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Da qualche tempo se ne parla di nuovo. Non c’è dubbio che l’argomento sia molto
interessante. Nulla, però, faceva pensare, fin a poco fa, che la posizione definitivamente
acquisita con Benedetto XIV (1) sarebbe stata nuovamente discussa. A dire il vero, gli ultimi
interventi hanno proposto ben poco di nuovo; han solo richiamato l’attenzione al rapporto tra
infallibilità papale e canonizzazione. Non nuova è stata la posizione dubitativa o addirittura
negativa, non nuova quell’affermativa. D’ambo le parti si son ripetuti ragionamenti del
passato ed irrilevante è stato, forse con l’unica eccezione di D. Ols (2), il loro contributo per
una più profonda conoscenza del problema ed una fondazione critica della soluzione
proposta.
Poiché anch’io sono stato sfiorato dal “demone” della curiosità e del ripensamento, ne
raccolgo qui, in forma quasi provocatoria, i punti essenziali. Chissà, mi son detto, che
qualcuno non m’aiuti a capir meglio!
Mi sembra superfluo dichiarare che il mio ripensamento parte dalla concreta situazione d’una
“verità” dogmaticamente non definita, con un conseguente margine di libertà che alcune
“note teologiche” limitano, sì, ma non soffocano del tutto. Ed è sottinteso che la mia
“provocazione” resta all’interno di codesti limiti.
1 - LA DOTTRINA COMUNE
Né il Denzinger (3), né il CJC del 1983 (4), né il Catechismo della Chiesa Cattolica (5) la
espongono: segno evidente che essa è estranea all’ambito di ciò che la Chiesa dichiara e
promulga “definitorio modo”. Pertanto, la dottrina comune della canonizzazione va ricercata
altrove, e precisamente nel magistero ecclesiastico non “ex cathedra”, nelle stesse Bolle di
canonizzazione, in altri interventi ecclesiastici non dogmatici e nel dibattito teologico.
Ne parlerò in seguito.
1.1 - La loro analisi permette di definire così la canonizzazione: «Un atto mediante il quale il
Sommo Pontefice, con giudizio inappellabile e sentenza definitiva, inscrive formalmente e
solennemente un Servo di Dio, precedentemente beatificato, nell’albo (o canone) dei Santi».
Tale definizione si completa, ordinariamente, con la precisazione che il Papa intende
dichiarare con essa la presenza del canonizzato nel seno del Padre, cioè nella gloria eterna,
nonché la sua esemplarità per tutta la Chiesa ed il dovere d’onorarlo ovunque con il culto
dovuto ai Santi.
1.2 - Non soltanto dall’estensione del culto a tutta la Chiesa con conseguente coinvolgimento
di tutti i fedeli, ma anche dalla dichiarata esemplarità del nuovo canonizzato e dall’implicita
assicurazione che costui è nella gloria dei cieli, la dottrina comune ha dedotto l’infallibilità
del canonizzante.
Tutto ciò apre un ventaglio di riflessioni storico-teologiche sulla tesi in esame; in particolare,
sulla vera nozione di magistero ecclesiastico e d’infallibilità papale, nonché sulle
implicazioni ecclesiologiche della distinzione sostanziale tra beatificazione e canonizzazione.
Son proprio siffatte riflessioni che o mancano, o son prive di specifica rilevanza, tanto negli
Autori favorevoli quanto in quelli contrari. La monotona ripetizione di motivi non
sufficientemente ragionati, ma anche di quelli collegati con fatti concreti - il Nepomuceno, p.
es., e la Goretti, in passato, altri nel presente - che parrebbero mettere in discussione, se non
addirittura escludere l’infallibilità della canonizzazione, non darà né al sì, né al no le ali per
volare molto in alto.
2 - IL MAGISTERO ECCLESIASTICO
«È il potere conferito da Cristo alla sua Chiesa, avvalorato dal carisma dell’infallibilità, in
virtù del quale la Chiesa docente è costituita unica depositaria ed autentica interprete della
Rivelazione divina, da proporre autoritativamente agli uomini come oggetto di fede per la
vita eterna» (11).
Non mi si chieda la dimostrazione teologica dell’assunto; non è questa la sede per farlo.
È peraltro ben noto ad ogni cultore di teologia che tale magistero riposa su non equivoche
asserzioni neo-testamentarie (Mt. 16,16-20; 28,18), dalle quali risulta che Cristo ne fece lo
strumento vivo per la diffusione e la tutela del suo messaggio, concentrandolo soprattutto in
Pietro (Mt. 16,18-20; Lc. 22,32; Gv. 21,15-18). In lui previde, ovviamente, la catena
ininterrotta dei legittimi successori, caratterizzando, in tal modo, il magistero stesso con le
note dell’universalità, della perpetuità e dell’infallibilità (Mt. 16,18-20; 18,18.20).
La Tradizione della Chiesa, esplicitamente o no, ha sempre considerato in Pietro e nei suoi
legittimi successori, nonché nel collegio degli Apostoli e nei vescovi che loro subentrano nel
governo della Chiesa in comunione col Papa e mai contro, o senza, o al di sopra del Papa, i
titolari di tale magistero. Esso, pertanto, si pone davanti alla coscienza del singolo e della
Chiesa tutta come la “regula fidei proxima”. Anzi, il Vaticano I, seguito in ciò dal Vaticano
II, parve identificare primato e magistero, anche se formalmente l’uno attiene più all’ambito
dei rapporti interecclesiastici e l’altro all’ambito della fede: «Ipso autem Apostolico primatu,
quem Romanus Pontifex tamquam Petri principis Apostolorum successor in universam
Ecclesiam obtinet, supremam quoque magisterii potestatem comprehendi, haec Sancta Sedes
semper tenuit, perpetuus Ecclesiae usus comprobat, ipsaque, oecumenica Concilia, ea
imprimis in quibus Oriens cum Occidente in fidei caritatisque unionem conveniebat,
declaraverunt» (12).
La logica interna alla fede, ben salda sulla roccia della Rivelazione divina, può quindi
guardare al magistero ecclesiastico come al perenne ed infallibile carisma della verità
cristiana.
2.1 - Il magistero non si esprime univocamente; non è un caso che si parli - non sempre,
purtroppo, in modo corretto - di magistero solenne, straordinario, ordinario ed autentico.
La solennità del magistero riguarda la sua forma ed il massimo della solennità è raggiunto dal
Concilio ecumenico. Anche il Papa può solennemente riprovare un errore e proclamare una
dottrina o una canonizzazione; ma benché non si dia Concilio se non convocato, diretto -
«per se vel per alios» - e confermato dal Papa, la solennità dell’atto papale non raggiunge
quella conciliare; questa è data dall’autoritativa sinergia dei vescovi che, in comunione col
Papa, son essi pure «subiectum supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam» (LG
22b), che autenticamente rappresentano e per la quale collegialmente operano. La pienezza
del potere magisteriale, infatti, oltre che nel Papa, risiede nel “corpus episcoporum” in
comunione con Lui. Pertanto, la solennità dell’atto magisteriale s’attua personalmente nel
Papa e collegialmente nel Concilio ecumenico; in ambedue i casi è la risposta della Chiesa a
circostanze d’eccezione.
