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Nel suo precedente volume su Mons. Montini, l’A. usava l’espressione di “modello bre-
sciano”: F. De Giorgi, Mons. Montini. Chiesa cattolica e scontri di civiltà nella prima guerra
metà del Novecento, Bologna 2012, p. 16. Si veda la mia recensione a questo volume in Il
Mestiere di Storico, 2013, 2, p. 209, http://recensio.net/r/afefd892cf874771b907a25c68408fe6.
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Trattandosi del periodo della fuci e della Segreteria di Stato tra le due guerre, non posso
che rimandare all’ottima tesi di dottorato di L. Carlesso, Dalla Brescia cattolica alla curia
romana di Pio xi. L’itinerario biografico di Giovanni Battista Montini (1897-1939), Padova
2015. In appendice, il volume riproduce quattro articoli sulla situazione della Polonia scritti
sotto uno pseudonimo durante il breve periodo della sua permanenza alla nunziatura di Varsa-
via (Il Cittadino di Brescia, giugno-agosto 1923).
3
R. Rémond, Conclusion, in Paul vi e la modernité dans l’Eglise, Rome 1984, p. 859.
4
Ph. Chenaux, Paul vi. Le souverain éclairé, Paris 2015, pp. 11-12. La traduzione italiana
è in corso presso Carocci editore.
5
G.B. Montini, Scritti giovanili, Brescia 1979, pp. 82-84.
era valido nella cultura moderna per andare oltre e rifondare un nuovo regi-
me di civiltà. L’A. parla giustamente della necessità, per Montini e i giovani
della sua generazione, «di individuare la possibilità di una modernità altra»
(p. 29) rispetto alla modernità dei modernisti condannata dal magistero della
Chiesa: «una modernità critica e sperimentale, incentrata sulla libertà e sulla
coscienza, aperta alla storia, al progresso e agli ideali di socialità e di demo-
crazia, con una spiritualità liturgica e escatologica, ma con una tensione a
incarnare il Vangelo nella vita reale, personale e collettiva» (p. 77). La pro-
blematica rimaneva quella della generazione modernista: come riconciliare
il cattolicesimo con il mondo moderno, come ristabilire il legame tra la fede
cristiana e la cultura scientifica, come ritrovare l’accordo tra la dottrina e la
vita. Ma la risposta non poteva più essere, all’indomani della Prima Guerra
mondiale, quella dei modernisti, non solo perché “l’eresia modernista” era
stata condannata dal magistero della Chiesa nell’enciclica Pascendi (1907),
ma anche perché la stessa modernità o, piuttosto i postulati sui quali essa si
fondava (primato della ragione, ideologia del progresso), si trovava in crisi.
Nelle sue conclusioni l’A. cita l’opera di Romano Guardini intitolata La fine
dell’epoca moderna, e pubblicata in traduzione italiana dalla Morcelliana nel
1954. «Montini certamente lesse tale operetta che sorprendentemente sposta-
va l’orizzonte oltre il Moderno» (p. 744). La “modernità non modernistica”
di Paolo vi era apertura critica alla modernità, era “moderna e post-moderna
insieme”. Non si può dire meglio.
