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6.1 Arcarecci
L’arcareccio di copertura è una trave che regge il peso del manto ed i carichi accidentali
della copertura stessa (la neve, o eventuali sovraccarichi, se previsti). Se sono presenti tor-
rini di aerazione, il loro peso andrà anch’esso sugli arcarecci.
I carichi sopra descritti agiscono dall’alto verso il basso. C’è poi da considerare la de-
pressione dovuta al vento che è invece una forza che agisce dal basso verso l’alto.
Gli arcarecci appoggiano sui traversi dei portali (o capriate) e vanno tipicamente su luci
di 4-8 metri. Di solito si impiegano profili tipo IPE, HEA o UPN, oppure profili a C o a Z
piegati a freddo. Luci maggiori a quelle indicate sono inusuali: se i portali distano, per e-
sempio, 12 metri, allora piuttosto che adottare arcarecci da 12 metri è preferibile impiegare
un falso traverso, cioè un traverso che non poggia direttamente sulle colonne ma su 2 travi
longitudinali, in modo da dimezzare la luce per l’arcareccio, e arrivare ad una più usuale di
6 metri.
Gli arcarecci svolgono anche l’importante funzione di stabilizzare il traverso o la ca-
priata su cui poggiano: nel caso del traverso tenendone l’ala superiore compressa e ridu-
cendo così la luce libera su cui si calcola lo sbandamento dell’ala compressa (flesso-
torsione), nel caso della capriata tenendo il corrente superiore compresso e riducendone la
lunghezza di libera inflessione, e quindi la snellezza, fuori dal piano della capriata. A volte
anche l’ala inferiore del traverso viene tenuta mediante sbadacchi che si ancorano sui tra-
versi (nel capitolo 13 indicheremo un dettaglio tipico).
Gli arcarecci si calcolano come travi semplicemente appoggiate soggette a flessione
deviata.
È vero che, da un punto di vista costruttivo, potrebbero essere realizzati come continui
su più appoggi. Per esempio, se la loro luce è di 4 metri, il costruttore potrebbe impiegare
barre da 12 metri e renderli perciò continui su 4 appoggi. Ma voi non saprete mai cosa farà
il costruttore e non sarebbe neanche prudente limitarlo, perciò è meglio calcolarli come
semplicemente appoggiati e fornire al costruttore 2 dettagli costruttivi: l’appoggio sul tra-
verso con giunzione, e l’appoggio sul traverso senza giunzione, lasciando a lui la scelta di
dove porre la giunzione, ma sempre in corrispondenza di un traverso.
La flessione deviata è dovuta al fatto che in genere le coperture sono in pendenza, ed il
carico verticale dovuto ai permanenti e alla neve verrà scomposto in 2 componenti: una
(più grande) che agisce secondo il piano di maggiore inerzia dell’arcareccio, ed una minore
che però, agendo nel piano nel quale il profilo presenta una bassa inerzia, dà luogo in gene-
re a sforzi non proprio trascurabili. Il carico della depressione del vento invece agisce nor-
malmente alla superficie del tetto, quindi non genera una componente orizzontale.
Poiché i profili usati per gli arcarecci hanno una bassa inerzia nel piano della copertura,
essi tenderebbero a “spanciare” per il solo peso proprio e peso del manto, prima che questo
venga fissato. È buona norma quindi pendinarli: cioè collegarli, a metà o ai terzi della lu-
ce, con dei pendini, profili che agiscono in trazione. Come pendini si usano in genere tondi
filettati (diametro 12-16 mm) o un piatto di sezione molto limitata (40 x 3 per esempio).
Tipicamente:
– un arcareccio con luce sino a 6 metri, verrà pendinato in mezzo;
– un arcareccio con luce da 6 a 8 metri verrà pendinato ai terzi;
– un arcareccio con luce di 8-10 metri ai quarti.
Con la pendinatura si ottiene anche il vantaggio di calcolare gli sforzi di flessione nel
piano di minore inerzia su una luce minore.
Per gli arcarecci si può trascurare o meno l’instabilità flesso-torsionale o sbandamento
laterale dell’ala compressa (lateral buckling).
È possibile trascurarla se il manto soprastante contrasta il possibile movimento.
Occorre però che il manto sia fissato in modo sufficientemente robusto, anche al fine di
sostenere le forze del vento che, agendo in depressione, tendono a staccare il manto dalle
strutture. Sarebbe buona norma indicare sui disegni o nel capitolato l’azione del vento a
mq alla quale il sistema di fissaggio del manto deve resistere.
Se non si ha fiducia nel sistema di fissaggio, o perché non idoneo di per sé a tener fer-
ma l’ala compressa o perché non si ha fiducia nell’accuratezza della realizzazione, o per-
ché infine non si è ancora scelto un manto specifico, allora conviene (come fanno alcuni)
considerare nel calcolo l’instabilità flesso-torsionale. In questo caso, per evitare di dover
usare profili troppo grossi e pesanti, si può usare come pendini non dei tondi (che connet-
tendosi all’arcareccio in un sol punto non possono impedirne lo sbandamento laterale) ma
profili tipo IPE magari un po’ più piccoli dell’arcareccio e collegati con 2 bulloni (alme-
no), oppure angolari che si collegano con una squadretta saldata all’angolare stesso e 2 bul-
loni sull’arcareccio. Questo tipo di collegamento è considerato un collegamento a cerniera
ma, ai fini dell’instabilità laterale, il debole grado d’incastro che sviluppa si considera suf-
ficiente e prevenire il fenomeno.
Attenzione però: la forza di depressione del vento, che agisce dal basso verso l’alto,
manda in flessione l’arcareccio comprimendo l’ala inferiore che in genere non è tenuta.
Quindi occorrerebbe verificare la flessione per la depressione del vento considerando co-
munque l’instabilità per sbandamento laterale.
C’è da dire che, se la luce dell’arcareccio è bassa, tra i 4 ed i 6 metri, in genere questa
verifica non è dimensionante.
Se si vuole approfondire il problema dell’azione stabilizzante realizzata o meno dal manto
di copertura, si può leggere l’Eurocodice EN-1993-1-3 che tratta in modo esteso
l’argomento.
Gli arcarecci non sono soggetti a carichi assiali di compressione o trazione, tranne
quelli che fanno parte dei controventi di falda. Per questi, nei casi in cui si sono scelte le
IPE, si ricorre spesso alla sostituzione con una HEA nel tratto interessato dal controvento,
poiché ovviamente l’HEA resiste meglio ad azioni assiali. Qualcuno trascura le azioni as-
siali poiché, se il manto è ben fissato, la snellezza dell’arcareccio è praticamente nulla.
