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HENRY JENKINS

CULTURA
CONVERGENTE

J3
Prefazione di Wu Ming
HENRY JENKINS

CULTURA
CONVERGENTE
Cultura Convergente è un saggio
rivoluzionario per molte ragioni. La prima
è un marchio di fabbrica anglo-sassone:
Tessere comprensibile, appassionante,
farcito di prove ed esempi. ... Come per
magia, nelle pagine di questo libro ogni
oscurità concettuale si fa cristallina.
La tecnologia non è Il secondo merito è che il professor Jenkins
la conoscenza profonda si immerge nella cultura popolare
della natura ma la relazione del nostro tempo, fotografa in che modo
fra la natura e Tuomo. le nuove tecnologie la stanno cambiando,
poi torna in superficie e ci mostra
-W alter Benjamin un reportage che in realtà non è sui mezzi
di comunicazione ma su coloro che li usano
per comunicare. Nelle sue foto ci siamo noi.
Henry Jenkins è direttore ... La terza benedizione di questo libro
del Comparative Media Studies
è che va alla radice di molti equivoci
Program del MIT.
e li estirpa, sposta il cuore dei problemi,
da un groviglio inestricabile di banalità
a una nuova prospettiva, un modo
di affrontare le questioni che spiazza
e ridisegna ogni barricata.

dalla "Prefazione" di Wu Ming

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9 788838 787768 € 22,00 APOBEO


Cultura convergente offre una fotografia precisa
dei flussi e delle tensioni che contribuiscono
a modellare lo scenario tecno-sociale, lasciando
intendere, sullo sfondo, le pulsioni culturali
che caratterizzano l'anima di un tale fermento.
Ciò che il testo mostra bene è che una delle figure
emblematiche in cui l'intelligenza collettiva
si declina neirambito delle nuove piattaforme
comunicative, è quella di un'intelligenza emotiva
alla ricerca del piacere ludico e/o della distrazione
estetica, i quali a loro volta si pongono
immediatamente come fondamenti di una nuova
etica basata sul loisir così come su un nuovo
"patto" al di qua e al di là della politica
e della cultura.

La tecnologia non si presenta più come una mera


panoplia di strumenti tramite cui risolvere
problemi, assolvere funzioni o adattare l'ambiente,
assumendo invece il volto di una "tecnomagia"
utile a congiungere soggettività sociali attorno
a vibrazioni emotive, a piaceri info-estetici
e a pulsioni ludiche. Scrivere nuove storie a partire
da questa mitologia postmoderna equivale così
a porre se stessi come piccoli maghi di un mondo
reincantato, di cui il computer è solo la porta
d'ingresso. Un portale dove l'immaginario
collettivo si mette in comune e pressa sul mondo
perché la propria realtà invisibile abbia un seguito
sul terreno del Reale.

dalla "Postfazione" di Vincenzo Susca


Apogeo Saggi
Nella stessa collana:

Edward C. Rosenthal, L’età della scelta


Bruce Sterling, La forma del futuro
Clifford Pickover, Il nastro di Möbius
Chris Nunn, Il fantasma dell’uomo macchina
Pietra Rivoli, I viaggi di una T-shirt nell’economia globale
Stefano Carnazzi, Paola Cristina Magni, Le pere di Pinocchio
Autori Vari, Dopo la democrazia?
Paul E. Ceruzzi, Storia dell’informatica
Christian Remesy, Cosa mangeremo domani
Tom Stafford, Matt Webb, Mente locale
Lelio Camilleri, Il peso del suono
Luis Gresh e Robert Weinberg, Superman contro Newton
J.B.Fogg, Tecnologia della persuasione
Juliet B.Schor, Nati per comprare
Jean-Pierre Boris, Commercio iniquo
Donald A. Norman, Emotional design
Donald A. Norman, Il Computer Invisibile seconda edizione
A. K. Dewdney, La quadratura del cerchio
Robert L.Wolke, Einstein al suo cuoco la raccontava così
Andreas Schlumberger, 50 piccole cose da fare per salvare il mondo
Robert Bruce Thompson, Barbara Fritchman Thompson,
Astronomi per passione
Raoul Chiesa, Silvio Ciappi, Profilo hacker
Ivonne Bordelois, Etimologia delle passioni
M arq De Villiers, Uragano
Normand Baillargeon, Piccolo manuale di autodifesa intellettuale
Henry Jenkins

Cultura convergente

ΑΡΦΕΟ
Cultura convergente

Titolo originale:
Convergence culture

Autore:
Henry Jenkins

Copyright © per l’edizione originale 2006 by New York University


All rights reserved
Prefazione di Wu Ming 1 e Wu Ming 2 © 2007 by Wu Ming 1
and Wu Ming 2
Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara.
“ Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera ad uso
personale dei lettori, e la sua diffusione per via telematica purché non
a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.”

Copyright © 2007 Apogeo s.r.l.


Socio Unico Giangiacomo Feltrinelli Editore s.r.l.
Via Natale Battaglia 12, 20127 Milano (Italy)
Telefono: 02 289981 - Fax: 0226116334
email: apogeo@apogeonline.com - www.apogeoeditore.com

ISBN 978-88-503-2629-7

Traduzione: Vincenzo Susca e Maddalena Papacchioli;


Virginio B. Sala per la Postilla
Impaginazione: Giovanna Frullani
Copertina e progetto grafico: Enrico Marcandalli
Responsabile di produzione: Vitiano Zaini

Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi elettronici, meccanici o
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CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOM M ERCIO, CONFESERCENTI il 18
dicembre 2000.
Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di
pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizza­
zione rilasciata da AIDRO, c.so di Porta Romana, n.108, 20122 Milano,
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2012


da L.e.g.o - stabilimento di Lavis (TN)
In d ic e

Prefazione di Wu Ming vii

Ringraziamenti xvii

In tro d u zio n e xxiii


Capitolo 1 - I guastafeste di Survivor
Anatomia di una comunità del sapere 1
Lo Spoiling come intelligenza collettiva 3
Immagini dallo spazio 9
“ Comunità del sapere blindate” 16
Capitolo 2 - Investire in American Idol
Com e siamo venduti dalla televisione realtà 41
“Impressionami” 47
Lovemarks e capitale emozionale 51
Zapper, casuali e fedeli 58
Parlate tra voi! 64
Come il gossip stimola la convergenza 70
Contestare il voto 74
Capitolo 3 - Inseguendo l’unicorno origami
M atrix e la narrazione transmediale 81
Che cos’è The Matrix? 86
Narrazione sinergica 90
Scrittura collaborativa 99
L’Arte della creazione di mondi 104
Comprensione additiva 119
Capitolo 4 - Star Wars di Quentin Tarantino?
La creatività grassroot incontra l’industria mediatica 131
Cultura popolare, cultura di massa e cultura convergente 135
vi In d ic e

“Ragazzo, diventeremo Jedi!” 140


“Lo Wookie da 500 libbre” 152
Disegna la tua galassia 167
Dove arriveremo? 175
C apitolo 5 - Perché Heather può scrivere
La letteratura mediale e le guerre di Harry Potter 179
Tutti a Hogwarts 182
Verso la rielaborazione della scuola 188
Difesa contro arti magiche 197
Muggles for Harry Potter 204
Cosa farebbe Gesù con Harry Potter? 212
C apitolo 6 - Photoshop per la democrazia
I nuovi rapporti tra politica e cultura popolare 223
“La rivoluzione non sarà trasmessa in Tv” 227
Fan, consumatori, cittadini 238
Intrattenendo il cittadino monitorante 243
Il gioco della politica ad Alphaville 248
Vota nudo 254
Conclusione - Democratizzare la televisione?
La politica della partecipazione 263
Postilla all’Edizione italiana
Estendere la conversazione 287
N ote 325
G lossario 341
N ota finale
La ricreazione della società dello spettacolo 361
P r e fa z io n e

di Wu Ming

N el migliore dei mondi possibili, la pubblicazione di questo li­


bro scuoterebbe come un terremoto il dibattito italiano su Internet
e le nuove tecnologie di comunicazione. Se non produrrà nemme­
no uno scarto, significa che quel dibattere è una parvenza di vita,
finestre sbattute dal vento in una villa disabitata, mortorio al cui
confronto un poltergeist è il Carnevale di Rio.
Cultura convergente è un saggio rivoluzionario per molte ragio­
ni. La prim a è un marchio di fabbrica anglo-sassone: Tessere com­
prensibile, appassionante, farcito di prove ed esempi. Nel testo si fa
spesso riferimento ad autori europei, capaci di brillanti costruzioni
teoriche, ma molto meno dotati nel tradurle in un linguaggio im­
mediato e in pratiche sociali osservabili. Come per magia, nelle pa­
gine di questo libro ogni oscurità concettuale si fa cristallina.
Il secondo merito è che il professor Jenkins si immerge nella
cultura popolare del nostro tempo, fotografa in che m odo le nuove
tecnologie la stanno cambiando, poi torna in superficie e ci m ostra
un reportage che in realtà non è sui mezzi di comunicazione ma su
coloro che li usano per comunicare. Nelle sue foto ci siamo noi.
A questo proposito, occorre fare subito una precisazione im por­
tante.
In Italia per “ cultura popolare” si intende di norma quella folk,
preindustriale o comunque sopravvissuta aH'industrialismo. “ Cul­
tura popolare” sono i cantores sardi o la tarantella.
Chi usa l'espressione in un contesto differente, di solito si riferi­
sce a quella che in inglese si chiama “ populär culture” . Qui da noi
siamo soliti definirla “ cultura di m assa” , espressione che ha un
om ologo anche in inglese (“ mass culture” ), ma Jenkins fa notare
che il nome ingenera un equivoco, e inoltre c’è una sfumatura di si­
gnificato tra “ mass culture” e “ populär culture” .
Vili Pr e f a z io n e

L'equivoco è che la “ cultura di m assa” - veicolata dai mass me­


dia (cinema, tv, discografia, fumetti) - non per forza dev’essere
consum ata da grandi masse: rientra in quella definizione anche un
disco rivolto a una minoranza di ascoltatori, o un particolare gene­
re di cinema apprezzato in una nicchia underground. Oggi la stra­
grande m aggioranza dei prodotti culturali non è di massa: viviamo
in un m ondo di infinite nicchie e sottogeneri. Il mainstream gene-
ralista e “ nazionalpopolare” è meno importante di quanto fosse un
tem po, e continuerà a ridimensionarsi.
La sfum atura di significato, invece, consiste in questo: cultura di
m assa indica come viene trasmessa questa cultura, vale a dire attra­
verso i mass m edia; cultura popolare pone l'accento su chi la rece­
pisce e se ne appropria. Di solito, quando si parla del posto che la
tale canzone o il tale film ha nella vita delle persone (“ La senti? E
la nostra canzone!” ), o di come il tale libro o il tale fumetto ha in­
fluenzato la sua epoca, si usa l’espressione “ populär culture” .
Il problem a è che il dibattito italiano sulla cultura pop novanta
volte su cento riguarda la spazzatura che ci propina la televisione,
come se il “ populär” fosse per forza quello, mentre esistono distin­
zioni qualitative ed evoluzioni storiche, altrimenti dovremmo pen­
sare che “ Sandokan” , “ Star T rek” , “ Lost2, il T G 4 e “ La pupa e il
secchione” sono tutti allo stesso livello, o che Springsteen, i REM ,
Frank Z appa e Shakira vanno tutti nello stesso calderone, o che
non esistono distinzioni tra i libri di Stephen King e quelli delle
barzellette su Totti, dato che entrambi li ritrovi in classifica.
Ci sono due schieramenti l’un contro l’altro armati - e dalle cui
schermaglie dovremmo tenerci distanti: da un lato, quelli che usa­
no il “ popolare” come giustificazione per produrre e spacciare fe­
tenzie; dall’altra, quelli che disprezzano qualunque cosa non venga
consumata da un’élite.
Sono due posizioni speculari, l’una sopravvive grazie all’altra.
Le accomuna l’idea che a fruire della cultura pop siano le masse
mute dell’Auditel, dei sondaggi di mercato, del botteghino.
La terza benedizione di questo libro è proprio questa: va alla ra­
dice di molti equivoci e li estirpa, sposta il cuore dei problemi, da
un groviglio inestricabile di banalità a una nuova prospettiva, un
m odo di affrontare le questioni che spiazza e ridisegna ogni barri­
cata.
Sul finire del 2006, Jenkins ha illustrato sul suo blog
(www.henryjenkins.org) otto caratteristiche fondamentali dello
Pr e f a z io n e ix

scenario dei nuovi media. N on un campionario di strumenti e


dispositivi, ma un insieme di pratiche e tratti culturali che
ritraggono come gli individui e le società si relazionano ai mezzi di
comunicazione.
È interessante notare che nel dibattito nostrano questi 8 ele­
menti sono sì riconosciuti e accettati, ma il più delle volte in un’ac­
cezione triviale, inquietante o stereotipata. Sono quindi un’ottima
m appa per analizzare nel dettaglio proprio il genere di equivoci
che il libro aiuta a scacciare.
Secondo Jenkins, il panoram a mediatico contemporaneo è:

1) Innovativo

N essuno lo nega. La rapidità con la quale nuove tecnologie di


comunicazione nascono, mutano e si mescolano non è in discussio­
ne. Il più delle volte, però, l’estrema velocità del processo è il pre­
testo per dire che nella fretta stiamo perdendo qualcosa - i libri, le
relazioni, la vita vera. I giovani navigano su Internet, giocano alla
Playstation, scaricano musica invece di sviluppare interessi cultura­
li. L ’innovazione tecnologica ci arricchisce sul piano materiale ma
ci depaupera su quello umano, soprattutto se non ci dà il tempo di
digerire, riflettere, scegliere. Simili affermazioni partono da
(pre)giudizi di valore e molto di rado citano esempi chiari e concre­
ti. Al contrario, questo libro illustra centinaia di situazioni reali do­
ve le novità tecniche stimolano la creatività, aprono territori ine­
splorati, aumentano le opportunità espressive, diversificano la pro­
duzione estetica. Forse è vero per qualsiasi epoca, dall’invenzione
della scrittura in avanti, ma ancor di più per quella che ci troviamo
a vivere, sempre più partecipativa, “a bassa soglia d’accesso” , con
un forte stimolo a creare e condividere e la sensazione diffusa che
il proprio contributo “ conti davvero qualcosa” .

2) Convergente

Una delle tesi di questo libro è che la collisione tra diversi me­
dia, vecchi e nuovi, sia più un bisogno culturale che una scelta tec­
nologica. Com puter e cellulari hanno accorpato molteplici funzio­
ni e si sono trasform ati in telefono, televisione, stereo, fotocamera,
X P r e f a z io n e

tutto-in-uno. Eppure nessuno di questi agglomerati ha sterminato i


singoli avversari. Piuttosto sono i contenuti della comunicazione
che vengono declinati in ogni form ato, per potersi spostare da un
mezzo all’altro e ricevere così una distribuzione sempre più capilla­
re e pervasiva. La stessa canzone trasm essa in radio diventa jingle
pubblicitario in televisione, file da condividere sul computer, co­
lonna sonora al cinema, videoclip su YouTube, suoneria del cellu­
lare, slogan su una maglietta. N on c’è un singolo attrattore, com ­
puter o cellulare che sia, capace di trasform are ogni idea in un uni­
co prodotto, fatto di immagine, suono, testo, relazione. Al contra­
rio ogni idea è capace di molte facce, per attirare su di sé strumenti
diversi e attraversarli tutti.
D a noi si parla m olto più di convergenza tecnologica, di m o­
struosi cellulari multifunzione, che di cultura transmediale. Quan­
do poi lo si fa, l’attenzione è sulla strategia delle multinazionali
dell’intrattenimento, interessate a “ spostare” i loro contenuti, co­
me caramelle da un distributore all’altro. Nessuno ragiona sul fatto
che lo stesso interesse è spesso condiviso, sovvertito e praticato in
maniera “ illegale” anche dai consumatori, che m uovono storie,
suoni e immagini da un territorio all’altro. Nessuno accetta l’idea
che questo andirivieni risponda anche a un modello estetico, un
nuovo m odo di raccontare, informare, sabotare, divertire. E solo
marketing. Se sei uno scrittore, devi scrivere un romanzo, un libro
fatto di carta. Tutto il resto - siti web, booktrailer, forum, contenu­
ti extra - è materiale prom ozionale, appendice spuria che puzza di
soldi.

3) Quotidiano

Anche in questo caso, dire che i media e le nuove tecnologie


fanno parte della vita quotidiana è discorso da autobus, a mezza via
tra paura ed eccitazione, schiavitù egiziana e terra prom essa. Q ue­
sta quotidianità ha come sottoprodotto il famigerato multitasking,
lo stato di “ attenzione parziale continuata” che in Italia è la bestia
nera di insegnanti, genitori e intellettuali gentiliani. Pochi ammet­
tono che si tratta di un’abilità necessaria per affrontare il nuovo
ambiente: mantenere un’attenzione diffusa e “ a bassa intensità” su
una molteplicità di stimoli, per poi focalizzarla ad alta intensità
quando uno di questi stimoli si m odifica in maniera significativa,
P r e f a z io n e xi

ovvero ci avverte di prestare “ più attenzione” . Il multitasking an­


drebbe insegnato a chi non ce l’ha nel sangue, non bruciato sul ro­
go. Purtroppo da noi la caccia alle streghe è sempre aperta e ben re­
tribuita.

4) Interattivo

Grazie ai nuovi media, possiam o interagire più in profondità


con suoni, immagini, informazioni. Possiamo determinarne il flus­
so, scegliere in ogni momento cosa vedere o ascoltare; possiam o
archiviare contenuti, usarli in contesti nuovi, modificarli. Spesso il
dibattito su queste opportunità scivola nello stallo tra chi sostiene
che “ tutto ormai si riduce a un mero taglia e incolla” e quanti riten­
gono che la rielaborazione è alla base della creatività. Oltre questo
dilemma stantio, Jenkins m ostra come l’abitudine a (riap p ro p riar­
si di contenuti abbia riportato alla luce un magma di produzioni
amatoriali e creatività diffusa, forme di vita tipiche della “vecchia”
cultura popolare, che erano andate in esilio sotto terra con l’avven­
to dei mezzi di comunicazione di massa.

5) Partecipativo

Fino a vent’anni fa la grande maggioranza del pubblico era sol­


tanto audience e l’unico messaggio che poteva emettere si riduceva
a una scelta binaria: ascolto/non ascolto, consumo/non consumo.
Oggi abbiam o a disposizione diversi canali per far conoscere le no­
stre idee a una platea molto ampia. Certo non basta aprire un blog
o una pagina su myspace: si tratta di una competenza che va appre­
sa e affinata. Senza dubbio è un’abilità che fa la differenza in molti
ambiti lavorativi, e la farà sempre di più.
Purtroppo, invece di interrogarsi su come formare individui che
sappiano maneggiare certi strumenti, si preferisce evocare spettri.
Ultimo esem pio: la “ nuova” ondata di teppismo giovanile - subito
definito cyberbullismo - sarebbe partita da Internet, perché la pos­
sibilità di filmare le proprie bravate, caricarle su YouTube e “ diven­
tare fam osi” , funzionerebbe da incentivo. Stessa cosa per la pedo­
pornografia e altre mostruosità: tra le righe di inchieste in stile fre-
ak show, che accostano fatti e leggende, esperti e ciarlatani, si insi­
XII P r e f a z io n e

nua sempre il dubbio che aprire un sito e attivare una rete di con­
tatti sia troppo facile. Come dire che i circoli neonazisti esistono
perché purtroppo, in Italia, incontrarsi e costituire un’associazione
è un gioco da ragazzi. Così la diffusione libera e trasversale di con­
tenuti diventa di per sé un fenomeno da contenere, ridurre, gestire.
Salvo poi lamentarsi, alla prima occasione, del consumismo passivo
di certi adolescenti.

6) Globale

Le nuove tecnologie ci permettono di interagire in qualsiasi m o­


mento con persone e situazioni, a prescindere dalla collocazione
geografica. In Italia, il più delle volte, questa constatazione serve a
brandire la minaccia di un’omologazione culturale sempre più for­
te. Il rischio esiste, senz’altro, ma perché non puntare lo sguardo
anche su altri scenari, ad esempio l’eventualità, nient’affatto rem o­
ta, che questa situazione faccia aumentare la diversità culturale, co­
me risposta al crescente bisogno di uscire dal provincialismo e di
costruirsi un’identità sempre più ricca e sempre nuova?

7) Generazionale

T ra “ nativi” e “ immigrati” dell’era digitale e partecipativa ci so­


no attitudini m olto differenti, approcci diversi agli stessi media.
Q uesto non significa che le comunità non possano confrontarsi ed
educarsi a vicenda. T roppo spesso si preferisce erigere steccati, in­
sistere su stereotipi come “ i giovani sono tutti smanettoni” oppure
“ i giovani chattano e basta” e via discorrendo. Si prende atto che
per molti aspetti il passaggio di conoscenze ed esperienze da una
generazione all’altra è saltato, dunque andrà tutto in m alora, e co­
m unque “ non c’è più niente da fare” .

8) Ineguale

Quando in Italia si parla di “ digitai divide” lo si fa sempre in ter­


mini tecnologici. Bisogna mettere i computer (e l’informatica) nelle
scuole, bisogna portare la banda larga ovunque, bisogna accendere
Pr e f a z io n e XIII

hot spot per la connessione wireless, e via dicendo. Fatto questo, il


baratro digitale sarà colmato. Come dire che l’analfabetismo è una
questione di diottrie. Alcune persone non sanno leggere perché gli
occhi non gli funzionano bene. Attivando un program m a di “ oc­
chiali per tutti” , il problem a sarà debellato. Purtroppo, l’analfabe­
tismo non si sconfigge nemmeno insegnando l’ABC, così come il
“ digitai divide” non si elimina con i computer o la banda larga e
nemmeno insegnando a usare linguaggi di programmazione e
H TM L.
Certo, se uno ha due gradi di vista, prima di insegnargli a legge­
re dovrò dargli gli occhiali. Certo, se uno non riconosce le lettere,
deve imparare l’ABC. M a poi leggere e scrivere implicano una serie
di competenze più raffinate, così come far parte di una cultura par­
tecipativa non è solo poter navigare a 10 mega al secondo.
Il punto non sono le abilità cognitive. Un quindicenne apre un
program m a qualsiasi, inizia a esplorarlo senza istruzioni e dopo
qualche giorno lo padroneggia. Suo nonno non è in grado di m a­
neggiare uno stereo diverso da quello che ha in casa e per usare la
posta elettronica impiega una settimana di titanici sforzi.
Il vero problem a è che a parità di mezzi e di capacità tecniche,
adolescenti diversi si rapportano alla Rete secondo modalità molto
diverse, tali da collocarli su versanti opposti di un crinale sociale
m olto discriminante.
La proverbiale facilità con la quale i ragazzini utilizzano i nuovi
media fa credere a molti adulti che sia sufficiente fornire loro la
tecnologia giusta per trasformarli in cittadini della nuova società
digitale. In un recente intervento per la MacArthur Foundation,
Jenkins ha criticato proprio questo approccio “ liberista” , dove la
fede nel laissez faire non fa che moltiplicare le ineguaglianze.
Il mito dell’adolescente in simbiosi con le macchine nasconde
una realtà variegata, dove moltissimi ragazzini che hanno il com pu­
ter, la posta elettronica e un software per scaricare musica, non
sanno usare un motore di ricerca per trovare informazioni, notizie,
prodotti. Altri lo sanno usare ma non sono in grado di selezionare,
tra le tante risposte, quella che davvero gli serve, e così desistono
prima di aver trovato davvero quello che cercavano. Altri ancora
trovano ma non sanno di preciso cosa (un conto è copiare un arti­
colo di W ikipedia, un altro è capire che cos’è quella fonte, come
funziona, cosa implica).
XIV P r e f a z io n e

Jenkins individua tre problemi nell’idea che gli adolescenti,


usando Internet, sviluppino da soli le competenze di cui hanno bi­
sogno, così come da soli diventano campioni di videogame o utenti
di YouTube.
Il primo è un problem a di partecipazione: non basta aprire una
porta perché le persone entrino. Per molti la Rete è uno spazio im­
portante, un’esperienza ricca di stimoli, un mezzo da usare in m a­
niera attiva; per altri resta un ambito residuale, poco noto, limita­
to, da consumare in m odo passivo e senza interazioni significative.
Il secondo è un problem a di trasparenza, che si pone già per i
m edia tradizionali. Una qualsiasi notizia di solito è opaca rispetto a
una serie di caratteristiche cruciali: chi la diffonde, per quale pub­
blico, per quale committente, con quali interessi, su quale sfondo
ideologico. Allo stesso m odo, un articolo di W ikipedia non ci dice
nulla sul sapere diffuso e l’intelligenza collettiva, così come una
canzone scaricata in maniera illegale non ci interroga sui temi del
diritto d’autore, il ruolo dell’artista, la diffusione della cultura.
Il terzo è un problem a etico, come evidenzia il cyberbullismo di
cui si parlava prima. Pochi osservano che il problem a non è You­
Tube o le potenzialità della Rete, ma il fatto che ancora non abbia­
mo sviluppato una percezione etica chiara di quale sia la differenza
tra fare uno scherzo a un com pagno di classe; fare uno scherzo e
film arlo; fare uno scherzo, filmarlo e renderlo fruibile da chiun­
que.
Cultura convergente non si occupa di tematiche educative, ma è
com unque evidente in molte pagine lo stimolo ad elaborare e dif­
fondere un nuovo modello di alfabetizzazione mediatica. Ecco la
quarta ragione che rende molto importante l’edizione italiana di
questo lavoro.
N el nostro paese, inutile dirlo, i pochi programmi attivati su lar­
ga scala riguardano la sicurezza. Si cerca di istruire i ragazzi a difen­
dere la propria privacy, a evitare truffe, a filtrare comunicazioni e
pubblicità indesiderate, a reagire in caso di soprusi, tentativi di ade­
scam ento, raggiri. Inoltre, si fa informazione rispetto ai reati che
potrebbero commettere con pratiche largamente diffuse:
dow nload di contenuti protetti, condivisione di file, pubblicazione
di filmati.
N essuno sem bra capace di attivare un confronto sulle “ com pe­
tenze digitali” che sempre più determinano la formazione sociale,
culturale e professionale degli individui. L'Età della Partecipazione,
P r e f a z io n e xv

inaugurata dalla Rete, è carica di promesse: cittadinanza attiva,


consumo consapevole, creatività diffusa, intelligenza collettiva, sa­
peri condivisi, scambio di conoscenze. Tuttavia, se ci si aspetta di
vederla sorgere all’orizzonte come un’alba scontata e inevitabile, si
finirà per trasform arla nel suo contrario, producendo una nuova,
vasta m assa di esclusi.
R in g r a z ia m e n t i

Scrivere questo libro è stato come percorrere un viaggio epico


in buona compagnia. Convergence Culture rappresenta, per molti
versi, il culmine degli ultimi otto anni della mia vita, nonché il ri­
sultato dei miei sforzi nel costruire il Programma di Comparative
M edia Studies del M IT - una sorta di centro di discussione sui
cambiamenti dei media (nel passato, nel presente e nel futuro) - e
di quelli compiuti nell’intento di allargare il dibattito pubblico in­
torno alla cultura popolare e alla vita contemporanea. Un resocon­
to più com pleto di come questo libro sia emerso dai temi trattati in
Textual Poachers: Television Fans and Participatory Culture (1991)
e sia stato plasm ato dalla mia crescita intellettuale dell’ultimo de­
cennio, si può trovare nell’introduzione alla mia antologia Fans,
Gamers, and Bloggers: Exploring Participatory Culture (2006).
Detto ciò, è opportuno ringraziare per primi gli studenti del
Programma di Com parative M edia Studies. Ognuno di loro ha sti­
molato i miei pensieri, ma voglio identificare specialmente quelli
che hanno influenzato il libro in m odo più significativo: Ivan
Askwith, R. J. Bain, Christian Baekkelund, Vanessa Bertozzi, Lisa
Bidlingmeyer, Brett Camper, Anita Chan, Cristobai Garcia, Robin
Hauck, Sean Leonard, Zhan Li, Geoffrey Long, Susannah M andel,
Andrea M cCarty, Parmesh Shanani, Sangita Shresthova, Karen L o­
ri Schrier, David Spitz, Philip Tan, Ilya Vedrashko, M argaret W ei­
gel e M atthew Weise. Voi siete ciò che mi fa alzare al mattino e mi
spinge a lavorare fino a tarda notte. In particolare, voglio ringra­
ziare Aswin Punathambekar, che è stato il miglior assistente di ri­
cerca possibile per il progetto; ha dissotterrato risorse, sfidato le
mie supposizioni e continuato a dedicarsi con passione al progetto,
anche dopo aver lasciato il M IT per il suo dottorato alla University
of W isconsin-Madison.
XVIII R in g r a z ia m e n t i

Ringrazio inoltre i membri dello staff del Com parative M edia


Studies, che si sono resi utili in modi innumerevoli: R. J. Bain, J a ­
son Bentsman, Chris Pomiecko, Brian Theisen, e in special m odo
Susan Stapleton, la cui affettuosa disponibilità e riserva di calma
hanno impedito il compiersi di disastri, e che ha lavorato alla cor­
rezione delle bozze e alla supervisione del progetto.
Tengo anche a ringraziare Philip S. Khoury, Kenan Sahin Dean,
la School of Humanities, Arts and Social Sciences del M IT, che si
sono battuti al mio fianco affinché questo program m a decollasse e
hanno accettato di farsi coinvolgere nel progetto. H anno collabo­
rato alla mia ricerca anche tre cattedre: quella di Ann Fetter Fried-
laender, quella di John E. Burchard e quella di Peter de Florez.
Questo libro è il frutto di numerose conversazioni tra me e Alex
Chisholm durante i lunghi viaggi, le attese mattutine negli aeropor­
ti e gli incontri con i potenziali sponsor. N on essendo sempre com ­
plice della mia follia, Alex ha esaminato a fondo e affinato ogni sin­
golo concetto presente nel libro; ha insegnato a me, che sono un
umanista, a parlare il linguaggio commerciale e in questo m odo a
migliorarmi come analista e critico dei trend mediali contem pora­
nei. Sono debitore nei confronti di Christopher Weaver, mio co­
docente nel seminario “ Populär Culture in thè Age o f M edia C on­
vergence” , il quale ha permesso ai miei studenti (e a me) di entrare
in contatto con figure leader del m ondo dei media e di condividere
esperienze in prima linea che hanno com pletato e com plicato le
mie prospettive teoriche. Voglio citare Kurt Squire, mio assistente
e collaboratore, dal quale ho im parato come i giochi possano indi­
carci lo stato corrente della nostra cultura. Infine, devo ringraziare
tutti coloro che hanno partecipato al progetto di ricerca congiunto
di Initiative M edia e Com parative M edia Studies su American Idol ,
che è il fulcro centrale del Capitolo 3 di questo libro: in particolare
Alex Chisholm, Stephanie Davenport, David Ernst, Stacey Lynn
Koerner, Sangita Shresthova e Brian Theisen.
H o avuto fortuna nel trovare tra i lettori e gli editori di Techno­
logy Review un’ulteriore cassa di risonanza per le mie idee. In par­
ticolare, voglio ringraziare le belle persone che hanno pubblicato
nel corso degli anni la mia rubrica “ Digital Reinassance” : Herb
Brody, Kevin H ogan, Brad King e Rebecca Zacks. Tengo anche a
elogiare David Thorburn, Brad Seawell e il Comm unications Fo­
rum del M IT. Per molti decenni, il Communications Forum ha
portato figure leader dei media al campus, fornendo il giusto con­
R in g r a z ia m e n t i XIX

testo per ragionare sulla direzione intrapresa dai media e sul loro
impatto nella vita pubblica.
Le prime idee per questo libro sono passate attraverso due agen­
ti letterari, Elyse Cheney e Carol M ann, che speravano di trasfor­
marmi in uno scrittore commerciale. Sono state abbastanza franche
e scoraggianti da convincermi a deviare verso il m ondo della stam­
pa universitaria ma, in compenso, ho appreso da loro dei trucchetti
che - spero - hanno reso questo libro più leggibile. M agari un gior­
n o...
Sono grato a molte persone che hanno accettato di farsi intervi­
stare per il libro o che mi hanno aiutato a mettermi in contatto con
i miei intervistati: Sweeney Agonistes, Chris Albrecht, M arcia Al­
ias, M ike Alessi, Danny Bilson, Kurt Busiek, ChillOne, Louise Cra-
ven, M ary Dana, Dennis Dauter, B. K. DeLong, David Ernst, Joh-
naton Fanton, Keith Ferrazzi, Claire Field, Chris Finan, Flourish,
Cari G oodm an, Denis H aack, Hugh Hancock, Bennett Haselton,
J. Kristopher Huddy, Stacey Lynn Koerner, Ralph Koster, David
Kung, Garrett Laporto, M ario Lanza, Heather Lawver, Paul Levi-
tz, John Love, M egan M orrison, Diane Nelson, Shawn N elson,
Dennis O ’ Neil, Chris Pike, David Raines, Rick Rowley, Eduardo
Sanchez, Sande Scoredos, Warren Spector, Patrick Stein, Linda
Stone, Heidi Tandy, Joe Trippi, Steve W ax, Nancy Willard, Will
Wright, N eil Young e Zsenya.
Ringrazio inoltre la moltitudine di amici e colleghi intellettuali
che mi hanno offerto aiuti puntuali e incoraggiamenti: Harvey Ar-
dman, Hai Abelson, Robert C. Allen, T odd Allen, Reid Ashe, W.
Jam es Au, Rebecca Black, Andrew Blau, Gerry Bloustein, David
Bordwell, danah boyd, Amy Bruckman, Will Brooker, David
Buckingham, Scott Bukatman, John Campbell, Justine Cassell, Ed­
ward Castranova, Josh Cohen, Ian Condry, Ron Crane, Jo n Crop-
per, Sharon Cumberland, M arc Davis, Thom as DeFrantz, M ark
Dery, M ark Deuze, Kimberly DeVries, Julian Dibbell, Peter D onal­
dson, Tracy Fullerton, Simson L. Garfinkel, Jam es Gee, Lisa Gitel-
man, Wendy G ordon, N ick Hahn, M ary Beth Haralovich, John
Hartley, Heather H endershott, M att Hills, M imi Ito, M ark Janco-
vich, Steven Johnson, Sara Gwenllian Jones, Gerard Jones, Louise
Kennedy, Christina Klein, Eric Klopfer, Robert Kozinets, Ellen Ku-
shner, Christopher Ireland, Jessica Irish, Kurt Lancaster, Brenda
Laurel, Chap Lawson, Geoffrey Long, Peter Ludlow, Davis Ma-
ston, Frans M ayra, Robert M etcalfe, Scott M cCloud, Grant Me-
XX R in g r a z ia m e n t i

Cracken, Jane M cG onigal, Edward M cNally, T ara M cPherson, J a ­


son M ittel, Janet M urray, Susan J. N apier, Angela Ndlianis, Anna-
lee Newitz, Tasha Oren, Ciela Pearce, Steven Pinker, W arren Sack,
Katie Salens, Nick Sammond, Kevin Sandler, Greg Shaw, Greg
Smith, Janet Sonenberg, Constance Steinkuehler, M ary Stuckey,
David Surman, Steven J. Tepper, D oug Thom as, Clive Thom pson,
Sherry Turkle, Fred Turner, William Uricchio, Shenja van der
Graaf, Jesse W alker, Jing Wang, Yuichi W ashida, David W einber­
ger, Pam W ilson, Femke W olting, Chris Wright ed Eric Zimmer-
man.
Voglio precisare che la separazione di questa lista da quella pre­
cedente è parzialmente arbitraria, poiché molte persone ricorrono
in entrambe.
Ultimo ma non meno importante, voglio ringraziare Henry
Jenkins IV, che ha sempre fornito contributi importanti al mio la­
voro, ma che è stato centrale per lo sviluppo del Capitolo 2 di que­
sto libro, aiutandomi a contattare i fan della community di Survi-
vor; e Cynthia Jenkins, la cui collaborazione, sia personale che p ro­
fessionale, di affetto e di studio, vale molto di più di quanto io non
riesca a dire.
Alcune parti dell’introduzione sono pubblicate in “ The Cultural
Logic in M edia Convergence” , International Journal of Cultural
Studies, prim avera 2004; “ Convergence? I Diverge” , Technology
Review, giugno 2 0 0 1 ; “ Interactive Audiences” , in Dan Harris, The
New Media Book (London, British Film Institute, 2 002); “ Pop Cos-
mopolitanism : M apping Cultural Flows in an Age of M edia C on­
vergence” , in M arcelo M . Suarez-Orozco e Desiree Baolian Qin-
Hilliard, Globalization: Culture and Education in thè New Millen­
nium (Berkeley: University of California Press, 2004); e “W elcome
to Convergence C ulture”, Receiver, febbraio 2005. Il materiale di
questo capitolo è stato presentato durante la New M edia C onfe­
rence, N okea, all’Humlab dell’ Umea University, alla N ew Orleans
M edia Experence e all’Humanities Center della University of Pen­
nsylvania.
Alcune parti del Capitolo 1 sono state pubblicate in “ Conver­
gence is Reality” , Technology Review, giugno 2003. Questo mate­
riale è stato presentato alla G eorgia State University e alla H arvard
University.
Alcune parti del Capitolo 2 sono state pubblicate in “War
G am es” , Technology Review, novembre 2003; “ Convergence is
R in g r a z ia m e n t i xxi

Reality” , Technology Review, giugno 2003; “ Placement, People” ,


Technology Review, settembre 200 2 ; “Treating Viewers Like
Crim inals” , Technology Review, luglio 2002; “ TV Tom orrow ” ,
Technology Review, maggio 2001; “Affective Economics 101” ,
Flow, 20 settembre 2004. II materiale di questo capitolo è stato
presentato alla Georgia State University, al M IT, ESO M AR, e al
Branded Entertainment Forum.
Alcune parti del Capitolo 3 sono state pubblicate in “ Chasing
Bees without thè Hive M ind” , Technology Review, 3 dicembre
20 0 4 ; “ Searching for thè Origami U nicom ” (con Kurt Squire),
Computer Games Magazine, dicembre 2 0 0 3 ; “Transm edia
Storytelling” , Technology Review, gennaio 2 0 0 3 ; “ Pop Cosm opo-
litanism: M apping Cultural Flows in an Age of M edia Convergen­
ce” , in M arcelo M .Suarez-Orozco e Desiree Baolian Qin-Hilliard,
Glohalization: Culture and Education in thè New Millennium,
Barkeley: University of California Press, 2004. Il materiale di que­
sto capitolo è stato presentato alla Northwestern, la University of
W isconsin, la Georgia State University, M IT, Electronic Arts Crea­
tive Leaders Program, e alla IT University of Copenhagen.
Alcune parti del Capitolo 4 sono state pubblicate in “ Quentin
Tarantino’s Star Wars: Digital Cinema, M edia Convergence, and
Participatory Culture” , in David Thornbum e Henry Jenkins, Re-
thinking Media Change: The Aesthetics o f Transition, Cambridge,
MA: M IT Press, 2 0 03; “When Folk Culture M eets M ass Culture”
in Christopher Hawthorne e Andras Szanto, The New Gatekeepers:
Emerging Challenges to Free Expression in thè Arts, New York: N a­
tional Journalism Program, 200 3 ; “Taking M edia in Our Own
H ands” , Technology Review, novembre 2004; “When Piracy Be-
comes Prom otion” , Technology Review, agosto 20 0 4 ; “The Direc­
tor N ext D oor” , Technology Review, marzo 2001. Il materiale di
questo capitolo è stato presentato alla Society for Cinema Studies
Conference, alla M IT Digital Cinema Conference e alla University
of Tam piere.
Alcune parti del Capitolo 5 sono state pubblicate in “Why
Heather Can W rite” , Technology Review, febbraio 2004; “ The
Christian M edia Counterculture” , Technology Review, marzo
2004 (poi ristam pato in National Religious Broadcasters, ottobre
2004); “When Folk Culture M eets M ass Culture” , in Christopher
Hawthorne e Andras Szanto, The New Gatekeepers: Emerging
Challenges to Free Expression in thè Arts, N ew York: National
XXII R in g r a z ia m e n t i

Journalism Program, 2003. Il materiale è stato presentato al Con-


sole-ing Passions e al The Witching Hour.
Alcune parti del Capitolo 6 sono state pubblicate in “ Playing
Politics in Alphaville” , Technology Review, maggio 200 4 ; “ Pho­
toshop for D em ocracy” , Technology Review, giugno 200 4 ; “ Enter
thè Cybercandidates” , Technology Review, ottobre 2 0 0 3 ; “The
Digital Revolution, thè Informed Citizen and thè Culture of De­
m ocracy” (con David Thorburn), in Henry Jenkins e David Thor-
burn, Democracy and New Media , Cambridge, MA: M IT Press,
2 0 0 3 ; e “ Challenging Consensus” , Boston Review, estate 2001. Il
materiale è stato presentato durante gli incontri degli studenti del
M IT a H ouston e a San Francisco, al M IT Communications Fo­
rum, N okea, e al Humlab della Umea University.
In t r o d u z io n e

“ Culto all’altare della convergenza”


Un nuovo paradigma per comprendere il cambiamento mediatico

La storia si diffuse nell’autunno del 2001: Dino Ignacio, uno


studente liceale filippino-americano, creò un collage con Photo­
shop in cui Bert di Sesame Street (1970) interagiva con il leader ter­
rorista O sam a Bin Laden. Era solo un’immagine della serie intito­
lata “ Bert is Evil” (“ Bert è il male” ) che il ragazzo aveva pubblicato
nel suo sito (Figura 1.1). Altre raffiguravano il pupazzo animato nei
panni di un membro del Ku Klux Klan, oppure saltellante al fianco
di A dolf Hitler, o vestito da Unabomber, o nell’atto di fare sesso
con Pamela Anderson. Erano state tutte create per divertimento.
Sulla scia dell’ 11 settembre, un editore del Bangladesh passò in
rassegna il Web alla ricerca di raffigurazioni di Bin Laden da stam­
pare sopra magliette, poster e cartelli anti-americani. Sesame Street
è reperibile in Pakistan solo in un formato localizzato; perciò il
mondo arabo non conosce personaggi come Bert ed Ernie. Può es­
sere che l’editore non abbia riconosciuto Bert, ma, semplicemente,

Visura 1.1 II collage digitale di Dino Ignacio: Bert di Sesame Street e Osama
Bin Laden
XXIV In t r o d u z i o n e

abbia pensato che avesse una buona rassomiglianza con il leader di


Al-Quaeda. La foto finì su un collage di immagini simili che venne
stam pato su migliaia di poster e diffuso in tutto il M edio Oriente.
La C N N riprese la scena incredibile di una folla di contestatori
arrabbiati che marciavano per le strade gridando slogan anti-ame­
ricani mentre sventolavano striscioni raffiguranti Bert e Bin Laden
(Figura 1.2). Alcuni rappresentanti del Children’s Television
W orkshop, creatori della serie Sesame Street, videro il servizio alla
tv e m inacciarono di intraprendere un’azione legale: “ Siamo indi­
gnati che i nostri personaggi vengano usati in m odo così spiacevole
e disgustoso. I responsabili dovrebbero vergognarsi. Stiamo esplo­
rando tutte le vie legali per frenare quest’abuso ed eventuali altri a
venire” . N on era del tutto chiaro contro chi volessero sguinzagliare
i loro avvocati specializzati in proprietà intellettuale: il ragazzino
che all’origine si era appropriato delle loro immagini o piuttosto i
manifestanti estremisti che le avevano sbandierate. Ritornando al
punto di partenza, alcuni fan si divertirono a creare nuovi siti in cui
associavano i vari personaggi di Sesame Street ai terroristi. Dalla
sua cameretta, Ignacio accese una controversia internazionale. I
suoi fotoritocchi fecero il giro del m ondo, a volte passando per i
media commerciali, altre per quelli grassroots , finché non divenne­
ro oggetto di culto. Al crescere della pubblicità aumentava anche la
sua preoccupazione, tanto che alla fine decise di smantellare il sito:
“ Credo che la verità sia semplicemente questa... ‘Bert è il M ale’ e
quel che ne è seguito sono sempre stati frenati e tenuti a distanza
dai grandi media. Questa pubblicazione li ha aperti al pubblico” 1.

Figura 1.2 II collage di Ignacio è comparso a sorpresa nei reportage della


CNN sulle manifestazioni anti-americane dopo Vi 1 settembre.
In t r o d u z i o n e xxv

Benvenuti nella Cultura Convergente, dove i vecchi e i nuovi me-


dia collidono, dove si incrociano i media grassroots e quelli delle
corporation , dove il potere dei produttori e quello dei consumatori
interagiscono in modi imprevedibili.
Questo libro tratta della relazione fra tre concetti: convergenza
mediatica, cultura partecipativa e intelligenza collettiva.
Per “ convergenza” intendo il flusso dei contenuti su più piatta­
forme, la cooperazione tra più settori dell’industria dei media e il
migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze di
intrattenimento. “ Convergenza” è una parola che tenta di descrive­
re i cambiamenti sociali, culturali, industriali e tecnologici portati
da chi comunica e da ciò che pensa di quello di cui parla. (In questo
testo m escolerò e confronterò tra loro i termini, attraversando i lo­
ro vari sistemi di riferimento. H o aggiunto un glossario alla fine del
libro come guida per i lettori.)
Nel m ondo della convergenza mediatica, ogni storia importante
viene raccontata, ogni marchio viene venduto e ogni consumatore
viene corteggiato attraverso le molteplici piattaforme mediatiche.
Pensiamo ai circuiti attraverso i quali hanno viaggiato le immagini
di “Bert è il m ale” - da Sesame Street passando per Photoshop al
World Wide Web, dalla cameretta di Ignacio a una tipografia in
Bangladesh, dai poster in mano ai dimostranti anti-americani che
sono stati immortalati dalla C N N ai salotti degli spettatori di tutto
il mondo. Parte di questa circolazione è il frutto di precise strategie
delle corporation , come l’adattamento locale di Sesame Street piut­
tosto che la copertura globale della C N N . Un’altra sua buona par­
te, però, dipende dalle tattiche di appropriazione grassroots , sia in
Nord America che in M edio Oriente.
La diffusione di tali contenuti - attraverso diversi sistemi ed
economie concorrenziali dei media, e oltre i confini nazionali - si
deve m olto alla partecipazione attiva dei consumatori. In questa se­
de voglio contestare l’idea secondo la quale la convergenza sarebbe
essenzialmente un processo tecnologico che unisce varie funzioni
all’interno degli stessi dispositivi. Piuttosto, essa rappresenta un
cambiamento culturale, dal momento che i consumatori sono sti­
molati a ricercare nuove informazioni e ad attivare connessioni tra
contenuti mediatici differenti. Questo libro tratta del lavoro - e del
gioco - che gli spettatori mettono in opera nel nuovo sistema dei
media.
XXVI In t r o d u z i o n e

L ’espressione “ cultura partecipativa” contrasta con le vecchie


nozioni di spettatore passivo. Anziché continuare a parlare dei pro­
duttori e consum atori come se occupassero ruoli diversi, oggi po­
tremmo considerarli come interagenti, secondo dinamiche di azio­
ne che nessuno di noi ha ancora chiaramente capito. N on tutti i
partecipanti si equivalgono, le grandi aziende, e gli individui al loro
interno, possono ancora esercitare un potere m aggiore rispetto ai
consum atori singoli o anche aggregati. E alcuni di questi ultimi
hanno m aggiori abilità nel partecipare a questa cultura emergente
rispetto ad altri.
La convergenza non avviene tra le attrezzature dei media - per
quanto sofisticate possano essere - ma nei cervelli dei singoli con­
sumatori nonché nelle loro reciproche interazioni sociali. Ognuno
di noi si crea una sua personale m itologia dalle unità e dai fram ­
menti di informazione estratti dal flusso mediatico e trasform ati in
risorse da cui trovare il senso della propria vita quotidiana. Visto
che abbiam o a disposizione, su qualsiasi tema, più dati di quelli che
ognuno di noi può immagazzinare da solo, siamo maggiormente
incentivati a parlare tra noi dei media che fruiamo. Questo parlare
crea un rumore che il mondo dei m edia sta cominciando a valutare
sempre di più. Il consum o si trasform a in un processo collettivo:
questo è ciò che nel libro si intende per “intelligenza collettiva” ,
termine coniato dal cyberteorico francese Pierre Lévy. Nessuno di
noi sa tutto; ognuno di noi sa qualcosa; possiam o mettere insieme
i pezzi se uniamo le nostre conoscenze e capacità. L ’intelligenza
collettiva può essere vista come una fonte alternativa di potere me­
diatico. Stiamo im parando a usare questo potere attraverso le inte­
razioni quotidiane all’interno della cultura convergente. In realtà,
finora lo abbiamo usato solo per scopi ricreativi, ma presto saremo
in grado di svilupparlo per obiettivi più “ seri” . Questo libro esplo­
ra come la costruzione collettiva del significato stia iniziando a
cambiare l’agire e il significato della religione, dell’educazione, del­
la legge, della politica, della pubblicità e delle forze armate.

Dibattito convergente

Un’altra istantanea della cultura convergente in azione: nel di­


cembre 2004, il tanto atteso film di Bollywod Rok Sako To Rok Lo
(2004) fu proiettato in versione integrale per gli appassionati di ci­
In t r o d u z i o n e XXVII

nema a Delhi, Bangalore, Hyderabad, M umbay e in altre parti


dell’ìndia, tramite telefonini ED G E abilitati al videostreaming. Era
la prim a volta che un film intero veniva trasmesso via telefono
cellulare2. Resta da vedere come questo genere di distribuzioni pos­
sano avere un impatto sulla vita delle persone. Sostituiranno la pra­
tica dell’andare al cinema o saranno solo un m odo per avere un as­
saggio del film che poi verrà fruito in altri modi? Chi può saperlo?
N el corso degli ultimi anni, molti di noi hanno potuto vedere
come i telefonini siano diventati centrali per le strategie di distribu­
zione di pellicole commerciali in giro per il m ondo; i film prodotti
per il telefonino hanno partecipato ai festival internazionali di ci­
nema, i loro utenti hanno potuto usare il mezzo per ascoltare gran­
di concerti; scrittori giapponesi hanno potuto trasmettere a punta­
te i loro lavori via instant messenger e i giocatori hanno usato di­
spositivi mobili per giochi di realtà intensificata e alternativa. Alcu­
ne di queste funzioni prenderanno piede, altre, come di consueto,
falliranno.
Chiamatemi pure antiquato. La settimana scorsa volevo com ­
prare un telefono cellulare - sapete, semplicemente per chiamare.
Non volevo una videocamera né una fotocam era o uno strumento
di accesso al Web, un lettore mp3 o un videogame. Non volevo
neppure qualcosa che mi mostrasse anteprime di film, offrisse suo­
nerie personalizzate o permettesse di leggere romanzi. N on volevo
l’equivalente elettronico di un coltellino svizzero. Q uando il telefo­
no squilla, non voglio sprecare tempo a cercare di capire quale bot­
tone schiacciare per poter rispondere. Desideravo soltanto un tele­
fono. I venditori mi hanno preso in giro e hanno riso alle mie spal­
le. M i è stato detto, com pagnia dopo compagnia, che non fanno
più telefoni con una singola funzione. N essuno li vuole più. Questa
è una potente dimostrazione della centralità della telefonia mobile
nel processo di convergenza tra media.
Probabilmente vi capita spesso di sentire parlare di convergenza
in questo periodo. Sappiate che in futuro ne sentiremo parlare
sempre di più.
Le industrie dei media stanno subendo un altro cambio di para­
digma. Questo avviene in maniera ciclica. Negli anni Novanta, la
retorica sull’imminente rivoluzione digitale aveva come presuppo­
sto, implicito o esplicito, che i nuovi media avrebbero scalzato i
vecchi, Internet avrebbe rimpiazzato il broadcasting e tutto ciò
avrebbe facilitato un accesso personalizzato ai contenuti da parte
XXVIII In t r o d u z i o n e

dei consumatori. Un best-seller del 1990, Essere digitali di N icho­


las N egroponte, tracciò la linea di contrasto tra i “vecchi media
passivi” e i “nuovi media interattivi” , presagendo il collasso delle
reti broadcast a favore del narrowcasting e dei media on demand :
“ Quello che succederà alla tv broadcasting da qui a cinque anni è
così fenomenale da essere difficile da capire” 3. In un punto l’autore
ipotizza che non ci sarà bisogno di nessuna legislazione governativa
per frantumare i conglomerati mediatici: “ Gli imperi monolitici
dei mass media si stanno dissolvendo in una serie di piccole indu­
strie... I baroni odierni si aggrapperanno avidamente ai loro imperi
centralizzati dom ani... Le forze umane e quelle tecnologiche com ­
binate insieme daranno una forte mano al pluralismo meglio di
quanto possa fare qualsiasi legge del Congresso” 4. E già accaduto
che le imprese di nuovi media abbiano parlato di convergenza, ma
con questo termine facevano riferimento al fatto che i vecchi media
sarebbero stati assorbiti completamente dall’orbita delle tecnologie
emergenti. George Gilder, un altro sostenitore della rivoluzione di­
gitale, ha così m odificato il tiro: “ L ’industria informatica sta con­
vergendo con quella televisiva nello stesso senso in cui l’autom obi­
le convergeva col cavallo, la TV con il teatrino, i program mi di
scrittura elettronica con la macchina da scrivere, i CAD con il tavo­
lo da disegno e il desktop Publishing digitale convergeva con li­
notype e rilievografia”5. Secondo Gilder, il computer non è venuto
per trasform are la cultura di m assa, ma per distruggerla.
Lo scoppio della bolla delle dot-com ha quindi gettato acqua
fredda sul dibattito a proposito della rivoluzione digitale. O ra inve­
ce la convergenza è riemersa come un importante punto di riferi­
mento attraverso cui le società di vecchi e nuovi media provano a
immaginare il futuro delPindustria dell’intrattenimento. Se il para­
digm a della rivoluzione digitale dava per scontato che i nuovi me­
dia avrebbero spiazzato i vecchi, quello della convergenza suppone
che entrambi interagiranno in modi ancora più complessi. Il para­
digm a della rivoluzione digitale sosteneva che i nuovi media avreb­
bero cambiato tutto. D opo il crollo delle dot-com invece quasi tutti
sembravano pensare che i nuovi m edia non avessero cambiato nul­
la. Com e spesso avviene per le analisi dei media contemporanei, la
verità sta nel mezzo. Sempre di più, le industrie leader stanno tor­
nando alla convergenza come m odo di dare senso a un momento di
cambiamento disorientante. Essa è, perciò, un vecchio concetto
che sta assumendo nuovi significati.
In t r o d u z i o n e XXIX

N ell’ottobre 2003 si è parlato molto di convergenza al New Or­


leans M edia Experience. L’iniziativa fu organizzata dalla HSI Pro­
ductions Inc., impresa di N ew York produttrice di video musicali e
pubblicità. La HIS si è impegnata a spendere 100 milioni di dollari
nei successivi cinque anni per fare di New Orleans la M ecca della
convergenza mediatica come Slamdance lo è divenuta per il cinema
indipendente. Il New Orleans M edia Experience è qualcosa di più
che un festival del cinema; è anche una vetrina per i nuovi giochi,
videoclip e spot pubblicitari, una rassegna di concerti e spettacoli
teatrali, così come una tre giorni di incontri e dibattiti con le indu­
strie leader del settore.
All’interno dell’auditorium, dei poster enormi raffiguranti oc­
chi, orecchie, bocche e mani esortavano a partecipare al “ culto
all’Altare della Convergenza” , ma non era chiaro davanti a quale
dio essi intendessero genuflettersi. Era il Dio del N uovo Testam en­
to che aveva prom esso loro la salvezza? O era il Dio del Vecchio
Testam ento che minacciava distruzione se non avessero rispettato
le sue Leggi? Era un dio dai mille volti che parlava come un oracolo
e chiedeva sacrifici? Forse, in conformità con il luogo, la conver­
genza era una divinità vudù che poteva dar loro il potere di inflig­
gere dolore ai loro nemici?
Com e me, i partecipanti erano venuti a N ew Orleans con la spe­
ranza di riuscire a scorgere il futuro prima che fosse troppo tardi.
M olti erano miscredenti rimasti bruciati dal fuoco di paglia delle
dot-com ed erano lì per schernire qualsiasi pronostico. Altri erano
usciti di recente dalle migliori business scbool americane e si trova­
vano in quel luogo per cercare il modo di diventare milionari. Altri
ancora erano lì perché inviati dai loro capi, che dovevano illumina­
re; ma in realtà avevano solo l’intenzione di trascorrere una buona
serata nel Quartiere Francese.
L ’atm osfera, visti i pericoli legati alle accelerazioni imprudenti,
si manteneva cauta, come testimoniato dai campus da città fanta­
sma nella Bay Area, e dai mobili da ufficio venduti a prezzi di rea­
lizzo su eBay. N on sono d’altra parte inferiori i pericoli insiti nel
muoversi troppo lentamente di fronte al mutamento, come mostra
il caso delle case discografiche nel loro disperato tentativo di chiu­
dere la porta alle minacce del file sharing. Ovviamente a buoi già
scappati dalla stalla. I partecipanti erano quindi arrivati a New O r­
leans alla ricerca della “ soluzione giusta” - gli investimenti giusti,
le giuste previsioni e i giusti modelli di affari. M a disperando di ca-
XXX In t r o d u z i o n e

vaicare Tonda favorevole del cambiamento, si accontentavano di


rimanere a galla. I vecchi paradigmi crollavano più velocemente ri­
spetto alPemergere dei nuovi, e ciò procurava panico in coloro che
erano più coinvolti nello status quo e curiosità in quelli che vede­
vano il cambiamento come un’opportunità.
Agenti pubblicitari in abiti gessati si mescolavano a rappresen­
tanti dell’industria musicale con i cappellini da baseball indossati al
contrario, agenti di H ollyw ood in camicia hawaiana e tecnologi
con la barbetta e giocatori dai capelli arruffati. La sola cosa che tut­
ti sembravano sapere era come scambiarsi biglietti da visita.
Com e era rappresentato nei manifesti del N ew Orleans M edia
Experience, la convergenza era un party alla “ vieni come sei” , e al­
cuni degli invitati erano meno pronti all’evento rispetto ad altri. Si
trattava anche di un incontro di scambio dove ciascuna industria
dello spettacolo scambiava con le altre problemi e soluzioni, tro­
vando nella interazione con gli altri m edia le risposte che non si po­
tevano più raggiungere in stato di isolamento. In ogni discussione,
emergevano diversi modelli di convergenza seguiti dall’ammissione
che nessuno sapeva per certo a quali risultati avrebbero portato.
D opodiché, tutti si aggiornavano per un veloce giro di Red Bull
(uno degli sponsor dell’iniziativa), come se quegli strani drink
energetici potessero aiutare a superare tutti quegli ostacoli.
Per gli economisti politici e i guru del mondo degli affari la con­
vergenza è un termine che suona m olto semplice. Essi consultano i
grafici che illustrano la concentrazione proprietaria dei media co­
me se questi assicurassero che tutte le parti nel prossim o futuro la­
voreranno insieme per ottenere il massimo profitto. M olti giganti
dei media, in realtà, si com portano come una famiglia disfunziona­
le, i loro membri non si parlano e seguono i loro impegni a breve
termine anche a scapito di altre divisioni nella stessa compagnia. A
N ew Orleans, comunque, i rappresentanti di diverse aziende sem­
bravano disponibili a mettere da parte visioni egoistiche in favore
di prospettive comuni.
L ’evento fu salutato come l’opportunità, per il pubblico genera­
le, di scoprire di prima mano i cambiamenti a venire nel mondo
dell’informazione e dell’intrattenimento. Accettando un invito a
un dibattito o m ostrando la disponibilità ad “ ammettere in pubbli­
co ” i loro dubbi e le loro ansie, le industrie leader stavano dando
atto dell’im portanza del ruolo che i comuni consum atori potevano
svolgere, non semplicemente nell’accettare la convergenza, ma nel
In t r o d u z i o n e XXXI

guidarne lo sviluppo. Se negli ultimi anni il mondo dei media è


sembrato essere in guerra con i consumatori, forzandoli a ricoprire
il loro vecchio ruolo e richiamandoli al rispetto delle regole, le im­
prese speravano di sfruttare l’evento di New Orleans per giustifica­
re la loro linea di condotta di fronte a clienti e azionisti.
Purtroppo, anche se non si è trattato di un evento a porte chiu­
se, è come se lo fosse stato. Il poco pubblico che vi ha assistito era
male informato. D opo un intenso dibattito sulla sfida dell’allarga­
mento dell’uso della console da gioco, il primo fra i presenti in sala
che alzò la mano per intervenire era semplicemente interessato a
sapere quando sarebbe uscita la versione per X b ox di Grand Theft
Auto III. E anche vero, del resto, che non si può biasimare l’utente
perché non sa usare il nuovo linguaggio o fare domande interessan­
ti e pertinenti, se in precedenza non ci si è sforzati di educarlo al
pensiero della convergenza.
A un dibattito sulle consolle da gioco, si percepiva una grande
tensione tra la Sony (azienda di hardware) e la M icrosoft (azienda
di software); entrambe avevano piani ambiziosi ma visioni e m o­
delli d ’affari fondamentalmente diversi. Tutti erano d ’accordo sul
fatto che la sfida vera consistesse nell’espandere gli usi potenziali di
questa tecnologia economica e facilmente accessibile, così che essa
potesse divenire la “ scatola nera” , “ il cavallo di T ro ia” che poteva
consentire l’ingresso della cultura della convergenza direttamente
nelle case della gente. C osa faceva la mamma con la console quan­
do i bambini erano a scuola? C osa spingeva una famiglia a regalare
la console al nonno per Natale? Alla Sony avevano la tecnologia
che portava alla convergenza ma non riuscivano a immaginare per­
ché qualcuno potesse volerla.
Un altro dibattito trattava della relazione tra i videogame e i me­
dia tradizionali. Sempre di più, i mogul del cinema vedevano i gio­
chi non soltanto come uno strumento per stampare in esclusiva il
proprio logo su prodotti secondari, ma come un mezzo per amplia­
re l’esperienza della narrazione. Questi registi erano cresciuti con i
videogame e avevano delle idee specifiche a proposito delle inter­
sezioni creative tra i media; conoscevano i designer più abili e li vo­
levano come collaboratori nei loro lavori. Volevano usare i giochi
per esplorare idee che non potevano trovar posto in due ore di
film.
Tali collaborazioni com portavano che ciascuno uscisse dalla
propria “ zona di com petenza” , come spiegò un agente cinemato­
XXXII In t r o d u z i o n e

grafico. Questi rapporti erano difficili da sostenere perché ciascuna


delle parti in gioco temeva di perdere il controllo della creatività,
dato che i tempi di sviluppo e distribuzione dei prodotti erano ra­
dicalmente diversi. L’azienda produttrice di giochi doveva forse
adattare i suoi tempi a quelli spesso imprevedibili dei cicli di pro­
duzione cinem atografica, sperando di poter uscire nei negozi lo
stesso fine settimana in cui il film era proposto nelle sale? O, vice­
versa, i produttori cinematografici avrebbero dovuto attendere i
tempi altrettanto imprevedibili dello sviluppo dei giochi mentre i
loro concorrenti li sorpassavano? E il gioco sarà fatto uscire dopo
settimane o mesi, quando è già scemato il rumore del film o no?
Che succede se, peggio ancora, il film è stato un flop? Il gioco deve
forse divenire una parte della prom ozione pubblicitaria progressi­
vamente montante in vista di un’uscita importante nelle sale, anche
se questo dovesse significare che il suo sviluppo deve iniziare ancor
prim a che il progetto del film abbia avuto il “ via libera” da uno stu­
dio? Lavorare in una casa di produzione televisiva è ancora più
snervante perché il tempo di risposta è ancora più ridotto e il ri­
schio che le serie non vengano mai trasmesse sempre più alto.
Se gli operatori dell’industria dei giochi avevano la comica con­
vinzione di poter controllare il futuro, i personaggi dell’industria
musicale, da parte loro, tremavano; avevano i giorni contati, a me­
no che non fossero riusciti a invertire le tendenze in atto (calo di
pubblico e di vendite, crescita della pirateria). Il dibattito sulla
“ monetarizzazione della musica” era uno dei più attesi. Ognuno
provò a dire la sua, ma nessuno era certo che la propria “ risposta”
avrebbe funzionato. Gli introiti futuri verranno dalla gestione dei
diritti, dai pagamenti degli utenti che scaricano musica dalla rete, o
da una tassa che i server dovranno pagare all’industria musicale nel
suo insieme? E che ne sarà delle suonerie dei telefonini (che qual­
cuno vedeva come un m ercato inesplorato per la musica nuova, e
anche come un canale di prom ozione grassroots)} Forse il denaro
si troverà all’intersezione tra i vari media: i nuovi artisti saranno
prom ossi dai videoclip pagati dagli inserzionisti interessati a sfrut­
tarne le immagini e i suoni per il loro marchio, nuovi artisti saran­
no scoperti attraverso il Web, dove il pubblico può manifestare le
proprie preferenze in ore anziché che in settimane.
Si passava così velocemente da un dibattito a un altro. Il N ew
Orleans M edia Expérience ci ha spinti verso il futuro. Ogni sentie­
ro per giungervi era lastricato di ostacoli, molti dei quali apparen­
In t r o d u z i o n e XXXIII

temente insormontabili, ma ci sarà comunque un m odo per aggi­


rarli e scavalcarli nel prossimo decennio.
I messaggi erano chiari:

1. la convergenza sta arrivando, ed è bene prepararsi;

2. la convergenza è più difficile di quello che sem bra;

3. riuscirem o a sopravvivere solo se lavorerem o insieme.


(P urtroppo, questa era l’unica cosa che nessuno sapeva
com e fare.)

