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su
MONASTERO
BORMIDA comprendente una breve
Sergio Novelli
3Cfr. C.E. Patrucco - I SARACENI NELLE ALPI OCCIDENTALI - Pinerolo, 1908 - pag. 115.
Nell'acquese, nel periodo tra XI e XII secolo, vengono ricostruiti i monasteri di San Quintino di
Spigno per volere del marchese Anselmo Del Carretto e di sua moglie Gisla, San Pietro "extra
muros" di Acqui, Santa Maria di Gavi e San Pietro di Ferrania.
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4Si veda l'esempio famoso della Abbazia della Novalesa, più volte distrutta nei secoli,
eppure sempre ricostruita nello stesso luogo.
5Di qui i toponimi del paese Monasterium Sanctæ Juliæ, Monasterium Aquensium,
Monasterium Vallis Burmidæ, conservato ancora oggi in Monastero Bormida.
6Come sancisce un documento del 1265 di papa Clemente II.
7Per i rapporti con la chiesa di Dego cfr. N.M. Cuniberti - I MONASTERI DEL PIEMONTE - Chieri,
1975. Riguardo a S. Pietro di Melazzo, invece cfr. L. Biorci - ANTICHITÀ E PREROGATIVE D'ACQUI
STAZIELLA - Torino, 1818.
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8Il documento è riportato da G.B. Moriondo - MONUMENTA AQUENSIA - Torino, 1756. Ha sempre
destato particolare interesse il motivo, fino ad oggi sconosciuto, che così drasticamente ha
segnato il passaggio dalla autorità benedettina indiscussa all'investitura dei nobili aleramici:
i monaci hanno infatti lasciato l'abbazia portando via tutti i documenti e trasferendosi in un
non ben chiaro "monastero di San Bartolomeo" ad Asti (sic); di loro si perde comunque ogni
traccia, dopo la soppressione di molte abbazie in epoca napoleonica, che ha costretto i
documenti storici a dispersive continue migrazioni da una sede all'altra. Uno studio
sull'ultimo abate di Santa Giulia, Alberto Guttuari, è comunque attualmente in corso.
9il suo impianto attuale, ancora visibilmente tre-quattrocentesco e infatti grosso modo
analogo all'impronta datagli dai Del Carretto, è infatti più simile a quello delle ville-forti (vedi
le grandi strutture di Cessole, od anche Dego, fraz. Santa Giulia, per rimanere in zona) che
non dei castelli veri e propri (se ne ritrovano molti esempi tra Acqui ed Ovada). La scelta sul
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carattere architettonico è indubbiamente stata dettata anche dalla necessità di seguire una
struttura già preesistente.
10Di questo periodo (1414) è la attuale più antica casa del paese, in via Monteverde.
11da G.B. Moriondo - op. cit.
12Si ritrova infeudato a Monastero Bormida e Bistagno in due documenti conservati
all'Archivio di Stato di Torino - Monferrato Feudi - del 6 Maggio 1703 e del 21 Gennaio 1724
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I primi del '600 sono gli anni delle grandi scorrerie armate nelle
nostre valli, e Monastero non ne è certamente escluso. La stagione
bellica si inaugura nel 1612 con la prima guerra di successione al du-
cato di Monferrato, che vede impegnati Carlo Emanuele di Savoia e il
cardinale Ferdinando Gonzaga; nel '14 un secondo impegno bellico
occupa il duca di Savoia, questa volta contro il governatore di Milano,
ma sempre combattuto nelle nostre valli; nel 1625 è la volta delle
ostilità con i genovesi, mentre l'anno successivo il bellicoso savoiardo
si impegna nella seconda pretesa di successione nel Monferrato,
osteggiando i presunti diritti di Carlo di Nevers. In tutti questi anni
sulle nostre terre si rincorrono, ora alleati di uno, ora dell'altro, truppe
francesi e spagnole: rilevante per Monastero Bormida, all'interno di
questo scenario, è la serie di eventi militari occorsi in occasione
dell'assedio di Bistagno da parte delle truppe francesi, nella Pasqua
del 1615, osteggiato proprio dagli avamposti spagnoli di Monastero.
La stagione di calamità non era però conclusa: nel 1631 una
grande epidemia di peste si abbatte su queste terre16, provocando
gravi carestie, morte e povertà. La chiesa rurale di San Rocco, lungo la
strada per Roccaverano, mostra ancora oggi sulla sua facciata lo
scioglimento di un voto fatto in quell'occasione dai monasteresi: una
lapide ringrazia l'intercessione del santo pellegrino, per avere limitato
a Monastero gli effetti disastrosi della peste, mentre tutti i paesi
circostanti ne erano usciti decimati e stremati.
La fine del XVIII secolo porta a Monastero Bormida il vento
rivoluzionario francese, che soffia instancabile in tutta l'Italia nord-
occidentale. Lo testimoniano ancora alcuni documenti di quell'epoca,
conservati nell'Archivio Storico Comunale, che, rivelando l'influenza
16E non solo nelle nostre terre: si tratta infatti della celebre epidemia citata dal Manzoni ne
"I Promessi Sposi", sviluppatasi in tutta l'Italia settentrionale.
