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Table of Contents
DELL’EROS COSMOGONICO
INDICE
Prefazione dell'autore alla prima edizione
Prefazione alla quinta edizione
I. Considerazione concettuale preliminare
II. Del concetto di Eros dell'antichitaà
III. L'Eros elementare
IV. Dello stato dell'estasi
V. Dell'essenza dell'estasi
VI. Del culto degli antenati
VII. Conclusione su Eros e passione
Appendice
Fonti

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Klages è l'interprete più intelligente e profondo della cultura
tedesca tra le due guerre, il grande esponente dell'irrazionalismo e
della contrapposizione tra anima e spirito. in questa sua opera
fondamentale - "Dell'eros cosmogonico" - Klages pone la questione
dell'Amore totale come "mistico sposalizio" tra anime, al di là della
semplice sessualità. La libera psiche è Eros, amore cosmico, distacco
romantico dai vuoti interessi terreni. Viene così celebrato l'Amore
totale, il magnete che attrae magicamente due poli anche lontani tra
loro, al di là della semplice sessualità, come un moto unitario di
natura e un legame di sangue: "Il compimento consiste nel destarsi
dell'anima, ed il destarsi dell'anima è contemplazione, ma essa
contempla la realtà delle immagini originarie; le immagini originarie
sono anime del passato che appaiono; per apparire esse hanno
bisogno del legame con il sangue di chi è ancora vivo ed ha ancora un
corpo". In questo "mistico sposalizio" tra anima e "demone
generatore" si compie, alla maniera platonica, secondo Klages, la
trasformazione del semplice uomo in uomo assoluto, cosmico. E qui si
radica, per il filosofo, l'antico nucleo mitologico orfico ed esiodeo
dell'eros, tanto amato dal neoplatonismo e che influenzerà studiosi
come Warburg e Panofsky.

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Ocr e conversione a cura di Natjus

LDB

4
Ludwig Klages

DELL’EROS COSMOGONICO

5
2012 - PGRECO EDIZIONI
Via Gabbro 4-20100 Milano
Per informazioni
E-mail: edizionipgreco@gmail.com

L'editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche


necessarie al fine di identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti
dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie
obbligazioni.

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INDICE

Prefazione dell’autore alla prima edizione

Prefazione alla quinta edizione

I Considerazione concettuale preliminare

II Del concetto di Eros dell’antichitaà

III L’eros elementare

IV Dello stato dell'estasi

V Dell’essenza dell’estasi

VI Del culto degli antenati

VII Conclusione su Eros e passione

Appendice

Fonti

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DAS AÄ USSERE IST EIN IN GEHEIMNISZUSTAND
ERHOBENES INNERE
NOVALIS1

Prefazione dell'autore alla prima edizione


Di cioà che qui viene esposto, le sette parti principali, ordinate in
capitoli, furono composte nel semestre estivo del 1918 allo scopo di
completare un corso di scienza del mito, e passarono da allora tra le
mani di molti, i quali in parte vi trovarono diletto, in parte ne
trassero frutto per i propri studi. Per farne un libro, eà stato
necessario cancellare alcuni passi adatti soltanto a lettere private;
d’altra parte non si sono potute evitare invece considerevoli
aggiunte per mostrare l’ampio sfondo di questioni piuà generali a
partire dal quale soltanto la questione particolare che noi trattiamo
riceve luce e puoà essere afferrata nella sua forma. Alcuni
chiarimenti, in seguito ad obiezioni, sono stati aggiunti
nell’appendice. Considerata questa origine, sembrano necessarie
ancora poche parole per spiegare il motivo della pubblicazione, e
percheé questa avvenga solo ora.
Non sarebbe dovuta avvenire, se ci fosse riuscito di completare
l’opera maggiore che, basandosi sui risultati della scienza del mito e
dell'etnologia fino ad oggi, cerca di ricondurre lo stato di coscienza
dell’uomo preistorico alla fede nella realtà delle immagini, e adduce
la prova della veritaà metafisica di questa fede. Ma poicheé gli
impedimenti che ritardarono la conclusione ora come prima non
sono cessati, abbiamo creduto di non dover ritardare piuà a lungo la
pubblicazione di quei risultati almeno, il cui influsso sullo studio di
parecchi argomenti, in particolare di archeologia, si eà giaà sentito
distintamente, e abbiamo scelto per il nostro scopo una cerchia di
problemi che anche a suo tempo esponemmo separatamente. Ma
anche se sarebbe stato del tutto impossibile (e ogni esperto lo sa)
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impiegare la straordinaria ricchezza di dati delle due scienze citate,
anche solo con una completezza approssimativa, in occasione
dell’illustrazione del dimenticato concetto di Eros, sia chiaro che noi
non inseguiamo scopi «folcloristici», ma cerchiamo di confermare e
di arricchire di alcuni tratti per mezzo di un «esempio tratto dalla
vita», cioeà dal passato, cioà che abbiamo fondato teoreticamente nel
nostro scritto Dell'essenza della coscienza : la dottrina della realtaà
delle immagini. Ci siamo limitati percioà volutamente, nell’addurre
esempi storici e preistorici, a quelli giaà in certa misura noti a una
vasta cerchia di lettori, e al fondo, in considerazione di giustificati
desideri dìà dilettanti, diamo del resto un panorama critico sulle piuà
importanti opere apparse nel campo di ricerca in questione, siano
esse informative, riepilogative o innovatrici.
Non sia taciuto infine un secondo motivo, che vinse alcuni dubbi
e che spinge proprio ad anticipare una esposizione parziale del
problema dell’Eros: ed eà la circostanza che la spaventevole
ignoranza del presente facilita ai cinici portavoce del tramonto la
sordida impresa di imbrattare, con la loro infame logica
propagandistica del nudo ardore sessuale, persino gli splendidi culti
della vita dell'antichitaà : se cosìà non li colpiscono, li separano peroà ,
come con un muro di tenebre, dalla coscienza di quella minoranza,
che perfino oggi non eà ancora completamente svanita, il cui
desiderio di ricerca potrebbe essere rinvigorito, e che potrebbe
infine essere indotta a trovare cioà che il cuore desidera nel sereno
riflesso di quella meraviglia del mondo d’un tempo. Se percioà si
dovessero sentire nelle nostre parole toni bellicosi, si sarebbe
sentito bene. E se qualcuno dovesse sentire che i propri sogni e i
propri pensieri sono sfuggiti alla rete di falsitaà nella quale la
ciarlataneria degli imbrattafogli apostoli del sesso minacciava di
catturarli, questa sarebbe per noi una vittoria ancor maggiore
dell’ambito approfondimento del sapere sull’essenza delle immagini.

Ottobre 1921
L.K.

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Prefazione alla quinta edizione
Poicheé questo libro, nato circa trent’anni fa in occasione di un
corso, appartiene, per l’autore, alla storia della propria opera, esso
deve rimanere com’eà , a parte poche rettifiche giaà iniziate nelle
precedenti edizioni, nonostante le sue non poche manchevolezze.
Possano cioà nonostante le buone qualitaà , delle quali non fu privo,
serbargli il favore di quei lettori che non hanno smesso di ricercare
nei pensieri misterici dell’umanitaà gli aurei chicchi del sapere!
Si noti ancora: il problema dell’Eros appartiene alla grande
cerchia dìà questioni che vengono trattate nel quarto volume della
nostra opera principale, Lo spirito come avversario dell'anima, sotto
il titolo Dell’essenza del pelasgismo. Ma questa poteà essere compiuta
solo circa dodici anni dopo. Cosìà il problema dell’Eros rimase escluso
da essa e forma una creazione che in realtaà completa l’opera
principale, ma eà completamente autonoma, e che fa desiderare la
conoscenza di quelle piuà ampie esposizioni, ma non la presuppone.

Autunno 1951
L.K.

1 «L’esterno eà un interno elevato allo stato di mistero» (Novalis,


Frammenti, trad. it. di E, Pocar, Milano, 1976, p. 444).

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I. Considerazione concettuale preliminare

All’esame del nostro oggetto dobbiamo premetterne uno


linguistico sul motivo per il quale noi non ci serviamo della parola
tedesca Liebe (= amore) al posto di quella straniera Eros, tanto piuà
che quel concetto di Eros che deve formare l’oggetto di questa
considerazione continua a filare soltanto un filo della tela dell’antica
riflessione, sebbene possa basarsi su apparizioni originarie della
vita pelasgica. Dei due motivi piuà importanti che parlano contro
l’impiego della parola amore, giaà il primo sarebbe sufficiente ad
escluderlo del tutto: ed eà la sua molteplicitaà di significati quasi senza
pari. Senza pretesa di completezza e di rigida classificazione,
raccogliamo assieme alcuni dei piuà consueti concetti d'amore, e
crediamo con questo di mettere almeno fuori di dubbio che sono
circostanze di fatto non solo estremamente diverse, ma perfino
contrastanti tra loro, quelle che quest’unica parola deve indicare.
Lasciando del tutto da parte ricerche sulla storia del significato, ci
terremo soltanto all'uso linguistico odierno, e piuà volte coglieremo
l’occasione di preparare l’esposizione del nostro oggetto mediante
vari cenni.
La parola amore viene adoperata per una proprietà dell'anima in
locuzioni come «un uomo senza amore», qualcuno «che manca
d’amore», «ricco d’amore», «pieno d’amore», «degno d’essere
amato», «senza amore», e negli aggettivi1 «il buon Dio», «la cara
anima» (riposa in pace), «tutto il santo giorno», «una cara ragazza»;
e ancora nei sostantivi «amatore», «amore dell’ordine», «amore della
virtuà », «amore di veritaà », «amor proprio», «amore della lite» 2.
Noi vediamo questa parola indicare io stato di duraturo o fugace
compiacimento per qualche cosa in locuzioni come: io amo bere
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caffeà , teà , cioccolata, viaggiare in seconda classe, leggere prima di
andare a dormire; e nel compiacimento vediamo accentuati
inclinazione e interesse con l’«amore per la cosa», che puoà
estendersi a tutti gli oggetti possibili: amore per la professione,
amor di patria, amore per la scienza, l’arte, la natura, la bellezza, il
teatro; qualcuno fa il soldato «con gioia e con amore», e cosìà via.
Portato al massimo grado, diverrebbe «entusiasmo». Ma viene
chiamato amore anche l’amore cristiano, compresa la «caritas» che
gli eà propria, che mette l’accento sull’esigenza di universale e
indifferenziato rispetto per gli umani, ma che ottiene la sua tinta
particolare dal supporre il bisogno d’aiuto del proprio oggetto. A
seconda che si dia rilievo a questo lato o a quello, «caritas» significa
o doverosa stima o doverosa commiserazione, indicando peroà
insieme il sentimento corrispondente. Esempi sarebbero:
filantropia, amore per il prossimo, amore per i poveri, evangelo
dell’amore, beneficenza [Liebesgabe], dovere di caritaà , attivitaà
caritatevole e cosìà via. Parimenti diverso dall’«amore per la cosa»
come dalla filantropia intesa come principio eà l’amore come
inclinazione del cuore che determina la scelta, e qui pensiamo al
senso letterale della parola Neigung [inclinazione, gravitazione,
pendenza], che coincide con la parola straniera «simpatia». Secondo
la specie degli oggetti preferiti si notano parecchi tipi di inclinazioni.
Inclinazione per cose determinate o per i loro caratteri e le loro
qualitaà visibili: amore per il mare, per i monti, per la campagna, le
stelle, le nuvole, le acque, per fiori, animali (cani, gatti, cavalli,
uccelli), pietre, per il sud, il sole, la primavera, l’estate, l’autunno e
l’inverno, per determinati suoni, colori, profumi, per il suono del
flauto, per un determinato stile architettonico, per dipinti, per
oggetti d'arte d’ogni tipo. Anche un lato almeno dell’«amor di patria»
vi eà compreso, mentre dell’altro, piuà importante, si parleraà solo piuà
tardi.
L’amore verso qualcosa porta l’inconfondibile segno di una
predilezione per qualcosa, e a quest’ultima possono affiancarsi

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altrettanto marcate antipatie, le quali talvolta possono crescere fino
a divenire idiosincrasie.
Inoltre c’eà l’inclinazione verso uomini determinati o verso loro
parti e qualitaà visibili. Qui ci sono di nuovo numerose sottospecie:
amore dell’amico, amor dei genitori, amor filiale, amore tra fratelli e
sorelle, amor familiare, amore cameratesco, amore per il capo, per il
dominatore, per il subalterno, per il popolo ecc. Ogni tipo di
inclinazione ha un tono sentimentale che gli eà assolutamente
proprio. Cosìà nell’amore per il dominatore risuona piuà forte il tono
dell’ammirazione, in quello per il subalterno o per il popolo invece eà
piuà forte il tono della compassione. L’amore tra fratelli e sorelle si
distingue da quello tra amici per tratti difficili da descrivere, e cosìà
l’amicizia tra uomini rispetto a quella tra donne, e ancora il
cameratismo dall’amicizia in generale. L’amore dei genitori per i figli
eà una cosa molto diversa dall’amore dei figli verso i genitori.
«Diversamente il garzone, diversamente il maestro ama il maestro»,
dice Nietzsche in Aurora.
EÈ appena il caso di dire che ogni inclinazione del cuore che
determina una scelta puoà fondare una affinità elettiva e percioà
appare come originario mezzo d’unione tra gli uomini. Dovunque la
mera comunitaà degli interessi non abbia ancora stracciato ogni
legame naturale, e perfino all’interno dei legami di interesse, la
coscienza di reciproca appartenenza di gruppi piuà o meno ampi
scaturisce da sentimenti di simpatia. Da questi, e assieme dalla forza
dell’abitudine, deriva il naturale attaccamento alla famiglia, al suolo
patrio, alla cerchia dei colleghi, e qui eà fondato il pathos nient'affatto
soltanto etico dell’antico concetto di fedeltaà . Per esempio
sbaglieremmo se considerassimo l’antica germanica «fedeltaà virile»
o la scita «fedeltaà tra amici», con le loro esigenze che ai nostri occhi
appaiono esuberanti e incantevoli, come il prodotto di una
particolare eticitaà , e se non sapessimo riconoscere invece in esse il
precipitato, consolidato in sentimenti costanti, di uno stato d’animo
simpatetico.

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Inoltre c’eà , come si eà detto, un amore per parti o qualitaà umane
percepibili: per mani, piedi, portamenti, forme nude, nasi, colori di
pelle, profumi, particolari o belli. La predilezione per i capelli biondi
o neri, e per gli occhi celesti o scuri, determina notoriamente le
scelte ed indica come l’indole dell’inclinazione di un uomo dipenda
in parte da peculiaritaà razziali. Se infine distinguiamo per gradi, ecco
una serie divisibile a piacere che va dalla mera inclinazione dovuta
all’abitudine fino all’attrazione appassionata. Cosìà ogni tipo di
inclinazione che abbiamo visto potrebbe tanto rimanere tiepida
quanto innalzarsi al calore e all’ardore.
Se in tutti i casi fin qui considerati «amore» poteva essere
sostituito da «inclinazione», ora esaminiamo i casi in cui questa
parola indica innegabilmente degli «impulsi». Poicheé puoà sembrare
che impulsi e inclinazioni siano la stessa cosa, spieghiamo che cosa
intendiamo quando parliamo di diversitaà tra le due cose.
Nulla impedisce un’accezione della parola «inclinazione»
abbastanza vasta percheé essa significhi anche impulso, e viceversa.
Ma se noi lo facessimo, noteremmo tuttavia nelle conseguenze del
moto dell’anima chiamato ora impulso ora inclinazione due lati
diversi, dei quali l’uno dovrebbe essere compreso soltanto a partire
dal sentimento dell’inclinazione, l’altro soltanto a partire
dall’esperienza vissuta dell’impulso. Come cioeà «inclinazione», che si
puoà sostituire, mantenendone il significato, con «pendenza», giaà col
suo nome dichiara come chi ha l’inclinazione sia attratto verso il suo
oggetto, cosìà eà peroà altrettanto certo che ogni inclinazione può
mantenere la forma di una stabile situazione sentimentale senza per
questo sbiadire o perdere in significato. Invece, come se la forza
d’attrazione potesse agire su un altro organo dell’anima, il
sentimento dell 'impulso all’unione spinge inevitabilmente chi lo ha
a movimenti che realmente mirano all’unione, anche se, nel caso che
questa fosse impossibile, esso verrebbe immancabilmente vissuto
come un disturbo piuà o meno considerevole. Di conseguenza
distinguiamo inclinazioni e impulsi propriamente detti. «Impulso» eà
qualcosa che daà una direzione, che implacabilmente «spinge»

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dall’interno; «inclinazione» eà qualcosa che daà una direzione secondo
la quale uno di tanto cadrebbe o si inabisserebbe, quanto le
circostanze glielo permettessero (Si osservi la locuzione «una
ragazza caduta», che giudica il cosiddetto passo falso come la
conseguenza di una «inclinazione», di una «pendenza», dando anche
peroà un giudizio di valore). Poche prove sono sufficienti a mostrare
che con cioà si eà ottenuto il nocciolo dell’uso linguistico corrente.
Mentre tutte le specie di inclinazione si chiamano anche
simpatie, questo suonerebbe in parte troppo debole, in parte non
appropriato per genuini impulsi all’unione. Inoltre non a caso
indichiamo con aggettivi diversi i gradi di ascesa dell'impulso da
quelli dell’inclinazione. EÈ piuà raro che parliamo di «violente
inclinazioni» che non di «violenti impulsi», e non scegliamo mai
l’aggettivo «profondo» per la forza di un impulso, mentre crediamo
di descrivere nella maniera piuà adeguata quella di una inclinazione
quando diciamo «profonda inclinazione», «profonda simpatia». Si
parla cioeà di un violento impulso quando si vuol far notare, in un
sentimento, cioà per cui esso eà causa di movimento; di profonda
inclinazione, invece, in quanto abbiamo in mente un πάά θημά,uno
stato.
Se infine confrontiamo con Abneigung o antipatia il
corrispondente impulso negativo, eà subito evidente che questo
provoca un’azione, quella al massimo un tralasciare. Per profonda
antipatia si eviteraà l'oggetto; chi prova invece l’impulso di un
violento odio, o ira, o invidia, cercheraà l’oggetto per distruggerlo. Si
parla di impulso di vendetta, e non certo di inclinazione alla vendetta.
Ora che la differenza in certa misura potrebbe essere chiarita,
vediamo tre specie di amori impulsivi che bisogna distinguere sul
piano linguistico.

1. Impulso all'unione, semplicemente.

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Amore impulsivo eà sempre impulso all’unione, e l’impulso
all’unione eà sempre un impulso corporeo all’unione. Ora, poicheé due
esseri distinti non sono in grado di diventare corporeamente uno
solo, sembra che la forma originaria della soddisfazione dell’impulso
sia ogni piuà alta misura di vicinanza corporea, ossia il contatto
corporeo, del quale l’azione in pari tempo simbolica del bacio eà ,
presso un vasto gruppo di popoli, il segno del compimento. Se noi
cerchiamo il senso di questo amore nell’ambito di espressione della
tenerezza, incontriamo come sua forma fondamentale l'amor
materno.
Utilizziamo l’esempio dell’amor materno per illuminare ancora
una volta la differenza d’essenza tra inclinazione e impulso. L’amor
materno di una madre per i suoi figli si puoà distinguere esattamente
dalla sua simpatia per l’uno o per l’altro. Questa eà questione
d’inclinazione, quello di impulso. La simpatia, sempre personale,
mostra molte varietaà per specie e grado, mentre l’amor materno,
direi quasi impersonale, di una madre, eà simile a quello di un’altra
fino a non potersene distinguere, e cosìà anche l’amor materno di una
stessa madre per due suoi figli. Poicheé ogni impulso eà qualcosa di
puramente animale, l’amor materno ha certamente profonditaà
psichica, ma in nessun modo altezza spirituale, e appartiene alla
madre ferina non diversamente che a quella umana. Dalla sua
estraneitaà allo spirito risulta subito percheé la madre nel proprio
figlio non conosca in fondo e non riconosca nessun altro valore
emozionale che la sua appartenenza, come bimbo, a lei. Come madre
saraà attaccata al «figlio perduto», anche se dovesse condannare il
suo comportamento, non meno che al figlio modello. Non c’eà bisogno
per questo che sia cieca per le debolezze dei suoi figli: percheé esse
non toccano affatto il suo impulso materno alla tenerezza. E questo
per esempio non si puoà dire ugualmente dell’amore del padre, il
quale piuttosto in quanto padre rivela schizzinose inclinazioni per i
suoi figli. Cosìà ha ragione la lingua che non ha posto a fianco all’amor
materno [Mutterliebe] un «amor paterno» [Vaterliebe] simile per
essenza. (La relazione di natura impulsiva che non di rado si osserva

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tra padri e figlie appartiene al campo della sessualitaà , della quale fin
qui non abbiamo ancora parlato). Contro il carattere impulsivo
dell’amor materno infine non dice nulla neppure il fatto che esso
culmini nella cura per l’amato. Infatti in primo luogo questa
appartiene giaà alle conseguenze naturali di un impulso che trova il
suo compimento nel tenero palpare, e poi la cura in questione
originariamente eà diretta esclusivamente al corpo del bimbo. Un
impulso alla cura esiste per seé anche da parte del padre, ma non
l’impulso alla cura che mira al contatto, che dona col corpo. Vediamo
bene che cosa significhi vicinanza corporea nel quadro dell’amor
materno appena consideriamo quale misura di impulsiva resistenza
la madre opponga alla separazione dal suo bimbo. Di fronte al dolore
per la separazione di una madre impallidiscono quelli di due amici
che si separano, o di un fratello e una sorella, o di due sposi: non
percheé il loro amore reciproco sia piuà scarso, ma percheé esso
(quando non sia stato trasformato da una lunga consuetudine di vita
comune) ha molto meno bisogno della vicinanza corporea del suo
oggetto di quanto la madre abbia bisogno di quella del figlio. La
scrittura ideografica dell’antica Cina esprime il concetto dell’amore
ponendo accanto alla figura di una donna quella di un bimbo.
Se nell’amor materno abbiamo riconosciuto l’«impulso all’unione
semplicemente», non ci stupiremo piuà di trovare sempre, nella
tenerezza, anche un supplemento di impulso materno. Il linguaggio
non ha formato, per le innumerevoli altre specie dell’impulso
all’unione non sessuale, tanti accoppiamenti di parole come ha fatto
invece per la sua specie principale con l’«amor materno», ma giaà con
la locuzione «tenero amore» lascia capire come la tenerezza sia il
contrassegno essenziale dell’amore che mira all’unione. Noi
troviamo la piuà grande ricchezza di impulsi del genere nell’infanzia
(«pendant» della maternitaà ), il cui amore per gli animali, molto
diverso dalla media dell’amore per gli animali degli adulti, si traduce
subito in carezze, abbracci e protezione per l’animale amato.
Il «tenero amore», che possiamo anche chiamare, per la sua
natura di impulso, bisogno di tenerezza, si trascina, anche se in

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diversissimo grado, per tutta la vita dell’uomo, eà sempre piuà
accentuato presso le donne che presso gli uomini, ha per ciascuno
un massimo grado e puoà estendersi a tutte le cose possibili. Cosìà c’eà
un amore per le pellicce, il velluto, le penne d’uccello, i cuscini gonfi,
i molli prati, e per il divano, per un suono docile o per una terra
plasmabile, in breve per i piuà diversi oggetti molli o elastici: e tale
amore ha le sue radici nel bisogno di toccare teneramente. Perfino la
predilezione per i bagni in acque tiepide (nell'antichitaà , una
passione popolare) puoà essere in gran parte ricondotta a questo.
Come si eà giaà provato per il bimbo, anche l’amore per determinati
animali (ad esempio, per i gatti) puoà essere determinato anche dalla
forma molle e gonfia dell’oggetto, ed eà allora da distinguere
dall’amore per gli animali ricordato sopra, molto piuà concretamente
individuato. Infine non c’eà dubbio che quell’amor di patria del tutto
originario che nel caso di una separazione produce una nostalgia che
(almeno presso i popoli primitivi) puoà essere causa di morte, viene
nutrito da un impulso che soltanto la vicinanza corporea del focolare
domestico puoà appagare. Livingstone per primo riferìà, a proposito
degli abitatori delle sponde del fiume Lualaba, che essi dopo la
separazione dalla loro terra non di rado morivano in breve di
crepacuore. Presso questi e molti altri «popoli primitivi» la
profusione di tenerezze a piante e alberi, a strumenti di lavoro o ad
armi eà ancora qualcosa di abituale. Nell’antica Germania si augurava
all’albero «buon mattino» e gli si annunciava anche solennemente la
morte del capofamiglia. Alcuni africani svegliavano con i tamburi le
loro barche, e a viaggio avvenuto le facevano riaddormentare con
ninne-nanne. In questo contesto possiamo capire che possa
improvvisamente guarire l’ammalato di nostalgia al quale venga
portato un pezzo corporeo della sua patria, per esempio un filone di
pane che eà stato cotto laggiuà (qui ha peso anche il fatto che sia
commestibile, ma di cioà diremo piuà tardi). Qui puoà anche apparirci
in nuova luce il contenuto simbolico del mito di Anteo che perde la
propria forza se gli vien tolto il contatto corporeo con la terra.

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Essendo cosìà giunti nuovamente alla maternitaà che caldamente
abbraccia, ma questa volta a quella della terra, percepiamo subito
una stretta affinitaà di «tenero amore» e «intimo amore», e vogliamo
fin d’ora sottolineare che la psicologia da imbrattafogli che fa
derivare tenerezza, intimitaà , maternitaà , insomma l’«impulso
all’unione semplicemente», dall’impulso sessuale, ha contribuito
come nient’altro a rendere il giaà ottuso senso della «persona colta»
del tutto cieco per l’essenza dell’Eros.

2. Impulso all’inghiottimento.

Vedremo piuà tardi quale straordinario ruolo l’impulso


all’inghiottimento giochi nel regno dell’Eros. Qui invece, dove per il
momento chiariamo il concetto dell’amore, qualcuno dubiteraà che
l’uso linguistico offra un appoggio all’inclusione dell’impulso
all’inghiottimento, anche concedendo che l’assunzione dìà cibi solidi
o liquidi possa essere pur sempre considerata un’unione che in
«intimitaà » supera di molto, il mero contatto. Ma nessuno negherebbe
la possibilitaà di una gioia nel mangiare e nel bere, e con questo giaà si
sarebbe ammessa la possibilitaà dell’amore per il cibo, dell’amore per
la bevanda. Ognuno dei due impulsi poi (tali sono infatti fame e sete)
mostra una grande ricchezza di schizzinose inclinazioni: cosìà l’amor
di bevanda verso l’acqua si distingue da quello verso il vino o il latte,
e perfino l’amore per il Bordeaux da quello per il vino del Reno o il
Tocai. Non ci chiediamo ancora come accade, e notiamo soltanto che
anche il piacere del cibo e della bevanda trovano il loro compimento
solo nell’inghiottimento dell’oggetto desiderato.
Per la prima volta siamo spinti verso un tipo di impulsi che non
solo premono per l’attuazione di movimenti, ma che perfino
costringono ad essi, e che percioà si presentano come i bisogni piuà
propri, in quanto irresistibili, i cui gradi alti invece che passione o
entusiasmo si chiamano piuttosto brame: «avida fame», «avida sete».
E se giaà la natura schizzinosa dell’impulso all’unione permette di

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notare in esso, accanto al non disconoscibile lato di bisogno, anche
un lato di inclinazione, non ci saraà certo poi nessuno che non sia
capace di ricordare le particolari gioie e gli incomparabili godimenti
che il mangiare e il bere prima o poi gli hanno procurato. Ma se
nell’esperienza vissuta del mangiare o del bere ci sono sempre
anche tratti qualitativi, si concorderaà con noi nel considerare anche
l'aver fame e sete dal punto di vista di un impulso all’unione, che
mira all’inghiottimento, e nel respingere invece decisamente, per
quanto riguarda il lato del bisogno, il tentativo di farlo derivare da
un «impulso alla nutrizione». La nutrizione eà una conseguenza,
riconosciuta soltanto dall’uomo e pertanto solo per lui conscia,
dell’assunzione di nutrimento, e non una parte dell’impulso stesso!
Si falsifica irrimediabilmente l’intera dottrina degli impulsi, se si
presume di poter cogliere la loro essenza, che si puoà scoprire
soltanto nell’esperienza vissuta, dall’osservazione degli effetti della
loro attivitaà . Quanto in questo campo intendesse meglio la sapienza
di vita degli antichi, puoà mostrarcelo il fatto che anche un pensatore
cosìà tardo e giaà del tutto professorale come Aristototele determina la
fame come un impulso al contatto con l’asciutto, la sete a quello col
liquido.

3. Impulso sessuale o «Sexus».

Mentre nel caso precedente c’era bisogno di una particolare


spiegazione per rendere visibile il nesso tra amore e impulso
all’inghiottimento, ora, proprio all’opposto, sarebbe necessaria una
particolare spiegazione per mostrare che amore in generale significa
anche qualcos’altro dall’impulso sessuale, se avessimo cominciato
con questo aspetto della cosa. Ma per esserne dispensati, abbiamo
posto alla fine l’impulso sessuale. Cosìà basta notare che «amore»
spesso sta senz’altro per impulso sessuale, e «amare» per la
soddisfazione di questo.

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Poicheé oggi con «impulso sessuale» piuà precisamente si pensa
l’impulso all’accoppiamento bisessuale, e partendo da esso si spera
di comprendere tanto ulteriori specie di impulso all’accoppiamento
quanto anche ulteriori specie di attivitaà sessuali (che in rapporto a
esso divengono poi tutte quante le cosiddette perversitaà ),
apparterrebbero, secondo l’uso linguistico, a questo settore
dell’amore: amore omosessuale, pederastia, amore lesbico, amore
sessuale per animali, amore solitario; inoltre amore per il procurar
dolore («sadismo») e amore per il patir dolore («masochismo»); e
poi l’amor sessuale per il mostrarsi [geschlechtliche Zeigeliebe], come
si potrebbe tradurre in tedesco l’«esibizionismo» con tutte le sue
innumerevoli sottospecie e specie collaterali; infine ogni specie di
amore sessuale per parti e prodotti del corpo umano e per oggetti
d’uso, per cui si impiega il termine inadatto di «feticismo».
Piuà tardi mostreremo, per quanto saraà richiesto dall’illustrazione
dell’Eros, percheé il modo di osservazione che prende le mosse
dall’impulso all’accoppiamento bisessuale non basti. Invece va
accentuato ancora particolarmente per l’impulso sessuale cioà che si
eà detto sulla differenza tra fame e «impulso alla nutrizione»; che cioeà
sarebbe un capovolgimento e una intenzionale falsificazione
chiamarlo «impulso di procreazione». Di nuovo infatti la
procreazione eà una possibile conseguenza di attivitaà sessuale, ma
non eà presente come rappresentazione di scopo nell'esperienza
vissuta dell’eccitazione sessuale. Non ne sa nulla l’animale, bensìà
esclusivamente l’uomo. Cosìà nell’uomo non l’animale, il quale peroà
soltanto ha l’impulso sessuale, viene spinto all'accoppiamento da
motivi di procreazione, ma piuttosto il suo spirito, che non ce l’ha,
puoà accompagnare l’attivitaà impulsiva con il pensiero della
procreazione e con il desiderio di essa. Ora, eà vero che anche il
desiderio puoà assumere una forma impulsiva. Soltanto, allora esso eà
qualcosa di totalmente diverso dall’impulso sessuale, che dal canto
suo cadrebbe a mero mezzo in vista di uno scopo; e inoltre esso in
generale non eà un impulso, ma un «interesse», una direzione della
volontaà , un movente [Triebfeder] di natura molto diversa da persona

22
a persona. Cosìà talvolta nell'uomo il maschio pone il proprio impulso
sessuale al servizio dell’interesse della conservazione della specie, e
questo potrebbe essere il suo «impulso alla procreazione». Invece, se
una donna desidera figli, magari un’intera schiera, ella di regola ha
subordinato l’impulso sessuale al proprio impulso materno, e questo
potrebbe essere il suo «impulso alla procreazione», che non ha
quindi nessuna somiglianza con i desideri dìà conservazione della
specie dell’uomo. Questo esempio mostra inconfutabilmente in
quale controsenso cadiamo se scambiamo genuini impulsi naturali
con desideri umani, e se vogliamo comprendere tali impulsi dalle
loro conseguenze. Per tutte le specie impulsive di amore vale in
particolar modo cioà che abbiamo giaà dovuto rilevare per le
inclinazioni, che cioeà i loro gradi piuà alti si chiamano «passioni»
oppure, nel caso di una valutazione sfavorevole del loro oggetto,
«manie».
Per motivi che non possono ancora essere spiegati, nella
passione d’amore si possono distinguere: profonditaà
dell’inclinazione, veemenza dell’impulso ed esclusivitaà della scelta.
Quest'ultima eà nota solo rudimentalmente all’animale e alla prima
umanitaà . Se si vuole accentuare soltanto la veemenza dell’impulso, sìà
parla di brama o di ardore: «amore ardente», «ardor d’amore» (peroà
nell’«intimo ardore» [Inbrunst] c’eà di nuovo la profonditaà ). Se infine
l’oggetto dell’impulso deve venir screditato, allora si sceglie il
termine «mania». Cosìà dall’amore per il gioco presto nasce la
«passione per il gioco», ma anche la «mania del gioco»; dall’«amore
per il bere» la «mania di bere», dall’«amore per il mangiare» la
«mania del cibo»; e cosìà la «morfinomania», l’«oppiomania», ecc.
Poicheé la parola «mania» [Sucht], indicava originariamente malattie,
ogni specie di morbositaà psichica eà legata strettamente alla
«viziositaà »: e cosìà si comprende come molte abitudini amorose
cadano nella categoria dei «vizi».
Giunti alla fine di questo panorama, non ancora affatto
esauriente, dei casi della parola amore nell’uso linguistico odierno,
mettiamo in fila alcuni dei concetti d’amore che abbiamo elencato e

23
cerchiamo di renderne afferrabile la differenza indicando di volta in
volta il loro senso essenziale in primo luogo mediante una parola
che non contiene «amore»; interesse per la cosa (amore per la cosa)
— egoismo (amor di se stessi) — rispetto umano (amore del
prossimo, del nemico) — entusiasmo per la bellezza (amore della
bellezza) — amicizia (amore dell’amico) — maternitaà (amor
materno) — tenerezza (tenero amore) — passione (amore
veemente) — alcoolismo (amor del bere) — impulso sessuale
(«amore»). Se si riflette che cosìà con una sola parola possono essere
indicati tra l’altro: egoismo, amicizia, interesse per la cosa,
sessualitaà , maternitaà , si comprende percheé sarebbe un inizio
disperato legare la ricerca di un’essenza al nome dell’amore, e si ha il
metro per valutare il modo di procedere da guastamestieri di chi,
menato per il naso da una parola, tenta di far derivare tutti i possibili
moti e qualitaà per i quali la parola occasionalmente trova un impiego
da un solo tratto dell’interioritaà , e poi ancora da un solo impulso, e
infine dall’impulso sessuale. Si conoscono le orge del sessualismo
della medicina passata e particolarmente di quella odierna. Ma dopo
i nostri chiarimenti linguistici non ci si lasceraà piuà indurre a
prenderle cosìà sul serio da litigare per la cosa in questione; piuttosto
ci si permetteraà di notare che l’oggetto discusso, cioeà il cosiddetto
amore, esisterebbe non nella realtaà ma solo nel campo d’impiego
iliusoriamente unitario di una parola ! Di qui potrebbe risultare
chiaro contemporanea-mente dove la «scienza», cioeà la mera ricerca
di dati di fatto, rischia di cadere qualora tralasci di accordarsi con la
«metafisica», cioeà con la ricerca dell’essenza!
Poche parole basteranno a dire anche il secondo motivo che
impedirebbe di trattare, invece che dell’«Eros», dell'«amore». Tra
tutti i significati sopra raccolti per la parola amore non ne compare
cioeà nessuno che sia ricavato dalla conoscenza dell’Eros elementare.
Noi vedremo bene che questo partecipa a piuà d’un moto amoroso;
ma nessuno di essi sarebbe appropriato a stare in sua vece. Noi
dunque non possiamo prendere anche solo uno qualsiasi tra i mille e
un significati che la parola amore oggi possiede, se trattiamo

24
dell’Eros originario; e con questo la rinuncia al nome dell’amore
potrebbe essere sufficientemente fondata.
Dopo questo chiarimento del concetto di amore, e prima di
giungere all’Eros elementare, dobbiamo brevemente spiegare che
cosa eà stata, nell’accezione dell’antichitaà , l’esperienza vissuta
battezzata col nome del dio pagano.

1 Negli esempi che seguono eà presente l'aggettivo «lieb», che


significa caro, amato [N.d.T,].
2 In tedesco, agli ultimi esempi corrispondono altrettanti
sostantivi composti con la parola «Liebe» [N.d.T.].

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II. Del concetto di Eros dell'antichità

Due rappresentazioni sono solite affacciarsi alla mente in egual


misura quando nella vita quotidiana si parla dell’Eros dell’antichitaà :
l’immagine dell’efebo alato con arco, faretra, frecce, corona e
fiaccola, e accanto a questa l’«eros platonico», l’«amore platonico».
L’immagine degli amorini che si trastullano amabilmente ha
raggiunto la sua perfezione solo nell’etaà alessandrina ed appartiene
al «rococoà » dell’antichitaà . L’Eros platonico invece eà connesso a
qualcosa di piuà profondo, ma, come mostreremo, lo falsifica
intenzionalmente. Eros in quanto bimbetto che viene punito con la
verga per la sua increanza dalla madre Afrodite eà una creazione dei
bucolici. Nelle Adoniazuse di Teocrito Afrodite e Adone riposano, e
su di loro:

Vanno aleggiando i pargoletti Amori,


come gli usignoletti su per gli arbori
volan facendo di lor ali prova. 1

Questa forma, o quella per qualche tratto piuà ricca di


quell’«Amore» del quale l’incantevole fiaba di Apuleio narra
l’appassionato quanto fatale amore per «Psiche», hanno talmente
rimosso la figura originaria del dio nella coscienza dell’etaà tarda che
oggi anche la persona colta non sempre riesce a seguire, se si parla
di Eros «cosmogonico». La cosa suona giaà essenzialmente diversa se
ascoltiamo il coro nell’Antigone di Sofocle:

Amor possente, Amore


che tutto vinci, ed osi
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entrar di tutti in core,
e dolce ti riposi
sovra la gota bella
di florida donzella:
sul mar tu scorri, e in selve
nel covi! delle belve;
e mal da te presume
fuggir mortale o nume;
e chi tua possa aggira
pien di furor delira
Tu volgi i buoni in pravi,
e li traggi a periglio:
tu a lite or suscitavi
col genitore il figlio;
e vincerà possente
al paragon, l'ardente
in lui cura amorosa... 2

E piuà ancora che nei versi dei trageda, concettualmente acuti,


cominciamo a presagire la natura demoniaca dell’Eros originario
quando Anacreonte, che in altri casi scherza con grazia al suo
riguardo, annuncia che Eros lo ha colpito con un potente maglio e lo
ha tuffato nella corrente come il fabbro tuffa il ferro incandescente
nel rivo. Ma come con battiti d’ala di brividi sommersi della gioventuà
ci toccano questi versi del grave Ibico:

Come la bora di Tracia infiammata di folgori,


così, messaggero di Cipride,
Eros s'avventa con le sue follie ardenti
tempestoso, sfrenato: dalle radici
possiede l'anima mia. 3

Noi pensiamo che tra questi versi e quelli di Teocrito visti sopra
ci sia un lungo cammino, durante il quale il concetto di Eros

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si trasformoà completamente, mentre, di pari passo con un’epoca che
si definiva e limitava in modo sempre piuà umano, a poco a poco
scompariva in nuvole lontane la figura non meno minacciosa che di
buon auspicio di un demone di elementare violenza naturale, fino a
cadere, in ultimo, nell'oblio. Ai tempo di Teocrito erano passati, da
Ibico, due secoli e mezzo: nessun dubbio dunque che quanto piuà
andiamo indietro nel tempo tanto piuà si ricompone quell'immagine
e riemergono i suoi tratti oltreumani. Il fatto che Eros non sia
presente tra gli deà i del molto piuà antico Omero non puoà impedirci di
accostare un’antichitaà che si estende oltre lo stesso Omero per
rintracciare gli impulsi formativi ai quali l’Eros eà debitore della
propria esistenza. Infatti non c’eà piuà nessun dubbio che presso i
greci ionici della costa dell’Asia minore le divinitaà spirituali e
personali ottennero la vittoria su quelle ctonie ed elementari molto
prima che presso i greci della madre patria. Non possiamo sperare di
trovare in Omero i segni piuà eloquenti dell’epoca originaria, ma
dobbiamo cercarli parte in Esiodo e parte nell’ereditaà delle sette e
dei movimenti segreti che si depositoà dalla lotta di tutti gli strati
dell’anima greca con l’alta marea dionisiaca, nell'ottavo e fino al
sesto secolo. In Esiodo, che peroà parla poco dell’Eros, non ci
imbattiamo ancora nell’Eros cosmogonico in senso stretto, ma in un
Eros che assieme a Gea e al Caos prepolare che li precede entrambi
forma, «il piuà bello tra tutti gli deà i immortali», la triade creatrice di
ogni accadere. Conoscono l’Eros del tutto come cosmogono
finalmente le dottrine mitiche dell’orfismo; in quelle tra esse che
sono per noi piuà importanti Cronos, il «tempo che mai invecchia»,
forma dall’etere e dallo smisurato abisso l’argenteo uovo de!mondo.
Da esso balza fuori lo splendente dio Fanes — Eros — Dioniso
(chiamato anche Metis ed Erichepeo), di natura androgina e recante
con seé i germi di tutti gli deà i. Per autoaccoppiamento, come noi
possiamo anticipare, egli genera la piuà antica delle tre schiatte
divine di Grecia: Echidna, Gea e Urano. Similmente lo Zeus di
Ferecide diviene il demiurgo soltanto dopo che si eà trasformato in
Eros. Ancora Luciano parla dell’Eros demiurgico come dello

28
«ierofante dei misti», che ha fatto sprofondare il Caos ed ha
penetrato con «raggiante lume» la notte. Ma che gli orfici, per quanto
in seguito siano deragliati in una dottrina di redenzione e con i
frammenti di questa abbiano concimato il suolo sul quale doveva
prosperare la scuola pitagorica e piuà tardi il platonismo, si siano
collegati a culti antichissimi, eà ormai indubbio grazie ai risultati
della ricerca piuà recente. Mal si accorda con la nostra immagine
dell’amorino alato il sapere che l’Eros originario di Tespie, in Beozia,
in onore del quale i tespii ogni cinque anni tenevano la festa delle
Erobie, era una poderosa pietra greggia: come gli aeroliti della
Grande Madre, di Cibele, o, per gettare ponti attraverso il tempo,
come quella pietra conica proveniente da Emesa con la quale il folle
imperatore Eliogabalo, sacerdote dell’omonimo dio, beffoà gli dei
olimpici di Roma. (Molto meno olimpici di quel che sembrava, peroà ,
se anche nel tempio di Jupiter Feretrius c’era una «pietra focaia
sacra», presso la quale si prestava giuramento e si concludevano
patti solenni). Parimenti ci eà rimasta notizia di templi e feste dello
stesso Eros da Leuttra, in Laconia, e da Pario, nella Troade: ma qui lo
sguardo si volge all’indietro fino alla preistoria pelasgica. Il
passaggio a rituali orfico-bacchici eà chiaramente mediato da un
antico culto di Demetra «che offre doni» a Fila, dove oltre a Zeus
Ctesio domina l’Eros cosmogono come dio misterico e «redentore».
In suo onore risuonavano gli inni orfici dei licomidi, a proposito dei
quali Pausania, che li conobbe ancora, giudica che gli inni omerici
fossero piuà belli per «eleganza delle parole», ma che quelli orfici
stessero piuà in alto per «timor di dio».
Non meno di quanto questo demone di gravidanza planetaria e
di eterna rinascita eà diverso dall’Eros alessandrino dalle fuggevoli
passioni, l’Eros dell'amore omosessuale virile, bencheé piuà tardo, eà
diverso dalla rappresentazione che noi comunemente leghiamo al
concetto, derivante principalmente da Platone, della «pederastia»
greca. Dev’essere stato qualcosa di profondo e serio, anzi terribile,
riguardante un dio, cioà che intreccioà nella fedeltaà la «sacra schiera»
dei tebani fino all’eroica morte per la patria, o che indusse i cretesi a

29
porre proprio i giovinetti piuà belli nella fila piuà avanzata nello
schieramento di battaglia, in sacrificio all’Eros. E non certo per un
tratto femminile il suo culto si mantenne relativamente piuà a lungo
nella dura ed arcaica Sparta.
Da tutto cioà noi ci riteniamo autorizzati a collocare l’Eros
originario nella serie dei grandi dei misterici, dei Sabazio, Attis,
Adone, Dioniso, Bacco, Osiride, Serapide, e cosìà via, che dal canto
loro formano soltanto il seguito, ricco di figure, della Grande Madre:
di Cibele, Astarte, Afrodite, Ma, Anaetis, Berecinzia, Iside, Demetra,
Ecate, Persefone, Urania, Luna, Magna Mater, Venus coelestis, Anna
perennis, Bellona, e cosìà via. Ma mentre questi fiorirono sempre piuà
splendidamente nella mescolanza di dei dell’epoca imperiale
romana, il culto dell'Eros tramontoà , e del demone di una volta, di
antichissimi riti, rimasero due forme: l’Eros umano, che l’arte
celebra nella maniera nota, e del quale i lirici seppero cantare
maliziosamente, e l’Eros come concetto filosofico parziale ad uso
della catarsi delle sette segrete, degenerata a fuga dal mondo e a
dottrina di rinuncia: e il tardo culto di tali sette ruotoà principalmente
attorno alle figure di Baal, Serapide, Zagreo, Mitra, Sol invictus.
Accenneremo ancora al motivo per il quale presumibilmente un tale
destino eà toccato proprio all’Eros cosmogonico, ma prima dobbiamo
dedicare qualche parola alle dottrine dell’uomo che determinoà in
modo decisivo il concetto filosofico di Eros dell’antichitaà : alle
concezioni cioeà di Platone.
Sebbene tutta quanta la filosofia di Platone sia in maggiore o
minor misura compenetrata del pensiero dell’Eros, i due dialoghi
propriamente «erotici» sono il Simposio e il Fedro. Poicheé il
contenuto del Simposio si puoà considerare noto, ci accontentiamo di
citarne alcuni passi ai quali piuà tardi ci collegheremo, in parte per
confermarli, in parte per confutarli.
Nel chiarire l’irresistibile desiderio d’amore col tendere l’una
verso l’altra delle metaà di quegli esseri originari androgini e dalla
figura sferica che gli dei, per impedire che divenissero troppo
potenti, avevano diviso tutti in due pezzi, si dice, di coloro che si