Che in ciò il Signore si sia davvero compromesso è testimoniato dalla sua stessa parola: dalla
sua preghiera per l’indefettibilità di Pietro e della sua missione di maestro universale (Lc. 22,
32); dall’assicurazione della sua compresenza alla Chiesa sin alla fine del mondo (Mt. 28,
20); dall’invio dello Spirito di verità alla Chiesa d’ieri, d’oggi e di domani, perché la
introduca in tutta la verità (Gv. 16, 13) e la salvaguardi da ogni errore.
Si tratta d’un’assistenza divina che, stando ai passi neo-testamentari di supporto, non può
esser definita soltanto «mere negativa». Dispiace che s’insista ancora su questa limitazione,
forse per eludere il pericolo d’un equivoco tra assistenza dello Spirito Santo ed illuminazione
o rivelazione privata.
Che l’infallibilità del Papa non debba collegarsi con qualche sua personale illuminazione
dall’alto, né con un’altrettanto personale rivelazione, non c’è dubbio: è anch’essa «ad
aedificationem fidei» (Ef. 4, 29). In effetti, se la funzione dello Spirito del Padre e del Figlio è
quella di condurre la fede della Chiesa e la stessa coscienza cristiana «al possesso di tutta la
verità», il limitarla alla pura e semplice preservazione dall’errore (nozione «mere negativa»)
ne è un suo mortificante avvilimento e priva lo stesso magistero d’una sua capacità
propositiva.
3.2 - È giusto il precedente abbinamento tra infallibilità papale ed infallibilità della Chiesa.
Giusto, perché conforme alla Tradizione e alla conferma che ne ebbe dal Vaticano I:
«Definimus Romanum Pontificem... ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor
Ecclesiam suam... instructam esse voluit» (14). Non son in gioco due infallibilità che si
sommino, o s’elidano a vicenda; ma un unico e medesimo carisma, che ha nella Chiesa, nel
Papa e nei vescovi collegialmente considerati ed in comunione col Papa i legittimi titolari.
Tale carisma s’esprime in forma positiva, prima e forse più che negativa. E all’opera quando
il magistero, annunciando la verità cristiana o dirimendo eventuali controversie, resta per
esso fedele al «depositum fidei» (1Tm. 6, 20; 2Tm. 1, 4) o ne scopre risvolti nuovi e fin a quel
momento inesplorati. Ed è pure all’opera, in modo attivo e passivo, nel c.d. «sensus
fidelium», per il quale tutt’il popolo di Dio gode d’una infallibilità non solo di riflesso, ma
anche propositiva, sia per la presenza in esso della Chiesa docente, sia per la testimonianza
cristiana e profetica dei laici (15).
L’accenno al «mere negativa» sottolinea peraltro una funzione dell’infallibilità, la quale, ben
lungi dall’identificarsi con una prerogativa privata, dovuta ad un’intelligenza eccezionale o
ad una straordinaria illuminazione dall’alto, in tanto è in quanto dipende dalla già ricordata
assistenza divina, cui si deve sia il momento negativo (preserva dall’errore), sia quello
positivo (introduce in tutta la verità).
3.3 - Di codest’infallibilità, nei suoi due aspetti negativo e positivo, è indicato titolare anche
il Papa fin dai primordi dell’era cristiana. “Indicato” non è lo stesso che “definito”, anche se,
in ultim’analisi, conta la cosa, non come la si proponga.
San Clemente s’introduce autoritativamente in questioni di fede insorte a Corinto;
Sant’Ignazio è preso d’ammirazione per la Chiesa ch’è a Roma; Sant’Ireneo ne ricerca la
comunione; San Cipriano riconosce in essa la radice dell’unità; Sant’Ambrogio è il primo a
fondare su Mt. 16, 18 il discernimento della vera Chiesa e Sant’Agostino non esita a
dichiarare che, nella Chiesa romana, «semper apostolicae cathedrae viguit principatus» (16),
per la ragione che il Signore Gesù «in cathedra unitatis doctrinam posuit veritatis» (17).
3.4 - A tale riguardo sembra molto opportuna l’attenta considerazione delle parole del
dogma: «Definimus Romanum pontificem, cum ex cathedra loquitur, id est, cum omnium
Christianorum pastoris et doctoris munere fungens pro sua suprema Apostolica auctoritate
doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam definit, per assistentiam
divinam ipsi in beato Petro promissam, ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor
Ecclesiam suam in definienda doctrina de fide vel moribus instructam esse voluit; ideoque
huiusmodi Romani pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae,
irreformabiles esse».
Parole soppesate con estremo rigore. Non solo non deificano un essere umano, ma, nell’atto
stesso di riconoscergli un carisma di cui nessun altro è in possesso, pongono chiari limiti e
rigide condizioni all’esercizio di esso. Il Papa, infatti, «non per il fatto d’esser Papa
(simpliciter ex auctoritate papatus) (18), è in assoluto infallibile».
È forse venuto il momento di ripetere con franchezza e fermezza quanto già reiteratamente si
dichiarò nel recente e lontano passato circa la necessità di liberare il papato da quella specie
di “papolatria”, che non concorre certamente ad onorare il Papa e la Chiesa.
Non tutte le dichiarazioni papali son infallibili, non tutte essendo ad un medesimo livello
dogmatico. La maggior parte dei discorsi e dei documenti papali, infatti, anche quando tocca
l’ambito dottrinale, contiene insegnamenti comuni, orientamenti pastorali, esortazioni e
consigli, che formalmente e contenutisticamente son ben lungi dalla definizione dogmatica.
Né questa c’è se non in presenza delle condizioni stabilite dal Vaticano I. Occorre dunque che
il Papa parli:
- «Ex cathedra» (19): l’espressione trae il suo significato dalla funzione esemplare e
moderatrice che, fin dall’inizio, fece del Vescovo di Roma il maestro della Chiesa
universale e di Roma stessa il “locus magisterii”. In uso già dal II sec. come simbolo
della funzione magisteriale del vescovo, la cattedra divenne in seguito il simbolo della
funzione magisteriale del Papa (20). Il parlare “ex cathedra” significa, quindi, parlare
con l’autorevolezza e la responsabilità di colui che gode di giurisdizione suprema,
ordinaria, immediata e piena su tutta la Chiesa e su ognuno dei suoi fedeli, pastori
compresi, in materia di fede e di costumi, ma non senza riflessi ed effetti anche
disciplinari.
- «Pro suprema sua Apostolica auctoritate»: è la ragione formale del suo insegnamento
infallibile ed universale. Tale ragione è dovuta alla successione apostolica del Papa a
Pietro, che fu quindi il primo, ma non l’unico, vescovo di Roma e Papa in quanto
vescovo di Roma. Ad ogni suo successore sulla “cattedra romana” compete, dunque,
tutto quanto Cristo aveva dato a Pietro, “ratione officii, non personae”. È pertanto
meno corretto dire “infallibilità personale del Papa” invece che “infallibilità papale”.
