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comunità
- È un volume “internazionale”.
- È un volume “locale”.
- È un volume “didattico”.
Capitolo 1
(Cinquant’anni di psicologia di comunità
nel mondo)
1. Prima e oltre Swampscott
Swampscott viene ricordata nella storia della PdC perché nella primavera del
1965 vi si tenne una conferenza sul tema “La formazione degli psicologi per i servizi di
igiene mentale di comunità”. A quell’evento si decise convenzionalmente di attribuire la
nascita della psicologia di comunità (Pdc).
L’interesse e l’attenzione per lo studio della comunità non nascono nella metà
degli anni sessanta negli Stati Uniti. Non solo ma, l’idea che la PdC sia nata negli USA
e che lo sviluppo in altre aree sia dovuto al solo lavoro teorico e pratico statunitense.
Ci sono alcuni valori alla base della disciplina, che vengono prima di qualsiasi
differenziazione di posizione ideologiche o pratiche di intervento: sono proprio questi
valori che fondano la PdC.
La PdC negli Stati Uniti é stata per molto tempo l’unica storia conocsiuta.
Alla fine degli anni 60 si verificò uno spostamento a livello nazionale verso
un’amministrazione più conservatrice.
Dopo gli anni 80, lo sviluppo della disciplina è proseguito tra spinte propulsive e
ostacoli di varia natura.
- Valori ed etica.
- Salute mentale di comunità.
- Prevenzione e promozione della salute.
- Intervento di rete sociale e di mutuo aiuto.
- Promozione dell’inclusione e della diversità.
- Intervento sociale e sviluppo economico.
Occorre tener conto della comune storia passata di colonizzazione di una regione
europea (spagnola) e della comune storia rappresentata dall’influenza delle culture
indigene.
La costruzione della PdC in America Latina nella sua specificità si deve a sette
fattori:
1. La psicologia sociale.
2. La prospettiva critica adottata: la PdC in America Latina ha assunto un
orientamento verso la prassi, legando pratica e teoria e introducendo la
partecipazione di nuovi attori sociali nel processo di ricerca e di intervento.
3. La necessità di trasformare insoddisfazione in azione.
4. Il cambiamento sociale.
5. Processo di ricerca di una scienza: che superasse le forme individualistiche della
psicologia sociale dominante all’epoca. Recuperare la comunità come gruppo
colletivo.
6. Le comunità come ambito e livello di vita sociale.
7. Le modalità di relazioni costruite all’interni di un dialogo.
Negli anni 80 sono iniziati alcuni tentativi di stabilire un approccio locale alla
disciplina, volto a sostenere il lavoro degli psicologi in alcune comunità specifiche. Ben
presto, viene posta all’attenzione dei ricercatori e dei professionisti una serie di nuovi
proglemi sociali legati al contesto giapponese (terremoti, anziani, il hikikomori).
La specificità della società giapponese richiede metodi di intervento
culturalmente appropriati, ancora in fase di elaborazione.
Australia
A livello formale segue lo stesso trend degli USA e dell’Inghilterra, che viene
favorito dalla vicinanza linguistica.
Verso la fine degli anni 80, la PdC assume un ruolo importante nel risvegliare la
consapevolezza della “giustizia sociale”; tre distine aree:
Lo sviluppo della PdC come disciplina autonoma data dagli anni 70, quando
vennero istituiti corsi di PdC.
2.4. Africa
Sudafrica
La PdC ha offerto una base teorica agli psicologi che cercavano di fornire servizi
psicologici a comunità traumatizzate e di realizzare azioni di cambiamento di quei
fattori che influenzavano fortemente la salute mentale delle popolazioni.
Una delle critiche che viene attualmente mossa alla PdC è il mancato impegno a
sviluppare in modo sistematico una toeira e una pratica che siano “sudafricane”, in
grado cioè di incorporare i sistemi di conoscenza indigeni nella teoria e nelle modalità
di intervento della PdC.
Vi sono relazioni complesse tra i bambini e i loro familiari “sociali” che sono
molto più importante dei genitori biologici. La PdC deve capire queste relazioni se
intende sviluppare interventi in situazioni di rischio e resilienza nello sviluppo dei
bambini.
Camerun
È infatti solo con la rivoluzione del 1974 che inizia un periodo di cambiamenti
profondi a livelli sociale ed economico. Gli interventi di comunità si sono indirizzati
inizialmente alle campagne di alfabetizzazione ispirate ai lavori del brasiliano Paulo
Freire.