30
amano, che essi, alla domanda di Efesto se egli debba saldarli
insieme, crederebbero di aver udito proprio «quello che da sempre
desideravano, di congiungersi cioeà e di fondersi con l’amato per
formare, di due, un essere solo»4.
Della successiva caratterizzazione di Eros da parte del
Socrate platonico, in parole che notoriamente vengono presentate
come rivelazione di una donna, di Diotima, sìà puoà soltanto ricordare
l’essenziale affermazione per la quale Eros non eà neé un dio neé un
uomo, ma un «demone» che partecipa di entrambi per la sua
discendenza dal padre divino Poros (espediente, pienezza) e dalla
non divina madre Penia (mancanza, povertaà ): per cui si puoà dire che
ha abbastanza perfezione per dover tendere a piuà alta perfezione.
Cosìà egli eà mediatore tra gli dei e gli umani: per opera di demoni «si
svolge tutta l'arte che predice l’avvenire, e tutto il complesso delle
funzioni e delle pratiche sacerdotali: sacrifici iniziazioni
incantamenti..., e la magia. La divinitaà , vedi, non ha diretto rapporto
col genere umano; soltanto per mezzo di demoni ha relazione con
noi; ogni suo colloquio con gli uomini, cosìà nella veglia come nel
sonno, avviene per il loro tramite. E si dice appunto che chi ha
conoscenza sicura di questo eà un uomo in rapporto con potenze
superiori, un uomo demoniaco. Invece chi sa cose d’altro genere...
non eà che un uomo comune».5
Alla base dello stato di eccitazione erotica, che come si eà visto eà
intesa in un senso molto piuà ampio che quello dell’uso linguistico
odierno, viene dunque posto un particolare stato di bisogno che
spinge il bisognoso verso l’oggetto del suo bisogno come verso un
polo che eà complementare e pertanto puoà dare, esso solo, la
pienezza. «Ammesso che l'amore sia veramente cioà che abbiamo
trovato», prosegue Diotima, «... in quale condizione l’impulso e lo
sforzo intenso dell’uomo si potranno chiamare amore?». E, poicheé
Socrate non sa rispondere, ella continua: «Ebbene, te lo diroà io. Si
tratta neé piuà neé meno di un parto nel bello tanto per il corpo, quanto
per l’anima. Tutti gli uomini, vedi, Socrate, e nel corpo e nell’anima,
sono gravi d’un germe profondo. E quando poi a etaà certa

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pervengono, allora tutto il loro essere agogna di dare col parto vita a
quel germe. E questo parto non puoà avvenir nella bruttezza; nella
bellezza, bensìà»6. «... cosìà che Bellezza fa da Sorte (Moira) e da
Levatrice (llìàtia) nella procreazione».7
Poi, la gioia di generare del corpo viene distinta da quella
dell’anima. Quella si troverebbe nell’animale e, nell’uomo, per la sua
parte ferina; questa, invece, solo nell’uomo per la sua parte psichica.
E dall'ultima scaturirebbero tanto le opere degli artisti e dei poeti e
le azioni degli eroi (per assicurarsi un’«eterna fama» nel ricordo dei
posteri) quanto i veri e propri rapporti amorosi — s’intende, tra
uomo e giovinetto —, che hanno lo scopo di generare altissima
sapienza nell’anima dell’amato, e di riottenere insieme una
beatitudine celeste. Come ora in tal guisa l’amante infine raggiunga
lo scopo dell'Eros, la teleteé , possiamo vederlo meglio volgendoci alla
platonica «dottrina delle idee» secondo il Fedro, piuà ricco di risultati.
L’opinione di Platone eà questa: se uno ama un uomo bello od
eccellente, non ama l’individuo caduco e sicuramente affetto da
alcune manchevolezze, bensìà ama in lui, o meglio per suggerimento
suo, la bellezza, l’eccellenza, la bontaà , la giustizia e quante altre virtuà
possono apparire amabili ed eccitatrici d’amore. L’uomo singolo non
eà mai la bellezza, la bontaà , eccellenza, ma soltanto le rappresenta
come altri ancora oltre a lui. Molti sìàngoli partecipano dell’unica ed
identica bellezza, bontaà , eccellenza, e questa loro partecipazione alle
sovrapersonali, non caduche ed immacolate «idee» della bellezza,
eccellenza, bontaà li rende amabili. Ma come giungiamo a sapere di
tali «idee», se ogni singola cosa percepibile non eà mai identica a
un’idea? Come giungiamo a sapere di qualcosa che non scorgiamo
mai in seé e per seé , in nessun modo? La risposta platonica suona:
grazie al ricordo (= anamnesis). In una esistenza prenatale
«migliore», «piuà elevata», quando la nostra anima, anzi, la sua parte
immortale, non si era ancora mescolata con la corporeitaà , eravamo
in grado di intuire le «idee», ossia le immagini originarie; poi peroà —
evidentemente in conseguenza di una specie di metafisico peccato
originale — l’anima immortale s’inabissoà nella corporeitaà , e di qui

32
derivoà l’oblio di tutto il suo stato anteriore alla nascita, e di
conseguenza anche delle «idee» allora intuite. Ora, l’Eros consiste in
questo, che, alla vista di certe persone che sono dotate piuà
dell’usuale della partecipazione a quelle «idee», in noi di nuovo
balena il ricordo di cioà che prima abbiamo intuito, cosìà che —
scoprendo la bellezza, la bontaà , l’eccellenza, invisibili per i sensi,
nella loro caduca copia — siamo presi da amore per questa. «Percheé
bisogna che l’uomo comprenda cioà che si chiama idea, passando da
una molteplicitaà di sensazioni ad una unitaà organizzata dal
ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza delle veritaà che
una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito
d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora
chiamiamo esistenti, e levava il capo verso cioà che veramente eà ».
«Cosìà solo la bellezza sortìà questo privilegio di essere la piuà
percepibile dai sensi e la piuà amabile di tutte». Ma l’iniziato, «quando
scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea
che ben riproduca la bellezza, subito rabbrividisce, e lo colgono di
quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa bellezza la
venera come divina e se non temesse d’esser giudicato del tutto
impazzito, sacrificherebbe al suo amore come all’immagine di un
dio».8
Segue la battaglia tra il «cattivo ed il buon destriero» dell’anima,
ossia tra le platoniche invenzioni dell’amore «terreno e celeste» (nel
Simposio come Afrodite Pandemia e Afrodite Urania), o infine, senza
circonlocuzioni, tra sensuale inclinazione ed un entusiasmo psichico
astratto. Nella misura in cui l’«amore celeste» vince su quello
«terreno», il desiderio d’amore si dilegua ed al suo posto arriva il
desiderio di sviluppare fino alla massima fioritura il contenuto
spirituale dell’amato e di renderlo in tal modo simile al dio che il
lampo di ricordo dell’Eros fece riconoscere germogliante in lui. Ed
invero ogni amante — per l’affinitaà elettiva del simile — forma
l’amato secondo il dio che lo guida. Cosìà quelli che erano al seguito di
Zeus anelano ad amare chi abbia un’anima conforme alle virtuà di
Zeus: scrutano se abbia sortito da natura amore alla saggezza e

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carattere per comandare; quanti invece furono al seguito di Era
anelano ad un'anima regale, e cosìà via.
Ed ora, «ecco che attribuendo il merito di cioà al loro amato lo
amano ancor piuà , e sebbene l’abbiano attinto da Zeus come
attingono le Baccanti, lo riversano nell’anima del diletto e
la formano cosìà per quanto possono piuà simile al proprio dio». 9
Ma attraverso un siffatto amore ritornano a poco a poco
all'anima quelle «ali» che essa aveva perso nella caduta dalla zona
delle immagini originarie al mondo delle caduche copie, ed essa giaà
si avvicina al confine presso il quale eà in grado dìà contemplare,
invece di cioà che sempre muta, che «mai si comporta nella stessa
maniera», «quella essenza priva di colore e di figura e di materia, la
quale ha in veritaà un essere».(!) Dopo la morte certo gli amanti
giungono al «luogo iperuranio» che «nessun poeta ha ancora cantato
degnamente». Percheé essi, «alati e lievi, delle tre gare veramente
olimpiche ne hanno vinta una, di cui neé la saggezza umana neé il
delirio divino possono recare maggior bene all’uomo». 10
Abbiamo qui il germe filosofico della narrazione di «Amore e
Psiche», e vediamo cioà che vi era di piuà importante per l’anima degli
antichi, l’Eros, posto dalle finissime arti seduttrici di una dialettica
mezzo poetica al servizio di quella metafisica di fuga dal mondo che
con la vana promessa di beatitudini nell’al di laà nasconde la propria
essenza di ostilitaà ai sensi e maschera il proprio scopo, che eà odio e
guerra contro i piaceri.
Dovremo ancora parlare del senso delle cosiddette idee, e per
ora scopriamo lo scopo di negazione della vita di questo pensiero
soltanto in relazione all’esperienza vissuta dell’amore, aiutandoci
con una riflessione tanto ovvia quanto dìà facile comprensione.
Ci chiediamo cioeà : eà proprio vero che quando un essere umano
ne ama un altro ama in ques’ultimo/a bellezza, bontaà , eccellenza?
Ognuno sa che proprio un amore forte e profondo cerca meno di
ogni altro i motivi della propria presenza; ognuno sa anche che
l’amante puoà scoprire nell’amato alcuni difetti e debolezze, ma che
non desidera affatto allontanarli da lui, bensìà lo ama assieme ai suoi

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difetti, e che, addirittura spaventato, desidererebbe di riavere
determinate mancanze, se esse sparissero improvvisamente dalla
sua immagine. «Che tu prima mi ispirassi spavento, anche questo
appartiene come un’immagine oscura alla poesia del mio amore e
della mia vita» (parole di Accorombona in Tieck). Nondimeno
resterebbe possibile che le vissute bontaà , bellezza, eccellenza
abbiano formato il segreto punto d’origine dell’amore. Ma per ogni
pregio e per ogni difetto che noi siamo in grado di nominare l’essere
amato corrisponde indubbiamente a tutti gli altri esseri a proposito
dei quali si possono affermare uguali pregi ed uguali difetti. C’eà forse
qualcuno che ammetterebbe, dopo essersi esaminato seriamente, dìà
aver amato un altro in considerazione dei tratti che questi aveva in
comune con altri uomini? O non dovrebbe piuttosto notare che
quello, in quanto era un amato, si distingueva da ogni essere anche
solo immaginabile? Ma rievochiamo una delle grandi passioni che la
storia e la leggenda ci sanno raccontare: per Crimilde c’eà solo un
Sigfrido, per Tristano solo una Isotta, per Ofelia solo un Amleto, per
Eloisa solo un Abelardo, per Dante solo una Beatrice, per Giulietta
solo un Romeo, per Holderlin solo una Diotima. Se quest’unico
muore o viene strappato all’amante, all’amante muore e viene
strappata ogni cosa. Il pensare a quante si voglia altre donne o
uomini di pari eccellenza non puoà sostituire minimamente per
l’amante quell’unica donna o quell’unico uomo al quale,
imprevedibile com’eà , l’amore lo ha legato. Come abbiamo giaà visto,
certamente l’antichitaà non conosce passioni «eterne», ma solo di
durata limitata. E poi, perfino una passione «eterna» puoà spegnersi,
ed una seconda, una terza persona possono passare sotto il raggio
del lume dell’Eros; ma quell’unica che vi sta nell’attimo eà resa
proprio per questo incomparabile, ed eà rapita a tutto il resto del
mondo. Questo almeno vale, senza differenze, per l’amore degli
antichi e la passione dei medievali. Ed essa non si sottrae ad ogni
paragone percheé , per esempio, l’amante vaneggi che sia piuà bella dìà
ogni altro essere, bensìà percheé eà questa e nessun’altra. «Nulla», scrive
Eloisa ad Abelardo, «ho mai cercato in te se non te stesso, bramando

35
soltanto te e non cioà che eà tuo». Ma allora mente chi sostiene che se
un essere diviene amabile per un altro cioà dipende dalla sua
(universale) bellezza ed eccellenza, in quanto chi afferma questo ha
scambiato il vitale stato dell’Eros con quello spirituale della
conoscenza! EÈ peroà chiaro quale segreto scopo questa falsificazione
puoà perseguire. Adornando con la parola «Eros» un interesse
dell'intelletto e tollerando soltanto un Eros tale che il suo oggetto
abbia qualche «virtuà », essa allontana ed annienta l’Eros reale.
Proprio come la cristiana frase dell’amore eà servita a sostituire al
genuino amore, che sceglie e divinizza, l’esigenza uguagliatrice
dell’universale rispetto (del prossimo, si dice, ma s’intende dello
straccione!), allo stesso modo l’Eros platonico (secondo Nietzsche,
«cristianesimo preesistente») tenta di sostituire all’eccitazione
psichica dello stato erotico una affezione della ragione, per la quale
noi nei fatti dovremmo amare, sulla base di un pensiero
ammaestrato, degli spettri concettuali! EÈ appena il caso di
aggiungere che cosìà eà dimostrata la totale inconsistenza della
«contemplazione» nella quale questo Eros dovrebbe trovare
compimento.

1 Trad. di G.M. Pagnini (1737-1814).


2 Trad. di Felice Bellotti.
3 Trad. it. di G. Perrotta, in Lirici greci, Milano, 1976, p. 353.
4 Platone, Simposio, trad. it. dìà P. Pucci, Bari, 1971, p. 176.
5 Platone, Convito, trad. it. di E. Turolla, Milano, 1953, pp. 128-
129.
6 Platone, Convito, tra. it. cit., pp. 133-134.
7 Platone, Simposio, trad. it. cit., p. 194.
8 Platone, Simposio, trad. it. cit., pp. 249-251.
9 Platone, Simposio, trad. it, cit., p. 254.
10 Platone, Simposio, trad. it. cit., p. 258.

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III. L'Eros elementare

Se vogliamo intenderci sull’essenza dell’Eros elementare, sul suo


senso nella connessione della realtaà , sulle condizioni della sua
comparsa, dobbiamo prima di tutto tentare di definire che cosa esso
propriamente sia. E possiamo farlo soltanto descrivendo lo stato che
nello spirito della nostra concezione sarebbe elementare-erotico.
Ora, in quanto tale descrizione puoà dire qualcosa soltanto a chi puoà
completarla da se stesso ricordando almeno una qualsiasi
esperienza vissuta simile, giaà la nostra primissima considerazione eà
anche un primo passo verso una scienza «esoterica». Ma a questo
riguardo lo studio dell’anima non eà meglio ma neppure
essenzialmente peggio di quello consueto dei dati di fatto. Possiamo
spiegare ad un cieco dalla nascita le leggi dell’ottica, ma non per
questo egli si avvicineraà alla rappresentazione del colore blu piuà che
se non avesse mai sentito parlare di ottica. Come quando parliamo di
colori dobbiamo presupporre la facoltaà della vista in chi ci ascolta,
cosìà quando parliamo dell’Eros dobbiamo presupporre una modesta
misura della capacitaà di esperienza vissuta elementare-erotica.
Frattanto c’eà un mezzo per venire in aiuto alla riflessione che
vorrebbe richiamare alla memoria qualcosa che ha vissuto: ed eà il
confronto. Lo storico dell’arte che vuole illustrare la singolaritaà di un
Velasquez pone per esempio uno dei suoi ritratti accanto a uno di
Duü rer: subito in modo chiaro e netto cioà che eà diverso si separa da
cioà che eà comune. Cosìà ora per illuminare l’essenza dell’Eros
scegliamo un termine di confronto che spesso e ripetutamente fu
scambiato con esso: l'oggi famoso impulso sessuale.
L’Eros non eà impulso sessuale, e l’impulso sessuale non eà Eros.
Prima di mostrare peroà la loro diversitaà diciamo in poche frasi che
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cosa puoà aver dato luogo alla loro confusione. Un immancabile
contrassegno dello stato erotico eà la voluttaà . Se percioà si inventasse
un impulso erotico, sarebbe senza dubbio un impulso alla voluttaà .
Ora, si nota subito che c’eà una voluttaà anche nel campo dell’impulso
sessuale, la quale eà causata dall’appagamento dell’impulso, e che a
questo principalmente si pensa sentendo la parola voluttaà .
Certamente locuzioni come quelle della voluttaà di vittoria, della
voluttaà di trionfo, della voluttaà di crudeltaà , ci insegnano che con la
parola voluttaà possono essere pensati piaceri del tutto diversi da
quelli, che molti ritengono soltanto corporei, che accompagnano la
liberazione di uno stimolo animale: ma possiamo almeno credere
questo, che con l’appagamento dell'impulso sessuale possa farsi
avanti qualcosa che similmente sarebbe proprio anche dello stato
erotico: e cosìà sarebbe comprensibile percheé sìà siano confusi Eros e
sesso. Ma con questo cioà che eà comune sarebbe giaà esaurito, mentre
le diversitaà da noi quasi ricacciate si sono giaà inavvertitamente
annunciate.
Se eà vero che l’Eros eà uno stato di voluttaà , l’impulso sessuale
partecipa ad esso per pochi fuggevoli minuti nel caso piuà favorevole,
come partecipa dello splendore della fiamma chi salta attraverso un
fuoco; ma quello eà cosìà poco Eros quanto questo saltatore eà la
fiamma. Certo non si raggiungeva l’essenza della cosa chiamando
l’impulso sessuale un impulso alla procreazione: ma non si
sbaglierebbe di meno volendo chiamarlo un impulso alla voluttaà .
L’uomo puoà desiderare una cosa come l’altra; invece l’animale
nell’uomo, (inteso nel significato nobile della parola), che obbedisce
soltanto al violento impeto che spinge i sessi l’uno verso l’altro, nello
stato di eccitazione sessuale non viene trascinato verso la voluttaà ma
verso l’essere dell’altro sesso, come se dovesse fondersi con esso,
presentendo forse quegli enigmatici piaceri, dominato peroà e spinto
dal violento dolore della privazione.
Giaà dopo questo accenno preparatorio vediamo come nessuno
dei concetti d’amore elencati nel primo capitolo sarebbe adatto a
caratterizzare l’Eros elementare; infatti tra tutti quei nomi, siano

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essi di inclinazioni, siano di impulsi, siano di passioni, non ce n’eà
nessuno il cui significato rimandi allo stato di voluttaà : e la parola
«voluttaà » nuovamente sarebbe equivoca, percheé senza dubbio
indurrebbe a pensare ad una fuggevole eccitazione, e
prevalentemente del corpo. Parimenti vediamo senz’altro che per la
concezione di Platone, nonostante la distinzione tra un amore
«terreno» ed uno «celeste», l’origine eà stata il sesso e non l’Eros. Il
suo Eros eà «demoniaco» in quanto significa uno stato a metaà tra
mancanza e pienezza che, come vedremo ancora, da ultimo non eà
altro che la situazione dìà chi aspira a qualcosa. E certo dev’essere un
aspirare cioà per cui la propria relazione amorosa serve solo come un
mezzo per raggiungere una perfezione spirituale a proposito della
quale ci viene assicurato che per l’uomo non c’eà maggior beatitudine
del suo possesso. Soltanto, comunque possa andare con la
beatitudine spirituale, una cosa eà certa: essa ha il carattere
dell’appagamento in rapporto a una precedente aspirazione, proprio
come la voluttaà sensuale dell’atto dell’accoppiamento appaga il
precedente impulso all’unione. Ed ora noi sosteniamo che nessuna
beatitudine, sia sensuale, sia spirituale, ha, in quanto consista
essenzialmente in un appagamento di un impulso o di un desiderio,
il carattere di genuina teleteé , cioeà del compimento e della pienezza
perfetti. Cosìà tocchiamo una insufficienza di tutte le ideologie, che
piuà ancora di quella che abbiamo giaà trattato ci svela che con ogni
tendenza alla spiritualizzazione l’uomo fugge il mondo dei sensi, che
gli eà diventato insipido o amaro. Nessuno lo seppe meglio di
Schopenhauer, che pure sbaglia, come Platone, nella sua
interpretazione.
Con parole eloquenti egli mostra a quali conseguenze porti il
porre la pienezza della vita nell 'appagamento di cioà che per lui eà il
senso di cioà che accade, la generalizzata «volontaà ». Egli mostra con
motivi inconfutabili che ogni appagamento della volontaà eà posto solo
nel fugace attimo del passaggio dallo stato del non possedere ancora
a quello del possedere, al quale immancabilmente dovrebbe
succederne uno di noia se un nuovo bisogno non portasse nuove

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aspirazioni della volontaà . «Tutta la vita umana», egli dice, «scorre tra
il desiderio e la soddisfazione. Il desiderio eà per sua natura dolore: la
soddisfazione si traduce presto in sazietaà . Il fine, in sostanza, eà
illusorio: col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in
forma nuova, e con esso, il bisogno; altrimenti ecco la tristezza, il
vuoto, la noia, nemici ancor piuà terrìàbili del bisogno.» 1 E: «La
soddisfazione, o, come si dice ordinariamente (!), la felicitaà , eà per
natura essenzialmente negativa, senza nulla di positivo... Il desiderio,
la privazione, sono infatti condizioni preliminari dìà ogni gioia».2 Si
vede come egli conosca solo la pseudofelicitaà dell’eliminazione di
una privazione, dell'accantonamento di un impedimento o della
rottura di un ostacolo: la felicitaà cioeà di quel moto pendolare tra non
avere ed avere che eà il contenuto di ogni aspirazione e che tra l’altro
accompagna l’avvicendarsi di tensione e liberazione sessuale. Ma
egli ha anche visto che tutto questo, in quanto intimamente privo di
una fine, non sfocia affatto in un vero compimento. Ed allora egli
fugge nel pensiero di una «autonegazione della volontaà », come per
lo stesso motivo Platone era fuggito nel luogo «iperuranio» del suo
mondo, esangue e percioà anche privo di dolore, di concetti reificati. E
di fatto tale aspetto avrebbe la vita, se non fosse altro che tendere,
aspirare, desiderare, necessitaà di chi eà sospinto e pena del volere, e
non fosse piuttosto l’inesauribile ricchezza dei colori, dei suoni, degli
odori nei quali la trasforma il prodigio dell’Eros. Nell’ebbrezza che
tale prodigio reca a compimento, l’anima del mondo, configuratrice
di essenze, libera e permea il portatore dell’anima. Cosìà lo esprime
Hafis, il sapiente:

La luce della vera rivelazione,


l’accoglierai soltanto nell'ebbrezza.
È infatti solo un'illusione,
pensare che il non ebbro non sia completamente oscuro.

E cosìà anticipiamo, con un balzo, spiegando l’esempio


precedente, che l’appagamento sessuale eà voluttaà in tanto, in quanto

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partecipa dello stato dell’ebbrezza erotica, e che la voluttaà sessuale
in tanto manca della perfezione dell’Eros, in quanto essa eà
meramente appagamento di un impulso o perfino solo di un
desiderio umano.
Ma di qui risulta una cosìà straordinaria diversitaà tra le occasioni
delle due ebbrezze che non possiamo piuà attendere di far luce piuà a
fondo sull’essenza dell’Eros confrontandolo soltanto con l’impulso
sessuale. Mentre cioeà la voluttaà dell’appagamento dell’impulso
sessuale compare con l’unione sessuale di due esseri,
presumibilmente non si possono delimitare le occasioni che
permettono l’ingresso del portatore d’anima nel cerchio di fuoco
dell’ebbrezza erotica. Questa puoà giungere al compimento al solo
sguardo di un essere amato, e questo puoà essere o no del sesso
opposto; puoà essere un animale, una pianta; e non di meno puoà
trovare il compimento nel fiutare un profumo, nel gustare un vino,
nell'udire un suono, nel toccare un ramo gocciolante. Puoà destarsi
nella veglia come nel sogno. Festeggia le sue orge al soffio del vento
tempestoso di primavera, alla vista del firmamento disseminato di
stelle, nel brivido della grandine, sulla fiammeggiante vetta del
monte, nella furia della risacca, tra i lampi del «primo amore», ma
non meno nell’abbraccio del destino, che stritola il suo portatore.
EÈ contemporaneamente voluttaà del sorgere e del tramontare ;
voluttaà per la quale il morire e la morte divengono una
dolorosamente beata trasformazione. Nell’attimo d’eternitaà della sua
perfezione c'è delirio scatenato o cristallino rapimento. E con questo
abbiamo giaà indicato cioà che dovrebbe essere detto in secondo
luogo. Lo stato dell’ebbrezza erotica eà cosìà poco simile a quello di un
qualsivoglia bisogno che dobbiamo contrassegnare cioà che in esso eà
impeto come impeto dello straripare, della raggiante effusione, dello
smisurato donarsi. Non eà bisogno e mancanza, ma esuberanza della
pienezza piuà sorgiva, fiamma che sparge oro e gravidanza pregna di
mondi. Per questo cioà su cui cade il suo raggio arde di bellezza
ineffabile, e dove esso poggia il piede sbocciano cespugli di fiorìà, e il
suo abbraccio libera da uomini e cose il dio incarcerato. Questa eà

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l’indole piuà generale di quello stato che nel linguaggio simbolico
dello spirito veggente degli antichi si chiama l' Eros cosmogonos.
Come la brama dell’impulso sessuale gli si avvicinoà ? Percheé , a quel
che sembra, ne eà rimasto un resto, afferrabile anche da parte degli
uomini, soltanto nell’atto dell’accoppiamento? E in che rapporto sta
con esso l’amore genuino, profondo, «che supera la morte»? Poicheé
potrebbe essere piuà facile trovare la risposta a tali domande
partendo dall’essenza dell’Eros piuttosto che dalle sue forme
fenomeniche, la rimandiamo e preferiamo dotare di maggior
ricchezza di linee lo schizzo che in un primo momento risultoà dal
confrontarlo con i tratti principali del sesso. Cioà che si puoà
riconoscere da quei pochi tratti sembra in certa misura simile
all'immagine dello stato dell’ebbrezza dionisiaca che Nietzsche
traccioà , con linee piuà audaci, nella sua memorabile Nascita della
tragedia.
Egli riprende perfino il giovanile inno di Schiller alla gioia per
renderci piuà chiaro come l’onda dell’entusiasmo bacchico congiunga
cioà che essa scatena e libera, proprio col liberarlo. E senza dubbio si
potrebbe chiamare lo stato erotico anche uno stato dionisiaco, anche
se eà vero che non si potrebbe con ugual diritto chiamare erotico lo
stato dionisiaco. Certo entrambi concordano tanto nella disposizione
estatica dell’anima quanto in quello straripare che (con una
locuzione di Nietzsche che deriva da Schopenhauer) spezza la
barriera dell’«individuazione» e rituffa la vita del singolo nella vita
degli elementi.
Non c’eà quasi piuà bisogno ora di spiegare da che cosa sia stata
determinata la scelta di parole come «Eros cosmico», «Eros
cosmogonico», «Eros elementare». L’Eros si chiama elementare o
cosmico in quanto il singolo essere afferrato dall’Eros si sente come
attraversato da pulsazioni e inondato quasi da una corrente elettrica
che, simile per essenza al magnetismo, incurante dei loro limiti
muove due anime lontanissime a ricercarsi reciprocamente in uno
slancio che le unisce; e che trasforma il mezzo stesso di ogni
accadere, lo spazio ed il tempo che separano i corpi,

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nell’onnipresente elemento di un oceano che sorregge e circonda
con le sue acque: e cosìà congiunge, senza danno per la loro non
sminuibile diversitaà , i poli del mondo. E si chiama cosmogonico
percheé eà uno stato di pienezza in espansione per il quale l’interno,
generando contemporaneamente se stesso, diviene all’istante un
esterno, mondo e realtaà che appare. Molto diverso dal mero
sentimento, esso eà l’incessante rivelarsi di cioà che incessantemente
sgorga da un’anima nascostissima. Se noi completassimo la veritaà
hegeliana: «niente eà essenziale, che non appaia», incuranti del
pensiero di chi l’ha detto, con: «e solo in quanto accesa dall’Eros,
l’essenza passa dagli informi inferi allo splendore dell’apparire»,
avremmo giaà con questo fatto riconoscere, nell’ebbrezza elementare,
cioà per cui essa, al di laà di ogni mero stato dell’anima che in essa
vibra, eà garanzia della sua immediata partecipazione all’accadere
creativo. Ma almeno cosìà potremmo aver scoperto fino a qual punto
soltanto essa conceda queiresuberante felicitaà che, «come il sole alla
sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza
inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora si
sente assolutamente ricca, quando anche il piuà povero pescatore
rema con un remo d’oro»3.
In una corona di sonetti, la piuà bella forse che sia toccata alla
lingua tedesca, Eichendorff fa derivare l’irresistibile potenza del
canto originario dall’Eros creatore del mondo, e lo rivela in tale
occasione con parole che, come se fossero esse stesse scaturite dalla
sua fiamma, non sono in nessun modo spiegabili, e che, con il loro
canto, possono del pari confermare l’argomento appena toccato:

Wer einmal tief und durstig hat getrunken,


Den zieht zu sich hinab die Wunderquelle,
Dass er melodisch mitzieht selbst als Welle,
Auf der die Welt sich bricht in tausend Funken.

Es wächst sehnsüchtig, stürzt und leuchtet trunken


Jauchzend im Innersten die heilge Quelle,

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Bald Bahn sich brechend durch die Kluft zur Helle,
Bald kühle rauschend dann in Nacht versunken.

So lass es ungeduldig brausen, drängen!


Hoch schwebt der Dichter drauf in goldnem Nachen,
Sich selber heilig opfernd in Gesaü ngen

Die alten Felsen spalten sich mit Krachen,


Von drüben grüssen schon verwandte Lieder,
Zum ewgen Meere führt er alle wieder.

[Colui che una volta ha bevuto profondamente, e assetato, / eà


trascinato giuà dalla fonte meravigliosa, / affincheé anch’egli
melodiosamente si accompagni ad essa, come un’onda / sulla quale
il mondo si rifrange in mille scintille. / Piena di nostalgia cresce,
precipita e splende, ebbra, / la santa fonte, giubilando nell’intimo, /
ora aprendosi strada verso la luce attraverso i crepacci, / ora
rumoreggiando fresca, e poi sprofondata nella notte. / Lascia che
strepiti e spinga impaziente! / Alto sta il poeta, in un aureo
vascello, / santamente sacrificandosi in canti. I Le vecchie rocce si
spaccano con fragore, / giaà si ode il saluto dìà canti affini, / ed egli
riconduce tutti al mare eterno.]

Se ora dobbiamo tentare di definire in modo piuà netto in che cosa


il dionisiaco si differenzia dalla voluttaà elementare-erotica,
dobbiamo prima di tutto considerare, piuà esattamente di quel che
abbia fatto Nietzsche, l’estasi che ne eà alla base. Poicheé se volessimo
ricordare la storia del concetto di estasi supereremmo di molto i
confini di un mero abbozzo, e poicheé altrove abbiamo giustificato
esaurientemente tutto il necessario, ci accontentiamo qui di una
ripetizione piuttosto dogmatica dei risultati delle nostre ricerche.
Invece di dire che la singola anima si libera nell’estasi, possiamo
anche dire che si libera o viene liberata da certe barriere e catene del

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comportamento che altrimenti le eà abituale, e cosìà possiamo farci
guidare dalle seguenti domande:

I. Che cosa è, che si libera nell'estasi?


II. Da che cosa si libera?
III. Che cosa conquista, divenendo libero, cioà che si libera?

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IV. Dello stato dell'estasi

Anticipiamo la risposta alle due prime domande: non è, come si eà


immaginato, lo spirito dell’uomo che si libera, ma l’anima; e non si
libera, come si eà immaginato, dal corpo, ma proprio dallo spirito.
Il cosmo vive, ed ogni vita eà polarizzata in anima (psyche) e
corpo (soma). Dovunque c’eà un corpo vivente, c’eà anche un’anima; e
dovunque c’eà anima c’eà corpo vivente. L’anima eà il senso del corpo, e
l’immagine del corpo eà l’apparizione dell’anima. Qualsiasi cosa
appaia, ha un senso; ed ogni senso si rivela apparendo. Il senso viene
vissuto interiormente, l’apparizione esteriormente. Quello deve
divenire immagine, se deve comunicarsi; e l’immagine deve
interiorizzarsi per operare. Questi, fuor di metafora, sono i poli della
realtaà . Se comprendendo e pensando consideriamo il mondo da
fuori, esso ci mostreraà ovunque la triade pelasgica dei due poli
articolati nell’unitaà dell’intero. Lo spazio eà il corpo del tempo, il
tempo l’anima dello spazio. Anima e senso della notte eà il giorno,
grembo materno della luce eà la notte. Inverno ed estate, dolce sonno
e veglia, morire e sorgere seguono in fila. L’elemento femminile eà
corpo e madre dell’anima, quello maschile eà senso rivelato e
rivelatore del grembo materno. Sangue e nervi, plesso solare e
cervello, «cuore» e «testa», bocca e occhio, sinistra e destra stanno
nello stesso rapporto. Si separi un membro dall’altro, e il mondo eà in
pezzi.
La storia dell’umanitaà ci mostra nell'uomo, e soltanto nell’uomo,
la lotta all’ultimo sangue tra la diffusissima vita ed una potenza
extraspaziale ed extratemporale che vuol rendere discordi ed in tal
modo annientare i poli, vuole privare dell’anima il corpo e privare
del corpo l’anima, e che viene chiamata spirito (logos, pneuma,
46
nous). Essa si manifesta anche conformemente alla natura bilaterale
del nostro essere: mediante una riflessione che pone differenze
(νοησις) e volontaà che pone scopi (βουλησις). Il punto di fermata
comune ad entrambe, che in noi eà divenuto il centro spostato della
vita, si chiama io o seé . in quanto portatori di vita siamo, come tutti gli
altri portatori di vita, individui (cioeà esseri singolari indivisibili); in
quanto portatori dello spirito siamo inoltre anche degli «io» o dei
«seé ». «Persona», in latino persona, indicante originariamente, come
il greco πρσσωπον, la maschera del mimo attraverso la quale parla
un demone, da lungo tempo significa vita violentata dallo spirito,
vita al servizio del ruolo che le viene comandato dalla maschera
dello spirito. Viviamo solo piuà nel dover pensare e nel dover
(mùssen) volere; solo piuà attraverso il sentimento dell’io percepiamo
ancora le voci del tutto dal quale siamo stati separati, e questa
maschera ci eà cresciuta nella carne e ad ogni secolo cresce piuà salda.
All’umanitaà preistorica del dominio dell’anima—ci sia consentita
questa parentesi — succedette quella storica del dominio dello
spirito. Ma a questa seguiraà l’umanitaà poststorica della larva
soltanto piuà pseudoviva: stiamo assistendo appunto alla sua ascesa.
Soltanto, se noi avveleniamo, bruciamo, atomizziamo la vita in noi e
attorno a noi, dal cadavere della madre uccisa s’alza inesorabilmente
la «vendetta delle Erinni». Per la rappresaglia della vita imbrattata e
contaminata l’umanitaà finiraà in inimmaginabile orrore nello stesso
attimo in cui festeggeraà l’ultimo sconfinato trionfo della larva, del
Golem: cosìà parla Cassandra, il cui destino eà di essere derisa come
pazza da coloro che devono (mussen) essere ciechi, se deve compiersi
la sciagura che ella annuncia.
Mentre ogni essere vivente extraumano, se anche eà separato ed
ha una propria interioritaà , pulsa nel ritmo della vita cosmica, la legge
dello spirito ha separato l’uomo da questo ritmo. Cioà che all’uomo in
quanto portatore della coscienza dell’io appare nella luce della
superioritaà di un pensiero calcolatore sul mondo, appare al
metafisico, se questi comprende abbastanza a fondo, nella luce di un
asservimento della vita sotto il giogo dei concetti. Liberare

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nuovamente la vita da questo giogo, tanto per quanto riguarda
l’anima quanto anche per quanto riguarda il corpo, eà la propensione
nascosta di tutti i mistici e i dediti ai narcotici, che lo sappiano o lo
disconoscano: e tale propensione trova compimento nell’estasi. Per
dimostrarlo, non ci basterebbero cento pagine. Basti qui uno
sguardo alle prove piuà importanti.
Che solo l’uomo possieda una coscienza dell’io, necessariamente,
a causa della sua partecipazione allo spirito, sempre uguale, eà stato
sostenuto da parecchi tra i piuà recenti pensatori di rango: valga
percioà per dimostrato.2 Se ora l’estasi eà una despiritualizzazione
dell’anima, deve anche essere una privazione del suo seé . Tra l’altro,
ce lo conferma il linguaggio, ed in particolare la lingua tedesca.
Tradotta secondo il suo senso, estasi non significa «essere portati
via», ma «esser fuori di seé » (= essere fuori dell’io). Colui che eà
ubriaco o ebbro, indifferentemente se in stato di entusiasmo o in
conseguenza di narcotici, non eà piuà «presso di sé», eà «uscito fuor di
seé », corre il pericolo di «dimenticare se stesso», e, sobrio, «ritorna in
seé ».
Nondimeno a buon diritto si scelgono proprio le stesse locuzioni
per indicare la strapotente efficacia di un impulso. Infatti, nel fatto
che in un attimo lo spirito viene spodestato, l'eccitazione meramente
impulsiva concorda pienamente con quella estatica. Anche per un
accesso di collera uno puoà «dimenticare se stesso», «uscire fuori di
seé », e, dopo l’azione impulsiva di un omicidio commesso al colmo del
furore, «ritornare in seé ». Soltanto, se nell’estasi, come ancora
dimostreremo, il seé viene provvisoriamente abbandonato,
nell’attimo dell’abituale eccitazione esso sta soltanto sotto il
dominio di un impulso somatico; e se pure l’impulso abbatte la
barriera dell’arbitrio, non abbatte peroà ugualmente la barriera
dell’essere particolare. Nell’impulso eà la preponderanza dell’essere
singolo a togliere le forze allo spirito; nell'estasi, anche se mediata
da quella, eà la violenza vitale del mondo. L’impulso annuncia la vita
animale, l’estasi rivela la vita elementare. Quello si mostra attraverso

48
la veemenza dell’eccitazione che ci afferra, questa attraverso la sua
profondità.
Tra le lingue indogermaniche difficilmente ce n’eà una che non
descriva profonditaà e potenza dei sentimenti come una cosa che
capita, che viene subita. «Pathos» (πάά θος), «passione» (passio),
«Leidenschaft»: tre volte «sofferenza» per il piuà alto grado del
sentimento che sboccia dal profondo dell’anima! Se solo ci si fosse
chiesti: che cos’eà che soffre e che cos’eà cioà che fa soffrire, non si
sarebbe potuto sbagliare risposta; passivo, sofferente eà il nostro io,
ed esso cade in potere della vittoriosa violenza della vita. Ogni volta
che vogliamo o pensiamo, noi diciamo: io penso, io voglio, io agisco, e
tanto piuà decisamente mettiamo in rilievo l’io, quanto piuà
fortemente appunto noi pensiamo o vogliamo. Quando invece
abbiamo vissuto e sentito qualcosa di grande, ci sembra sbiadito e
fiacco dire: io sentii cioà che segue; diciamo allora piuttosto: quella
cosa mi ha afferrato, scosso, preso, travolto, trascinato. Che cosa ci
trascina? la vita! e che cosa viene trascinato? l’io! A cioà si aggiunge la
lunga serie di testimonianze linguistiche della diversitaà ed estraneitaà
all’io di cioà che in tali casi prende possesso di chi si eà completamente
abbandonato. Per i greci, il miste era «entheos», cioeà colmo del dio o
del demone. Di qui ci sono rimasti i concetti dell’invasamento e
dell’entusiasmo. Nell’ultima parola Begeisterung non c'eà lo spirito
(Geist) grazie al quale gli uomini esprimono giudizi, bensìà uno
«spirito», un essere extraumano di diversa specie, come anche nella
locuzione «apparizione di spiriti», anche se in quest’ultima si tratta
di uno spettro. Inoltre: cioà che il miste riporta dall’estasi allo stato di
veglia eà per lui «ispirazione», «illuminazione», dunque qualcosa che
non eà generato dall’io, ma che anzi s’impadronisce dell’io come
venendo dall’esterno. E alle prove linguistiche si affiancano infine,
completandole, molte espressioni che provengono dalla bocca di
genuini estatici, e che illustrano la stessa cosa con suadente
originarietaà . Gialal ad-Din Rumi, fondatore dell’ordine Mawlawi,
dice:

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La morte pone fine agli affanni della vita:
eppure la vita rabbrividisce di fronte alla morte...
Così rabbrividisce un cuore, di fronte all’amore,
quasi fosse minacciato di morte,
infatti, dove si desta l’amore,
muore l'io, l’oscuro despota.

E: «chi conosce la forza della ridda, vive in dio: infatti sa come


amore uccìda»! Nessun dubbio: l’estasi non strappa l’anima al corpo,
ma al seé e di conseguenza allo spirito.
Ma se eà cosìà, ogni estasi percorreraà due fasi: la fase nella quale
l’io tramonta e la fase nella quale la vita risorge. Quella eà la parte
preparatoria, mentre questa soltanto eà la parte del compimento, la
teleteé delle iniziazioni misteriche, la cui immediatezza Aristotele
(secondo quanto riferisce Sinesio) interpreta bene notando come
non attraverso un «mathein», cioeà un apprendimento, bensìà
attraverso un «pathein», cioeà un subire, trovi il compimento colui
che eà adatto a ricevere il mistero. La via per la vita passa attraverso
la morte dell'io, e cosìà ogni essere spirituale puoà ottenere la vita
soltanto a prezzo della morte. Se teniamo presente questo,
comprendiamo percheé dai misteri nacque la tragedia, e senz’altro
capiamo la pericolosa falsa strada sulla quale il culto delle anime
deraglioà in una fede nell'immortalitaà . Ad una dimostrazione piuà
profonda nel sesto capitolo premettiamo qui che se chi vuole
conquistare la vita deve passare attraverso la morte, basta che
poniamo l’accento sul superamento della morte per avvicinarci a
quella «dottrina di redenzione» che invece di eternità della vita
promette un’esistenza di durata infinita, che muta la ghirlanda del
miste nella corona di spine del martire e falsifica l’«in aeternum
renatus» trasformandolo in una resurrezione nell a! di laà . Per questo
da ultimo l’uomo dell’al di qua ha inventato il Moloch «futuro», che
insaziabilmente inghiotte in seé cioà in cui soltanto vive ogni cosa che
vive, l'attimo, invertendone il valore per ridurlo a schiavo al servizio
del folle pensiero di un dominio mondiale dell’io divinizzato.

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Il «saggio» frattanto, come Goethe magnificandolo ripete, brama
una «morte tra le fiamme», poicheé sa che soltanto la mortificazione
dell’io gli apriraà la porta della vita. Ma la perdita del seé viene vissuta
in due modi, e percioà con le epoche e con gli individui cambiano le
celebrazioni preparatorie, a seconda che l'io nell'ebbrezza si dilaceri
o si sciolga. A fianco dell’estasi dovuta ad interna lacerazione c’è
l’estasi dovuta ad interno scioglimento. Se di quella eà testimone la
furia delle menadi (e il vino in quanto spezza gli affanni), questa ci eà
confermata dalla circostanza che tutti gli dei dell’ebbrezza, ed
innanzi a tutti Dioniso, Bacco ed Eros, hanno il soprannome di
«Lisios», «Lisimeles», dunque di «scioglitore», di «scioglitor di
membra». E come la lacerazione ricorda ia morte del corpo, cosìà lo
scioglimento ricorda il dolce sonno «che scioglie le membra». Ma se
quindi sonno e morte possono liberare l’anima dal suo antagonista
piuà terribile, l’io, si comprende percheé proprio l’anima possa aver
parte all’antichissima propensione dell’umanitaà verso i «veleni»
narcotici. Forse fino ad ora non c’eà mai stato un genuino estatico che
non sia stato anche all’occasione dedito ai narcotici, e non a caso fino
nelle epoche piuà remote alla festa della vendemmia si
accompagnarono usi orgiastici. Ma se il demone delle consacrazioni
bacchiche eà contemporaneamente anche un dio del vino, e perfino
ancora oggi van d’accordo Bacco e Venere! Nessuno l’ha annunciato
piuà radiosamente che un altro grande poeta, l’immortale Hafis:

Che l'amore m’infranga, e


che il vino porti via il mio vigore!
Non voglio essere forte e valoroso:
della mia debolezza, mi rallegro.

L’uso di narcotici, diffuso in tutte le epoche e presso tutti i popoli


della terra, testimonia in fondo l’appassionata nostalgia dell’anima
che cerca di fuggire dal carcere nel quale lo spirito l’ha rinchiusa.
Tutti gli argomenti dei pedanti sfiorano la cosa e scoprono soltanto
l’arroganza di spirito di una eticitaà che odia la vita. Certamente

51
l’«ubriacone» eà un fenomeno di degenerazione: ma non percheé beve,
bensìà percheé in lui eà diventata ottusa abitudine cioà che per chi eà vivo
eà una festa. E forse l’uomo degenera soltanto nel godimento dei
narcotici? Forse l’attivitaà senza tregua, sotto la costrizione del
bisogno, che oggi rende innumerevoli uomini servi della macchina,
non eà un vizio di fronte alla cui snervante terribilitaà il vizio del bere
conserva ancora un bagliore festoso?

Finché si è sobri,
piace il male;
ma appena si beve,
si conosce ciò che è giusto.

