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Per una corretta impostazione dell’argomento - Non è facile estrarre dalla storia
culturale di Adriano Tilgher (1887-1941) il nucleo dei suoi rapporti con taluni intellettuali
dell’Est europeo. Tale difficoltà si deve principalmente alla necessità di comprendere le
reali motivazioni del contatto, o della corrispondenza intercorsa. Si tratta quasi sempre di
progetti di traduzione e di pubblicazione all’estero di qualche suo lavoro; talvolta sono
semplici informazioni richieste e inviate. Restano da chiarire però le ragioni più profonde
che hanno dato luogo a questo o quell’episodio, collegandolo al particolare momento
storico e alle vicissitudini dello stesso Tilgher. Punto di partenza: la passione per l’arte e la
letteratura, specialmente straniere, e l’inseparabilità di un motivo conduttore di taglio etico
e filosofico, che piegava tale passione all’esigenza di un ordine interiore.
Ma, andiamo avanti per gradi.
Nell’esperienza di pensiero tilgheriana, inquadrare l’aspetto del recensore drammatico, o
quello del filosofo estetico, senza chiamare in causa la molteplicità delle residue
componenti di una complessa equazione personale, risulta nonché limitato, addirittura
fuorviante. La figura di questo sensibilissimo interprete del primo Novecento (non solo
italiano) costituisce, infatti, un tutt’uno, che si compatta dietro le tante sue espressioni.
Così, il suo modo di filosofare assume, di volta in volta, la connotazione manualistica,
saggistica, giornalistica, si tinge di tonalità politiche, morali, letterarie, ma non si può
levare a dubbio, per ciò, né la sua qualifica-prima di filosofo, né il fondamento filosofico
dell’intera sua opera, dalla recensione al trattato – a costo di dover smentire per questo
qualche autorevole parere contrario!
Del resto, Tilgher fu costretto a imparare presto che, per mettere in pratica le sue
convinzioni, non doveva dare troppo nell’occhio, cioè, non doveva infastidire troppo il
Regime e gli uomini del Regime. Era lo scotto da pagare, per una natura nient’affatto
“teorista” – termine, che Helga Tepperberg ci ricorda provenire da Italo Svevo, il quale
così ridicolizzava coloro che, a causa della troppa teoria, si dimenticavano di vivere
secondo i loro stessi princìpi. Di conseguenza, la sua filosofia si adattò agli abiti più
inconsueti, presto dismettendo, per obbligo, se non per elezione, il rigore della veste
dottrinaria e sistematica. E sarebbe davvero un torto non voler riconoscere alla sua
testimonianza, pensata e voluta, il valore speculativo di cui essa fu dimostrazione nel
quotidiano di un impegno condotto su fronti variegati. Al contrario: che egli esercitasse
una professione filosofica, quando parlava di “visione greca della vita”, o quando
articolava il suo “pragmatismo trascendentale”, al pari di quando si misurava con la prosa
di Pirandello, di Sarment, di Crommelynck, o di quando si faceva carico di descrivere la
tragicità della “crisi mondiale” nel primo dopo-Guerra, e così via, non è davvero cosa
dubitabile.
Un filosofo dalla curiosità inappagabile - Vero è piuttosto che Tilgher si distinse subito
per il suo scrivere “ampio e ornato”, dotato di chiarezza non comune. Sono in molti a
riconoscerlo. E il suo trasporto per la letteratura e le forme letterarie è dimostrato fin dal
contenuto di quelle due “conferenze”, che una mano ancora adolescente stendeva nel
lontano 1903: la prima, dedicata a Schopenhauer, la seconda, a Leopardi. Non è dato
d’intrattenerci ora sui contenuti di quei lavori, ma è certo che essi lasciano già trasparire la
direzione in cui maturerà la sua riflessione: da una parte, anti-razionalista, sì da candidarlo
a prosecutore dell’idealismo tedesco, nel senso di un “criticismo”, che si facesse strada tra
le alternative esistenziali “possibili” e tuttavia assoggettate alle angherie del “caso”.
Dall’altra, la stessa riflessione simpaticamente si congiunge con la “poesia”, fino a
invaghirsi di Leopardi e della sua “filosofia”, secondo un originalissimo criterio di lettura,
che applicò anche a tutti gli altri autori di cui si dispose all’ascolto 1.