Il profeta della convergenza

Se la rivista Wired ha dichiarato M arshall M cluhan il santo pa­


trono della rivoluzione digitale, da parte nostra potremmo descri­
vere lo scienziato politico del M IT Ithiel de Sola Pool come il pro­
feta della convergenza. Il libro di Pool Tecnologie di libertà (1983)
è stato probabilmente il primo testo in cui è stato esposto il concet­
to di convergenza intesa come forza di cambiamento all’interno
dell’industria dei media:

un processo chiamato la “convergenza dei processi” sta confondendo


i confini tra media, anche tra quelli delle comunicazioni punto a pun­
to, come telefono e telegrafo, e le comunicazioni di massa, come stam­
pa, radio e televisione. Un singolo strumento fisico - che sia cablato,
a fili o via etere - può offrire servizi che in passato erano resi da mezzi
separati. Al contrario, un servizio che era dato da un unico mezzo -
che fosse il broadcasting, la stampa o il telefono - oggi può provenire
da mezzi diversi. In questo modo si sta erodendo il rapporto uno a uno
che esisteva tra uno strumento e il suo uso.6

Oggi qualcuno preferisce parlare di divergenza invece che di


convergenza, m a Pool aveva capito che si trattava di due facce di
una stessa medaglia.
“ C ’erano una volta” , spiegava, “ aziende che pubblicavano gior­
nali, riviste, libri e facevano poco altro. Il loro impegno per altri
media era m inim o” 7. Ogni medium aveva funzioni e mercati distin­
ti, era regolato da norme diverse in base alla sua centralizzazione o
decentralizzazione, caratterizzato da scarsità o da abbondanza, d o ­
XXXIV In t r o d u z i o n e

minato da informazione oppure intrattenimento, di proprietà pri­


vata o pubblica. Pool riteneva che tutte queste differenze fossero
ampiamente il prodotto di scelte politiche e si mantenessero per
abitudine e non per caratteristiche essenziali delle varie tecnologie.
Riusciva comunque a vedere che alcune tecnologie della comunica­
zione favorivano meglio di altre il pluralismo e la partecipazione:
“ La libertà è al sicuro quando i mezzi di comunicazione sono diffu­
si, decentralizzati e facilmente accessibili, come nel caso della stam­
pa e dei microcomputer. Il controllo, invece, è più probabile quan­
do i media sono concentrati, monopolizzati e poco numerosi, come
nel caso dei grandi network”8.
In ogni caso, molte forze hanno iniziato ad abbattere i muri che
separano i diversi media. Le nuove tecnologie permettono a uno
stesso contenuto di viaggiare attraverso diversi canali e di assum e­
re, al punto di ricezione, molte forme diverse. Pool stava descriven­
do ciò che Nicholas N egroponte chiama la trasform azione di “ ato­
mi in byte” o digitalizzazione9. Allo stesso tempo, i nuovi assetti
proprietari cross-mediali che si definirono a partire dalla metà de­
gli anni Ottanta - periodo che oggi possiam o considerare come la
prim a fase del lungo processo di concentrazione dei media - rende­
vano più vantaggiosa per le imprese la distribuzione dei contenuti
sui vari canali a disposizione piuttosto che su una singola piattafor­
ma. Il digitale fissa i presupposti per la convergenza mentre i con­
glomerati di corporation ne determinano gli obblighi.
M olto di quello che è stato scritto a proposito della cosiddetta
“ rivoluzione digitale” presupponeva che l’esito del cambiamento
tecnologico fosse più o meno inevitabile. D ’altra parte, Pool ha
predetto un lungo periodo di transizione, durante il quale i vari si­
stemi mediatici avrebbero gareggiato e collaborato, alla ricerca di
una stabilità che sarebbe sempre sfuggita loro: “ La convergenza
non significa la definitiva stabilità o unità. Essa opera come una
forza di unificazione costante ma sempre in dinamica tensione con
il cam biam ento... Non esiste una legge immutabile di crescita della
convergenza; il processo di cambiamento è più com plesso” 10.
Com e previsto da Pool, siamo in un’era di transizione mediale
segnata da decisioni tattiche e conseguenze accidentali, segnali
confusi e conflitti di interessi, e soprattutto dalla presenza di dire­
zioni ipotetiche e di risultati imprevedibili11. Vent’anni dopo tali
afferm azioni, mi trovo a riesaminare alcune questioni centrali che
Pool aveva sollevato: come mantenere il potenziale di cultura par­
In t r o d u z i o n e xxxv

tecipativa in vista di una crescita della concentrazione dei media e


se i cambiamenti apportati dalla convergenza aumenteranno le o p ­
portunità di espressione oppure espanderanno il potere dei grandi
media.
Pool studiò l’impatto della convergenza sulla cultura politica.
Da parte mia sono più interessato a quello avuto nei confronti della
cultura popolare. Tuttavia, come tratto nel Capitolo 6, i confini tra
le due appaiono oggi appannati.
E al di là delle mie capacità descrivere e documentare compieta-
mente tutti i cambiamenti in atto. Il mio scopo è in realtà più m o­
desto. Voglio riferire alcuni dei modi in cui il pensiero della con­
vergenza sta riplasm ando la cultura popolare americana, in parti­
colare, l’im patto che provoca nel rapporto tra pubblici, produttori
e contenuti. Sebbene questo capitolo offra una visione d ’insieme
(per quanto sia dato di riuscire a distinguerla), i successivi esamine­
ranno i cambiamenti attraverso una serie di casi-studio, concentrati
su precise imprese mediatiche e sui loro pubblici. Il mio obiettivo è
quello di aiutare la gente a capire in che m odo la convergenza sta
avendo im patto sui media e, allo stesso tempo, aiutare gli impren­
ditori e i responsabili politici a comprendere le prospettive dei con­
sumatori in questi cambiamenti. Scrivere questo libro è stata una
sfida, perché tutto è in continuo movimento e non ho un punto di
osservazione che mi permette di stare al di fuori della mischia. T ut­
tavia, al di là del poter dare o meno una visione obiettiva, questo
testo utilizza e m ostra diverse prospettive e punti di vista - pubbli­
citari in lotta che si contendono il mercato, artisti creativi che sco­
prono nuovi modi di raccontare storie, educatori che individuano
comunità di apprendimento informale, attivisti che usano nuove ri­
sorse per plasmare il futuro politico, gruppi religiosi che contesta­
no tendenze culturali e, naturalmente, le comunità di fan che fun­
gono sempre più da pionieri creativi dei media emergenti.
Non posso millantare di essere un osservatore neutrale, innan­
zitutto perché non sono un semplice consumatore per ciò che con­
cerne molti di questi prodotti mediatici; sono anche un fan parte­
cipe. Il m ondo delle comunità di appassionati è stato oggetto cen­
trale del mio lavoro per quasi vent’anni - interesse testimoniato
dalla mia partecipazione in prima persona a molte comunità di fan
oltre che dalla mia attenzione di studioso dei media. Durante que­
sto periodo ho visto i fan spostarsi dai margini invisibili della cul­
tura popolare verso il centro del pensiero attuale su produzione e
XXXVI In t r o d u z i o n e

consumo dei media. Inoltre, nel mio ruolo di direttore del C om pa­
rative M edia Studies Program del M IT, ho partecipato attivamente
alle discussioni tra imprenditori e politici; sono stato consulente di
alcune delle imprese di cui tratto nel libro; i miei primi scritti sulle
comunità di fan e sulla cultura partecipativa sono stati adottati nel­
le business school e cominciano ad avere qualche influenza sugli at­
teggiamenti con cui i media si pongono nei confronti dei loro con­
sum atori; molti degli artisti creativi e dei dirigenti dei media che ho
intervistato sono persone che considero miei amici. In un tem po in
cui i ruoli di consumatore e produttore si confondono, il mio lavo­
ro mi permette di spaziare tra diversi punti di vista. Spero che i let­
tori traggano beneficio dalle mie avventure in ambiti che solo po­
chi umanisti avevano visitato prim a di me. Allo stesso tempo essi
dovrebbero tenere a mente che lo stesso impegno che dedico a fan
e produttori influenza ciò che scrivo. Il mio obiettivo è quello di
m ostrare, più che criticare, prospettive confliggenti sul cambia­
mento mediatico. N on penso che possiam o valutare in m odo signi­
ficativo la convergenza fin quando non l’avremo com presa appie­
no; se il pubblico non inizierà a capire qualcosa del dibattito in cor­
so, avrà scarsa influenza nelle decisioni che cambieranno in m odo
drammatico il suo rapporto con i media.

La fallacia della scatola nera

Quasi dieci anni fa, lo scrittore di fantascienza Bruce Sterling


creò ciò che chiamò Dead M edia Project. C om ’è spiegato nel sito
web (http://w ww .deadm edia.org) “ i media uno-a-molti, centraliz­
zati, che hanno calpestato il ventesimo secolo come animali prei­
storici, si adattano poco all’ambiente tecnologico postm oderno” 12.
Anticipando l’estinzione di alcuni di questi “ dinosauri” , Sterling ha
eretto un sacrario ai “ media che sono morti sul filo spinato del
cambiamento tecnologico” . La sua lista è stupefacente e include re­
litti come “ il fenachistoscopio, il dinam ofono, il fonografo a cera
di Edison, lo stereopticon... varie specie di lanterna m agica” 13.
La storia ci insegna invece che i vecchi media non m uoiono ne­
cessariamente. A morire sono solo gli strumenti di accesso ai con­
tenuti - l’ 8-tracce, il Beta-tape. Queste sono ciò che gli studiosi di
media chiamano tecnologie di delivery. M olti oggetti della lista di
Sterling appartengono a tale categoria. Gli strumenti diventano ob-
In t r o d u z i o n e XXXVII

soleti e vengono rimpiazzati. I media, invece, evolvono. Il suono


registrato è un medium. I CD , i file MP3 e le cassette 8-tracks sono
tecnologie delivery.
Per definire i media avvaliamoci dei suggerimenti forniti dalla
storica Lisa Gitelman, che ha elaborato un modello operante su
due livelli: nel primo, un medium è una tecnologia che permette la
comunicazione; nel secondo, è un insieme di “ protocolli” o di pra­
tiche sociali e culturali che sono cresciute intorno a quella
tecnologia14. I sistemi di delivery sono semplicemente tecnologie
mentre i media sono anche sistemi culturali. Le tecnologie di deli­
very vanno e vengono, mentre i media persistono come strati all’in­
terno di una più complicata stratificazione di informazione e in­
trattenimento.
Il contenuto di un medium può modificarsi (succede quando la
televisione prende il posto della radio come mezzo di narrazione,
lasciandola libera di diventare la principale vetrina per il rock and
roll), il suo pubblico può cambiare (com’è successo per i fumetti,
che erano un medium di m assa negli anni Cinquanta e di nicchia
oggi) e il suo status sociale può elevarsi o abbassarsi (come accade
quando si passa dal teatro popolare a quello d ’élite), ma una volta
che il medium soddisfa una dom anda fondamentale per qualche es­
sere umano, continua ad assolvere la sua funzione all’interno di un
sistema di opzioni più ampio. Una volta resa possibile la registra­
zione di suoni, abbiamo continuato a sviluppare e migliorare gli
strumenti per registrare e riprodurre. La parola stam pata non ha
soppiantato quella orale. IL cinema non ha ucciso il teatro, la tv non
ha ucciso la radio15. Vecchi e nuovi media sono stati costretti a co­
esistere. Ecco perché la convergenza, piuttosto che il paradigm a
della rivoluzione digitale, sembra essere la spiegazione più plausibi­
le del cambiamento m ediatico degli ultimi anni. Lungi dall’essere
sostituiti, i vecchi media vedono trasformare la loro funzione e il
loro status, per effetto dell’introduzione di nuove tecnologie.
La distinzione tra media e sistemi di delivery com porta implica­
zioni più chiare se pensiamo a cosa Gitelman intende per “ proto­
colli” : “ I protocolli esprimono una varietà enorme di relazioni m a­
teriali, economiche e sociali. Così, la telefonata include il saluto
‘ H ello?’ (almeno per gli inglesi), nonché la bolletta mensile, come
pure i cavi e i fili che consentono materialmente la connessione del
nostro apparecchio... il cinema include tutto, dalle perforazioni
che corrono ai lati della pellicola fino all’ampiamente diffuso senso
XXXVIII In t r o d u z i o n e

poter aspettare e vedere i film a casa propria nel video. E i proto­


colli sono tutt’altro che statici” 16. Q uesto libro avrà poco da dire
sugli aspetti tecnologici del cambiamento e molto su come cambia­
no i protocolli alla base della produzione e del consumo mediatico.
Buona parte del dibattito attuale sulla convergenza inizia e fini­
sce con quella che io definisco la Fallacia della scatola nera. Presto
o tardi, secondo questa teoria, tutti i contenuti mediatici passeran­
no attraverso un’unica scatola nera situata nei nostri soggiorni (op­
pure, in uno scenario mobile, attraverso scatole nere trasportabili).
Se i protagonisti del N ew Orleans M edia Experience potessero
prevedere quale scatola nera regnerà sovrana allora potrebbero fa­
re investimenti ragionati per il futuro. Parte di ciò che determina la
fallacia dell’argomento della scatola nera è che riduce il cam bia­
mento dei media a un cambiamento tecnologico, tralasciando gli
aspetti culturali che abbiamo considerato qui.
N on so come sia per voi, ma nel mio soggiorno le scatole nere
aumentano in continuazione. C ’è il mio videoregistratore, il mio
decoder digitale per la TV via cavo, il lettore Dvd, lo stereo, i miei
due game system e oltre a ciò, una pila enorme di videocassette, Cd
e Dvd, cartucce dei giochi e telecomandi, che circondano e incor­
niciano il mio televisore (potrei anche considerarmi un pioniere,
ma molte case americane oggi hanno, o avranno a breve, la loro pi­
la di scatole nere). Il groviglio di cavi e fili che si estende tra me e
il mio centro di home entertainment riflette il grado di incom pati­
bilità e di disfunzione tra le varie tecnologie mediatiche. M olti dei
miei studenti del M IT sono invasi da molteplici scatole nere - i loro
portatili, i cellulari, gli iPod, i loro Game Boy e il BlackBerry.
Come sostenne la Cheskin Research in un resoconto del 2002:
“ La vecchia idea di convergenza era che tutti i dispositivi si sareb­
bero uniti in uno solo, in grado di fare tutto come un telecomando
universale. Ciò che vediamo oggi è che gli strumenti divergono,
mentre i contenuti convergono... il vostro bisogno di posta elettro­
nica cambia se siete a casa, al lavoro, a scuola, in viaggio, all’aero­
porto ecc., e questi diversi strumenti sono progettati per soddisfare
le vostre esigenze di accedere ai contenuti a seconda dei posti dove
siete - il vostro contesto situazionale” 17. Q uesta spinta verso appli­
cazioni mediali specializzate coesiste con quella opposta verso stru­
menti più generici. Possiamo considerare che il proliferare di sca­
tole nere sia un sintomo di un momento della convergenza: poiché
nessuno conosce le possibili combinazioni di funzioni, ci vediamo
In t r o d u z i o n e XXXIX

costretti ad acquistare strumenti specializzati e incompatibili.


All’estremo opposto, potremmo anche essere costretti ad affronta­
re un aumento di funzioni all’interno dello stesso strumento, fin­
ché la sua funzione originale quasi si perde - il che spiega perché
non posso avere un cellulare che sia solo un telefono.
La convergenza tra media è molto più che un semplice cambia­
mento tecnologico, alterando invece i rapporti tra i pubblici, i ge­
neri, i mercati, le imprese e le tecnologie esistenti. Essa cambia le
logiche d ’azione dei media insieme a quelle che guidano il consu­
mo di informazione e di intrattenimento dei pubblici. M ettiam oce­
lo in testa: la convergenza è un processo, non un punto d ’arrivo.
Non ci sarà un’unica scatola nera che controllerà il flusso mediati-
co nelle nostre case. Grazie alla proliferazione dei canali e alla por­
tabilità delle nuove tecnologie, stiamo entrando in un’epoca in cui
i media saranno ovunque. La convergenza non è qualcosa che acca­
drà un giorno, quando avremo più banda larga o quando capiremo
correttamente la configurazione degli strumenti. Che siamo pronti
o no, stiamo già vivendo in una cultura della convergenza.
I nostri telefoni cellulari non sono semplici dispositivi di teleco­
municazione. Ci perm ettono di giocare, scaricare contenuti da In­
ternet, scambiarci foto e messaggi di testo. Sempre più spesso, ci
consentono di vedere anteprime di film, scaricare le puntate dei ro­
manzi in serie o assistere a concerti da luoghi lontani. Tutto ciò
succede già in N ord Europa e in Asia. Ognuna di queste funzioni
può anche essere assolta da altri strumenti. Potete ascoltare le
Dixie Chicks dal lettore Dvd o dall’autoradio, dal walkman,
dall’iPod, da una stazione radio via Web o da un canale musicale
via cavo.
Con la convergenza tecnologica cambiano anche gli assetti pro­
prietari dei media. M entre la vecchia H ollyw ood puntava sul cine­
ma, i conglomerati dei nuovi media controllano interessi trasversali
a tutta l’industria dell’intrattenimento. La W arner Bros, produce
film, program m i televisivi, musica commerciale, giochi per com pu­
ter, siti web, giocattoli, parchi di divertimento, libri, giornali, rivi­
ste e fumetti.
A sua volta, la convergenza dei media influenza le m odalità di
consumo. Uno studente che fa i compiti a casa può tenere aperte
quattro o cinque finestre di lavoro, navigare, ascoltare e scaricare
file M P3, chattare con gli amici, scrivere e rispondere alle e-mail e
passare rapidamente da un’azione all’altra.
XL In t r o d u z i o n e

I fan di una popolare serie televisiva possono cam pionare i dia­


loghi, riassumere le puntate, organizzare dibattiti, creare originali
fan fiction , registrare la propria colonna sonora, girare propri fil­
mati, e magari distribuire tutto questo via Internet.
La convergenza si attua alPinterno degli stessi strumenti, all’in­
terno delle stesse imprese, nel cervello dei consumatori e nelle co­
munità di fan . Essa implica cambiamenti nei modi di produzione e
di consumo dei media.

La logica culturale della convergenza tra media

Eccovi un’altra istantanea dal futuro: l’antropologo M izuko Ito


ha documentato la crescita della comunicazione via telefonino tra i
ragazzi giapponesi descrivendo le giovani coppie che rim angono in
contatto costante per tutta la giornata, grazie ai loro numerosi di­
spositivi di tecnologia m obile18. Si svegliano insieme, lavorano,
mangiano e si addorm entano insieme pur vivendo a molte miglia di
distanza e incontrandosi di fatto solo poche volte al mese. Possia­
mo chiamare questo fenomeno “ tele-avvolgimento” .
La convergenza non riguarda solo prodotti e servizi commercia­
li che viaggiano su circuiti regolati e prevedibili. N on consiste sol­
tanto nell’accordo tra compagnie di tecnologia mobile e case di
produzione cinematografica, al fine di decidere quando e come tra­
smettere le anteprime dei film attraverso i telefoni cellulari. Si par­
la di convergenza anche quando la gente prende i media nelle pro­
prie mani. I contenuti di intrattenimento non sono le uniche cose
che viaggiano attraverso le piattaform e mediatiche multiple19. A
volte ci può capitare di rimboccare le coperte ai nostri bambini
ogni sera e altre di chattare con loro dall’altra parte del pianeta.
Un’altra istantanea: alcuni studenti di un liceo di provincia usa­
no i loro cellulari per produrre un filmato soft-core amatoriale che
riprende le cheerleader in topless negli spogliatoi. N el giro di qual­
che ora, il video è già popolare in tutta la scuola, viene scaricato da
alunni e insegnanti e visto fra una lezione e l’altra su strumenti m o­
bili. Quando la gente prende i media tra le mani, il risultato può es­
sere meravigliosamente creativo oppure pessimo per tutte le perso­
ne coinvolte.
In un futuro prevedibile, la convergenza potrà essere una sorta
di rimedio artigianale - una relazione tenuta insieme alla buona tra
In t r o d u z io n e XLI

diverse tecnologie mediatiche - più che un sistema completamente


integrato. Al momento, i cambiamenti culturali, le battaglie legali e
le spinte economiche che stanno spingendo verso la convergenza
tra media precedono i cambiamenti nell’infrastruttura tecnologica.
L’evoluzione delle transizioni in atto sarà determinante per gli
equilibri di potere della prossim a era mediatica.
L’ambiente mediale americano prende forma da tendenze appa­
rentemente opposte: da un lato, le tecnologie dei nuovi media han­
no abbassato i costi di produzione e di distribuzione, ampliato il
numero dei canali di trasmissione, concesso ai consumatori di ar­
chiviare contenuti, modificarli, farli propri e rimetterli nel circuito
in nuovi e potenti modi. D all’altro, c’è stata una concentrazione al­
larmante nella proprietà dei media mainstream commerciali, con
una piccola manciata di multinazionali che hanno occupato una
posizione dominante in tutti i settori dell’industria dell’intratteni-
mento. N essuno sembra capace di descrivere al contempo i due fi­
loni di cambiamenti, tantomeno di mostrarne l’impatto reciproco.
Alcuni tem ono che i media siano incontrollabili, altri che siano
troppo controllati. Alcuni vedono un mondo liberato dai gatekee-
per, altri ritengono che questi abbiano acquistato un potere senza
precedenti. La verità, come sempre, sta da qualche parte fra gli
estremi.
Ancora un’altra istantanea: la gente sta attaccando, in giro per
il mondo, adesivi che mostrano frecce gialle (http:www.yellowar-
row.net) sopra monumenti pubblici e palazzi, sotto i cavalcavia e
sui lampioni. Le frecce contengono numeri telefonici che consen­
tono l’accesso a una messaggeria vocale - note personali sul pae­
saggio urbano condiviso. Ciò serve a consigliare un bel panoram a
oppure a criticare l’operato di un’impresa irresponsabile. Sempre
di più, le industrie stanno adottando questo stesso sistema a scopo
pubblicitario.
La convergenza, come si può notare, è sia un processo discen­
dente, dall’alto verso il basso, guidato dalle corporation , che una
il inamica ascendente, dal basso verso l’alto, guidata dai consuma­
tori. La convergenza delle corporation coesiste con quella grass-
roots. Le imprese mediatiche stanno imparando ad accelerare il
Ilusso dei contenuti attraverso i canali di ricezione per aumentare
le occasioni di introiti, allargare i mercati e rafforzare la lealtà dei
consumatori. Questi ultimi, a loro volta, imparano a usare le diver­
se tecnologie mediatiche per condurre il flusso sotto il loro con­
XLII In t r o d u z i o n e

trollo e interagire con gli altri consumatori. Le prom esse di questo


nuovo ambiente mediale sollevano aspettative di un flusso di idee
e contenuti più libero. Ispirati da tali ideali, i consumatori si batto­
no per il diritto a una partecipazione culturale più completa. A vol­
te, la convergenza delle corporation e quella grassroots si rafforza­
no a vicenda, creando relazioni soddisfacenti tra produttori e con­
sumatori. In altri casi, invece, queste due forze sono in guerra e le
loro battaglie ridisegneranno il volto della cultura popolare ameri­
cana.
La convergenza richiede ai media di ripensare i vecchi concetti
di consumo che hanno plasm ato i processi decisionali di program ­
mazione e di marketing. Se i vecchi consumatori erano considerati
soggetti passivi, i nuovi invece sono attivi. Se i vecchi erano preve­
dibili e stanziali, i nuovi sono nomadi e sempre meno inclini alla fe­
deltà verso i network. Se i vecchi consum atori erano individui iso­
lati, i nuovi sono più connessi socialmente. Se il lavoro dei vecchi
consum atori era silenzioso e invisibile, quello dei nuovi è rum oro­
so e pubblico.
I produttori rispondono a questi nuovi consumatori dotati di
potere in modi contraddittori, a volte incoraggiando il cambiamen­
to, altre resistendo ai loro comportamenti. I consum atori, a loro
volta, sono perplessi da ciò che interpretano come segnali disso­
nanti sull’entità e il tipo di partecipazione di cui possono godere.
N ell’affrontare la transizione, le industrie mediatiche non si
com portano in m odo concorde; spesso, visioni differenti all’inter­
no della stessa im presa portano avanti strategie incompatibili, ri­
flettendo la loro incertezza su come procedere. Da un lato, la con­
vergenza rappresenta un’opportunità di espansione per i conglo­
merati, visto che un contenuto può essere trasferito su diverse piat­
taforme. D all’altro, essa manifesta, per molti media, un rischio di
frammentazione o di erosione dei mercati. Ogni volta che un uten­
te si sposta dalla tv a Internet - si dice - c’è il pericolo che non torni
al medium di partenza.
Gli im prenditori usano il termine “ estensione” per riferirsi ai
loro sforzi di espandere i mercati potenziali spostando il contenuto
su differenti sistemi di delivery; “ sinergia” per riferirsi alle possibi­
lità economiche rappresentate dalla loro abilità di possesso e con­
trollo; “ franchise” per riferirsi ai loro sforzi coordinati di imprime­
re il loro marchio e di commerciare i contenuti sotto queste nuove
condizioni. Estensione, sinergia e franchising stanno spingendo le
In t r o d u z i o n e XLIII

industrie mediatiche verso la convergenza. Per questa ragione, i ca­


si-studio che ho scelto per questo libro trattano dei franchise di
maggior successo della storia più recente. Alcuni (American Idol,
2002; Survivor, 2000) originati in televisione, altri (The Matrix ,
1999, Star Wars, 1977) sul grande schermo, altri come libri (Harry
Potter, 1998) e altri ancora come giochi (The Sims, 2000), ma cia­
scuno di essi straripa dal suo medium originale per invadere molti
altri spazi della produzione culturale. Ognuno di questi franchise
offre un punto di vista diverso dal quale poter comprendere come
la convergenza mediatica stia riplasmando il rapporto tra produt­
tori e consumatori.
Il Capitolo 1, che si concentra su Survivor, e il Capitolo 2, che
si focalizza su American Idol , guardano al fenomeno della reality
tv. Il Capitolo 1 guida i lettori attraverso il piccolo mondo cono­
sciuto degli spoiler di Survivor - un gruppo di consumatori attivi
che mettono insieme la loro conoscenza per provare a scavare tra i
molti segreti della serie prima che questi siano mandati in onda. Lo
spoiling di Survivor può essere letto come un esempio particolar­
mente vivido di intelligenza collettiva in azione. Le comunità della
conoscenza si form ano intorno a un interesse intellettuale comune;
i loro membri lavorano insieme per formare un sapere spesso in
ambiti dove non esiste una tradizione esperta; la ricerca e la valu­
tazione della conoscenza è allo stesso tem po comune e conflittuale.
Tracciare una m appa di queste comunità può aiutarci a com pren­
dere meglio la natura sociale del consumo contem poraneo di me­
dia. Può inoltre consentirci di percepire come la conoscenza possa
divenire potere nell’era della convergenza tra media.
Dall’altro lato, il Capitolo 2 esamina American Idol dalla pro­
spettiva dell’industria mediatica, cercando di a capire come la rea­
lity tv stia dando vita a quella che io chiamo “ econom ia affettiva” .
Il calo di valore degli spot da trenta secondi in un’epoca di TiVo e
Ver sta costringendo le imprese di M adison Avenue a ripensare il
modo di interfacciarsi al pubblico dei consumatori. Questa nuova
“economia affettiva” incoraggia le aziende a trasform are i brand in
quelli che gli imprenditori chiamano “ lovemarks” e a sfumare la li­
nea di confine tra contenuti di intrattenimento e messaggi pubbli­
citari. Secondo la logica dell’economia affettiva, il consumatore
ideale è attivo, affezionato e connesso socialmente. Guardare uno
spot o consumare un prodotto non è più sufficiente; l’impresa in­
vita il pubblico a partecipare alla comunità del brand. Inoltre, se
XLIV In t r o d u z i o n e

queste affiliazioni incoraggiano consumi ancora più attivi, queste


stesse comunità possono anche proteggere l’integrità del marchio e
criticare le imprese concorrenti che le corteggiano.
Sorprendentemente, in tutti e due i casi i rapporti tra produttori
e consumatori entrano in crisi appena questi ultimi cercano di agire
secondo l’invito a partecipare alla vita dei franchise . N el caso di
Survivor, la comunità degli Spoiler è divenuta tanto parte del gioco
che i produttori temono di non essere più capaci di garantire ai
nuovi consumatori un’esperienza da prima volta per le serie a veni­
re. N el caso di American Idol , i fan temono che la loro partecipa­
zione sia marginale e che i produttori abbiano ancora un ruolo
troppo centrale nel decidere l’esito della gara. Q uando la parteci­
pazione del pubblico diventa eccessiva al punto di interferire
nell’attività delle imprese mediatiche? E viceversa, quando i pro­
duttori esercitano un potere eccessivo nell’esperienza di intratteni­
mento?
Il Capitolo 3 prende in esame il franchise The Matrix come
esem pio di ciò che chiamo “ narrazione transm ediale” e che si rife­
risce a una nuova estetica emersa in risposta alla convergenza tra
m edia; una form a che pone nuove domande ai consumatori e di­
pende dalla partecipazione attiva delle comunità di conoscenza. La
narrazione transmediale è l’arte della creazione di mondi. Per espe­
rire pienamente ogni universo narrativo, i consumatori devono as­
sumere il ruolo di cacciatori e di pazienti collezionisti, inseguendo
frammenti di storia attraverso i vari canali mediatici, confrontando
le loro osservazioni nei gruppi di discussione online e collaborando
per assicurare che chiunque investa tem po e fatica sarà poi ripagato
da un’esperienza di intrattenimento più intensa. Qualcuno potreb­
be sostenere che i fratelli W achowski, autori e registi della trilogia
filmica di Matrix , abbiano spinto la narrazione transmediale ben
oltre il punto a cui era pronta ad arrivare la m aggior parte degli
spettatori.
I Capitoli 4 e 5 ci conducono più a fondo nel regno della cultura
partecipativa. Il Capitolo 4 tratta dei fan di Star Wars che a loro
volta sono creatori di filmati e di giochi, (ri)scrittori attivi della mi­
tologia di George Lukas al fine di soddisfare le loro fantasie e i loro
desideri. La fan culture è qui considerata come una rivisitazione
della vecchia folk culture in risposta ai contenuti della cultura di
m assa. Il C apitolo 5 tratta dei fan del giovane Harry Potter che scri­
vono storie sulla scuola di H ogw arts e sui suoi allievi. In entrambi
In t r o d u z io n e XLV

i casi, questi artisti grassroots stanno entrando in conflitto con i


produttori commerciali che vorrebbero poter esercitare un mag­
giore controllo sulla loro proprietà intellettuale. Vedremo, nel C a­
pitolo 4, come la LucasArts abbia dovuto rivedere continuamente
la sua relazione con i fan di Star Wars nel corso degli anni, cercan­
do di raggiungere il corretto equilibrio tra incoraggiare l’entusia­
smo degli ammiratori e proteggere gli investimenti fatti sulla serie.
In modo interessante, nel momento in cui Star Wars si sposta attra­
verso i vari canali, le aspettative di partecipazione si fanno opposte,
con i produttori del gioco Star Wars Galaxies che stimolano i con­
sumatori a generare molti contenuti e i produttori del film Star
Wars che dettano linee-guida per consentire e al tempo stesso argi­
nare la partecipazione dei fan.
Il C apitolo 5 allarga l’attenzione sulla politica della partecipa­
zione considerando due specifiche battaglie su Harry Potter : il con­
flitto di interessi tra i fan e la Warner Bros., che ha acquistato i di­
ritti cinematografici dei libri di J. K. Rowling, e quello tra i critici
conservatori cristiani del libro e gli insegnanti che hanno visto il te­
sto come uno strumento di invito alla lettura per i ragazzi. Questo
capitolo individua una gamma di risposte all’atrofia dei gatekeeper
tradizionali e all’espansione della fantasia in molti aspetti della no­
stra vita quotidiana. Da un lato, alcuni cristiani conservatori si
stanno scagliando contro la convergenza mediatica e la globalizza­
zione, riafferm ando l’autorità tradizionale sui cambiamenti sociali
e culturali profondi. Dall’altro, qualche cristiano saluta la conver­
genza come possibilità favorevole alla nascita di fan culture con ri­
flessioni cristiane.
Nel corso dei cinque capitoli, mostrerò come le istituzioni trin­
cerate stanno assorbendo modelli di condotta dalle comunità dei
fan grassroots e si stanno reinventando in vista di un’era di conver­
genza e di intelligenza collettiva; come l’industria pubblicitaria sia
stata costretta a rivedere i rapporti tra brand e consum atore; quan­
to le forze armate stiano usando i giochi multiplayer per ricostruire
un dialogo tra civili e militari; in che m odo la professione legale ab­
bia combattuto per capire cosa vuol dire fair use , “ uso equo” , in
u n ’era in cui sempre più persone divengono autori; gli educatori
•stanno rivalutando l’apprendimento informale e almeno qualche
cristiano conservatore si sta riappacificando con nuove forme di
cultura popolare. In ciascuno di questi casi, le istituzioni di potere
Ntanno provando a costruire connessioni più forti con i loro soste­
XL VI In t r o d u z i o n e

nitori e i consumatori stanno mettendo in gioco la loro competen­


za appresa come fan e come giocatori in politica, nell’apprendi­
mento e nel lavoro.
Il Capitolo 6 ci condurrà dalla cultura popolare a quella pubbli­
ca, applicando le mie idee sulla convergenza per offrire una pro­
spettiva sulla cam pagna presidenziale Usa 2004, esplorando infine
cosa bisogna fare per rendere la dem ocrazia più partecipativa. Più
volte, la cultura popolare si è resa più utile per i cittadini rispetto a
quanto lo sia stata l’informazione giornalistica o il discorso politi­
co; essa si è accollata nuove responsabilità nell’educare il pubblico
su quel che era in gioco nelle elezioni e nel motivarlo a partecipare
più attivamente allo stesso processo elettorale. Sulla scia di una
cam pagna che ha suscitato divisione, i media popolari hanno la
possibilità anche di determinare i modi in cui possiam o attutire le
differenze con gli altri. Le elezioni del 2004 rappresentano un m o­
mento importante di passaggio nel rapporto tra media e politica; i
cittadini sono stati incoraggiati a prendere parte al lavoro sporco
della cam pagna e i candidati e i partiti hanno visto ridursi il con­
trollo sul processo politico. Ancora una volta, tutte le parti hanno
chiaro il fatto che la partecipazione dei cittadini e dei consumatori
sia aumentata, nonostante non ne siano ancora chiari i termini e i
modi.
Tornerò nelle conclusioni alle mie tre parole-chiave - conver­
genza, intelligenza collettiva e partecipazione. Il mio obiettivo è di
esplorare in questa sede alcune delle implicazioni insite nelle ten­
denze in atto m ostrate nel corso del libro per ciò che concerne la
conoscenza, la riforma dei media e la cittadinanza democratica.
Tornerò, infine, sulle idee cruciali: che la cultura della convergenza
rappresenta un cambiamento nei modi in cui pensiamo i nostri rap­
porti con i media, che il cambiamento comincia dal nostro rappor­
to con la cultura popolare; ma che le abilità che acquisiam o attra­
verso il gioco possono avere conseguenze su come im pariamo, la­
voriam o, partecipiam o al processo politico e ci connettiamo con gli
altri in una parte o nell’altra del mondo.
M i concentrerò, attraverso questo libro, sulle idee concorrenti
e contraddittorie di partecipazione che stanno plasm ando la cultu­
ra dei nuovi media. Devo ammettere che non tutti i consumatori
hanno accesso alle conoscenze e alle risorse necessarie per parteci­
pare a pieno alle pratiche culturali che sto descrivendo. Inoltre, il
digitai divide costituisce sempre più un ostacolo alla partecipazio­
In t r o d u z i o n e XLVII

ne. Negli anni N ovanta la questione primaria era quella dell’acces­


so. Ancora oggi molti americani hanno un accesso limitato a Inter­
net, fornito magari da scuole e biblioteche pubbliche. M olte delle
attività e delle potenzialità di cui si tratta in questo libro dipendono
da un accesso più esteso a quelle tecnologie, da una maggiore fami­
liarità con i nuovi tipi di interazione sociale che queste rendono
possibile, dalla piena padronanza di concetti che i consumatori
hanno sviluppato in risposta alla convergenza tra media. Fin quan­
do l’attenzione si concentra sull’accesso, la riforma sarà un tema ri­
guardante le tecnologie; quando si comincia a parlare di partecipa­
zione, l’enfasi si sposta sugli usi e sulle pratiche culturali.
M olte delle persone citate in questo libro sono early adopter ,
pionieri nell’adozione delle nuove tecnologie. Negli Stati Uniti so­
no in assoluta prevalenza bianchi, maschi, di ceto medio e laureati.
Si tratta di persone che hanno maggiore accesso alle nuove tecno­
logie e possiedono le conoscenze che servono a partecipare piena­
mente a questa nuova cultura della conoscenza. N on dò per scon­
tato che queste pratiche culturali rimarrebbero le stesse se allargas­
simo l’accesso e la partecipazione. In effetti, espandere la parteci­
pazione vuol dire scatenare ulteriori cambiamenti. Per ora, la fine­
stra migliore tramite la quale comprendere la cultura convergente
è quella aperta dall’esperienza dei pionieri. Questa élite di consu­
matori esercita un’influenza notevole sulla cultura dei media, in
buona parte perché produttori e pubblicitari sono particolarmente
interessati ad attivare e mantenere la loro attenzione. Ovunque va­
dano, l’industria m ediatica è pronta a seguirli; dove essa va, è pro­
babile trovare anche loro. Per ora, quindi, si m ordono la coda.
State facendo il vostro ingresso nella cultura convergente. N on
è così sorprendente che non siamo ancora pronti a confrontarci
con le sue com plessità e le sue contraddizioni. Abbiamo bisogno di
trovare le vie del negoziato con i cambiamenti in atto. Nessun
gruppo può fissare le condizioni. Nessun gruppo può controllare
accesso e partecipazione.
Non aspettatevi che le incertezze intorno alla convergenza sa­
ranno risolte presto. Stiamo entrando in un’era di lunga transizione
e trasformazione dei media. La convergenza descrive il processo at­
traverso il quale farem o la nostra scelta fra quelle opzioni. N on ci
sarà una scatola nera dei m edia che rimetterà tutto in ordine. I pro­
duttori dovranno solo risolvere il problem a di rinegoziare il loro
rapporto con i consumatori. I pubblici, resi più potenti dalle nuove
XL Vili In t r o d u z i o n e

tecnologie, occupano uno spazio di intersezione tra vecchi e nuovi


media e rivendicano il diritto di partecipazione culturale. I produt­
tori che falliscono l’accordo con questa nuova cultura partecipativa
dovranno affrontare un calo di consensi e di vendite. I conseguenti
conflitti e com promessi definiranno la cultura pubblica del futuro.
C a p it o l o 1

I guastafeste di Survivor
Anatomia di una comunità del sapere

Survivor, program m a della CBS che ha dato il via al filone della


reality télévision, circondato da una popolarità incredibile, non si
limita a mettere sedici estranei l’uno contro l’altro. Intorno a cia­
scuna puntata, costruita con estrema attenzione, emerge un’altra
gara - un grande gioco a gatto e topo che vede di fronte i produt­
tori e il pubblico. Ogni settimana, si attendono con il fiato sospeso
i risultati, poi diventano spunto per le discussioni alla macchinetta
del caffè, e vengono ripresi dagli organi d’informazione, anche dai
telegiornali delle reti concorrenti. Survivor è televisione per l’era di
Internet - costruito per essere discusso, sezionato, fatto oggetto di
analisi, previsioni e critiche.
L ’identità del vincitore di Survivor è uno dei segreti più gelosa­
mente custoditi di tutto il m ondo televisivo. M ark Burnett, produt­
tore esecutivo, organizza campagne di disinformazione per gettare
fumo negli occhi agli spettatori. I contratti per il cast e la troupe so­
no rigidissimi e prevedono penalità pecuniarie enormi se chi ha fir­
mato si lascia scappare qualcosa. Il che non ha fatto che contribuire
alla crescita della curiosità per Pordine dei boots (cioè per l'ordine
in cui i concorrenti vengono “ cacciati” dalla tribù), per i final four
(gli ultimi quattro concorrenti che restano in gara) e in m odo par­
ticolare per il sole survivor, il vincitore, che intascherà il milione di
dollari di premio.
Il pubblico che segue il program m a è fra i più ampi in tutta la
storia della televisione broadcast. Nelle prime otto stagioni, Survi­
vor non è quasi mai andato oltre il decimo posto nella classifica dei
programmi più seguiti. I più appassionati fra i fan della trasm issio­
ne, quelli che vengono chiamati spoiler , fanno le cose più incredi-
2 C a p it o l o 1

bili per stanare le risposte. Usano le foto da satellite per identificare


il cam po base. Esaminano gli episodi che hanno registrato, passan­
doli al setaccio fotogram m a per fotogram m a, alla ricerca di infor­
mazioni nascoste. C onoscono Survivor come le loro tasche e sono
determinati a scoprire - insieme - come è andata a finire, prima
che i produttori lo rivelino. E tutta questa attività la chiamano spoi-
ling, che significa “ saccheggiare” ma soprattutto “ guastare la fe­
sta” .
M ark Burnett lo ammette, questa gara fra produttori e fan con­
tribuisce a creare la mistica di Survivor: “ D ato che così tanta parte
del program m a rimane avvolta nel segreto fino alla m essa in onda,
ha perfettamente senso che molti vedano come una sfida il cercar
di ottenere informazioni prima della divulgazione ufficiale - un p o ’
come un un codice da decrittare. Il m io com pito è tenere gli appas­
sionati sulle spine e restare sempre un passo avanti a loro, ma è af­
fascinante vedere quello che sono disposti a fare per spuntarla” .
E in questo clima di intensa competizione arriva ChillOne. Pri­
ma di raggiungere improvvisa fama nel regno dei fan , era (dice) un
lurker, solo un “guardone” che non era mai intervenuto in una lista
di discussione. Era in vacanza in Brasile per Capodanno quando
trovò per caso un resoconto dettagliato di chi sarebbe stato escluso
da Survivor: Amazon , la sesta stagione della serie. Pubblicò quelle
informazioni su Internet e poi dovette passare mesi a difendere la
sua reputazione, mentre la comunità degli spoiler lo metteva impie­
tosamente sotto il m icroscopio. Per qualcuno, ChillOne era un
eroe, il migliore fra gli spoiler di tutti i tempi; per altri era solo un
farabutto, quello che aveva rovinato il gioco a tutti gli altri.
Com e abbiam o visto, l’era della convergenza dei m edia rende
possibili m odalità di ricezione comuni, invece che individualisti­
che. Ancora non tutti i consumatori di media interagiscono con
una com unità virtuale; alcuni semplicemente discutono di quel che
vedono con amici, famigliari, compagni di lavoro. M a pochi guar­
dano la televisione in com pleto silenzio e totale isolamento. Per la
m aggior parte di noi, la televisione è il carburante che alimenta le
conversazioni davanti alla macchinetta del caffè. E, per un numero
sempre più elevato di persone, la macchinetta del caffè è diventata
digitale: i forum online danno la possibilità di condividere cono­
scenza e opinioni. In questo capitolo spero di riuscire a condurvi
all'interno della com unità degli spoiler per scoprire come funziona
e come influisce sulla ricezione di una serie televisiva popolare.
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 3

Il mio interesse qui va al procedimento e all’etica della risolu­


zione condivisa di problemi in una comunità online. N on mi inte­
ressa tanto chi sia ChillOne o se le informazioni che aveva fossero
davvero precise, ma come la comunità abbia risposto al tipo di co­
noscenza che le ha portato, come l’abbia valutata, discussa, critica­
ta, in generale come l’abbia affrontata. M i interessa capire come re­
agisca la comunità a uno scostamento dalla normalità nell’elabora­
zione e nella valutazione della conoscenza. Ed è nei momenti di cri­
si, di conflitto e di controversia che le comunità sono costrette a
esplicitare i principi che le guidano2.

Lo spoiling come intelligenza collettiva

In Internet, sostiene Pierre Lévy, i singoli incanalano la loro


competenza individuale verso fini e obiettivi condivisi: “N essuno
sa tutto, ognuno sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell'uma-
nità”3. “ Intelligenza collettiva” è questa capacità delle comunità
virtuali di far leva sulla competenza combinata dei loro membri.
Quel che non possiam o sapere o fare da soli, possiam o essere in
grado di fare collettivamente. L ’organizzazione dei pubblici in
quelle che Lévy chiama “ comunità del sapere” consente loro di
esercitare un potere aggregato maggiore, nelle loro negoziazioni
con i produttori di media. Lo spazio del sapere che ne emerge non
sfuggirà mai del tutto all’influenza dello spazio delle merci, così co­
me questo non può funzionare totalmente al di fuori dei vincoli
dello stato-nazione. Lévy però immagina che l’intelligenza colletti­
va gradualmente modificherà il m odo di funzionamento della cul­
tura delle merci. Il terrore della partecipazione del pubblico è, per
Lévy, frutto della m iopia del m ondo dei media: “ Impedendo allo
Spazio del sapere di rendersi autonom o, privano i circuiti delle
merci ... di una straordinaria fonte di energia”4. La cultura della
conoscenza fungerebbe, dunque, da “ motore invisibile, impercetti­
bile” della circolazione e dello scambio delle merci.
Il nuovo spazio del sapere è sorto quando i nostri legami con
forme più vecchie di comunità sociali hanno cominciato a frantu­
marsi, il nostro radicamento nella geografia fisica è diminuito, i no­
stri vincoli con la famiglia estesa e addirittura con quella nucleare
hanno iniziato a disintegrarsi e la nostra lealtà verso gli stati nazio­
ni ha cominciato a ridefinirsi. Emergono, però, nuove forme di co­
4 C a p it o l o 1

munità, che si definiscono attraverso affiliazioni volontarie, tem­


poranee e tattiche, rinsaldate da intraprese intellettuali comuni e
da comuni investimenti emotivi. I componenti possono passare da
un gruppo all’altro, inseguendo i loro interessi e le loro esigenze, e
possono appartenere anche a più comunità nello stesso tempo.
Queste comunità, però, sono cementate dalla mutua produzione di
conoscenza e dal suo reciproco scambio. Come scrive Lévy, questi
gruppi mettono “a disposizione dell'intellettuale collettivo l’insie­
me delle conoscenze esistenti e pertinenti per lui in un dato mo­
mento”; cosa ancor più importante, rappresentano luoghi fonda-
mentali “di discussione, negoziazione ed elaborazione collettiva” e
spronano i singoli a reperire nuove informazioni per il bene comu­
ne: “Le domande, gli interrogativi senza risposta mettono in ten­
sione [...] segnalano le zone che richiedono invenzione, innovazio­
ne”5.
Lévy traccia una distinzione tra il sapere condiviso, cioè l’infor­
mazione ritenuta attendibile e mantenuta in comune dall’intero
gruppo, e l’intelligenza collettiva, ovvero la somma delle informa­
zioni trattenute individualmente dai membri del gruppo e resa di­
sponibile qualora ce ne fosse bisogno: “Il sapere della comunità
pensante non è più un sapere comune, perché ormai è impossibile
che un solo essere umano, o anche un gruppo, dominino tutte le
conoscenze, tutte le competenze, è un sapere essenzialmente collet­
tivo, impossibile da riunire in un unico corpo”6. Solo alcuni dati
sono noti a tutti: le cose di cui la comunità ha bisogno per sostene­
re la sua esistenza e portare a termine i suoi obiettivi. Tutti gli altri
sono conosciuti da individui che vengono chiamati a condividerli
quando ne capiti l’occasione. Le comunità devono tuttavia valutare
con cura ogni informazione che sta per divenire parte della propria
conoscenza condivisa, poiché la disinformazione può portare a ma­
lintesi sempre più problematici - poiché ogni nuova idea viene let­
ta nel contesto di quello che il gruppo considera il suo sapere fon­
damentale.
Lo spoiling di Survivor è intelligenza collettiva in pratica.
Ogni fan con cui ho parlato ha una propria storia di iniziazione
personale allo spoiling. Shawn era uno studente di storia, che ama­
va l’indagine e la sfida di assegnare un peso a resoconti diversi degli
eventi del passato. Wezzie era un agente di viaggi part-time che ri­
mase affascinato dai luoghi esotici di ambientazione della serie. Per
quel che riguarda ChillOne, nessuno lo sa, anche se - visto
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 5

dall’esterno - sembrerebbe che il suo interesse derivasse dalla pos­


sibilità di richiamare l’attenzione del mondo su se stesso.
Survivor ci invita a scommettere su quello che accadrà, ci chiede
di fare previsioni. Mary Beth Haralovich (studiosa dei media) e M i­
chael W. Trosset (matematico) descrivono il ruolo del caso nel de­
terminare gli esiti: “Il piacere narrativo prende origine dalla curio­
sità di sapere cosa accadrà dopo... dall’avere uno iato aperto e
chiuso, ripetutamente... fino alla conclusione... In Survivor, l’im-
prevedibilità stimola il desiderio di sapere quello che accadrà dopo,
ma come questo iato si chiuderà rimane in un’incertezza dovuta al
caso... con il suo invitare alla predizione, Survivor somiglia molto
di più a una corsa di cavalli che a una fiction”7. Allo stesso tempo,
per tutti quegli spettatori che sono più esperti dei meccanismi di
produzione, c’è anche una “incertezza dovuta all’ignoranza”, l’ele­
mento che più li irrita. Qualcuno, dall’altra parte - per primo
Mark Burnett - sa qualcosa che loro non sanno. Loro vogliono sa­
pere tutto ciò che è possibile sapere. Questo è, in parte, ciò che ren­
de così coinvolgente l’esperienza dello spoiling di Survivor. La pos­
sibilità di capire di più mettendo in comune con altri la propria co­
noscenza personale intensifica il piacere che ogni spettatore prova
nella sfida del “prevedere l’imprevedibile”, come esorta a fare lo
slogan del programma.
Gli spoiler di Survivor raccolgono ed elaborano informazioni.
Nel farlo, formano una comunità del sapere. Stiamo sperimentan­
do i nuovi tipi di sapere che emergono nel cyberspazio. Da questo
gioco, Pierre Lévy crede che emergeranno nuove forme di potere
politico che saranno parallele e qualche volta sfideranno diretta-
mente l’egemonia degli stati-nazione o la potenza economica del
capitalismo delle grandi aziende. Lévy sostiene il ruolo centrale
delle comunità del sapere nel ripristinare la cittadinanza democra­
tica. Al culmine del suo ottimismo, vede la condivisione del sapere
intorno al mondo come il modo migliore di superare le divisioni e
vincere i sospetti che oggi plasmano le relazioni internazionali. Le
affermazioni di Lévy sono grandiose e mistificanti; egli parla del
suo modello di intelligenza collettiva come di una “utopia realizza­
bile”, ma riconosce che sarà nei piccoli esperimenti locali dove im­
pareremo come vivere in comunità del sapere. Ci troviamo, dice, in
un periodo di “apprendistato” durante il quale innoviamo ed
esploriamo le strutture che sosterranno la vita economica e politica
del futuro.
6 C a p it o l o 1

Proviamo a immaginare i tipi di informazione che i fan potreb­


bero collezionare se si mettessero a fare lo spoiling dei governi an­
ziché dei network. Più avanti, vedremo qual è stato il ruolo svolto
dall’intelligenza collettiva durante la campagna presidenziale 2004
e scorgeremo i segni del fatto che i partecipanti a giochi basati su
realtà alternative cominciano a indirizzare le loro energie verso la
soluzione di problemi sociali e politici. Detto ciò, non vorrei sem­
brare uno che sostiene la vecchia teoria per la quale la cultura dei
fan costituirebbe una perdita di tempo perché porta a spendere
energie, che potrebbero essere indirizzate a “cose serie” come la
politica, per obiettivi futili. Al contrario, vorrei far notare che la ra­
gione per cui gli americani non partecipano ai dibattiti pubblici è
che i normali modi di pensare e parlare di politica richiedono di
sottoscrivere ciò che sarà trattato successivamente in questo capito­
lo come paradigma dell’esperto: per giocare il gioco devi agire da
esperto della politica o, meglio ancora, devi lasciare che un esperto
della politica pensi per te. Un motivo per cui lo spoiling è una pra­
tica più coinvolgente è perché il modo in cui la conoscenza è pro­
dotta e valutata è più democratico. Lo spoiling è acquisizione di
potere nel senso letterale del termine, dal momento che aiuta i par­
tecipanti a comprendere come impiegare i nuovi tipi di forze che
emergono dalla loro partecipazione alle comunità intelligenti. Per
il momento, comunque, gli spoiler si limitano a divertirsi il venerdì
sera in una caccia al tesoro che coinvolge migliaia di persone che
interagiscono in un villaggio globale. Il gioco è una modalità di ap­
prendimento e in un periodo di riqualificazione e riorientamento
può essere molto più importante di quel che sembra alla prima oc­
chiata. D’altra parte, il gioco è anche prezioso in sé e per i propri
fini. Se lo spoiling non fosse divertente, nessuno lo farebbe.
Tale parola ci riporta indietro - almeno fin dove possiamo arri­
vare - alle origini di Internet. Lo spoiling è emerso dalla discrepan­
za tra i tempi e la geografia dei vecchi e dei nuovi media. Per co­
minciare, gli abitanti della Costa Orientale potevano vedere il pro­
gramma tre ore prima rispetto a quelli della Costa Occidentale. Le
serie in syndication andavano in onda in serate diverse della setti­
mana su mercati distinti. La serie americana veniva trasmessa negli
Stati Uniti con più di sei mesi di anticipo rispetto ai mercati inter­
nazionali. Finché quanti si trovavano in luoghi differenti non par­
lavano normalmente fra loro, tutti avevano l’esperienza di una
“prima visione”. Una volta che i fan si sono trasferiti online, queste
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 7

discrepanze di tempo e luogo si sono annullate. Qualcuno nella


Costa Orientale potreva connettersi e postare l’intero contenuto di
un episodio, ma qualcun altro in California poteva seccarsi perché
tutto il piacere della scoperta gli era stato rovinato. Così, i fan che
postano hanno iniziato a mettere il titolo “spoiler” nell’oggetto dei
messaggi: così chi non vuole anticipazioni può decidere di non leg­
gere.
Col tempo, però, le comunità dei fan hanno trasformato lo
spoiling in un gioco “a chi trova più informazioni” sugli episodi che
devono ancora andare in onda. E interessante, d’altra parte, ragio­
nare in termini di temporalità. L’esperienza che lo spettatore ha di
Survivor è quella di una cosa che evolve di settimana in settimana
in tempo reale. Lo spettacolo è montato per enfatizzare l’immedia­
tezza e la spontaneità. I partecipanti non appaiono in pubblico fin­
ché non sono eliminati dal gioco e spesso parlano come se gli even­
ti non fossero già accaduti. Possono commentare solo ciò che è già
andato in onda e talvolta sembrano fare congetture su ciò che deve
ancora venire. Gli spoiler, per parte loro, sanno che la serie è stata
già tutta girata, e si comportano di conseguenza. Come spiega un
fan: “I risultati sono stati determinati mesi prima e noi aspettiamo
la comunicazione ufficiale. E c’è in giro qualcuno che ha partecipa­
to e sa com’è andata, e dovrebbe tenere la bocca chiusa.
Hahahahahahahaha ! ”.
Quindi cercano indizi dei postumi, provano a scoprire quali
concorrenti hanno perso più peso (il che starebbe a indicare che
hanno dovuto cercare di sopravvivere più a lungo nella foresta) o
quali sono tornati con barbe lunghe e mani fasciate; cercano le sof­
fiate che diano loro “piccoli suggerimenti” su quel che è successo,
poi tutti insieme cercano di ricomporre i pezzi del puzzle. Ghandia
Johnson (Survivor: Thailand) pensava di essere più furba dei fan;
voleva postare ciò che riteneva avrebbe stuzzicato il loro interesse,
senza rivelare troppo. Risultò che la comunità - almeno nel suo in­
sieme - era di gran lunga più intelligente di lei, e riuscì a ricompor­
re gli indizi e a dedurne molto di quello che doveva succedere nella
serie. Più recentemente, una équipe giornalistica ha intervistato un
produttore di Survivor davanti a un tabellone bianco che riportava
le sfide dell’edizione che stava per iniziare; i fan sono riusciti a cat­
turare il fotogramma, ingrandire l’immagine e decifrare le scritte,
ottenendo così una road map del programma che non era ancora
iniziato.
8 C a p it o l o 1

A un primo livello, la storia di Survivor: Amazon era già com­


piuta prima che ChillOne entrasse in scena; le sue fonti alPAriau
Amazon Hotel stavano già iniziando a dimenticare cosa era succes­
so. A un altro livello, la storia non era ancora iniziata, dato che il
cast non era stato presentato ufficialmente, lo spettacolo doveva
ancora essere trasmesso, e mancavano ancora molte settimane
quando egli scrisse il suo primo post su Survivor Sucks (http://
p085.ezboard.com/bsurvivorsucks).
ChillOne sapeva di avere tra le mani informazioni importanti e
perciò decise di rivolgersi allo zoccolo duro dei fan - Survivor
Sucks [“Survivor è una fregatura”], uno dei primi e più popolari
gruppi di discussione dedicati al programma. Il nome richiede
qualche spiegazione, perché chiaramente chi partecipa al gruppo è
un fan appassionato, che non pensa in realtà che il programma sia
una fregatura. Inizialmente, Survivor Sucks era un forum per “rias­
sunti delle puntate precedenti”. Da un lato, il riassunto è uno stru­
mento utile per chi perde una puntata. Dall’altro, il processo di
riassumere era guidato dal desiderio di ribattere al televisore, pren­
dersi gioco della formula e segnare la distanza emotiva rispetto a
ciò che accadeva sullo schermo. Andando avanti, i Sucksters hanno
scoperto lo spoiling e da allora le discussioni non sono state più le
stesse. Così, fu qui - a queste persone che dichiaravano di odiare
Survivor ma erano veramente ossessionate dal programma - che
ChillOne gettò il suo sassolino.
Prevedendo qualche reazione, diede inizio a un nuovo thread di
discussione: “ChillOne’s Amazon Vacation Spoilers”. Di certo non
immaginava che il thread si sarebbe esteso per più di tremila post e
per tutta la stagione. Scrisse la prima volta il 9 gennaio 2003 alle
ore 7 :1 3 :2 5 P M . Alle 7 :1 6 :4 0 PM arrivavano già le prime domande.
Solo alle 7 :4 9 :4 3 PM qualcuno suppose che egli avesse in qualche
modo a che fare col programma e qualche minuto dopo ancora
qualcuno cominciò a chiedersi se non si trattasse di una bufala.
Iniziò tutto in maniera innocente: “Sono appena ritornato dal
Brasile e da un viaggio in Amazzonia... premetto che non ho tutte
le risposte circa S6 (Survivor 6), ma ho un’informazione abbastanza
credibile, da spoiler, che sono pronto a fornire”8.
I GUASTAFESTE Dl SURVIVOR 9

Immagini dallo spazio

Si sarebbe appreso più tardi che ChillOne era andato a Rio per
festeggiare il Capodanno in compagnia di amici, ma poi aveva volu­
to visitare il Brasile più a fondo, si era recato in Amazzonia e lì era
venuto a sapere che l’Ariau Amazon Towers era stato il quartier ge­
nerale dello staff della produzione di Survivor. Da fan della serie,
gli venne la curiosità di conoscere la location di persona. Non era
uno spoiler, più che altro faceva domande al personale dell’albergo
per capire quali potessero essere i siti più significativi per un giro
delPAmazzonia “a tema Survivor”. Laddove la maggior parte dei
visitatori erano eco-turisti che volevano immergersi nella natura
incontaminata, lui era un tele-turista che desiderava visitare una lo­
cation divenuta famosa perché trasmessa in tv.
Il suo primo post si concentrava sul luogo delle riprese: “Prima
di tutto, la mappa postata da Wezzie è molto accurata. Vorrei però
colmare qualche lacuna”. E stata una mossa d’apertura coraggiosa,
poiché Wezzie è uno dei membri più rispettati della comunità di
spoiler di Survivor. Lei e il suo compagno, Dan Bollinger, sono spe­
cializzati nello spoiling della location. Nella vita offline, Wezzie è
una supplente, docente di botanica, agente di viaggi part-time e
scrittrice free-lance. Dan è un progettista industriale che ha una
fabbrica di magneti per frigoriferi. I due vivono a mezzo continente
di distanza l’uno dall’altra ma lavorano come una squadra nell’im­
presa di identificare e documentare la prossima location di Survi­
vor - ciò che Mark Burnett definisce “il diciassettesimo concorren­
te”. Come una squadra, Wezzie e Dan sono stati capaci di indicare
e descrivere dettagliatamente il sito geografico della serie. Il pro­
cesso può iniziare con un commento buttato lì da Mark Burnett o
una frase del tipo: “Qualcuno che conosce qualcuno che conosce
qualcuno che lavora alla CBS, oppure in un’agenzia turistica”9.
Wezzie e Dan hanno costruito una rete di contatti con agenzie di
viaggi, funzionari governativi, imprese televisive e animatori turi­
stici. Come nota Dan: “Il passaparola nel settore turistico è molto
veloce quando si tratta di un grande progetto che porterà milioni
di dollari americani”.
Da qui, iniziano a restringere il campo tenendo conto delle esi­
genze della produzione. Wezzie descrive il processo: “Noi guardia­
mo la latitudine, il clima, la stabilità politica, la densità di popola­
zione, il sistema stradale, i porti, le attrazioni culturali, la religione
10 C a p it o l o 1

predominante nonché la vicinanza con le passate location di Survi-


vor”. Come nota Dan: “In Africa ho fatto riferimento alle mappe
demografiche, alle aree agricole, alle riserve nazionali, alle destina­
zioni turistiche e perfino alle illuminazioni urbane visibili di notte
dal satellite. A volte conoscere le zone in cui Survivor non può tro­
varsi è importante. È così che ho trovato Shaba Reserve”.
Wezzie lavora per tirare fuori più informazioni possibili. E ag­
giunge: “Il lavoro di Dan è magico!”. Dan in effetti ha sviluppato
contatti con la Space Imaging Company di Denver, proprietaria di
IKONOS, un’impresa di rilevamento satellitare ad alta risoluzione.
Smaniosi di mostrare le potenzialità dei propri satelliti, alla IKO­
NOS hanno fotografato la location di Survivor: Africa, che Dan ha
identificato da 423 miglia nello spazio; dopo un esame più attento,
è riuscito a individuare il complesso residenziale e i container della
produzione, il luogo del consiglio tribale e una fila di capanne Ma-
sai dove i concorrenti avrebbero vissuto, mangiato e dormito. La
necessità di catturare immagini dallo spazio è dovuta al fatto che il
prudentissimo Burnett ha ottenuto una “no fly zone” sopra la loca­
tion. Dan usa strumenti satellitari e sofisticate mappe topografiche
per raffinare la sua conoscenza dei luoghi. Nello stesso tempo,
Wezzie ne studia l’ecosistema e la cultura. Ogni cosa che scopre, fi­
nisce sulle mappe di Survivor e diviene una risorsa di conoscenza
per la comunità dei fan. Nonostante tutto, a volte anche loro sba­
gliano. Per esempio, hanno studiato a lungo una possibile location
in Messico, per poi venire a sapere che la nuova serie sarebbe stata

Retrospezione di Twin Peaks

La mia iniziazione a Internet e alle comunità di fan on-line avvenne


nel 1991, con alt.tv.twinpeaks3. A ripensarci, è notevole la somiglian­
za che si poteva intravedere tra le comunità del sapere di Pierre Lévy
e tutto il dibattito generato intorno a quella serie tv. Il gruppo si creò
in poche settimane dalla messa in onda del primo episodio della stra­
na detective series di David Lynch. Rapidamente divenne uno dei

a. Per una conoscenza più completa della fan community in rete di Twin Peaks, vedi
H. Jenkins, "Do You Enjoy Making thè Rest of Us Stupid?: alt.tv.twinpeaks, thè
Trickster Author, and Viewer Mastery", in Fans, Gamers, and Bloggers: Exploring
Participatory Culture, New York University Press, New York, 2006.
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 11

girata alle Pearl Islands, vicino a Panama. In ogni caso, non erano
totalmente in errore - avevano scovato la location di un altro rea-
lity show.
La comunità dei fan ha imparato a fidarsi di Wezzie e Dan per
il loro impegno e l’accuratezza dei loro post. I due hanno anche fa­
ma di osservatori neutrali che parlano al di fuori della mischia. Da
un lato ChillOne è stato impertinente nel correggere la mappa fin
dal suo primo post, schernendo così la loro autorevolezza all’inter­
no della comunità di spoiler. Dall’altro, è stato intelligente, poiché
l’informazione geografica era la più facile da verificare. Egli postò
qualche foto nel suo primo messaggio e Wezzie e Dan furono in
grado di autenticarle sulla base delle condizioni climatiche, dei li­
velli di marea e di altri dettagli geografici. Più e più volte, la gente
ha dichiarato che non avrebbe creduto a ChillOne se non fosse sta­
to in grado di provare, al di là di ogni possibile dubbio, di avere re­
almente visitato il luogo di produzione.
Con l’esperienza, i Sucksters sviluppano un’intuizione sulla ve­
ridicità di presunte anticipazioni. Shawn, spoiler di vecchia data,
ha spiegato:

Se è la prima volta che scrive un post è normale che si dica che non è
del tutto credibile. Non ci si fida mai la prima volta, ci si chiede perché
proprio ORA si metta a postare con tutte le volte che avrebbe potuto
farlo prima. Se la persona interessata ha già postato o partecipato allo
spoiling in precedenza, questo accresce la sua credibilità... nessuno

gruppi di discussione più attivi e più seguiti nella giovane era di Inter­
net e fu capace di attrarre circa 25.000 lettori (ma il numero di quanti
vi scrivevano attivamente era molto più basso). Il gruppo coinvolgeva
i partecipanti in vari modi. I fan lavoravano insieme per compilare dei
grafici illustrativi di tutti gli eventi della serie e dei frammenti di dia­
logo, condividevano materiale pubblicato sui giornali locali, usavano
la rete per passarsi cassette videoregistrate e rintracciavano la griglia
complessa di riferimenti a altri film, serie tv, romanzi e altri testi po­
polari, e cercavano di tener testa a quello che vedevano come un au­
tore burlone che cercava sempre di mandarli fuori strada.
Più di ogni altra cosa, la lista fungeva da spazio dove scambiarsi aiuti
e azzardare ipotesi sul nodo narrativo centrale: chi ha ucciso Laura
Palmer? La pressione sul gruppo salì all'approssimarsi della dramma­
tica rivelazione: "Svela il codice, risolvi il crimine. Abbiamo solo
12 C a p it o l o 1

può dare per certa l’inaffidabilità di un postatore fin quando non si


scopre che sta mentendo, a quel punto nessuno più gli crederà e sarà
inserito nella lista nera.

