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Karl-Otto Apel. Vita e Pensiero. Leben und Denken
Karl-Otto Apel. Vita e Pensiero. Leben und Denken
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Karl-Otto Apel. Vita e Pensiero. Leben und Denken

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Questo volume complessivo, unico, dedicato alla Vita e al Pensiero di Karl-Otto Apel, raccoglie tutti i contributi usciti nei due numeri speciali di “Topologik” (numero 24/2019 e numero 26/2020) dedicati ad Apel (uno dei Maestri più importanti del pensiero filosofico contemporaneo). L’edizione, in volume unico, ha dato la possibilità di arricchire il testo con altre due collaborazioni (quella di Peter Naumann e Amos Nascimento). Il volume mantiene la struttura di una suddivisione in due sezioni: sezione Vita e sezione Pensiero. La prima sezione (Vita) raccoglie contributi che sono testimonianza di incontri, discussioni, riflessioni comuni con Karl-Otto Apel. L’aspetto teorico-filosofico e l’aspetto personale ridanno la freschezza e la profondità di queste testimonianze. Quanti hanno conosciuto e sono diventati anche amici di Apel hanno vissuto il logos filosofico nella sua ampiezza riflessiva in simbiosi con un uomo che, a parere di Habermas (l’altro Gigante, colonna portante della filosofia contemporanea), incorpora la stessa filosofia. Hanno vissuto la forza discorsiva di una personalità che ha fatto del dialogo la fonte instancabile della ricerca intersoggettiva. Vita e Pensiero non sono due sezioni separate e separabili, sono piuttosto la messa in evidenza che il filosofare vero si costituisce nell’unità, appunto, di Vita e Pensiero: nel vivere la filosofia.
La seconda sezione (Pensiero) ‒ Molti sono, nel frattempo, gli studi internazionali sul pensiero di Karl-Otto Apel. La raccolta dei contributi e delle riflessioni che qui presentiamo è un esempio mondiale della vitalità e fruttuosità del pensiero di Karl-Otto Apel. Studiosi diversi, da angolazioni e prospettive tutt’altro che identiche, si confrontano criticamente con la pragmatica trascendentale di Apel, sia come proposta di possibilità di fondazione teoretica sia come piattaforma applicativa ai contesti reali della vita umana. Questo volume unitario presenta e rappresenta un dialogo filosofico serrato, ricco di riflessioni aggiuntive e alternative, a testimonianza delle motivazioni profonde che Karl-Otto Apel, con la sua trasformazione trascendentalpragmatica della filosofia occidentale, ha saputo suscitare mondialmente.
L’etica del discorso, nella sua forma, qui, riflessiva, pragmatica, trascendentale, ermeneutica, semiotica, non è solo un modo nuovo e originale di concepire la filosofia dell’Occidente, nella sua trasformazione in terzo paradigma della filosofia prima; l’etica del discorso è, anche e per lo più, un pensare filosofico radicale di riappropriazione dei propri presupposti (anche linguistici) fin nelle loro radici normative (performative), se non emancipative, per una pragmatica etica che reclama, per un verso, fondamento (discorsivo) e universalità, possibilmente (intersoggettiva), per altro verso, capacità di applicazione nei contesti anche dell’economia (globalizzata), del diritto dei Popoli e delle Culture. La filosofia, così concepita, non è ovviamente solo critica al concetto, piuttosto una discorsività in cerca di significato, comprensione, senso che coinvolga la prassi attraverso un dialogo esteso a tutti i popoli.
LanguageItaliano
Release dateFeb 4, 2022
ISBN9791220500708
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    Karl-Otto Apel. Vita e Pensiero. Leben und Denken - Michele Borrelli

    KARL-OTTO APEL

    Vita e Pensiero

    Leben und Denken

    A cura di

    Michele Borrelli

    Francesca Caputo

    Reinhard Hesse

    LPE.jpg

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook febbraio 2022

    ISBN: 979-12-205-0070-8

    Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Premessa

    Questo volume complessivo, unico, dedicato alla Vita e al Pensiero di Karl-Otto Apel, raccoglie tutti i contributi usciti nei due numeri speciali di Topologik (numero 24/2019 e numero 26/2020) dedicati ad Apel (uno dei Maestri più importanti del pensiero filosofico contemporaneo). Questa edizione complessiva, in un unico volume, ha dato la possibilità di arricchire il testo con altre due collaborazioni (quella di Peter Naumann e Amos Nascimento). Il volume mantiene la struttura di una suddivisione in due sezioni: sezione Vita e sezione Pensiero. La prima sezione (Vita) raccoglie contributi che sono testimonianza di incontri, discussioni, riflessioni comuni con Karl-Otto Apel. L’aspetto teorico-filosofico e l’aspetto personale ridanno la freschezza e la profondità di queste testimonianze. Quanti hanno conosciuto e sono diventati anche amici di Apel hanno vissuto il logos filosofico nella sua ampiezza riflessiva in simbiosi con un uomo che, a parere di Habermas (l’altro Gigante[1], colonna portante della filosofia contemporanea), incorpora la stessa filosofia. Hanno vissuto la forza discorsiva di una personalità che ha fatto del dialogo la fonte instancabile della ricerca intersoggettiva. Vita e Pensiero non sono due sezioni separate e separabili, sono piuttosto la messa in evidenza che il filosofare vero si costituisce nell’unità, appunto, di Vita e Pensiero: nel vivere la filosofia.

    La seconda sezione (Pensiero) – Molti sono, nel frattempo, gli studi internazionali sul pensiero di Karl-Otto Apel. La raccolta dei contributi e delle riflessioni che qui presentiamo è un esempio mondiale della vitalità e fruttuosità del pensiero di Karl-Otto Apel. Studiosi diversi, da angolazioni e prospettive tutt’altro che identiche, si confrontano criticamente con la pragmatica trascendentale di Apel, sia come proposta di possibilità di fondazione teoretica sia come piattaforma applicativa ai contesti reali della vita umana. Questo volume unitario presenta e rappresenta un dialogo filosofico serrato, ricco di riflessioni aggiuntive e alternative, a testimonianza delle motivazioni profonde che Karl-Otto Apel, con la sua trasformazione trascendentalpragmatica della filosofia occidentale, ha saputo suscitare, mondialmente.

    L’etica del discorso, nella sua forma, qui, riflessiva, pragmatica, trascendentale, ermeneutica, semiotica, non è solo un modo nuovo e originale di concepire la filosofia dell’Occidente, nella sua trasformazione in terzo paradigma della filosofia prima; l’etica del discorso è, anche e per lo più, un pensare filosofico radicale di riappropriazione dei propri presupposti (anche linguistici) fin nelle loro radici normative (performative) se non emancipative per una pragmatica etica che reclama, per un verso, fondamento (discorsivo) e universalità, possibilmente (intersoggettiva), per altro verso, capacità di applicazione nei contesti anche dell’economia (globalizzata), del diritto dei Popoli e delle Culture.

    Michele Borrelli

    Francesca Caputo

    Reinhard Hesse

    [1] Colgo l’occasione per esprimere a Jürgen Habermas la mia più profonda gratitudine per aver trovato il tempo (tra i suoi mille impegni internazionali e la fatica quotidiana del suo costante lavoro filosofico) di partecipare a quest’opera internazionale dedicata al nostro amico comune Karl-Otto Apel. La Sua presenza non è solo un gesto di affetto e amicizia verso una persona alla quale si è legati da una vita, ma anche un segno del grande lavoro, svolto in parte assieme, sull’interpretazione e trasformazione della filosofia occidentale (Michele Borrelli, Presidente del Centro Filosofico Internazionale Karl-Otto Apel e del Premio Internazionale Karl-Otto Apel per la Filosofia).

    La sfida tedesca al pensiero filosofico.

    La filosofia ‘parla tedesco’ e continua

    a ‘rimanere grande’

    Michele Borrelli

    Heidegger ebbe a dire: la filosofia ‘parla greco’, la filosofia ‘nasce grande’. È vero? Non è vero? È difficilmente contestabile che la prima sfida filosofica, al pensiero (filosofico occidentale) o a se stesso, sia avvenuta all’interno del pensiero greco e della sua linguisticità. L’affacciarsi del mondo al pensiero e del pensiero al mondo avvenne, per noi Occidentali, all’interno della lingua greca. Si può certo discutere sulla fondatezza della supposizione se, per davvero, il greco rappresentasse la parola iniziale, se la parola greca avesse inizialmente la capacità di aprire o aprirsi all’essere e alla sua verità. Di certo, l’affacciarsi del mondo al pensiero o del pensiero al mondo avvenne, per noi Occidentali, all’interno del pensiero greco e della sua linguisticità. Era il greco a dire, spiegare, com-prendere, dare, ri-dare il mondo. Una sfida rappresentata dal pensiero filosofico di Socrate, Platone, Aristotele (l’elenco sarebbe molto lungo).

    La seconda sfida filosofica, al pensiero, è tedesca. A partire da Kant, Hegel, Marx (l’elenco sarebbe molto più lungo) e, in su, fino alla Teoria Critica, da Horkheimer e Adorno fino ad Habermas e Apel (le due colonne portanti della filosofia contemporanea), la filosofia parla, effettivamente,tedesco (si pensi solo ad alcune voci filosofiche più recenti: dalla fenomenologia trascendentale, alla ‘filosofia della vita’, dall’ermeneutica filosofica all’esistenzialismo, dalla psicoanalisi alla Teoria Critica). Penso, addirittura, che la sfida tedesca sia la più grande sfida che il pensiero stesso abbia potuto produrre al suo interno. Dire che la filosofia ‘parli tedesco’, non sminuisce le altre lingue e le loro capacità linguistico-semiotiche e filosofiche. Non intendo, affatto, dire che il pensiero tedesco abbia un/il monopolio sul pensare filosofico, un’affermazione che, giustamente, potrebbe essere ritenuta priva di senso se non, addirittura, un pre-giudizio filosofico completamente infondato (altro che filosofia o monopoli sul filosofare); alludo, piuttosto, al fatto, per me, certo, incontrovertibile, che la sfida tedesca al pensiero filosofico (a partire da Kant/Hegel/Marx), appunto (fino ad Habermas e Apel), è stata ed è tale, che, se il pensiero filosofico non dovesse accoglierla, finirebbe di filosofare e di chiudere le porte a se stesso. E, in effetti, la sfida tedesca al pensiero filosofico e le sue tante Scuole sono state ampiamente accolte e riconosciute. Penso ai tanti dibattiti, alle tante riflessioni e ai tanti studi internazionalmente dedicati all’area filosofica tedesca. La fine o rinascita della filosofia non la decide, dunque, il ‘disfattismo’ (Habermas) postmodernistico della ragione (da Lyotard a Derrida), ma la sfida tedesca al pensiero, per questo motivo: la filosofia, oggi, ‘parla tedesco’. Era ‘nata grande’ e ‘rimarrà grande’ grazie a questa seconda sfida: quella tedesca.