I suoi accenni precocissimi – d’ispirazione spenceriana (1908) – alla “sapiente
disposizione della natura” sono l’annuncio di una spiritualità essenzialmente anti-
storicista, che amava concepire come sinonimi i termini “durata”, “realtà”, “vita”,
“progresso”, nell’unico abbraccio “senza perdite” (Hoelderlin), che confluisce in una
memoria “cosmica” dell’uomo (1910) e delle sue imprese. Solo uno studioso dell’antichità
e del suo “cominciamento” filosofico poteva riuscire a fornire, dopo Nietzsche, una
versione adeguata del motore “circolare” che regola le cose del mondo. Non era tempo per
cedere alle lusinghe del governante, né per farsi preda delle frustrazioni. E Tilgher volle
proporsi, con atteggiamento stoico, a severo correttore delle dispersioni scettiche e
relativiste, dei pessimismi e delle arrendevolezze, che avvertiva moltiplicati dalla brutalità
massificante del Fascismo 2.
1
Nel 1915, con la pubblicazione della Teoria del pragmatismo trascendentale, Tilgher avvertiva che
la sua filosofia si proponeva come nuovissimo virgulto nel vecchio tronco dell’idealismo. Pur
ricorrendovi vecchi motivi hegeliani, come quello della coincidenza “piena e completa” tra essere e
conoscere, l’idealismo assoluto tilgheriano collocava il suo principio in un “atto di assoluta
autoposizione ed autoaffermazione”, che s’identificava con il “volere puro o dovere morale”. E’ lo
spirito, dunque, a condizionare la storia. E lo fa, attraverso una volontà di fede; non semplice
calcolo utilitaristico, ma “superrazionalismo”, tendente a universalizzare l’infinitezza dei predicati
della realtà. L’elemento “critico”, incarnato nella singola volontà conoscitiva, finisce per
individuare tuttavia solo una delle tante vie possibili per la sua realizzazione, uno “stile”, tra i tanti
consegnati al “caso” dalla vita. Al “casualismo critico” viene intitolato l’estremo stralcio
speculativo di Tilgher (Casualismo critico, Bardi, Roma 1942), ma tutta la sua esistenza vuole
esserne in qualche modo l’attestazione concreta. Per ciò, egli non evitò mai di cimentarsi né con
personaggi, né con opere (fatta eccezione per il rifiuto che, nonostante le insistenze di Piero Gobetti,
oppose al personaggio e all’arte di Carlo Goldoni). E giunse perfino a mettere in scena una
commedia (: Il lupo di Gubbio, di A. Boussac de Saint Marc), quasi a sfidare la popolarità raggiunta
sul campo, dalla “terza pagina” di una moltitudine di giornali. Senza, per altro verso, perdere mai di
vista i classici della filosofia (Fichte, Descartes, Ravaisson), o della letteratura (Blindermann, De
Unamuno, Kaiser), dei quali fu fedele e abile traduttore, in diverse stagioni della sua vita.
2
Cfr. A.Tilgher, La giustizia di Herbert Spencer, D’Auria, Napoli 1908; Le antinomie della filosofia
del diritto. Il diritto come volizione singola, Unione Editrice, Roma 1910. Ma il volume che lo rese
certamente famoso, pubblicato con indiscusso intuito giornalistico in occasione della visita di Albert
Einstein in Italia, fu Relativisti contemporanei, Libreria di Scienze e Lettere, Roma 1921. Nel giro
di pochi mesi, questo libro ebbe ben quattro edizioni e si arricchì di una lettera di precisazioni
indirizzata a Guglielmo Ferrero. Intanto, il 22 novembre dello stesso anno di uscita, comparve una
recensione alquanto elogiativa sul Popolo d’Italia a firma di Mussolini, il quale, nell’entusiasmo
della citazione, reclamava addirittura al Fascismo le prerogative “relativiste” e “attiviste”, elencate
Umanismo liberale e “illuminato” - Rivendicò ostinatamente all’uomo di cultura un
ruolo “disvelativo”, costruendo intorno alla personalità del “saggio” responsabile il
modello esemplare della guida ai meno forti e ai dispersi. Parlò, così, di una nuova
estetica, di una nuova moralità, e parlò di un rinnovamento religioso, in cui,
coerentemente, non era difficile cogliere certe venature avverse all’eccesso di clericalismo
nella Chiesa cattolica 3. Il suo linguaggio si modulava. Si rivolgeva con decisione ai
potenti e con semplicità ai deboli, ma non perdeva mai di vista le virtù migliori dell’uomo-
cittadino e, così ragionando, indicava la via del riscatto al suo pubblico. Davvero sperava
che a ciascuno spettasse, “per natura”, di uscire fuori dalle abitudini omologanti e
dall’avvilimento del “senso comune” 4.