3.2. Spagna
Allo stato attuale non sembra esserci alcuna definizione consensale di una
disciplina chiamata “psicologia di comunità”.
L’azione di comunità di fatto ha trovato spazio solo dopo la caduta della dittatura
franchista e la lenta transizione verso la democrazia alla fine degli anni 70. È con la
Costituzione del 1978 che in Spagna si crea una struttura di regioni autonome. Questa
nuova organizzazione dei servizi favorisce l sviluppo degli orientamento della PdC e un
crescente impiego di psicologi.
3.3. Germania
Qui la PdC è stata e continua a essere influenzata dai cambiamenti
nell’economia del paese.
- La psichiatria.
- La prevenzione e la promozione della salute.
- Auto e mutuo aiuto.
- Gli studi sulla rete sociale e sui sistemi di sostegno sociale.
- Gli ambienti di vita e l’analisi delle influenze ambientali sul benessere
individuale e sociale.
- Il counseling.
- Lo sviluppo di metodologie.
3.4. Norvegia
Lo sviluppo, o in questo caso il mancato sviluppo, della PdC in Norvegia è
legato alle vicende sociali e politiche del paese. La situazione della Norvegia è del tutto
particolare.
Tuttavia, va evidenziato che i principi della PdC sono più o meno inseriti nelle
ricerche applicate e nei programmi di comunità. Gli psicologi lavorano negli ambiti
della prevenzione, consulenza, supervisione e terapia breve.
Secondo Carlquist et al. (2007), la PdC nei prossimi anni dovrà fare i conti con
l’aumento delle disuguaglianze sociali, della percezione di ingiustizia e di frustrazione.
1. Prima delgi anni settanta è possibile reperire alcuni precursori: Marie Jahoda,
psicologa sociale che engli anni trenta condusse in collaborazione con altri
professionisti una indagine sui disoccupati di una cittadina austriaca.
2. Nel decennio settanta-ottanta il lavoro degli psicologi si focalizza su alcuni
temi.
3. Negli anni ottanta-novanta si diffonde a livello teorico un nuovo paradigma
antipositivistico legato al costruzionismo sociale, emerge l’interesse per le
problematiche del femminismo ed escono lavori sui metodi qualitativi.
4. Dopo gli anni novanta l’interesse per una psicologia esplicitamente di
comunità riemerge o si consolida in diverse aree del paese. Nel 1991 è stata
fondata la prima rivista europea, il “Journal of Community & Applied Social
Psychology”.
Si deve risalire alla fine degli anni settanta l’uscita del volume Psicologia di
comunità (Francescato, 1977). Nel 1979 e nel 1980 si tennero rispettivamente il I e il II
convegno italiano di PdC, i cui lavori testimoniarono l’esistenza “di fatto” di un numero
consistente di psicolgi che già lavoravano in un’ottica di PdC.
In questo clima culturale fine anni settanta, caratterizzato da una grande vivacità
intellettuale che si espresse in forma di movimenti collettivi contro lo status quo,
ritenemmo importante dar conto di quanto stava maturando nella realtà italiana e
proporre una visione contestualizzata di questo nuovo approccio. Nel 1980 uscì
“Psicologia sociale di comunità” (Palmonari e Zani). Nel 1981 venne creata la
Divisione di PdC della Società italiana di psicologia (SIPS). Dal novembre 1994 la
divisione si è trasformata in Società italiana di psicologia di comunità (SIPCO), che si è
dotata di uno Statuto, un Regolamento e un Codice etico.
I tei su cui maggiormente hanno lavorato gli psicologi di comunità italiani sono:
Dal punto di vista accademico la PdC occupa spesso una posizione marginale,
ma nonostante tutto esiste e i dibattiti ancora attuali che pongono al centro gli
interrogativi sulla sua esistenza sono in fondo un’espressione di vitalità.
Kelly (1990) aveva sottolineato quattro punti rilevanti per mantere e rafforzare
lo sviluppo della disciplina:
1. Le ragioni dell’interrogarsi
Interrogarsi sul ruolo che spetta al sociale in questo nuovo campo di riflessione e
di intervento può apparire paradossale. In primo luogo, c’è il fatto che la PdC,
storicamente, è apparsa in continuità con i movimenti sociali che hanno animato la
società civile. La critica psicologia di comunità ha un carattere di critica all’ordine
sociale costituito.
Sono state individuate diverse fasi, strettamente legate alla storia politica della
seconda metà del XX secolo, che hanno portato a distinguere tra la psicologia “delle”
comunità, il lavoro “nelle” comunitpa e infile la psicologia “di” comunità.