Il secondo ordine di considerazioni che vorrei fare riguarda la periodiz-
zazione della vita di Giovanni Battista Montini. Il volume si divide in cinque
capitoli (se tralasciamo il lungo e denso capitolo introduttivo di contestua-
lizzazione): i due primi sul periodo antecedente al pontificato, i tre ultimi sul
pontificato stesso. Trattandosi della prima parte della vita di Montini, ci sono
due momenti di prova che furono altrettanti momenti di svolta: le dimissioni
forzate dalla Fuci nel 1933, e l’allontanamento da Roma e la nomina a Mi-
lano nel 1954. Mentre la biografia si sofferma a lungo sulle ragioni della sua
“promozione-rimozione” a Milano, essa dedica poca attenzione (1 pagina)
a quelle del suo “licenziamento” dalla Fuci. «Nel 1933 Montini fu dunque
costretto a dimettersi dall’incarico di assistente nazionale della Fuci, pur es-
sendo da poco riconfermato dal papa, anche di fronte alla comunicazione
delle sue difficoltà a continuare nell’incarico (per l’accrescersi del lavoro in
Segreteria)» (p. 95). Questo chiarimento Montini l’aveva voluto ma non av-
venne nel senso da lui desiderato. La svolta del 1933 non va sottovalutata per
due ragioni. La prima è che orientò la vita e la carriera di Giovanni Battista
Montini in una direzione che non corrispondeva alla sua vocazione profon-
da di un apostolato intellettuale, come dimostrato dalla sua corrispondenza
degli anni Trenta e Quaranta. Del resto l’A. stesso allude ad un “momento
di crisi” nel 1935, “grave e serio, incomprensibilmente sottovalutato finora
dai biografi, in cui il quasi quarantenne prelato si interrogò, con una qualche
angoscia, sula vera volontà di Dio nei suoi confronti” (p. 98). Nel diario
inedito di Sergio Paronetto (1911-1945), uno dei suoi “figli spirituali” della
fuci e dei Laureati, leggiamo questa ritratto di Montini, dopo un pranzo con
lui in Vaticano nel febbraio del 1940: «un dolorante martirio di se stesso: uno
che si impone, come un dovere superiore e sublime, la schiavitù dell’azione,
del non pensare, del non riposarsi con l’intelletto nel raccoglimento della
meditazione»6. La seconda ragione è che non c’è soluzione di continuità tra le
dimissioni del 1933 e l’allontanamento del 1954. Le stesse persone (il “Par-
tito romano”: Pizzardo, Ronca, ma anche Ottaviani) e per gli stessi motivi (la
sua eccessiva apertura alla “modernità”) furono all’origine della decisione
di Pio xii di privarsi del suo “migliore collaboratore”. Fino a quella data, in
modo particolare durante gli primi anni della ricostruzione dopo la guerra, la
sua influenza sugli orientamenti del pontificato pacelliano fu assai decisiva.
Montini accompagnò, “in modo discreto e riservato”, dal suo osservatorio
della Segreteria di Stato, “l’ammodernamento” teologico, sociale, mistico
di quegli anni. Non va dimenticato che nel 1954, anno “periodizzante” della
biografia montiniana, si chiude per così dire un ciclo dal punto di vista della
politica italiana ed europea con la morte di De Gasperi (19 agosto 1954) e
con il fallimento del trattato della Comunità europea di difesa davanti al Par-
lamento francese (30 agosto 1954) che avvenne lo stesso giorno della morte
dell’arcivescovo di Milano, il cardinale Ildefonso Schuster. La presenza di
Montini in Segreteria di Stato non era (forse) più ritenuta da papa Pacelli così
“necessaria” come lo era stata più di venti anni prima con l’avvento di Hitler
al potere al Germania. «Ci volle qualche tempo perché Montini elaborasse
l’accaduto e assorbisse il “colpo”» scrive giustamente Fulvio de Giorgi (p.
165) che sottolinea, a ragione, l’importanza di questo fattore “psicologico”
per capire l’intero episcopato a Milano. «Egli si sentì umiliato e avvertì sia la
sconfitta (che poteva essere definitiva) della sua linea – quella che ho definito
come montiniano-francese – sia la necessità di dover recuperare la fiducia
del papa» (p. 171). Per l’A., il periodo milanese appare come “il più difficile
da decodificare” della vicenda biografica montiniana.
La periodizzazione del pontificato merita anche di essere discussa. Due
sono le cesure che vengono indicate: quella della fine del concilio nel 1965, e
quella della fine delle riforme postconciliari nel 1971. Si potrebbero obiettare
a questa periodizzazione due elementi: da una parte il fatto che l’applicazio-
ne dei decreti di riforma del concilio era già cominciata durante il concilio
(come lo dimostra la creazione del Consilium ad exsequendam Constitutio-
nem de Sacra Liturgia nel gennaio del 1964), dall’altra parte il fatto che la
recezione “quanto mai contrastata” dell’enciclica Humanae vitae (1968) ha
rappresentato un momento di svolta innegabile nel pontificato (non ci sarà
più nessuna enciclica dopo quella data). Nel capitolo sul concilio l’A., riflet-
tendo sul “ruolo storico di papa Montini”, si discosta da quella che chiama
«la distorsione interpretativa di un Paolo vi che prende le parti della mino-
ranza e taglia le ali alla maggioranza, giungendo a documenti depotenziati»
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Diario, 15 febbraio 1940 (citato nella tesi ancora inedita di T. Torresi, Ascesi, pensiero ed
azione. La vicenda biografica e la riflessione politica ed economica di Sergio Paronetto [1911-
1945], Università di Roma Tre, Roma 2015, p. 463).
