni argomento
cosmologico fa sorgere necessariamente l'argomento psicologico ex
naturali ordinatit>ne intellectus ad infinitum, perche prima ancora
di rivelare Dio, rivela la struttura dell'intelligenza umana. E' dunque
impossibile scindere gli argomenti cosmologici da quelli psicologici
e questi da quelli: mutuamente si contengono, mutuamente si spie-
gano, mutuamente si chiariscono, mutuamente si sostengono, sieche
stanno o cadono in-sieme.
II primo significato dell'inquietudine psicologica e quello della
inquietudine intellettuale. Ogni ricerca, ogni dimostrazione, ogni
discorso mentale e inquietudine, massimamente quando si tratta del
problema di Dio in cui l'uomo si sente personalmente in causa. Ogni
discorso mentale comincia dalla quiete (dall'immobile) e finisce nel-
la quiete 6 • S. Tommaso distingue dunque nel famoso adagio ago-
stiniano vari significati di cui il primo e senza dubbio il seguente:
inq-uietus est intellectw ncuter donec requiescat in tel L'intelletto
umano e naturalmente inquieto, non trova riposo se non nell'affer-
mazione dell' Assoluto. E' la naturale conclusione psicologica pre-
sente in ognuna delle cinque vie della Somma Teologica. II primo
significato ehe I' Aquinate conferisce all'inquietudine psicologica nel-

a S. Theol. I, q. 19, a. 8, c.; a. 12, c.


L'INQUIET, PSICOL, NELLE PROVE TOMISTE DELL'ESIST, DI D1O 335

le prove dell'esistenza di Dio e dunque di sapore schiettamente in-


tellettuale.
La validita dell'argomento ex naturali tendentia intellectus ad
infinitum puo essere stabilita solidamente sulle seguenti ·considera-
zioni:
a) II vero finito e particolare sta al vero infinito e totale, co-
me la parte sta al tutto, ma la parte dice essenziale riferimento al
tutto e rimane inintelligibile senza questo riferimento essenziale,
cosi il vero finito e particolare (vero finito e particolare ehe coincide
con l'essere finito e particolare), dice essenziale riferimento al Vero
lnfinito e totale. Ecco cio ehe giustifica e spiega l'ordinatio naturalis
dell'intelletto a Dio, come « res intelligibilis infinita >. Ecco perche
l'intelletto umano non si ferma, rimane inquieto di fronte a qual-
siasi particolare vero, ecco perche e irresistibilmente sospinto a tra-
scenderlo.
b) Ogni negativa si fonda su un'affermativa. 11 principio e di
valore assoluto e universale. La proposizione; « l'intelletto non puo
riposare in nessun vero particolare e finito > sottintende e s'appog-
gia sull'affermativa: « l'intell~tto riposa soltanto nel raggiungimento
del vero infinito e totale. Ecco di nuovo perche l'intelletto si trova
naturahµente sospinto verso l' Assoluto.
c) Ogni tendenza naturale e una relazione e ogni relazione
ha sempre due termini e quando si tratta di una relazione concreta-
mente presente nell'esperienza umana, i due termini debbono essere
concreti. Nel caso nostro abbiamo una tendenza concreta, esisten-
ziale, coscienzialmente sperimentale, dell'intelletto verso un vero
ehe trascende ogni vero finito e particolare. Conosci3:mo uno dei ter-
mini: l'intelletto umano, dunque deve esistere anche il secondo ter-
mine (il terminus ad q.uem) della relazione tendenziale dell'intellet-
to. Se, per ipotesi, non esistesse questo secondo termine verrebbe di
fatto negata l'esistenza e la concretezza della tendenza naturale, co-
sa impossibile perche l'esperienza si spiega e non si nega.
d) Ogni tendenza naturale e talmente unita alla natura da
cui procede ehe, posta l'una deve porsi l'altra, distrutta l'una deve
distruggersi l'altra. L'affermazione della tendenza naturale deWin-
telletto coincide con l'affermazione dell'esistenza dell'intelletto e vi-
ceversa, come la negazione della tendenza naturale implica la nega-
zione della natura.
Sono affermazioni ehe meriterebbero ben piu ampia documen-
tazione. Ne sarebbe difflcile il farlo, se non esorbitasse dai limiti di
questa dissertazione. Osserviamo soltanto ehe quanto abbiamo det-
to circa il valore di quest'argomento psicologico, non e qualcosa di
isolato, nel pensiero di S. Tommaso, ne e uno degli asp.etti fonda-
336 LUIGI BOGLIOLO S. D. B.

mentali ed essenziali. Nel terzo libro della Summa Contra Gentiles,


prima d'iniziare l'aseesa a Dio mediante Ia naturale tendenza della
volonta al bene totale ( ee. 26-37), prova la naturale tendenza del-
I'intelletto a Dio eome Sommo Intelligibile: « intelligere Deum ,est
finis omnis intellectualis siubstantiae » (e. 25). E dopo aver dimo-
strato ehe il Sommo Bene dell"uomo e Dio, eonelude ehe il Sommo
Bene sta nella eontemplazione di Dio. E' il sano intellettualismo to-
mista ehe non laseia travolgere l'uomo da una volonta cieea e ar-
bitraria. Qui evidentemente abbiamo gia riferimenti all'ordine so-
prannaturale, ma prima aneora di ogni riferimento alla rivelazione,
la riflessione naturale seopre ehe l'intelletto e portatQ a riposare
soltanto nella conoseenza di Dio, senza poter dire in ehe modo que-
sta eonoseenza sia possibile e eome si realizzi.
Per meglio eomprendere il signifieato della dimostrazione del-
esistenza di Dio, oeeorre pure eomprendere il signifieato della dimo-
strazione ex effectu ad causam. Ma questo non e possibile, se prima
non precisiamo aeeuratamente il signifieato del rapporto eausa-ef-
fetto. Se tutto e ineluso e presente nel eoneetto dell'essere, vi sa-
ranno anehe inclusi l'effetto e la eausa. Non e possibile fra l'uno
e l'altra una distanza spaziale, un passaggio nel senso vero e pro-
prio della parola ehe impliehi le categorie della materialita. Si trat-
ta di passaggio soltanto in senso metaforico, di passaggio da im-
plicito ad esplieito. Nello spirito umano sono presenti ed immanen-
ti tanto l'effetto quanto Ia eausa, sebbene diversaniente: l'effetto
(le eose sensibili), in modo ehiaro e distinto, la Causa in modo oseu-
ro e indistinto. Argomentare l'esistenza di Dio dalle eose sensibili,
passare dalle une all' Altro, non puo preseindere da questo signifi-
eato {ondamentale e primigenio della dimostrazione. Solo eosi San
Tommaso potra affermare ehe tutti i eonoseenti eonoseono sempre
Dio, implicitamente, in qualsiasi eosa eonoseiuta: « Omniia oogno-
scentia oogn.oscunt Deum implicite in qu.olibet oognit!> » (De Verit.
q. 22, a. 2," ad 1). Ne potrebbe essere altrimenti quando si eonsideri
ehe il rapporto causa-effetw, si puo tradurre analogameilte nel rap-
porto tutt~rte, poiehe tutto cio ehe e nell'effetto e nella eausa
(prendiamo evidentemente la eausa eome eausa e l'effetto eome ef-
fetto). L'effetto non e altro ehe una partecipazione della perfezione
della eausa. La dottrina della eausalita, sotto un eerto aspetto, eoin-
cide eon la dottrina della parteeipazione. Fra effetto e eausa si ve-
rifiea sempre il rapporto di parteeipante a parteeipato. L'effetto ha
sempre, ,parzialmente almeno, quello ehe la eausa ha totalmente.
« Participare nihil aliud est quam partialiter accipere » (De Caelo
et Mundo, Ieet. 10, n. 463). ll rapporto di eausalita e analogo al rap-
porto fra eontenente e eontenuto, analogo soltanto, perehe e un rap-
L'INQUIET, PSICOL, NELLE PROVE TOMISTE DELL'ESIST, DI DIO 3!7