Questi correnti possono richiamarsi a una stessa prospettiva. Tra i valori che
aggregano queste correnti, alcuni sono comuni a tutte, mentre altri fanno riferimento a
oggetti e pratiche di intervento distinte. Quattro tipi di valori sono messi in gioco:
Si può anche osservare il modo in cui la comunità nel corso del tempo ha
ricevuto uno status di operatore ideologico, assumendo così una connotazione utopica.
La comunità diventa uno spazio di riferimento che rimanda a forme di socializzazione
passata che possono rivestire una qualità negativa o ideale.
Tutto ciò non impedisce che oggi a questo termine nelle scienze umane sia
attribuito un senso e uno status positivo. La riabilitazione del concetto di comunità
rende ancora più urgente il compito di definirne forme, dimensioni e proprietà.
3. I luoghi di osservazione della
dimensione sociale
In storia si parla di comunità a proposito di gruppi che si sono costituiti nel corso
del tempo, in un luogo e che condividono una medesima cultura e una medesima lingua.
Questa prospettiva complessiva trava un’eco nelle altre scienze umane.
Infine, la prospettiva derivata dal diritto orienta l’attenzione sugli spazi sociali
definiti da un contesto territoriale e da relazioni di prossimità che non sono
necessariamente scelte.
4. Condizioni e ostacoli all’intervento in
una cornice di comunità
Le difficoltà incontrate quando si interviene a sostegno di categorie svantaggiate
vengono attribuite alle pressioni che si esercitano sulle stesse. Si enfatizza
l’interiorizzazione dell’immagine negativa che il contesto sociale rmanda alle vitttime
della discriminazione e dell’oppressione.
Ciò che Jodelet ha scoperti sul sistema di relazioni sociali stabilito tra la
popolazione e gli utenti dell’ospedale psichiatrico ha dimostrato la forza delle reticenze
e delle difese sociali che provocano.
In effetti la comunità di accoglienza dei malati mentali era esposta alla condanna
da parte della popolazione esterna al perimetro della colonia familiare, che attribuiva
alla presenza dei malati il rischio di contaminazione e di deterioramento della facciata
sociale. Inoltre, la popolazione esterna esprimeva giudizi negativi sulla moralità di
coloro che accoglievano i malati. Ne scaturirono pratiche che reintrodussero nella vita
quotidiana quelle barriere che l’abbattimento delle porte dei manicomi avrebbe invece
dovuto eliminare.
Quando le levatrici tradizionali ritengono che il loro intervento non sia in grado
di ridurre il rischio di moralità, esse prendono l’iniziativa di accompagnare le donne
verso i centri di cura.
La letteratura suggerisce che molte persone, oltre agli attuali disoccupati, sono
psicologicamente influenzate in modo negativo dalla disoccupazione, che l’impatto
della disoccupazione può persistere anche dopo la ri-occupazione e che un lavoro
insicuro e di scarsa qualità ha conseguenze sul malessere simili alla disoccupazione.
Tuttavia, la vastità dei problemi è tale che gli operatori non potrebbero mai
essere abbastanza per “trattare”, una alla volta, tutte le persone che stanno soffrendo.
La disoccupazione di massa serve gli interessi dello status quo in diversi modi:
la disoccupazione di massa non voluta garantisce che ci siano potenziali lavoratori
disposti a fare i lavori più noiosi e perciò funziona in modo efficace come politica dei
redditi, poiché garantisce che ci siano persone disoccupate che competono per i lavori
delle persone occupate, agevolando così i datori di lavoro nel ridurre i salari e le
condizioni di lavoro.
Per capire questa situazione, è di aiuto affermare che i disoccupati sono persone
povere-disastrate e che devono passare attraverso rituali intrusivi e degradanti per
ottenere una miseria che permette loro di mantenersi sani abbastanza da competere per
il lavoro, ma non abbastanza per avere uno stile di vita valido alternativo.
- Di chi sono gli interessi a servizio dei quali si sostiene che i problemi di
salute mentale dei disoccupati non sono causati da eventi socioeconomici
esterni.
- Quali sono le implicazioni di questo lavoro rispetto all’attribuzione della
colpa per il danno psicologico prodotto dalla disoccupazione.
- Come gli interessi delle varie parti sarebbero serviti se ci fosse la
convinzione che la malttia mentale causata dalla disoccupazione fosse
reversibile attraverso poche sessioni di psicoterapia.