Personalmente ritengo che, in coperture di dimensioni ampie, dove queste compressioni
non sono trascurabili, sia meglio prescindere dall’effetto stabilizzante del manto. La pendi-
natura, nel caso di arcareccio che agisce anche in compressione, svolge l’ulteriore funzione
di ridurre la lunghezza di libera inflessione nel piano del tetto che è anche quello di minore
inerzia per l’arcareccio stesso.
Suggerimento: se avete usato, per esempio, le IPE 180 come arcarecci, sostituite quelle che
fanno parte del controvento di falda, e che quindi si comprimono, con una HEA 180: resi-
steranno a compressione benissimo, e compenserete la differenza di spessore con un piatto
da 8-10 mm posto tra l’HEA e il traverso, necessario per collegare i diagonali del contro-
vento.
Degli arcarecci va infine controllata la freccia che, di norma, non deve superare 1/200
della luce. Anzi questa verifica spesso finisce per essere quella dimensionante.
Nel paragrafo 10.3.3.1 presenteremo un esempio di calcolo di un arcareccio.
I controventi di falda laterali, se presenti, raccolgono le forze del vento che agiscono
nelle pareti laterali tra una colonna e l’altra e le riportano sulle colonne stesse. Se è presen-
te la trave longitudinale che regge il falso traverso, ne stabilizzano l’ala compressa impe-
dendole di sbandare nel suo piano orizzontale.
Nella figura 6.3 la trave longitudinale è tralicciata, e quindi il controvento di falda ne
stabilizza il corrente superiore.
I controventi di falda di testata sono delle travi reticolari che hanno come correnti le
flange superiori di due traversi contigui, come montanti un tratto degli arcarecci e come
diagonali dei profili opportunamente aggiunti. In genere si impiegano L semplici o schiena
a schiena, oppure degli UPN. In strutture piccole anche dei tondi. È preferibile adottare
uno schema ad aste tese in modo da avere diagonali snelle e piccole.
Il calcolo consiste dunque in:
– Calcolare le forze del vento e concentrarle sui nodi della reticolare.
– Calcolare le forze instabilizzanti delle ali compresse dei traversi (per esempio come
indicato al par. 7.2.7.3 della CNR-UNI 10011). Esse andrebbero sommate, per
quanto riguarda i diagonali, alle forze del vento. Ma pochi lo fanno, e tutti conside-
rano solo le forze del vento. C’è da dire che le azioni instabilizzanti non sono eleva-
te e che questi controventi non si fanno lavorare al massimo della loro capacità, per
cui la verifica è facilmente soddisfatta.
– Risolvere la reticolare considerando solo le diagonali in trazione.
– Dimensionare le diagonali.
– Usare le compressioni sui montanti per la verifica degli arcarecci in presso-flessione
deviata.
– Usare le compressioni sull’ala superiore del traverso per la verifica di quest’ultimo;
se si trattasse di una capriata, sommare la compressione trovata alla compressione
del corrente superiore della capriata che si trova calcolando la capriata stessa.
I controventi di falda, essendo travi reticolari piuttosto tozze, non richiedono di norma
verifica della deformabilità.
Occorre ricordare che il primo portale ha un carico verticale ridotto perché l’area della
copertura su di esso gravante è circa la metà degli altri, ciò va tenuto conto nelle verifiche
b3) e b4) (a meno che non si preveda un ampliamento del capannone/tettoia).
Se in traverso non fa parte di un portale, ma è collegato “a cerniera” alle colonne a
mensola o pendolari, non cambia nulla di quanto detto sopra, tranne che:
1) Il diagramma del momento è quello tipico delle travi appoggiate, con momento
nullo agli estremi e massimo in campata (e questo sarà un parametro dominante il
dimensionamento).
2) Le forze orizzontali non generano momenti ma solo azioni assiali.
3) La verifica di deformabilità diventa importante e spesso dimensionante.
Pertanto i momenti flettenti potranno essere calcolati semplicemente considerando la
trave come appoggiata.
Le azioni assiali, dovute al vento, potranno essere facilmente calcolate con l’ipotesi che
il traverso consenta la distribuzione equa di esse tra le 2 colonne. Su luci molto ampie, so-
pra i 12-15 metri direi, un traverso ad H diventa oneroso da realizzare.
Si preferisce allora ricorrere ad una capriata, cioè ad una trave tralicciata, saldata o
bullonata, con correnti, diagonali e montanti realizzati in genere con L semplici o doppi L,
oppure con UPN (figura 6.5).
Queste strutture hanno il pregio di coprire ampie luci con pesi ridotti rispetto alle travi
ad H. In compenso hanno alcuni difetti: a) sono di solito più costose (costano almeno il 15-
20% in più al kg, ma questo numero è solo indicativo); b) sono più alte delle travi ad anima
piena, ad H cioè, e quindi determinano, a parità di altezza utile, un’altezza totale del ca-
pannone maggiore.
Se si usano angolari “schiena a schiena” per realizzare la capriata, soluzione bella da un
punto di vista strutturale ed anche costruttivo, occorre tener presente che ci saranno pro-
blemi di verniciabilità (è difficile far penetrare la vernice tra i 2 angolari distanti 10-15
mm), e quindi ci saranno maggiori rischi di corrosione. Sarebbe preferibile per risolvere il
problema zincare a caldo gli angolari, oppure impiegare solo angolari semplici o doppi “a
farfalla”.
È preferibile collegare le capriate alle colonne mediante cerniera e non con attacchi a
momento, realizzando quindi schemi del tipo colonna a mensola/puntone, o colonna pendo-
lare/puntone, piuttosto che portali.
Perché?
Innanzi tutto diciamo come realizzare un attacco a cerniera. La capriata si connette alla
colonna col corrente superiore (e il primo diagonale) e con il corrente inferiore. Occorre
realizzare il primo dei due attacchi come cerniera, solitamente bullonato, e bullonare an-
che il corrente inferiore ma lasciare dei fori asolati. Se invece non si asolano i fori, il dop-
pio attacco costituisce un attacco a momento con la colonna, che consente il transito dei
momenti nella forma di trazioni/compressioni aggiuntive sui correnti.
Ora, se si realizza un attacco a momento, un momento negativo sul nodo capriata-
colonna genererà trazioni nel corrente superiore della capriata e compressioni in quello in-
feriore. Quest’ultimo è dimensionato per le trazioni, quindi è più snello di quello superiore
e non è tenuto lungo la sua lunghezza, mentre il corrente superiore è ben tenuto dagli arca-
recci. Assoggettarlo a compressioni vuol dire essere costretti ad aggiungere strutture simili
agli arcarecci sul piano del corrente inferiore al fine di contrastarne appunto la instabilità
fuori dal suo piano, complicando quindi costruttivamente le cose.