    E poi? Cosa avverrà poi? Ci sarà una terza sfida? Saranno gli inglesi, i francesi, gli italiani, gli spagnoli a rappresentarla? O il pensiero filosofico partirà dall’Africa, dall’Oriente, dall’America Latina?

    Quale sarà questa terza sfida, toccherà al pensiero filosofico a venire deciderlo. Di certo, il pensiero filosofico non si fermerà e non bastano semplici proclami come la ‘fine delle ‘grandi narrazioni’ o della ‘ragione’ a metterlo in crisi, anzi. Tutte queste affermazioni, se devono avere un senso filosofico, sono già all’interno di quello che si vuole negare: la filosofia e la sua ricerca di fondamento. Vale altrettanto per la ‘ragione’. Ogni ragionare pro o contro la ragione, avviene all’interno di essa. Chi nega, si serve di essa per argomentare (negandola), quindi si auto-contraddice (nel senso performativo, direbbe Apel), similmente a chi pensa di poter fare a meno della metafisica, e non si accorge di tagliare proprio il ramo su cui sta seduto (Kant)[1].

    Quali le possibili vie della filosofia a venire? Certamente non potrà accontentarsi raccogliendo il passato, non si tratta solo di comprendere il mondo (Hegel), ma di progettare il futuro: trasformare il mondo, ma nella cura e nella responsabilità per il pianeta e la sua sopravvivenza. Questo tipo di trasformazione presuppone la ricerca di un’Etica Minima condivisa/condivisibile universalmente da tutti i Popoli. Voci filosofiche importanti, in questa direzione, potrebbero essere: Nuovo Umanesimo o Nichilismo.

    [1] Penso che Jürgen Habermas sia l’unico filosofo della contemporaneità ad aver notato pienamente le potenzialità del concetto kantiano di ragione e di averne fatto un programma teorico di ricerca (che ha denominato: il progetto incompiuto della modernità). Scrive, appunto, Habermas: La ragione[…] non deve soltanto coprire intenzioni di verità nel senso ristretto in cui noi parliamo della verità di asserzioni, ma deve piuttosto mostrare nella loro unità quei tre momenti razionali che sono stati presi separatamente nelle tre Critiche kantiane: l’unità della ragione teoretica col convincimento pratico-morale e il giudizio estetico (Dialettica della razionalizzazione, Unicopli, Milano, 1994, p. 228).

    Vita / Leben

    In Erinnerung an meinen Vater -

    Ergänzung eines autobiographischen

    Berichtes

    Dorothea Apel

    dorotheaapel@gmail.com

    Abstract

    Anknüpfend an eine einleitende kleine Autobiographie von Karl-Otto Apel, welche dieser im Alter von 17 Jahren verfasst hat, wird der Versuch unternommen, seine Person als Wissenschaftler und Vater aus Perspektive der Familie darzustellen. Dabei wird insbesondere der Charakterzug seiner Wahrhaftigkeit betont. Der Begriff der Wahrhaftigkeit wird hierzu in einem kleinen Exkurs transzendentalpragmatisch reformuliert gegenüber dem Begriff von Wahrhaftigkeit als Geltungsanspruch (Habermas).

    Schlüsselwörter: Autobiographie, Wahrhaftigkeit.

    In Remembrance of my Father – Extension of an Autobiographical Representation

    Taking up the introduction of a small autobiography by Karl-Otto Apel, written in the age of seventeen, my attempt is to give a picture of his person in his role as scientist and as father out of the perspective of his family. Hereby it is emphasized that truthfulness was one of his characteristic traits. In a little excursus the term of truthfulness is reformulated in a transcendental-pragmatic way in opposite to the term of a validity claim of truthfulness (Habermas).

    Keywords: autobiography, truthfulness.

    Es zeichnete meinen Vater geradezu aus, nur sehr wenig über sich persönlich zum Ausdruck zu bringen und nicht nur in seiner Rolle als Wissenschaftler, sondern auch im privaten Leben vornehmlich die objektiv-kritische, argumentative Haltung einzunehmen. Zudem lehnte er – zum Teil auch aufgrund seiner Erfahrungen mit dem Pathos des dritten Reiches – jegliche Art von Sentimentalität und Überschwang ab. Beides macht eine angemessene Würdigung seiner Person für mich als Tochter nicht einfach.

    So halte ich es – freilich nicht nur deshalb – für einen Glücksfall, dass in den hinterbliebenen Unterlagen meines Vaters ein autobiografischer Bericht aufgetaucht ist, den er in seiner Schulzeit, als Siebzehnjähriger zu unbekanntem Zwecke verfasst hat. Diesen authentischen, kleinen Einblick in seine jungen Jahre möchte ich hier wiedergeben. Denn wie könnte eine Darstellung seiner Person besser eingeleitet werden als mit seinen eigenen Worten?

    „Karl-Otto Apel Bildungsgang:

    Ich wurde am 15.3.22 in Düsseldorf-Oberkassel geboren. Dort wuchs ich unter der Obhut meiner Eltern heran zwischen Spielen und Zeichnen. So muss ich mich schon ausdrücken, denn schon in frühester Kindheit wollte ich alles, was mir meine Eltern auf Wanderungen und Ausflügen zeigten, mit dem Bleistift festhalten, und diese meine damals einzige Leidenschaft steigerte sich noch in den vier Jahren meiner Grundschulzeit. Ich kann nicht sagen, dass die Schule, in die ich von 1928 – 32 gehen musste, einen sonderlichen Eindruck auf mich gemacht hätte: Subjektiv gesehen jedenfalls nicht, denn ich hielt es noch nicht einmal für nötig, morgens pünktlich dort zu erscheinen, viel weniger noch, etwa aufzupassen auf das, was gelehrt wurde; so war ich während meiner ganzen Volksschulzeit ein sehr mäßiger Schüler in allen Fächern außer im Zeichnen. Ganze Berge von angefangenen, halbvollendeten und fertigen Zeichnungen waren zuhause wie in der Schule unter der Bank zu finden als ein Beweis für das, was ich tat, während die anderen mehr oder weniger aufmerksam dem Unterricht folgten.

    Später im vierten Schuljahr gesellten sich zum Zeichnen noch Musik und Heimatkunde als meine Lieblingsfächer, in denen ich es auch auf eine „Eins brachte, sehr im Gegensatz zu den sogenannten Hauptfächern, wie Rechnen und Deutsch. Mit zehn Jahren gedachten meine Eltern mich auf die Oberrealschule zu schicken, denn dies hielt mein Vater als praktisch denkender Kaufmann für die nützlichste und zweckdienlichste Ausbildung, zumal ich ja, wenn möglich, einmal das Geschäft meines Vaters übernehmen sollte. Zwar hegte meine Mutter schon damals Bedenken gegen eine solche Ausbildung und Berufsbestimmung, da ich alles andere als praktisch veranlagt bin und damals eher ein Träumer genannt werden konnte. Erst recht ich selbst wollte nichts wissen von „Oberrealschule und „Kaufmann, sondern wollte durchaus auf ein Gymnasium. Auch hier war meine Liebe zum Zeichnen und zum „Künstlerischen überhaupt die Triebfeder meines Wunsches. Sie vor allem versetzte mich damals geradezu in Begeisterung für das „klassische Altertum", wie ich es damals aus Sagenbüchern und Bildwerken zuerst kennengelernt hatte. Meine Eltern ließen mir auch schließlich den Willen und schickten mich Ostern 1932 auf das Comeniusgymnasium in Oberkassel.

    Ich muss schon sagen, dass das Gymnasium einen entscheidenden Wendepunkt in meinem Leben brachte. Latein und vor allem Geschichte und Erdkunde erregten in hohem Maße mein Interesse, und schon in der Sexta machte ich eine völlige innere Wandlung durch. Hatte ich vorher nur rein gefühlsmäßig das eine eifrig gelernt, das andere überhaupt nicht beachtet, so wurde jetzt mein Verstand und auch mein Ehrgeiz erst wach. Ich wurde pünktlich, aufmerksam, pflichteifrig, ja pedantisch. Alles, was mir nützlich schien, betrieb ich jetzt mit Eifer, auch wenn es mir nicht lag, wie z.B. Rechnen und später Mathematik (außer Geometrie) und Physik. Aus diesem Bestreben heraus suchte ich jetzt auch auf sportlichem Gebiet das nachzuholen, was ich bisher infolge mäßiger körperlicher Veranlagung versäumt hatte. In diesen Jahren wurde ich von einem stilechten „Stief" zu einem ganz ordentlichen Schwimmer und zu einem fanatischen, wenn auch nicht hervorragenden Leichtathleten.

    Auf körperlich-sportlichem Gebiet förderte mich aber – außer den Indianerbüchern aller Art, die ich nicht vergessen will – besonders das Jungvolk (seit März 1933) und später (seit 1936) die Hitlerjugend. Aber auch in geistiger und charakterlicher Hinsicht war der HJ-Dienst stets eine wichtige Ergänzung von Schule und Elternhaus. Zumal als Kameradschafts- und später Scharführer hatte ich Gelegenheit, meine geschichtlichen und sonstigen Schulkenntnisse beim Heimabend in praktischer Form anzuwenden und mich dabei in freier Rede, Auftreten und Umgang mit Jungen zu üben. Wenn mich meine Führertätigkeit in der HJ auch viel Zeit kostete, so betrachte ich sie doch als besonders wertvoll gerade für mich; denn Auftreten, Umgang mit Menschen, überhaupt die praktischen Seiten des Lebens waren nie meine Stärke. Außerdem kam ja der Dienst meinen Neigungen zu geschichtlicher und weltanschaulicher Betrachtung nur entgegen.

    Im übrigen blieben Geschichte, alte Sprachen und Zeichnen immer meine liebsten Schulfächer auch auf dem Hohenzollerngymnasium, das ich seit Ostern 1935 besuche. Zuhause beschäftigte ich mich vornehmlich mit Völkerkunde, Kunstgeschichte (der italienischen Renaissance) und zuletzt mit politischer Geschichte (Englands, der Vereinigten Staaten und Italiens). Ich habe deshalb auch Geschichte als Wahlfach bei der Reifeprüfung angegeben."

    Lassen sich in dieser kleinen Selbstdarstellung nicht schon fast alle wesentlichen Charakterzüge des späteren Philosophen und Menschen zumindest angedeutet finden?

    Allen voran die sachlich-reflektierte, offen-ehrliche Art, in welcher der Text geschrieben ist, die sich später einerseits zu der umfassend tiefen Wahrhaftigkeit seiner Persönlichkeit entwickelt hat, die aber andererseits auch im Ansatz schon ein gewisses Desinteresse an taktisch geschickter und gesellschaftlich angemessener Selbstdarstellung verrät. So berichtet er ja nicht nur über seine damals schon eindeutigen Stärken ambitionierten geistigen Interesses und ehrgeiziger Pedanterie, die in der Sexta erwacht seien, sondern er macht auch keinen Hehl aus seinen schon in der Kindheit angelegten Schwächen, die er ebenso wie die Stärken zeitlebens beibehalten und weiter entwickeln sollte.