E cantare l’elogio del «lavoro», che divora la vita, non significa


sostenere lo stordimento di gran lunga peggiore? 3 Se poi ci si
oppongono le trite parole del «dannoso» e dell’«utile», bisogna
notare che i concetti di utilitaà non hanno posto nella dottrina della
vita. Non nell’esistenza e nell’affermazione dell’esistenza si rivela la
vita, bensìà soltanto negli attimi di quella straripante pienezza che
neppure a prezzo della distruzione del corpo sarebbe troppo cara.
«Non si deve pensare che uno sia vissuto a lungo soltanto percheé eà
bianco e pieno di rughe; non eà infatti vissuto a lungo, ma eà esistito a
lungo» (Seneca). Alcuni nascono vecchi, e sebbene esistano per
novanta anni, puoà darsi che non siano vissuti neppure due minuti.
Chi invece muore giovane, non per questo viene privato anche degli
attimi eterni ai quali gli eà stato accordato di partecipare.
Lo studio psicologico dell’estasi ha bisogno dìà essere completato
da una scienza degli stupefacenti. Oppio, haschisch, coca, alcool, olii
eterei, incenso, alloro, veleni solanacei, e perfino (a nicotina, la
caffeina, la teina, sono serviti alternativamente alla spinta alla
perdita del seé dei visionari, e potremmo attendere rilevanti
schiarimenti sull’essenza dell’ebbrezza da una scienza delle
«segnature», cosìà come la schizzoà la mistica del Rinascimento negli
affreschi:1

52
Oggi, dobbiamo accontentarci dell’ispezione interna.
Almeno della forma della perdita del seé per scioglimento
parecchie locuzioni dicono che essa trasporta in stati di sogno. Dal
ricordo tutti sappiamo che vivevamo come in sogno, nell’«oblio di
seé » di una straordinaria felicitaà , o quando fummo completamente
«perduti» alla vista del sole che tramontava, del tutto «assorti»
nell’allettante canto di un flauto, profondamente «immersi»
nell’immagine di lontananza di giorni passati della giovinezza. Se
nella lacerazione si annuncia che l’anima svincolata eà pronta
all’«uscita», all’«esaltazione», al «vagare», l'interno scioglimento
prepara l’incanto del suo «esser rapita». Ora, sebbene la
perfetta voluttaà dell’Eros possa essere legata tanto alla perdita del seé
per lacerazione quanto a quella per scioglimento, c’eà peroà tra
quest’ultima e la voluttaà dell’Eros una sensibile affinitaà elettiva, per
la quale noi non possiamo descrivere meglio la dolcezza del brivido
erotico che accentuando il dissolvente traboccare, l’abbandonarsi
dell’anima. Ma se teniamo fermo a questo come contrassegno della
voluttaà erotica, senza difficoltaà riconosceremo la sua partecipazione
a tutti gli attimi di «gioia» nel placare brame del corpo (si tratti di
mangiare e bere, o dell’amplesso), come d’altra parte ad ogni specie
di vera «felicitaà », di «beatitudine», «estasi», «incantamento», e
ancora perfino agli elevati sentimenti, giaà spiritualizzati, del
«rapimento estatico» e della «trasfigurazione».
Nelle dottrine degli orfici e di Esiodo sull’origine degli dei, il Caos
precede la nascita dell’Eros. Questo tratto del mito si poggia su
un’esperienza vissuta estatica. Nel passaggio di ogni estasi dalla
perdita del seé , per lacerazione o scioglimento, al compimento, che
non abbiamo ancora considerato, prorompe, dalle profonditaà
dell’anima, un caos di tutti i sentimenti. Cioà che nel mero sentimento
diverge fino ad opposizioni estreme, come piacere e disgusto, gioia e
dolore, attesa e ricordo, speranza e timore, amore e collera, trionfo e
angoscia, dolcezza e amarezza, si trova qui annodato in un
indivisibile intero. «Dalla gioia piuà alta risuona il grido dell’orrore».
(Nietzsche). Chi non ha mai vissuto questo, si basi su «sentimenti

53
misti», che guidano dall’una e dall’altra parte, come la dolcezza
piena di nostalgia della tristezza, l’oppressione che pure nel brivido
dell’elevatezza daà felicitaà , il doloroso ardere di ebbre malinconie.
Oppure pensi alla strofa rivelatrice di Goethe:

Doch im Erstarren such'ich nicht mein Heil,


Das Schaudern ist der Menschheit bestes Teil;
Wie sehr die Welt ihm das Gefühl verteure,
Ergriffen fühlt er tief das Ungeheure.

[Ma io non cerco salvezza nell’indifferenza: il brivido eà la miglior


parte dell’umanitaà . Per quanto il mondo faccia pagar caro il
sentimento, l’uomo, quand’eà commosso, vive lo smisurato nel
profondo].2

Ma eà l’inframondo caotico dell’anima a dare il fratto orgiastico


all’ebbrezza estatica. (Di qui, nella notte attraversata dal bagliore
delle fiaccole, la danza delirante di «esaltate» baccanti al suono
metallico dei timpani e all’«unisono che porta alla follia» dei flauti
frigi)4. In esso (nell’inframondo caotico dell’anima), come si eà giaà
accennato, i poli sono ancora inseparati. E cioà che per il mondo eà il
sorgere del cosmo, cioeà del tutto articolato, dal caos non ancora
articolato, eà per l’anima il guizzare, nella gravida oscuritaà del vortice
dionisiaco, del lume di Eros — Fanes, che lega i poli, ora distinti,
nello splendido anello di un abbraccio incessantemente rinnovato.
Poicheé ci siamo spinti cosìà avanti, di passaggio menzioniamo uno
dei nostri risultati piuà profondi. Posto che un pensatore si sia
persuaso che la diffusa santitaà del numero tre — tridente di
Poseidone, treppiede della Pizia, triade dei regni divini, trinitaà
cristiana, triade delle Nome ed altro ancora — sia l’espressione
simbolica di un’articolazione triadica della realtaà , egli cercheraà ,
supposto che l’Eros orfico stesso sia stato qualcosa di vissuto, la
realtaà di una cosa vissuta anche dietro la triplice figura della sua
apparizione nel mito teogonico. L’ebbrezza cosmica, come grado

54
superiore dell’ebbrezza caotica, dovrebbe quindi lasciar riconoscere
tre forme particolari. Sono passati decenni da quando siamo riusciti
ad indicare queste tre forme fondamentali, cioeà la forma eroica,
quella erotica e quella magica. Che cosa significhi la forma erotica, il
termine medio della triade, lo vedremo sotto. Nella forma di
ebbrezza magica prevale la doppia, ma essenzialmente identica,
relazione alla lontananza del firmamento notturno e al regno dei
morti. I suoi culmini storici sono nel magismo dei Medi e nel culto
tombale dell’antico Egitto, e la sua maggiore ereditaà eà forse
l'astrologia caldea. L'ebbrezza eroico-tragica, basata
prevalentemente sulla perdita dei seé per lacerazione, ha dato ad
un’intera epoca dell’umanitaà tardo-pelasgica il nome di epoca eroica,
e ha generato presso i quattro popoli eroici a noi noti la forma
poetica dell’epos. Il suo segno distintivo piuà appariscente sta in
questo, che la morte dell’io passa tutte le volte per la morte in
battaglia del corpo; la sua apparizione piuà grandiosa tra i popoli
eroici eà offerta dai Germani, presso i quali soltanto essa assorbìà
totalmente in seé le altre due forme di ebbrezza. Il guerriero
predestinato a far parte degli Einherier vive la morte in battaglia
come bacio della Valchiria, e dall’oscuritaà ebbra di tormenti del
trapasso si desta nel regno dei morti del Walhalla.
Tornando all’ebbrezza erotica, tenteremo di mostrare la
particolare polaritaà per la quale essa si stacca tanto dal caos psichico
che precede la sua nascita quanto dalle ebbrezze eroica e magica
(che nascono al suo stesso tempo). Le parole da noi
intenzionalmente preferite: ebbrezza, ubriachezza, voluttaà ,
beatitudine, rapimento, non permettono in nessun modo di
riconoscere, come si puoà notare, se gli stati dei quali si parla possano
unire parecchi esseri. E qui bisogna ripetere: non c’eà soltanto
l’ebbrezza solitaria, l’ubriachezza solitaria, la beatitudine solitaria,
bensìà l’estasi eà originariamente sempre perfetta solitudine, poicheé eà
perfetta pienezza, che, liberata da ogni dimidietaà (Hälftenhaftigkeit),
porta in sé stessa il polo completante. Anche il gamos dell’ebbrezza
erotica eà gamos interno, o autoaccoppiamento di un essere ampliato

55
fino a divenire mondo, che percioà generale concepisce. Nel
linguaggio del mito il gamos unisce l’uovo fecondato assieme al dio
che ne scaturisce, ovvero: amplesso, gravidanza e nascita. In seé e per
seé quindi ogni estasi porta non tanto tratti patici quanto piuttosto
tratti idiopatici. E non cambia niente che il portatore dell’ebbrezza
spesso trovi il compimento soltanto in occasione di chiassose feste
popolari o di feste notturne.
Le baccanti, che ci servono egregiamente da modello, erano delle
esaltate idiopatiche. EÈ vero che cominciavano l’evocazione del dio a
schiere: ma tanto piuà il demone le trascinava, tanto piuà esse si
disperdevano, «si davano alla dissolutezza», fincheé nella notte
taluna, nella impervia selvatichezza dei monti, crollava, solo ora
disciolta nella corrente «ieromanica». E lo stesso vale dei furiosi
ieroduli della sirìàaca. Ma, della frigia Cibele, della fenicia Astoret,
delle babilonesi Beltis e Militta, della caria Ecate, della indiana Kali,
dell’egiziana Pachet; inoltre delle apparizioni analoghe dell’ambito
culturale islamico, come delle danze vorticose dei dervisci o delle
sanguinose feste di flagellanti con le quali le confraternite degli
Aissauya e dei Rifaya onorano la memoria dei loro santi; ed infine di
tutte le celebrazioni estatiche che ancora oggi talvolta possiamo
osservare presso alcuni «popoli primitivi», ed in particolare presso i
Lapponi, i Samoiedi, i Tungusi, i Bureti, i Coccini, gli indiani, e
numerose stirpi malesi. Ma anche i genuini poeti — tutti quanti
sbandati e attardati «discepoli del dio Dioniso» —, sono, in quanto
poeti, sempre idiopatici, anche se alcuni di essi possono aver
bisogno, per trarne «ispirazione», perfino, tra l’altro, di essere
innamorati. Non eà l’essere innamorati a poetare, come si eà
erroneamente pensato, ma tutt’al piuà , in occasione
dell'innamoramento, ed in quanto l’innamorato sia un poeta, eà l’Eros
che in lui dimora come ospite! I due poeti forse piuà fortemente
dotati in senso dionisiaco nel diciannovesimo secolo, Lenau e
Conrad Ferdinand 3, condussero una vita del tutto chiusa verso
l'esterno, questo sepolto tra i libri e quello fra tabacco e violino; e

56
Keller, meno profondo ma artisticamente ancor superiore, non fu da
meno.
Dobbiamo quindi distinguere con precisione il contenuto
dell’ebbrezza e le condizioni del suo presentarsi. Anche se queste
possono essere nell’unione di una folla, sia per una festa, sia per gli
usi di un culto, l’ebbrezza puoà nondimeno appartenere alla specie di
quelle proprie del singolo. Ogni ebbrezza ha cioeà , per la sua natura
di straripante onda vitale, il dono di propagarsi a chi eà presente e
spettatore. In una folla eccitata orgiasticamente eà diffuso un
contagio psichico che minaccia di pervadere anche l’osservatore piuà
freddo, ed infine di sopraffarlo. Chi eà in tal modo afferrato
certamente sta in un mezzo comune con ognuno degli altri; ma ciò
che lo sconvolge, lo sgretola, lo rapisce, non per questo egli lo divide
con i disgregamenti degli altri. «Soltanto da soli si eà entusiasti». Ma
se anche dobbiamo allora riconoscere, nell’ebbrezza dell’anima, uno
stato idiopatico, difficilmente troveremmo la via che conduce
proprio alla particolaritaà dell’Eros se rimanessimo a questo grado
del suo operare. Dobbiamo salire un ultimo grado dell’ebbrezza, per
spiegare che cosa trasformi l’«ebbrezza in generale» nell’Eros che si
compie.
Il fiore non eà soltanto la sommitaà di cioà di cui la radice eà la
punta piuà bassa: anche la radice infatti giunge su fino al fiore, ed il
fiore giuà fino alla radice; in quello c’eà , solo trasformata, la radice, e
non meno c’eà in questa — ma non dispiegato — il fiore. Ma se
dobbiamo farne esperienza, allora la radice deve aver liberato il
ceppo, e il fiore deve essersi dischiuso sulla cima. La stessa cosa
intendiamo, quando diciamo che il caos dell’anima libera da seé il
triplice ceppo delle ebbrezze cosmiche, e che soltanto il ceppo
mediano porta peroà da ultimo il fiore dell'Eros. Anche di cioà sìà puoà
render conto indicando la diversitaà dell’ebbrezza erotica da quella
caotica. Nel caos orrore e beatitudine sono inseparabilmente
intrecciati; nel cosmo questa sta in quello, discorde o alleata, simile a
una stella che brilla in fluttuante oscuritaà ; nel compiuto Eros
l’ebbrezza eà illuminata dalla corona di raggi (= ghirlanda

57
dell’iniziato), che immerge lo splendore trasfigurante fino nell’abisso
della notte (= freccia dell’Eros) 5. Ma giaà abbiamo preso in aiuto, non
a caso, il linguaggio dei simboli, poicheé alla fine sarebbe un’impresa
infruttuosa descrivere esperienze estatiche dìà vita nel linguaggio dei
concetti, nel quale perfino i nomi piuà espressivi nella migliore delle
ipotesi significano soltanto dei sentimenti. Per avvicinarci di piuà al
fiore dell’ebbrezza, disponiamo fortunatamente peroà di un altro
mezzo, del quale ora non dobbiamo piuà temere che possa essere
frainteso a causa di insufficienze dei concetti d’amore.
L’ebbrezza che si compie eroticamente non eà mai idiopatica, ma
senza eccezioni eà simpatetica; e percioà ogni ebbrezza partecipa alla
particolaritaà di quella erotica esattamente in tanto, in quanto il suo
contenuto eà simpatetico. Che cosa dobbiamo intendere per
ondeggiamento simpatetico? Questo: che dell’eccitazione di un
essere eà parte la sua comunanza con l’eccitazione almeno di un altro
essere. Per esempio sarebbero eccitate simpateticamente due
persone le quali non soltanto si sentissero indignate per lo stesso
motivo, ma contemporaneamente si sapessero anche alleate dalla
comunanza della loro collera, e proprio da cioà attingessero il pathos
della loro indignazione. Forse non c’eà nessun sentimento umano che
occasionalmente non possa entrare in nessi simpatetici, e in
particolare i sentimenti di difesa e di attacco non escludono affatto il
pathos simpatetico; cosìà i partecipanti ad una lotta di liberazione
nazionale possono essere legati dall’impetuoso sentimento della
profonda comunanza della loro ira. Ma anche se cioà salisse fino a
gradi da ebbrezza, rimarrebbe peroà , come nessuno puoà
disconoscere, qualcosa di completamente diverso dall’orgiasmo
delle baccanti.
Il pathos dell’ira, negativo quanto alla forma, può essere la
risposta di un amore ardente per la vita all’empietaà (Frevel) contro
la vita. Ma qualora ponessimo l’impulso di negazione giaà alla fonte
dei sentimenti, allora di pari passo scomparirebbe il loro carattere
simpatetico. Se cioeà lo stimolo che mi determina eà indirizzato contro
la vita, esso punta anche contro i sentimenti di altri esseri, e non si

58
troveraà piuà incrementato dal sapere che altri siano partecipi con me
dello stesso stimolo. Poicheé l’invidia per la vita guarda con astio ogni
entusiasmo altrui, perfino tra compagni essa immancabilmente
preclude a se stessa il pathos dell’entusiasmo comune; e cosìà l’Eros
preferisce l’ondeggiamento affermativo a quello negativo, ed offre la
sua massima forza illuminante alla reciproca inclinazione amorosa.
Non tralasciamo qui di ricordare che una profonda diversitaà tra
intere razze e popoli, ed innanzitutto tra le etaà della vita, eà fondata
dal fatto che gli attimi del compimento della vita dell’anima rechino
prevalentemente tratti idiopatici o simpatetici. Se talvolta
un’enigmatica nostalgia della fanciullezza coglie l’adulto, allora in lui
freme nuovamente l’oscuro ricordo della profonditaà e della pienezza
dei brividi vitali della primissima giovinezza, e tale ricordo eà legato
peroà alla consapevolezza dell’impossibilitaà del loro ritorno. EÈ il
mistico splendore di una ininterrotta beatitudine idiopatica cioà che
divide principalmente le ebbrezze dell’anima del fanciullo dagli
ondeggiamenti, quasi sempre afflitti, dell’etaà piuà tarda. Quel cielo
estivo ignaro di seé di una solitudine che basta interamente a se
stessa, che non eà neppur turbato dal piuà delicato velo del presagio
della dolorosa propensione alla vita a due, avvolge, in tutto il mondo,
solo il giardino incantato degli anni dell’infanzia. La felicitaà dei bimbi
non eà priva della voluttaà , ma solo della voluttaà simpatetica; ma non
ne ha neppure minimamente bisogno. Quando dei bimbi giocano
insieme, dice Jean Paul in Levana, «giocano due fantasie, come due
fiamme vicine ma non congiun-te»! Le iniziazioni alla pubertaà ,
diffuse presso quasi tutti i «popoli primitivi», e dalle quali la chiesa
ha preso l’uso della cresima, sono tra l’altro l’espressione cultuale
del trapasso dell’etaà idiopatica in quella simpatetica.
Ma non solo le diverse etaà della vita, ma anche popoli e razze
presentano simili differenze. L'opposizione, fino ad oggi inspiegata,
tra i popoli extrastorici (si pensi per esempio agli originari abitanti
della Nuova Zelanda, di Samoa, di Tucopia, o anche agli esquimesi, ai
ciukci, agli aleuti, agli abitanti della Terra del Fuoco), e i popoli
storici, che come i cinesi, gli egizi, i greci, i romani, i germani

59
svilupparono da se stessi una cultura, suole essere spiegata con
differenze di doti spirituali. Ma non eà lo spirito che ha fatto maturare
i culti, i templi, i riti festosi delle prime culture, cheà anzi a causa dello
spirito ogni cosa muore, proprio come accade allo «stato di natura»;
ed anche ammettendo che sia lo spirito, con questo pur sempre non
sapremmo da quale trasformazione della vita sia stata resa possibile
una tale evoluzione. Tutti i primitivi hanno od almeno ebbero
dimestichezza col sacrificio umano, e la maggior parte inoltre con il
pasto delle parti dell’uomo sacrificato ritenute particolarmente
animate. L’indifferenza, davvero straordinaria, dei loro usi approvati
e perfino santificati rispetto al valore della vita umana, non puoà
essere spiegata soltanto con il loro io piuà debole, ed ancor meno con
la presuntuosa credenza in una originaria rozzezza, poicheé a questo
contraddirebbe non soltanto la loro arte veramente sublime — le
«forchette dei cannibali» per cibarsi di carne umana sono ornate nel
modo piuà ricco —, ma anche la bontaà d’animo e la prontezza nel
soccorrere, molto diffuse tra essi, nelle quali troviamo la conferma
delle parole di Seume sugli Huroni, tanto piuà se confrontiamo con
esse le diavolerie della «Zivilisation». Se nel Borneo alcuni daiacchi
per proteggere la casa del Consiglio dal terremoto o dall’incendio
fracassavano viva nelle sue fondamenta una schiava, dedurne la
crudeltaà dei popoli primitivi puoà avere una parvenza di
giustificazione, sebbene la stessa stirpe ci sia descritta dai migliori
conoscitori di essa come amante della veritaà , leale, benevola, e come
— almeno nei primi tempi — del tutto all’oscuro di furto e ruberie 6.
Ma se allo stesso scopo, fino alle epoche di piuà alta cultura, fu
praticata la muratura di uomini vivi, e principalmente di bimbi, tra
l’altro da indiani, serbi, scandinavi e — tedeschi, allora l’ipotesi della
rozzezza d’animo si dissolve nel nulla. Poicheé tra i «selvaggi»
troviamo in quantitaà usi parimenti terribili, come l’abbandono di
bimbi in soprannumero, l’uccisione di vecchi troppo deboli,
l’inesorabile vendetta sanguinosa, il sacrificio degli schiavi favoriti
alla morte del padrone, la «caccia di teste», e cosìà via, mentre d’altra
parte la vita della stirpe si svolge nel segno di un’estrema placiditaà ,

60
uno sviluppatissimo senso di giustizia, e una stupefacente prontezza
del singolo al sacrificio, siamo spinti a supporre una diversitaà di
sentire che da ultimo puoà essere pensata soltanto come diversitaà di
dimensione. La consueta osservazione per la quale simili costumi
sarebbero prodotti della «superstizione» si ritorce su se stessa, in
quanto usi e simboli sono piuà antichi delle loro spiegazioni mitiche:
per tacere poi del fatto che perfino una cosiddetta superstizione
infine riporta ad un tipo di esperienza vissuta, e non al contrario.
Ora, noi pensiamo che la nascita della cultura coincida
generalmente col trapasso al grado simpatetico del sentire, a
raggiungere il quale era destinata soltanto una parte scelta, tra i
popoli. Di tutti i sentimenti per i quali il linguaggio ha nomi che li
indicano con sufficiente chiarezza, difficilmente ne manca anche solo
uno ai primitivi, e soprattutto non mancano quelli dell’amicizia e
della fiducia, senza i quali — almeno tra umani — non potrebbe
sussistere il nesso simbiotico che eà proprio ai legami naturali in
misura ancor maggiore che alle culture dell’antichitaà ; tali sentimenti
mostrano peroà , tutti quanti, una mirabile differenza di tinta dagli
stati d’animo a noi usuali. Sono colorati, per cosìà dire, con una tinta
di fondo che ha qualcosa di opposto alla tinta di fondo dei sentimenti
omonimi in noi, e che risalta sempre piuà forte e da ultimo inghiotte
tutte le singole tinte nei piuà festosi stati di ebbrezza, che nei casi di
una selvatichezza che afferra irresistibilmente sono totalmente privi
della dolcezza dell’Eros. Chi talvolta, non prevenuto, si sia
abbandonato all’impressione dei canti trionfali dei cacciatori di teste
malesi (oggi universalmente accessibili grazie ai dischi), o ai canti di
guerra e alle danze funebri di stirpi di indiani d'America in via
d’estinzione, o di una musica negra, la piuà primitiva possibile, e
paragoni a tutto questo melodie popolari russe, finlandesi, svedesi,
comprende senza bisogno di spiegazioni come noi possiamo pensare
di udire in quelli il suono dell’anima del pianeta stesso, in
indissolubile consonanza con le voci e le figure della flora e della
fauna dell’artico o dei tropici, ed in questi invece le rivelazioni
dell’anima umana, certo ancora elementare, che corona l’incessante

61
dover passare di tutte le immagini con il brivido malinconico
dell’amore. Laà una ritmica quasi demoniaca, frequenti passaggi
cromatici e battute anapestiche, che seducono l’ascoltatore in un
vortice sempre piuà delirante; qui il melos che placa, l’uso del modo
minore e la voluttaà affine al pianto nel dolore, cosìà come risulta giaà
solo dal testo del canto di dolore, profondamente erotico, di una
donna maori:

Tetre nubi si rotolano oscure


attorno alla cima del Pukeshina,
sul sentiero ove il mio amato
è sparito per sempre ai miei sguardi.
Torna, toma, una volta soltanto!
Così che dai miei occhi stanchi di lacrime
possa fluire la corrente dell'amore,
come un tributo dovuto al vero amore.
Le tue care braccia hanno stretto una volta
me, indegna, al tuo petto:
e da allora, con i suoi viticci più forti,
il mio cuore innamorato si è aggrappato a te7.

Soltanto la forma di eccitazione simpatetica sembra essere


capace di farsi poesia nel senso piuà proprio, e questo eà ricordato
ancora oggi dagli armonici nel significato dell'ormai quasi appassita
parola «lirica», cosìà come nella intramontabile parola «canto»; e se,
come accade nel canto appena citato, il fiore dell’Eros nasce talvolta
vicino alla radice, cioà significa che la capacitaà di ebbrezza preerotica
continua a sussistere pienamente soltanto accanto a quella erotica,
fin nei tempi piuà recenti, in attesa delle occasioni che possono farla
nuovamente prorompere violentemente, e che soltanto lentamente e
gradualmente viene vinta da quella nei precipitati artistici.
Come espressioni del sentire idiopatico possiamo considerare la
monotonia e monodia che determinano prevalentemente il carattere
della musica non soltanto dei primitivi ma anche dell’antichitaà ; come

62
espressione del sentire simpatetico, invece, la polifonia. Dal fatto che
la polifonia divenne dominante dopo l’invasione dei barbari,
deduciamo il carattere marcatamente simpatetico dei popoli nordici,
ai quali l’umanitaà deve il dono fatale dell’amore fanatico dell’anima
(ambiguo e fatale come l'altro: la polifonia infatti degeneroà , per
l’irruzione dello spirito di calcolo, nei virtuosismi di una
armonizzazione che digerisce ogni cosa, e l’amore dell’anima
degeneroà , corrotto dalla frase cristiana, dapprima in una passione
che esclude ogni altra cosa (e di cioà parleremo ancora), ed infine
peroà nello spettro, mortale per l’amore, di un universale «amore per
gli umani»!). Mentre il canto popolare preferisce, quanto piuà eà
originario, tonalitaà minori, secondo i ricercatori moderni la
predilezione germanica dev’essere stata originariamente per le
tonalitaà maggiori. E qui vorremmo notare che la pura tonalitaà
maggiore esige come nessun’altra una seconda voce, che eà sempre di
carattere piuà debole in relazione ad essa; e che percioà non il canto in
maggiore, ma in realtaà il canto in maggiore a due voci dice cioà che eà
decisivo nell’essenza del tedesco, cioeà una profonditaà di interioritaà
simpatetica che era ancora estranea ai popoli mediterranei.
Ma se nei ritiri e nelle leghe virili dei «popoli primitivi» vediamo
decisamente il modello dell’idea che la chiesa piuà tardi pose al
servizio dell’astinenza, l’idea cioeà della claustrale monosessualitaà di
quelle leghe, questo puoà ancora una volta ammonirci a non mettere
in un sol fascio l’Eros con la diversitaà dei sessi e l’inclinazione
amorosa che si accende con essa. Troppo spesso sesso ed Eros
stanno in rapporto di disturbo reciproco, tanto che da sempre una
delle piuà difficili questioni vitali dell’umanitaà eà stata creare un
equilibrio tra essi — e nessuno l’ha mai risolta. Il tentativo di
inzuppare di essenza erotica l’impulso all’accoppiamento eà spesso
finito con il tragico tramonto degli amanti; il tentativo opposto, di
strapparli l’uno dall’altro, ha portato e porta invece
all’avvelenamento ed infine alla morte dell’Eros; ma su questo
ritorneremo. Qui vogliamo notare che il brivido simpatetico non di
rado suole esercitare la sua forza piuà profondamente tra esseri dello

63
stesso sesso che non di sessi diversi. Il suo eterno simbolo eà la
dualitaà dei dioscuri, e le sue piuà importanti feste non sono state
affatto sempre celebrate dalla relazione d’amore, ma almeno
altrettanto spesso dall’amicizia. (Ma forse talvolta con piuà brividi
nella relazione amorosa? Forse - Ma solo in quanto essa fu seguita da
quella tragicitaà selvaggiamente dolorosa che — celebrata con
tremante fervore da poeti, non spiegata da nessun sapiente — come
un sanguinoso chiarore di fiamma, al tempo stesso avvincente e
spaventoso, sta sospesa sulle nubi di polvere del campo di battaglia
dell’umanitaà storica: sempre ancora ripetendo il piuà appassionato
dramma di Shakespeare, che si chiude con le parole: «Poicheé non ci
fu mai un destino cosìà luttuoso — come quello di Giulietta e del suo
Romeo»), Da questo punto di vista consideriamo la fedeltaà virile dei
germani; ma anche l’originario «amore tra uomini» dei greci, che ha
molto poco in comune con l’odierna omosessualitaà , e che soltanto
per un malvagio irretìàmento nell’impulso all’accoppiamento
bisessuale degeneroà nella bassa pederastia. Chi in gioventuà non
sarebbe stato acceso d’entusiasmo dal racconto di Damone e Pìàtia, o
dal rapporto tra Hagen e Volker, o dalla fiaba dei fratelli, diffusa in
tutto il mondo? Chi potrebbe disconoscere che nella fiaba in
generale il legame erotico avvolge con materna tenerezza tutti gli
esseri, uomini, animali, piante, rocce, e in modo speciale tutti gli
utensili?. Ricordiamo per esempio la commovente amicizia tra cane
e passero, e la terribile rappresaglia del passero contro il carrettiere
che aveva investito «suo fratello, il cane». L’Eros dell’occidente sta
sotto il segno della «fratellanza di sangue», della quale eà un esempio
nella storia mondiale anche la «santa schiera» dei tebani. Esso creoà
la poesia delle gilde e delle comunitaà artigianali, dei lanzichenecchi e
dei vagabondi e, morente, influìà sui riti di fratellanza delle leghe
studentesche, i cui simposii ricchi di canti seppero mantenere,
ancora fino a una generazione fa, abbastanza di esso da far ricordare
per tutta la vita con malinconia a qualche «filisteo» la vecchia «gloria
studentesca». Si potrebbero riempire pagine, se volessimo seguire le
sue tracce attraverso tutte le cristallizzazioni di un’umanitaà che non

64
era ancora schiava del diritto coercitivo della famiglia, che pretende
di essere la sola in grado di dare felicitaà . Ma qui ci fermiamo, e ci
volgiamo a quella vetta mediana dell’ebbrezza che sola merita di
portare il nome dell’Eros cosmogonico.
In realtaà fin qua abbiamo parlato di sentimenti simpatetici, ma
non ancora della loro transizione nella voluttaà dell’ebbrezza. Anche
se questa deve essere duplice, il suo contenuto essenziale non
potrebbe essere nella voluttaà dell’unione corporea, neppure se in via
eccezionale fosse legato a questa. L'Aristofane di Platone fa
dichiarare dagli innamorati che «divenire, da due, una cosa sola»
corrisponde al loro piuà intimo desiderio. Ora, in qualsiasi misura
possa l’abbraccio dei corpi esaudire tale desiderio, eà peroà certo che
proprio nella stessa misura ne risulterebbe stracciato il legame
dell'Eros. Infatti cioà con cui io sono diventato una cosa sola non eà piuà
presente davanti a me; la sua e la mìàa realtaà sono confluite in una
sola realtaà , nella quale amante e amato non si staccano piuà . Ma se
l’unisono consiste proprio in questo, che l’eccitazione altrui
partecipi alla mia, aumentandola, esso cade se l'«altro» stesso si eà
spento per me in quanto si eà sciolto nella realtaà non articolata della
voluttuosa unitaà . Il legame erotico non è mescolanza: esso lega i poli
senza negarli. Proprio percheé , dal grande erotico che indubbiamente
era, Platone lo seppe, egli poteà combattere i piaceri a partire
dall'opposizione dell'Eros alla voluttaà di appagamento di mere
brame. La comunitaà a due dell’entusiasmo fu il ponte sul quale egli
adescoà l’Eros cosmico fino al «luogo iperuranio» del suo Eros
«celeste». Non l’amante bramoso, ma quello che dona divenne il
modello di tutte le «figure di redentore». Infatti il «salvatore» ha
questo in comune con l’amante creativo, che egli non vuole
possedere, ma «trasfigurare» il corpo del suo discepolo, anche a
prezzo del soggiogamento, di gran lunga peggiore, della vita stessa
sotto il parassitario Logos! E cioà che nella distorsione di un Platone
rimase ancora prevalentemente falsificazione dialettica, negli insulti
del fanatico Paolo discende giaà da quella istupidente malvagitaà che
puoà svelarci la fonte velenosa di ogni ascesi. Ecco alcuni esempi:

65
«Ma io vedo un’altra legge nelle mie membra, che lotta contro
la legge del mio pensiero e mi imprigiona nella legge del peccato, che
eà nelle mie membra». «Per questo Dio le ha consegnate ad infamanti
passioni: tanto le vostre donne hanno capovolto l’esercizio naturale
in quello contro natura, quanto gli uomini hanno abbandonato il
naturale rapporto con la donna e si sono accostati in selvagge brame,
uomo a uomo, in azioni impudiche».
«EÈ bene per l’uomo non toccare nessuna donna. Peroà , per gli atti
di lussuria, ogni uomo puoà avere la sua donna ed ogni donna il suo
uomo».
«Ai coniugi peroà io ordino, o meglio non io, ma il Signore ordina:
che la moglie non deve separarsi dal marito... parimenti il marito
non deve lasciare sua moglie».
E ancora, discoprendo senza ritegno cioà che sta dietro:
«Cioà che per il mondo eà folle, Dio l’ha scelto, per umiliare i
sapienti; e cioà che per il mondo eà debole, Dio l’ha scelto, per umiliare
cioà che eà forte; e cioà che per il mondo eà ignobile, ed eà disprezzato,
Dio l’ha scelto; e ha scelto cioà che non eà nulla, per annientare ciò che
è qualcosa : affincheé ad ogni cosa carnale sia tolta la fama di fronte a
Dio».
Nessuna spiegazione su santificazione del matrimonio e
diffamazione dell’Eros, su amore cristiano e amore pagano, potrebbe
superare l’impressione di tali frasi, alle quali se ne possono
aggiungere centinaia di simili. Ne concludiamo che chi, ritenendo
per qualsiasi motivo necessario respingere la sessualitaà , condanna
assieme ad essa l’Eros, tradisce con questo il fatto che l’Eros gli eà del
tutto sconosciuto, e che la voluttaà gli eà familiare solo piuà come
solletico privo di ebbrezza. Ostilitaà al mondo laà e un sesso
furiosamente bisognoso di accoppiamento qua sono percioà soltanto
diversi lati della stessa faccenda, e la sediziosa ascesi non eà mai stata
altro che lussuria capovolta. EÈ la vorace «volontaà di potenza» di una
sessualitaà deerotizzata, quella che sostiene parimenti astensione e
matrimonio sacramentale; cosìà come ogni societaà basata sulla legge

66
della monogamia ha sempre portato una venale prostituzione alla
piuà rigogliosa crescita.
«Il cristianesimo diede veleno da bere all’Eros: ed esso non ne
morìà, ma degeneroà a vizio» (Nietzsche).4 Se per gli antichi la pietra
fallica era il simbolo dell’Eros cosmogonico, cosìà per noi la sessualitaà
puoà essere un contrassegno essenziale della purezza o meno dei
processi vitali. Ma odio del mondo, ubbia di peccato e svalutazione
dell’attimo, ed in breve tutte le specie dell’ostilitaà ai piaceri sono il
segno di un modo di essere che eà toccato ad un impulso sessuale
divenuto delirante in quanto completamente separato dalla
unificatrice corrente dell’Eros. E cosìà dall’«amore» dei sessi cresce
l’«odio mortale» e la lotta dei sessi, ovunque l’uno significhi per
l'altro solo un mezzo al servizio dei propri fini egoistici. Questa eà la
forma occidentale del render nemici i poli della vita da parte del
principio dello spirito. E se infine consideriamo quanto interesse
abbia la spiritualitaà del nudo ardore sessuale a mettere in un sol
fascio voluttaà erotica e lussuria priva di ebbrezza, non ci
meraviglieremo piuà che nell’uso linguistico dominante le gioie
dell’atto dell’accoppiamento abbiano potuto allontanare il concetto
della voluttaà psichica.
Ma come puoà l’ondeggiamento erotico rimanere simpatetico,
quando diviene genuina estasi? Se l’estatico non solo ha lasciato il
suo io, ma perfino i limiti della sua singolaritaà , ed eà divenuto egli
stesso la triade nella quale i poli del mondo si sono interiorizzati,
come potrebbe ancora esserci, nella sua ebbrezza, posto per
l’ebbrezza di un altro essere? Questo sembra essere impossibile,
eppure, dove accadesse, sarebbe il piuà profondo e ultimo mistero
dell’anima. Non alzeremo il sipario, ma guideremo solo fino alla
soglia; prima peroà definiremo le conseguenze della natura duplice
dell’ebbrezza erotica.
Noi avevamo presupposto la possibilitaà che il congiungimento
sessuale porti con seé una passeggera unitaà nelle anime degli amanti,
e faccia annegare la dualitaà nel buio dell’ebbrezza. Ma se anche
provassimo a supporre che anche la voluttaà del congiungimento

67
possa essere vissuta simpateticamente, questa rimarrebbe sempre
un’esperienza vissuta di una parte soltanto, senza nessuna garanzia
di essere nello stesso attimo anche dell’altra. Senza dubbio, di due
che si abbracciano, l’uno puoà vivere come amore prodigo di doni cioà
che l’altro vive invece meramente come appagamento di un impulso
a prendere e a prender possesso. Ma allora, non sarebbe piuà
compiuta la condizione nella quale abbiamo trovato il contrassegno
dell'essenza dell’Eros: la polare reciprocitaà dell’essere afferrati. E c’eà
di piuà . Anche se la voluttaà di mescolanza fosse scaturita da un
traboccare in doni e da un abbandonarsi all’amore, trascinerebbe
tuttavia nel vortice liberatore di un’oscuritaà assolutamente
inarticolata, nella quale la dualitaà apparrebbe come non piuà
presente. Ma non c’eà nessun destarsi da questa oscuritaà , che non
spezzi anche l’incanto. «Ritornato a seé », ognuno degli amanti si
ritrova come cioà che era prima, come un individuo separato, non
liberato dall’esser per seé in un mondo che, insieme all’amato, rimane
un eterno Esterno. Non giudichiamo per ora se e quanto tale bagno
di splendore dei corpi sia talvolta in nature elementari una
condizione dell’aprirsi dell’anima al flusso di potenze cosmiche, ed in
certo modo il ceppo di legno del quale la fiamma mistica ha bisogno
per nutrirsi; ma il congiungimento sessuale stesso non eà quella
fiamma, non conduce fuori dall’essere singolo e non dona agli amanti
la «corona della vita». Paragonato alla sacertaà dell’Eros
cosmogonico, l’impulso all’accoppiamento eà un adiaphoron, e la
voluttaà dell’appagamento eà una liberazione che rende felici in modo
soltanto animale. Cioà che separa da essa il brivido dell’Eros eà il fatto
che l’Eros anche nell’attimo del piuà alto compimento rimane un Eros
della lontananza (Eros der Ferne), e l’ebbro per l’altro ebbro rimane
un Secondo che non si mescola mai, un occhio del tutto che lo guarda
da una purpurea notte. Abbandonarsi a questo, non significa
bramarlo; abbracciarlo non significa divenire una sola cosa con esso;
e tramontare in esso, ma significa destarsi! La soluzione del
cosiddetto enigma del mondo eà l’interiorizzazione estatica del
mistero del mondo. Percheé le domande della sfinge sono mortali per

68
l’uomo? Percheé la vista della Gorgone trasforma in pietra? Percheé
sollevare il velo di Iside porta alla rovina? Migliore di qualsiasi
sobria risposta, l’antichissima questione del destino puoà essere per
noi il simbolo, portatore di sapere, del fatto che soltanto qualcosa di
eternamente lontano dona beatitudine di rapimento8.
E cosìà abbiamo detto la parola magica della quale saraà colorata
ogni cosa che d’ora in avanti diremo ancora. Ma poicheé per molti
essa eà come una runa, che non si lascia decifrare da chi applichi
soltanto ai suo posto un significante piuà noto, tenteremo di render
piuà comprensibile il suo senso nascosto con degli esempi:
certamente l’uno troveraà in essi piuà dell’altro, ma ognuno si accinga
a inoltrarsi fino ai confini della propria esperienza di vita.
L’espressione di Stendhal, immediatamente persuasiva, secondo la
quale la bellezza della statua artisticamente perfetta eà una
«promessa di felicitaà », doveva forse realmente significare, nello
spirito del suo inventore, cioà che Nietzsche le attribuisce per
difendere la propria concezione secondo la quale l’arte deve
persuadere lo spettatore all’affermazione della vita a qualsiasi
prezzo. Ma la frase in questione ci insegna ancora qualcos’altro, se
riflettiamo che la promessa celata dal dolore cantato, dall’amore
poetato, dalla grazia scolpita, dalla tempesta dipinta o dalla affinitaà
con gli astri della Porta nigra5, resa eterna nella pietra, non
troverebbe mai adempimento nell’esistenza diurna e desta. Chi
anche una volta soltanto fu commosso dalla lontananza marina
coperta di nubi che il pennello di Boà cklin fece destare nella dolorosa
ebbrezza del suo sguardo di tritone, come potrebbe sperare di veder
cessare in qualche dove l’oltreumano brivido di nostalgia, in un
appagamento che gli ponesse fine? Chi, incantato da cioà che resta
dello splendore di millenni irremediabilmente morii, cammina lungo
le tombe della via Appia, come potrebbe vaneggiare che cioà che non
puoà essere posseduto sia divenuto suo, per quanto egli si sia sentito
trasportato nella Roma imperiale? E cosìà, cioà che il detto di Stendhal
spiega per un 'espressione vitale mediata dall’uomo vale piuttosto a
proposito del mistero stesso della vita. Alla vicinanza appartiene,

69
come polo ad essa opposto, l’essenzialmente irraggiungibile
lontananza. Ogni alzata d’occhi, rimessa anche soltanto all’ampiezza
dello spazio, promette e attira; ma non troveremmo cioà verso cui
essa attira, se anche ci avviassimo e tendessimo lontano: l’orizzonte
fugge indietro davanti a noi, e nessun viandante ha mai attraversato
il tramonto. Cosìà preparati, possiamo considerare adesso
un’esperienza vissuta di poca appariscenza, che certo ognuno
nell’etaà delle sue aspirazioni ha vissuto, anche se, giunto nell’etaà
dell’azione, l’ha dimenticata da tempo.
In una notte d’estate, dal profumo di lillaà , in un incerto vacillante
chiarore, lo colpìà con un’inesprimibile promessa di felicitaà un raggio
proveniente, luminoso, da umidi occhi; il misterioso sorriso lo scosse
e lo trasformoà , il fascino amoroso della figura fluttuante lo avvolse
magneticamente, una corrente lo sciolse in rapimento, e la fiamma
dell’amore, come aumentata da una folata di vento, avvampando
toccoà il firmamento. Ma guai a lui se, non saggio, prese questo attimo
di compimento per nient’altro che una promessa, scambioà il fascino
dell’apparizione con il suo portatore corporeo, e si lascioà trasportare
dal mistico cenno in un possessivo rapporto d’amore. Tale rapporto
non manterraà cioà che l’istante di libertaà sembroà promettere, e troppo
presto, tormentosamente disilluso, egli troveraà , al posto della figura
divina che lo illuminava, un essere finito, limitato, misurabile. Cioà che
umanamente avevamo preso per una mera promessa, era piuttosto
un sorso dal calice dell’Eros della lontananza, che rapisce dal mondo
afferrabile delle cose nella intangibile realtaà delle immagini!

Allein das Bild ist ein geheimnisvoller


Betrug der Ferne, die der Seele gern
Verderblichstes in lockende Scheine hullt.
Was sie entrùckt, wird schòn, und wàr es auch
Die Stàtte des Verwesens und der Greuei!
Sie ist des Lebens eingewirktes Ràtsel —
Ist die mit Dàmmerfarben durch das All
Geschriebene Frage des Lebendigen

70
Nach seinem Ursprung. Spruhender Schimmer krànzt
Das Unerreichte und erlischt, sobald
Wir nach ihm haschen. Denn die Ferne ist,
Wo niemals wir sind; doch geheimster Drang
Will sie in Nàhe uns und Eigen wandeln.

[Ma l’immagine eà un misterioso inganno / della lontananza, la


quale volentieri cela all’anima, / sotto un’attraente parvenza, cioà che
ad essa eà piuà pericoloso. / Quel che essa rapisce diviene bello,
foss’anche/ il luogo della putrefazione e dell’orrore! / Essa eà
l’enigma della vita, / eà la domanda del vivente sulla propria
origine, / scritta attraverso il tutto con tinte di crepuscolo. / Uno
sfavillante bagliore corona cioà che non eà raggiunto, e si spegne /
appena noi cerchiamo di afferrarlo. Percheé la lontananza è / dove
noi mai non siamo; pure, una misteriosa spinta / vuole mutarla in
vicina e nostra].

Il prossimo capitolo reca la metafisica di tutto questo. Ma qui,


alla veritaà che abbiamo appena appresa dal poeta, aggiungiamo,
negandolo ed affermandolo al tempo stesso, che chi insegue
l’immagine, che sempre sfugge, eà come il bimbo che cerca di
acciuffare l’arcobaleno e ne riporta soltanto le dita bagnate. Non
contestiamo l’elemento che rende felici, in maniera unica, nell'intima
vita comune di due amanti abbandonati l’uno all’altro, ma
contestiamo la ripetibilitaà del soggiogante brivido dei primi attimi, e
sosteniamo che soltanto i primi attimi aprono la porta verso il
mistero del mondo, e non i godimenti ancora cosìà umanamente caldi
di una clandestina vicinanza9. Il cosiddetto romanticismo stette,
come nessun’altra epoca a noi storicamente nota, sotto la potestaà
dell’Eros della lontananza (cosìà come il presente, al contrario, eà sotto
quella della sessualitaà ). Cosìà si puoà leggere immediatamente da una
strofa di Eichendorff che quella promessa eà soltanto, spiegato in
parole umane, il sentimento che accompagna il dolce-doloroso
compimento.

71
Es funkein auf mich alle Sterne
Mit gluhendem Liebesblick.
Es redet trunken die Ferne
Wie von kunftigem, grossem Gluck.

[Su di me brillano tutte le stelle / con un ardente sguardo


d’amore. / Ebbra, la lontananza parla / come di una futura grande
felicitaà ].

Cosìà, senza accorgercene, abbiamo giaà introdotto la risposta


all’ultima di quelle tre domande che determinano il corso della
nostra ricerca. La prima era su che cosa si libera nell’estasi. Abbiamo
risposto: l’anima. La seconda, da che cosa si libera. Abbiamo
risposto: dallo spirito. La terza, che cosa conquista, con la
liberazione, cioà che si libera. Per rispondere a questa domanda con
altrettanta chiarezza, dobbiamo per ora lasciare fuori dalla nostra
considerazione la forma erotica di ebbrezza, e vedere dapprima, per
l’estasi in quanto tale, che tipo di conseguenze abbia la separazione
dell’anima dal seé . Dopo cioà che si eà detto ultimamente, basteranno
poche parole per mostrare la particolaritaà del risultato nel caso
dell’Eros elementare. Ma poicheé la trattazione sarebbe resa
difficoltosa e perderebbe la sua trasparenza se ci attenessimo
strettamente ai confini della mera descrizione di uno stato,
rispondiamo alla terza domanda descrivendo non piuà l'indole
dell’ebbrezza, ma la sua essenza.

1 EÈ la «signatura rerum, mediante cui dalla figura delle piante


doveva essere conosciuta la loro forza curativa». Cfr. HEGEL,
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B.
Croce, Bari 1971, pag. 388 - (N.d.T.).
2 Goethe, Il Faust, trad. it. di G. Manacorda, vv. 6271 6274.

72
3 Conrad Ferdinand Meyer (N.d.T.).
4 In Al di là del bene e del male (N.d.T.).
5 EÈ il nome di una antica porta romana di Treviri. Ricordiamo
che eà anche il titolo di una poesia del Settimo anello di George, che
nelle Lezioni di sociologia a cura di Horkheimer e Adorno viene
presentata come la punta estrema degli «sfoghi contro la
Zivilisation». (Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di
sociologia, Torino, 1970, p. 106). (N.d.T.)

