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DEL PRESENTE
Lessico politico
per tempi interessanti
MIMESIS
© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
Collana, n.
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INDICE
PRELUDIO
di Lorenzo Coccoli, Marco Tabacchini, Federico Zappino
RINGRAZIAMENTI
BENE COMUNE
di Maria Rosaria Marella
GOVERNABILITÀ
di Sandro Chignola
LEGALITÀ. OLTRE IL CRETINISMO E IL ROMANTICISMO
di Ugo Mattei e Michele Spanò
AUTRICI / AUTORI
3 Testimoniata peraltro dalla singolare quantità di lessici (tra loro assai diversi) che
hanno di poco preceduto il nostro. Cfr., a mero titolo d’esempio, F. Benigno, Pa-
role nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013; L. Pepino,
M. Revelli (a cura di), Grammatica dell’indignazione, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 2013; G. Roggero, A. Zanini (a cura di), Genealogie del futuro. Sette lezio-
ni per sovvertire il presente, ombre corte, Verona 2013; M. Tronti, Per una critica
del presente, Ediesse, Roma 2013.
L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio 9
che, paradossalmente, «non fa chissà che bene alla società», dal momento
che «non crea valori, non scopre una volta per tutte cosa è “il bene”, e non
conferma ma semmai dissolve le regole consolidate di comportamento»4.
Un modo di pensare la cui «rilevanza politica», scrive ancora Arendt pa-
rafrasando W. B. Yeats, «balza in primo piano solo nei rari momenti della
storia in cui le cose si perdono, il centro non tiene più | la pura anarchia si
scatena nel mondo»5.
Al contempo, se ciascuna voce in cui si articola Genealogie del presente
sembra ispirarsi a questo «pensare senza ringhiera», ciò è forse dovuto al
fatto che questo modo di pensare costituisca l’unico strumento effettiva-
mente adeguato a un’indagine della contingenza, che, per sua definizione
(contingentia, “ciò che tange”), sfugge alle sussunzioni dei giudizi deter-
minanti. E questo suo aspetto non può essere afferrato appieno se non si è
disposti a rinunciare a qualunque approccio che tenti al contrario di irretir-
la, iscrivendo i suoi aspetti nel quadro di logiche deterministiche, o anche
solo di rapporti di causa ed effetto – e pensiamo in primo luogo a quegli
aspetti che maggiormente destano preoccupazione, sconforto, indignazio-
ne, finanche rabbia, perché sono luoghi fisici e politici sovraccarichi di
conflitto «reso latente con la violenza»6. Non esistono più, d’altronde, leggi
naturali o storiche la cui necessità appare irrinunciabile per la comprensio-
ne di tutti quei fatti politici che puntellano i contorni di questa contingenza.
Fino a un passato relativamente recente, ogni tentativo di comprensione
che pretendesse di appellarsi alla sicurezza della “ringhiera”, costituita di
volta in volta da formule coniate da altri – per fini del tutto spiegabili –,
ha poi dovuto fare i conti con il proprio fallimento drammatico, se non
proprio tragico. Nonostante i reiterati sforzi di rinvenirne il cadavere, ab-
biamo dunque salutato senza troppi rimpianti, e senza reclamarne alcuna
eredità, l’idea di una Natura Umana, così come ci siamo lasciati volentieri
alle spalle quell’opulenza ontologica della Storia fondata sulla mutilazione
delle sue premesse antropologiche e sul desiderio ardimentoso di scindersi
13 Ivi, p. 42.
L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio 13
17 Come mette bene in risalto Susan Sontag (in Davanti al dolore degli altri, Mon-
dadori, Milano 2003), «vi sono casi in cui la ripetuta esposizione a ciò che scioc-
ca, rattrista o atterrisce non logora una reazione profonda. L’assuefazione non è
automatica, perché le immagini (portatili, inseribili) obbediscono a regole diverse
da quelle a cui è soggetta la vita reale» (p. 80); questa sua considerazione è fun-
zionale all’analisi di «due idee molto diffuse»: «la prima idea sostiene che l’atten-
zione del pubblico sia manovrata dai media – e dunque, in maniera preponderante,
dalle immagini. Se ci sono fotografi, una guerra diventa “reale”»; la seconda idea
«sostiene che in un mondo saturo, anzi ipersaturo, di immagini, diminuisce l’im-
patto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Alla fine,
tali immagini non fanno che renderci meno capaci di partecipare, di avvertire
il pungolo della coscienza» (p. 99). Su questo punto, cfr. anche le riflessioni di
Adriana Cavarero in Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme (Feltrinelli,
Milano 2007), in cui proprio l’invenzione del concetto di «orrorismo» (distinto da
«terrorismo») consente di articolare un nuovo pensiero in grado di affrontare la
violenza ipermoderna, disattendendone così i processi di sensura.
18 B. Noël, Le sens, la sensure (1985), in Id., L’outrage aux mots, P.O.L., Paris 2011
(trad. nostra).
19 Ivi, p. 163.
L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino - Preludio 15
a questo processo sono del tutto antitetiche: il suo compito – ma ve n’è più
d’uno – è anzitutto quello di riconoscere nello stesso lessico politico uno
degli strumenti privilegiati della retorica della dominazione, e dunque il
terreno su cui è possibile attivare delle resistenze. Si tratta, in altre parole,
di porsi all’interno di questo spazio di circolazione discorsiva per recu-
perare ciò che deborda dalla pronuncia ufficiale e ordinata, rintracciando
così in quell’apparente armonia con cui le parole sembrano risuonare, le
saldature dei montaggi che le sorreggono, così come i brusii prodotti dal-
la loro costruzione. Un simile lavoro genealogico renderà forse possibile
aprire le parole – il loro uso, la loro disseminazione – anche al di là di se
stesse, restituendole alle incertezze, alle inquietudini e alle aporie da cui
sono emerse.
23 Cfr. i saggi di Laura Bazzicalupo (p. --), Francesco Remotti (p. --), Gianfrancesco
Zanetti (p. --), Lorenzo Coccoli (p. --), Cristina Morini (p. --) e Federico Zappino
(p. --).
18 Genealogie del presente
i concetti non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come se fossero corpi
celesti. Non c’è un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o
piuttosto creati e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li creano30.
RINGRAZIAMENTI
ADALGISO AMENDOLA
COSTITUZIONE
Crisi della mediazione e nuovi processi costituenti
1 Sulla tensione tra unità del corpo politico e soggetti e sulle aporie della costituzi-
one moderna, è essenziale G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del
concetto, Franco Angeli, Milano 2003; sul rapporto costituzione-costituzionalis-
mo-ordine politico, cfr. P. Schiera, Tra costituzione e costituzionalismo (costituito
e costituente). Appunti sul mutamento costituzionale (ricostituente), in M. Ber-
tolissi, G. Duso, A. Scalone (a cura di), Ripensare la costituzione. La questione
della pluralità, Polimetrica, Milano 2008, pp.79-92.
24 Genealogie del presente
9 Cfr. G. Arrigo, G. Vardaro (a cura di), Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del
lavoro nella Germania prenazista, Edizioni Lavoro, Roma 1982.
A. Amendola - Costituzione 29
10 Sulla costituzione del Novecento e sulla sua crisi, una sintesi molto efficace è
offerta dalla voce Costituzione e sfera pubblica di S. Mezzadra, in A. Zanini,
U. Fadini, Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli,
Milano 2001, pp.80-85.
11 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-
1979), Feltrinelli, Milano 2005.
30 Genealogie del presente
FEDERICO ZAPPINO
CRISI
Del giudizio dei viventi
1 Cfr. Die endlose Krise ist ein Machtinstrument, intervista con G. Agamben su
«Frankfurter Allgemeine Zeitung», 24 maggio 2013, trad. it. di N. Perugini ap-
parsa su «il lavoro culturale», 2 ottobre 2013, http://www.lavoroculturale.org/la-
crisi-perpetua-come-strumento-di-potere-conversazione-con-giorgio-agamben/.
36 Genealogie del presente
al rango di “necessario” (le misure necessarie per far fronte alla crisi, la
coalizione di governo necessaria all’uscita dalla crisi ecc.) detiene infatti
una forza che gli consente di erodere gli spazi propri della pubblica discus-
sione, anche solo a partire dalla progressiva esautorazione di quelli mera-
mente istituzionali delle democrazie liberali, ossia i parlamenti. È la forza
della necessità a indicare le misure e le tecniche da adottare, e a squalificare
di conseguenza le alternative “ideologiche”: si tratta di una forza che pro-
mana in primo luogo dal connaturato alone di oggettività che permea ogni
necessità, ciascuna delle quali necessita, propriamente, di essere veicolata
come iscritta nell’ordine delle cose, come ineluttabile.
che decide dello e sullo stato di eccezione, ne consegue che in esso potere
legislativo e potere esecutivo si confondono e che in questa confusione
i tratti che predominano sono quelli del decisionismo, con il suo doppio
arbitrario: dispotico, o anche benevolo, come quello del buon padre di fa-
miglia che conosce ciò che è bene per i propri figli e impiega ogni mezzo
per perseguirlo4. Ciò che consente a Schmitt di stabilire la coincidenza
tra stato di eccezione e sovranità è la distinzione tra “norma” (giuridica) e
“decisione” (politica). Pur partecipando entrambe della composizione del-
lo stato di diritto, nei momenti ordinari della vita pubblica la coesistenza
tra le due si risolve a vantaggio della prima, relegando la seconda in uno
spazio angusto. Nei momenti di crisi la situazione si capovolge: lo stato
di eccezione sovverte l’ordine di questa coesistenza, conferendo alla deci-
sione – e dunque al sovrano – piena autonomia. Si tratta di una situazione
in cui la norma perde valore di legge e in cui i decreti e i regolamenti di
diretta emanazione del potere esecutivo s’impongono in virtù della propria
forza di legge.
Sintomaticamente, è stato scritto più volte, a distanza di un decennio da
queste riflessioni Schmitt offrirà il suo sostegno a Hitler, il cui regime sin-
tetizzerà in maniera esemplare la scissione radicale tra il corpo della legge
e la sua forza vincolante, così come l’usurpazione dello spazio della norma
dalle decisioni. Il totalitarismo nazista del Novecento, d’altra parte, inteso
come figura emblematica dello stato di eccezione, è così impresso nella
memoria collettiva da rendere qualunque richiamo ad esso comprensibil-
mente (e imprevedibilmente) suggestivo, anche ai fini di qualche fosca pre-
visione. Mi piacerebbe, tuttavia, fugare un possibile fraintendimento: non
credo, infatti, che questa analogia potrebbe offrire validi appigli per non
scivolare; al contrario, rischierebbe semmai di adombrare alcuni aspetti
del nostro problema. Precisazione, questa, che ne sottintende chiaramente
un’altra, relativamente all’esaustività delle teorie dello stato d’eccezione,
se applicate ai nostri giorni5. Non è qui in dubbio quanto l’affermarsi di
poteri che travalicano la legge in nome della crisi alla quale bisogna far
fronte ricorrendo all’Unto del Signore, o al Governo della Provvidenza,
si riveli nei casi sempre crescenti di sospensione dello stato di diritto e di
4 Non sorprende dunque che un riferimento esplicito alla «gestione del buon padre
di famiglia» sia risuonato alla Camera dei Deputati il 29 aprile 2013, nel corso
dell’insediamento dell’attuale Governo.
5 Cfr. anche C.J. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, Ginn, Bos-
ton 1950; C.L. Rossiter, Constitutional Dictatorship. Crisis Government in the
Modern Democracies, Harcourt Brace, New York 1948; H. Tingsten, Les pleins
pouvoirs, STOCK, Paris 1934.
38 Genealogie del presente
6 Su tutti, cfr. R. Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità (1972-97), a cura
di G. Imbriano, S. Rodeschini, ombre corte, Verona 2012.
7 Tucidide, Guerra del Peloponneso, ad es. in libro I, XXIII, 1: 108.
8 Aristotele, Politica, 1289b, 12.
9 H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Einaudi, Torino 2009, p. 326. Arendt allude
qui ai «terribili versi» dell’Edipo a Colono di Sofocle, il quale, per bocca di Teseo,
«leggendario fondatore di Atene», contrappone alla propria concezione del mero
fatto di esistere («Non esser nati è la sorte migliore | o almeno appena nati ritorna-
re | a quel mondo da cui siamo venuti») la vita nella polis.
10 Ibid.
F. Zappino - Crisi 39
degni di lutto. Questo non significa che non ci sarà nessuno a piangermi, o che
le persone non degne di lutto non abbiano modo di piangersi reciprocamente,
o che non esisterà da qualche parte un posto dove sarò pianto, né che la mia
perdita non avrà alcun effetto. Ma le forme di persistenza e resistenza con cui
vengono piante le vite non degne di lutto si manifestano all’interno di una sorta
di penombra della vita pubblica14.
14 J. Butler, A chi spetta una buona vita?, a cura di N. Perugini, nottetempo, Roma
2013, p. 20 e s. Su questo punto rinvio però anche al volume curato da Anna Si-
mone, Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi (Mimesis, Milano-Udine
2014) e, in particolare, al suo saggio introduttivo Il negativo della crisi. Suici-
dio, anomia, dismisura e désaffiliation: la ringrazio per avermelo fatto leggere in
anteprima.
15 H. Arendt, L’umanità in tempi bui (1968), ora in Ead., Antologia. Pensiero, azione
e critica nell’epoca dei totalitarismi, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2006,
p. 217.
16 Cfr. M. Guareschi, F. Rahola, Chi decide? Critica della ragione eccezionalista,
ombre corte, Verona 2011; M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pub-
blico, Rizzoli, Milano 2010, pp. 17 sgg.
F. Zappino - Crisi 41
me ragioni per pensare che il potere politico sia oggi del tutto immanente
a quelle strutture. Già nel 1951, la stessa Arendt, che pure aveva appena
pubblicato quello che sarebbe divenuto uno dei capisaldi sul totalitarismo,
metteva in guardia dal pericolo sotteso all’identificazione del potere di Hit-
ler come il peggiore di tutti i mali17: benché fosse convinta che il totalitari-
smo avesse indotto una crisi maggiore di quella che ne favorì l’emersione
(in grado di mandare in frantumi categorie politiche e criteri di giudizio),
riteneva allo stesso tempo rischioso «farsene ossessionare al punto da di-
ventare ciechi di fronte ai numerosi mali minori, e non così minori, di cui è
lastricata la strada per l’inferno»18. Lo «spaesamento» e lo «sradicamento»
assurti a normale condizione esistenziale, «la burocratizzazione e la corru-
zione dei governi democratici», «il modello imperialista di oppressione di
popoli stranieri» e infine «la miseria e lo sfruttamento spudorato dell’uomo
sull’uomo»19, erano solo alcuni di questi mali minori.
3. Uno sforzo di comprensione della crisi, allora, non può che trarre
maggiore giovamento da una diversa concezione della sovranità rispetto a
quella veicolata dalle teorie eccezionaliste. Se da un lato queste disvelano
il fallimento degli auspici liberali di uno “stato minimo” – in grado di ga-
rantire al contempo libertà economica e liberazione dalla servitù, senza che
tra queste due s’innescasse un conflitto letale –, dall’altra non catturano ap-
pieno il ruolo che il “deterritorializzato” sistema di produzione capitalisti-
co esercita sulla sovranità proprio “riterritorializzandosi” in essa20. In altri
termini, questo significa che se nell’attuale governo della crisi i principali
attori sono stati ipersovrani (stati che impongono, valutano, disciplinano,
proibiscono, decurtano ecc.)21, ciò non è riducibile al fatto che essi eludono
arbitrariamente la norma facendo prevalere le decisioni. Significa, semmai,
17 H. Arendt, Le uova alzano la voce (1951), ora in Ead., Antologia, cit. p. 73.
18 Ibid.
19 Ibid.
20 Cfr. M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neo-
liberista, DeriveApprodi, Roma 2013.
21 Questo può avvenire anche in forme non necessariamente autoritarie, bensì bene-
vole, paternaliste: si considerino ad esempio le politiche di nudging implementate,
a partire dal 2008, dalle amministrazioni statunitensi e britanniche (le quali hanno
istituito vere e proprie Nudge Units), ispirate alle teorie del “paternalismo liberta-
rio” di Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein. Cfr. Eid., Nudge. La spinta gentile.
La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute e felicità,
Feltrinelli, Milano 2009. Per una prospettiva critica, cfr. J. Soss, R.C. Fording,
S.F. Schram, Disciplining the Poor: Neoliberal Paternalism and the Persistent
Power of Race, The University of Chicago Press, Chicago-London 2012.