    Aus dem jungen eigensinnigen Träumer, der ungeachtet dessen, was Mitschüler taten und was man von ihm erwartete, nur zeichnen wollte, ist der eigenwillige Denker hervorgegangen, der ungeachtet dessen, was als mainstream-philosophy anerkannt wird, seine Philosophie in äußerster Kohärenz, Konsistenz und Konsequenz entwickelt hat.

    Ich meine, Denken – im stillen Gespräch mit sich selbst, als auch im argumentativen Diskurs mit Anderen – war gewiss die ureigenste Seinsweise meines Vaters: In ihm fielen sein „Leibapriori" (K.-O. Apel) und sein Geist in Eins.

    Jürgen Habermas brachte diese Seite meines Vaters im Mai letzten Jahres in seiner Trauerrede auf den Punkt:

    „Karl-Otto habe ich stets als den eigentlichen oder wahren Philosophen betrachtet – als den, der keine Gedanken hat, sondern den seine Gedanken in Beschlag nehmen."

    In der Tat: Zum Denken musste er sich nicht begeben, sondern vielmehr war es umgekehrt so, dass er auch im Alltag aus diesem kaum herausgerissen werden konnte. Für uns Kinder war es jedenfalls natürlich, dass wenn wir, aus welchem Grund auch immer, das Wort an ihn richteten – und sei es nur, um ihn aus seinem Arbeitszimmer zum, von ihm immer hoch geschätzten, Essen zu holen – die Geduld aufbringen mussten, ihn mit mehreren Ansprachen aus der Tiefe seiner Konzentration in die Welt zurück zu holen. Manchmal erst nach der dritten Anrede hob er den Kopf und sah mit glasigem Blick durch uns hindurch, geistig noch in weiter Ferne, den Inhalt unserer Rede nur akustisch wahrnehmend. Meine Mutter trug uns darum immer auf, am Ende unserer Mission (ihn zum Essen zu holen), auch zu fragen, ob er dieses Anliegen wohl „apperzipiert" habe. Aber auch die Antwort darauf gab er nur automatisch, ohne eben wirklich etwas apperzipiert zu haben und so bedurfte es immer mehrerer Gänge ins Arbeitszimmer, bis er sich dort endlich losriss.

    Als meine Mutter ihn einmal in großer Aufregung vom Flughafen abholte, weil sie gehört hatte, dass das Flugzeug bei der Landung im Heck brannte und alle Passagiere natürlich sichtlich aufgeregt aus dem Ausgang der Passkontrolle kamen, war mein Vater ganz überrascht – er hatte im Flugzeug gelesen und von alledem nichts mitbekommen. Ebenso wenig wie ein andermal, als meine Mutter ihn am Bahnhof abholen wollte und auf dem Bahnsteig nur einen Schaffner mit der Aktenmappe meines Vaters antraf. Diese hatte er in seinem Abteil stehen gelassen, während er selbst in den Speisewagen gegangen war – dass der Zug geteilt und in zwei verschiedene Richtungen weitergefahren war, wie dies mehrfach per Lautsprecher durchgegeben worden war, hatte er, in seine Lektüre vertieft, nicht mitbekommen.

    Der Vorteil dieses Vermögens, völlig in die Welt der Gedanken abtauchen zu können, lag allerdings darin, dass ihn der ganze Lärm der Familie mit drei Kindern, einem Hund und dem Üben auf drei verschiedenen Musikinstrumenten überhaupt nicht störte. Im Gegenteil: Als Geräuschkulisse im Hintergrund genoss er diese ganz offensichtlich als Ausdruck des lebendigen Lebens, gewiss auch als Kompensation der eigenen weltabgewandten Arbeit.

    Überhaupt ließ er in vollkommener Toleranz jeden von uns in der Familie frei gewähren: Nicht nur mussten wir in keiner Hinsicht Rücksicht nehmen auf ihn, sondern ebenso wenig stellte er den Anspruch an uns, seinem Beispiel harten Arbeitens folgen zu müssen. Kurz: Von seiner Seite aus gab es niemals irgendwelche Ver- oder Gebote.

    Streng war er einzig und allein in der Hinsicht, dass wir Kinder im ernsthaften Gespräch keinen Unsinn reden oder schlecht argumentieren durften. Aber auch dann nahm er in seiner Kritik nicht etwa die Rolle eines autoritären Lehrers ein, sondern er regte sich über Fehlleistungen dieser Art vielmehr in seiner Rolle als Diskurspartner auf, in welcher er auch uns Kinder schon mit sich auf gleiche Augenhöhe stellte. Dies hatte zur Folge, dass er unsere Ansichten und Argumente einerseits ebenso scharf kritisierte wie die eines Erwachsenen, sie aber andererseits auch ebenso erst nahm.

    Zum Beispiel regte er sich ernsthaft über einen eifrigen Vorschlag von mir als Zehnjähriger auf, die ökologischen Probleme sollten doch am besten dadurch bewältigt werden, dass die Menschen wieder in Höhlen leben sollten. Ich erinnere mich noch sehr gut, wie er sich über den derartig „blauäugigen und „naiven Vorschlag aufregte. Dagegen in einer anderen Situation später, in welcher meine Mutter ihn zu mir geschickt hatte, damit er mit mir ein ernstes Wort über meine mittelmäßige schulische Leistung spreche, stimmte er meiner hedonistischen Argumentation über den Sinn des Lebens am Ende zu mit den Worten: „Ja vielleicht hast du ja Recht, vielleicht habe ich das in meinem Leben falsch gemacht."

    Mit diesen typischen Gesichtspunkten seines Verhaltens als Vater sind zwei miteinander zusammenhängende Charakterzüge angesprochen, welche ihn neben seiner Gutmütigkeit und seiner Empathiefähigkeit vielleicht am wesentlichsten auszeichneten:

    Erstens war er auch als Privatperson in erster Linie immer Wissenschaftler und Philosoph, so, dass es geradezu bezeichnend für ihn ist, dass man beides – den privaten Menschen und den Philosophen – gar nicht wirklich trennen kann. Das wird noch dadurch verstärkt, dass er zweitens das, was er als Philosoph inhaltlich vertrat, auch selber gelebt hat.

    Der erste Aspekt, dass er als Privatperson immer auch Wissenschaftler war, zeigte sich schon, wie wir oben in seinem eigenen Bericht lesen konnten, in seiner Kindheit. Hierfür ist außer dem ein Notizbuch bezeichnend, welches meine Mutter wiederentdeckt hat. Man kann dort sehen, mit welcher erstaunlichen Hingabe und Akribie er schon in jungen Jahren Listen und Karten beispielsweise von Indianerstämmen angelegt hatte. Es ist in der Familie auch bekannt, dass er damals schon solche Studien über Völkerkunde und Geschichte etc. schönen Familienausflügen vorzog und alleine zuhause blieb.

    Und man kann wohl ganz ohne Übertreibung feststellen, dass sich ihm in seinem ganzen Leben immer eine Möglichkeit geboten hat, den praktischen Seiten des Lebens – welche ihm von klein auf nicht lagen, wie wir oben lesen konnten – größtenteils zu entfliehen, bzw. diese durch Beschäftigung mit theoretischen Studien zu transzendieren. Sogar im Krieg, in welchem er glücklicherweise im Trupp des Nachrichten-dienstes fast ausschließlich im Hintergrund des Geschehens agieren konnte, bot sich ihm in der Ukraine, bei der Stationierung in einer dortigen Familie, die Möglichkeit, sich auf das Erlernen der russischen Sprache zu konzentrieren und später, in amerikanischer Gefangenschaft, der englischen (für diese Möglichkeit verzichtete er sogar trotz kärglicher Verpflegung auf eine tägliche Extraration Essen). Während des Studiums dann sorgte seine Zimmervermieterin für Mahlzeiten und den Haushalt. Später übernahm meine Mutter die Erledigung sämtlicher Belange des täglichen Lebens.

    Wie in seinem eigenen Bericht oben schon erkenntlich wird, waren seine Interessen aber nicht nur geisteswissenschaftlicher Natur. Er war auch musisch und sprachlich begabt, so dass er nur aufgrund seiner Lateinkenntnisse Vorträge auch auf Französisch, Spanisch oder Italienisch halten konnte, und sein frühes Interesse an Musik und Kunst behielt er als empfindsamer und sinnlicher Mensch sein Leben lang. Hatte er in seiner Schulzeit mit Inbrunst im Schulchor gesungen – was merkwürdiger Weise in seinem Bericht nicht erwähnt wird – so genoss er als Student viele Opern, auch fünfstündige Wagneropern, von einem Stehplatz aus. Sein kunstgeschichtliches Interesse wurde später durch meine Mutter noch weiter angeregt, wobei er besonders angezogen blieb von der griechischen und römischen antiken Kunst, sowie der Renaissance. Aber es gab auch Interessen, die ihn mit den puren irdischen Aspekten des Daseins verbanden: Er liebte Reisen, schöne Landschaften und Aussichten, gutes Essen und besonders guten Rotwein. Und so, wie er in seinen jungen Jahren ambitioniert Sport betrieben hatte, so verfolgte er später mit großer Begeisterung im Fernsehen Fußballübertragungen und die Sportnachrichten; er war meiner Mutter ein guter Tanzpartner, beide liebten besonders den Ballroom-Tango; auch hatte er viel übrig für die Schönheit der Frau sowohl im Leben als auch in der Kunst und last not least war er als Kind seiner Zeit ein großer Liebhaber von FKK-Urlauben am Meer.

    Und doch war seine größte Leidenschaft gewiss der Diskurs: Zu dem Thema seiner Diskussionsleidenschaft gibt es die amüsante Anekdote von einem Aufeinandertreffen von ihm mit Hans Albert, der wohl ein ähnliches Temperament besaß wie er selbst, auf einem Kongress im österreichischen Alpbach, ca. 1968:

    Dort diskutierten die beiden am Abend im Restaurantbereich ihres Hotels derart lange und angeregt miteinander, dass der Wirt sie irgendwann bat leiser zu sein, da die anderen Gäste in ihrer Nachtruhe gestört seien. Das hatte aber lediglich zur Folge, dass beide ein paar Minuten ihre Stimmen dämpften, um sie dann wieder mit demselben Überzeugungswillen wie zuvor zu erheben, woraufhin sie vom Wirt vor die Tür gesetzt wurden – wo sie dann freilich ihre Diskussion noch lange fortsetzten.

    Der Glaube an die „Kraft des besseren Argumentes" ging bei meinem Vater sogar so weit, dass er in einer Überfall-Situation in Südamerika, in welcher er mit einer Waffe bedroht wurde, darauf verfiel, den Angreifer mit wütenden Argumenten zu konfrontieren, woraufhin sich dieser erstaunlicherweise schnellstens verzog. Für small talk war er dagegen absolut nicht zu haben.