Ma, anche nel caso che si voglia insistere, come fa qualcuno, su “infallibilità
personale”, si dovrebbe sempre distinguere nel Papa la “persona publica” da quella
“privata”, ricordando che la “persona publica” vien determinata dal suo ufficio.
- «Doctrinam de fide vel moribus»: deve trattarsi, cioè, di verità da credere e
qualificanti l’esistenza cristiana, direttamente o no contenute nella divina Rivelazione.
Un diverso oggetto dell’insegnamento papale non può pretendere d’esser coperto dal
carisma dell’infallibilità, la quale tanto s’estende quanto la Rivelazione stessa.
- «Per assistentiam, divinam»: non qualunque intervento del Papa, non un suo
semplice monito, non un suo qualunque insegnamento, son garantiti dall’assistenza
dello “Spirito di verità” (Gv. 14, 17; 15, 26), ma quello soltanto che, in armonia alle
verità rivelate, manifesta ciò che il cristiano deve, in quanto tale, credere ed attuare
(21).
Solo nel pieno ed assoluto rispetto delle dette condizioni, il Papa è garantito dall’infallibilità;
può dunque ad essa appellarsi quando intende obbligare il cristiano nell’ambito della fede e
della morale. È anche da aggiungere che, da tutto l’insieme dell’intervento papale e dalle
parole che l’esprimono, deve risultare, unitamente al rispetto delle indicate condizioni, la
volontà del Papa di definire una verità come direttamente o indirettamente rivelata, oppure di
dirimere una questione «de fide vel moribus”, con cui tutta la Chiesa dovrà poi uniformare il
proprio insegnamento e coordinare la propria prassi.
3.5 - È qui evidente che si ha a che fare non con generiche e plurisignificanti nozioni
d’infallibilità, bensì con la nozione rigorosamente teologica di essa. E perfino all’interno di
tale delimitazione, l’infallibilità si capisce solo se si rifugge dall’ambiguità lessicale, p. es.
d’un Karl Barth (22) che confonde l’infallibilità con l’indefettibilità.
D’altra parte, il concetto non si chiarisce, dal punto di vista teologico, ignorandolo (23), e
neanche relegandolo trasversalmente in altri contesti (24) o considerandolo sotto aspetti
formali incompleti; si pensi al negativo “Irrtumlosigkeit” (25) certamente non sbagliato, ma
impari a testimoniare, dell’infallibilità, il significato positivo, il valore di fondo, la grazia, il
carisma che, per volontà di Cristo, arricchisce la Chiesa ed il Papa.
Effettivamente il significato positivo è primario e come tale va sottolineato; esso per un verso
dà la garanzia massima («fide divina vel divino-ecclesiastica”) della verità, per un altro
salvaguarda la verità stessa da ogni contraffazione o erronea o ereticale. L’infallibilità vien
così ad esser infinitamente più che assenza d’errore ed impossibilità di esso; è presenza di
verità, è certezza superiore di essa, intimamente ed inscindibilmente congiunta con l’esserci
della Chiesa. Un suo errore, in ordine alle verità da credere o alla morale da vivere, si
risolverebbe contro la Chiesa stessa, distruggendola (26).
Ora, non essendo tenuto a trattare sempre “de fide vel moribus”, né soltanto in momenti e per
motivi straordinari, e neanche a trattarne sempre nella forma solenne della “locutio ex
cathedra” - di fatto ciò avviene raramente! - il Papa ne tratta il più delle volte nella forma
ordinaria, ricorrendo in particolar modo alla Lettera enciclica, alla Bolla, alla Costituzione e
via dicendo.
Nella storia più recente della Chiesa, si conoscono encicliche sicuramente cattedratiche,
dall’“Ineffabilis Deus” di Pio IX (27) alla “Miserentissimus Deus” di Pio XII (28), dedicate
rispettivamente al dogma dell’Immacolata Concezione e a quello dell’Assunzione; qualcuno
(29) annovera tra queste anche la “Humanae vitae” di Paolo VI (30) sulla salvaguardia della
vita.
Il Dublanchy (31), non senza qualche eccesso di zelo, riconosce il carattere dogmatico anche
ad alcune encicliche di Leone XIII in forza del loro contenuto dottrinario: la dottrina relativa
al matrimonio cristiano, nella “Arcanum” del 10.2.1880; l’origine divina del potere anche
civile, nella “Diuturnum” del 20.6.1881; la sovrana e nativa indipendenza della Chiesa, nella
“Immortale Dei” del 1.11.1885; l’ispirazione ed inerranza della Sacra Scrittura, nella
“Providentissimus Deus” del 18.11.1893; il primato del Romano Pontefice e la natura della
Chiesa, della “Satis cognitum” del 29.6.1896.
Il fatto è che il carisma dell’infallibilità può connotare anche il magistero ordinario del Papa,
pur non rispondendo a tutte le condizioni della definizione cattedratica. Qualora il Papa
volesse davvero proclamare una verità come dogma di fede, o determinarne il senso esatto e
l’appartenenza alla fede cattolica, la “Locutio ex cathedra” sarebbe la forma più idonea allo
scopo; in tal caso, il Papa è anche tenuto a manifestare esplicitamente la sua volontà e
consapevolezza di parlare come “pastore e dottore di tutta la Chiesa” e a dichiarare la sua
intenzione “definitoria”. Non sempre, però, proclama una verità “definitorio modo”, cioè “ex
cathedra”.
Qualora una verità sia già stata definita; o si tratti di verità dedotta da quelle rivelate, o sia
con quelle rivelate e definite strettamente collegata; oppure, qualora il tenore dell’intervento
papale sia, per circostanze e contenuto, di carattere ordinario, allora l’intervento stesso non
oltrepassa il limite del “definitive tenendum”. Nell’uno e nell’altro caso, per l’insorgenza
d’evidenti condizionamenti dogmatici, è però in atto il carisma dell’infallibilità papale. Nel
“definitorio modo”, lo è direttamente ed immediatamente per il verificarsi in esso di tutte le
condizioni alle quali è legato; nel “definitive tenendum”, indirettamente e quasi di riflesso.
Come, infatti, negarla ad un magistero che, sia pure in forma ordinaria, ripropone le verità
contenute nel Credo e nelle varie professioni di fede, nel giuramento antimodernistico (della
prima e della seconda stesura), nella sacra liturgia ch’è il dogma pregato, e nella vita
sacramentale della Chiesa?
5 - IL FATTO DOGMATICO
Si noti: dico “fatto”, non verità o dottrina. Ch’esso venga definito dogmatico, non comporta
di per sé che si tratti d’un fatto anche soprannaturale. L’Incarnazione del Verbo, la sua
passione e morte redentrice, la sua risurrezione ed ascensione al cielo - solo per portare
qualche esempio - son senza dubbio dei fatti. Ma la loro emergenza sul piano soprannaturale
esclude che possan qualificarsi come dogmatici nel senso inteso dalla teologia postridentina:
son essi stessi veri e propri dogmi, verità divinamente rivelate e dalla Chiesa inserite nel suo
Credo.