42 Genealogie del presente
che la loro sovranità, dopo esservi stata sottomessa, è stata resa iperbolica
dal potere economico, con il benestare degli ordinamenti giuridici e di isti-
tuzioni la cui legittimità politica è del tutto discutibile, e infatti, non senza
difficoltà, discussa. All’interno di questo quadro, il potere politico ha un pi-
glio prettamente amministrativo, ispirato alle logiche dell’efficienza e della
competitività, tipiche degli attori privati del mercato; la concezione classi-
ca della sovranità, di conseguenza, lascia spazio a una forma residuale del
potere politico immanente al diritto e al capitale, e cioè alle grandi “istitu-
zioni” di quella che si definisce ormai comunemente governance neolibe-
rale22. Questa ha la duplice caratteristica di coincidere con l’unica forma
di governo della crisi, così come di esserne perpetua concausa; con Marx
ed Engels, d’altronde, abbiamo già appurato che la crisi, lungi dall’essere
un accidente, un’eccezione, costituisce piuttosto la normale modalità di
funzionamento ciclico del sistema di produzione capitalistico.
Anche la governance neoliberale, come ogni forma di governo, ha avuto
la necessità di produrre (potremmo dire, di “mobilitare”) una propria forma
di suddito dalla quale derivare legittimazione. Si tratta di un suddito la cui
soggettività è bifronte. È innanzitutto una soggettività produttiva: la sua
vita è assorbita dalla produzione. A differenza dell’homo œconomicus, il
soggetto neoliberale si spoglia della tradizionale distinzione tra tempo di
lavoro e tempo libero, al punto che per suo tramite il capitalismo assurge a
biocapitalismo23, si insinua molecolarmente – direbbe Gramsci – nei corpi,
nei bisogni, nei desideri. È proprio questo aspetto che induce Foucault a
concettualizzare il potere come sempre più coincidente con l’economia,
intesa proprio come luogo in cui si organizza la vita24. Questo biopotere,
che lungi dal reprimere, produce la vita
22 Cfr. A. Fischer-Lescano, G. Teubner, Regime Collisions: The Vain Search for Le-
gal Unity in the Fragmentation of Global Law, in «Michigan Journal of Interna-
tional Law», 25, 4, 2004, pp. 999-1046.
23 Su questo punto c’è una vasta letteratura. Mi limito a segnalare F. Chicchi, Sog-
gettività smarrite. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mon-
dadori, Milano 2012 e P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx,
ombre corte, Verona 2013.
24 Cfr. il recente articolo di L. Bazzicalupo, L’economia come logica di governo, in
«Spazio filosofico», 7, 2013.
F. Zappino - Crisi 43
zabilità e la loro docilità gli sono stati necessari metodi di potere suscettibili di
maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale, senza pertanto renderle più
difficili da assoggettare25.
29 J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (1997), a cura di F.
Zappino, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 54.
30 Constant, La libertà degli antichi, cit., p. 28. Come osserva Simone, in proposito,
«tra le matrici che spingono oggi al suicidio economico non v’è solo il problema
dell’impossibilità del saldare il debito, ma v’è anche la negazione di altro credito
utile per continuare a sentirsi soggetti del godimento» (Il negativo della crisi,
cit.).
31 Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 55.
F. Zappino - Crisi 45
4. Torniamo allora alle pagine della Guerra del Peloponneso. Qui Tu-
cidide ricorre alla parola κρίσις per descrivere la peste che si abbatté su
Atene nel 430 a.C. Lo storico narra qui la diffusione della malattia alluden-
do ad essa come al dilagare di una crisi: la descrizione dei corpi falcidiati
e la conta dei morti si accompagnano nelle sue pagine a un’analisi delle
conseguenze che la peste sortisce sulla città, imponendo agli uomini la
riformulazione dei criteri di giudizio che dovranno presiedere al nuovo
ordine politico32. Tucidide riprende qui il concetto di crisi dalla medicina
di Ippocrate, secondo cui la κρίσις definisce il momento culminante di una
malattia, il giorno in cui il medico è chiamato a esprimere un giudizio sul
miglioramento o meno della salute del paziente. Nel farlo, però, il medico
non può appellarsi ad alcun criterio universale o astratto: benché Ippocrate
avesse maturato una certa conoscenza del corpo, era anche consapevole
che questa incontrasse un limite davanti a quella combinazione di determi-
natezza e imprevedibilità costituita dalla singolarità di ciascun corpo uma-
no. Di conseguenza, è proprio con ciascuna singolarità che il giudizio del
medico ippocratico è chiamato a misurarsi, e da essa deve trarre il proprio
criterio; argomento che sembra d’altronde risuonare in quella distinzione
che, a distanza di molto tempo, condurrà un altro medico, Franco Basa-
glia, a sostenere che «una cosa è considerare un problema una crisi, una
cosa è considerarlo una diagnosi»: «la diagnosi è un oggetto; la crisi è una
soggettività»33.
Diametralmente opposta è l’accezione di κρίσις che possiamo rinvenire
dalle versioni greche dei testi biblici, nelle quali si assiste per certi versi a
una rivoluzione: la κρίσις decolla da quelle sedi che sono proprie alle rela-
zioni tra i viventi, il mondo e i corpi, per vaporizzarsi nello spazio celeste.
Ed è in questa vaporizzazione che paradossalmente si materializza l’alle-
stimento di una soggettività da sempre colpevole, indissolubilmente legata
all’obbligo di prostrarsi al debito mediante la forclusione del giudizio. Non
è forse questa l’altra faccia dell’argomento della celebre tesi di Benedetto
Croce relativamente all’impossibilità di non dirci cristiani?
In tutti quei passi del Nuovo Testamento in cui si parla del giudizio in
termini positivi, si fa riferimento al giudizio di Dio sulle azioni umane.
Egli è l’unico titolato a esprimerne uno, essendo il miglior conoscitore di
quel popolo di cui è 1) produttore, 2) educatore di coscienze, 3) governante
e 4) giudice. L’Apocalisse, il Giudizio universale, costituisce nelle Sacre
sei tu per giudicare un servo che non è tuo?» (14, 4). Saremmo dunque in-
vitati a trarre la conclusione che i servi, ai quali chiaramente non spetta una
buona vita, siano passibili di giudizio (forse perché non meritano quello
Divino, come le bestie), purché questo sia emesso dal padrone legittimato
da quel diritto che promana dalla proprietà privata?
La veemenza con cui nella Bibbia si esecra performativamente il giu-
dizio (a eccezione di quello nei riguardi dei servi), l’insistenza con cui si
esalta per sottrazione una certa umiltà, la costante chiamata alla correità, la
nota di derisione che cade sul “tu” nel leitmotiv chi sei tu per giudicare?...
– è difficile non leggere tutto ciò come funzionale alla necessità di sco-
raggiare quella tentazione demiurgica degli umani di essere uguali a Dio
fino al punto di rimpiazzarlo. Necessità tanto più urgente se considerata
alla luce dell’esempio negativo “storico” di Eva, punita esemplarmente per
aver fatto esattamente il contrario di ciò che Dio le aveva imposto. Nella
Genesi, in quei versetti che narrano il momento topico dell’umanità, Eva
rivendica per sé il diritto di discernere se mangiare o meno il frutto dall’Al-
bero della Conoscenza del Bene e del Male, mettendo dunque in opera la
propria capacità di giudizio prima di “disobbedire”. Ciò non significa che
Eva agisca in modo autonomo, o in previsione di uno scopo; piuttosto, Eva
formula un giudizio che presiede a un’azione nel contesto di una relazione.
È il socratico serpente, l’Altro, come uno specchio deformante, a offrirle
delle argomentazioni che lei reputa valide, portandola a smascherare l’in-
ganno sotteso alla proibizione: la Legge che Dio ha posto è volta a tutelare
un ordine gerarchico, anziché a istituire un ordine della convivenza.
La prosecuzione della storia è nota. Una volta che Eva e Adamo acquisi-
rono la capacità di giudicare36, entrando in competizione con Dio, quest’ul-
timo non poté far altro che cacciarli dall’Eden e tradurli sulla Terra, che nel
frattempo aveva reso il peggior luogo per vivere: e proprio “per vivere”
Adamo apprenderà di dover lavorare fino alla morte, traendo con fatica
il cibo da un terreno che spesso gli sembrerà infecondo; quanto a Eva, la
sua punizione consisterà nel partorire con dolore e nell’essere dominata
dal marito, verso il quale comunque nutrirà un naturale istinto. Lavoro e
famiglia, dunque: sono questi gli elementi che vengono ammantati di un
alone di naturalità e di necessità al punto da strutturare la vita degli umani
sulla Terra, mediante la sostituzione di quella capacità di giudicare acquisi-
ta nell’Eden con il dovere di espiare il proprio peccato originale, e dunque
con la colpa, la cattiva coscienza.
36 Oltre alla consapevolezza della sessualità, momento che la Bibbia tenta di impo-
verire riducendolo alla mera presa di coscienza di «essere nudi».
48 Genealogie del presente
37 I. Kant, Critica della ragione pura (1781), a cura di G. Colli, Adelphi, Milano
1976, p. 214.
38 Id., Critica del Giudizio (1790), Laterza, Roma-Bari 1997, p. 27.
39 Ibid.
40 H. Arendt, Che cos’è la politica? (1950), a cura di U. Ludz, Einaudi, Torino 2006,
p. 15.
41 Ibid.
F. Zappino - Crisi 49
gli unici che in effetti gli negano il proprio sostegno, declinando ogni incari-
co di «responsabilità» in cui tale sostegno è richiesto sotto forma di «obbedien-
za». E dobbiamo solo immaginare per un istante che cosa sarebbe accaduto a
questi regimi se abbastanza gente avesse agito «irresponsabilmente», negando
il proprio sostegno42.
LAURA BAZZICALUPO
DEMOCRAZIA
Crisi e ricerca di altri modi di essere democratici
1. Crisi
2. Democrazia radicale
3. Senza mediazioni
4. E, dunque?
13 J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, a cura di L. Odello, Raffaello
Cortina, Milano 2003.
62 Genealogie del presente
FRANCESCO REMOTTI
DESTRA / SINISTRA
Ragioni di una persistenza
1. I lati di un enigma
sta diade politica ricalca «una banalissima metafora spaziale, la cui origine
è del tutto casuale»4.
Disagio, banalità, casualità da un lato e, tuttavia, persistenza dall’altro
rendono conto del carattere alquanto enigmatico della dicotomia destra/
sinistra: un vero e proprio puzzle, per risolvere il quale – sostengono H.F.
Bienfait e W.E.A. van Beek5 – sarebbe opportuno adottare uno sguardo
antropologico, e nello stesso tempo cercare di capire come essa sia sto-
ricamente venuta alla luce nella politica europea. La storia ha inizio il 5
maggio 1789, quando re Luigi XVI riunisce gli stati generali della società
francese: nella Salle des Menus Plaisirs a Versailles, a destra del sovrano
vi sono i rappresentanti del clero (il primo stato), alla sua sinistra i rappre-
sentanti dell’aristocrazia (il secondo stato), mentre i rappresentanti della
borghesia (terzo stato) si trovano assiepati in fondo alla sala. La cattiva
acustica della sala aveva indotto a ristrutturare in maniera radicale la di-
sposizione interna, e così nella riunione del 23 luglio si vedono due semi-
cerchi, quello di destra occupato dal clero e dai nobili e quello di sinistra
dai rappresentanti del terzo stato: una modifica della disposizione dei sedili
dei diversi rappresentanti per migliorare l’acustica sarebbe all’origine di
una ripartizione tra destra e sinistra, divenuta in seguito un modello per la
politica parlamentare e partitica delle società europee.
Il processo non è stato però così semplice e lineare. Negli anni della
Rivoluzione francese, i modi con cui vengono organizzati i posti nelle As-
semblee fanno intravedere spesso l’intenzione di discostarsi dalla divisione
di destra e sinistra, così come si registrano scambi, inversioni, confusioni
tra parti precostituite. Non solo, ma per 19 anni, dal 1795 al 1814, fu im-
possibile introdurre negli organi legislativi francesi la distinzione tra un’ala
destra e un’ala sinistra. La conclusione a cui pervengono Bienfait e van
Beek è, sotto questo profilo, decisamente interessante. Dopo avere sostenu-
to che gli eventi relativi alla disposizione dei posti a sedere nelle assemblee
parlamentari francesi non sono in grado di fornire una spiegazione esau-
riente, i due autori affermano:
Destra e sinistra sono entrate nella politica in una maniera contorta, casuale
e, manifestamente, come un evento di ben scarsa importanza. Dal momento
però in cui [questa polarità] si manifestò, nonostante gli sforzi che furono com-
piuti per sopprimerla, essa riemerse tutte le volte. Da un capo all’altro del pa-
norama della politica moderna, destra e sinistra sono definite come la polarità
6 Ivi, p. 173.
7 M. Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Roma-Bari 2007, p.
XIII.
8 C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, Laterza, Roma-Bari 2010. Cfr. in parti-
colare pp. VIII, IX, 5 e 9.
66 Genealogie del presente
9 R. Hertz, La preminenza della destra e altri saggi (1909), Einaudi, Torino 1994,
pp. 137-140.
10 R. Needham, Introduction a Id. (ed.), Right and Left. Essays on Dual Symbolic
Classification, The University of Chicago Press, Chicago 1973, p. XXXI; Id.,
Right and Left in Nyoro Symbolic Classification, in Id. (ed.), Right and Left. Es-
says on Dual Symbolic Classification, cit., p. 331.
11 J. Laponce, Left and Right. The Topography of Political Perceptions, University
of Toronto Press, Toronto 1981, pp. 3-6.
12 G. Cardona, I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Roma-Bari, Laterza
1985, pp. 43-49.
13 Bobbio, Destra e sinistra, cit., p. 29.
14 Bienfait, van Beek, Right and Left As Political Categories, cit., p. 177.
15 Bobbio, Destra e sinistra, cit., p. 30.
F. Remotti - Destra / sinistra 67
il tempo, oltre che il conflitto, in una forma ciclica. Quando dallo spazio (si
pensi alla collocazione nelle aule parlamentari) si passa al tempo, la dualità
si trasforma in alternanza.
vii) Il conflitto può essere portato alla dimensione “gioco”, come affer-
ma Laponce; ma le “ragioni” del conflitto stanno altrove, cioè nel livello
sociale che si trova “prima” delle categorie politiche (punto v). Non sem-
pre il conflitto può essere addomesticato dalla dicotomia e trattenuto nel
“gioco” di alternanza delle categorie di destra e sinistra. Con l’adozione
di un’idea di tempo lineare e irreversibile, si può anche pensare infatti di
giungere, prima o poi, a una risoluzione del conflitto. Si tratta allora non di
mantenere, ma di distruggere la dualità: il conflitto prevarica sulla dualità,
a tal punto che l’altro ha da essere annientato. Il Novecento ha offerto molti
esempi di ricorso furibondo all’unità attraverso i totalitarismi di destra o di
sinistra. A questo proposito, Santambrogio parla di «volontà di un dispe-
rato ritorno all’unità»29. Ma il Novecento, con la Guerra civile spagnola e
con la Seconda Guerra mondiale, ha pure fatto vedere, tanto in un contesto
nazionale quanto su un piano internazionale, come la dualità destra/sinistra
possa trasformarsi in conflitti disastrosi, impossibili da incanalare e di lun-
ga durata. In altre parole, i tentativi di passaggio all’unità, lungi dall’essere
una risoluzione del conflitto, hanno dato luogo a una riproposizione bellica
della dualità con modalità particolarmente distruttive.
viii) Collocare l’opposizione destra/sinistra al di fuori delle aule parla-
mentari, in un contesto storico più vasto, quello determinato dalla storia
delle potenze occidentali, ci consente di cogliere la drammaticità dell’oppo-
sizione e di intravedere le cause che hanno generato questo contrasto e che
continuano ad alimentarlo. Per Bobbio, alla radice dell’opposizione struttu-
rale tra destra e sinistra (a prescindere, come abbiamo visto, dalla sua deno-
minazione) vi è una forte ineguaglianza sociale ed economica. Riprendendo
questa tesi, Marco Revelli fa vedere come i problemi dell’ineguaglianza
si siano ingigantiti sul piano globale: ciò che manca – egli afferma – sono
i «soggetti politici disposti a farsene carico»30. Ma perché questa latitanza
e questa titubanza? Forse i possibili soggetti politici sono attanagliati di
fronte a un’alternativa temibile: quella di entrare nel “gioco” politico della
coesistenza e dell’alternanza tra destra e sinistra, subordinando il conflitto
al mantenimento della dicotomia, oppure quella di risolvere il conflitto con
l’abbattimento violento, e dagli esiti incerti, della stessa dicotomia.
ix) Destra e sinistra non sono in ogni caso una semplificazione eccessi-
va? Praticamente tutti gli autori che si sono occupati di questa dicotomia
non hanno potuto fare a meno di sottolineare il lavoro di semplificazione
che la dualità opera sul continuum delle posizioni31, una «semplificazione
polemica» che riduce drasticamente e quindi «non può che far torto alla
complessità di un pensiero»32. All’inizio del Manifesto del Partito Comu-
nista del 1848, Karl Marx e Friedrich Engels adottano uno schema stori-
co che porta direttamente al tema della semplificazione. Secondo questo
schema, nella storia si sarebbe passati da società caratterizzate da «una
multiforme gradazione delle posizioni sociali», e quindi da una pluralità
di «lotte di classi» e di diverse figure di «oppressori e oppressi», alla «mo-
derna società borghese» in cui la lotta si è radicalizzata ed elementarizzata:
3. Categorie e relazioni
in sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che
era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto
a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto
il potere47.