73
V. Dell'essenza dell'estasi

Ci sono tre tratti che, tra differenze pur notevoli, ritornano


sempre nell’esperienza vissuta di grandi estatici: il rapimento
(supposto o reale) dell’anima in contrade lontane, quando non
addirittura in un «altro mondo»; l’insensibilitaà dìà fronte ad
impressioni dolorose, che si esprime nell’invulnerabilitaà ; e
l’accoglimento di rivelazioni che determinano la vita. Dapprima
consideriamo solo il terzo per rispondere alla domanda sulla natura
di quell’esperienza vissuta il cui valore di certezza supera la forza di
persuasione di tutte le veritaà profane. Se a tal fine volessimo
attenerci alle affermazioni in particolare degli iniziati delle sette
misteriche di tutte le epoche e di tutti i popoli, potremmo uscirne a
mani vuote in conseguenza di un obbligo al silenzio dei «sapienti»,
oppure potremmo cadere nella confusione di quelle «visioni» dalle
quali scaturisce il santo mito (nelle quali incontreremmo in primo
luogo prodigi meteorici come nuvole luminose, colonne di fuoco,
stelle, e poi le piuà varie apparizioni di spiriti, ora i satiri di Dioniso,
ora diavoli e stregoni, ora angeli e santi); oppure ancora potremmo
conoscere varii simboli, che richiederebbero un’interpretazione,
come la rosa mistica, la corona di raggi, il santo calice; o ancora
potremmo venire a sapere qualcosa delle sensazioni, assolutamente
corporee, di chi eà preso in estasi, e dovremmo comunque dedurne
che egli non solo vede qualcosa, ma lo ode, lo fiuta, lo gusta, lo tocca
(la dolcezza del gustare Dio ha nei misteri cristiani il ruolo piuà
importante: «gustate et videte, quoniam suavis est Dominus!»); o
infine potremmo venire a conoscere le persuasioni di fede che
potrebbero essersi consolidate nel miste in conseguenza di cioà che
ha vissuto e che, a parte la sempre presente «immortalitaà »,
74
sarebbero estremamente divergenti. La fede della monaca benedetta
da Dio contrasta nel mondo piuà stridente con la confessione della
strega che ha avuto la propria consacrazione amoreggiando col
diavolo! In tal modo, correremmo quindi il rischio di scambiare
l’esperienza mistica con una allucinazione che riceva il suo materiale
dalle rappresentazioni dei diversi culti, e di ritenere gli iniziati stessi
dei pazzi isterici, cosa questa alla quale l’«etaà moderna» ha dato
certamente il proprio contributo. Dovremmo percioà rinunciare a
trovare il punto d’origine di genuine illuminazioni?
Per comprendere delle persuasioni di fede, bisogna conoscere il
mito dal quale esse sono derivate, e per comprendere il mito bisogna
conoscere i simboli che l’hanno fatto nascere: ma per comprendere
poi i simboli, bisogna possedere il sapere sulle qualitaà specifiche di
un’esperienza di vita che non puoà mai essere tramandata in giudizi
(Urteile). Non si puoà semplicemente esprimere che cosa sia
propriamente quel punto d’origine. Tuttavia vedremo un po’ di luce
che forse ci permetteraà di trovare in noi stessi quel punto, se
rivolgeremo la nostra attenzione a cioà che eà comune nelle occasioni
delle certezze che eà impossibile scalfire con la logica, le quali, anche
se ormai da tempo accompagnano giudizi — base meno centrali
(come per esempio le proposizioni di partenza della matematica),
originariamente aderivano soltanto al sapere immediatamente
toccato. E nelle sette religiose incontriamo sempre lo stesso motivo
che ritorna: la certezza mistica scaturisce dall’esperienza vìàssuta
dell’«epoptia», cioeà della contemplazione (Schauung) — la
contemplazione si riferisce all'apparizione del dio (epifania, parusia)
— e questa a sua volta accade in occasione della rappresentazione
simbolica della sua morte con la seguente rinascita da «sante nozze».
Anticipiamo il risultato finale: il miste vive la consacrazione del
compimento congiungendosi, egli stesso divinizzato, ad un dio
(comunione, unio mystica, hierogamos); e si unisce ad esso
contemplandolo. Ecco alcune prove dall’antichitaà . «Felice il mortale
che ha contemplato questo (οά πωπεν)», dice la chiusura dell’inno a
Demetra. «Felicissimi tra i mortali, coloro che vanno all’Ade dopo

75
aver visto questo (δερχθεά ντες)», dice Sofocle. «Felice chi va sotto la
terra dopo aver visto cioà (ιδωάν)», dice Pindaro: «egli conosce infatti
il compimento e l'inizio della vita, dati dagli dei». «Coloro che
partecipano a riti bacchici o coribantici vanno in estasi fino a vedere
cioà che aspettavano», riferisce Filone nel suo scritto Della vita
contemplativa. Ma una delle tavole auree orfiche annuncia cosìà
l’unione mistica col dio — trasferendola, conformemente alle
speranze dell’iniziato, in una beatitudine postmortale, nella nuova
vita al di laà della morte del corpo —: «o felicissimo e beatissimo, tu
sarai un dio, invece che un miserevole uomo!». Su di un’altra, l’anima
dell'iniziato esulta di fronte agli dei; «io mi onoro di essere della
vostra beata stirpe!».
Gli usi sacri sono qualcosa di regolato, di posto da un fondatore
umano, per legare in una sola comunitaà di vita le molte stirpi e per
conservare al ritmo del tutto la forza necessaria ad allentare
nuovamente i legami coatti nei quali lo spirito vuole estraniare
coloro che un tempo erano legati in tale ritmo. Ma l’esperienza
vissuta della quale essi vorrebbero facilitare il rinnovamento, l’estasi
originaria, un tempo, nell’epoca pelasgica, sorresse tutte le opere
dell’uomo (di quell’epoca oggi raccogliamo schegge e frammenti tra i
morenti «popoli primitivi»), e ancor oggi reca (o almeno l’ha fatto
fino a poco tempo fa) la poesia e l’arte genuine: e anche per questo il
suo contenuto non puoà essere tramandato per mezzo di mere
asserzioni. L’espressione, corrente almeno per un gruppo di arti, di
«arte figurativa» (bildende Kunst) ci ricorda peroà che l’attivitaà
configuratrice sen/e all’oggettivazione di immagini (Bilder), e ci fa
immaginare che l’evento che costringe lo spirito a sforzi figurativi sia
connesso con il risplendere di interne immagini. Percioà faremo il
passo determinante per la comprensione dell’essenza dell’estasi
chiarendo in che cosa l'evento della contemplazione di indicibili
immagini sia diverso dall’arbitrario atto della percezione, che ci daà
cose (Dinge) dicibili.
Non posso portar via con me un bel paesaggio: ma posso
farmene una «rappresentazione», qualora me ne sia rimasta

76
un'immagine interna. Mentre l’oggettivo paesaggio rimane,
immutato, dov’eà , la sua immagine vaga con le migliaia di esseri
individuali capaci di esperienze vissute ai quali eà toccata la sua vista,
ed eà in realtaà sempre diversa in ognuno, tanto in seé e per seé quanto
per i colori, i rumori, i movimenti del modello che ne eà alla base. Se
dalla rappresentazione togliamo l’attivitaà spirituale di colui che
rappresenta, diamo in tal modo all'immagine la magnificenza
propria di una visione di sogno, che viene incontro a colui che, nel
sogno, sta contemplando, come qualcosa di reale; e se infine
pensiamo questa realtaà meno condizionata dall’anima di chi la riceve
di quanto sia fondata nel modello stesso, abbiamo in essa la forma di
presentazione dell’accadere nel suo complesso: tale forma, nella
coscienza notturna dell’estatico e in generale nella coscienza
dell’uomo originario, dominava sul mondo dei dati di fatto.
Premesso questo, formuliamo le seguenti opposizioni:
l’immagine ha presenza solo nell’attimo del suo esser vissuta; la cosa
(Ding) eà «fissata» una volta per tutte — l’immagine fluisce assieme
al sempre fluente vìàvere esperienze; la cosa persiste, dura, sta in una
indivisibilitaà ostile alla vita — l’immagine eà solo nell’esperienza di
chi la vive; la cosa esiste nel qualsiasi atto di percezione di chiunque
— dell'immagine posso ricordarmi, ma non posso renderla presente
nel giudizio; alla cosa posso riferirmi nel pensiero in ogni momento,
poicheé adesso eà la stessa che era prima, ed annunciando il mio
giudizio posso renderla identico punto di riferimento di tutti i miei
ascoltatori — l’immagine, tuffata nella corrente del tempo, si
trasforma, come si trasforma tutto, compresa l’anima che la vìàve; la
cosa, in quanto eà al di fuori del tempo, va, se la si misura col tempo,
incontro alla distruzione — l’immagine viene ricevuta dall’anima; la
cosa eà il prodotto dell’atto di giudizio dello spirito, sulla base di cioà
che eà stato ricevuto — l’immagine ha realtaà indipendente dalla
coscienza; la cosa eà pensata nel mondo della coscienza ed esiste
soltanto per una interioritaà di esseri personali. Percioà : per colui che
nell’estasi spezza la forma dell’esser persona, nello stesso momento
tramonta il mondo dei dati di fatto, e risorge il mondo delle

77
immagini, la potenza della cui realtaà allontana ogni cosa. L’anima
contemplante ne eà il polo interno, la realtaà contemplata quello
esterno. Quella eà connessa a questa (= incessante gamos), ma non
coincide mai con essa (= incessante contemplazione). Dal contatto
polare di interno ed esterno si genera incessantemente l'immagine,
essa stessa animata (= incessante parto). L’esterno genera, l’interno
concepisce, e dal loro abbraccio erompe la canora corrente di fuoco
delle immagini del tutto, la «stella danzante» del caos, articolato in
cosmo. La frase da veggente di Novalis: «l’esterno eà un interno
elevato allo stato di mistero», esprime con leggera grazia il senso
dell’estasi ed il fondamento di ogni certezza contemplativa.
Ci interrompiamo un attimo per proteggere la contemplazione
delle immagini originarie dal rovinoso equivoco che la minaccia dal
momento dello sviluppo delle «idee» platoniche da parte di
Schopenhauer. Non possiamo dimostrare il nichilismo di quella
«dottrina delle idee» in modo piuà persuasivo che nel seducente
riflesso che di essa ci mostra lo specchio de! pensiero di
Schopenhauer. Nello stato pensante, egli ci insegna, troviamo singoli
dati di fatto, che piuà tardi formano l’oggetto della ricerca scientifica.
Nello stato della contemplazione invece troviamo, nella singola cosa,
la sua non caduca «immagine originaria». Poeti ed artisti sono
personalitaà alle quali tocca piuà spesso ed in maggior grado che
all’uomo comune di rapportarsi contemplativamente all’immagine
del mondo, e di ottenere cosìà l’immediata intuizione della sua realtaà
di immagine originaria. A cioà si lega in lui l’opinione, di tinta
fortemente buddistica, per la quale lo stato pensante sarebbe al
tempo stesso nel senso piuà ampio uno stato «interessato».
Generalmente l'interesse alla cosa consisterebbe per lui in una
inclinazione o in una antipatia del tutto personale; ma, in via
eccezionale, potrebbe anche essere l’interesse universale del
ricercatore, e non rimarrebbe peroà di meno una specie
dell’interesse, ossia dell’eccitazione della «volontaà » immanente a
tutto cioà che appare. Lo stato contemplativo si rappresenta cosìà
come una passeggera liberazione dal bisogno della volontaà , e

78
l’immagine originaria che viene contemplata diviene l’immagine
riflessa di una «conoscenza» tanto sovrapersonale quanto
sovraindividuale. Non possiamo fare a meno di citare alcuni passi di
Schopenauer, percheé vorremmo mostrare il non comune fascino
della sua concezione, prima di mostrarne la falsitaà .
«Nessun oggetto del volere, una volta' conseguito, puoà dare
appagamento durevole, che piuà non muti: bensìà rassomiglia soltanto
all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita
per continuare domani il suo tormento. Quindi fincheé la nostra
coscienza eà riempita dalla nostra volontaà ; fincheé siamo abbandonati
alla spinta dei nostri desiderii, col suo perenne sperare e temere;
fincheé siamo soggetti del volere, non ci eà concessa durevole felicitaà
neé riposo. Cosìà posa il soggetto del volere senza tregua sulla volgente
ruota d’Issione, attinge ognora col vaglio delle Danaidi, eà
l’eternamente struggentesi Tantalo.
Ma quando una causa esteriore, o un’interna disposizione ci trae
all’improvviso fuori dall’infinita corrente del volere, e la conoscenza
sottrae alla schiavituà della volontaà , e quando l’attenzione non eà piuà
rivolta ai motivi del volere, bensìà percepisce le cose sciolte dal loro
rapporto col volere, ossia le considera senza interesse, senza
soggettivitaà , in modo puramente obiettivo, dandosi tutta ad esse, in
quanto esse sono pure rappresentazioni e non motivi: allora
sopravviene d’un tratto, spontaneamente, la pace ognora cercata
sulla prima via, la via del volere, e ognora sfuggente; e noi ci
sentiamo benissimo. EÈ lo stato senza dolore, che Epicuro lodoà come
il massimo bene, e come condizione degli Dei: poicheé noi siamo, per
quell’istante, liberati dalla bassa ansia della volontaà , celebriamo il
sabba dei lavori forzati; e la ruota d’Issione si ferma.
Ed eà questo appunto lo stato, ch’io ho descritto piuà sopra come
necessario per la conoscenza dell'idea quale pura contemplazione,
assorbimento nell’intuizione, smarrimento di seé nell’oggetto, oblio
d’ogni individualitaà , abolizione della conoscenza che segue il
principio di ragione e soltanto le relazioni afferra; eà lo stato, in cui
d’un subito e indissociabilmente s’innalza il singolo oggetto intuito

79
all’idea della sua specie, e l’individuo conoscente a puro soggetto del
conoscere fuori della volontaà ; sìà che entrambi, in quanto tali, non
stanno piuà nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. EÈ
tutt’uno, allora, se il sole che tramonta si vegga da un carcere o da un
palazzo».
E:
«Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto
e sìà appieno, quanto il sonno e il sogno: felicitaà e infelicitaà sono
svanite: non siamo piuà l’individuo, che eà obliato, non siamo piuà che
puro soggetto della conoscenza: non esistiamo piuà se non come
l’unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri conoscenti
guarda, ma nell’uomo soltanto puoà diventare del tutto libero dal
servigio della volontaà : e allora ogni distinzione da individuo a
individuo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente se il
contemplante occhio appartenga a un re possente o a un tormentato
mendico».1
Udendo queste parole non si dovrebbe peroà pensare che si tratti
della stessa cosa della quale noi abbiamo giaà parlato come del
contrassegno essenziale dell’estasi, pur se anche noi diciamo che
l’estasi ci rende capaci di far penetrare lo sguardo, attraverso il
mondo delle cose, fino alla realtaà delle immagini, indipendenti
dall’io. EÈ vero che sembra che Schopenhauer veda la condizione
preliminare della contemplazione in uno spezzare i limiti
dell’individuo, e che cosìà egli dichiara guerra in modo altrettanto
deciso che il nostro ad ogni soggettivismo nella considerazione del
mondo: ma cosìà sembra, e quest’apparenza inganna! Non possiamo
fare a meno di riportare ancora un passo che puoà svelare in modo
stridente che il nostro pensatore ha in mente piuttosto tutto il
contrario. Sforzandosi di chiarire con degli esempi che cosa formi
propriamente il contenuto delle idee cosìà contemplate, ci fa sapere
tra l’altro quel che segue:
«Consideriamo delle nubi fuggenti nel cielo: le loro figure non fan
parte della loro essenza, sono del tutto indifferenti; ma che il vento
le raccolga e le disperda, le dilati e le squarci, questa eà la loro natura

80
di vapore elastico, l’essenza delle forze che vi si oggettivano, l'idea ;
mentre le figure accidentali non esistono che per l’individuo che
osserva. Per il ruscello che scorre giuà fra i sassi, i gorghi, le
increspature e gli spruzzi, i capricci delle schiume che vediamo alla
superficie, sono cose affatto indifferenti e non essenziali; ma
l’ubbidire alla legge di gravitaà , il comportarsi come liquido
anelastico, perfettamente mobile, amorfo, trasparente, questa eà la
sua essenza, questa eà , se si ricorre alla conoscenza intuitiva, la sua
idea ; le altre formazioni esistono soltanto per noi, che le conosciamo
come individui. Il ghiaccio si depone sui vetri delle finestre secondo
le leggi della cristallizzazione, che rivelano l’essenza della forza
naturale attiva in tale fenomeno, e rappresentano quindi l’idea; ma
gli alberi e i fiori che i cristalli disegnano sul vetro, hanno un
carattere puramente accidentale, non esistono che per noi» .2
Questo passo ci mostra con chiarezza quasi spaventosa che le
cosiddette immagini originarie o idee che Schopenhauer ha in mente,
e in perfetto accordo con Platone, non sono affatto immagini bensìà,
tutte quante, nient'altro che concetti\ Cioà che qui viene indicato
come l’essenza delle nuvole, come l’essenza del ruscello, come
l’essenza dei cristalli di ghiaccio, eà solo quel concetto della natura
universale del vapore, dell’acqua e del congelamento che, come
nessuno puoà disconoscere, forma l’oggetto delle scienze naturali;
tanto che, non a caso, in occasione della sua descrizione gli sfugge
anche la parola d’ordine di queste ultime: «legge». Di fatto egli non
parla d’altro che delle leggi naturali del mondo, e commette un
gravissimo errore quando ciononostante pensa che simili leggi di
natura vengano intuite. Ma proviamo a trasferirci col pensiero nello
stato di colui che alla vista dei fiori e degli alberi di ghiacco alla
finestra realmente si «perde nell’oggetto», che dimentica se stesso e
il resto del mondo, per essere completamente assorbito
nell'immagine di questi fiori di ghiaccio: come potrebbe capitargli,
proprio in quell’attimo, di pensare alle leggi della cristallizzazione e
del congelamento, e come potrebbe presentarglisi intuitivamente,
nei fiori di ghiaccio che crescono in modo leggero e misterioso e che

81
l’inverno produce per incanto alla sua finestra, la legge della
formazione del ghiaccio? No, egli si sentiraà rapito lontano da tutti i
concetti di cristallizzazione; evaporazione, congelamento,
altrettanto, quanto si sentiraà rapito alla propria persona; e si sentiraà
trasportato in sogno nel mondo animato di quelle formazioni di
ghiaccio, per partecipare all'intimità di quel fiorire e di quel crescere.
Le «idee» di Schopenhauer, esattamente come quelle di Platone, non
sono immagini di fronte all'anima contemplante, ma prodotti dello
spirito che giudica, e si differenziano dai concetti dell’abituale
ragione umana, come anche da quelli della scienza, esclusivamente
per la loro pretesa di realtaà metafisica. Ma proprio grazie a questa si
scopre come l’intenzione del pensiero platonico e schopenhaueriano
sia indirizzata contro la contemplazione delle immagini originarie:
infatti essa cerca di mettere, al posto di reali immagini originarie,
concetti reificati e leggi di natura assolutizzate. Platone, in questo
vedendo a fondo, fu percioà nemico dichiarato dell’arte;
Schopenhauer invece, da uomo non per nulla moderno, tenta,
certamente senza saperlo, di nascondere l’opposizione facendo
scaturire da uno stato di rapimento contemplativo la conoscenza
intuitiva da lui inventata, la quale eà peroà in realtaà ancora una volta la
conoscenza propria dell’intelletto (Verstandeserkenntnis). Ma cosìà
facendo egli falsa l’estasi, e percioà dovrebbe respingere le sue
genuine conseguenze, proprio come Platone, conseguentemente,
rifiutoà perfino l’arte. Ora, eà davvero cosìà!
«Per chi abbia compreso bene tutto cioà , per chi sappia
distinguere la volontaà dall’idea, e ('idea dal suo fenomeno, il
significato vero degli avvenimenti eà quello d’essere un alfabeto che
permette di leggere l'idea...; mentre in seé e per seé non hanno alcun
valore. Allora non si crederaà piuà , come fa l’uomo del volgo, che il
tempo possa generare qualcosa di veramente nuovo e di veramente
importante; che nel tempo e per via del tempo qualcosa possa
attingere ad una realtaà assoluta». 3 «...Perciò sarà tanto lontano
dall’istituire con Omero tutto un Olimpo di Dei a guida di quegli eventi
temporali, quanto dal tener con Ossian le forme delle nubi per esseri

82
individuali; poiché, come s’è detto, l’una e l’altra cosa ha eguale (cioè
egualmente poco) significato, in rapporto all’idea che vi si
manifesta»4.

Vediamo: il mondo degli dei, cosìà come ogni mondo di immagini


poetiche che si avvicini a quello mitico, viene sacrificato al mondo
dei concetti, e le leggi di natura, adornate con il nome di «idee»,
devono servire a privare dei suoi diritti l'attimo. Ma se la genuina
immagine originaria eà , per la sua natura di evento, qualcosa di
irripetibilmente unico, la riflessione su tutto questo ci costringeraà ad
una concezione della realtaà dalla quale nessun ponte e nessun
tramite potraà condurre alla fede nelle idee dei platonici.
Che si tratti di uomini, animali, piante, di foreste o dìà cielo
stellato, noi parliamo di ognuna delle cose cosìà indicate in quanto la
riteniamo qualcosa che, nella corrente del tempo, rimane. La foresta
che io oggi percepisco dalla mia finestra, eà oggi la stessa foresta che
era ieri, e domani saraà la stessa di oggi. Sono giunto cosìà al concetto
di questo bosco trascurando la temporalitaà di ogni accadere, e in
particolare della mia esperienza vissuta, e sostituendo
all’impressione di volta in volta presente qualcosa che rimenesse
sempre la stessa. In rapporto a quella, questa eà un universale, come
risulta nel modo piuà netto appena riflettiamo che siamo in grado di
tornare ad esso in ogni momento. Neé cambìàerebbe qualcosa se la
foresta venisse per esempio abbattuta: percheé non mi si toglierebbe
cosìà la coscienza che essa, quest’u-nica e stessa foresta, un tempo eà
stata laà . Quanto alla possibilitaà , si puoà annientare ogni cosa; ma
neppure l’onnipotenza di un dio potrebbe ottenere che essa poi non
sia stata. Ossia: cioà che eà accaduto non si lascia rendere non-
accaduto. Cosìà cioà che abbiamo in mente quando parliamo di cose o
di processi, insomma di oggetti, ha, in rapporto alla unicitaà
dell’immagine viva soltanto nella contemplazione di un attimo, la
natura della concettualitaà .

83
Ma allora nessuna immagine originaria puoà essere identica a una
cosa!
Immaginiamoci due amanti, mentre il loro amore per cosìà dire eà
in fiore: ciononostante non accadraà che essi, per un intervallo di piuà
settimane, provino in ogni ora e in ogni minuto lo stesso grado di
entusiasmo.

Nel più intimo della fiamma d'amore


vive una sorta di stoppino, che la smorza;
nulla ha sempre pari eccellenza.
Infatti, la bontà esuberante
muore del proprio eccesso.

Shakespeare

Essi vivranno assieme ore o minuti di straripante beatitudine, e


perfino di rapimento, e a queste seguiranno ore spente, nelle quali
ognuno dei due invano brameraà il brivido che rende felici, e invano
indagheraà le cause della sua assenza. Percheé cioà che l’amante vive,
anche se difficilmento lo sa, non vale per la persona dell’amato, che
rimane, ma per la sua immagine, che fluisce con la corrente del
tempo. Per questo il grande e tragico destino proprio dei grandi
amanti eà quello di seguire l’errore per il quale lo stato dell’Eros
porterebbe anche la garanzia della propria durata. La giovane
ragazza diviene una donna, la donna diviene una vecchia;
l’adolescente diviene un uomo, l’uomo diviene un vecchio: ogni volta
eà la stessa persona, che vaga attraverso tutte queste apparizioni, ma
le apparizioni stesse sono ampiamente diverse l’una dall’altra, e ogni
Eros eà connesso soltanto all’immagine, non alla identitaà con seé
stessa di una singola cosa. Se Schopenhauer diceva che bisogna
prescindere dall’apparizione per raggiungere l’idea, noi diciamo
all’opposto che si deve prescindere dal contenuto del concetto, cioeà
dall’oggetto, per giungere all'immagine. E questo non vale solo per il
moto erotico, ma in generale per la contemplazione delle immagini.

84
Cento volte posso aver visto la foresta davanti alla mia finestra,
senza aver vissuto altro che la cosa, quella stessa cosa che anche il
botanico ha in mente: ma una volta, mentre arde nello splendore del
sole della sera, la sua vista riesce a strapparmi al mio io: ed allora la
mia anima d’improvviso scorge cioà che io non ho mai visto prima,
forse per minuti, forse per secondi; comunque, per breve o per lungo
tempo, cioà che veniva scorto era l’immagine originaria della foresta,
e questa immagine non torneraà neé per me neé per nessun altro. A
questo punto forse qualcuno faraà un’obiezione realmente
importante. Se la foresta eà un contenuto concettuale, si potrebbe
allora dire che chi ne scorge l’immagine originaria non dovrebbe piuà
accorgersi di una foresta; ma se eà difficile che cioà accada, come si
potrebbe ancora affermare che egli eà libero dalle catene dell’io, dello
spirito e di ogni concettualitaà ? Rispondiamo cercando di definire ora
anche positivamente l'immagine originaria.
Ma per prima cosa vediamo come qualsiasi contenuto di
intuizione sia pur sempre piuà vario della cosa che da esso si puoà
trarre. Cosìà il concetto della foresta, e perfino di una ben
determinata foresta, non contiene nulla dei suoi colori. Nell’attimo
della mia contemplazione invece la foresta ardeva alle luci serali del
sole, e questo splendore non si poteva assolutamente separare
dall'immagine che io vivevo. Un’altra volta la stessa foresta puoà
ondeggiare nella tempesta, e puoà essermi dato di contemplare
nuovamente la sua immagine originaria: ma questa eà diversa da
quella ricevuta allora. Paragonata con le dicibili cose della
percezione, l’immagine dell’impressione si mostra piuà ricca per
numerosi tratti che non si lasciano mai completamente spartire in
proprietaà a loro volta dicibili. Ma ci si obietteraà che questo dipende
dalla particolaritaà del pensiero che forzatamente astrae, e
probabilmente del linguaggio, ma che non serve alla distinzione
dell’atto di percezione dall’evento della contemplazione; che se si
sostituisce a quello una lastra sensibile alla luce, essa saraà
perfettamente in grado di catturare l’impressione istantanea della
cosa della percezione, ed anche di conservare in una copia cioà che ha

85
catturato. Con l’opposizione dell’impressione istantanea e della cosa,
che resta, volevamo peroà soltanto ricordare percheé la loro diversitaà
non consista e non possa consistere nel fatto che per il contemplante
al posto della cosa da chiamare «foresta» si sia presentata un 'altra
cosa (Ding). Come abbiamo giaà accennato, dall’immagine
dell’impressione viene tratta la cosa dicibile, e questo vale tanto per
la copia della foresta quanto per la foresta reale: ma con questo sono
anche esaurite le somiglianze tra mere immagini della percezione ed
il contenuto della contemplazione (estatica). Infatti l’immagine
originaria, (come l’abbiamo chiamata), che eà stata vissuta grazie ad
essa, non sta mai lìà come qualcosa che eà e si puoà trovare e catturare
nella camera oscura, bensìà si genera dal contatto polare di un’anima
ricettiva e di un demone: e di tale provenienza eà segno e sigillo lo
splendido brivido che essa diffonde nel momento del suo nascere.
Proprio a causa del loro nimbo le immagini originarie sono più ricche
della stessa occasione di impressione che lo spirito riesce a cogliere in
esse. Sarebbe vano voler smembrare il nimbo e dividerlo in concetti;
invece possiamo tentare di destarne il ricordo mediante un richiamo
alle sue conseguenze figurative.
Nell’antica lirica cinese, della sposa del re si dice che ella eà «un
albero in fronde di seta». Nell’epidosio di Naia e Damayanti
(dell’indiano Mahabharata) l’eroe, mezzo nudo, viene dipinto con
queste parole: «chi eà quella fiamma di bellezza avvolta nel fumo?».
Un sonetto di Eichendorff all’amata, morta, finisce con la strofa:

Doch ist dein Bild zum Sterne mir geworden,


Der nach der Heimat weist mit stillem Blicke,
Dass fromm der Schiffer streite mit den Winden.

[Ma la tua immagine eà divenuta per me la stella / che con


tranquillo sguardo indica la patria, / Affincheé il pio navigante lotti
con i venti].

86
Il rapimento, la malinconia, il notturno lutto del cantore
trasforma per lui la figura illuminata da amore e la trasporta in nessi
di lontananza di cosmica profonditaà , e ci fa scorgere nel dettaglio
dell’apparizione cioà che nessun occhio diurno della coscienza
troverebbe: l'anima del mondo, nel suo spegnersi o nel suo
divampare, nel suo avvicinarsi oppure in fuga, nel pianto o nel
giubilo. All’oscura malinconia di Lenau l’adorabile immagine appare
nei lampeggianti tratti di un firmamento ondeggiante:

Wie gewitterklar
Mein ich dich zu sehen,
Und dein langes Haar
Frei im Sturme wehn.

[Come rischiarata da lampi / penso di vederti, / e i tuoi lunghi


capelli / muoversi liberi nella tempesta].

Moà rike nella sua poesia su Peregrina evoca l’incanto dell’amata


nel simbolo dell’oro:

Der Spiegel dieser treuen braunen Augen


Ist wie von innerm Gold ein Wiederschein;
Tief aus dem Busen scheint er’s anzusagen,
Don mag soich Gold in heilgem Gram gedeihn.

[Lo specchio di questi fidi occhi scuri / eà come un riflesso


dell’interno oro: / dal profondo del petto, sembra dire che soltanto lìà
/ quell’oro puoà allignare, in santo dolore].

Metafore, ci si dice. Grave errore! Se scendiamo al gradino del


canto originario, vediamo che per la magica violenza della parola
immediatamente accade cioà che l’entusiasta bocca del contemplante
dice! In un canto russo il vecchio cantore vagabondo non trova, in
riva al mare, nessuna barca che lo traghetti. E peroà :

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Il vecchio cantò un canto così bello, così potente,
che il mare incominciò ad ascoltare,
ed anche le azzurre onde, e le profonde correnti,
e le rive, stettero ad ascoltare.
Il vecchio cantò un canto così bello, così potente,
che le gialle rive si sporsero l’una verso l'altra:
si sporsero tanto che non rimase il minimo spazio tra loro,
e presto furono strettamente legate:
si unirono saldamente,
la riva sinistra con la riva destra,
la riva destra con la riva sinistra,
formando un ponte sicuro10

Del cantore di rune dice un canto finnico:

Tutti esultano, tutti cantano, tutti saltano,


tutti ballano, tutti si rallegrano,
tutte le allodole cantano, tutti i salmoni saltellano,
tutte le cicale friniscono, tutte le api ronzano,
perfino i venti della montagna danzano,
perfino le onde dello stretto ballano,
anche gli abeti ed i pini si chinano,
anche le betulle e i salici si piegano,
anche i fiori e le erbe si dondolano,
e tutte le canne stormiscono,
e tutte le pietre rotolano,
e tremano anche i ciotoli levigati,
là dove si pesca il salmone:
sta cantando un bravo cantore di rune,
sta cantando un bravo cantore di rune!11

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Ma anche del tempio mistico davanti al quale, a causa della
discesa di Faust alle madri, deve di nuovo svolgersi il ratto di Elena, eà
detto in Goethe:

Der Sàulenschaft, auch die Triglyphe klingt;


Ich glaube gar, der ganze Tempel singt

[Accordi manda il fusto delle colonne, manda il triglifo; credo che


tutto il tempio sia un canto solo].5

L’immagine dell'uomo si dissolve in meteore, che poi si


condensano a formare l’immagine dell’uomo. Cioà che per l’occhio
diurno era singolo tra singoli, eà ora circondato da correnti telluriche
e cosmiche. Colori, forme, suoni, rumori, odori vi sembrano
mescolati in un pandemonio di tutti gli elementi formanti: e tuttavìàa
splende luminoso e chiarissimo, simile a un volto che ora minaccia e
ora promette. Non eà stata oggettivamente mutata la realtaà
in contatto con la quale si generoà l’immagine, bensìà hanno ceduto le
barriere che separano l’oggetto dalla realtaà stessa! Qualsiasi cosa sia
entrata nel raggio della contemplazione di immagini, essa non eà piuà
una cosa (Ding) tra altre cose, bensìà eà divenuta punto medio del
mondo. Per essa vale cioà che Mefistofele accorda all’iniziato:

Wirf dich ins Meer, wo es am wildsten tobt,


Und kaum betrittst du perlenreichen Grund,
So bildet wallend sich ein herrlich Rund;
Sìehst auf und ab lichtgrune schwanke Wellen
Mìt Purpursaum zur schónsten Wohnung schwellen,
Um dich, den Mittelpunkt. Bei jedem Schritt,
Wohin du gehst, gehn dìe Palaste mit.

[Ebbene geà ttati nel mare, dove piuà infuria selvaggio! / Appena ne
avrai toccato il fondo ricco di perle, / subito un magnifico cerchio si
formeraà ondeggiando. / E vedrai su e giuà labili onde verde-lucenti

89
dai bordi purpurei ! gonfiarsi in bellissima dimora intorno a te, / che
stai fermo al centro. Ad ogni passo, / dovunque tu vada, ti
accompagnano i palazzi].6

Allo scoccare della scintilla tra demone ed anima, questa stessa


diviene demoniaca fonte originaria delle immagini, vivendo cioà di cui
non si puoà certo mai pensare la rivelazione in parole: l’inizio del
mondo, sempre rinnovantesi nell’evento della contemplazione.
Ricordiamo la strofa di fuoco di Schuler nel «ditirambo coribantico»
della sua Cosmogonia:

Was bist du mehr als meìner Kerze Docht,


Als meiner Lampe siedend Balsamol.
Was bist du mehr als meiner Sànfte Blut,
Als meiner Mosaiken Hyazinthenpracht,
Die unter meìner Sohle Tritt ergluht -
Ich bin das Licht, das aus der Nacht dich saugt,
Ich bin das Auge, das den Glanz dir heuchelt,
Ich bin die Perle, die die Muschel fullt,
Ich bin der Rausch, der diese Welt verjungt,
Ich bin das Leben12.

[Che cosa sei tu, piuà che lo stoppino della mia candela, / piuà che il
bollente olio balsamico della mia lucerna? / Che cosa sei tu, piuà che
sangue della mia dolcezza, / piuà che lo sfarzo di gemme dei miei
mosaici, / che si accende al mio passaggio? / lo sono la luce, che ti
succhia dalla notte, / Io sono l’occhio, che ti finge lo splendore, / lo
sono la perla, che colma la conchiglia, / lo sono l’ebbrezza, che
ringiovanisce questo mondo, / lo sono la vita].

La sorte del mondo eà presente nell’attimo illuminato; fino nelle


lontananze dello spazio e fino nelle lontananze del tempo ogni cosa
che accadde e che accade ha la sua luce ed il suo senso
dall'immagine, che pure cosìà in fretta si disperde13.

90
Ogni cosa casuale potrebbe, pensa Novalis, «diventare il nostro
organo del mondo. Un volto, un astro, una contrada, un vecchio
albero, possono far epoca nel nostro intimo. Questo eà il grande
realismo del feticismo». Invero, qualsiasi cosa possa piacevolmente
sorprenderci in azioni cultuali, sacre feste, usi magici, tabuizzazioni,
arti mantiche, essa eà fondata senza eccezione sul prevalere della
interioritaà contemplante sulla mera capacitaà percettiva, e inoltre
sull’intrecciarsi del mondo degli oggetti, che eà mosso sempre
soltanto meccanicamente, nella demonicamente viva realtaà delle
immagini. Ma come questa si configuroà immediatamente in tutto il
modo di vita dell’uomo preistorico, come per cosìà dire si cristallizzoà
in templi, idoli e monumenti tombali, come ancor piuà tardi prese
dimora nella dispersa pioggia di fiori della poesia, cosìà ne rimase
anche una notizia che noi non possiamo disdegnare di accogliere in
aiuto, se dobbiamo passare dal contenuto dell’estasi, non
partecipabile percheé extraconscio, a quelle certezze logicamente
incomprensibili che il pelasgo visse, e che l’uomo dell’antichitaà
storica almeno riottenne in modo spirituale nei riti segreti. Se cioeà ci
fu un’umanitaà per la quale fu ancora cosa abituale entrare in legame
con il mondo attorno a seé grazie alla feconda contemplazione, essa
dovette, negli stati intermedi di sobrietaà , cercare di fermare per
incanto, mediante segni per la coscienza, cioà che era appena
trascorso, in modo simile a quello in cui l’uomo della ragione
conserva, con l’aiuto di un linguaggio concettuale, il suo sapere di
cose. Ora: questi segni sono i simboli. Essi sono glifi di immagini
scorte nell’estasi, dunque veri ieroglifi, proprio come la parola
dell’uso linguistico comune eà il glifo che fissa oggetti in concetti. Se il
linguaggio concettuale serve alla trasmissione del giudizio, il
linguaggio simbolico serve a ridestare la contemplazione; e se il
concetto forma il punto di partenza dell’indagine scientifica, il
simbolo forma l’origine del mito. Sterminata eà la scienza dei segni
dello stato di coscienza contemplante, come lo chiameremo d’ora in
poi, sterminato l’arricchimento di conoscenza per chi sa leggere in
essa. Per i nostri scopi puoà bastare prendere dalla pienezza dei suoi

91
sedimenti e delle sue usanze una sola pagina, per comprendere la
quale peroà dobbiamo prima guardare piuà a fondo nell'essenza delle
immagini.
Siamo passati dallo stato all’essenza dell’estasi mettendo in
rilievo la lontananza dell’immagine in rapporto alla vicinanza della
cosa della percezione. All'obiezione, difficilmente evitabile, per la
quale anche cioà che eà lontano viene peroà percepito, ed in particolare
la lontananza spaziale percepibile forma il modello di ogni possibile
lontananza, dovremmo soltanto ribattere che senza contemplazione
(anche se rimane inconscia) non c’eà nessuna percezione, neppure di
cioà che eà spazialmente vicino, e che la percezione di cioà che eà
spazialmente lontano ha un proprio «timbro», nel quale chi eà
abituato all’ascolto sente la voce dell’anima che si desta; e che
proprio in questo giaà si annuncia a bassa voce il mutamento di stato
che giaà inizia. Paragonato ad uno che osserva l’insetto sulla propria
mano, l'osservatore, in circostanze simili, di una catena di colline
velate d’azzurro eà essenzialmente piuà vicino al «sognatore» o a chi eà
«immerso». L’osservatore deciso a porre differenze tratta perfino il
lontano come se fosse un vicino, e sacrifica l’immagine intuitiva ad
una sequela di luoghi che egli misura con lo sguardo uno dopo
l’altro, cioeà separati, mentre lo sguardo di chi eà immerso
nell’osservazione, foss’anche di un oggetto vicino, eà avvinto, in modo
privo di scopi, dall’immagine dell’oggetto, e cioà significa almeno
dell’immagine di una forma che non eà racchiusa da confini, ma
dall'insieme delle immagini all’intorno. Non tanto la distanza
dell’oggetto quanto il modo di osservazione decide se esso abbia la
caratteristica del vicino o del lontano; e nessuno disconosce come la
vicinanza abbia il carattere della cosa (Ding), e la lontananza quello
dell’immagine.
Ora, qualcuno potrebbe opporci, apparentemente a buon diritto,
che, per quanto tutto questo possa anche in seé e per seé essere giusto,
in tal modo scivoleremmo in una insolubile contraddizione con lo
stato di coscienza primitivo, che sarebbe invece, secondo la nostra
opinione, tenuto per le dande dalla contemplazione. Perfino gli

92
oggetti siderei, per tacere poi degli oggetti vicini, sarebbero cioeà
rivestiti di lontananza per noi, che sappiamo o pensiamo di sapere
qual eà la loro natura oggettiva, ma non certo per chi li vive come
apparizioni; e piuttosto proprio in questo starebbe il segno
distintivo dell'etaà arcaica: che essa riportava anche distanze astrali
in una vicinanza domestica. «La cosmogonia greca», cosìà potrebbe
proseguire, «conobbe l’Eros come creatore del mondo: ma esso
rimase, nonostante la sua natura cosmica, un Eros della vicinanza.
Che per essa le stelle si nutrano dei vapori della terra, ha un senso
piuà profondo di quello che potrebbe chiarire l’odierna astronomia;
ma, accanto a cioà , indica anche il rapporto di vicinanza che la misura
visiva della sensualitaà ellenica esige tra paesaggio celeste e terrestre.
La sua simbolica, in fondo elementare, paga il fascino della
determinatezza formale architettonica con una restrizione del
campo visivo dell’anima, che certamente rese possibile, essa per
prima, l’incanto di bellezza, unico nel suo genere, della sua arte dalle
figure umane, ma non meno ha accellerato l’insabbiamento del
pensiero cultuale in quello soltanto piuà logico. Forse non c’eà una
testimonianza piuà persuasiva, della dipendenza della facoltaà di
giudizio dallo «sguardo di veggente» dell’esperienza vissuta, della
riscoperta copernicana del vagabondaggio della terra. La concezione
elio-centrica, — nota ai primi greci (Aristarco, forse giaà Filolao) — fu
per l’antichitaà un «punto di vista» inverosimile, che accanto allo
schema tolemaico disseccoà , percheé non provoà mai il pathos
vertiginoso, il quale soltanto puoà dargli voce e, assieme, colmare
quella che apparentemente eà soltanto una formula astronomica con
il significato della piuà inaudita rivoluzione che, riguardo
all'immagine dello spazio, abbia finora fatto irruzione nell’animo
degli uomini! Il materialista greco sta ad occhi aperti sulla «salda
duratura terra». Il sacro boschetto, gli scogli e la costa marina si
accordano come nell’articolato imeneo, racchiusi e chiaramente
delimitati dalla raggiante campana della volta dell’«etere». La
fiamma guizza in alto negli spazi vicini, la pioggia che cade rende
feconda la terra che la riceve, il vento che daà vita, sussurrando da

93
vette annunziatrici di destino, collega la lontananza alla vicinanza, il
sopra al sotto, ed il cielo con tutti i suoi astri «pasce i suoi occhi»
nello splendore delle acque. Ogni cosa si muove e vaga, si annuncia,
si dispiega e scompare, e cosìà vive: impulsi e desideri, ricerca di
satollamento o di accoppiamento, guerra e affratellamento fanno
condensare cioà che eà aereo, sciolgono cioà che eà solido, traggono il
fuoco celeste nell’abbraccio delle paludi, mandano, come nebbia,
l’umore che nutre nella zona incandescente del sole. La fede nella
vita del tutto, nella panmixia e nell’incessante metamorfosi, nutre il
mito come i sistemi dei primissimi pensatori. Ma, nonostante questi
la abbiano liberata dai limiti della percezione ed abbiano insegnato il
circolare ritorno delle fasi polari della realtaà , si spiegherebbe in
modo non meno falso il loro stato di coscienza a partire dal nostro di
oggi, qualora si pensasse che essi abbiano mai lasciato il punto di
vista geocentrico. A cioà si opponeva la loro contemplazione dello
spazio! Si sottragga lo spazio occidentale-antico dai miti, dai simboli,
dalle dottrine di sapienza, dall’epica di Omero, dalla lirica eolica e
pindarica, dai cori dei tragici, dai templi e dalle sculture: esso ha
sempre la figura della sfera che chiude insieme, la cui metaà visibile
sta, come un tetto a padiglione, o simile alla cupola di un duomo, sul
sottostante piano del paesaggio terreno. Il sentimento della vita
degli antichi eà cosmico, ma cellulare, e prende il macrocosmo per un
microcosmo allargato. Rimane sordo alla scoperta degli Aristarchi,
poicheé il suo spazio eà la cellula macrocosmica, che tiene ogni
accadere come la brocca il getto d’acqua, o che pone le immagini del
cielo con le immagini della terra sotto il tetto della stessa casa. Lo
spazio dell’antichitaà era lo spazio di vicinanza dell’οιἶ κος; e forse che
le cose stanno diversamente per lo spazio dei «selvaggi»? Alcuni
popoli della Polinesia hanno la salda convinzione che il cielo
all’orizzonte arrivi giuà sulla terra e cosìà la tenga racchiusa, ed
esprimono tale convinzione chiamando gli stranieri «papalangi»,
cioeà «coloro che spezzano il cielo», in quanto avrebbero fatto
irruzione da un altro mondo in questo. Ma che cosa potrebbe parlare
piuà forte a favore del carattere di vicinanza di cioà che eà vissuto

94
originariamente, e come si potrebbe accordare tutto questo con una
dottrina della contemplazione che scorge il contrassegno essenziale
delle immagini proprio nel carattere di lontananza del loro
contenuto?».
Abbiamo tolto le considerazioni che precedono dalla nostra
opera principale Lo spirito come avversario dell’anima (pp. 875-878),
nella quale viene giustificato piuà espressamente cioà di cui qui
diciamo solo l’indispensabile nella forma di una risposta. Chi ottenga
il concetto di lontananza dall’«infinitaà » dello spazio copernicano e la
paragoni alla coscienza domestica dell’antichitaà , potrebbe
certamente e a ragione essere tentato di chiamare l’Eros
dell’antichitaà , in confronto, un «Eros della vicinanza». Ora peroà ,
come si mostreraà , noi siamo autorizzati, per mantenere separate
contemplazione e percezione, ad intendere l’espressione «Eros della
lontananza» in un significato piuà ampio, che consente di applicarlo al
grado cultuale di tutti i popoli e di tutte le epoche, senza eccezione.
Ma, prima, notiamo che cioà che rendeva valida l’obiezione
precedente riguarda molto meno la diversitaà tra i tempi precedenti e
posteriori che quella tra due indoli razziali, e piuà precisamente, che
riguarda la diversitaà dei gruppi di popoli greco-romani (con i quali in
questo molti «popoli primitivi» — non tutti — coincidono) da
numerose stirpi orientali, ed in particolare dai germani preistorici e
dagli indiani. Molti inni dei Veda piuà antichi per esempio, nonostante
fossero all’oscuro dello spazio copernicano, sono irradiati all’intorno
da uno splendore di lontananza delle immagini al quale neppure la
lirica eolica puoà contrapporre qualcosa di simile, per tacere poi di
Omero e dei tragici; e l’architettura indiana anticipa di piuà di un
millennio il tratto dissolvente del romanticismo paesaggistico del
tardo barocco.
Ma anche nell’antichitaà dell’occidente ci furono ripetutamente
dei singoli che spezzarono l’idea di oicos, cosìà il giaà citato Aristarco
di Samo, cosìà anzitutto Eraclito con il suo sradicamento della
staticitaà del pensiero per mezzo dell’antigreca dottrina della realtaà

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dell’eterno fluire. Ma questo sia detto di passaggio, e adesso
torniamo a!l’«Eros della lontananza» in senso allargato.
Se l’oggetto, in quanto spostato nella lontananza, puoà divenire
almeno immagine intuitiva, direi quasi riflesso, della immagine
reale, eà altrettanto vero che, al contrario, l’immagine di lontananza
puoà spostarsi, dall’infinitaà dello sconfinato spazio mondiale, sempre
piuà vicino, e che cosìà, come vien da pensare, corre il rischio di
irrigidirsi in un’oggettualitaà isolata. Se ora ci chiedessimo se ci sia un
contrassegno che permetta di distinguere l’immagine vicina anche
dall’oggetto piuà allontanato, ci vedremmo dapprima rinviati al segno
negativo della intangibilità di qualsiasi immagine. EÈ vero che sopra
abbiamo sentito che il miste eà solito non di rado udire, fiutare,
toccare, gustare qualcosa; ma nel prossimo capitolo, e
principalmente mediante l’esempio del gusto, spiegheremo che in
questo non entra affatto in opera il tastare, bensìà una facoltaà
contemplativa interna al gusto e al tatto. Certamente in senso stretto
non si puoà toccare qualsiasi cosa che sia oggettivamente lontana,
anche solo di poco, dal corpo che tocca; ma, se prescindiamo dalle
apparizioni del firmamento, non c’eà niente di oggettivamente cosìà
lontano da non poter capitare in una vicinanza toccabile, sia per un
moto suo verso l’osservatore, sia per un moto di questo verso
l’oggetto. Se quindi alla natura del corpo terreno, tanto di quello
lontano quanto di quello vicino, appartiene la tangibilitaà , allora il
contrassegno essenziale della lontananza non apparterraà ad essa,
bensìà alle immagini del cielo, e pienamente soltanto ad ogni cosa che
sia passata temporalmente.
Vicinanza e lontananza sono i poli, che si completano a vicenda,
non solo dello spazio, ma anche e altrettanto del tempo. Noi ci
rappresentiamo una lontananza temporale per mezzo dell’immagine
intuitiva di una lontananza spaziale; ma cioà che pone quel che eà
lontano spazialmente in una intangibile «lontananza» eà la
lontananza temporale. Questa appare nella lontananza
spaziale; owero: cioà che appare nella lontananza dello spazio eà
lontananza del tempo. Detto in breve (come giaà sopra): il tempo eà

96
l’anima dello spazio. Sembrerebbe di poter chiamare in nostro aiuto,
in via eccezionale, la «scienza naturale»: infatti l’astronomia suole
insegnarci che giaà da Sirio, una stella fissa molto vicina, la luce per
raggiungerci ha bisogno di parecchi anni: percioà , guardandola,
nell’atto di percezione avremmo presente qualcosa che eà giaà passato
da tanto tempo! Pure, anche se noi non credessimo di essere certi
che giaà la scienza di domani rigetteraà come errata questa opinione
oggi popolare, si confonderebbe tutto se scambiassimo la misurabile
lontananza del corpo di Sirio dal pianeta terra col carattere di
lontananza dell'immagine di Sirio! Non parliamo della lunghezza di
miglia o di anni luce di distanze che separano i corpi, bensìà di quella
lontananza (in certo modo, della lontananza «in seé ») che viene
scorta immediatamente (e quindi in modo preconcettuale) nella
contemplazione dell'immagine.
Il lettore immagini di essere sulla riva del mare a riposare,
abbandonato senza altri pensieri all’estremo orlo dell’orizzonte,
indicato da una nebbiolina di vapore: ed ora, nella successiva
riflessione, confronti il sentimento che accompagna la profonditaà
spaziale che ha vissuto con l'esser sprofondato nelle immagini del
ricordo di una gioventuà che non puoà tornare: se egli ha il dono di
saper scrutare nei regni dell'interno, li troveraà simili tanto da poter
essere scambiati. Cioà con cui, irraggiungibile, il profumo di
lontananza dell'orizzonte colma il cuore di tormentosa nostalgia,
eccitando dolorosamente e allo stesso tempo dolcemente placando,
eà la non più tangibile realtaà di cioà che eà passato; e cioà per cui,
nell'immagine interiore, una cosa trascorsa da lungo tempo si
distacca, come fuggita lontano, da cioà che eà appena accaduto ed eà
ancora vicino nel tempo, eà l’incomparabile azzurro di lontananza
della profonditaà dello spazio. Simile a nuvole che vagano attorno a
cime innevate, e con lo splendore illusoriamente lontano delle stelle,
l’etaà originaria eternamente scorre davanti allo sguardo di chi
involontariamente si eà trovato prigioniero di tali immagini.
Ricordiamo ancora una volta la rivelazione mistica: l’esterno eà un
interno elevato allo stato di mistero.