Secondo la teologia postridentina, i fatti dogmatici hanno attinenza alla concretezza delle
cose, alla loro realtà fattuale e conoscibilità naturale, pur mantenendo una loro relazione con
il mondo della fede. Per analogia, posson rapportarsi alle verità naturali, cioè conosciute con
le sole forze della ragione umana, quali l’esistenza di Dio, la spiritualità e l’immortalità
dell’anima, la morale naturale: verità naturali che trovano poi conferma nella Rivelazione
cristiana e diventano oggetto anche di conoscenza soprannaturale. In effetti, anche i c.d. fatti
dogmatici mantengono una connessione del loro ambito naturale con quello soprannaturale.
Non sono dei fatti qualunque; la loro stessa fattualità attiene a verità rivelate. S’imparentano
dunque col dogma. Donde la loro qualifica di fatti dogmatici.
È peraltro doveroso riconoscere che, in teologia, sui fatti dogmatici non si dà univocità di
giudizi. Si può dire soltanto, che negli Autori appare preminente il riferimento ad emergenze
concrete - la presenza, p. es., di Pietro come vescovo di Roma, la storia d’un Concilio
ecumenico, l’urto delle sue correnti e la dialettica delle sue dottrine - nelle quali sia anche
presente, con ogni evidenza, un significato dogmatico in forza d’una loro connessione logica
e necessaria con verità contenute nella Rivelazione e dogmaticamente definite.
La questione dei fatti dogmatici esplose quando - era il 31 maggio 1653 - Innocenzo X
condannò cinque proposizioni estratte dall’Augustinus di Giansenio. Distinguendo la dottrina
delle cinque proposizioni dal fatto della loro appartenenza all’Augustinus, alcuni nulla
eccepirono sull’infallibilità della condanna, ma negarono che la dottrina condannata si
trovasse effettivamente nell’opera incriminata. La controversia è nota e perciò non c’è
ragione d’insistervi: dico solamente che sia il magistero della Chiesa, sia la riflessione
teologica dimostrarono l’infondatezza della detta distinzione. In particolare, il grande
Bossuet, poi seguito dal Fenelon, mise in evidenza, ben 24 casi nei quali il magistero
ecclesiastico s’era autoritativamente e definitoriamente pronunciato, benché si trattasse di
fatti, prima o più che di dottrine (32).
Il successivo sviluppo della riflessione teologica collegò i fatti dogmatici con determinate
verità di fede definita, grazie alla presenza in essi d’un vincolo, o intrinseco o estrinseco, tra
fatti e verità. Intrinseco si disse il vincolo di quei fatti che s’integrano nel dogma: p. es. il
peccato originale. Estrinseco, invece, il vincolo che solo dall’esterno congiunge fatti e
dogma: p. es. la difesa d’una verità definita, la legittimità dell’elezione d’un Papa, la
condanna d’un libro eterodosso o d’una dottrina ereticale (33). Si tratta sempre di «fatti
contingenti... in connessione morale necessaria con il fine primario della Chiesa, che è quello
di conservare e spiegare il deposito rivelato» (34).
L’attenzione a tali fatti si giustifica, pertanto, non in base ad un interesse puramente storico
per essi, ma al loro coinvolgimento nel dogma. E poiché «tra i fatti dogmatici è
universalmente annoverata anche la canonizzazione» (35) ineccepibile deve dirsi dal punto di
vista formale la conseguenza della sua infallibilità.
Ma basta il punto di vista formale?
Fu soprattutto Fenelon (36) l’assertore dell’infallibilità dei giudizi magisteriali sui fatti
dogmatici; ma anch’egli ne dette una giustificazione per assurdo: se non fosse infallibile, il
magistero ingannerebbe se stesso e, con sé, la Chiesa tutta.
Egli continuava così, nella sostanza, l’insegnamento costante della Chiesa, almeno da san
Bernardo in poi, ed in particolare da san Tommaso d’Aquino, sulle parole del quale mi
soffermerò tra breve. Tale insegnamento insiste ancor oggi sulla necessità di riconoscere ai
fatti dogmatici una loro intrinseca o estrinseca infallibilità, affinché la Chiesa possa esser in
grado di rispondere con sicurezza alla sua missione universale. Un errore in siffatta materia -
e riaffiora così il ragionamento per assurdo - avrebbe deleterie ripercussioni sulla vita
cristiana. Altrettante ne avrebbe l’approvazione o disapprovazione d’un ordine religioso,
d’una congregazione o d’un istituto, qualora il Papa potesse, in cose di tal genere, cadere in
errore. La vita religiosa, p. es., perderebbe la certezza del suo porsi alla coscienza cristiana
come strumento di perfezione.
La possibilità d’un tale errore, presa di mira da Melchior Cano (37), già al suo tempo era
stata decisamente rifiutata. Sia nel campo delle suddette approvazioni/riprovazioni, sia in
quello delle canonizzazioni - e quindi in relazione ad ogni fatto dogmatico - si rivendicò al
magistero ordinario del Papa, anche in assenza di definizioni formali, quell’infallibilità che
gli si riconosce, di solito, nell’esercizio del magistero straordinario e solenne. Anche nel
disciplinare la Chiesa universale, oltre che la Diocesi di Roma, e nell’ammaestrarla come suo
pastore e dottore, il Papa gode, infatti, della stessa infallibilità di cui Cristo dotò la sua
Chiesa. Tuttavia, perché possa appellarsi a tale infallibilità, è necessario che i suoi interventi
sian sempre riconducibili, direttamente o no, alla Rivelazione cristiana.
6 - ELABORAZIONE TEOLOGICA
La stragrande maggioranza dei teologi risponde affermativamente; quelli che propendono per
una risposta negativa, o anche solo dubitativa, son veramente pochi. La questione, come ho
detto all’inizio, è oggi tornata sul tappeto.
6.1 - L’agenzia stampa della Fraternità san Pio X (38) ha messo in dubbio l’infallibilità delle
canonizzazioni solo per motivi contingenti: la canonizzazione di questo o di quel candidato.
Altri, con ragioni d’indubbio peso teologico e per motivi di fondo, l’avevan preceduta. Fra
costoro, p. es., si colloca anche F. A. Sullivan (39), al quale «non è chiaro perché una
canonizzazione debba godere dell’infallibilità papale» e consenta al «magistero... di custodire
e spiegare il deposito della Rivelazione».
Sul piano della verifica storica e della critica teologica prese posizione negativa anche P. De
Vooght (40) con un poderoso saggio in cui lamentò, tra l’altro, «che l’infallibilità della
Chiesa e del Papa non ha impedito, ha anzi autorizzato ed incoraggiato per lunghi secoli il
popolo cristiano a venerare alcuni Santi, dei quali oggi si sa che non son mai esistiti».
In quel medesimo scorcio di tempo, con l’occhio attento ai fatti concreti, anche A. Delooz
(41) pervenne ad analoghe conclusioni. Il De Vooght (42) le esprime, però, con perentorietà
inaudita: «L’infaillibilité papale - il faut le proclamer trés haut pour l’honneur de l’eglise - est
celle d’un homme qui, aussi en tant que pape, peut se tromper et s’est fréquemment trompé».