Si allontanò presto da Croce. Lo ritenne colpevole di non avere inteso fin nel profondo le
sue intenzioni etiche e di avere confuso la sua esplorazione disincantata del mondo per
innamoramento del percorso stesso delle sue indagini. Meno presto, tuttavia, si allontanò
anche da Gentile, cui parve affratellarsi, in un primo tempo, proprio in funzione anti-
crociana. A farsi prova di quest’ultimo dissidio insanabile, resta ora la lunga teoria di
scritti critici sulle opere dell’attualismo, oltre a quel tremendo saggio di livida polemica,
che già nel titolo, rivendicante una sorta di prerogativa sul personaggio di Giordano Bruno
(Lo spaccio del bestione trionfante), si faceva programma di risentimento nei riguardi del
gentilianesimo 5. Per quanto riguarda Croce, i conti si chiusero definitivamente nel 1928,
nel testo tilgheriano, a caratterizzare – anche se in modo ben poco benevolo – il frangente storico e
la sostanziale immaturità che ne traspariva.
3
L’interesse di Tilgher per i temi teologici è attestato dalla sua presenza in un considerevole numero
di iniziative editoriali specialistiche, che accompagnavano l’attività di conferenziere, in maniera
crescente, specie a ridosso della firma dei “Patti Lateranensi”. La sua collaborazione alla rivista
Bilychnis (fino al 1924), alla Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi, a Ricerche religiose
(poi Il progresso religioso e Religio. Rivista di studi religiosi) di Ernesto Buonaiuti, a Conscientia di
Giuseppe Gangale, denota l’urgenza del problema spirituale e la volontà di proporre soluzioni
diverse e vieppiù circostanziate in un clima di crescenti incertezze spirituali. Di tali incertezze, un
breve compendio è contenuto nell’introduzione al volume di Vincenzo Cento, Io e me. Alla ricerca
di Cristo (Gobetti, Torino 1925).
4
Precisamente da questa angolazione, dev’essere letta la traduzione e la pubblicazione dei Saggi
filosofici di Felix Ravaisson (Tiber, Roma 1917). Il motivo critico dell’habitude, ricorrente nella
presentazione del volume, è levato da Tilgher a cardine di tutto il pensiero di Ravaisson e della sua
indagine filosofica. Ma esso è strumentale alla valorizzazione di quel principio di responsabilità e di
libertà delle scelte, che caratterizza nell’intimo l’intero pensiero tilgheriano e dà corpo alle
rivendicazioni di una coscienza matura e autonoma, a fronte di vite dissennate, o trascorse
nell’oblio e sotto perenni tutele. Vedi G.F.Lami, Adriano Tilgher. Un pensatore liberale, SEAM,
Roma 2000, p.30 e pp.35-40.