48 Su questo punto, cfr. F. Remotti, Noi, la democrazia e gli altri, in P.P. Portinaro
(a cura di), L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti, Einaudi, Torino 2011, pp.
239-254.
77
FEDERICA GIARDINI
ECCELLENZA
Selezione, distinzione, differenza
Prendiamo sul serio, per un momento, il consenso con cui molti ragaz-
zi e ragazze hanno inizialmente accolto i discorsi pubblici sul merito. Il
termine suonava come una svolta, l’interruzione di un certo ordine della
convivenza, che risultava regolato secondo ingiustizia. Parente del po-
pulismo, che rifiuta qualsiasi istituto di mediazione vigente, il consenso
all’idea si alimentava della sfiducia nelle misure di redistribuzione di beni,
servizi, salari, opportunità. Farsi regolare dal merito è stato ricevuto come
un criterio di giustizia o, perlomeno, come la fine di un regime relazionale
inadempiente ed escludente.
La percezione diffusa ha a che fare con quella dimensione che dovrebbe
essere preposta all’equità dell’accesso alle risorse e della partecipazione
negli scambi. Nelle società novecentesche occidentali l’equità è la norma
prima del patto sociale che ne legittima le istituzioni; genera il riconosci-
mento che si riserva loro ed è strettamente connessa al sentimento, perso-
nale, individuale, che tale funzione primaria venga assolta, il pari accesso
cioè a quel che costituisce il plesso che va sotto il nome di “cittadinanza”:
istruzione, lavoro, sanità, informazione. Le istituzioni sono invece percepi-
te come ingiuste, e dunque delegittimate, quando appaiono inadempienti. Il
merito si è così presentato come una misura democratica, di riapertura, di
ritorno alla realtà delle competenze, dopo la finzione strumentale prodotta
da un interesse di parte o individuale che mira a garantire la propria durata
e riproduzione.
Esiste però un paradosso: il merito è un criterio di selezione, vale a dire
che individua chi è e chi non è meritevole; e così infatti è stato recepito,
come un criterio di selezione per distinguere ciò che è legittimo da ciò che
non lo è, per individuare realmente i soggetti del diritto a istruzione, lavo-
ro, sanità, informazione. Una misura di ripristino della legittimità delle isti-
tuzioni e degli istituti sociali, e dunque della pertinenza dell’esercizio delle
loro funzioni, attraverso un ritorno alla realtà dei bisogni e delle relazioni
cui rispondono. In una parola, un ritorno alla democrazia sostanziale.
78 Genealogie del presente
Criteri per valutare, per giudicare, per decidere, per orientarsi, per scam-
biare. Se le statistiche si limitassero alla vocazione di tracciare un mul-
tiversum, ci offrirebbero una sorta di mappatura di posizioni, orizzontal-
mente distribuite, intensivamente rilevanti: a diverso indicatore avremmo
diversi punti in rilievo o in sfondo. Ma questa complessità – che viene
80 Genealogie del presente
vece sta in basso nella scala deve dimostrare di esserne degno. Dimostrare:
lavoro di raddoppio della propria titolarità.
L’uso, la funzione e il significato del termine “eccellenza” si situano in
questo quadro discorsivo: eccellenza è superiorità di grado, all’interno di
una scala, costruita secondo un valore-indicatore, che rende intellegibile la
classe e comparabili gli elementi che la costituiscono. Questione di gradi e
non di selezione, di inclusione-esclusione, l’eccellenza è nome che indica
una catena che lega elementi tra loro, che vive della comparazione; non è
valore assoluto, non è criterio autoreferenziale, necessita di esercitare una
forza di attrazione verso gli elementi cui si compara. Se il differenziale è ca-
pace di mostrare la matrice da cui emerge, ciò che eccelle è momento secon-
do che occulta il ritaglio che disegna l’ambito di esercizio della gerarchia.
Selezione ed esclusione agiscono dunque nella definizione della classe, non
al suo interno, dove vige invece una classificazione tra elementi omogenei.
Eccellere significa infatti distinguersi rispetto ad altro, più precisamente,
rappresentare il valore massimo rispetto a un resto che viene situato come
valore minimo, ma che va incluso come facente parte della classe conside-
rata. Implica dunque una parità, nel senso che richiede che tutti gli elementi
della classe riconoscano parimenti il valore che li misura, che li connette in
un ordine. È per questo che l’eccellenza non disdegna l’inclusione di nuovi
elementi: tutti quelli che accettano di collocarsi secondo quello specifico
principio, valore, criterio. È l’entrata in un circolo che legittima, che distri-
buisce valori, dignità e credito, che dà ordine, rende intelligibile e orienta
comportamenti.
3. Eccellenza e politica
gativa, quella che ferma ogni ulteriore domanda, e che mira a costruire un
sistema di credenze, valori, criteri di giudizio, perché così sia.
***
GIANFRANCESCO ZANETTI
EGUAGLIANZA*1
Farla e disfarla
* Ringrazio Federico Zappino per l’attenta lettura e per avermi aiutato a perfezion-
are il testo inizialmente sottoposto.
86 Genealogie del presente
inchieste sulla vita sessuale delle persone (che tuttavia, una volta conosciu-
tane l’orientamento gay, comportava il congedo forzoso).
La logica argomentativa che si trova tradizionalmente alla base di nor-
me discriminatorie delle minoranze sessuali si basa in apparenza su un
percorso che afferma una mancanza di eguaglianza di base e ne trae le
conseguenze: i gay e le lesbiche sono ritenuti “inadatti” alla vita militare,
di conseguenza impedire loro l’ingresso nelle forze armate è perfettamente
appropriato. Essi sono diseguali, inadatti in primo luogo per un’inferiorità
morale. La franchezza, una virile e schietta onestà, il valore fondamentale
della integrity, onde si dice quello che si pensa e si pensa quello che si
dice, e ci si comporta in privato come si farebbe in pubblico, costituiscono
infatti i capisaldi della virtù militare: ma le persone gay e lesbiche tendono
invece naturalmente al sotterfugio e alle coperte vie, che possono forse
essere utili in diplomazia e nelle trattative segrete, ma non certo nei ran-
ghi militari. Essi sono poi diseguali, e inadatti, in secondo luogo, perché
sono specificamente ricattabili, e quindi costituirebbero un preciso fattore
di vulnerabilità, una potenziale breccia nella fondamentale coesione della
riservatezza, insomma un elemento di rischio e di pericolo.
Questa logica argomentativa, benché affascinante, non illumina affatto
in modo esaustivo il reale esito normativo e sociale di DADT; insistere su
essa può anzi diventare un modo per nasconderla e sfumarla. La norma
DADT, infatti, non solo assume una diseguaglianza: essa la crea.
DADT, ad esempio, proibisce la pratica della virtù dell’integrity a chi
sarebbe esistenzialmente interessato a praticarla con il cosiddetto coming
out. Le virtù, infatti, non esistono in un vacuum: esse nascono e fioriscono
con la prassi che dovrebbero informare. Proibire l’integrity in questo sen-
so, proibire a un gruppo la pratica di una virtù morale, significa rendere, per
norma, le persone di orientamento omosessuale meno schiette e sincere,
meno franche e aperte, su un aspetto fondamentale della loro esistenza. Si
tratta di qualcosa di più di una pedagogia del vizio: si suscitano emozioni
appropriate alla tendenza a nascondersi, forme mentali sintoniche con una
cronica mancanza di fiducia in se stessi e negli altri, atteggiamenti interio-
ri di costitutiva doppiezza. Si rendono i cittadini gay e lesbiche diseguali
dai loro commilitoni eterosessuali: diseguaglianza che viene tuttavia fatta
passare per “naturale”.
DADT prescriveva inoltre una punizione draconiana, ovvero il congedo
forzoso, a chi fallisse in questo obbligatorio esercizio di anonimato e di
sotterfugio. Di conseguenza, DADT rendeva, per norma, i soldati gay e le-
sbiche specificamente ricattabili. Essi non lo erano all’input, per via di una
loro particolare conformazione degli organi, o per un’anomalia genetica:
92 Genealogie del presente
lo erano per via della norma stessa che però assumeva fra l’altro proprio
la ricattabilità come base di un argomento normativo volto a legittimare la
discriminazione.
È importante notare che la diseguaglianza non è (solo) il presupposto,
l’input di un percorso argomentativo volto alla creazione di una norma che
discrimina; essa è (anche) l’esito, l’output di una politica discriminatoria.
Anche un’azione violenta di gay bashing rientra nell’ambito delle azioni
che creano, determinano, “fanno” diseguaglianza: essa istilla timore, pavi-
dità, mancanza di sicurezza in se stessi, lede l’autostima, deprime il sistema
immunitario – crea cioè diseguaglianza di base, perché questi stati mentali
non sono sigillati fuori da contesti materiali di azioni e di comportamenti
concreti da essi plasmati.
Un discorso analogo può essere fatto per l’eguaglianza matrimoniale,
e a fortiori per le norme che disciplinano gli hate crimes. Non si tratta
insomma solo di verificare un’eguaglianza di base e di trarne le dovute
conseguenze, si tratta anche di creare un’eguaglianza che ancora non esiste
come esito di una situazione che viene percepita come inaccettabile.
Dixit autem serpens ad mulierem: «[…] et eritis sicut Deus scientes bonum
et malum». (Gen, 3: 1-5)
SANDRO CHIGNOLA
GOVERNABILITÀ
hanno messo in luce come, prima del passaggio che unisce in unica pa-
rabola di lungo periodo Assolutismo e Rivoluzione, altri vettori di forza
percorrano il campo di giuridificazione della relazione tra principi e ceti.
La figura che permette di comprenderli disegna un’ellisse.
Attestato sul primo dei due fuochi, il principe, che mantiene comunque
una posizione di preminenza, una valenza extracontrattuale, grazie al suo
controllo della forza militare e della fiscalità, rispetto alla statizzazione dei
rapporti di signoria; attestati sul secondo, i ceti e una resistenza material-
mente radicata nei territori e nella stratigrafia del tessuto sociale. Di qui
la matrice del rapporto di governo e della sua centralità nei processi di
costituzionalizzazione che precedono e che seguono la vicenda dello Stato
moderno in Occidente. Assemblee di ceti (Etats, Cortes, Landtage) com-
paiono, a partire dal XIII secolo, come correlato necessario all’iniziativa
monarchica di statizzazione. Qui, a differenza del contratto sociale imma-
ginato dal giusnaturalismo moderno, la dualità che insiste nel rapporto di
differenziazione, e non di equalizzazione, tra supremazia del principe e
irriducibile materialità delle libertates cetuali, non viene sciolta o dissolta.
Gli «Herrschaftsverträge», i contratti di dominio, stretti tra i principi e i
ceti non sono tanto la sanzione di un dualismo che si realizza nello Stato,
ma al contrario, e piuttosto, la sanzione di uno Stato che si realizza solo
nel dualismo. Da un lato il potere del principe, un potere che si rafforza
grazie alle competenze tecniche dell’amministrazione e alla potenza delle
armi; dall’altro l’iniziativa dei ceti per l’assicurazione e per il rafforzamen-
to del diritto comune a favore del paese che si rappresenta come nodo di
libertates singolari e collettive di fronte al primo. Sono queste le forme di
quello che Werner Näf ha chiamato, in un importante saggio uscito sulla
«Historische Zeitschrift» (1958) il dualismo costitutivo all’origine dello
Stato moderno.
Di questa matrice dualistica sono due le cose che vanno segnalate ai
nostri fini. Il primo è la figura ellittica entro la quale si mossero le forme
iniziali dello Stato moderno, cristallizzandosi, e non sempre in forma con-
trattuale, ma talvolta in forme più radicalmente antagonistiche, nel rappor-
to tra signore monarchico e ceti del popolo, tra governanti e governati. Il
secondo la capacità di creazione del diritto che ascrive ai ceti, e cioè alle li-
bertates e alla resistenza dei governati, l’elemento innovativo-progressivo,
e cioè il dinamismo, della sintesi costituzionale.
Lo Stato moderno agisce un’interruzione di questa logica di confron-
to, riconoscimento e resistenza per mezzo di una cristallizzazione dello
spazio e di una retroversione del tempo. Da un lato la cristallizzazione
dello spazio per cui il movimento dell’ellisse dualistica, incitato dall’ir-
S.Chignola - Governabilità 101
giusta misura – di qui il calcolo della sua efficienza – tra una carenza ed
un eccesso. E la misura della carenza o dell’eccesso è il sistema di rapporti
che una popolazione libera può positivamente produrre e autonomamente
intrecciare.
Ne deriva una serie di conseguenze altrettanto decisive. La prima è che
è la libertà intesa non in senso formale, ma come autonomia e come po-
tenza di autovalorizzazione della produzione sociale, appunto, a trainare la
rimodulazione dei dispositivi che la ordinano e che si dispongono alla sua
cattura. Come per Gilles Deleuze, la società deve essere pensata come un
campo di immanenza definito da traiettorie e linee di fuga che le funzioni
di regolazione si sforzano di comporre riconducendole a schemi e a formu-
le di governabilità. La seconda è che quello in cui si cala questa funzione
di regolazione – e cioè: il mercato, la cooperazione del lavoro vivo, la
pratica della libertà come esodo, dissidenza, rifiuto (per riprendere alcu-
ne categorie recentemente usate da Pierre Rosanvallon) – è un ambiente
esposto alla variazione continua. Se la sovranità perimetra come spazio del
proprio esercizio un territorio di vigenza della legge, quello che si tratta di
governare è un ambiente e cioè un complesso di rapporti instabili, “aper-
ti” ed evolutivi, che costantemente anticipa e sfida la regolazione che lo
insegue. La terza è che il rapporto ellittico tra governo e governato non
può essere unidirezionalmente organizzato e richiede un equilibrio mobile
all’interno del quale il comando non può pretendere immediata obbedienza
e deve, almeno in una qualche misura, esprimere una efficace capacità di
compromesso.
Di qui la continuità con la semantica del termine governo. Governare
– e cioè: creare le condizioni per la governabilità di un insieme di uomini
e cose – significa, così nel Miroir politique di La Perrière (1555), «droite
disposition des choses, desquelles l’on prend charge pour le conduire ju-
squ’a fin convenable». Significa, per dirlo altrimenti, ottimizzare una si-
tuazione indirizzandola al suo fine. Risuona qui l’antica metafora marina
della gubernatio navem rei publicae (Cicerone). Il verbo kubernaô (da cui
kubérnēsis, la direzione degli uomini) significa in greco reggere il timone,
condurre una nave. Questa matrice, nella quale si esprime un rapporto nel
quale chi governa e chi è governato stanno vicendevolmente legati in un
sistema che li comprende entrambi esponendoli insieme al rischio di una
navigazione incerta (all’alea di tempeste, pirateria, imperizia del coman-
dante, disattenzioni della ciurma), si riflette nella costanza del termine nel-
le lingue europee e nella sua progressiva inclinazione amministrativa: gou-
verner, gubernar, to govern, governare. Il tedesco Regierung, similmente,
deriva dal latino regere, guidare. “Governare” non significa costruire il
104 Genealogie del presente
crisi dei partiti di massa, esodo dalla fedeltà fordista al lavoro, lotte bio-
politiche (femminismo, ecologismo, movimenti LGBT) specifica in senso
soggettivo, tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, il
senso della crisi di governabilità.
La semantica della governabilità – al di là dell’insieme di problemi in-
dotti dai problemi di tecnicalità della funzione di “governo” in precedenza
citati – appare perciò il modo attraverso il quale si risponde a questa di-
mensione che qualifica in senso “soggettivo” l’ingovernabile.