- A chi giova (beneficia) credere che la disoccupazione di massa possa
essere affrontata con trattamenti cognitivi di persone dopo che queste
sono diventate disoccupate, piuttosto che con la prevenzione
socioeconomica collettiva prima che le persone perdano il lavoro.
- A chi giovano gli interventi che creano e mantono un eccesso di
potenziali lavoratori oltre l’offerta e allenano queste persone a competere
fra di loro piuttosto che interventi volti a creare e a mantenere posti
vacanti in eccesso rispetto ai potenziali lavoratori e ad allenare i datori di
lavoro a competere tra di loro per ottenere un numero insufficiente di
potenziali dipendenti.
- A chi giova creare l’illusione di un intervento efficace attraverso
l’aumento delle possibilità per i disoccupati di un reimpiego che
ridistribuisce semplicemente la miseria della disoccupazione da un
sottogruppo a un altro.
- Fino a che punto la costruzione e l’uso di certe “conoscenze” relative alla
disoccupazione, l’occupazione e la salute mentale sono utilizzate per
promuovere il potere dello status quo, piuttosto che il potere dei
disoccupati.
Tuttavia, secondo una prospettiva critica, ci sono molte versioni della realtà, in ciascuna
delle quali “la realtà” è costituita attraverso la produzione soggettiva di senso di una
intersezione unica di strutture che sono sociali. La versione dominante della conoscenza
è appunto la versione della realtà al servizio degli interessi del gruppo più potente. Gli
psicologi
Capitolo 4
(La psicologia di comunità come linking science.
Potenzialità e sfide delle competenze transdisciplinari)
1. Introduzione
La PdC è stata caratterizzata da una ricerca di identità politica, come psicologia
tesa ad aumentare la giustizia sociale e il benessere individuale all’interno di una realtà
complessa.
Poiché il concetto di PdC è per sua natura transdisciplinare, la sua identità porta
con sé un’ampia gamma di linee di ricerca locali e individuali, e tenta di integrare al suo
interno i sistemi di valori personali con la ricerca e la pratica interdisciplinari
scientificamente fondate.
La PdC intesa come scienza di collegamento intende liberarsi dai limiti derivanti
dalle discipline e tassonomie accademiche tradizionali.
3. Il community-building in una
società civile
Analizzando i rischi e le possibilità della globalizzazione, alcuni ricercatori
famosi quali Anthony Giddens (1999), Zygmunt Bauman (2000) e Ulrich Beck (2005)
concordano nel ritenere che i processi attivi di community-building volti a sviluppare
una cultura di “comunità di apprendimento” saranno indispensabili per superare i rischi
e i pericoli della globalizzazione.
James G. Kelly (1966) intuisce che per lavorare con le comunità si deve capire
che ognuna di esse è unica, che la relazione epistemologica tra i ricercatori e le persone
oggetto della ricerca, nel lavoro di ricerca e azione comunitarie, è complessa poiché
genera una relazione di influenza reciproca e di doppia costruzione di senso. Il sapere
prodotto ha bisogno di costruzione, esame e rielaborazione continui a causa del suo
costante cambiamento.
La maggior parte dei lavori pubblicati in inglese, e molti anche in spagnolo, nel
campo della PdC, sono forme di intervento di prevenzione.
3. L’idea di relazione
La maggior parte delle volte parlando di comunità si fa riferimento a un gruppo
che ha una storia, una cultura, e/o una sottocultura. Solo le relazioni che si creano tra le
persona a generare quella configurazione che si chiama comunità e a determinare i
limiti speciali del territorio, se ci sono.
Nella PdC molte volte le comunità sono questi altri, la cui alterità spesso è stata
anche definita in modo negativo, relegandoli all’esclusioni.
È necessario capire che questo altro al quale ci avviciniamo deve essere parte di
una relazione caratterizzata da uguaglianza e rispetto.
Accettare l’altro nella sua alterità significa che la critica destinata a rompere i
canoni idelogizzati e ideologizzanti si deve applicare allo stesso modo agli agenti
interni, come agli agenti esterni.
Fin dalle sue origini la PdC, anche nella sua forma di Psicologia sociale
comunitaria, comprende la partecipazione, poiché è quest’ultima che permette di
realizzare le trasformazioni che rispondono alle aspettative e alle necessità delle
comunità.
Già dagli anni ottanta si riconosceva che il fattore impegno gioca un ruolo
fondamentale.
L’idea ha sviluppato una vita propria ed è forse una delle più riuscite a giudicare
dal suo tasso di utilizzo nel campo della ricerca, dell’intervento e della prevenzione in
PdC. La sua utilità euristica è molto alta, così come la sua produttività.