porto superspaziale e supennateriale e dunque e molto piu imma-


nente l'effetto alla eausa ehe qualsiasi eontenuto in qualsiasi eon-
tenente materiale. Effetto e eausa sono eomunque presenti e imma-
nenti, intenzionalmente nel pensiero umano eon il eoneetto dell'es-
sere.
Aneora una volta: argomenti psicologiei e argomenti ontologi-
ei si trovano mutuamente eompresenti e eompenetrati. Rimane tan-
to diffieile isolarli, quant'e diffieile, anzi impossibile, isolare qualsia-
si partieella di realta dall'essere.
Una separazione fra esteriorita e interiorita, fra argomenti psi-
eologiei e argomenti eosmologiei, non ha piu senso sia ehe noi eon-
sideriamo il rapporto soggetto-oggetto ( conoscente-conosciuto), sia
ehe noi consideriamo il rapporto causa-effetto. Nell'atto del cono-
scere subiectum rogrwscens fit ipS1um obiectum cognif.um, si stabili-
sce fra l'uno e l'altro un'identita intenzionale, ehe, senza sopprimere
o sacrificare l'uno all'altro li fa convivere in intima comunione. Nel-
l'ordine intenzionale esteriorita e interiorita sono categorie supe-
rate perche l'intendere e di ordine spirituale. Una separazione fra
esteriorita e interiorita non ha piu senso nemmeno quando noi con-
sideriamo il rapporto fra effetto e causa, perche il rapporto di cau-
salita e nell'ordine dell'atto, della forma, e come tale e superiore
alle categorie sopraddette. Dunque l'inquietudine psicologica e va-
sta e profonda quanto vasta e profonda la nozione dell'essere, va-
sta e profonda quanto vasto e profondo e l'universo finito, ma lo
trascende come lo spirito umano trascende l'universo sensibile.

L'INQUIETUDINE DELLA VOLONTA

Nihil in ooluntate quod prius non f uerit in intellectu. La profon-


dita dell'intelletto diviene profondita della volonta, l'inquietudine
psicologiea dell'intelletto diviene inquietudine psicologiea della vo-
lonta. I migliori tomisti ammettono la validita dell'argomentazione
ehe parte dal desiderio della f elicita, da S. Tommaso magistralmen-
te delineata prima nella Summa Contra Gentiles (dal c. 26 al c. 37)
e poi nei 16 articoli della Summa Theologiea (1-Ilae, qss. 2a et 3a.).
E' una magnifiea dialettica ascensionale ehe, passando in rassegna
i beni materiali e spirituali dell'uomo, viene a scoprire ehe la feli-
cita umana non puo consistere in alcun bene partieÖlare e finito,
· sia materiale sia spirituale, ma soltanto nel possesso di un Bene
Infinito e Sommo, cioe di Dio. Tutti gli argomenti ehe abbiamo por-
tato per la validita dell'argomento dana· tendenza naturale dell'intel-
letto al Vero Infinita, valgono esattamente, in modo parallelo, per
22 - Studl (lloaoflcl
338 LUIGI BOGLIOLO S, D, B,

la tendenza della volonta al bene infinito. Questa partieolare strut-


tura della volonta la possiamo eonstatare anzitutto nella nostra espe-
rienza psieologiea di fronte ai beni partieolari di questo mondo. Tro-
veremo, di nuovo, una tendenza eonereta ehe s'identifiea eon una
relazione eonereta, di eui eonoseiamo un termine e dal quale per-
veniamo alla conoseenza dell'altro termine, ehe dev'essere altret-
tanto eonereto ed esistenziale quanto il primo termine della rela-
zione. Ma si puo anche scoprire la natura della volonta partendo
dalla natura dell'intelletto, anteriormente conosciuta. Vi e infatti
un rapporto ben definito fra l'intelletto e la volonta, rapporto ehe
possiamo esprimere in questo modo: « voluntaa sequitur intellec-
tum, modua agendi voluntati, aequitur modum agendi intellectu,,
e, piit precisamente aneora: modua tendendi volunt.atia aequitur mo-
dum tendendi intellectu,. Fra l'intelletto e la volonta vi e un rap-
porto molto simile al rapporto fra e88ere ed agire. Come l'agire sca-
turisee dall'essere, e dall'agire si misura l'essere, eosl dal modo di
essere dell'intelletto si puo ricavare il modo d'essere e la struttura
della volonta e la sua tendenza naturale piit profonda. Come l'in-
telletto non puo riposare in aleun vero partieolare, eosi la volonta
non puo riposare in aleun bene partieolare. II parallelismo e per-
f etto e indiscutibile. Non per nulla S. Tommaso ehiama, eon espres-
sione profondamente significativa, la volonta appetitus intellectualia.
Abbiamo di piit: in questa visuale l'aseesa a Dio per via della vo-
lonta e del cuore viene sgombrata da ogni torbido irrazionalismo.
La inquietudine della volonta diviene altrettanto chiara quanto la
inquietudine dell'intelletto. Ora possiamo veramente dire: fecisti
nos ad te et inquietum est cor nostr-um dt>nec requiescat in te / La
volonta e il euore e tutta la zona dei sentimenti veramente umani,
immanente nella volonta, e anteriormente immanente nell'intellet-
to, nel quale tutto si chiarisce, prende significato e giustificazione.
La posizione tomista nelle prove ontologieo-psieologiche dell'esisten-
za di Dio spazza via d'un eolpo le nebbie dei morbosi e nebbiosi senti-
mentalismi dell'antintellettualismo contemporaneo. Tutto cio ehe vi
e di veramente umano nei sentimenti, nel cuore, nella volonta uma-
na, viene incorporato nella prova tomista, ma snebbiato e liberato
da qualsiasi zavorra volontaristica o sentimentalistica nella limpida
sfera dell'intelletto onnicomprendente ogni realta, perche attingen-
te l'ens in ·q.uantum ena. Nell'ens, la primordiale di tutte le nozioni
tutto e presente e immanente in modo intenzionale e la vita intenzio-
nale e infinitamente piit rieea e profonda ehe la vita dell'universo
materiale.
Come l'inquietudine dell'intelletto rieereante si plaea soltanto
nella conquista dell'lnfinito, eosl l'inquietudine della volonta e del
L'INQUIBT, PSICOL, NBLLE PROVE TOMISTE DBLL1ESIST. DI D10 339