Progressivamente ingovernabile non è soltanto il rapporto tra siste-
ma politico e litigiosità dei partiti, complesso degli interessi organizzati,
politica e finanza, Stato nazionale e globalizzazione, ma, prima di esso,
il rapporto di disaffezione, disobbedienza e resistenza tra i “governati”,
materialmente innestati nel territorio, identificati ad un corpo portatore di
desideri e di bisogni, veicolo di mobilità e di mobilitazione permanente, ca-
paci di relazioni reticolari e di potenza di autovalorizzazione e di impresa,
che costantemente sfuggono alla capacità di cattura dei dispositivi di co-
mando e al complesso di mediazioni tradizionalmente offerto dalle forme
della democrazia parlamentare e dal sistema rappresentativo. Reinventare
la teoria del governo significa affrontare l’esodo di massa dai meccanismi
della sovranità. Produrre condizioni di governabilità, trovare, nell’alea del-
la situazione, la rotta per navigare la resistenza irriducibile del governato.
Aronne: «Che vi sia una legge, questo devi salutare come un miracolo;
che vi sia chi si ribella, questa è una trita banalità». Il rapporto tra legali-
tà e legittimità ha natura asimmetrica: la legalità è quella “porta” varcata
la quale è possibile decidere di ogni legittimità. Essa, come ha mostrato
lucidamente Schmitt, assegnando il “premio politico sull’esercizio legale
del potere”, è quella soglia che, una volta superata, consente la sua stessa
disfatta3. Quanto a questa dinamica: non è necessario allegare prove. Gli
Stati costituzionali elaboreranno gli esorcismi adatti al caso. Il sindacato di
costituzionalità e la riserva di legge duplicano, nei modi della ultralegalità
o della superlegalità, il registro della legalità.
Se la legalità ha riguardo della distinzione tra amministrazione e giu-
stizia, essa ha potuto esibire prima le sue più edificanti prestazioni nel do-
minio del diritto penale e poi fornire il blasone a ogni contestazione dello
Stato totale4. Ma allorché è proprio tale summa divisio a scricchiolare è
lecito essere scettici verso una soluzione omeopatica5. Certamente lo spa-
zio che tiene separati la legittimità dalla legalità è quello che in una società
decide dell’estensione dei domini del politico e del giuridico. Ma questa è
già storia di ieri. Sovranità e legalità cadono insieme. La differenziazione
sociale, la singolarizzazione delle forme di vita, le metamorfosi del sistema
produttivo indicano il tramonto della decisione e la fine del Leviatano. È
una buona notizia; ma essa comporta una nuova confusione tra esecutivo
e legislativo, che lascia margini prima inauditi al giudiziario. Questa è una
notizia che può essere meno buona; ma è nondimeno qualcosa che accade.
Occorre perciò immaginare forme e modi capaci di custodire la distinzio-
ne tra conflitto politico e sua formalizzazione; capaci cioè di mantenere
insatura la formula del sociale. La democrazia è sembrata a lungo l’unica
forma di governo in grado di comporre astrazione e trasformazione sociale:
«Il potere di assorbimento proprio dell’ideologia democratica ha contribu-
ito, allo stesso modo della prassi costituzionale, a rimuovere il diritto di
resistenza»6. La resistenza trascorreva nella legge e la legalità attestava,
fissandola e formalizzandola, della coincidenza tra atti amministrativi o
di governo e legge stessa: «Alla razionalizzazione del concetto di legge
corrisponde la formalizzazione del concetto di legalità»7. Dovremo allora
Nella misura in cui i mezzi ed i metodi illegali di lotta ricevono una parti-
colare aureola, l’accento di una particolare “autenticità” rivoluzionaria, alla
legalità dello Stato esistente viene attribuita ancora una certa validità e non un
essere meramente empirico. Infatti, se ci si ribella alla legge in quanto legge, se
si dà la preferenza a certe azioni per via del loro carattere illegale, ciò significa
che per colui che agisce in questo modo il diritto ha mantenuto il suo carattere
di validità vincolante. Mentre se vi è una piena spregiudicatezza comunista nei
confronti del diritto e dello Stato, la legge e le sue prevedibili conseguenze non
hanno né più né meno importanza di qualsiasi altro fatto della vita esteriore, di
cui si deve tener conto nella valutazione della eseguibilità di una determinata
They destabilise the structure, without making any claims. So the encroach-
er redefines the city, even as she needs the city to survive. The trespasser alters
the border by crossing it, rendering it meaningless and yet making it present ev-
erywhere – even in the heart of the capital city – so that every citizen becomes
a suspect alien and the compact of citizenship that sustains the state is quietly
eroded. The pirate renders impossible the difference between the authorised
and the unauthorised copy, spreading information and culture, and devaluing
intellectual property at the same time. Seepage complicates the norm by induc-
ing invisible structural changes that accumulate over time15.
15 Ivi, p.15.
16 Cfr. G. Agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza,
Roma-Bari 2013; M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.
U. Mattei, M. Spanò - Legalità 115
Dalla crisi della legalità, che è la crisi della legittimità, che è la crisi
della Costituzione, che è la “crisi”, non si esce dunque che attraverso un
nuovo processo costituente. Un processo che non abita nell’essere né nel
dover essere ma nel potrebbe essere del comune.
21 L. Ferrari Bravo, Costituzione e movimenti sociali, in Id., Dal fordismo alla glo-
balizzazione. Cristalli di tempo politico, manifestolibri, Roma 2001, pp.254-255.
117
MARCO TABACCHINI
MOVIMENTO*
Riscattare l’insalvabile
2 Ivi, p. 119.
3 Ivi, p. 229.
4 Ivi, p. 205.
5 Ivi, p. 188.
M. Tabacchini - Movimento 119
18 E. De Martino, Scritti filosofici, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 2005,
p. 154. Ma è tutta l’opera del filosofo e antropologo italiano a costituire un rife-
rimento imprescindibile per ogni considerazione sulla particolare ontologia della
(non) presenza a cui il concetto di movimento allude.
19 N. Cohn, I fanatici dell’apocalisse (1957), Edizioni di Comunità, Torino 2000, p.
349.
20 V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e salvezza (1974), Editori Riuniti,
Roma 2003, p. 9.
21 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 2008, p.
40.
22 H. Grundmann, Movimenti religiosi nel medioevo (1935), il Mulino, Bologna
1980, p. 340. Ma si veda anche più avanti, p. 342: «Ma proprio in questa loro
molteplicità difficilmente afferrabile si riflette chiaramente la reale situazione di
questi elementi fluttuanti, che non formavano alcun Ordine, né alcuna setta, che
non avevano un nome comune e non si potevano eliminare con provvedimenti
unitari, che vagavano mendicando e turbavano l’ordine nelle chiese, durante le
124 Genealogie del presente
funzioni religiose, nelle comunità, e perfino negli Ordini stessi. Benché si sospet-
tasse della loro ortodossia, non era possibile attribuire loro alcuna eresia precisa».
23 M. Rodinson, Mouvements sociaux et mouvements idéologiques, «Cahiers Inter-
nationaux de Sociologie», 53/1972, p. 211.
24 Cohn, I fanatici dell’apocalisse, cit. p. 53.
M. Tabacchini - Movimento 125
25 G. Bataille, Il problema dello Stato (1933), in Id., Il problema dello Stato e altri
scritti politici, a cura di M. Tabacchini, casa di marrani, Brescia 2013, p. 9.
26 E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991, p. 71.
27 Id., La mobilitazione totale (1930), in Id., Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997,
p. 118.
126 Genealogie del presente
così si può considerare lo Stato in senso stretto come la parte politica sta-
tica, il movimento come l’elemento politico dinamico e il popolo come il lato
impolitico [unpolitische Seite] crescente sotto la protezione e all’ombra delle
decisioni politiche30.
Ben lungi dal costituire un semplice accento retorico posto sui suoi ca-
ratteri dinamici e rivoluzionari, il movimento – ma si dovrebbe ormai indi-
carlo con una grafia maiuscola, per marcare tanto la sua elezione quanto la
sua istituzione – si configura come l’elemento che mobilita il popolo, com-
ponente impolitica dell’unità, attribuendogli una precisa qualifica (quella
di “tedesco” come quella di membro del partito) affinché questo possa ele-
varsi a soggetto politico. Spetta così al movimento l’incarico di reclutare
dal popolo indifferenziato i membri destinati a confluire nel partito, oppure
31 Ivi, p. 272.
32 G. Stein, Portraits and Repetition (1935), in Id., Lectures in America, Vintage
Books, New York 1975, p. 170.
33 C. Schmitt, L’era della politica integrale (1936), in Id., L’unità del mondo e altri
saggi, Antonio Pellicani, Roma 1994, p. 141.
34 Arendt, Vita activa, cit., p. 22.
128 Genealogie del presente
tico e sociale e al di là del quale l’essere in comune cede il posto alla sua
presa in carico totalitaria.
Ed è proprio in questa stessa consegna, chiamata a risolvere il rapporto
fondamentale tra politicità e visibilità dei corpi, che l’essere in comune
perde il suo tratto politico intimo, sostituito da una forma drammatica che
si tratta ormai di inscenare, come se solo in questa risiedesse l’ultima pos-
sibilità di prendersi integralmente cura della comune esposizione dei corpi.
Non è certo un caso che la determinazione del movimento quale istanza po-
litica decisiva della contemporaneità proceda di pari passo con la crisi delle
forme per mezzo delle quali si dispiegava l’antico desiderio di politica: il
Popolo, liquidato nella dimensione gestionaria a cui il termine “popolazio-
ne” allude; la Classe, spossessata di un orizzonte qualsiasi di ancoraggio al
mondo; la Nazione, troppo spesso compromessa nei deliri di un corpo tota-
le. Ma è l’emergenza contemporanea di quella realtà opaca che costituisce
la «massa amorfa e immensa della popolazione sventurata»35, a indicare
per via negativa il compito propriamente politico di ogni movimento. Con-
tro l’ottusità della massa, entità sostanzialmente sgravata da ogni obbliga-
zione simbolica, ecco allora erigersi la mobilitazione delle soggettività per
le quali l’accesso al movimento non costituisce altro che una forma, forse
l’estrema, di consumazione di senso. (Non sarà forse per questo che tutti
i Movimenti serbano, in modo spesso malcelato, un certo disprezzo nei
confronti delle masse di cui tuttavia si fanno portavoce e interpreti?) In tal
senso, scrive Walter Benjamin, «la crisi delle democrazie borghesi si può
intendere come crisi delle condizioni di esposizione dell’uomo politico»36,
nel momento stesso in cui questo è chiamato, assecondando l’ingiunzione
che impone a ciascuno di fare movimento, a esporre il tratto politico che
compete alla propria forma di vita. Nell’assecondare un’esigenza che de-
creta, quale urgenza più propria, la compiuta sovrapposizione tra estetico
e politico, il richiamo al concetto di movimento recherà allora con sé il
dispiegarsi di una pellicola spettacolare, habitus mediante il quale è tutta la
politicità dell’esistenza a dover trasparire.
Desta allora ben poco stupore il fatto che numerosi pensatori si siano
scontrati con la difficoltà di pensare il movimento nella sua irriducibilità ad
ogni partito, fosse anche rivoluzionario, come se la costitutiva spontaneità
più volte riconosciuta al primo rischiasse costantemente di rivelarsi ecce-
denza indomabile rispetto ad ogni organizzazione. Non è proprio questa
spontaneità a costituire l’elemento contro il quale s’infrangono le retoriche
interessate a formare una coscienza di movimento? E tuttavia, nonostan-
te un simile rischio, è ancora da essa che ogni movimento in cerca di ri-
conoscimento trae la sua legittimità, la garanzia della propria rettitudine.
Ecco perché «questo elemento di “spontaneità” non fu trascurato e tanto
meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che
di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo»39, affinché la demo-
crazia selvaggia di cui è portatore venisse guidata su tracciati più sicuri. Ma
un movimento che prende coscienza di sé è condizione che diventa τέλος,
manifestando con ciò la sua estrema ambivalenza: quella radicale disponi-
bilità a rivolgersi contro se stesso e a trasformare in tal modo il tratto utopi-
co in ansia di totalità. Quale orizzonte spettrale di ogni movimento, l’intu-
izione di una simile minaccia totalitaria ha minato le certezze di chiunque
si fosse affrettato a intravedere nei movimenti la soggettività messianica
di una politica a venire. Lo stesso Gramsci è costretto ad annotare quanto
sia «difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti,
ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia,
cioè di tutela di un certo ordine politico e legale»40. Poco importa che tale
funzione sia di carattere repressivo, oppure che il suo esercizio si inscriva
nel tentativo di riscattare quanto ancora necessita una tale opera: il fatto
che tale regime di polizia colpisca «gli elementi che non hanno raggiunto
il livello di civiltà che la legge può rappresentare»41 tradisce senza riserve
l’odio portato nei confronti di tutto ciò che sfugge all’ingiunzione della
forma e della rappresentazione. Basterà qui pensare alla pretesa immobilità
39 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 330. Si potreb-
be scrivere una storia del marxismo proprio a partire dalla difficoltà di pensare la
spontaneità del gesto politico, a tal punto la questione ricorre, con accenti diversi,
in numerosi scrittori da Marx a Luxemburg, da Rühle a Lukács. Come si è visto,
tuttavia, la questione precede qualsiasi considerazione strettamente politica, tro-
vando le sue prime teorizzazioni nei campi dell’arte e dell’estetica. Basterà qui
citare la lettera di Heinrich von Kleist a Rühle von Lilienstern dell’agosto del
1806: «Ogni primo movimento, tutto ciò che è involontario è bello; è storto e
goffo tutto, appena comprenda se stesso» (H. von Kleist, Opere, Sansoni, Firenze
1981, p. 847).
40 Ivi, vol. III, p. 1691.
41 Ibid.
M. Tabacchini - Movimento 131
PIERANDREA AMATO
POPOLO
Destituzione e filosofia
1 G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? (1987), Cronopio, Napoli 2003, p. 24.
2 Id., L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989, p. 240.
134 Genealogie del presente
6 Insiste, sul nesso tra il destino della frontiera politica e quello del popolo, Ernesto
Laclau: la dissoluzione della prima comporta l’annichilimento del secondo (E.
Laclau, La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari 2008, p.
84).
138 Genealogie del presente
7 The Occupy Manifesto. Dal popolo per il popolo, Asterios, Trieste 2011.
8 J.-L. Nancy, La comunità inoperosa (1983), Cronopio, Napoli 1992.
9 M. Blanchot, La comunità inconfessabile (1983), Feltrinelli, Milano 1984.
P. Amato - Popolo 139
Presenza del «popolo» nella sua potenza senza limiti che, per non limitarsi,
accetta di non fare nulla: penso che in quell’epoca sempre contemporanea non
se ne diede esempio più chiaro in quello affermatosi con sovrana grandezza
allorché si trovò riunita, per far corteo ai morti di Charonne, l’immobile, la
silenziosa moltitudine di cui non era possibile contabilizzare l’imponenza, per-
ché non si poteva aggiungervi nulla o sottrarne nulla: essa era lì, nella sua in-
terezza, non in quanto cifrabile, numerabile, neppure come totalità chiusa, ma
nell’integralità che superava ogni insieme, imponendosi, nella calma al di là di
se stessa. Potenza suprema, perché includeva, senza sentirsi sminuita, la sua
virtuale e assoluta impotenza […]. Non bisogna durare, non bisogna aver parte
140 Genealogie del presente
4. In uno dei libri più notevoli di teoria politica degli ultimi anni, La
ragione populista (2005) di Ernesto Laclau, la rivendicazione del carattere
eminentemente politico del populismo si basa sull’idea che il quesito più
essenziale del politico, che cos’è la politica?, possa trovare una risposta di
questo tipo: la politica non è altro che la costruzione di un popolo.11 Ro-
vesciando l’impianto della sovranità moderna, Laclau documenta che un
popolo è l’esito politico di una politica e non, al contrario, il suo presuppo-
sto. Non è un dato ma il risultato della coalescenza di elementi sociali che
prisma apicale della politica, non è possibile eludere l’ipoteca statuale che
storicamente la determina.
Allora, più che a Laclau, che pure, ripeto, rimane uno snodo critico non
aggirabile per maneggiare la questione del popolo in termini anti-hobbe-
siani, è altrove che bisogna guardare per rinvenire ciò che ci serve. A chi
probabilmente più di ogni altro, dopo la dissoluzione del comunismo di
Stato, lascia coincidere una politica di liberazione con l’avvento di un po-
polo che non c’è. Mi riferisco a un vecchio allievo di Althusser in seguito
approdato nell’ampio bacino schiuso da Foucault con la sua critica della
sovranità: Jacques Rancière.
La politica, secondo Rancière, non è un fenomeno implicato con o contro
lo Stato. È collocata altrove; su un altro piano. In questo modo, separando
popolo e nazione, politica e potere, Rancière considera la politica l’evento
dell’avvento di un popolo: l’incalcolabile. Se il potere politico si risolve
in un’azione di governo, che Rancière definisce police, al contrario, il y a
une politique, quando compare un popolo con cui nessuno ha fatto i conti.