Dobbiamo capire che purtroppo ci sono società in cui mantenersi vivi è il primo
compito quotidiano delle persone, per le quali la liberazione è fondamentale. Qui
l’autonomia si può chiamare liberazione: dalla schiavitù, dall’oppressione...
Le cause fondamentali dei problemi sociale, anche se non sembra, sono sempre
le stesse:
10. L’idea e la presenza della
coscienza
La PdC sviluppata in America Latina adotta i concetti fondamentali e l’enfasi
sulla necessità di una mobilitazione della coscienza, in modo che si possano produrre
trasformazioni profonde nelle persone.
Nelle definizioni che si sono succedute nel tempo, alcuni autori hanno
sottolineato il livello individuale. Nell’elaborazione della teoria sull’empowerment,
Zimmerman sottolinea l’importanza di quattro requisiti:
Tuttavia, vengono di seguito proposte in via esemplificativa due scale, che sono
mostrate utili nell’analisi di alcune situazioni. La prima scala è stata elaborata da
Spreitzer sulla base di un modello dell’empowerment a quattro dimensioni riferite agli
stati psicologici individuali rispetto al proprio lavoro: la significatività, l’abilità,
l’autodeterminazione e l’influenza. La significatività è definita come la
corrispondenza tra le richieste dei compiti lavorativi e il sistema di valori, credenze e
ideali della persona e rappresentata l’importanza che la persona attribuisce a quello che
fa; l’abilità è la convinzione di possedere abilità e strumenti necessari per svolgere il
lavoro e per farlo adeguatamente; l’autodeterminazione è la sensazione di controllo
rispetto al proprio lavoro, di avere libertà di iniziativa e di possibilità di decidere come
organizzare il lavoro in termini di tempo, metodi e intensità; infine, l’influenza è la
convinzione di avere una incidenza sugli esiti operativi e anche strategici del proprio
lavoro.
La seconda scala è quella denominata empo, che misura tra componenti chiave
dell’empowerment individuale a livello teorico: la capacità di porsi degli obiettivi e di
raggiungerli efficacemente, la mancanza di speranza e di fiducia, e per ultimo,
l’interesse verso questioni sociopolitiche e la partecipazione politica, considerati
indicatori di consapevolezza critica.
La parola chiave al cuore del concetto è potere. E infatti il dato che attiva il
processo di empowerment è proprio la situazione di mancanza di potere. Il punto di
partenza del processo di empowerment è quindi una situazione definibile come
passività appresa, sentimento di impotenza acquisita.
I primi due temi sono legati tra loro e complessi: riguardano la situazione delle
persone svantaggiate o emarginate per una molteplicità di motivi, a seconda anche del
contesto storico e socioculturale, ma che in genere non possiedono parametri adeguati
agli standard socialmente definiti da una ristretta maggioranza che detiene il potere.
Il terzo punto riguarda l’asimmetria di potere tra chi aiuta e chi è aiutato: come si
vede, il tema del potere e della sua distribuzione ritorna sempre in primo piano. Un
punto fermo da tenere presente da parte dello psicologo è il principio di
autodeterminazione, che consiste fondamentalmente nell’evitare la delega all’esperto,
stimolando lo sviluppo delle competenze delle persone, con un’azione di
accompagnamento nel processo di emancipazione e di cambiamento delle loro
condizioni sociali.
6. Conclusione
Concludiamo con il riferimento a un altro filone della letteratura sviluppatosi di
recente, relativo al concetto di resilienza di comunità. In termine di processo, il
concetto fa riferimento a un insieme di risorse che permettono di far fronte a un evento
perturbante. In termini di esisto, indica la ripresa o il mantenimento di indicatori del
funzionamento della comunità e dei suoi membri dopo l’esposizione all’evento
disastroso. Vi sono delle ovvie aree di sovrapposizione tra i concetti di empowerment e
di resilienza: le concezioni di comunità resiliente generalmente infatti includono
l’aspetto dell’empowerment come centrale rispetto al processo di adattamento della
comunità di fronte a un evento perturbante, in quanto si considera fondamentale la
partecipazione della comunità nella presa di decisione e nella soluzione di problemi
innescati da tale evento.
Capitolo 7
(Il senso di comunità)
Subindice
1. Concetto teorico.
2. Misura del senso di comunità.
3. Senso di comunità locale e ciclo di vita individuale.
4. Il senso di comunità tra vecchi e nuovi contesti di vita.
5. Senso di comunità e eventi critici.
1. Concetto teorico
Il costrutto di senso di comunità è uno dei concetti centrali della psicologia di
comunità. Una delle sue particolarità, che condivide con altri costrutti della PdC, è
quella di racchiudere implicitamente una dimensione di valore.