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Ma giaà si annuncia la nuova obiezione: se la vicinanza temporale
e spaziale e la lontananza temporale e spaziale possono essere, per
quanto riguarda l’essenza, rispettivamente la stessa cosa, percheé cioà
che eà spazialmente lontano deve apparire assolutamente nella luce
del passato e non altrettanto in quella del futuro? Secondo il
linguaggio cioà che eà passato sta dietro di noi, cioà che eà futuro
davanti: il tramonto ci rammenteraà quello, l’alba questo. E poi,
Eichendorff non disse, nel suo canto, che la lontananza parla di una
futura felicitaà ? Per non allontanarci dall’oggetto principale,
dobbiamo accontentarci di accenni nello spiegare percheé la
lontananza del tempo passato viene pensata come posta dietro di
noi; ciononostante speriamo di persuadere il lettore che qualcosa
come un lontano futuro assolutamente non c’eà nella realtaà .
Spazio e tempo, appartenendosi polarmente, hanno questo in
comune: che ognuno di essi eà disteso tra i poli della vicinanza e della
lontananza. Come eà certo che la vicinanza spaziale eà solo una (e, per
l’essenza, = toccabilitaà ), indifferentemente dal luogo dove io mi
fermo, e parimenti la lontananza spaziale eà soltanto una,
indifferentemente dal fatto che io guardi a est o ad ovest, a nord o a
sud, eà altrettanto certo che, in rapporto alla vicinanza temporale, c’eà
anche una sola lontananza temporale. Se ce ne fossero due, se cioeà
accanto alla lontananza del passato ci fosse anche una lontananza
del futuro, il carattere di lontananza del punto di vista davanti a me
sarebbe in qualche modo opposto per specie al carattere di
lontananza del punto dìà vista dietro a me. Ma poicheé eà innegabile il
contrario, la duplicitaà della lontananza temporale eà stata inventata, e
una delle due dev’essere una chimera! Ma noi dobbiamo ritenere
tale il futuro, per il motivo che segue. Se io mi ricordo il passato, mi
ricordo di una realtà che eà stata; se invece penso a qualcosa di
futuro, penso a qualcosa di non reale, o meglio a qualcosa che esiste
soltanto nell’essere pensata. Se in un attimo svanissero tutti gli
esseri pensanti, il passato realmente avvenuto rimarrebbe
esattamente quel che era prima; mentre il nome «futuro»
perderebbe completamente il suo senso appena mancassero esseri

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con il pensiero del futuro. Il futuro non si rapporta al passato come
una lontananza temporale ad un’altra, opposta, lontananza
temporale, bensìà come un mero concetto alla realtaà , ovvero: il futuro
non eà una proprietaà del tempo reale.
Forse ci si opporraà che reale eà soltanto l'accadere presente, ma
che come questo certamente eà stato determinato anche
dall’accadere passato, cosìà a sua volta forma nuovamente la
condizione preliminare dell’accadere futuro. Che inoltre numerosi
impulsi alla cura non lascerebbero dubbio che giaà lo stato di vita
animale sia connesso intimamente tanto col futuro quanto col
passato (esempio: la nidificazione, da parte degli uccelli, per il tempo
dell'accoppiamento). Che chi percioà concede realtaà al passato non
puoà negarla al futuro. A questo dovremmo ribattere che una cosa eà
la necessitaà nel prosieguo dell’accadimento, e un’altra eà
l’anticipazione nel pensiero di un presente che non eà ancora qui; e
ancora che questa non sta affatto sullo stesso grado con il pensiero
mediante il quale io mi riferisco a qualcosa che realmente eà stato.
Del resto, senza contrappesare valori di certezza, ognuno deve
comunque sapere e riconoscere che non c’eà nessun evento collocato
nel futuro del quale non si potrebbe pensare che, invece di accadere,
esso non accadraà . Se l’esperto degli astri ci predice l’eclissi di luna
fino alla frazione di secondo, noi non dubitiamo che essa accadraà e
proprio nel punto del tempo che eà stato determinato; peroà non
sarebbe impossibile pensare che, prima che essa accada, tutto
l’universo per noi visibile vada in pezzi. Sarebbe invece impensabile
che l’eclissi di luna che c’eà stata ieri non ci sia stata. Chi non si
persuade per gli esempi fisici, ne scelga dal campo della vita. Noi
possiamo sperare che il nostro amico riesca in una difficile impresa,
e possiamo temere che non ci riesca; ma per lui non abbiamo niente
piuà da sperare e niente piuà da temere, dopo che egli vi ha trovato la
rovina. Ma se il futuro eà popolato dal gioco di ombre di timori e
desideri umani, allora eà esso stesso qualcosa di non reale,
meramente pensato, una chimera. E se, al contrario, perfino i
desideri piuà appassionati devono infrangersi impotentemente

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contro cioà che irrevocabilmente è accaduto, in tal modo il passato si
dimostra colmo di realtà fino all’orlo. Passato e presente, e non
passato e futuro, sono i poli del tempo, e la lontananza temporale
coincide esattamente con la lontananza del passato. «La natura eà
schietto passato» (Novalis). Nel linguaggio «fern» (lontano), vicino
etimologicamente a «firn» (= dell’anno passato), originariamente era
usato soltanto a proposito di cioà che era trascorso, e perfino con lo
stesso senso di «di prima, di una volta, vecchio».
L’umanitaà prometeica, che precedette immediatamente quella
storica, innalzoà il futuro allo stesso grado di realtaà del passato, cosa
sulla quale torneremo; quella eracleica della «storia mondiale»
uccise ed uccide con la chimera «futuro» la realtaà di cioà che eà stato,
priva del noccioio l’attimo annientando il suo contenuto di passato, e
lacera il fecondo nesso di vicinanza e lontananza per porre al suo
posto la relazione ahasverica del presente a quello spettro di
lontananza che si chiama futuro. Alla fine essa avraà perduto
totalmente il suo passato: ma nello stesso istante avraà anche
annientato se stessa, percheé saraà privata del presente: infatti
soltanto in immagini di cioà che eà stato il tempo si realizza ed appare.
«Soltanto il passato continua a splendere, come talvolta sul mare le
navi trascinano dietro di seé una strada luminosa». (Jean Paul). Le
«escatologie» e le «apocalissi» sono l’espressione piuà terribile della
pazzia che si chiama «storia». Ma di cioà diremo piuà tardi
l’indispensabile, e qui aggiungeremo solo poche parole ancora su cioà
che eà «davanti e dietro» a noi.
La realtaà eà eterna, ed il tempo reale eà il pulsare dell’eternitaà , per
il quale ogni presente, per l’attimo che viene, ne scaccia uno del
passato, che scivola vìàa. In rapporto al sovrastante ponte dell’Ora
(Jetzt), il tempo eà una corrente con direzione dal futuro nel passato.
Se ci volgiamo verso quel lato, ci sembra che ogni attimo arrivi —
«kùnftig» (= futuro, agg., N.d.T.) eà linguisticamente la stessa cosa che
«kommend» (= venturo, agg. N.d.T.) —; ma se ci volgiamo verso
questo, ci sembra che vada via. Il fondamento vitale della possibilitaà
della coppia di concetti passato-futuro eà in questo, che il presente,

100
sempre istantaneo, puoà essere vissuto tanto come tempo che viene
quanto come tempo che sfugge, se ne va, passa. Poicheé abitualmente
non camminiamo all’indietro, e comunque a lungo andare mai,
l’estensione verso avanti eà la direzione nella quale camminiamo o
potremmo camminare, quella verso indietro eà la direzione dalla
quale veniamo. Se procedendo fissiamo con lo sguardo un qualsiasi
punto lontano, esso ci si avvicina sempre piuà , mentre in egual
misura cresce la distanza tra noi ed il punto lontano alle nostre
spalle. Quello eà qualcosa che viene, questo eà qualcosa che svanisce
ed infine passa; quello eà il simbolo dell’attimo che viene, questo di
quello che sfugge (ed allo stesso modo, come ognuno vede, il sorgere
del sole si rapporta al suo tramontare). Ma, con tutto questo, la
lontananza resta una, e sempre la stessa. Non l’abbiamo raggiunta
neppure quando abbiamo raggiunto quel punto lontano, che anzi col
suo essere raggiunto eà divenuto subito vicinanza, estrema vicinanza.
Ma poicheé infine non possiamo invertire la direzione del tempo, e
continuiamo incessantemente ad allontanarci da cioà che eà appena
accaduto, mentre ogni attimo pensato verosimilmente come futuro
prima o poi arriva e diviene presente, soltanto ciò che è stato puoà
assolutamente stare in reale luce di lontananza. Rimarrebbe ancora
da chiarire percheé anche il futuro possa talvolta rappresentarsi con
la apparenza della lontananza, come per esempio in quella strofa di
Eichendorff. La risposta eà : l’anima dell'immagine di lontananza che
abbiamo scorto eà sempre lontananza del passato; come esseri
pensanti siamo peroà in in grado di trasportarla nell’estensione dello
spazio che si trova davanti a noi: il futuro eà passato proiettato in
avanti. Questo vale anche del concetto di futuro (propriamente
atemporale) delle scienze naturali. Non c’eà nessun calcolo del futuro
il cui materiale non venga totalmente da un’interpretazione
concettuale dìà cioà che eà passato. Se l'astronomo predice esattamente
nel tempo l’eciissi di luna, certo non lo fa grazie ad una mera legge di
verisimiglianza che si baserebbe sulla registrazione delle distanze
temporali delle precedenti eclissi di luna: ma le forze e gli elementi
dell’orbita ed i tempi di rivoluzione sui quali egli si basa sono tutti

101
quanti messi insieme dall’osservazione di movimenti degli astri che
si sono giaà verificati. E con questo al riguardo basta.
Per trovare l’essenza dell’estasi, abbiamo dovuto trovare
l’essenza della contemplazione, e, a tal scopo, distinguere nel modo
piuà determinato il carattere di lontananza dell’immagine della
contemplazione dal carattere di vicinanza della cosa della
percezione. Ma tutto cioà che si eà detto al riguardo sarebbe rimasto
un’opera imperfetta e soggetta a fraintendimenti senza una
spiegazione metafisica sull’essenza della lontananza, della quale ora
abbiamo accertato che essa eà in seé passato, sebbene giunga ad
apparizione nella lontananza dello spazio. E cosìà, le immagini
originarie sono immagini di cioà che eà stato (di qui penetroà
nell’erotismo platonico il pensiero dell'anamnesi), e la
contemplazione estatica, in opposizione all'atto di percezione, eà
rivolta alla realtaà , assolutamente intangibile, di cioà che eà passato.
Che l’immagine dello spazio sia geocentrica o «infinita», l’Eros della
lontananza si conferma genuino nel suo splendere nella visione del
mondo passato. Nello specchio della dottrina dell’essenza il vicino eà
sobrio e fa rinsavire, ed eà inebriante soltanto il lontano; il presente eà
vicino, e solo il passato eà lontano; e questo eà il senso, certamente
extrarazionale, dello stato della contemplazione: esso «rapisce» laà
«dove non si puoà arrivare», nel mondo materno di cioà che eà stato,
ovvero riporta gli «spiriti» di chi eà morto da tempo. Nessun Platone,
nessun Plotino, nessuno Schopenhauer vide questo! Sedotti dal
fuoco fatuo del logos, i filosofi scambiarono l’eterno con l’atemporale
limite del tempo, o con il vaneggiamento di una durata senza fine, e
cercarono di ottenere con l’intelletto cioà che invece si dona soltanto
alla devozione sacrificante, e, commettendo empietaà contro
l’immagine meravigliosa di un tutto che partorìà anche loro,
cercarono al di là di esso, come se fosse un secondo mondo
oggettivo, ma arredato piuà comodamente, cioà la cui apparizione
splende soltanto al contemplante nell’azzurro notturno della
lontananza del passato. Ma tra i poeti alcuni lo seppero, e cosìà
Goethe.

102
Versinke denn! Ich kónnt' auch sagerr. steige!
’s ist eìnerlei. Entfliehe dem Entstandnen
In der Gebilde losgebundne Ràume!
Ergòtze dich am làngst nicht mehr Vorhandnen

[Sprofonda dunque! Ma anche potrei dire: sali! / EÈ la medesima


cosa. Fuggi da quel che eà nato / verso i liberi dominii delle immagini!
/ Godi di quel che da lungo tempo piuà non esiste]).7

Was einmal war, in altem Glanz und Schein,


Es regt sich dort; denn es will ewig sein.
Und ihr verteilt es, alìgewaltige Màchie,
Zum Zelt des Tages, zum Gewòlb der Nàchte

[Quel che una volta esisteva in rilievo e splendore, / Ora colaà si


muove percheé vuol essere eterno. / E voi lo ripartite, voi onnipotenti
forze, / sotto il padiglione del giorno o sotto la volta della notte]. 8

E chi, sia per «grazia», sia per magia, eà giunto:

Ins Unerbetene, nicht zu erbittende.

[Nel non mai impetrato, non mai da impetrare,].9

chi, trasformato e sfuggito all’io, eà divenutola sola cosa con il


pulsare dell’eternitaà , ora osa perfino l’evocazione dei morti:

Und sollt'ich! nicht, sehnsuchtiger Gewalt,


Ins Leben ziehn die einzigste Gestalt.

[E non dovrei io, con la violenza della mia brama, / richiamare in


vita quella figura unica sopra ogni altra?].10

103
anche se, con Faust, dovesse confessare:

Ich atme kaum, mir zittert, stockt das Wort;


Es ist ein Traum, verschwunden Tag und Ort.

[Respiro appena, mi trema e s’arresta la parola; / eà un sogno:


scomparsi e tempo e spazio!].11

Conformemente all’uguaglianza d’essenza della vicinanza


spaziale e temporale, (e, cosìà, anche di Qui ed Ora), «presente»
(Gegenwart, in senso temporale, N.d.T.) significava una volta
«presenza» (Anwesenheit, in senso spaziale, N.d.T.), ed ancor oggi
viene usato nello stesso senso, quando diciamo di qualcuno che eà
«presente» (gegenwàrtig, qui in senso spaziale, N.d.T.). Se ora in ogni
caso la contemplazione eà un modo di render presente, e la
lontananza contemplabile eà invece qualcosa di
assente, caratterizziamo la decisiva particolaritaà dell’essenza di
quella dicendo che essa «rende presente l’assente», o, meglio ancora,
«rende presente cioà che eà passato». Cosìà abbiamo in mano la chiave
per comprendere un culto dei morti che un tempo fu diffuso su tutta
la terra, e che eà completamente scivolato via alla coscienza media di
oggi. Come soltanto in esso troviamo compiuto e approfondito il
nostro abbozzo dello stato della contemplazione, cosìà d’altra parte
questo stesso abbozzo ci aiuta a sua volta a comprendere il senso
originario della pelasgica venerazione degli antenati, ed in
particolare ci fa capire in seguito a quale confusione i riti superstiti
potevano dare al miste certezza dell’«immortalitaà ». Ma non
vogliamo provarlo elencando usi preistorici di culto degli antenati,
bensìà, in modo piuà immediato, osservandoli dal punto di vista
dell'Eros per il tempo passato ; e per farlo certamente dovremo
addurre diversi dati di fatto da lungo tempo familiari all’esperto
(infatti, nel nostro tempo pratico, la conoscenza della mitologia e
dell’etnologia si limita ad una appartata minoranza di dilettanti e di
eruditi). Il tramite saraà un argomento che non toccheremo piuà , ma

104
che potraà chiarire per l’ultima volta quale sia l’essenza della
lontananza, e inoltre il motivo per il quale l’Eros del quale trattiamo
eà un Eros «cosmico».
Tutto cioà che eà spazialmente lontano, come abbiamo visto, può
giungere nella vicinanza, eccettuati soltanto gli astri. Se l’occhio per
mezzo di ben levigate lenti puoà spingersi per migliaia di anni luce in
fondo alle fauci dello spazio, e catturare nella camera oscura la copia
di miriadi di stelle in luoghi del cielo dove prima si stendeva per esso
solo una vacuitaà priva di luce, se possiamo descrivere i valli circolari
dei crateri della luna fino a misurarne l’altezza, se possiamo
analizzare chimicamente i materiali dei soli e di altri mondi, noi
abbiamo «presente», ora come allora, sempre e soltanto
l'apparizione delle stelle, mai la loro — meramente dedotta —
corporeitaà . Percioà le stelle, che non possono essere bramate, e la loro
presenza, splendono, se ci eà concesso un gioco di parole per
illuminare quello che c’eà di paradossale in questo, «per la loro
assenza»! — Ma se quindi nessun simbolo del tempo passato
potrebbe essere piuà persuasivo dello splendore delle stelle nella
notte, allora noi non solo capiamo il brivido sublime che attraversa
ogni osservatore ancora aperto al mondo alla vista della volta
sfavillante, ma comprendiamo anche percheé per il sentire originario
le stelle erano ora anime di chi era stato, ora luoghi della loro sosta,
sempre peroà cori del mondo antico, passati un tempo sulla terra ed
ora splendenti nell’eterno, ai quali ogni mutamento terreno restava
avvinto. Cosìà certamente ha ragione Bachofen quando nota che
l’asserzione di Aristotele, nella Metafisica, per la quale «il moto
circolare dei pianeti produce tutte le apparizioni» eà un «pensiero
originario dell’umanitaà , che dominoà completamente le concezioni
del mondo antico»14; ma egli aveva ragione percheé le immagini di
lontananza degli astri allora erano potenti demoni, ed i demoni a
loro volta «spiriti» di un mondo dei primordi. A tutto questo non
contraddice il loro altrettanto originario carattere infero, per il quale
essi abitano nell'interno della terra. Infatti, a parte che al «ctonismo»
si contrappose polarmente l’«uranismo» originario, e nient’affatto

105
ostilmente, la trappola della spiritualizzazione si impadronìà in
principio non delle notturne stelle ma del giorno e del sole che in
esso culmina; per cui parla ancora l’interioritaà di un’umanitaà che,
anche se privata del divino, si sapeva ancora nella vicinanza degli
dei, quando su una tavoletta aurea orfica l’anima dell’iniziato
testimonia cosìà di se stessa: «sono figlia della terra e del cielo
portator di stelle». Gli esempi che prendiamo tra innumerevoli altri,
quasi senza sceglierli, in parte dall’antichitaà , in parte dai «selvaggi»,
non lasciano dubbi che il culto degli astri sta ovunque sotto il segno
dell’Eros per il tempo passato, e ci insegnano inconfutabilmente con
quanto maggior forza l’uomo contemplante sia stato determinato
dalla intangibile lontananza delle immagini che dalla vicinanza dei
corpi che poteva afferrare.
Nessuna dottrina utilitaristica ci ha potuto spiegare percheé nei
costumi e nelle leggende di popoli pelasgici cosìà arretrati, quali
possiamo vedere in alcune delle stirpi negre, nei Boscimani, nei
Botocudo, negli abitanti della Terra del Fuoco, nei Puri, negli
australiani originari, accanto alla simbolica per esempio dello spiedo
da caccia, dell’arpione, della lesina, del fiasco fatto d’una zucca, e poi
dello sciacallo, della civetta, del rospo, della volpe, dell’orso, e del
tatuaggio, dello scongiuro e della fattura, della regola mensile delle
donne, dell’accoppiamento, del parto e dìà quanti altri simili casi
vicini e «troppo umani» ci sono, giochino peroà senza eccezione un
ruolo che non si puoà spiegare soltanto col timore le immagini di
lontananza degli astri, anche se certo non sul piano dell'astronomia;
e la conoscenza degli astri, davvero sproporzionata, che troviamo
presso i geniali popoli pelasgici dei cinesi, dei sumeri, degli assiri,
degli egizi, degli inca, degli aztechi, all’inizio della loro storia
conosciuta, dovrebbe — paragonata all’ottusitaà , nei confronti delle
stelle, dell’europeo di oggi — render certo all'istante chi non sia
prevenuto che dobbiamo rinunciare una volta per tutte a ritrovare,
nello spirito a noi familiare dell’espansione e conservazione del
proprio interesse particolare, gli stimoli di pensiero di una ricerca
mitica. I capi degli abitanti dell’antica Virginia proseguivano la loro

106
vita nella terra «al di laà del tramonto del sole». Nello stesso posto,
nel mare d’aria ebbro di colori dell'occidente, c’era per i greci l’«isola
dei beati». I polinesiani di Tokelan vedevano nella luna la dimora dei
loro defunti re. Plutarco nel suo trattato «Del volto che appare nel
disco della luna» ritiene che tutte le stelle siano «dei che appaiono in
cielo», ed in particolare che la luna sia la regione di Persefone e
l’«elemento delle anime». «Percheé esse vengono in essa discioite
come i corpi dei morti nella terra». Sulla faccia che non eà volta verso
la terra, ma verso il cielo, ci sarebbe la «pianura elisia». I Winipeg,
del Nord America, chiamavano la via lattea il «sentiero dei morti». In
cielo piantano le loro tende le anime dei groenlandesi, dove si curva
l’arcobaleno. Secondo la fede degli esquimesi, tutte le stelle furono in
tempi antichissimi uomini o animali. Nella zona di Orione essi
scorgevano una schiera di cacciatori di foche che avevano smarrito
la via del ritorno. Gli indigeni della Terra di Van Diemen erano soliti,
nelle notti chiare, indicare al forestiero la loro coppia di Dioscuri di
due stelle che avevano portato ai loro antenati il fuoco. I faraoni, i re
Sassanidi, gli imperatori romani, si chiamarono «fratelli del sole e
della luna», e dopo la loro morte tornavano laà donde erano discesi,
nel cielo stellato. Una cometa, alla morte di Cesare, fu interpretata
come la sua anima; come, del resto, presso quasi tutti i popoli della
terra, delle stelle che brillino all’improvviso, e specialmente le stelle
cadenti, sono anime che recano minacce o felicitaà . Plinio parla della
societas coelìà nobiscum!
L’Eros per il tempo passato eà Eros della lontananza che, in
quanto si accende per immagini prive di corpo, pone il contemplante
in connessione con l’intangibile mondo degli astri, facendo in tal
modo percorrere dal pulsare del ritmo del tutto la vita terrestre di
coloro che sono ancora presenti nella luce: ecco percheé i suoi
portatori furono letteralmente esseri «cosmici», e furono cioà che essi
si dissero ai piuà alti gradi iniziatici: figli del sole. Il riflesso di tutto
questo nella coscienza dei sapienti splende verso di noi da una tarda
iscrizione tombale dell’antichitaà , la quale — anche se giaà divide i poli
ed annuncia il distacco del mondo superno da quello infero —

107
esprime tuttavia radiosamente, nei versi di chiusura, l’antichissimo
brivido di beatitudine di quella parentela con le stelle che a noi eà
estranea.

In due schiere sono divise


le anime dei morti:
una che vaga sulla terra, l'altra
che inizia la danza
con gli astri luminosi dei cielo.
lo appartengo a ques’ultima,
perché il Dìo mi fu guida.

Che a noi eà divenuta estranea; ma che sempre di nuovo splenderaà


nei momenti migliori degli ingenii creativi, fino a quando ce ne
saranno ancora in questa umanitaà che appassisce! Lo stesso stato di
coscienza che ha coniato il motto orfico fece inventare a Nietzsche la
locuzione: «amore per cioà che eà piuà lontano» (Fernstenliebe) e gli
ispiroà i versi:

Vorausbestimmt zur Sternenbahn,


Was geht dìch, Stern, das Dunkel an?

[Predestinata ad orbite stellari, / del buio, o stella, che


t’importa?].12

Le «orbite stellari» certamente si pagano oggi piuà care che una


volta! Sono le orbite di coloro che cadono, sacrificati, e che sono un
sacrificio su altari ignoti, e disperato. 13 Cosìà cadde anche Nietzsche,
doppiamente condannato: da un’umanitaà che lo ripudioà (anche se
esteriormente poteà corteggiarlo) e dalla propria partecipazione ad
essa. Nonostante cioà : anch’egli andoà tra le stelle, una cometa che
certo non torneraà mai.14

108
1 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad.
it. di P. Savj-Lopez e G. Di Lorenzo, Bari, 1972, pp. 270-272.
2 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad.
it. di N. Palanga, Milano 1969, pag. 220.
3 Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad,
it. Palanga, cit., pag. 221.
4 Schopenhauer, II mondo come volontà e rappresentazione, trad.
it·. di Savj-Lopez e Di Lorenzo, cit., pag. 254.
5 Goethe, II Faust, trad. It. di G. Manacorda, Firenze 1949, vv
6447-6448.
6 Goethe, Il Faust, trad. It. cit., vv. 6006-6012
7 Goethe, II Faust, trad. it. cit., di G. Manacorda, Firenze 1949 pp
6275-6278.
8 Goethe, II Faust, trad. it. cit., vv. 6431-6434.
9 Goethe, II Faust, trad. it. cit., vv. 6223-6224.
10 Goethe, Il Faust, trad. it. cit., vv. 7738-7739.
11 Goethe, Il Faust, trad. it. cit., vv. 9413-9414.
12 Nietzsche,La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, Milano 1971,
pag. 35.
13 Allusione alla lirica giovanile di Nietzsche Dem unbekannten
Gott (Al Dio ignoto). (N.d.T.)
14 Ci sembra probabile che qui Klages si sia ricordato di
Hoà lderlin: «Voi avete perduto la fede in ogni grandezza. E allora
dovete scomparire, se questa fede non torna, siccome una cometa da
cieli stranieri». (Hoà lderlin, Iperione, trad. it. di G.A. Altero, Torino
1960, PAG. 62). Ma eà ancor piuà probabile un riferimento alle parole
del barone Karl von Gersdorff su Nietzsche, l’amico della sua
giovinezza: «Etoile qui file, file et disparait» (N.d.T.).

109
VI. Del culto degli antenati

L’etnologo moderno eà incline a far derivare il culto delle anime


dell’etaà originaria dalla paura degli spiriti, e a spiegare cosìà percheé
esso dovette scomparire tanto piuà , quanto piuà di fronte alla «luce»
dell’intelletto svaniva la fede negli «spiriti». Ma accanto agli usi
dettati dalla paura, nel culto dei morti ci sono indubbiamente usi
erotici, ed anzi essi risaltano tanto piuà luminosamente quanto piuà ci
avviciniamo al suo strato piuà antico. Anche noi conosciamo ancora la
ghirlanda come la corona funebre, e incoronare qualcuno significa
perfino presso di noi conferirgli la piuà alta consacrazione. Ghirlanda
= corona eà l’antichissimo simbolo del compimento, della teleteé , della
raggiunta perfezione. Ogni corona eà «corona della vita», ossia segno
del gamos dei poli vitali, del compiuto connubio di un’anima
incoronata con l’anima del tutto. Per questo la corona o la benda
adorna il miste, il vincitore, il dominatore, il sacerdote, la sposa. Ora,
noi sappiamo che il miceneo ornava con ghirlanda e corona anche i
suoi morti. Il morto aveva per lui ottenuto dunque la piuà alta
consacrazione; era divenuto, per lui, miste, eroe, perfino demone, ed
il processo della morte coincideva con il gamos che dava il
compimento. Onorati come «tritopatori» e a loro volta prodighi di
benedizioni, gli spiriti degli antenati sono presenti ad ogni cerimonia
di nozze. Ad essi viene offerta la libagione, e le corporee nozze della
coppia di sposi vengono poste sotto la protezione della loro potenza
consacratrice. Romolo, l’originario antenato divinizzato dello stato
romano, era protettore dei poppanti e risanava i bimbi deboli. Del
pari, ancora in epoca cristiana, i santi Cosma e Damiano eseguivano,
dopo la loro morte, l’ufficio della benedizione e della guarigione dei
bimbi, in quanto spiriti di antenati ed eredi di Esculapio. Potrebbero
110
esserci prove maggiori che la fonte del culto dei morti era l’Eros, e
che la «fede» che ne era alla base era la certezza, intimamente
sentita, della loro sempre presente vicinanza? Anche noi conosciamo
il color porpora come il simbolo della piuà alta dignitaà . Non ci
chiediamo qui su che cosa poggi la simbolica della porpora, e
indichiamo soltanto come il miceneo amasse velare i suoi morti in
stoffe purpuree, e per l’ultimo riposo li ponesse su foglie di olivo, di
mirto e di pioppo.15

L’enumerazione delle notizie su una simile sensibilitaà presso i


primitivi richiederebbe volumi. Presso le stirpi degli indiani del
Nord America, gli spiriti degli antenati davano la fortuna nella
caccia; in Tanna le anime dei capi divenivano divinitaà degli alberi da
frutta; nelle Tonga ed in Nuova Zelanda, divinitaà della battaglia. Gli
usi dettati dalla paura sono solamente una tarda apparizione
collaterale degli usi simpatetici diffusi per tutto il mondo pelasgico.

Niente occupa l’uomo del grado pelasgico piuà della sepoltura e


della cura per la salma. La tragedia umanamente piuà commovente di
tutta l’antichitaà celebra l’autosacrificio di Antigone al servizio dei
sacri riti per la salma del fratello caduto: un motivo senza pari, se lo
paragoniamo alla poesia dell’etaà moderna. La sepoltura
originariamente avveniva molto verosimilmente nella casa, sotto il
focolare, poi in mezzo al villaggio, davanti alle mura, nella porta della
cittaà , nella piazza del mercato, nel Pritaneo, nel luogo delle feste.
Cosìà, ad Olimpia la tomba di Pelope si trovava accanto al grande
altare delle ceneri di Zeus, ed i templi erano contemporaneamente
sepolcri di un demone. (Esempio: il tempio delfico di Apollo sulla
tomba del dio tellurico Pitone). Anche la cristianitaà un tempo era
solita seppellire i morti di nobile stirpe nei duomi e nei monasteri,
ed ancor oggi, nei villaggi, riunisce le loro tombe nello spazio
protetto delle chiese. Le piuà poderose costruzioni degli egizi, le
piramidi, sono luoghi dei morti, e cosìà i templi di roccia dei lici e le
catacombe romane. Diodoro racconta degli egizi (nella traduzione di

111
Bachofen): «Viene data maggior cura alle abitazioni dei morti che a
quelle dei vivi; essi considerano queste come alloggi per una breve e
fugace sosta, e le tombe soltanto come le vere e durature sedi di
abitazione per i tempi eterni».

E non meno erano posti dei morti i sacri boschetti, le montagne


consacrate di tanti popoli, le pietre di Manitu degli indiani d’America,
le pagode dei cinesi e le stupe degli indiani. L’anima del morto si
libra e vola attorno al monumento funebre, vi abita in figura di
serpente, abita, come genius loci, come propizio agatodeé mone, nella
casa del vivo. L’intero culto romano trae origine dalla venerazione di
spiriti di antenati domestici, i Lari, e cosìà lo scintoismo dei
giapponesi. Le stirpi dell’antichitaà e allo stesso modo tutti i
«selvaggi» presero e prendono spesso il loro nome da un mitico
antenato originario. In onore della morte di celebrati eroi delle
origini sorse l’agone greco, simboleggiante il moto ciclico del
divenire e del passare. Chi potrebbe disconoscere che qui non
vengono temuti e allontanati degli spettri, ma che anzi eà l’amorosa
venerazione da parte dei presenti che chiede che l’amore sia
corrisposto da elevati esseri del passato, «trascinandoli nella vita»
sempre di nuovo con usanze in parte immediatamente
comprensibili, in parte profonde e misteriose? Che cosa infine
potrebbe darci in maniera piuà inconfutabile la certezza di tutto
questo se non il commovente costume, di epoca greca tarda, che su
terracotte funerarie ci fa apparire il morto, eroizzato, nella figura
dell’E-ros stesso, ora dormiente e con la fiaccola abbassata, ora,
come dolcemente stanco della festa della vita, appoggiato su un
divano e con la veste dell’orgia? Non «immortalitaà » aveva in tal
modo ottenuto il defunto, cheà anzi egli non era morto, ma presente
sotto altra forma!
Soltanto la concezione spirituale per la quale il morire significa
un annientamento dell'esistenza ha prodotto un raccapriccio di
fronte alla morte che prima sarebbe stato incomprensibile, e,
insieme a questo, l’appassionato desiderio di immortalitaà . L’uomo

112
originario invece, al quale il mondo meramente esistente si
nascondeva ancora come un’ombra dietro al mondo di anime di
viventi immagini, non conobbe neé l’uno neé l’altro. Egli era ancora
troppo poco persona percheé il pensiero dell’esistenza, anche solo in
relazione al proprio io, avvicinandolo potesse imbavagliarlo e
determinarne i costumi come fa con l’uomo d’oggi. Come eà certo che
tutto per lui, fosse uomo o cosa, «esisteva» direi quasi di passaggio,
altrettanto certamente per lui assolutamente non viveva soltanto
l’uomo, ma anche la cosiddetta morta cosa, e perfino la «materia»
della quale essa consiste (una parola, non lo si dimentichi, che deriva
da mater = madre, dunque dal simbolo della fonte originaria). Anche
per lui certamente il morire era un evento violento, ma non era
annientamento dell’esistenza, bensìà mutamento di vita. Non si
«moriva» allora nel nostro senso, percheé non c’era ancora niente di
essenzialmente morto nel nostro senso. Per comprendere il nesso
tra lo stato della contemplazione e l’eternizzazione della vita,
bisogna prima aver approfondito al massimo l’invalicabile baratro
che separa la concezione della morte delle origini da quella del
presente. Per una volta, le mostriamo percioà alla luce del mondo
delle origini. Ogni genuino aderente alla religione spirituale del
cristianesimo crede ad una immortalitaà dell’anima personale. Ma se
da un parroco cattolico, o da un pastore protestante, arrivasse un
contadino della comunitaà a dirgli che sulla tomba di suo nonno ci
sono gli spiriti, che cioeà laà attorno vaga la sua anima, il «curatore
d’anime» insegnerebbe che l’anima del nonno si trova nell’«aldilaà », o
nel «cielo», e percioà non puoà vagare all’intorno, da nessuna parte. In
tal modo la fede nell'immortalitaà respinge le anime via dal mondo, le
rende, da «potenti anime», «povere anime», e scredita come
superstizione la totalmente opposta fede nelle anime. Il cattolico
conserva ancora nell’estrema unzione, nella celebrazione della
messa e nella festa dei morti alcuni resti della cura dei morti
dell’antichitaà . Per il protestante, cioeà per il cristiano perfetto, la
polvere ritorna polvere, lo spirito ritorna spirito, mentre l'anima
perde, con il di qua, anche il di laà , ed infine l’ultima patria larga un

113
piede. Non rintracciabile neé sulla terra neé su uno dei mille astri, essa
non dimora in generale nello spazio, bensìà nel non-qui, nel «luogo
iperuranio», nell’«aldilaà ». Cosìà, conseguentemente, diventa affare
dell’arbìàtrio di una tenera «pietaà » cioà che eà stato al centro del culto
delle anime degli antichi: la cura per la salma, per la tomba, per la
cenere! Arte e cultura del mondo antico prosperarono sul suolo del
culto delle tombe, percheé esse non conobbero nessuna immortalitaà
dell’anima, bensìà la sua incessante presenza; tutta la cristianitaà che
crede nell’immortalitaà scorge nella salma soltanto un cadavere, nelle
tomba un luogo che dopo trenta o quarant’anni si puoà arare
nuovamente, per un uso utile, e nell’avo che eà stato un tempo vede un
essere pienamente impotente, in quanto morto, e che in nessun
modo mette piuà le mani nelle lotte di interessi dei vivi. Spostare
l'anima, come immortale, nell’aldilaà , significa derubarla della sua
patria mondana, renderla un’anima «dipartita», e, cosìà, annientarla.
Certamente non fu il cristiano in lui, ma il miste pagano, che suggerìà
al poeta questi versi:

Wir Toten, wir Toten sind grössere Heere


Als ihr auf der Erde, als ihr auf dem Meere!
Wir pflügten das Feld mit geduldigen Taten,
Ihr schwinget die Sicheln und schneidet die Saaten,
Und was ihr vollendet und was wir begonnen,
Es füllt noch dort oben die rauschenden Bronnen,
Und all unser Lieben und Hassen und Hadern,
Das klopft noch dort oben in sterblichen Adern,
Und was wir an gültigent Sätzen gefunden,
Dran bleibt aller irdische Wandel gebunden,
Und unsere Töne, Gebilde, gedichte
Erkämpfen den Lorbeer im sterblichen Lichte,
Wir suchen noch immer die menschlichen Ziele —
Drum ehrtet und opfert! Denn unser sind viele!1

114
[Noi morti, noi morti siam schiere maggiori / di voi sulla terra, di
voi sul mare! / Noi arammo il campo con azione paziente, / voi
brandite le falci e mietete il raccolto, / e ciò che voi avete compiuto, e
noi incominciato, / colma ancora lassuà le mormoranti fonti, / e tutto
il nostro amore, e il nostro odio, e i nostri contrasti, / pulsano ancora
lassuà in vene mortali, / e a cioà che abbiamo trovato in validi
principi / rimane legato ogni mutamento terreno, / e i nostri canti, le
nostre creazioni, le nostre poesìàe, / ottengono l’alloro nella luce
mortale; / noi inseguiamo ancor sempre le mete umane, / percioà
onorate e sacrificate: percheé noi siamo molti!].