6.2 - A riprova del nesso tra canonizzazione e Rivelazione s’è soliti distinguere tra oggetto
primario ed oggetto secondario dell’infallibilità. Nell’impossibilità, resa evidente dalla cosa
in sé, d’includere la canonizzazione tra gli oggetti primari dell’infalIibilità - non si tratta,
infatti, d’un contenuto diretto ed esplicito della Rivelazione - la s’include in quello
secondario delle c. d. “verità connesse” e basta una “conclusione teologica” (49) per
legittimare la detta inclusione. In tal modo anche la canonizzazione vien a trovarsi coperta
dal carisma dell’infallibilità papale - alla stregua dei fatti dogmatici e della stessa legislazione
ecclesiastica - perché “connessa” con la Rivelazione da due verità di fede: il culto e la
comunione dei Santi. Allacciata così alla Rivelazione, assume di conseguenza un valore
universale, del quale il Papa stesso si fa eco durante il rito: canonizzando un Beato, ne
propone l’esemplarità a tutta la Chiesa e ne autorizza, se non proprio impera, ovunque la
venerazione.
Una tale universalità, che coestende la canonizzazione a tutta la Chiesa in dimensione spazio-
temporale, è uno degli elementi sui quali ordinariamente si fa leva per sostenere e difendere
l’infallibilità della canonizzazione. Il Papa, si dice, non può sbagliare in ciò che riguarda la
Chiesa d’oggi e di domani, qui e dovunque: non può condurla sull’orlo del baratro e
nemmeno nutrirla di veleno. Se dunque compie un gesto riguardante la Chiesa intera, scatta
con esso ed in esso il carisma della sua “personale” infallibilità. Peraltro, insieme con
l’universalità militerebbero a favore anche altre ragioni, così elencate dal Piacentini (50):
o un’esigenza implicita nel disposto tridentino di venerare i Santi;
o una conseguenza delle formule in uso e il tenore definitorio di esse;
o la necessità di modelli universalmente validi da imitare, venerare, invocare;
o il diretto appello del Papa alla sua infallibilità;
o la presenza d’una conclusione teologica tratta da due premesse, l’una di fede e
l’altra di ragione;
o la natura della canonizzazione come fatto dogmatico;
o il culto e la comunione dei Santi come nesso dogmatico della canonizzazione e
della sacra Rivelazione.
6.3 - Non mi pare che ragioni siffatte debbano rifiutarsi in blocco ed aprioristicamente; ne
avverto anch’io, sia pur minimo ed equivoco, un certo valore. Ma avverto anche il peso di
quelle contrarie e particolarmente di quelle derivanti da casi di Santi inesistenti o di Santi non
affatto santi. Inutile e poco onesto mi sembra il nascondersi dietro il paravento dei nemici
dichiarati della Chiesa, dalla cui denigrazione e da quella soltanto dipenderebbe l’inesistenza
storica di questo o di quel Santo o la sua indegnità morale. Casi del genere esistono e la
Chiesa, maestra di verità, non ha nulla da temere nel riconoscerli e sconfessarli. Il più recente
esempio, a conferma di ciò, s’ebbe con la soppressione postconciliare d’alcune feste di Santi,
sui quali la ricerca storica non era stata in grado di far luce. Devo perciò arguirne che non
tutte le suddette ragioni presentino un identico inoppugnabile valore. Anzi, anche quelle di
maggior peso offrono il fianco a qualche discussione.
Ben venga, allora, questa discussione. Non solo a vantaggio della “subiecta materia”, ma
anche per cautelarsi contro la monotonia delle non convinte ed ancor meno convincenti
ripetizioni.
7 - OBIEZIONI E RISERVE
Il titolo di questo paragrafo non allude ad una posizione antinfallibilista, per usare un termine
di schieramento frequente nella diatriba sull’infallibilità papale prima e dopo il Vaticano I. Si
riferisce soltanto ad un aspetto di tale discussione - quello relativo all’infallibilità delle
canonizzazioni - e non per dire di no, tout-court, a tale infallibilità, ma per rilevare, secondo
il mio personale giudizio, la discutibilità delle ragioni che la suffragano. So bene di pormi
insieme con una minoranza (51) e non ignoro il gravissimo giudizio del riconosciuto Maestro
in materia (52) contro chi osasse opporsi a questo tipo - meglio sarebbe dire: oggetto -
d’infallibilità. Costui non sfuggirebbe alla nota di “temerario e scandaloso”, ingiurioso dei
Santi e favorevole agli eretici; Dio me ne scampi e liberi! Penso, tuttavia, che i già accennati
margini di libertà mi consentano di dire perché le ragioni dalle quali si traggono così
drastiche conseguenze, non mi sembrano cogenti.
-- Inizio dalla natura della canonizzazione: tutti son concordi nel giudicarla “non immediate
de fide”. Per esserlo, dovrebbe coincidere con ciò che il Vaticano I chiama una “locutio ex
cathedra” e non eludere nessuna delle sue condizioni. È però evidente che la canonizzazione
non definisce nessuna verità rivelata; e quanto alla sua “connessione morale e necessaria”
con alcune di tali verità, in forza della quale - e quindi “mediate”- la canonizzazione
diventerebbe almeno implicitamente “de fide” mi chiedo se le ragioni desunte da san
Tommaso sian rettamente interpretate e suasive.
Dice l’Angelico - e tutti monotonamente ripetono -: «Quia honor quem Sanctís exhibemus,
quaedam professio fidei est, qua Sanctorum gloriam credimus, pie credendum est quod nec
etiam in hiis iudicium ecclesiae errare possit». Poco sopra aveva dichiarato: «Si
consideretur divina providentia quae Ecclesiam suam Spiritu Sancto dirigit ut non erret, ...
certum est quod iudicium Ecclesiae universalis errare in hiis quae ad fidem pertinent,
impossibile est... In aliis vero sententiis, quae ad particularia facta (il grassetto è mio)
pertinent, ut cum agitur de possessionibus vel de criminibus vel de huiusmodi, possibile est
iudicium ecclesiae errare propter falsos testes» (53).
Nulla da eccepire a proposito del nesso tomasiano tra canonizzazione e professione di fede a
glorificazione dei Santi. Ma non è certamente un nesso del genere a trasformare una sentenza
papale sulla qualità non comune, anzi eroica, d’una testimonianza cristiana, in una verità
divinamente, se pur implicitamente ed indirettamente, rivelata. Mancando allora l’oggetto
rivelato, sarebbe poco rispettoso del dogma e delle sue esigenze l’assimilare la
canonizzazione al detto oggetto, solo:
a. perché il Papa “non può errare” senza che ciò comporti gravissime conseguenze
per tutta la Chiesa;
b. e perché egli osserva, anche canonizzando, l’intenzionalità universale che guida
ogni sua “locutio ex cathedra”.
Questi due punti, ad ogni modo, dovrebbero esser verificati alla luce dei limiti e delle
condizioni cui ogni pronunciamento dogmatico soggiace.