Molta gente pensava che ChillOne conoscesse fin troppo bene


la forma e la retorica dello spoiling per essere alla sua prima espe­
rienza, anche se per un certo periodo di tempo era stato un
lurker, un “guardone”. Così molti credevano che quel nome, Chill­
One, fosse la seconda identità di un postatore esperto. “Dicci chi
sei veramente”, lo imploravano, “così possiamo accreditare i tuoi
post futuri”. ChillOne, in ogni caso, non ha mai assecondato le ri­
chieste, continuando a fornire piccoli frammenti di informazioni.
La comunità non si accontentava di qualche indizio sulla location e
di poche fotografie. Desiderava “roba buona” e aveva tutte le ra­
gioni di pensare che ChillOne non volesse fornirla per intero. La
faccenda era già sul tavolo a partire dalla prima risposta al post ori­
ginale: “C’era qualche survivor all’hotel (come rifugio dei perden­
ti)? Hai ottenuto qualche soffiata su chi può aver partecipato allo
show?”.
Alle 19:55 del 9 gennaio, pochi minuti dopo il suo primo post,
ChillOne scoperchia un nido di vespe:

Per ciò che riguarda i concorrenti... sì, ho informazioni. Ciò che posso
svelarvi è che vedremo, per la prima volta nell’edizione Sé, un parte­
cipante disabile... si tratta di una donna non udente. Condividerò con

quattro giorni di tempo". Twin Peaks rappresentava per molte ragioni


un testo perfetto per una comunità informatizzata: combinava la com­
plessità narrativa del giallo a quella dei rapporti tra personaggi di una
soap opera, attraverso una struttura serializzata che lasciava questioni
aperte su cui dibattere settimana dopo settimana.
La comunità online era affascinata dal potenziale del lavoro colletti­
vo, dalla forza che molte migliaia di individui potevano mettere in
campo nella costruzione del senso di un prodotto televisivo. I suoi
membri usavano ossessivamente i videoregistratori, recentemente ac­
quistati, per scorrere avanti e indietro i nastri alla ricerca del dettaglio
perduto. Come commentò un fan: "La videoregistrazione ha permes­
so di trattare la pellicola come fosse un manoscritto da decifrare". Gli
utenti periferici erano sconcertati dall'immensa possibilità di compi­
lare ed elaborare informazione, qualche volta confondendo il sapere
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 13

voi altre informazioni sui concorrenti nei mesi prossimi. Vi dico che
non conosco il cast intero. Non so i loro cognomi. Conosco solo i no­
mi di una manciata di concorrenti e poche notizie su alcuni altri.

Detto questo, la risposta dei Sucksters è prevedibile:

Io non voglio causarti problemi, ma perché aspettare? Puoi dircelo.


Perché nascondere i nomi dei concorrenti e la loro descrizione? Dac­
celi!
Sarebbe fantastico sapere i loro nomi, prima che questi siano pubbli­
cati ufficialmente lunedì.
Se non vuoi fare nomi, potresti almeno dirci se alcuni dei concorrenti
che abbiamo ipotizzato fanno parte dello show.

Lo spoiling segue una sequenza logica. La prima fase consiste


nel focalizzarsi sull’individuazione della location, perché il primo
impatto della produzione si sente principalmente sul luogo del set.
In seguito ci si concentra sui concorrenti, perché il secondo impat­
to si avverte sulle comunità locali da dove questi “americani comu­
ni” provengono. Il collettivo ha i suoi “sensori” dappertutto e ri­
sponde al minimo stimolo. Come spiega Shawn: “La gente del luo­
go non riesce mai a tenere la bocca chiusa”. Milkshakey ha raccolto
una voce - una allenatrice della squadra femminile del suo liceo
potrebbe essere un survivor - e ha iniziato a fare domande ai suoi
studenti di prima e a quelli attuali, alla ricerca di qualsiasi informa-

del gruppo con la conoscenza individuale: "Dimmelo! Dimmelo! Da


quanto segui TP? Prendi appunti durante la messa in onda? Quando
spunta un dubbio ti riguardi tutte le puntate? Afferri un blocco note, ti
procuri dei pop corn e inizi la visione? Hai una buona memoria foto­
grafica?... Ti diverti a farci sentire stupidi?"
Col proseguire della serie, mentre molti critici si lamentavano del fat­
to che Twin Peaks fosse diventato così complicato da sfiorare l'incom­
prensibilità, la comunità dei fan, al contrario, lo giudicava ormai trop­
po prevedibile. L'abilità del gruppo di assemblare le risorse collettive
poneva alla serie delle richieste che nessuna produzione di quel tem­
po sarebbe stata in grado di soddisfare. Pur di intrattenersi, la comu­
nità tesseva degli intrecci elaborati e forniva spiegazioni sempre più
interessanti perché ancora più fantasiose di quelle proprie della fic­
tion. Alla fine, la comunità si sentì tradita perché Lynch non riuscì a
14 C a p it o l o 1

zione possibile. Un quotidiano di una piccola città allude al fatto


che qualche concittadino potrebbe essere in gara per vincere un mi­
lione di dollari. Presto o tardi, tutto arriva ai Sucksters.
Qualche volta, lo spoiling richiede piccoli sforzi. La Ellipsis
Brain Trust ha scoperto il nome del webmaster che ha creato il sito
di Survivor, si è intrufolata nell’account di posta elettronica ufficia­
le sino a trovare una singola voce, una lista di Uri da acquistare im­
mediatamente, sedici in tutto, ciascuno contenente il nome di un
uomo o di una donna (ci sono sedici concorrenti in ogni serie di
Survivor). Da qui, i membri dell’EBT si sono divisi i nomi della lista
e hanno cominciato a investigare per vedere se si trattasse di perso­
ne reali. In molti casi, vi era molta gente con quei nomi, qualche
deceduto, alcuni giovani e persone in buona salute; il compito era
tirar fuori quanto più possibile sul loro conto. In un’epoca in cui
tutte le fonti di informazione sono collegate e in cui la privacy vie­
ne sempre meno rispettata, ci sono immense possibilità che una
squadra di diverse centinaia di persone possa scavare nella vita di
qualcuno, con un po’ di tempo e di determinazione. Armati dei lo­
ro documenti carpiti in rete, i membri di EBT confermarono con
successo tutti i sedici concorrenti prima che la CBS rilasciasse un
solo nome. A volte, comunque, gli spoiler si concentrano sui nomi
sbagliati e perdono molto tempo a collezionare dati su persone
completamente estranee al programma. Altre volte, invece, perso­
ne in cerca di fama fanno circolare il proprio nome e stanno a guar­
dare la comunità che parla di loro.

^ é h ii ì
tenere loro testa. Questo avrebbe dovuto essere il primo segnale che
ci sarebbe stata tensione, da allora in poi, tra i produttori e i consu­
matori mediatici. Come un fon deluso lamentava: "Dopo tutti gli sfor­
zi, tutte le analisi, tutte le attese e le tracce false, non c'è finale che
potrebbe soddisfare a pieno le aspettative che si sono create. Se
l'enigma W KLP [Who killed Laura Palmer, Chi ha ucciso Laura Pal­
mer] si risolverà definitivamente nell'episodio del 10 novembre, noi
resteremo molto delusi. Anche coloro che avranno indovinato festeg­
geranno e gongoleranno per un po' e poi resteranno con un senso di
vuoto".
La televisione doveva diventare più sofisticata per riuscire a reggere il
confronto con i suoi spettatori più impegnati.
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 15

Anche quando gli spoiler fanno centro, c’è una linea sottilissima
tra l’investigare su persone che hanno scelto le luci pubbliche della
ribalta e il perseguitarli a casa loro o al lavoro. Per esempio, una
fan ambiziosa scoprì il posto dove si tenevano le prime selezioni
per Survivor: Pearl Island; prenotò una stanza in quell’hotel prima
ancora della CBS e rifiutò di andarsene quando la produzione offrì
di pagarla per avere tutto l’hotel a disposizione nel fine settimana.
Riuscì a fotografare tutti i protagonisti del provino, usando un te­
leobiettivo, e le sue immagini servirono a verificare ogni nome che
affiorava. La comunità passa molto tempo a dibattere su dove esat­
tamente si trova questa sottile linea di demarcazione.
Può capitare, a volte, di vincere un terno al lotto durante questa
fase. Quartzeye andò da un rivenditore di auto usate dove Brian
(Survivor: Thailand) lavorava; finse di essere un cliente, e lo foto­
grafò al fianco di una macchina. Quando il gruppo confrontò le sue
fotografie con quelle ufficiali del programma, vide che aveva perso
molto peso e apparve chiaro che era stato nella foresta più a lungo
degli altri. Qualcuno cercò Mike Skupin nel sito web della sua
azienda e trovò una sua foto mentre posava, accanto a un socio
d’affari, con il braccio ingessato. Ciò fece dedurre al gruppo che si
sarebbe assistito a un incidente. Qualche esperto locale di Photo­
shop, però, non si convinse, esibendo vari modi in cui l’immagine
poteva essere stata ritoccata. Come poi si scoprì, Mike fu coinvolto
in un incendio e dovette uscire dal gioco per essere curato.
Col passare delle stagioni, Mark Burnett, CBS, e il team della
produzione hanno rafforzato le misure di sicurezza, hanno tappato
le possibili falle, hanno prevenuto le mosse degli hacker e hanno
reso più difficile lo spoiling. Per la sesta edizione, la comunità ha la­
vorato duro nel provare a scoprire i nomi dei partecipanti, ma si è
ritrovata quasi a mani vuote. Avevano pochi soggetti accreditati -
Heidi, l’insegnante di ginnastica, era il più certo - e alcuni tra quel­
li proposti più tardi furono smentiti. (La comunità si attiene a cri­
teri molto rigidi per confermare o meno i nomi. Solo una volta è
capitato che abbia suggerito la presenza di un soggetto che poi non
era nel gioco, e solo raramente il gruppo cestina il nome di qualcu­
no che poi sarà realmente un concorrente. Durante questa fase pre­
liminare, però, molti nomi vengono passati al vaglio.) Così, quan­
do ChillOne sostenne di sapere almeno parte dei nomi e che sareb­
be stato in grado di confermare alcuni di quelli che erano in circo­
lazione, il gruppo entrò in agitazione. Finalmente, ecco la svolta
16 C a p it o l o 1

che attendevano. E arrivava solo il giorno prima della presentazio­


ne ufficiale.
Ma ChillOne giocò con loro, sostenendo di non voler dare in­
formazioni inesatte e che avrebbero dovuto aspettare un po’ di
tempo fino a quando non fosse tornato a casa e avesse ri controllato
i suoi appunti. Più tardi, qualcuno si insospettì di questo suo ri­
mandare e ipotizzò che potesse avere accesso alle prime copie di
TV Guide o di USA Today, che sarebbero stati pubblicati di lì a po­
che ore, o che avesse una fonte a The Early Show, il programma
che avrebbe trasmesso la presentazione ufficiale. Forse, stava sol­
tanto prendendo tempo.

“Comunità del sapere blindate ”

“Se non vedi l’ora di condividere ciò che sai, ma non ti va di far­
lo davanti a tutti, ti consiglio di contattare qualcuno di noi in pri­
vato.” Così suggerisce un primo post: delegare gli esperti per assol­
vere la missione. Le informazioni personali più delicate sui concor­
renti non vengono pubblicate su Survivor Sucks, dove chiunque ab­
bia un accesso a Internet potrebbe leggerle.

Il paradosso della reality fiction

Lo spoilingè solo una delle varie attività che impegnano i fan di Sur­
vivor. Come gli amanti di molte altre serie, anche loro scrivono e po­
stano storie originali dei loro personaggi preferiti. Un fan dall'impro-
babile nome di Mario Lanza fu ispirato dal dibattito su un incontro dei
migliori di Survivor per la scrittura di episodi immaginari di almeno
tre intere stagioni (A ll Star: Greece, A ll Star: Alaska e A ll Star: Hawaii),
in cui raccontava le imprese immaginarie di questi concorrenti reali.
Ogni puntata è lunga dalle quaranta alle settanta pagine. Gli episodi
si svolgono, settimana per settimana, durante il fuori-stagione. Le sto­
rie seguono la stessa struttura drammatica del programma, ma sono
più concentrate sulle motivazioni e sulle interazioni dei personaggi.
Lanza paragona il processo di conoscenza dei personaggi a quello
usato dalla polizia per tracciare i profili: "Ho provato con forza a en­
trare nella testa di queste persone. Mi sono quindi chiesto: se dovessi
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 17

Nel corso delle prime cinque stagioni, dal tronco di Survivor


Sucks sono emersi come rami derivati dei “brain trust” - gruppi di
“cervelli” composti da un minimo di venti persone a un massimo di
qualche centinaio. Questi “trust di cervelli” svolgono gran parte del
lavoro di investigazione più delicato e approfondito attraverso siti
protetti. Possiamo pensarli come delle società segrete o dei club
privati, i cui membri sono selezionati uno a uno in base alla loro
abilità e ai risultati raggiunti in passato. Gli esclusi si lamentano
della “fuga di cervelli”, che segrega dietro porte chiuse i postatori
più accurati e più brillanti. Per parte loro, i trust sostengono che
questo processo diagnostico blindato protegge la privacy e assicura
che, quando vengono pubblicate, le informazioni abbiano un alto
grado di accuratezza.
Una questione sulla quale Lévy non si è mai completamente in­
terrogato è quella relativa alla scala su cui operano queste comuni­
tà intelligenti. Al culmine del suo utopismo, egli immagina l’intero
mondo funzionante come un’unica comunità del sapere, e pensa a
nuovi modi di comunicare che faciliterebbero lo scambio e la rifles­
sione sulla conoscenza a questa scala. In altri momenti, sembra ri­
conoscere il bisogno di comunità “scalabili”, specialmente nelle
prime fasi dell’emergere di una cultura della conoscenza. Egli ha
una profonda diffidenza nei confronti delle gerarchie, vedendo

rifare di nuovo il gioco, che cosa cambierei, e come? Cosa so di que­


sta persona? Come lo so? Come parlano e come pensano i partecipan­
ti ?"a.
Mentre lo spoiling prova ad anticipare le reazioni dei concorrenti ri­
spetto agli avvenimenti rappresentati nella serie, la fan fiction fa un
passo avanti, provando a immaginare le loro reazioni di fronte a sfide
e dilemmi mai vissuti nella vita reale.
E fin qui nulla di diverso da come crea qualsiasi altro scrittore di fan
fiction: conoscere i personaggi, rimanere coerenti con il programma
tv, immaginare in base a quel che si sa di come si comportano le per­
sone nel mondo reale; tranne che, in questo caso, i personaggi sono
persone che esistono nel mondo reale. Le storie di Lanza, infatti, sono
state apprezzate dagli stessi concorrenti di Survivor,; che spesso gli

.1. Intervista personale con l'autore, maggio 2003.


18 C a p it o l o 1

nella democrazia il sistema più adatto a rendere possibile l’emerge­


re della cultura della conoscenza. Lévy scrive: “Come gestire enor­
mi masse di dati riguardanti problemi interconnessi, in una situa­
zione mutevole? Probabilmente adottando strutture organizzative
che favoriscano una autentica socializzazione delle soluzioni dei
problemi piuttosto che la loro gestione da parte di istanze separate,
sempre a rischio di venire soppiantate da concorrenti, ingoiate, se­
parate ed escluse dal dibattito”10.1 trust di cervelli rappresentano il
ritorno della gerarchia alla cultura del sapere, il tentativo di creare
un’élite che può accedere a informazioni non disponibili al resto
del gruppo e pretende che gli altri si fidino e la lascino arbitra di
decidere cosa sia appropriato o meno condividere con il collettivo.
Molti spoiler ritengono che questi trust perseguano un obiettivo
utile, ma che possano essere diabolicamente paternalisti. Come
spiega un Suckster: “Ogni cosa che abbiamo è anche loro, perché
noi siamo aperti, quello che hanno loro non può invece essere no­
stro perché i membri di una comunità chiusa possono decidere co­
sa condividere. Hanno fonti che noi non abbiamo, e amano accu­
mulare informazione, che è ciò che fanno tutti i gruppi privati”. I
trust tendono a fornire dati senza offrire spiegazioni sulla loro pro­
venienza, tagliando quindi essenzialmente fuori la plebe dal proces­
so e definendosi come esperti che dovrebbero essere creduti sulla

scrivono lettere per complimentarsi del realismo o fargli notare dove


ha interpretato male la personalità di qualche concorrente. Per esem­
pio, dice che Gabriel Cade (un concorrente di Survivor: Marquesas)
fu così lusingato dall'essere stato scelto per una delle ali-star stories
che si lasciò coinvolgere nella scrittura della fiction: "È davvero molto
interessato a come viene fuori il suo personaggio e perciò mi ha for­
nito ogni genere di gossip: che tipo di persone sono, cosa fanno, chi
sta simpatico a chi, come interagiscono". Come scrittore di reality fic­
tion,, Lanza riceve lettere dai suoi personaggi che sono suoi fan.
Con Survivor: Greece, ha provato a raccontare le storie di tutti quei
personaggi che erano stati cacciati per primi dalle varie serie. Avendo
a disposizione poco materiale trasmesso, apprese molte notizie inter­
vistandoli direttamente o chiamando in causa i loro compagni. Dopo
aver scelto per caso Diane Ogden (Africa) e Gabriel Cade (Marquesas)
come capi-squadra, li contattò per sapere da loro chi avrebbero scelto
per far parte dei loro gruppi. A volte, ha chiesto ai veri concorrenti di
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 19

parola. Corre voce che molti brain trust abbiano fonti segrete,
spesso all’interno della casa di produzione.
ChillOne postò tutto ciò che sapeva nella lista di discussione più
ampiamente accessibile e lasciò che il controllo delle sue informa­
zioni avvenisse in modo pubblico. I brain trust stavano lavorando a
porte chiuse per vedere fin dove potevano seguire le informazioni
che aveva raccolto, ma ChillOne voleva agire allo scoperto. Qual­
cuno dei brain trust tentava di screditarlo, esortando i Sucksters a
non dargli troppo credito, senza aggiungere però motivazioni. Al­
cuni credettero a questi avvertimenti perché i brain trust erano
molto ben informati; altri sospettarono che il loro fosse solo un
tentativo di mettere fuori gioco un rivale.
Il secondo giorno, ChillOne non aveva ancora rivelato i nomi
dei concorrenti e il gruppo faceva il conto alla rovescia prima che
questi fossero resi pubblici. Come se non fosse già abbastanza scoc­
ciante, ChillOne chiuse il suo post con una bomba: “Qui c’è una
piccola provocazione... una ragazza non udente di 22 anni. Non so
il suo nome, ma sarà tra gli ultimi quattro finalisti”. Per la prima
volta ChillOne lasciò intuire che forse conosceva il vincitore.
Alla fine del secondo giorno, ChillOne iniziò a distribuire il ful­
cro delle sue informazioni e ad accennare a come le aveva ottenute.
Voleva proteggere le sue fonti, disse, perciò non si spingeva troppo

scrivere le loro proprie "parole finali" con le quali i loro personaggi di


fiction escono dal gioco. Alcuni dei giocatori, intervistati da Chris
Wright, trovarono che la fiction di Lanza riflettesse meglio le loro vere
personalità e strategie rispetto al programma tv, in quanto si basava
meno su stereotipi. Molti di essi provavano un piacere indiretto e uno
stimolo psicologico nel vedere i loro personaggi di fiction risolvere
problemi che li avevano bloccati realmente durante il gioco3.
Lanza voleva anche mantenere il ruolo fondamentale della casualità,
come nel programma: "Ho parlato con molti survivor, al telefono o
via mail, e una cosa che viene fuori spesso è che gran parte del gioco
è basato sulla fortuna. Non importa quanto tu sia astuto, intelligente
o forte...e io volevo che venisse fuori anche nella storia. Non volevo

,i. C. Wright, "Poaching Reality: The Reality Fictions of Online Survivor Fans", mate­
riale didattico inedito, Georgetown University, 7 febbraio 2004.
20 C a p it o l o 1

oltre. Aveva passato un po’ di tempo a offrire drink al bar dell’ho-


tel, in cambio di notizie, ma senza chiedere troppo per evitare che
i suoi informatori si tirassero indietro. Alcuni di loro parlavano so­
lo portoghese, così aveva dovuto ricorrere a degli interpreti. Nelle
settimane successive, gli venne chiesto quali fossero i loro gesti e il
tono delle loro voci, se avessero un accento forte e se i traduttori
fossero a loro agio con l’inglese. Elaborò una teoria su come la co­
noscenza dei fatti era circolata in quell’hotel, dato che non era la
“casa dei perdenti” come si sospettava, e visto che nessuno dei con­
correnti aveva mai alloggiato lì. Ne aveva dedotto che le informa­
zioni erano arrivate dai traghettatori, che riportavano indietro i
concorrenti eliminati dal gioco. “Siccome ci sono pochissimi barca­
ioli, molti di loro sono occupati varie ore a trasportare il gruppo di
S6 avanti e indietro dalla giungla. Questo d’altra parte permette lo­
ro di diventare testimoni delle riprese. Sono sicuro che, nel corso
dei tre mesi, chiacchierando tra loro e con l’aiuto dello staff che
parlava inglese, si siano fatti un’idea di che cosa stava succedendo.”
ChillOne non disse mai chiaramente che la sua fonte era uno di lo­
ro. Lasciò agli spoiler di trarre le loro conclusioni, e nelle settimane
successive intorno a questa figura del barcaiolo si svilupparono
molte supposizioni e un’intera mitologia. ChillOne si rifiutò di
confermare o smentire le voci. Disse che non voleva turbare le ac-

^ ■ lll
poter barare, da scrittore". Iniziò così a scrivere le sfide e a tirare a da­
di per scegliere quale squadra o giocatore avrebbe vinto, e in base a
ciò scrivere la scena corrispondente. Un solo tiro di dado poteva de­
terminare la trama di intere settimane, più che in tv; di conseguenza
le storie sono piene di sorprese e di imprevisti che catturano il pubbli­
co.
Una delle serie si concludeva con quattro donne che arrivavano in fi­
nale, evento mai accaduto in tv. Come spiega Lanza: "È solo così che
sono andate le cose".
Forse a causa del suo rapporto diretto con i concorrenti, Lanza è di­
ventato un critico pungente dello spoiling, che ritiene essere troppo
invadente, e spiega: "La gente prende il tutto troppo seriamente. È so­
lo uno show televisivo". Poco dopo, aggiunge: "Lasciatemi parlare di
Survivor e non smetterò mai più". Come si dice, Survivor cattura.
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 21

que lasciandosi coinvolgere nella caccia alla fonte. Qualcuno pensò


che si stesse divertendo a tenerli sulle spine.
“Questo è ciò che so... non è molto”, affermò molto sommessa­
mente. Conosceva un po’ di tutto - i primi quattro cacciati, gli ul­
timi quattro finalisti, la location, dettagli sui concorrenti e sulla lo­
ro condotta, alcuni dei momenti salienti del programma. Sapeva
che per la prima volta i gruppi sarebbero stati divisi per genere, ma
che si sarebbero “fusi molto presto... dopo che i primi 3 o 4 con­
correnti saranno fuori”. Sapeva che le donne avrebbero dominato
nelle prime sfide e che molti tra i primi cacciati erano uomini gio­
vani e atletici che avevano annaspato nella gara. Sapeva che uno
dei concorrenti si sarebbe parzialmente denudato per guadagnare
un premio (viene fuori che Heidi e Jenna avevano fatto un bagno
nude per avere la cioccolata e il burro d’arachidi durante una delle
prove d’immunità). Sapeva che un insetto del luogo avrebbe costi­
tuito la sfida per procurarsi il cibo. Alcune cose che conosceva, per­
fino quelle di cui era certo - come il fatto che la “ragazza sorda”,
Christy, fosse tra gli ultimi quattro finalisti - si rivelarono comple­
tamente sbagliate. Altre suonavano così vaghe da poter esser mani­
polate per sembrare vere indipendentemente dall’esito. In ogni ca­
so, in generale le sue informazioni erano veritiere. L’ordine dei pri­
mi quattro cacciati era errato ma, alla fine, i suoi nominativi risul­
tavano tra i primi cinque buttati fuori. Sbagliò nell’identificare uno
degli ultimi quattro finalisti, ma Christy comunque era il quinto.
La probabilità di indovinare tutto, senza avere informazioni inter­
ne, era proprio vicina a zero.
Quanto alla sfida finale, sapeva o sosteneva di sapere, che
avrebbe visto protagonisti una donna chiamata “Jana”, o qualcosa
del genere, e un uomo fra i venti e i trent’anni, dal “fisico forte” e
dai “capelli molto corti” pettinati da un lato. L’Oracolo di Delfi, a
confronto, si pronunciava con maggiore chiarezza. Innanzitutto, il
nome “Jana” non corrispondeva a nessun concorrente, e in una sta­
gione i cui i nome di donne erano Janet, Jenna, Jeanne e Joanna
c’era spazio per la confusione. Matthew, il progettista di ristoranti
“giramondo” poteva corrispondere più o meno alla descrizione
dell’uomo: sicuramente aveva un fisico robusto e portava i capelli
da un lato, ma crescevano e sarebbero cresciuti ancora più disordi­
nati fino alla fine del gioco; per di più aveva molto più di ventisei
anni. Quindi forse ChillOne alludeva ad Alex, l’allenatore di tria­
thlon, oppure a Dave, l’ingegnere missilistico. Dopo un po’, si co­
22 C a p it o l o 1

minciò a pensare anche a Rob: era un nerd goffo, ma anche il suo


tono muscolare poteva esssere migliorato dopo due mesi passati
nella foresta pluviale. C’era abbastanza materiale, in queste indica­
zioni, da tener occupata la comunità per i mesi a seguire, e da la­
sciar supporre tutto e il contrario di tutto.
Molti avrebbero voluto dividersi i compiti, radunare le truppe,
e vedere cosa si sarebbe potuto scoprire prima che la stagione tele­
visiva fosse iniziata. In altri termini, volevano sfruttare tutte le ri­
sorse che l’intera comunità aveva a disposizione invece che riporre
tutta la fiducia in un individuo in precedenza sconosciuto. Uno de­
gli aspiranti leader spiegò: “Ci sarebbero molte cose che dovrem­
mo sapere sul loro conto. Fondamentalmente dovremmo costruire
un dossier per ciascuno di loro. Foto precedenti a Survivor, filmati,
biografie, descrizioni (quanto sono alti questi tipi esattamente?);
che cosa si sono lasciati scappare Jiffy [Jeff Probst] e M B [Mark
Burnett] parlando dei concorrenti, quali allusioni hanno fatto?...
Alla fine, salteranno fuori altri indizi. I pezzi cominceranno a com­
baciare e il puzzle comincerà ad avere un senso. In questo modo si
può fare una quantità enorme di cose PRIMA che lo spettacolo va­
da in onda”11. Ma ChillOne aveva spostato il bersaglio su cui si fo­
calizzava la comunità degli spoiler; tutti i loro sforzi erano diretti
ad avvalorare o smentire le sue teorie - e nessuno ricercava in altre
direzioni. Col passar del tempo, le informazioni di ChillOne si so­
no diffuse in tutti gli altri forum e le liste di discussione, fino al
punto che non ci si poteva muovere senza incappare in qualcuno
che diceva la propria opinione sulla sua veridicità o meno - che si
volesse avere qualche contatto con gli spoiler o meno. Se si tentava
di proporre una teoria alternativa, qualcuno subito ti tacitava, per­
ché contraddicevi quello che il gruppo “sapeva già” da ChillOne.

Informazione contestata

Quasi immediatamente, gli scettici della lista di discussione co­


minciarono a far sentire le proprie voci, perché qualcosa in tutta la
faccenda non tornava: sembrava troppo bello per essere vero.

Non che la storia passata conti “molto”, ma quante volte abbiamo ri­
cevuto informazioni corrette sui concorrenti, come queste, da parte di
qualcuno che si è trovato per caso sul luogo delle riprese? Penso ci sia
una prima volta per tutto.
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 23

È sicuramente possibile che ChillOne sia MB e che stia dimostrando


la sua attendibilità lasciando trapelare informazioni veritiere con po­
chi giorni d’anticipo, solo per colpirci poi con una falsa predizione su­
gli ultimi quattro finalisti.
MB è indubbiamente il tipo di persona che può far preparare ai suoi
servi delle false informazioni da far trapelare e cose del genere, duran­
te la loro pausa pranzo.

Avrebbero continuato così per il resto della stagione. Lo spoi-


ling è un processo conflittuale - una contesa tra fan e produttori,
dove il primo gruppo prova a mettere le mani su conoscenze che
l’altro tenta invece di proteggere. L’attività di spoiling è, nello stes­
so senso in cui lo è quella di un tribunale, basata sulla convinzione
che, attraverso una contesa sulle informazioni, prima o poi la verità
dovrà emergere. Il sistema funziona al meglio quando la gente pas­
sa al vaglio ogni singola informazione senza prenderla immediata­
mente per buona. Come spiegò uno scettico: “La gente che ha dei
dubbi dovrebbe essere la benvenuta, non disprezzata, perché nel
lungo termine aiuta tutti. Se mi metto a scavare in buchi che sem­
brano piccoli, questi potrebbero rivelarsi senza via d’uscita (una
vittoria per voi), oppure divenire più grandi (una vittoria per me).
I buchi più grandi potrebbero portare ad altre cose. In ogni caso,
ne verrà fuori una soluzione”.
I partecipanti si danno battaglia sulla natura della verità e intan­
to le cose possono farsi brutte.
Se si potessero trovare evidenze sufficienti per screditare com­
pletamente ChillOne, il forum potrebbe chiudere quel filone di di­
scussione e dedicare la propria attenzione ad altro. ChillOne vole­
va tener viva quella linea di discussione per tutta la stagione; i suoi
rivali desideravano invece metterlo a tacere. La battaglia delle af­
fermazioni di ChillOne si giocava su due campi. Nel primo c’erano
gli assolutisti, che ritenevano che se qualche aspetto delle sue sof­
fiate era falso, ciò testimoniava il fatto che egli stesse mentendo:
“Se una persona predice quattro eventi distinti, e il primo di questi
non si verifica, vuol dire che ha sbagliato il pronostico. Anche se un
altro si avvera, dopo questo, è irrilevante... non puoi avere ‘in par­
te’ ragione... o ce l’hai o non ce l’hai. Altrimenti... quella persona
non fa altro che giovarsi della possibilità matematica di avanzare
pronostici che prima o poi si avverano”. Sul fronte opposto i rela­
tivisti, che sostenevano che la memoria qualche volta può essere
24 C a p it o l o 1

imprecisa, o che i dati possono essere stati alterati: “Ma da dove


venite?... Siete gente incapace di riconoscere l’esattezza di alcuni
dati solo perché in uno di essi ci sono delle imprecisioni”. C ’erano
troppe informazioni che si avvicinavano molto ai fatti perché tutta
la cosa fosse stata costruita ad arte.
Presto, gli assolutisti e i relativisti si avvilupparono in un dibat­
tito filosofico sulla natura della verità. Pensate a questi dibattiti co­
me a una sorta di epistemologia popolare. Visto che stiamo impa­
rando a vivere all’interno della cultura della conoscenza, possiamo
prevedere sempre più discussioni centrate sul modo in cui appren­
diamo e valutiamo, più che sulla conoscenza stessa. I modi di cono­
scere possono essere così diversi e personali quanto i tipi di cono­
scenza a cui abbiamo accesso ma, quando il sapere diviene pubbli­
co, entra a far parte della vita di una comunità, le contraddizioni
nell’approccio devono essere almeno affrontate, se non risolte.
A un certo punto, un esasperato difensore di ChillOne sintetiz­
zò le teorie a confronto: “Non è mai stato in Brasile. Lavora con
qualcuno ben informato. Spesso non ha ragione, sta costruendo la
truffa perfetta, è solo uno di noi che ha avuto una fortuna sfaccia­
ta”. Il postatore continuava: “A mio avviso, indiscrezioni di questa
portata spingono inevitabilmente a porsi domande sull’identità del
loro autore, sulle sue reali fonti di informazione, sul suo obiettivo
finale, e così via. In altre parole, l’autore stesso diviene una parte
critica dell’informazione di spoiling”. Parte di ciò che diede credi­
bilità a ChillOne si deve alla sua disponibilità a connettersi giorno
dopo giorno e a rispondere alle domande con tranquillità e razio­
cinio, mantenendosi coerente in quel che diceva. Altri, però, nota­
vano delle stonature nel suo stile di scrittura, talvolta lucido e au­
torevole, altre vago, tortuoso e incoerente, come se qualcuno stesse
scrivendo al suo posto.
Ben presto la credibilità di ChillOne subì un duro colpo.
L’“asiatico-americano” Daniel non fu il primo a essere cacciato dal
gioco, come lo “zio barcaiolo” aveva predetto, e così tutti sospese­
ro la loro fiducia fino a quando Daniel uscì alla terza settimana, ab­
bastanza in accordo con la linea tracciata da ChillOne. Così si andò
avanti, mangiandosi le unghie dall’ansia settimana dopo settimana,
con le informazioni fornite da ChillOne che si dimostravano più o
meno giuste, anche se ogni settimana qualcosa andava storto ri­
spetto alle sue previsioni. Recuperò un po’ di credibilità verso metà
stagione, quando i giornali riferirono che un centro per il gioco
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 25

d’azzardo di Las Vegas aveva interrotto le scommesse sui risultati


di Survivor, perché aveva sorpreso alcuni dipendenti della CBS a
scommettere sulla base di quelle che si supponeva fossero informa­
zioni dall’interno. Avevano scommesso su Matthew e Jenna per la
sfida finale, il che sembrava comprovare che ChillOne avesse ra­
gione, ma presto si comprese che gli impiegati della CBS erano
giunti a quelle previsioni semplicemente visitando le liste di discus­
sione e affidandosi a ChillOne, senza far ricorso, quindi, a nessuna
soffiata interna. Era accaduta una cosa simile quando la comunità
degli spoiler aveva preso per buone le predizioni regolarmente ac­
curate di un quotidiano di Boston a proposito della serie Survivor:
'The Australian Outback, pensando che confermassero le loro in­
formazioni, fino a quando non fu chiaro che il reporter in questio­
ne scriveva i suoi pezzi in base a ciò che leggeva nei forum online.
Alla fine, ChillOne aveva ragione, se si considera che Jenna era
“Jana” e che il trentenne spettinato Matthew era il ventenne dai
“capelli corti”. Probabilmente, sarebbe più preciso dire che la sof­
fiata di ChillOne aiutò gli spoiler ad avvicinarsi alla risposta esatta,
anche se molti Sucksters avrebbero scommesso sul fatto che egli
aveva un informatore interno: non potevano credere che Jenna, la
monella, avrebbe vinto sul laborioso ma misterioso Matthew. Da
una comunità come questa, che prospera sui dibattiti circa la vali­
dità dell’informazione, un vago e approssimativo consenso, oggi
come oggi, è il massimo che ci si possa aspettare. Alcune cose di­
ventano credenze comuni, accettate da tutti, su altre il gruppo, al­
legramente, concorda di essere in disaccordo.

Lo strumento del male e i suoi adulatori

Non potremo mai conoscere con certezza la fonte di ChillOne.


l’in dall’inizio, gli scettici avevano due teorie prevalenti: che egli
tosse in qualche modo legato alla casa di produzione o che fosse un
imbroglione. Entrambe erano plausibili, data l’esperienza delle
passate stagioni.
Gli spoiler avevano tutte le ragioni di credere che Mark Burnett
avesse un ruolo attivo nel manovrare il flusso informativo intorno
alla serie. Lo chiamavano “Evil Pecker M ark” [difficile da tradurre:
jwcker è slang per il membro maschile, a indicare anche una perso­
na inaffidabile: “cazzone malefico” in italiano rende più o meno
26 C a p it o l o 1

l’idea... N.d.R.] giocando sulla sigla EP (che sta anche per Executi­
ve Producer). La CBS ha pubblicamente ammesso di monitorare,
come anche altre case di produzione, le liste di discussione allo sco­
po di conoscere il proprio pubblico. Chris Ender, portavoce della
CBS, ha dichiarato: “Nella prima stagione, era un territorio molto
interessante. Iniziammo a monitorare i message board per capire
che cosa funzionasse nel nostro marketing. Era la migliore ricerca
che potessimo fare”12. I fan avevano tutte le ragioni di sospettare
che qualcuno, dallo studio di Burnett, li stesse ascoltando mentre
parlavano - e avevano anche qualche motivo di pensare che venis­
sero propinate loro delle menzogne, almeno qualche volta, nel
consapevole tentativo di pilotare il modo in cui veniva accolta la
trasmissione. Ecco come Jeff Probst descrive il suo ruolo nel pro­
cesso: “Mettiamo in giro così tante menzogne e così tante informa­
zioni fuorviami che c’è sempre una via d’uscita; c’è sempre un mo­
do di riprendersi dall’errore. Potrei dirvi adesso chi è il vincitore e
voi non sapreste se credermi o no”13.
I fan della prima edizione cominciarono a esaminare i titoli di
testa della serie per ricavarne eventuali indizi e scorsero un’imma­
gine di nove concorrenti durante quello che sembrava un consiglio
tribale14. Usarono quella foto per restringere il campo sull’ordine
degli espulsi - anche se, in qualche caso, rimanevano questioni ir­
risolte, dal momento che era possibile che una persona stesse vo­
tando mentre la foto veniva scattata e qualcuna delle persone ripre­
se era un po’ in ombra, per cui si poteva mettere in dubbio la sua
vera identità. L’immagine risultò essere fuorviarne, se vista fuori
dal contesto. Nessuno era sicuro che il produttore non volesse in­
filarli in una caccia ai fantasmi. Più tardi nel corso della prima se­
rie, le macchinazioni dietro le quinte dei produttori arrivarono sul­
le pagine dei giornali nazionali, con il caso di “Gervase X ”. Gli
spoiler scoprirono l’URL della directory principale del sito ufficiale
della CBS legato al programma, scavarono quindi attorno ai detta­
gli delle scene, scoprendo quindici immagini non collegate in cui
comparivano tutti i concorrenti meno uno, Gervase, con una X ,
come cancellati. I fan si convinsero che l’allenatore afro-americano
fosse l’unico che non sarebbe mai stato cacciato via, fino al mo­
mento in cui Gervase invece fu scelto per lasciare l’isola. Mark Bur­
nett e Ghen Maynard, responsabile dei reality show della CBS,
hanno pubblicamente ammesso di aver seminato di proposito que­
gli indizi ingannevoli. Da quel momento in poi, le regole del gioco
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 27

cambiarono. Shawn ha descritto così il cambiamento di atteggia­


mento: “Prima Mark Burnett era il produttore idiota che, in modo
ingenuo, si lasciava scappare tutti i suoi segreti. A quel punto inve­
ce era diventato Mark Burnett l’imbroglione, Mark Burnett il dia­
volo, Evil Pecker Mark. Ora sappiamo che stava tentando di tenere
dei segreti e il gioco era aperto”15.
Burnett ebbe l’ultima risata in quella prima stagione. Vi era un
enorme indizio nei titoli d’apertura della trasmissione: mentre l’an­
nunciatore stava spiegando che “ci sarà solo un vincitore che si ag­
giudicherà il titolo di unico sopravvissuto e il premio di un milione
di dollari... in contanti”, sullo sfondo si vedeva Richard Hatch, il
vero vincitore, mentre attraversava da solo un ponte di corda con
un gran sorriso stampato in faccia. Gli spoiler lo avevano visto e
ignorato, convinti che non potesse essere tutto così semplice - e
dopo di allora, non lo è stato.
Da allora in poi, gli spoiler dedicarono maggiore attenzione ai
dettagli, utilizzando ogni singolo fotogramma per individuare gli
indizi nascosti, scovando tracce dalle inquadrature degli animali
che spesso fungevano da metafora dei successi o degli insuccessi dei
singoli concorrenti e delle loro squadre, guardando i montaggi per
scoprire quali personaggi erano in primo piano e quali venivano
eclissati. Tapewatcher elaborò una teoria intrigante su Survivor:
Africa, basata su quelle che vedeva come allusioni bibliche che cir­
condavano Ethan, ebreo, barbuto e dai capelli lunghi, che pensava
avrebbe battuto i suoi avversari, benché molto più aggressivi. Sem­
pre più spesso, l’immagine di Ethan era associata a un uso creativo
dell’obiettivo che ricordava un po’ la stella di Davide. “Segui la
stella” e troverai il vincitore, prediceva Tapewatcher e, per quanto
possa sembrare strano, aveva ragione. La teoria era argomentata in
pagine e pagine di analisi testuali curate e dettagliate, documentate
in qualche caso da immagini catturate dal videoregistratore, e in al­
tri da spezzoni di filmato16. E possibile che gli autori dello show se­
minassero aiuti per i telespettatori? Potrebbe non essere così biz­
zarro come sembra. Un altro reality show, The Mole, disseminava
indizi altrettanto oscuri, immaginando che la gente, armata di vide­
oregistratore e Internet, avrebbe cercato di identificarli e interpre­
tarli. Buona parte dell’episodio finale di ogni stagione era dedicata
a mostrare agli spettatori i dettagli precedentemente offerti e più
difficili da carpire, nascosti sullo sfondo delle immagini o tra le ini­
ziali dei nomi dello staff nei titoli di coda.
28 C a p it o l o 1

Non appena i fan di Survivor scovavano uno schema che avreb­


be permesso loro di individuare il vincitore, Burnett cambiava
mossa nella stagione successiva. Girano anche delle voci, mai con­
fermate né smentite, secondo cui, una volta che una congettura cir­
colava liberamente, lo staff della produzione rielaborava le puntate
successive per svuotarle degli elementi che la comunità degli spoiler
andava cercando. Dopo tutto, gli ultimi episodi dovevano ancora
essere montati quando i primi erano già stati trasmessi. Burnett
amava parlare di Survivor come di un esperimento psicologico per
vedere come le persone avrebbero reagito se poste in circostanze
estreme. Stava anche conducendo un esperimento sul suo pubblico,
per vedere come una società dell’informazione reagisca a indicazio­
ni fuorvianti?
Dalla sesta edizione, si ebbe l’impressione che Burnett stesse
perdendo interesse per gli spoiler, così come un segmento di pub­
blico perdeva interesse per la serie. Come brontolava un fan: “Io
voglio che la CBS partecipi al gioco, e invece ha smesso”. Se Chill­
One stava dicendo il vero, ciò dimostrava che la blindatura di Sur­
vivor, curata dalla produzione sul luogo, faceva acqua. O, più otti­
misticamente, i fan avevano messo a segno un colpo da cui la serie
non si sarebbe più ripresa. Come esclamò un fan: “Immaginate che
tipo di panico può provocare una cosa del genere!”.
Se ChillOne mentiva, se era fasullo o, meglio ancora, se dietro
di lui si celava Burnett in persona, sarebbe stata l’acrobazia più pe­
ricolosa che un produttore avesse mai tentato. Come spiegò un
Suckster: “La CBS non permetterebbe mai che l’informazione fini­
sca accidentalmente tra le mani di un incompetente. Sono abba­
stanza intelligenti da evitarlo. Dite ciò che volete, ma ci DEVE es­
sere una connessione diretta tra ChillOne e la CBS”. Altri andaro­
no oltre: “C I potrebbe giocare il ruolo del burattinaio che ci guida
allegramente fino a che non succede l’imprevisto. Poi ci possono
essere altre indicazioni messe lì a bella posta, false soffiate e dati
falsi ‘rivelati’ per dare nuove curvature a tutto il mix. In fin dei
conti, sarei entusiasta se MB e la CBS avessero preso le redini, nel
tentativo di ‘lavorarsi’ ancora una volta la comunità degli spoiler”.
Nelle ultime settimane del programma, le voci e le teorie aveva­
no raggiunto dimensioni gigantesche. Da una parte, quelli che ve­
devano i produttori impegnati in una sorta di impresa di cappa e
spada, dall’altra quelli che pensavano di riuscire infine a battere
“Evil Pecker” al suo stesso gioco.
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 29

Una delle teorie più estreme era quella secondo cui ChillOne
tosse Rob, che era stato un postatore molto attivo prima di venire
scelto come concorrente del programma. La comunità dei fan ve­
deva Rob come uno dei suoi, mandato lì per animare la sesta serie
con i suoi commenti arguti e i suoi giochetti sporchi. Egli sembra­
va, in effetti, più interessato a creare spettacolo per i fan che a vin­
cere la gara. E se avesse portato questo gioco ancora oltre, manipo­
lando le liste di discussione come manipolava gli altri giocatori?
Rob era certamente al corrente delle voci che giravano sul suo con­
to e si raccontò che avrebbe voluto indossare per scherzo una ma­
glietta con la scritta “I am ChillOne” a un meeting per la trasmis­
sione Survivor.
C’è una lunga tradizione di interazione tra i fan e i concorrenti
di Survivor, molti dei quali, dopo l’eliminazione dal gioco, sono di­
ventati partecipanti attivi del forum, alcuni usando i loro veri no­
mi, altri nascondendo la propria identità dietro nomi fittizi. I con­
correnti leggevano i forum per conoscere che cosa i fan pensassero
di loro. Questi ultimi bombardarono di domande i vecchi concor­
renti per avere conferma delle informazioni fornite da ChillOne,
chiedendo spiegazioni su come si svolgesse il lavoro della produ­
zione.
Deena, una dei concorrenti di Survivor: Amazon, ammise poi di
aver seguito con molto interesse il dibattito su ChillOne e di aver
dato il suo contributo alla discussione: “Ottime indiscrezioni, a pa­
rer mio, ed era un po’ fastidioso, perché io ero vincolata per con­
tratto a non aprir bocca e lì c’efa qualcuno che invece l’apriva, ec­
come. Credo che, in generale, questa lista di discussione avrebbe
apprezzato molto di più questa stagione di Survivor se non ci fosse
stato ChillOne. Per quel che riguarda il misterioso barcaiolo... mai
visto nessuno simile a quella descrizione. I membri della produzio­
ne, quelli che in genere hanno contatti con noi, sono sempre gli
stessi e sono superdiscreti”. Altri, meno romantici nelle loro teorie,
continuavano a sospettare di parlare con un banale imbroglione:
“Quando imparerete? Quante volte ci siamo ritrovati tra i postato-
ri degli spoiler inaspettati? Questi ‘super spoiler’ sono sempre dei
grandi fan molto informati ed esperti sulle edizioni precedenti, ma
non si disturbano a postare neanche una volta fin quando non gli
cadono in grembo queste meravigliose indiscrezioni”. Il riferimen­
to più frequente era allo “zio cameraman” di qualche stagione ad­
ii ietro. Un giovane postatore aveva sostenuto di essere nipote di un
30 C a p it o l o 1

cameraman che aveva cominciato a parlargli di cose a cui prestare


attenzione. Ha pubblicato una lista con l’ordine dei cacciati e ha
avuto la fortuna di indovinare parecchi di quelli iniziali, compresi
alcuni casi piuttosto improbabili. Riuscì a crearsi un suo seguito,
prima che lo zio si rivelasse in realtà un’invenzione. Così nella co­
munità degli spoiler si usava spesso, per scherzo, l’espressione “zio
cameraman”, e venne naturale etichettare “zio traghettatore” la
fonte di ChillOne.
C’erano stati molti imbroglioni - alcuni dei quali avevano una
quantità di buone informazioni sufficienti a rendere plausibili i dati
sbagliati, almeno per un po’. Qualcuno postava per attirare l’atten­
zione, altri perché odiavano gli spoiler e si prendevano gioco di lo­
ro, qualcun altro per vedere se riusciva a superarli in astuzia. Come
spiegò un fan: “Non pensate che tutti partecipino al forum per la
stessa ragione. Lo spoiling di Survivor è un gioco. E lo spoiling degli
spoiler di Survivor è un gioco anch’esso. E divertente ingannare gli
altri e vedere se abboccano, specialmente se si tratta dei gruppi de­
gli spoiler d’élite... molti vengono solo per giocare in questo gran­
de parco-giochi e alcuni potrebbero prendersi gioco anche di te”.
La sfida era riuscire a mantenere in vita un imbroglio dopo il
primo periodo critico e farlo sopravvivere per molto tempo.
All’inizio, era sufficiente sostenere di avere un elenco di nomi dei
concorrenti e qualche spiegazione sulla fonte. Poi, bisognava esibi­
re i nomi di persone reali che potessero essere identificate con i
motori di ricerca, e quelle persone dovevano corrispondere al pro­
filo richiesto per partecipare a quella edizione del programma. Do­
vevi inserire nella tua lista qualcuno dei nomi già presenti nelle liste
degli altri spoiler, in modo da rafforzare il consenso del gruppo.
Dopo un po’, la gente pubblicava fotografie false o prese fuori con­
testo. Così è spiegato in un post: “È come giocare a scacchi. L’im­
broglione fa la prima mossa. Se sbaglia, sarà messo sotto scacco
molto velocemente. Altri, come in questo caso, sono più agguerriti
e ci vuole più tempo per batterli”.
Se ChillOne imbrogliava, lo sapeva fare molto bene. Come spie­
ga un altro membro del gruppo: “Memorizzare tutto e tenere insie­
me i pezzi in modo coerente sarebbe un lavoro molto duro. E dav­
vero difficile riuscire a mentire per settimane quando si è continua-
mente interrogati. Non perdere le tracce delle bugie che si sono
dette e aggiungerne altre per sostenere le prime è un’impresa molto
ardua”.
1 GUASTAFESTE DI SURVIVOR 31

Così ChillOne, dopo diverse settimane di persecuzione, alzò le


mani: “Le uniche informazioni sono qui. Prendetele come volete.
Scegliete di credere ciò che preferite. Datemi una pacca sulla spalla
se volete. Va bene tutto. Ho sentito quello che ho sentito”. Ma non
se ne andò mai. Dal giorno successivo, era sempre lì, sfidando tutti
gli avversari e tenendo duro fino alla fine.

I!intelligenza collettiva come paradigma dell'esperto

Man mano che le sue predizioni si rivelavano veritiere, il focus


della discussione si spostò dall’obiettivo di discreditare ChillOne.
Più egli si mostrava accurato nel fornire informazioni e più faceva
arrabbiare qualcuno, secondo cui non si era limitato a fare “spoi­
ling”, ma aveva “rovinato” l’intera stagione. Le domande fonda-
mentali erano: lo spoiling è un obiettivo o un processo? È uno
sport individuale, per il quale chi partecipa si vanta di avere accesso
privilegiato alle informazioni, o piuttosto è uno sport di gruppo, in
cui gli esiti positivi sono vittorie collettive? Come si lamentava un
partecipante: “Abbiamo trasformato lo spoiling in un gioco non­
cooperativo... ‘Vincere’ è diventato svelare come andrà l’intera
stagione; nascondere come si è fatto a scoprirlo, lasciando che gli
altri cerchino di capirti per tutta la stagione, per umiliarli. In que­
sto modo, ChillOne ha vinto. Tutti gli altri hanno perso”.
Fin dall’inizio, il sourcing - l’acquisizione di informazioni da
fonti dirette e spesso non identificate - è stato una pratica contro­
versa. Snewser, per esempio, aveva una sua fonte interna, che gli
consentiva di postare i risultati poche ore prima della messa in on­
da; erano lì se volevi leggerli in anticipo, ma la cosa non intralciava
le deliberazioni del gruppo fino all’ultimo minuto possibile. Il
“sourcing” non era un gioco per tutti, poiché dipendeva dall’acces­
so privilegiato all’informazione. Dato che le fonti non potevano es­
sere rivelate, l’informazione da esse proveniente non era soggetta a
controlli e verifiche sensati. Wezzie e Dan si erano specializzati
nell’individuazione delle location. Non tutti hanno accesso alle tec­
nologie satellitari, e così non tutti potevano partecipare al gioco
come facevano loro. Ma, in ultima analisi, il loro apporto al grup­
po costituiva una conoscenza condivisa che poteva alimentare tutta
ima serie di teorie e speculazioni, che altri membri del gruppo po­
tevano saccheggiare, secondo necessità, nel processo collaborativo
32 C a p it o l o 1

dello spoiling. Invece, altre forme di spoiling - come il fare conget­


ture basate sulla perdita di peso o sulla lunghezza dei capelli, pre­
stare attenzione ai montaggi delle riprese o interpretare le dichia­
razioni di Mark Burnett e di Jeff Probst - permettevano la parteci­
pazione collettiva. Tutti potevano giocare e offrire le proprie capa­
cità nella soluzione del puzzle e così ciascuno poteva contribuire
personalmente al risultato.
Possiamo leggere questa disputa nei termini della distinzione tra
la nozione di intelligenza collettiva di Pierre Lévy e quella di “pa­
radigma dell’esperto” di Peter Walsh17. Quest’ultimo sostiene che
la nostra tradizionale concezione di expertise stia per essere spazza­
ta via, o comunque trasformata, dai processi di comunicazione più
aperti del cyberspazio. Il paradigma dell’esperto presuppone un
corpo ben delimitato di conoscenza, che un individuo può domina­
re. Le domande che sorgono tipicamente in un’intelligenza collet­
tiva, invece, sono aperte e profondamente interdisciplinari; scivo­
lano avanti e indietro sui confini e si basano sulla conoscenza com­
binata di una comunità più differenziata. Come nota Lévy: “All’in­
terno di una situazione di mobilità, le lingue ufficiali e gli schemi
fissi portano solo alla confusione, all’occultamento e al disorienta­
mento”18.
Questo potrebbe spiegare perché lo spoiling è così popolare tra
gli studenti dei college: permette loro, in effetti, di mettere alla
prova la loro preparazione in uno spazio aperto, privo di esperti

Monitorando il Big Brother

Survivor non è l'unico reality show televisivo i cui appassionati e se­


guaci si riuniscono in grandi comunità intelligenti per svelarne i se­
greti, e non è neppure l'unica serie tv che vede fronteggiarsi da anta­
gonisti produttori e consumatori.
La Endemol, casa di produzione olandese che controlla il franchise
mondiale Big Brother [Grande fratello], vide in Internet uno strumento
interessante per le sue strategie di produzione e promozione. Il sito
web del Big Brother statunitense fu visitato, nella prima stagione, da
4,2 milioni di persone. Lo zoccolo duro dei fan pagava per vedere
svelati, attraverso le molte webcam, gli eventi che avvenivano ora do­
po ora nelle diverse stanze della casa per tutta la serie. Se la sfida del­
lo spoiling di Survivor era originata dalla scarsità di informazione,
quella di Big Brother era legata a un eccesso di fatti a disposizione de-
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 33

ufficiali e discipline consolidate. Shawn, per esempio, mi ha con­


fessato di vedere una forte connessione tra lo spoiling e le abilità
che cercava di sviluppare in quanto studente universitario di storia:
“Io amo scavare e mi piace arrivare alle fonti primarie, ai mano­
scritti originali. Mi piace ascoltare i testimoni diretti della storia e
questo è parte del mio amore per lo spoiling. Adoro scavare nel
fondo delle cose. Mi piace quando la gente non comunica sempli­
cemente chi sarà allontanato dal gioco, ma spiega un po’ come ha
fatto a ottenere quell’informazione”.
Walsh sostiene in secondo luogo che il paradigma dell’esperto
crea un “interno” e un “esterno”; ci sono persone che sanno le cose
e altri che non le conoscono. L’intelligenza collettiva, invece, pre­
suppone che ogni persona possa contribuire al processo, anche se
sarà invitata ad hoc. Ecco nuovamente il parere di Shawn: “La gen­
te lavora insieme, senza nessuno che abbia informazioni dall’inter­
no... ci sono piccole indicazioni che si accumulano spesso durante
la settimana precedente allo show. Al gruppo degli spoiler spetta il
compito di capire quali sono credibili e quali esprimono soltanto
desideri o bugie”. Qualcuno potrebbe fare il lurker per un lungo
periodo, ritenendo di non avere niente di interessante da dire al
gruppo, e a un certo punto può capitare che Survivor sia ambienta­
to in una parte di mondo che questo qualcuno ha già visitato e co­
nosce bene, oppure che uno dei concorrenti viva nella stessa citta­
dina, e così, improvvisamente, il suo contributo diviene centrale.

gli spettatori e quindi alla difficoltà di poterli elaborare e consumare


adeguatamente. I fan più accaniti si organizzavano a turni per moni­
torare e trascrivere le conversazioni rilevanti, da riportare nei gruppi
di discussione.
I fan considerano il programma tv una versione condensata per fami­
glie della versione web, più competitiva e provocatoria, e dibattono
su argomenti di cui il pubblico televisivo non è neppure a conoscen­
za. Durante la terza edizione, la concorrente sexy Chiara ha provato
ingenuamente a creare un "codice segreto" che potesse permettere a
lei e agli altri abitanti della casa di parlare di questioni personali senza
essere esposti ai voyeur della rete. Sfortunatamente, lo elaborò pro­
prio durante il webcast, con grande divertimento dei fan, finché i pro­
duttori non la chiamarono da parte per farle notare l'errore logico
commesso. In ogni caso, gli abbonati si lamentarono con i produttori
per il taglio delle scene di momenti-chiave: gare, voti e discussioni
34 C a p it o l o 1

Il paradigma dell’esperto, sostiene Walsh in terza istanza, si ba


sa su regole di accesso ed elaborazione dell’informazione che sono
stabilite dalle discipline tradizionali. Diversamente, i punti di forza
e di debolezza delPintelligenza collettiva sono: disordine, indisci­
plina e mancanza di regole. Come il sapere viene chiamato in causa
ad hoc, non esistono procedure fisse che regolino cosa se ne faccia.
Ogni partecipante applica le proprie regole, elabora i dati secondo
i propri processi, alcuni più convincenti di altri, ma mai sbagliati a
priori. Il dibattito sulle regole fa parte del processo.
In quarto luogo, gli esperti di Walsh sono certificati, hanno cioè
dovuto superare un qualche rituale dal quale risulta che hanno pa­
droneggiato un particolare campo, e che spesso ha a che fare con
un’istruzione formale. I partecipanti di un’intelligenza collettiva
spesso sentono il bisogno di dimostrare e documentare la loro co­
noscenza, ma questo non si basa su un sistema gerarchico e qui è
probabile che la conoscenza che deriva dall’esperienza sia apprez­
zata assai più dell’istruzione formale. ChillOne e le altre “fonti” si
erano inseriti nel processo come “esperti” (più in virtù delle loro
esperienze che per una qualche certificazione formale), e ciò costi­
tuiva una minaccia contro i principi di democraticità e apertura se­
condo i quali opera l’intelligenza collettiva.
Ciò che tiene unita un’intelligenza collettiva non è il possesso
del sapere - relativamente statico - ma il processo sociale di acqui­
sizione della conoscenza in quanto dinamico e partecipativo, che

centrali per il gioco - gesto compiuto per conservare dei contenuti da


mandare in onda in tv.
Nella prima edizione, i fan si spinsero oltre e cercarono di alterare il
corso degli eventi nella casa rompendo il muro di silenzio che divi­
deva i concorrenti dal mondo esterno. Un gruppo che si faceva chia­
mare Media Jammers, fuoriuscito dalla discussione sulla serie in Sa­
lon.com, cercò in vari modi di far arrivare informazioni dentro la casa:
lanciando nel giardino palline da tennis contenenti bigliettini, urlan­
do da megafoni, noleggiando aeroplani che sventolavano messaggi
sul luogo della produzione. Auspicarono quindi un'uscita di massa
dalla casa da parte dei concorrenti, "indignati per gli abusi commessi
dalla produzione nei loro confronti e in quelli dei loro famigliari e de­
gli spettatori". Gli spettatori potevano monitorare quale fosse l'impat­
to delle loro imprese sugli "ospiti della casa", come li chiamava la
produzione (o sui "criceti", come li chiamavano loro) attraverso Inter-
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 35

continuamente mette alla prova e riafferma i legami del gruppo.


Alcuni sostengono che, avendo ChillOne rivelato i nomi dei quat­
tro finalisti ancora prima che iniziasse il programma e prima che il
gruppo potesse iniziare a indagare per conto proprio sui concor­
renti, è stato come se qualcuno fosse entrato furtivamente in casa e
avesse aperto i nostri regali di Natale, togliendoci il piacere di sop­
pesare e scuotere i pacchetti per indovinarne il contenuto.
Per molti altri, ciò che conta è l’informazione che si riesce a ot­
tenere. Così spiega uno spoiler: “Ho pensato che il gioco stesse nel
‘guastare la festa’... che il divertimento consistesse nel provare a
scoprire come cadono i cacciati, usando qualunque mezzo disponi­
bile... no?”. Molti sostenevano che ciò intensificasse il loro piace­
re: conoscere il segreto, e poter assistere con gusto alle sciocche
congetture che i disinformati facevano sul sito ufficiale della CBS,
dove Jenna e Matthew non rientravano tra i previsti vincitori. Altri
sostenevano che l’informazione ottenuta in anticipo cambiava Pat­
teggiamento con cui guardavano il programma: “Se C I ha previsto
correttamente l’esito, la parte più divertente è provare a immagina­
re come diavolo succederà! Il detective che è in noi non si accon­
tenta di sapere cosa succederà, ma vuole scoprire anche quando,
come e perché”. ChillOne, dicevano, aveva dato loro un nuovo
gioco proprio quando cominciavano a stancarsi di quello vecchio,
e così prevedevano che ci sarebbe stata una “botta di adrenalina” in

net. Potevano, usando le chat, coordinare le loro azioni ed elaborare


tattiche in tempo reale mentre osservavano i produttori che cercavano
di isolare i partecipanti dai loro messaggi.
Pam Wilson ha offerto un racconto dettagliato di ciò che chiama "at­
tivismo narrativo", inteso come lo sforzo compiuto da questi spettato­
ri per determinare gli eventi televisivi:

Si è aperta una finestra di opportunità per un breve periodo di tem­


po, che ha permesso l'invasione di un gioco televisivo, blindato
dalla sua produzione corporate, da parte di un gruppo sparuto di
terroristi narrativi le cui armi erano l'astuzia delle parole e non
bombe. Il loro intervento poteva verificarsi probabilmente solo in
quel preciso momento, un periodo di flusso di programma e tecno­
logico, quando il format era nuovo, la formula flessibile, allorché
la narrazione non sceneggiata emergeva dalla psiche dei concor-
36 C a p it o l o 1

grado di ravvivare la comunità degli spoiler per un’altra stagione o


due.
La questione era se, all’interno di una comunità di conoscenza,
qualcuno ha il diritto di non sapere - o più precisamente, se ogni
membro può scegliere quanto vuole sapere e quando vuol saperlo.
Lévy parla delle comunità della conoscenza in termini del loro agi­
re democratico; tuttavia, la possibilità che ciascun membro ha di
distribuire la propria informazione, senza preoccuparsi del fatto
che gli altri potrebbero non volerla accogliere, assume una dimen­
sione profondamente totalitaria. Storicamente, gli avvisi degli spoi­
ler erano uno strumento di garanzia per i lettori che non volevano
sapere tutto. ChillOne e i suoi alleati ritenevano inutili questi avvi­
si, poiché, sostenevano, lo scopo del gruppo era lo spoiling, e tut­
tavia rivelare le risposte impediva lo svolgimento del gioco a cui
molti membri del gruppo volevano giocare. In ogni caso, questo ar­
gomento presupponeva che l’informazione fornita da ChillOne sa­
rebbe rimasta all’interno della comunità.
In maniera crescente, l’informazione scovata dagli spoiler trova
spazio nei forum di discussione pubblici, dove è agganciata dagli
organi di informazione tradizionali. La reporter del New York Ti­
mes Emily Nussbaum ha descritto questo fenomeno come “fine del
finale a sorpresa”, suggerendo che questa fretta nell’accaparrarsi
tutta l’informazione disponibile, nonché la circolazione accelerata
dei dati attraverso le diverse liste di discussione, stesse rendendo

renti che improvvisavano non ancora plagiati, gli eventi erano se­
guiti con molta attenzione dagli spettatori in Internet, e il set di
Hollywood era ancora relativamente poco protetto3.