«Quel capo africano», dice l'etnologo Lippert, «che si allontanoà


dalla compagnia di un viaggiatore percheé il mal di testa gli aveva
ricordato che aveva trascurato la cura dell’anima di suo padre,
esprime la concezione di tutto un tempo originario». 16 Il dato di fatto
eà vero, peccato soltanto che il nostro ricercatore ne tralasci
l’interpretazione. In tutto questo, non gli interessa altro che la
circostanza che quel capo aveva avuto paura dello spirito di suo
padre. Ma noi chiediamo: come poteà il suo pensiero saltare
improvvisamente dai dolori di testa ad un’anima di antenato
nient’affatto presente? Non sarebbe stato molto piuà facile pensare ai
raggi del sole equatoriale, che probabilmente gli bruciavano la testa,
e trovare in essi la causa del mal di testa? Meri pensieri, qui non c’eà
dubbio, possono determinare un europeo dell’etaà moderna, ma mai
un sensuale negro. Se egli ciononostante oltrepassoà il presente
sensibile e cercoà nello spirito dell’antenato la fonte del suo dolore,
questo vuol dire che l’antenato con la sua avvolgente presenza era
diventato per lui piuà chiaramente sensibile degli stessi dardeggianti
raggi del sole! Non il «ricordo» di un'anima di antenato da onorare,
bensìà il suo fantasma prese possesso del suo animo. Il suo ferino
sentimento di paura e la sua primitiva volontaà di conoscenza non
hanno bisogno di spiegazione: il modo della sua spiegazione,
razionalmente inaccessibile, mostra invece inconfutabilmente che
egli, anche desto, era legato a una realtaà di immagini oniriche. Non

115
puoà fare a meno di ammetterlo neppure chi per il resto nega
fondamentalmente ad un fantasma qualsiasi pretesa di realtaà . Gli
studiosi di miti che fanno derivare completamente la fede nelle
anime del mondo origina rio dalla vita di sogno sono pur sempre
giunti un po’ piuà vicini alla veritaà che i sostenitori del punto di vista
della sua provenienza dalla percezione del morire. Noi cioeà , che non
siamo poeti, possiamo soltanto, per mezzo di un considerazione dei
nostri sogni, tentare di riflettere almeno su questo: che per gli
uomini originari erano sensualmente presenti delle anime, proprio
come per noi le cose percepite. Ma di nuovo sbaglieremmo se
volessimo comprendere lo stato di coscienza dell’etaà originaria a
partire dall’ammissione di sogni piuà ricchi, e di un piuà vivo ripensare
ad essi. Non si tratta tanto dei sogni notturni quanto di questo, che io
stato di veglia dell’uomo di quel tempo si lascia paragonare molto
piuà al nostro sognare che al nostro esser desti; e ciononostante non
coincide affatto con lo stato del dormire.
Abbiamo ripetutamente detto che la contemplazione trasforma il
contemplante; e cioà denuncia manifestamente la sua estrema
opposizione rispetto all’atto di percezione, che stacca colui che
percepisce dalla cosa percepita e che, esso solo, lo assicura del suo
limitato esser per seé . Ora riportiamo, dal frammento, apparso da
decenni, del nostro lavoro «Della coscienza di sogno», alcune
proposizioni che cercano di mostrare il contrassegno essenziale
delle immagini, la loro mutevolezza, a partire dalla comune
esperienza del sogno, e che per questo sono adatte per introdurre
alla coscienza della realtaà propria di chi contempla, la quale suole
sorprendere fino allo sbalordimento il portatore dello stato di veglia
pensante.17 Le premesse sono che anche nello stato di veglia ci sono
degli stati d’animo di sogno, e che un segno di essi eà nel sentimento
della fugacitaà di cioà che si eà vissuto. Al riguardo, si dice:
«Collegandoci al terzo punto, alla trascinante fugacitaà del reale per
colui che eà nella disposizione del sogno, incontriamo una proprietaà
del sogno che eà stata sottolineata da tutti gli osservatori, e che peroà ,
a quanto ci sembra, non eà stata considerata da nessuno fino in

116
fondo: la mutevolezza di tutte le formazioni di sogno. La strada sulla
quale io ho appena viaggiato in sogno si eà trasformata, nell’attimo
successivo, in un canale, la carrozza in un vascello, e giaà si sono
ritirate anche le pareti di casa e io viaggio, nel porto, tra numerose
navi; e di tutto questo non mi stupisco, e non ho nessun sentimento
di una mancanza di connessione nella successione degli accadimenti.
Se prima abbiamo fatto derivare la predilezione del pensiero mitico
per le atmosfere nebulose dalla fuggevolezza della realtaà di sogno,
ora troviamo il fondamento di questa disposizione d’animo nella
capacitaà di ogni apparizione di sogno di trasformarsi in qualsiasi
altra; e, per quanto riguarda il mito, troviamo il motivo della sua
varietaà nella necessitaà di sapere gli dei, i demoni, le fate, gli elfi e gli
altri spiriti forniti della stessa dote. EÈ comune a tutti loro tanto il
cambiare la figura quanto il trasformare nemico o amico, cose,
animali o uomini. Ovidio colse con mano felice il nocciolo di tutti i
miti e le fiabe quando scelse le stazioni del suo attraversamento
poetico di essi dal punto di vista delle «Metamorfosi», anche se non
gii riuscìà poi di tradurne in linguaggio letterario il fenomeno
fondamentale. Anche riguardo al sentimento della caducitaà (sempre
di chi eà nella disposizione del sogno), noi comprendiamo almeno in
parte le sue cause in cioà che capita a chi sogna, che improvvisamente
crede di essere egli stesso trasformato : e in questo scorgiamo un
appoggio per la nostra accezione della relazione tra l’avvenimento
del sogno e l’«anima». Cioà che cioeà i dominatori del sogno, gli dei,
sono in grado di fare, deve poter capitare all’anima che sogna,
volente o nolente: disperdersi in tutta la molteplicitaà delle figure
delle cose, e divenire intimamente una cosa sola con pietre, piante,
animali, uomini e strumenti. Particolarmente come conseguenza di
questa logica del pensiero di sogno, che in molti luoghi si condensoà
nel dogma del vagare delle anime, lo spirito legato al sogno
fondamentalmente non conosce niente di non animato e di
meramente meccanico, e anzi animali, piante e cose «morte» gli
«parlano», ed esso in ogni attimo condivide il destino dei mondo che
lo circonda. E, di nuovo, eà la costrizione alla scelta di cioà che anche

117
come cosa eà mutevole che ha determinato le tipiche forme
dell’anima: l’ondeggiante respiro, la luce vacillante e la fiamma
(nella leggenda tedesca come uomini del fuoco, fuochi fatui, fiaccole
delle streghe), l’acqua delle fonti e dei fiumi, dalla quale sussurrano
voci profetiche, il pulviscolo atmosferico attraversato dal sole; e tra
gli animali invece quelli che volano o che sfuggono senza far rumore,
e quindi l’uccello, il pesce ed il serpente, la svolazzante farfalla,
l’inquieta ape, il lupo predatore, l’agile donnola, il veloce topo, il
quale cosìà spesso fugge via dalla bocca di chi dorme allorcheé l’anima
comincia il suo peregrinare. Portare il principio della trasformazione
e con esso le anime in potere dello spirito desto del giorno eà
l'antichissima meta di tutti i teurgi ed evocatori di spiriti, e una delle
radici protoetniche della mistica, la cui forma originaria, non
guastata da nessuna impostura spiritualizzante, possiamo vedere
nell’autotrasformazione di eroi germanici in lupi mannari e
furibondi guerrieri, e nella trasformazione in demoni dei danzatori
di Ceylon, o in quella del miste di Sabos nel tìàaso del delirante dio-
toro. Il mito greco — e del resto non solo esso— ha visto questo
principio della trasformazione nella figura di un dio, e, s’intende, di
un demone acquatico, cioeà di quel vecchio marino Proteo, amico
delle foche, del quale l’Odissea narra che, catturato da Menelao e dai
suoi compagni, si trasformoà subito in un leone, e, poicheé essi non lo
lasciavano, successivamente in un leopardo, in un drago, in un verro,
in fluente acqua e in un albero che si innalzava fino alle nuvole,
prima di cedere, vinto, la sua infallibile prescienza del futuro.
Conformemente al suo nome, in quanto eà il demone classico dell’arte
mitica della trasformazione, a buon diritto assegniamo carattere
proteiforme alla realtaà del sogno».18
Se prima abbiamo paragonato lo stato di veglia dell’uomo
contemplante al nostro stato di sogno, le ultime proposizioni
lasciano giaà indovinare qualcosa del violento mutamento nell’intera
sua concezione della vita, noi suo criterio di veritaà , nel suo pensiero
e nel suo agire. «A stento si puoà ancora fare un paragone con cioà che
noi intendiamo per «fede», (in quanto per fede noi intendiamo una

118
fede in solidi dati di fatto), quando per esempio l’inno vedico, senza
sentire la contraddizione, pensa il demone de! fuoco Agni come
sorto dal cielo, dall’acqua, nelle foreste, nella roccia, nell’albero, dei
gamos dei legnetti sfregati per accendere il fuoco, nel «grembo
materno dei burro»; e poi ancora lo fa rapire dall’alto, come il fuoco
di Prometeo, da un eroe antichissimo; e quando lo chiama ora toro,
ora rosso destriero, ora «lingua splendente degli dei», o bocca con la
quale essi consumano il pasto sacrificale. Ci si sente tentati di non
ritenere tutto questo altro che una selvaggia poesia naturale, quando
gli spiriti della tempesta, i Marut, impazzano, mungono le mammelle
del cielo e riempiono la terra di latte, suonano lo zufolo della
tempesta, saccheggiano il mare di nubi come il bruco fa con l’albero,
come elefanti spezzano le foreste, e si avvicinano con «tuono
leonino» cosìà che la terra vacilla come una nave. Abbiamo giaà visto
quanta parte abbia in questo fa genuina poesia. Intanto, non
dimentichiamo che tutti gli spiriti non soltanto vengono lodati, ma
vengono anche onorati con ricchi sacrifici, e che vengono placati e
attirati con un rituale che accompagna con le sue cerimonie e le sue
esigenze l’intera vita umana. E non dimentichiamo neppure che il
significato delie immagini, che apparentemente sono solo degli
ornamenti ma in realtaà sono discriminanti, ritorna in gran parte in
diffusi usi di magia, la qual cosa sarebbe certamente priva di senso
senza la fede nella loro realtaà . EÈ vano cercare di comprendere gli
ondeggiamenti onirici dalla prospettiva della coscienza desta.» 19
Perfino nella fiaba, nell’infantile germoglio secondario della vita
contemplante, che venga dall’india o dall’Arabia, dall’Oceania o dalla
Germania, l’avvenimento viene rapito allo spazio proprio del nostro
stato di veglia dallo slancio, segretamente immanente a tutti gli
oggetti e a tutti gli esseri, verso fulminei scambi di figura: e cosìà le
foglie marce diventano oro, il brutto ranocchio diventa un magnifico
principe, e l’assassinato risorge ancor piuà bello dalle sue ossa
scarnificate! L’indiano d’America non chiamerebbe mai il suo
animale totemico, per esempio il lupo, «il primo uomo», se egli non

119
avesse realmente vissuto, grazie alla contemplazione estatica, il
trasformarsi di un lupo in un uomo, o quello di un uomo in un lupo.
Nervo cardiaco del pensiero contemplante eà la certezza vissuta
della mutevolezza del mondo delle apparizioni. Ma allora anche il
morire rientra sotto il concetto di trasformazione. E infatti non eà
difficile determinare, seguendo fino in fondo la logica di sogno dello
stato originario, quale ruolo giochi il morto rispetto al vivo. Colui al
quale fu dato di uscire, grazie alla contemplazione estatica, nella
intangibile lontananza, una volta tornato in seé vive soltanto piuà
come catena dell’anima l’eterno qui del tangibile corpo. La sua
anima, che ne era volata via come un uccello, eà stata riportata da fili
invisibili al luogo, che saldamente incatena, e alla limitata vicinanza.
Se essa strappasse quei fili, otterrebbe, invece di una libertaà a
termine e di una trasformazione revocabile, il destino di un
vagabondaggio libero da legami e di una illimitata mutevolezza: un
destino che certo eà profondamente problematico, in quanto
promette cosmica pienezza di vita e in pari grado minaccia un arduo
errare. Ma essi si spezzano realmente nella morte, cheà
indubbiamente allora l’anima ha lasciato la salma, ed eà abbandonata
all’infinita possibilitaà dell’assumere figura nell’immensitaà dello
spazio. In questo si fonda principalmente la sua potenza demoniaca;
ma di qui, come vedremo, cresce per lei d’altra parte il pericolo di
perdersi, estraniata.
Utilizzando la locuzione del filosofo Plotino, che parla della
materia come «ricettacolo delle immagini», possiamo dare la
seguente formula: l’anima di chi vive eà un’immagine legata alla
materia, l’anima del morto eà l’immagine libera dalla materia.
Divenuta del tutto immagine, quest’ultima ha del tutto la forma di
realtaà dell’apparizione di sogno, si trasforma, viene e svanisce, non
impedita da limiti materiali.
Ma chi appare, come spirito vendicatore, all’empio Don Giovanni?
La statua del commendatore assassinato! Anche qui udiamo l’eco
della fede di tutto un mondo primordiale. Cosìà invece la annuncia,
con parole immortali, l’eloquente Pindaro: «Il corpo segue

120
l’onnipotente morte; ma viva rimane la copia del vivo, la quale
dorme (questo eidolon) quando le membra sono attive, ma mostra
talvolta in sogno il futuro a chi dorme». Questa eà la chiave per
intendere il culto delle anime! Quella statua vendicatrice ha molti
precedenti nell’antichitaà . Cosìà ci viene narrato che la statua di
Teagene, che un motteggiatore petulante aveva osato frustare,
aspettoà fino a quando, un giorno che l’empio le passoà accanto, cadde
e lo uccise.20 Ben lungi dall’essere strappata al mondo
nell’invisibilitaà dell’aldilaà , l’anima del morto eà piuttosto un’immagine
della vita demoniaca, ora di una stella, di una pietra, di una pianta o
di un animale, ora di una sorgente, di un fiume, della ventata d’aria
fresca, poi di nuovo la copia del suo precedente portatore corporeo.
La fede dei primi tempi non eà che ci sono anime invisibili, o
addirittura una prosecuzione dell’esistenza personale: essa suona
invece cosìà: vive sono le immagini delle cose, e una cosa vive tanto
piuà libera da impedimenti quanto piuà assume il carattere dell’anima,
capace di magiche trasformazioni, quanto piuà cioeà eà divenuta
immagine, e nient’altro che immagine.
Di passaggio ricordiamo che non solo greci e romani usarono la
parola che indica «ombra» (in greco σκιάά , in latino umbra:
«tumulum circumvolat umbra»!), come anche eidolon, in modo
concettualmente identico ad «anima», ma che lo fanno ancor oggi
innumerevoli «selvaggi»: cosìà per esempio i Tasmaniani, gli
Algonchini, i Quiecheé , gli Aruachi, gli Abiponi, gli Zulu, i Basuto, i
Groenlandesi, ecc. La multiforme magia dello specchio, le arti dello
scongiuro e della divinazione per mezzo di superfici riflettenti, la
fattura, diffusa in tutto il mondo, che impiega oggetti pensati come
copie, la dottrina delle segnature, l’astrologia, tutto questo diviene
comprensibile soltanto a partire dalla originaria eguaglianza tra
anima e immagine. Gli indiani Macusi in Guiana dicono che dopo il
disfacimento del corpo rimane «l’uomo nei nostri occhi». Gli abitanti
delle isole Figi distinguono lo «spirito oscuro» e lo «spirito chiaro»:
quello sarebbe l’ombra dell’uomo, questo la sua immagine
nell’acqua. Secondo una credenza popolare europea il malato era

121
stregato o destinato a morire quando l’immagine nella sua pupilla (=
ragazzina, bimbetta, bambola) svaniva. Del pari cadeva in potere
delle potenze infere chi aveva perduto la propria ombra: infatti solo
le immagini delle anime private della materia sono senza ombra.
E adesso, riflettiamo su che cosa erano originariamente i templi.
Non, come i duomi cristiani, spazi per la meditazione ad uso della
comunitaà , bensìà case degli dei, e quindi luoghi nei quali la venerante
devozione poteva scorgerli, e li scorgeva davvero, alla vista dei loro
«idoli». Per il pagano l’essenza delle potenze demoniache si
identificava talmente con la capacitaà di apparire, che la piuà diffusa
etimologia fa derivare θειον (theion), il divino, da θεάτοά ν (theaton), il
visibile. Atei, spregiatori degli dei, si chiamarono percioà per il
pagano giudei e cristiani, ed invero a ragione, incontestabilmente:
essi avevano innalzato a dio negatore degli dei lo spirito, l’invisibile
principio della volontaà che odia le immagini! Gli inizi del
cristianesimo lo seppero bene, come risulta chiaro dalle indicazioni
di Agostino, nella Città di Dio, sulle opinioni che si tramandavano
riguardo al leggendario portatore di sapienza e magia egizia dal
nome di Ermete Trismegisto. Questi deve avere infatti saputo e
insegnato come si invitano gli spiriti degli dei ad abitare «immagini
visibili e sensibili», le quali, quando sono «dotate di senso e colme
dello spirito... possiedono la scienza del futuro, e la annunciano
attraverso il destino, i sacerdoti, i sogni, ed in molti altri modi».
Ancora piuà istruttivo eà lo sdegno di Minucio Felice nell’Ottavio: «i
demoni, come eà dimostrato dai maghi, dai filosofi e da Platone,
stanno nascosti nelle statue e nelle immagini consacrate, e col loro
influsso acquistano una autoritaà come se si trattasse della presenza
di una divinitaà : a volte ispirano i poeti, a volte prendon dimora nei
templi, a volte fanno palpitare le fibre delle viscere, governano il volo
degli uccelli, regolano le sorti, rendono oracoli... Di qui anche quegli
invasati che voi vedete correre per le strade, sarebbero essi pure
degli indovini che operano fuor dai templi, ugualmente pazzi,
baccanaleggianti, piroettanti...»2

122
Ma cioà che vale per le anime degli dei vale anche, in minor grado,
per le anime piuà vicine di amici e parenti passati; percheé gli dei sono
essi stessi soltanto anime di antenati, che da un’altra sfera sovrastano
il presente come stelle tanto piuà raggianti per l’umanitaà , grazie alla
natura della contemplazione, quanto piuà la lontananza di passato
dalla quale essi splendono sembra crescere. Nei suoi Resti di
paganesimo arabo Wellhausen riferisce, dall’Oriente, come di
parecchi morti fossero state preparate le immagini, cosìà che ognuno
potesse visitare suo fratello, suo cugino, o suo padre; e come nella
generazione successiva la venerazione delle immagini fosse ancora
cresciuta, e come la terza generazione le adorasse! Il dio della guerra
dei cinesi era, nell’accezione popolare, lo spirito di un grande
guerriero del passato; il dio dell’arte, quello di un inventore di
strumenti; il dio dei maiali, quello di un eccellente porcaro. Allo
spirito di Confucio, come a una potente divinitaà , fino al passato piuà
prossimo l’imperatore della Cina sacrificava due volte all’anno. 21
Nelle parole di Agostino, alle quali se ne possono affiancare
numerose simili, risuona giaà quel dubbio troppo ovvio che in tempi
piuà recenti si condensoà nel problema, tuttora irrisolto per
l’etnologia, se statua, idolo e «feticcio» siano essi stessi esseri
demoniaci o se siano solo loro sedi. Le immagini, balenando
nell’evento della contemplazione, vengono e se ne vanno, si
trasformano, non si lasciano mai afferrare e fermare, ed il luogo che
si puoà toccare eà , in rapporto ad esse, nel migliore dei casi la loro
sede.
Esse possono esservi presenti, senza che l’uomo
necessariamente le noti. Non tutti riconoscono il segno segreto della
loro presenza, e solo colui che eà rapito in estasi accoglie con brivido
il loro respiro. Ma se la devozione che offre sacrifici nutre di magica
essenza il simbolo locale, allora esso si apre all'anima che vi si
stabilisce, la quale in un attimo trasforma la copia nell’apparizione
del dio.
Come abbiamo giaà accennato, l’anima che vaga eà minacciata dal
pericolo di esser fatta girovagare di lontananza in lontananza, di

123
trasformazione in trasformazione, ed infine di esser privata della sua
realtaà per la perdita della capacitaà di assumere figure. Presso gli
islandesi, la dipartita delle anime si chiama «viaggio delle figure».
L’anima ha ottenuto per patria lo spazio che si estende attraverso
cosmiche lontananze, ma ha perduto la patria del luogo, della
vicinanza che racchiude in intimo calore. Ora, si appartengono
reciprocamente e polarmente spazio e luogo, lontananza e vicinanza,
cielo e terra, vagare e restare, periferia e centro. Separato dal moto
del firmamento, l'elemento tellurico si dissecca, mentre l’elemento
sidereo si dilegua se non eà ancorato al nocciolo della terra. Se quello
per fiorire ha bisogno della feconda tempesta delle immagini del
passato, la devozione e lo spirito di sacrificio di coloro che sono
corporeamente presenti nella luce protegge le demoniache anime
degli antenati, dal carattere dìà sogno, dal perdersi nelle notturne
fauci dello spazio. Per questo — usando una metafora — i defunti,
simili a viandanti assetati, bramano un luogo adorno di fiori e
protetto come sacro, e i vivi, accesi dall’Eros della lontananza,
preparano loro, fregiandoli di segni atti ad evocarli, tombe o templi,
boschetti sacri o colonne, alberi o piramidi di pietra, urne o grotte,
statue o figure di lari: affincheé siano sede prediletta e segreto luogo
di riposo dell’anima, che non eà stata cacciata dallo spazio ma che
senza l’amore e le cure di coloro che sono ancora protetti dal corpo
sarebbe abbandonata ad un vagare senza sosta. Se un guerriero era
caduto in terre lontane o qualcuno in mare era naufragato, i
congiunti erigevano sulla sua terra un «cenotafio», una tomba vuota:
cioeà il luogo protetto dove l'immagine del morto era pregata di
tornare. Il tessuto dell’Eros, che non si puoà strappare, congiunge le
immagini del passato e gli animi dei vivi.22
Tutti gli usi funebri, i simboli e le leggende sull'anima
rimandano, concordi, al dato di fatto che nell’era pelasgica era
ancora popolarmente diffuso cioà che un’epoca piuà tarda riuscìà ad
ottenere soprattutto mediante i riti: l’epoptia estatica. Era un
dramma che costringeva al coinvolgimento (o meglio, alla
partecipazione intimamente necessaria) cioà che metteva in modo

124
passeggero il miste eleusino nello stato della contemplazione
indipendente dal corpo, e da questo egli riportava l’esperienza della
realtaà delle immagini e della presenza di coloro che erano sfati e,
assieme a tale esperienza, la certezza incrollabile dell’anima della
vita, che incessantemente si rinnova. Ma i misteri, poicheé tentavano
di continuare a donare la scienza extrarazionale del pensiero
contemplativo all'interno di un’umanitaà che era giaà degenerata per il
dominio dell’arbitrio dello spirito e di un sensato utilitarismo,
caddero anch’essi nel destino mortale della crescente
spiritualizzazione, e sarebbero stati, alla fine, l’opposto del loro
inizio, anche se non avessero dovuto prima bruciare nel fuoco
dell’odio cristiano; ma, di questo, piuà sotto diremo l’indispensabile.
Prima, concludiamo il nostro quadro generale della natura della
contemplazione, aggiungendo ancora un ultimo tratto preso dalle
tradizioni degli usi sacri a quelli che abbiamo ottenuto
interpretando il servizio dei morti.
Il «pasto sacrificale» originario non eà tanto un pasto in onore del
dio quanto piuttosto un sacrificio del dio stesso, con successiva
incorporazione da parte dei partecipanti, ma nel senso
dell’accoppiamento con lui. Non eà questo il luogo di darne la prova
universale, poicheé per lo scopo presente puoà bastare l’accordo per
quei soli casi che offriamo come esempi. Posto che le cose stiano
cosìà, il processo corporeo del pasto cultuale avrebbe, senza
eccezione, il carattere di un’azione simbolica, pur accadendo
attraverso il cibarsi dell’animale sacrificale, e perfino nella forma del
cannibalismo, che, come ormai nessuno contesta, all’inizio ebbe
ovunque significato religioso. Ma eà proprio cosìà. Soltanto poicheé non
si pensa affatto al corpo da mangiare, bensìà alla sua immagine, serve
ugualmente allo scopo la figura che la imita, fatta per esempio di
pasta per dolci, che in molti luoghi infatti aveva il nome di «dio che si
mangia». Le forme antichissime dei nostri cavalieri di pan pepato e
dei nostri uomini dal cappello a punta furono originariamente
popolari figure di dei. Ancor oggi, nei paesi cattolici, esse vengono
mangiate in occasione di feste che un tempo erano legate ad epoche

125
di pasti sacrificali, e vengono portate a casa agli amici, affincheé
anch’essi beneficino dell’effetto del pellegrinaggio.23 Ma prima di
esaminare la natura di gamos del pasto, allontaniamo un errore
diffuso.
Genuini simboli non sono mai metafore, e per esempio mangiare
la copia, in un dolce, della divinitaà , non eà affatto pensato come mera
metafora. Se per la coscienza originaria l’anima della cosa era
nell'immagine della cosa, allora anche l’abbracciare o il mangiare la
sua copia serviva ad unirsi con essa. La formula zwingliana della
cena, per la quale il vino sta solo a significare il sangue divino, eà un
falso operato dalla ragione. Il vino eà sangue, in forza della
contemplazione mistica, in quanto esso offre una copia visibile del
sangue (il vino viene ripetutamente chiamato «sangue della terra»,
presso antichi autori). Il punto di vista, dominante in modo ancora
quasi incontrastato nell’etnologia odierna, secondo il quale
originariamente si sarebbero sempre sacrificati corporeamente
animali o uomini, mentre piuà tardi, per un destarsi di «umanitaà », si
sarebbero preferiti al loro posto dei corpi privi di vita, in primo
luogo si mette in contraddizione con non pochi fatti di natura
esattamente opposta, nei quali peroà qui non possiamo addentrarci,
ed in secondo luogo resta incapace di spiegare percheé le
«sostituzioni» non avvenivano tramite il sacrificio di denaro, a noi
familiare, ma per mezzo di copie intuitivamente simili. Forse che eà
mai stato considerato annullato un debito percheé il debitore aveva
fatto il gesto di pagare? O forse il frutto che era stato venduto eà mai
stato considerato realmente consegnato grazie al solo gesto del
porgerlo? E poicheé , come eà certo, questo non eà mai accaduto, non
dobbiamo forse, invece di parlare di sostituzione, chiederci piuttosto
percheé presso tutti i popoli, e certamente per principio, essa era
accettata per l’azione del sacrificio? Ma la regola romana del
sacrificio suona, infine: sciendum in sacris simulata pro veris accipi
= bisogna cioeà sapere che, nei sacrifici, cose soltanto simulate sono
da ritener per vere ! In che modo sarebbe mai potuto sorgere un tale
principio, se per la coscienza di chi contempla la realtaà non fosse una

126
realtaà dell’apparizione? Ma se proprio per questo i δάιμονι ζομενοι
delle feste di eccitazione di tutti i popoli e di tutti i tempi vengono
trasformati mediante travestimenti e maschere! Il modo simbolico di
esercitare l’uso originario non ci mostra un tardo indebolimento di
esso, ma al contrario il suo senso piuà profondo.
In tutte le azioni cultuali non importa mai la materia, bensìà
l’anima della materia: la quale peroà si rivela soltanto nell’immagine.
In ogni caso ora ci si obietteraà che proprio il costume del cibarsi
del dio rimanda al fondamento assolutamente materiale della
concezione dominante. Che anche se resta considerevole il fatto che
al posto del dio reale venga ritenuta bastante la sua copia di pasta, o
perfino un pezzo di pane, per divenir partecipi, tramite queste cose,
della sua anima, questa conquista avviene tuttavia attraverso il
processo del mangiare, dunque incorporando il corpo ritenuto
divino. A tutto questo, dovremmo obiettare che il concetto della
materia appare in luce diversa a seconda che in essa si scorga il
sostrato degli oggetti della percezione oppure il punto d’appoggio ed
il luogo delle immagini; e che l’incorporazione che deriva da una
spinta a fondersi con l'immagine del cibo eà molto diversa da quella
che deriva da un impulso alla nutrizione. La materia come sostrato
del mondo della percezione eà soltanto una cosa del pensiero (che
serve a soggiogare e a controllare i movimenti), la materia come
luogo delle immagini allude invece — la parola «materia» lo tradisce
— all’emisfero oscuro della realtaà , senza il quale quello chiaro della
apparizioni non sarebbe neppure pensabile. Ma, come si eà detto
prima, non c’eà nessun impulso alla nutrizione, bensìà, al grado
animale, soltanto l’aver fame o l’aver sete, ossia — aristotelicamente
— ci sono solo irresistibili impulsi all’unione ora con qualcosa di
solido, ora con qualcosa di liquido: e tali impulsi possono essere
determinati adeguatamente soltanto tenendo conto delle immagini.
L’aver fame ed il saziarsi presuppongono cioeà due cose: la
dipendenza del corpo dell'animale dal mondo in generale, ed un
rapporto di scambio tra l’animale ed una porzione del mondo
qualitativamente determinata. L’impressione della porzione di

127
mondo che placa la fame agisce sul portatore di vita stimolandolo,
allettandolo, e l’animale si unisce ad essa mediante il processo del
mangiare, che eà contrassegnato da un senso di benessere corporeo.
Il fatto che la scelta delle immagini avvenga principalmente
mediante il naso, la lingua e gli organi del tatto, e molto meno
mediante l’occhio, non ci puoà impedire dìà valutare, nei processi dei
sensi che danno tali comunicazioni, il lato di contemplazione. Un
essere fornito soltanto di sensibilitaà ricettiva vivrebbe soltanto
differenze di pressione, e starebbe percioà nel mondo come tra le
pareti spostabili ma non spezzabili dìà un carcere, e per lo meno non
avrebbe nessuna esperienza di una realtaà delle immagini. Se
soltanto riflettiamo che sarebbe privo di senso ritenere che delle
qualitaà si possano toccare,24 allora sappiamo in che misura anche nel
gusto, nell’olfatto e nel tatto c’eà un contemplare, e percheé non rechi
nessun danno alla nascita estatica dell'immagine il fatto che essa
avvenga sulla scorta del gustare e del mangiare.
Se indubbiamente tra le facoltaà d’impressione degli animali e la
materia commestibile c'eà una particolarità della connessione, in
base alla quale ogni specie cerca un nutrimento che eà proprio solo a
lei, tale particolaritaà deve basarsi su una tensione polare tra l'anima
dell’animale e immagine dei materiali; ed in tal modo ci si
ricollegherebbe al fatto, messo in rilievo all'inizio, che ogni individuo
di evoluzione superiore dimostra, nel mangiare e nel bere,
inclinazioni perfino schizzinose, al compimento delle quali sono
legate gioie psichiche piuà grandi di quelle che il mero placar la fame
potrebbe concedere. Ma ora, se il prevalere della contemplazione
distingue l’uomo originario dall’animale, e se l’inclinazione che
determina le scelte cresce talvolta in lui potentemente oltre il mero
bisogno, perfino il pasto puoà infine apparirci alla luce di un
matrimonio tra anima e forza generatrice. Si sostituisca il pensiero
dominato dallo scopo dell’assunzione di nutrimento con l’esperienza
vissuta della voluttà del gusto, e ci si troveraà sulla strada della
concezione del pasto come di un lato delle apparizioni dell’Eros.
Percorrendola fino in fondo, si sapraà di un cibarsi che viene vissuto

128
come legame polare di chi mangia con il cibo, e che accade tra brividi
estatici. In tale caso peroà non sarebbe tanto inghiottita materia
commestibile quanto piuttosto, con l’aiuto della materia, la sua
immagine, la sua anima, la sua essenza sarebbe unita all’anima
corporea di chi mangia, e l'atto del mangiare accompagnerebbe
soltanto un ebbro abbandono di chi mangia al cibo. «Cosìà», dice
Novalis, «ogni giorno noi godiamo il genio della natura, ed ogni pasto
diviene cosìà un pasto commemorativo... il misterioso mezzo di una
divinizzazione». I costumi del culto confermano tutto questo? Basta
paragonare alcuni notissimi riti scelti dall’antica tradizione di quelli
eleusini, orfici, egìàzi e simili, per riconoscere subito che nelle
cerimonie epoptìàche si mescolano, parimenti importanti, gli usi che
simboleggiano le nozze ed il pasto mistico. Cominciamo con quelli.
Dai misteri di Sabos conosciamo il διάτουΰ κοά λπουθεοά ς, cioeà
l'azione rituale dell’introdurre nel petto dell’iniziando un serpente
d’oro. Degli eleusini, ci svela il vescovo Asterio: «non vi accade forse
l’incontro dello ierofante e della sacerdotessa, tra lui e lei soltanto?
Non vengono forse spente le fiaccole, e non ritiene forse una grande
folla che sia la propria felicitaà cioà che i due compiono al buio?»
Secondo altre cronache di avversari cristiani, lo ierofante
annunciava: «la sublime Brimo ha partorito un sacro bimbo, il
Brimos; la forte ha generato il forte». De Jong fa notare che le feste
misteriche, di nove giorni, di una setta segreta degli indiani Hopi in
Arizona parimenti si concludono con le nozze sotterranee tra l’«eroe
serpente» e la «vergine serpente». Secondo Clemente, durante i riti
dei Cabiri nella sacra cesta era nascosto il phallos. Che l’anima sia
stata la parte ricettiva, e la divinitaà quella generante, risulta tra
l'altro dalla testimonianza del beato miste su una delle tavolette
auree: «sono andato nel grembo della dea infera». Se sìàmili
celebrazioni e simboli non lasciano piuà dubbi sul carattere nuziale
della contemplazione, i seguenti ci indicano la stessa esperienza
vissuta nel simbolo del pasto. Firmicus Maternus testimonia la
formula misterica del culto di Attis: «lo ho mangiato dal timpano, ho
bevuto dal cembalo, ho portato il kernos (vaso con le primizie dei

129
campi); io ho imparato i misteri, sono entrato nella stanza della
sposa e sono divenuto miste di Attis». Porfirio, nel suo scritto
Sull'astinenza, cita, da un’opera di Euripide andata perduta, le
seguenti parole, indirizzate dal coro a Minosse: «lo conduco una vita
santa, da quando sono divenuto miste di Zeus Ideo e bovaro del
notturno Zagreo. E dopo che ho tenuta alta la fiaccola alla madre
della montagna Rea e ho compiuto il pasto di carne cruda, sono
divenuto un kurete, un baccante». La cosiddetta formula eleusina
suona: «io ho digiunato, ho bevuto la mistura, l’ho preso dalla cesta
e, dopo che ho fatto, l’ho messo nel canestro e poi di nuovo nella
cesta» .(Il dio nella cesta eà qui il serpente). Inoltre: «io, il caprettino,
sono venuto dal latte». Il significato del bere dalla brocca per
mescere, un atto essenziale dell’iniziazione nella maggior parte dei
riti misterici, eà chiarito, per quelli eleusini, anche in seguito al suo
passaggio nella leggenda cultuale: Demetra, triste, in Eieusi, rifiuta
ogni nutrimento; ma, tornata finalmente a ridere per lo scherzo di
una schiava, beve la miscela di orzo, acqua e menta. Parimenti, nel
culto dìà Mitra, i gradi dell’iniziazione vengono divisi secondo i cibi
che il miste di volta in volta riceve. Al quarto, al grado della
«leonessa», egli per la prima volta riceve del miele, al quinto, quello
di «Perseo», viene nutrito di latte e miele. «Bevi il latte e mangia il
miele, prima che sorga il sole, ed allora contemplerai la divinitaà ».
Tali prove, adatte a mostrare il mangiare ed il bere mistici in luce
nuziale, non ci lasciano peroà indovinare nulla degli intimi brividi
tramite i quali soltanto essi sarebbero accoglimento del dio e
seguente nascita dell’immagine. Per questo ci volgiamo dai riti
regolati dai sacerdoti a quelli orgiastici. In vari modi ritorna, nelle
poesie orfiche, questo tema: la divinitaà originaria, tragicamente
smembrata, si eà sparsa nel mondo, per sorgere infine nuovamente
dall’infinita dispersione. Cosìà udiamo della dispersione dell’essere
originario Fanes; Zeus si sarebbe appropriato di uno dei suoi resti e
quindi, in forma di serpente, avrebbe generato, con Persefone,
Dioniso Zagreo. Di quest’ultimo poi si dice che, da bambino, sia stato
abbindolato dai titani. Essi gli diedero in mano lo specchio, affincheé

130
egli si perdesse nell’ammirazione di se stesso; ed ecco che gli sono
addosso, ed egli si trasforma in un leone, in un drago, e infine in un
toro: essi lo dilaniano e lo divorano. II fulmine di Zeus li incenerisce:
la stirpe umana che ne deriva eà quindi di provenienza in parte
dionisiaca, in parte titanica. Il cuore del bimbo peroà viene salvato da
Atena. Zeus lo accoglie in seé e genera con Semele il nuovo Dioniso.
Da tali leggende, che certo sono composte abbastanza
artificiosamente, la scienza delle scuole di preferenza prende solo
cioà che in esse eà indisconoscibile intenzione teologica e induce per
tortuose vie a quei (sempre spirituali) panteismi che per primi
hanno incoraggiato il pensiero razionale alla sua battaglia di
annientamento del mondo dei sensi, ed in tal modo hanno causato
l’evento, unico nel suo genere, della filosofia greca. Ma per la
disposizione psichica dell’antichitaà sono incomparabilmente piuà
istruttivi i motivi che vi sono usati: il giaà ricordato incanto della
trasformazione; poi l' autorispecchiamento, che troviamo anche
nella leggenda di Narciso ed era un uso, tra l’altro, dei coribanti; poi
l’idea misterica della rinascita, sufficientemente commentata; infine
il dilaniamento di un essere demoniaco, che ci ricorda subito le
leggende di Orfeo o di Osiride, od altre ancora, compreso
l’inghiottimento ripetuto in due forme. Questi motivi, e soltanto essi,
rimandano a realtaà vissute! E invero alla base del dilaniamento e
dell’inghiottimento c’eà l’azione del dilaniamento orgiastico del dio,
come ci viene testimoniata da raffigurazioni e da sobrie cronache
per l’intera cerchia delle feste cultuali di eccitazione. Delle feste
greche in onore di Bacco sappiamo, e lo troviamo anche raffigurato
in bei rilievi antichi, che menadi cinte di serpenti dilaniavano capri.
La comunitaà dei misti di Dioniso, a Creta, dilania con i denti ed
inghiotte ancora sanguinolento un toro, infuria all’intorno e ne reca
il cuore in una cesta. San Nilo (morto nel 430) ci riferisce di stirpi di
beduini che, tra il sorgere di Venere e quello del sole, in un delirio
orgiastico dilaniano un cammello e lo divorano ancora sanguinante.
Sembra che ancor oggi in Algeria si possa vedere, in occasione di
grandi feste, il dilaniamento di un agnello. Ma che l’animale

131
sacrificale fosse, per colui che era rapito in estasi, un’immagine del
dio stesso, lo farebbe capire perfino la teogonia che abbiamo citato,
anche se non risultasse chiaro dai miti originari e principalmente dal
fatto che proprio nella figura di tali immagini il dio, sempre
maschile, come sappiamo, si congiunge con la donna come col
sìàmbolo dell’anima umana che si abbandona. In figura di toro Bacco
passa innanzi a Penteo trasformato in menade. Tra suoni di trombe
le donne di Elide chiamano dalle onde il dio dal piede bovino:
άά ξιετάυü ρε! Pasifae grazie all’arte di Dedalo si unisce al toro di
Poseidone e partorisce il minotauro. Zeus, in forma di toro, rapisce
Europa. Se il raggio dell'androgina luna cade su una mucca in amore,
nasce per gli egizi il toro di Api, cioeà Api stesso. Proprio per la loro
aberrazione nella grossolanitaà e nell’esagerazione, gli usi sacrificali
dell’antico Messico mostrano con stridente evidenza il pensiero che
eà alla base di tutto questo. EÈ noto che, per la piuà importante festa
sacrificale degli aztechi, l’uomo che doveva servire a tale scopo
veniva spesso scelto giaà un anno prima. Tanto piuà si avvicinava il
tempo della sua morte, tanto maggiori onori gli venivano resi, fincheé
da ultimo egli veniva adorato come la divinitaà per la quale egli era
stato determinato al sacrificio. E i partecipanti all’orgiastico
banchetto sacrificale erano, dal canto loro, inghiottitori di dio, ed
anche il loro pasto eà l’espressione dell’ingresso di un’anima divina
nel miste che in tal modo si divinizza.
A colui che eà rapito in estasi il demone appare nel simbolo del
capro, del toro, del serpente, di un essere misto di uomo e toro, o
anche in figura umana; ed il violento dilaniamento ed inghiottimento
eà soltanto il modo piuà scatenato di fondersi con esso: accogliendolo
in seà , egli contemporaneamente gli si daà . Poi, eà incinto del dio, eà
«entheos» (κάτεχοά μενος, ενεργουά μενος, numine afflatus), pieno del
dio, o «posseduto»; eà egli stesso toro o capro, 25 eà divenuto una sola
cosa con l’anima del tutto che incessantemente si rinnova, dal buio
della morte, in incandescenti immagini di esuberante pienezza. Dalla
parte del miste, l’inghiottimento significa accoglimento del dio, o
concepimento, mentre dalla parte del demone significa la sua

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infusione nell’anima del miste. Con il dilaniamento di Dioniso Zagreo
da parte dei titani, di cui ci parla la dottrina orfica degli dei, e con la
successiva rinascita, viene ripartito in due eventi mitici cioà che nel
miste sono due pulsazioni della sua esperienza vissuta: al cibarsi del
dio, come al suo accoglimento, segue la nascita dell’immagine,
animata e animante. Ricordiamo i versi di Goethe:

Verteilet euch nach allen Regionen


Von diesem heilgen Schmaus!
Begeìstert reisst euch durch die nàchsten Zonen
Ins All und fullt es ausi

Distribuitevi in tutte le regioni, / da questo santo banchetto! /


Entusiasti, attraversate le zone piuà vicine, I verso il tutto, e
colmatelo!
Avevamo dunque ragione, quando nel primo capitolo mettevamo
in rilievo, tra gli impulsi d’amore, l’impulso all’inghiottimento.
Ma ora sembra che la nostra digressione sulle orge esiga un’altra
domanda. Se nell’azione, che daà l’impressione di sobrietaà , del bere
dalla brocca per mescere, e dello spezzare il pane, ed in altre simili
ancora, il novizio sembrava privo di quei brividi di dissolvimento dai
quali soltanto egli potrebbe sorgere come «in aeternum renatus», al
contrario il dilaniamento estatico, di un uomo o anche solo di un
animale, fa l’impressione dell’eccesso e della terribile selvatichezza,
e non per niente ci chiediamo se infine debba inevitabilmente
esternarsi in tali azioni distruttive un’esperienza vissuta il cui senso
abbiamo invece riconosciuto nella contemplazione della realtaà delle
immagini. All’uomo del tutto elementare la consacrazione
dell’unione non poteà essere data giaà dall’«abituale» mangiare e bere,
nell’ebbrezza delle feste? La risposta eà : certamente non deve essere
cosìà. La violenza delle manifestazioni accompagna soltanto un tipo
di estasi, e non necessariamente l’abbandonarsi in generale.
Piuttosto, ogni volta che questa ha luogo tra cosìà terribili convulsioni
eà percheé ha dovuto lottare con un impedimento, e solo

133
allontanandolo eà potuta subentrare. Qui tocchiamo un punto
fondamentale anche per il resto.
Cioà che un uomo, volutamente o no, compie verso l’esterno, non
eà mai altro che un processo della vita interna divenuto oggettivo nel
rimbalzo sul mondo. Se il miste deve dilaniare il dio per unirsi
polarmente con lo stesso dio, questo significa che egli giunge
all'autoalienazione solo dopo una violenta autotriturazione. I vari
esempi di autoflagellazione, autoferimento, e perfino di
autodistruzioni nei culti orgiastici ci danno la chiave per
comprendere il senso ultimo del dilaniamento estatico come della
dirompente manifestazione di violentissime esplosioni interne. Ma
di cioà ha bisogno soltanto un’anima giaà separata dall’immagine
originaria, in quanto chiusa nel carcere dell’egoitaà , e che
ciononostante eà ancora in grado di obbedire alla chiamata dei dio.
Bevande inebrianti, suono dei piatti, zampogne, pifferi, tamburi,
sono altrettanti mezzi per stordire la coscienza in grado di pensare,
e per procurare all’anima, che ribolle come la lava di un vulcano, non
— lo ripetiamo — l'irruzione fuori dalle catene del corpo, bensìà
quella dalle catene dell’io, della volontaà , della ragione diurna e desta.
Lo spirito del miste, invece dìà disciogliersi come in sogno, viene
come infranto nell’impetuosa risacca del sangue; e l'espressione
immediata di questo eà l’effettivo dilaniamento di un corpo vivo!
Ogni orgia sanguinosa cangia cosìà in un’enigmatica doppia luce, e
percioà — anche se a torto— fu separata fondamentalmente dalle
devote celebrazioni di riti piuà tranquilli, quali presumibilmente
furono quelli eleusini o quelli di Iside: consegnata a cori di spiriti che
infuriano in estrema autodistruzione, l’estasi delle menadi sembra
essere un insorgente titanismo il cui portatore, come per un
despotismo demoniaco, scivola in un delirio di distruzione, come
Agave, l’abbagliata da Bacco, la quale uccide il proprio figlio, o come
Nerone che, ebbro di destino, daà fuoco alla «cittaà eterna» e canta
ditirambi su quel mare di fiamme. Che cosa puoà esser mutato
nell’interno dell’anima? Forse inizia qui una trasformazione che
potrebbe finire con l’inversione del senso dell’estasi?

134
Essa era cominciata da quando ci furono tali deliri, da quando ci
furono i sacrifici sanguinosi, ma anche da quando ci furono sette e
riti segreti. Nella disgregazione di anima e corpo che incomincia giaà
nella preistoria l’ascesa di sacrifici cruenti indica la lotta diretta
contro l’anima, mentre il sempre piuà marcato atteggiamento
catartico indica quella contro il corpo. Per quanto insolito possa
suonare: il cannibalismo dell’antico Messico e il culto del Moloch
(che fa arrostire i bambini) da una parte, e un orfismo che tende al
platonismo dall’altra, sono soltanto espressioni diverse dello stesso
sdoppiamento dei poli vitali. Questa falsa strada — la prometeica ed
incruenta — sfocia nella desensualizzata fede della ragione nella
realtaà dei contenuti concettuali, quella — la eracleica, cruenta —
porta al privilegiamento degli scopi rispetto ai motivi, e finiraà con la
completa atomizzazione, dopo orrendi macelli; e d’altra parte,
quanto al numero di sacrifici umani che le sono stati offerti, la
religione della volontaà del cristianesimo supera di gran lunga il
divorar uomini degli aztechi! Collegandoci alla leggenda greca della
marea che inghiotte ogni cosa, abbiamo chiamato «pelasgica»
l’umanitaà originaria, secondo il mitico nome delle popolazioni
annientate, ed in quella deucalionica abbiamo cercato
esclusivamente quei tratti per i quali essa, alle sue origini, eà
connessa a quella. Ora, diremo poche parole sulle principali
proprietaà nelle quali perfino giaà il tempo di preparazione alla
«storia», e pienamente poi soltanto la cultura dell’antichitaà , si
staccano dal genuino pelasgismo, o, piuttosto, sulla loro emanazione,
di diversa direzione, da un solo punto d’irraggiamento. E per questo
ci colleghiamo a Eieusi.
Secondo la consueta concezione della scienza dell’antichitaà tutto
cioà che abbiamo spiegato ricorrendo ad Eieusi sarebbe, per Eieusi,
del tutto sbagliato; infatti, non si sarebbe trattato neé della da noi cosìà
chiamata «eternitaà della vita», neé solo di immortalitaà , bensìà della
garanzia di una vita beata dopo la morte! Dice l’inno di Demetra:

Felice tra gli uomini che vivono sulla terra

135
colui ch’è stato ammesso al rito!
Ma chi non è iniziato ai misteri, chi ne è escluso,
giammai avrà simile destino, nemmeno dopo la morte,
laggiù, nella squallida tenebra. 3

L’immortalitaà viene dunque giaà presupposta, ed importa solo il


modo di continuare a sussistere! Una iscrizione tombale di Eieusi,
del secondo secolo cristiano, annuncia infatti:

Gli dei beati annunciano,


in verità, un mirabile mistero:
ai mortali non è maledizione,
ma benedizione, la morte!

Bisognerebbe anzitutto rispondere che tutte le volte e nella


misura in cui l’idea dell'immortalitaà si eà diffusa, l’appassionato
desiderio dell’uomo ha mirato, immancabilmente ed in pari modo,
ad una immortalitaà gradevole; ed ogni volta che una setta religiosa
prende in considerazione le speranze di immortalitaà dei suoi
seguaci, immancabilmente promette una beatitudine futura! In altre
parole, la beatitudine eà sottintesa, se soltanto cioà che forma la forza
trascinatrice dei misteri eà una vita futura. Mentre la trasmissione
della certezza della beatitudine avveniva destando la
contemplazione, la proiezione delle beatitudini in una vita futura
avveniva tramite quello sviamento degli spiriti che ora
caratterizzeremo con estrema brevitaà .
Si pensi un paio di minuti ai seguenti opposti: desiderio
d’immortalitaà ed eternizzazione della vita, e si toccheraà con mano
che essi si negano reciprocamente. La cura dei morti custodisce
qualcosa che realmente eà stato, la fede nell’immortalitaà promette
qualcosa che non eà mai presente in nessun luogo; quella si rimette al
passato, questa si aliena perfino dal presente, eà del tutto in discordia
con cioà che eà trascorso e sacrifica l’unica cosa eterna che c’eà , l’attimo
ardente di vita, al futuro, che essa puoà afferrare solo nel concetto;

136
quella, fiorendo dell’amore di chi ancora vive ed ha corpo per le
immagini chiaroscurali della vita, pone i suoi portatori nel «circolo
della necessitaà », che incessantemente muta, mentre con questa
l’egoistica hybris di individui sradicati fugge, di fronte all’orrore del
dover finire, nella menzogna di fede della prosecuzione, al di laà del
tempo, di un’esistenza separata. Riassumendo, in stridente
contrasto: la sensibilitaà che eà alla base del culto dei morti chiede che
cosa eà stato di coloro che furono, e come si puoà abbellire il loro
destino, mentre quella della, fede nell'immortalitaà chiede: che saraà
di me, quando non saroà piuà , e come posso comperarmi una lieta
continuazione?
La fede nell'immortalitaà scaturisce dunque dall’egoismo, e cioà
significa che l’io ha preso il posto dell'anima, e cosìà la volontaà di
esistere ha preso il posto della vita. La volontaà di esistere eà ostilitaà
alle immagini, e mira al suicidio. («Denn alles muss in Nichts
zerfallen — Wenn es im Sein beharren will!» 4) Tanto piuà essa si
diffonde, tanto piuà si trasforma, fino a morire, il senso
dell’esperienza vissuta dell’estasi: l’alienazione dal seé diventa
alienazione dalla vita, l’unione col tutto ottenuta spezzando le
barriere degli oggetti diventa fuga dal tutto in seguito alla
distruzione dell’elemento corporeo. E cosìà l’orfismo fuggìà l'intima
frattura rifugiandosi nell’ascetico vaneggiamento del corpo come
tomba dell'anima, e, s’intende, la filosofia ingannata dallo spirito ha
poi usato questa sola idea per quei giganteschi sistemi la cui
struttura assolutamente autocontraddittoria potrebbe essere
paragonata ai disperati inizi di un grande architetto che abbia
schizzato invero i piani piuà geniali, ma si sia anche prefisso di non
impiegare, per le sue costruzioni, nessun materiale terreno! Ma non
eà questo il luogo per parlarne.
Questo per quanto riguarda la rimozione del corpo. Per
comprendere quella, complementare, dell’anima, consideriamo
quanto segue. Nessun ponte porta dalla fonte, colma di essenza, del
passato, al niente, vuoto di essenza, del futuro. Ma il volgersi al
futuro coincide con un distacco dal passato; e chi eà divenuto colmo

137
di speranza, in egual misura eà divenuto colmo di paura. Se uno spera,
dopo morto, di guadagnarsi il cielo, teme anche peroà — l’inferno!
Conservando il proprio io nella speranza come nella paura, si eà
staccato dalla sempre fluente fonte originaria che gli ha solo dato in
prestito la vita (si noti la locuzione: «dare in prestito la vita»), e cosìà
per lui la materna Eumenide si muta nella Erinni vendicatrice. Le
anime dei morti che l’egoistica freddezza dei vivi ormai non nutre
piuà divengono vampiri assetati di sangue, ed eà vano cercare di
placarle con ecatombi di animali e di uomini. Nervo cardiaco del
presente di tutti coloro che sono caduti nella pazzia della fede nel
futuro eà l’angoscia: angoscia di fronte alla morte, angoscia di fronte
al domani, angoscia in generale, e angoscia per il prossimo minuto,
angoscia per il delittuoso lasciarsi sfuggire la vita: un’angoscia che,
sebbene ogni fede negli spettri sia finita da tempo, continua a
crescere, tanto piuà divorante, come «cattiva coscienza».