cuore rimane angoscia priva di vera f elicita, finehe non riposi nel
Sommo Bene.
Nella posizione toll\ista prende signifieato ogni possibile dimo-
strazione dell'esistenza di Dio. Fuori di questa visuale, quando il
euore, il sentimento, la volonta prendono il sopravvento sull'intelli-
genza, viene distrutta, in radiee, la stessa possibilita di un'auten-
tiea dimostrazione umana dell'esistenza di Dio.

L'INQUIETUDINE COSMICA

« Superiora sunt in in/eriorib-us secu,ndum participationem, in-


/ eriora vero sunt in superioribus per excellentiam qumndam » ( Com-
ment. in De Div. Nom. e. 4, leet. 5, n. 340). Gli esseri inferiori parte-
eipano degli esseri superiori e sono negli esseri superiori secundu.m
excellentiam quamdam. Vi e negli esseri inferiori all'uomo qualco-
sa di eio ehe vi e nell'uomo. Questo e ehiaro anzitutto per gli esseri
dotati di conoseenza sensitiva: c sensius est quaedam deficiens par-
ticipatio intellect-us » (S. Theol I, 77, 7, e.). L'Angelieo e sempre
eoerente a questa dottrina. L'intellettivita, la volonta, la libert:i, sono
in qualche modo parteeipate, negli esseri inferiori, nella misura del-
la loro perfezione. Si tratta e vero, soltanto di vestigia d'intellettivita
e di liberta, ma eio permette a S. Tommaso di estendere l'inquietu-
dine psicologica dell'uomo a tutto l'universo, nel senso ehe ogni
tendenza naturale a un bene si risolve, in ultima istanza, in un de-
siderio piu o meno esplieito di i>io. La ragione ultima di questo
fatto I' Angelieo la scopre nella dottrina della causalita. c Omnis ef-
1ectus convertitur ad causam a qua procedit ... Cuius ratio est quod
unaquaeque res C011lvertitur ad suum bonum ,appetendo illud; bonum
autem effectus est ex sua causa unde omnis effectus converfit.ur ad
sua.mcausamappetendoipsam » (Comment. in De Div. Nom. I, leet. 3,
n. 94). II fatto qui e stabilito a priori, partendo dalla eausa, ma se
veramente e eosi, dev'essere possibile stabilirlo anehe a posteriori:
e eio ehe avviene nelle cinque vie. Ogni qualvolta la realta sensibile
rimanda al Creatore, attraverso ognuna delle cinque vie, disvela il
suo desiderio, la sua sete di Dio. « Desiderant omnia divinam bo-
nitatem ut finem » (Comment. in De Div. Nom. IV, lect. 2, n. 317)
e ancora « omnia convertuntur per desiderium in Deum » (Ibid.,
n. 382) e altrove « .omnia intendunt assimilari Deo » ( Cont.
Gent. III, e. 19). E poiche ogni tendere naturale si risolve in movi-
mento, ogni movimento si risolve in desiderio di Dio, anzi tutti il
dinamismo eosmieo non e altro ehe desiderio metafisico di Dio.
Questo desiderio metafisieo, quest'intenzione eosmiea universale ehe
340 LUIGI BOGLIOLO S. D. B.

negli altri esseri e destituita di coscienza, nell'uomo diviene coscien-


te. L'intenzione metaflsiea universale, ehe e anehe universale ango-
seiante desiderio di Dio, nell'uomo diviene eoseiente, libero, morale.
L'uomo ha il eompito di essere l'interprete dell'universo. Rieapito-
lando e eompendiando in se la realta tuttä, diviene il portavoee di
tutti gli esseri. La seoperta della struttura finalistiea della psiche
umana eoineide eon la seoperta della struttura finalistiea del eosmo,
tutta presente, intenzionalmente, nell'intelletto umano. L'inquietu-
dine interiore dell'intelletto e della volonta umana sono lo speeehio,
la voee, la sintesi dell'universale nostalgia di Dio. L'aseesa tomista
a Dio appare allora nient'altro ehe una eco schiarita e approfondita
di quanto gia affermava S. Agostino: c ecce coelum et terra; clamant
quod /acta sunt, mutantur enim atque .uariantur. Quidq.uid enim
factum non est, et tamen est 111>il est in eo quidquam quod antm non
erat, quod mutari atque uariari ... Tu ergo, D.omine, fecisti eti; qui
pulcher es, pulchra sunt enim, qui bonus es, bona sunt enim; qui
es sunt enim > (Conf. XI, e. 4).
Corretto, inverato, superato, quanto v'e di vero in Platone,
in Plotino, in Agostino v'e pure in S. Tommaso.
L'aseesa della ragione all' Assoluto e una e molteplice. E' una
eom'e uno l'essere, moltepliee eom'e moltepliee l'essere flnito. E eo-
me tutti gli esseri e tutti i pluriformi aspetti dell'essere sono fra
loro correlati e mutuamente implieantisi, eosi tutte le prove .dell'esi-
stenza di Dio sono mutuamente correlate e implieantesi. Ogni auten-
tiea dimostrazione impliea ogni altra possibile dimostrazione; da
ogni prova si potrebbe rieavare ogni prova. E ognuna segue la
medesima dialettiea aseensionale: la suffleienza dell'essere e nel-
l'essere, eio ehe si rivela insuffleiente nell'essere ha la sua suffl-
eienza in qualehe altro essere, e in ultima istanza nell'Essere As-
soluto, eioe pienamente autosuffleiente.
L'inquietum est cor nOSttrum, ehe in S. Agostino e come una
melodia, diviene, in S. Tommaso, meravigliosa sinfonia; mentre in
Agostino rimane avvolto da una eerta opaeita ehe ha dato ansa agli
antiintellettualisti di riehiamarsi a lui, in S. Tommaso viene deci-
frato, chiarito, approfondito, sviluppato in una concezione umani-
stica phi integrale e piu realista.
Questa difesa degli argomenti psieologiei potrebbe forse ingene-
rare il dubbio se sia aneora possibile, in questa eoneezione, salvare la
distinzione fra ordine naturale e ordine soprannaturale. Rispondia-
mo: seoprire Dio non signifiea aff'atto scoprire l'ordine soprannatu-
rale, giungere a Dio attraverso la naturale tendenza dell'intelletto e
della volonta non signifiea aff'atto giungere all'ordine soprannatu-
L'INQUIET. PSICOL. NELLE PROVE TOMISTE DELL'ESIST. DI DIO 341