Altri contributi teorici al concetto sono stati forniti dalle teorie ecologiche e
ambientali del comportamento umano (Bronfenbrenner). Questo approccio ha
focalizzato l’attenzione sulla relazione fra le persone e l’ambiente fisico e sociale delle
loro comunità. Le prospettive ecologiche affermano che le caratteristiche fisiche dei
contesti non esistono indipendentemente dal luogo in cui il comportamento è attuato, e
possono influenzare in modi positivi o negativi le cognizioni, le emozioni e il
comportamento delle persone ivi inserite (de las personas incluidas en el mismo).
Negli ultimi anni sono state molte critiche al modello (al de McMillan y
Chavis), e allo stesso costrutto. Gli elementi sui quali si è concentrato il dibattito sono:
Esiste inoltre una varietà di strumenti messi a punto per la misurazione del Soc
in comunità e gruppi o contesti diversi, che non necessariamente fanno riferimento alle
dimensioni teoriche del costrutto postulate da McMillan e Chavis, ma spesso partono da
un processo di costruzione dello strumento “dal basso”, utilizzando preliminarmente
dati qualitativi.
Metodi alternativi adottati per superare questi limiti includono l’uso di strumenti
e approcci qualitativi per cogliere le prospettive dei partecipanti sulla comunità. A tale
scopo, in genere si utilizzano storie e narrative sulla vita e sulle esperienze nella
comunità, interviste e focus group, e anche metodi come il photovoice. Se lo scopo è
lo sviluppo della comunità (intervento), allora è più utile utilizzare i diversi metodi
qualitativi esistenti.
3. Senso di comunità locale e ciclo di
vita individuale
Tali differenze nel SoC in base alla fase del ciclo di vita non sono indipendenti
dalle caratteristiche del contesto residenziale, fra cui il risiedere (reside) in contesto
urbano oppure rurale. Il SoC è superiore nei piccoli paesi rispetto alle grandi città.
Lounsbury e DeNeui hanno creato una scala di misura del senso di comunità
specifica per gli studenti dei campus universitari, denominata Campus Atmosphere
Scale. Perkins non hanno elaborato strumenti specifici per la missurazione del SSoC,
ma hanno utilizzato il Sense of Community Index. (Hay muchos más que han hecho
escalas de medida, pero son irrelevantes).
Keiser e Schulte hanno sottolineato che per capire come incrementare il SSoC è
fondamentale ascoltare il punto di vista di tutti gli attori della scuola, ed esaminarne
cultura e modalità di funzionamento.
Negli anni più recenti, nel contesto statunitense sono stati rilevati alcuni limiti di
questo approccio. Da un lato, si è osservato che la definizione di prevenzione proposta
dall’Institute of Medicine era troppo ristretta e rischiava di incoraggiare la ricerca di
fattori esplicativi del disturbo mentale a livello individuale o di microlivello. Dall’altro,
le difficoltà incontrate nello stimolare l’adozione di questo approccio “scientifico” da
parte degli operatori e professionisti dei servizi hanno condotto a riconoscere la
necessità di integrare la prevention science con altri contributi interdisciplinari e con
modalità appropriate di coinvolgimento (participación) della comunità, allo scopo di
proporsi come una vera “scienza della comunità”.
Cowen proporre una concezione di benessere specifica per la PdC. Partendo dal
presupposto che il benessere debba essere una preoccupazione costante e che esso si
fondi sulla costruzione progressiva di competenze piuttosto che su interventi riparativi,
l’autore propone una concezione integrata rispetto a una varietà di costrutti esistenti.
Egli sostiene infatti che il benessere vada concepito come un fenomeno ampio,
relativamente durevole, collocabile su una dimensione continua, comprensivo della
capacità di recupero in casi di avversità e influenzato da terminanti personali,
transazionali e ambientali. Cowen pone l’accento su tre costrutti centrali. Il primo è la
presenza di competenze, intesa sia come possesso effettivo di capacità, il secondo è lo
empowerment e l’ultima fa referenzia a la capacità di affrontare e resistere alle
avversità. Secondo l’autore, questi tre costrutti (competenze, empowerment e resilienza)
dovrebbero orientare la ricerca e gli interventi di promozione del benessere della nostra
disciplina.