Das war ich sonst, eh ichs im Dustern suchte,


Mit Frevelwort mich und die Welt verfluchte.
Nun ist die Luft von solchem Spuck so voll,
Dass niemand weiss, wie er ihn meiden soll.
Wenn auch Ein Tag uns klar vernijnftig lacht,
In Traumgespinst verwickelt uns die Nacht;
Wir kehren froh von junger Fìur zuruck,
Ein Vogel kràchzt; was kràchzt er? Missgeschick.
Von Aberglauben fruh und spàt umgarnt:
Es eignet sich, es zeigt sich an, es warnt.
Und so verschuchtert, stehen wir allein...

[Tale io fui pure un giorno, prima ch’io cercassi nell’oscuro e che


maledicessi con criminosa parola a me stesso e al mondo. Ora l’aria eà
talmente piena di spiriti che nessuno sa piuà come evitarli. E se anche
un giorno ci sorride in luce di ragione, la notte ci impiglia nella
ragnatela del sogno. Ce ne torniamo sereni da campagna novella: un
uccello gracchia. Che cosa? Mala ventura. Mattino e sera irretiti dalla

138
superstizione: roba che salta all’occhio, e rivelandosi ammonisce. E
cosìà, intimiditi, restiamo in solitudine].5

Alla «beatitudine celeste» corrisponde l’inferno sulla terra, e la


peggior forma di tale inferno sulla terra eà l’ahasverico stato di veglia,
derubato del dolce sonno, della mai sazia volontaà , e del suo
autostordimento nel culto di Mammona! L’applicazione di tutto
questo ad alcuni argomenti giaà citati, ed in particolare ai caratteri
distintivi dell’umanitaà «storica», deve essere lasciata al lettore.
Non avremmo niente da aggiungere se non temessimo di non
avere dei tutto eliminato un dubbio che probabilmente fin dall’inizio
ha avuto chi ha letto questo capitolo. Fino a che punto, ci si chiederaà ,
l'antichissima cura delle anime non eà la dichiarazione di una fede
nell'immortalitaà ? Abbia pur visto il pelasgo l’elemento psichico non
in cose ma in immagini: i suoi costumi di cura delle tombe mostrano
peroà che egli, qualsiasi cosa fosse per lui l’anima, pretendeva una
continuazione oltre la corporeitaà sensibile. Preghiamo di fare
particolare attenzione alle nostre motivazioni contro la giustezza di
questa concezione, percheé esse possono servire piuà di ogni
spiegazione a mostrare nella luce piuà chiara la nostra dottrina della
realtaà delle immagini.
In primo luogo, appare chiaro che se le immagini sono qualcosa
di incessantemente fluente, il «giudizio esistenziale» si adatta solo
metaforicamente ad esse. Immagini = mutamenti; mutamenti peroà
non = «esistenze». La realtaà delle immagini — la piuà reale, o meglio,
l’unica che c’eà — eà eterno venire ed andare, crescere e sfiorire,
risplendere e nuovamente spegnersi. Al contrario della fissitaà
sottratta al tempo dell’oggettivo essere, essa non viene pensata
mediante concetti, bensìà mediante simboli, alcuni dei quali abbiamo
visto.
Cose e persone esistono, ma le immagini, ed esse soltanto,
vivono, e la realtaà dell'esser vivi eà essenzialmente diversa dal-l’esser
pensato dell’esistere. In secondo luogo: la cosa essente eà ricevuta
dallo spirito che la pensa, il quale eà proprio di tutti gli esseri capaci

139
di pensiero e puoà ripetere a volontaà il compimento degli stessi atti;
chi riceve invece l’immagine eà un’anima dotata di vita propria, la cui
contemplazione, strappata allo spirito, non si ripete mai
esattamente.
Il mondo delle immagini dunque arde nell'Eros contemplante di
coloro che lo vivono. Il cosiddetto proseguimento dell’esistenza, che
in realtaà eà peroà viva presenza, richiesto dal pelasgo per le anime dei
propri morti, fiorisce per il nesso elementare-erotico tra coloro che
sono stati e i vivi, che hanno un corpo. L’anima dell’immagine muore
se muore nelle anime di chi la ricorda!
Qui eà la radice piuà profonda di quella cura delle anime che
altrimenti sarebbe incomprensibile. Il costume dell’adozione, molto
diffuso nell’antichitaà , ma che ancor oggi eà diffuso tra i primitivi,
come pure tra cinesi ed induà , eà stato ed eà ancora al servizio del culto
degli antenati, ed ha lo scopo di lasciare un discendente che offra i
debiti sacrifici ai propri mani. Infine notiamo, in terzo luogo, che le
trasformazioni dell’anima dipendono essenzialmente dalle
trasformazioni del suo culto. L’«antenato» e «spirito protettore»
della casa viene fortificato dalla piena e profonda adorazione che i
vivi che la abitano gli tributano, mentre si assottiglia e svanisce
quando sia dimenticato da essi. Se l’umanitaà nel suo complesso ha
perduto il dono della contemplazione, immancabilmente gli ultimi
ritardatari udranno il commovente grido di dolore: «il grande Pan eà
morto»!.
Riassumiamo: nell’ondeggiamento estatico la vita mira a
liberarsi dallo spirito / il compimento consiste nel destarsi
dell’anima, ed il destarsi dell’anima eà contemplazione / ma essa
contempla la realtaà delle immagini originarie /le immagini
originarie sono anime del passato che appaiono / per apparire esse
hanno bisogno del legame con il sangue di chi eà ancora vivo ed ha un
corpo / e questo accade nell’evento della contemplazione, che percioà
eà un mistico sposalizio tra l’anima di chi contempla, abbandonata e
ricettiva, ed il demone che genera / «ritornato a seé », l’estatico sa,
posto che sia in grado di riflettere, che il mondo dei dati di fatto eà

140
solo una chimera difficile da distruggere, che il mondo dei corpi eà un
mondo di simboli, ma che assolutamente reali sono i parti della
contemplazione fecondata dal mondo delle origini, al cospetto della
quale passare e morire significano trasformazione.
Ora si comprende bene percheé nessun’altra filosofia era cosìà
appropriata per attrarre gli entusiasti ed i poeti come la platonica
dottrina delle idee! Cresciuta dalla teologia orfica, essa sembra
offrirne il senso piuà intimo nel linguaggio di una piuà alta riflessione.
Anche per essa l’amante partecipa dell’anamnestica contemplazione,
perfino in comune con l’amato (!); ed in ogni caso, egli riottiene cosìà
la «vita eterna» della divinitaà originaria; ed anche qui fa spicco il
parlar per metafore di generazione e parto interni! Ma giaà la sola
proposizione per la quale cioà che eà contemplato sarebbe
«quell’essenza incolore ed intangibile e immateriale che in veritaà ha
un essere» svela all’esperto che qui, alla realtaà di sempre istantanee
immagini, eà stato sostituito lo pseudomondo di concetti reificati,
atemporalmente sussistente, e per il quale la pretesa
contemplazione svanisce in un’azione dialettica dell’intelletto!

1 EÈ il chor der Toten (Coro dei morti) di Conrad Ferdinand Meyer


(N.d.T.).
2 Minucio Felice, Ottavio, trad. it. di L. Rusca, Milano, 1957, p. 58.
3 Inni omerici, trad, it. di F. Cassola, Milano 1975, pp. 75-77.
4 [Cheà tutto in nulla cade distrutto, / se nel suo essere persister
vuol]. Sono versi della poesia Eins und Alles, qui nella trad. di B.
Croce (Goethe, Opere, Firenze, 1970, p. 1349).
5 Goeths, Il Faust, trad. it. di G. Manacorda, Firenze, 1949, vv
11408-11418.

141
VII. Conclusione su Eros e passione

Ed ora, abbiamo ancora una cosa sola da aggiungere: ma ad essa


premettiamo qualcosa che da lungo tempo eà stato dimenticato.
Conosciamo legami di interesse di molti, ed essi senza eccezione
poggiano sulla «volontaà di potenza» ostile alla vita; conosciamo
legami sentimentali di singoli: per amicizia, cameratismo, per lavoro
comune, per relazione amorosa, per asservimento sessuale;
conosciamo infine, come una cosa nobilissima e che possiamo
raggiungere, legami di principii dovuti alla comunanza
dell'entusiasmo per la cosa (Sache) sovrapersonale, e tale
entusiasmo dai canto suo scaturisce da una affinitaà vitale dei
caratteri. Ma perfino la forma di comunitaà di principii piuà disposta al
sacrificio, la coscienza di razza, nutrita del sangue di antichissimi
sentimenti di stirpe, ad uno sguardo attento si mostra affetta dal
segno degenerativo di una propensione all’astratto, e, ovunque si
presenti, ha giaà sempre percorso il cammino verso la partigianeria di
mere dottrine, convinzioni, formule etiche; per cui un uso linguistico
quasi popolare intende come «idealismo», e non a torto, il legame
piuà vivo di cui noi sappiamo ancora qualcosa! infatti, per esserne
preservato, dovrebbe essere accaduto tra i suoi seguaci cioà che agli
inizi di Eieusi eà stato cercato e presagito, ma verosimilmente non si eà
compiuto neppure laà : dovrebbe essersi rinnovata la fratellanza di
sangue, per l’unione dei suoi portatori nel mistero dell’Eros. Questo
solo, come annunciamo nuovamente, sarebbe l’Eros cosmogonico.
Ci si rammenti l'esperienza vissuta della contemplazione, cosìà
come abbiamo tentato di descriverla, e si pensi che due umani
l'abbiano subita in comune: entrambi sarebbero legati
simpateticamente dall'evento che porta il nome dell’Eros
142
cosmogonico! Che questo non si compirebbe mai per l’allacciamento
dei loro corpi, non c’eà piuà bisogno di dirlo; ma come potrebbe
nondimeno succedere, potrebbe svelarlo, senza commettere
empietaà , solo colui che fosse stato trasformato dal prodigio, e fosse
stato rapito tra gli dei. Se l’inaudito accadesse anche solo tra due
individui su centinaia di milioni, la potenza malefica dello spirito
sarebbe infranta, l’atroce sogno angoscioso della «storia mondiale»
sìà dileguerebbe, e «fiorirebbe un risveglio in correnti di luce».
Possiamo invece chiarire con poche parole qual eà il significato di
quell’amore «che supera la morte» che l’antichitaà non conobbe.
Abbiamo detto che per l’epopte la corporeitaà eà simbolo dell'anima
del mondo fluente d’immagini. Ora, chi non eà innamorato solo per
modo di dire, ma eà posseduto da profondissima passione — si pensi
all’amore di Solvejg per Peer — eà , in relazione all’oggetto del suo
amore, ugualmente miste con l’occhio del dio che crea il mondo, di
fronte al quale l’involucro si fende ed il velo del corpo inizia ad
ardere della luce dell’anima elementare. Infiammato dell’unicitaà del
suo essere, egli attraversa peroà l’umanitaà dell'amato con il raggio di
uno sguardo nel quale sta il suo demone. Questo — che eà comune
all’Eros dell’antichitaà e del medioevo germanico — non esclude che
lo splendore d’incanto che rispecchia l’immagine originaria non
tocchi, vagando, sempre nuove persone. Perfino la piuà breve durata
del legame erotico non contrasterebbe con la piuà compiuta
interioritaà , ed il massimo traboccare in doni si accorderebbe senza
contraddizione perfino con l’offrirsi dell’etera.
Ora, peroà , tanto piuà nell’oggetto dell’amore l’io si eà fuso con
l’anima, irrigidendo l’essenza in un conchiuso «carattere», tanto piuà
cresce anche il pericolo che il lampo della contemplazione attragga a
seé ed incanti il tormentoso enigma di una personalità. Il simbolo
viene scambiato e la persona viene elevata a dio al posto del dìo. In
veritaà , questa eà «idolatria», e con essa inizia la tragedia dell’Eros.
Determinato a fluire assieme alla fiamma dell’immagine, esso la
cerca invano nel seé umano dell’amato, e vuole fissare in un essere
spirituale e mantenere nella durevolezza dell’essere cioà che vive

143
soltanto nel liberato e liberante fiammeggiare dell’eternitaà
dell’attimo, che non puoà mai essere posseduto.
Cosìà sorge il pathos della «grande passione», che costringe gli
amanti a giurarsi fedeltaà «fino alla morte», fino oltre la morte, e che,
in senso metafisico, significa sempre destino. Infatti: se porta al falso
compimento del possesso corporeo, prima o poi si consumeraà (Faust
e Margherita!); se invece gli amanti vengono strappati l’uno all’altro,
vengono traditi, venduti, essi senza esitare abbandonano la vita per
il loro amore; ma nessun sacrificio, per quanto eroico, puoà vincere
l’onnipotente morte! simile in questo, tra tutte le diversitaà , all'amore
di Dio, che le rimane peroà superiore per la sua piuà profonda
partecipazione alla sacertaà dell’Eros, anche la «grande passione»
getta un ponte verso la fede nell’immortalitaà : per cioà che non si eà
compiuto «qui», bisogna sperare un compimento «lassuà ». Ma
«immortalitaà » eà soltanto il compimento chimerico di desideri
irrealizzabili, e l’ordine del mondo, di fronte al quale tutta questa
umanitaà eà una goccia nell'oceano dei tempi, passa, stritolandoli
inesorabilmente, anche sugli amanti senza possibilitaà di redenzione.
Il nimbo di sublimitaà che a buon diritto li avvolge non puoà
nasconderci che essi sono stregati in modo che lascino la vita senza
sfuggire ai sé. E cosìà, dalla inquieta immagine di una tormentata
grandezza umana ci volgiamo indietro al divino splendore di
cosmico respiro, come l’ha evocato il poeta:

«Welch feuriges Wunder verklàrt uns die Wellen,


Dìe gegeneìnander sich funkeind zerschellen?
So leuchtets und shwanket und hellet hinan:
Die Koà rper, sie gluhen auf naà chtlicher Bahn,
Und rings ist alles vom Feuer umronnen;
So herrsche denn Eros, der alles begonnen!»

[Qual igneo prodigio ci illumina il mare? / Fa l'onde, che cozzan


tra lor, scintillare? / Riluce, vacilla, divampa vivace, / nel correr

144
notturno fa i corpi dì brace ! /É tutto all'intorno di fuoco cerchiato ! /
Sia d'Eros l’impero: tutt’ha cominciato!]1

1 Goethe, Canto delle Sirene da II Faust, trad. it. di G. Manacorda,


Firenze, 1949, vv. 8474-8478.

145
Appendice

1. Alcuni decenni fa all’autore fu fatta notare l’importanza di


questo passo di Nietzsche dalla persona piuà esperta dei misteri
dell’antìàchitaà che egli abbia incontrato, Alfred Schuler. Uno scambio
di idee proseguito per anni portoà anche a un parallelismo delle
ricerche che rende oggi difficile, se non impossibile, stabilire, per
ogni espressione caratteristica, a quale dei due appartenga. Ma in
ogni caso deriva da Schuler la locuzione, che incontreremo piuà tardi,
dell’«Eros della lontananza», come anche la «dimidietaà » di pag. 61.
Prima della fine dellultimo secolo, quando cioeà questo non
corrispondeva affatto ad una moda, egli indagoà espressioni
«essenziali» del secondo Faust, ed illuminoà il senso profondo di
numerosi passi, alcuni dei quali sono a loro volta adatti a convalidare
alcuni nostri risultati.
Per quanto riguarda il tentativo finale di inquadrare la ricerca di
Schuler sui misteri nella scienza dell’antichitaà quale si eà svolta fin
qui, bisogna subito ricordare cioà che inesorabilmente bolla ogni
tentativo di questo genere come mero ripiego. Il cosìà chiamato
sapere, cioeà (intendendo la parola nel senso pieno di una «gnosi»),
che per il metafisico eà il materiale piuà prezioso per il suo edificio di
pensieri, non ha lo stesso valore per il suo configuratore e
scopritore. In Schuler incontrammo l'apparizione, verosimilmente
unica tra i contemporanei ma certamente anche estremamente rara
nella «storia mondiale», di un indubbio ritorno di brividi di vita già
vissuti nel passato, o, per parlare in modo piuà chiaramente simbolico,
della reincarnazione di mai spente scintille di un lontano passato,
tale che il suo portatore non avrebbe mai potuto trovare
compimento in opere, bensìà soltanto nel rifondere questo presente
146
del tutto disseccato in un tempo lontano da lui rievocato. E solo in
quanto accadde inoltre, ed eà l’unico caso di cui siamo a conoscenza,
che colui che in tal senso era rinato avesse anche la forza necessaria
per divenirne conscio, egli divenne decifratore del senso nascosto di
piuà di una antichissima runa ed abbandonoà alla parola non scritta, in
modo prodigo quanto sconsiderato, cioà che per lui soltanto poteva
significare una successione quasi ovvia di una tradizione rivissuta.

2. Si vede qualcosa di piuà preciso nel capitolo II portatore di


coscienza del nostro scritto Dell’essenza della coscienza. La cosa eà
spiegata poi in modo del tutto esauriente nella nostra opera
principale, Lo spirito come avversario dell’anima.

3. Non facciamo cosìà che ripetere una delle convinzioni piuà


antiche di quasi tutta l’umanitaà . La metaà piuà malvagia della
maledizione con la quale Jahwe scaccia dal paradiso, dal luogo di
delizie ottenute senza fatica, Adamo ed EÈ va, eà la condanna a dover
lavorare per conservare la loro esistenza. Ponos per i greci era
egualmente lavoro, fatica e bisogno. Parimenti «Arbeit» (lavoro)
significava originariamente tormento, disturbo, e comparve nella
locuzione «Arbeit leiden» (patire travagli). I germani diedero questo
lavoro ai servi, per cui la parola ebbe il significato collaterale di
«lavoro servile». Il concetto di lavoro si unìà cosìà alla
rappresentazione della costrizione al lavoro, ed il lavoro coatto piuà
inevitabile che c’eà eà quello per la mera esistenza. Soltanto quando
per larghe masse fu richiesto tale lavoro (e deve venir richiesto),
affiorarono quelle dottrine ostili alla vita per le quali il lavoro, come
fine a se stesso, sarebbe avvolto dal nimbo di un significato piuà alto.
Contro tali dottrine si leva la nostra critica, senza per questo
sostenere la poltroneria. L’ozio eà stato possibile cum dignitate
nell’antichitaà , e lo eà ancor oggi presso periferici «popoli primitivi»,
mentre presso l’uomo «civilizzato» se certamente non eà sempre
«padre dei vizi», significa peroà realmente malessere psichico.
L'ozioso «gaudente» delle grandi cittaà sta su un grado vitale molto

147
piuà basso dello stesso lavoratore coatto. Lo stato relativamente piuà
naturale e percioà piuà felice dell’uomo contemporaneo eà il lavoro al
servizio dell’opera, per la gioia del farlo, con esaltazioni nelle pause.
Tale lavoro eà una forma di passione!

4. Dalla descrizione, influenzata da Nietzsche, che ne daà Rhode


nel secondo capitolo del secondo volume della sua Psyche.

5. Simili interpretazioni di attributi simbolici non possono


essere intese come se trasportassero un contenuto simbolico nel
contenuto di un giudizio. Un’infinitaà di giudizi esatti esaurisce il
simbolo tanto poco quanto esaurisce la realtaà stessa! nel rapporto
col simbolo, il concetto puoà solo illuminarlo unilateralmente e per
l’intelletto. Per il resto, l’originarietaà di un simbolo eà indipendente
dalla sua etaà . L’arco come attributo dell’Eros compare solo nel
quarto secolo (e non di rado con la fiaccola in un uso funerario),
mentre gli accessorii di gran lunga piuà vecchi del dio sono i fiori e la
lira. Ma questo non tocca la genuinitaà di simbolo dell’arco.

6. Cfr. Kropotkin, Gegenseitige Hilfe in der Tier - und


Menschenwelt. (Il mutuo appoggio nel mondo umano e animale), pag.
100. Il libro offre, assieme a una teoria errata, ricche prove di
rapporti simbiotici di animali ed uomini, dai tempi piuà antichi come
da tempi piuà tardi.

7. Citato da Bòckel, Psychologie der Volksdichtung [Psicologia


della poesia popolare], p. 91

8. Con il destinatario di una lunga serie di lettere mitologiche si


era svolto uno scambio di opinioni fin troppo prolisso sul motivo per
cui sollevare il velo dell'immagine di Iside porta alla rovina; e ci si
riferiva alla nota ballata di Schiller. Poicheé potrebbe risultare non
sgradito a qualche lettore, riportiamo letteralmente lo scritto con il
quale l’autore il 25 luglio 1919 respinse l’aberrante opinione del

148
destinatario (che conosceva l’«Eros cosmogonico»). Anticipiamo
cosìà, per il lettore che sia arrivato fin qui, qualcosa del prossimo
capitolo dell’«Eros».
Percheé sollevare il velo dell'immagine di Iside porta alla rovina?

Sembra conveniente, nel rispondere aita questione del titolo,


attenersi dapprima alla ballata di Schiller. Anche se la sua
conclusione presenta una svolta fortemente moralistica,
sicuramente estranea all’antichitaà , la parte essenziale della risposta
potrebbe riguardare l’una e l’altra cosa: l’accezione dell’antichitaà e
quella di Schiller.
L’interpretazione che c'eà giaà eà la Sua; e potrei anche non
chiamarla interpretazione, se il pensiero che vi eà espresso fosse in seé
e per seé giusto: ma non eà cosìà. Iside, cosìà Ella afferma, sarebbe la
«Madre Natura che creativamente tesse», e chi con la violenza
solleva il suo velo verrebbe «sommerso dalla pienezza di uno
scatenato mondo di sogno», e spiritualmente distrutto. Senza voler
rigettare l’espressione «Madre Natura che creativamente tesse», mi
permetto peroà di notare che essa ha qualcosa di pericoloso. Essa
infatti dice tutto e non dice nulla! «Natura» in un tale contesto eà uno
di quei concetti vaghi con i quali ognuno puoà pensare quel che gli
pare. Sotto «pienezza creativa» uno si rappresenteraà una foresta
vergine, un altro una passione d’amore, un terzo un tifone, un quarto
un cielo stellato, mentre i meno filosofici efesii pensavano ad una
donna dalle cento mammelle! la formazione naturalistica del
concetto indulge ad una predilezione per le universalitaà che tanto
piuà le introduce nella fisica, tanto piuà le allontana dall’esperienza
vissuta. «La pienezza di uno scatenato mondo di sogno» puoà essere
invero pensata, ma non intuita, mentre una determinata immagine
di Iside, della Sfinge o di Artemide efesia puoà essere sognata,
fantasticata e anche rappresentata mentalmente.
Ma anche se si prescinde dall’indeterminatezza del soggetto della
frase, ritengo comunque che sia del tutto impensabile, e che non sia
mai stato seriamente sostenuto, che l’essere sommerso dalla

149
pienezza della natura produca un’infermitaà per tutta la vita. Tale
esser sommersi sarebbe pur sempre qualcosa di estatico, e per
quanto nell’ondeggiamento estatico alla piuà alta beatitudine sia
mescolato un profondissimo orrore, si potrebbe provare, grazie a
molte testimonianze dei popoli e delle epoche piuà diverse, che tutti
quelli che, desti, lo ricordano, immancabilmente desiderano riavere
l’attimo dell’estasi che a loro eà toccata, in quanto attimo di grazia.
Apuleio, l’iniziato ai misteri di Iside, descrive con le seguenti parole i
sentimenti che in lui furono ispirati, dopo l’illuminazione, dalla vista
dell’immagine della dea nel tempio di Iside (secondo la traduzione di
De Jong, che citiamo anche altrove in questa lettera): «Restai lìà
qualche giorno ancora godendo con ineffabile gaudio la
contemplazione del divino simulacro, in quanto mi sentivo vincolato
da un benefizio di cui non avrei mai potuto sdebitarmi... mi
prosternai finalmente al cospetto della dea e piangendo a calde
lacrime detersi col mio volto i suoi piedi, poi interrompendo il mio
discorso con frequenti singhiozzi e smozzicando le parole cosìà
parlai: — O santa, o eterna protettrice del genere umano, sempre
prodiga delle tue grazie per sollievo dei mortali, o tu che tributi il
dolce affetto di una madre alle afflizioni dei miseri, non un giorno,
non una notte, non un minuto trascorre privo dei tuoi benefici; cheé
anzi per mare e per terra proteggi gli uomin, e, fugate le tempeste
della vita, porgi loro la tua soccorrevole mano. Con questa mano tu
sciogli anche le fila dei Fati inestricabilmente attorte, mitighi della
Fortuna le procelle e freni i funesti influssi delle stelle. Te i Superi
adorano e gli Inferi inchinano riverenti; tu muovi nel suo giro la
terra, daà i lume al sole, reggi il mondo, al Tartaro sovrasti. Da te
ricevon legge gli astri, per te ritornan le stagioni, per te son felici i
numi, a te obbediscono gli elementi. A un tuo cenno spirano i venti,
si alimentano le nubi, germinano i semi e i germi crescono. Della tua
maestaà hanno un sacro terrore gli uccelli che attraversano il cielo, le
fiere che vagano pei monti, i serpenti che si nascondono nella terra, i
mostri che nuotano pel mare. Ma il mio ingegno eà troppo esile per
poter cantar le tue lodi, il mio patrimonio troppo tenue per poterti

150
offrire degni sacrifici; e mi manca l’esuberanza della voce per dire
quel che sento della tua maestaà , ma non mi basterebbero nemmeno
mille bocche, altrettante lingue e un getto incessante e indefesso di
parole. Quindi procureroà di fare cioà che soltanto puoà fare un uomo
religioso che d’altra parte sia povero: custodire cioeà perpetuamente
il tuo divino volto e il tuo santissimo nume nel segreto del mio petto,
e tenerne sempre presente l’immagine —».1
Tali parole emanano rapimento ed eterna memoria. E la
sensibilitaà , a tal riguardo incomparabilmente piuà vaga, dell’uomo
moderno, potrebbe al massimo sentirsi rimandata ai versi di Wagner
nel Tristano e Isolda:

«In des Weltatems


Wehendem All —
Versinken —
Ertrinken —
Unbewusst —
Hóchste Lust!»

[Del respiro del mondo / nell'alitante Tutto ... / naufragare, /


affondare... / inconsapevolmente ... / suprema letizia!]2

Forse, all’opinione, per me difficilmente comprensibile, per cui


proprio questa esperienza vissuta avrebbe portato all’indiscreto
giovinetto di Sais il precoce avvizzimento, ha contribuito, in modo
fuorviante, la mia precedente esposizione sull’autodilaniamento
estatico, sulla quale torneroà brevemente sotto.
Se quindi non posso riconoscere giusta la proposizione che eà alla
base della Sua interpretazione, non vedo poi assolutamente come
essa possa essere applicata al contenuto della ballata di Schiller. La
poesia inizia cosìà:

«Ein Jungling, den des Wissens heisser Durst


Nach Sais in àgypten trieb, der Priester

151
Geheìme Weisheit zu erlernen, hatte
Schon manchen Grad mit schnellem Geist durcheìlt;
Stets riss ihn seine Forschbegierde weiter,
Und kaum besànftigte der Hierophant
den ungeduldig Strebenden»,

[Ardente sete di saver condusse / alla egizia Saide un


giovinetto, / ove apparar la mistica dottrina / de’ Sacerdoti
confidava. In breve / dell’arcana scienza avea raccolto / qualche bel
frutto. Ma l’ingorda brama / oltre ognor lo spronava, e mal frenarla /
potea l’Ierofante].3

Con questo ci viene chiaramente detto che si tratta di ottenere un


sapere segreto. In senso stretto, non abbiamo piuà motivo di chiederci
in che cosa consista l’essenza di Iside, o che cosa ci sia dietro il velo
della sua immagine. Perché ce lo dice il poeta stesso. Secondo la
testimonianza dello ierofante, vi si nasconde cioà che recherebbe al
giovinetto il compimento della sua brama di sapere, se a lui fosse
dato di sollevare il velo: la verità ! Possiamo pur sempre sollevare la
seconda domanda: in che cosa consiste propriamente questa veritaà ?
Ma la nostra domanda principale deve essere: percheé voler sollevare
il velo della veritaà che si nasconde porta alla rovina?
Incontestabilmente rimaniamo fedeli all’ispirazione del poeta, se
provvisoriamente chiamiamo il mistero del mondo una veritaà che,
per la sua incantevole vivacitaà o percheé eà protetta dalla piuà potente
delle dee, si sottrae alla brama di ricerca degli umani. Dobbiamo
percioà stabilire, nello spirito della ballata: chi cerca di scandagliare il
mistero del mondo eà empio nei confronti dei diritti della dea, e deve
sopportare le terribili conseguenze di tale empietaà .
Schiller dice che chi alza il velo della dea vede il mistero del
mondo. Ora, se dietro il velo si trova il numen di Iside, o la dea stessa
eà tale mistero, oppure essa deve essere in grado di rivelarlo
intuitivamente. EÉ indubbio che il mistero diverrebbe visibile a colui
che alzasse il velo che lo copre. Ecco che ci chiediamo se in seé e per

152
seé la vista del mistero porti rovina all’uomo. Prima di vedere quale
indicazione per la risposta ci venga dalla ballata di Schiller,
esaminiamo l'opinione degli antichi: ed ecco due risultati che si
integrano a vicenda.
In primo luogo, per l’opinione dell’antichitaà (come, del resto,
anche della maggioranza dei «popoli primitivi»), la vista degli dei eà
pericolosa per l’uomo. Nelle Argonautiche orfiche, di Artemide —
Ecate (un’altra forma di Iside) eà detto:

«Terribile a vedersi,
e terribile a udirsi per gli umani,
se non si adducono a pretesto i riti,
se non si offrono sacrifici espiatori».

Nel cosiddetto Libro sacro, chiamato Monas, ovvero l’ottavo libro


di Mosé sul santo nome, si dice: «quando entra il dio, non fissarlo con
lo sguardo, ma guarda in direzione dei tuoi piedi». Chi poi, non
essendo iniziato, eà testimone delle sante cerimonie, incontra la
morte terrena e quella eterna. Cosìà ci viene raccontato di un uomo
che era entrato furtivamente, per curiositaà , e che divenne pazzo per
cioà che di terribile gli si presentoà , per poi morirne poco dopo; e
Livio, nella sua Storia di Roma, ci riferisce di due giovinetti acarnani
che, sebbene fossero presenti soltanto per un perdonabile errore,
dovettero pagare subito con la vita la loro involontaria
partecipazione.
In secondo luogo peroà sappiamo, e l’abbiamo appena visto
confermato da Apuleio, che ogni iniziazione aveva compimento
nell'epoptia, cioeà nella contemplazione. Al miste contemplante si
svelava la divinitaà e, cosìà, proprio quel mistero che si sottraeva,
minaccioso, allo sguardo del non iniziato. Apuleio si esprime cosìà al
riguardo: «Io ho attraversato le porte della morte. Mi sono avvicinato
agli dei inferi e superi, e li ho adorati faccia a faccia». Anche la dote
decisiva di maghi, negromanti e teurgi era quella di sopportare la
vista delle potenze demoniache, di far parlare, con il loro aiuto, i

153
morti, e di operare rari prodigi. La vista del mistero non eà dunque
dannosa in assoluto, ma solo per il non iniziato! ma in che cosa
consisteva l’iniziazione?
In Schiller, lo ierofante annuncia che la divinitaà ha detto: «nessun
mortale sposteraà questo velo, fincheé io lo sosterroà ». Ora, ogni
iniziazione viene ricevuta, e questo significa che eà la divinitaà stessa a
darla all’iniziando. E tale ricevere viene rappresentato, in tutti i riti
segreti del mondo, come genuino concepimento, come gamos con la
divinitaà , nel quale l’anima del miste eà la metaà femminile. Ho esposto,
in parte nelle «lettere mitologiche», in parte nell’«Eros
cosmogonico», come le sante nozze significhino una mistica
trasformazione: il contemplante, accogliendo in seé il dio, (di solito,
sotto il simbolo del pasto rituale), diviene egli stesso dio, e da allora
il mistero non è più fuori di lui. Cosìà si comprende anche percheé nei
papiri magici d’Egitto il teurgo dica di se stesso: «lo sono Osiride, che
viene chiamata l’acqua, io sono Iside, che viene chiamata la rugiada».
La contemplazione del mistero avviene solo sulla base di quel
divenir uno con la divinitaà che, all’opposto dell’accoppiamento
profano, non toglie la dualitaà dei poli. Ma di essa l’uomo diviene solo
partecipe, ed in uno stato estremamente patico: in uno stato che,
commisurato al senso dell’azione dell’io diurno e desto, appare come
suo annientamento, e percioà come morte, «lo ho attraversato le
porte della morte...»
Ricordiamo un attimo come l’intera tradizione dei riti segreti
dovette essere Assorbita dalla chiesa cristiana degli inizi, affincheé la
propaganda della religione giudaica fosse efficace tra i pagani. «In
veritaà , in veritaà vi dico, che se non mangerete la carne del figlio
dell'uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi»
(Giov. Ev. 6,53). Inoltre: «Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue, rimane in me, ed io in lui» (Giov. 6,56). Ancora: «Chi mangia
la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna » (Giov. 6,54). E
poi, comunione = unione, cioeà unione con la divinitaà ! ma ricordiamo
anche queste parole: «Chi, essendone indegno, mangia questo pane
o beve dal calice del Signore... mangia e beve il proprio castigo» (1.

154
Cor. 11, 27-29). Esattamente come nei riti segreti pagani, nella cena
cristiana ia carne ed il sangue santi portano la vita eterna a chi puoà
riceverli, il castigo eterno a chi non puoà . Ora, torniamo alla ballata di
Schiller, e cerchiamo di chiarirci in che cosa consista, in base alle sue
indicazioni, l’indegnitaà del non iniziato.
Percheé il giovinetto vuole alzare il velo? Per brama d’indagine, o,
detto in modo piuà sobrio, per curiosità. Tra l’impulso alla ricerca e la
curiositaà non c’eà differenza essenziale. Entrambi scaturiscono da
un’inquietudine dell’intelletto; e l’intelletto eà reso inquieto da ogni
cosa che non possiede ancora. L’impulso conoscitivo eà impulso di
appropriazione, quand’anche impulso di appropriazione dello
spirito in noi. Chi vuole indagare il mistero del mondo, vuole
conquistarlo (all’opposto del miste, che si daà e viene conquistato); e
cioà di cui lo spirito si impadronisce perde immancabilmente
l’incanto, e viene percioà distrutto, se per essenza era un mistero. La
volontaà di conquista spirituale eà empietà contro la vita, e per questo
l’empio eà colpito dalla reazione vendicatrice della vita. Questa
affermazione rimarraà vera fincheé ci saraà un'umanitaà , ed avraà avuto
terribile conferma quando l’umanitaà degenerata infine saraà morta
per il razionalistico disincantamento della vita.
Con questo avremmo risposto alla nostra domanda pricipale, ed
ora possiamo porre la seconda: che cosa vide propriamente il
giovinetto? Schiller ebbe abbastanza gusto da non descriverlo, anche
se, come si vedraà , cioà sarebbe stato possibile. L’intera poesia
permette soltanto una risposta sul senso di cioà che il giovinetto vide.
Il giovinetto vide di colpo la veritaà che si offre come ultima ed
estrema all’intelletto ricercatore. Ma che tipo di veritaà eà ?
Si segua la storia dello spirito, ed in particolare deile scienze,
attraverso tutte le epoche e tutti i popoli; oppure si pensi fino in
fondo anche solo a un problema, come ce lo espone la scienza piuà
tarda, quella di oggi: per esempio che cos’eà la materia, che cos’eà la
forza, che cosa il mondo esterno, l’anima, ecc., ed immancabilmente
si finiraà nell’assoluto nulla. Tutte le direzioni dell’impulso
conoscitivo convergono nel nulla, (cioeà nella proiezione del nulla

155
attivo, dello spirito), e nel suo complesso il tendere alla conoscenza,
dopo audaci tentativi costruttivi dovuti ad appassionati inizi, ha
sempre chiuso la sua carriera nel dubbio universale. La volontaà di
una veritaà commisurata all’intelletto eà la volontaà di privare di realtà
il mondo. Il giovinetto che d’un balzo espugnoà la meta che soltanto la
curiositaà dell’intelletto puoà espugnare vide l’eterna morte, il nulla
che inghiotte spazio e mondo!
Ma come poteà mostrargli questo la divinitaà della vita? Per quanto
a tutta prima possa sembrare strano: essa, e soltanto essa, puoà
indicarla all’uomo. Lo spirito in quanto tale sta al di fuori della vita:
per esso il nulla eà posizione, e percioà identico col «tutto». Solo se eà
rigettato dalla vita, esso si rappresenta: come mancanza di scopi,
mancanza di senso, mancanza di frutti, distruzione e nullitaà eterna
sotto ogni rispetto. La vita stessa appare ora nella figura di un
autoannientarsi privo di inizio e di fine. Ma riflettiamo, anche senza
problematica scientifica, su quello che ci offre la realtaà , quando ci
avviciniamo ad essa con le esigenze dello spirito! abbiamo raggiunto
una felicitaà , ed ora dovrebbe durare: ma durata e felicitaà si
escludono a vicenda! ed anche se non si tratta di felicitaà : quale fine
potrebbe porsi un mortale, del quale non sia del tutto certo che esso
in breve tempo saraà passato? Ed egli stesso, che pone fini e ad essi
tende, tra poco saraà polvere, priva di coscienza. E la cura per la
famiglia, per i bimbi? Anche i figli, ed i figli dei figli, diverranno
polvere, ed il piuà grande «patrimonio» di oggi domani saraà preda
delle tarme e della ruggine. E render felice e migliorare l’umanitaà ?
Ma per che cosa? Non si allontana cosìà l’infelicitaà che eà stata, ed i
posteri malediranno e strapperanno come catene cioà che i presenti
hanno loro donato. Da cinquemila anni certamente nell’umanitaà
dolore e bisogno sono cresciuti smisuratamente! ed anche se non
fosse cosìà: questa intera umanitaà un giorno non ci saraà piuà . E con
essa saranno cancellati tutti i capolavori umani, anche le piramidi,
anche i canti di Omero, anche le composizioni di Beethoven. E
dedicarsi alla protezione della natura? Nel giro di due generazioni al
massimo tutti i parchi naturali saranno capitalizzati, e anche se cosìà

156
non fosse un giorno ogni vita scompariraà , la terra stessa
presumibilmente si lanceraà contro il sole e vi bruceraà , o troveraà in
altro modo la sua fine. Come eà cominciato, cosìà finiraà tutto il nostro
sistema solare; e perfino l’universo, comprese le estreme galassie
lontane migliaia di anni luce, che solo la lastra sensibile di telescopi
giganteschi ci rispecchia, eà di durata limitata. Dietro ogni inseguire
allettanti mete, dietro il violento frastuono diurno della vita umana e
di quella cosmica, attende, certa della vittoria finale, la notte della
morte. Detto con le parole di un mistico: «La vita si dilegua come un
cerchio di ombre; sul fondo, dietro al suo rosso vortice, stanno sonno
e oscuritaà ».
Quella che ho espresso qui per accenni eà la veritaà dell’intelletto
compiuto, cioeà disperato, che piuà di una volta ha avuto i
suoi apostoli, come ai tempo del Budda, e come nel secolo passato,
quando uno Schopenhauer, un Byron, un Leopardi (in fondo, dopo
l’esempio di Shakespeare) poterono riprendere con successo la
tradizione del nirvana. Questa fu la veritaà che la vita, toccata da mani
empie, rizzoà contro il giovinetto di Sais nella forma di un simbolo
terribile. Egli vide l’eterna morte, l’eterna mancanza di senso,
l’eterna vanitaà ! e, come lui, alla fine troveraà questo chiunque abbia
scelto come guida l’indiscrezione del dispotico intelletto, invece di
sacrificarla alla divinitaà .
Se infine ci si vuol rappresentare com’era il simbolo che poteà
comunicare in un istante tutto questo, se ne cerchi il modello nelle
figure piuà impressionanti della danza macabra di Holbein! del resto,
eà sempre questo simbolo che la religione del cristianesimo, ostile al
mondo, da duemila anni si sforza di raffigurare: il senso della vita
come autocrocifissione della creatura! chi se ne vuol convincere
all’istante, veda la nota immagine della crocifissione del pittore
medievale Grunewald. Lo stato d’animo di chi eà insensatamente
torturato a morte come stato d’animo della vita in generale: questo eà
il suo pessimistico contenuto. La «guerra mondiale» di ieri, con
milioni di uomini orribilmente dissanguati, potrebbe facilitarci

157
l’avvicinamento alle visioni di un Grunewald. E cosìà ci avviciniamo
anche a cioà che il giovinetto di Sais scorse.

4
«lhn riss ein tiefer Gram zum fruhen Grabe».
[Ed un muto dolor lo pose in breve / nella tomba].

Per colui che sta di fronte ad essa considerandola spiritualmente,


la realtaà non eà tanto tragica quanto piuttosto di una atrocitaà
inimmaginabile: Gorgone Medusa!
Giunto cosìà in laà , posso ora spiegare la particolare piega che
avevo dato all’interpretazione dell’empietaà contro l’immagine di
Iside nell’«Eros cosmogonico». Che cosa fa l’intelletto a tutto cioà di
cui realmente si appropria? Lo si eà detto spesso: conta, pesa e
misura. Ma che cosa accade in tal modo alla vita? Essa
perde l’incanto. Nelle fiabe, e per i bimbi, ci sono laghetti e
sorgenti insondabili: ma l’intelletto trova il fondo — a trenta braccia
—, e per l'insondabilitaà eà finita. Nei miti, e per i «popoli primitivi»,
schiere di demoni cavalcano le nubi nella tempesta: per l’intelletto eà
vapore acqueo sospeso, che segue, senz’anima e meccanicamente, il
meccanismo a sua volta calcolabile delle correnti d’aria: e cosìà per
l’intero mondo interno ed esterno.
Invece di «privare dell’incanto» (entzaubern) possiamo anche
usare, positivamente, «reificare» (verdinglichen). Ma cioà che eà
reificato si lascia trasportare a distanze che permettono una chiara
osservazione, e puoà essere toccato, preso, catturato: di qui l’uso di
«capire» e di «afferrare» per la funzione dell'intelletto, e di qui, da
tempi piuà pii, l’empietaà come «toccare» immagini sante! e cosìà si puoà
ora intuire come il disincantamento del mondo conista nel
cancellare il suo contenuto di lontananza. Gli impulsi umani sono
Eros nella misura in cui partecipano dell’Eros cosmico; ma l’Eros
cosmico eà Eros della lontananza. Percioà , negando il carattere di
lontananza, l’impulso al possesso uccide l’Eros, e con esso il nimbo
del mondo, e la realtaà stessa. Ma questo rimane il mistero I e il

158
sapere che dona felicitaà del miste: contemplare la sacra immagine
nella sua lontananza pur fondendosi con essa. Egli vede «splendere
il sole a mezzanotte».

9. Sebbene questo ed altri passi del libro non lascino dubbi che la
nostra critica non eà mai rivolta contro la varietaà dei godimenti
umani, alcuni lettori, pur attenti, pensano che si debba svalorizzare
l’impulso sessuale. Il nostro scritto non tratta di sesso, bensìà
dell’Eros, e ancora, non dell’Eros in modo universale, ma dell'Eros
cosmogonico. Con la seguente aggiunta sul problema del I sesso
speriamo di prevenire per il futuro tali malintesi, pur nella
inevitabile manchevolezza dell’esposizione.