Il ruolo decisivo della volontà papale nel beatificare e nel canonizzare qualcuno è ben noto;
delimita la beatificazione alle Chiese particolari o a porzioni ben definite del popolo di Dio, e
conferisce alla canonizzazione un valore universale, dichiarandola valida se non anche
obbligatoria per tutta la Chiesa. È un ruolo che nessun cattolico contesta: lo riconosce infatti
saldamente legato alla “potestas clavium”. Non per questo, tuttavia, ne discende il carisma
dell’infallibilità. Questo, come s’è visto, vien sempre legittimato con il ragionamento per
assurdo: altrimenti la Chiesa insegnerebbe l’errore; altrimenti la Chiesa non sarebbe “Mater
et magistra”; altrimenti i fedeli ne sarebbero ingannati.
A me sembra, però, che il carisma dell’infallibilità legato al ragionamento per assurdo perda
molto del suo valore e resti difficilmente comprensibile. Non spiega, infatti, come e perché
esso scatti in caso di canonizzazione e non di beatificazione. Nessuno, sia ben chiaro, intende
limitare la libertà del Papa più di quanto esigano i sacri testi ed il dogma; e nessuno, perciò, è
in grado d’impedire al Papa e alla libertà del suo potere primaziale d’estendere l’efficacia
d’un suo atto o alla Chiesa universale, o ad una Chiesa particolare. Ma né questa libertà, né
l’estensione del suo esercizio implicano o esigono come necessaria la copertura
dell’infallibilità. Anzi, ad escludere proprio codesta copertura è una ragione ecclesiologica.
La Chiesa, infatti, non è una somma di chiese particolari: «Ecclesiam suam Iesus Christus
non talem finxit formavitque, quae communitates plures complecteretur genere similes, sed
distinctas neque iis vinculis alligatas, quae Ecclesiam individuam atque unicam efficerent, eo
plane modo quo ‘Credo unam... Ecclesiam’ in Simbolo fidei profitemur» (57).
Questa essendo la natura della Chiesa, giustamente LG 26/a ne trae la seguente conclusione:
«Haec Christi Ecclesia vere adest in omnibus legitimis fidelium congregationíbus localibus».
Ciò significa che anche la più sperduta comunità cristiana, purché legittima, è Chiesa: in essa
è la Chiesa cattolica. Dunque, ogni decisione ecclesiastica «in rebus fidei et morum» rivolta
ad «una legittima aggregazione particolare di fedeli», la riguarda in quanto Chiesa perché è la
Chiesa. Ed ha, almeno implicitamente, un’estensione universale, oltre che particolare. Dalla
Chiesa universale, infatti, quella particolare trae la sua legittimazione come Chiesa. Pertanto,
questa compattezza unitaria della Chiesa fa sì che ogni decisione magisteriale in linea
universale tocchi le singole Chiese; e viceversa, quanto venga ad esse rivolto non sia estraneo
alla Chiesa universale. Che senso ha allora l’aver distinto la canonizzazione- infallibile
perché universale - dalla beatificazione - non infallibile perché locale? - Se l’una è supportata
dal carisma dell’infallibilità, perché non dovrebb’esserlo l’altra? E se la beatificazione non lo
è, perché lo è o dovrebbe esserlo la canonizzazione?
Nella storia della Chiesa, anche recente, ci furon Santi discutibili, che prestarono, cioè, e
prestano il fianco a rilievi non proprio positivi. Altri, come ho già rilevato, non sono neanche
esistiti. Non è mia intenzione di scendere ai particolari, sottoponendo gli uni e gli altri ad
un’indagine “super virtutibus” e ad una verifica storica: non scrivo per far polemica. D’altra
parte, chi l’ha fatta ha avuto risposte poco convincenti, specie ‘se costruite a spese della
storia. Nessuno è autorizzato, nemmeno il Papa né la Chiesa, a porre come santo nella realtà
della storia, chi da santo in essa non visse e tanto meno chi non visse affatto perché mai nato.
La domanda critica è allora ineludibile: anche la canonizzazione di Santi discutibili o
addirittura inesistenti, o anche la sola tolleranza del loro culto ufficiale, avvenne all’insegna
dell’infallibilità?
Strettamente collegata al carisma dell’infallibilità, e forse anche più della stessa
canonizzazione, può esser considerata la proclamazione d’un nuovo Dottore della Chiesa.
Non molto tempo fa ce ne fu una che, in precedenza, era stata nettamente rifiutata da un altro
Papa. È vero che il no era stato consegnato non già ad un atto formale, ma ad una decisione
informale. Era però una decisione autentica e collegabile, in forza del suo oggetto, con il
magistero ordinario. Ed ecco ancora una volta la domanda critica: chi dei due Papi fu
infallibile, quello del no o quello del si?
Stando così le cose, interrogativi, perplessità e riserve si coagulano, rendendo molto difficile
il congiungimento dell’infallibilità con la canonizzazione. Difficile, perché le ragioni del si,
al vaglio della critica, perdono non poco del loro valore.
-- L’approvazione tridentina del culto dei Santi è storicamente innegabile, oltre che
teologicamente ineccepibile e dogmaticamente indiscutibile. Che tale approvazione riveli la
potestas sanctificandi si può pure concedere. Che però il Concilio di Trento consideri
infallibile tale potestas è quanto meno da dimostrare. Tra il potere di proclamare nuovi Santi
e l’infallibilità della proclamazione c’è una tale diversità dei rispetti formali, per cui l’una
cosa non è, né esige l’altra. E chi sostenesse il contrario, si comporterebbe in modo
teologicamente e logicamente non corretto.
-- Quanto alla comunione dei Santi, chiunque ne conosca l’esatta nozione teologica, non può
che astenersi dal farne un fondamento dell’infallibilità papale a garanzia della
canonizzazione: oltretutto i “Santi” della formula non allude, né esclusivamente né
principalmente, ai canonizzati.
-- Che le formule in uso e soprattutto l’appello d’alcuni Papi alla loro infallibilità nell’atto
stesso del canonizzare, nonché il ricorso delle “bolle” di canonizzazione ad espressioni
tipiche del linguaggio “definitorio”, depongano per la “praesumptio infallibilitatis”, sembra a
prima vista un indubbio dato di fatto. Ma proprio questo dato di fatto, alla luce degli
interrogativi e delle riserve che vengo esponendo, conferisce alla domanda critica una più
forte incidenza ed un risalto maggiore: come e perché ciò è stato possibile? Come e perché lo
è tutt’oggi? Su quali basi d’indiscutibile validità teologica?
-- Che oggi così come ieri, e domani pure, l’uomo abbia un bisogno vitale di modelli da
imitare, è evidente. Ma da qui a qualificare infallibile la proposta del singolo modello, c’è
l’abisso della gratuità.
8 – CONCLUSIONE
È superfluo ripetere che il presente scritto non è né una formale negazione dell’infallibilità
papale nella “subiecta materia”, né il sintomo d’una mia adesione a ventate contestatarie. So,
per grazia di Dio e per la mia lunga docenza accademica sulla cattedra d’ecclesiologia, che la
Chiesa è sempre Madre e Maestra e che, anche come tale, è l’unica áncora di salvezza. Non
ho certezze ch’ella stessa non mi comunichi e non mi garantisca; né ho perplessità, dubbi e
riserve in ordine alla salvezza eterna ch’ella non sia in grado di tacitare e di risolvere.