L'impresa riuscì perfettamente, stimolò i concorrenti a rivalutare il lo­


ro rapporto con la serie e il network a sospendere più volte le riprese
dal vivo, mentre cercava di contrastare una rivolta completa.

a. P. Wilson, "Jamming Big Brother: Webcasting, Audience Intervention, and Narra­


tive Activism", in S. Murray, L. Oullette, Reality Tv: Remaking Television Culture,
New York University Press, New York, 2004, p. 323. Vedi anche J. Ghiglione,
"When Broadcast and Internet Audiences Collider Internet Users as Tv Advocacy
Groups", dossier presentato in occasione del Media in Transition 3 Conference:
Television, MIT, Cambridge, Mass., 3 maggio 2003.
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 37

impossibile ai network di mantenere i segreti, e ai consumatori di


poter assistere allo spettacolo senza sapere cosa sarebbe successo di
lì a poco. Spiega quindi così il fenomeno: “Gli spettacoli stanno di­
ventando come i libri. Se vuoi sapere cosa accadrà più tardi, basta
saltare alPultima pagina... è uno strano desiderio - quello di tenere
sotto controllo la storia e minimizzare il rischio di rimanere delusi
nel finale. Con l’aiuto degli spoiler, uno spettatore può vedere lo
show con distacco, analizzandolo come un critico anziché lasciar­
sene immergere come un neofita... ma il prezzo da pagare per que­
sto privilegio è che tu non vedi mai lo spettacolo per la prima vol­
ta”19. I detrattori di ChillOne sostengono che il vero problema va
oltre quest’aspetto: se vuoi partecipare alla vita in corso di questa
comunità, devi accettare questa conoscenza, che tu lo voglia o no.
Lo spoiling - almeno per quello che riguarda gli appassionati di
Survivor - si è trasformato decisamente: non è più basato sulla ri­
soluzione di rompicapo, ma sulla rivelazione di informazioni pro­
venienti da fonti interne.
ChillOne era inciampato per caso in quella che sarebbe divenu­
ta la sua soffiata; subito la comunità inviò i suoi reporter. A partire
dall’edizione Survivor: Amazon, ChillOne oppure qualcun altro
della comunità era volato alla location dove si giravano le riprese e
aveva portato via con sé una buona dose di informazione su quanto
vi accadeva. Due stagioni più tardi, una lista dettagliata di anticipa­
zioni degli avvenimenti fu scaricata su Ain’t It Cool News, un sito
web molto più trafficato di Survivor Sucks. Da lì è stata ripresa da
Entertainment Weekly e da varie altre pubblicazioni tradizionali (la
lista si rivelò essere in buona parte falsa, ma chi può dire cosa acca­
drà in futuro?). Di colpo, non erano più solo i membri della comu­
nità di spoiler a dover decidere se sapere o meno quello che qual­
cuno come ChillOne aveva appreso durante una vacanza nei luoghi
delle riprese. Improvvisamente, ogni spettatore e ogni lettore cor­
reva il rischio di apprendere più di quanto avrebbe voluto sapere.
Man mano che lo spoiling diveniva sempre più noto al grande
pubblico, subiva una trasformazione. Dall’essere un gioco diver­
tente che vedeva competere, a volte, Mark Burnett con un segmen­
to del suo pubblico, iniziava a diventare una seria minaccia alla re­
lazione che egli intendeva intrattenere con il pubblico della serie.
Come lo stesso Burnett disse in un’intervista: “Lo spoiling è quello
che è fino a quando non nuoce all’audience. Potrebbero esserci
5000 utenti di Internet, ma ci sono 20 milioni di telespettatori che
38 C a p it o l o 1

non navigano nel W eb”20. Lo spoiling rappresenta, in effetti,


un’estensione del divertimento che procura la serie. I produttori
vogliono che proviamo a indovinare cosa accadrà, anche se non
avrebbero mai immaginato squadre di diverse migliaia di persone
lavorare insieme per risolvere il rompicapo. Nel prossimo capitolo
vedremo come il desiderio di creare una comunità intorno a pro­
grammi faccia parte di una strategia aziendale per affezionare lo
spettatore al brand e al franchise. Tuttavia, spinto alla sua logica
estrema, lo spoiling diventa pericoloso per quegli stessi interessi e i
produttori hanno iniziato a usare minacce legali per metterlo a ta­
cere. All’inizio dell’ottava serie, Jeff Probst disse a un reporter
dell 'Edmonton Sun: “Internet e la facilità d’accesso all’informazio­
ne hanno reso molto difficile fare spettacoli come Survivor. Non
mi sorprenderebbe se questi fattori provocassero la morte del no­
stro programma, prima o poi. Non si può competere con chi ti tra­
disce. Noi siamo una squadra di 400 persone, e ognuno dice qual­
cosa a qualcuno. Onestamente, quando si diffondono delle infor­
mazioni da cui poter ricavare denaro o fama - ‘Hey, io so qualcosa
che tu non sai, ascolta’ - tutto ciò che noi possiamo fare è ribattere
con la nostra controinformazione”21. I produttori, d’altra parte,
non sono gli unici a essere infuriati contro questa moda della caccia
all’informazione fino alla fonte. Wezzie, che ha partecipato di per­
sona alla caccia alla location, mi ha scritto:

Presto (il 16 settembre) debutterà la nuova stagione Survivor: Va­


nuatu^ ma questa volta lo spirito nei forum di discussione è diver­
so... Sono M-O-R-T-I. Io ho tenuto in piedi negli ultimi mesi un
filone di discussione con informazioni sulla location, sull’ambiente
e sulle tradizioni culturali di Vanuatu, mentre Dan ha preparato
delle mappe splendide, ma questo è più o meno tutto quello che è
successo nei forum. I fan di Internet sono annoiati, arrabbiati e di­
saffezionati. Dopo la lista dei cacciati di ChillOne (e quella di
Snewser su Survivor News), i fan più accaniti di Survivor, la comu­
nità di Internet, non sembrano più interessati alle discussioni sul
programma. Sono stati aperti forum pubblici ‘senza spoiling’, ma le
visite scarseggiano... L’interesse crescerà, speriamo, quando la se­
rie andrà in onda. Mi chiedo se la CBS e SEG siano felici di questo
letargo che colpisce la comunità di Internet... o se ne sono invece
preoccupati”.22
I GUASTAFESTE DI SURVIVOR 39

Ho detto in precedenza che queste comunità emergenti della


conoscenza si definiscono attraverso affiliazioni di tipo tattico,
temporaneo e volontario. Siccome sono volontarie, la gente rima­
ne in queste comunità solo finché non ha soddisfatto i propri biso­
gni intellettuali ed emotivi. Dato che sono temporanee, le comuni­
tà si formano e si sciolgono con relativa flessibilità. In quanto tatti­
che, tendono a non resistere oltre i compiti per i quali vengono
messe in funzione. A volte, comunità di questo tipo possono ride-
I inire i loro obiettivi. Nella misura in cui essere fan è uno stile di vi­
ta, i fan potrebbero oscillare tra una serie e un’altra molte volte
nella loro esperienza di affiliazione. Tuttavia, quando una comuni­
tà di fan si disgrega, i suoi membri possono muoversi in varie dire­
zioni, cercando nuovi spazi di applicazione delle proprie abilità, e
nuove aperture per le loro speculazioni, e in questo processo quelle
abilità si diffondono in nuove comunità e vengono applicate a nuo­
vi compiti. L’intervento di ChillOne ha indubbiamente accorciato
la vita della comunità di spoiling di Survivor, ma in realtà non ha
fatto altro che accelerare il processo inevitabile di calo di interesse
che investe ognuno di questi fenomeni. Quando il gioco, dopo al­
cune ripetizioni, fosse diventato scontato, i membri avrebbero de­
ciso di trovare nuove vie per i loro esercizi.
Possiamo considerare le comunità di conoscenza di questo tipo
come centrali per il processo della convergenza grassroots. Certo,
come vedremo nel prossimo capitolo, i produttori volevano dirige­
re il traffico dallo spettacolo televisivo verso il Web e altri punti di
accesso al franchise. Quei vari punti di contatto diventavano op­
portunità per promuovere sia la serie che gli sponsor. Ma i fan, da
parte loro, sfruttarono la convergenza per creare i propri punti di
contatto. Stavano così cercando il modo di prolungare la fruizione
piacevole del loro programma preferito ed erano spinti verso for­
me collaborative di produzione e valutazione della conoscenza.
Questo processo bottom-up generava potenzialmente un maggiore
interesse verso la serie, accrescendo l’attenzione dei fan nei con­
fronti della trasmissione. Nella misura in cui, tuttavia, esso interfe­
riva e riplasmava l’economia informazionale che girava attorno alla
serie, diveniva anche una minaccia alla capacità di controllo della
produzione sulle risposte del pubblico.
Ciò che dobbiamo tenere a mente è che gli interessi dei produt­
tori e quelli dei consumatori non sono gli stessi. Qualche volta
coincidono, qualche volta sono in conflitto. Le comunità, che sono
40 C a p it o l o 1

le migliori alleate dei produttori per un aspetto, potrebbero rivelar­


si le loro peggiori nemiche per un altro. Nel capitolo successivo,
rovesceremo le prospettive - analizzando i pubblici della reality tv
dal punto di vista dei produttori dei programmi e degli inserzioni­
sti pubblicitari. In questo modo capiremo come l’industria dell’in­
trattenimento stia rivalutando il valore economico della partecipa­
zione dei fan.
C a p it o l o 2

Investire in American Idol


Come siamo venduti dalla televisione realtà

Chi avrebbe mai immaginato che i programmi di reality tv come


Survivor (2000) e American Idol (2002) sarebbero stati la prima kil­
ler application della convergenza fra media, la grande new thing in
grado di dimostrare il potere generato dall’intersezione tra vecchi
e nuovi media? I primi esperimenti di televisione interattiva, a metà
degli anni Novanta, erano stati in effetti perlopiù fallimentari. Non
molti erano disposti a smettere di guardare la tv per acquistare i ve­
stiti indossati da uno dei protagonisti di Friends (1994); pochi sem­
bravano interessati agli stupidi quiz che apparivano in sovrimpres-
fìione durante la trasmissione di una partita o di un film di James
Bond. I critici sostenevano che molti di noi volevano solo stare co­
modamente seduti e guardare la tv, senza interagire con essa. Il suc­
cesso attuale della reality tv, invece, sta costringendo il mondo dei
media a rivedere le proprie posizioni. Lo spostamento è dall’inte­
razione in tempo reale alla partecipazione asincrona.
11 successo di American Idol è innegabile. Nelle ultime settimane
della sua seconda edizione, nel 2003, la FO X Broadcasting Com­
pany ha ricevuto per ogni puntata più di 20 milioni di telefonate e
messaggi di testo, che azzardavano previsioni sul vincitore1. Con
grande felicità delle compagnie telefoniche, che avevano provato
in ogni modo ad attirare gli americani verso l’uso degli sms, ma
aenza ottenere l’entusiasmo riscontrato in Asia e nel Nord Europa.
Dei 140 milioni di cellulari che circolano oggi negli Usa, solo 27
milioni vengono usati anche per i messaggi di testo2. La A T& T
Wireless riportò che circa un terzo dei televotanti di American Idol
non aveva mai inviato un sms prima d’allora3. Così spiegava un
portavoce dell’azienda: “La nostra venture con FO X è stata più ef-
42 C a p it o l o 2

ficace di qualsiasi attività di marketing per promuovere l’uso dei


messaggi di testo negli Stati Uniti”4.
American Idol dominò su due delle fasce orarie della top five per
tutto il periodo di punta del mese di maggio 2003. Più di 40 milio­
ni di persone hanno seguito in tv il momento finale dell’ultimo epi­
sodio della seconda edizione. Per quella successiva, la F O X dedicò
al programma 13,5 ore della programmazione di punta di maggio,
che rappresentano circa un quarto del totale in prime time del mese
in questione5.
Ciò rese felici i pubblicitari. Come spiega il direttore generale di
MediaCom, Jon Mandel: “Sappiamo che quando la gente guarda
un programma che le piace, è più sensibile anche agli spot che van­
no in onda. Purtroppo non sono molte le trasmissioni di questo ti­
po”6. American Idol, basato sulla fortunata serie inglese Pop Idol,
fu venduto alla FO X durante un’aggressiva campagna della Creati­
ve Artists Agency, che vedeva la serie come una vetrina ideale per
il suo cliente, la Coca Cola, per via del suo target di pubblico, oscil­
lante dai dodicenni ai ventiquattrenni7. In questo caso si è trattato
davvero di una grande vetrina. Giusto per informare chi di voi non
abbia la televisione o figli adolescenti, American Idol è un palcosce­
nico per cantanti sconosciuti - alcuni bravi, altri pessimi - prove­
nienti da tutto il paese. Ogni settimana, i finalisti si esibiscono e
vengono votati dal pubblico. Il vincitore finale ottiene un contratto
discografico e promozionale. Il programma è stato definito da For-
bes come il più redditizio tra i reality show: secondo le stime, alla
fine della terza stagione televisiva aveva dato alla FO X un profitto
netto superiore ai 260 milioni di dollari8.
Tutto questo ha fatto la felicità dei network. I programmi di rea-
lity tengono anche nei mesi estivi, quando si verifica un calo gene­
rale di spettatori. Cosa altrettanto importante, hanno costituito
un’ancora di salvataggio per le reti broadcasting minacciate dalla tv
via cavo, che attirava a sé buona parte del pubblico generalista. Il
sorpasso non si è comunque potuto evitare nel 2002. Nessun canale
via cavo ha mai raggiunto la portata di network come CBS, NBC e
ABC ma, anno dopo anno, la tv broadcasting tende a perdere la sua
centralità tra gli spettatori. In generale, i pubblici televisivi subisco­
no un calo estivo pari all’8-10% , mentre i network principali hanno
perso, nell’estate 200 2 , il 30% del loro mercato9. I canali via cavo,
come Showtime ο HBO, sfruttano il periodo estivo per lanciare i
nuovi episodi dello loro sitcom più forti (come Sex and thè City,
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 43

1998) e delle serie drammatiche (come Six Feet Under, 2001), op­
ponendoli alle repliche in onda sui network broadcast. I telespetta­
tori tendono a rimanere fedeli alle emittenti via cavo anche per la
stagione successiva, perciò ora le reti broadcast cercano di contrat­
taccare offrendo durante i mesi estivi più programmi originali, e i
reality show meno dispendiosi sono la loro arma migliore. Quando
hanno successo, i reality generano un interesse almeno pari, se non
superiore, rispetto ai programmi via cavo con cui competono, ral­
lentando la fuga dei telespettatori.
Anche se la popolarità degli esordi di Survivor e di American
Idol costituisce un’eccezione, gli ascolti dei reality non sono mai
bassi quanto quelli delle repliche delle serie tv. A ciò si contrappo­
ne il fatto che i reality show hanno una breve durata e una vita li­
mitata dopo la syndication, benché rendano bene se venduti diret­
tamente ai consumatori su DVD.
Ciò rende i conglomerati mediatici ancora più entusiasti, visto
che American Idol, fin dall’inizio, non fu semplicemente un pro­
gramma televisivo ma un franchise transmediale. La vincitrice della
prima edizione, Kelly Clarkson, ebbe un contratto dalla RCA Re­
cords e il suo singolo, “A Moment Like This”, salì rapidamente al
primo posto della classifica di BillBoard Hot 100 e fu il più vendu­
to negli Stati Uniti per il 2 0 0 2 .1 primi singoli di Kelly Clarkson fu­
rono trasmessi dalle radio più di 80.000 volte nel 2002. Il libro di
American Idol divenne un best seller10 e i concorrenti ottennero il
tutto esaurito alle tournée dei loro concerti. La produzione cavalcò
Tonda immettendo sul mercato un film, From Justin to Kelly
(2003), che però non ebbe un grosso successo al botteghino.
Non tutti, in ogni caso, furono stregati dal successo di American
Idol. Come molti detrattori della reality tv, sul San Diego Union-
Tribune Karla Peterson sentenziò:

American Idol non è stato uno stupido gioco estivo ma un connivente


mostro multimediale. Product placement senza vergogna. Una pallida
nostalgia. Pubblicità aziendale incestuosa. Come le piccole dive dello
spettacolo - che imitavano fedelmente ogni trillo, fremito e ruggito
del catalogo di Mariah Carey - American Idol ha ingoiato il peggio
della nostra cultura corrotta e lo ha risputato fuori come un male ri­
generato. Eravamo così abbacinati dalla sua spudorata mancanza di
qualità, che abbiamo ignorato l’immondizia e l’abbiamo seguito alle­
gramente fino al baratro.11
44 C a p it o l o 2

Peterson ha ragione, American Idol era plasmato a ogni livello


da spudorati calcoli commerciali. Il suo sdegno morale non ci aiuta
molto, però, a capire perché un programma del genere potesse af­
fascinare i network, gli inserzionisti pubblicitari o i consumatori.
Per comprendere il successo di American Idol, dobbiamo inqua­
drare il nuovo contesto in cui operano le reti broadcasting negli
Stati Uniti e i nuovi modelli di consumo che influenzano le strate­
gie di programmazione e marketing. Dobbiamo imparare a cono­
scere meglio quella che chiamo “economia affettiva”. Con ciò in­
tendo una nuova concezione del marketing, ancora poco nota ma
in via di diffusione nel mondo dei media, che interpreta la compo­
nente emozionale nelle scelte di consumo come una forza motrice
che determina ciò che guardiamo e che acquistiamo. Per molti
aspetti, l’economia affettiva costituisce un tentativo di allineameno
alle ricerche svolte negli ultimi decenni dai cultural studies sulle co­
munità di fan, così come di comprendere le pratiche di fruizione
degli spettatori. Con una differenza cruciale, però: i cultural stu­
dies analizzavano il consumo mediatico dal punto di vista dei fan,
articolando desideri e fantasie che non erano pienamente soddi­
sfatti dal sistema attuale dei media; le nuove teorie di marketing
cercano invece di plasmare quei desideri per orientare le scelte di
consumo. Mentre sono sempre più interessati alla qualità dell’espe­
rienza di fruizione degli spettatori, i media e le imprese commercia­
li devono ancora affrontare il lato economico dell’economia affet­
tiva - la necessità di quantificare il desiderio, di misurare le connes­
sioni, di trasformare la fidelizzazione di uno spettatore in un pro­
dotto commerciale e, che è forse la cosa più importante, di trasfor­
mare tutto quello che precede in un ritorno sugli investimenti
(ROI). Lo sguardo fisso sull’ultima riga del bilancio spesso distoglie
le aziende dal tentativo di capire la complessità del comportamento
del pubblico, anche se la comprensione di quegli atteggiamenti sa­
rebbe per loro indispensabile al fine di garantirsi un futuro. Invece
di ripensare i termini delle loro analisi, si affannano a cercare di in­
serire le nuove intuizioni dentro le categorie economiche tradizio­
nali. Siamo quindi ancora in un mondo in cui ciò che si può conta­
re conta più di tutto il resto.
Nell’epoca dell’economia affettiva, si può immaginare, i fan di
certe trasmissioni televisive di culto possono guadagnare una mag­
giore influenza sulle decisioni di programmazione. Di tanto in tan­
to, i network rivalutano certi segmenti del loro pubblico; ne risul-
In v es t ir e in A m e r ic a n I d o l 45

tano così cambiamenti nelle strategie di programmazione che ri­


flettono meglio i gusti degli utenti. Un passaggio dagli spettatori
rurali a quelli urbani ha trasformato i contenuti televisivi negli anni
Sessanta, un interesse rinnovato per le minoranze ha portato a un
maggior numero di sitcom afrocentriche negli anni Novanta, men­
tre l’attenzione all’entusiasmo e alla partecipazione degli spettatori
fedeli tende sempre più a determinare cosa viene messo in onda in
questo inizio del ventunesimo secolo. I fan vedono andare in onda
sempre più programmi che riflettono i loro gusti e i loro interessi;
quegli spettacoli sono progettati in modo da sfruttare al massimo
gli elementi che attraggono i fan; e le trasmissioni che i fan amano
riescono a rimanere nella programmazione più a lungo perché è
più probabile che vengano rinnovate in casi limite. Ecco il parados­
so: per piacere alle reti devi mercificare i tuoi gusti. Da un lato, ciò
espande la visibilità di un gruppo culturale, mentre, d’altro canto,
i settori di pubblico che non hanno un valore economico ricono­
sciuto vengono ignorati. Detto questo, la mercificazione è anche
una forma di sfruttamento. Quei gruppi che si lasciano in qualche
modo mercificare si ritrovano a essere cercati dagli uomini di
marketing in maniera più aggressiva, e spesso sentono di aver perso
il controllo sulla propria stessa cultura, massificata nella produzio­
ne e nel mercato. E quasi inevitabile sentirsi divisi: non si vorrebbe
essere ignorati ma allo stesso tempo non si vuole essere sfruttati.
Per anni, i gruppi di fan, cercando di farsi centro di sostegno
per serie a rischio di estinzione, hanno sostenuto che le reti avreb­
bero dovuto concentrarsi di più sulla qualità dell’interesse del pub­
blico per i programmi e meno sulla quantità dei telespettatori.
Network e pubblicitari stanno giungendo sempre più a conclusioni
analoghe. Gli uomini di marketing cercano di costruire la reputa­
zione del brand non più facendo leva sulle transazioni individuali
ma attraverso la somma delle interazioni con il cliente, un processo
che si estende nel tempo e che si attua attraverso molti “punti di
contatto” con media diversi. Non puntano semplicemente a con­
vincere un consumatore a un singolo acquisto, ma a costruire una
relazione di lungo termine con un marchio. I nuovi modelli di
marketing cercano così di estendere gli investimenti intellettuali,
sociali ed emozionali dei consumatori, con l’obiettivo finale di for­
marli e tradurli in pratiche di consumo. Nel passato, i produttori di
media parlavano di “impressioni”. Oggi, invece, stanno esplorando
il concetto di “espressioni” del pubblico, provando a capire come e
46 C a p it o l o 2

perché gli utenti reagiscono al contenuto. I guru del marketing so­


stengono che costruire una “brand community” impegnata è il mo­
do più sicuro di assicurarsi la fedeltà dei consumatori e di consen­
tire al marchio, tramite la pubblicità occulta, di intercettare alcune
delle sostanze affettive intrinseche alla qualità dell’intrattenimento.
Questa è la ragione per cui gli show come American Idol sono così
corteggiati dai pubblicitari, dalle imprese di marketing, da quelle
televisive nonché dalla stampa commerciale. Sono tutti curiosi di
capire come le strategie di convergenza tra corporate possano rifor­
mare il processo del branding. Una prima analisi ci suggerisce che i
consumatori più preziosi sono quelli che le industrie chiamano “fe­
deli” o che noi chiamiamo fan. Questa categoria segue più attenta­
mente i programmi, presta perciò maggiore attenzione alla pubbli­
cità e diviene, di conseguenza, più propensa all’acquisto dei pro­
dotti sponsorizzati.
Per ora, voglio che mettiate fra parentesi le vostre proccupazio-
ni sul consumismo e i vostri timori nei confronti di Madison Ave­
nue. Questo capitolo non vuole semplicisticamente essere una pub­
blicità o un’apologia dei cambiamenti in corso. La mia visione per­
sonale è che il discorso emergente dell’economia affettiva comporti
implicazioni positive e negative: permette ai pubblicitari di inter­
cettare il potere dell’intelligenza collettiva e di dirigerlo verso i
propri fini, ma allo stesso tempo consente ai consumatori di gene­
rare un loro potere negoziale che sfida le decisioni unilaterali delle
corporate. Tornerò a parlare del potere dei consumatori nell’ulti­
mo capitolo del libro. Anche se volessimo criticare il funzionamen­
to del capitalismo statunitense, dovremmo prendere atto che i clas­
sici modelli di marketing, descritti in opere come I persuasori oc­
culti (1957) di Vance Packard, non sono più adeguati a descrivere
le modalità in cui operano i media12. Anche se ritenete che le co­
munità di fan e di brand non abbiano la possibilità di alterare l’agi­
re delle grandi aziende in modo significativo, dovete avere ben
chiaro come procedono le logiche e le pratiche della partecipazio­
ne all’interno di questa nuova economia affettiva, per poter appun­
tare le vostre critiche sui reali meccanismi con cui Madison Avenue
cerca di riplasmare i nostri cuori e le nostre menti.
I visionari del marketing e i guru del brand stanno proponend
agli incontri di industriali ciò che chiamo economia affettiva come
soluzione alla crisi che si percepisce nel broadcasting statunitense -
una crisi causata dai cambiamenti tecnologici dei media, che asse-
In v e s t ir e in A m e r ic a n Id o l 47

gnano agli spettatori un maggiore potere di controllo sul flusso dei


contenuti. L’economia affettiva vede i pubblici attivi come un valo­
re potenziale, se possono essere corteggiati e sedotti dai pubblicita­
ri. In questo capitolo, guarderemo più attentamente i modi in cui
gli inserzionisti e i network pensano il loro pubblico nell’era della
convergenza tra media e i modi in cui le loro idee sul branding, sul­
la fedeltà del pubblico, e sulle pratiche sociali di consumo, influen­
zano programmi come American Idol. Questo prodotto asseconda
in effetti un desiderio diffuso di empowerment: l’“America” è chia­
mata a “consacrare” il suo prossimo idolo. La prospettiva di parte­
cipare attivamente può coinvolgere i fan ma produrre anche equi­
voci e delusioni quando i telespettatori percepiscono Pirrilevanza
dei loro voti.

“ Impressionami”

Una pubblicità realizzata molti anni fa per la Apple Box Produc­


tions raffigura il nuovo giovane consumatore, il suo caschetto
biondo spettinato che copre gli occhi luminosi, le labbra piegate in
un ghigno di sfida e il dito appoggiato sul telecomando (Figura
2.1). Il testo dice: “Hai tre secondi di tempo. Impressionami”13.
Una falsa mossa e il ragazzino cambierà canale. Non è più un couch
potato (se mai lo sia stato) ma sceglie come, quando e cosa vedere.
K un nomade della tv: libero da legami con programmi particolari,
va dove lo porta l’estro.
Il termine “impressionare” assume qui un doppio significato a
seconda se si faccia uso del punto di vista del consumatore o di
quello dell’uomo di marketing. Si riferisce alla ricerca, da parte
dello spettatore, di qualcosa che lo “impressioni” al punto da fargli
interrompere la sua instancabile caccia alle novità, oppure all’i m ­
pressione” intesa come unità di misura storicamente impiegata dai
network per parlare con i potenziali sponsor: il numero nudo e cru­
do di occhi incollati su un programma televisivo in un dato mo­
mento. Quello che ci interessa in questa sede è la confluenza del
senso tra l’ambito culturale ed economico delle pratiche televisive,
così come quella scaturita dal rapporto tra il consumatore e le cor­
porate. La ricerca da parte dello spettatore di contenuti attraenti
come si traduce in esposizione ai messaggi pubblicitari?
48 C a p it o l o 2

Figura 2.1 I pubblicitari esibiscono il loro problema maggiore: il giovane


consumatore maschio come “zapper

Scatenò molto trambusto, pochi anni fa, la rilevazione dell’inef-


ficacia dei banner pubblicitari sul web svelata dal numero molto
basso dei “click through”. Erano relativamente poche le persone
che, visto il banner, seguivano il link e acquistavano il prodotto. Se
anche la pubblicità televisiva fosse stata giudicata con lo stesso stan­
dard, sarebbe risultata ugualmente inefficace. L’“impressione” non
dà la misura di quanti acquistano un prodotto o comprendono il
messaggio, ma rappresenta semplicemente il conteggio degli spet­
tatori sintonizzati su una rete specifica. Diviene quindi un metro an­
cora meno preciso se applicato ad altri media. Per esempio, le im­
pressioni generate da un cartellone stradale si misurano sul numero
assoluto delle auto che passano per quel tratto di strada. Secondo
lo studioso di marketing Robert Kozinets, “Non solo l’impressione
è una misura confusa degli ascolti mediatici... ma è anche un segna­
le di confusione più generale delle imprese su quel che si può trac­
ciare, capire e mettere in rapporto con particolari investimenti”14.
Nonostante ciò, gli inserzionisti pubblicitari sono sempre più esi­
genti nei confronti dei media per quel che riguarda il grado di ef­
fettiva esposizione e per la qualità delle relazioni che così si instau­
rano con i consumatori. Vogliono capire quanta sia l’efficacia dei
diversi media nel portare i loro messaggi ai potenziali clienti.
Come è stata smascherata la rozzezza dei metodi di misurazione
άε\Υaudience, le reti tv hanno registrato anche una riduzione della
fedeltà degli spettatori - il problema posto dal nostro giovane ami­
In v e s t ir e in A m e r ic a n Id o l 49

co scapigliato. Prima di tutto, c’è stata una proliferazione di opzio­


ni di consumo (data dal passaggio da tre reti principali a un am­
biente televisivo via cavo popolato da centinaia di canali specializ­
zati e da forme alternative di intrattenimento domestico: Internet,
video, Dvd, giochi al computer e videogame). All’inìzio, la quantità
di tempo quotidiano dedicata al consumo mediatico cresceva in
proporzione all’ampliamento delle opzioni, ma tale espansione era
limitata inevitabilmente dal tempo dedicabile allo svago dopo lavo­
ro, scuola e riposo. Di fronte a una varietà di scelte apparentemen­
te infinita, il consumatore medio si è assestato su uno schema di
fruizione abituale di una gamma che va dalle dieci alle quindici
fonti di media. La programmazione broadcasting si caratterizza an­
cora per un livello di fedeltà più alto rispetto a quello della tv via
cavo, ma la sua capacità attrattiva nei confronti del pubblico è in
costante calo. Negli anni Sessanta, un pubblicitario poteva raggiun­
gere l’80% delle donne statunitensi con uno spot trasmesso in pri­
ma serata sulle tre reti principali. Oggi si è stimato che lo stesso
spot dovrebbe passare su un centinaio di canali televisivi per inter­
cettare lo stesso numero di spettatori15.
Man mano che gli inserzionisti diventano scettici circa la capa­
cità della programmazione televisiva di raggiungere il pubblico,
iniziano a diversificare i loro investimenti e cercano di diffondere i
loro brand su più canali di distribuzione, nella speranza di riuscire
a raggiungere una varietà di piccole nicchie di mercato. Come ha
dichiarato a Businessweek il presidente di Viacom, Sumner Redsto-
ne: “Gli inserzionisti acquistano piattaforme su cui promuovere i
loro marchi, e noi ne abbiamo quattro. Siamo ovunque, perché og­
gigiorno bisogna essere dove vogliono essere gli inserzionisti”16.
Uno studioso della Forrester Research riassume così la tendenza:
“Non esistono più blocchi monolitici di pubblico. Al loro posto
troviamo un mosaico mobile di microsegmenti di audience che co­
stringono le imprese a giocare a un nascondino infinito”17.
Le tecnologie di ultima generazione - specialmente il video-re­
gistratore digitale (DVR) - rendono possibile agli spettatori saltare
la visione di spot commerciali. Per ora il 43% degli utenti di video­
registratori domestici salta gli spot e il mondo dei media è terroriz­
zato da quel che potrà succedere quando certe tecnologie, come Ti-
Vo, che il presidente di Nielsen Media Research, Susan Whiting,
chiama “VCR agli steroidi”, inizieranno a diffondersi18. Gli utenti
attuali del videoregistratore fanno scorrere avanti il nastro il 59%
50 C a p it o l o 2

del tempo in cui compaiono degli spot19. Ciò non significa che il
5 9% degli spettatori salta gli spot, ma che il consumatore medio
guarda circa il 41% degli spot che vengono trasmessi. Scott Dona-
ton, giornalista di Advertising Age, spiega: “Man mano che i pub­
blicitari perdono la capacità di invadere le case e le menti dei con­
sumatori, sono sempre più costretti ad attendere un invito. Ciò
vuol dire che devono imparare a individuare i contenuti pubblici-
tari che i clienti sono disposti ad accettare e ricevere”20.
Rishad Tobaccowala, presidente del gruppo Starcom Media-
Vest, diffuse il panico durante un’assemblea tra dirigenti televisivi,
facendo una previsione che più tardi si rivelò affrettata, secondo
cui gli spot di trenta secondi sarebbero scomparsi entro il 2005. Il
presidente di FO X Television, Sandy Grushow, ammise l’imprepa­
razione dei network rispetto a un avvenimento del genere: “Non
solo verremo tutti infradiciati, ma verremo colpiti anche da un ful­
mine prima di riuscire a compiere dei progressi”21. Mentre i diri­
genti televisivi cercano di procurarsi un ombrello, la pubblicità oc­
culta è l’alternativa più spesso discussa e messa in moto per ovviare
al problema, anche se nessuno è realmente convinto che essa possa
rimpiazzare gli 8 millioni di dollari spesi ogni anno in spot com­
merciali. Affinché ciò avvenga, sostiene Lee Gabler, co-presidente
e partner della Creative Artists Agency, “Il più grande ostacolo da
superare... è l’integrazione tra reti, studio, agenzie pubblicitarie,
inserzionisti e chiunque altro sia coinvolto in questo settore. Dob­
biamo essere capaci di sederci intorno a un tavolo e cooperare per
individuare una soluzione. Per adesso, le agenzie pubblicitarie sono
terrorizzate all’idea che qualcuno invada i loro spazi, i network so­
no ancora in una fase di negazione delle evidenze e gli inserzionisti
non hanno risposte”22.
In questo contesto, il pubblico statunitense è sempre più diffici­
le da “impressionare”. L’industria televisiva si sta concentrando a
conoscere i consumatori che hanno relazioni prolungate e modalità
di fruizione attive rispetto ai contenuti, coloro che si mostrano
quindi disposti a seguirne le tracce attraversando tutte le piattafor­
me mediatiche. Tali utenti rappresentano, per l’industria televisiva,
la migliore speranza per il futuro. Questi studi sul pubblico dell’ul­
tima generazione si concentrano sugli usi che i consumatori fanno
dei contenuti mediatici una volta che li hanno fruiti. Ogni intera­
zione successiva ha un valore, giacché rafforza il legame del pubbli­
co con i programmi e quindi, potenzialmente, anche con i loro
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 51

sponsor. Rispondendo a tale esigenza, Initiative Media, un’azienda


che dà consulenza per la pianificazione pubblicitaria a molte delle
imprese che sono nella classifica delle prime 500 di Fortune, sostie­
ne un approccio alternativo alla misurazione del l'audience, basato
su ciò che definisce “espressione”23. L’espressione individua l’at­
tenzione verso i programmi e i contenuti pubblicitari, il tempo di
consumo e il livello di fedeltà degli spettatori, nonché la loro affi­
nità con programmi e sponsor. Il suo concetto di espressione è
emerso dalla collaborazione con il M IT Comparative Media Stu­
dies Program. Il rilevamento dell’espressione ha inizio a livello del
consumatore singolo, ma per definizione situa il consumo in una
dimensione sociale e culturale più ampia. I consumatori non frui­
scono soltanto dei media ma discutono e interagiscono tra loro nel
corso del processo di consumo e dopo di esso, anche se ciò si risol­
ve semplicemente nell’indossare una T-shirt a testimonianza della
passione per un particolare prodotto, nel postare un messaggio in
una lista di discussione consigliandolo a un amico, o facendo la pa­
rodia di uno spot che circola su Internet. L’espressione può essere
vista quindi come un investimento nel brand e non solo come
l’esposizione a esso.

Lovemarks e capitale emozionale

Il 5 febbraio 2003, in occasione della conferenza Madison +


Vine promossa da Advertising Age, il presidente della Coca Cola,
Steven J. Heyer, ha prospettato la sua visione di quelle che saranno
le relazioni future tra pubblicità (“Madison”) e intrattenimento
(“Vine”). Il suo discorso offre uno scorcio sulla psicologia di uno
dei principali sponsor di American Idol24. Heyer inizia con l’elen­
care i problemi che “richiedono un nuovo approccio nel connetter­
si con i pubblici” e che costringono a rivedere il vecchio paradigma
dei mass media: “La frammentazione e la proliferazione dei media,
nonché il consolidamento degli assetti proprietari, che saranno
presto seguiti da una gigantesca separazione di prodotti e servizi;
l’erosione dei mercati di massa; la crescita del potere dei consuma­
tori, che ormai hanno un’abilità impareggiabile nel ridiscutere, sal­
tare e sfuggire ai messaggi pubblicitari; la tendenza del consumo
verso la personalizzazione di massa”. Considerando i profondi
cambiamenti in atto nel comportamento dei consumatori, Heyer
52 C a p it o l o 2

delinea quella che sembra essere la sua strategia della “convergen­


za” - una più ampia collaborazione tra i fornitori di contenuti e gli
sponsor, finalizzata a dare forma alPintera catena dell’intratteni-
mento. Il punto focale, ha sostenuto, non dovrebbe tanto essere il
contenuto in sé quanto il “perché, dove e come” i vari media con­
vergono e la relazione che ne risulta con il consumatore. Come ha
spiegato: “Immaginate se usassimo tutti gli strumenti a nostra di­
sposizione per creare una varietà in continua espansione di intera­
zioni con persone che - nel corso del tempo - desse vita a una re­
lazione, a una serie continua di transazioni che che fosse unica, dif­
ferenziata e più profonda” di tutte quelle offerte in precedenza
dall’industria dell’intrattenimento.
Il discorso di Heyer richiama la logica dell’espansione d
brand, l’idea che i marchi di successo si reggano su contatti multipli
con i consumatori. La forza di un legame è misurata nei termini del
suo impatto emozionale. L’esperienza non deve rimanere costretta
alPinterno di una singola piattaforma mediatica, ma dovrebbe
estendersi sul maggior numero possibile di media. L’espansione del
brand si basa dunque sull’interesse del pubblico verso particolari
contenuti, per spingerlo a entrare ripetutamente in contatto con un
marchio che vi è associato. Seguendo questa logica, la Coca Cola si
vede sempre meno come fabbrica di bibite e sempre di più come
un’industria dell’intrattenimento, che dà attivamente vita e spon-

Pubblicità occulta e The Apprentice

Mark Burnett, produttore esecutivo di Survivor e The Apprentice


(2004), è stato un pioniere della sperimentazione sul modo di integra­
re un brand. Vista la resistenza dei network alla sua proposta di Sur­
vivor, accettò di controbilanciare le spese di produzione con la pre­
vendita di sponsorizzazioni, e convinse aziende come Reebok a pa­
gare 4 milioni di dollari per ogni produci placement nella serie3. Il suo
secondo programma, The Restaurant (2003)b, fu interamente finan-

a. Ted Nadger, 'The End of TV 101 : Reality Programs, Formats, and thè New Business
of Television", in Susan Murray, Laurie Ouellette (ed.), Reality Television Culture,
New York University Press, New York, 2004.
b. W ade Paulsen, "N BC 's The Restaurant Funded Solely by Product Placement", Re­
ality TV World, 18 luglio 2003, http://www.realitytvworld.com/omdex/articles/
stor.php?s=1429.
In v e s t ir e in A m e r ic a n Id o l 53

sorizza eventi sportivi, concerti, film e programmi televisivi. Que­


sta intensificazione dell’affinità fa sì che il contenuto - e il messag­
gio del marchio - possa far breccia fra tutta la “confusione” e di­
venti “memorabile” per i consumatori: “Useremo una schiera di­
versificata di forme di intrattenimento per entrare nei cuori e nelle
nienti delle persone. In quest’ordine... Andiamo verso idee che fac­
ciano nascere emozioni e creino legami. Ciò accelera la convergen­
za di Madison 4- Vine. Poiché le idee che sono sempre state il noc­
ciolo delle storie che avete raccontato e dei contenuti che avete
venduto... siano film o musica o televisione... non sono più soltan­
to proprietà intellettuale ma divengono capitale emozionale”.
Kevin Roberts, amministratore delegato di Saatchi & Saatchi,
sostiene che il futuro dei rapporti con i consumatori spetta ai “/o-
vemarks”, che sono più potenti dei brand tradizionali in quanto si
guadagno l’“amore” e non solo il “rispetto” dei consumatori. “Le
emozioni costituiscono un’importante opportunità per entrare in
contatto con i consumatori e, soprattutto, sono una risorsa inesau­
ribile. Sono sempre lì, nell’attesa di essere intercettate da nuove
idee, nuove ispirazioni e nuove esperienze”25. Assumendo che solo
una piccola parte dei consumatori compie scelte di acquisto esclu­
sivamente sulla base di criteri razionali, Roberts esorta le imprese a
sviluppare esperienze multisensoriali (e multimediali) che siano in
grado di impressionare i consumatori e di attingere al potere delle

ziato dalla pubblicità occulta di Mitsubishi, American Express e Co-


ors. Con The Apprentice, Burnett fece pagare 25 milioni di dollari a
ogni azienda che chiedeva un'importante pubblicità occulta nella tra­
smissione, e il programma divenne un banco di prova per i diversi
possibili approcci di collegamento tra i brande i contenuti televisivi3.
In quanti modi The Apprentice è stato coinvolto nel branding?
1. Il brand come protagonista: Donald Trump lancia sé e il suo im­
pero aziendale come protagonisti. Nel programma, visitiamo le
sue numerose imprese, incontriamo il suo staff (e anche la sua fi­
danzata), ci rechiamo nel suo appartamento e apprendiamo la
sua filosofia d'affari. I concorrenti si giocano l'occasione di con­
tribuire a guidare uno dei suoi progetti, il che è presentato come
la più grande opportunità a cui ogni giovane uomo d'affari aspiri.

<i. M. McCarthy, "Also Starring (Your Product Name Here), USA Today; 12/8/ 2004.
54 C a p it o l o 2

storie per foggiare ciò con cui i consumatori possono identificarsi.


Il sito ufficiale della Coca Cola (http://www2.coca-cola.com/heri-
tage/stories/index.html) include per esempio una sezione dove i vi­
sitatori possono condividere le loro storie personali legate al pro­
dotto, che ruotano intorno ad argomenti come “amore”, “album di
famiglia”, “ricordi d’infanzia”, “piccoli lussi”, “vacanze con gli
amici” e “ricordi di casa”. Questi temi fondano relazioni affettive
forti che divengono altresì leve promozionali, consentendo da una
parte alle persone di inserire la Coca Cola nei ricordi della loro vi­
ta, e dall’altra di inquadrare queste ultime entro la cornice di
un’operazione di marketing.
American Idol vuole che i suoi fan provino una sensazione
d’amore, o meglio che sentano l’amore per il marchio, i “love-
marks”. Stimolare la partecipazione del pubblico è una leva per
coinvolgere più intensamente gli spettatori di American Idol, rin­
forzando la loro fedeltà al programma e ai suoi sponsor. Questo in­
vestimento inizia con il raduno di milioni di aspiranti concorrenti
ai provini che si tengono negli stadi e negli alberghi per convention
di tutto il paese. Sono molti di più gli spettatori del programma che
gli aspiranti, molti di più gli aspiranti che i partecipanti e molti di
più i partecipanti che i finalisti. Ma, a ogni gradino della scala, gli
spettatori sono invitati a immaginare: “Potrei esserci io o qualcuno
che conosco”. A quel punto, il voto settimanale accresce il coinvol-

2. Brand come incarico: per la seconda edizione (autunno 2004) fu


chiesto ai concorrenti di progettare e testare sul mercato dei gio­
cattoli per Toys 'R' Us e Mattel; realizzare nuovi gusti di gelato per
Ciao Bella; ridisegnare una bottiglia per un prodotto Pepsi; pro­
muovere una nuova barretta M &M e commercializzare il nuovo
dentifricio Vanilla Mint per Procter & Gamble. Il portavoce della
Procter & Gamble ha commentato: "Un'intera puntata dedicata a
parlare delle qualità di un nuovo prodotto costituisce una trama
attraente, tanto che gli spettatori finiscono realmente per tifare
perché il prodotto abbia successo"3.
3. Il processo d i branding come intrattenimento: nel la puntata del 23
settembre 2004, i concorrenti hanno dato dimostrazione delle

a. "Sponsors Buy Into Reality TV", Product Placement News, ITVX, 6/12/2004, http//
:w w w .itvx.com/PageCount, 2,ppnws.asp.
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 55

gi mento del pubblico e instaura un forte legame con i concorrenti.


Quando saranno pubblicati i dischi, i telespettatori avranno già
scelto i beniamini per cui tifare e i fan club si saranno già attivati
nel loro marketing grassroots. Per esempio, i fan di Clay Aiken, che
arrivò secondo nella seconda edizione, riversarono il loro disap­
punto impegnandosi in una campagna per assicurare che il suo al­
bum, Measure o f a Man (2003), superasse nelle vendite il vincitore
del programma, Ruben Studdard, con il suo Soulfui (2003). L’al­
bum di Clay ha venduto oltre 2 0 0 .0 0 0 copie in più rispetto a Stud­
dard nella sua prima settimana di uscita, sebbene si possa supporre
che i dirigenti discografici sarebbero stati soddisfatti anche se la ga­
ra avesse avuto un esito diverso26. La Coca Cola, a sua volta, pone
il suo marchio sugli elementi-chiave del programma: i concorrenti
aspettano nella “stanza rossa” prima di salire sul palco, i membri
della giuria bevono con i suoi bicchieri, i momenti salienti sono ri­
proposti nel sito ufficiale del programma, che appare incorniciato
da un logo Coca-Cola. La bibita regala per promozione i biglietti di
partecipazione alla gara finale. La multinazionale, infine, manda i
concorrenti di Idol alle gare NASCAR e ad altri eventi sportivi che
sponsorizza, e il suo marchio accompagna il tour nazionale del
vincitore27.
Per Heyer passare “dalla Tv broadcasting come ancora” a un
“marketing guidato dall’accesso e basato sull’esperienza” è il mez­

tecnichedi collegamento tra brande contenuto (un circo di acro­


bati e clown e i New York Mets) per far parlare di un nuovo pro­
dotto. Altri intrecci erano finalizzati a produrre spot per reclutare
nuove leve per la polizia di New York o a vendere porta a porta i
prodotti per la casa di Home Shopping Network.
4. Brand come aiutante: spesso i concorrenti si consultano con un
gruppo di aziende più piccole (come Alliance Talent Agency) che
li aiutano, ricevendone in cambio un ritorno d'immagine.
5. Brand come prem io: in molti casi, Trump rimunera i concorrenti
accogliendoli e concedendo loro di accedere alle sue "cose" o a
prodotti e servizi di lusso (come un banchetto di caviale da Pe-
trossian's o gioielli da Graff's).
6. Brand come legame: in seguito a una puntata nella quale i con­
correnti realizzarono un gusto di gelato, i telespettatori sono stati
in grado di ordinarne dei campioncini via Internet, de servire a un
loro party a tema Apprentice. In modo simile, benché non aves­
56 C a p it o l o 2

zo ideale per raggiungere l’ultima generazione di consumatori. Co-


kemusic.com è un ulteriore ponte di collegamento tra l’industria di
bibite e il gusto del pubblico per la musica pop, che permette varie
opzioni di partecipazione e di interattività. Gli utenti possono pa­
gare per scaricare canzoni dal sito oppure ottenere dei buoni che
ne permettano il download gratuito. Hanno la possibilità di creare
i loro mix musicali, di condividerli e ricevere dei voti dagli altri vi­
sitatori. La somma dei voti ottenuti, i “decibel”, conduce a un pre­
mio, che consiste nell’arredamento virtuale delle loro “stanze”, che
si traduce in personalizzazione del consumo e senso di appartenen­
za profonda al mondo della Coca-Cola. Gli “esecutori” accumula­
no fama e seguaci, che costituiscono un incentivo emozionale per
dedicare ancora più tempo e impegno alla creazione dei loro mix.
I visitatori più casuali possono partecipare a una serie di quiz, gio­
chi e gare. Cokemusic.com è divenuto il terzo sito web per popola­
rità tra gli adolescenti, registrando più di 6 milioni di utenti con
una media di 40 minuti per ogni visita. Il direttore del marketing
interattivo dell’impresa, Carol Kruse, spiega: “Loro si divertono,
imparano a conoscere la musica, costruiscono il senso di comuni­
t à ... e fanno tutto questo in un’ambiente Coke, affidabile e amiche­
vole”28.
La fedeltà al brand è il santo graal dell’economia affettiva grazie
a quella che gli economisti chiamano la “regola 80/20”: per molti

sero all'inizio pianificato nessun legame con il programma, alla


Mattel erano così eccitati per il successo della puntata che deci­
sero di mettere in commercio l'auto-giocattolo Mighty Morpher,
progettata dai concorrenti. J. C. Penney distribuì invece un cata­
logo di jeans Levi's che era stato disegnato da una delle squadre
durante un'altra sfida nel corso del programma.
7. Brand come com unità: grazie a un accordo tra The Apprentice e
Friendster, i fan dichiararono il loro sostegno ai concorrenti e i
produttori raccolsero dati in tempo reale sulla loro risposta.
8. Brand come evento: Trump, in collgamento con Yahoo! Hot Jobs,
lanciò un concorso il cui premio (25.000 dollari) serviva a incen­
tivare nuove iniziative. Il segno del servizio fu sovrapposto sul taxi
che accompagnava i concorrenti eliminati.
9. I concorrenti come brand: le concorrenti hanno posato come mo­
delle di lingerie per un servizio dal titolo "The Women of The Ap­
prentice", pubblicato sulla rivista Maxim.
In v es t ir e in A m e r ic a n I d o l 57

prodotti di consumo, P80% degli acquisti è effettuato dal 20% dei


consumatori. Mantenere il legame con quel 20% garantisce la sta­
bilità del mercato e permette all’impresa di adottare una serie di al­
tri approcci per corteggiare quelli che rappresentano l’altro 20%
degli acquisti29. Le corporation si rivolgono, quindi, ai consumatori
attivi perché sanno di doverlo fare per sopravvivere; alcuni hanno
imparato che questi consumatori sono degli alleati, ma molti li te­
mono e manifestano diffidenza nei loro confronti, preferendo cer­
care i modi adeguati per imbrigliare questa forza emergente.
Tale ambivalenza è percepibile nella descrizione di Roberts di
quelli che chiama i “consumatori ispiranti” o che altri descrivono
come i “promotori del brand”: “Sono coloro che promuovono e so­
stengono il marchio. Quelli... che suggeriscono i miglioramenti da
fare, che creano siti web per diffondere il verbo. Sono anche perso­
ne che agiscono come guardiani morali per difendere il marchio che
amano. Fanno di tutto perché gli errori vengano corretti e richiama­
no il brand ai suoi saldi principi”30. Roberts riconosce che i “consu­
matori ispiranti”, individualmente e collettivamente, pongono con­
tinuamente richieste alle aziende. Citiamo per esempio il grido di
protesta rivolto contro Coca Cola quando, prima di essere costretta
a ritornare sui suoi passi nel giro di due mesi, aveva cercato di sosti­
tuire la sua classica formula con “New Coke”. Roberts sostiene che
le aziende devono ascoltare attentamente i loro “consumatori ispi­

10. Brand come giuria: alla fine della seconda edizione, Trump chia­
mò altri imprenditori, da Unilever HPC, PepsiCo., Bear Stearns e
New England Patriots, ad affiancarlo nella scelta dei finalisti.
Tutti questi esempi spiegano solo in parte i vari ruoli giocati dal brand
nel programma (e non illustrano i modi in cui NBC sta usando TheAp-
prentice per rinnovare il suo stesso marchio). Il tentativo avanzato da
molti esperti di media di relegare The Apprentice a niente più che una
grande piattaforma di pubblicità occulta, non fornisce una spiegazio­
ne adeguata della sua popolarità. The Apprentice è famoso perché è
un programma ben fatto, e il legame con il brand si mette in moto per­
ché è dotato di una forte matrice emotiva. Ci interessiamo ai marchi
perché hanno un ruolo centrale nella gara o perché determinano la
nostra identificazione con i personaggi. In generale, i reaiity più segui­
ti sono stati quelli con format più originali e coinvolgenti.
58 C a p it o l o 2

ranti”, specialmente quando criticano una scelta dell’impresa.


Un’azienda che perda i suoi fedeli “consumatori ispiranti”, prima o
poi perderà il suo mercato di base: “Quando un cliente ti ama al
punto tale da entrare in azione, di qualunque tipo essa sia, è neces­
sario prenderne atto. Immediatamente”31. Roberts elogia quelle im­
prese che corteggiano attivamente i fan - per continuare con l’esem­
pio della Coca Cola - ospitando eventi e convention dove espongo­
no in mostra i loro oggetti da collezione. Il primo fan club della Co­
ca Cola nacque nel 1974 da un piccolo gruppo di entusiasti. Oggi, i
fan club sono diffusi in 28 nazioni e formano una rete globale, atti­
vata tramite raduni locali e nazionali, che l’azienda usa per riunire i
suoi clienti più affezionati.
Il consiglio di Roberts di adulare i “consumatori ispiranti” trov
eco in molti altri best-seller di business come Emotional Branding:
The New Paradigm for Connecting Brands to People (2001), di
Marc Gobe; The Power o f Cult Branding: How 9 Magnetic Brands
Turned Customers into Loyal Followers (and Yours Canf Too)
(2002), di Matthew W. Raga; Net.Gain: Expanding Markets
through Virtual Communities (1997), di John Hagel III e Arthur G.
Armstrong32. Questi libri offrono la prospettiva di un mondo dove
i consumatori considerati con più attenzione saranno quelli appas­
sionati, affezionati e attivi. Tutt’altro che marginali, i fan hanno un
ruolo centrale nella danza di corteggiamento tra consumatori e
marketing. Com’è scritto in un noto manuale d’impresa: “Il marke­
ting, in un mondo interattivo, è un processo collaborativo in cui
l’uomo di marketing aiuta il consumatore a comprare e il consuma­
tore aiuta l’uomo di marketing a vendere”33. La ricerca dei “consu­
matori ispiranti” sta iniziando a condizionare anche la valutazione
dei pubblici televisivi, nonché i modi in cui gli inserzionisti pensa­
no di vendere i loro prodotti.

Zapper, occasionali e fedeli

Gli esperti spesso usano distinguere gli utenti tra zapper, occa­
sionali e fedeli, cercando di fondere in una sola classificazione le
considerazioni su modalità, motivazioni e scelte di visione dei con­
sumatori. Gli zapper sono coloro che svolazzano costantemente tra
i contenuti, guardando distrattamente frammenti di programmi
anziché fermarsi e dedicarsi a lungo a uno. I “fedeli”, in realtà,
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 59

guardano meno ore di tv la settimana rispetto alla media della po­


polazione: scelgono con cura i programmi che più li soddisfano, vi
si dedicano a pieno, li registrano e li riguardano più e più volte, ne
parlano tra loro e li inseguono tra i vari media. I fedeli guardano i
programmi, gli zapper guardano la televisione. I primi assumono
impegni a lungo termine, i secondi somigliano agli invitati di un
cocktail party che continuano a guardarsi alle spalle per vedere se
è arrivato qualche ospite più interessante. Gli “occasionali” stanno
nel mezzo, guardano un particolare programma quando se ne ri­
cordano o quando non hanno nient’altro da fare. Generalmente lo
seguono per tutta la durata ma se si annoiano cambiano canale. So­
no portati a guardare la tv mentre chiacchierano o svolgono attivi­
tà domestiche piuttosto che a seguirla attentamente.
Nessuno spettatore appartiene in maniera esclusiva a una cate­
goria: si guarda la tv in modi differenti a seconda delle occasioni.
IΛ) spettatore più fedele fa zapping se si trova in una camera d’al­
bergo o magari alla fine di una giornata faticosa. A volte anche gli
zapper si lasciano catturare da un programma e lo seguono fedel­
mente. Nessuno sa ancora per certo se l’ambiente dei nuovi media
abbia prodotto più zapper, occasionali o fedeli. L’attenzione di A.
C. Nielsen sull’analisi di blocchi di programmi anziché su unità mi­
croscopiche di tempo indica che non c’è ancora il modo di misura­
re in maniera attendibile lo zapping, o la fedeltà fluttuante di spet­
tatori più occasionali.
Per quasi tutti gli anni Novanta, gli studiosi dei media hanno ac­
centuato l’importanza degli “zapper”. Per esempio, nel suo libro
TV.Com: How Television Is Shaping Our Future Philip Swann so­
stiene: “Sono pochi gli spettatori che oggi assistono da seduti a un
intero programma senza tenere in mano il telecomando e girare ca­
nale... lo spettatore odierno ha un continuo bisogno di gratifica­
zioni: se non è interessato o intrigato da ciò che vede in ogni istan­
te, cambierà canale”34. Swann pensa che la televisione interattiva
debba essere (e sarà) progettata per gli zapper. Nel futuro di
Swann, i varietà e i magazine sostituiranno del tutto la fiction, e le
poche serie rimanenti saranno ristrette a meno di trenta minuti. Se­
condo Swann “Ci saranno meno occasioni in cui la gente si siede a
guarda un programma dall’inizio alla fine senza interruzioni. Le
persone cominceranno a guardare la tv come leggono i libri: un po’
alla volta... il concetto di ‘appuntamento televisivo’ - bisogna esse­
re a casa a un’ora precisa per vedere un programma specifico - tra
60 C a p it o l o 2

poco sarà solo un ricordo del passato”35. Rifiutando la resa, i


network non vogliono ancora rinunciare agli appuntamenti, co­
struendo nuovi schemi di programmazione che richiedono e pre­
miano l’attenzione immediata, e vogliono recuperare la fedeltà de­
gli spettatori aumentando la capacità attrattiva dei programmi.
Le ricerche oggi fanno pensare che i consumatori fedeli abbiano
molto più valore degli zapper. Secondo uno studio di Initiative M e­
dia, un programma di rete in media è considerato come “preferito”
solo dal 6% dei suoi spettatori. Ma, in qualche caso, la cifra sale al
50-60% . Una prima evidenza suggerisce quindi che i fedeli sono
più sensibili al richiamo del brand (preoccupazione dei pubblicita­
ri) e sono meno propensi ad abbandonare le reti broadcast per la tv
via cavo (preoccupazione dei programmatori). I fedeli sono dop­
piamente attenti ai messaggi pubblicitari e, rispetto ai telespettatori
casuali, lo sono ancora di più nel ricordare le categorie dei prodot­
ti. Inoltre, è dal 5 al 10% più probabile che ricordino gli sponsor -
non sono tantissimi forse, ma abbastanza numerosi da dare un van­
taggio competitivo agli inserzionisti che preferiscono programmi
con un alto livello di fedeltà di ascolto. Storicamente, i network
ignoravano i fan nell’assumere decisioni sui rinnovamenti dei pro­
grammi, considerandoli non rappresentativi del pubblico in gene­
rale; i pubblicitari stanno invece imparando a investire i loro dolla­
ri nei programmi con alta fedeltà di ascolto piuttosto che su quelli

America's Army

Nel 1997, il National Research Council, in qualità di consulente del


Dipartimento della Difesa USA, ha espresso la sua visione sulla cul­
tura della convergenza, in una pubblicazione dal titolo: "M odelli e Si­
mulazione. La connessione tra l'entertainment e la difesa"3. Prenden­
do atto del sorpasso del settore dell·intrattenimento elettronico di
consumo sulla ricerca m ilitare nello sviluppo delle tecniche di intel­
ligenza artificiale e simulazione, il Dipartimento della Difesa ha cer­
cato di capire come poter collaborare con l'industria di videogiochi
per progettare game di supporto al reclutamento e alla formazione
delle forze armate del futuro: "Il Dod è interessato dalla possibilità di

a. Salvo ove altrimenti indicato, mi baso in questa discussione su Zhan Li, "The Po­
tential of America's Army: The Video Game as CiviIian-MiIitary Publich Sphere",
tesi di Master, Comparative Media Studies, MIT, estate 2003.
In v e s t ir e in Am e r ic a n I d o l 61

più visti. L’impatto di queste ricerche sulle scelte di programmazio­


ne porta i network a generare contenuti che attraggono fedeli, al­
lontanano gli zapper e trasformano gli occasionali in fan.
A prima vista, American Idol sembra essere stato progettato per
gli zapper. Ogni puntata è frammentata in piccole unità temporali
di pochi minuti: il tempo in cui ogni partecipante canta e viene giu­
dicato. I programmi di reai tv sono costruiti sulla somma di tanti
brevi momenti di “attrazione” a forte carica emotiva, che possono
essere guardati in sequenza o meno rispetto al flusso della trasmis­
sione. Ma il programma è progettato in modo da rendere possibili
e sostenere livelli diversi di coinvolgimento.
American Idol è progettato per attirare ogni possibile spettatore
e per fornire a ciascuno un valido motivo per non cambiare canale.
Molti elementi del programma che i fedeli trovano ripetitivi e no­
iosi servono ad assicurare la possibilità di accesso da parte degli oc­
casionali - cose come i riassunti delle puntate precedenti, i ricor­
renti profili dei concorrenti, la ripresentazione di passaggi chiave
nelle valutazioni dei giudici. Ciascuno di questi segmenti serve a
orientare gli occasionali rispetto ai meccanismi base della gara e a
mostrare i retroscena che fanno apprezzare i conflitti drammatici
della puntata. Come ci si avvicina alle settimane conclusive e man
mano che gli occasionali si lasciano trascinare dal fascino del feno­
meno, American Idol e molti altri reality show arrivano a dedicare

realizzare esercizi di addestramento su larga scala e l'industria dei


giochi è interessata a produrre giochi in rete che permettano la parte­
cipazione di centinaia di migliaia di giocatori". Qualcuno ha visto
questo studio come un passo importante verso la creazione di ciò che
molti definiscono come il complesso militare-intrattenimento. Tutta­
via, lo studio mostra la presenza di m olti degli stessi ostacoli alla col­
laborazione che avevamo individuato anche in altri ambiti della cul­
tura della convergenza: "Il mondo dell'intrattenim ento e il Diparti­
mento della Difesa sono profondamente diversi, per cultura, linguag­
gio, modelli di business e comunità di riferimento. (..)ι II successo
della collaborazione dipenderà dall'im pegno di entrambe le parti - e
dalla fede comune nella superiorità dei benefici rispetto ai costi"3.

a. Tutte le citazioni del paragrafo sono tratte da National Research Council, Commit-
te on Modeling and Simulation, "Modeling and Simulation: Linking Entertainment
and Defense", Washington, D.C., 1997, http://www.nap.edu/html/modeling.
62 C a p it o l o 2

magari un’intera puntata ai momenti salienti della serie, per facili­


tare un più ampio accesso di spettatori casuali. Oltre a ciò, ogni
episodio è costruito appositamente per offrire un’esperienza di in­
trattenimento soddisfacente. In American Idol, ogni giovedì l’ap­
puntamento serale include l’esibizione di tutti i concorrenti ancora
in gara e ogni episodio si conclude nella suspence in modo da ri­
mandare lo spettatore alla puntata successiva per conoscere l’esito
del voto. Questi elementi irrisolti hanno la funzione di portare gli
occasionali a un legame più forte con il programma.
Per quanto riguarda i fedeli, il fattore più importante che distin­
gue i reality show da altri prodotti non-fiction è la serializzazione.
Le gare di talenti costituiscono un genere di spettacolo ben radica­
to nella storia del broadcasting, che risale a Major Bowles9 Originai
Amateur H our, un programma radiofonico degli anni Trenta. La
novità portata da American Idol, in ogni caso, è data dal protrarsi
della gara per un’intera stagione televisiva, anziché nel corso di un
singolo episodio. Per essere più precisi, la serializzazione delle gare
di talenti si era già vista sulle reti via cavo, come M TV e VH1, ma
FO X l’ha trasferita su una rete major e ne ha fatto intrattenimento
da prima serata. Nel serializzare una gara di talenti, American Idol
ha semplicemente seguito una tendenza che attraversa tutta la tele­
visione contemporanea - un passaggio dagli episodi autonomi che
caratterizzavano i vecchi programmi verso archi narrativi più lun-

^ .,1

Dopo questo studio, le forze armate USA hanno cominciato a esplo­


rare in quali modi il gioco potesse divenire un mezzo di avvicinamen­
to all'esercito per i più giovani, ormai respinti o annoiati dai metodi
tradizionali di reclutamento. La Difesa voleva anche sfruttare le co­
munità nate intorno ai giochi per ripristinare un legame sociale tra c i­
vili e m ilitari in un tempo in cui la gran parte dei volontari provengono
da un settore relativamente ristretto della popolazione,
il colonnello E. Casey Wardynski, che ideò il progetto America's Ar-
my, spiega:

Mentre in passato un giovane americano poteva apprendere nozio­


ni sul servizio m ilitare ascoltando storie e ricordi personali di un
fratello maggiore, uno zio, un padre o perfino un vicino di casa,
oggi tali opportunità sono relativamente scarse. Nella misura in cui
l'inform azione sul servizio militare influisce sulle scelte di un gio­
vane americano, quell'inform azione arriva da film , riviste, libri e
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 63

ghi e complicati, e una maggiore attenzione per i richiami alla sto­


ria della serie. La serializzazione premia la competenza e la padro­
nanza dei fedeli. La ragione per cui questi guardano tutte le punta­
te non è solo perché ognuna di esse li diverte, ma perché ne hanno
bisogno per riuscire a cogliere il senso completo del suo sviluppo
narrativo.
Ogni reality show si apre con un cast più ampio di quanto il
pubblico riesca ad afferrare e molti personaggi riceveranno poca
visibilità. Nel processo di scrematura, comunque, alcuni di questi
emergeranno come preferiti dal pubblico e un buon produttore sa­
prà anticipare tale dinamica indovinando nel distribuire la visibilità
tra i vari personaggi. Gli spettatori smettono di vederli come ste­
reotipi e iniziano a considerarli come singoli individui. Imparano a
conoscere i concorrenti, le loro personalità, i loro motivi di com­
petizione, le loro storie e perfino i loro familiari. In American Idol,
gli spettatori li vedono fare dei progressi oppure crollare inesora­
bilmente. Questo può essere il motivo per il quale American Idol è
diventato uno strumento di marketing per lanciare le carriere di
giovani cantanti, rinnovando e superando il vecchio modello della
gara televisiva tra talenti.

pubblicità...Di conseguenza, non è così strano che un giovane pri­


vo di contatti con i m ilitari sia meno propenso a immaginare il pro­
prio futuro nelle forze armate. Per contrastare questa situazione,
l'inventore del gioco ha pensato che l'esercito avrebbe ridotto i
suoi costi inserendo le informazioni sul mestiere del soldato nel
contesto divertente e immersivo di un gioco...Un gioco avrebbe
fornito esperienze virtuali e idee sulla formazione, l'organizzazio­
ne e l'im piego dei soldati attraverso America'sArmy. a

Il progetto America's Arm y ha l'ambizione di diventare un brand ge­


nerale di cultura popolare adatto per tutti i tipi di media, sperando di
propagarsi anche nella sfera di fumetti, serie tv, organizzazioni giova-

«i. E. Casey Wardynski, "Informing Populär Culture: The America's Army Game Con­
cept" in Margaret Davis (ed.), America's Army PC Game: Vision and Realization,
Yerba Buena Art Center, San Francisco, 2004, pp. 6-8.
64 C a p it o l o 2

Parlate tra voi!