5
La storia del rapporto Tilgher-Gentile è fatta da una serie infinita di precisazioni, contenute nelle
non poche recensioni, o nei richiami di entrambi a rispettivi lavori. Ma la polemica crescente
raggiunge il suo culmine con la rimozione di Tilgher dalla Biblioteca Alessandrina, dov’era
impiegato, e la sua destinazione alla Biblioteca Vittorio Emanuele (“sotto sorveglianza”), decisa nel
breve momento in cui Gentile ricoprì l’incarico di Ministro dell’Istruzione Pubblica. Quel
trasferimento fu avvertito come un atto persecutorio e ne seguì un’odiosa controversia. Il dissidio
diventò addirittura insanabile dopo la pubblicazione di Lo spaccio del bestione trionfante (Gobetti,
Torino 1925), ma faceva seguito a taluni accenni della incipiente frattura, contenuti già in
in occasione della uscita di quel volume crociano (La storia d’Italia dal 1871 al 1915), che
provocò, in pari tempo, la ribellione di entrambi i discepoli. Gentile seguì però la via, che
mirava a screditare l’opera del maestro sul piano della “falsificazione” ricostruttiva degli
eventi. In effetti, essa sembrava sfuggire con ostentazione dall’era del Risorgimento,
collocando la data d’inizio del volume all’indomani della presa di Roma. Per altro, con
altrettanta ostentazione, sembrava volersi arrestare giusto alla vigilia dell’entrata dell’Italia
nella prima Guerra Mondiale, quasi a ribadire trascorsi convincimenti non-interventisti – e
negando legittimità, per di più, a qualsiasi discorso intendesse vedere nella “rivoluzione
fascista” un possibile compimento dell’epopea risorgimentale.
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Il progredire delle numerose esperienze culturali, di cui si arricchisce la vita di Tilgher, consente
alla sua personalità di crescere con grande padronanza di conoscenze. E’ così che, nella professione
di critico drammatico, egli riesce a comunicare non solo il “gusto” della scoperta di un’opera o di
un autore, ma le ragioni per cui un certo genere di rappresentazione possa aspirare a farsi “moda”,
le chiavi psicologiche di un’interpretazione e la sua appartenenza a un sentimento artistico generale.
Insomma, Tilgher non fa mai mancare una struttura teoretica al suo giudizio, capace di confluire in
una visione estetica e, finalmente, in un epilogo di contenuto filosofico, dal forte sapore morale. Il
tassello che Tilgher scava, partendo dal livello di una pièce teatrale, sprofonda dunque con
decisione nelle pieghe dell’etica, analizza i risvolti dell’inconscio (più o meno collettivo) e approda
a valutazioni di ordine elevatissimo – senza mai accontentarsi dei limiti di un copione, piuttosto,
coinvolgendo costumi intellettuali, valori, pregi e difetti di tutta un’epoca e d’interi continenti. Si
tratta sempre di un respiro ampio, nel caso tilgheriano. Per questo, i suoi lavori non cessano di
essere attuali, dato il prezioso carico d’informazioni che contengono. Cfr. anche A.Tilgher, Il
problema centrale (Cronache teatrali 1914-1926), Edizioni del Teatro Stabile, Genova 1973, e ID.,
Figure momenti problemi del teatro moderno, Boni, Bologna 1994.
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Al momento in cui Pirandello fu “rivalutato” da Adriano Tilgher, nell’immediato primo dopo-
Guerra, i lavori del drammaturgo siciliano erano in realtà assai noti. Silvio D’Amico, tra i tanti altri,
si era già accorto di quel modo di mettere in scena lo sconcerto di un’intera “classe media”, di
fronte al paradosso intellettuale che ne minava alle basi ogni certezza. E lo stesso Tilgher seguiva le
sue commedie dal 1916, almeno da quando, cioè, comparve sulla Concordia la sua prima critica di
“pensaci Giacomino”, conclusivamente ben poco entusiasta di quel tipo d’artista. Ma la “scoperta”
sarebbe (poi) avvenuta, con motivazioni sostanzialmente originali e innovative degli standards
interpretativi, perciò estranee ai più attempati e non meno famosi colleghi di penna. Il dibattito, che
rinnovò l’atmosfera respirata in teatro, dietro le quinte e in platea, finì per coinvolgere altri nomi,
come quello di Fausto Maria Martini, di Lucio D’Ambra (pseudonimo di Renato Eduardo
Manganella), di Emilio Cecchi, e si allargò a comprendere i generi drammatici e persino i metodi di
recitazione. Cfr. anche G.F.Lami, Introduzione a Adriano Tilgher, cit., pp. 20-7.