Il presente scritto, pertanto, si pone fiducioso e riverente dinanzi ad essa col significato del
«dubbio metodico»: non è fine a se stesso, non nasconde surrettiziamente e pavidamente la
mano che lancia il sasso nel vespaio, non lascia affiorare tra le nebbie del discorso indiretto
ciò che non osa dichiarare apertamente. È il dubbio che, non opponendosi all’asserto
magisteriale, vuol esser semplicemente un mezzo per raggiungere un più alto grado di
certezza. E tutto, all’interno di quel margine di libertà che l’assenza della nota teologica
“immediate de fide” apre alla coscienza cristiana in ordine al nesso tra infallibilità papale e
canonizzazione. E’ augurabile - mi sembra, per la serietà della teologia cattolica - che su
codesto medesimo nesso si rinnovi non la polemica sterile, né tanto meno la pedissequa
ripetizione delle ragioni a favore o contro, ma una più profonda e più originale discussione.
Potrebbe essere già un passo avanti, p. es., la costatazione che il “non immediate de fide”
trova conferma nell’atto stesso della canonizzazione, che non impone di “credere” al nuovo
Santo, ma dichiara che costui è tale, cioè Santo. E anche al di fuori del nesso suddetto, non
sarebbe cosa da poco se si stabilisse che il significato di “Santo”, inteso dalle Bolle di
canonizzazione, è quello di “meritevole di culto”, e non di “beato comprensore”: un campo
questo che sarà meglio lasciare al libero ed insindacabile giudizio di Dio.
Altrettanto importante sarebbe il non trincerarsi dietro la distinzione tra canonizzazione
formale ed equipollente: per l’una e per l’altra in discussione è l’infallibilità di chi canonizza,
non il modo con cui canonizza. Infine, parrebbe anche opportuno che si desse
un’interpretazione autentica delle censure con cui le Bolle accompagnano spesso le singole
canonizzazioni: non sono una scomunica, non essendo conseguenti ad una definizione
dogmatica; sono allora una semplice censura morale o giuridica circa il comportamento dei
fedeli dinanzi ai singoli nuovi canonizzati? Come si vede, la strada per l’approfondimento
critico è ampia ed aperta. L’essenziale è il non rimanere dietro l’angolo.
NOTE
1 - Cfr. Benedictus XIV, De “Servorum Dei beatificatione et de Beatorum canonizatione”, 7
voll. Prato 1839-42: I, n. 28, p.336B: «Si non haereticum, temerarium tamen, scandalum toti
Ecclesiae afferentem, in Sanctos iniuriosum, faventem haereticis negantibus auctoritatem
Ecclesiae in Canonizatione Sanctorum, sapientem haeresim, utpote viam sternentem
infidelibus ad irridendum Fideles, assertorem erroneae propositionis et gravissimis poenis
obnoxium dicemus esse qui auderet asserere, Pontificem in hac aut illa Canonizatione
errasse... et de fide non esse, Papam esse infallibilem in Canonizatione Sanctorum...».
2 - Cfr. Ols D., “Fondamenti teologici del culto dei Santi”, in AA. VV. Dello “Studium
Congreg. De Causis Sanct.”, pars theologica, Roma 2002, p. 1-54.
3 - Cfr. Una piccola eccezione è costituita da DS 675, che riguarda la canonizzazione
d’Ulderico, vescovo d’Augsburg, nel Sinodo Lateranense del 31 gennaio 993; in DS 2726-
27bis si tratta solo dell’approvazione degli scritti dei candidati all’onore degli altari.
4 - Cfr. Un unico accenno nel c. 1403/1: «Causae canonizationis Servorum Dei reguntur
peculiari lege pontificia».
5 - Cfr. Anche qui un solo accenno al n. 828 per indicare a che fine la Chiesa canonizza
alcuni dei suoi figli migliori.
6 - Cfr. Ortolan T., “Canonization dans l’Eglise romaine”, in DThC II, Parigi 1932, c. 1636-
39.
7 - Cfr. Eccone alcune: «Inter sanctos et electos ab Ecclesia universali honorari
praecipimus»; «Apostolicae Sedis auctoritate catalogo sanctorum scribi mandavimus»;
«... anniversarium ipsius (sancti) sollemniter celebrari constituimus»; «statuentes ab
Ecclesia universali illius memoriam quolibet anno pia devotione recoli debere».
8 - Cfr. Al riguardo Ortolan T., “Canonization”, cit., c. 1634-35; Veraja F., “La
beatificazione: storia, problemi, prospettive”, Roma 1983; Stano G., “Il rito della
beatificazione da Alessandro VII ai nostri giorni”, in AA. VV., “Miscellanea in occasione del
IV Centenario della Congregazione per le Cause dei Santi (1588-1988)”, Città del Vaticano
1988, p. 367- 422.
9 - Cfr. Löw G., “Canonizzazione”, in EC III Roma, p. 604; Federico Dell’Addolorata,
“Infallibilità”, ivi VI, p. 1920-24; Ortolan T., “Canonization”, cit., c. 1640. È l’applicazione,
non so fino a che punto corretta, d’un ineccepibile principio generale di S. Tommaso, Quodl,
IX, 16: «Si vero consideretur divina providentia quae Ecclesiam suam Spiritu Sancto dirigit
ut non erret,... certum est quod judicium Ecclesiae universalis errare in his quae ad fidem
pertinent, impossibile est».
10 - Cfr. Frutaz A. P., “Auctoritate Beatorum Petri et Pauli - Saggio sulle formule di
canonizzazione”, in “Antonianum” 42 (1947) 1-22. Sulla questione in genere, istruttive sono
le pagine di Schrenk M., “Die Unfehilbarkeit des Papstes in der Heilichung”, Friburgo
(Sviz.) 1965.
11 - Cfr. Parente P. - Piolanti A. - Garofalo S., “Dizionario di Teologia Dogmatica”, Roma
1943, p. 154.
12 - Cfr. Conc. Vat. I, Sess. IV, Constit. Dogm. “Pastor aeternus”, cap. IV, DS 3065. Si
vedano, al riguardo, insieme con tutti i manuali della “teologia romana”, i due classici:
Bainvel J. V., “De Magisterio et Traditione”, Parigi 1905; Billot A., “De Ecclesia Christi”,
Roma 1927. Per il Vaticano II cfr. Soprattutto LG 22/b e 25a-c.
13 - Cfr. Conc. Vatic. I, Sess. IV, Constit. Dogm. “Pastor aeternus”, cap. IV, DS 3074.
14 - Cfr. Ivi.
15 - Cfr. Volendo si può distinguer ancora tra infallibilità essenziale o assoluta ed infallibilità
partecipata o relativa: la prima è Dio “qui nec falli nec fallere potest”; la seconda è il carisma
da Dio elargito alla sua Chiesa.