All’interno del discorso sui media vi è una storica tendenza a


concentrarsi o sul pubblico di massa e indifferenziato (che può es­
sere misurato da tecniche quantitative), o sui consumatori indivi­
duali. Gli studiosi di marketing parlano oggi di “brand communi­
ty”, provando così a capire meglio perché alcuni gruppi di consu­
matori formano legami intensi con un prodotto e, attraverso esso,
con gli altri consumatori. In uno studio fondamentale per la formu­
lazione del concetto di brand community, Albert M. Muniz Jr. e
Thomas C. O ’Guinn, due docenti di marketing, conclusero: “Le
brand community svolgono importanti funzioni a vantaggio del
marchio, come condividerne informazioni, tramandarne la storia e
la cultura, offrire assistenza agli altri utenti. Offrono una struttura
sociale alla relazione tra marketing e consumatori. Le comunità
esercitano sui membri una pressione perché rimangano fedeli al
gruppo e al brand”36.
Queste ricerche etnografiche sul brand analizzano gruppi speci­
fici di consumatori altamente coinvolti (come i motociclisti delle
Harley Davidson, gli utenti di Apple Computer o gli automobilisti
che comprano Saturn) o quelle che si chiamano “brandfest”, eventi
sociali (talvolta sponsorizzati dall’azienda interessata) che riunisco­
no un ampio numero di consumatori.

nili e perfino film , anche se il gioco continuerà a costituire il perno


dell'identità del marchio. Quando fu lanciato il progetto, gli ideatori
decisero di tenere separati i marchi di U.S. Army e di America's Army,
permettendo a quest'ultimo un suo sviluppo indipendente come pro­
dotto di intrattenimento. Ciò che ne viene fuori sono dei fan accaniti
di America's Arm y che non è certo siano e saranno anche dei sosteni­
tori delle forze armate statunitensi. America's Arm y è diventato rapi­
damente uno dei giochi più popolari sul mercato. Ad agosto 2003
quasi 2 m ilioni di utenti registrati avevano giocato più di 185 m ilioni
di "m issioni" da dieci minuti. Nel 2004, uno studio dell'agenzia di
marketing i to i Research ha accertato tra gli studenti liceali e univer­
sitari la presenza di un forte sentimento militarista3. Alla domanda su

a. Wagner James Au, "John Kerry: The Video Game", Salon, 13/4/2004, http://
www.salon.com/tech/feature/2004/04/1 3/battlefield_vietnam/.
In v e s t ir e in A m e r ic a n Id o l 65

Nel momento in cui tali brand community si spostano online


riescono a sostenere questi legami sociali nel lungo periodo, e per­
tanto giungono a intensificare il ruolo svolto dal gruppo nelPin-
fluenzare le scelte di consumo, così come a estendere il numero dei
potenziali consumatori che interagiscono e aiutano a fidelizzare i
consumatori occasionali. Il docente di marketing Robert Kozinets
interpreta queste comunità di consumo online, sia basate su un sin­
golo prodotto che su un gruppo di prodotti correlati (caffè, sigaret­
te, vino), come luoghi “dove gruppi di consumatori con interessi si­
mili si attivano nella ricerca e nello scambio di informazioni su
prezzi, qualità, produttori, punti vendita, etica aziendale, storia
delPimpresa e altre tematiche legate al consumo”37. In breve, rap­
presentano qualcosa di simile alle comunità intelligenti di Pierre
Lévy, sebbene applicate alle decisioni di acquisto. La partecipazio­
ne a queste comunità non solo riafferma l’affiliazione di ogni sin­
golo al marchio, ma conferisce al gruppo più potere di influenza
sulle scelte aziendali. Come spiega Kozinets, “i consumatori fedeli
formano insieme i loro gusti, come una comunità. Questo è un
cambiamento rivoluzionario. Online, i consumatori giudicano la
qualità insieme. Negoziano le pratiche e gli standard del consumo.
Rielaborando e moderando il significato dei prodotti, essi contri­
buiscono a definire e a ridefinire il senso del brand. I singoli danno
molto peso al giudizio degli altri membri ... le risposte collettive

quali ne fossero le motivazioni, il 40% ha citato le recenti operazioni


m ilitari Usa in Afghanistan e in Iraq, ma ben il 30 % ha fatto riferimen­
to alla propria esperienza di gioco con America's Army.
Il Dipartimento della Difesa Usa scelse di utilizzare il gioco non solo
per simulare azioni m ilitari ma anche per inculcare valori. I giocatori
non sono mai premiati se uccidono dei soldati americani virtuali;
ognuno vede i suoi compagni di squadra come compatrioti e i mem­
bri della squadra avversaria come nemici. Bombardare i propri com ­
m ilitoni comporterebbe l'espulsione immediata dal gioco, mentre i
giocatori che rispettano il codice di condotta militare sono premiati
con passaggi di grado e l'accesso a missioni più avanzate.
Il gioco ha suscitato un interesse internazionale: il 42 % dei visitatori
al sito ufficiale di America's Arm y accedono dall'estero (ma alcuni so­
no m ilitari, o loro familiari, all'estero). Tra i giocatori, ci sono anche
gruppi organizzati di diverse nazionalità, incluse alcune di quelle tra­
dizionalmente considerate nemiche degli statunitensi. Gli ideatori del
66 C a p it o l o 2

temperano la ricezione individuale delle comunicazioni di marke­


ting ... le organizzazioni dei consumatori possono far rivalere ri­
chieste ai venditori che non sarebbero accontentate se presentate
da singoli individui”38.
Così come la dinamica sociale di queste comunità online riaffer­
ma e/o ridefinisce la fedeltà al brand di ciascuno dei membri, una
dinamica sociale simile plasma i modi in cui le persone consumano
media e prodotti nelle loro famiglie e in compagnia dei loro amici.
Un’équipe di ricercatori del M IT Comparative Media Studies Pro­
gram e di Initiative Media ha unito le forze per documentare la ri­
sposta del pubblico alla seconda stagione di American Idol39. Il
gruppo del M IT ha inviato ricercatori nelle case e nei college per
osservare le persone mentre guardavano la tv; abbiamo effettuato
interviste individuali a una gamma di diversi consumatori; abbia­
mo fatto sondaggi attraverso i siti ufficiali di American Idol e mo­
nitorato le discussioni all’interno delle comunità di fan. La squadra
di Initiative Media conduceva sondaggi su larga scala e focus group
e raccoglieva dati aggregati dalla pagina Idol del sito di FO X . Vo­
levamo capire meglio come la gente integrasse l’esperienza di visio­
ne di American Idol con il resto delle loro interazioni sociali.
I due gruppi di studio scoprirono che, in ogni spazio sociale i
cui American Idol era seguito, erano presenti spettatori coinvolti a
diversi livelli nell’interazione.

game si sono battuti, con successo, per l'indebolim ento di molte re­
gole m ilitari che limitano l'espressione di idee avverse, e hanno avvia­
to un forum che chiamano "Virtual Community of Interests in Soldie-
ring". In questo spazio, civili e soldati possono dibattere apertamente
dei valori m ilitari ed entrare nei meriti dei conflitti in corso. Il sito del
forum inizialmente offriva link a fonti di informazione a lterna tive-tra
cui l'emittente araba Al Jazeera - e ad altri forum che erano divenuti
centri per il dibattito politico sulla presenza militare Usa in Iraq. Dopo
una ri progettazione nel sito nel 2004 non è più così: lo spazio per link
di questo tipo è stato tagliato o in buona parte ridotto.
Tutti i veterani e i soldati in servizio che si uniscono al gioco vengono
trattati come delle star e considerati degli ambasciatori delle forze ar­
mate. Godono di un tale prestigio all'interno della comunità che spes­
so altri giocatori si fingono veterani solo per conquistare un po' del ri­
spetto a essi accordato. I m ilitari si divertono a smascherarli, ponendo
loro domande a cui solo chi ha servito l'esercito potrebbe saper ri-
In v e s t ir e in A m e r ic a n Id o l 67

In una famiglia, per esempio, i due ragazzi più piccoli (la bam­
bina di 9 anni e il maschietto di 7) erano sempre i primi a entrare
nel soggiorno per attendere l’inizio del programma; generalmente
guardavano gli ultimi minuti di Lizzie McGuire (Disney, 2001) pri­
ma di sintonizzare la tv su FO X. Appena iniziava il programma, al­
zavano la voce per annunciare agli altri: “Sta iniziando!”. Ai primi
segmenti, richiamavano le performance della settimana precedente
e facevano commenti sull’abbigliamento e sulle capigliature dei
membri della giuria. Alla fine della prima fase, la madre general­
mente era appoggiata alla porta, in piedi. Come sempre, avrebbe
fatto avanti e indietro dalla cucina o su e giù dalle scale per i primi
trenta minuti di trasmissione. Una visione così distratta è abbastan­
za comune per le donne, costrette a dedicare le prime ore serali ad
altre esigenze domestiche40. Il padre arrivava con calma e la figlia
più grande, seguendo lo show solo ogni tanto, si faceva aggiornare
dagli altri sugli eventi. L’attenzione del figlio calava durante l’inter­
ruzione pubblicitaria, quando di solito iniziava a fare zapping per­
dendo l’inizio del successivo blocco, a meno che la figlia o la madre
non lo avessero richiamato a tornare in tempo su FO X. Alla fine,
tutta la famiglia si sedeva davanti alla tv per il riassunto degli ultimi
cinque minuti. In quel momento il nucleo domestico si accordava
sulla scelta di un concorrente prima che la madre chiamasse per te-
levotare. La conversazione non finiva mai in disaccordo, anche se

spondere. Così ribadiscono l'importanza dell'esperienza reale, rispet­


to a quella vìssjl| ^ tramite i giochi di fantasia.
A llo scoppio della guerra in Iraq, alcuni giocatori dichiararono di
guardare i notiziari eseguire il gioco contemporaneamente, provando
a realizzare con l'immaginazione ciò che speravano succedesse nella
realtà. Quando molti americani furono fatti prigionieri dell'esercito
iracheno, gli sforzi si concentrarono nell'allestimento virtuale di sce­
nari di liberazione degli ostaggi, in stile hollywoodiano.
Alcuni dei veterani furono spediti in Medio Oriente, ma rimasero in
contatto con gli altri giocatori a cui consegnavano la cronaca diretta
degli eventi. Man mano che il numero dei morti cresceva, i racconti
si concentravano non più sui combattimenti, ma sulle loro sensazioni
personali di ansia e sconfitta. America's Arm y potrebbe perciò porsi
come più efficace spazio di discussione tra civili e m ilitari su espe­
rienze di vita vera, piuttosto che come veicolo di propaganda.
68 C a p it o l o 2

nelle ultime settimane la bambina si pronunciava più vigorosamen­


te sul vincitore, oscillando tra Ruben e Clay. Il padre recepiva tutto
e appoggiava la scelta della famiglia, basandosi sulla visione dei
frammenti riportati nel riassunto finale della puntata.
Attraverso la conversazione familiare, i fedeli attirano gli occa­
sionali nella mischia e richiamano all’attenzione gli aspiranti zap­
per; annunciano l’inizio del programma e aggiornano coloro che
hanno perso qualche dettaglio dello show. In assenza di un tale sti­
molo, alcuni componenti della famiglia probabilmente non avreb­
bero seguito il programma ogni settimana. Quest’ultimo diventa
quindi più interessante allorché diviene il pretesto, anche per gli
spettatori casuali, per un rito familiare. Uno degli effetti dell’esten­
sione della partecipazione dei pubblici è quello di dare a famiglie
come questa diversi modi di fruizione del contenuto; dibattere sul
concorrente da votare diventa parte dell’esperienza di visione ed
esorta tutti a vedere il riassunto se non si sono seguite le singole
performance. Gli studiosi hanno scoperto che rituali condivisi o va­
lutazioni collettive sono centrali per il senso di appartenenza a un
gruppo. Siamo di fronte quindi a una variante di forme rituali eser­
citate sull’individuo anche in altri contesti41. American Idol può di­
ventare intrattenimento per famiglie perché risponde ai gusti sia
dei giovani, sia degli adulti, permettendo a ciascuno di mostrare le
proprie competenze. Molti dei partecipanti hanno tra i venti e i
trenta anni. Per allargare il target del pubblico, il programma intro­
duce pop star più adulte come giudici e insegnanti: Burt Bacharach,
Billy Joel e Olivia Newton-John attraggono non tanto i giovani
spettatori quanto i loro genitori o perfino i loro nonni.
I ricercatori che hanno osservato gli studenti di un college che
guardavano American Idol in un’area comune, hanno riscontrato lo
stesso meccanismo: vari studenti erano coinvolti in modo diverso
rispetto ai concorrenti in gioco, continuavano a dibattere su di loro
settimana dopo settimana, e spesso facevano cadere con ironia nel­
la conversazioni espressioni tipiche rubate al programma. Le per­
sone che avevano perduto qualche puntata potevano rientrare nel
programma con l’aiuto dei loro amici, conoscendo già le regole
della gara e avendo già familiarità con i concorrenti. Qualcuno en­
trava nella stanza senza essere particolarmente interessato alla vi­
sione e ne veniva poi risucchiato. Il numero degli spettatori impe­
gnati cresceva di settimana in settimana con l’evolversi della gara,
mostrando quindi quanto il programma divenisse sempre più cen-
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 69

traie per la vita sociale della comunità. Curiosamente, gli ultimi


episodi coincidevano con gli esami finali, così il gruppo li videore-
gistrò e fece il patto di non guardare il risultato programmando un
appuntamento per la visione collettiva.
Nell’arco di più studi, Initiative Media ha scoperto che diversi
generi di intrattenimento provocano differenti livelli o tipi di inte­
razione sociale. Si guarda la fiction drammatica per lo più da soli,
le commedie con i famigliari e i reality con gli amici. Demografica­
mente, gli spettatori tra i 18 e i 34 anni sono quelli il cui atteggia­
mento varia di più in base al genere di programma. Gli adulti sopra
i 50 in genere guardano la tv da soli o con la famiglia, raramente
con gli amici, mentre la fascia che va dai 35 ai 49 anni è più nume­
rosa e guarda la tv principalmente insieme ai familiari. La gente che
guarda la tv in compagnia in genere fa maggiore attenzione al con­
tenuto, è meno disposta a cambiare canale a metà del programma
e più propensa ad accedere ai siti web degli show televisivi. Tra gli
spettatori che navigano nel Web, molti scelgono di discutere e
commentare il programma nelle comunità di fan in rete. La visione
sociale quindi può costituire un importante volano per l’espansio­
ne del brand e dei contenuti.
Uno studio compiuto su 13.280 spettatori di American Idol e
condotto attraverso il sito ufficiale di FO X, ha trovato che la mag­
gior parte dei fan ha scoperto il programma tramite il passaparola
e ha dichiarato di guardarlo regolarmente solo perché era visto da
alcuni conoscenti (sul versante degli zapper, lo stesso studio ha tro­
vato che quelli che erano inciampati nel programma per caso fa­
cendo zapping erano molto più numerosi di quelli che l’avevano
scelto consapevolmente, in base a informazioni precedenti). Se per
tradizione gli uomini decidono cosa vedere all’ultimo minuto, que­
sta volta solo pochissime donne in più (32%) rispetto agli uomini
(31%) dicono di aver iniziato a seguire il programma solo perché i
loro familiari lo guardavano. Nel complesso, il 78% degli spettato­
ri presi in esame sostiene di guardare American Idol in compagnia
della famiglia o degli amici, e il 74% ha raccontato di discuterne
con loro durante la settimana. Tali conversazioni si estendevano
oltre il gruppo di visione coinvolgendo altri amici, colleghi e pa­
renti. Come ci ha riferito un intervistato, “Mia madre vive in Afri­
ca, mia zia in Russia. Ma entrambe guardano il programma, che
viene trasmesso durante il fine settimana su Armed Forces
Network. Le altre zie, che sono sparse per tutto il paese, si fanno
70 C a p it o l o 2

indovinelli e si scambiano allusioni che poi si chiariranno al mo­


mento della visione. E un avvenimento familiare a cui non ci sono
molte altre occasioni di partecipare”. Se anche perdevano delle
puntate, i partecipanti allo studio cercavano di stare dietro agli svi­
luppi della storia solo per partecipare alle conversazioni casuali
con i compagni. Di conseguenza, coloro che conoscono American
Idol, ne seguono le vicende e addirittura sono esposti al suo marke­
ting sono più numerosi di quelli che effettivamente si fermano a
guardare il programma in televisione.
Le compagnie telefoniche, a tutti i livelli, hanno constatato una
crescita del traffico il giovedì sera dopo la trasmissione. Durante la
settimana finale della terza edizione, Verizon ha verificato un au­
mento di 116 milioni di chiamate, pari al 7% in più rispetto al traf­
fico consueto del giovedì, mentre SBC ha rilevato 100 milioni di
chiamate in più rispetto a una comune serata feriale42. Con tutta
probabilità, il fenomeno non è legato solo al televoto ma anche alle
chiacchiere sollecitate e stimolate dalla puntata.

Come il gossip stimola la convergenza

Uno degli intervistati della ricerca ha colto a pieno lo spirito di


queste conversazioni: “[Guardare American Idol] mi aiuta a rilas­
sarmi dandomi qualcosa di cui parlare con gli amici che non tocca
da vicino le nostre vite; perciò, è un argomento facile da dibatte­
re”. Storicamente, il gossip è stato relegato a “chiacchiera oziosa e
inutile” ma, negli ultimi decenni, le studiose femministe hanno co­
minciato a rivalutarne l’importanza nella comunità delle donne.
Scritti successivi ne hanno spiegato la capacità di sollecitare l’inte­
razione all’interno di una più vasta gamma di comunità. Nel 1980
Deborah Jones ha descritto il gossip come “un modo per le donne
di assumere consapevolezza del proprio ruolo, parlando tra loro in
stile confidenziale di argomenti personali e in ambienti intimi”43. Il
gossip, sostenne, permetteva alle donne di scambiarsi esperienze
comuni e conoscenze, così rinforzando le norme sociali. Mentre la
fluidità del gossip rende difficoltoso il suo studio o la sua documen­
tazione, Jones suggerisce di vederlo come un’importante risorsa
che le donne hanno usato nella storia per connettere le loro storie
personali a una sfera più ampia del semplice ambiente domestico.
Il contenuto specifico del gossip è spesso meno importante rispetto
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 71

ai legami sociali creati dallo scambio di confidenze tra partecipanti:


per questa ragione le sue funzioni sociali vengono bene assolte
nell’interazione che ha luogo grazie allo show televisivo. Non con­
ta di chi parli, ma con chi ne parli. Il gossip costruisce un terreno
comune tra i suoi partecipanti, dato che chi si scambia l’informa­
zione si assicura reciprocamente di ciò che condivide. E, infine, un
modo per parlare di noi stessi criticando azioni e pensieri di altri.
Il cyberspazio estende la sfera delle nostre interazioni sociali, e
diviene sempre più importante essere in grado di parlare di perso­
ne famose per via dei media piuttosto che di soggetti che fanno
parte della nostra comunità locale, essendo questi ultimi dei perfet­
ti sconosciuti per molti partecipanti a una conversazione online. In
questo spazio si muovono quindi quelle figure complesse e spesso
contraddittorie che appaiono nella reality tv. Essa rifornisce i con­
sumatori di un flusso costante di drammi etici, dato che i parteci­
panti al programma devono compiere scelte sulle persone nelle
quali riporre la propria fiducia e devono attribuire limiti e confini
ai loro comportamenti. Gli spettatori possono discutere se Joe Mil-
lionaire abbia scelto la donna giusta o The Donald l’apprendista
adatto, oppure se sia giusto cercare la via del successo tramite Sur­
vivor, o se Clay, Ruben e Kimberly siano i migliori cantanti ài Ame­
rican Idol. In un focus group di uno studio sugli spettatori televisivi,
condotto da Initiative Media, il 60,9% degli intervistati ha sostenu­
to che la condotta etica dei concorrenti era un tema centrale nelle
discussioni sul programma. Invece il 67% discuteva degli esiti, il
35% delle strategie e il 64% delle personalità dei partecipanti. An­
ziché essere un esempio degradante, la condotta eticamente dubbia
dei concorrenti spesso favorisce un dibattito pubblico sulla morali­
tà, che riafferma valori e convinzioni più tradizionali. In una socie­
tà multiculturale, analizzare le differenze nei valori diviene un mec­
canismo con il quale gruppi sociali diversi possono capire meglio le
visioni del mondo di ciascuno. In tal modo risulta chiaro che il va­
lore reale assunto dal gossip che ha luogo nella dimensione del vir­
tuale è maggiore di quello esperito tramite le relazioni faccia-a-fac-
cia. I concorrenti dei reality si fanno avanti per essere giudicati dal
pubblico. Esso, da parte sua, attraverso i suoi giudizi riafferma i
propri valori condivisi esprimendo indignazione verso le trasgres­
sioni osservate e, condividendo le osservazioni sul modo in cui
ognuno risponde ai quesiti etici condivisi, arriva a comprendere le
differenze che separano gli uni dagli altri.
72 C a p it o l o 2

Gli spettatori di American Idol discutono se la gara debba essere


decisa sulla base del “puro talento” o se sia legittimo legare la scelta
ad altri fattori, come la personalità o l’aspetto, che sono spesso la
chiave per il successo commerciale. Considerate, per esempio, l’in­
dignazione espressa da uno spettatore di American Idol che scrisse
al gruppo di ricerca CMS/Initiative Media, convinto che avessimo
un collegamento diretto con i produttori. Questo messaggio segui­
va un episodio nel quale il favorito, poi vincitore finale, Ruben
Studdard, era sceso vorticosamente nella classifica:

Davvero pensate che il pubblico americano creda che Ruben abbia po­
tuto ricevere voti così bassi? Ruben non ha mai avuto un com m ento
negativo e si è sempre esibito in modo eccellente. Non ha mai stona­
to ... è davvero crudele ingannare questi giovani facendo loro credere
che sarete onesti e imparziali. Questo è uno spettacolo di talenti, giu­
sto? Lo dice la parola TALEN T S H O W ... perciò, fate la cosa giusta e
verificate che chi conta i voti sappia contare davvero. Se state manipo­
lando la gara, probabilmente brucerete alPinferno per la vostra stupi­
dità. (Un americano vero e onesto.)

Ciò che ci ha maggiormente colpito di questo commento, a par­


te il cinismo sul processo di votazione, era la sua intensità morale;
la sua ferma convinzione che l’esito di una competizione di talenti
debba essere letto nei termini di una questione di giustizia, onestà
e imparzialità. Un’altra intervistata faceva riferimento alla sua “re­
sponsabilità” nel monitorare i risultati per vedere “se l’America ha
scelto e votato in modo giusto... se ha giudicato i veri talenti e non,
piuttosto, tette e culi”.
Il processo di valutazione si svolge in due atti: il primo consiste
nella discussione sulle esibizioni e il secondo sui risultati. Tra i
membri di una comunità di consumo più impegnati e socialmente
attivi, questi standard di valutazione sono un prodotto collettivo,
proprio come nel caso dei membri della famiglia che abbiamo de­
scritto, i quali associavano i propri gusti personali per assumere
una decisione collettiva su chi, a loro avviso, avrebbe dovuto vin­
cere. Un processo del genere, quindi, spinge a raggiungere, con il
tempo, il consenso; dopo un periodo di tempo più lungo non sem­
bra più che il consenso fosse una cosa in discussione; e l’esito sem­
bra dettato dal senso comune. Possiamo vedere tale aspetto come
una parte della dinamica attraverso cui l’intelligenza collettiva ge­
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 73

nera la conoscenza condivisa. Qualche critico, come Cass Sunstein,


sostiene che questo processo di formazione del consenso conduca
a ridurre la diversità di prospettive che ogni membro della comuni­
tà incontra; le persone tendono ad aggregarsi a gruppi che condivi­
dono dei pregiudizi esistenti, e con il tempo sono sempre meno
esposte a disaccordi sulle idee di fondo44. Allo stesso tempo, questo
processo di formazione del consenso accresce la possibilità che le
comunità di fan e di brand gridino quando gli interessi delle corpo­
rate si scontrano con il consenso del gruppo. Nel corso di un’edi­
zione di American Idol non è mai possibile raggiungere l’approva­
zione totale del pubblico sulle vicende che punteggiano lo show.
Nonostante ciò molti membri della comunità online hanno visto la
seconda stagione come una gara tra Clay e Ruben, contribuendo a
far crescere sempre più l’interesse per la fase finale del programma.
La comunità espresse tuttavia la sua indignazione quando il voto
andava in senso contrario al consenso percepito, come successe la
settimana in cui Ruben rischiò l’esclusione (l’incidente che provocò
la reazione descritta poco sopra) o com’è accaduto spesso nella ter­
za stagione.
Siccome i personaggi sono persone vere che hanno una loro vita
al di fuori del programma, gli spettatori hanno la sensazione che ci
sia molto di più da sapere sul loro conto, il che costituisce uno sti­
molo all’inseguimento di notizie sui vari canali mediatici. Questa
ricerca della verità “nascosta” nella reality tv è ciò che motiva lo
spoiling descritto nel primo capitolo. La ricerca di Initiative Media
ha scoperto che il 45% dei fedeli di American Idol navigavano nel
Web per cercare maggiori informazioni sul programma. E d’altra
parte appurato che la reality tv rappresenta uno dei volani princi­
pali del traffico web verso i siti dei network.
Questi network fanno leva sulle sinergie all’interno delle corpo­
ration dell’intrattenimento per assicurare che il dibattito sui loro
reality sia continuo e costante durante la settimana. I concorrenti
sono l’argomento centrale dei talk show mattutini e di seconda se­
rata, così come delle chatroom affiliate alle reti tv. I risultati alme­
no dei più seguiti fra i reality sono trattati come news e riportati
anche dai network rivali. Nel caso di American Idol, per esempio,
Usa Today, Entertainment Weekly e AOL hanno condotto autono­
mamente le loro ricerche sul pubblico per pronosticare i risultati
delle gare prima della messa in onda. Le riviste di gossip online, co­
me The Smoking Gun, hanno da parte loro cercato di intercettare
74 C a p it o l o 2

gli interessi degli spettatori andando a scavare tra le storie di pre­


cedenti penali e divorzi che coinvolgevano i concorrenti. In alcuni
casi, il mercato parallelo legato ai reality accede a contenuti esclu­
sivi, che estendono quindi ulteriormente l’esperienza primaria del­
la visione. Data la pervasività e la diversità di tale pubblicità, a ogni
fan è possibile conoscere qualcosa che i suoi amici non sanno e ciò
è un ulteriore incentivo a condividere. Tale pubblicità ha anche
l’effetto di stimolare qualche spettatore a seguire il programma in
modo puntuale e dettagliato, così da evitare di conoscerne gli esiti
quando il pathos di drammaticità della gara si è già esaurito. Per al­
tri consumatori una tale copertura mantiene vivi i loro interessi an­
che se non possono seguire ogni episodio, aumentando la probabi­
lità che si sintonizzino per seguire gli episodi finali della serie.

Contestare il voto

Finora ci siamo occupati di quei fattori che assicurano la fedeltà


all’ascolto di American Idol. Come suggerisce il discorso di Heyer,
gli sponsor stanno tuttavia cercando di trasferire la fedeltà del pub­
blico dal programma al brand. La maggior parte degli intervistati
per le nostre ricerche erano perfettamente consci che American
Idol fungesse da banco di prova per nuove strategie di branding e si
dimostrarono entusiasti di offrire le loro opinioni sull’esperimento
in corso. La pubblicità occulta e quella sotto forma di programmi a
tema sono diventate parte integrante del fenomeno American Idol,
tanto che qualcuno si sintonizzava per vederle, così come il Super
Bowl è diventato una vetrina pubblicitaria tanto quanto un evento
sportivo. La Coca Cola ha parodiato l’onestà incorruttibile del giu­
dice Simon Cowell, raffigurandolo mentre è costretto a leggere il
suo sostegno a Vanilla Coke, sotto la minaccia di un mafioso; la
Ford ha creato nuovi segmenti musicali ogni settimana con la par­
tecipazione dei concorrenti; la A T& T ha dato vita a una campagna
che imitava Legally Blonde (2001) e mostrava un adolescente spen­
sierato in giro per il paese a convincere le persone a televotare. Gli
sponsor non si accontentano più di pubblicizzare i loro prodotti,
ma cercano piuttosto di marchiare i contenuti in modo tale, per
esempio, che la scenografia rossa di American Idol divenga insepa­
rabile dalla sponsorship della Coca Cola; che gli spot della Ford in
cui compaiono i concorrenti divengano parte di una mobilitazione
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 75

dei fan per i loro partecipanti preferiti; che il sistema di voto via
sms di A T& T divenga la modalità preferita dal pubblico.
Gli spettatori sono più disposti ad accettare la pubblicità occulta
aU’interno dei reality che in altri generi (nei drammi, nei program­
mi di informazione e in quelli per l’infanzia). Alcuni utenti si allon­
tanano dagli show televisivi quando vi vedono un’eccessiva com­
mercializzazione, mentre per altri identificare gli interventi del
marketing fa parte del “gioco”: “Io mi diverto a cercare i prodotti
piazzati qua e là nei programmi e quando li trovo gioisco”. Anche
coloro che dichiarano di non guardare gli spot sono trainati dalle
pubblicità seriali: “Sapete cosa faccio durante i break pubblicitari?
Riempio la mia zuppiera di pop corn, vado in bagno, inforno un
dolce, canto, ballo. Mi rifiuto di restare seduto davanti a quello
schifo! A dire il vero, però, mi piace molto lo spot di Simon/Vanilla
Coke”. Anche coloro che si sono rifiutati di seguire il programma
perché lo ritenevano eccessivamente commercializzato, risultano
in grado di citare accuratamente i suoi sponsor. In qualche caso essi
hanno migliorato la percezione pubblica del loro marchio, laddove
altri potenzialmente ne sono usciti danneggiati. Come uno spetta­
tore abituale disse ai nostri ricercatori: “Ora so per certo che Coca
Cola, Ford e A T& T si fanno pubblicità con il programma; ma ciò
sta iniziando a diventare scocciante, e non voglio avere più a che
fare con questi marchi”. Altri invece non erano in grado di tenere
separate le loro scelte di consumo dal loro attaccamento al pro­
gramma: “Sigh, sì, ho comprato una felpa Old Navy perché Aiken
la indossava nello studio di registrazione di ‘God bless thè USA’.
Normalmente odio quel tipo di abbigliamento e detesto Old Na­
vy”. Possiamo quindi stabilire, come regola generale, che più si è
spettatori impegnati di American Idol e più ci si lascia coinvolgere
dai suoi sponsor.
Una così forte integrazione tra pubblicità e contenuti comporta
tuttavia qualche rischio, poiché la credibilità degli sponsor è colle­
gata strettamente a quella del programma. Kozinets avverte che la
partecipazione a una comunità accresce il livello di consapevolezza
sul consumo e sui processi di marketing e rafforza eventuali risen­
timenti nel caso in cui l’azienda speculi sulla relazione. La voce col­
lettiva è più alta e più influente di quella dei membri individuali. Le
sue espressioni giungono alPorecchio non solo delle imprese con­
testate ma anche dei media tradizionali. Le reazioni negative dei
consumatori vengono trattate come “scandali” e ciò mette sotto
76 C a p it o l o 2

pressione ancora di più le aziende perché vi rispondano. In alcuni


casi, come nota Kozinets, le corporation, così irritate per la perdita
di controllo, minacciano o puniscono i loro consumatori più fedeli,
compromettendo dei rapporti di valore. Kevin Roberts sostiene
che tali scandali sono dei moniti per le aziende, che devono ap­
prendere dall’ascolto dei loro consumatori più affezionati, e raffor­
zare il rapporto di fedeltà attraverso la comprensione piuttosto che
ostentare indifferenza o reagire in maniera inconsulta.
La gara tra Clay Aiken e Ruben Studdard finì per assomigliare
alle elezioni presidenziali del 2000, con i due finalisti separati da
poco più di centomila voti su un totale di 24 milioni. I diversi mi­
lioni di voti via sms furono accettati tutti e contati, mentre chi cer­
cava di votare per telefono trovava le linee costantemente occupa­
te. Così ci ha spiegato un fan: “I voti scartati in Florida sono niente
in confronto a questo stupido sistema di voto”. I sostenitori di Clay
in particolare protestarono per il livello di intasamento delle linee
telefoniche, che rendeva impossibile un conteggio preciso, alcuni
avanzarono il sospetto che l’accesso telefonico fosse stato voluta-
mente limitato per garantire un finale testa a testa. I produttori di
American Idol avevano alimentato forti attese sulla capacità di ri­
sposta al feedback dei telespettatori, e incontrarono perciò il loro
disappunto quando dimostrarono di non essere all’altezza delle at­
tese. Durante la terza stagione, le incoerenze nel voto finirono tra
i titoli dei principali quotidiani nazionali, tanto che la rete fu co­
stretta ad ammettere che il numero elevato di televotanti aveva re­
so impossibile la registrazione dei voti a causa delPintasamento del­
le linee locali. Il risultato fu un conteggio disomogeneo da regione
a regione. Per esempio, gli spettatori delle Hawaii, un’area dove re­
lativamente poche persone si contendevano l’accesso alla connes­
sione locale, hanno potuto esprimere più di un terzo dei voti totali
della stagione. Secondo alcuni tale squilibrio spiegava la lunga pre­
senza nel gioco di un concorrente hawaiano45. Nel momento in cui
crebbe la controversia, fu prolungato il tempo della votazione e
vennero aggiunte linee telefoniche, allo scopo di frenare il malcon­
tento del pubblico. Un editoriale di Broadcasting & Cable ammoni­
va: uLa fedeltà del pubblico è difficile da guadagnare e ancora di
più da mantenere... Dato che A T & T è uno degli sponsor del pro­
gramma, FO X deve fare di tutto per evitare l’impressione di essere
in combutta con la compagnia telefonica per stimolare tante più
chiamate possibile, al di là del fatto che esse possano essere accet­
In v e s t ir e in A m e r ic a n Id o l 77

tate o meno”46. Nonostante questo, la FO X si è rifiutata di rendere


noto il conteggio dei voti, offrendo solo informazioni parziali du­
rante la trasmissione. Molti fan sostengono che questa selezione
delle notizie rende loro più difficile credere nelPattendibilità e
neH’imparzialità del processo.
Le proteste andarono oltre il meccanismo di voto, e inclusero
anche il disappunto per i concorrenti che venivano particolarmen­
te “spinti” dai giudici e dai produttori, che durante lo spettacolo ri­
cevevano maggiore attenzione e commenti più positivi o, in qual­
che caso, venivano intenzionalmente attaccati per stimolare le rea­
zioni negative del pubblico contro la giuria. I più cinici hanno scor­
to nei produttori un maggiore interesse nell’alimentare le contro­
versie allo scopo di trainare gli ascolti che nel riconoscere i talenti.
Così come gli spoiler hanno provato a ostacolare Mark Burnett nel
suo tentativo di mantenere segreto il vincitore di Survivor, anche i
fan di American Idol si divertono a smontare i “meccanismi” attra­
verso i quali i produttori “costruiscono” i risultati. Spiega un fan:
“Mi piace vedere Simon mentre sperimenta il potere di dare giudizi
sbagliati per provocare la reazione del pubblico, quando per esem­
pio definisce formidabile una performance mediocre”.
Per molti, questi tentativi di influenzare la risposta del pubblico
erano visti come un’interferenza invasiva dello sponsor all’interno
del contenuto del programma. I concorrenti - si sosteneva - stava­
no diventando così “confezionati” che ormai non c’era alcuna dif­
ferenza con gli altri prodotti pubblicizzati. In qualche caso, gli
“Idoli” diventavano modelli per presentare nuovi abiti di moda,
trucchi e prodotti per capelli. Secondo i fan quel cambiamento in
senso modaiolo della loro immagine non era che il primo passo di
un processo che avrebbe portato a una iperelaborazione delle loro
esecuzioni per la pubblicazione dell’album.
Un tale livello di irritazione e diffidenza fa pensare che la pub­
blicità occulta può essere un’arma a doppio taglio - da un lato au­
menta la consapevolezza del consumatore, ma dall’altro rafforza la
sua capacità di analisi. Quasi tutti gli intervistati per la ricerca han­
no avanzato qualche critica nei confronti della curvatura commer­
ciale del programma, nonché nei riguardi della scaltrezza degli uo­
mini di marketing in grado di manipolare, attraverso l’abilità co­
municativa, i consumatori ingenui e inesperti. Perfino i fedeli han­
no lamentato che la serie fosse poco più che una “macchina da
merchandising”.
78 C a p it o l o 2

Queste comunità online offrono ai “consumatori ispiranti” un


posto dove dibattere delle loro resistenze alle nuove forme di com­
mercializzazione. Nella critica degli esiti, i fan spesso argomentano
sugli interessi delle corporate nell’influenzare un risultato piuttosto
che un altro. Attraverso questo processo, i partecipanti con una
maggiore conoscenza dell’economia possono educare gli altri sulle
strutture commerciali che plasmano il broadcasting americano. In
qualche caso, i fan di American Idol hanno usato le risorse delle co­
munità online per identificare i difetti del sistema di votazione. Il
brano seguente tratto da un sito di fan mostra il grado di raffinatez­
za con la quale il gruppo raccoglieva ed elaborava informazioni:

M olti sms-voto, secondo quando riportato nei post, nei siti web affi­
liati alle compagnie telefoniche interessate e negli articoli di news,
giungono a destinazione e quindi funzionano. D’altra parte i votanti
pagano qualcosa per inviare un sms - e pagare per il voto ti dà un mi­
nimo di potere. L’anno scorso, quando Ruben Studdard ha vinto, al­
cuni fan di American Idol raccontarono su un message board che alcu­
ni dei messaggi che avevano inviato non erano andati a buon fine. D o­
po qualche ora dall’invio in molti hanno ricevuto un messaggio di er­
rore dal loro fornitore telefonico. Fino a quel momento si diceva in­
vece che le operazioni di voto via sms stessero funzionando al 1 0 0 per
47
cento.

I fan di American Idol discutevano sulle strategie di voto che


avrebbero potuto contrastare quelle distorsioni alla gara. I loro
sforzi sarebbero stati finalizzati a sostenere il cantante migliore te­
nendo fuori i commenti negativi e indebolendo i concorrenti “pe­
santemente marchiati”. Fin dal primo giorno, i produttori avevano
cercato di impostare l’intera edizione sulla battaglia tra tre “dive”
nere e i giudici avevano proclamato una di loro, Fantasia Barrino,
come probabile vincitrice. Nel momento in cui le altre due scesero
in classifica, e Fantasia rischiò di toccare addirittura il fondo per
molte settimane, il giudice ospite Elton John denunciò come “in­
credibilmente razzista” il modello di voto americano48. Un voto
apparentemente così mutevole, in ogni caso, ha più senso se letto
nel contesto di una reazione negativa del pubblico, e soprattutto di
quello composto dagli spettatori più coinvolti nel programma, nei
confronti di quello che vedevano come un palese tentativo di inter­
ferire nel loro diritto di scegliere l’ìdolo.
In v e s t ir e in A m e r ic a n I d o l 79

Sponsorizzare uno spettacolo come questo assicura alle aziende


che si parli di esse, ma non garantisce loro in che termini ciò avver­
rà. Buona parte di questo capitolo ha trattato American Idol analiz­
zando le strategie dietro le quinte di un’industria mediatica come
FOX, di un marchio commerciale come Coca Cola e di ricerche di
marketing come quelle portate avanti da Initiative Media. Ma dob­
biamo tener conto seriamente della reazione negativa di quelli che
Roberts chiama “consumatori ispiranti”. Chi vince American Idol,
alla fine, non è poi così importante nel grande schema delle cose. I
dibattiti sul sistema di voto sono discussioni sul tema della parteci­
pazione del pubblico nei media americani. In un’epoca in cui le reti
e gli sponsor uniscono le forze per plasmare il contesto emozionale
nel quale noi guardiamo gli spettacoli televisivi, i consumatori esa­
minano i meccanismi di partecipazione che vengono loro offerti.
Se la retorica del Lovemarks sottolinea l’attività e il coinvolgimento
del pubblico come risorsa centrale nella valorizzazione del brandy
allora, allo stesso tempo, le comunità di consumatori possono chia­
mare le corporation a render conto di ciò che fanno in nome del
marchio e per la loro risposta o meno alle richieste avanzate. Di­
spute di questo tipo hanno generato notevole “fervore” intorno al
programma, richiamando molti nuovi spettatori ma anche allonta­
nando e disaffezionando molti dei più fedeli.
La polemica eccessiva può danneggiare il rating o le vendite dei
prodotti. Lo studio condotto da Initiative Media ha scoperto che
A T& T, la compagnia telefonica che ha gestito il meccanismo delle
votazioni, ha subito danni in seguito alle critiche ricevute dal pub­
blico del programma, e che anche altri sponsor chiave come Coca
Cola e Ford potrebbero essere stati danneggiati. Nessuno potrebbe
pensare che gli spettatori, in un contesto di pubblicità tradizionale,
possano tradurre una reazione negativa verso un’azienda nel soste­
gno per un suo concorrente. In un mondo in cui gli sponsor sono
sempre più legati ai contenuti, invece, le aziende potrebbero essere
colpite negativamente da qualsiasi percezione sfavorevole che il
programma provochi nel suo pubblico. Nei prossimi decenni, la re­
lazione tra produttori di media e consumatori sarà ridisegnata sulla
base di queste battaglie.
Capire quando una cattiva reazione del pubblico possa danneg­
giare l’azienda - o anche quanto le aziende stesse siano in grado di
influenzare la partecipazione dei pubblici - diviene centrale per il
funzionamento di ciò che abbiamo definito P“economia affettiva”.
80 C a p it o l o 2

Se un programma diventa un “capitale emozionale” dei suoi consu­


matori, nei termini di Heyer, dobbiamo aspettarci che il consuma­
tore faccia per esso un investimento diverso da quello del produt­
tore, e che l’amore per i Lovemarks si traduca in odio non appena
il produttore alteri ciò che la comunità dei consumatori ritiene fon­
damentale per la sua esperienza. Per il momento, il marketing deve
ancora percorrere molta strada se vuole capire la complessità
dell’investimento emozionale del pubblico negli oggetti di intratte­
nimento e nei brand. I pubblici, da parte loro, hanno molta strada
da percorrere se vogliono sfruttare a pieno i punti d’ingresso che
l’economia affettiva offre loro per l’azione collettiva e la critica
grassroots della condotta delle grandi aziende.
C a p it o l o 3

All’inseguimento dell’unicorno origami


Matrix e la narrazione transmediale

NelPirriverente storia a fumetti “Get it?” di Peter Bagge - una


delle venticinque strisce che l’autore ha disegnato per il sito di Ma­
trix - tre amici stanno uscendo da un cinema dove hanno appena
assistito alla visione dell’opera dei fratelli Wachowski (Figura 3.1).
Per due dei tre, Matrix (1999) è stato un’esperienza illuminante:

“Wow! È fantastico!”
“È il più bel film che abbia mai visto!”

Il terzo è perplesso, e a giudicare dalle facce a prugna dei due


coniugi anziani che gli camminano davanti, non sembra essere il
solo: “Non ho capito una parola!”

“Vuoi dire che sei stato a grattarti il capo per tutto il tem po?”

Figura 3.1 Peter Bagge dà un’idea della perplessità che Matrix ha suscitato in
alcuni spettatori.
82 C a p it o l o 3

Entrano quindi in un bar e uno dei due entusiasti prova a spiega­


re il film all’amico confuso, chiarendo i concetti di realtà fabbricata,
mondi controllati dalle macchine e “spinotti neurali”, mentre l’altro,
più pessimista, bofonchia: “Non credo riuscirai mai a capirlo”. Nel
momento in cui l’amico confuso se ne va, gli altri due si rivelano
“agenti” cibernetici, e si dicono soddisfatti che molti umani non ca­
piscano il film, perché “meno umanoidi comprendono cosa sta acca­
dendo e meno dovremo distruggerne”1.
Celebre per l’acuta satira sociale del fumetto Hate (1990-1998)
e, più recentemente, per la rivista Reason, Bagge mette a confronto
in questa vignetta chi ha capito Matrix con chi non vi è riuscito. C’è
qualcosa nel film che lascia alcuni spettatori interdetti e altri ecci­
tati. Bagge disegnò la sua striscia immediatamente dopo l’uscita del
primo film di Matrix. Come vedremo, in seguito le cose si sono
complicate.
Nessun franchise cinematografico ha mai chiesto così tanto al
suo pubblico. Il film The Matrix ci ha introdotti in un mondo dove
il confine tra realtà e illusione sfuma costantemente e i corpi umani
vengono immagazzinati dalle macchine come fonte d’energia,
mentre le menti abitano un mondo di allucinazioni digitali. Neo, il
protagonista hacker divenuto messia, entra nel movimento di resi­
stenza di Zion, il quale lavora per annientare gli “agenti” che pla­
smano la realtà per i loro scopi inquietanti. Il trailer d’anteprima
del film tormentava il pubblico con la domanda: “Che cos’è M a­
trix?”, spingendolo a cercare risposte in rete. Il sequel, The Matrix
Reloaded (2003), si apre senza nessun riepilogo e presuppone una
nostra padronanza della sua complessa mitologia e del cast di per­
sonaggi secondari in continua espansione. Si chiude improvvisa­
mente con la promessa che tutto verrà chiarito nel corso della terza
puntata, The Matrix Révolutions (2003). Per apprezzare fino in
fondo ciò che stiamo guardando, abbiamo quindi un compito ar­
duo da svolgere.
I registi disseminano degli indizi che non hanno senso fin quan
do non giochiamo al computer game. Essi traggono spunto dai
retroscena raccontati nei corti animati contenuti in un altro appo­
sito Dvd oppure scaricati dal Web. I fan correvano, stupiti e confu­
si, dalle sale cinematografiche alle liste di discussione su Internet,
dove ogni dettaglio sarebbe stato scandagliato e sarebbe stata di­
scussa ogni possibile interpretazione.
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 83

Quando le generazioni precedenti si erano poste la questione


delPaver capito o meno un film, in genere il dilemma riguardava
un’opera del cinema europeo, artistico e indipendente o piuttosto
di un cult oscuro da visione notturna. The Matrix Reloaded, invece,
ha battuto tutti i record di vendita dei film R-rated [che possono
contenere scene violente, linguaggio spinto o immagini ad alto
contenuto erotico], guadagnando l’incredibile cifra di 134 milioni
di dollari nei primi quattro giorni dall’uscita. Il videogame, da par­
te sua, è stato parallelamente venduto in più di un milione di copie
nella sola prima settimana. Ancora prima che The Matrix Reloaded
uscisse nelle sale, l’80% degli americani lo aveva promosso a priori
come film “da vedere”2.
The Matrix è intrattenimento per l’era della convergenza media­
teca. In esso molteplici testi sono integrati in una trama narrativa co­
sì complessa da non potersi dipanare attraverso un singolo medium.
1 fratelli Wachowski hanno condotto magistralmente il gioco tran­
smediale, prima facendo uscire il film per stimolare l’interesse e
concedendo qualche raro fumetto sul Web ai fan più accaniti e più
curiosi, poi lanciando l’anteprima animata della seconda puntata e
contemporaneamente il gioco per computer, così da sfruttarne la
pubblicità. Infine, hanno chiuso il cerchio con The Matrix Révolu­
tions e affidato tutta la mitologia prodotta nelle mani dei giocatori
del gioco multiplayer online. Ogni gradino della scala sfrutta tutto
quel che è venuto prima e offre nuovi punti d’ingresso.
The Matrix è anche intrattenimento per l’era dell’intelligenza
collettiva. Pierre Lévy teorizza su quali tipi di opere estetiche ri­
spondano alla domanda della cultura della conoscenza. Innanzi
tutto, egli sostiene che la “distinzione tra autori e lettori, produtto­
ri e spettatori, creatori e interpreti si confonderà” per formare “un
circuito” (non proprio una matrice) di espressione, in cui ogni par­
tecipante è impegnato a “sostenere l’attività” degli altri. L’opera
diverrà ciò che Lévy chiama un “attrattore culturale”, vale a dire
un prodotto che unisce diverse comunità offrendo loro un terreno
comune; possiamo anche descriverla come un attivatore culturale,
poiché stimola attivamente alla sua interpretazione, esplorazione
ed elaborazione. La sfida, continua Lévy, consiste nel creare opere
di uno spessore tale da giustificare sforzi su larga scala: “Qui si mi­
ra anzitutto a impedire che si chiuda troppo presto, senza aver di­
spiegato la varietà delle sue ricche potenzialità”3. The Matrix fun­
ziona chiaramente sia da attrattore che da attivatore culturale. I
84 C a p it o l o 3

consumatori più interessati seguono dati disseminati su più piatta­


forme mediatiche ed esplorano ogni testo per avere qualche idea
del mondo. Keanu Reeves ha spiegato ai lettori di Tv Guide: “Ciò
che il pubblico percepirà da Révolutions dipende dall’energia che
deciderà di dedicarvi. Il copione è ricco di passaggi segreti e vicoli
ciechi”4. Gli spettatori ricavano ancora di più dall’esperienza se si
confrontano fra loro e condividono le risorse invece di tentare di
procedere individualmente.
In questo capitolo, andrò a descrivere il fenomeno The Matrix
come esempio di narrazione transmediale, ovvero come una storia
raccontata su diversi media, per la quale ogni singolo testo offre un
contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo.
Nel modello ideale di narrazione transmediale, ciascun medium
coinvolto è chiamato in causa per quello che sa fare meglio - cosic­
ché una storia può essere raccontata da un film e in seguito diffusa
da televisione, libri e fumetti; il suo mondo potrebbe essere esplo­
rato attraverso un gioco o esperito come attrazione in un parco-di­
vertimenti. Ogni accesso al franchise deve essere autonomo in mo­
do tale che la visione del film non sia propedeutica al gioco o vice­
versa. Ogni singolo prodotto diviene così una porta d’ingresso al
franchise nel suo complesso. La transmedialità comporta una pro­
fondità nell’esperienza di fruizione che aumenta la motivazione al
consumo. La ridondanza, però, può far svanire l’interesse dei fan e
danneggiare il franchise, mentre l’offerta di nuovi livelli di com­
prensione e di esperienza può rafforzarlo e incoraggiare la fedeltà
dei consumatori. La logica economica che domina il mondo
delPintrattenimento integrata e orizzontale - nel caso di una singo­
la azienda che si ramifichi attraverso diversi settori mediali - detta
il flusso dei contenuti nel loro percorso transmediale. Media diver­
si attraggono differenti nicchie di mercato. Con tutta probabilità, il
cinema e la tv si rivolgono a un pubblico molto variegato mentre
fumetti e giochi hanno il pubblico più ristretto. Un buon franchise
transmediale cerca di attrarre pubblici differenziati proponendo i
suoi contenuti in modo un po’ diverso per ciascun medium. Se pe­
rò c’è abbastanza materiale da soddisfare quei diversi segmenti di
mercato - e se ogni opera offre esperienze nuove - allora si potrà
contare su un mercato trasversale in espansione.
Gli artisti popolari che lavorano negli interstizi del mondo dei
media hanno capito di poter cavalcare questo nuovo imperativo
economico per produrre lavori più ambiziosi e più coraggiosi. Allo
Λΐ-LÌNSEGUIMENTO d e l l ’u n ic o r n o o r ig a m i 85

stesso tempo, stanno costruendo una relazione più collaborativa


con i loro consumatori. Grazie a questo interscambio il pubblico
può acquisire così un’inedita conoscenza del contenuto mediatico,
come mai si era sognato di fare in passato. Per raggiungere i loro
obiettivi, questi narratori stanno sviluppando un modello autoriale
più partecipativo, promuovendo la co-creazione con artisti prove­
nienti da altre esperienze e portatori di modi diversi di pensare il
racconto, in un’epoca in cui in effetti sono davvero pochi gli autori
che si muovono a proprio agio in tutti i media.
Bene, allora abbiamo visto che il franchise è innovativo. Ma The
Matrix è anche un’opera valida? Molti critici cinematografici han­
no stroncato i sequela giudicandoli non sufficientemente autonomi
e coerenti. Molti critici dei giochi hanno distrutto il game perché
troppo dipendente dal film e non sufficientemente attraente per il
pubblico. Molti fan hanno espresso il loro disappunto perché le lo­
ro teorie sul mondo di The Matrix erano più ricche e sfumate di
quello che si era visto sullo schermo. Vorrei far notare, in ogni ca­
so, che al momento non abbiamo ancora a disposizione dei validi
criteri estetici per giudicare opere transmediali. Ci sono stati, fino­
ra, pochissimi esempi a dimostrazione di buone doti narrative da
parte degli autori, e poche occasioni per consumatori e critici di va­
lutare gli elementi funzionali e quelli inadeguati a questo tipo di
franchise. E allora, almeno per il momento, diciamo che The Ma­
trix è stato un esperimento con molte pecche, un fallimento inte­
ressante, ma che le sue falle non tolgono nulla al significato di quel
che cercava di realizzare.
Sono stati davvero pochi, fino a oggi, i franchise che hanno rag­
giunto tutto il potenziale estetico della narrazione transmediale.
Gli attori mediali stanno ancora cercando, in tale direzione, la buo­
na strada, ma non sono propensi a correre troppi rischi. Eppure ai
piani alti delle aziende dell’intrattenimento ci sono capi giovani ed
emergenti (come Danny Bilson e Neil Young di Electronic Arts o
Chris Pike di Sony Interactive) che spingono le loro aziende a
esplorare questo nuovo modello per i franchise d’intrattenimento.
Alcuni di loro stanno ancora cercando di riprendersi dai loro falliti
esperimenti d’avanguardia (Dawson’s Desktop, 1998). Tra questi,
qualcuno ha avuto un modesto successo (The Blair Witch Project,
1999), e altri sono stati visti come fallimenti spettacolari (Majestic,
2001). I nuovi attori mediali dibattono a porte chiuse sul miglior
modo di attuare collaborazioni più produttive tra i vari settori me­
86 C a p it o l o 3

diatici, e in alcuni casi stanno già lavorando a nuove idee masche­


rate da accordi di riservatezza. Nel 2003, definito dal Newsweek
come “l’anno di The Matrix”, tutti erano attenti a osservare la ri­
sposta del pubblico al progetto ambizioso dei fratelli Wachowski5.
Come Peter Bagge, essi guardavano in faccia la gente all’uscita dei
cinema per sapere se avesse “capito” il film.

Che cos’è The Matrix?

Umberto Eco si chiede cosa, oltre al fatto di essere amato, faccia


di un film come Casablanca (1942) un prodotto “di culto”. Innanzi
tutto, egli sostiene, l’opera deve racchiudere un universo molto ric­
co di personaggi ed episodi che i fan possano divertirsi a citare, co­
me se appartenessero a un mondo intimo e settario6. In secondo
luogo, deve essere enciclopedica e contenere una grande ricchezza
di informazioni che possano essere maneggiate e padroneggiate dai
fan.
Non è necessario che il film sia ben fatto, ma deve permettere ai
consumatori di fantasticarvi sopra: per trasformare un’opera in un
oggetto cult bisogna decostruirla, scompaginarla, sconvolgerla, co­
sì da ricordarne solo delle parti, che non rispettano più il loro lega­
me originale con l’insieme7. Il film cult non deve essere coerente:
meglio se spinge in direzioni opposte, asseconda diverse comunità
e modalità di fruizione. Sperimentiamo un film cult come se non
avesse un’idea centrale, ma molte, e come se fosse una serie discon­
nessa di immagini, di punte di iceberg visuali8.
Il film cult è fatto per essere citato, asserisce Eco, perché è co­
struito su frasi, archetipi, allusioni e rimandi a molte opere prece­
denti. Tutto questo materiale procura una sorta di emozione inten­
sa accompagnata da una vaga sensazione di déjà vu10. Per Eco, Ca­
sablanca è il cult perfetto perché le sue appropriazioni sono spon­
tanee: “Nessuno sarebbe stato capace di ottenere un tale risultato
volutamente”11. Eco è perciò diffidente verso i film cult progettati
a tavolino. Nell’era postmoderna, egli sostiene, nessun film può es­
sere guardato con occhi incantati, giacché tutto è stato già visto. In
questo contesto, “il cult è divenuto la modalità consueta di fruizio­
ne filmica”12.
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 87

Se Casablanca rappresenta un classico cult, si potrebbe vedere


The Matrix come l’emblema del cult nell’epoca della cultura con­
vergente. Ecco come Bruce Sterling spiega il suo fascino:

Prima di tutto, il film contiene molti elementi di attrazione popolare:


attacchi suicidi da parte di forze speciali d’élite, scontri aerei, arti mar­
ziali, una casta storia di amore predestinato, mostri dagli occhi inquie­
tanti provenienti dal brodo primordiale, abbigliamento fetish, rapi­
menti, torture e salvataggi rischiosi, più sottomarini strani, affascinan­
ti... Vi è quindi l’esegesi Cristiana, il mito della Redenzione, morte e
rinascita, un eroe che si ritrova, l'Odissea, Jean Baudrillard (molto
Baudrillard, la parte migliore del film), cenni ontologici alla fanta­
scienza della scuola di Philip K. Dick, Nabucodonosor, Buddha, il Ta­
oismo, il misticismo delle arti marziali, la profezia dell’O racolo, la te­
lecinesi che piega i cucchiai, spettacoli di prestigio alla Houdini, J o ­
seph Campbell e la metafisica matematica di G ödel.12

E badate che Sterling si riferisce solo al primo film!


Gli infiniti riferimenti presenti accendono la reazione del pub­
blico. Strato su strato, essi catalizzano e sostengono la nostra epi-
stemofilia; le mancanze e gli eccessi concedono aperture alle molte
e diverse comunità del sapere che fioriscono intorno a questi film
cult per dare prova della loro abilità cognitiva, scavando nelle bi­
blioteche e tuffandosi con la mente dentro un testo che promette di
rivelarsi un pozzo di segreti senza fondo. Alcune delle allusioni, co­
me il rimando ricorrente a guardare “attraverso lo specchio”, al
Bianconiglio e alla Regina Rossa, o l’uso di nomi mitologici per i
personaggi (Morpheus, Persephone, Trinity), emergono dallo
schermo dopo la prima visione del film. Altre citazioni, per esem­
pio laddove, a un certo punto, Neo sfila da uno scaffale della sua
libreria una copia del libro di Baudrillard Simulacri e Simulazioni
(1981/1995), si svelano ex post, dopo aver parlato del film con gli
amici. Ci sono inoltre richiami - per esempio il fatto che Cypher,
il traditore a cui ci si rivolge, a un certo punto, come “Mr. Rea­
gan”, chiede di avere una vita alternativa dove sarà un attore che
conquista il potere politico - che risultano chiari solo quando si as­
semblano i pezzi di informazione provenienti dalle molteplici fonti
disponibili. Altri ancora, come le targhe delle automobili (per
esempio DA203 o IS5416), si rifanno a specifici versetti biblici
(Daniele 2:3 o Isaia 5 4:16) e potrebbero richiedere un’esplorazio­
ne attenta del Dvd, fotogramma per fotogramma.
88 C a p it o l o 3

Più ci si esercita nella caccia e più emergono segreti che di volta


in volta sembrano fornire la chiave del film. Per esempio, il nume­
ro dell’appartamento di Neo è 101, lo stesso della camera delle tor­
ture in 1984 di George Orwell (1949). Subito dopo aver colto il le­
game si scopre tuttavia che 101 è anche il numero di piano del
nightclub del Merovingio, nonché il numero dell’autostrada dove
si scontrano i personaggi di The Matrix Reloaded. Si potrebbe per­
ciò pensare che tutti gli altri numeri del film contengano significati
cifrati o connessioni di personaggi a luoghi. I cartelli visibili sullo
sfondo delle immagini racchiudono codici nascosti che possono es­
sere usati per sbloccare i vari livelli nel gioco Enter thè Matrix
(2003).
La grande abbondanza di riferimenti presenti nel film rende
quasi impossibile allo spettatore penetrare completamente nel con­
tenuto del franchise. In questo contesto, i fratelli Wachowski han­
no giocato a fare gli oracoli - quasi mai visibili, salvo concedersi
qualche commento criptico, senza mai dare risposte dirette e par­
lando attraverso una singola voce. Ecco, per esempio, alcuni pas­
saggi caratteristici delle poche chat session a cui i due registi della
trilogia hanno preso parte:

Domanda : “H o riguardato più volte il film ma non sono riuscito a


scorgere che pochi messaggi nascosti. Potete dirmi quanti ce ne sono?”
Fratelli Wachowschi: “Ce ne sono di più di quelli che riusciresti a in­
dividuare.”13
Domanda: “Vi hanno mai detto che The Matrix propone delle sugge­
stioni gnostiche?”
Fratelli Wachowschi: “Pensi che sia una buona cosa?”
Domanda: “Vi fa piacere tutto il dibattito generato intorno al vostro
film? Vi sentite onorati o piuttosto un po’ scocciati, specialmente
quando le persone ‘non lo capiscono’ ?”
Fratelli Wachowschi: “N on è necessario ‘averlo capito’. Ciò che im­
porta è quello che ognuno tira fuori dal film, cosa un individuo ricava
dalla pellicola”.

I fratelli Wachowski erano ben felici di assumersi i meriti di tut­


ti i significati individuati dai fan, e nel contempo facevano capire
che c’era molto, molto altro da scoprire, se la comunità avesse mes­
so in azione la sua intelligenza collettiva. Rispondevano a domande
con altre domande, a indizi con altri indizi. Ogni traccia, dal mo­
mento in cui veniva fuori, si prestava a varie interpretazioni.
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’u n ic o r n o o r ig a m i 89

Cos’è quindi The Matrixì Come dimostra un fan, la domanda


può condurre a diverse risposte.
• È una “love story”? (Così lo ha definito Keanu Reeves in un’in­
tervista.)
• È una “battaglia titanica tra intuizione e controllo dell’intellet­
to”? (Hugo Weaving, ovvero l’agente Smith, intervistato per
The Matrix Reloaded.)
• E una storia sulla salvezza religiosa? (The Matrix Reloaded fu
vietato in Egitto, perché considerato “troppo religioso”.)
• E una storia sul “credere in qualcosa” o sul “non credere in
qualcosa”?
• È una storia sull’“umanità artificiale” o sulla “spiritualità artifi­
ciale”?
• E una storia che contiene elementi di Cristianesimo? Buddi­
smo? Mitologia greca? Gnosticismo? Induismo? Massoneria? O
sulla società segreta del Priorato di Sion (e il suo legame con il
simbolismo della scacchiera nella chiesa di Rennes-le-Chateau)?
• Neo è la reincarnazione di Buddha? O un nuovo Gesù Cristo
(Neo Anderson, ovvero “nuovo figlio dell’uomo”)?
• E un film di fantascienza? O è un film fantasy?
• E una storia sulle sette segrete che tengono sotto controllo la so­
cietà?
• È una storia sul passato o sul futuro degli uomini?
• È soltanto un film di kung-fu con immagini potenziate e futuri­
stiche? Una versione moderna di anime giapponese?14
Nonostante tutte le pubblicazioni del film in Dvd e la possibilità
quindi di esaminare il soggetto all’infinito, i fan più accaniti stanno
ancora tentando di capire The Matrix mentre gli spettatori più ca­
suali, non abituati a dedicare tanto impegno a un film d’azione,
hanno concluso semplicemente che i singoli pezzi non stanno insie­
me.
90 C a p it o l o 3

Narrazione sinergica

The Matrix è un po’ come Casablanca all’ennesima potenza,


con una differenza importante: il secondo è soltanto un film men­
tre il primo è una trilogia filmica e non solo. Accanto al prodotto
cinematografico vi è, per esempio, The Animatrix (2003), un insie­
me di corti animati della durata di novanta minuti, ambientati nel
mondo di The Matrix e creati da alcuni famosi animatori giappone­
si, sudcoreani e statunitensi, tra i quali Peter Chung (Aeon
Flux, 1995), Yoshiaki Kawajiri (Wicked City, 1987), Koji Morimo-
to (Robot Carnivai, 1987) e Shinichiro Watanabe (Cowboy Bebop,
1998). The Matrix è anche una serie a fumetti scritta da artisti e
scrittori cult, come Bill Sienkiewicz (Elektra: Assassin, 1986-1987),
Neil Gaiman (The Sandman, 1989-1996), Dave Gibbons (Watch-
men, 1986-1987), Paul Chadwick (Concrete, 1987-1998), Peter
Bagge (Hate, 1990-1998), David Lapham (Stray Bullets, 1995-) e
Geof Darrow (Hard Boiled, 1990-1992). The Matrix è anche due
giochi: Enter thè Matrix, prodotto dalla Shiny Entertainment di
David Perry, e un gioco massively multiplayer ambientato nel
mondo del film e co-sceneggiato da Paul Chadwick.
I fratelli Wachowski volevano dispiegare la storia di The Matrix
attraverso tutti questi media e ottenere un insieme inedito e alta­
mente coinvolgente dalla somma delle parti. Il produttore Joel Sil­
ver descrive una visita in Giappone che i registi effettuarono per
decidere sulla versione televisiva della serie animata: “Ricordo che

Il fenomeno The Blair Witch Project

Il concetto di narrazione transmediale ha fatto il suo ingresso nel di­


battito pubblico nell'anno 1999, quando spettatori e critica hanno
provato a interpretare il successo fenomenale di The Blair Witch
Project (1999), un film indipendente e dal budget limitato che è dive­
nuto un'enorme macchina commerciale. Pensare The Blair Witch
Project come un film era piuttosto riduttivo. Il prodotto ha infatti avuto
un seguito di fan in rete molto più grande di quello che ha ottenuto
nelle sale cinematografiche.
Molte persone hanno appreso dell'esistenza della strega di Burkittsvil-
le e della scomparsa della troupe della produzione - la trama centrale
del film - attraverso questo curioso sito web che sembrava fornire in­
formazioni veritiere in ogni loro dettaglio. Il sito forniva la documen­
tazione di numerose visioni di streghe dei secoli passati, molte delle
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 91

durante il viaggio di ritorno Larry, seduto su un sedile giallo, pia­


nificava lo schema del film, dei videogame e dei corti, e come essi
avrebbero dovuto interagire.”15 David Perry ha descritto il gioco
quasi come un altro film Matrix. Gli attori, secondo i racconti, era­
no incerti su quali scene dovessero essere girate per la pellicola e
quali per il gioco16. Il consumatore che ha giocato al game o guar­
dato i corti animati affronta un’esperienza filmica diversa rispetto
allo spettatore che ha assistito al film in modo teatrale. Il totale è
dunque più della somma delle parti.
Possiamo comprendere meglio il funzionamento di questa nuo­
va modalità di narrazione transmediale esaminando con attenzione
alcune interazioni fra i vari testi di Matrix. Per esempio, nel corto
animato L'ultimo volo dellOsiris (2003), la protagonista, Jue, per­
de la vita nel tentativo di consegnare un messaggio all’equipaggio
di Nabucodonosor. La lettera contiene delle importanti informa­
zioni sulle macchine che minacciano di distruggere Zion. Alla fine
del corto, Jue riesce a imbucare la lettera nella cassetta. All’inizio di
Enter thè Matrix, la prima missione del giocatore consiste nel recu­
perare la lettera dall’ufficio postale e consegnarla ai nostri eroi. In
modo simile, le scene di apertura di The Matrix Reloaded mostrano
i personaggi che discutono sull’“ultima trasmissione della Osiris”.
Per coloro che hanno visto solo il film, tali informazioni rimango­
no misteriose, ma coloro che hanno avuto un’esperienza transme­
diale avranno avuto un ruolo attivo nel recapito della lettera, e ma­
gari ne hanno seguito il percorso attraverso i tre diversi media.

quali non sono inerenti ai film , costituendone tuttavia lo sfondo nar­


rativo.
Uno pseudodocumentario sulle streghe fu trasmesso da Sci Fi Chan­
nel, e poco sembrava distinguerlo dagli altri numerosi reportage sui
fenomeni soprannaturali che il network manda in onda periodica­
mente.
Dopo l'uscita del film , Oni Press ha pubblicato molti fumetti che as­
serivano di basarsi su racconti veri di altre persone che avevano in­
contrato la strega di Burkittsville mentre camminavano nel bosco. An­
che la colonna sonora è stata presentata come un nastro ritrovato
nell'auto abbandonata.
Tutti questi elementi hanno reso più realistico il mondo del film , ac­
crescendo il senso di realtà che gli Haxans - così si chiamavano tra
loro i membri della troupe della produzione - avevano ottenuto attra­
verso il loro stile di riprese amatoriali e recitazione improvvisata.
92 C a p it o l o 3

Allo stesso modo, il personaggio del Ragazzo è introdotto in un


altro cortometraggio, la Storia di un ragazzo (2003). Esso racconta
di uno studente che entra in pericolo giacché viene a sapere tutto
su Matrix, fino a che Neo e i suoi lo contattano per salvarlo dagli
agenti che gli danno la caccia per eliminarlo. In The Matrix: Reloa-
ded i protagonisti del film lo rincontrano nuovamente alla periferia
di Zion. Egli li implora quindi di potersi unire a loro: “È il destino.
Tu sei la ragione per cui io sono qui, N eo,” ma quest’ultimo divaga
rispondendo: “Te l’ho già detto, ragazzo, sei stato tu a trovare me,
non il contrario... Ti sei salvato da solo”. La scena è costruita come
se il pubblico sapesse già di cosa i due stanno parlando e sembra
coinvolgere un personaggio già noto nel racconto, non uno che so­
lo in quel momento varca le porte della narrazione. Il tentativo del
Ragazzo di salvare Zion è una delle scene più emozionanti della
battaglia di Révolutions.
In The Matrix: Reloaded, Niobe appare all’improvviso durante
un inseguimento stradale, in tempo per salvare la vita a Morpheus
e Trinity. Per chi conosce il gioco, far arrivare Niobe all’appunta­
mento è una missione-chiave. Verso la fine di The Matrix: Reloa-
ded, Niobe e il suo gruppo vengono inoltre inviati a distruggere la
centrale elettrica, ma, a parte farci intuire che il piano ha funziona­
to, i dettagli dell’operazione non sono rappresentati nel film, così
da poter costituire una missione da affrontare nel gioco. Ritrovia­
mo di nuovo Niobe all’inizio di The Matrix Révolutions, nello stes­
so punto in cui l’avevamo lasciata al culmine di Enter thè Matrix.