Quando, cioè, una soggettività amorfa, priva di diritti, senza né capo né
coda – la parte dei senza parte, dice Rancière – si coagula improvvisamente
e penetra nel mondo. Un popolo che non può mai fare uno perché non può
essere conteggiato; la cui irruzione, la sua eccedenza rispetto al Popolo,
non produce alcuna forma di unità, ma ciò che più di ogni altra cosa Hobbes
teme per l’ordine politico: il conflitto. Il venire all’esistenza degli inesisten-
ti, gli invisibili, è il gesto inaugurale di una politica della trasformazione.
Altrimenti, la politica diventa l’amministrazione di ciò che è.
La politica inizia laddove un popolo inatteso emerge e scompagina i
calcoli del Popolo:
14 Ivi, p. 35.
144 Genealogie del presente
esiste “la” plebe, c’è “della” plebe. Ce n’è nei corpi e nelle anime, negli indi-
vidui, nel proletariato e nella borghesia, ma con una estensione, delle forme,
delle energie, delle irriducibilità differenti. Questa parte di plebe non è tanto
l’esterno rispetto alle relazioni di potere quanto il loro limite, il loro inverso,
il loro contraccolpo; è ciò che risponde ad ogni avanzata del potere attraverso
un movimento per svincolarsene; è quindi ciò che motiva ogni nuovo sviluppo
delle reti di potere15.
LORENZO COCCOLI
POVERTÀ
Appunti per una politica dei poveri
1. Non si può certo dire, anche solo a un primo rapido sguardo, che
l’oggetto-povertà sia assente dai radar del discorso pubblico. Anzi. Molti,
moltissimi sono i saperi, i poteri, le tecniche e le pratiche che se ne pren-
dono carico, garantendogli insieme un’elevata visibilità e un buon grado
di risoluzione. E ciò è tanto più vero in tempi di crisi, quando la pover-
tà assurge a significante generale dell’accrescersi delle diseguaglianze e
dell’approfondirsi del divario sociale: una spia che segnala l’allarme per la
possibile deflagrazione di una conflittualità almeno virtualmente esplosiva
e che, insieme, mostra la necessità di un’azione tesa al ristabilimento delle
condizioni minime per la conservazione dell’esistente. È allora alla statisti-
ca – e in parte a certa sociologia – che spetta il compito di delimitare e de-
finire in termini scientifici l’area di intervento, ricorrendo prevalentemente
ai concetti gemelli di “soglia di povertà” e di “paniere delle necessità di
base” (basic basket of necessities)1. Così ritagliata dall’insieme comples-
sivo dei flussi e delle relazioni sociali, la povertà diviene una superficie
oggettiva su cui possono insistere una molteplicità di attori – gli organismi
internazionali, lo Stato (pur in posizione sempre più marginale a causa del
progressivo smantellamento delle politiche di welfare), il mercato, le or-
1 Per una critica dello strumentario statistico utilizzato ai fini di una reificazione
ideologica della povertà cfr. M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria,
Einaudi, Torino 2005.
148 Genealogie del presente
7 Così, anche gli autori di cui alla nota 2 risalgono precisamente a questo concetto
medievale della povertà, in particolare nella sua declinazione francescana. Cfr.
anche M. Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi,
Milano 2012.
8 Sassier, Du bon usage des pauvres, cit., p.58.
9 Vasta la letteratura sul tema: per un primo approccio ci limitiamo a rimandare a
M. Fatica, Il problema della mendicità nell’Europa moderna (secoli XVI-XVIII),
Liguori, Napoli 1992.
L. Coccoli - Povertà 151
zonte, affrontare tematiche relative alla carità e alle opere senza sollevare,
con ciò stesso, un acceso dibattito. Dibattito che infatti ebbe puntualmente
luogo, dando vita a dispute appassionate tra sostenitori e oppositori delle
riforme, le cui rispettive tesi venivano veicolate da una pubblicistica piut-
tosto nutrita. È esattamente a quest’altezza che la povertà – una povertà in
carne, ossa e stracci – fa la sua comparsa. E la fa, si badi, in posizione di
soggetto. Soggetto collettivo: perché l’individualità che caratterizzava il
povero medievale nella sua astratta funzione di exemplum morale (positivo
o negativo a seconda dei casi), si dissolve ora nella materialità di una massa
anonima e indistinta composta da accattoni, girovaghi, sans aveu e disere-
dati di ogni condizione e provenienza. Soggetto politico: perché il proble-
ma che pone non è più quello religioso della salvezza, ma quello secolare
della conservazione della stabilità sociale. Soggetto inquietante: perché
proprio la sua natura indefinita e confusa lo trasforma in minaccia sempre
latente di sovversione dell’ordine, in potenziale agente del disordine.
La rivolta dei poveri: ecco lo spettro che si aggira tra i ceti abbienti
urbani e le élite politiche tra XVI e XVII secolo. Un timore non del tutto
infondato, se si pensa alla moltiplicazione di tumulti e sedizioni popolari
che, spesso con l’apporto decisivo di settori legati alla mendicità e al va-
gabondaggio, a partire dagli anni Venti del Cinquecento aveva interessato
quasi tutto il continente10. I poveri, proprio in quanto poveri, non hanno
nulla da perdere e perciò tutto da guadagnare: è precisamente questa dia-
lettica a definire la loro perturbante presenza nello spazio pubblico della
città. Il tema era destinato a consolidarsi in luogo comune della trattatistica
politica, ma i sostenitori delle riforme mostrano di esserne già ben consa-
pevoli. Nel suo De subventione pauperum, il trattato che di fatto apre la
letteratura sulla riorganizzazione dell’assistenza, Vives ribadisce il punto
a più riprese: «Devono sempre essere evitati i tumulti e la discordia civile
[…]. I poveri non debbono desiderare che alcun tumulto si accenda nella
città dal quale possano ricavare qualcosa, dal momento che è bene che essi
siano morti al mondo […]»11. Con tratto ancor più incisivo, così descrive
la scena europea l’umanista fiammingo Christian Kellenaer:
mini senza regola, né misura, senza nessun pudore […]. Che cosa credete che
avrebbero fatto se a quest’indole si fosse aggiunta la forza? Se tutti i disperati,
tanti quanti sono, si fossero riuniti in un sol luogo? Da simili albori, Spartaco
crebbe fino a diventare una minaccia per la stessa potenza di Roma12.
12 Ch. Cellarius, Oratio contra mendicitatem pro nova pauperum subventione, Hen-
ricus Petri, Anversa 1531, s.n.p.
13 Paiono convergere su questo punto, pur a partire da prospettive metodologiche
assai distanti, G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette
e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2007; e S.
Cerutti, Étrangers. Étude d’une condition d’incertitude dans une société d’Ancien
Régime, Bayard, Parigi 2012.
14 Vives, L’aiuto ai poveri, cit., p.301 [43].
15 Cfr. K. Bosl, “Potens” e “pauper”, in O. Capitani (a cura di), La concezione della
povertà nel Medioevo, Pàtron, Bologna 1983, pp.97-151.
L. Coccoli - Povertà 153
19 Vives, L’aiuto ai poveri, cit., p.309 [51]. Il punto meriterebbe di essere approfon-
dito. Sembra infatti che il povero faccia la sua comparsa sulla scena politica sotto
il segno del desiderio e non sotto quello della necessità, come vuole invece H.
Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp.60-123.
La sua riduzione alla mera espressione di esigenze minime vitali sarebbe allora un
effetto di potere, non un dato di partenza.
20 Ivi, p.310 [52].
21 Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), Rizzoli, Milano
2010.
22 Corporazioni di vagabondi e mendicanti, corti dei miracoli, lingue segrete, riti
d’iniziazione: tutta una serie di forme di organizzazione, a metà tra realtà e inven-
zione letteraria, che andavano a costituire quasi un doppione ribaltato della società
reale. Cfr. R. Chartier, La “Monarchie d’Argot” entre le mythe et l’histoire, in
«Cahiers Jussieu», collection 10/18, n. 5, 1979, pp.275-311.
L. Coccoli - Povertà 155
4. Con ciò tuttavia il problema è risolto solo a metà. Il povero è ora spo-
gliato del suo bios nomadico e ridotto, per così dire, a nuda vita. Ebbene,
questo non rischia di accentuare precisamente quegli aspetti potenzialmen-
te sovversivi della povertà che si era cercato di eliminare? Il nulla-tenente
ha sempre meno da perdere e quindi sempre più da guadagnare da un mu-
tamento degli assetti sociali e politici esistenti. È a questo punto che il
governo della povertà mostra l’altra sua faccia, quella dal volto più umano.
La forca serviva a sciogliere il pauper dalla solidarietà che lo legava al
mondo dell’ozio, del disordine e della possibile insubordinazione; la pietà
dovrà ora stringerlo attorno al mantenimento dell’ordine e alla difesa della
civitas, rivestendolo di una nuova fedeltà, di un nuovo bios. I governanti
prendono in carico l’esistenza dei governati, e così facendo li vincolano
alla propria sopravvivenza politica. Ecco allora che Vives può annoverare
tra i vantaggi del suo progetto di riforma una rinnovata pacificazione so-
ciale: «Vi è maggiore tranquillità quando ognuno è oggetto di attenzione.
La concordia è grande, quando il più povero non invidierà il più ricco, ma
piuttosto lo amerà come un benefattore e il più ricco non avverserà il più
povero come un essere sospetto […]»24. E lo stesso concetto è ribadito
qualche anno dopo da Kellenaer: «Il povero guarderà al ricco come a Dio
in persona, in quanto sa che da lui dipende la sua tranquillità e la sua stessa
vita. Forse che egli potrà voler male alla città con cui sente che la propria
incolumità è congiunta?»25.
Ben al di là dei suoi aspetti immediatamente materiali, l’assistenza pub-
blica diventa allora vettore di integrazione e di «produzione dinamica di
è patria, e come ai pesci ogni mare […], così a costui è patria ogni terra,
poiché non ha più diritto in una regione che in un’altra»31. Il che mostrava, a
contrario, la funzione territorializzante della proprietà, capace di legare l’in-
dividuo a una determinata obbedienza politica, di vincolarlo a un dato patto
sociale. A più di un secolo di distanza, Locke ne fornirà una teorizzazione
esplicita: «A questo proposito affermo che ogni uomo che goda del possesso
o dell’uso di una qualsiasi parte dei domíni di uno Stato dà con ciò stesso il
suo tacito consenso ed è tenuto a obbedire alle leggi di esso […]»32.
Col divenire proprietario del povero, il cerchio si chiude. La carica con-
flittuale della povertà, che rischiava costantemente di eccedere l’orizzonte
di legittimità dell’ordine costituito e di minarne la stabilità interna, viene
in qualche modo disinnescata e ricondotta entro forme giuridicamente e
politicamente sostenibili. Nei secoli successivi, tutta una serie di media-
zioni istituzionali e tecniche di governo sarà messa in campo per rafforzare
la partecipazione del povero alle strutture di potere vigenti, almeno nella
misura sufficiente a “interessarlo” al loro mantenimento. Parallelamente, si
intensificherà l’opera di moralizzazione del corpo sociale: organizzazione
dell’assistenza su base differenziale, programmi di educazione elementa-
re, disciplinamento del lavoro (libretti di lavoro, regolamenti di fabbrica,
paternalismo industriale)33. La povertà viene così reintegrata nel perimetro
della cittadinanza e inscritta nella grammatica civica dei diritti e dei dove-
ri. Con ciò, tuttavia, essa perde quel surplus di soggettività che le aveva
consentito, al momento della sua prima apparizione sulla scena pubblica,
di porre all’esistente l’interrogazione di fatto più radicale: quella sulla pos-
sibilità stessa della sua conservazione.
CRISTINA MORINI
PRECARIETÀ
Della cattura biopolitica delle vite
(e della loro potenza)
9 Ivi, p. 138.
10 Ibid.
11 C. Morini, Tradimenti. Il conflitto sul lavoro come lotta biopolitica in Chicchi,
Leonardi (a cura di), Lavoro in frantumi, cit., p. 120.
164 Genealogie del presente
gran parte dei discorsi che tornano a intrecciare, nella diagnosi del nostro
tempo, politica e psicanalisi, seguono questa traccia: l’autonomia è l’arrotolar-
si su di sé stesso di un desiderio privo di riferimenti simbolici forti, il flebile
declino della Legge e, come tale, finisce in qualche modo per riprodurla in
forma pervasiva e interiorizzata. La tensione verso l’impresa, l’etica dell’au-
torealizzazione attraverso il lavoro, la captazione del proprio desiderio dentro
i circuiti del consumo, sino alla produzione di comportamenti schizofrenici e
21 Altra tassonomia sulla condizione precaria che può essere utilmente utilizzata
è quella richiamata in A. Fumagalli, La condizione precaria come paradigma
biopolitico, in Chicchi, Leonardi, Lavoro in frantumi, cit., pp. 63-78. In essa si
individuano i termini di mobilità, intellettualità (general intellect) e pubblicità,
quest’ultima intesa come «processo di produzione simbolica della merce del capi-
talismo contemporaneo».
C. Morini - Precarietà 169
il lavoro cognitivo raffigura una delle nuove forme critiche della domi-
nazione che innervano, complessivamente, il lavoro oggi. E la realtà del
lavoro vivo contemporaneo, nella dimensione del capitalismo cognitivo, è
la realtà precaria, diversa dalla precedente cultura dominante del soggetto
operaio. Una nuova “unitas multiplex” di soggetti che si autoriproducono,
come la definisce Blecher:
larsi, come già si diceva sopra, anche sui terreni poco fertili come quelli
attuali. Ma va sottolineato con sempre maggiore forza come la precarietà,
ovvero la spoliazione massiva del corpo-mente resa possibile dal bioca-
pitalismo cognitivo, introduca una certa malinconia dilagante, polveriz-
zata nella sfera sociale, la quale punta sempre più indifferentemente a un
riconoscimento dell’umano solo attraverso l’uso economico totalizzante
che se ne fa. La sfera del lavoro ha la pretesa di essere un corpo vivente,
che necessita tutto il tempo, tutte le cure, le parole e le azioni. Un modo
di produzione che diventato un modo d’essere, che informa di sé tutto il
sociale, organizza tempo e spazio, struttura i sistemi di valore. Cosicché,
il carattere performante del lavoro, la sua accentuata individualizzazio-
ne e parcellizzazione, la sua interiorizzazione, profonda, nello spirito,
nell’intelletto, dei processi macchinici27, accentuano la malinconia, come
senso della perdita complessiva del sé, una malinconia che viene istitu-
ita socialmente. Il corpo risulta desoggettivizzato, disciplinato, incluso,
direttamente immerso in campo politico, i rapporti di potere operano su
di lui una presa immediata, “l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo
suppliziano, lo costringono a certi lavori, a certe cerimonie, esigono da
lui dei segni”28.
Il biocapitalismo cognitivo da un lato attinge alle diverse sfere esperien-
ziali e individuali di uomini e donne, native e migranti, dall’altro cerca di
imporre un unico e omogeneo dispositivo di comando sul lavoro: sono le
differenze, e lo sfruttamento di queste differenze, a tradursi in un surplus di
ricchezza. Da questo punto di vista, le semplici e binarie dicotomie produ-
zione/riproduzione, lavoro maschile/lavoro femminile perdono significato,
sino a spingerci a ipotizzare un processo tendenziale di degenerizzazione
del lavoro29.
Le donne sembrano rappresentare un modello a cui il capitalismo con-
temporaneo guarda con crescente interesse, sia per quanto riguarda le forme
della somministrazione del lavoro (precarietà, mobilità, frammentarietà,
bassi livelli salariali), sia i contenuti, vista la nuova centralità antropologi-
ca che il lavoro pretende di assumere attraverso lo sfruttamento intensivo
di qualità, capacità e saperi individuali (capacità relazionali, aspetti emo-
zionali, propensione umana alla “cura”).
partire dalle pensioni, per poi intaccare l’istruzione e la sanità, tramite an-
che l’adozione di pesanti politiche di austerity) e la flessibilizzazione del
mercato del lavoro. Il mancato decollo del capitalismo cognitivo in Italia
produce il risultato miserevole che oggi scontiamo. È infatti l’eccesso di
precarietà la causa principale dell’attuale situazione di crisi economica e
sociale32.