rale. L'uomo appare naturalmente ordinato e orientato a Dio con tut-


ta la sua intelligenza e tutta la sua volonta, appare orientato a pos-
sederlo con l'intelletto e con la volonta, ma non appare affatto in
ehe mod.o eio avvenga. Senza una rivelazione il mod.o soprannatu-
rale del possesso di Dio rimane affatto irraggiungibile eon la sola
ragione. Diee benissimo l' Angelieo : « est igitur ultimus finis hl>mi-
nis intelligere quoquo modo Deum (C. G. III, 25). L'uomo e desti-
nato, per tutto il suo intelletto e per tutta la sua volonta, a eonoseere
e amare Dio, in un modo o in un altro, in un modo pero ehe la ragio-
ne non ha nessun mezzo di preeisare. Sara d'immenso giubilo allo
spirito quando la Rivelazione viene ad insegnare ehe non soltanto
l'uomo e destinato « quoquo modo > a Dio, ma e destinato a parte-
cipare alla Sua stessa vita divina. La rivelazione supera ogni aspet-
tativa della ragione.
Chi volesse negare il signifieato e il valore degli argomenti psi-
cologiei dovrebbe neeessariamente negare anehe la dottrina tomista
dell'amor naturale di Dio, una delle dottrine piu luminose e affasci-
nanti dell' Angelieo Dottore e strettamente solidale con tutto cio ehe
finora siamo venuti dieendo. L'istinto piu profondo della ereatura e
quello di amare Dio. « Quia igitur bormm universale est ipse Deus,
et sub lwc borw continetur etiam Angelus et homo, et omnis crea-
tura, quia omnis creatura naturaliter secundum id qrrod est, Dei
est, sequitur quod, naturali dilectione, etiam Angelus et homo plus
et principaliter diligat Deum quam seipsum > (S. Theol. I, q. 60, a.
5, e.). Vi e dunque nell'uomo, eome ereatura un istinto piu profon-
do dello stesso istinto di eonservazione, presente in tutti, buoni e
eattivi, dotti e ignoranti, anteriore a qualsiasi esplieita eonoseenza
di Dio, ehe l'uomo segue anehe quando erede di andar eontro Dio;
l'istinto di amar Dio piu di se stesso. Come in ogni eosa eonoseiuta
l'uomo eonosee implieitamente lddio, eosi in ogni bene amato,
l'uomo ama implieitamente lddio: « in omni autem bon.o particu-
lari refulget Prim-um Bon um, ex quo habet qU;Odlibet bonum q-uod
sit appetibile > (In De Div. Nom. I, leet. 3, n. 95).
IX.

R. P. REN~ A.RNOU S. I.
DBCANO DBLLA FACOLTA FILOSOFICA NBLLA PoNT. UNIVBRSITA. GRBOORIANA

Dli:SINTli:RESSEMENT ET TRANSCENDANCE

1. LE SElllTIMENT DE TRANSCENDANCE ET L'AMOUR-PROPRE

S'il faut en croire Leon Brunschvicg, la foi en Dieu est une


ereation de l'amour-propre: un croyant est toujours un homme
qui plus ou moins consciemment cherche son bonheur. Dans l'äme
sincere et genereuse qui se renonce le sentiment de transcendance
neeessairement s'effondre. Ce desinteressement est la vraie eon-
version, qui ouvre la voie de la verite,_ c'est a dire de la parfaite
immanence. On ne ferait pas tort, je erois, a Leon Brunschvicg en
formulant ainsi une des principales conclusions de son livre sur
La Raiaon et la Religion (Paris, Alcan, 1939).

Un etre transeendant, pense-t-il, serait s'il existait une chose


au-dessus d'une autre, un absolu au-dela d'un autre. Le sentiment
de la transcendance suppose donc le sentiment de l'absolu, ~u plu-
tl>t de deux absolus, de deux en soi qui s'opposent, Brunsehvicg
dit meme: et qui se limitent, l'un qui est un centre de reference
interieur auquel instinctivement nous rapportons le monde et les
autres hommes: c'est notre personne; l'autre qu'une imagination
en hauteur projette au-dessus de nous et auquel nous nous rap-
portons nous-meme. Et de l'un et de l'autre l'origine doit etre eher-
chee dans la tendance profondement ancree et presque irresistible
qui nous pousse a chercher en tout notre propre interet, qui postule
l'existence et d'un sujet capable de desirer, de prendre, et d'une
ehose qu'il puisse s'approprier.

La personne en effet n'est pas autre chose que « le sujet au-


quel nous appliquons le pouvoir general de coordonner les phenome-
nes autour d'un certain centre »; eile est un centre d'attribution et
en derniere analyse, une ereation de l'amour-propre, qui porte
avec evidence la marque de fabrique; car eile est centree sur elle-
meme, rapporte tout a soi, juge de tout en f onction de l'interet
344 RENE ARNOU s. I.

qu'elle y trouve. Vanite anthropocentrique, qui se paie bien eher:


incame dans le systeme clos d'une chose en soi, le moi personnel,
loin de trouver la les conditions du progres, est attache et rive a
un interM particulier, done limite, asservi.
La transeendanee divine, ou plutöt la eroyance, le « sentiment >
que nous en avons, a la meme origine, e'est a dire notre interet a
voir satisfaits « les besoins organiques » qui jouent un röle predo-
minant dans les fins de notre action et les mobiles de notre eon-
duite. Brunsehvieg eroit en trouver la preuve dans les arguments
que l'on apporte d'ordinaire pour demontrer l'existence de Dieu:
le principe de causalite lui-meme, le nerf de toute l'argumentation,
n'est pas autre ehose qu'un instinet deforme par les manreuvres
de l'interet propre. Cet instinct est celui-la meme qui pousse tout
besoin au but que la nature lui assigne; on le deforme, en substi-
tuant a eette finalite immanente une finalite transeendante de type
anthropomorphique. Et cette substitution se fait a la faveur d'un
comportement soeial qui devient plus complique, lorsque les fa-
cultes cerebrales se developpent, que les moyens artifieiels se mul-
tiplient devant notre aetion. Si alors, apres avoir employe les
moyens qui nous paraissent appropries, nous manquons le but,
« nous sommes immediatement persuades que e'est pareequ'une
volonte s'y est opposee, plus efflcace que la nötre, mais de mame
type qu'elle ».
La eause - et la cause premiere comme les autres- - , nous la
considerons eomme une sorte de volonte eaehee dans les choses,
qui prend part pour ou contre nous: projection manifeste d'une
experience intime dans un univers ou nous nous persuadons que
tout eonverge sur nous, que tout doit eire qualifie par rapport a
notre personne. Ce qui suscite partout des causes, ee qui nous
porte au sentiment d'une cause premiere transeendante, c'est done
notre interM, le desir que nos besoins puissent etre satisfaits, plus
eneore la crainte de ce qui nous empeehe de les satisfaire.
En -somme, le terme de la recherehe, comme la reeherche elle-
meme, comme le sujet qui eherche en tant qu'il s'oppose eomme
une personne a une autre personne, tout cela est le produit d'un
desir dont l'origine est dans la nature physiologique et qui, meme
lorsqu'il se deeore du nom de pur amour, est eneore et toujours
recherche de soi.
DESINTEBESSEMENT ET TRANSCENDANCE 345