Dan Myrick, uno degli autori/registi del film , indicò ciò che il gruppo
ha chiamato la loro "prima direttiva": "Abbiam o provato a creare una
falsa leggenda, completa di molti punti di vista, scetticismi e misteri
insondabili. Niente della leggenda narrata potrebbe essere verificato
e, al tempo stesso, doveva sembrare che tutto potesse avere una spie­
gazione logica (dalla quale lo spettatore doveva essere allontanato il
più rapidamente possibile)"3.
Ed Sanchez, l'altro autore, ha spiegato: "Ogni scelta si basava sulla
decisione iniziale di rendere tutto nel modo più realistico possibile...
Continuiamo con la prima direttiva: l'idea che questo sia quindi un si-

a. FT Interviews, 'The Blair Witch Producer-Director Dan Myrick and Production De­
signer Ben Rock", Fortean Times, novembre 1999, http://www.foreteantimes.com/
articles/128_haxanint.shtml.
A l l ’in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 93

Secondo gli standard della classica narrazione hollywoodiana,


queste mancanze (come la non presentazione del Ragazzo oppure
l’assenza di una spiegazione sulla provenienza di Niobe) o gli ecces­
si (come i rimandi misteriosi all’“ultima trasmissione della Osiris”)
confondono lo spettatore17. Le vecchie storie di Hollywood si ba­
savano sulla ridondanza, che permetteva agli spettatori di riallac­
ciare il filo della trama in ogni momento, anche se si distraevano e
si allontanavano dallo schermo per riempire la zuppiera dei pop
corn durante una scena cruciale. La nuova Hollywood ci chiede in­
vece di non staccare gli occhi neppure per un attimo dallo schermo
c, ancor di più, di giungere già documentati alla visione del film.
E probabilmente su questo punto che si basa l’incomprensione
dei critici verso The Matrix. Abituati a concentrarsi sulla pellicola e
non sul suo apparato paratestuale, pochi di loro hanno dedicato at­
tenzione al gioco, ai fumetti o ai corti animati e, di conseguenza,
pochi hanno assorbito i dati in essi contenuti, essenziali alla com­
prensione del film. Come ha spiegato Fiona Morrow del London
Independent: “Potete considerarmi fuori moda, ma ciò che mi inte­
ressa è solo il film, non ho nessuna voglia di ‘potenziare’ la mia
fruizione cinematografica aggiungendovi sopra un minestrone di
fandonie”18. Coloro che invece compresero la rilevanza esplicativa
contenuta negli altri testi di Matrix, sospettavano delle motivazioni
economiche più che culturali dietro a ciò che Ivan Askwith di Salon
ha definito “narrazione sinergica”: “Anche se le puntate successive,
il gioco e i corti animati pareggiano la qualità del primo film, per-

to costruito da persone interessate al caso, che prova a farne chiarez­


za o a darne un'ipotesi conclusiva, o ancora a promuoverne un'inda­
gine. Abbiamo fornito un piano temporale, aggiunto dettagli alla sto­
ria di fondo...iniziato a creare artefatti, pitture, sculture, vecchi libri,
lo poi facevo le scansioni per mettere tutto online"3.
Sanchez ha aggiunto nel sito uno spazio di discussione che ha con­
sentito l'emergere di una comunità di fan, affascinata dalla mitologia
che si era creata intorno alla Strega di Blair: "Ciò che abbiamo impa­
rato da Blair Witch è che se si concede alla gente abbastanza mate­
riale su cui curiosare, la maggior parte di essa lo esplorerà con passio­
ne. Coloro che trarranno piacere da questo mondo immaginario ri-

«i. E. Sanchez, intervista con l'autore, giugno 2003. Tutte le affermazioni di Sanchez
sono tratte da quest'intervista.
94 C a p it o l o 3

siste la triste sensazione che la Warner Bros, stia speculando il più


possibile sulla natura cult di The M a t r i x Mike Antonucci del San
Jose Mercuryy in questo senso, ha preferito parlare di “mercato in­
telligente” più che di “narrazione intelligente”19.
Sia chiaro: ci sono forti motivazioni economiche dietro la nar­
razione transmediale. La convergenza tra media rende inevitabile il
flusso di contenuti su più piattaforme mediatiche. Nell’era degli ef­
fetti digitali e dei giochi grafici ad alta risoluzione, il mondo del
gioco somiglia perfettamente a quello del film poiché vengono uti­
lizzate le stesse tecniche e gli stessi elementi digitali. Nella struttura
dell’odierna industria dell’intrattenimento, tutto è progettato in vi­
sta di un obiettivo: la costruzione e il potenziamento dei franchise.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, c’è un forte interesse
a integrare intrattenimento e marketing, al fine di creare forti at­
taccamenti affettivi che conducono all’aumento delle vendite.
Mike Saksa, vicepresidente senior del settore marketing di Warner
Bros., non poteva essere più esplicito al riguardo: “Questo [The
Matrix] è davvero la sinergia della Warner Bros. Tutti i settori
aziendali saranno coinvolti nel lavoro... non ne sappiamo ancora
l’esito, ma prevediamo che sarà molto buono”20.
L’enorme “esito” ovviamente non è solo economico. Il franchi­
se The Matrix è il frutto di una nuova visione di sinergia. Produrre
un franchising da un film popolare, da un libro di fumetti o da un
programma televisivo, non sarebbe una novità. Ne sono testimo­
nianza, per esempio, le serie infinite di pupazzetti di plastica che si

marranno per sempre tuoi fan, e ti daranno un'energia che non potrai
acquistare da nessuna pubblicità...Questa rete di informazione è or­
ganizzata in un modo tale da stimolare la gente all'interesse e a ll'im ­
pegno. E la gente dà quindi al prodotto automaticamente un maggiore
valore emozionale".
Sanchez ammette onestamente che la produzione ha affrontato il sito
e i vari derivati come occasioni di marketing. In seguito invece sono
divenute parti integranti del contenuto: "È stato il genere di marketing
da cui avrei voluto essere catturato come consumatore...Abbiamo fi­
nito con lo sfruttare il Web come nessuno aveva fatto prima per una
produzione cinematografica".
Al l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’u n ic o r n o o r ig a m i 95

trovano negli Happy Meal di McDonald’s. La promozione incro­


ciata appare già dappertutto, ma spesso, come i giocattoli degli
Happy Meal, è poco consistente e si dimentica velocemente. Il si­
stema attuale di licenze assicura che molti di questi prodotti siano
periferici rispetto a ciò che ci attirava verso la storia originale. At­
traverso le licenze, l’impresa mediatica principale - che molto spes­
so è quella della produzione del film - vende i diritti per fabbricare
prodotti relativi all’opera, di cui ha i diritti di sfruttamento, a un
terzo soggetto, spesso non affiliato; le licenze limitano l’uso di per­
sonaggi e idee per proteggere la proprietà originale. Presto, questo
sistema darà il via a ciò che gli addetti ai lavori chiamano “co-cre-
azione”. Nella “co-creazione” le aziende collaborano fin dall’inizio
per generare un prodotto in cui siano coinvolti tutti i loro settori,
permettendo a ogni medium di generare nuove modalità di consu­
mo e ampliare i punti di accesso al franchise.
L’attuale sistema delle licenze genera la produzione di contenuti
ridondanti (in cui non ci sono né nuovi personaggi né particolari
intrecci narrativi), diluiti (chiedendo all’intervento dei nuovi media
semplicemente di duplicare in modo fedele contenuti che hanno
avuto successo nei vecchi formati) o crivellati di contraddizioni di­
sordinate (non rispettano la coerenza di fondo che i pubblici più in­
teressati si aspettano da un franchise). Questi errori spiegano la cat­
tiva reputazione dei sequel e dei franchise... I prodotti di franchise
sono eccessivamente governati dalla logica economica e poco dalla
visione artistica, e Hollywood, quando per esempio stampa il logo
di Star Treck (1966) su tanti gadget, non fa di meglio. In realtà, i
pubblici si aspettano dai nuovi contenuti esperienze di fruizione
inedite. Se le aziende li accontentano, risponderanno con un mag­
giore impegno nel consumo; se li ignorano, saranno ricambiate con
il disgusto della platea.
Nel 2003 ho partecipato a un incontro di creativi di Hollywood
e del settore dei giochi organizzato da Electronic Arts; si tracciava­
no in quella sede le linee-guida della co-creazione. Danny Bilson,
vicepresidente dello sviluppo della proprietà intellettuale alla
Electronic Arts, organizzò un summit su ciò che ha chiamato “in­
trattenimento multipiattaforma”21. Data la sua esperienza profes­
sionale nel cinema (The Rocketeer, 1991), nella televisione (The
Sentinel, 1996; Viper, 1994) e nei fumetti (The Flash, 1990), Bilson
conosce bene la difficoltà di coordinare i contenuti tra i vari media.
Il suo progetto prevede lo sviluppo di giochi che non trasferiscano
96 C a p it o l o 3

semplicemente i brand di Hollywood in un nuovo spazio mediale,


ma contribuiscano ad ampliare il sistema di narrazione. Affinché
ciò si realizzi, sostiene, la storia deve essere concepita fin dalla na­
scita in termini transmediali:

Noi creiamo contemporaneamente film e gioco, lasciandoci guidare


da una forza creativa organica, dalPinizio alla fine. La stessa ispirazio­
ne coinvolge idealmente sceneggiatori e registi che sono anche gioca­
tori. In qualsiasi ambito artistico si agisca, la qualità dei prodotti di­
pende dalla passione messa in campo dai creatori. Impiegare il talento
nella produzione dell’intrattenimento multipiattaforma conduce a un
lavoro interessante. Il film e il gioco sono progettati insieme: il secon­
do intensifica ed espande la finzione, ma non è semplicemente una sua
replica. Deve essere organico a ciò che rende un film un’esperienza
coinvolgente.
Andando avanti, la gente ha bisogno di approfondire i contenuti che
ama e non di pizzicare un sacco di cose diverse. Non si accontenta più
della visione di un film per due ore o di un programma tv per un’ora
la settimana. Gli spettatori chiedono di immergersi in quegli universi
fantastici e di poterli esplorare. Solo così l’esperienza partecipativa è
resa davvero eccitante.

Bilson vuole sfruttare la sua posizione professionale al servizio


dell’azienda leader nel mondo per giochi interattivi, al fine di cre­
are un intrattenimento multipiattaforma. Il suo primo passo è lo
sviluppo di Goldeneye: Rogue Agent (2004), un game che permette
al giocatore di interpretare i ruoli dei nemici di James Bond: il Dot­
tor No o Goldfinger. Le ri-creazioni digitali delle ambientazioni
del film permettono di reinscenare le sfide tra i personaggi. Il gioco
è coerente con la trama e la sequenza narrativa dell’opera cinema­
tografica, ma la storia è raccontata dalla parte dei cattivi.
Un tale livello di integrazione e coordinamento rimane difficile
da raggiungere. Nonostante le logiche economiche dei grandi con­
glomerati mediatici incoraggino a pensare in termini di sinergia e
franchise, infatti, i prodotti transmediali di maggior successo sono
stati, finora, opera di un solo creatore o controllati da un singolo
settore creativo. Hollywood dovrebbe prendere esempio, a tal pro­
posito, dal modo in cui Lucasfilm ha gestito e curato il suo Indiana
Jones (1981) e il suo Star Wars (1977). Quando Indiana Jones fu
trasmesso in tv, per esempio, seppe sfruttare tutto il potenziale te­
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 97

levisivo per estendere la narrazione e il percorso del personaggio:


The Young Indiana Jones Chronicles (1992) ha narrato la formazio­
ne del giovane protagonista sullo sfondo di eventi storici e di am­
bientazioni esotiche. Quando Star Wars si spostò in libreria, i rac­
conti ampliarono il piano temporale per inserire eventi inediti ri­
spetto alle trilogie filmiche, o concentrarono la trama intorno a
personaggi secondari. E il caso della serie Tales from thè Mos Eisley
Cantina (1995), che vede come protagonisti quegli strani alieni che
erano rimasti in secondo piano nel film originale22. Il gioco di Star
Wars, allo stesso modo, non ripercorreva la trama del film ma mo­
strava come doveva essere la vita di un apprendista Jedi o di un cac­
ciatore di taglie. In maniera progressiva, alcuni elementi sono poi
finiti nei film successivi allo scopo di creare aperture, utilizzabili
completamente solo attraverso altri media.
A dispetto di una valida infrastruttura tecnologica, buone pro­
spettive economiche e pubblici disponibili a nuove esperienze
transmediali, i media non hanno ancora raggiunto un livello di col­
laborazione sufficiente a garantire la creazione di prodotti attraen­
ti. Perfino all’interno di uno stesso conglomerato è frequente che i
vari settori siano in competizione, e tale condizione, a detta di mol­
ti, inibisce la creazione di contenuti transmediali. La Electronic
Arts (EA) ha applicato un modello di sviluppo coordinato nel lavo­
ro dei titoli de II Signore degli Anelli. I designer di EA hanno lavo­
rato nella location della produzione di Peter Jackson, in Nuova Ze­
landa. Come ha spiegato Neil Young, responsabile per EA del fran­
chise Il Signore degli Anelli:

Volevo adattare il lavoro di Peter al nostro medium, come lui aveva


fatto per il suo con i romanzi di Tolkien. Invece di essere un anello del­
la catena di merchandise con il poster, la penna, la tazza o il portachia­
vi, avremmo voluto capovolgere la piramide e invertire la nostra po­
sizione: dalla base alla vetta delPintera opera. Sia che si produca la taz­
za, il portachiavi o il videogame, le risorse a disposizione sono più o
meno le stesse. Quando ho iniziato a lavorare a II Signore degli Anelli,
la situazione era insostenibile. Per fissare nel mio lavoro il punto di vi­
sta di Peter, la musica di Howard Shore, gli attori e i paesaggi... avevo
bisogno di un accesso diretto. Perciò, anziché lavorare esclusivamente
con il gruppo dei prodotti di consumo, abbiamo costruito una part­
nership con la New Line Production e 3 Foot 6 Productions, che ha
funzionato com e camera di compensazione per i nostri bisogni.23
98 C a p it o l o 3

Il sistema descritto ha permesso alla Electronic Arts di importa­


re migliaia di “risorse” dal set cinematografico al gioco, assicuran­
do un livello di fedeltà dei dettagli nella riproduzione del mondo di
Tolkien senza precedenti. Allo stesso tempo, lavorando a fianco
del regista Peter Jackson e dei suoi collaboratori, Young ha potuto
esplorare spazi geografici ancora più ampi di quelli ritagliati nello
schermo.
David Perry ha descritto in modo simile il suo rapporto con i
fratelli Wachowski: “Loro sono degli appassionati di giochi. Veni­
vano sul set per accertarsi che avessimo tutto ciò di cui avevamo bi­
sogno per realizzare un gioco di qualità. Sanno quello che i gioca­
tori cercano, e con il potere che hanno ad Hollywood ci hanno ga­
rantito le condizioni ottimali per lavorare bene”24. La squadra di
Perry ha lavorato per quattro mesi alla raccolta di immagini in mo­
vimento dell’attrice Jada Pinkett Smith, che ha interpretato Niobe,
e di altri attori del cast di The Matrix. Tutte le azioni e i gesti erano
quindi prodotti realmente sul set ed erano visti come estensioni
della loro interpretazione dei personaggi. Il gruppo ha utilizzato il
sistema Alpha Mapping per produrre una versione digitale del vol­
to dell’attrice e conservare le sue espressioni facciali. Il gioco ha in­
corporato molti degli effetti speciali che avevano fatto di The Ma­
trix un formato così innovativo all’epoca della sua uscita, e ha per­
messo così ai giocatori di replicare gli stessi salti che Woo-ping

Attraverso il Mangaverse

In un suo articolo per il giornale londinese The Guardian, il regista di


origine indiana Shekhar Kapur (Elizabeth, Le quattro piume) notava
che il fatturato mondiale di Hollywood aveva avuto un calo del 16%
e che ne avevano tratto vantaggio i registi locali3. Prevedeva quindi
che, in capo a dieci anni da allora, avremmo sentito parlare di un
mondo dominato dai media asiatici. Prendendo per esempio un suc­
cesso del botteghino di quel momento, scrisse: "Fra dieci anni, Spider

a. S. Kapur, "The Asians Are Corning", The Guardian (U.K.), 23/8/2002, reperibile su
http://www.shekharkapur.com/guardian.htm. Per un utile approfondimento sulle
tendenze in atto nella produzioni mediatiche asiatica e statunitense, vedi C. Klein,
"Martial Arts and thè Globalization of US and Asian Film Industries", Comparative
American Studies 2, n. 3, settembre 2004, pp. 360-384.
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 99

Yuen (il famoso coreografo dei combattimenti di Hong Kong) ave­


va elaborato per il film o di spostarsi nel gioco con il “bullet time”,
ovvero la tecnica cinematografica slow-motion usata nel film.

Scrittura collaborativa

I conglomerati dei media hanno fornito ai fratelli Wachowski il


contesto per condurre il loro esperimento estetico. La loro inten­
zione era quella di giocare con un nuovo tipo di narrazione e sfrut­
tare la potenza promozionale della Warner Bros, per raggiungere
un pubblico vasto. Se avessero voluto semplicemente dar vita a
un’azione sinergica, avrebbero potuto assumere dei collaboratori
in grado di mettere in moto la produzione di fumetti, giochi o car­
toni animati. Tutto ciò è accaduto sicuramente in altri casi in cui si
è cercato di imitare il modello Matrix. Alcuni film più recenti, tra i
quali Charlie's Angels, Riddick Chronicles, Star Wars e Spider Man,
hanno sviluppato cartoni, per esempio, che avevano la funzione di
collegare i sequel o anticipare lo sviluppo della trama. Di questi, so­
lo i corti di Star Wars provenivano da un autore già noto, Genndy
Tartakovsky {Samurai Jack)25. Diversamente, i fratelli Wachowski
hanno assunto animatori e scrittori di fumetti che disponevano di
un proprio pubblico appaionato ed erano già conosciuti per stili e

Man incasserà un m iliardo di dollari nella prima settimana di uscita.


Ma quando getterà la maschera, il suo volto probabilmente sarà cine­
se e la città delle sue avventure non sarà New York ma Shanghai. E an­
che se sarà un film internazionale, rimarrà comunque Spider M an ".
Le major dei media, come Bertelsmann Media W orlwide, Sony o Vi­
vendi Universal tendono sempre più a siglare contratti con talenti in­
ternazionali, puntando ai gusti dei mercati locali più che perseguendo
interessi nazionalistici: la loro struttura economica le incoraggia non
solo a fare da intermediari tra diversi mercati asiatici, ma anche a im ­
portare contenuti orientali nei paesi occidentali. Sony, Disney, Fox e
Warner Bros, investono nella produzione di film in lingua cinese, te­
desca, italiana, giapponese e altre destinate ai mercati nazionali e
all'esportazione globale. La tv e il cinema statunitensi producono
sempre più remake dì prodotti di successo provenienti da altri merca­
ti, passando da Survivor (2000) e Big Brother (2000), adattamenti di
format olandesi, a The Ring (2002), rifacimento di un cult horror del
100 C a p it o l o 3

tecniche particolari. Hanno scelto di lavorare con persone che sti­


mavano, non con persone adatte a obbedire agli ordini. Come spie­
gò Yoshiaki Kawajiri, animatore di Program: “È stato molto attra­
ente per me, poiché Tunica limitazione alla mia libertà creativa era
che dovevo lavorare nel mondo di Matrix. Per il resto, avevo carta
bianca”26.
I fratelli Wachowski, per esempio, hanno inteso la co-creazione
come un veicolo di espansione del loro potenziale mercato globale,
coinvolgendo collaboratori provenienti da settori diversi della cul­
tura popolare di diverse parti del mondo. Geof Darrow, autore dei
disegni concettuali di navi e macchine del film, è stato allievo di
Moebius, maestro del fumetto europeo e noto per le sue immagini
in cui annulla il confine fra organico e meccanico. I fratelli Wa­
chowski hanno assunto l’illustre coreografo di Hong Kong, W oo-
ping Yuen, famoso per aver rinnovato il personaggio cinematogra­
fico di Jackie Chan, sviluppato uno stile di combattimento femmi­
nile per l’attrice Michelle Yeoh e diffuso nel mondo lo stile di com­
battimento asiatico grazie al film La Tigre e il Dragone (2000)27.
I film sono stati girati in Australia, e i registi hanno quindi attin­
to ai talenti locali, come nel caso di Kym Barrett, il fedele costumi­
sta di Baz Luhrmann. Il cast si proponeva come marcatamente mul­
tirazziale: la popolazione di Zion, per esempio, era composta da
afroamericani, ispanici, sudasiatici, sudeuropei e aborigeni.

^ || I
cinema giapponese, fino a Vanilla Sky(200'\), remake di un lungome­
traggio spagnolo di fantascienza. M olti dei cartoni animati in onda
nella televisione americana vengono dall'Asia (soprattutto dalla Co­
rea), spesso con una supervisione molto limitata da parte delle impre­
se statunitensi. Gran parte dei bambini occidentali di oggia hanno una

a. Per una visione d'insieme sull'impatto asiatico nella cultura popolare americana,
vedi A. Allison, M illennial Monsters: Japanese Toys and The Global Immagination
(in corso di scrittura); H. Jenkins, "Pop Cosmopolitanism: Mapping Cultural Flows
in an Age of Media Convergence", in M.M. Suarez-Orozco, D.B.Qin-Hiliard (eds),
Globalization: Culture and Education in thè New Millennium, University of Cali­
fornia Press, Berkeley, 2004; J. Tobin, Pikachu's Global Adventure: The Rise and
Fall o f Pokémon, Duke University Press, Durham, N. C., 2004; M. Ito, "Technolo­
gies of thè Childhood Imagination: Yugioh, Media Mixes and Everyday Cultural
Production", in J. Karaganis, N. Jeremijenko (eds), Network/Netplay: Structures of
Participation in Digital Culture, Duke University Press, Durham, N. C., 2005.
A l l ìn s e g u i m e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 101

L’aspetto ancora più importante è che i fratelli Wachowski han­


no ricercato, per realizzare The Animatrix, la collaborazione di ani­
matori giapponesi e di altra nazionalità asiatica. Nel film ricorrono
dei riferimenti importanti ai manga e agli anime. La poltrona di
pelle rossa su cui siede Morpheus, per esempio, è un omaggio ad
Akira (1988), mentre la tuta indossata da Trinity proviene diretta-
mente da Ghost in thè Shell (1995). Come è facile intuire, tutto
l’interesse dei registi per la narrazione transmediale si può riassu­
mere nella loro attrazione verso quella tendenza della cultura nip­
ponica che Pantropologa Mimi Ito ha definito “media mix”. L’uso
di tale strategia produce due effetti contrastanti: da un lato, si veri­
fica una dispersione del contenuto tra media broadcast, tecnologie
portatili come i game boy e i telefoni cellulari, centri di intratteni­
mento a pagamento come parchi di divertimenti e centri giochi.
Dall’altro, franchise di questo tipo dipendono dall’ipersocievolez-
za, poiché incoraggiano varie forme di partecipazione e interazione
sociale tra consumatori28. La strategia media mix è approdata negli
Usa attraverso prodotti come Pokémon (1998) e Yu-Gi-Oh!
(1998), ma agisce anche in modi più sofisticati in franchise giappo­
nesi meno noti. Porre al proprio fianco gli animatori giapponesi
nel tentativo di realizzare la loro strategia di media mix ha consen­
tito ai fratelli Wachowski di ottenere la collaborazione di chi aveva
ben capito quale fosse il loro obiettivo.

maggiore dimestichezza con i personaggi di Pokémon che con i pro­


tagonisti delle fiabe europee dei fratelli Grimm o di Hans Christian
Andersen. Con il diffondersi delle comunicazioni a banda larga i pro­
duttori stranieri saranno in grado di distribuire contenuti direttamente
ai consumatori americani, senza passare attraverso intermediari ame­
ricani o case di distribuzione m ultinazionali. Il flusso di prodotti asia­
tici nel mercato occidentale è stato dettato da due forze opposte: la
convergenza tra aziende promossa dal mondo dei media e quella
grassroots sostenuta dalle comunità di fan e dalle popolazioni im m i­
grate.
Nel Capitolo 4 torneremo a parlare del ruolo svolto dalla convergen­
za grassroots nel processo della globalizzazione. Per il momento,
concentriamoci su quella tra aziende.
Tre diversi tipi di soggetti economici sono in gioco nella promozione
di questi nuovi scambi culturali: i produttori locali e nazionali che ve­
dono la circolazione globale dei loro prodotti non solo come espan-
102 C a p it o l o 3

Il ruolo dei registi non era limitato alla concessione di licenze e


di subcontratti. Questi si impegnarono personalmente nella sce­
neggiatura e nella regia del game, abbozzarono le scenografie di al­
cuni dei corti animati e collaborarono ad alcuni dei fumetti. Per i
fan, il coinvolgimento diretto dei registi collocava tutti questi altri
testi nel “canone Matrix”. Gli altri formati in cui il film-cult si è de­
clinato costituivano tutt’altro che dettagli o ornamenti della pelli­
cola. I registi hanno rischiato perfino di indispettire gli spettatori
per aver concesso a questi elementi una parte centrale nel racconto.
Allo stesso tempo, pochi autori si sono mostrati così affascinati
dall’esperienza della scrittura collaborativa. Il sito ufficiale di The
Matrix contiene lunghe interviste ai tecnici, allo scopo di informare
gli appassionati dell’importanza di ogni specifico contributo. Lo
stesso Dvd propone ore di filmati sulla preparazione del film, che
documentano l’intera gamma del lavoro tecnico e creativo.
Possiamo avere un esempio pratico di scrittura collaborativa in
azione se analizziamo più da vicino le tre storie a fumetti di Paul
Chadwick: “Déjà vu”, “Let It All Fall Down” e “The M iller’s Ta­
le”29. Le strisce sono state talmente apprezzate dai fratelli Wa-
chowski da spingerli a chiedere proprio a Chadwick di scrivere
l’intreccio e i dialoghi per il gioco online di Matrix. Come primo
impatto, la scelta di Chadwick potrebbe sembrare piuttosto bizzar­
ra per un importante franchise cinematografico. In fondo, è un di­

sione dei profitti, ma anche come fonte di orgoglio nazionale; i con­


glomerati m ultinazionali che non definiscono più le loro scelte di pro­
duzione e distribuzione in termini nazionali ma cercano di individua­
re prodotti che siano validi da commercializzre in quanti più mercati
possibili; distributori di nicchia che cercano contenuti particolari co­
me mezzi di attrazione per consumatori più esigenti e di differenzia­
zione rispetto agli altri venditori.
L'immagine di uno Spiderman cinese usata da Kapur, dopo tutto, non
è così inverosimile. Quando i fumetti e i graphie n o ve lsi sono trasferiti
nelle catene di librerie come Barnes & Noble e Borders, lo spazio de­
gli scaffali che ospitano i manga è divenuto molto più ampio di quello
dedicato ai prodotti americani, riflesso di un crescente dislivello nelle
vendite. Nel tentativo di recuperare lo svantaggio nella partita di mer­
cato contro l'Asia, Marvel Comics ha sperimentato, nel 2002, la pub­
blicazione di una nuova serie di fumetti dal titolo Mangaverse, nella
quale i supereroi storici Marvel sono riadattati alla tradizione di gene-
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’u n ic o r n o o r ig a m i 10 3

segnatore di fumetti cult noto per Concrete e per il suo impegno


politico ambientalista. Lavorando ai margini del genere supereroi,
Chadwick usa Concrete (una mostruosa creatura rocciosa che con­
tiene il cervello di un ex autore di discorsi per uomini politici) per
porre all’attenzione del pubblico questioni attuali di natura sociale
ed economica. Nella storia Think Like a Mountain (1996), Concre­
te si unisce al movimento Earth First!, che pianta alberi e fa la guer­
ra all’industria del legname contro la distruzione delle foreste
secolari30. L’impegno politico di Chadwick si ritrova non solo nei
temi trattati ma anche nello stile visivo: disegna pagine piene di pa­
esaggi naturali che avvolgono i personaggi, non trascurando di in­
serirvi le piccole creature animali e vegetali, spesso invisibili, che
vivono intorno a noi e che subiscono le conseguenze delle nostre
scelte.
In The Matrix, Chadwick porta il suo contributo di critica al
paesaggio urbano e di denuncia per la devastazione ambientale che
segue la guerra tra umani e macchine. In “The M iller’s Tale”, il
protagonista, un abitante del sottosuolo di Zion, prova a risanare
la terra per coltivare il grano e tornare a fare il pane. Rischiando la
vita, attraversa pianure annerite in cerca di semi da piantare, poi
macina il grano per nutrire i ribelli di Zion. Alla fine della storia, il
protagonista viene ucciso, ma il libro si chiude con una bellissima
immagine a tutta pagina che raffigura una pianta che cresce sulle

re giapponese: Spiderman è un ninja, i membri della squadra degli


Avengers si assemblano per comporre un robot e Hulk si trasforma in
un enorme mostro verde3. Inizialmente concepita per essere una pub­
blicazione unica, Mangaverse ha avuto così tanto successo che Mar­
vel ha deciso di lanciare un'intera linea di produzione, Tsunami, che
pubblicava contenuti in stile-manga per il mercato Usa e per quello
globale, principalmente lavorando con autori asiatici e asio-america-
nib. In modo simile, Kingdom Hearts (2002) di Disney è nato dalla
collaborazione con l'industria di videogiochi giapponese SquareSoft,
creatrice del famoso franchise Final Fantasy. Il gioco ospita più di cen­
to personaggi dei vari film della Disney e le versioni animate dei per­

ei. R.A. Guzman, "Manga Revises Marvel Herpes", San Antonio Express-News, 23/1/
2002 .
b. "Tsunami Splash", Wizard, marzo 2003, p.100.
104 C a p it o l o 3

rovine di uno dei consueti paesaggi di The Matrix. Fra tutti i fumet­
tisti, Chadwick è quello più interessato a Zion e ai suoi rituali cul­
turali, aiutandoci a interpretare la spiritualità che emerge dagli abi­
tanti del sottosuolo31. Pur basandosi su elementi e scenari del film,
Chadwick non mette da parte il suo stile e il suo lavoro. Così fanno
più o meno tutti gli altri animatori e fumettisti, e ciò determina
l’espandersi di significati potenziali e di connessioni intertestuali
all’interno del franchise.

Harte della creazione di mondi

I fratelli Wachowski hanno dato vita a uno spazio per la speri­


mentazione di altri artisti e l’esplorazione dei fan. Per realizzarlo, i
registi hanno dovuto immaginare per The Matrix un mondo così
coerente da permettere a ogni opera di costituire una parte ricono­
scibile del suo universo e allo stesso tempo così flessibile da potersi
dotare di diversi stili di rappresentazione - dall’animazione digitale
fotorealistica de Uultimo volo delVOsiris alla grafica a blocchi del
primo gioco per il Web su Matrix. Tutte le manifestazioni del fran­
chise sono attraversate da dozzine di motivi ricorrenti, tra cui i ca­
ratteri verdi-liquidi kanji, la testa calva e gli occhiali a specchio di
Morpheus, le navi a forma di insetto, la gestualità di Neo e le acro-

^■Hl I
sonaggi di giochi già editi di SquareSoft3. Quella nipponica non è
l'unica cultura asiatica a esercitare una notevole influenza sulla pro­
duzione dei media statunitensi. DC Comics ha creato Batman: Hong
Kong (2003), un racconto illustrato in una lussuosa edizione cartona­
ta. Il suo scopo era introdurre i lettori americani allo stile originale del
disegnatore cinese Tony Wong e alla tradizione manhuab. Marvel ha
pubblicato la serie Spider M an: India in corrispondenza con l'uscita
di Spider Man 2 nel continente indiano, adattandolo ai gusti del pub­
blico del Sud Asiac. Peter Parker diventa così Pavitr Prabhakar e Gre-

a. Per un maggiore approfondimento, vedi http://www.kingdomhearts.com.


b. T. Wong, Batman: Hong Kong, DC Comics, New York, 2003; W.S. Wong, Hong
Kong Comics: Λ History o f Manhua, Princeton Architectural Press, New York,
2002 .
c. C. Rajghatta, "Spiderman Goes Desi", Times of India, 17/6/2004.
A l l ìn s e g u i m e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 1 05

bazie di Trinity32. Nessun singolo formato riprodurrà tutti gli ele­


menti, ma ciascuno di essi ne userà abbastanza da permetterci di ri­
conoscere le sue parti come appartenenti a uno stesso mondo fin-
zionale. Consideriamo una delle locandine realizzate per la pagina
web di The Matrix: un agente in nero si avvicina, con la pistola in
mano, a una cabina telefonica frantumata, mentre in primo piano
è mostrata la cornetta sganciata. Quale di questi elementi appartie­
ne esclusivamente a Matrixì In realtà, chiunque abbia un po’ di fa­
miliarità con il franchise è in grado di risalire alla sequenza narrati­
va da cui è stata tratta l’immagine.
La narrazione è divenuta sempre più l’arte della creazione di
mondi, dal momento che gli artisti creano ambientazioni affasci­
nanti non completamente esplorabili e non concluse in un unico la­
voro o su un singolo medium. Il mondo è più grande del film, e
perfino del franchise, dato che le elaborazioni e le congetture dei
fan lo espandono in varie direzioni. Come mi ha riferito uno sce­
neggiatore esperto: “Quando ho iniziato il mio lavoro, bisognava
creare una storia perché senza una buona narrazione non ci sarebbe
stato nessun film. Poi, con la diffusione dei sequel, divenne impor­
tante inventare un buon personaggio che potesse reggere più sto­
rie. Oggi invece si inventano mondi che possano ospitare molti
personaggi e molte storie su più media”. Ogni franchise sembra se­
guire la propria logica: alcuni, come nel caso di X-Men (2000), svi­

en Goblin si trasforma in Rakshasa, un demone della mitologia indui­


sta. I disegni, in cui Spider Man scorrazza su uno scooter per le strade
di Mumbai e si dondola appeso al Gateway of India, sono del fumet­
tista indiano Jeevan J. Kang. Marvel chiama questo tipo di lavoro
"trans-creazione", un passo oltre la traduzione. Nel creare prodotti
editoriali di questo tipo, Marvel parte dalla constatazione che i suoi
supereroi non hanno avuto successo al di fuori del mondo angloame­
ricano, ma è possibile che i film attuali creino un'apertura per inter­
cettare anche mercati lontani. Oltre a ottenere un grande successo in
India, i libri hanno interessato anche gli amanti del fumetto occiden­
tale.
Potremmo parlare di The Animatrix, Mangaverse, e Spider Man: India
in termini di ibridazione corporate. Si ha ibridazione quando uno spa­
zio culturale - in questo caso i media di una nazione - assorbe e tra­
sforma elementi provenienti da un altro. Un'opera ibrida, perciò, si
trova all'incrocio di due tradizioni culturali e fornisce un percorso che
106 C a p it o l o 3

luppano interamente un mondo nel corso della loro prima puntata,


permettendo ai film successivi di narrare storie che siano ambien­
tate lì. Altri, come per esempio Alien (1979) e il ciclo di Romero
dei Morti Viventi (1968), aggiungono nuovi aspetti del mondo a
ogni puntata, cosicché si spendono più energie creative nel traccia­
re la mappa di quelPuniverso che nell’abitarlo.
La creazione di mondi segue una propria logica di mercato, in
un’epoca in cui i registi sono occupati a generare prodotti suscetti­
bili di molte forme di sfruttamento almeno quanto lo sono nel rac­
contare storie. Ogni elemento interessante della storia può poten­
zialmente dar vita a una nuova e differente linea di prodotti, come
scoprì George Lucas quando creò sempre più giocattoli che ripro­
ducevano i personaggi secondari dei suoi film. Uno di essi, Boba
Fett, ha goduto di vita propria, anche grazie al successo ottenuto
tra i bambini, fino a conquistarsi il ruolo di protagonista di roman­
zi e giochi, arrivando quindi a interpretare un ruolo sempre più
centrale nei film successivi33.
Aggiungere troppe informazioni, in ogni caso, comporta dei ri­
schi: i fan hanno a lungo dibattuto sull’ipotesi che sotto l’elmetto
di Boba Fett fosse nascosta una donna, poiché non si era mai vista
la sua faccia né ascoltata la sua voce.
Tuttavia, quando Lucas stesso smentì le ipotesi, chiuse delle
possibilità e fissò dei limiti importanti alle congetture dei fan, pur

può essere fruito da entrambe le direzioni. L'ibridità è spesso vista co­


me strategia di chi si sente campo di conquista e cerca di resistere alla
perdita di identità o di riplasmare il flusso di contenuti mediatici oc­
cidentali accordandolo alla propria cultura - acquisendo prodotti im­
posti dall'esterno e tuttavia rielaborandoli in proprio3.
Nel nostro caso, l'ibridità può essere vista come una strategia corpo­
rate,, derivante da una posizione forte e tutt'altro che vulnerabile o
marginale, che tenta di controllare più che di contenere il consumo
transculturale.

a. Per una visione d'insieme sulla letteratura dell'ibridità, vedi J.N. Pieterse, "Globa-
lization as Hybridization", in M. Featherstone (ed.), Global Modemities, Sage,
New York, 1995; N.G. Canclini, Consumers and Citizens: Globalization and Mul-
ticultural Conflicts, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2001.
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 107

aggiungendo al contempo informazioni che avrebbero potuto so­


stenere nuove fantasie.
Dal momento in cui l’arte della creazione di mondi è diventata
più sofisticata, la direzione artistica ha assunto un ruolo più centra­
le nella progettazione dei franchise. Un regista come Tim Burton è
meno apprezzato come narratore (i suoi film spesso sono delle pes­
sime storie - costruzioni decrepite) e più come geografo culturale,
in grado di arricchire ogni immagine di particolari evocativi. La
storia e la recitazione de II Pianeta delle Scimmie (2001), per esem­
pio, hanno lasciato più o meno tutti interdetti, ma ogni singola sce­
na si concentrava su dettagli fondamentali per la nostra compren­
sione della vita sociale delle scimmie; un fan appassionato può stu­
diare il loro abbigliamento, le loro abitazioni, gli strumenti che usa­
no, le loro movenze, la musica e così via.
Un lavoro del genere è più facile da svolgere quando guardiamo
il film in Dvd, fermando e ripartendo per assorbire tutto lo sfondo
con attenzione. Alcuni fan fanno risalire tale tendenza a Blade Run-
ner (1982), per il quale si chiese l’intervento dell’urbanista Syd
Mead per ricostruire una metropoli del futuro sulle fondamenta ri-
conoscibili della Los Angeles esistente. Queste visioni possono es­
sere apprezzate a pieno solo con la lettura dei libretti che accompa­
gnano l’uscita dei film con commenti sui costumi e sulla direzione
artistica.

Christina Klein ha studiato la natura chiaramente transnazionale de La


Tigre e il Dragonea. Il suo regista, Ang Lee, è nato a Taiwan ma ha stu­
diato negli Stati Uniti. Questo è stato il primo film di Lee girato in Ci­
na. I finanziamenti provenivano da conglomerati mediatici statuni­
tensi e giapponesi. Il film è stato scritto e prodotto dal fedele collabo­
ratore di Lee, l'americano James Schamus. Il cast includeva attori che
rispecchiavano la diaspora cinese - Zhang Ziyi (Cina), Chan Chen
(Taiwan), Chow Yun-Fat (Hong Kong) e M ichelle Yeih (Malaysia). Ang
Lee descrive La Tigre e il Dragone come un "piatto misto", e sottolinea
i prestiti da molte tradizioni culturali. James Schamus è d'accordo con
lui: "Abbiam o finito per fare un film orientale destinato a pubblici oc­
cidentali e in qualche modo un film più occidentale per pubblici

«ì . C. Klein, "Crouching Tiger, Hidden Dragon: A Transnational Reading", in corso di


scrittura.
108 C a p it o l o 3

La teorica dei new media Janet Murray ha scritto a proposito


della “capacità enciclopedica” dei media digitali, che, come lei ri­
tiene, ci condurranno a nuove forme narrative dal momento che i
pubblici in cerca di informazioni attraversano i confini della singo­
la storia34. La studiosa paragona il processo di creazione di mondi
nel cinema e nei giochi all’opera di Faulkner, i cui romanzi e rac­
conti si intrecciano reciprocamente per costruire il tempo e la vita
in una contea immaginaria del Mississippi. Per rendere questi mon­
di inventati ancora più realistici, i narratori e i lettori cominciano a
creare dei “mezzi di contestualizzazione - percorsi codificati a co­
lori, cronologie, alberi genealogici, mappe, orologi, calendari e co­
sì via”35.
Tutti questi espedienti “permettono agli spettatori di abbraccia­
re gli immensi spazi psicologici e culturali [rappresentati nelle sto­
rie moderne] senza perdere l’orientamento”36. In modo simile han­
no funzionato, per The Matrix, i corti animati, il gioco e i fumetti,
fornendo informazioni ulteriori e aggiungendo volta per volta le
parti di mondo mancanti, in modo tale che il tutto divenisse più
convincente o più comprensibile.
Il corto “The Second Reinassance” (2003) di Mahiro Maeda,
per esempio, è ricco di dettagli e cronache veloci che ci trasportano
dal presente all’era dominata dalle macchine che, come sappiamo,
apre il primo film di The Matrix. Il corto è costruito come un do­

orientali". Questi esempi di ibridità corporate confidano su consuma­


tori con competenze culturali che possono essere sviluppate solo in
un contesto di convergenza globale, poiché richiedono non soltanto
la conoscenza della cultura popolare asiatica, ma una comprensione
di sim ilitudini e differenze con le tradizioni dell'Occidente.
Mentre The Anim atrix può essere interpretato, accanto a Spider Man:
India, come un esempio di "transcreazione", i film The M atrix sempli­
cemente aggiungono molti riferimenti m ultinazionali e m ulticulturali
per buona parte impercettibili ai consumatori occidentali, ma proget­
tati per dare ai consumatori di tutto il mondo vari punti di contatto
con il franchise. Qualche elemento può spostarsi dal primo piano allo
sfondo a seconda delle competenze locali dei consumatori. A tale
proposito, uno dei miei laureati ha condiviso con me questo esempio:
"M o lti amici in India mi hanno raccontato di come le conversazioni
familiari in Sud Asia, in Révolutions, finissero per diventare dibattiti
sull'emigrazione verso gli Stati Uniti, sulla posizione dei dipendenti di
A l l ìn s e g u i m e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 109

cumentario creato dalle stesse macchine per narrare gli avvenimen­


ti che hanno portato al loro trionfo sugli umani. “The Second Rei-
nassance” fornisce la cronologia per l’universo di The Matrix, con­
testualizzando eventi come l’esperimento di B116ER, la prima
macchina che ha ucciso un umano o la Marcia di un Milione di
Macchine e “l’oscuramento dei cieli”, che sono citati negli altri te­
sti Matrix. Come spiega Maeda:

Nella prima parte, vediamo gli umani trattare i robot come oggetti,
mentre nella seconda la loro relazione cambia. Sono gli uomini, in
questa fase, a cominciare a essere studiati dalle macchine. Mi sono di­
vertito a esaminare l’inversione dei ruoli... Volevo mostrare la globa­
lità del sociale, e come i robot fossero una parte tale dello sfondo della
vita da essere trattati come puri oggetti da parte degli esseri um ani...
Esplorando la storia di The Matrix, la mia intenzione era mostrare al
pubblico quanto fossero trattati male i robot. Le immagini che vedia­
mo sugli abusi da essi subiti sono sepolte negli Archivi. Ci sono molti
esempi di crudeltà degli uomini nel passato.^7

Per orientare la nostra risposta alle immagini dei soprusi umani


sulle macchine, Maeda attinge a tutta la banca-dati delle inquietu­
dini del ventesimo secolo, mostrando le macchine che vengono
schiacciate dai carri armati evocando le immagini dei fatti di Piazza

colore nel settore di produzione di tecnologia software, s u ll'outsour-


c in g e così via". In Giappone, dove la tradizione della "recita in co­
stume" è profondamente radicata nella cultura dei fan, questi ultimi
usano recarsi in luoghi come il parco Yoyogi di Tokyo la domenica
pomeriggio, mascherati e pronti a recitare. Tempo fa, si è assistito a
una serie di reinterpretazioni di M atrix (Figura 3.2). Centinaia di fan
locali arrivano sul posto e sistematicamente mettono in scena dei mo-
menti-chiave del film , dando vita a una sorta di spettacolo pubblico
partecipativo3.

a. T.C. Van Veen, "Matrix Multitudes in Japan: Reality Bleed or Corporate Performan­
ce?", Hallucinations and Antics, 27/6/2003, http://www.quadrantcrossing.org/
blog/Cl 692035385/E1656161427/.
110 C a p it o l o 3

Tienanmen, o raffigurando bulldozer che schiacciano sepolture di


massa di robot distrutti facendo allusione ad Auschwitz.
“The Second Reinassance” fornisce buona parte dello sfondo
storico che serve agli spettatori per inquadrare il ritorno di Neo a
01, la città delle macchine, per chiedere agli abitanti di aiutarlo a
sconfiggere gli agenti. Senza essere a conoscenza dei numerosi pre­
cedenti tentativi diplomatici avviati dalle macchine e continuamen­
te rifiutati dagli umani, è difficile comprendere il risultato sorpren­
dente ottenuto da Neo. In modo simile, le immagini che mostrano
gli sforzi umani per impedire ai raggi del sole di raggiungere la ter­
ra riemergono quando vediamo l’aereo di Neo sorvolare le nuvole
e penetrare il cielo che per generazioni gli uomini non avevano più
visto. In “Second Reinassance” appaiono molte delle armi che sa­
ranno impiegate durante l’assalto finale a Zion, incluse le tute
“mecha”, indossate dagli umani negli scontri con gli invasori.
Allo stesso tempo, “The Second Reinassance” si basa su “Bits
and Pieces of Information”, uno dei fumetti di The Matrix, disegna­
to da Geof Darrow su sceneggiatura dei fratelli Wachowski38. Il fu­
metto introduce la figura cruciale di B116ER, il robot che uccide i
suoi padroni proprio mentre sta per essere distrutto, e la cui causa
in tribunale afferma l’idea dei diritti delle macchine all’interno di
una cultura umana. Proprio come “The Second Reinassance”, “Bit
and Pieces of Information” attinge dall’iconografia storica delle

Figura 3.2 Fan giapponesi a Osaka ricreano scene di The Matrix Reloaded.
A l l ’i n s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 111

battaglie per i diritti umani, citando il verdetto su Dred Scott e dan­


do al robot il nome di Bigger Thomas, come il protagonista di Na­
tive Son (1940) di Richard Wright. Il primo film inizia con una
semplice opposizione tra uomini e macchine; i fratelli Wachowski
hanno usato in seguito questi intertesti per creare una storia più
sfumata dal punto di vista emozionale e più complessa da quello
morale. Alla fine, uomini e macchine possono ancora trovare inte­
ressi comuni malgrado secoli di conflitti e di oppressione.
Molti critici cinematografici sono abituati a pensare in termini
di strutture narrative tradizionali e sempre più spesso parlano di
collasso della narrazione. Dovremmo invece diffidare di tali pro­
clami poiché è difficile credere che il pubblico abbia realmente per­
so interesse nelle storie. I racconti sono la base di tutte le culture
umane, i mezzi principali attraverso i quali costruiamo, condividia­
mo e strutturiamo il senso della nostra esperienza comune. Stiamo
piuttosto assistendo alPemergere di nuove strutture narrative, che
si complicano ampliando la gamma di possibilità del racconto an­
ziché tracciare un percorso lineare con un inizio, un centro e una
fine. Il 1999, Panno in cui conquistarono il mercato film come The
Matrix, Fighi Club, The Blair Witch Project, Being John Malkovich,
Run Lola Run, Go, American Beauty, è stato proclamato da Enter­
tainment Weekly “Panno che ha cambiato il cinema”. Gli spettatori
abituati a media non-lineari come i videogame aspettavano una di-

Queste reinterpretazioni, in effetti, localizzano il contenuto filtrando­


lo attraverso le specificità nazionali delle pratiche dei fan.
Detto ciò, l'economia politica della convergenza tra media non è sim­
metrica; il pubblico al di fuori delle economie "sviluppate" spesso ha
accesso solo ai film e, a volte, solo a copie pirata con scene mancanti.
Anche nelle realtà economiche più sviluppate, perché esistono circui­
ti di distribuzione diversi o i diritti sono ceduti a imprese diverse, o
semplicemente a causa di diversi obiettivi e strategie aziendali, le par­
ti che compongono il franchise possono muoversi separatamente e in
sequenze distinte: giochi e fumetti precedono o seguono i film.
Quando l'inform azione si diffonde dal film agli altri media, crea d i­
versi livelli di partecipazione al franchise. The M atrix, quindi, per
quanto fenomeno cult globale, è fruito in modo diverso in ciascun pa­
ese.
112 C a p it o l o 3

versa esperienza di intrattenimento39. Se si giudicano tali lavori


usando i vecchi criteri, questi film sembrano essere in effetti più
frammentati, ma è esattamente questo aspetto a permettere ai con­
sumatori di poter gestire le loro connessioni e la loro esperienza di
consumo nei tempi e nei modi che preferiscono. Murray nota, per
esempio, che lavori del genere sono adatti ad attirare tre tipi di
consumatori molto diversi: “Gli spettatori attivi e impegnati in
tempo reale che cercano suspense e soddisfazione in ogni singolo
episodio, così come il pubblico più lento e riflessivo che cerca la co­
erenza nella struttura della storia... e lo spettatore navigante che
prova piacere a inseguire le connessioni tra le parti e a scoprire le
molteplici disposizioni dello stesso materiale”40.
Nonostante le sue qualità sperimentali e innovative, la narrazio­
ne transmediale non è del tutto un’invenzione recente. Prendiamo,
per esempio, la storia di Gesù come veniva raccontata nel Medioe­
vo. A meno che non si fosse dei letterati, non si incontrava Gesù in
un libro ma a molti livelli della propria cultura. Ogni rappresenta­
zione (una vetrata colorata, un arazzo, un salmo, un sermone, una
rappresentazione) presupponeva che si fosse conosciuto da qualche
altra parte il personaggio e la sua storia. Più recentemente, scrittori
come J. R. R. Tolkien hanno cercato di creare nuove storie che imi­
tassero gli stilemi del racconto folcloristico o mitologico, generan­
do quindi un gruppo di racconti concatenati che hanno dato vita al

Il desktop di D aw son

Chris Pike ha trovato ispirazione in quello che gli Haxans avevano


creato con The Blair Witch Project Pike lavorava alla Sony, in un
gruppo che doveva esplorare nuove modalità per sfruttare il Web nel­
la promozione di serie televisive. Quello che sono riusciti a inventare
è stato Dawson's Desktop, un sito Web che riproduceva i file nel com­
puter del personaggio principale di Dawson's Creek (1998), grazie al
quale i visitatori potevano leggere i suoi messaggi di posta elettronica
ad altri personaggi, sbirciare nel suo diaro, nelle tesine per i corsi, nel­
le sue bozze di sceneggiature; i più intraprendenti e curiosi potevano
addirittura andare a rovistare nel suo cestino.
Il sito veniva aggiornato ogni giorno, e andava a riempire i vuoti fra la
messa in onda di un episodio e l'altro. Nel momento di massima po­
polarità, il sito godeva di 25 m ilioni di pagine visitate alla settimana.
Come spiegava Pike:
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 113

mondo della Terra di Mezzo. Seguendo una logica simile, Maeda


paragona esplicitamente “The Second Reinassance” all’epica ome­
rica: “Volevo rendere questo film bello quanto le storie della mito­
logia greca classica ed esplorare il significato della natura umana e
non umana, il modo in cui le due idee sono correlate. Nel mito gre­
co, ci sono momenti in cui viene esplorato il lato migliore
delPumanità e altri dove i protagonisti sono mostrati in tutta la lo­
ro crudeltà. Volevo ricreare la stessa atmosfera di quelle storie”41.
Quando i greci ascoltavano i racconti di Ulisse, non avevano bi­
sogno di spiegazioni su chi egli fosse, da dove venisse o quale fosse
la sua missione. Omero potè creare un’epica orale basandosi su
“frammenti e pezzi di informazione” di miti preesistenti, perché
contava sul fatto che il suo pubblico, bene informato, potesse scio­
gliere ogni confusione. Questo è il motivo per cui gli studenti lice­
ali di oggi faticano così tanto a leggere LOdissea, non avendo la
stessa cornice di riferimento del pubblico originale. Laddove un
ascoltatore nativo poteva ascoltare la descrizione dell’elmo di un
personaggio e riconoscerlo come eroe proveniente da una certa cit-
tà-stato, e di qui trarne un’idea della sua personalità e della sua im­
portanza, lo studente liceale contemporaneo si scontra con un mu­
ro, non avendo a disposizione le stesse informazioni che una volta
rendevano così reali quei personaggi. I loro genitori potrebbero in­
contrare simili ostacoli nell’affrontare i franchise cinematografici

Pensavamo i nostri episodi come un arco narrativo di sette giorni


che partiva un minuto dopo la fine della puntata in onda... Inevita­
bilmente Dawson's Creek finiva in punto di suspence di qualche
genere e noi ci lavoravamo sopra, lo rielaboravamo, espandevamo
qualcuno degli elementi che sapevamo avrebbero animato le d i­
scussioni dei fan, Volevamo sfruttare quell'energia subito dopo la
puntata e farci spingere per il resto della settimana. Alle 9:01, un
messaggio di posta elettronica o nella messaggeria istantanea
avrebbe messo in moto il tutto. Il sito si animava come un vero de­
sktop. Arrivavano messaggi di posta elettronica a ore programmate
in modo irregolare. Verso la metà della settimana aggiungevamo
qualcosa a un filone narrativo che veniva sviluppato nell'arco di
tutta la stagione o sviluppavamo qualche spunto che rimaneva
un'esclusiva dell'online: in fin dei conti, visto che il protagonista
era un adolescente, era molto credibile che visitasse siti web e
chiacchierasse con compagni che potevano essere presenti o meno
114 C a p it o l o 3

così amati dai figli - se andate a vedere un film di X-Men senza


averne già letto i fumetti potreste rimanere confusi da alcuni per­
sonaggi secondari che invece per i lettori dei fumetti hanno un si­
gnificato molto più profondo.
Spesso, nelle narrazioni transmediali, i personaggi non hanno
bisogno di essere introdotti, ma semplicemente reintrodotti, per­
ché sono già conosciuti dal pubblico per via di altre fonti. Proprio
come i lettori di Omero si identificavano con i personaggi in base
alla loro città-stato di provenienza, i ragazzi odierni entrano nel
film con identificazioni preesistenti che vengono loro dalPaver gio­
cato con le action figure o con gli avatar.
L’idea che la Hollywood contemporanea attinga dagli schemi
della mitologia classica è divenuta conoscenza diffusa tra la corren­
te generazione di registi. Joseph Campbell, l’autore di The Hero
with a Thousand Faces (1949), ha elogiato Star Wars per aver in­
carnato ciò che egli ha descritto come “monomito”, ovvero una
struttura concettuale astratta da un’analisi interculturale delle
grandi religioni del mondo42. Oggi, molti manuali di sceneggiatura
trattano del “viaggio dell’eroe”, divulgando le idee di Campbell, e
i creatori di giochi sono stati consigliati, in modo simile, di far se­
guire ai loro protagonisti lo stesso genere di impresa fisica e
spirituale43. La familiarità del pubblico con questa struttura narra­
tiva di base permette allo sceneggiatore di tralasciare passaggi e se­

nella serie televisiva, ma comunque davano al personaggio una sua


tridimensionalità. Poi, quando ci si avvicinava alla messa in onda
della nuova puntata, un giorno o due prima, toccava a noi rivita liz­
zare l'interesse degli spettatori, così cominciavamo a buttar lì qual­
che indizio in più su quello che stava per succedere... Dovevamo
presentare tutti gli indizi senza far capire esattamente gli eventi. Il
nostro compito era quello di far venire l'appetito.

Almeno in parte, un sito come Dawson's Desktop è possibile perché


c'è stato un cambiamento nel modo in cui funzionano le narrazioni
nella televisione americana. Negli anni Sessanta, quasi tutti gli episo­
di delle serie di prima serata erano totalmente chiusi: introducevano
una crisi temporanea nella vita dei loro protagonisti, ma dovevano
concludersi più o meno come erano com inciati. Chiunque sia cre­
sciuto in quegli anni sapeva che Gilligan e gli altri naufraghi non sa­
rebbero mai riusciti a lasciare l'sola, indipendentemente da quanto
A l l ’in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 115

quenze descrittive, gettandoci direttamente dentro al cuore


dell’azione.
In modo simile, se i protagonisti e gli antagonisti appaiono sotto
forma di archetipi invece che di semplici personaggi individuali,
tratteggiati a fondo come in un romanzo, essi divengono immedia­
tamente riconoscibili. Possiamo pensare che The Matrix abbia pre­
so a prestito queste figure archetipiche, sia dai generi di intratteni­
mento popolare (l’hacker protagonista, il Movimento di Resistenza
clandestino, i misteriosi uomini in nero), sia da fonti mitologiche
(Morpheus, Persephone, l’Oracolo). Questa dipendenza da perso­
naggi già noti è importante specialmente nel caso dei giochi dove i
giocatori saltano a piè pari il manuale delle istruzioni e passano im­
mediatamente sulla scena, concedendo poco tempo alle spiegazioni
prima di afferrare il joystick e provare a navigare in quel mondo. I
critici cinematografici hanno spesso paragonato i personaggi del
film The Matrix a quelli del videogame. Roger Ebert, per esempio,
dice di misurare il suo interesse per Neo in Révolutions meno in
termini di affetto verso il personaggio e più in “punteggio del vi­
deogame”44. David Edelsteind di Siate sostiene che un’acrobazia
spettacolare di Trinity in The Matrix Reloaded “ha la stessa resa di
rapidità di quella che avviene nel videogame. Si può immaginare il
programma che si reinizializza e tutti quei piccoli zero e uno che si
riassemblano per giocare ancora”45. Entrambi questi autori usano

verisimile sembrasse la promessa di salvataggio, al momento della


prima interruzione pubblicitaria.
Negli anni Settanta e Ottanta, produttori come Stephen Bohco (H ill
Street Blues [H ill Street giorno e notte], 1981) spingevano per poter
ampliare la complessità narrativa dei telefilm, ma trovavano qualche
resistenza nei dirigenti delle reti, i quali temevano che gli spettatori
potessero non ricordarsi di quello che era successo negli episodi pre­
cedenti.
Negli anni Novanta, molte di queste battaglie sono state combattute
e vinte, con l'aiuto forse del videoregistratore, che permetteva di rive­
dere le serie preferite, e di Internet, che poteva mettere a disposizione
i "riassunti delle puntate precedenti" per chi si era perso qualche pun­
to importante dell'intreccio. Serie come Babylon 5 (1994) o The X-Fi-
les (1993) spingevano verso archi narrativi la cui durata era pari a
quella della stagione (e verso informazioni d'intreccio che si dispie­
gavano gradualmente nell'arco di più stagioni). Oggi, persino molte
116 C a p it o l o 3

l’analogia con il videogame per sottolineare una sorta di disinteres­


se verso i personaggi. Ciò che per i giocatori conta è, in effetti, la
loro esperienza immediata: il personaggio è solo un veicolo per ac­
cedere in modo diretto al mondo del gioco. Ispirandosi all’icono­
grafia dei videogame, il film The Matrix crea un impegno più inten­
so e immediato per gli spettatori che entrano al cinema conoscendo
già i personaggi e le loro potenzialità. Al proseguire del film arric­
chiamo le informazioni sui protagonisti, aggiungendovi nuovi
retroscena e acquisendo nuove motivazioni. All’uscita del cinema
continueremo quindi a cercare informazioni aggiuntive attraverso
i vari media disponibili.
Quando propongo un parallelo tra YOdissea e The Matrix pre­
vedo già una reazione di scetticismo. Beninteso, non voglio con ciò
intendere che questi lavori moderni abbiano la stessa profondità
dei significati stratificati nella storia. Queste nuove “mitologie”, se
possiamo chiamarle così, emergono in un contesto sociale sempre
più frammentato e multiculturale. Mentre i film di The Matrix so­
no stati oggetto di libri che li hanno posti al centro del dibattito fi­
losofico, e mentre molti fan li vedono come interpretazioni dei miti
religiosi, l’articolazione della spiritualità non è proprio la loro fun­
zione primaria. La loro prospettiva non consiste nell’essere letti -
in senso letterale - dal loro pubblico, ed esprimono fedi e visioni
che non sono necessariamente centrali nell’ambito della nostra vita

φΗ,Ι
sit-com si basano molto sulla famigliarità del pubblico con la storia
del programma, e serie come 24 (2001 ) danno per scontato che il loro
pubblico sia in grado di ricordare eventi che in televisione sono ap­
parsi settimane prima, ma sono trascorsi solo da poche ore nel tempo
della narrazione.
La serie Dawson's Creek non rappresentava uno scostamento radicale
dalla norma delle reti televisive, ma quel che ha fatto sul Web è stato
molto più innovativo. L'idea del desktop permetteva ai produttori di
portare gli spettatori più a fondo nella testa dei personaggi, di vedere
altre dimensioni delle loro interazioni sociali.
il gruppo che lavorava per il Web si coordinava con gli autori della
serie, e perciò poteva fornire le informazioni di sfondo per gli eventi
che stavano per succedere. Come spiega Pike: "Se la zia Jenny manda
un'e-mail all'im provviso, un motivo ci sarà, e sarà bene che ci prestia­
te attenzione, perché fra tre o quattro o cinque episodi, quando la zia
Jenny arriva, saprete già tutto, che è cresciuta negli anni Sessanta e
AU .'INSEGUIMENTO DELL’UNICORNO ORIGAMI 117

quotidiana. Omero scriveva all’interno di una cultura dotata di un


relativo consenso e stabilità, mentre The Matrix emerge da un’epo­
ca di rapidi cambiamenti e di diversità culturale. Il suo obiettivo
non è tanto quello di preservare le tradizioni culturali quanto di as­
semblare i frammenti della cultura in modi innovativi. The Matrix
b un’opera strettamente legata alla nostra fase storica, poiché parla
ilei le ansie contemporanee sulla tecnologia e la burocrazia, si nutre
ilei le nozioni correnti di multiculturalismo e si richiama a recenti
modelli sociali di resistenza. La storia può fare riferimento a diversi
sistemi di credenze, come il mito del Messia giudaico-cristiano o
per parlare di questi problemi odierni con una qualche forza visio­
naria. Allo stesso tempo, con il rimando a poemi antichi, The Ma­
trix ci invita a scavare più in profondità nella tradizione dell’occi­
dente e ad attingervi per arricchire i media contemporanei46.
Consideriamo, per esempio, questa lettura biblica di una ceri­
monia tribale tratta da The Matrix Reloaded:

I piedi [che battono] sul terreno significano che Zion è sulla Terra.
Chiaro e semplice. Questo collima con la scena dell’Architetto ed è in
grado di spiegare molte cose. Noi siamo fuori dalla “perfezione” del
Paradiso e viviamo nel M ondo Reale. Simbolicamente, M atrix è il Pa­
radiso. Cypher lo dice nel primo film. Il M ondo Reale è duro, sporco
e scomodo. M atrix, invece, è il paradiso. Il punto è chiarito ancora

che beve troppo. Sapete già la storia passata del personaggio, così
quando questo arriva sullo schermo, sapete perfettamente chi è e la
vostra relazione con la serie si è arricchita. Noi abbiamo fatto il nostro
lavoro."
Sin dall'inizio, il gruppo di Dawson's Desktop ha collaborato con i
fan più attivi del programma. I suoi produttori hanno detto di aver tro­
vato l'ispirazione ad ampliare la storia nel leggere tutta la fan fiction
che era fiorita intorno ai loro personaggi. Hanno tenuto sotto osserva­
zione i circa cinquecento siti di appassionati di Dawson's Creek e
hanno creato un gruppo di consulenti, formato da venticinque crea­
tori che stimavano avessero sviluppato i m igliori contenuti amatoriali.
Come ha spiegato Andrew Schneider3, che era a capo del progetto:

a. Darren Crosciale, Dawson's Creek: The Officiai Companion, Ebury, London, 1999,
pp. 145-157.
118 C a p it o l o 3

una volta nel prim o film dall’agente Smith, che chiama M a trix “ il
mondo umano perfetto” [sto parafrasando]. Ricordiamo che la scena
dell’Architetto si svolge nella perfezione bianca e pulita. Il riferimento
biblico è piuttosto chiaro. Neo, Trinity, Morpheus e il resto di Z ion
hanno rifiutato il Giardino dell’Eden dove tu tti i bisogni sono soddi­
sfatti per scegliere un’esistenza dura e cattiva ma dove, tuttavia, essi
possono ancora godere del libero arbitrio.47

Così, anche se si considerano i miti classici come superiori ri­


spetto ai loro corrispettivi contemporanei, opere come The Matrix
hanno il merito di riportare i consumatori alle opere precedenti,
arricchendole di nuova attualità.
Il critico cinematografico Roger Ebert ridicolizza il tentativo di
inserire il mito tradizionale in un’epica popolare che sta fra fanta­
scienza e kung fu:

Questi discorsi non hanno un significato, ma solo un effetto di signi­


ficato: sembra che in effetti ci stiano dicendo qualcosa di profondo.
Ciò non impedirà ai giovani fan di analizzare e rielaborare la filosofia
di The M a trix Reloaded nei loro post senza fine. Parte del divertimento
consiste proprio nel diventare esperti dei significati profondi di una
superficiale m itologia popolare. Vi è qualcosa di piacevolmente iro n i­
co nel diventare un’autorità sulla produzione effimera della cultura di

"Siamo in contatto con loro costantemente. Volevamo essere sicuri


che i fan avessero quello che volevano. Ci hanno aiutato a progettare
l'interfaccia e ci hanno detto quello che trovavano di loro gradimento
e quello che non gli piaceva".
Man mano che il sito si sviluppava, i fan sono stati invitati a mandare
i loro messaggi di posta elettronica a Dawson come se fossero suoi
compagni di scuola alla Capeside High, e lui avrebbe risposto sul sito
ai loro personaggi.
In questo modo, i produttori hanno integrato l'energia creativa della
comunità dei fan verso lo sviluppo di nuovi contenuti che, a loro vol­
ta, avrebbero rafforzato l'interesse dei fan.
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 119

massa, e M orpheus (Laurence Fishburne) si unisce a Obi-Wan Kenobi


nelPinterpretare il ruolo di un Platone dei giorni nostri.48

Questa critica assume un tono diverso se si accetta che il valore


deriva dal processo di ricerca del significato (e dall’elaborazione
della storia da parte del pubblico) e non solo da ciò che era nelle
intenzioni dei fratelli Wachowski. Ciò che i registi hanno fatto è
stato innescare una ricerca del senso; non hanno determinato dove
il pubblico avrebbe dovuto andare a cercare le risposte.