Diventa imprescindibile la declinazione della lotta contro la precarietà,
nella precarietà, attraverso la richiesta di un reddito di base incondizio-
nato33, come strumento per mettere a nudo le contraddizioni dell’accu-
mulazione economica fino a qui descritta. Nel biocapitalismo cognitivo,
la rivendicazione di un reddito di base equivale a ciò che rappresentava
la richiesta di salari più elevati nell’era del capitalismo industriale fordi-
sta. L’introduzione di un reddito di base potrebbe fondare un nuovo patto
sociale. Si tratta di una proposta apparentemente riformista ma potenzial-
mente sovversiva in quanto, riducendo il ricatto del bisogno, indurrebbe a
processi di liberazione dal lavoro favorendo alternative nell’ambito dell’or-
ganizzazione della produzione.
In altre parole, l’introduzione di un reddito di base potrebbe rappresen-
tare un valido strumento per arginare e ridurre la trappola della precarietà34
e consentire quel diritto alla scelta del lavoro come autodeterminazione
della propria vita.
***
BRUNA GIACOMINI
RESPONSABILITÀ
Perché darsi in-pegno
1. Si tratta di un termine che nel lessico del pensiero che cerca di de-
cifrare le nuove fisionomie della contemporaneità si trova comunemente
associato alla parola “sfida”. La mutazione antropologica che è in atto da
alcuni decenni e che sembra mettere in gioco gli snodi cruciali della nostra
esistenza, solleva, infatti, molti dubbi sulla nostra capacità di essere “re-
sponsabili”. L’estensione e la complessificazione delle tecniche e delle pro-
cedure da una parte, spesso largamente oscure tanto a chi le utilizza, quanto
a chi le inventa, e la velocità e l’incontrollabilità delle interazioni prodotte
dalla globalizzazione a tutti i livelli della vita sociale, dall’altra, hanno pro-
dotto uno scollamento che appare incolmabile tra le intenzioni e gli scopi
che muovono la nostra azione e gli effetti che, agendo, sortiamo nel mon-
do. Tale scarto si esprime, in modo particolare, nel processo di profondo
e inarrestabile declino da cui sembra afflitta la politica contemporanea a
vantaggio dei poteri globali e fuori controllo dell’economia. Se la “respon-
sabilità”, comunque la si intenda, ha a che fare con la possibilità umana di
governare la relazione tra il nostro agire e i suoi prodotti, si potrebbe pen-
sare che lo scenario della contemporaneità l’abbia resa impronunciabile
e, ancor prima, inconcepibile. Di qui quel diffuso senso d’inadeguatezza
e, più in generale, d’impotenza nei confronti di ciò che accade che finisce
con l’inibire la capacità del giudizio e ottundere la sensibilità generando in-
differenza, ovvero quello stato di apatia che sgorga dalla percezione della
radicale ineffettualità di ogni azione e discorso.
Tale esito, come cercherò di argomentare, è in realtà nient’affatto sconta-
to se si cerca di mettere correttamente a fuoco in cosa consista più propria-
mente la questione posta dalla responsabilità. Si tratta di capire se quella
sorta di baratro che sembra aprirsi tra noi e la realtà che ci circonda intro-
duca un elemento di autentica discontinuità, che ci costringe a riformulare
integralmente i termini del problema, o non sia altro che l’esasperazione di
uno scarto che è invece intrinseco alla struttura stessa dell’azione, scarto
che la condizione contemporanea rende compiuto e pienamente visibile.
178 Genealogie del presente
O, più precisamente, se non sia proprio tale iato – tra ciò che facciamo e
quanto possiamo prevedere e controllare, tra la bontà delle nostre intenzio-
ni e gli effetti perversi che otteniamo con le nostre azioni, che finiscono col
produrre proprio ciò che non era voluto o addirittura si voleva evitare – il
cuore stesso del problema della responsabilità.
Tale chiarimento appare tanto più necessario alla luce dell’uso sem-
pre più frequente e del tutto abusivo della parola nel lessico della politica
corrente, lessico che avendo da tempo rinunciato ad intercettare qualsiasi
“livello di realtà” o a mettere in moto qualsivoglia “pratica trasformati-
va” degna di questo nome, sembra ormai interamente orientato a sostituire
retoricamente ogni interrogazione effettiva delle grandi questioni della po-
litica contemporanea. Di qui un utilizzo di espressioni quali “responsabili-
tà”, ma anche “democrazia”, “equità” e molte altre, finemente calibrato per
nascondere che ciò di cui si parla è esattamente ciò che manca o, comun-
que, non interessa.
1 Per una ricostruzione rigorosa e puntuale della storia della famiglia di termini
facenti capo alla nozione di responsabilità nelle principali lingue europee, con
particolare rifermento all’ambito politico-giuridico, cfr. M. A. Foddai, Sulle tracce
della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, Giappichelli, Torino
2005; Ead., Responsabilità: origine e significati in «Diritto@Storia», 10, 2011-
2012. Per ulteriori precisazioni, si vedano anche: R. McKeon, The Development
and the Significance of Responsibility, in «Revue international de philosophie»,
39, 1957, pp. 3-32; G. Von Proschwitz, Responsabilité: le idée et le mot dans
le dèbat politique du XVIII siècle, in G. Straka (a cura di), Actes du X Congrès
International de linguistique et philologie romanes, Klinsieck, Paris 1965, I, pp.
385-397.
B. Giacomini - Responsabilità 179
Ciò che in questo secondo senso viene portato in primo piano non è
la capacità del soggetto di dar conto di sé sulla base delle sue capacità di
volere e dominare razionalmente e liberamente la sua azione, ma quella di
stringere legami, poggianti non sulla certezza del diritto, ma sulle fragili ed
instabili fondamenta della fiducia reciproca. Mentre infatti il diritto garan-
tisce, attraverso il potere sovrano del soggetto statuale che lo applica, che
danni o offese siano sempre adeguatamente retribuiti, l’impegno di colui
che si assume la responsabilità non è garantito che dal suo atto di parola e
dalla credenza sempre incerta che egli è in grado di suscitare in coloro che
vi corrispondono.
Il significato prospettico, relazionale, essenzialmente fiduciario che in
questa accezione assume la responsabilità è confermato dalla sua etimolo-
gia. Se infatti il termine non esiste come tale né in greco né in latino, esso
va sicuramente ricollegato ai verbi spendo e poi spondeo, che indicano
la richiesta o l’offerta d’impegno reciproco tra due soggetti. In greco, la
parola – utilizzata originariamente tanto in Omero che in Pindaro con un si-
gnificato religioso per indicare la libagione offerta unilateralmente agli dei
per ottenerne il favore – acquista successivamente un valore politico e de-
signa «un patto di mutua assicurazione»4 scambiato tra due soggetti. Em-
blematica in questa prospettiva è la terminologia del matrimonio: sponsa
(“sposa”) indica la fanciulla che il padre si è impegnato (spondere) a dare
in matrimonio e inversamente il pretendente a prendere. In re-spondere la
particella re rafforza la reciprocità della promessa indicando la garanzia
data in cambio dell’impegno dell’altro. Così il responso degli oracoli che
decifrano i segni divini, come poi quello dei giuristi che interpretano il di-
ritto, è assicurato in risposta ai doni offerti dagli uomini o, semplicemente,
alla fiducia espressa dai richiedenti.
La duplicità di significato fin qui illustrata si presenta in realtà, nella
storia del concetto, come un insanabile conflitto tra un modo d’intendere la
responsabilità, che dalla fine del Settecento finisce col prevalere, tanto in
campo giuridico-politico che etico-filosofico, sul fondamento della meta-
fisica del soggetto moderno, razionale e sovrano, e una diversa accezione,
Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 1991, pp. 179-182;
Ead., Sulla rivoluzione (1963), Edizioni di Comunità, Milano 1983, p. 188 e s.
4 E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Potere, diritto,
religione, tr. it. Einaudi, Torino 2001, p. 445. Tale etimologia, che evidenzia il
significato già all’origine relazionale della responsabilità, è particolarmente valo-
rizzata da G. Marramao, Introduzione a Le sfide della responsabilità, in «Paradig-
mi. Rivista di critica filosofica», n. s., XXVIII, 1, 2010, pp.7-11.
182 Genealogie del presente
cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1991; Id., Dio, la morte e il tempo, a cura
di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1997.
7 Si veda soprattutto, tra i numerosi scritti che riguardano le questioni della respon-
sabilità, J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2003. Il nesso indisso-
lubile tra responsabilità e irresponsabilità è anche al centro della riflessione di
Umberto Curi: cfr. Id., Introduzione a Giacomini (a cura di), Il problema respon-
sabilità cit., pp. 9-27.
B. Giacomini - Responsabilità 185
Il sé resta inaccessibile alla coscienza non solo in ragione dei limiti strut-
turali di questa, ma perché è il frutto di relazioni che ci costituiscono mo-
dellando dall’interno la nostra identità. Ancora una volta non solo rispon-
dere di sé secondo l’accezione tradizionale appare impossibile, ma diventa
problematico garantire personalmente per un’azione futura se non siamo in
grado di isolare il nostro contributo in quanto questo è sempre, sin dall’ini-
zio, anche dell’altro. Anche in tal caso si tratta di capire cosa propriamente
significhi essere responsabile. Judith Butler, sviluppando l’intuizione levi-
nasiana, ci offre una via d’uscita che reimposta i termini del problema:
di coloro che verranno dopo di noi, non in quanto siano in nostro potere,
ma perché per essi siamo disposti ad arrischiare il nostro agire. Tale cura
non potrà riguardare soltanto gli esseri umani e i loro prodotti, ma l’intero
mondo e tutti coloro che lo abitano; quello che abbiamo creato, ma anche
quello che, sin dalla nostra origine come specie, ci ha ospitato, consen-
tendoci di evolverci dapprima sul piano biologico e poi, in modo smisu-
rato e spesso distruttivo, sul piano culturale. Tale mondo non è popolato
soltanto da coloro che fin qui lo hanno dominato, ovvero esseri umani di
sesso maschile, ma anche da donne e da animali. Diventarne gli eredi e
progettarne il futuro significa allora ripensare il quadro complesso delle
relazioni che la politica occidentale ha oscurato: quelle con le madri, an-
zitutto, riappropriandosi di quei tesori nascosti che la nostra cultura non è
riuscita a distruggere ed, al contempo, impegnandosi a dar luogo non solo
a una maternità biologica ed affettiva, ma anche culturale e, più in genera-
le, spirituale. Quelle con gli altri viventi, bollati dalla nostra cultura come
“inumani” e, come tali, privi di “dignità”, non solo al fine di asservirli e
metterli a morte, ma allo scopo di tracciare un confine netto e invalicabi-
le – diversamente collocato a seconda delle epoche storiche – ma sempre
inteso a garantire la nostra eccentricità rispetto al mondo naturale che ci
ospita, ma a cui non apparteniamo.
La seconda questione concerne il tipo di rapporto che, all’interno del
modello della “cura”, si istituisce nei confronti di coloro – donne, uomini,
animali – ai quali intendiamo provvedere con il nostro impegno. Tale pre-
occupazione per l’altro ha il suo paradigma nelle cure parentali dei genitori
nei confronti dei figli che costituiscono «filo-e onto-geneticamente l’arche-
tipo della responsabilità»11, sul quale viene modellata la responsabilità po-
litica dell’uomo di Stato verso la comunità. Anche quando tale paradigma
viene ripensato alla luce dell’etica femminile della cura, sostituendo al po-
tere del padre la sollecitudine materna, esso resta ugualmente viziato dalla
relazione gerarchica che i genitori – padri o madri che siano – stabiliscono
con i figli. Anche se, nel caso delle madri, la verticalità viene rovesciata, in
quanto nella cura esse si mettono del tutto gratuitamente al servizio dei figli
facendosene “ostaggio” – per usare le parole di Lévinas –, nondimeno an-
che tale rovesciamento presuppone la minorità dell’altro, la sua incapacità
di vivere e pensare per suo conto. Tale presupposto grava ancor più sulla
relazione con gli animali, cui si concedono diritti all’interno di un rapporto
di elargizione che concede all’altro determinate garanzie in ragione di ciò
12 J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, a cura di L. Odello, Raffaello
Cortina, Milano 2003, p. 31. Dissimile per eccellenza è l’animale, la cui questione
è interrogata da Derrida nella raccolta L’animale che dunque sono (Jaca Book,
Milano 2006) e nei due seminari su La bestia e il sovrano (Jaca Book, Milano
2009, 2010).
189
MARIANNA ESPOSITO
SACRIFICIO
Sulla matrice religiosa della relazione
tra debito e credito
1 http://www.sauvonslaproximite.com/
2 É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), vol. II, Einaudi,
Torino 2001, p. 452. Cfr. C. Grottanelli, Il sacrificio, Laterza, Roma-Bari 1999.
190 Genealogie del presente
entra in gioco come necessaria contropartita della vita, come ciò il cui as-
sorbimento preventivo garantisce la conservazione e l’accrescimento della
vita stessa. Questo rapporto di implicazione reciproca tra vita e morte –
crescita e rinuncia, salvezza e perdita, credito e debito – è il motore della
dialettica sacrificale e ne caratterizza la finalità morale a un tempo salvifica
e riparatrice.
Per tracciare in sintesi una genealogia del sacrificio e spiegare le ragioni
della sua ambivalenza, occorre risalire alla tradizione di studi etnografici
sulle origini religiose delle culture primitive, sviluppatasi a fine Ottocento
in Inghilterra e Germania. Con l’opera di Robertson Smith sulle origini
sacrificali della religione ebraica, Lectures of the religion of the Semites
(1889), l’etnografia tardo-ottocentesca inaugura, infatti, una nozione del
sacro destinata a influenzare in modo decisivo il campo delle scienze uma-
ne nel Novecento, a partire dalla ricerca sociologica sulle forme di coesione
sociale iniziata da Émile Durkheim e proseguita da Marcel Mauss, Roger
Caillois, Georges Bataille sulle origini sacre della comunità. La lettura et-
nografica di Robertson Smith individua, infatti, nel sacro un fenomeno reli-
gioso di natura ambivalente – a un tempo puro e impuro – e nel sacrificio il
fondamento universale dei riti arcaici5, l’atto simbolico di identificazione
collettiva su cui si fonda la comunità. La parola chiave è tabù6. L’ogget-
to sacro è tabù in quanto, per sua natura duplice, pura e impura, esige la
separazione dall’uso comune, la proibizione del contatto umano. Ma, allo
stesso tempo, il sacro è anche totem, in virtù dell’atto che lo consacra sim-
bolo della comunità, immagine del dio in cui il clan si identifica. Questo
dualismo si ricollega all’idea di sacrificio totemico elaborata da Robertson
Smith e ripresa in seguito da Durkheim. Rituale espiatorio che ristabilisce
il legame del gruppo con il dio alienato e ne rinsalda l’identità collettiva7,
la comunione totemica comporta l’ingerimento del totem – l’animale ucci-
so identificato nel dio a cui prima di allora era vietato accostarsi – e la sua
introiezione simbolica a opera del clan. Ne deriva un vincolo di solidarietà
fondato, a un tempo, su una comune appartenenza e una comune interdi-
zione. È questo il gesto teorico decisivo per la definizione di comunità nel
Novecento, rappresentata con i nomi di Popolo, Sindacato, Nazione8. Re-
5 Sul sacrificio come istituzione non universale nelle società arcaiche, cfr. A. Te-
start, Des dons et des dieux, Errance, Paris 2006.
6 Cfr. J. Robertson Smith, Lectures of the religion of the Semites, London 1889.
7 Cfr. R. Money Kyrle, Il significato del sacrificio (1930), Bollati Boringhieri, Tori-
no 1994, p. 159.
8 Cfr. M. Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies, Dur-
kheim, Mauss, Mimesis, Milano-Udine 2011.
192 Genealogie del presente
Sacer e hierós, ‘sacro’ o ‘divino’, si dicono della persona o della cosa con-
sacrata agli dei, mentre hághios come sanctus indicano che l’oggetto è difeso
contro ogni violazione, concetto negativo e non, positivamente, che è carico
della presenza divina, che è il senso specifico di hierós.9
Sulla sua natura e sulla sua funzione si concentra, quindi, una delle più
importanti teorie risalenti agli inizi del secolo scorso: l’Essai sur la nature
et la fonction du sacrifice (1899) di Henri Hubert e di Marcel Mauss, allie-
vo e nipote di Durkheim. Adottando il metodo antropologico inerente allo
studio comparativo delle civiltà primitive, gli autori analizzano il sacrificio
vedico, ebraico, greco e, al di là delle diverse credenze espresse dai riti,
rilevano «la sua universalità, la sua costanza, la logica del suo sviluppo»12.
Per Mauss e Hubert, dunque, il sacrificio è universale per la logica del suo
sviluppo e, quindi, per la struttura formale in cui si articola: uno schema
implicante una relazione tra tre termini – il sacrificante, la vittima, il de-
stinatario – operante in base alla logica classificatoria del pensiero collet-
tivo, in cui «l’uomo pensa in comune con gli altri»13, secondo l’approccio
dell’antropologia strutturale.