    Es soll hier nun aber nicht der Eindruck entstehen, dass er etwa immer nur ernsthaft eingestellt gewesen wäre. Besonders uns Kindern und seinen Enkeln ist er vielmehr auch als fröhlicher Mensch in Erinnerung. Gerne pointierte er fast alle einschlägigen Alltags-Situationen mit einem Zitat oder einem seiner eigensinnigen, witzigen Sprüchlein, die bei uns in der Familie in eben diesen Situationen als geflügelte Worte, nun in memoriam, weiter gepflegt werden. Auch im Philosophieren blitzte, besonders in Gesprächen zuhause, aber auch in seinen Vorlesungen, immer wieder eine humorvolle, teils bissige, teils auch selbstironische Pointe auf, was seine Reden immer unterhaltsam machte.

    Der zweite Hauptcharakterzug nun, dass er das, was er philosophisch inhaltlich vertrat, auch gelebt hat, lässt sich am besten als eine Wahrhaftigkeit bezeichnen, die ihn sowohl als privaten Menschen, als auch als Philosophen, ausgezeichnet hat. Dies habe ich bereits in seiner Todesanzeige versucht mit folgenden Worten auszudrücken:

    „Ein Leben in zutiefst wahrhaftigem Ringen um Erkenntnis von Wahrheit, moralischer Richtigkeit und Sinngültigkeit ist zu Ende gegangen."

    Diese Wahrhaftigkeit hat, zumindest unterbewusst, den vielleicht stärksten Eindruck seiner Person auf mich gemacht, weswegen es sich möglicherweise nicht von ungefähr so ergeben hat, dass das Thema meiner Dissertation eine transzendentalpragmatische Neubestimmung der Wahrhaftigkeit in den Diskurstheorien von Habermas und Apel geworden ist. Und aus diesem Grund möchte ich an dieser Stelle auch ganz kurz und skizzenhaft auf diese Neubestimmung eingehen, um sie dann wiederum auf die charakteristische Haltung meines Vaters, im Leben und in seiner Vorgehensweise als Wissenschaftler, beziehen zu können.

    Einleitend hierzu sei mit folgender Behauptung wenigstens ein Aspekt meiner Kritik an dem von Habermas und Apel gebrauchten Begriff von Wahrhaftigkeit – als „Geltungsanspruch der Rede" (Habermas) und der Argumentation – in aller Kürze zusammengefasst:

    Auf seine Wahrhaftigkeit erhebt ein Sprecher weder einen spezifischen Geltungsanspruch in Bezug auf expressive Aussagen, noch erhebt er überhaupt einen Anspruch darauf, seine Wahrhaftigkeit eingeholt zu haben, wie in der Diskursethik unterstellt. Vielmehr – so meine These – ist Wahrhaftigkeit ausschließlich eine Präsuppositionsinngültigen Sprech-/Handelns[1] im Allgemeinen und der Argumentation im Besonderen, die von jedem kompetenten Sprecher mit Gewissheit[2]eingeholt werden kann. Mit ihr erfüllt der Sprech-/Handelnde die, in der Argumentation von ihm notwendigerweise immer schon anerkannte, diskursethischen Normen – zumindest auf einer der drei Ebenen[3] seiner Wahrhaftigkeit.

    Nimmt man dagegen an, ein Sprecher müsste auf seine Wahrhaftigkeit einen Geltungs-Anspruch erheben. Dann müsste dieser, um wirklicher erhoben worden zu sein, wiederum wahrhaftig erhoben sein, worauf aber wiederum ein Wahrhaftigkeits-Anspruch erhoben werden müsste, welcher ja wiederum wahrhaftig erhoben werden müsste, etc. pp. Der Sprecher geriete also in einen infiniten Regress der Erhebung von Wahrhaftigkeitsansprüchen, ohne andere Geltungsansprüche überhaupt je wahrhaftig erheben, geschweige denn einlösen zu können. Er könnte also nie selber wissen, ob er etwas wirklich und wahrhaftig meint oder nicht, bzw. es wäre für ihn unmöglich überhaupt etwas zu meinen. Deshalb ist die Explikation von Wahrhaftigkeit im Sinne eines „Geltungsanspruches" genau genommen absurd[4].

    Gehen wir also davon aus, dass auf den Begriff von Wahrhaftigkeit allein die Bedeutung des präsuppositionalen Sprechhandlungsmodus zutrifft, der besagt, dass der Sprecher „sagt, was er wirklich selber meint" (Habermas). Und über die Einholung dieses Sprechhandlungsmodus hat der „kompetente Sprecher" grundsätzliche Gewissheit[5].

    Diese Annahme führt nun, wie ich in meiner Dissertation vorschlage, zu einer Explikation von Wahrhaftigkeit auf drei transzendentalpragmatisch sinnkritischen Reflexionsebenen, auf denen für die Wahrhaftigkeit von Sprech-/Handlungen aufgrund der ihnen inhärenten sprachpragmatischen Struktur, jeweils spezifische Sprech-/Handlungs-Verpflichtungen verbindlich sind:

    Auf der ersten Ebene – in Reflexion auf die performativ-propositionale Doppelstruktur(Habermas) einer Sprechhandlung- bzw. auf die, jede selbstbewusst-rationale Handlung begleitende Sprechhandlung – wird zunächst erkennbar, dass im Falle seiner Wahrhaftigkeit der Sprecher trivialerweise gegenüber seinem konkreten Adressaten dasjenige propositional sagt, was er auch selber wirklich meint, bzw. der Aktor diejenige performative Sprechhandlung oder Handlung offen zeigt, die er auch wirklich selber so intendiert.

    Auf dieser Ebene seiner Wahrhaftigkeit ist der Sprech-/Handelnde insofern verpflichtet, die Norm einzuhalten, welche sich für die Proposition mit dem Begriff der „Ehrlichkeit im Unterschied zur „Lüge bezeichnen lässt und für den performativen Teil der Sprechhandlung und überhaupt für Handlungen mit dem Begriff der „Transparenz der Handlungsintention im Unterschied zum „Vortäuschen und „Täuschen".

    Auf der zweiten Ebene – in Reflexion auf die, der performativ-propositionalen Doppelstruktur inhärenten„sekundären intersubjektiven Objektivierung" (Habermas) – erkennen wir die diskursive Kritisierbarkeit einer jeden Sprech-/Handlung überhaupt, im Sinne ihrer „doppelten performativ-propositionalen Doppelstruktur" (Audun Øfsti).

    Wahrhaftigkeit auf dieser Ebene muss dementsprechend bedeuten, dass der Sprech-/Handelnde „einverständnisorientiert (Habermas) in Hinblick auf die intersubjektive Kritisierbarkeit seiner Sprech-/Handlung gegenüber allen konkreten Adressaten der realen und in Hinblick auf alle, auch in Zukunft möglichen Argumente, gegenüber Adressaten der „idealen Kommunikationsgemeinschaft (Apel)Geltungsansprüche erheben muss. Und zudem, dass er seine Geltungsansprüche auch tatsächlich, also nicht nur zum Schein oder pro forma erheben muss, wenn er seine Sprech-/Handlung wahrhaftig meinen will. Das heißt: Sprechende/Handelnde müssen auch ernsthaft bereit sein, ihre Sprech-/Handlungen so gut wie es ihnen möglich ist („nach bestem Wissen und Gewissen") zu begründen.

    Kompetente Sprecher wissen „intuitiv" um die Notwendigkeit dieser sinnkritischen Anforderung für ihre Sprech-/Handlungen. Wenn sie dagegen vortäuschen dieses „Wissen" nicht zu haben, bzw. die Einholung dieser Anforderungen in ihren Sprech-/Handlungen unterschlagen, können sie diese nicht wirklich so meinen, wie sie diese ausführen. In diesem Sinne sind sie unwahrhaftig.

    Hinsichtlich des zu erhebenden Richtigkeitsanspruches möchte ich betonen, dass dieser sich auf der zweiten Reflexionsebene lediglich, wie Habermas sagt, auf die „normenkonforme Verwendung" des performativen Teils einer Sprechhandlung im „kommunikativen Kontext der sozialen Welt"[6]bezieht, und mitsonstigen Handlungen auf die Richtigkeit im Kontext aller „legitimgeregelten interpersonalen Beziehungen"[7] im Sinne ihrer konventionellen Richtigkeit und der konventionell „jeweils schon zugeteilten Verantwortung" (Apel). Daher können offen strategische Sprech-/Handlungen – welche auf der performativ-propositionalen Ebene in jedem Fall wahrhaftig sind – auf dieser zweiten Ebene entweder unwahrhaftig, nämlich unbegründet sein, oder aber wahrhaftig, jedoch nur konventionell begründet, bzw. legitimiert sein.

    Die dritte Reflexions-Ebene nun zeigt sich erst in Reflexion auf die von Austin ursprünglich eingeführte lokutiv-illokutiv-perlokutive Dreifachstruktur einer Sprechhandlung. Mit der Intention des perlokutiven Aktes und der damit verbundenen weiteren Zweckverfolgung einer jeden rationalen Sprech-/Handlung entsteht immer auch ihr Wirkungsanspruch[8]. Im Sinne der besagten sekundären Objektivierung und diskursiven Kritisierbarkeit einer jeden Sprech-/Handlung könnte man daher, an Øfsti anknüpfend , auch von einer „doppelten lokutiv-illokutiv-perlokutiven Dreifachstruktur" sprechen, die jeder rationalen Sprech/-Handlung inhärent ist.

    Mit der Dreifachstruktur wird sichtbar, dass auch die, auf zweiter Wahrhaftigkeitsebene eingelöste Bereitschaft zu diskursiver Begründung – hinsichtlich des erhobenen Richtigkeitsanspruchs jedoch über konventionell verfügbare Gründe nicht hinausgehende Begründung nicht weit genug greift: Sinnkritisch betrachtet, müssen Sprechende/Handelnde bereit sein, den gleichzeitig mit ihren Handlungszwecken immer verbundenen Wirkungsanspruch, gegenüber jeder diskursivmöglichen Kritik rechtfertigen zu können, um etwas wirklich meinen zu können. Das heißt, sie müssen auch für die beabsichtigen Wirkungen, die Folgen und voraussehbaren Nebenwirkungen ihres Tuns Verantwortung übernehmen qua intersubjektiver Rechtfertigung zum einen gegenüber allen gleichberechtigten, direkt oder auch nur potentiell Betroffenen, zum anderen solidarisch mit allen gleichberechtigten Diskurspartnern.