II. PAR LE DESINTERESSEMENT ON FAIT RETO'tJR A LA .VERITABLE


JMMANENCE SPIRITUELLE

lUre desinteresse, c'est avoir renonc~ a soi, renonce a ce moi


dont le Pascal des PenseeS1 a dit qu'il est « haissable >, « injuste >,
qu'« il se fait le centre de tout » (Pensees, ed. Brunschvicg, n. 455),
que sa nature « est de n'aimer que soi et de ne considerer que soi »
(n. 100), pire encore, que c'est un instinct qui porte l'homme « a
se faire Dieu » (n. 492). On connait la sentence impitoyable de Pas-
cal: « La vraie et unique vertu est donc de se hair »; mais c'etait
pour conclure enfin qu'il faut « chercher un etre aimable pour l'ai-
mer >. Et comme nous ne pouvons aimer ce qui est hors de nous, il
faut aimer un ~tre qui soit en nous et qui ne soit pas nous ... Or
il n'y a que 1'8tre universel qui soit tel » (n. 485); et il se jetait
tete baissee dans la foi. Brunschvicg, pour qui ce geste irrationnel
est un manque de fidelite a la lumiere interieure, se contente d'ac-
cueillir la consigne de son allie d'occasion, en l'interpretant comme
un imperatif d'arrachement a la nature, c'est a dire comme « une
negation fondamentale de tout donne exterieur », et c'est selon lui
la condition de la vraie spiritualite, en meme temps que le retour
a l'immanence idealiste. '
II f aut depouiller le vieil homme « que notre enfance a he-
rite de l'instinct naturel et de la tradition sociale et qui s'est com-
me incorpore a notre substance ». II faut a la lettre nous quitter
nous-memes. Le « couteau » dont parle l'~vangile doit penetrer
jusque-la. C'est a dire:
II faut en finir une bonne f ois avec l'imagination d'une ame
cach~e derriere sa spiritualite, « en soi », realisee c'est a dire chan-
gee en chose, materialisee. Tandisque le cri de l'instinct naturel est:
« Je veux qu'on me distingue », au contraire le sage qui, a la suite
de Spinoza, se laisse guider par la Raison n'attend rien, ne deman-
de rien pour lui-meme; il ne pretend meme pas Mre aime de
Dieu (Ethic. V, theor. XIX), il n'espere point en une survie, apres
la mort: ce serait en·core s'interesser a soi. Dans toute la f orce
du terme, il « perd son ame » et, pour redevenir esprit, il cesse
d'etre une personne. « Nous connaissons tous des hommes qui se
regardent comme de parfaits chretiens, qui volonliers nous don-
neraient des lec;ons de religion, et qui cependant manifestent par
leur conduite et par leur langage qu'ils ne font de place a Dieu
dans leur vie, qu'ils n'acceptent meme d'avouer son existeilce, que
dans la mesure oit ce Dieu lui-meme est touche par les sentiments
3'6 RED ARNOU S, 1,

qu'ils professent, ou il s'attache et s'emeut aux evenements qui


les concernent > (La. Rai,on et la Religitm, pp. 20-21).
II f aut en ftnir avec ce Dieu cache par dela sa divinite et in-
vente pour la satisfaction de nos desirs, ce Qieu dont on dirait
qu'il attend de nous des soins et des services en echange de ses
faveurs, le Dieu du pretre Euthyphron que Platon oppose au Dieu
de la philosophie, le Dieu abaisse jusqu'a etre le ministre complai-
sant des appetits humains, au lieu d'etre celui qui eleve l'homme
jusqu'au devÖir.
Gräce a la « desappropriation reciproque et parfaite de l'Ame
et de Dieu >, l'homme peut arriver a comprendre le seul Dieu en
qui ne subsisle aucun residu d'anthropomorphisme, c le Dieu vrai-
ment divin >, parcequ'il n'est pas considere comme une chose qu'on
pourrait posseder, qu'il n'est meme pas un autre et qu'on n'en
attend rien. c De meme que le systeme du monde est devenu vrai
du jour ou la pensee a reussi a se detacher de son centre biologique
pour s'installer dans le soleil > (p. 262) - et ce fut la revolution co-
pernicienne qui renova la science - , ainsi, pour vivre selon la raison,
U faut dissiper l' c illusion simpliste > d'un centre d'interet person-
nel et passer par la voie etroite de l'absolu renoncement. Renon-
cement certes, puisque le moi cesse d'etre pour lui-meme « un
point de depart absolu et un terme ultime. Mais renoncement
qui est un depassement, car alors est franchi le cercle de l'instincl
egoiste ou l'amour-propre retient la personne. C~ssant d'etre per-
sonnel, le moi n'est plus limite, mais eternel, universel.

III. QUE FAUT-IL PENSER DE CET ABSOLU DESINTERESSEMENT?

Un fait troublant que Brunschvicg reconnatt lui-meme est


qu'aucun philosophe, ni ancien ni moderne, n'a eu la force de s'e-
lever ju,que la ou du moins le courage de s'y maintenir. C'est ce
qui resulte de l'impitoyable examen qu'il fait subir non seulement
a Plotin, a Descartes, a Malebranche, a Leibniz, mais aussi a Kant,
Fichte, Hegel, a Maine de Biran, a Auguste Comte, Spencer, James.
Oui, Kant lui-meme, l'homme de la revolution critique, qui a
rendu la raison a elle-meme, Kant a manque de desinteressement.
II avait declare pourtant qu'il faut faire entierement abstraction
de toute consideration de bonheur quand le devoir commande, et
chercher autant que possible a s'assurer qu'aucun mobile issu de
cette source contaminee n'entre a notre insu dans les determina-
lions que nous prenons conformement au devoir. Mais il ajoute:
« Cela ne veut nullement dire que l'homme, quand il s'agit d'ob-
DESINTEBESSEMENT ET TRANSCENDANCE 347