Cruciale, ai fini della nostra analisi, è la ricerca sulle forme arcaiche di
scambio svolta da Mauss in Essai sur le don (1924-1925). A partire dallo
studio di alcune società primitive del Nord-Ovest americano, della Mela-
nesia e della Polinesia, l’autore mostra che il sacrificio è un’istituzione in
cui economia, diritto e religione si uniscono in modo inscindibile. Ne è un
esempio paradigmatico il potlàc, il sistema di dono contrattuale praticato
nel Nord-Ovest americano, implicante la donazione o distruzione suntuaria
di beni da parte di un clan che rivaleggia con altri per la conquista di un
primato nella gerarchia sociale. Definita da Mauss prestazione totale, dal
momento che include l’aspetto economico, religioso, morfologico, mito-
logico e sciamanistico della vita di un gruppo, il potlàc presuppone «l’ob-
bligo assoluto di ricambiare i doni, pena la perdita del mana, dell’autorità,
di quel talismano e di quella fonte di ricchezza che è l’autorità stessa»14.
È dunque morale, prima che giuridico, l’obbligo comunitario della con-
tropartita. Infatti, il mana – termine melanesiano utilizzato per indicare il
valore ‘magico’ della credenza collettiva da cui dipende l’efficacia delle
cose e il prestigio delle persone – esige l’interiorizzazione della norma che
prescrive l’obbligo di dare, l’adesione interiore al suo contenuto prescritti-
vo. Si tratta, perciò, di un sistema creditizio marcato da un legame di reci-
15 Ivi, p. 271.
16 Ivi, p. 185.
17 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France
(1977-78), Feltrinelli, Milano 2005.
18 Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza,
Roma-Bari 2006.
19 G. Bataille, La nozione di dépense (1933), in Id., La parte maledetta (1949), Bol-
lati Boringhieri, Torino 1992, p. 6.
M. Esposito - Sacrificio 195
20 Ivi, p. 41.
21 M. Weber, Protestantesimo e spirito del capitalismo (1920-1921), a cura di P.
Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2002.
196 Genealogie del presente
in modo permanente nella sfera giuridica dello Stato sovrano. Sotto la spin-
ta governamentale del socialismo riformista che, come si è detto, include
i lavoratori nel processo di valorizzazione del capitale, il capitalismo, da
culto individuale, diventa perciò culto collettivo in vista della salvezza/be-
nessere. Ed è proprio sulle basi di questo grande progetto riformista che si
verifica, a partire dal secondo dopoguerra, un lungo periodo di transizione
storica durato circa trenta anni negli Stati Uniti e in Europa, denominato
Welfare State, che sospende temporaneamente il meccanismo di illimitato
indebitamento promosso dal capitale. In quanto gestore della cosa pub-
blica, il Welfare intraprende, infatti, un’azione di governo economico che
compensa il sacrificio dei lavoratori mediante l’erogazione di servizi e di-
ritti sociali24.
Ma l’avvento del neoliberalismo, alla fine degli anni Settanta, segna
l’arresto di questo processo di regolazione e introduce un salto epistemico
nella razionalità politica moderna che ne porta a compimento la logica sa-
crificale. Non solo, infatti, la svolta neoliberale decide lo smantellamento
del Welfare, dettando le condizioni politiche per la sua progressiva conver-
sione in Debtfare. Ma porta alle estreme conseguenze la logica teologico-
politico-economica da cui pure si congeda, tenuto conto del dispositivo
strategico di impresa25 e dell’imperativo al godimento in cui si identifica
come forma di vita.
In effetti, i dispositivi neoliberali di autogoverno e agency individuale
dispiegano la tecnologia politica e morale dell’assicurazione adottata dal
Welfare, anche se ora ai diritti si sostituiscono i crediti26. Questa tecnologia
di governo, implicante «il fatto di condurre una vita come un’impresa»27,
è chiamata in causa dalla scuola americana di Chicago, alla fine degli anni
Ottanta, nella nozione di “capitale umano”28. Costruire il proprio capi-
tale umano vuol dire soggettivarsi capitale, imprenditore di sé, soggetto
economico che si assume il rischio dei costi e dei benefici derivanti da-
gli investimenti per il proprio potenziamento, privatizzato e monetizzato
24 Cfr. M. Esposito, Capitalismo e teologia economica. Dal capitale vivente del Wel-
fare al capitale umano in A. Tucci, (a cura di) Disaggregazioni. Forme e spazi
della governance, Mimesis, Milano-Udine 2013.
25 Per una discontinuità radicale tra governamentalità liberale e neoliberista, cfr. P.
Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoli-
berista, DeriveApprodi, Roma 2013.
26 M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neolibe-
rista, DeriveApprodi, Roma 2012.
27 F. Ewald, L’État Providence, Éditions Grasset, Paris 1986, p. 180.
28 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-
79), Feltrinelli, Milano 2005.
198 Genealogie del presente
MAURIZIO RICCIARDI
SOCIETÀ
Dominio, potere e ordine nel rapporto societario
1 K.M. Baker, Enlightenment and the Institution of Society: Notes for a Conceptual
History, in S. Kaviraj, S. Khilnani (a cura di), Civil Society. History and Possibili-
ties, Cambridge, Cambridge U.P. 2001, pp. 84-104.
2 J.L. Cohen, A. Arato, Civil Society and Political Theory, MIT Press, Cambridge,
Mass.-London 1992.
3 N. Luhmann, Why Does Society Describe Itself as Postmodern?, in «Cultural Cri-
tique», 30, 1995, pp. 171-186.
202 Genealogie del presente
4 M. Ricciardi, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali,
Eum, Macerata 2010.
5 M. Ricciardi, La società senza fine. Storia, sociologia e potere della società con-
temporanea, in «Sociologia. Rivista Quadrimestrale di Scienze Storiche e So-
ciali», XLV, 1, 2011, pp. 67-79.
6 L. Kaufmann, D. Trom (a cura di), Qu’est-ce qu’un collectif? Du commun à la
politique, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 2010.
7 B. Latour, Changer de société. Refaire de la sociologie, La Découverte, Paris
2006, p. 362.
8 National Humanities Center, The Idea of a Civil Society, Humanities Research
Center, Research Triangle Park, North Carolina 1992, p. 1.
M. Ricciardi - Società 203
9 A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile (1767), Laterza, Roma-Bari
1999, p. 19.
10 Ivi, p. 190.
204 Genealogie del presente
11 Ivi, p. 125.
12 Ivi, p. 13.
M. Ricciardi - Società 205
Tre elementi costitutivi del discorso originario sulla società sono dun-
que destinati a ripresentarsi: il suo carattere politico, la subordinazione che
esiste al suo interno e la centralità ineliminabile dell’appropriazione par-
ticolare o privata. Questo gesto originario viene ripetuto anche da Michel
Foucault quando, alla fine della sua ricostruzione delle forme della go-
vernamentalità neoliberale, quasi come se fosse all’opera una rimozione,
ritorna in maniera sorprendente al Settecento e ad Adam Ferguson, per ne-
gare la praticabilità della distinzione classica tra Stato e società. «L’idea di
società è ciò che consente di sviluppare una tecnologia di governo a partire
dal principio secondo cui il governo, per sua natura, è già sempre “di trop-
po” o in “eccesso” o, quanto meno, si aggiunge come supplemento a cui si
può e si deve sempre chiedere se sia necessario, se sia utile a qualcosa»13.
La tensione tra i poteri societari e quello politico è mediata nella figura del-
la governamentalità, al punto che lo Stato diviene un’espressione di questa
mediazione alla quale non è riconosciuta nessuna autonomia politica: lo
Stato diviene una peripezia del governo. Allo stesso tempo, tuttavia, poi-
ché la «società è un arcipelago di poteri differenti»14, si pone la questione
di come essi interagiscano, di quale gerarchia interna li renda possibili, di
come sia possibile che essi procedano senza rotture significative in una
temporalità progressivamente sempre più ampia. In altri termini, se questo
potere è esclusivamente mediazione o se la società che esso produce è abi-
tata anche dal dominio. La concezione foucaultiana del “potere come so-
cietà” risponde all’urgenza di indagarlo al di fuori del discorso giuridico, di
metterne in luce il carattere smisurato piuttosto che la legalità. La convin-
zione che «viviamo in una società che sta smettendo di essere giuridica»,
perché «la società giuridica è stata la società monarchica»15, mira a cogliere
il potere come contingenza invece che come esito di un rapporto.
Questo potere sembra essere la traduzione governamentale della con-
cezione del dominio proposta da Nietzsche, per il quale «il rapporto di
dominazione non è un rapporto più di quanto non sia un luogo il luogo
dove esso si esercita»16, La governamentalità foucaultiana sembra caratte-
rizzata dal dispiegamento di questo dominio che, sotto il nome di potere, è
19 Ivi, p. 98.
208 Genealogie del presente
20 L. von Stein, Stato e società (1850), trad. it. parziale, Giuffrè, Milano 1986.
21 N. Luhmann, Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 11.
M. Ricciardi - Società 209
22 Ivi, p. 164.
23 M. Ricciardi, Dallo Stato moderno allo Stato globale. Storia e trasformazione
di un concetto, in «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», vol. XXV,
n. 48, 2013, pp. 75-93, disponibile al link http://scienzaepolitica.unibo.it/article/
view/3891.
24 P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza, a cura di S. Mezzadra, Meltemi, Roma 2006,
p. 55.
210 Genealogie del presente
sociale che, mentre include in uno dei suoi sottosistemi, può sempre esclu-
dere da tutti gli altri, descrive con grande precisione la condizione globale
di una società che con la sua inclusione produce disuguaglianze irrisolvibi-
li. I sottosistemi nei quali si articola la società-mondo luhmanniana, però,
non stabiliscono solo delle differenziazioni funzionali, non sono cioè solo
la garanzia di un’inclusione almeno parziale. Ciò sarebbe vero solo se essi
rappresentassero degli accessi contemporanei a delle possibilità d’azione.
Solo in questo caso, infatti, chi per esempio è escluso dalle norme giuridi-
che che regolano l’accesso alla cittadinanza potrebbe essere effettivamente
risarcito dall’inclusione sul piano economico, magari lavorando in nero
come migrante clandestino31. Tanto l’accesso ai diversi sottosistemi quanto
il loro funzionamento sono dominati da tempi diversi e peculiari che sta-
biliscono anche la posizione specifica di coloro che sono esclusi proprio
in forza della loro parziale inclusione. Quella che, guardando alla società
come sistema sociale, appare come una manifestazione della sua comples-
sità, per chi deve transitare tra i diversi sottosistemi e deve pagare i costi di
transazione per ogni passaggio al quale è obbligato, si risolve invece nella
manifestazione di un dominio sistematico del quale il potere politico non
riesce a nascondere il fondamento societario. D’altra parte la finanziariz-
zazione dell’economia che caratterizza la società-mondo è comprensibile
solo a partire dalla crescita esponenziale della potere societario del denaro,
ovvero della sua tendenza storica a divenire l’unico vincolo societario, so-
stituendosi alle mediazioni della società come complesso.
VALERIA PINTO
TRASPARENZA
Una tirannia della luce
Tutte le azioni umane, va da sé, saranno allora calcolate secondo queste leg-
gi, matematicamente, come una tavola di tabella di logaritmi fino a 108.000, e
inscritte nel calendario; o, meglio ancora, compariranno pubblicazioni benpen-
santi, sul tipo degli odierni dizionari enciclopedici, in cui tutto sarà enumerato
e segnato in modo così preciso che nel mondo non ci saranno più né azioni
né avventure. – Appunto allora […] verranno dei nuovi rapporti economici,
2 F.M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo (1864), Einaudi, Torino 1945, pp. 25,
28.
3 G. Lukács, Die Subjekt-Objekt-Beziehung in der Ästhetik, in Id., Frühe Schriften
zur Ästhetik, Luchterhand, Neuwied 1971, vol. I, p. 36.
4 Cfr. P. Sloterdijk, Critica della ragione cinica (1983), a cura di A. Ermano e M.
Perniola, Raffaello Cortina, Milano 2013.
5 M. Weber, La scienza come professione (1917), in Id., Il lavoro intellettuale come
professione, a cura di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1966, pp. 8, 35.
V. Pinto - Trasparenza 215
una «cultura superiore». Anche gli oggetti d’uso più quotidiani e familiari
– dai tablet ai cellulari alle carte di credito alla stessa rete – ci sono in realtà
sconosciuti. Siamo abituati a fare affidamento su quelle che per la nostra
esperienza immediata sono qualità occulte. L’inaccessibilità della tecno-
logia di un oggetto e l’amichevolezza della sua interfaccia sembrano anzi
vieppiù proporzionali:
Chiunque di noi viaggi in tram non ha la minima idea [...] di come la vettura
riesca a mettersi in moto. Né, d’altronde, ha bisogno di saperlo. Gli basta po-
ter “fare assegnamento” [rechnen] sul modo di comportarsi di una vettura tran-
viaria, ed egli orienta in conformità la propria condotta; ma nulla sa di come
si faccia per costruire un tram capace di mettersi in moto […]. La progressiva
intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una progressiva
conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa
bensì qualcosa di diverso: la consapevolezza o la fede che se solo lo si volesse,
si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non
sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose
possono – in linea di principio – essere dominate dalla ragione7.
22 Ivi, p. 316.
23 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 228.
24 T. Padoa-Schioppa, The Euro and Its Central Bank. Getting United after the
Union, The MIT Press, Cambridge Mass., London 2004, p. 115. Cfr. anche D.
Cajvaneanu, A Genealogy of Government. On Governance, Transparency and
Partnership in the European Union, Diss., Università di Trento, 2011.
220 Genealogie del presente
A scala più ampia sono le grandi istituzioni mondiali (World Bank, Fon-
do monetario, Ocse...) ad agitare il tema e a spingere, secondo le linee
programmatiche del neo-istituzionalismo, per l’adozione generalizzata di
norme capaci di costruire un ambiente favorevole al mercato e alla concor-
renza. È a questo livello che la trasparenza diventa un référentiel globale.
Nei Codici «delle buone pratiche nella trasparenza fiscale» e «sulla traspa-
renza nelle politiche monetarie e finanziarie» del FMI si ribadisce con en-
fasi che «nel rendere disponibile più informazione sulle politiche moneta-
rie e finanziarie, le buone pratiche di trasparenza promuovono l’efficienza
potenziale dei mercati»25. Nello stesso senso vanno le direttive della Banca
Mondiale e le crociate anticorruzione della Transparency International (che
nella Banca Mondiale affonda le sue radici), con i suoi indici di percezione
della corruzione (CPI) e di propensione alla corruzione (BPI). I Principi e
le Raccomandazioni Ocse in tema di «Public Sector Information», punto
di riferimento anche in termini legislativi per le pubbliche amministrazioni
del globo, hanno nella trasparenza il loro motivo guida. Alla loro ombra
miriadi di organizzazioni, agenzie, istituti, associazioni, società, gruppi,
fondazioni, si contendono a vario livello il mercato della trasparenza in
vista della trasparenza del mercato, a colpi di management dell’incertezza
(FUD), di management della reputazione, di indici della fiducia.
Diffusione della parola “transparency” nei libri in lingua inglese tra il 1900 e il 2008;
analogo andamento ha “trasparenza” nei libri italiani
48 Cfr. S. Fuller, The governance of science: ideology and the future of the open
society, Open University Press, Milton Keynes 2000.
49 D. Martuccelli, Critique de la philosophie de l’évaluation, «Cahiers internation-
aux de sociologie», n. 128-129, 2010, p. 42.
50 H. Schmidt-Semisch, Risiko, in U. Bröckling, S. Krasmann, T. Lemke (a cura di),
Glossar der Gegenwart, Suhrkamp, Frankfurt 2004, pp. 222-227.
V. Pinto - Trasparenza 227
Il sogno della metafisica, da cui siamo partiti, precipita così nel calco-
lo cibernetico: scienza del controllo e delle informazioni, dove «vedere il
mondo intero e impartire degli ordini al mondo intero è quasi lo stesso che
essere dappertutto»60, e le incertezze, le interruzioni nel flusso informati-
vo, i conflitti e ogni soggettiva resistenza umana devono essere ridotti allo
zero. Potrebbe essere questione di poco. Il Crystal Palace – è stato appena
annunciato – risorgerà nel 2018 nel sud-est di Londra. Lo ricostruisce un
gruppo cinese, finanziandolo con 500 milioni di sterline, «come dono alla
città e al mondo»61.
61 The Crystal Palace, brochure di presentazione del progetto, Zhong Rong Interna-
tional Group Ltd, London, October 2013, all’URL http://www.thelondoncrystal-
palace.com (ultimo accesso 30.11.2013).