Se la capriata è realizzata come incernierata, può essere agevolmente calcolata come strut-
tura reticolare isostatica, soggetta alle forze verticali trasmesse dagli arcarecci e alla compres-
sione che si trasmette tra colonna e colonna (calcolata come detto sopra per il traverso).
Se siete ancora capaci di fare un Cremoniano a mano (e se ne avete ancora voglia), vi
basta un foglio di carta millimetrata e 2 squadrette per calcolare le azioni interne, altrimenti
ricorrete ad un qualsiasi programma di calcolo, cosa che è francamente meglio (nel capito-
lo 10, quando parleremo della modellazione, daremo qualche indicazione su semplici cal-
coli manuali di predimensionamento).
Le aste risulteranno semplicemente compresse o tese.
Il corrente superiore sarà compresso, con lunghezza di libera inflessione pari alla di-
stanza tra 2 nodi nel piano, e alla distanza di 2 arcarecci fuori dal piano. Pertanto va verifi-
cato a instabilità per compressione semplice. Se ci fossero arcarecci in falso che generano
quindi momenti flettenti, lo si verificherà a instabilità in presso-flessione.
Il corrente inferiore si verificherà a trazione semplice, sull’area netta depurata dai fori.
I montanti si verificheranno a instabilità per compressione semplice con lunghezza di
libera inflessione pari alla loro lunghezza teorica.
Le diagonali saranno tese o compresse a seconda dell’inclinazione, e come tali andran-
no verificate.
La deformabilità non è determinante per queste strutture intrinsecamente rigide.
Se comunque vorrete considerare la capriata incastrata nelle colonne, allora dovrete
calcolare il portale che ne deriva (questa volta senz’altro con un programma di calcolo).
Poi dimensionerete come prima, facendo attenzione che il corrente inferiore molto proba-
bilmente si comprimerà nei tratti di estremità, e bisognerà fare attenzione alla sua lunghez-
za di libera inflessione fuori dal piano (con aggiunta di collegamenti, come detto sopra).
Vedrete in questo caso che le trazioni massime del corrente inferiore, proprio per
l’effetto d’incastro, risulteranno minori di quelle che trovereste considerando la capriata
semplicemente appoggiata.
Il mio personale parere è che, anche se la capriata fa parte del portale, il corrente infe-
riore venga comunque dimensionato per la trazione che avrebbe se la capriata fosse sem-
plicemente appoggiata.
Perché? È solo una norma di prudenza: se per caso i giochi foro-bullone fanno sì che il
corrente inferiore “fiati” senza entrare in compressione, allora si tenderebbe al comporta-
mento di capriata appoggiata, cioè con trazione del corrente inferiore maggiore, e questo
sarebbe molto pericoloso, perché un suo cedimento comporterebbe il cedimento della ca-
priata stessa essendo questa sostanzialmente isostatica.
L’aggravio in termini di peso è minimo, il grado di sicurezza che ne deriva ben maggiore.
Con carroponti di grande portata (60-100 tonnellate e più) e travi piuttosto alte (da
1000 mm in su) le azioni dovute al disassamento dei carichi verticali non sono più trascu-
rabili. Esse tendono a generare delle spinte torcenti sulla trave di scorrimento. L’ala supe-
riore è ben bloccata dalla trave orizzontale che serve principalmente per sostenere le spinte
orizzontali, ma l’ala inferiore è libera e la trave potrebbe tendere a inclinarsi e ruotare at-
torno all’asse longitudinale. Si può ovviare a ciò principalmente in 2 modi:
a) introducendo delle bielle inclinate che collegano la trave orizzontale con l’ala inferiore;
b) creando una sorta di cassone, aggiungendo cioè un corrente inferiore e tralicciando
la faccia inferiore della trave e poi quella verticale. La trave verticale parallela alla
trave di scorrimento si chiama di solito trave di sponda. In genere si aggiungono
poi anche delle diagonali interne per irrigidire il cassone agli appoggi, ed anche ai
terzi della trave.
Se si usa la soluzione b), si potrà impiegare parte del cassone, generalmente la trave
tralicciata inferiore, che avrebbe solo una funzione stabilizzante, per sostenere le spinte
del vento che agiscono sulle orditure di parete.
In una via di corsa di un carroponte all’aperto è preferibile utilizzare il grigliato invece del-
la lamiera striata per la passerella. Infatti all’aperto sono possibili dei ristagni d’acqua con
la striata, e quindi ci sono maggiori rischi di corrosione e soprattutto di formazione di
ghiaccio con conseguente scivolosità del piano camminabile.
Vediamo allora come si calcolano le vie di corsa.
• La trave di scorrimento
La trave di scorrimento deve sopportare i seguenti carichi:
– il peso proprio ed il peso di metà della trave orizzontale superiore, se questa è presente;
– i carichi verticali del carroponte;
– metà dei sovraccarichi della passerella, se questa esiste;
– le spinte trasversali del carroponte.
Essa inoltre deve avere una freccia verticale non maggiore di 1/800 della luce, ed oriz-
zontale di non più di 1/1600 della luce, in accordo alla norma CNR-UNI 10021, per gli ap-
parecchi di sollevamento.
Prima cosa occorre procurarsi i carichi verticali del carroponte.
Se si sa già quale sarà il carroponte da installare siamo a posto: il costruttore fornisce i
carichi statici alle ruote, minimi e massimi, ed in base alla classe di funzionamento il coef-
ficiente dinamico da adottare. Ma spesso il progettista deve dimensionare la via di corsa
prima che sia stato acquistato il carroponte, per cui disporrà solo della portata nominale
richiesta dal cliente e dello scartamento. In base a questi dati è possibile, ricorrendo alla
letteratura o a dati presi dai cataloghi dei costruttori, ricavare i carichi verticali in modo
sufficientemente cautelativo.
Un buon riferimento è, a mio avviso, “L’Acciaio nelle Costruzioni”, Edizioni Cremo-
nese, 1973, non più pubblicato per quanto ne so io. Lì viene riportata una tabella, che qui
riproduco (figure 6.9, 6.10 e 6.11), con le reazioni alle ruote di una certa gamma di carro-
ponti da 3 a 250 ton di portata utile.
I carroponti hanno di solito 2 o 4 ruote per testata, a seconda della portata. Se si ricorre
a dati preliminari e non a quelli veri, il mio consiglio è di usare, per carroponti Da 50-60
ton di portata in su, sia uno schema a 2 ruote che uno a 4, perché si trovano appunto mo-
delli sia a 2 che a 4 ruote.