    Auf dieser dritten Ebene des wahrhaftigen Meinens geht es somit um Wahrhaftigkeit als einerseits individuell zugeteilter „Selbstverantwortung" (J.P. Brune)[9] zur Einholung von solidarischer „Mitverantwortung" (Apel).[10]

    Mit anderen Worten: Der intendierte Sprech-/Handlungszweck, respektive der mit ihm einhergehende Wirkungsanspruch, gehört (mitsamt der Berücksichtigung von Folgen und Nebenfolgen) zu einer Sprech-/Handlung im starken Sinne wahrhaftigen Meinens insofern dazu, als sich der Sprech-/Handelnde zu diesem bewusst entschieden haben muss, um die Sprech-/Handlung in aller Konsequenz auch wirklich vertreten zu können. Nur dann kann man sagen, dass er sein Tun und Unterlassen auch wirklich selber so meint, wie er es verantworten kann.

    Auch um diese, seiner Sprech-/Handlung inhärenten Anforderungen, „weiß" der kompetente Sprecher intuitiv. Und insofern ist er unwahrhaftig, wenn er dieses Wissen verleugnet, bzw. diese Verpflichtung unterschlägt[11].

    Auf Erscheinungsformen der Kommunikation angewendet, ergibt sich mit diesen drei Ebenen von Wahrhaftigkeit nun folgendes Bild:

    Für den argumentativen Diskurs ist die Einholung von Wahrhaftigkeit auf allen ihren drei Ebenen gleichermaßen konstitutiv. Für andere Sprech-/Handlungen aber ist auch der Fall möglich , dass eine Person auf der ersten Wahrhaftigkeitsebene zwar unwahrhaftig handelt (z.B. lügt, täuscht) und dass dementsprechend ihre Sprech-/Handlungen auf der zweiten Wahrhaftigkeitsebene nicht wohlbegründet sind, dass die Person aber sehr wohl auf der dritten Wahrhaftigkeitsebene ihr Tun im Hinblick auf Zweck, Wirkung und Folgen wahrhaftig rechtfertigen kann – sei es für sich selbst im Diskurs in foro interno oder im Diskurs mit anderen. Solche Sprech-/Handlungen sind paradigmatisch für den von K.-O. Apel so genannten „Teil B der Diskurs-ethik: Die Einhaltung der nicht hintergehbaren diskursethischen Grundnormen wird in diesem Fall auf den ersten beiden Ebenen im hegelschen Sinne „aufgehoben auf die dritte Ebene der wahrhaftigen Mitverantwortung, auf der die diskursethischen Grundnormen nach wie vor unhintergehbar bleiben.

    Auch der umgekehrte Fall ist nun analytisch beschreibbar: Es kann sein, dass ein Sprech-/Handelnder auf der ersten Ebene zwar ehrlich und transparent handelt, aber – egal wie es um seine Wahrhaftigkeit auf der zweiten Ebene bestellt sein mag – wohl wissend, dass er sein Tun als folgenreiche Handlung auf der dritten Wahrhaftigkeitsebene nicht rechtfertigen kann – angenommen z.B., er setzt seine Ehrlichkeit ein, um Andere unrechterweise in Gefahr zu bringen oder sonstwie zu schädigen.

    Um noch eine weitere Kombinationsmöglichkeit zu skizzieren: Es kann sein, dass Personen auf der zweiten Wahrhaftigkeitsebene wohlbegründbare konventionelle, ihnen individuell zugeteilte Verantwortung nicht übernehmen, eben genau deshalb, weil sie wissen, dass sie dies auf der dritten Wahrhaftigkeitsebene nicht rechtfertigen können. Stichworte für diesen Fall sind etwa der „zivile Ungehorsam und das mutige Wahrsprechen im Sinn der Parrhesia-Analyse Foucaults. Auch auf „Whistleblowing lässt sich die Wahrhaftigkeitsanalyse anwenden: Mit seinem Alarm setzt sich ein Whistleblower wahrhaftig auf dritter Ebene gerade für die gesellschaftliche Einhaltung der Normen der ersten und zweiten Ebene ein, wobei der Alarmierende selber jedoch mit seiner Ehrlichkeit auf erster Ebene und/oder der Rechtfertigung seiner Sprech-/Handlung hinsichtlich ihrer konventionellen Richtigkeit auf zweiter Ebene wiederum „ungehorsam" ist.

    Mit den verschiedenen Reflexionsebenen und den entsprechend möglichen Kombinationen von Wahrhaftigkeit auf diesen Ebenen zeigt sich also, dass die Frage danach, ob ein Sprechhandelnder als wahrhaftig oder unwahrhaftig beurteilt werden soll, komplexer ausfällt als gemeinhin angenommen.

    Weil ein Sprech-Handelnder aber auf der dritten Ebene die Selbstverantwortung zur Mitverantwortung – einerseits solidarisch zusammen mit und andererseits gegenüber der realen und der idealen Diskursgemeinschaft – für seine Sprech-/Handlungen übernehmen muss, mit welcher er in letzter Konsequenz zu seiner Sprech-/Handlung, so wie er sie meint, stehen muss, entscheidet allein die Wahrhaftigkeit auf dieser dritten Ebene darüber, ob seine Sprech-/Handlung als letzten Endes wahrhaftig – und darum auch als letzten Endes intersubjektiv einverständnisorientiert[12] – bezeichnet werden kann oder nicht.

    Formelhaft ausgedrückt: Wahrhaftigkeit bedeutet in letzter Instanz immer Selbstverantwortung zur Mitverantwortung.

    Auf die Erinnerungen an meinen Vater zurückkommend, möchte ich diese sehr komprimierte Skizze der Explikation von Wahrhaftigkeit auf ihren drei Ebenen nun nutzen, um beispielhaften einer Situation in seinem Leben seinen wahrhaftigen Charakter hervorheben zu können:

    Als Soldat (etwa im Alter von zwanzig Jahren) geriet er im zweiten Weltkrieg in Russland in die Lage, dass ihm der Befehl gegeben wurde, das Kommando für die Erschießung einer Gruppe russischer Kriegsgefangener zu übernehmen. Der Grund dafür war angeblich ihre Überzahl im Verhältnis zu der sie bewachenden Gruppe deutscher Soldaten. Mein Vater verweigerte daraufhin diesen Befehl, unter Anführung von Argumenten, u.a. dem Hinweis auf geltendes Kriegsvölkerrecht. Dieser Hinweis war wahrhaftig auf der zweiten Ebene, im Sinne seiner konventionellen Begründungsnotwendigkeit. Mit dem Verhalten der Befehlsverweigerung gegenüber dem Vorgesetzten aber zeigte sich zudem seine Wahrhaftigkeit auf dritter Ebene der Mitverantwortung, als höhere Wahrhaftigkeit als der eines Gehorsams gegenüber militärischen Vorgesetzten im Sinne wahrhaftiger konventioneller Handlungsbegründung. Er soll zudem auch noch das strategische Argument angeführt haben, an welches er selbst jedoch nicht glaubte[13], dass im Falle einer Erschießung, in zukünftigen Fällen die russischen Soldaten sich nicht mehr so leicht ergeben würden. Mit dieser strategischen Lüge war er insofern zwar auf erster und zweiter Ebene unwahrhaftig, jedoch gerade zugunsten seiner Wahrhaftigkeit der Mitverantwortung auf dritter Ebene. Dieses Verhalten ist paradigmatisch für das von ihm als Philosoph später propagierte moralische Verhalten in dem von ihm eingeführten so genannten „Teil B" der Diskursethik. Er weigerte sich auch dann den Befehl auszuführen, als ihm der Vorgesetzte mit entsprechenden Strafmaßnahmen drohte. Dies ist die höchste Form der Wahrhaftigkeit, wenn Sprechende/Handelnde für ihr Tun soweit einstehen hinsichtlich der zu tragenden Mitverantwortung, dass sie dafür ihr eigenes Wohl oder sogar Leben riskieren (Parrhesia). Der Fall ging dann so aus, dass meinem Vater zwar glücklicherweise nichts geschah und er wenigstens aus der Pflicht der Befehlsausübung entlassen wurde, das Leben der Gefangenen aber war dadurch tragischer Weise nicht zu retten. Dies war gewiss eines der erschütternsten Erlebnisse seines Lebens.

    Auch im Alltag des familiären Zusammenlebens habe ich meinen Vater immer nur als wahrhaftig erlebt und ich möchte überdies behaupten, dass er als Wissenschaftler auf der „dritten Ebene" seiner Wahrhaftigkeit, für seine Argumente, Thesen, Behauptungen und Forderungen die volle Selbstverantwortung zur Mitverantwortung übernommen hat.

    Damit meine ich auch, dass man folgende, zuweilen gegen seine philosophische Position – insbesondere seine „Letztbegründung" – vorgebrachte Kritik, strikt zurückweisen kann: Weder ist diese ein Ergebnis von metaphysischem Überschwang, noch von dogmatischer Machtausübung, noch ein Versuch, anderen auf spitzfindige Weise ihre Argumentation abschneiden zu wollen.

    Vielmehr ist seine für die „Letztbegründung entscheidenden Denkfigur der Unhintergehbarkeit des Diskurses und seiner diskursethischen Grundnormen das Ergebnis eines vollkommen wahrhaftigen, mitverantwortlichen Denkens, welches sich – in intellektueller Disziplin und Strenge gegen sich selbst – konsequent der philosophisch notwendigen Zumutung des „Sinngültigkeitsanspruchs (K.-O. Apel) unterwirft. Und das heißt: Sich zu der philosophischen Bescheidenheit zu zwingen, Erkenntnis auf dasjenige zu begrenzen, was – im Sinne der Fortsetzung[14] des kartesischen reflektierten Zweifels, nun als sich selbst einholende Reflexion – bei allem Zweifel nicht bezweifelt werden kann, weil es dem Zweifel selbst (und jeder anderen Erkenntnis) immer schon vorausgesetzt ist.

    Untrennbar mit der Selbstdisziplin, die K.-O. Apel im Sinne eines solchen „wahrhaftigen Ringens um Erkenntnis aufbrachte, hängt auch das dialektische Moment seiner Denkweise zusammen: der Versuch, eigene Gedanken auch aus der Perspektive einer ihm entgegen gesetzten Position zu überprüfen. In der Auseinandersetzung mit anderen philosophischen Positionen führte Apels Dialektik oft zu dem Resultat eines „penser avec …et contre…[15], wie der Titel einer französischen Dissertation über seine Philosophie lautet[16], in welcher er sich sehr gut wiedergegeben fand und die ihm entsprechend gefiel.

    Seine kritisch-dialektische Haltung ging sogar so weit, dass es passieren konnte, dass er gegenüber seinen eigenen philosophischen Thesen die Gegenposition einzunehmen versuchte, wenn man ihm diese nur in eigener voller Überzeugung vortrug.

    Die kontroversiale Denkweise führte im Detail dazu, dass – wie sich an vielen Stellen seiner Arbeit meines Erachtens belegen lässt – einzelne Denkfiguren und Thesen seiner Philosophie in charakteristischer Weise die Komplementarität scheinbar entgegengesetzter Pole aufweisen – besonders exemplarisch die Pole des Transzendentalen und des Pragmatischen in seiner Transzendentalpragmatik.