231
LORENZO BERNINI
FUTURO
(e)scatologia del tempo della crisi
uno stato di felicità. Ben prima di Freud, Hobbes può essere considerato,
quindi, un teorico del disagio della civiltà9. Per lui, il patto sociale funziona
come un’assicurazione sulla vita molto costosa: in cambio di protezione gli
individui cedono al sovrano il diritto a tutto di cui godevano nello stato di
natura, e perdono per sempre l’integrità della propria libertà.
L’individuo hobbesiano è dunque homo juridicus allo stesso modo in
cui è homo oeconomicus: la sua razionalità calcolatrice lo induce a com-
merciare indifferentemente in diritti e in merci, e a trattare le donne come
proprietà. Sarebbe però limitativo vedere in lui soltanto il soggetto dello
scambio e del possesso dell’economia di mercato, perché egli già incarna i
paradossi del soggetto dell’investimento dell’economia finanziaria: rinun-
cia a godere dei suoi beni e li mette a rischio pur di conservarli, e per assi-
curarli senza goderne, è costretto ad averne sempre di più. In una battuta:
per perpetuare la vita, egli rinuncia a godere della vita. Non è un caso se il
Leviathan è ancora oggi considerato il testo classico del pensiero politico
moderno: gli individui hobbesiani, infatti, siamo noi che, sordi agli am-
monimenti di Pascal, «non viviamo mai, ma speriamo di vivere». Incapaci
di distinguere etica, politica ed economia, come hanno denunciato anche
illustri economisti del calibro di Amartya Sen, Joseph Stiglitz e Jean Paul
Fitoussi, da lungo tempo misuriamo la felicità pubblica con il metro della
produttività economica, intesa non come mantenimento di uno status quo,
ma come capacità di sviluppo. In Europa, ad esempio, con una torsione
lessicale degna della neolingua del Grande Fratello orwelliano, il “patto
di stabilità” impone sacrifici con la promessa di una crescita futura. Per
il momento lo sviluppo senza fine che l’Unione avrebbe dovuto garantire
si è impantanato in quella che molti analisti giudicano la peggiore fase
economica della storia del capitalismo, di cui continuamente si annuncia
la fine prossima per poi posticiparla ancora. E le retoriche mobilitate tanto
da chi è chiamato a governare questa “crisi”, quanto da chi ne contesta
le decisioni, sono per lo più declinate al tempo futuro, a testimonianza di
quanto sia insopportabile, per noi hobbesiani, sostare nel presente o abitare
il tempo della fine10: tutto deve continuare la propria crescita esponenziale
verso l’avvenire. In nome del futuro alle nuove generazioni è imposto un
presente di “austerità” e specularmente le nuove generazioni più di ogni
9 Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in Id., Opere, Bollati Boringhieri,
Torino 1978, vol. 10.
10 Esistono, naturalmente, alcune eccezioni, come S. Žižek, Vivere alla fine dei tem-
pi, Ponte alle Grazie, Firenze, 2011. Già nel 1998 M. Tronti pubblicò La politica
al tramonto, Einaudi, Torino.
234 Genealogie del presente
2. Investimenti riproduttivi
non soltanto sui genitori, ma anche sui figli, che hanno il dovere di mettere
a frutto l’eredità familiare e sociale che hanno ricevuto, di far rendere gli
investimenti che sono stati fatti su di loro, di investire a loro volta sulle
generazioni future. Non è forse per “i nostri giovani”, per “i nostri bam-
bini” che oggi chiamiamo “stabilità” quello che reputiamo un necessario
progresso? Non è forse in loro nome che il PIL deve aumentare e lo spread
diminuire, che la tecnologia deve farsi sempre più sofisticata e i mezzi di
trasporto sempre più veloci, che le risorse della terra devono essere sempre
più intensivamente sfruttate – o al contrario che occorre prendersi cura del
pianeta, vivere con lentezza, preferire la decrescita alla crescita? Le parole
di Schopenhauer hanno sempre maggior valore nel mondo contemporaneo:
in nome della vita, i singoli viventi hanno il dovere non di vivere, ma di
mettere la propria esistenza al servizio della vita della specie16. E quando
non riescono ad assolvere i loro compiti, come in questi ultimi difficili
tempi sovente accade, sono colti da un disperante senso di fallimento, da
sentimenti di depressione così gravi che la cronaca della crisi è costellata
di suicidi.
Anche su questo Hobbes – che pure, come Schopenhauer, era scapolo17
– ha qualcosa da dire. Negli Elements of Law, Natural and Politic, dove tra
l’altro la vita umana è paragonata a una corsa senza sosta che non ha «altra
meta, né altro premio che l’essere davanti»18, egli scrive:
Per coloro che hanno autorità sovrana, è contro la legge di natura: non proi-
bire quegli accoppiamenti che sono contrari all’uso naturale; non proibire l’uso
promiscuo delle donne; non proibire che una donna abbia più mariti; non proi-
bire i matrimoni entro certi gradi di parentela e di affinità. Infatti, benché non
sia evidente che un privato cittadino che viva unicamente sotto la legge della
ragione naturale violi la medesima commettendo qualcuna delle azioni sopra
menzionate, tuttavia appare manifesto che, essendo così pregiudichevoli come
sono al miglioramento dell’umanità, quel non proibirle è contro la legge della
ragione naturale per colui che ha ricevuto nelle mani proprie una porzione di
umanità da migliorare19.
16 Sull’invenzione del concetto moderno di vita in quanto “vita della specie” si veda:
D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010.
17 La sorte è comune a molti illustri filosofi. A notarlo, con l’intenzione di condannare
l’ascetismo della filosofia, è Friedrich Nietzsche in Genealogia della morale del
1887 (Adelphi, Milano 1996, p. 100).
18 Th. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica (1640), Sansoni, Firenze 2004,
pp. 54 e s.
19 Ivi, p. 190 e s.
236 Genealogie del presente
20 Al contrario, per fare un esempio, (un altro scapolo come) Kant considera le prat-
iche omosessuali come gravi offese alla natura umana, ancor più “spregevoli e
abiette” del suicidio: nelle Lezioni di Etica degli anni 1775-1780 (Laterza, Roma-
Bari 1984, p. 195 e s.) egli le colloca infatti tra quelli che chiama “crimina carnis
contra naturam”. Nel 1785, a scrivere un pamphlet contro la penalizzazione delle
pratiche omosessuali è invece Bentham (Difesa dell’omosessualità, il melangolo,
Genova 2009), che tra l’altro rigetta il contrattualismo per l’utilitarismo.
L. Bernini - Futuro 237
L’attacco che viene alla società e al suo ordine morale dai suoi giovani, è
l’attacco che la colpisce nel suo punto più vulnerabile e più caro. Il più vulne-
rabile perché i cari piccoli che noi siamo sono così influenzabili, così poco al
corrente delle cose della vita!!! Il più caro perché noi rappresentiamo l’avve-
nire. MA DEL LORO AVVENIRE CE NE FOTTIAMO. Noi vogliamo godere
subito. Noi affermiamo il nostro diritto a disporre di noi stessi, il nostro diritto
al piacere22.
esso è bandito dallo Stato. Utilizzando il lessico delle teorie della liberazio-
ne sessuale freudomarxiste in voga in quegli anni, rielaborando le tesi an-
tiedipiche dei suoi maestri Deleuze e Guattari, Guy Hocquenghem sostiene
che il valore di questo desiderio, che provocatoriamente chiama “desiderio
anale”, sta proprio nello spogliare il sesso di qualsiasi finalità ri-produttiva,
sottraendolo a quel disciplinamento etero-genitale che tanto Hobbes quan-
to Freud reputano l’unico appropriato a un corretto sviluppo dell’essere
umano in società. A suo avviso, l’omosessualità costituisce una sfida ra-
dicale alla “logica significante-significato” (rappresentante-rappresentato,
mezzi-fini), posizionando il soggetto oltre (o prima de) gli schematismi
dicotomici che caratterizzano tanto le retoriche politiche liberali, quanto
quelle comuniste: il desiderio anale è incapace di investire sul futuro e
preme sul presente per avere soddisfazione immediata. Di conseguenza,
quella omosessuale è una lotta «selvaggia», che, ben lungi dal costituire
«una nuova tappa dell’umanità civilizzata», denuncia che «la civilizzazio-
ne è la trappola che cattura il desiderio»23. In controtendenza rispetto ad
altri intellettuali di movimento coevi24, Hocquenghem non auspica quindi
l’avvento di «una nuova organizzazione sociale»25, ma dà voce a quei gio-
vani militanti della sua generazione che non hanno alcuna intenzione di
attendere il compimento della rivoluzione proletaria per godere. Il rifiuto
gay del destino riservato agli altri maschi, quello di assumere la posizione
del padre al vertice del triangolo edipico, diviene tuttavia per lui il simbolo
della possibilità «di un modo di rapporto sociale orizzontale» realizzabile
nell’immediato che, interrompendo la riproduzione della verticalità gerar-
chica della filiazione, risulta «inaccettabile»:
Oggi la maggior parte delle lesbiche e dei e gay ritengono che il diritto
di costituire una famiglia sia il compimento della loro inclusione sociale. E
tuttavia la voce di Hocquenghem non è rimasta inascoltata: Le désir homo-
sexuel è considerato uno dei testi precursori di quella corrente di pensiero
lesbico gay e trans*, nato negli anni Novanta in seguito al doppio trauma
causato dalla crisi dell’AIDS e dal crollo del muro di Berlino, che prende il
nome di “teorie queer”27. Lee Edelman, in particolare, fa di Hocquenghem
il capostipite di quella «tesi queer antisociale»28 di cui considera campione
Leo Bersani29 e lui stesso si proclama fautore. Se le teorie queer più note in
Europa si richiamano al pensiero filosofico di Michel Foucault e Judith But-
ler30 e teorizzano per le minoranze sessuali la possibilità di elaborare nuove
strategie di soggettivazione e costruire nuove comunità di riconoscimento, i
teorici che appartengono a questo filone di studi utilizzano le categorie della
psicoanalisi per auspicare la soppressione del soggetto nel godimento, par-
teggiare per la rottura delle relazioni sociali, insistere sui legami che la pul-
sione sessuale intrattiene con la pulsione di morte. All’individuo liberale alla
ricerca di benessere, prigioniero di un immaginario che impone di sacrifica-
re il presente per il futuro della famiglia riproduttiva, Edelman contrappone,
dunque, il soggetto sessuale risucchiato da un godimento masochistico che
lo schiaccia sul presente. Il suo libro-manifesto dal titolo punk, No Future,
risponde ai movimenti pro-life statunitensi emettendo contro quel feticcio
dell’avvenire che è “il Bambino” una provocatoria sentenza di morte:
Siamo noi che dobbiamo sotterrare il soggetto nella buca tombale del signi-
ficante, pronunciando infine le parole a cui siamo condannati, che le vogliamo
dire o no: che noi siamo i difensori dell’aborto; che il Bambino deve morire;
che il futuro è mera ripetizione e che è letale tanto quanto lo è il passato31.
Iacono (a cura di), Canone inverso. Antologia di teoria queer, ETS, Pisa 2012, pp.
245-269.
32 Edito da Duke University Press, Durham-London 2011.
33 J.‘J.’ Halberstam, The Politics of Negativity in Recent Queer Theory, in «PMLA»,
3, 2006, pp. 823-824. Halberstam fa qui riferimento a: A. Cvetkovich, An Archive
of Feelings, Duke University Press, Durham 2003; H. Love, Feeling Backward,
Harvard University Press, Cambridge 2007.
34 Altri esempi di teoria queer degli affetti, oltre a quelli riportati nella nota prec-
edente, sono: E. Kosofsky Sedgwick, Touching Feeling, Duke University Press,
Durham-London 2003; S. Ahmed, The Cultural Politics of Emotion, Routledge,
London-New York 2004; Ead. The Promise of Happiness, Duke University Press,
Durham 2010; J. Staiger, A. Cvetkovich, A. Morris Reynolds, Political Emotions,
Routledge, London-New York 2010.
35 A. Ehrenberg, La fatigue d’être soi, Odile Jacob, Paris 1998.
L. Bernini - Futuro 241
Non voglio che nessuno interrompa il percorso di speranza che è stato ini-
ziato. L’uscita dalla crisi è a portata di mano. Ma bisogna guardare al futuro, se
si guarda al passato diventa impossibile.
Analoghi argomenti hanno avuto vasta eco grazie a Papa Francesco, che
proprio a «la Repubblica» ha dichiarato:
I più gravi dei mali che affliggono il mondo in questi anni sono la disoc-
cupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi. I vecchi
hanno bisogno di cure e di compagnia: i giovani di lavoro e di speranza, ma
non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono stati
schiacciati sul presente37.
Ben più virulenti, ma pervasi dalla stessa strategia retorica, sono i toni
di un vasto movimento che, in occasione del dibatto parlamentare sulla
legge contro l’omofobia e la transfobia, ha organizzato numerose iniziati-
ve in tutta Italia. Il 21 settembre 2013, ad esempio, si è tenuto a Verona il
convegno La teoria del gender: per l’uomo o contro l’uomo?, organizzato
dalle associazioni Famiglia Domani e Movimento Europeo Difesa della
Vita. Il simposio ha ottenuto il patrocinio del Comune e della Provincia,
si è aperto con i saluti del vescovo Giuseppe Zenti e del sindaco Flavio
Tosi ed è proseguito con interventi di relatori ferventemente cattolici38. In
nome della “naturalità” della famiglia eterosessuale, agli studi di genere e
alle teorie queer questi hanno contrapposto le cosiddette teorie (e terapie)
riparative, volte a ricondurre lesbiche, gay e trans* all’eterosessualità. A
fare da sfondo, un’interessante filosofia della storia, che vede nel presente
un’epoca di decadenza cui è necessario opporre un’azione “catecontica”
che tuteli il Bene affinché possa trionfare nel tempo della Fine:
Nessuno ha detto che cosa accadrà alle persone intersex nel giorno del
Giudizio, ma per le persone transessuali che si sono sottoposte a chirurgia
genitale, si intuisce, sarà una fregatura. Durante il convegno poche parole
sono state spese per le lesbiche, mentre maggiore attenzione è stata data
a coloro che maggiormente si espongono al contagio da HIV facendo del
loro ano – come già ricordava Hobbes – un «uso non conforme a forma e
funzione»:
39 Cioè papa Giovanni Paolo I, Albino Luciani, la cui morte ancora oggi suscita ac-
cese controversie.
40 Ha però dimenticato di ricordare che la Costituzione vieta «la riorganizzazione,
del disciolto partito fascista», che nel 1952 la legge Scelba ha introdotto il reato
di apologia di fascismo, che dal 1993 la legge Mancino punisce chi diffonde o ap-
plica idee fondate sull’odio razziale, etnico o religioso (e, se il Senato confermerà
quanto approvato dalla Camera, d’ora in poi anche omofobo e transofobo). E,
infine, che in base a essa, lo stesso Tosi nel 2009 ha subito una condanna.
244 Genealogie del presente
***
44 In Apocalissi queer, cit., esemplifico questa strategia ironica attraverso i film gay-
zombie-hardcore di Bruce LaBruce. Come spiega Y.M. Young (Abjection and Op-
pression, in A.B. Dallery, H. Roberts, Ch. Scott, a cura di, Crises in Continental
Philosophy, Suny Press, Albany 1990) l’abiezione è la modalità attraverso cui
l’altro viene disumanizzato ed espulso come un escremento.
45 “Palea” significa letteralmente “paglia”, ma Tommaso faceva riferimento allo
strame che fa da lettiera nelle stalle, impastandosi di letame. Cfr. S. Thomae Aqui-
natis vitae fontes precipuae, Edizioni domenicane, Alba 1968.
247
AUTORI / AUTRICI
FRANCESCO REMOTTI (v. Destra / Sinistra) dal 1979 al 2013 è stato pro-
fessore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Torino (da ul-
timo presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società) e, dal 2002, è
socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Ha condotto
numerose ricerche, teoriche ed etnografiche, ed è stato coordinatore della
Missione Etnologica Italiana in Africa Equatoriale dal 1979 al 2004. Tra le
sue pubblicazioni più recenti: Contro natura. Una lettera al papa (2008),
Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia (2009), L’ossessione identi-
taria (2010), Cultura: dalla complessità all’impoverimento (2012), Fare
umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013).
politica. Fa parte della redazione della rivista «Scienza & Politica». Tra
le sue pubblicazioni: Rivoluzione (2001), La società come ordine. Storia
politica e teoria politica dei concetti sociali (2010). Ha curato, con San-
dro Mezzadra, Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline
scientifiche (2013).