Si dovrà poi valutare un coefficiente dinamico, riferendosi alle modalità di funziona-
mento ed alle indicazioni della CNR UNI 10021.
Una volta determinati i carichi verticali, maggiorati del coefficiente dinamico, occorre-
rà con essi dimensionare la trave di scorrimento.
Lo schema statico che in genere si adotta per le travi di scorrimento è quello di trave
appoggiata. È conveniente, a mio avviso, adottare schemi di trave continua solo per carro-
ponti di bassa portata con campate piuttosto brevi (in modo da usare un profilo commercia-
le tipo HE in un pezzo unico continuo su 3 appoggi, per esempio). In genere lo schema a
trave appoggiata tra un portale e l’altro è comunque preferibile.
I carichi verticali vanno posti sulla trave in 3 posizioni:
a) quella che genera il massimo taglio;
b) quella che genera il massimo momento flettente;
c) quella che genera la massima freccia.
La b) e la c) non coincidono necessariamente, ma di solito tutti usano la b) anche per il
calcolo della freccia massima.
La posizione che genera il taglio massimo è quella con la prima ruota gravante diretta-
mente sull’appoggio.
Quella che genera il massimo momento flettente può essere trovata spostando i carichi sul-
la trave in modo tale che, se si hanno 4 carichi, la mezzeria della trave cada a metà della
distanza tra la seconda ruota ed il baricentro di tutti i carichi di una testata. Se invece si
hanno 2 carichi, la mezzeria della trave deve cadere a metà della distanza tra il primo cari-
co e il baricentro dei carichi (figura 6.12).
Coi carichi verticali del carroponte, i pesi propri e gli eventuali sovraccarichi si dimensiona
la trave di scorrimento.
Figura 6.12 Azioni del carroponte: posizione di massimo momento e massimo taglio.
Figura 6.13 CNR-UNI 10011: valori limite della snellezza dei pannelli d’anima.
Per travi laminate tipo HE (carroponti di bassa portata) sarà dominante il dimensiona-
mento a flessione e la verifica della freccia. Dopo si verificherà che il profilo scelto vada
bene anche a taglio. Se la trave di scorrimento non ha una trave orizzontale superiore per le
spinte laterali, si dovrà considerare lo sbandamento laterale (tenendo conto ovviamente
dell’effetto benefico dell’eventuale L saldato di lato all’ala superiore o dell’UPN posto so-
pra ad essa). Se invece abbiamo un carroponte di alta portata allora avremo, come diceva-
mo, una trave di scorrimento realizzata con una trave composta saldata, ed in questo caso
giocano un ruolo rilevante sia il momento flettente, che la deformabilità che infine il taglio.
Per dimensionarla possiamo seguire il seguente schema logico:
a) Determiniamo l’altezza e lo spessore dell’anima.
L’altezza dell’anima determina l’altezza della trave, e l’area dell’anima è determinata
dal taglio massimo. Allora fissiamo lo sforzo di taglio massimo che vogliamo raggiungere,
diciamo il 60% del massimo ammissibile per il materiale scelto. Con questo numero e con
il taglio massimo calcolato determiniamo l’area minima necessaria per l’anima della trave.
È chiaro che, a parità di area, è più efficiente ridurre lo spessore ed alzare l’altezza, perché
così si alza l’inerzia e occorrerà meno area sulle ali per portare il momento flettente mas-
simo e quindi si otterrà una trave meno pesante e più economica. Ma più si fa snella
l’anima e più questa è soggetta ai fenomeni di instabilità. Da ciò ci si difende ponendo de-
gli irrigidimenti verticali sull’anima (che vanno da ala superiore ad ala inferiore). Più snel-
la è l’anima più fitti devono essere gli irrigidimenti, e più fitti sono più lavorazioni ci sono,
e quindi il costo aumenta. Per ottimizzare il tutto si può immaginare di porre irrigidimenti
che creano pannelli di larghezza 1–1,5 volte l’altezza dell’anima. In queste condizioni in
genere l’anima è verificata per l’instabilità con rapporti altezza/spessore dell’ordine di 110-
120. Osserviamo infatti il prospetto 7-XI della CNR-UNI 10011 (figura 6.13).
Si vede che, con α compreso tra 1 e 1,50 (cioè con pannelli larghi sino a una volta e
mezzo l’altezza della trave), nei pannelli centrali dove la σ può andare da 12 a 24 kN/cmq
e la τ sarà minore di 9 kN/cmq, i pannelli possono avere una snellezza sino a 140. Nei
pannelli agli appoggi, con una τ sino a 10,5 kN/cmq (quindi al 66% della τ massima per un
acciaio S275) e una σ molto bassa, la snellezza scende a 120.
Usando quindi un rapporto altezza/spessore di 110-120 e nota l’area necessaria, tro-
viamo spessore ed altezza.
Il calcolo è banale:
se At è l’area necessaria, 120 il rapporto altezza/spessore, hw l’altezza dell’anima e tw il
suo spessore:
At = hwt w = hw (hw / 120)
da cui consegue:
hw = 120 At
t w = hw / 120
b) Determiniamo le dimensioni delle ali o flange.
Andiamo per tentativi, in modo da ottenere una sezione il cui modulo di resistenza sia
tale da sopportare il momento massimo e il cui momento di inerzia sia tale da dare una
freccia non superiore ad 1/800 della luce.
Lo spessore è meglio che sia almeno 1,5 volte quello dell’anima, senza superare, di-
ciamo, valori di 50-60 mm.
Probabilmente la verifica della deformabilità sarà quella dominante. Se invece coman-
dasse la verifica a flessione, in questo caso non dimensioniamo le flange in modo da arri-
vare al 100% della σ ammissibile, perché dobbiamo lasciare un po’ di margine per le com-
pressioni aggiuntive dell’ala superiore dovute al suo appartenere alla trave orizzontale che
contrasta le spinte trasversali del carroponte, ed anche dell’ala inferiore che potrebbe avere
extra-sforzi dovuti alle azioni del vento sulla trave orizzontale inferiore. Potremmo arrivare
ad un 70% della σ massima (o forse anche meno, dipende anche dal grado di confidenza
che abbiamo nei confronti dei carichi adottati e dalla probabilità che possano aumentare).
La larghezza della flangia, per carroponte da 50-60 ton in su, non deve essere inferiore a
350 mm: infatti la rotaia sarà larga 200 mm e gli apparecchi di fissaggio laterali (detti a
volte “pizzicotti”) circa 60 mm ciascuno. Quindi occorrono 320 mm più lo spazio per sal-
dare gli apparecchi di fissaggio. Se poi c’è una lamiera striata superiore saldata anch’essa
sulla flangia, è meglio avere 400 mm.