server le devoir, doive .renoncer a sa fin naturelle, au bonheur,


car il ne le peut pas, non plus qu'aucun ~tre fini raisonnable en
general > (De ce proverbe: Cela peut etre bon en theorie, mais
ne vaut rien en pratique, 1793, trad. Barni: Doctrine du droit,
p. 343). Et de la resurgit le postulat de la croyance au Dieu trans-
cendant, seul capable d'assurer l'union entre la vie de devoir et le
bonheur.
Kant a beau dire que le mobile propre a nous faire observer
la loi morale est place, non pas dans les consequences desirees,
mais uniquement dans la representation du devoir, comme etant
la seule chose dont la fidele observation nous rende dignes de nous
procurer ces consequences; il a beau preciser que ce n'est pas le
bonheur personnel qui est alors considere, mais l'idee du souve-
rain bien comme fin en soi, l'accomplissement de cette idee comme
devoir. Bien qu'il afflrme qu'une determination de la volonte com-
me celle-la n'est pas interessee, Brunschvicg porte sa sentence !
c Pour Kant, comme pour Pascal, le sacrifice du bonheur etait tout
provisoire >. En somme lui aussi, s'il croit au transcendant, c'est
parcequ'il n'a pas renonce a fond a se rechercher lui-m~me.
Voila qui deja est de nature a faire reflechir.
N'y a-t-il pas eu du moins un philosophe assez courageux, assez
fidele, pour c s'oublier absolument >? Leon Brunschvicg pense qu'il
y en a un, au moins un.

IV. BRUNSCHVICG LUJ-MtME A-T-IL ETE VRAIMENT DESINTERESSE?

Ecoutons-le: Si nous choisissons, dit-il, d'Mre un esprit plutöt


qu'une chose, nous ne sommes plus un individu enferme dans ses
desirs et dans ses craintes. Nous sommes le centre du progres
scientifique, du progres esthetique, du progres moral. Nous som-
mes le centre universel, le centre de la pensee qui donne a toute
chose la verite et la beaute, qui marque a toute activite sa loi et
son but. Nous sommes l'esprit.
Brunschvicg a fait ce choix. II pense avoir rompu avec le moi
que definit l'individualite de l'organisme et avoir rejoint, au plus
intime de la conscience individuelle, le centre de l'Ame qui est la
Raison impersonnelle. De cette Raison purement desinteressee ies
divers moi singuliers, le sien comme les autres, ne sont que des
points de vue.
Mais, chose remarquable ! c'est lui qui parle en leur nom. II
se fait l'interprete de la Raison universelle. Et - comment ne
pas le reconnattre? - il la fait parler a sa maniere a lui, a la ma-
3'8 llBNB ARNOU S, I,

niere de son moi empirique, tel que l'ont construit le temperament,


l'education, la nature, le groupe, tout ce a quoi en somme, pour
~re vraiment desinteresse, comme il l'entend, il faudrait s'arracher.
Car cette verite qui, dit-il, « se constitue du dedans >, que l'on
peut atteindre seulement par c la reflexion rationnelle .portee a
ce degre d'immanence et de spiritualite ou Dieu et l'äme se rencon-
trent >, cette verite selon lui est celle qui s'est enfln revelee de DOS
jours par la creation de l'analyse mathematique et de la physique
rationnelle. C'est par la geometrie analytique que « l'automate spi-
rituel. a manifeste sa puissance creatri~ en faisant surgir un mon-
de d'equations. Parallelement a l'univers algebrique l'univers des
courbes s'est constitue, qui a son secret dans les proprietes des
equations. La correspondance merveilleuse, et pourtant necessaire,
des equations et des courbes a ouvert la voie a la connaissance de
la realite concrete, suivant un progres qui n'a pas de limite (op.
cit., pp. 141-142). Et cette pensee, qui porte en soi une infinite
d'expansion, cette pensee dans laquelle l'intime se manifeste com-
me ne faisant qu'un avec l'universel, temoigne d'une puissance au-
tre qu'individuelle (ib. p. 38), fondement inebranlable de l'existen-
ce, source commune de tous les atres, « le Dieu infiniment infini >.
C'est ainsi que, selon Brunschvicg, l'homme apprend a con-
nattre ce qu'il est, non point en sortant de soi comme pour faire
quelque conqu~te, mais au contraire en penetrant au plus profond
de soi. Mais le desir de conqu~te est-il le seul motif que je puisse
avoir de sortir de moi? Et par contre pour arriver a me connattre
tel que je suis sufflt-il que je rentre au fond de moi-mame, si c'est
pour m'y complaire dans le rave illusoire que je suis « le centre uni-
versel > qui marque a toute activite sa loi et son but? Faut-il
croire que cet egocentrisme absolu est la voie de la purification
sans compromis dans l'absolu desinteressement?
Reinhold f aisait a Fichte un reproche semblable: la doctrine
du moi, de l'lchheit dans la Theorie de la Science, disait-il, n'a
nullement pour fondement une reflexion de la pensee pure sur
elle-mame; elie est tout simplement l'expression d'une personna-
lite debordante. Quand les philosophes transcendantaux parlent de
volonte pure, d'un acte independant de tout mobile sensible, de
l'acte pour l'acte; en realite leur mobile est encore un plaisir ou
une peine, le plaisir de l'independance et la peine de la dependance.
Le Moi absolu, c'est leur moi individuel, en qui ils ont mis toute
leur complaisance et qu'ils s'entendent a maintenir, mame en le
depassant. En somme, une forme radicale d'egoisme, encore la
recherche de soi (Cf. X. Leon, Fichte et son temps„ t. II, lere partie
pp. 292-293).
DBSINTEBESSEMENT ET TRANSCENDANCE 349

Fichte lui aussi a prononce de nobles paroles sur la necessite,


pour qui veut vivre selon la raison, de sacrifier l'amour-propre et
de mettre son ideal, non dans la beatitude individuelle, mais dans
l'humanite. II n'en a pas moins exalte comme les vrais philoso-
phes ceux qui se sont eleves jusqu'au sentiment de leur absolue
independance.
A cet egard il distinguait deux degres d'humanite, deux cate-
gories d'hommes et en consequence deux grands courants philo-
sophiques car le choix qu'on fait d'une philosophie, disait-il, de-
pend de l'homme que l'on est. D'un cöte ceux qui, convaincus de la
totale independance de leur moi par rapport a tout ce qui est ex-
terieur, n'Önt pas besoin de lui chercher un appui dans les choses.
Les choses sont une limite a leur suffisance: ils n'en veulent pas.
11s sont idealistes. De l'autre, ceux qui ne se sont pas encore ele-
ves juqu'au senliment de cette absolue suffisance, qui ne s'attei-
gnent eux-memes que dans la representation des choses, comme
dans un miroir: tout ce qu'ils sont, ils le sont devenus par le mon-
de exterieur, ce sont les dogmatiques.
De part et d'autre Fichte voyait le resultat d'une decision; d'une
decision qui, ni dans un cas ni dans l'autre, ne peut venir de la
raison mais seulement de la liberte de la pensee ,car il s'agit de
l'acte premier absolu, commencement de toute la serie. Et, pour
assigner a la decision de la volonte le fondement qu'elle requiert,
Fichte declarait qu'elle rec;oit sa determination de l'inclinalion et
de l'interM. c Le fondement ultime de la dift'erence entre un idea-
liste et un dogmatique est la dift'erence de leurs interets >. Interet
pour soi-meme ou interet pour les choses. Ce qui a determine le
choix de Fichte, c'est son attrait majeur pour la pensee libre et la
totale suffisance (Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre, S. W.,
1, s. 42).
Serait-ce faire injure a Leon Brunschvicg que le placer dans la
meme categorie que Fichte. Lui aussi, s'il exige le detachement ab-
solu de tout ce qui est exterieur, c'est parceque, au dessus de tout,
il a place son independance, afin d' C etre soi-meme, comme disait
Hippolyte Taine," par soi-meme, par soi seul, sans reserve, jusqu'au
bout >. C'etait son attrait. Ce qu'il definissait comme la religion de
l'immanence, la veritable religion spirituelle, une supra-mystique,
n'etait-ce pas la pseudo-mystique de l'amour de soi?