Comprensione additiva

Se i creatori non possono esercitare il controllo totale su ciò che


apprendiamo dalle loro storie transmediali, ciò non impedisce loro
di tentare di dirigere (o plasmare) le nostre interpretazioni. Neil
Young parla, a questo proposito, di “comprensione additiva”. Cita
l’esempio del director’s cut di Biade Runner, dove l’aggiunta di un
breve segmento in cui Deckard trova un unicorno origami invita lo
spettatore a chiedersi se Deckard sia un replicante: “Ciò cambia la
nostra percezione globale del film e la nostra percezione del fina­
le... La sfida per noi, specialmente nel caso del film II Signore degli
Anelli, è tirar fuori l’unicorno origami, quel frammento di informa-

I C loudm akers e "T he Beast".

Lo chiamavano la "Bestia". Il nome veniva dai Puppetmasters, la


squadra di M icrosoft assunta per assemblare quello che pareva il puz­
zle più complesso del mondo, ma presto il nome è stato anche usato
dai Cloudmakers, un gruppo di più di cinquecento giocatori che col-
laboravano alla soluzione. "The Beast" fu creato come strumento di
promozione del film A rtificial Intelligence: A.l. (2001 )a, ma molti di
coloro che vi hanno partecipato vi riderebbero in faccia se diceste che

a. C. Herold, "Game Theory: Tracking an Elusive Film Game Online", New York Ti­
mes, 3/5/2001 ; K. Boswell, "Artificial Intelligence - Virai Marketing and thè Web7',
Marketleap Report, 16/4/2001, http://www.marketleap.com/report/ml_report_05.
htm; P. Parker, "W ho Killed Evan Chan? The Intelligence behind an Al Marketing
Effort", Ad Insight, 8/5/2001, http://channelseven.com/adinsight/commentary/
2001 comm/comm20010508.shtml.
120 C a p it o l o 3

zione che ti fa vedere il film in un modo diverso”. Young ha spie­


gato come quel momento abbia ispirato la sua squadra: “Nel caso
de II Signore degli Anelli: Il Ritorno del Re, la comprensione ag­
giunta è legata al fatto che Gandalf sia l’architetto di questo piano
e che egli lo sia da qualche tem po... La nostra speranza è che il
pubblico stia al gioco e sia così motivato a guardare il film con que­
sto nuovo frammento di conoscenza, che cambia il modo in cui si
percepisce ciò che è accaduto nei film precedenti”. Qui, Young si
riferisce a una possibilità suggerita dai libri ma non direttamente
dai film.
Così come il suo collega Danny Bilson, Young vede la narrazio­
ne transmediale come un nuovo territorio da esplorare nel suo la­
voro futuro. Il suo primo esperimento, Majestic, ha creato un’espe­
rienza transmediale attraverso la trasmissione di frammenti di in­
formazione inviati al giocatore via fax oppure tramite telefonino,
e-mail e siti web. Con il gioco de II Signore degli Anelli, egli ha do­
vuto fare i conti con i vincoli dati da un mondo finzionale già ben
delineato e da un importante franchise cinematografico. In questo
momento sta invece concentrando la sua attenzione verso la crea­
zione di nuovi prodotti che siano costruiti fin dal principio da col­
laborazioni cross-mediali. Il suo pensiero si spinge molto avanti:
“Voglio capire quali siano i tipi di comprensione della storia tipici
della narrazione transmediale. Una volta che ho in mano il mio

il film è stato più importante o più interessante del gioco che ha ge­
nerato. Così un Puppermaster, Sean Stewart, descrive l'idea iniziale:

Create un mondo intero e concluso nel Web, profondo un migliaio


di pagine, ambientatevi una storia, fatela procedere con aggiorna­
menti settimanali e nascondete ogni nuovo pezzo di narrazione in
modo che ci voglia un bel lavoro di squadra per recuperarlo. Ge­
nerate un grande insieme di risorse - foto, film , audio, copioni,
pubblicità di brand, loghi, effetti grafici, siti web, filmati in flash -
e sistematelo in una rete di siti web, telefonate, fax, dicerie, dichia­
razioni stampa, falsi annunci sui giornali e così via a ll'in finito .3

L'ingresso (o ciò che gli ideatori chiamano "la tana del coniglio") nel
vasto universo di siti web interconnessi era costituito dal mistero in-

a. S. Stewart, "The A.I. Web Game", http://www.seanstewart.org/beast/intro/.


A ll ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 121

mondo e che ho chiari quali ne siano i fili conduttori, devo capire


quali di essi possano essere espressi nel videogioco, quali nello spa­
zio filmico o in quello televisivo e letterario. Solo così si entra nella
vera narrazione transmediale”.
Con Enter thè Matrix, l’unicorno origami assume forme molte
diverse, in particolare concentrando l’azione narrativa su Niobe e
Ghost. Come spiega il creatore del gioco, David Perry, ogni ele­
mento del gioco ha lo scopo di aiutarci a conoscere questi perso­
naggi: “Se nel gioco interpreti Ghost, un assassino Apache buddista
zen, automaticamente dovrai correre sparando tramite i differenti
livelli di guida che ti consentiranno di sparare dal finestrino contro
gli agenti che ti inseguono. Niobe a Zion ha fama di essere uno dei
piloti più veloci e spericolati nell’universo Matrix, perciò quando
nel gioco interpreti il suo personaggio, ti toccherà guidare in un
complesso mondo Matrix riempito di vero traffico e di veri pedoni,
mentre Ghost, controllato dal computer, si occupa dei nemici”49.
Le cut scenes (quelle sequenze del gioco che sono preregistrate e
non sono interattive) ci svelano indizi sul triangolo amoroso tra
Niobe, Morpheus e Locke, il che spiega, in parte, l’ostilità di
quest’ultimo nei confronti di Morpheus cui assistiamo nel corso
del film. Avendo giocato al game, possiamo conoscere e quindi in­
terpretare desideri e tensioni che governano i rapporti tra i perso­
naggi dello schermo. Prendiamo il caso di Ghost: egli rimane una

torno alla morte di Evan Chan e dalle informazioni possedute da Jea­


nine Sai la, "psicanalista per macchine senzienti". La morte di Chan,
in realtà, era solo un espediente per muovere la trama. Prima della fi­
ne, i giocatori avrebbero dovuto esplorare l'intero universo del film di
Spielberg e gli autori avrebbero dovuto sfruttare tutto quello a cui ave­
vano pensato. Fin dall'inizio, i rompicapo erano troppo complessi, la
conoscenza troppo esoterica, l'universo troppo vasto per essere risol­
to da un singolo giocatore. Come un utente riferì alla CNN: "Per risol­
vere il puzzle, bisognava aver letto Godei, Escher, Bach, saper tradur­
re dal tedesco, dal giapponese, e perfino da una lingua oscura chia­
mata Kannada, decrittare codice Morse ed Enigma e compiere un'in­
credibile serie di operazioni su file di immagini e m usicali"3.

a. D. Sieberg, "Reality Blurs, Hype BuiIds with Web A.l. Game", http://
www.cnn.com/SPECIALS/2001/coming.attractions/stories/aibuzz.html.
122 C a p it o l o 3

figura secondaria nel film, avendo al suo interno solo una manciata
di battute, ma la sua apparizione sullo schermo è il premio per co­
loro che si sono impegnati nella scoperta del gioco. Qualche critico
si è lamentato perché il personaggio di Niobe ruba il posto centrale
a Morpheus in The Matrix Révolutions, come se un personaggio se­
condario cacciasse dalla scena un protagonista ben stabilito. Ciò
che proviamo per Niobe, però, dipenderà dal fatto se abbiamo gio­
cato o meno a Enter thè Matrix: in caso affermativo, avremo passa­
to, forse, centinaia di ore a controllare il suo personaggio contro
un tempo inferiore alle quattro ore di visione di Morpheus; lottare
per mantenere in vita il personaggio e condurlo a compiere la sua
missione avrà prodotto un intenso legame che certo non possono
sentire quegli spettatori che l’hanno vista sullo schermo solo in po­
che scene.
Probabilmente, l’esempio più spettacolare di “comprensione
additiva” ha riguardato il franchise a chiusura già avvenuta della
trilogia filmica. Senza nessun annuncio importante, il 26 maggio
2 0 0 5 , Morpheus, il mentore di Neo, rimase ucciso in The Matrix
Online, mentre cercava di recuperare il corpo di Neo che era stato
portato via dalle macchine alla fine di Révolutions. Come ha spie­
gato Chadwick: “Volevano un incipit significativo, intenso e scioc­
cante, e questo poteva esserlo”50. Un importante punto di svolta
nel franchise è accaduto non sullo schermo per un pubblico di mas­

* "1" Per affrontare "thè Beast" i giocatori dovevano collaborare, coinvol­


gere amici, sfruttare le comunità in rete e attirare tutte le persone pos­
sibili. In poco tempo, i gruppi più piccoli unirono le forze, fino a com­
porre un'armata di "scavatori" e risolutori di rompicapo che dedica­
vano varie ore al giorno alla scoperta del complotto.
Sia i Puppetmasters che i Cloudmakers hanno ammesso che si trattava
di un gioco che tutti costruivano andando avanti. Il gruppo di M icro­
soft non aveva previsto che "The Beast" potesse accendere tanto inte­
resse e impegno nei fan, e questi ultim i, da parte loro, non avevano
idea di quanto i produttori li avrebbero tenuti sulle spine mantenendo
il mistero. Tom, un membro dei Cloudmakers, spiegò: "Man mano
che imparavamo a risolvere i loro rompicapo, dovevano escogitarne
di più d ifficili. Rispondevano a quello che facevamo o dicevamo. Se
risolvevamo un rompicapo troppo in fretta, cambiavano il tipo di puz­
zle. A un certo punto abbiamo trovato nel loro codice sorgente cose
che non avevano intenzione di metterci. E hanno dovuto inventarsi
A l i / in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 123

sa, ma in un gioco destinato a una platea di nicchia. Ciò, nonostan­


te il fatto che molti dei giocatori non avrebbero assistito diretta-
mente alla morte di Morpheus, ma l’avrebbero appresa dal passa­
parola degli altri giocatori oppure da altre fonti secondarie. La
morte di Morpheus venne usata come motivazione di tutta una se­
rie di missioni per i giocatori.
Young, di Electronic Arts, temeva che i fratelli Wachowski
avrebbero perso il loro pubblico se avessero avuto nei suoi con­
fronti troppe aspettative:

Più si stratifica un contenuto e più si restringe il suo m ercato. Si sta


chiedendo alla gente di investire più tempo e attenzione in quello che
stai cercando di dirgli, e questa è una delle sfide della narrazione trans­
mediale. Se la nostra intenzione è quella di creare un mondo e di espri­
merlo attraverso tanti media contemporaneamente, potrebbe essere
necessario farlo in modo sequenziale. Potremmo aver bisogno di gui­
dare la gente passo passo dentro la storia. Forse, il legame potrebbe
iniziare con un gioco, poi con un film e poi con la televisione. Così si
costruisce progressivamente una relazione con il mondo invece di tirar
fuori tutto in una volta sola.

Young potrebbe aver ragione. I fratelli Wachowski erano così


intransigenti nella loro aspettativa che il pubblico seguisse il conte-

una storia per coprire la falla. Erano solo un poco più avanti dei gio­
catori"3. Scrivere il gioco non fu una sfida da meno. Stewart spiegò:
"Al nostro meglio - come i giocatori - eravamo spaventosamente at­
tenti e veloci...Era teatro di strada, beffa e torneo allo stesso tem po"b.
The Beast era una nuova forma di intrattenimento immersivo, una
narrazione enciclopedica che si dispiegava a cavallo tra autori e con­
sumatori. Jane McGonigal, che ha lavorato con alcuni dei Puppetma-
sters allo sviluppo del game successivo ilovebees, ha coniato l'espres­
sione "alternative reality game" (ARG), giochi di realtà alternativa.
Definisce gli ARG "un dramma interattivo recitato online e nel mondo
reale nell'arco di molte settimane o mesi, nel quale decine, centinaia,
migliaia di partecipanti si riuniscono in rete, formando n etw o rksocia-

a. Tom, intervista con l'autore, aprile 2003.


b. Stewart, "The A.l. Web Game".
124 C a p it o l o 3

nuto cinematografico al di là della sala, che buona parte del risul­


tato emotivo di Révolutions è accessibile solo a coloro che hanno
giocato al gioco. I tentativi del film di tamponare i buchi della tra­
ma hanno deluso molti suoi grandi fan. Il loro interesse per The
Matrix raggiunse l’apice a metà percorso, quando il film era ancora
gonfio di possibilità interpretative. Al consumatore casuale, The
Matrix chiedeva troppo. Al fan appassionato, concedeva troppo
poco. Avrebbe mai potuto un film combinare le aspettative cre­
scenti della sua comunità di fan con le interpretazioni in continua
espansione, e rimanere allo stesso tempo accessibile al pubblico di
massa? Ci deve essere un punto oltre il quale i franchise non posso­
no spingersi, i subintrecci non possono aggiungersi, i personaggi
secondari non possono essere identificati e i riferimenti non posso­
no essere colti a pieno. Ma non sappiamo ancora dove si trovi.
Il critico cinematografico Richard Corliss ha sollevato un dub­
bio nei suoi lettori, chiedendo loro: “Joe Popcorn deve avere in te­
sta l’elenco delle concordanze di Matrix?”51. La risposta è no. Tut­
tavia “Joe Popcorn” può unire la sua conoscenza a quella di altri
fan e costruire con loro una concordanza collettiva su Internet52.
In un insieme di siti web e liste di discussione, i fan stavano in ef­
fetti assemblando informazioni, seguendo allusioni, ricostruendo
le catene di comando, costruendo cronologie, scrivendo guide di
riferimento, trascrivendo dialoghi, espandendo la storia con la loro

4·),!
li collaborativi e lavorando insieme alla soluzione di un enigma o di
un problema che sarebbero irrisolvibili in modo individuale"a. In ac­
cordo con la logica dell'economia affettiva, 4orty2wo Entertainment,
l'azienda che Steward e altri hanno creato per fare progredire lo svi­
luppo degli ARG, spiega che questo tipo di attività genera legami verso
il prodotto e il marchio: "Il nostro obiettivo è scolpire il mondo del
cliente all'interno di un paesaggio culturale attuale, in modo da farlo
diventare una destinazione elettiva per l'immaginario americano, come
nel caso della Terra di Mezzo o della scuola di magia di Hogwarts...
Creiamo comunità di appassionati, disposti a investire non solo i loro

a. J. McGonigal, "Alternative Reality Gaming", presentazione per MacArthur Foun­


dation, novembre 2004, http://avantgame.com/McGonigal%20MacArthur%20
Foundation%20Nov%202004.pdf.
Λ1 L’INSEGUIMENTO DELL’UNICORNO ORIGAMI 125

fan fiction, e discutendo come matti sul significato del tutto. La


profondità e l’ampiezza dell’universo di The Matrix rendeva im­
possibile per ogni singolo spettatore “capirlo” fino in fondo, ma
l’emergere delle comunità del sapere garantiva al gruppo in quanto
collettività di scavare più a fondo in quel testo infinito.
Opere del genere pongono anche nuove sfide a chi si occupa
della critica dei contenuti mediali - e ciò fa parte del fenomeno
contro cui Corliss ha reagito. Per scrivere questo capitolo, ho do­
vuto attingere all’intelligenza collettiva della comunità dei fan.
Molte delle idee che ho presentato sono emerse grazie alla lettura
delle critiche dei fan e delle loro conversazioni nelle liste di discus­
sione. Nonostante sia abbastanza esperto del campo in quanto sto­
rico appassionato di fumetti e di fantascienza (il che mi ha permes­
so di individuare la connessione tra i lavori precedenti di Chadwick
e la sua partecipazione al franchise The Matrix), questo ha sempli­
cemente fatto di me un membro in più di questa comunità del sa­
pere - qualcuno che sa qualcosa ma che deve affidarsi ad altri per
sapere di più. Potrei avere a disposizione strumenti analitici utili
per esaminare molti diversi media, ma molto di ciò che qui sosten­
go a proposito dei legami tra i giochi e i film, per esempio, non è
frutto della mia diretta esperienza del gioco, ma arriva dalle con­
versazioni online sul gioco. Per scrivere il capitolo, quindi, ho svol­
to il ruolo di partecipante più che di esperto, e c’è ancora molto sul

soldi, ma la loro immaginazione, nei nostri mondi fantastici"3. Questo


è quel che devono aver detto ai loro finanziatori.
Per i giocatori incalliti, questi giochi possono rappresentare molto di
più. Gli ARG insegnano ai partecipanti come muoversi in un ambien­
te informazionale complesso e come riunire il loro sapere e lavorare
insieme per risolvere problemi. McGonigal sostiene che gli ARG dan­
no vita a "giocatori più capaci, sicuri, espressivi, impegnati, e anche
più connessi nelle loro vite quotidiane"0. Un ARG ben fatto ridisegna
la percezione che i giocatori hanno dei loro mondi reali e virtuali.
Spiega McGonigal: "I m igliori giochi pervasivi ci rendono più sospet­
tosi e critici nella vita quotidiana. Un buon gioco immersivo ci per­
mette di applicare schemi di gioco anche al di fuori dello spazio lu-

a. "Capabilities and Approach", http://www.4orty2wo.com.


b. McGonigal, "Alternative Reality Gaming".
126 C a p it o l o 3

franchise che non so. In futuro, le mie idee potrebbero alimentare


la conversazione, ma avrò anche bisogno di attingere nuove infor­
mazioni e conoscenze dalle discussioni pubbliche. La critica poteva
risultare, in passato, dall’incontro tra due teste - il critico e l’autore
- ma oggi ci sono tanti autori e tanti critici.
Abitare un mondo così sembra essere, in senso letterale, un gio­
co da ragazzi. La narrazione transmediale più elaborata che si è vi­
sta finora è probabilmente quella dei franchise mediatici per bam­
bini, come Pokémon o Yu-Gi-Oh! Come spiegano David Buckin­
gham e Julian Sefton-Green, “Pokémon è qualcosa che fai, non
semplicemente che leggi o guardi o consumi”53. Ci sono centinaia
di Pokémon diversi, ognuno con molte forme evolutive e un insie­
me complesso di affetti e di rivalità. Non esiste un testo che illustri
le varie specie, quindi i bambini raccolgono dati sui Pokémon attra­
verso vari media, con il risultato che ciascun bambino sa qualcosa
che altri non sanno e che può condividere con loro. Buckingham e
Sefton-Green spiegano: “I bambini possono considerare la visione
del cartone televisivo come un modo per acquisire dati che poi use­
ranno per giocare al computer game o con le carte e viceversa... I
contenuti di Pokémon non sono progettati per essere semplicemen­
te consumati in modo passivo... Per fare parte della cultura Poké­
mon e apprendere ciò di cui si ha bisogno ci si deve attivare alla ri-

dico: questi modelli mostrano opportunità di interazione e di inter­


vento"3. Un buon ARG può cambiare il m odo in cui i giocatori parte­
cipano e si vedono, dando loro il gusto del lavoro di gruppo. Svilup­
pano così un'etica del sapere condiviso e imparano a distinguere le
informazioni affidabili da quelle ina tte nd ibili.
Ecco come uno dei Cloudmakers, il più numeroso e influente team
nato intorno al gioco di Λ.Ι., ha descritto lo scenario6: "Siamo più di
7500 membri in questo gruppo...ed è com e se fossimo un'unica per­
sona. Abbiamo reso visibile questa idea di intelligenza incredibilmen-

a. J. McGonigal, "A Reai Little Game: The Performance of Belief in Pervasive Play", http//avan-
tgame.com/MCGONIGAL%20%A%Reak%20Kuttke%20Game%20DIGRA%202003.pdf.
b. J. McGonigal, "This Js Not a Game: Immersive Aesthetics and Collective Play", ht-
tp;//www. seanstewart.org/beast/mcgonigal/notagame/paper.pdf.
All.'INSEGUIMENTO DELL’UNICORNO ORIGAMI 127

cerca di nuova informazione e nuovi prodotti e, per fare ciò, è ne­


cessario impegnarsi con gli altri”54.
Potremmo vedere il giocare con tali possibilità di Pokémon e
Yu-Gi-Oh! come parte del processo attraverso il quale i bambini
imparano ad abitare le nuove strutture sociali e culturali descritte
ila Lévy55. I bambini si preparano, in questo modo, a contribuire a
una cultura del sapere più sofisticata. Ad oggi, il nostro sistema sco­
lastico è ancora concentrato nella produzione dell’apprendimento
autonomo; cercare informazioni da altri è considerato barare. Nel­
le nostre vite di adulti, invece, dipendiamo sempre più dagli altri
per acquisire tutta la conoscenza che non saremmo in grado di ela­
borare da soli. I nostri ruoli professionali sono divenuti più colla­
borativi; i nostri processi politici si sono decentrati; viviamo sem­
pre più frequentemente all’interno di culture del sapere che si ba­
sano sull’intelligenza collettiva. Le scuole non ci preparano a que­
ste nuove tendenze, ma la cultura popolare potrebbe farlo. In Ga­
lassia Internet (2001), il cyberteorico Manuel Castells afferma che
il pubblico ha mostrato scarso interesse verso gli ipertesti e allo
stesso tempo ha sviluppato relazioni di tipo ipertestuale nei con­
fronti dei preesistenti contenuti mediatici: “Le nostre menti (non le
nostre macchine) elaborano la cultura... se le nostre menti hanno
la capacità materiale di accedere a tutti i campi delle espressioni
culturali, selezionandole e ricombinandole, allora abbiamo l’iper-

te intricata. Siamo una mente, una voce...Siamo diventati parte di


qualcosa di più grande di tutti noi".
Un altro dei Cloudmakers, Barry Joseph, dichiara di non essere sem­
plicemente rimasto "immerso" nel mondo di A.l. La soluzione collet­
tiva del gioco ha cambiato il senso del film , dandogli una visione al­
ternativa di come si potrebbe vivere e interagire in un'era di nuove
tecnologie dell'informazione. Contro il pessimismo che m olti vedeva­
no al cuore della storia, "immagine di un'umanità che vive nel timore
dell'occhio onnipresente della tecnologia", i giocatori vivono l'espe­
rienza di "comportamento cooperativo che sfrutta il potere del pen­
siero di gruppo". Se il contenuto del gioco insegna loro a temere il fu­
turo, l'esperienza di partecipazione li invita invece ad abbracciarlo3.

λ. B. Joseph, "When thè Medium is thè Message", 25/5/2004, http://cloud-


makers.cloudmakers.org/editorials/bjoseph525.shtml.
128 C a p it o l o 3

testo: l’ipertesto è dentro di noi”56.1 consumatori più giovani sono


diventati cacciatori e raccoglitori informazionali, si divertono a
rintracciare le notizie di fondo sui personaggi, i punti in cui si pre­
sentano nell’intreccio e a connettere insieme i diversi testi che com­
pongono un franchise. Così, è prevedibile che le stesse esperienze
di fruizione che hanno riguardato The Matrix interesseranno anche
opere che attraggono giovani e giovanissimi.
Presto, come si vedrà, gli stessi principi transmediali e iperte­
stuali si applicheranno anche alla fiction di qualità destinata a un
pubblico adulto. Spettacoli come The West Wing (1999) o The So­
pranos (I Soprano, 1999), per esempio, si prestano facilmente a tali
aspettative, mentre le soap, caratterizzate per tradizione da com­
plesse relazioni tra personaggi e trame serializzate, potranno facil­
mente espandersi dalla televisione ad altri media. Si possono certa­
mente immaginare gialli in cui si chiede ai lettori di scovare gli in­
dizi lungo un percorso multimediale, oppure fiction storiche basate
sulla comprensione additiva attivata da più testi per rendere vivo il
passato. Quest’impulso transmediale batte nel cuore di ciò che
chiamo cultura convergente. Gli artisti più sperimentali come Peter
Greenaway o Matthew Barney stanno già mettendo alla prova l’in­
serimento di principi transmediali nelle loro opere. Si potrebbe
perfino supporre che i bambini che crescono all’interno di una cul­
tura media-mix saranno in grado di produrre nuovi media man
mano che la narrazione transmediale diverrà più intuitiva. The Ma­
trix potrebbe costituire il prossimo passo di questo processo di evo­
luzione culturale - un ponte verso un nuovo tipo di cultura e di so­
cietà. In una società di cacciatori, i bimbi giocano con archi e frec­
ce, nella società dell’informazione giocano con l’informazione.
Dopo aver letto tutto ciò, qualche lettore potrebbe scuotere la
testa in un gesto di scetticismo totale, e ritenere che tali approcci
funzionano meglio con i consumatori più giovani, che hanno più
tempo davanti a loro. Chiedono troppo a “Joe Popcorn”, alla
mamma stressata o al lavoratore sfinito che ha solo voglia di spro­
fondare nella poltrona dopo una giornata faticosa. I conglomerati
mediatici creano l’incentivo economico per la trasformazione, ma
Hollywood non può intraprendere la strada se i pubblici non sono
ancora disposti ad abbandonare le loro consuete modalità di con­
sumo. Finora, molti consumatori più adulti sono rimasti confusi o
risultano disinteressati rispetto a tali prodotti di intrattenimento,
ma alcuni di loro, al contrario, si stanno adattando al cambiamen­
A l l ’ in s e g u im e n t o d e l l ’ u n ic o r n o o r ig a m i 129

to. Non tutti i contenuti, è bene dirlo, si muoveranno nella nuova


direzione. Tuttavia sono sempre più numerosi quelli che viaggiano
da un medium all’altro e offrono esperienze di fruizione coinvol­
genti come non si era mai verificato in passato. Il punto-chiave è
che il livello di intensità nel consumo deve rimanere un’opzione -
una scelta dei lettori - e non l’unico modo di intrattenersi con i
franchise mediatici. Un numero crescente di consumatori potrebbe
scegliere prodotti di cultura popolare per le opportunità che offro­
no di esplorare mondi complessi e confrontare opinioni con altri.
Sempre più consumatori si divertono a partecipare alle comunità
del sapere on line e ad ampliare la loro conoscenza personale, com­
binandola con l’intelligenza collettiva del gruppo. A volte, invece,
abbiamo semplicemente voglia di guardare. Finché sarà così, molti
franchise continueranno a essere mastodontici, stupidi e rumorosi.
Ma non ci sarà molto da sorprendersi se ai bordi dell’immagine si
coglieranno degli indizi che sta succedendo qualcosa d’altro, oppu­
re se i media ci offriranno la possibilità di accedere a nuovi tipi di
esperienze con quei personaggi e quei mondi.
C a p it o l o 4

Star Wars di Quentin Tarantino?


La creatività grassroots incontra il mondo dei media

Girano in sale di registrazione ricavate da garage e cantine, cre­


ano effetti speciali sui loro personal computer ed estraggono musi­
ca da Cd e da file M P3, e così i fan hanno rianimato di nuove ver­
sioni la mitologia di Star Wars (1977). Nelle parole del regista di
Star Wars or Bust, Jason Wishnow: “Questo è il futuro del cinema
- Star Wars ne è il catalizzatore”1.
La popolarità diffusa dei prodotti commerciali legati a Star
Wars ha messo delle risorse nelle mani di una generazione di registi
emergenti giovani e giovanissimi, che sono cresciuti mascherandosi
da Darth Vader per Halloween, dormendo fra le lenzuola della
Principessa Leia, combattendo con spade laser di plastica e giocan­
do con le action figure di Boba Fett. Star Wars è divenuto la loro
“leggenda”, e ora sono determinati a rifarlo in proprio.
Quando AtomFilms lanciò, nel 2003, un concorso ufficiale per
i fan film di Star Wars, le domande di partecipazione ricevute furo­
no più di 250. Nonostante in seguito l’entusiasmo si sia un po’
spento, per l’edizione del 2005 i partecipanti furono ancora più di
1502. E molti altri, che non godono dei requisiti per il concorso uf­
ficiale, fioriscono nel Web su siti non ufficiali, come TheForce.net.
Molti di questi lavori arrivano già corredati di locandine e campa­
gna pubblicitaria. Alcuni siti forniscono aggiornamenti informativi
sui film amatoriali in corso di realizzazione.
I fan sono sempre stati i pionieri delle nuove tecnologie; il loro
incanto per i mondi immaginari spesso ispira nuove forme di pro­
duzione culturale, che varia dalle maschere alle fanzine fino all’at­
tuale cinema digitale. Essi costituiscono il segmento di pubblico più
attivo, che rifiuta di accettare passivamente i contenuti offerti, ap-
132 C a p it o l o 4

pellandosi al diritto di piena partecipazione3. Non c’è nulla di nuo­


vo in tutto ciò; a essere cambiata è la visibilità della fan culture. La
rete si offre come nuovo potente canale di distribuzione per la pro­
duzione culturale amatoriale. I fan hanno creato film amatoriali da
decenni; oggi i loro prodotti diventano pubblici.
Quando Amazon ha presentato il Dvd George Lucas in Love
(1999) - forse la parodia più nota di Star Wars - , durante la prima
settimana di uscita esso ha superato nelle vendite il Dvd di Star
Wars Episode I: The Phantom Menace (1999)4. I registi fan, con
qualche ragione, considerano i loro lavori come dei “biglietti da vi­
sita” che potrebbero aiutarli a sfondare nell’industria commerciale.
Nella primavera del 1998, Internet Weekly ha dedicato un servizio
di due pagine a colori all’aspirante regista digitale Kevin Rubio: il
suo film Troops (1998) - della durata di dieci minuti e dal costo di
1200 dollari - aveva attratto l’interesse dell’industria di
Hollywood5. Troops scimmiottava Star Wars offrendo una parodia
poliziesca delle truppe dell’impero che sorvegliano il pianeta Tato-
oine senza tregua, risolvono le controversie interne, assoldano i
mercenari dello spazio e provano a sconfiggere i cavalieri Jedi.
Il successo fu tale che, come riportato dalle cronache, Rubio ri
cevette da molti studios offerte di finanziamento della sua opera
successiva. Lo stesso Lucas apprezzò a tal punto il film da proporre
al suo autore di occuparsi dei testi dei fumetti di Star Wars. Rubio
è ricomparso nel 2004 come autore e produttore di Duel Masters,
una serie non molto fortunata girata per Cartoon Network.
I film digitali amatoriali stanno al cinema come l’etica punk DIY
stava alla musica. In quel caso, la sperimentazione grassroots ha
permesso l’emergere di nuovi artisti, nuove tecniche e nuove rela­
zioni con i consumatori, sempre più coinvolti nelle pratiche main-
stream. In questo caso, i rtgisù-fan cercano una loro via nell’indu­
stria mainstream e cominciano a elaborare nuove idee - per esem­
pio l’uso dei motori dei giochi come strumenti di animazione - che
consentono di far superare ai propri prodotti i circuiti amatoriali,
intraprendendo invece la strada dei media commerciali.
Se, come qualcuno ha sostenuto, l’imporsi dei moderni mass
media ha segnato il destino delle tradizioni della cultura folk che
prosperavano nell’America del diciannovesimo secolo, il cambia­
mento mediatico attuale sta riaffermando il diritto della gente co­
mune di contribuire attivamente alle forme della propria cultura.
Come il vecchio folklore delle danze in gonnella e dei balli sull’aia,
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 133

questa nuova cultura vernacolare incoraggia un’ampia partecipa-


zione, la creatività grassroots e un’economia del dono e del baratto.
Questo è quanto accade quando i consumatori prendono i media
nelle loro mani. Certo, potrebbe non essere il modo giusto di par­
larne, poiché in una cultura popolare non c’è una divisione dei
compiti tra produttori e consumatori. All’interno di una cultura
della convergenza, ciascuno di noi è un partecipante, anche se i
partecipanti non hanno tutti lo stesso livello di reputazione e di in­
fluenza.
Può essere utile operare una distinzione tra interattività e parte­
cipazione, due termini spesso usati in modo intercambiabile ma
che, in questa sede, assumono significati differenti6. Il concetto di
interattività si riferisce ai modi attraverso i quali le nuove tecnolo­
gie sono state progettate in funzione della reazione dei consumato­
ri. Si può supporre facilmente che esistono diversi gradi di interat­
tività a seconda delle diverse tecnologie della comunicazione, pas­
sando dalla televisione, che ci autorizza solo a cambiare canale, ai
videogame che permettono ai consumatori di agire all’interno di
mondi virtuali. Tali tipi di relazioni non sono, ovviamente, defini­
tivi: l’introduzione di TiVo può fondamentalmente riplasmare il
nostro rapporto con la tv. Le limitazioni all’interattività sono di ca­
rattere tecnologico. In quasi tutti i casi, la possibilità di azione in un
ambiente interattivo è prestrutturata nella fase progettuale.
La partecipazione, invece, è determinata da norme sociali e cul­
turali. Per esempio, il livello sostenibile di conversazione all’inter­
no di un cinema dipende più dalla tolleranza degli spettatori in sala
- a sua volta legata alle abitudini di certe sottoculture e dei contesti
nazionali - che non da qualche caratteristica intrinseca della sala ci­
nematografica. La partecipazione, quindi, è più aperta, meno sog­
getta al controllo dei produttori e più a quello dei consumatori.
All’inizio, il computer si limitava ad accrescere le opportunità di
interazione degli utenti con i contenuti; fin quando operava a quel
livello, per i media era ancora relativamente facile operare la mer­
cificazione e il controllo delle comunicazioni. In seguito, tuttavia,
il Web è divenuto uno spazio partecipativo per il pubblico, com­
prendente anche approcci non previsti e non autorizzati verso i
contenuti. Sebbene questa nuova cultura partecipativa affondi le
sue radici in pratiche che si sono espanse sotto il radar dei media
per tutto il corso del ventesimo secolo, il Web ha spinto in primo
piano quei lati nascosti dell’attività culturale, forzando le imprese
134 C a p ito lo 4

ad affrontarne le conseguenze per i loro interessi commerciali.


Permettere ai consumatori di interagire con i media in situazioni
circoscritte è ben altra cosa dall’autorizzarli a partecipare alla crea­
zione e alla distribuzione di prodotti culturali secondo le loro stes­
se regole.
Grant McCracken, antropologo culturale e consulente azienda­
le, sostiene che in futuro i produttori mediatici dovranno soddisfa­
re la richiesta partecipativa dei consumatori, altrimenti correranno
il rischio di perderne la frangia più attiva e più appassionata, che si
sposterà verso mezzi più tolleranti: “Le corporation devono deci­
dere se sono, letteralmente, dentro o fuori. Si isoleranno o entre­
ranno nel gioco? Nel primo caso, potranno avere vantaggi finan­
ziari a breve termine, ma nel lungo periodo i costi da sostenere sa­
ranno pesanti”7. Come abbiamo visto, il mondo dei media è sem­
pre più dipendente dai pubblici attivi e impegnati per la pubblicità
dei suoi prodotti in un mercato sovraffollato e, in qualche caso, sta
cercando i modi di canalizzare l’energia creativa dei fan per abbat­
tere i suoi costi di produzione. Allo stesso tempo, le imprese sono
terrorizzate dall’eventuale perdita del controllo nei confronti dello
straripante potere dei consumatori, come è già successo con l’in­
troduzione di Napster e di altri programmi di file-sharing. Quando
la produttività dei fan diventa pubblica, non può più essere ignora­
ta dalle aziende, ma non può neppure essere totalmente costretta o
indirizzata dall’alto.
Si possono tracciare due risposte tipiche a queste espressioni
grassroots: iniziando dalla battaglia legale contro Napster, l’indu­
stria dei media ha attuato, in maniera progressiva, delle politiche
repressive nei confronti dei consumatori, cercando di regolamenta­
re e criminalizzare molte forme di partecipazione di cui un tempo
neppure si accorgeva. Questi sono gli atteggiamenti che chiamiamo
proibizionisti. A oggi, tale linea d’azione è stata dominante tra le
imprese dei vecchi media (film, televisione, industria musicale),
sebbene questi settori stiano iniziando, gradualmente, a rivedere le
loro posizioni. Finora i proibizionisti hanno con sé la maggior par­
te della stampa, la quale evidenzia le loro azioni legali dirette con­
tro gli adolescenti che scaricano musica o contro i fan gestori di siti
che acquistano sempre più visibilità nei media commerciali. Allo
stesso tempo, dai bordi, le aziende dei nuovi media (Internet, gio­
chi e, a un livello inferiore, le compagnie di telefonia mobile) spe­
rimentano nuovi approcci che coinvolgono i fan nella produzione
St a r Wars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 135

dei contenuti e nella promozione grassroots dei franchise. Chiame­


remo questi soggetti collaborazionisti.
Il franchise Star Wars è stato spinto tra i due estremi sia in rela­
zione al modo in cui ha gestito il rapporto con il fattore temporale
(poiché risponde all’instabilità delle tattiche dei pubblici e delle ri­
sorse tecnologiche), sia attraverso i media (visto che il suo contenu­
to si spalma su vecchi e nuovi mezzi di comunicazione). All’interno
del franchise Star Wars, Hollywood ha cercato, inizialmente, di im­
pedire le fan fiction, più tardi di rivendicarne la proprietà e alla fi­
ne di ignorarne l’esistenza; ha promosso le opere dei registi fan
dettando tuttavia loro dei vincoli artistici; ha cercato infine di col­
laborare con i giocatori per conoscere meglio i gusti da soddisfare
attraverso le modalità dei giochi massively multiplayer (M M OG).

Cultura popolare, cultura di massa e cultura convergente

A rischio di darne una visione troppo semplicistica, la storia del­


le arti americane del diciannovesimo secolo può essere raccontata
in termini di mescolanza, incontro e fusione delle tradizioni popo­
lari indigene con quelle trapiantate. La produzione culturale si ve­
rificava principalmente a livelli grassroots; le abilità creative e le ca­
pacità artistiche venivano tramandate di generazione in generazio­
ne. Storie e canti circolavano ampiamente ben oltre i loro luoghi di
origine, senza nessuna aspettativa di compenso economico; molte
delle migliori ballate o racconti popolari sono giunti fino a oggi
senza notizie sui loro autori. Quando le nuove forme di intratteni­
mento commerciale - i minstrels show o quelli in barca sui fiumi, i
circhi - emersero, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, gli
spettacoli professionali avevano come concorrenti manifestazioni
folcloristiche locali, antiche e ben radicate, come i balli sull’aia, i
canti di chiesa, gli incontri delle donne per lavorare insieme e i rac­
conti intorno al fuoco degli accampamenti. Non vi era, in effetti,
un confine preciso tra la cultura commerciale emergente e quella
popolare tradizionale. Esse si alimentavano a vicenda.
La storia delle arti americane del ventesimo secolo potrebbe es­
sere narrata in termini di sostituzione della cultura folk con la co­
municazione di massa. Alla sua nascita, l’industria dell’intratteni­
mento ebbe un approccio pacifico con le pratiche culturali folclo­
ristiche, vedendo la disponibilità di cantanti e di musicisti popolari
136 C a p it o l o 4

come un serbatoio di potenziali talenti, prevedendo nelle pratiche


della visione cinematografica brani adatti ad essere cantati colletti­
vamente e mandando in onda gare di artisti dilettanti. Le nuove ar­
ti industrializzate richiedevano enormi investimenti e quindi un
pubblico di massa. L’industria commerciale dell’intrattenimento
pretendeva standard di perfezione tecnica e competenza professio­
nale che pochi artisti dilettanti erano in grado di raggiungere. Le
imprese commerciali svilupparono potenti infrastrutture per ga­
rantire una diffusione capillare dei loro prodotti. Gradualmente, la
cultura commerciale imparò a produrre storie, immagini e suoni
che interessavano maggiormente il pubblico.
Le pratiche della cultura folk furono spinte nell’ombra, pur esi­
stendo ancora compositori e cantanti dilettanti, poeti amatoriali
che scribacchiavano versi, pittori della domenica che creavano i lo­
ro schizzi, cantastorie sopravvissuti e villaggi con piazze da ballo.
Allo stesso tempo, attorno ai contenuti massmediatici emergevano
le prime comunità grassroots di fan. Alcuni studiosi dei media re­
stano aggrappati alla distinzione tra cultura di massa (una categoria
della produzione) e cultura popolare (una categoria del consumo),
sostenendo che quest’ultima si realizza nel passaggio dei prodotti
della cultura di massa nelle mani dei consumatori. E ciò che accade
quando una canzone trasmessa dalla radio diventa così legata a una
serata particolarmente romantica che due giovani amanti decidono
di chiamarla “la nostra canzone”, o quando un fan è così affascina­
to da una serie televisiva da scrivere storie originali che ne coinvol­
gono i personaggi. In altre parole, la cultura popolare è il risultato
della cultura di massa una volta reintrodotta nel bacino della cultu­
ra folk. L’industria culturale non aveva mai dovuto affrontare il
problema dell’esistenza di questa economia alternativa perché, per
la maggior parte, era “privata” e i suoi prodotti circolavano solo
entro cerchie ristrette di vicini e amici. I filmini domestici non han­
no mai costituito una minaccia per Hollywood fin quando sono ri­
masti rinchiusi tra le quattro mura di casa.
La storia delle arti americane del ventunesimo secolo può essere
raccontata in termini di una riemersione pubblica della creatività
grassroots, poiché la gente comune prende possesso delle nuove tec­
nologie grazie alle quali conserva i contenuti dei media, li annota,
se ne appropria e li rimette in circolazione. Probabilmente, questa
tendenza ha avuto inizio con la fotocopiatrice e il desktop pu-
blisbing, o forse con la rivoluzione della videocassetta, che ha dato
St a r W a rs di Q u e n t in Ta r a n t i n o ? 137

pubblico accesso a strumenti di produzione filmica e ha consentito


che in ogni casa ci fosse una videoteca privata. Questa rivoluzione
creativa è culminata, almeno per ora, nel Web. Il lavoro artistico è
ancora più divertente e significativo se diviene condivisibile con gli
altri, e la rete, costruita per la collaborazione alPinterno della co­
munità scientifica, fornisce un’infrastruttura per la condivisione del­
le opere casalinghe degli americani comuni. Quando si dispone di
un sistema distributivo affidabile, il rifiorire della produzione di cul­
tura folk diviene immediato. Molti prodotti amatoriali sono davve­
ro scadenti, ciò nonostante una cultura nascente ha bisogno di spazi
creativi anche per artisti discutibili, che si rendano consapevoli del
proprio lavoro grazie alla risposta degli altri e che possano quindi
migliorare le proprie performance. Dopo tutto, molti dei contenuti
dei mass media sono, sotto quasi tutti gli aspetti, altrettanto pessimi,
ma le aspettative di qualità professionale rendono tale ambiente me­
no ospitale per i produttori che vogliano imparare e migliorarsi. Al­
cuni lavori amatoriali, in compenso, saranno ottimi prodotti, e gli
autori migliori verranno reclutati dall’industria commerciale
dell’intrattenimento o dal mondo artistico. Molto di questo mate­
riale sarà abbastanza buono da attrarre l’interesse di qualche piccola
cerchia, ispirare la creatività di altri, e fornire nuovi contenuti che,
revisionati da mani esperte, diverranno migliori. Questo è il modo
in cui funziona il processo folk e la convergenza grassroots rappre­
senta esattamente il processo folk accelerato e ampliato per l’era di­
gitale.
Dato tutto ciò, non dovrebbe sorprenderci il fatto che molte
creazioni del pubblico prendano come modello, dialoghino con o
reagiscano contro i media mainstream, o ripropongano materiali
presi a prestito dalla cultura commerciale. La convergenza grass­
roots è incarnata, per esempio, dal lavoro dei modificatori di gio­
chi, che si impossessano di codici e strumenti grafici dei giochi in
commercio per produrne versioni amatoriali. O nella produzione
digitale di film che spesso deriva direttamente dal campionamento
di materiale già sul mercato. O nella pratica dell’adbusting, che
sovverte il sistema iconografico di Madison Avenue per lanciare
messaggi contro le grandi aziende e il consumismo.
Avendo sepolto la vecchia cultura folk, questo tipo di cultura
commerciale diventa la cultura popolare. La cultura folk americana
più antica costituiva la somma di molte tradizioni nazionali; i mass
media moderni si appropriano a loro volta della cultura folk e la
138 C a p it o l o 4

nuova cultura convergente si costruirà con i prestiti dai vari con­


glomerati mediatici.
Il Web ha reso manifesti gli accordi taciti che avevano garantito,
per tutto il corso del ventesimo secolo, la quieta coesistenza della
cultura commerciale con quella partecipativa. Nessuno si curava
davvero della circolazione di materiale fotocopiato airinterno dei
fan club, oppure dei nastri registrati e passati da amico ad amico.
Le grandi aziende erano al corrente, in astratto, di questi scambi
diffusi ma non ne conoscevano, concretamente, i singoli artefici.
Seppure avessero saputo i loro nomi, del resto, non avrebbero fatto
irruzioni notturne a casa dei colpevoli. Quando le transazioni ol­
trepassarono le mura domestiche, iniziarono invece a rappresenta­
re una minaccia pubblica e visibile al controllo assoluto che le im­
prese del mondo della cultura volevano esercitare sulla proprietà
intellettuale.
Con uno stretto giro di vite, rappresentato dal Digital Millen­
nium Copyright Act del 1998, la legge statunitense sulla proprietà
intellettuale è stata riscritta in accordo con le istanze dei grandi
produttori - non per garantire incentivi economici a singoli artisti,
ma al fine di proteggere gli enormi investimenti che le aziende me­
diatiche hanno riversato su prodotti di intrattenimento a marchio
registrato; non per una tutela del diritto d’autore a durata limitata,
in modo tale da garantire la libera circolazione delle idee quando
siano ancora utili al bene comune, ma perché il copyright sia una
tutela eterna; non per l’ideale della comunione culturale, ma per
quello della proprietà intellettuale. Come nota Lawrence Lessig, la
legge è stata riscritta in modo tale che “nessuno potrà fare a Disney
Corporation quello che Walt Disney fece ai fratelli Grimm”8. Una
delle modalità con cui gli studios hanno manifestato questa più am­
pia volontà di tutela del copyright sono lettere ai creatori culturali
dilettanti in cui si intima loro di togliere le loro opere dal Web (ce-
ase and desisi letter). Il Capitolo 5 descrive cosa accadde quando
Warner Bros, inviò lettere di invito a cessare e a desistere dalla loro
attività ai giovanissimi fan di Harry Potter (1998). In situazioni del
genere, Hollywood spesso millanta un controllo molto più forte di
quello che potrebbe legalmente esercitare, ma chi rischia di perde­
re la casa o i soldi messi da parte per l’università dei figli è facile
che ceda, invece di andare allo scontro con i legali di una grande
azienda. Dopo tre decenni di dispute giudiziarie di questo genere,
infatti, non esiste ancora una giurisprudenza utile a chiarire sino a
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t i n o ? 139

che punto la fan fiction sia proteta dalla legge dell’uso equo (fair
use).
I tentativi di chiudere le fan community si muovono in contro­
tendenza rispetto a ciò che abbiamo appreso fin qui a proposito dei
nuovi tipi di relazioni affettive che i pubblicitari e le aziende media-
tiche vogliono instaurare con i loro consumatori. Da molti decen­
ni, le aziende hanno cercato di vendere prodotti marchiati, perché
gli stessi consumatori diventassero i loro testimonial pubblicitari. Il
marketing ha trasformato i nostri bambini in pubblicità ambulanti
e parlanti che indossano loghi aziendali sulle loro magliette, cucio­
no scritte sui loro zaini, tappezzano di adesivi i loro armadietti e
riempiono di poster le loro stanze; è tuttavia proibito loro, secon­
do la legge, pubblicare quei loghi sulle loro home page. Per qualche
strana ragione, se un consumatore sceglie quando e dove esporre
quelle immagini, la sua partecipazione attiva alla circolazione del
brand improvvisamente si trasforma in oltraggio morale e minaccia
il benessere economico dell’azienda.
I giovani di oggi - la cosiddetta “Napster generation” - non so­
no gli unici confusi sui confini tra lecito e illecito; il mondo dei me­
dia sta dando segnali contrastanti, perché davvero non riesce a de­
cidere che tipo di relazione instaurare con questo nuovo tipo di
consumatori. Ci viene chiesto quindi, in qualche modo, di guarda­
re ma non toccare, comprare ma non usare i contenuti mediatici.
Questa contraddizione è avvertita forse più acutamente quando ri­
guarda i contenuti cult. Un prodotto cult di successo si costruisce
corteggiando i fan e i mercati di nicchia; un successo generale è vi­
sto, dai produttori, come derivante dal tenere a distanza il pubbli­
co. Il sistema si regge su accordi taciti tra produttori e consumatori.
Il lavoro che svolgono i fan nel far crescere il valore di una proprie­
tà intellettuale non potrà mai essere riconosciuto pubblicamente se
gli studios di Hollywood pensano di essere l’unica fonte del valore
di quella proprietà. Internet, comunque, li ha smascherati, dal mo­
mento che i siti dei fan oggi sono visibili a chiunque sappia utiliz­
zare Google.
Alcune figure che appartengono al mondo delle aziende dei me­
dia - per esempio Chris Albrecht, che gestisce il concorso ufficiale
Star Wars di AtomFilm, o Ralph Koster, ex giocatore di MUD che
ha contribuito alla realizzazione del gioco Star Wars Galaxies
(2002) - provengono da queste comunità grassroots e nutrono per
esse un profondo rispetto. Essi vedono i fan come una forza rige­
140 C a p it o l o 4

nerante per i franchise stagnanti e in grado di fornire mezzi a basso


costo per la produzione di nuovi contenuti. I dirigenti del loro ca­
libro spesso devono combattere, all’interno dello loro stesse azien­
de, contro chi vorrebbe mettere al bando la creatività grassroots.

“Ragazzo, diventeremo Jedi!”

George Lucas in Love ritrae quello che sarà il futuro maestro


mediatico nei panni di uno studente di cinematografia della Uni­
versity of Southern California particolarmente impreparato, che
non riesce a partorire una buona idea per un compito che gli è stato
assegnato nonostante l’ambiente che lo circonda sia ricco di sugge­
stioni narrative. Il suo compagno di stanza squilibrato si affaccia
minaccioso dal cappuccio della sua veste e sgrida Lucas, che non
coglie “questa gigantesca forza cosmica, un campo energetico pro­
dotto da tutti gli esseri viventi”. Il sinistro vicino di casa, suo prin­
cipale nemico, veste tutto di nero e proclama, con un respiro ansi­
mante: “La mia sceneggiatura è completa. Presto sarò il dominato­
re dell’universo dell’intrattenimento”. Mentre Lucas corre a lezio­
ne, incontra un suo sfacciato amichetto che si vanta della sua mac­
china sportiva truccata e il suo compagno dalla faccia pelosa che
grugnisce ogni volta che sbatte la testa contro il cofano mentre cer­
ca di fare qualche semplice manutenzione. Il suo professore, un uo­
mo minuto, mormora frasi oscure. Tutto ciò non basta a ispirare il
giovane Lucas, fin quando egli non incontra una bella ragazza con
crocchie di capelli ai due lati della testa e si innamora follemente di
lei. Purtroppo, la storia d’amore si rivelerà impossibile quando il
giovane scoprirà che la ragazza che ama è sua sorella, di cui aveva
perso ogni traccia da molto tempo.
George Lucas in Love è, senza dubbio, una parodia di Shakespe­
are in Love (1998) e dello stesso Star Wars. Si tratta, inoltre, di un
tributo da parte di una generazione di studenti dell’USC a un’altra
precedente. Come spiega uno degli autori, il ventiquattrenne Jo ­
seph Levy, recentemente laureato nello stesso ateneo del regista di
Star Wars: “Lucas è naturalmente il guru di USC... Non a caso ab­
biamo girato la nostra pellicola nel George Lucas Instructional
Building. Lucas è molto solidale con gli studenti di cinematografia
e li aiuta fornendo loro gli strumenti tecnologici”9. Ciò che rende
il film così audace è tuttavia il fatto che, in esso, Lucas viene abbas­
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 141

sato al livello degli altri innumerevoli registi amatoriali. Così facen­


do, la pellicola aiuta a sfumare il confine tra il mondo fantastico
dell’opera ambientata nello spazio (“M olto, molto tempo fa, in una
galassia molto, molto lontana”) e il mondo reale della vita quoti­
diana (dei bizzarri compagni di stanza, dei vicini arroganti e degli
insegnanti incomprensibili). Il protagonista è sfortunato in amore,
impreparato in regia eppure, in qualche modo, riesce a cavarsela e
a creare una delle più mastodontiche opere cinematografiche di
tutti i tempi. George Lucas in Love ci offre un ritratto di un artista
da giovane geek.
Si potrebbe mettere a confronto questa rappresentazione mini­
malista di Lucas - Pauteur visto come amateur - con il modo in cui
il sito del regista fan Evan Mather (http://www.evanmather.com/)
tratta Vamateur come un auteur emergente10. Lungo una colonna
del sito si trova la filmografia, che elenca l’intera produzione di M a­
ther, fin dai tempi del liceo, così come una lista dei vari quotidiani,
riviste, siti e stazioni radio e tv che hanno parlato della sua attività -
La Repubblica, Le Monde, The New York Timesy Wired, Entertain­
ment Weekly, CNN, NPR e così via. Un altro spazio informativo
contiene aggiornamenti sui lavori in corso. Sono presenti anche no­
tizie sui festival cinematografici che proiettano i suoi film e tutti i
premi vinti dall’autore. Più di 19 creazioni digitali sono documenta­
te con foto, descrizioni e link a siti per il download in vari formati.
Un altro link permette di accedere a una brochure patinata a co­
lori e disegnata professionalmente, che documenta la preparazione
di Les Pantless Menace (1999) e include anche immagini del set e
delle varie attrezzature usate, riproduzioni di scenari, appunti, co­
pioni, spiegazioni dettagliate sulla realizzazione degli effetti specia­
li, della colonna sonora e dell’editing del film (Figura 4.1). Appren­
diamo così, per esempio, che alcuni dialoghi del film erano presi
direttamente da contenuti audio incorporati dentro i giocattoli
HASBRO di Star Wars. Una biografia svela alcuni retroscena:

Evan M ather ha trascorso buona parte della sua infanzia girando il sud
della Lousiana con una camera muta 8 millimetri, riprendendo scene
di autostop e di varia um anità... Come architetto del paesaggio, Mr.
M ather passa i suoi giorni a progettare ambienti urbani e naturali
nell’area di Seattle. Di notte, Mr. M ather esplora il regno del cinema
digitale ed è il celebre autore di corti che fondono il disegno a mano
tradizionale e le tecniche di animazione stop-motion con la flessibilità
e la resa realistica di effetti speciali realizzati al computer.
142 C a p ito lo 4

Figura 4.1 Les Pantless Menace del regista fan Evan Mather crea una com­
media anarchica con l’uso creativo delle riproduzioni giocattolo di
personaggi di Star Wars. (Riprodotto per concessione dell3artista.)