Per carroponti da 5-15 ton, 300 mm saranno sufficienti (un profilo tipo HE, per esempio).
c) Dimensioniamo la trave orizzontale superiore.
È una trave tralicciata, incernierata alle estremità, che ha come corrente interno l’ala
superiore della trave di scorrimento.
I carichi sono quelli dovuti alle spinte trasversali del carroponte, pari a 1/10 dei corri-
spondenti carichi verticali. Se il corrente esterno è impiegato anche come collegamento tra
i portali, potrebbe avere una compressione aggiuntiva, dovuta al transito delle forze del
vento agenti sulla facciata.
Possiamo calcolare questa trave come tralicciata oppure, in modo più approssimato ma
più semplice, come una trave appoggiata della quale il taglio massimo ci darà la massima
compressione e trazione sui diagonali (basta moltiplicare il taglio massimo per l’opportuno
seno o coseno dell’angolo che il diagonale forma coi correnti), ed il momento flettente
massimo ci darà, diviso per la distanza tra i due correnti, la massima trazione e/o compres-
sione sul corrente esterno e sull’ala superiore della trave di scorrimento. L’azione del cor-
rente esterno andrà incrementata della compressione che si trova calcolando la trave di
sponda.
d) Dimensioniamo la trave di sponda.
È una trave tralicciata anch’essa, come la trave orizzontale superiore.
È soggetta, oltre che ai pesi propri, all’eventuale sovraccarico sulla passerella.
Il metodo di calcolo è analogo a quello della trave orizzontale superiore.
La compressione del corrente superiore va sommata a quella trovata nel calcolo della
trave orizzontale superiore.
e) Dimensioniamo la trave orizzontale inferiore.
È una trave tralicciata anch’essa, come la trave orizzontale superiore.
È soggetta, oltre che ai pesi propri, all’eventuale spinta del vento agente sulle pareti laterali.
Il metodo di calcolo è analogo a quello della trave orizzontale superiore.
La trazione del corrente va sommata a quella trovata nel calcolo della trave di sponda.
La trazione nell’ala inferiore della trave di scorrimento andrà usata nella verifica di
quest’ultima.
f) Verifichiamo la trave di scorrimento.
Alla fine delle calcolazioni, noti tutti gli sforzi, trasformiamo in verifica il calcolo di
predimensionamento che avevamo fatto in a) e b).
Le verifiche saranno:
– Verifica a flessione semplice per il massimo momento derivante dai carichi dinamici
del carroponte, dai pesi propri e dall’eventuale sovraccarico sulla passerella. La com-
pressione così trovata dell’ala superiore dovrà essere incrementata del valore trovato
in c) (per le spinte trasversali). La trazione dell’ala inferiore dovrà essere incrementata
del valore trovato in e) (per le spinte del vento in facciata laterale). I valori di cui so-
pra potranno essere distribuiti sull’ala (superiore o inferiore) più una zona collaboran-
te dell’anima, dell’ordine di 10-12 volte lo spessore dell’anima stessa.
– Verifica a taglio massimo dell’anima in prossimità dell’appoggio.
– Verifica dei pannelli dell’anima.
– Verifica degli irrigidimenti trasversali e di quelli di estremità.
– Verifica locale dell’anima allo schiacciamento per il transito della singola ruota.
– Verifica della freccia (che deve essere minore o uguale a 1/800 della luce).
Diciamo infine che la frenata del carroponte non è dimensionante per la via di corsa.
Essa transita come carico assiale (trascurabile) sulla trave di scorrimento, per scaricarsi sui
portali di controvento.
6.7 Colonne
Le colonne scaricano sulle fondazioni praticamente tutti i carichi della struttura: pesi pro-
pri, neve, sovraccarichi, vento, sisma, carroponte.
Per carichi e dimensioni modeste, sia che siano pendolari, o a mensola, o infine a porta-
le, in genere sono realizzate con profili laminati tipo HE. In questo caso la via di corsa del
carroponte, se presente, poggia su una mensola, anch’essa in genere tipo HE, saldata al fu-
sto della colonna.
Tra i profili della serie HE, è in genere preferibile impiegare le HEA piuttosto che le HEB
per realizzare le colonne. Una HEA ha inerzia maggiore di una HEB di pari area, perciò si
riesce in genere a trovare una HEA di area minore ma anche di snellezza minore da impie-
gare come colonna, risparmiando peso. Solo per colonne soggette a compressione sempli-
ce, con carichi elevati e bassa snellezza, l’uso dell’HEB può essere conveniente.
Per dimensioni maggiori e quando si hanno carroponti di grossa portata, si passa a co-
lonne a doppio montante, 2 IPE, 2 HE o 2 profili composti saldati, uniti da un piatto oppor-
tunamente irrigidito orizzontalmente da costole, oppure tralicciate su entrambe le ali con
angolari semplici o UPN. In questo caso la via di corsa poggia in asse sul montante inter-
no, e dalla quota del carroponte in su prosegue solo il montante esterno (la baionetta), e-
ventualmente con un altro tipo di profilo, sino alla copertura.
È opportuno orientare i montanti della parte inferiore con l’inerzia massima che resi-
ste alla flessione in senso longitudinale, poiché in senso trasversale la colonna ha nel tratto
inferiore bassa snellezza, essendo doppia. La baionetta invece sarà orientata con l’inerzia
maggiore in senso trasversale, poiché è in questa direzione che agiscono gli sforzi maggio-
ri (figura 6.14).
La colonna è soggetta a:
– carichi verticali provenienti dalla copertura (peso proprio, neve);
– carico verticale del carroponte (eccentrico, perché la via di corsa non è in asse con
la colonna);
– eventuali carichi verticali a quote più basse derivanti da impalcati;
– carico orizzontale concentrato dovuto alla spinta trasversale del carroponte;
– carichi orizzontali dovuti al vento, concentrati a varie quote e/o distribuiti, a secon-
da dello schema dell’orditura di parete adottato per trasmettere le forze del vento;
– carichi orizzontali dovuti al sisma, concentrati alle quote nelle quali ci sono masse signi-
ficative (nel caso del capannone, tipicamente in copertura e all’altezza del carroponte);
– eventuali cedimenti delle fondazioni, se previsti (e se lo schema è iperstatico, cioè a
portale: con colonne pendolari o a mensola, quindi con uno schema isostatico, even-
tuali cedimenti vincolari non creano sforzi aggiuntivi).
Il modo di trovare le forze da applicare alla colonna, o meglio agli schemi di calcolo di cui
si dirà subito sotto, è ovvio. Qualche considerazione solo per le forze derivanti dal carroponte.