V. DESINTERESSEM•ENT ET CONNAISSANCE DE DIEU

Ainsi, selon Leon Brunschvicg, c'est la recherche de l'interM


propre qui cree l'illusion du Transcendant. Mais nous constatons
350 REN4 ABNOV s. 1.

que c'est la recherche d'un certain « interet > fondamental qui le


mene, lui aussi, a la n~ation du Transcendant. Faudra-t-il con-
clure que tout desinteressement est une chimere? que le desinteres-
sement n'a rien a voir avec la recherche de Dieu? le desinteresse-
ment, dont on a pu dire pourtant qu'il est comme une afllrma-
tion de la primaute du spirituel et la condition de tout vrai progres
humain.
Notre condition d'etres en devenir nous fait, il est vrai, une loi
de ne pouvoir agir, si non en vue d'un bien, d'un bien qui est notre
bien; donc en vue de notre interet. Nous ne pourrions rien aimer, ni
personne, fiit-ce Dieu meme, si nous ne reconnaissions pas en lui
notre bien. ·
Et cependant nous ne sommes point prisonniers d'un egoisme
exclusif. Notre nature spirituelle est inclinee a aimer le Bien illi-
mite plus qu'elle-meme, par dessus toute chose. Nous ne pouvons
aimer que ce qui est bon pour nous. Mais il nous est naturel d'ai-
mer le Bien infini plus que nous.
Ce qui est a condamner, ce n'est donc pas n'importe quel amour
de moi (car il nous est impossible de ne pas nous aimer), mais celui
qui, me repliant sur moi-meme, m'enfermerait en moi et, sous
pretexte de me defendre contre la recherche de ma satisfaction et
de mon interet propre, me ferait rejeter tout autre amour.
II n'y a pas de desordre non plus a aimer Dieu comme nwn bien,
pourvu que je n'aille pas le considerer comine un moyen, dont la
fonction, la raison d'etre serait de faire mon bonheur, et pourvu que
je reconnaisse en lui la source de tout bien et de toute amabilite, ce-
lui que recherche implicitement tout desir.
II ne s'agit donc pas de choisir: ou Dieµ ou moi, comme si l'al-
ternative exigeait la negation, l'aneantissement de l'un ou de l'autre.
Mais il s'agit de reconnaitre ma subordination essentielle et d'admet-
tre que ma perfection d'etre spirituel, jene puis l'atteindre par mes
propres f orces.
II s'agit d'admettre cela, a l'encontre de la tentation de suffl-
sance, la grande tentation qui trouve en nous un point d'appui, et
triomphe. quand nous nous arretons trop töt dans l'analyse de no-
tre activite connaissante, de sa structure interne, de ses implica-
tions.
Cette tentation s'enracine dans la conscience qu'a l'Mre intelli-
gent de sa superiorite quand il connatt, qu'il affirme, qu'il juge,
dans le sentiment de posseder les choses en pleine lumiere. de s'eten-
dre a l'infini, d'exercer sur l'univers une espece de royaute.
Elle trouve son contrepoids dans une reßexion plus poussee,
a laquelle cette meme connaissance revele ses imperfections: car
DltSINTlUlESSEMENT ET TRANSCENDANCE 351

la domination, la royaute du sujet intelligent que nous sommes est


toute relative et conditionnee. Nous sommes capables de devenir
toutes choses, mais nous ne sommes pas toutes choses. La prise de
possession dont nous avons conscience en connaissant, en jugeant
est de teile nature qu'elle nous laisse encore et toujours en appetit:
quelque objet que nous connaissions, nous tendons au dela. Et le
mouvement qui sous-tend toute notre activite spirituelle nous porte
a depasser tout le fini, en nous dcpassant nous-meme, vers un Bien
reellement existant qui deja nous est present et nous travaille, pre-
sent et agissant meme dans le jugement par lequel on le nie.
Mais ces limitations et ces implications de notre activite spiri-
tuelle dans l'acte du jugement ne se revelent a la reflexion que
lorsqu'elle est poussee jusqu'au bout.
Et pou.r aboutir il faut courageusement perseverer dans l'eft'ort
d'attention; il faut refuser de nous laisser enchanter par ce que nous
avons mis de nous-memes dans notre operation, de nous laisser aveu-
gler par notre amour-prope au point de ne plus voir autre chose et
de negliger le mouvement interieur de notre acte de connaitre qui
imperieusement nous invite a pousser plus avant; il faul accepter
notre condition, teile qu'une analyse plus poussee nous la revele et
consentir a etre par un autre et pour un autre; il faut donc renoncer
a l'orgueilleuse illusion de nous suffire, pour nous maintenir ou
nous remettre dans la ligne de notre finalite radicale.
Attitude de desinteressement qui, aux diverses etapes de l'iti-
neraire vers Dieu, influe sur le sens de notre orientation et souvent
en decide.
Bien Joint d'etre un aneantissement de notre personnalite, ce de-
sinteressement, qui est a la fojs un acte de liberte et de raison, nous
permet de nous retrouver a notre place dans l'ordre universel, avec
nos dimensions authentiques, notre vraie signification, notre vraie
valeur, dans notre relation a l'Etre infini.
En se faisant centre jusqu'a vouloir se sufflre, l'homme n'est
plus lui-meme: il se perd. Au contraire, en acceptant son essentielle
dependance, il se retrouve; on peut dire qu'il est alors et alors seu-
lement, vraiment lui-meme. Et en meme temps il atteint, tres im-
parfaitement, mais il atteint le Transcendant, S{lnS lequel il ne se-
rait rien. Le probleme de l'homme et le probleme de Dieu ne font
qu'un. lls trouvent ensemble leur solution.
La verite au sujet de Dieu n'entre pas dans l'homme par con-
trainte. C'est une verite qui n'a pas besoin de l'homme pour etre une
verite, et eile vaut pour tous. Mais pour l'homme qui refuse de la
faire sienne, eile n'est pas. C'est encore un aspect de la preuve •
de Dieu.
" ANALECTA GBEGOBIANA ,,
cura Pontiflciae Universltatis Gregorianae edita