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17É di questo periodo un singolare contenzioso tra il sindaco Giuseppe Maria Abbate (in
realtà non "sindaco", ma "maire", sempre secondo la voga post-rivoluzionaria) e la
comunità religiosa della nuova chiesa parrocchiale, che, l'abbiamo già visto, usava la torre
castellana come campanile: il sindaco indìce una sottoscrizione pubblica per poter restaurare
la torre, gravemente danneggiata da crepe, avvisando tutte le autorità competenti che, se i
soldi raccolti non fossero sufficienti, la torre sarebbe stata demolita, onde eliminare un
pericolo incombente sulla popolazione. Anche allora problemi sulla conservazione dei
monumenti. Dobbiamo dedurre che il denaro raccolto fu sufficiente, essendo la torre ancora
oggi in bella mostra di sè.
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18Lo riporta L. Biorci - ANTICHITÀ E PREROGATIVE D'ACQUI STAZIELLA - Tortona, 1818 - pag. 147.
19Se l'aneddoto corrisponde a verità, la fondazione di San Desiderio precederebbe di
almeno un secolo quella del monastero benedettino. Naturalmente la circostanza riportata
da Frate Jacopo è priva di elementi oggettivamente probanti.
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Ritorniamo però a
quel 1573: l'inverno di
quell'anno lo si racconta
memorabile, per la rigidità
del freddo e per la
singolare abbondanza di
neve. Un metro e trenta-
cinque centimetri: tanta si
dice fosse la neve20,
tanta che gli stessi caudrinè21, di passaggio come al solito da
Monastero nel periodo tra Carnevale e Quaresima, restarono bloccati
20E non era effettivamente poca, se si tiene conto che Monastero Bormida sorge in
fondovalle, ad una altitudine di soli mt. 191 s.l.m.
21Erano detti caudrinè, cioè calderai, alcuni particolari artigiani nomadi, dediti alla
costruzione ed alla riparazione delle pentole di rame (i caudrèin, appunto), tipicamente usate
dai contadini, non solo delle nostre valli. Essi si spostavano continuamente durante l'anno
all'interno di un territorio più o meno vasto, fermandosi, per il solo tempo necessario, di volta
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in paese per molto tempo, condividendo gli stenti del contado dovuti
al freddo eccezionale ed alla estrema scarsità di sostentamenti.
Volgendo così male
le cose, il marchese Gio-
vanni Bartolomeo ordinò
ai calderai, bloccati a Mo-
nastero, la costruzione di
un enorme paiolo di rame,
simile a quello ancora
oggi usato. Per venire
incontro ai bisogni della
popolazione sua suddita mise a disposizione di tutti una gran quantità
di farina, cosicchè potè essere preparata in piazza una grande
polenta, distribuita agli affamati con condimento di uova e cipolle.
Quello fu il primo Polentone della storia di Monastero Bormida,
che, grazie all'interessamento del marchese Della Rovere ed al lavoro
dei calderai, permise al contado monasterese di superare quel terri-
bile inverno del 1573.
E da allora ogni anno si ripete il rito popolare del Polentone in
piazza, in ricordo proprio di quella intercessione del nobile roverasco,
che si ringrazia simbolicamente ancora oggi sollevando per tre volte
consecutive al cielo la gran tavola con la polenta appena scodellata.
in volta nei luoghi dove fosse richiesto il loro lavoro. La tradizione dei caudrinè è
sopravvissuta fino a non molti decenni fa.
22Una versione più distante dalla tradizione ufficiale, a me raccontata da un paesano, riporta
i fatti in modo leggermente diverso: sarebbe stato il marchese Della Rovere stesso, in quel
lontano 1573, ad ordinare ai calderai la costruzione di alcuni grandi paioli di rame. Non
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
A. Ary-Belfadel
potendo al momento pagare il lavoro commissionato (i tempi erano duri davvero per tutti), il
marchese avrebbe tenuto in sospeso il pagamento per alcuni giorni, costringendo i calderai
ad una sosta in paese più lunga del previsto, sdebitandosi alla fine con una gran polenta
offerta a tutti in piazza, proprio in cambio dei paioli usati per cuocerla.
E' interessante riportare anche quest'altra versione per uno studio sociologico della
tradizione del Polentone: si tratta comunque di una versione pressochè inedita e
decisamente di minore diffusione, ovviamente non supportata da alcuna attestazione
documentaristica (come, del resto, però anche le versioni ufficiali).
23Il Polentone fa parte della tradizione secolare oltre che di Monastero Bormida anche dei
paesi di Ponti, Roccaverano, Bubbio e Cassinasco, tutti confinanti e compresi in un'area
ristretta di pochi km2, e si svolge ovunque con forme praticamente identiche.
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S. Novelli
IL CASTELLO DI MONASTERO BORMIDA
in Castelli e ville-forti della provincia di Asti, vol. III - Torino,
1993.
L. Vergano
TRA CASTELLI E TORRI DELLA PROVINCIA DI ASTI
Asti, 1965.