    Im Alltag führte das allerdings auch dazu, dass, egal welche Position man auch immer zu einem ernsthaften Thema vertrat, man nicht umhin kam, von ihm mit Kritik der Gegenposition konfrontiert zu werden, wozu man nicht immer unbedingt aufgelegt war. Er selbst las täglich die eher konservativ eingestellte Frankfurter Allgemeine Zeitung, um sich über die Gegenargumente seiner eigenen politischen Haltung und ihre relative Berechtigung zu informieren.

    Abschließend kann man über seinen Lebensweg vielleicht sagen, dass dieser von zwei Aspekten maßgeblich geprägt wurde: Zum einen von seinen Erfahrungen aus dem dritten Reich, zum anderen von seinem untrüglichen Sinn für das Wesentliche. Beides drückt sich in den einleitenden Worten seines Aufsatzes: „Zurück zur Normalität? – Oder können wir aus der nationalen Katastrophe etwas Besonderes gelernt haben?" in bezeichnender Weise aus:

    „Als Angehöriger der Generation, welche die nationale Katastrophe der Hitlerzeit noch erlebt hat, gehöre ich auch zu denjenigen, die bei dieser Gelegenheit – d.h. beim Erwachen nach der Katastrophe – an sich selber die „Zerstörung des moralischen Selbstbewusstsein erlebt haben und vielleicht auch aus diesem Grund Philosoph geworden sind.[17]

    In seinen letzten Lebenswochen, als das Krankenhaus-Personal ihn schon nicht mehr im Besitz seiner geistigen Kräfte wähnte, brachte er seine erbärmliche Situation unter dem Aspekt der menschlichen Würde dennoch gezielt auf den Punkt: „Ich möchte doch wieder ein Subjekt sein."

    [1] Mit „Sprech-/Handeln" ist hier Sprechen als Handeln im sprechakttheoretischen Sinne gemeint, sowie auch Handeln, welches als selbstbewusstes, rationales Handeln, im Unterschied zu „affektuellem" (M. Weber) Handeln, aus transzendentalpragmatischer Sicht, immer schon von einer Sprechhandlung begleitet wird.

    [2]Zu dieser Gewissheit siehe Fußnote 5

    [3] Auf die drei verschiedene Ebenen von Wahrhaftigkeit werde ich sogleich zu sprechen kommen.

    [4] Zwar geht auch die Einlösung des „Sinngültigkeitsanspruches" (Apel) der Einlösung anderer Geltungsansprüche voraus, nicht jedoch deren Erhebung! Die Einlösung des „Verständlichkeitsanspruches" (Habermas) geht zwar auch deren Erhebung voraus, aber ohne dass dieser der eigenen Erhebung nochmals vorausginge, wie dies im Falle eines Wahrhaftigkeitsanspruches der Fall wäre. Vielmehr geht der Erhebung des Verständlichkeitsanspruches, wie der Erhebung schlechthin aller Geltungsansprüche, die Einholung der Wahrhaftigkeit des Sprechers voraus, indem der Sprecher wissen muss, was er selber wirklich meint, um überhaupt Geltungsansprüche erheben und einholen zu können.

    [5]Dies Sinnkritischunhintergehbare, prinzipielle Gewissheit über die eigene Wahrhaftigkeit, kann praktisch freilich verdeckt werden. Dies darf aber nicht mit dem prinzipiellen Fallibilitätsvorbehalt verwechselst werden, welcher für die Erhebung von Geltungs-Ansprüchen auf die drei Weltbezüge des Sprechers in seiner Sprechhandlung gilt, so, dass wir etwa doch von einem Wahrhaftigkeits-Anspruch sprechen könnten. Vielmehr gehört die Einholung des Sprechhandlungsmodus der Wahrhaftigkeit zum Wissen-wie des Sprechhandlungswissens jedes kompetenten Sprechers mit welcher er seine Sprechhandlung überhaupt nur durchführen kann.

    [6] Habermas 1981: S.149

    [7] Ebd.

    [8]Habermas hatte den perlokutiven Akt bewusst abgespalten. Ihm war es darum gegangen, die Einverständnisorientierung von Sprechern im Sinne des kommunikativen Handelns, von der Erfolgsorientierung zweckrationalen Handelns abzuheben. Dafür hatte er den perlokutiven Zweck als einen jenseits der sprachimmanenten Zweckverfolgung liegenden Zweck bestimmt, welcher im kommunikativen Handeln angeblich nicht verfolgt würde. Ich möchte hiergegen einwenden, dass aber auch kommunikatives Sprech-/handeln immer sprachexternen Zwecken dient, sofern es um eine rationale Sprech/- Handlung geht. Dies kann hier im Einzelnen nicht weiter dargelegt werden. Für diese sprachexternen Zwecke und ihre Folgen und Nebenfolgen müssen Sprech/- Handelnde deshalb auch dann Verantwortung übernehmen, wenn sie mit einverständnisorientierten Sprechhandlungen nicht „auf andere einwirken (Habermas), sondern sich „mit ihnen über etwas verständigen. Denn in diesem Fall wirken sie mit Anderen gemeinsam auf etwas ein.

    [9]Siehe hierzu: Brune J.P. 2003

    [10] Ich meine, Apel kann bei seiner Einführung des Begriffes der „Mitverantwortung aller Menschen für die Folgen kollektiver Handlungen bzw. Aktivitäten" (z.B. in: Apel 1998, S.808) nicht klarmachen, wieso sich die argumentative Gleichberechtigung aller Diskurspartner auf Wirkung und Folgen von (kollektiven) Handlungen beziehen muss – so dass es zur gemeinsamen Mitverantwortung für diese Folgen kommt – solange er nur von einer performativ-propositionalen Doppelstruktur der Rede ausgeht, bzw. diese nicht um ihre perlokutive Zweckhaftigkeit und Wirkungsmächtigkeit erweitert.

    [11]Trotz prinzipieller Gewissheit seiner Wahrhaftigkeit kann es in der Praxis dem Sprecher freilich vor allem auf der zweiten und dritten Stufe seiner Wahrhaftigkeit entgehen, dass er unwahrhaftig ist. Dies liegt, wie ich hier nur andeuten kann, insbesondere an einer möglichen Verwechslung bzw. Konfundierung von Geltungsansprüchen. Insbesondere dem Angemessenheitsanspruch – m.E. recht eigentlich dem dritten gesuchten Geltungsanspruch des subjektiven Weltbezuges–mit dem Richtigkeitsanspruch und manchmal gar mit dem Wahrheitsanspruch.

    [12] Gegen Habermas möchte ich insofern anführen, dass nicht die sprachexterne Zweckverfolgung einer Sprech-/Handlung ihrer Einverständnisorientierung entgegensteht, sondern vielmehr die Unwahrhaftigkeit der Zweckverfolgung einer Sprech-/Handlung, auf ihrer dritten Wahrhaftigkeitsebene der Mitverantwortung.

    [13] Siehe hierzu Vittorio Hösle im seinem in dieser Sondernummer erschienen Beitrag

    [14] Freilich ist hier eine Fortsetzung innerhalb des sprachpragmatischen „dritten Paradigmas der ersten Philosophie" (K.-O. Apel) gemeint, welche den Descartischen Solipsismus überwindet. Dazu: K.-O.Apel, Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalermeneutica della filosofia moderna, a cura, traduzione e presentazione di Michele Borrelli, Pellegrini, Cosenza2005.

    [15]So auch insbesondere in seinem Buch: K.-O. Apel 1998: Auseinandersetzungen in Erprobung des tranzendentalpragmatischen Ansatzes, Suhrkamp, Frankfurt a.M.

    [16] Martine Le Corre – Chantecaille 2012: Penser avec …et contre…, La pragmatique transcendantale de Karl-Otto Apel: une théorie et une pratique de l’intersubjectivité, éditions de la maison des sciences de l’homme, Paris

    [17] Karl-Otto Apel 1988: „ Zurück zur Normalität? – Oder können wir aus der nationalen Katastrophe etwas Besonderes gelernt haben?" , in: Diskurs und Verantwortung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., S.371

    Ein großer Geist und gesprächiger Gelehrter. Karl-Otto Apel zum Gedächtnis

    Edmund Arens

    Universität Luzern / Schweiz

    (edmund.arens@unilu.ch)

    Abstract

    Im Folgenden kommen biographisch gefärbte Erinnerungen an Karl-Otto Apel zur Sprache. Sie beginnen bei der Beschäftigung mit dessen Schlüsselaufsatz „Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft und die Grundlagen der Ethik" an der Universität Münster sowohl bei dem Theologen Helmut Peukert als auch dem Philosophen Willi Oelmüller. Es schließt sich ein Blitzlicht auf Apels ebenso leidenschaftliche wie präzise Lehre an der Universität Frankfurt an. Als Beispiel für einen unvergesslichen transatlantischen Diskurs wird ein gemeinsames Seminar mit Jürgen Habermas und Charles Taylor zur Sprachphilosophie angeführt. Sodann sind Begegnungen mit der lateinamerikanischen Befreiungsphilosophie im Fokus, in denen die Protagonisten Apel und Enrique Dussel um Geltungsansprüche angesichts von Hegemonie und Peripherie ringen. Den Schluss bildet eine Kurzcharakterisierung des Unikats Apel.

    Schlüsselwörter: Diskursethik, Geltungsansprüche, Kommunikationsgemeinschaft, Universalität, Transzendentalpragmatik, Wahrheitstheorien.

    A great Intellectual and a communicative Scholar.

    Commemorating Karl-Otto Apel

    In the following, biographically coloured memories of Karl-Otto Apel are discussed. They begin with his essay on the apriori of the communication community, which was dealt with by the theologian Helmut Peukert and by the philosopher Willi Oelmüller at the University of Münster. This is followed by a flash of light on Apel’s passionate and precise teaching at the University of Frankfurt. A joint seminar together with Jürgen Habermas and Charles Taylor on the philosophy of language is cited as an example of unforgettable transatlantic discourse. Then the encounter with Latin American philosophy of liberation will be illuminated, in which the protagonists Apel and Enrique Dussel struggle about validity claims in the face of hegemony and periphery. The conclusion consists of a brief characterization of Apel as a unique person.

    Keywords: discourse ethics, validity claims, communication community, universality, transcendental pragmatics, theories of truth.

    Der im Juni 2017 verstorbene Frankfurter Philosoph Karl-Otto Apel war ein Phänomen. Seine Vorlesungen boten rhetorische Leckerbissen und forderten viel. Seine Seminare erschlossen neue Welten des Geistes. Seine Kolloquien waren rigoros kritische Analysen philosophischer Kurzschlüsse und Fehlschlüsse. Apels ausgreifende transzendentalpragmatische Reflexionen luden ein, sich auf das Abenteuer einer rücksichtslos ehrlichen und unbeugsamen Wahrheitssuche einzulassen und die Brisanz und Bedeutung einer konsequent gedachten und performativ immer schon in Anspruch genommenen Ethik wahrzunehmen und ernst zu nehmen.