Il primo decennio del nuovo secolo ha visto altri sviluppi, con implicazioni
significative per la PdC: la psicologia positiva (strategia psicoterapeutica che utilizza
l’approccio cognitivo-comportamentale per promuovere le dimensioni del
funzionamento psicologico individuale positivo) o l’approccio delle capabilities. (Hay
más, pero son irrelevantes).
È pertanto un richiamo esplicito alla comunità, intesa sia come constesto che
come attore della promozione del benessere dei suoi membri.
Alla base dell’approccio ecologico ci sono una visione del mondo e una
epistemologia che Trickett (2009) definisce contestualista, che si differenzia
radicalmente dall’empirismo logico che sottende gran parte della ricerca delle scienze
sociali e del comportamento. Questa prospettiva assume che le teorie del
comportamento e le ricerche riflettano la cultura e il contesto particolare nei quale sono
generate. È evidente la distanza di questa posizione dal modello di ricerca tradizionale,
mainstream, per il quale il contesto ha un ruolo tutt’al più di “variabile di moderazione”.
Compito del ricercatore dovrebbe essere quindi, quello di verificare i confini di
applicabilità dei resultati e riformulare la questione della generalizzabilità attraverso la
domanda: in quali contesti ci aspettiamo che questo risultato sia replicato?
L’adozione di una posizione contestualista richiede però dei correttivi per evitare
il rischio di cadere nel relativismo. In particolare, vanno considerati i seguenti
presupposti:
La ricerca sulla comunità può avere quindi diverse funzioni: una funzione
“scientifica”; di conoscenza, apprendimento, empowerment sulla propria realtà o di
advocacy. In ogni caso le questioni della validità della ricerca e dei criteri per garantirla
sono fondamentali, anche se i criteri di validità utilizzati possono assumere
un’importanza differente in base al tipo di ricerca e alle funzioni che essa assolve.
La gran parte delle ricerche nella nostra disciplina continua a fondarsi su misure
raccolte a livello individuale, anche se vi sono esempi di metodi in cui la raccolta dei
dati è livello di gruppo.
Essa permette di fare ipotesi sulle cause dei problemi, ma non di verificarle,
infatti non consente di indagare i processi: ad esempio in che modo le disuguaglianze
economiche giungono a compromettere la salute? Per conoscere la risposta occorrono
altri tipi di ricerca. Ci dà informazioni che orientano le priorità dell’intervento, ma nella
misura in cui la prevalenza e l’incidenza sono usate come criterio di importanza, si
rischia di lasciare in secondo piano le problematiche meno frequenti.
Una tipologia di indicatori di particolare interesse per la qualità della vita e del
benessere delle società. Negli ultimi anni, la misurazione del benessere sociale è
divenuta una priorità, in particolare allo scopo di indirizzare della politica verso un
approccio multidimensionale alla misurazione della qualità della vita, superando le
visioni economiciste e portando al centro dell’attenzione anche le esigenze della
sostenibilità ambientale della crescita economico e dell’equità sociale.
Il metodo dei profili di comunità propone una serie di letture che permettono di
ottenere una valutazione multidimensionale (includendo dati di natura oggettiva e
soggettiva) della comunità locale capace di evidenziare aree di criticità e risorse.
Ciascun profilo propone un’analisi specifica del contesto della comunità, a livello
strutturale-oggettivo a livello psicosociale:
La visione più recente del metodo dei profili fa coinvolgere attivamente anche i
membri della comunità, incorporando quindi elementi della ricerca-azione partecipata.
3.4. L’analisi dei processi psicologici e psicosociali delle persone nella comunità
Individuare i fattori responsabili della salute in un’ottica di PdC richiede un
passaggio ulteriore, che consiste nel verificare, in una logica anche ipotetico-deduttiva, i
processi e i meccanismi psicologici e psicosociali attraverso i quali i fattori macrosociali
e strutturali impattano sulla salute.
Secondo Banyard e Miller (1998) questi metodi risultano più congruenti con i
principi e i valori della PdC, per diversi motivi:
Le narrazioni sono state estesamente studiate e la loro utilità nella ricerca di PdC
è stata sottolineata da molti. Una peculiarità del metodo narrativo è la possibilità di
applicare diverse letture de dati, che offrono informazioni su livelli differenti (da quello
individuale a quello culturale).
Una delle sfide più grandi nell’usare la PAR è trovare le strategie per
coinvolgere le persone nella ricerca, Le ricerche tradizionali non sempre sono percepite
come coinvolgenti e a volte è difficile per le persone vedere i benefici della
partecipazione. Abbiamo bisogno di pensare a modalità innovative per coinvolgere le
persone in modo che continuino a partecipare e, cosa cruciale, che si divertano nel farlo.