mi sembra che ci siano due altri concetti che aiutano a decifrare il pontifi-
cato nell’immediato dopo concilio: quello di crisi, e quello di dialogo. La
Chiesa di Paolo vi ha dovuto affrontare una crisi senza precedenti: crisi di
fede, crisi del magistero, crisi, del clero, crisi del laicato. Questa dimensio-
ne della crisi (al termine di “crisi” viene preferito quello di “difficoltà”) è
legata sia alla ricezione del concilio sia alla crisi della società occidentale.
Ma l’articolazione tra le due crisi non viene chiaramente pensata né espo-
sta nel libro. L’A. si interessa giustamente del “68 di Paolo vi”, ma non lo
mette in relazione con la contestazione della sua autorità all’indomani della
pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae (luglio 1968). Più generalmente,
viene giudicato negativamente, come una forma di “debolezza”, il ruolo di
“difensore della fede” che Paolo vi ha voluto assumere nel dopo concilio e
che culminerà nella famosa Professione di fede pronunciata a conclusione
dell’Anno della fede (30 giugno 1968)10. Per quanto riguarda la “politica
del dialogo”, non viene tematizzata in quanto tale. Se il libro dedica molta
attenzione al magistero della pace di Paolo vi in relazione con la guerra del
Vietnam, le pagine dedicate alla cosiddetta Ostpolitik e all’ecumenismo sono
più scarse. La questione dei rapporti con Israele e i musulmani non viene
del tutto trattata. L’attenzione verso l’insegnamento sociale del pontifica-
to (Populorum progressio, Octogesima adveniens) è, invece, notevole. Per
mancanza di documentazione, l’A. insiste più sulla portata di questi testi che
sulla loro genesi11. Nell’ultimo capitolo del libro intitolato L’orizzonte di un
nuovo cristianesimo, l’A. si sofferma giustamente sulle vicende italiane (il
referendum sul divorzio, la tragedia di Aldo Moro) che hanno contrassegnato
gli ultimi anni del pontificato. L’analisi dei grandi testi di questo periodo,
in particolare l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) presentata
come “una svolta”, «una messa a fuoco finale del e nel magistero di Paolo
vi e della sua complessiva proposta pastorale» (p. 675), consente all’A. di
parlare, non senza una certa enfasi, di un «nuovo paradigma», di una «nuova
via» per caratterizzare gli insegnamenti dell’ultimo Paolo vi. La prospettiva
integralista di restaurazione cristiana (nelle sue varie declinazioni novecen-
tesche: pacelliana, maritainiana ecc.) avrebbe ceduto il passo all’avvento di
un “nuovo cristianesimo” basato sull’annuncio del Vangelo, di una “civiltà
dell’amore” fondata sul primato dello spirituale. Non va dimenticato però
che la “coscienza escatologica” dell’ultimo Montini avrebbe voluto essere
anche una chiara alternativa all’utopia della teologia latinoamericana (ma
non solo) di una liberazione puramente terrestre. L’opposizione al tradizio-
nalismo lefebvriano dimostrava, invece, la sua volontà di rimanere fedele
all’eredità del Vaticano ii, cioè ad una concezione vivente della Tradizione
10
Discutibile questo giudizio lapidario sull’Università lateranense: «rimaneva ancora
– più o meno occultamente – il centro culturale ispiratore e sostenitore delle tendenze tradizio-
naliste» (p. 447). Nel 1969 sarà nominato rettore Mons Pietro Pavan, l’ispiratore dell’enciclica
Pacem in terris (1963) e della dichiarazione Dignitatis humanae (1965).
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Da questo punto di vista sono da segnalare due testi che portano nuova documentazione
sul magistero sociale di Paolo vi: A. Riccardi, Manifesto al mondo. Paolo vi all’onu, Milano
2015; G. La Bella, L’umanesimo di Paolo vi, Soveria Mannelli 2015.