I. - Schwamm, H.: Magistri loannis de Ripa doctrina de prae-


scientia divina. - 1930, in-8°, p. XII-228.
II. - Adamczyk, Stanislaus: De obiecto formali intellectus nos-
tri secundum doctrinam S. Thomae Aquinatis. - editio
altera correcta, 1952, in-8°, p. XVI-152.
III. - Druwe, Eugenius S. J.: Prima forma inedita operis S. An-
selmi c Cur Deus homo ». - Textus, cum Introductione et
notis criticis - 1933, in-8°, p. XIl-150.
IV. - Bidagor Ramon, S. 1.: La c lglesia Propria» en Espaiia.
Estudio historico-canonico. - 1933, in-8°, p. XXII-176.
V. - Madoz, Jose S. 1.: EI concepto de la Tradici6n en S. Vin-
cente de Lerins. - 1933, in-8°, p. 214.
VI. - Keeler Leo W. S. 1., The Problem of Error from Plato to
Kant. - 1934, in-8°, p. 284.
VII. - De Aldama J. A., S. J.: EI Simbolo Toledano. - 1934,
in-8°, pag. 167.
VIII. - Miscellanea iuridica Iustiniani et Gregorii IX legibus com-
memorandis, cura Pont. Univ. Gregorianae edita. - 1935,
in-8°, p. 185.
IX et X. - Miscellanea Vermeersch - Scritti pubblicati in onore del
R. P. Arturo Vermeersch, S. I. - 2 vol., 1935, in-8° -
I vol. p. XXIX-454; II vol. p. 406.
XI. - Bevenot M., S. J.: St. Cyprian's de Unitate. Chap. IV. -
1938, in-8°, p. LXXXV-79 et 6 tah.
XII. - G6mez Helin, L.: Praedestinatio apud Ioannem Cardina-
lem de Lugo. - 1938, in-8°, p. XIl-191.
XIII. - Daniele, Ireneo: I documenti Costantiniani della c Vita
Constantini » di Eusebio di Cesarea. - 1938, in-8°, p. 219.
XIV. - Villoslada, Riccardo G., S. 1., Dr. Hist. Eccl.: La Universi-
dad de Paris durante los estudios de Francisco de Vitoria
0. P. (1507-1522). - 1938, in-8°, p. XXVIII-468.
XV. - Villiger, Johann, Dr. Hist. Eccl., Prof. in Fac. Theol. ad
Lucernam: Das Bistum Basel zur Zeit Johanns XXII., Bene-
dikts XII, und Klemens VI. (1316-1352). -1939, in-8°, pag.
XXVIIl-370.
XVI. - Schnitzler Th.: Im Kampfe um Chalcedon. Geschichte und
Inhalt des Codex Encyclius von 458. -1938, p. IX-132, in 8°.
XVII. - Sheridan Ioannes Antonius.: Expositio plenior hylemor-
phismi Fr. Rogeri Baconis, O. F. M. - 1938, in-8•, pag.
XVIII-176.
XVIII. - Boularand Ephrem S. I.: La venue de l'Homme a la foi
d'apres Saint Jean Chrysostome. - 1939, in-8•, p. 192.
XIX. - De Letter Prudentius S. I.: De ratione meriti secundum
Sanctum Thomam. - 1939, in-8", p. XVIII-152.
XX. - Haacke Gualterus: Die Glaubensformel des Papstes Hor-
misdas im Acacianischen Schisma. -1939, in-8•, p. 150.
XXI. - Gonzalez Severino, S. I., Prof. de Dogma en la Fac. Teol.
de Comillas: La formula Mw ooow -rqe~ ünoa-rciae~ en
San Gregorio de Nisa. -1939, p. XX-146, in 8°
XXII. - Gosso Francesco, Dr. Hist. Eccl.: Vita economica delle Ab-
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XXIII. - De Maiiaricua Andres E.: EI matrimonio de los esclavos.
- 1940, in-8°, p. 286.
XXIV. - Mazon Candido S. I., Prof. de Derecho en la Pont. ·univer-
sidad Gregoriana y en el Pont. InsL Oriental: Las reglu
de los religiosos, su obligacion y naturaleza juridica. -
1940, in-8", p. XVI-360.
XXV. - Aguirre Elorriaga Manuel S. I.: El Abate de Pradt en la
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XXVI. - Ghiron M.: II matrimonlo canonlco degli italianl all'estero.
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XXVII. - Reuter A., 0. M. I.: Sancti Aurelii Augustini doctrina de
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XXVIII. - Orbän L.: Theologica Güntheriana et Concilium Vatica-
num. - Vol. I, 1942, in-8°, p. 208 (Hoc volumen non venit
separatim sed cum tota collectione).
XXIX. - La Compagnia di Gesii e le Scienze Sacre. - Conferenze
commemorative del IV Centenario della fondazione della
Compagnia di Gesu, tenute all'Universita Gregoriana: 5-11
novembre 1941. - 1942, in-8°, p. 270.
XXX. - Bertrams W. S. I.: Der neuzeitliche Staatsgedanke und die
Konkordate des ausgehenden Mittelalters. - Zweite ver-
besserte Auflage, 1950, in-8°, p. XVII-192.
XXXI. - D'Izzalini Luigi, 0. F. M.: II principio intellettivo della
ragione umana nelle opere di S. Tommaso d'Aquino. pag.
XVI-184, 1943, in-8°.
XXXII. - Smulderll Pierre. S. I.: La doctrine trinitaire de S. Hilaire
de Poitiers. - 1944, in-8° p. 300.
XXXIII. - Rambaldi Giuseppe, S. I.: L'oggetto dell'intenzione sacra-
mentale, nei Teologi dei secoli XVI e XVII. - 1944, in-8°,
p. 192.
XXXIV, - Muiioz P., S. I.: Introducci6n a Ia sfntesis de San Augustin.
1945, in-8°, p. 351.
XXXV. - Galtier P., S. 1.: Le Saint Esprit en nous d'apres les Pere,
Grecs. 1945, p. 290, in-8°.
XXXVI. - Faller 0., S. I.: De Priorum saeculorum silentio circa As-
sumptlonem B. Mariae Virginia. p. XII-135, 1946, in-8•.
XXXVII. - D'Elia P. M., S. 1.: Galileo in Cina. Relazioni attraversc;
il Collegio Romano tra Galileo e i gesuiti scienziati mis-
sionari in Cina (1612-1640) - p. XII-127; 1947, in-8°.
XXXVIII. - Alszeghy Z., S. I.: Grundformen der Liebe. Die Theorie
der Gottesliebe bei dem hl. Bonnentura. - 1946, p. 300.
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mas d'Aquin. - Editio altera, recognita et aucta, 1953,
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Romano dal suo inizio (1551), alla soppressione della
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/

l l 7800

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