    Münsteraner Ouvertüre

    Wer in den 1970er Jahren an der Universität Münster Katholische Theologie studierte, kam im Fach Fundamentaltheologie fast unweigerlich mit Apels Philosophie in Berührung. Helmut Peukert, dessen wissenschaftstheoretische Grundlegung fundamentaler Theologie in „Wissenschaftstheorie – Handlungstheorie – Fundamentale Theologie. Analysen zu Ansatz und Status theologischer Theoriebildung"[1] alsbald nach der Veröffentlichung 1976 für Furore sorgte, bot in diesen Jahren an der Theologischen Fakultät Seminare an, die im interdisziplinären Diskurs mit Philosophie, Sozial-, Kommunikations- und Sprachwissenschaften die Grundstrukturen wissenschaftlicher Theoriebildung und Praxis handlungstheoretisch zu eruieren und zu reflektieren suchten.

    In Peukerts Hauptseminaren begegnete uns Studierenden Apels Ansatz als eine die Wissenschaftstheorie des 20. Jahrhunderts auf den ethischen und also praktischen Punkt bringende transzendentalpragmatische Reflexion auf die Konstitution von Wahrheit und Wissenschaft. Apel hat mir gegenüber später verschiedentlich seine hohe Wertschätzung für Peukerts Rekonstruktion der Geschichte der Wissenschaftstheorie des 20. Jahrhunderts zum Ausdruck gebracht, wenngleich er dessen Aufweis der Aporetik von Apels und Habermas Ansatz nicht teilte.

    In Peukerts Seminar „Interaktionspostulate – Grundlagen einer theologischen Wissenschaftstheorie habe ich im Wintersemester 1975/76 ein Referat gehalten zum Thema: „Karl-Otto Apel, Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft und die Grundlagen der Ethik. Das Durcharbeiten des Schluss- und Schlüsselaufsatzes der zwei Jahre zuvor erschienenen zweibändigen „Transformation der Philosophie"[2] hat mich mit dem Apel-Virus infiziert, der mich nach dem theologischen Diplom in Münster zum Weiterstudium nach Frankfurt führte.

    In Münster besuchte ich an der Philosophischen Fakultät regelmäßig Lehrveranstaltungen des Philosophen Willi Oelmüller, der 1978 einen Band „Transzendentalphilosophische Normenbegründungen"[3] herausgab, in dem die Ansätze von Apel, Habermas und Krings zusammen mit deren Protagonisten sowie unter anderem von Vertretern der Ritter-Schule äußerst kontrovers diskutiert werden.

    Oelmüller gab in den 1970er und 1980er Jahren eine Vielzahl von UTB-Büchern, darunter „Philosophische Arbeitsbücher und eine „Diskurs-Reihe heraus, die zum Teil in seinem Doktorandenkolloquium, dem ich 4 Jahre, allerdings ohne die Absicht, bei ihm zu promovieren, angehörte, verschiedentlich eingehend besprochen und erprobt wurden. In einen Band zum „Diskurs: sittliche Lebensformen"[4] hätte der Herausgeber Oelmüller gerne Apels Aufsatz „Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft und die Grundlagen der Ethik aufgenommen, hielt diesen Text allerdings wegen dessen Länge für nicht verwendbar. Ich habe Oelmüller daraufhin angeboten, eine mit den Arbeitsbüchern kompatible Kurzfassung des im Original gut 70 seitigen Apriori-Aufsatzes zu erstellen, da ich Apels Ansatz auch in diesem „Diskurs für unverzichtbar hielt.

    Der Komplexität des Apelschen Textes konnte die Kurzfassung zwar nicht gerecht werden, dafür passte sie in den von der Buchreihe vorgegebenen Rahmen von etwa 20 Druckseiten, wodurch zumindest die Grundzüge von Apels Reflexionen zum Diskurs, zur realen und idealen Kommunikationsgemeinschaft und zum performativen Selbstwiderspruchs als Weg zur Begründung einer Ethik, die wir, wenn wir argumentieren, immer schon voraussetzen und in Anspruch nehmen, in dieses Arbeitsbuch Eingang gefunden haben.[5]

    Im Auge des Taifuns

    Bei Karl-Otto Apel zu studieren, war ein elementares Erlebnis und eine ungeheure intellektuelle Bereicherung. In seinen Vorlesungen, Seminaren und Kolloquien sprühte der Philosoph vor Leidenschaft und Begeisterung, konnte die Zuhörenden mitreißen und sowohl bei philosophischen Höhenflügen als auch bei akademischen Tiefenbohrungen mitnehmen.

    Apels mehrsemestrige Vorlesung über die Paradigmen Erster Philosophie[6], die er als jeweils eine Epoche bestimmende Modelle philosophischer Reflexion verstand, wobei er das in der Antike sowie im Mittelalter paradigmatische Sein, das mit Descartes und bei Kant zum Dreh- und Angelpunkt gewordene Bewusstsein und schließlich die besonders durch Peirce und Wittgenstein bedachte Sprache als nichtarbiträre Sequenz nur dreier möglicher Stufen aufzuweisen suchte. Die transzendentale Semiotik bildet Apel zufolge die dritte und letzte Stufe der Ersten Philosophie. Diese zeige nicht nur im Hegelianischen Sinne, dass in der Geschichte des menschlichen Denkens Fortschritt möglich sei, sondern stelle mit einigen Differenzierungen durch Sub-Paradigmen den Anspruch, dass damit Erste Philosophie im Kern auf den Begriff gebracht und entfaltet worden sei.

    Zu den herausragenden Lehrveranstaltungen gehörten solche, in denen Apel, der Wesentliches zum Brückenschlag zwischen kontinentaler hermeneutischer und anglo-amerikanischer analytischer Philosophie beigetragen hat, den von ihm dem deutschsprachigen Denken erschlossenen Charles Sanders Peirce präsentierte. Auf der Basis und in Weiterführung seines bahnbrechenden Werkes „Der Denkweg von Charles S. Peirce"[7] erkannte Apel in Peirces Semiotik der dreistelligen Zeichenrelation den zentralen Anknüpfungspunkt für seine Transformation der Transzendentalphilosophie. Peirce hatte für ihn mit der relationslogischen Deduktion der drei Fundamentalkategorien Erstheit, Zweitheit und Drittheit, mit seiner Kategorienlehre und Interpretantenlehre den Weg zu einer prinzipiell dreistelligen transzendentalen Semiotik gewiesen. Mit seinem sinnkritischen Realismus, der das Reale als das Erkennbare begreift, hat er den höchsten Punkt der Kantischen Philosophie durch die dessen Funktion bei der Konstitution objektiver Geltung übernehmende, „in the long run zu erreichende „ultimate opinion der „community of investigators"[8] ersetzt. Durch diese habe er Kants transzendentales Subjekt historisiert und den unbegrenzten Forschungsprozess in der unbegrenzten Interpretationsgemeinschaft an die Stelle des Kantischen Bewusstseins überhaupt gesetzt.

    Auf der Grundlage des Peirceʼschen Erweises der prinzipiellen Dreistelligkeit der Zeichenrelation, welche jedes Zeichen konstituiert sieht als eines, das etwas für einen Interpreten bezeichnet, konnte Apel die „reductive fallacy"[9] jeder von einer dieser Zeichendimensionen abstrahierenden Wissenschaftstheorie und Philosophie aufzeigen. Dabei verstand er seine Philosophie zugleich als ideologiekritische Entlarvung solcher fallacies, die er mit Verve und genüsslich betrieb. Die Peirceʼsche Einsicht in die normative Grundlage des Erkenntnisprozesses als einer von dem letzten Ziel der Verständigung aller geleiteten konsensuellen Wahrheitssuche ließ Apel zudem die szientifischen Restriktionen von Peirces Konzeption durchschauen. Von daher vermochte Apel den szientifisch verengten Begriff der scientific community einer vom self-surrender der Wissenschaftssubjekte getragenen community of investigators mit Josiah Royce aufzuheben in den Begriff der universalen „community of interpretation"[10], nämlich der unbegrenzten Kommunikationsgemeinschaft aller vernunftbegabten Wesen.

    Bald nachdem ich zum Sommersemester 1978 von Münster nach Frankfurt gekommen war, lud mich Apel ein, an seinem Doktorandenkolloquium teilzunehmen. Darin traf ich unter anderen auf den ehemaligen Apel-Assistenten Wolfgang Kuhlmann, auf Joachim Leilich, Matthias Kettner sowie den kongolesischen katholischen Priester und Philosophen Ignace Marcel Tshiamalenga Ntumba[11].

    Apel, dem ich davon erzählt hatte, dass ich in Münster bei Johann Baptist Metz im Fach Fundamentaltheologie promovieren wollte, bot mir dann an, stattdessen bei ihm meine Doktorarbeit zu schreiben, da Theologie doch keine Wissenschaft sei, sondern etwas fürs Herz. Er habe selbst ja einmal in Bonn eine beeindruckende Gastvorlesung bei Karl Barth gehört, die seine Auffassung bestätigt habe. Als ich ihm einige Jahre später meine Dissertation zum Thema „Kommunikative Handlungen. Die paradigmatische Bedeutung der Gleichnisse Jesu für eine Handlungstheorie"[12] überreichte, kam er auf die Idee, ich könne doch den ausführlichen philosophischen Teil zur Geschichte pragmatischer Theoriebildung von Peirce bis Apel und Habermas zu einer philosophischen Dissertation ausbauen.

    Für meine Dissertation habe ich bei Apel viel gelernt und vermochte manche Überlegungen im Doktorandenkolloquium einem Härtetest zu unterziehen. Im Kolloquium konnten die Teilnehmenden Apel bei der Verfertigung und Verteidigung seiner neusten Gedanken, Kontroversen und intellektuellen Volten erleben. Der geradezu diskussionssüchtige und stets diskursbereite Apel war ein glänzender und gnadenlos auf seiner Version der Diskurstheorie insistierender Diskutant, der sich in seinen ellenlangen, monologisierenden Ausführungen de facto immer auch als diskurshemmender Meister der Diskurstheorie erwies. Denn er verwickelte sich damit in eben jenen „zu vermeidenden performativen Selbstwiderspruch"[13], dessen Aufdeckung er unermüdlich als Clou der Transzendentalpragmatik herausstellte.