Capitolo 11
(La rete sociale e il lavoro di rete)
Subindice
1. Origini e sviluppo del concetto di rete sociale.
2. La rete sociale: caratteristiche strutturali e caratteristiche funzionali.
3. Che cosa producono le reti?
4. L’intervento di rete.
5. Dalla rete alla partnership: una configurazione obbligatoria nel sistema di
welfare locale.
1. Origini e sviluppo del concetto di rete sociale
Nell’ambito degli studi sulle reti sociali, un importante contributo è quello
fornito dalla network analysis. Questa prospettiva teorica si è sviluppata a partire dalla
confluenza di tre correnti di pensiero: la scuola antropologica di Manchester
(definisce per prima volta il concetto di rete sociale), la scuola della Gestalt (pose le
basi topologiche per lo studio delle reti sociale, la scuola di Harvard (sistematizzò le
procedure per l’analisi strutturale delle reti).
Barnes definisce questo sistema di relazioni informali come un network, una rete
sociale in cui “ogni persona è per così dire in contatto con un numero di altre persone,
alcune delle quali sono direttamente in contatto l’una con l’altra, mentre altre non lo
sono. Allo stesso modo ogni persona ha un numero di amici, che, a loro volta, hanno
altri amici; alcuni degli amici di una persona si conoscono l’un l’altro, mentre altri non
si conoscono.
a) Nel primo modello, centrato sul rapporto di scambio, il rapporto causale e tra
malattia e reti: si ritiene cioè che la condizione di malattia determini una
riduzione della numerosità dei rapporti sociali e della loro qualità.
b) Nel secondo modello, centrato sulla dimensione culturale della rete, si ipotizza
che la salute siano prodotti delle reti in relazione alle funzioni normative che
esercitano e ai modelli culturali che propongono.
c) Il terzo modello attribuisce alle reti la “funzione primaria di rafforzamento
dell’identità e della sicurezza individuale”. In questo modello le reti si ergono
come barriere di fronte agli stressor ambientali.
d) Il quarto modello si riferisce invece all’importanza del feedback che la rete
produce rispetto ai comportamenti messi in atto.
3.2. Capitale sociale
Si deve fare una distinzione tra aspetti strutturali e funzionali del capitale sociale.
Questi stessi criteri possono essere utilizzati anche per classificare il modo di
lavorare con i gruppi dello psicologo di comunità, come due dimensioni di un continum
che contraddistinguono le nostre pratiche.
Il piano identitario
Le esperienze e il comportamento associati all’attività volontaria
facilitano lo sviluppo di un’identità di ruolo corrispondente, che è
l’immediato precursore della continuazione dell’attività volontaria.
Il piano politico
Fare volontariato è un modo per prendere parte, per dare al proprio agire per il
bene comune un senso politico, agendo sul proprio contesto di vita con un chiaro intento
migliorativo e trasformativo.
Melucci, uno degli studiosi che si è occupato dei movimenti sociali, distingue
movimenti rivendicativi, movimenti politici e movimenti antagonisti, in relazione al
loro focus di interesse.
Alla base della partecipazione collativa alle azioni di protesta, la psicologia
sociale ha posto tre processi fondamentali: la percezione di un’ingiustizia,
l’identificazione con un gruppo e la percezione di efficacia o strumentalità della
partecipazione.
Per conseguire i obbiettivi, ogni parte deve combinarsi con l’altra, ognuna è
necessaria e non sufficiente, per ciascuna c’è un posto preciso. Il tutto deve essere
assemblato da una mano abile, che potremmo riconoscere nella leadership, intesa come
la capacità di oliare il meccanismo d’incastro, valorizzando il bisogno di ogni parte di
avere un proprio posto ma anche di essere parte del gioco. Nella realtà psicologica,
però, il piano razionale è solo un aspetto di ciò che è osservabile nel gruppo, che
corrisponde a quella che Quaglino definisce la dimensione reale, osservabile, del
gruppo. Ci sono altre dimensioni che dipendono: dal rapporto del gruppo con il proprio
ambiente sociale, un ambiente storicamente e culturalmente determinato; dal modo di
rappresentarsi l’identità e la cultura proprie del gruppo di lavoro; dal sistema di
significati inconsci che ciascun individuo riversa nel proprio gruppo. Tutte queste
dimensioni concorrono a definire l’identità del gruppo.