Abbiamo visto prima, parlando delle vie di corsa, che bisogna posizionare il treno di
carichi sulla trave di scorrimento in modo da trovare: a) la posizione di massimo momento;
b) la posizione di massimo taglio. Qui invece dobbiamo muovere il treno di carichi in mo-
do da trovare la posizione di massimo carico sulla colonna, che in genere non coincide con
i primi 2 schemi, e che consiste nel porre il carroponte centrato sul portale interessato. Se
le campate sono di lunghezza diversa, bisognerà scegliere il portale che ha da una parte e
dall’altra le campate di maggiore lunghezza, in modo da massimizzare le azioni del carro-
ponte. Questo sia per le azioni verticali che per quelle orizzontali (che saranno praticamen-
te pari a 1/10 di quelle verticali). Questa operazione va fatta con le azioni massime del car-
roponte, cioè con le azioni alle ruote della testata verso la quale il carico è accostato.
Sull’altra testata le azioni verticali del carroponte saranno minime. In genere il costruttore
(o la letteratura a riguardo) dà del carroponte sia le azioni massime che le minime. Quindi
se chiamiamo Vmax e Vmin la massima e la minima azione verticale del carroponte su di una
colonna, e Tmax e Tmin la massima e la minima azione trasversale, occorrerà adottare i due
schemi di calcolo illustrati nella figura 6.15.
Figura 6.15 Carichi verticali e trasversali del carroponte agenti sui portali.
Commentiamole.
A) Colonne a mensola trasversalmente e pendolari longitudinalmente (con portale di
controvento. La lunghezza di libera inflessione trasversale, T (*), è 2 volte l’altezza
della colonna, essendo appunto una mensola. Longitudinalmente invece, la lun-
ghezza di libera inflessione L è pari all’altezza della colonna che si comporta come
incernierata ad entrambi gli estremi. Poiché sarà disposta con l’inerzia maggiore in
direzione trasversale, non è a priori determinato quale delle 2 snellezze comandi.
B) Colonne a mensola trasversalmente e pendolari longitudinalmente, ma con carro-
ponte. In questo caso, in genere, il controvento longitudinale è fatto in modo da te-
nere le colonne all’altezza della via di corsa (altrimenti la frenata del carroponte
solleciterebbe le colonne a flessione longitudinalmente, cioè proprio nel piano di
minore inerzia). Quindi abbiamo indicato una lunghezza di libera inflessione in di-
rezione longitudinale L da terra all’altezza del carroponte (o comunque sino al pun-
Figura 6.17 AISC ASD90: abaco per calcolo lunghezze di libera inflessione di colonne con varie
condizioni di vincolo agli estremi.
D) Portale trasversale con colonne “a baionetta”, cioè con 2 montanti nel tratto infe-
riore ed uno, la baionetta appunto, nel tratto superiore. Longitudinalmente le co-
lonne sono pendolari con controvento, e in questa direzione la via di corsa fa
senz’altro da collegamento tra i portali e da punto fisso. Diciamo che, a voler fare
le cose esatte, la lunghezza di libera inflessione T della colonna intera andrebbe
calcolata, facendo ricorso a quanto si trova in letteratura. Se la colonna è tutta dello
stesso profilo, una valutazione molto buona di T si trova nella norma AISC-
ASD90, alla section C-C2 “Frame Stability”: “Allignment Chart for Effective
Length of Columns in Continuous Frames” (figura 6.17). Si tratta di calcolare, per i
due estremi A (inferiore) e B (superiore) il rapporto G tra la rigidezza della colonna
e quella della trave. Per l’estremo al suolo, se è incernierato il valore sarebbe teori-
camente infinito, ma viene consigliato di prendere 10 perché la fondazione esercita
un certo grado d’incastro comunque. Se la colonna è incastrata viene consigliato
prudentemente di prendere 1 e non 0. Se la colonna è a baionetta, una valutazione
approssimata e cautelativa di T(*) per la parte inferiore a 2 montanti è quella ripor-
tata nella figura, cioè pari al doppio della loro altezza, considerandoli come una
mensola. La T della baionetta può essere calcolata col metodo AISC applicato al
portale che si ottiene considerando baionetta e traverso, sempre che la rigidezza del
tratto inferiore di colonna sia molto maggiore di quella della baionetta. Altrimenti
si potrà molto cautelativamente considerare la baionetta incernierata nella sezione
di collegamento ai due montanti. Longitudinalmente si sfrutta il vincolo creato dal-
la via di corsa.
E) Colonne “a baionetta” con traverso incernierato agli estremi, e quindi a mensola
trasversalmente e pendolari longitudinalmente. In direzione trasversale conside-
riamo sia la parte inferiore che la baionetta come mensole, mentre longitudinal-
mente è come il caso D).
F) Colonna pendolare in entrambe le direzioni con carroponte. Come il caso C), ma la
via di corsa, facendo da collegamento, riduce la lunghezza L.
Con questi casi non abbiamo certo coperto tutte le tipologie possibili, ma abbiamo dato
un po’ di indicazioni che si possono estendere facilmente ad altri casi.
Giova ricordare quanto delicata sia la scelta della snellezza, perché un errore in questa
valutazione può avere conseguenze disastrose, e perché usando programmi di calcolo, spes-
sissimo incapaci di valutare correttamente le snellezze, si rischia di sbagliare più facilmente.
Se le colonne sono più lunghe di 16 metri circa, occorre prevedere un giunto, altrimenti
occorre organizzare un trasporto speciale per portarle in cantiere, ed in genere i Costruttori
non amano questo. In realtà la scelta se fare un tronco unico o 2 tronchi dovrebbe spettare
al Costruttore appunto, che farà uno studio di ottimizzazione dei costi di costruzione e tra-
sporto. Come progettisti, la cosa che conviene sempre fare è prevedere un giunto a comple-
to ripristino, in modo da lasciare il Costruttore libero di utilizzarlo o meno, e nella posizio-
ne che preferisce.
Trovati gli sforzi e valutate correttamente le snellezze, non resta che verificare le colonne.
1) Le colonne pendolari vanno valutate per stabilità in compressione semplice. Basta
considerare la massima compressione e la massima snellezza.
2) Le colonne a mensola realizzate con profilo uniforme andranno verificate:
a) In direzione trasversale:
a1) Instabilità per presso-flessione retta.
a2) Instabilità per presso-flessione retta con svergolamento (in genere verifica non do-
minante, soprattutto se ci sono collegamenti longitudinali. Se si considera poi che le
orditure di parete impediscono lo svergolamento, la verifica non è necessaria).
a3) Tensioni locali in presso-flessione (sezione di base).
a4) Deformabilità orizzontale alla sommità.
b) In direzione longitudinale:
b1) Instabilità per compressione semplice.