“puntate” seguenti di un’avventura, che vide entrambi legati a quella formula schematica
(“vita/forma”), che ne fu la parola d’ordine, consistono motivazioni di “gusto”, di “buon
gusto”, di opportunità, persino di convenienza politica 9.
quello stesso anno, la madre di Carlo, Maria Michelstaedter, accenna alla possibilità che sia proprio
Tilgher a prendersi cura della stampa dei manoscritti del figlio deceduto. Un’ultima, rilevante
attestazione è fornita dall’inserimento di Carlo Michelstaedter nell’elenco dei Filosofi e moralisti
del Novecento (Bardi, Roma 1932). Resta da chiarire per quale ragione sia così frequente la
ricorrenza nei testi tilgheriani dell’autore di La persuasione e la retorica. Un’ottima giustificazione
potrebbe ritrovarsi nella straordinaria “spendibilità” del personaggio, presso l’avanguardia
intellettuale del primo quarto del XX secolo, che andava radicalizzando, in Italia come nel resto
d’Europa, il proprio dissenso dal costume di una borghesia tardo-ottocentesca.
13
Bogdan Raditsa è il genero di Guglielmo Ferrero. Giovane diplomatico jugoslavo, intrattenne un
rapporto epistolare con Tilgher fin dall’epoca della sua delegazione esterna ad Atene, mentre si
attardava ammirato sulle pagine di La visione greca della vita (Bilychnis, Roma 1922), dimostrando
di conoscere a fondo anche il resto dell’opera tilgheriana, soprattutto La crisi mondiale e Saggi di
marxismo e socialismo (Zanichelli, Bologna 1921). Raditsa scrisse di Ferrero in più di
un’occasione, e si dilungò affettuosamente con lui, in particolare, nei Colloqui con Guglielmo
Ferrero (Capolago, Lugano 1939), poi nel saggio “Ferrero uomo”, in Rita Baldi (a cura di),
Guglielmo Ferrero fra società e politica, Ecig editrice, Genova 1982. Dimostrò di non dimenticare
nemmeno Tilgher. Così ripropose l’intervista tra il critico e Pirandello, già comparsa sulla rivista
XX Secolo (XX Vek) di Belgrado, nel 1927, su un libro che rimase in gestazione dal 1938 al 1940. Si
tratta di Agonia dell’Europa. Incontri e conversazioni con alcuni grandi scrittori del nostro tempo,
volume di gran significato, specie in considerazione dei tempi in cui vedeva la luce. La figura di
Bogdan Raditsa è alquanto enigmatica. Fu accanto a Tilgher, anche successivamente all’espatrio di
Ferrero, e condivise, con lui e la sua famiglia, le apprensioni della sorveglianza poliziesca (1930).
Dopo la guerra, si trasferì in America, ma il suo capitolo pubblicistico sembrò chiudersi nel 1941,
dopo la scomparsa di entrambi i personaggi che, con la fiera resistenza del loro spirito alla
degenerazione dei tempi, avevano suscitato in lui la più viva curiosità culturale.
pragmatismo trascendentale al più recente Moralità, e ne ricavò l’impressione giusta: di
un intelletto responsabile e partecipativo, desideroso di convertire al bene comune il vano
attivismo che sembrava caratterizzare tutta l’epoca 14. Il discorso fece breccia nella
mentalità diffusa all’Est europeo. E’ probabile che la spiritualità di quei popoli, a lungo
trattenuti sotto la tutela di civiltà esterne, condividesse più di un passaggio della logica e
lucidissima diagnosi tilgheriana.
Sta di fatto che, quando Tilgher morì, anche Vita bulgara (Sofia, 13 novembre 1941) volle
ricordarlo come “spirito acutissimo e indipendente”, riconoscendogli parimenti di aver
“contribuito assai allo sviluppo dell’indagine psicologica, che gli aveva permesso di
consegnare alla dimensione del filosofo anche la poesia di Leopardi”. E ritengo che non si
sarebbe potuto parlarne, per l’ultima volta, in termini più apprezzabili, che lo stesso
interessato avrebbe condiviso con gratitudine.
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Le opere tilgheriane di riferimento, in quegli anni, erano Filosofi e moralisti del Novecento
(1932), Filosofia delle morali (1937), Moralità (1938), che ostentavano già nel titolo la trattazione
di temi estranei alla politica e alla tensione del momento storico. All’omologazione degli intelletti,
cui il Fascismo sembrava attendere, una volta giunto al massimo del potere, Tilgher rispondeva con
la configurazione dei suoi “stili di vita”, che proclamavano la legittimità di ogni scelta, purché
operata in coerenza e dignità morale.