    Frankfurter Gipfeltreffen

    In Frankfurt waren in den 1980er Jahren gemeinsame Seminare der beiden Freunde, philosophischen Partner und Kontrahenten Karl-Otto Apel und Jürgen Habermas zu erleben. Im Wintersemester 1983/84 wurde „Zum Problem der Sprechhandlungen reflektiert und gestritten, im Sommersemester 1986 standen „Wahrheitstheorien auf dem Programm. Dazwischen wurden im Sommer 1984 zusammen mit Charles Taylor „Probleme der Sprachphilosophie traktandiert und im folgenden Jahr mit John R. Searle „Probleme der Sprechakttheorie behandelt. 1988 folgte ein Seminar von Apel und Habermas zusammen mit Richard Bernstein über „Beyond Objectivism and Realism. 1989 endete die Tripple-Besetzung gemeinsam mit Hubert Dreyfus in einem semesterlangen Kolloquium zur „Controversy on Heideggerʼs later Philosophy.[14]

    Zu diesen Veranstaltungen, die in Fachkreisen als Gelegenheiten für philosophische peak experiences galten, kamen fortgeschrittene Studierende, Doktorierende und Habilitierende aus halb Deutschland angereist, um die Matadoren der Kommunikations- und Diskurstheorie im minutiösen und manchmal mikrologischen Diskurs miteinander bei der Feinarbeit an ihren Konzeptionen zu erleben.

    Das Dreierseminar mit Apel, Habermas und Taylor zur Sprachphilosophie war nicht nur für mich ein highlight. Charles Taylor fokussierte seine Ausführungen auf die welterschließende Funktion der Sprache.[15] Er legte dar, dass und inwiefern die Sprache eine konstitutive Funktion für menschliche Handlungen, Gefühle und gesellschaftliche Verhältnisse habe, die er unter den Leitbegriffen der Artikulation und des expressiven Verhaltens fasste. Artikulation bezog er zum einen auf die Artikulation von Gefühlen, Weltansichten und Meinungen, zum anderen auf die Stiftung des gemeinsamen Raumes, der sich von intimen Räumen bis zum öffentlichen Raum erstrecke. Artikulation beziehe sich drittens auf identitätsstiftende Werte, welche menschliche Beziehungen wie Freiheit, Familie etc. konstituieren.

    Taylor unterstrich mit Wittgensteins Sprachspiel die Kontextualität von Sprache, die zugleich mit Humboldt ein Gewebe darstelle. Auf die zwischen ihm, Apel und Habermas strittige Frage, wie Kontext zu verstehen sei, gab er die Antwort: dabei müsse man anthropologisch verfahren. Denn jede Gesellschaft habe ihre eigene Art von Räumen. Apel und Habermas hätten die Hoffnung, es ließen sich allgemeine Züge dieser Räume erarbeiten in einer universalen Topologie illokutionärer Kräfte. Diese Auffassung teile er nicht. Hinter Habermasʼ dreiköpfiger Typologie stecke Max Webers These, dass sich in der modernen Gesellschaft drei Geltungsansprüche unterscheiden lassen. Taylor erklärte Habermasʼ universale Typologie aus anthropologischen Gründen für nicht haltbar. Da Gesellschaften sehr verschieden seien, müsse man bei jeder einzelnen hermeneutisch verfahren. Die Trennung von drei Geltungsansprüchen sei gerade nicht universal, sondern gesellschafts- und kulturbezogen.

    Habermas replizierte, Taylors expressivistische Sprachauffassung, die allein auf die Darstellungsfunktion abhebe, sei nicht in der Lage, die Bedeutung der Sprache für das Welt- und Selbstverständnis zu explizieren und dem öffentlichen Rahmen von Sprache gerecht zu werden. Habermas machte auf die Differenz zwischen der Mannigfaltigkeit verbal realisierter illokutionärer Akte als Oberflächenstruktur und der Tiefenstruktur der drei grundlegenden Geltungsansprüche aufmerksam. Er erkannte die Kontextabhängigkeit an, aber es sei auch nicht auszuschließen, dass man an Lebenswelten universale Aspekte entdecke. Normative Begriffe seien zwar kultur- und gesellschaftsbezogen und insofern partikular, hätten indes einen universalen Kern. Und die Tatsache, dass wir uns einer endlichen Sprache bedienen müssen, nötige uns gleichsam transzendental, das mit auszudrücken, was jenseits der partikularen Sprache universal genannt werden müsse. Für Habermas ist kraft des Universalismus der Geltungsansprüche in diese eine Dynamik auf das Universale hin eingebaut.

    Später unterschied Taylor drei Weisen der Universalität: das für universal Halten einer Norm, die universal gilt, die universale Anwendung sowie die universale Geltung. Apel legte dar, noch fundamentaler als die drei Geltungsansprüche sei der auf interpersonale Sinngeltung. Vor unseren Augen spiele sich eine Konvergenz zwischen dem Pragmatismus und der Hermeneutik ab mit der Betonung des Partikularen und Subjektiven gegenüber universalistischer Gleichmacherei. Die Konstitution und Welterschließung führe einen unweigerlich zurück auf konkrete, beschränkte Perspektiven und Lebensformen. Diese individuellen Lebensformen seien heute zu schützen, aber um dies zu tun, müsse man Geltungsansprüche deutlich machen. Wir bräuchten heute eine universalistische Makroethik, gerade um die Partikularität zu verteidigen und zu schützen.

    Als Apel, Habermas und Taylor sich gegen Ende des Semesters im Seminar über die wahrheitstheoretischen Modelle der Korrespondenz-, der Kohärenz-, der Evidenz-, sowie der Konsenstheorie in die Haare gerieten, habe ich mich zu Wort gemeldet und den drei Protagonisten die Frage gestellt: Was würden Sie tun, wenn jetzt jemand hier herein käme und behauptete: „Ich bin die Wahrheit". Apel sprang wie eine Furie von seinem Sitz auf und sagte nur: Der gehört in die Psychiatrie. Habermas beließ es nicht bei diesem Verdikt, sondern antwortete sinngemäß: Ich würden diesem Herrn versuchen zu erklären, dass wir heute in einer Zeit der Differenzierung der Geltungsansprüche leben, in der der Anspruch der Wahrheit sich auf Aussagen bezieht, aber nicht auf Ich-Äußerungen. Der besagte Herr könne wohl sagen, er sei wahrhaftig, aber nicht, er sei die Wahrheit. Taylor machte es kurz und bündig und erklärte: this is the disclosure of a new reality.[16]

    Begegnungen mit der Befreiungsethik

    Ab Ende der 1980er Jahre gab es eine Reihe von interkontinentalen Tagungen, die der in Deutschland lebende kubanische Philosoph Raúl Fornet-Betancourt organisierte und hernach dokumentierte.[17] Bei diesen, als Seminare bezeichneten transatlantischen Diskursen trafen Karl-Otto Apel und Leute aus seinem Umfeld mit Exponenten der lateinamerikanischen Befreiungstheologie zusammen.

    Apel stand in Lateinamerika in hohem Ansehen. Er wurde geschätzt als überaus profunder Gesprächspartner, der sich auf für ihn unbekannte Denkweisen vorbehaltlos einließ und der der seinen europäischen und angeblich eurozentrischen Auffassungen entgegengebrachten heftigen Kritik argumentativ glänzend Paroli bot. Der Protagonist der Diskursethik wurde wegen seiner Ernsthaftigkeit, seines Engagements und seines nimmermüden Ringens um die möglichst überzeugende Darlegung der theoretischen Erkenntnisse und praktischen Konsequenzen der Transzendentalpragmatik, welche im Kern auf die Gleichheit aller Menschen und die Gerechtigkeit aller Kommunikationsverhältnisse abhebt, enorm geachtet.

    Der argentinische Protagonist der Philosophie der Befreiung, Enrique Dussel, übte auf diversen Tagungen einerseits scharfe Kritik an Apels, der Aufklärung und Moderne verpflichtetem, eurozentrischen Ansatz, eignete sich indes gleichzeitig zentrale Begriffe und Konzepte des Frankfurter Philosophen kongenial an, um damit die übersehene Rückseite der Transzendentalpragmatik deutlich zu machen und zur Geltung zu bringen.

    Dussel buchstabierte etwa die sprechakttheoretischen Begriffe anhand des Sprechakts der Interpellation in der Weise aus, dass er deren auf der ethischen Ebene der Proximität angesiedelten, von den Anderen, Armen und Ausgeschlossenen vorgebrachten Geltungsanspruch dem geltenden Recht konfrontierte, wobei er den in Form von Forderung und Anklage artikulierten Geltungsanspruch der Interpellation begründet sah „aus den transzendentalen ethischen Ansprüchen selbst, die der Würde der Person des Armen zugrundeliegen"[18].

    Gegenüber Apels auf der Sprachlichkeit basierenden Konzeption der realen wie idealen Kommunikationsgemeinschaft stellte Dussel die Wirtschaftlichkeit und mit Blick auf die Armen und Ausgeschlossen die „leidende Körperlichkeit"[19] heraus. Beide seien Gegenstand einer transzendentalen Ökonomie. Die Apelsche Kommunikationsgemeinschaft müsse materialisiert und erweitert werden um die Lebens- und Produzentengemeinschaft. „Wer arbeitet (…), kann zur Einsicht geführt oder durch Selbstreflexion davon überzeugt werden, dass er als Produzent notwendig bereits eine ethische Norm anerkannt hat![20] Wer arbeitet, habe damit anerkannt, dass „der Anspruch auf Gerechtigkeit erfüllt werden kann und muss durch nicht nur technisch angemessene, sondern auch praktisch gerechte Arbeitsakte[21]. Laut Dussel denkt die Philosophie der Befreiung von der Exterritorialität jenseits jeden Systems aus. Sie müsse imstande sein, „ihren Diskurs vom Elend und der Unterdrückung der Peripherie eines weltweiten Kapitalismus her zu entfalten"[22].

    Dem Anliegen Dussels zollte Apel Respekt; in dessen Ausführungen erkannte er „erstaunliche und imponierende Beweise seines Willens und seiner Fähigkeit zur verstehenden Aneignung des Sprachspiels der Diskursethik"[23]. Apel gab zu, die Armutsproblematik nicht genügend berücksichtig zu haben; er wies indes die von Dussel behauptete Transzendentalität der Lebensgemeinschaft und der Ökonomie zurück, sah aber das Anliegen der Befreiungsethik „als eine aktuelle Anwendungsdimension der Diskursethik[24] innerhalb ihres Teils B. Dussel hat sich mit dieser Einordnung nicht zufrieden gegeben und auf die „Priorität der Befreiungsethik gegenüber der Diskursethik[25] insistiert.

    Ungeachtet aller Kontroversen und Kritik war Apel bei den Debatten mit Exponenten der Befreiungsphilosophie in seinem Element. Er wurde respektiert, geachtet und verehrt als „hombre auténtico"[26], als ein Denker, der in seinen Diskursen mit der Befreiungsethik seine Diskursethik auch performativ praktizierte und zur Geltung brachte. An diesen Auseinandersetzungen, die nicht nur dem besseren Argument, sondern auch der gerechteren Praxis verpflichtet waren, hatte Apel seine helle Freude.

    Ein Unikat

    Jürgen Habermas hat Apels Persönlichkeit treffend auf den Punkt gebracht: „Apel verzehrte sich im philosophischen

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