Valori accettabili di spostamento orizzontale in sommità sono riportati per esempio nelle NTC:
– h/300 per un edificio monopiano generico;
– h/150 per una tettoia senza carroponte;
– h/400 per un capannone con carroponte ( EC3: EN 1993-6 );
– hi/300 per un edificio multipiano (calcolato sull’interpiano);
– H/500 per un edificio multipiano (calcolato sull’altezza totale).
3) Le colonne a mensola con geometria “a baionetta” andranno verificate.
3.1) Tratto inferiore a 2 montanti:
a) In direzione trasversale:
a1) Verifica locale in compressione alla sezione di base (in genere non determinante).
a2) Instabilità per presso-flessione della sezione composta. (Benché la snellezza sia
2 volte l’altezza, questa verifica è difficile che sia determinante, perché la se-
zione composta ha in genere un momento d’inerzia molto alto, e quindi questa
verifica in genere si omette).
a3) Taglio sul pannello che collega i montanti (o, in caso si usi una tralicciatura, in-
stabilità per compressione del singolo traliccio, per il quale il taglio alla base si
trasforma in una compressione o una trazione).
a4) Deformabilità orizzontale in sommità, cioè all’appoggio della via di corsa.
b) In direzione longitudinale:
b1) Instabilità per compressione semplice di un singolo montante (infatti i momenti
agenti sulla colonna si scomporranno in una trazione su un montante ed una
compressione sull’altro, per cui i montanti non saranno inflessi ma compressi o
eventualmente tesi). Questa verifica è in genere quella dimensionante per i
montanti.
3.2) Tratto superiore, o baionetta:
a) In direzione trasversale:
a1) Verifica di instabilità a presso-flessione retta.
a2) Verifica di instabilità a presso-flessione retta con svergolamento (se le orditure
di parete non lo impediscono).
a3) Verifica locale in presso-flessione.
a4) Deformabilità orizzontale in sommità.
b) In direzione longitudinale:
b1) Verifica di instabilità per compressione semplice.
4) Le colonne “a baionetta” ma facenti parte di un portale vanno verificate come
quelle a mensola: ciò che cambia sono solo le snellezze (vedi prima).
6.8 Impalcati
Gli impalcati sono costituiti da travi.
Si possono avere travi principali che vanno da colonna a colonna e travi secondarie che
vanno da una trave principale all’altra, oppure addirittura 3 orditi di travi, con travi di terzo
livello che vanno da una secondaria all’altra. L’ultimo ordito di travi regge il solaio che, in
un edificio industriale, può essere realizzato, comunemente: in grigliato, con luci da 1-1,75
metri, o con soletta in c.a. con sottostante lamiera grecata (su luci più ampie, 2-2,5 metri).
Le travi principali possono essere collegate a cerniera (cioè con un attacco a taglio) alle
colonne, o anche con un attacco a momento (in questo caso contribuiscono alla stabilità dei
portali trasversali). Le travi secondarie sono in genere collegate alle principali con attacchi
a taglio. Più raramente si realizzano continue (anche perché è difficile realizzare costrutti-
vamente la continuità di una trave trasversale su una principale), a meno che non si debba-
no costruire degli sbalzi, nel qual caso la continuità dietro lo sbalzo è molto utile per la
stabilità: infatti incastrare uno sbalzo in una trave trasformerebbe la flessione dello sbalzo
in torsione della trave che la regge, e le travi in acciaio in genere non sono idonee a lavora-
re in torsione. Quindi, come mostrato nella figura 6.18, conviene porre dietro la mensola o
sbalzo una trave, collegata a momento allo sbalzo, in modo da evitare la torsione e tra-
sformarla in flessione della trave aggiunta.
Come si vede dalla figura 6.18 sono presenti dei controventi di piano che, come quelli
di falda, hanno lo scopo di dare stabilità all’intero piano ed eventualmente distribuire le
forze orizzontali.
Va detto che i controventi di piano sono indispensabili in caso che il piano sia realiz-
zato con grigliato. Questo infatti non vincola a sufficienza le travi (è semplicemente pog-
giato su di esse e vi può scorrere sopra facilmente), mentre se c’è una soletta con lamiera
grecata in c.a. si potrebbe fare a meno dei controventi di piano. La soletta infatti è puntata
alle travi mediante saldatura o, meglio, fissata con pioli Nelson o dispositivi simili, al fine
di meglio trasmettere le forze orizzontali.
Quindi a seconda che si impieghino o meno i pioli Nelson, che si impieghi una soletta
in c.a. o un grigliato, si possono realizzare i seguenti tipi di impalcato:
a) Travi in acciaio, pioli Nelson e soletta in c.a. collaborante. I pioli sono calcolati
per creare la collaborazione tra trave e soletta, creando sezioni miste; trave e soletta
si verificano quindi assieme (la soletta lavora in flessione in una direzione e in
compressione in quella nella quale collabora appunto con le travi). Questa tipologia
è impiegata negli impalcati da ponte, direi poco nei solai degli edifici industriali,
perché costruttivamente più complessa delle tipologie seguenti, e perché mal si
presta alla necessità di praticare forature nella soletta.
b) Travi in acciaio, pioli Nelson e soletta in c.a. non collaborante. I pioli hanno il so-
lo scopo di diffondere le forze orizzontali, rendendo il piano rigido, e vincolare a-
deguatamente le travi allo sbandamento laterale; la soletta quindi lavora solo a fles-
sione nella direzione ortogonale alle travi, travi e soletta si calcolano indipenden-
temente le une dall’altra. La collaborazione soletta-travi comunque si crea, con
I profili che le compongono possono essere i più vari, a seconda dell’entità degli sforzi
e dei gusti del progettista. Si va dall’angolare semplice ai doppi angolari schiena a schiena,
ai doppi UPN, alle HE, tubi o altri simili.
I controventi posti in corrispondenza di colonne a doppio montante saranno doppi
anch’essi, per tenere entrambi i montanti. In questo caso i profili potranno essere indipen-
denti, come 2 controventi posti fianco a fianco, oppure collegati da una tralicciatura o da
collegamenti ortogonali, a formare una sorta di trave Vierendel. Collegarli serve ovvia-
mente a ridurre la snellezza fuori dal piano.
Con riferimento alla figura 6.20, si possono fare le seguenti annotazioni:
– La tipologia “B” a croce di S. Andrea è la più efficiente, se si vuole, e può essere
impiegata considerando agente solo l’asta tesa oppure sia l’asta tesa che quella
compressa. In questo caso gli sforzi sui diagonali si dimezzano, ma in compenso bi-
sogna tener conto dell’instabilità, e quindi impiegare profili di sezione maggiore.