16 - Cfr. Ep. 43, 3/7 PL 33, 163.
17 - Cfr. Ep. 105, 5/16 PL 33, 403.
18 - Cfr. “S. Conciliorum recentiorum Collectio Lacensis”, Friburgo Br. 1870Ss., VIII 248-
256.399.
19 - Cfr. La formula proviene da Melchior Cano (+1560), ma il riferimento alla “cathedra” è
frequente nei Padri ed ovviamente anche in Autori successivi a Cano: “Auctoritas infallibilis
et summa cathedrae S. Petri”(D’Aguirre, +1699); “Cathedrae Apostolicae oecumenicae
auctoritas”(ignoto, +1689), cfr. Dublanchy E., “Infaillibilité du Pape”, DThC VII Parigi
1972, c. 1689; cfr. Pure Maccarrone M., “La ‘cathedra sancti Petri’ nel Medioevo da simbolo
a reliquia”, in “Rivista di storia della Chiesa in Italia” XXXIX (1985) 349-447.
20 - Cfr. Maccarrone M., “Cathedra Petri” und die Entwicklung der Idee des päpstlichen
Primats vom 2. Bis 4. Jahrhund., in “Saeculum” 13 (1962) 278-292.
21 - Cfr. Dublanchy E., “Infailibilité”, cit. C. 1699-1705.
22 - Cfr. “Kirchliche Dogmatik” IV/1, p. 770- 72.
23 - Cfr. p. es. Fries H. (a c. Di), “Handbuch theologischer Grundbegrijffe”, Monaco 1963.
24 - Cfr. Ivi. I 180.809.854.857; II 270.274.
25 - Cfr. Ivi. I 718.817.857; II 518.
26 - Cfr. Rahner I. - Vorgrimler H., “Kleines theolog. Wörterbuch”, Friburgo Br. 1961, cit. Da
Löhrer M., “Portatori della Rivelazione”, in MS 2 Brescia 1973, p. 87.
27 - Cfr. Dell’8 dicembre 1854, DS 2800-04.
28 - Cfr. Dell’1 novembre 1950, DS 3900-04
29 - Cfr. Lio E., “Humanae vitae e infallibilità”, Città del Vaticano 1986.
30 - Cfr. Del 25 luglio 1968, AAS 60 (1968).
31 - Cfr. “Infallibilité” cit. C. 1705-06
32 - Cfr. Al riguardo Dublanchy E., “Eglise”, in DThC IV. Parigi 1939, spec. c. 2188-2210.
33 - Cfr. De Rosa G., “Fatti dogmatici”, in EC III Roma 1995, p. 1058.
34 - Cfr. Veraja F., “La canonizzazione equipollente e la questione dei miracoli nelle cause di
canonizzazione”, Roma 1975, p. 14.
35 - Cfr. Ivi.
36 - Cfr. “Instruction pastorale”, 10 febbraio 1704, “Oeuvres complètes” III, 579ss;
“Instruction pastorale”, 2 marzo 1705, ivi IV,16ss; “Deuxième lettre à l’évèque de Meuax”,
IV, 338; “Lettre sur l’infaillibilité del’Eglise touchant les faits dogmatiques”, V, 108ss: in
Dublanchy E., “Eglise”, cit., c. 2190-91.
37 - Cfr. “De locis theologicis” V, 5 in “Opera omnia”, Venezia 1759, p. 140.
38 - Cfr. DICI 50, 22 marzo 2002.
39 - Cfr. “Il magistero della Chiesa cattolica”, Assisi 1986, p. 155-56.
40 - Cfr. “Les dimensions réelles de l’infaillibilité papale”, in Castelli E. (A c. Di),
“L’Infaillibilité, son aspect philosophique et théologique” (Atti del Convegno del Centro
Intern. Di Studi umanistici e dell’Istituto di Studi filosofici, Roma 5-12 febbraio 1970),
Parigi 1970, spec. p. 145.49.
41 - Cfr. “Sociologie et canonization”, Liegi 1969.
42 - Cfr. “Les dimensions”, cit. p. 156.
43 - Cfr. Ols D., “Fondamenti teologici”, cit. In“Studium Congreg. de Causis Sanctorum”
(Pars thologica ad usum Auditorum), Roma 2002, p. 35.
44 - Cfr. “L’infallibilità del Papa e la Canonizzazione dei Santi”, in “Sodalitium” XVIII/54
(2002) 4-5.
45 - Cfr. “Infallibile anche nelle cause di canonizzazione?”, Roma, 1994.
46 - Cfr. “Infallibility of the Pope in his decrees of Canonization” in “The Jurist” 6 (1946)
spec. p. 405-15.
47 - Cfr. “De infallibilitate Ecclesiae in Sanctorum canonizationis causa”, in “Antonianum”
22 (1947) 1-22.
48 - Cfr. “Il magistero infallibile del Romano Pontefice”, in “Divinitas” 5 (1961) 581-606.
49 - Cfr. Al riguardo “Conclusione teologica” in EC III, Roma 1950, c. 184ss.
50 - Cfr. “Infallibile”, cit. P. 39-47.
51 - Cfr. A favore dell’infallibilità papale nel proclamare i Santi sta la maggior parte dei
grandi teologi, soprattutto S. Tommaso, Quotl. IX, VIII, 16; Melchior Cano, “De locis
theologicis”, V, 5, 5, 3; Suárez R., “Defensio fidei adv. Anglic. Sect. Errores” in “Opera
omnia”, Parigi 1856-78, XII p. 163 e XXIV p. 165: Benedetto XIV, “De Servorum Dei
beatificatione”, cit., I, 44, 4 e II, 229, 2.
52 - Cfr. Benedetto XIV, Ivi I, 45, 28. Cfr Ols D., “Fondamenti teologici”, cit. p. 49.
53 - Cfr. S. Tommaso, Quotl. IX, 16 c.
54 - Cfr. Cit. p. 45.
55 - Cfr. Ortolan T., “Canonisation”, cit. c. 1641.
56 - Cfr. Le affermazioni contrarie alla dottrina comune, al seguito dei Bellarmino R., “De
sanctorum beatitudine”, II col. 699 (1,7); Benedetto XIV, “De Servorum Dei”, cit., I 39,5
(11,170), riposano tutte sul già segnalato procedimento logico “per assurdo”. Comunque, “de
fide” sarebbe solo la dichiarazione formale del Papa che canonizza, non la gloria eterna del
canonizzato; sarebbe veramente difficile, infatti, dedurre da una verità rivelata, o
semplicemente subordinata ad essa, l’accennata gloria eterna.
57 - Cfr. Leone XIII, Encicl. “Satis cognitum”, 29 giugno 1896, DS 3303; cf DS 3305: «At
vero qui unicam condidit, is idem condidit unam: videlicet eiusmodi, ut quotquot in ipsa
futuri essent, arctissimis vinculis sociati tenerentur ita prorsus, ut unam gentem, unum
regnum, corpus unum efficerent».
58 - Cfr. Frutaz A. P., “La Santità”, cit. p. 119.
(torna su)
ottobre 2018