Su sesso ed Eros

Poicheé l’uomo civilizzato, senza saperlo o anche solo supporlo,


sta con i suoi giudizi sotto il millenario influsso del cristianesimo,
capita che taluno, che senza fatica abbia aderito alla nociva ed errata
dottrina platonica dell’«amore terreno» e dell’«amore celeste», tenti
invano poi di capire in che cosa l’Eros sia diverso dal sesso. Uno
Schopenhauer non ne ebbe il piuà lieve presagio, ed un Nietzsche
ebbe appena quello. Egli seppe della capacitaà dìà ebbrezza dell’anima
stessa e, assieme, di tutto il corpo con i suoi organi, ma non seppe
mai riflettere a questo, che l’eccitazione localizzata degli organi
sessuali e la loro speciale relazione con la voluttaà pongono un
enigma. Scegliamo un esempio che potrebbe trovare risonanza
almeno in ogni lettore maschio, per poter tenere distinti almeno i
campi di apparizione dei due moti. Ci si ricordi l’ebbrezza estatica e
mista a dolore nella quale talvolta il primo annuncio di profumo di
violette in primavera ha potuto trasportarci, e poi gli inquietanti ed
eccitanti allettamenti che ci sono venuti dagli sguardi, dai gesti e
dagli atteggiamenti provocanti di una fascinosa canzonettista: se si
troveraà che questi due stati sono molto piuà sìàmili tra loro di quanto

159
oguno di essi sia simile agli effetti di una notizia ferale, non si esiteraà
peroà un solo istante a riconoscerne la grande differenza. Entrambi
sono terreni da cima a fondo, e ci guarderemo dall’attribuire loro
prematuramente dei valori. Vediamo peroà una cosa: nel primo moto,
che in via di prova riteniamo erotico, (ora peroà senza relazione
all’Eros cosmogonico) c’eà un’attrazione forte, ma indeterminata, ma
nostalgia colma di presagi; nel secondo, del cui carattere sessuale
nessuno dubiteraà , c’eà un’esigenza non meno forte, ma determinata,
una brama ricca di promesse. Possiamo tenere sempre questo in
mente, anzi, dobbiamo chiederci:

1. L’Eros viene dal sesso, o eà vero il contrario?


2. Provengono entrambi da una radice comune?
3. Sono diversi per qualitaà e provenienza?

Oggi eà giaà tanto se si riesce a indurre anche solo a queste


questioni qualcuno, invece di trovare giaà pronte certezze dovute a
pregiudizi, senza la minima coscienza della loro problematicitaà ; cheé
solo cosìà egli saraà in grado di riconoscere come tali i pregiudizi, e di
verificare eventuali tentativi di soluzione. Fidando in questo,
offriamo il nostro tentativo di soluzione, con poche prove e talvolta
in maniera puramente dogmatica, percheé una trattazione esauriente
richiederebbe uno spazio considerevole.

1. L’opinione per la quale l’Eros viene dal sesso eà dovuta ad un


errore che eà favorito dall'abitudine al concetto di energia della fisica.
Le energie, ma non le qualitaà , possono rimanere identiche in diversi
campi di apparizione; e l’opinione per la quale il sesso in certe
condizioni diventa Eros ha tanto senso quanto l’avrebbe quella per
cui una fame insaziata talvolta si puoà trasformare in sete. Cioà che
oggi di preferenza viene chiamato sesso «sublimato» eà e rimane
sesso, anche se per esempio ha preso, in una vecchia zitella, la forma
di un esagerato amore per un micio o per un cane bassotto. EÉ poi
un’altra cosa la circostanza inoppugnabile che il ripetuto

160
abbandonarsi ad un moto accresce immancabilmente il bisogno di
quel moto. Chi suole mangiare molto, ha cosìà senza intenzione
accresciuto la propria fame, e chi suol bere molto, la sua sete. Piuà
illuminata sarebbe l’opinione opposta, per la quale il sesso
proverebbe dall’Eros come da una capacitaà di voluttaà del corpo nel
suo complesso per mezzo di una limitazione alla capacitaà di voluttaà
soltanto degli organi sessuali, in breve per una specializzazione. Ma
su questo ritorneremo.

2. Ma cosìà si eà anche risposto no alla seconda domanda. Una


fonte comune per Eros e sesso c’eà tanto poco come potrebbe esserci
una terza cosa che venisse ad apparire ora come fame ora come sete.

3. Puoà solo essere sostenuta ora la risposta affermativa alla


terza domanda: Eros e sesso sono diversi per essenza e richiedono
fondamenti diversi per essenza.

Ma se eà cosìà, deve essere possibile scoprire una metafisica anche


del sesso, per quanto poco abbia da dire al proposito la storia del
pensiero fino ai giorni nostri, che con le sue meditazioni al riguardo
ha solo sfiorato ia cosa, e nell’impulso sessuale, per quel che lo
prende in considerazione, spiega regolarmente cioà che si adatta di
volta in volta alle rimanenti concezioni del filosofo in questione.
Mentre per esempio uno Schopenhauer con la sua «metafisica
dell’amore sessuale» indulge ad una mitica dottrina finalistica che
sembra tagliata su misura per i bisogni di allevatori di bestiame,
Nietzsche osa audacemente il contrattacco: «L’enorme importanza
con la quale l’individuo prende l'istinto sessuale non eà una
conseguenza della sua importanza per la specie; il generare eà
piuttosto l’operazione propria dell’individuo, e quindi il suo piuà alto
interesse, la sua massima espressione di potenza». (Wille zur Macht,
kl. Ausg., nr. 434). Ma poicheé egli non tenta mai di mostrarci nella
voluttaà sessuale un’espressione di potenza (di chi, in che riguardo,

161
su chi?), dobbiamo riconoscere rassegnati che ci ha parlato del suo
principio favorito, e che non ha mancato di ritrovarlo nel «generare».
Gli accenni ai quali ci siamo limitati servono interamente a
chiarire le relazioni tra sesso ed Eros.
La diversitaà d’essenza dei due moti favorisce la possibilitaà di
disturbi opposti, ma non esclude la possibilitaà della loro unione.
Grandi poeti hanno spesso provato a descrivere questo caso, e
l’hanno fatto in modo cosìà suadente che non si puoà piuà dubitare della
sua possibilitaà , sebbene l’accentuazione per lo piuà tragica
difficilmente sia casuale. Per entrambe le cose, si confronti
soprattutto Stifter. Ma noi abbiamo due modi di rappresentarci il
dato di fatto sia dei casi migliori sia di quelli di disturbo, e cosìà i
criteri principali dei due moti.
Se l’Eros riposa sulla polaritaà dei «geni», «immagini originarie»,
«anime», o come li si voglia chiamare, di coloro che sono afferrati da
esso, in rapporto ad esso dobbiamo ritenere la polaritaà che motiva
attrazioni sessuali «piuà astratta», cioeà piuà staccata dalla natura unica
nel suo genere del portatore di sesso. Invero non saraà mai priva, e
specialmente nell’uomo, della scelta individuale, percheé anch’essa
non puoà fare a meno di passare per le immagini, peroà , in quanto
sensibile all'unica e medesima onda di eccitazione universale, e in
quanto espressione della vitalitaà di una zona soltanto del corpo, saraà
essenzialmente indifferente nei confronti dell’interioritaà e delle
anime (in senso stretto). L’Eros puoà fiorire al di fuori dell’attrazione
sessuale, e l’attrazione sessuale puoà ben accadere senza l’Eros. Ma se
si intrecciano, il caso migliore, quello della loro unione e del «grande
amore» con diversitaà di sesso degli amanti, si presenteraà soltanto se
l’attrazione sessuale si associa solamente all’Eros giaà desto e
determinante, quindi alla polaritaà dei geni, e se rimane poi
dipendente da questa, in modo duraturo, come una polaritaà parziale
di second'ordine; ed infatti il sentimento fondamentale di coloro che
sono legati cosìà, quale sempre di nuovo ci viene descritto dai poeti, eà
quello di un incontro voluto dalle stelle e di una enigmatica affinitaà
dovuta alla provenienza di entrambi da una comune patria delle

162
anime. Se invece la prima cosa eà l’attrazione dovuta alla polaritaà
sessuale, e ad essa successivamente si accompagna un Eros,
l’essenza dell’uomo si trova in potere delle pretese parziali di una
zona dello stesso, e l’amore viene tanto piuà acquistato a prezzo della
caduta del genius albus, quanto piuà assume il carattere di
irresistibilitaà proprio della passione. La forma finale piuà disastrosa
di questo eà la servitù sessuale.
Considerando questo non saraà difficile determinare, per ogni
attrazione, quanto l'Eros partecipi al sesso e quanto il sesso all’Eros.
Per il caso migliore, la letteratura offre molti piuà esempi dal lato
delle donne che da quello degli uomini. Possiamo ammirarne la piuà
alta perfezione nella potente poesia dei dioscuri della Droste, che eà
completamente radicata nell’Eros, ma che fu da lei intitolata An
Lewin Schucking e mostra cosìà che per anime grandi la diversitaà
sessuale non ostacola il parto dell'immagine originaria. La strofa
finale, cosmica da capo a fondo, suona:

«Pollux und Castor, wechselnd Gluhn und Bleichen,


Des Einen Licht geraubt dem Andern nur,
Und doch der allerfrómmsten Treue Zeichen. -
So reìche mir die Hand, mein Dioskur!
Und mag erneuern sich die holde Mythe,
Wo uberm Helm dìe Zwillìngsflamme gluhte».

[Castore e Polluce, che alternano splendore e pallore, /


ottenendo l’uno la luce solo privandone l’altro, / e tuttavia simbolo
della fedeltaà piuà devota. / Cosìà, tendimi la mano, o mio Dioscuro, / e
possa rinnovarsi l’incantevole mito / in cui, sull’elmo, splendette la
gemina fiamma.]

Se paragoniamo a questo il legame, certo prevalentemente


erotico, di Enrico con Matilde nell’Ofterdingen di Novalis, non
possiamo disconoscerne la forte, anche se secondaria, vena di
sessualitaà ; mentre la passione, grandiosa, piena di pathos ed inoltre

163
rara per la sua felice reciprocitaà , che c’eà nella trascinante Vittoria
Accorombona di Tieck tra Vittoria e il duca di Bracciano, eà cresciuta
interamente da una polaritaà sessuale e si eà solo adornata di Eros. EÉ
esclusivamente questa passione adorna d’Eros che, se non ci
sbagliamo, eà stata nota ai grandi scrittori francesi, e che, nel libro di
Stendhal Sull’Amore, ha prodotto i primi passi di una teoria per la
quale l’erotismo apparirebbe come «formazione cristallina» attorno
al nocciolo sessuale. Il caso opposto, quello cioeà di una formazione
cristallina sessuale attorno al nocciolo erotico, non eà neé presentato
da qualche parte neé trattato da scrittori francesi. Infine non
troviamo in nessun luogo espressi meglio che nei seguenti versi del
poco noto poeta francese Xanrof l’invasa-mento e lo sfregamento di
chi eà asservito sessualmente (nella traduzione tedesca di Huber;
trascritti dall’autore di queste righe decine di anni fa, purtroppo
senza altre indicazioni):

«Poiché da qualche parte l’hai raggiunta, una sera,


e le hai parlato, e sei impallidito di gioia
quando ti ha detto: «Forse, può darsi...»,
per la prima volta la tua anima trema.
Tu pensi che non durerà,
ma a poco a poco ti accorgi di quanto sei innamorato,
e di come questo pensiero non ti abbandoni più.
Poiché ti piacciono quei grandi occhi,
chiari come rugiada caduta dal cielo,
subito credi che siano illuminati dallo spirito
e che siano colmi di poesia.
E poiché il suo sguardo ti abbraccia mollemente,
hai bandito l'antica gelosia;
stai di fronte alle sue bugie,
in ginocchio, e le credi.
Poiché la sua voce suona chiara e dolce,
ed ogni parola è per te un canto carezzevole,
accade che il sigillo della tua bocca salti via,

164
e che essa parli, quando tu hai promesso di tacere.
Poiché solo il suo bacio ti rende felice,
e senza di essi ti senti un miserabile,
e poiché ella è come un bimbo,
al quale è scudo la sua stessa debolezza,
ella trionfa, si sente non raggiunta,
e ti canzona, se poi tu t'infurii.
E poiché infine, stanco di tormenti, hai gridato: lo ti uccido!,
ella ha pianto tanto, e così bene,
che ti comporterai come un debole, un vigliacco.
E poiché una sera ella ti sfugge,
il tuo dolore è tale, che ti porta
à dove non accade più niente di simile:
ti lasci scivolare giù da un ponte.
Ricordati: l'amore,
il più tenero tra i piaceri,
segna da sempre la distanza
tra l'uomo e l'animale».

I quattro versi finali svelano il sapiente per il quale non c’eà


dubbio che esclusivamente l’uomo cade nella passione, e mai
l’animale, e che riconosce il suo fatale dominio anche laà dove
l’arroganza etica la liquiderebbe chiamandola «mania»:
nell'asservimento sessuale.
II secondo mezzo per dividere e distinguere sesso ed Eros eà
l’esame dei sentimenti che si accompagnano con forti necessitaà
amorose. Ma tali sentimenti sono prevalentemente sentimenti misti,
nei quali spiccano tre stati fondamentali:

brama-tenerezza-abbandono.

Se consideriamo che la brama lega l’essenza di chi brama, mentre


l’abbandono la libera, dopo quanto abbiamo detto non esiteremo a
riconoscere che tanto piuà un moto eà ricco di brama, tanto piuà eà

165
sesso, e tanto piuà eà ricco di abbandono, tanto piuà eà Eros. La
tenerezza, sebbene sia qualcosa di indiviso, sta in mezzo ai due, e
viene sopraffatta ora dal sesso, ora dall’Eros.
Con questa chiave si aprono porte chiuse a sette mandate, e si
ottiene anche l’accesso al senso dell’impulso sessuale, che finora eà
stato sepolto nella fitta oscuritaà della diffamazione morale. Solo il
sesso, per esempio, e non l’Eros, eà capace di gelosia: e perfino
l’amore «piuà celeste», in quanto, come quello cristiano, venga
preteso, sta, nonostante la presunta «sublimitaà », completamente sul
terreno del sesso; mentre la vittoria dell’Eros eà indicata dalle parole
che la sapienza di Goethe pone in bocca alla leggera Filina5:

«Wenn ich dich liebe, was geht's dich an?»


[Se io ti amo, a te che importa?]

Poicheé l’uomo moderno suol pensare in termini di «storia


dell’evoluzione», o almeno cosìà crede, ci siano consentiti ancora
alcuni aforismi al riguardo.
Chi eà abituato ad osservare gli animali, e non solo quelli
domestici, con attenzione, si persuaderaà che essi conoscono, accanto
alle brame che periodicamente emergono, la tenerezza, ma non peroà
lo stato dell’abbandono, che eà proprio dell’uomo e lo distingue.
Siccheé al grado animale l’accezione della vita conforme a natura
sarebbe il dominio del sesso e la sudditanza dell’Eros. E se il
dominio dell’Eros e la sudditanza del sesso distinguesse l’uomo
originario o «pelasgico» dall’animale, non ci sarebbe piuà permesso
dìà parlare nello sfesso senso del sesso animale come di quello
umano, e di trasferire senz’altro a questo la dignitaà meta fisica che
noi indubbiamente riconosciamo a quello: infatti il dominio del
sesso, proprio degli animali, sarebbe per l’uomo una cosa non
conforme a natura. E se, tra civilizzati, c’eà perfino sesso de
erotizzato, specialmente dalla parte dei maschi, non potremmo
cercare di farlo derivare dall’impulso sessuale degli animali, bensìà
dovremmo scorgere in esso un fenomeno di degenerazione, dovuto a

166
qualche disturbo. Ma se il dominio dell’Eros comparisse insieme ad
una capacitaà di voluttaà del corpo nel suo complesso, bisognerebbe
intendere la specializzazione sopra ricordata come un isolamento, e
l’ideologica divisione dell’uomo in una regione «piuà alta» e in una
«piuà bassa» si dimostrerebbe conseguenza di una scissione dei poli,
o, detto in modo piuà rozzo, di una divisione in testa e basso ventre,
tale che questo debba porsi al servizio di una voluttaà scissa, e quella
al servizio di una volontaà scissa. Ma la potenza separatrice sarebbe
lo spirito! Cosìà abbiamo assegnato al sesso il ruolo di uno dei punti
focali dell’ellisse della vita, la qual cosa naturalmente suscita altre
domande, ma certo risponde all’accentuazione di significato della
sua essenza.
Forse alcuni obietteranno che se anche puoà esserci il sesso senza
Eros, non eà vero il contrario: e, per esempio, si riferiranno ad
osservazioni su castrati. Una simile obiezione tratterebbe
l'organismo, in modo falso, come una macchina costituita di parti, e
sarebbe inoltre inadeguata alla cosa, poicheé perfino lo stato di
eunuco può esser legato ad una capacitaà erotica di ebbrezza. Se per
esempio metragyrtai e cibebi nel culto di Cibele, e piuà tardi anche
alcuni estatici cristiani si evirarono, naturalmente questo non
accadde allo scopo di cancellare la capacitaà di ebbrezza, ma per
eliminare i disturpi che le arrecava il sesso. Ma. a parte questo,
vogliamo ora mostrare, per mezzo di una metafora, come la
differenza tra una vitalitaà erotica e una deerotizzata possa essere
resa accessibile anche a chi eà abituato a porre il centro della vitalitaà
nel sesso.
Paragoniamo il sesso alla luce penetrante del filo incandescente
di una lampadina, e l’Eros al vetro bianco latte che lo circonda, e la
vitalitaà erotica alla lampada cosìà formata, che colma il suo spazio
d’azione di un chiarore che si spande ovunque con uniformitaà . Se
pensiamo ora di aver tolto il vetro color latte e di averlo sostituito
con uno specchio, abbiamo invece del caldo chiarore il pungente
raggio diretto verso una sola parte, (= sesso separato), e, invece del
vetro luminoso, un miserabile coccio privo di luce (=Eros castrato).

167
Di qui si vede anche come allo svanire dell’Eros possa essere legato
un aumento di energia del sesso, essendosi ritirato il principio
unificante e collegante del moto originario di fronte ad un principio
di separazione e di isolamento.

10. citato da Bòckel, Psychologie der Volksdichtung, [Psicologia


della poesia popolare], p. 202.

11. Op. cit., p. 198

12. Il «ditirambo coribantico» era stato reso accessibile nel


frattempo grazie ad una stampa privata (Alfred Schuler, Dichtungen),
che riuniva, per la cerchia degli amici, i frammenti specificamente
poetici. (Era distribuito da Kurt Saucke e Co., di Amburgo). Piuà
recentemente poteà infine apparire l’intera opera postuma: Alfred
Schuler, Fragmente und Vortràge, Aus dem Nachlass, mit
Einfuhrung \von Ludwig Klages, Leipzig 1940 [Frammenti e
conferenze, dal lascito, con introduzione di Ludwig Klages].

13. Una fondazione gnoseologicamente piuà precisa del concetto


di immagine si trova nel 6° e nel 7° capitolo del nostro scritto
Dell’essenza della coscienza ; inoltre nello Spirito come avversario
dell’anima.

14. Bachofen, Gràbersymbolik der Alten, [Simbolica tombale


degli antichi], p. 282.

15. Cfr. Rohde, Psyche, 2 Aufl., Bd. 1, p. 226, nota 3, come del
resto l’intero capitolo «Cura e venerazione dei morti».

16. Julius Lippert, Dìe Kulturgeschichte in einzelnen


Hauptstucken, Bd. Ili, p. 75

17. Ztschr. f. Pathopsychologie», Il Bd., 1. Heft, 1914, p. 12-14.

168
18. Martin Ninck ha utilizzato queste considerazioni, in
connessione con la nostra accezione complessiva dell'essenza delle
immagini e della loro relazione col culto dei morti, per l’indagine
dell’elemento proteiforme stesso, dell’acqua, ed ha posto i bei
risultati dei suoi studi in un lavoro sul Significato dell’acqua nel culto
e nella vita degli antichi.

19. Da Vom Traumbewusstsein

20. Rohde, Psyche, 2 Aufl., Bd., I, p. pp. 193-194

21. Approfittiamo dell’occasione per completare le nostre


osservazioni linguistiche del primo capitolo mostrando come anche
la lingua tedesca permetterebbe di indicare quasi esaurientemente
l’Eros del culto degli antenati, se tornassimo al senso originario della
parola Minne. Ma poicheé esso sbiadìà fino a divenire quel che oggi eà
«amore» giaà nella poesia d’amore cavalleresca, proprio come l’Eros
dei primi greci sbiadìà nell’Eros dei bucolici, e fu riesumato in questo
significato per uso poetico attorno al 1780, una utilizzazione della
parola nello spirito dell’antichitaà germanica eà naturalmente da
escludere. Tanto piuà istruttivo eà uno sguardo al significato originario
di «Minne».
Affine nella radice a mahnen, meinen, mind, mens, memini, al
greco μιάμνησκω, ecc., ha come significato periferico l’amoroso
ricordo, ma come significato centrale l'ebbrezza del ricordo
(Gedaà chtnistrunk) che fu propria delle feste sacrificali piuà
importanti di tutte le stirpi germaniche. Sìà beveva la Minne di Odino,
degli animali sacrificali e dei morti; e nel medioevo, poi, quella dei
santi che la chiesa aveva sostituito a quegli esseri demoniaci.
«L’imperatore Ottone 1° (morto nel 973)», dice Pfannenschmid, «nel
Convento di S. Emmeran a Regensburg bevve con i suoi commensali,
a conclusione del pasto, la Minne in onore di S. Emmeran. Bevendo

169
festosamente la Minne, si abbracciavano e si baciavano, esortandosi
a bere».
La «Minne» originaria eà quindi una forma dell’evocazione delle
anime di antenati e di dei, e conseguentemente dell’unione con esse
mediante l'erotico abbandonarsi dell’anima di chi beve alle essenze
psichiche presenti nella bevanda stessa. Ma cosìà abbiamo giaà
anticipato cioà che verraà esposto piuà tardi.

22. Ricordiamo qui il fatto del rapimento corporeo, noto allo


studioso di miti, e per esempio commentato con ampiezza da Rohde,
ma che, a quel che ne sappiamo, non eà ancora stato valutato come
prova che l’accezione della morte propria dei pela-sgi diverge
dall’idea, a noi abituale, dell'annientamento dell’esistenza, tanto da
giungere, anzi, a quella di un’eliminabilità del morire.
L’esempio probabilmente piuà famoso di rapimento, certamente
intrecciato con l’idea della trasformazione, eà dato dal sacrificio di
Ifigenia. Il veggente Calcante ha annunziato che l’adirata Artemide
invieraà un vento favorevole alla navigazione alle schiere greche
soltanto nel caso che le sia sacrificata Ifigenia, la figlia di
Agamennone. Ifigenia viene condotta all’altare, il coltello del
sacerdote si abbassa su di lei, ma nello stesso attimo al suo posto
giace nel sangue una cerva. Proprio come nel sacrificio di Isacco da
parte di Abramo, la divinitaà ha accettato l’animale al posto
dell’uomo, e nella redazione incomparabilmente piuà sensuale del
mito greco vediamo confermato che l’apparente cambio in realtaà eà
stata una trasformazione. Solo che qui si mescola un’idea del tutto
nuova. Ifigenia, eà detto, eà stata rapita corporeamente dalla dea e
trasportata nel tempio di Artemide in Tauride.
Proprio come se ella avesse soltanto sognato lo spaventoso
andare al sacrificio, e come se sognando si fosse vista, nell’attimo
dell’attesa della morte, trasportata su un’isola lontana: proprio cosìà
dev’essere accaduto di fatto nella diurna e desta realtaà . Il mondo
dell’anima che contempla domina sul mondo del corpo che sente! ma

170
mentre qui il rapimento eà solo verso un’altra regione, il caso di gran
lunga piuà consueto eà il rapimento nel regno dei morti.
L’eroe e veggente argivo Anfiarao, della stirpe dell’indovino
Melampo, avanza, costretto, contro Tebe; quando poi fugge, incalzato
dai nemici, si sprofonda, vìàvo, nell'interno della terra, dopo che il
fulmine di Zeus gliel’ha spalancata, per continuare a vivervi «in
eterno». Trofonio, originariamente un architetto, sprofonda,
ugualmente inseguito, nel suolo, presso Lebadea, per ottenervi una
«vita eterna», interpretando da allora in poi il futuro ai vivi, in
quanto demone dell’oracolo. Parimenti in Tessaglia dimora il lapita
Ceneo, rapito nella terra. Ma l’intera umanitaà pelasgica conosce
«leggende» simili. Si pensi a Carlo Magno nell’Odenberg, a Federico
Barbarossa nel Kyffhaà user, a Enrico l’Uccellatore nel Sudemerberg
presso Goslar, a Carlo V nell’Un-tersberg presso Salisburgo, a Holger
Danske sotto la roccia di Kronborg presso Kopenhagen. Si soleva
scendere da tali rapiti sia per conoscere il futuro sia per guarire da
gravi malattie. Poicheé il demone dell’oracolo nonostante il suo
rapimento corporeo eà entrato nel regno dei morti ed eà quindi
diventato completamente «anima», cioeà immagine, non puoà piuà
meravigliarci il fatto che si credesse di incontrarlo in figura di
serpente, e che per placarlo gli si portassero dolci al miele. Il nostro
considerare uguali anima e immagine ha la miglior conferma nel
fatto che colui che discendeva riceveva le indicazioni sul futuro o per
la salute soltanto nel «sonno d’incubazione», dunque in sogno.
EÈ difficile immaginare un piuà chiaro rimando alla fonte di ogni
fede nelle anime. Qui il fatto del morire eà di cosìà poco rilievo che anzi
uno non deve affatto essere prima morto per acclimatarsi nel regno
delle anime! non eà tanto cioà che oggi chiamiamo anima quanto
piuttosto l'immagine del vivente, cioà a cui si offrono cure e sacrifici; e
quest’immagine sempre mutevole e mobile ha in certe circostanze il
potere di trascinar via con seé perfino il corpo, e di porre anch’esso
nella realtaà delle immagini, facendo del tutto a meno dell’intermezzo
della morte.

171
Del resto le nostre argomentazioni non valgono per le
rappresentazioni originarie della morte in seé e per seé , bensìà solo in
quanto queste formano la base del culto dei morti. Le accezioni della
morte dell’antichitaà , cosìà come quelle dei primitivi, presentano la piuà
straordinaria ricchezza di varietaà , all’interno della quale trovano
posto perfino l’annientamento dell’anima e soprattutto, in varia
misura, il timore degli spettri. Ma anche per comprendere l’altro lato
della cosa che noi abbiamo soprattutto considerata, difficilmente si
troverebbe la chiave senza la scienza della fede nella realtaà delle
immagini. Per l’uomo, quand’anche abbia giaà saputo di essere
destinato a morire, dai tempi piuà antichi l’evento della morte eà
sovrastato dal brivido del congedarsi, che getta un’ombra di lutto
senza confronti soprattutto sui luoghi delle anime di coloro che sono
appena trapassati. Con commovente violenza questo si rivela nei
lamenti funebri dei popoli, e noi scegliamo due esempi: prima, un
canto funebre rumeno (da Bóckel, Zur Psychologie der
Volksdichtung, pag. 115), e poi un canto funebre dalla cerchia delle
genti Kol, dell’India (da Tylor, Die Anfànge der Kultur, Bd. Il, p. 32).
Quello suona:

«Tu vuoi lasciarci,


eppure sai che ti amiamo;
sai che non ti odiamo,
e vuoi andartene ugualmente!
vieni, e resta da noi,
non abbandonare i tuoi figli!
vedi, gli alberi sono verdi,
e senza te il gregge
non vuole andare al pascolo.
Toma, non darci questo dolore:
pensa ai tuoi amici, pensa alla tua casa!
non andartene!
faremo tutto ciò che ti piace, caro...
soltanto, torna, torna indietro!»

172
Ed ora, ancora piuà toccante, il canto dei Kharia:

«Non ti abbiamo mai comandato,


non ti abbiamo mai offeso!
torna da noi!
ti abbiamo sempre amato e curato,
e a lungo abbiamo vissuto insieme,
sotto lo stesso tetto: non lasciarci!
si avvicinano le piogge notturne,
e i freddi giorni di tempesta:
non vagare all'intorno!
non attendere al freddo: torna da noi!
un albero non potrà ripararti dalla pioggia,
né un salice potrà proteggerti dal freddo vento.
Torna a casa!
abbiamo pulito per te,
e adesso siamo qui,
noi che ti abbiamo sempre amato...
abbiamo pronti l’acqua e il riso per te:
torna a casa, torna a casa, torna da noi!»

Ma non sempre il congedo dalla vita nella luce significoà l’ingresso


in quella regione dalla quale «nessun viandante ritorna». Piuttosto,
come tutti gli esperti di antichitaà e di etnologia ben sanno, l’uomo
pelasgico, fin nei tempi piuà tardi, sa dirci con esattezza di persone
che fecero ritorno dalla regione dei morti! Non c’eà bisogno di
ricordare il viaggio all’Ade di Odisseo, o Orfeo ed Euridice, o Ercole
che afferra alla gola il cane infero, e neppure la narrazione di
Tespesio, cosìà spesso citata, nel Ritardo della punizione divina di
Plutarco, o la ricchezza di storie del genere nel Philopseudes di
Luciano. Vogliamo peroà espressamente ricordare che cronache
sorprendentemente simili ricorrono presso le diverse stirpi di
indiani d’America, presso i negri dell’Africa, i neozelandesi, i

173
Camciadali, i cinesi, e, in breve, quasi ovunque; e non meno nei miti e
nelle leggende di popoli estranei l’uno all’altro come finni e indiani.
Ma venendo in tal modo rivelata una specie di rapporto personale
tra il sonnambulo e le anime dei defunti, il mondo dei morti si
dimostra fondamentalmente identico al mondo delle apparizioni
oniriche dell’estasi.

23. Lippert, I. c., p. 119.

24. Sull’intangibilità delle qualità, si veda il capitolo «I principi


della dottrina della sensazione» in Dell’essenza della coscienza.
Inoltre, Lo spirito come avversario dell’anima.

25. Il satiro, la figura principale nel corteo di Dioniso, ha piedi


caprini. Trag-odia significa letteralmente canto del capro. Il capro eà
l’animale sacrificale ctonio per eccellenza. Erifo, cioeà capretto, ama
chiamarsi il miste giunto al compimento. A spiriti recettivi riesce
ancor oggi di sentire e presagire il demonismo del toro, e molto
meno invece quello del capro, la cui immagine originaria eà stata per
noi offuscata a causa del trasferimento della natura del capro al
diavolo dei cristiani. Chi vuol trovare la via del ritorno a quella
immagine, si abbandoni una volta all’osservazione dello stambecco
selvaggio, nella cui poderosa testa l’occhio sembra velare, con le
pesanti palpebre, un incendio nascosto, come se dal fondo di caverne
rocciose luccicassero fuochi sotterranei. Non si stupiraà piuà che
l’elementare fervore si sia ritrovato nell'immagine del capro.

1 Apuleio, Le Metamorfosi, trad. it. di F. Carlesi, Firenze, 1972, pp.


245-246
2 Wagner, Tristano e Isolda, trad. it. di G. Manacorda, Firenze,
1966, p. 213.

174
3 Schiller, Ballate e liriche, trad. it. di Andrea Maffei, Firenze,
1895, p. 78.
4 Schiller, Ballate e lìriche, trad. it. cit. p. 81.
5 Filina eà un personaggio del Wilhelm Meister, (N.D.T.).

175
Fonti

Se qui cercheremo di dire al lettore che non sia esperto in questo


ramo qual eà la via piuà semplice per avere un panorama dei risultati
dello studio sui misteri fino ad oggi, non ci si aspetti per questo
neppure alla lontana una presentazione, per quanto abbozzata, di
tale sezione della storia del sapere! Agli occhi di un’epoca che fosse
indirizzata filosoficamente, cioà che potrebbe garantire significato
d’eternitaà al secolo trascorso non sarebbe il suo progresso delle
scienze naturali, ma la sua scienza della storia, che avrebbe coé me
rappresentanti in prima fila gli studiosi della preistoria e di
mitologia, gli esploratori delle culture dell’antichitaà , coloro che
cercarono i nessi tra le lingue, gli etnologi e i «folcloristi». Cioà che a
tal riguardo fu compiuto sul suolo tedesco (poco dopo, anche in
Inghilterra e in Francia) a partire da Creuzer per un lato e dai fratelli
Grimm per l’altro, non ha finora l’uguale, almeno per la molteplicitaà
degli oggetti esaminati, e, anche limitandosi all’essenziale, potrebbe
essere trattato soltanto in un grosso volume. Chi desiderasse
saperne qualcosa del resto puoà essere rimandato a Otto Gruppe, il
cui libro sui Culti e miti greci nei loro rapporti con le religioni
orientali in circa 300 pagine a stampa classifica ed esamina tutti i
tentativi importanti di interpretazione di miti, compresi quelli
dell’antichitaà , fino all’anno della sua apparizione (1887). Stia solo
attento il lettore a non far propri anche i giudizi di valore di un
autore nel quale purtroppo di fronte ad una stupefacente vastitaà di
letture e ad una fin troppo critica pignoleria fa stridente contrasto la
non meno stupefacente scarsezza e precarietaà di risultati propri!
d’altra parte qui di preferenza si deve parlare solo degli scritti nei
confronti dei quali il nostro lavoro sull’Eros eà debitore, idealmente o
176
materialmente, e quindi dal punto di vista del fine della nostra
ricerca, al quale si accenneraà ancora, tentando inoltre di far capire al
lettore che cosa puoà sperare di ottenere di volta in volta dal loro
studio. Non quindi per ignoranza, ed ancor meno per disprezzo
alcuni grandi e grandissimi nomi non saranno menzionati.
Per un’introduzione ai puri dati di fatto dei culti segreti
dell’antichitaà si consiglia De Jong, Gli antichi misteri. Il libro offre il
materiale piuà importante con sufficiente completezza e in una buona
prospettiva, non ha ambizioni di profonditaà , dimostra accortezza e
compostezza in periferici tentativi di spiegazione, ed offre alla vasta
cerchia di lettori alla quale espressamente si rivolge tutte le citazioni
dagli scrittori dell’antichitaà in traduzione tedesca. Per il periodo di
transizione, si prenda, per maggior completezza, ì'Età di Costantino
il Grande di Burckhardt, come anche Anrich, Gli antichi misteri nel
loro influsso sul cristianesimo. Sugli importanti usi speciali del culto
di Mitra riferisce Franz Cumont, I misteri di Mitra. I principi della
dottrina religiosa dei germani sono trattati in modo conciso e
oggettivo in Mogk, Mitologia germanica. Nel mondo della fede dei
semiti guida agevolmente Robinson Smith, La religione dei semiti, ed
in quello dell’America preistorica la nota opera di J. G. Muller sulla
Storia delle religioni originarie americane. Infine, tra i libri di
consultazione, bisogna ricordare la Mitologia greca di Preller, scritta
tra l’altro in modo eccellente e con calore, e ancora Roscher, Lessico
mitologico, e Pauly, Enciclopedia delle scienze positive.
Nel campo dell’etnologia, sono ancora da citare le due opere
principali di Tylor, chiare quanto esaurienti: La preistoria
dell’umanità e Le origini della cultura, alle quali da parte tedesca
corrispondono le contemporanee fatiche e gli scritti dìà Julius
Lippert. L’inglese ha peroà il vantaggio di mettere in primo piano il
parallelismo delle leggende e degli usi rituali, e di accentuare di
meno la dottrina, allora fiorente, per la quale eà il timore a generare
gli dei. Con maggiore difficoltaà il lettore inesperto si addentreraà nelle
opere, offuscate dall’eccessivo materiale, dell’indubbiamente
significativo Bastian. A chi preferisce occuparsi del lato per cosìà dire

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occulto della storia dell’umanitaà si puoà consigliare come
introduzione Bruno Schindler, La vita magica dello spirito (1857);
invece lo guideraà verso maggiori profonditaà Goà rres con la sua
Mistica cristiana in cinque volumi, un’opera che, nonostante le
proteste degli eruditi oggi alla moda, non ha confronti per
l’ampiezza delle fonti citate, almeno nel campo dell’occultismo
cristiano, e a cioà unisce una avvincente presentazione del poderoso
materiale.
Se le opere nominate fin qui devono essere considerate
soprattutto utili per documentarsi, quelle che seguono segnano delle
scoperte. L’opera in due volumi di Laistner, L’enigma della sfinge.
Linee fondamentali di una storia dei miti (1889), compie un primo
tentativo, inadeguato sul piano del pensiero ma ragguardevole per la
straordinaria ricchezza del materiale e per la nuova accezione dei
nessi, di far derivare lo stato di coscienza originario dalla vita di
sogno. Laistner non si spinge fino all’ipotesi del carattere di sogno
dello stato di veglia originario, e considera inoltre solo l’incubo, ma
ha l’incontestabile merito di aver dimostrato l’essenziale
somiglianza di formazioni mitiche e fantasmi di sogno, e di aver
scoperto in tale occasione l’enorme diffusione del motivo mìàtico del
crudele enigma. Senza che questo abbia una relazione immediata
con il nostro oggetto, citiamo, tra i grandi mitologi posteriori ai
Grimm, le guide piuà importanti alla mitologia cosiddetta inferiore, e
cioeà , oltre a Schwartz e Kuhn, soprattutto Mannhardt, la cui opera
principale, in due volumi, Culti forestali e agresti, cita una quantitaà
mai vista di usi e costumi e, nonostante alcune spiegazioni siano
ormai sorpassate, non puoà essere letta senza una profonda
partecipazione da nessuno che non abbia perduto del tutto il nesso
con la vita del suo popolo. Non va poi dimenticato, di
Pfannenschmid, Feste del raccolto tra i germani, come anche L’acqua
santa nel culto pagano e in quello cristiano. Per conoscere piuà a fondo
gli indirizzi di fede dell’antichitaà greca eà sempre indispensabile
Rohde, Psyche. A questo lavoro, relativamente ampio, ben articolato
e particolarmente intelligente nelle formulazioni, non sarebbe

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tuttavia forse da attribuire valore di scoperta se non ci fosse la
superba e ben documentata illustrazione dell’orgiasmo dionisiaco
del secondo volume: in essa vediamo finora la piuà forte
ripercussione di Nietzsche in campo archeologico. In fondo infatti
Rohde non eà mai andato oltre i suggerimenti del suo amico di un
tempo, anche se sulla loro provenienza tace con cura, secondo
un’usanza diffusa giaà allora tra gli scienziati di professione. Le sue
osservazioni su Eieusi, per esempio, restano insufficienti; non fu in
grado di mostrare la differenza essenziale tra culto delle anime e
fede nell'immortalitaà ; e la sua ipotesi per la quale la mistica
dionisiaca sarebbe all’origine di quest’ultima eà indubbiamente falsa.
Comunque si stimi il valore di innovazione delle opere che abbiamo
visto fin qui, nessuna di esse ha provocato un capovolgimento
radicale nella concezione dello stato di coscienza «primitivo».
Sarebbe troppo affermare che tale capovolgimento si sia legato ai
due nomi che stiamo per citare; possiamo peroà dire che esso
comincia a legarsi al primo, e, come nostra convinzione, che eà
destinato a trovare compimento nel secondo. La nascita della
tragedia di Nietzsche significa l’inizio di una nuova interpretazione
dei fondamenti psichici dell’antichitaà e dell’intera preistoria, e deve
essere conosciuta e meditata da chiunque voglia avventurarsi
nell’indagine del pensiero simbolico e dei sogni mitici. Mancanze
trascurabili di quest’opera importantissima sono da vedere
nell’accettazione di termini tecnici di Schopenhauer e nella
inclusione di problemi musicali; eà invece un difetto essenziale
quell’accezione dell’apollinismo, dai contorni tutt’altro che ben
definiti, che ha impedito al suo scopritore di notare che il suo
significato, per quel che lo si puoà definire, coincide con il
«socratismo» a lui ben familiare. Ma prima che Nietzsche, con il suo
rinnovamento grandioso della conoscenza della metafisica del
dionisiaco, mettesse in rilievo l'opposizione dello stato originario
dell’anima al mondo diurno degli olimpii, si era fatta luce nell’animo
di un altro ricercatore cioà che la mitologia «inferiore» e con essa la
nostalgia filosofica dell’intero romanticismo aveva cercato, senza

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peroà trovarlo: l’idea cioeà che certamente nella cerchia dei popoli
mediterranei ma volto verosimilmente anche per tutta l’umanitaà nel
suo complesso l’«uranismo» della coscienza diurna era stato
preceduto da un «ctonismo» della coscienza notturna, che gli aveva
ceduto il posto ovunque ma solo dopo una lotta dura e in parte
sanguinosa.
Fu J. J. Bachofen (1815-1887) colui che con i suoi due capolavori
Il diritto materno e La simbolica tombale degli antichi (accanto ai
quali, poco meno importanti, bisogna ricordare II popolo licio e La
leggenda di Tanaquilla) interpretoà l’intera preistoria dell’Occiden-te
dal punto di vista della lotta tra «matriarcalismo» e
«patriarcalismo», scoprìà con sicurezza divinatoria i primissimi
impulsi che portarono alla formazione di simboli e miti, e con i
pilastri di un’erudizione incomparabile sostenne la tesi
dell’esistenza di una religione originaria, incurante di barriere tra
epoche e tra popoli, le cui corrispondenti forme sociali, e i cui
concetti di diritto, usi, costumi, rappresentazioni degli dei, stanno
nel piuà stridente contrasto con quelli, e con le convinzioni ed i
comandamenti, del razionale portatore della «storia mondiale». La
cosa fece sensazione. Dapprima si affaticarono sull’argomento gli
etnologi, e un Morgan, un Kowalewsky, un Lubbock, ecc., furono in
grado di mostrare presso numerosi «popoli primitivi» ancora
esistenti proprio quelle istituzioni e quegli usi che Bachofen aveva
soltanto dedotto dalle idee cultuali dell’antichitaà . Anche la scienza
del diritto assimiloà presto il concetto bachofeniano di diritto
materno. Sostenitori del comunismo come il dottissimo Kropotkin
cercarono poi con l’aiuto di un tale concetto di forgiare dalla storia
naturale dell’umanitaà armi contro il dogma capitalistico della
proprietaà . Si accesero appassionate dispute sull’essenza, l'etaà e
l’origine della famiglia, che contribuirono ad ampliare e ad
approfondire le nostre conoscenze dei primissimi legami
dell’umanitaà . Ma, fino ad oggi, chi sa anche solo intuire che in
Bachofen si deve riconoscere forse il piuà importante scopritore di
quello stato di coscienza originario in rapporto ai cui precipitati nei

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miti e nei culti tutte le dottrine di fede dell’umanitaà storica, senza
eccezioni, appaiono come corruzioni della fonte originaria?
L’autore di queste righe confessa che la lettura delle opere
principali di Bachofen, attorno al volger del secolo, determinoà in
modo decisivo il resto della sua vita. Dei suggerimenti che egli allora
diede a un piccolo gruppo di studiosi e scrittori di Monaco, alcuni, in
modo piuà o meno anonimo, hanno nel frattempo continuato ad
operare. In complesso peroà la filosofia della religione e la scienza del
mito non sono ancora giunte dove un Bachofen stava giaà negli anni
sessanta del secolo scorso. Infatti, scritti come ad esempio Madre
Terra di Dieterich, che, considerati superficialmente, sembrano
percorrere strade simili, (senza che peroà Bachofen venga anche
soltanto nominato!), rimangono infinitamente indietro, per
profonditaà e lungimiranza, rispetto alle opere del loro percursore.
Bachofen dimostroà la provenienza dell’idea romantica della polaritaà
dalla coscienza originaria dell’umanitaà , con una documentazione
dalla quale ancor oggi c’eà moltissimo da attingere. Terra e cielo,
notte e giorno, luna e sole, acqua e fuoco, sinistra e destra, ecc., si
appartengono reciprocamente a due a due come corpo e anima, e
vengono pensati come incessantemente rinnovanti il mondo, come il
principio femminilmente ricettivo e quello maschile generante.
L’unitaà in tal modo polarizzata viene colta nel simbolo della madre
come anche in quello del bimbo, e il nesso, ancora una volta polare,
di questi simboli, reca la fede misterica dell’eterno ciclo. Lo stesso
accadere complessivo appare cosìà nell'immagine di una maternitaà
che ininterrottamente ringiovanisce, tramite un ininterrotto
partorire, nel bimbo; e ogni essere individuale entra cosìà in un
rapporto di dipendenza debitrice non, come pensava Bachofen,
verso la donna, bensìà verso l’unica e identica madre, o meglio verso
l’uovo, la cellula vitale. Ne deriva una sopravvalutazione della
gravidanza e della recettivitaà psichiche rispetto al principio della
generazione, che in certo modo svolge soltanto una funzione
ausiliaria: e le conseguenze etiche di questo sono incalcolabili.
Bachofen ha dimostrato che, assolutamente «al di laà del bene e del

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male», ci fu un «diritto naturale», non disturbato dall’arbitrio di
nessuna legge, il quale protesse l'intimissimo nesso sia dell’uomo
con il mondo sia degli uomini tra loro.
Ma mentre con i suoi pensieri dettati dal cuore (Herzgedanken)
egli segue irremovibile la meta accennata, in innumerevoli
interpretazioni di simboli, — ricordiamo qui soltanto la sua
rivelazione del senso originario di tutti gli usi e i preparativi
dell'agone greco, la quale in tutta la scienza del mito non ha ancora
l’eguale per chiaroveggenza —, i suoi pensieri dettati dalla testa
stanno sotto l’influsso della religione di volontaà del cristianesimo, e
lo inducono a ritenere, errando, che sia un autosuperamento e
un’evoluzione superiore dello stato originario il processo,
documentabile in parte nella preistoria e in parte nella storia,
mediante il quale lo spirito, in seé e per seé estraneo all'immagine si
impadronisce a poco a poco del lato diurno della vita. Lo stesso
ricercatore che da un lato esalta con parole che sussurrano come
sorgenti sotterranee il materno abbraccio del ctonismo, in rapporto
al quale tutto cioà che eà piuà tardo significa soltanto un’irrequietezza
priva di pace, riesce dall’altro lato a fraintendere l’irruzione della
volontaà contraria a tale pace vedendo in essa un «grado piuà alto»
della civiltaà . Questo confuso tira e molla tra cuore e testa, del quale
egli non ebbe la minima consapevolezza, fu certo uno dei principali
motivi che resero difficile la comprensione e il riconoscimento di
quel grande scopritore.
Ciononostante riuscìà a Bachofen di liberare dall’intonaco dei
millenni l’immagine dell’anima originaria, e di farci intuire la sua
inesprimibile bellezza. Offrire la chiave gnoseologica per
comprendere il senso profondo e la veritaà di questa immagine eà uno
dei compiti della nostra vita. In questo ci venne peroà in aiuto la
fortuna dell’incontro con quel contemporaneo che eà ricordato nella
prima nota dell 'Appendice. La ricerca misterica di Alfred Schuler, che
in parte conferma il ctonismo di Bachofen e in parte si spinge a strati
molto piuà profondi, si muove, come si eà giaà accennato, sul terreno
del pensiero simbolico stesso, e daà la miglior prova della veritaà delle

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sue scoperte col solo fatto della sua esistenza, a stento concepibile
nel presente!
Questo veloce panorama dello studio del mito soprattutto nel
secolo scorso richiederebbe oggi considerevoli aggiunte. Possiamo
peroà farne a meno in questo luogo, percheé nel frattempo non solo eà
apparsa l’opera postuma di Schuler, ma anche la nostra opera
principale, «Lo spirito come avversario dell’anima», il cui quarto
volume (piuà esattamente, la seconda parte del terzo tomo) tratta in
227 pagine, sotto il titolo L’immagine del mondo del pelasgismo,
l’intero campo delle questioni relative al pensiero simbolico
dell’umanitaà preistorica ed extrastorica, citando anche la letteratura
piuà recente. Purtroppo non eà piuà stato possibile ristampare
quest’ampia opera, da lungo tempo esaurita.

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