Nella figura sono indicate le lunghezze da considerare per calcolare le snellezze
“x”, nel piano, e quelle “y”, fuori dal piano. Solo una osservazione sulla snellezza
fuori dal piano, che io ho indicato pari alla intera lunghezza del controvento, e.
Qualcuno usa d e non e, considerando che l’altra asta è tesa e quindi il nodo centra-
le è un punto fisso. Ciò è vero se l’altra asta è sicuramente tesa: ma possono esistere
condizioni per cui anche l’altra asta va in compressione, ed in tal caso il nodo cen-
trale potrà sbandare fuori dal piano. Per ciò ritengo sia più prudente considerare
l’intera lunghezza. Il difetto di questa tipologia è che impedisce il passaggio tra le 2
colonne interessate.
– Una soluzione alternativa allo schema A è lo schema A' della figura 6.21. In es-
so si è semplicemente prolungata un’asta compressa sino a raggiungere la co-
lonna, cioè un punto fisso. Così le 2 aste compresse si calcolano considerando la
loro luce (“a” e “b”) come lunghezza di libera inflessione.
– La soluzione “D” si differenzia dalla “C” (entrambi controventi a K) per un
rompitratta che consente di ridurre la lunghezza di libera inflessione nel piano.
Per trarne un vantaggio occorre orientare l’asta in modo da avere la massima
inerzia fuori dal piano, quindi per esempio se si usa una HEA, bisognerà orien-
tarla con le ali parallele al foglio. Capita di vedere progettisti che fanno il con-
trario, rendendo praticamente inutili i rompitratta. Sempre riguardo a queste so-
luzioni, tutto funziona se il punto in alto al centro della trave è un punto fisso
fuori dal piano. Quindi occorre che: a) la trave non sia interrotta; b) che essa sia
in grado di resistere in compressione su tutta la luce.
Detto ciò, si capisce che le verifiche da fare sono esclusivamente:
a) verifica di instabilità per compressione semplice;
b) verifica in trazione semplice.
Vorrei fare adesso un paio di osservazioni riguardo ai controventi in zona sismica.
Sappiamo che un controvento di una struttura che si trova in una zona sismica è tanto
più efficace quanto più energia riesce a dissipare durante l’evento sismico.
Per poter dissipare energia, il controvento deve potersi snervare, perché se rimanesse in
campo elastico la dissipazione sarebbe pressoché nulla.
Per potersi snervare, occorrono 3 cose:
– Appoggiato in basso (con scarico del peso della pannellatura e di parte dell’azione
del vento) e appoggiato in alto sul controvento di falda laterale ma con asole verti-
cali, in modo da scaricare le forze del vento (orizzontali) ma non caricarsi del carico
che il falso traverso /capriata scarica sulla trave laterale.
– Appeso in alto (senza asole) e appoggiato in basso con asole verticali, in modo da
scaricare in alto, sulla trave laterale, il peso delle pannellature, ed in basso solo la
quota parte delle forze del vento.
– Appoggiato ad una quota intermedia, per esempio sulla via di corsa, e vincolato
con asole verticali sia in alto che in basso.
Se il montante è troppo alto, può essere conveniente prevedere una trave orizzontale di
controvento, che se molto lunga potrà essere tralicciata, sulla quale il montante si appog-
gia, con uno schema quindi di trave su 3 appoggi. La trave di controvento appoggia sulle
colonne, riceve il carico del vento (orizzontale) dal traverso, ma in genere è sostenuta ver-
ticalmente dal traverso stesso: quindi è una trave con grande inerzia nel piano orizzontale e
piccola inerzia in quello verticale, tanto da avere bisogno di essere sostenuta.
Le figure 6.24 e 6.25 illustrano le tipologie delle quali abbiamo parlato. In particolare,
nella figura 6.25 è rappresento in modo schematico un campo di parete tra 2 colonne, con 2
ritti. Il primo a sinistra è appeso in alto alla trave longitudinale di collegamento, ed ha in
basso un giunto scorrevole verticalmente che gli consente di scaricare in orizzontale la
spinta del vento sulla fondazione.
Il ritto di destra invece è appoggiato in basso ma scorre in alto, dove può solo scaricare
forze orizzontali, sul controvento di falda laterale. Se il vincolo in alto non fosse scorrevo-
le, il carico della copertura, di un falso traverso per esempio, si scaricherebbe sul ritto e
non sui portali.
La trave di controvento va da colonna a colonna. Quando incontra i ritti, si realizza un
vincolo tale che:
a) il ritto sostiene verticalmente la trave che altrimenti cederebbe, essendo orientata
con la massima inerzia nel piano orizzontale e non in quello verticale;
b) la trave sostiene la spinta del ritto e in più ne tiene l’ala contro lo sbandamento la-
terale. Il dettaglio del tipo di nodo lo vedremo più avanti, quando parleremo dei
dettagli tipici.
Le verifiche da effettuare su questi elementi sono:
Arcarecci di parete:
– Verifica a flessione nel piano orizzontale sotto l’azione delle forze del vento, con
schema di trave appoggiata.
– Verifica della freccia per il vento (in genere 1/200 della luce).
Montanti di parete:
– Verifica a presso-flessione (se appoggiati in basso), o a tenso-flessione (se appesi in
alto), sotto l’azione del peso delle pannellature e della spinta del vento.
– Verifica della freccia, sotto la spinta del vento (minore di 1/300 della luce almeno,
altrimenti si hanno spostamenti notevoli e probabilmente incompatibili con i pan-
nelli e i serramenti).
I montanti si calcolano come travi su 2 appoggi, se è presente una trave orizzontale di
controvento come trave su 3 appoggi.
Trave di controvento orizzontale:
– verifica a flessione, per la spinta del vento, sotto la reazione del montante di parete,
– verifica della freccia (minore di 1/300 della luce almeno).
Concludendo, nella figura 6.26 ho riassunto in forma tabellare i principali componenti
strutturali e le verifiche da fare, indicando con “SI !” le verifiche fondamentali che di soli-
to governano il dimensionamento, con “SI” quelle fondamentali ma che molto probabil-
mente non sono dimensionanti, e con “si” le verifiche che vanno fatte ma che spesso non
sono significative.
È chiaro che si tratta di una tabella qualitativa che vuole solo dare l’idea che per ogni
componente dobbiamo analizzare cosa è importante verificare e cosa no, perché effettuare
tutte le verifiche “a tappeto” è inutile e spesso genera confusione ed induce in errore.