La peculiarità del suo background e delle sue tecniche produtti­


ve, tuttavia, contrasta con il sito web, incredibilmente elaborato,
complesso e professionale. Esso costituisce un esempio illustrativo
di quel che succede alla nuova cultura amatoriale quando si rivolge
a un pubblico sempre più vasto.
La sezione Fan Theater del sito Theforce.net, per esempio, con­
tiene i commenti dei registi dilettanti ai propri lavori. I creatori di
When Senators Attack W (1999), per esempio, offrono “note a cor­
redo di ogni singola scena” del film: “Nelle prossime 90 pagine cir­
ca potrete dare uno sguardo a quello che pensavamo mentre gira­
vamo una particolare ripresa e alle tecniche utilizzate, troverete le
spiegazioni su alcune delle scene più complesse e ogni altra cosa ci
sia venuta in mente”11. Materiale di questo genere imita la tenden­
za, diffusa tra le ultime pubblicazioni in Dvd, di includere le scene
alternative, i brani tagliati, i copioni e i commenti del regista. Molti
siti web contengono informazioni sui fan film in produzione, com­
presi il girato preliminare, la sceneggiatura e i trailer di film che po­
trebbero non essere mai portati a termine. Quasi tutti i registi ama­
toriali preparano locandine e manifesti pubblicitari, con program­
mi come Adobe Pagemaker e Adobe Photoshop. A volte produco­
no dei trailer davvero complessi. Tutti questi mezzi a disposizione
incentivano la cultura del cinema amatoriale.
Gli articoli sul making-of permettono la condivisione dei consi­
gli tecnici; questo tipo di informazione contribuisce a migliorare la
qualità dei lavori all’interno della comunità. I trailer rispondono
anche a sfide specifiche del Web come canale di distribuzione: oc­
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 143

corrono diverse ore per scaricare dei film digitali di lunghezza me­
dia mentre i trailer, più brevi e a bassa risoluzione, permettono agli
utenti di saggiare più velocemente i contenuti.
Tutta la pubblicità intorno alle parodie di Star Wars serve da
promemoria per la qualità più caratteristica di questi film amato­
riali: Tessere così pubblici. L’idea che i produttori dilettanti possa­
no avere un seguito globale è in conflitto con la marginalizzazione
storica della produzione mediatica grassroots. Nel suo libro Reel
Family: A Social History of Amateur Film (1995), la storica del ci­
nema Patricia R. Zimmerman offre un resoconto convincente della
produzione cinematografica non professionale negli Stati Uniti,
analizzando l’incontro tra questa e il sistema di intrattenimento di
Hollywood. Mentre l’arte filmica amatoriale è sempre esistita, fin
dall’avvento del cinema, e mentre i critici l’hanno spesso promossa
come alternativa grassroots rispetto al complesso produttivo com­
merciale, i suoi prodotti sono rimasti, essenzialmente, “filmini do­
mestici”, e in molti sensi del termine: 1) venivano proiettati soprat­
tutto in privato (e più spesso, in casa), mancando ogni possibile ca­
nale di distribuzione pubblica; 2) erano molto spesso documentari
di vita familiare e domestica; 3) venivano percepiti come tecnica-
mente imperfetti e di interesse marginale oltre Pambito ristretto
della loro “produzione”. I critici sottolineavano la mancanza di ar­
te e la spontaneità del film amatoriale in contrasto con la raffina­
tezza tecnica e la sofisticatezza estetica dei film commerciali. Zim­
merman conclude: “Il film amatoriale si era gradualmente infilato
nelle abitudini della famiglia. Gli standard tecnici, le norme esteti­
che, le pressioni sociali e gli obiettivi politici relegano il suo appor­
to culturale a un hobby privato e quasi stupido”12. Scrivendo nei
primi anni Novanta, Zimmerman non aveva motivo per pensare
che la videocamera e il VCR potessero determinare un cambiamen­
to significativo della situazione. Le limitazioni tecniche del me­
dium rendevano difficile l’editing amatoriale dei film, e gli unici
mezzi di pubblicazione erano controllati da produttori di media di
tipo commerciale (è il caso di programmi come America’s Funniest
Fìome Videos, 1990).
La produzione digitale altera molte delle condizioni che aveva­
no reso marginale il ruolo della precedente produzione amatoriale:
il Web le fornisce un canale di visibilità che la libera da uno spazio
privato ristretto; l’editing digitale è molto più semplice di quello
Super-8 o video, e consente un intervento più diretto da parte
144 C a p ito lo 4

dell’artista sul proprio lavoro; con un semplice Pc, da casa è possi­


bile per gli amatori emulare gli effetti speciali utilizzati nei grandi
successi di Hollywood come Star Wars. Il cinema digitale costitui­
sce un nuovo capitolo nella storia complessa delle interazioni tra
produzione filmica amatoriale e media commerciali. Questi film ri­
mangono amatoriali nel senso che sono realizzati a basso costo,
prodotti e distribuiti in contesti non commerciali e creati da non
professionisti (anche se spesso aspiranti tali). Tuttavia, molti degli
altri tratti tipici della produzione amatoriale sono scomparsi. I film
domestici sono diventati film pubblici, nel senso che, fin dall’idea­
zione, sono destinati a un pubblico che oltrepassa la ristretta cer­
chia di amici e conoscenti dell’autore; anche il loro contenuto è
pubblico, dato che implica la rielaborazione di mitologie popolari
e dialoga idealmente con il cinema commerciale.
I creativi del digitale accettano la sfida di Star Wars per molt
ragioni. Così ha spiegato uno degli autori di George Lucas in Love:
“La nostra unica intenzione... era fare qualcosa che avrebbe porta­
to agenti e produttori a infilare le cassette nei loro VCR, anziché
buttarle via”13. Il regista di Kid Wars (2000), Dana Smith, era un
quattordicenne che aveva acquistato da poco una videocamera e
decise di rifare scene di Star Wars coinvolgendo il fratellino più
piccolo e i suoi amichetti, armati di pistole ad acqua e fucili di pla­
stica. The Jedi who Loved Me (2000) fu girato dagli invitati di un
matrimonio in omaggio agli sposi, che erano degli appassionati di
Star Wars. Alcuni film sono nati da progetti scolastici, come Mac­
beth (1998), opera di due studenti liceali - Bienvenido Concepcion
e Don Fitz-Roy, che in modo creativo hanno annullato i confini fra
Lucas e Shakespeare. Hanno messo in scena duelli con spade laser
nei corridoi della scuola, correndo il rischio di danneggiare gli ar­
madietti. Hanno fatto decollare la Millennium Falcon in palestra,
anche se hanno dovuto dovuto montarla sopra le cheerleader che
stavano provando proprio nel giorno in cui si girava quella precisa
scena. Altri film sono nati da progetti collettivi di vari fan club di
Star Wars. Boba Fett: Bounty Trail (2002), per esempio, fu realiz­
zato per un concorso indetto in occasione della convention di Lu-
casfilm a Melbourne, Australia. Ogni membro del cast ha cucito da
sé i propri abiti basandosi sull’esperienza acquisita con mascherate
e feste in costume ispirate a opere di fantascienza. I motivi perso­
nali che guidano gli autori a realizzare film come questi passano in
secondo piano, comunque, nel momento in cui vengono distribuiti
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 145

via Web. Se questi prodotti riescono ad attirare l’interesse di un


pubblico mondiale, non è perché siamo interessati al voto che
Kienvenido Concepcion e Don Fitz-Roy hanno ottenuto nel loro
compito su Shakespeare. Piuttosto, quello che motiva spettatori co­
sì distanti a guardare gli stessi film è la passione comune e condivisa
per l’universo di Star Wars.
I cineasti dilettanti producono contenuti di qualità commercia­
le, o quasi, con budget irrisori. Rimangono dilettanti, nel senso che
non ricavano dai loro lavori profitti, come i dilettanti dei giochi
olimpici, ma sono in grado di generare effetti speciali che solo dieci
anni fa costavano una fortuna. Oggi i registi amatoriali possono far
scivolare uno sguscio sulla superficie dell’oceano, far sollevare la
polvere a un landspeeder che vola sul deserto o riprodurre esplo­
sioni di oggetti colpiti da raggi laser lanciati dalle navi. Molti fan
hanno provato a riprodurre animazioni del personaggio di Jar Jar
inserendole nei propri film con risultati variabili. Tuttavia, è la bat­
taglia tra spade laser a essere diventata un “must” della produzione
amatoriale. Quasi tutti i registi, infatti, sono stati chiamati a dimo­
strare, attraverso questa scena, la loro abilità nell’ottenere il parti­
colare effetto. Molti dei corti di Star Wars, in effetti, consistono in
poco più che qualche scontro di spade, girato in cantine e semin­
terrati, parcheggi vuoti, corridoi scolastici, centri commerciali o,
più esoticamente, sullo sfondo di rovine medievali (riprese durante
le vacanze). Shane Faleux ha adottato un approccio open source
per completare la sua opera di 40 minuti, Star Wars: Révélations
(2005), uno dei lavori recenti di questo filone che ha avuto il mag­
gior successo (Figura 4.2). Come ha spiegato Faleux: uRévélations
è stato creato per permettere ad artigiani e tecnici di dare prova
delle loro abilità professionali, e di avere la possibilità di realizzare
un sogno. Forse - chi lo sa? - il film ha aperto gli occhi alla grande
industria su ciò che può essere fatto con piccoli budget, persone
appassionate e talenti sconosciuti”14. Il progetto si è avvalso di cen­
tinaia di collaboratori da ogni parte del mondo, tra cui più di trenta
artisti della computer graphics, che vanno da professionisti degli
effetti speciali a giovani promettenti. Quando il film fu messo in re­
te, venne scaricato da più di un milione di utenti.
Come sono pronti a sottolineare i produttori amatoriali, sia Lu­
cas che Spielberg, da giovanissimi, hanno girato film in Super-8,
definendo in seguito quest’esperienza molto influente per la loro
carriera. Anche se questi prodotti non sono reperibili in commer-
146 C a p it o l o 4

Figura 4.2 Materiale pubblicitario creato per StarWars: Révélations, opera di


quaranta minuti realizzata con il contributo di centinaia di fan
creatori di video in tutto il mondo.

ciò, di alcuni di essi si è trattato in modo dettagliato nelle varie bio­


grafie degli autori e in alcuni servizi giornalistici. Questi “ragazzi­
ni” creativi hanno accolto con prontezza le potenzialità del digita­
le, non solo come mezzo per abbattere i costi produttivi dei loro
film, ma anche come banco di prova per nuovi talenti. Lucas, per
esempio, ha dichiarato alla rivista Wired: “Alcuni degli effetti spe­
ciali che abbiamo ricreato per Star Wars erano realizzati con M a­
cintosh, su un laptop, in un paio d’ore di lavoro... Avrei potuto gi­
rare tranquillamente la serie tv del giovane Indiana Jones in H i-8...
Oggi è possibile acquistare una videocamera Hi-8 con poche mi­
gliaia di dollari, aggiungendo un software e un computer. Con me­
no di 10.000 dollari avete uno studio cinematografico. Non c’è
niente che vi impedisca di creare prodotti validi e stimolanti con
questi mezzi”15. La retorica di Lucas sulle potenzialità della produ^
zione digitale ha catturato la fantasia dei registi amatoriali, che lo
hanno quindi seguito sul suo stesso terreno.
Come ha spiegato Clay Kronke, uno studente della Texas A&M
University, autore di The New World (1999): “Questo film è stato
una prova d’amore. Un’avventura all’interno di un nuovo me­
dium... Sono cresciuto con la passione per le spade laser e il mito
dello Jedi, fino a quando non ho potuto mettere le mani su un soft­
ware che mi ha permesso di diventare ciò che fino ad allora avevo
sempre ammirato a distanza. A quel punto, una vaga idea ha co­
minciato a diventare possibile... Ragazzo, diventeremo Jed i”16.
Kronke dichiara pubblicamente di aver realizzato il suo film con un
budget di 26,79 dollari, usando costumi e articoli vari recuperati,
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 147

perlopiù, da preesistenti collezioni di attrezzature di Star Wars. Il


problema più grande affrontato sul set era dato dalle spade laser
che andavano in frantumi e dagli effetti sonori, che erano “il suono
di un attaccapanni contro una torcia di metallo, il mio forno a mi­
croonde e le mie numerose cadute sul pavimento”.
Il marketing di massa di Star Wars ha fornito, involontariamen­
te, molti degli strumenti di supporto necessari a queste produzioni.
Star Wars è, per vari aspetti, l’esempio principe di convergenza me-
diatica in azione. La scelta di Lucas di ritardare il suo compenso
per il primo film di Star Wars, in cambio di una percentuale sui di­
ritti secondari, è stata ampiamente citata come punto di svolta
nell’emergere di una nuova strategia di produzione e distribuzione.
Grazie a essa Lucas ha fatto soldi a palate e Twentieth Century Fox
ha imparato una lezione preziosa. Si ritiene che le action figure di
Kenner siano state la chiave per ridefinire il collegamento tra me­
dia e industria dei giocattoli, mentre il tema musicale di John W il­
liams ha contribuito alla ripresa del mercato degli album di colon­
ne sonore. Il ricco universo narrativo della saga di Star Wars ha for­
nito innumerevoli immagini, icone e oggetti riproducibili in
un’ampia varietà di forme. Malgrado gli anni che separano la data
di uscita di Return ofthe Jedi (1983) da quella di The Phantom Me­
nace (1999), Lucasfilm ha continuato a trarre profitti dal franchise
Star Wars grazie alla produzione di racconti originali e fumetti, la
distribuzione di videocassette e audiocassette, il marketing ininter­
rotto dei giocattoli e del merchandise, nonché per mezzo del man­
tenimento di un complesso apparato pubblicitario, che include una
curata newsletter mensile destinata ai fan.
Molti dei giochi e degli oggettini creati attorno al contenuto fil­
mico sono banali se messi a confronto con i tipi di narrazione
transmediale descritti nel capitolo precedente: essi, infatti, non ag­
giungono che pochissima informazione al franchise in ampliamen­
to. Ma hanno acquistato significati più profondi quando sono di­
ventati strumenti per il gioco dei bambini o per la produzione di
film digitali. I produttori amatoriali spesso fanno uso di costumi e
articoli reperibili in commercio, acquisiscono musiche dagli album
di colonne sonore e da suoni estratti dai video o dai giochi di Star
Wars, e apprendono le tecniche degli effetti speciali dai documen­
tari televisivi e dalle riviste commerciali. Per esempio, gli autori di
Duel hanno rivelato le fonti della loro colonna sonora: “Abbiamo
campionato molti dei suoni per le spade dal laserdisc Special Edi-
148 C a p ito lo 4

tion di The Empire Strikes Back, e pochi altri da A New Hope. Jedi
è stato quasi inutile, dato che i duelli con le spade nel film erano
quasi sempre accompagnati da sottofondi musicali. I rumori dei
colpi sono tratti dal film Predatori delVarca perduta, e c’è un suono
- quello della corsa sulla sabbia - che abbiamo estrapolato da
Lawrence d'Arabia. La musica viene a sua volta dalla colonna sono­
ra di The Phantom Menace”17. La reperibilità dei numerosi prodot­
ti complementari ha stimolato questi produttori, fin dalla loro in­
fanzia, a giocare con la fantasia nell’universo di Star Wars. Un os­
servatore della cultura fan ha spiegato: “È molto probabile che tut­
ti coloro che sono stati bambini negli anni Settanta abbiano discus­
so nel cortile della scuola su chi avrebbe interpretato il ruolo di
Han, abbiano perso una action figure di Wookie nel giardino die­
tro casa e fantasticato di sparare quell’ultimo colpo alla Death Star.
M olto probabilmente, i sogni ad occhi aperti e i discorsi di quei
bambini non si concentravano su William Wallace, Robin Hood o
Ulisse, ma su duelli con le spade laser, uomini congelati e padri di­
menticati. In altre parole, parlavamo della nostra leggenda”18. Le
action figure furono, per quella generazione, dei precursori degli
avatar, che hanno permesso loro di impersonare un cavaliere Jedi
o un cacciatore di taglie intergalattico. Manipolando fisicamente i
personaggi, i bambini potevano ricreare le loro storie.

P ixelvision e M a c h in im a

Le cupe immagini di Toy Soldier (1996) di Kyle Cassidy evocano va­


ghi ricordi d'infanzia. Questo breve film narra le ansie e le speranze
di un ragazzino che attende notizie del padre, soldato in Vietnam. I
problemi degli adulti influenzano fortemente i suoi rituali e le sue pra­
tiche quotidiane, mentre gioca nel cortile di casa con i soldatini di
plastica verde e riflette sul destino di quelli che sono stati falciati dal
tosaerba, quando guarda il notiziario dallo schermo tremolante della
tv con sua madre, e attende la lettera successiva del papà. Toy Soldier
assume il tono intimistico di un film ino amatoriale, pur essendo stato
ricostruito decenni dopo gli avvenimenti raccontati, sulla base dei ri­
cordi del regista. Cassidy girò la pellicola, apprezzatissima dalla criti­
ca, con la sua telecamera Pixelvision 2000, che ha l'obiettivo e il cor­
po di plastica, funziona con sei batterie di tipo AA e registra immagini
su normali audiocassette. La Pixelvision, di Fisher-Price, fu messa in
commercio dal 1987 al 1989 al prezzo di 100 dollari, divenendo la
; far W ars di Q u e n t i n Ta r a n t in o ? 149

Senza clamori, un numero significativo di registi giovanissimi è


ornato alle action figure, e le ha usate come strumenti per i suoi
irimi lavori creativi. Gli autori di Toy Wars (2002), Aaron Halon e
fason VandenBerghe, hanno ideato il progetto ambizioso di creare
in remake, scena per scena, di Star Wars: A New Hope, recitato in-
egralmente da action figure. Film di questo genere richiedono
grande inventiva e ingegnosità da parte dei produttori amatoriali.
)amon Wellner e Sebastian O ’Brien, che si sono autodefiniti “ac-
ion figures nerds”, da Cambridge, Massachussets, hanno messo in
liedi Probot Productions con l’obiettivo di “rendere i giocattoli vi-
/i come ci sembravano essere da bambini”. Il sito web di Probot
'www.probotproductions.com) offre la seguente spiegazione del
oro processo produttivo:

La prima cosa che devi sapere su Probot Productions è che siamo al


verde. Spendiamo tutti i nostri soldi in giocattoli. Ci resta un budget
molto limitato per gli effetti speciali, così dobbiamo arrangiarci a la­
vorare con la spazzatura... Per le scene usiamo cesti per il pane, un tu­
bo ricavato da un asciugacapelli, scatole di cartone, un pezzo di scarto
di un distributore automatico e contenitori del latte. Le grandi scatole
di polistirolo che contengono i componenti degli stereo sono perfette
per creare ambienti simili a quelli delle astronavi!19

videocamera più economica che sia mai stata prodotta. Essa ha un


obiettivo fisso che, come un apparecchio a foro stenopeico, teorica­
mente ha una messa a fuoco assoluta che varia da zero a infinito, ma
in pratica dà il suo meglio quando l'oggetto ripreso si trova a breve d i­
stanza dalla macchina. La Pixelvision può filmare anche in condizio­
ni di scarsa illuminazione, ma in questo caso le riprese risultano quasi
sempre opache e slavate. Strumento ideato per i bambini, non riscos­
se mai un grande entusiasmo da parte loro per via della qualità dei fil­
mati prodotti, che risultavano troppo diversi da quelli visti in tv. L'im­
magine della Pixelvision 2000 si compone di 2000 puntini in bianco
e nero, perciò è molto meno definita rispetto a quella standard televi­
siva con i suoi 200.000 pixel.
Nonostante tutto ciò, la Pixelvision ha trovato posto nei cuori e tra le
mani di un crescente numero di registi amatoriali e di avanguardia,
che la amano per le stesse ragioni per cui viene detestata dal suo tar­
get originario di mercato. Le immagini instabili, opache e sgranate so­
no diventate il simbolo dell'autenticità dei media alternativi. Gli en-
150 C a p it o l o 4

Nessun regista digitale ha spinto l’estetica del cinema di action


figure così lontano come Evan Mather. I suoi film, come Godzilla
versus Disco Landò, Kung Fu Kenobi’s BigAdventure e Quentin Ta­
rantino9s Star Wars, rappresentano altrettante avventure senza re­
gole lungo la cultura popolare. Le scene di azione di Kung Fu Ke­
nobi’s BigAdventure si inscenano sullo sfondo di ambienti presi dal
film, disegnati a mano o costruiti con i mattoncini LEGO. L’eclet­
tica ed evocativa colonna sonora è presa a prestito da Neil Dia­
mond, Mission Impossible (1996), Pee Wee’s BigAdventure (1985)
e A Charlie Brown Christmas (1965). Disco Landò fa ballare tutti,
dall’ammiraglio Ackbar alle ragazze dalla pelle blu di Jabba, e tutte
le sue battute provengono dalla colonna Sonora di The Empire
Strikes Back. Mace Windu si medievalizza nel consiglio degli Jedi,
le battute sono quelle di Samuel Jackson in Pulp Fiction (1994) pri­
ma della sparatoria. La videocamera si ferma sulla testa calva di un
morente Darth Vader mentre ansima e sussurra “rosebud”. Oltre
che per il loro umorismo irriverente e per il ritmo rapidissimo, i
film di Mather si distinguono per la loro ricchezza visiva. Lo stile
frenetico di Mather è diventato sempre più personale, di lavoro in
lavoro, attraverso la sperimentazione continua di combinazioni di­
verse delle forme di animazione, immagini intermittenti e masche­
rate, movimenti di camera veloci.

tusiasti della Pixelvision amano la qualità "punta e gira" della macchi­


na, che permette ai neofiti di cominciare, con poca pratica, a eseguire
lavori creativi. Gli artisti emergenti possono così concentrare le loro
energie nel comunicare idee piuttosto che impiegare il loro tempo ad
apprendere l'uso della tecnologia. Un giocattolo un tempo costoso è
diventato, in questo modo, uno strumento incredibilmente economi­
co.
La parabola della Pixelvision è l'equivalente artistico un culto del car­
go: un rottame tecnologico, abbandonato dal suo produttore, che ri­
prende a vivere tra mani impreviste ma piene di passione. Oggi, dopo
due decenni di rielaborazione, i suoi amanti hanno trasformato quei
"d ifetti" in qualità e sviluppato una nuova modalità espressiva basata
sulle sue caratteristiche uniche. I fan della Pixelvision hanno creato i
loro siti web, la loro critica e i loro festival (come PXL THIS) - alla fac­
cia della totale indifferenza, e a volte perfino del disprezzo, della
Fisher-Price. Come scrive il regista Eric Sacks: "La Pixelvision è una
forma d'arte aberrante, evidenziata dal fatto che, siccome le macchi-
St a r W a rs di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 151

Del resto, se i creatori di film di action figure hanno sviluppato


un’estetica basata sulla riappropriazione di materiale proveniente
dai media mainstream, questi ultimi, a loro volta, hanno rapida­
mente imparato a imitare tali contenuti. La serie animata di Nicke-
lodeon Action League NowW (1994) ha un cast abituale di perso­
naggi che sono bambole male assortite e action figure mutilate. In
alcuni casi, le loro facce sono state fuse o sfigurate in giochi poco
ortodossi. Uno dei protagonisti è nudo. Le loro dimensioni sono
diverse, a testimonianza della collisione tra universi narrativi diffe­
renti che, in effetti, caratterizzano il gioco di action figure per i
bambini. Celebrity Death Match (1998) di Mtv usa le sue action fi­
gure di creta che riproducono molte celebrità e inscenano dei com­
battimenti su un ring in stile wrestling. Alcuni incontri sono vero­
simili (Monica Lewinsky contro Hillary Clinton), mentre altri sono
semplicemente bizzarri (la rock star già nota come Prince contro il
Principe Carlo d’Inghilterra).
Il Web rappresenta un luogo di sperimentazione e di innovazio­
ne dove i dilettanti possono allenarsi sviluppando nuove pratiche e
nuovi temi, nonché generando materiali che potrebbero diventare
a modo loro prodotti cult. Tra queste pratiche, le più commercia­
bili saranno assorbite all’interno dei media mainstream, o diretta-
mente, attraverso l’ingaggio degli autori e lo sviluppo, a partire da

ne si rovinano in fretta e non sono più prodotte, ha in sé una sorta di


obsolescenza autorizzata. Ogni volta che un artista usa la PXL 2000,
l'intera forma si avvicina un po' all'estinzione"3.
M olti tra i m igliori film Pixelvision rivelano un fascino per processi e
oggetti della vita quotidiana: il dispositivo ha prodotto un genere di
film "confessione", con facce fantasmatiche che parlano dritte in ca­
mera con una franchezza sorprendente.
Sadie Benning, figlia adolescente di un regista sperimentale afferma­
to, ha raggiunto la fama nel mondo dell'arte grazie ai suo cortome­
traggi, semplici e diretti, girati nella sua camera, che trattano i proble­
mi del diventare maggiorenne da lesbica. A diciannove anni, Benning
è stata la persona più giovane a ricevere una borsa di studio Rocke-
feller.

a. E. Saks, "Big Pixel Theory", http://www.thekitchen.org/MovieCatalog/Titles/Big-


PixelTheory.html.
152 C a p it o l o 4

quelle idee-base, di lavori televisivi, video e cinematografici, oppu­


re in modo indiretto, con un’imitazione di secondo ordine delle
stesse qualità tematiche ed estetiche. In cambio, i materiali dei me­
dia mainstream potrebbero ispirare i successivi sforzi amatoriali,
che spingono la cultura popolare verso nuove strade. In questa di­
namica, le opere dei fan non possono più essere viste semplicemen­
te come derivate da materiali dei media mainstream, ma devono es­
sere percepite come a loro volta aperte all’appropriazione e alla
rielaborazione da parte dei media.

“Lo Wookie da 500 libbre ’

I fan si sentono rassicurati dal fatto che Lucas e i suoi soci - al­
meno ogni tanto - buttino un occhio sul loro lavoro e diano la loro
benedizione. Infatti, parte della seduzione che stimola a partecipa­
re al concorso ufficiale del fan cinema di Star Wars, si deve al ruolo
personale di Lucas, che seleziona il vincitore tra i finalisti, identifi­
cati da Chris Albrecht di AtomFilm ed esaminati dallo staff di Lu-
casArts. Non c’è dubbio che a Lucas piacciano alcune forme di cre­
atività dei fan. Come spiega Albrecht: “Un applauso a Lucas perché
se n’è reso conto e dà al pubblico la possibilità di partecipare a un

Andrea McCarty, una studentessa del Comparative Media Studies pro­


gram al MIT, sta analizzando il movimento Pixelvision per compren­
dere il funzionamento della creatività grassroots. Mi ha riferito: "La re­
sistenza e la popolarità della Pixelvision dimostrano che essa non è
stata una tecnologia fallim entare...Il fascino che emana contraddice
la sua obsolescenza - i collezionisti rincorrono le videocamere, gli ar­
tisti le usano per creare, i fanatici delle tecnologie le modificano e
quelli del cinema seguono il festival PXL THIS"a. I m igliori prodotti fil­
mici Pixelvision sono stati accolti nel mondo dell'arte e perfino i regi­
sti più commerciali si stanno appassionando a questo apparecchio.
Uno di loro, Michael Almereyda, ha infilato immagini girate in Pixel-
vision nei suoi film Nanja (1994) e H am let(2000), molto elogiati dalla
critica.

a. A. McCarthy, corrispondenza con l'autore, novembre 2004.


St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t i n o ? 153

universo che conosce e ama. Non.c’è niente di simile in giro. Nes­


sun produttore si è mai spinto così avanti”20. Un’altra lettura pos­
sibile è che l’impresa - e forse lo stesso Lucas - ha voluto control­
lare ciò che i fan creavano e diffondevano. Nel 2002, Jim Ward, vi­
cepresidente marketing per Lucasfilm, ha dichiarato ad Amy Har-
mon del New York Times: “Siamo stati molto chiari su quali fosse­
ro i confini da non superare. Amiamo i nostri fan e vogliamo che si
divertano. Se, però, qualcuno usa i nostri personaggi per creare
una storia fine a se stessa, non agisce nello spirito di ciò che noi
pensiamo voglia dire essere fan. Essere fan significa celebrare la
storia così com’è”22. Lucas vuole quindi essere “celebrato” e non
appropriato.
Ha aperto uno spazio dove i fan possono creare e condividere
le loro creazioni, ma alle sue condizioni. Il franchise ha affrontato
la questione fin dagli anni Settanta, concedendo una zona di tolle­
ranza alPinterno della quale i fan sono liberi di agire, e contempo­
raneamente esercitando qualche forma di controllo per salvaguar­
dare la sua storia originale. Nel frattempo, si sono alternati periodi
di grande tolleranza da parte dell’azienda ad altri di forte aggressi­
vità, in cui ha cercato di bloccare tutte o almeno alcune delle forme
di fan fiction.

Alcuni avevano sostenuto che queste sarebbero state le conseguenze


della rivoluzione digitale: la tecnologia avrebbe messo strumenti di
espressione creativa a basso costo e di facile uso nelle mani deliagente
comune. Abbassate le barriere alla partecipazione e predisponete
nuovi canali di pubblicità e di distribuzione, e le persone creeranno
cose degne di nota. Pensate queste sottoculture come dei vasi di Petri
estetici. Piantate un seme e state a vedere che cosa nascerà. In molti
casi, non succederà niente di particolarmente interessante. Possiamo
tranquillamente pensare che la regola di Sturgeon valga anche per le
creazioni della cultura amatoriale: il 90% di tutto è spazzatura. Tutta­
via, ampliando il numero dei partecipanti al processo produttivo arti­
stico, è possibile che aumenti il numero delle opere davvero interes­
santi che ne emergeranno. È possibile contare sul fatto che i nostri im­
pulsi creativi superino un sacco di limitazioni tecniche e di ostacoli.
Gli artisti amatoriali si esprimono al meglio quando operano all'inter­
no di comunità che li sostengono, in cui tutti hanno gli stessi problemi
creativi e costruiscono facendo leva l'uno sui successi dell'altro.
154 C a p it o l o 4

Allo stesso tempo, settori diversi della stessa azienda hanno svi­
luppato approcci distinti nel dialogo con i fan: il settore game ha
adottato una linea coerente con quella delle altre imprese di giochi
(ed è probabilmente il più permissivo tra tutti), mentre quello film
si è mostrato un po’ meno favorevole alla partecipazione dei fan.
Non voglio con questo sostenere che LucasArts tratti male i fan -
in molti casi l’azienda è stata molto più lungimirante e disponibile
di qualsiasi altra impresa di Hollywood - ma solo illustrare i modi
con cui l’industria mediatica sta tentando di capire come risponde­
re alla loro creatività.
All’inizio, Lucasfilm incoraggiava apertamente la fan fiction,
tanto da aver creato un ufficio interno, nel 1977, che rivedeva il
materiale prodotto dagli utenti offrendo consigli per evitare l’infra­
zione del copyright22. Dai primi anni Ottanta, l’iniziativa si inter­
ruppe, forse perché lo stesso Lucas inciampò in qualche esempio di
produzioni fan erotiche rimanendone scioccato. A partire dal
1981, Lucasfilm ha iniziato a emettere avvisi contro quelle fanzine
che pubblicavano storie con contenuti sessuali espliciti. Ciò forniva
tuttavia, in maniera implicita, il permesso di pubblicare storie non
erotiche fin quando non fossero a fini di lucro: “Poiché tutta la sa­
ga di Star Wars è pensata per una visione universale, devono esserlo
anche le storie pubblicate dai produttori indipendenti. Lucasfilm

Proviamo a considerare un altro esempio dello stesso processo in atto:


Machinima. Il nome, un ibrido tra machine e cinema, si riferisce alle
animazioni digitali in 3-D prodotte in tempo reale usando dei motori
di gioco. Il movimento Machinima nacque nel Ί993, quando Doom
fu messo in commercio, corredato da un programma di supporto per
la registrazione e la riproduzione di azioni del gioco. L'idea germo­
gliò dall'ipotesi che la gente fosse interessata a rivedere la propria
esperienza di gioco, come fossero piccoli film d'azione. Non ci sono
molte prove a sostegno dell'idea che il gioco, uno "sparatutto" in pri­
ma persona, abbia ispirato ragazzi che provocano sparatorie a scuola,
ma al contrario ci sono molte prove che abbia ispirato una generazio­
ne di animatori (sia dilettanti che professionisti).
I giochi successivi hanno offerto strumenti ancora più sofisticati che
hanno consentito ai giocatori di crearsi proprie risorse digitali o di
mettere la loro "pelle" su personaggi e situazioni del mondo virtuale.
La gente imparò presto a giocare con un'attenzione alla registrazione
delle azioni che voleva conservare per i propri film e perfino a ripro-
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 155

non produce nessun episodio di Star Wars che sia sottoposto a limi­
ti di visione, perciò perché dovremmo essere messi in cattiva lu­
ce?”23. Questa linea d’azione servì a scoraggiare in buona parte le
produzioni erotiche, che continuarono comunque a circolare in­
formalmente. La questione è riemersa negli anni Novanta, quando
la fan fiction di tutti i tipi iniziò a prosperare lungo la “frontiera
elettronica”. Un sito web, per esempio, aggiornava continuamente
i link a siti di fan e di fan fiction, arrivando fino a più di 153 tra li­
bri, film e programmi televisivi, da AirWolf (1984) a Zorro
(1975)24. Gli editori della zine di Star Wars posero attenzione al fe­
nomeno, tentando con cautela di sondarne le acque. Jeanne Cole,
una portavoce di Lucasfilm, spiegò: “Cosa si può fare? Come si
può mantenere il controllo? Noi apprezziamo i fan, che cosa fa­
remmo senza di loro? Perciò, che motivo c’è di farli arrabbiare?”25.
Lo studioso dei media Will Brooker cita una nota aziendale del
1996: “Poiché Internet sta crescendo molto in fretta, noi stiamo
sviluppando delle direttive per stabilire come possiamo rafforzare
la capacità dei fan di Star Wars di comunicare tra loro senza violare
copyright e marchi registrati”26. Le fasi anarchiche dell’origine di
Internet cedevano così il passo a un periodo di attenta sorveglianza
e stretto controllo da parte della corporation. Anche in un tempo
di “luna di miele”, alcuni fan percepirono che Lucasfilm si stava

gettare i giochi per creare personaggi e ambientazioni necessari per


inscenare le loro storie. Questi motori di gioco consentono agli artisti
di abbassare sensibilmente i costi e accorciare i tempi produttivi
deN'animazione digitale. Eccoci così di fronte a complesse immagini
animate sommate alla spontaneità di performance improvvisate!
M olti film M achinima restano profondamente radicati nella cultura
dei gamer: M y Trip to Liberty City racconta un viaggio intorno al mon­
do rappresentato in Grand Theft Auto 3 (2001); Halo Boys coinvolge
gruppi di ragazzi nell'universo di Halo (2001); qualcuno ha reinscena­
to momenti classici di M onty Python and The H oly Grail (1975) usan­
do Dark Ages o f Camelot (2001 ). Ma non è tutto. Qualcuno ha infatti
accettato la sfida tecnica di riprodurre classici film d'azione - spazian­
do da M atrix alla scena di Omaha Beach in Salvate il soldato Ryan
(1998). I più politicizzati si sono spinti ancora più lontano, commen­
tando la guerra al terrorismo o ricostruendo l'assedio dei davidiani a
Waco. Il film Ozymandias di Hugh Hancock e Gordon M cDonald si
ispira a una poesia di Percy Shelley, e Anna, di Fountainhead, ritrae la
156 C a p it o l o 4

comportando come uno Wookiee da 500 libbre, che si facesse stra­


da con la sua mole emettendo minacciosi suoni27.
La prospettiva di LucasFilm sembrava relativamente illuminata,
perfino accogliente se confrontata alla risposta degli altri produtto­
ri di media verso i loro fan. Nei tardi anni Novanta, Viacom speri­
mentò il metodo del pugno di ferro verso la cultura dei fan, a co­
minciare dall’Australia. Un rappresentante dell’azienda chiamò a
raccolta i leader di tutti i fan club del paese e comunicò loro le nuo­
ve direttive per la loro attività28. Esse proibivano la proiezione
pubblica degli episodi della serie di Star Trek durante gli incontri
dei club, a meno che non fossero stati regolarmente commercializ­
zati su quel mercato nazionale (questa politica aveva conseguenze
serie per i fan australiani, che molto spesso potevano accedere alle
puntate solo dopo un anno o due dalla loro trasmissione negli Stati
Uniti. Solo la circolazione clandestina di videocassette permetteva
loro, quindi, di partecipare attivamente alle discussioni online). In
modo simile, Viacom usò la mano pesante contro la pubblicazione
e la distribuzione di fanzine e proibì persino che nelle pubblicità
delle convention fossero usati i nomi registrati di Star Trek. Obiet­
tivo esplicito era spingere tutti a partecipare a un fan club control­
lato dall’azienda.

vita di un fiore. Come per la Pixelvision, anche il movimento Machini-


ma ha generato comunità in rete, critici, corsi di formazione e festival.
Se il movimento Pixelvision ha trovato accoglienza nel mondo artisti­
co, l'im patto maggiore di Machinima è stato, invece, nella cultura
commerciale. History Channel, per esempio, ha lanciato una serie di
successo, Decisive Battles (2004), che ricostruisce eventi storici come
la battaglia di Maratona usando come strumento base di animazione
Rome: Total War (2004), di Creative Assembly. Video Mods di MTV
trasmette video musicali di gruppi come Black Eyed Peas e Fountains
of Wayne, prodotti usando sosia animati degli artisti inseriti nel mon­
do di giochi come Tomb Raider, Leisure Suit Larry, The Sims 2 e SSX3.
La Pixelvision è stata in gran parte abbandonata da Fisher Price men­
tre Machinima - e i modificatori di giochi - sono stati accolti nella ga­
me industry. L'ultima uscita di Lionhead, The Movies (2005), fa fare
un passo avanti al movimento Machinima: il gioco permette di gestire
il proprio studio e di produrre film usando i suoi personaggi e infine
di condividerli online con gli amici.
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 157

Nel 2000, LucasFilm offrì ai fan di Star Wars uno spazio web
gratuito (www.starwars.com) e contenuti esclusivi per i loro siti,
ma solo a condizione che qualunque loro creazione diventasse pro­
prietà intellettuale dello studio. Così spiegò la nota ufficiale che
lanciava questa nuova prospettiva: “Per incoraggiare la continua­
zione di interesse, creatività e interazione della comunità online dei
nostri fan appassionati di Star Wars, LucasOnline (http://www.lu-
casfilm.com/divisions/online/) ha il piacere di presentarvi per la
prima volta un sito ufficiale dove i fan possono celebrare nel Web
il loro amore per la saga”29. La storia ha dimostrato più volte che
la fan fiction può essere una porta d’ingresso alla pubblicazione
commerciale, almeno per gli amatori più abili nel vendere i loro
racconti alle collane editoriali professionali sui vari franchise. Se
Lucasfilm Ltd. rivendicava il possesso di quei diritti d’autore, pote­
va pubblicare i prodotti dei fan senza compensarli, e poteva rimuo­
verli senza chiedere l’autorizzazione o darne avviso.
Elizabeth Durack è stata una delle più attive promotrici di una
campagna per spingere gli altri fan di Star Wars a boicottare queste
nuove iniziative: “Questa è la genialità di Lucasfilm nell’offrire ai
fan uno spazio web: cercano di sembrare incredibilmente generosi
e al tempo stesso sono più inclini a controllarli... Lucasfilm non
odia né i fan né i loro siti, e si rende conto dei benefici che può trar­

Q u a n d o la pirateria d iven ta p ro m o zio n e

Il volume di vendita dei prodotti di animazione giapponese sul mer­


cato globale - del valore sorprendente di 9 trilioni di yen (corrispon­
denti a 80 miliardi di dollari statunitensi) - è aumentato di dieci volte
in dieci anni. La crescita ha interessato principalmente il Nord Ame­
rica e l'Europa occidentale. Il successo mondiale raggiunto si deve in
parte alla tolleranza che le aziende mediatiche nipponiche hanno mo­
strato verso quelle forme di attività grassroots che, invece, sono forte­
mente contrastate dalle imprese statunitensi. M olti dei rischi legati
all'ingresso nel mercato occidentale e molti dei costi della sperimen­
tazione e della promozione dei prodotti sono stati sostenuti dai con­
sumatori più appassionati. Vent'anni fa il mercato americano era to­
talmente chiuso a questi prodotti di importazione dal Giappone. Oggi,
molti dei più grandi successi delle serie per bambini, da Pokémon
(1998) a Yu-Gi-Oh\ (1998), vengono direttamente da case di produ­
zione giapponesi. La trasformazione è avvenuta non tanto grazie alle
158 C a p it o l o 4

re dalla pubblicità gratuita che essi le forniscono. D’altra parte a


chi non piace essere adorato? Questa iniziativa lo rende piuttosto
evidente. Ma questo movimento dal basso provoca anche spaven­
to, tanto da spingere l’impresa a fare del male alle persone che la
amano”30. Durack spiegava che, se da una parte la fan fiction è un
tributo a Lucas in quanto creatore di Star Wars, dall’altra i fan vo­
gliono affermare il loro diritto a partecipare alla produzione e alla
circolazione della saga di Star Wars, ormai divenuta parte integran­
te delle loro vite: “Molti scrittori hanno notato che Star Wars (ba­
sato, dal suo creatore George Lucas, esplicitamente sui temi ricor­
renti della mitologia), come altri prodotti dei media, ha nell’Ame­
rica odierna il posto che la mitologia dei greci o dei nativi america­
ni aveva per i popoli precedenti. Rendere i miti moderni ostaggi
del mercanteggiare legale delle corporation sembra quindi contro
natura”.
Oggi i rapporti tra Lucas Arts e la comunità degli autori di fan
fiction sono un po’ meno tesi. Anche se non sono riuscito a trovare
nessuna dichiarazione ufficiale che attesti un cambiamento nella li­
nea politica dell’azienda, la fan fiction è diffusa in tutto il Web, in­
clusi molti siti di fan tra i più commerciali e noti. I loro webmaster
affermano di dialogare costantemente con la casa produttrice uffi­
ciale su molte questioni, ma non è mai stato chiesto loro di rimuo­

iniziative concertate dell'industria mediatica d'origine, quanto per


merito dell'attrazione dei fan americani, che hanno usato qualsiasi
tecnologia a loro disposizione pur di espandere la comunità di cono­
scenti e amanti del genere. Le inziative commerciali successive hanno
fatto leva su II'infrastruttura costruita negli anni da questi fan. La con­
vergenza grassroots ha preparato la strada per le nuove strategie della
convergenza corporate.
L'esportazione di cartoni animati dal Giappone nel mercato occiden­
tale risale agli anni Sessanta, quando Astro Boy (1963), Speed Racer
(1967) e G igantor(1965) sono entrati in una syndication locale. Alla
fine di quel decennio, i tentativi di riforma, come la Action for Chil-
dren's Television, avevano usato minacce di boicottaggio e la regola­
mentazione federale per frenare la presenza di contenuti considerati
inappropriati per i bambini americani. I contenuti giapponesi si rivol­
gevano a un target adulto nel loro paese d'origine e spesso trattavano
temi più delicati, e furono fra gli obiettivi principali della reazione. I
distributori giapponesi furono scoraggiati e si ritirarono dal mercato
St a r W a rs di Q u e n t in Ta r a n t i n o ? 159

vere contenuti che tempo fa sarebbero stati ritenuti illeciti. Tutta­


via, tutto ciò che Lucas dà, lo può anche togliere. Molti scrittori
fan mi hanno confessato di essere in apprensione per il modo in cui
la sfera del potere affronta alcune particolari controversie.
Lucas e altri suoi soci si sentivano chiaramente più vicini ai gio­
vani produttori digitali che creavano film “biglietti da visita” per
provare a sfondare nell’industria cinematografica, che non alle
scrittrici fan che condividevano le loro fantasie erotiche. Alla fine
del decennio, comunque, la tolleranza di Lucas verso la produzione
cinematografica dei fan ha posto in essere, anche nei loro confron­
ti, una strategia di incorporazione e contenimento. Nel novembre
del 2000, Lucasfilm ha proposto il sito commerciale di cinema di­
gitale Atomfilms.com come ospite ufficiale dei fan film di Star
Wars. Il sito avrebbe offerto una raccolta di effetti sonori e organiz­
zato periodicamente concorsi per premiare le opere amatoriali mi­
gliori. In cambio, la partecipazione degli autori avrebbe dovuto es­
sere sottoposta a certe restrizioni del contenuto: “I film devono es­
sere una parodia di Star Wars oppure dei documentari sull’espe­
rienza dei fan. Non si accetterà nessuna ‘fan fiction’ che tenti di
ampliare l’universo narrativo di Star Wars. I film non devono fare
uso di materiale musicale o video protetto dal copyright, ma pos­
sono servirsi delle action figure e delle clip audio messe a disposi-

americano, proponendo i loro cartoni in lingua originale nei canali via


cavo delle città dove era presenta una forte comunità asiatica.
Con la diffusione dei videoregistratori, i fan americani iniziarono ad
avere a disposizione la possibilità di doppiare e condividere tali con­
tenuti con i loro amici di altri paesi. Presto, si misero alla ricerca di
contatti in Giappone con i giovani locali che potevano accedere alle
ultime serie. Sia in Giappone che negli Usa si usava lo stesso formato
NTSC, che facilitava quindi il flusso di contenuti oltre i confini nazio­
nali. Nacquero così dei fan club americani per conservare e promuo­
vere la circolazione dei cartoni animati giapponesi.
Nei campus dei college, le associazioni studentesche misero in piedi
enormi biblioteche di materiale legale e pirata, e iniziarono a organiz­
zare proiezioni per informare il pubblico su artisti, stili e generi anime.
Il MIT Anime Club, per esempio, tiene proiezioni settimanali tratte da
una videoteca di oltre millecinquecento film e video. Dal 1994, il club
si è dotato di un sito web progettato per educare gli americani alla cul­
tura anime. In m olti casi, i contenuti trasmessi sono in lingua origina-
160 C a p it o l o 4

zione in un kit contenuto nell’apposita sezione di questo sito. I film


non devono, inoltre, utilizzare materiale protetto da copyright che
provenga da altri film, canzoni e composizioni”31. Qui vediamo un
chiaro esempio del regime del diritto d’autore della cultura di mas­
sa applicato al processo produttivo della cultura folk.
Un’opera come Star Wars: Révélations sarebbe esclusa dal con­
corso ufficiale di Star Wars in quanto il suo intreccio drammatico si
colloca negli interstizi narrativi tra il terzo e il quarto film della sa­
ga, e perciò costituisce “fan fiction”. Albrecht, supervisore del con­
corso, ha fornito varie spiegazioni circa le proibizioni imposte. In­
nanzi tutto, Lucas e la sua impresa temevano il rischio di cause per
plagio, se fossero venuti a contatto con creazioni dei fan che imi­
tassero la struttura drammatica del film o che ne utilizzassero simili
personaggi o situazioni, e poi fra il materiale ufficiale del franchise
fosse saltato fuori qualcosa che le ricordasse. Peraltro, come sotto­
lineava Albrecht, c’era il rischio di una grande confusione tra i con­
sumatori su quali fossero i tratti costitutivi di un prodotto ufficiale
di Star Wars. A proposito di Révélations, faceva notare Albrecht:
“Fino al momento in cui gli attori non hanno iniziato a parlare,
non saremmo stati capaci di capire se si trattasse di un vero film
Star Wars oppure di una creazione dei fan, perché gli effetti speciali
erano perfetti... siccome gli strumenti tecnici si sono evoluti, c’è ri­

4· | | |
le. In modo simile a ciò che accade per la trasmissione radiofonica di
un'opera lirica, qualcuno si alza in piedi a ll'in izio e racconta la storia,
spesso attingendo al ricordo di quello che qualcun altro ha raccontato
prima di un'altra proiezione. I distributori giapponesi hanno strizzato
l'occhio a queste forme di visione. Pur non avendo il permesso delle
loro compagnie madri di far pagare i fan o di fornire loro materiale,
volevano vedere che interesse potessero suscitare quegli spettacoli.
Gli ultim i anni Ottanta e i primi Novanta videro l'emergere del “ fan-
subbing", ovvero la pratica amatoriale di tradurre e sottotitolare gli
anime giapponesi. I sistemi di sincronizzazione VHS e S-VHS, in effet­
ti, supportavano il doppiaggio dei nastri e permettevano un allinea­
mento accurato di testo e immagine. Come spiega il presidente del
MIT Anime Club, Sean Leonard: "Il fansubbingè stato decisivo per la
crescita delle comunità di appassionati di anime in Occidente. Se non
fosse stato per il loro impegno nella diffusione di contenuti leggeri, tra
la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta, oggi non ci sarebbe
alcun interesse nei riguardi dell'anim azione giapponese intelligente,
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 161

schio di fare confusione sul mercato”. In ogni caso, Lucasfilm


avrebbe avuto dei seri problemi legali se avesse tentato di bloccare
le parodie, ben protette dalla legge attuale, o documentari configu­
rabili come narrazioni critiche o giornalistiche. Lucasfilm non face­
va altro, quindi, che tollerare ciò che doveva accettare per via della
legge vigente, per avere in cambio la possibilità di bloccare quel che
altrimenti non sarebbe stata in grado di controllare”.
Queste regole non sono affatto neutre per quanto riguarda il ge­
nere: sebbene recentemente i confini siano piuttosto confusi, la
stragrande maggioranza di contenuti parodistici è di produzione
maschile, mentre la fan fiction è quasi interamente di creazione
femminile. Nella comunità femminile, le fan hanno spesso prodot­
to “video sonori” con scene prese da spezzoni di film o di spettacoli
televisivi e poi abbinate a musica pop. Questi video agiscono spesso
come una forma di fan fiction che estrae aspetti della vita emozio­
nale dei personaggi ed entra nelle loro teste. A volte, esplorano dei
sottotesti non sviluppati nel film originale, offrendo inedite inter­
pretazioni della storia o suggerendo nuovi possibili intrecci non
contemplati nell’opera. Il tono sentimentale di questi lavori non
potrebbe essere più lontano da quello che caratterizza le parodie
ammesse al concorso ufficiale - film come Sith Apprentice, dove
l’imperatore riporta indietro alcuni aspiranti membri delle truppe

di tipo 'alto'".! costi elevati delle prime macchine richiedevano sforzi


collettivi per la realizzazione del fansubbing: i vari club cooperavano
per assicurarsi che le loro serie preferite potessero raggiungere pubbli­
ci più vasti. Non appena i costi si abbassarono, crebbe la diffusione
del fansubbing. I club coordinarono le loro attività aiutandosi con In­
ternet, dividendosi le serie da sottotitolare e organizzando una vasta
comunità di potenziali traduttori.
A ll'in izio degli anni Novanta, le grandi convention sull'animazione
portarono in Usa artisti e distributori dal Giappone, che si mostravano
stupiti di vedere una cultura così in fermento intorno a un prodotto
che non era mai stato commercializzato aM'estero. Tornarono quindi
a casa motivati a provare a sfruttare commercialmente tutto q u e ll'in ­
teresse. Alcuni tra i principali industriali deN'animazione giapponese,
paradossalmente, erano stati tra quelli che avevano aiutato e caldeg­
giato la distribuzione grassroots un decennio prima.
Le prime compagnie di nicchia a distribuire animazioni in Dvd o v i­
deocassetta emersero quando i fan club si evolsero acquistando i di-
162 C a p it o l o 4

nella sala del consiglio; Anakin Dinamite, dove un giovane Jedi de­
ve confrontarsi con degli idioti come la sua controparte nel cult
Napoleon Dinamite (2004); oppure Intergalactic Idol (2003), dove
il pubblico deve decidere quale concorrente possieda realmente la
forza. Per contrasto, Come What May (2001) di Diane Williams,
un tipico video musicale, usa immagini tratte da The Phantom Me­
nace per esplorare il rapporto tra Obi-Wan Kenobi e il suo mento­
re, Qui-Gon Jinn. Le immagini mostrano l’amicizia appassionata
tra i due uomini; il testo culmina quindi nella scena ripetuta di Obi-
Wan che culla il corpo sbriciolato del suo compagno, rimasto ucci­
so nello scontro con Darth Maul. Le immagini sono accompagnate
dalla canzone “Come What May”, presa dalla colonna sonora di
Moulin Rouge! (2001) del regista Baz Luhrmann, e interpretata
dall’attore Ewan McGregor, che recitò anche la parte di Qui-Gon
Jinn nel film The Phantom Menace.
Che Atomfilms classifichi un’opera del genere come una paro­
dia è materia sindacabile: piacevole a tratti, essa manca degli ele­
menti della commedia che caratterizzano la grande parte della pro­
duzione maschile dei film di Star Wars; sviluppa una maggiore
identificazione con i personaggi e accenna ad alcuni aspetti delle
loro relazioni che non sono stati esplicitamente resi visibili sullo
schermo. Come What May potrebbe essere visto da molti fan come

^ l" ritti di distribuzione dalle grandi media company giapponesi. Il primo


materiale a essere distribuito aveva già un seguito di fan entusiasti.
Intenzionati a far conoscere l'intera gamma di prodotti disponibili in
Giappone, i fan club spesso correvano rischi che nessun distributore
commerciale avrebbe accettato di assumersi, testando l'apertura del
mercato per nuovi generi, produttori e serie, con le imprese commer­
ciali che seguivano i loro passi quando si accorgevano di un successo.
I video fansubbed presentavano un avviso che esortava gli utenti a
"cessare la distribuzione quando il prodotto sarà distribuito ufficial­
mente". I club, infatti, non volevano trarre profitti dalla distribuzione,
ma solo espandere il mercato; ritiravano dalla loro circolazione qual­
siasi titolo avesse già trovato un distributore commerciale. In ogni ca­
so, le copie commerciali risultavano di qualità migliore rispetto alle
copie registrate varie volte.
Le prime copie commerciali erano spesso doppiate e riedite con
l'obiettivo di aumentarne la potenziale attrattiva per i consumatori oc­
casionali. Il critico culturale giapponese Koichi Iwabuchi ha usato il
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t i n o ? 163

una caduta nel sottogenere slash, vista la sua messa in scena di re­
lazioni erotiche tra personaggi dello stesso sesso, e potrebbe altresì
essere interpretata più come opera melodrammatica che satirica.
Di certo, da un punto di vista legale, Come What May può rappre­
sentare una parodia, la quale non richiede necessariamente che il
lavoro sia comico ma semplicemente che ci si appropri dell’opera
originale e la si trasformi al fine di renderne un commento critico.
Sarebbe difficile, in effetti, sostenere che un video che ritrae Obi-
Wan e Qui-Gon come amanti non trasformi l’originale in modo da
ampliarne i significati potenziali. Più verosimilmente, questo e altri
video sonori creati da donne potrebbero essere considerati come
fan fiction; Come What May entra anche in conflitto con le regole
di Atomfilm sull’appropriazione di contenuti da film e da altre pro­
prietà dei media.
Queste regole generano un doppio sistema: alcuni lavori posso­
no rendersi più pubblici perché sono conformi a ciò che i titolari
del diritto d’autore ammettono come appropriazione accettabile
della loro proprietà intellettuale, mentre altri, contravvenendo a
tali limiti, rimarranno nell’ombra (o quanto meno saranno distri­
buiti mediante canali meno ufficiali). In questo caso, tali opere so­
no talmente tenute a distanza dalla pubblica visibilità che, quando
ho chiesto ai registi digitali di Star Wars il perché dell’occultamento

termine "de-odorizing" in riferimento ai modi in cui questi prodotti


"soft" giapponesi sono svestiti dei segni della loro origine nazionale,
in vista di una loro apertura alla circolazione globale3. In questo con­
testo, le comunità grassroots di fan giocano ancora un ruolo impor­
tante nell'educare gli spettatori americani ai riferimenti culturali e alle
tradizioni di genere che definiscono tali contenuti, attraverso i loro siti
web e le newsletter.
I fan club, quindi, continuano a esplorare dei prodotti di nicchia che
in seguito potrebbero raggiungere un successo di massa.
Molte media company statunitensi avrebbero considerato tutta questa
circolazione sotterranea come pirateria, e l'avrebbero repressa prima
che raggiungesse una massa critica. La tolleranza delle aziende giap­
ponesi rispetto a questi sforzi dei fan americani, invece, è coerente

a. Koichi Iwabuchi, Recenting Globalization: Populär Culture and Japanese Transna-


tionalism, Duke University Press, Durham, N.C., 2002, pp. 25-27.
164 C a p it o l o 4

di simili film femminili, quasi tutti hanno risposto di ignorarne ad­


dirittura l’esistenza.
L’antropologo e consulente aziendale Grant McCracken ha
espresso il suo scetticismo a proposito del parallelismo spesso pro­
posto dai fan tra la loro produzione culturale grassroots e la cultura
folk tradizionale: “Gli eroi antichi non appartenevano a chiunque
e non erano al servizio di chiunque e non tutti potevano farne quel
che volevano. Questi commons non sono mai stati tali”32. Per la
cronaca, le mie affermazioni in questa sede sono nel complesso più
sottili rispetto alle analogie eccessive con la mitologia greca che
hanno provocato l’ira di McCracken, il quale ha probabilmente ra­
gione quando afferma che chi poteva narrare quelle storie, le circo­
stanze in cui era autorizzato a farlo e gli scopi che lo guidavano, ri­
flettevano precise gerarchie operanti all’interno della cultura clas­
sica. La mia analogia, d’altro canto, si riferisce al momento specifi­
co della fase in cui emergeva la cultura popolare americana, quan­
do le canzoni spesso circolavano ben oltre i loro luoghi d’origine,
perdendo nel percorso ogni traccia dell’autore, venendo riproposte
e riutilizzate per servire tanti diversi interessi, sino a divenire una
parte integrante nel tessuto delle vite quotidiane di molti cantori
non professionisti. Ecco come la cultura folk operava all’interno di
una democrazia emergente.

^11,I
con il trattamento analogo riservato alle loro comunità di fan nei loro
mercati locali.
Come fa notare Salii K. Mehra, professore della Tempie Univesity
School of Law, il mercato sotterraneo dei manga creati dagli appassio­
nati, spesso fortemente debitori ai prodotti commerciali, procede su
larga scala in Giappone, con alcune fiere di fumetti che attirano
150.000 visitatori al giorno; iniziative del genere hanno luogo quasi
ogni settimana in alcune parti del paese3. I produttori commerciali,
che non intraprendono quasi mai azioni legali, spesso addirittura
sponsorizzano questi eventi, utilizzandoli per pubblicizzare le loro
distribuzioni, reclutare nuovi potenziali talenti e monitorare i cambia­
menti nei gusti del pubblico.

a. S. K. Mehra, "Copyright and Comics in Japan: Does Law Explain Why All theCar-
toons My Kid Watches Are Japanese Imports?", Rutgers Law Review, disponibile
su: http://papers.ssrn.com/sol3/papers/cfm?abstract_id=347620.
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 165

Non voglio rimettere indietro l’orologio a qualche mitica età


dell’oro. Piuttosto, mi piacerebbe che riconoscessimo le sfide poste
dalla coesistenza di queste due logiche culturali. Le pratiche pro­
duttive che stiamo qui discutendo costituivano una parte normale
della vita americana di quel periodo. Semplicemente, oggi sono più
visibili grazie al cambiamento dei canali di distribuzione per la pro­
duzione culturale amatoriale. Se i grandi media non potevano
schiacciare questa cultura vernacolare già nell’epoca in cui il potere
dei mass media non era messo in discussione, è difficile credere che
le minacce legali possano oggi costituire una risposta adeguata, in
un momento in cui i nuovi strumenti digitali e i nuovi canali di di­
stribuzione hanno allargato il potere di partecipazione culturale al­
la gente comune. Una volta raggiunto questo potere, i fan e altre
sottoculture non hanno nessuna intenzione di reimmergersi
nell’obbedienza e nell’invisibilità. Ritorneranno nell’underground
solo se saranno costretti - l’hanno già fatto in passato - ma non
smetteranno di creare.
Ecco il punto in cui le argomentazioni di McCracken convergo­
no con le mie. Egli sostiene che non c’è, alla fin dei conti, alcuna
separazione tra l’interesse del pubblico di espandere le opportunità
della creatività grassroots e quello delle grandi aziende di protegge­
re la proprietà intellettuale: “Le corporation permetteranno al pub-

D'altra parte, essi temono Pira dei loro clienti qualora agissero contro
una pratica culturale così radicata. La legge giapponese, tra l'altro, se
dovessero adire le vie legali, prevede sanzioni molto lievi.
Più in generale, come sottolinea Yuichi Washida, un direttore della ri­
cerca della Hakuhodo - la seconda azienda in Giappone di pubblici­
tà e marketing - le corporation giapponesi hanno cercato la collabo-
razione con i fan club, le sottoculture e le comunità di consumatori,
vedendoli come importanti alleati nella possibilità di sviluppare nuo­
vi contenuti e allargare i mercati3. Nel corteggiamento dei fan le
aziende hanno contribuito a costruire una "economia morale" che al­
linea i loro interessi nella ricerca di un mercato con il desiderio dei
fan americani di avere sempre nuovi contenuti cui poter accedere.

a. Y. Washida, "Collaborative Structures between Japanese High-Tech Manufacturers


and Consumers", dossier presentato al MIT, Cambridge, Mass., gennaio 2004.
166 C a p it o l o 4

blico di partecipare alla costruzione e alla rappresentazione dei lo­


ro prodotti, oppure finiranno per compromettere il valore com­
merciale delle loro proprietà. Il nuovo consumatore contribuirà a
creare valore o lo rifiuterà... Le corporation hanno il diritto di
mantenere il copyright, ma hanno anche l’interesse ad allentarlo.
L’economia della scarsità potrebbe dettare la prima soluzione, ma
l’economia dell’abbondanza vuole la seconda”33. L’ampliamento
delle opzioni mediatiche, ovvero ciò che McCracken definisce
“economia dell’abbondanza”, spingerà le aziende ad aprire più spa­
zi per la partecipazione grassroots e l’affiliazione - a cominciare da
imprese e pubblici di nicchia, ma coinvolgendo alla fine anche la
cultura commerciale mainstream. McCracken sostiene che le
aziende che allentano il controllo sul copyright attireranno i consu­
matori più attivi e impegnati, mentre quelle che spietatamente fis­
sano limiti ben precisi si troveranno una fetta semprepiù piccola
del mercato34. Di certo, questo modello dipende dai fan e dai pub­
blici che agiscono collettivamente nel proprio interesse contro le
aziende che potrebbero tentarli con intrattenimenti appositamente
creati per rispondere ai loro bisogni. Le imprese di produzione so­
no centralizzate e possono agire in modo unificato; i fan, invece,
sono decentralizzati e non sono sempre capaci di assicurare un agi­
re conforme ai loro diritti. Inoltre, finora le imprese dei media han-

Oggi, le aziende americane acquisiscono i diritti sui contenuti con


una velocità quasi pari a quella con cui i giapponesi li producono. Il
gap tra il tempo di trasmissione di tali programmi nel mercato giappo­
nese e in quello nordamericano è sempre più breve, il che rende più
difficile, per i fan, familiarizzare con i nuovi contenuti per poi pubbli­
cizzarli. Anche molte aziende avviate da fan, d'altra parte, stanno
adottando la logica delle corporate americane, e proibiscono le copie
dei fan non autorizzate nel momento in cui ottengono una licenza. La
preoccupazione degli appassionati è che queste aziende sottovaluti­
no la pubblicità grassroots e che una politica aggressiva di controllo
sul copyright possa portare a dei consumatori meno educati e meno
portati a sperimentare nuovi contenuti3.

a. S. Leonard, "Celebrative Two Decades of Unlawful Progress: Fan Distribution, Pro-


selyzation Commons, and thè Esplosive Growhtof Japanese Animation", UCLA En­
tertainment Law Review, 2005, pp. 191-265.
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 167

no manifestato una notevole volontà di scontrarsi con i loro consu­


matori intentando azioni legali contro di loro, a dispetto di ogni ra­
zionalità economica. Questa, nella migliore delle ipotesi, sarà una
battaglia in crescendo. Il modo migliore per venirne a capo, co­
munque, potrebbe essere la realizzazione di qualche successo a di­
mostrare il valore economico delPimpegno partecipativo del pub­
blico.

Disegna la tua galassia

Adottando una logica collaborativa, i creatori di giochi di ruolo


massively multiplayer online (MMORPG) hanno già instaurato
una relazione più aperta e partecipativa con la loro base di consu­
matori. I creatori di giochi riconoscono che la loro arte ha meno a
che fare con storie prestrutturate e di più con la creazione di pre­
condizioni per attività spontanee di gruppo. Ralph Koster, incari­
cato da LucasArts dello sviluppo di Star Wars Galaxies, aveva co­
struito la sua reputazione professionale come uno dei primi archi­
tetti di Ultima Online (1997). E stato l’autore di un’importante di­
chiarazione dei diritti del giocatore, prima di entrare in un’azienda
produttrice di giochi, e ha sviluppato una forte filosofia di proget­
tazione centrata sul dare ai giocatori il potere di formare le proprie
esperienze e le proprie comunità. Quando gli è stato chiesto di de­
scrivere la natura dei giochi M M ORPG, Koster ha spiegato chiara­
mente: “Non è solo un gioco, è uri servizio, è un mondo, è una co­
munità”35. Koster si riferisce anche alla gestione di una comunità
on line, sia che si tratti di un mud non commerciale o di un
M M ORPG, sia di un atto di governo: “Proprio come non è indica­
to per un governo attuare cambiamenti politici radicali senza aver
ascoltato l’opinione pubblica, non è saggio neanche per chi opera
in un mondo virtuale fare lo stesso”36.
I giocatori, egli sostiene, devono sentirsi “padroni” dell’univer­
so immaginario, per decidere di investirvi tempo e fatica per man­
tenerlo in vita per sé e per gli altri giocatori. Koster afferma: “Non
si può pensare di blindare un universo finzionale che coinvolga mi­
gliaia di altre persone. Il meglio che si può sperare è di aver creato
un mondo abbastanza vibrante perché la gente agisca in accordo
con i principi di quella finzione”37. Perché i giocatori partecipino,
bisogna che percepiscano che il loro apporto al gioco può fare la
168 C a p it o l o 4

differenza, non solo per ciò che riguarda la loro esperienza perso-
naie, ma anche per quella degli altri giocatori.
A proposito dei problemi incontrati nel cercare di soddisfare le
aspettative della comunità di Ultima Online, Koster ha spiegato:
“Loro vogliono plasmare il loro spazio e lasciare un segno duratu­
ro. Noi dobbiamo fornire loro i mezzi per farlo”38. Richard Bartle,
un altro creatore e teorico dei giochi, concorda: “L’espressione
personale è un altro modo di promuovere l’immersione. Dando ai
giocatori la piena libertà di comunicare se stessi, i progettisti pos­
sono attirarli più profondamente in quel mondo - loro sentono di
farne parte”39.
Koster è un sostenitore dell’idea di dare ai giocatori la possibili­
tà di esprimere se stessi all’interno del mondo del gioco:

Per fare bene ogni sorta di cosa è necessario dedicarvi un lungo eser­
cizio. E molto raro che, in qualsiasi medium, l’ingenuità conduca a ri­
sultati sorprendenti o popolari. In linea di massima, questi ultimi sono
ottenuti da persone che hanno imparato l’arte e agiscono con com pe­
tenza. Sono assolutamente favorevole a dare alla gente la possibilità di
impegnarsi in questi atti creativi, non solo per far venire fuori talenti
ma anche per le economie di scala. Se si riesce a raggiungere un cam ­
pione abbastanza elevato, si può ottenere qualcosa di buono.

N el cen tro co m m e rc ia le di The Sims

M olte società produttrici di videogiochi forniscono strumenti di pro­


gettazione e motori di gioco a corredo dei loro giochi. Si tratta di uten­
sili preziosi per i modder [da modify, modificare: sono gli utenti che
amano personalizzare i prodotti, N.d.R.] dilettanti, i quali sono così
messi nella condizione di progettare livelli o mondi complementari,
che vanno ad arricchire la loro esperienza di gioco.
Q ualcuno ha addirittura preparato complessi testi di formazione per
addestrare i dilettanti all'uso di questi strumenti; qualche produttore
addirittura organizza concorsi per sponsorizzare e dare un riconosci­
mento ai risultati raggiunti dalla comunità dei modder.
Non tutti i giocatori avranno il tempo di sviluppare contenuti di gioco
originali e di scambiarli con altri giocatori. Tuttavia, come ha spiegato
Ray Muzyka di Bioware: "Anche se solo l'1% di un m ilione di utenti
si mettesse a creare contenuti, avremmo un gran numero di progettisti
di m oduli. Ciò basterebbe a produrre un gioco che si auto-rinnova per
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 169

Quando Koster ha rivolto la sua attenzione allo sviluppo di Star


Wars Galaxies, ha capito di lavorare per un franchise conosciuto in
tutti i suoi dettagli dallo zoccolo duro dei fan, che sono cresciuti
giocando a impersonare quei personaggi o con le loro action figure,
e che volevano vedere quelle loro stesse fantasie ricreate nel mon­
do digitale.
In una lettera aperta indirizzata alla comunità dei fan di Star
Wars, Koster ha descritto in questi termini le sue aspettative circa il
progetto:

Star Wars è un universo adorato da molti. Penso che molti di voi siano
come me. Vorreste essere lì. Vorreste vedere com ’è. Prima ancora di
pensare ad alberi della saggezza e alPavanzare degli Jedi, prima ancora
di considerare le possibilità date da un’arma, la distanza da M os Eisley
e dove bisogna andare per raccattare dei convertitori di energia, quel­
lo che vorrem o è soltanto essere lì; respirare l’aria pungente del deser­
to; guardare qualche jawa azzuffarsi per un androide; sentire il sole
che scalda un corpo che non è il tuo in un mondo che ti è estraneo.
Non vuoi sapere nulla delle teniche di costruzione della scena in quei
primi momenti. Vuoi sentirti come se avessi un passaporto per un uni­
verso senza limiti di possibilità... il mio lavoro è cercare di catturare
quella magia per voi, per farvi vivere questa magica esperienza.40

molto tem po"a. Per giocare ai giochi amatoriali, è necessario acqui­


stare il videogioco commerciale che ne è alla base e che trasforma tut­
ti i modder entusiasti in apostoli dell'azienda produttrice.
A ll'in iz io del capitolo, ho tracciato una distinzione tra Γinterattività
(che deriva dalle caratteristiche delle tecnologie dei media) e la par­
tecipazione (che emerge dai protocolli e dalle pratiche sociali dei me­
dia). Può essere utile pensare questa distinzione ponendola in paral­
lelo con quella più famosa, operata da Lawrence Lessig, tra legge e
codice. La legge è un'imposizione sociale: si è liberi di trasgredirla a
rischio di incorrere in sanzioni. Il codice, invece, è un dato tecnico:
è la programmazione che rende impossibile la violazione delle restri­
zioni d'uso (anche qualora questi lim iti, nella pratica, eccedessero

a. R. Muzyka, "The Audience Takes Change: Game Engines as Creative Tools", En­
tertainment in thè Interactive Age conférence, University of Southern California,
29-30 gennaio 2001, accessibile online su http://www.annenberg.edu/interactive-
age/assets/transcripts/atc.html.
170 C a p it o l o 4

Soddisfare l’interesse dei fan per il franchise si è dimostrato una


sfida. Koster mi ha detto: “È innegabile: i fan conoscono Star Wars
meglio dei nostri sviluppatori. Lo vivono e lo respirano. Lo cono­
scono in modo intimo. D’altra parte, avendo a che fare con un uni­
verso così vasto e vario come quello di Star Wars, ci sono ampie
possibilità che coesistano opinioni diverse sulle cose. Questi aspetti
provocano le guerre di religione tra i fan e all’improvviso dovrai
schierarti e prendere posizione, perché sei tu che dovrai stabilire
come le cose funzionano nel gioco”.
Per assicurarsi la partecipazione dei fan alla sua versione
dell’universo di Star Wars, Koster li ha trattati come se fossero i
clienti per cui lavora, pubblicando regolarmente in rete report sui
diversi elementi del progetto del gioco, creando un forum on line
dove i giocatori potenziali potevano rispondere e proporre sugge­
rimenti, monitorando regolarmente, con il suo staff, i gruppi di di­
scussione e rispondendo con le proprie osservazioni alle raccoman­
dazioni della comunità. Al confronto, la produzione di un film di
Star Wars è coperta dal segreto. Koster paragona il suo lavoro al
processo di test screening e focus group attraverso cui passano molti
film di Hollywood, ma la differenza è che buona parte di queste
prove si svolge a porte chiuse e tra gruppi selezionati di consuma­
tori. Esse non sono aperte alla partecipazione di chiunque voglia

qualsiasi ragionevole richiesta di legge). Possiamo vedere il modding


come un caso peculiare in cui la cultura partecipativa cerca di ripro­
grammare il codice in modo da rendere possibili nuove modalità di
interazione con il gioco. D'altra parte, è anche un caso particolare in
cui il produttore commerciale continua a imporre restrizioni d'uso an­
che quando l'opera viene fatta propria dalla comunità grassrooots.
Posso cambiare il codice fondamentale del gioco se ne faccio il m od­
ding ma, allo stesso tempo, nessun altro può giocare alla mia versione
modificata a meno che non accetti prima di acquistare una copia del
gioco originale.
Bioware e altre società produttrici di videogiochi interpretano la realiz­
zazione di strumenti di modding come ricerca e analisi del consuma­
tore; osservano i modder amatoriali per vedere quali contenuti di gio­
chi sono più popolari e, poi, cercano di produrre versioni più raffinate
e professionali quando aggiornano il prodotto. In qualche caso, le
aziende comprano i d iritti dei giochi creati dai giocatori e li mettono in
commercio, oppure reclutano tra le loro fila i modder più dotati. Coun-
ter-Strike(Ί998), una versione m oddi H alf-Life(1998), è l'esempio più
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 171

unirsi alla conversazione. È difficile immaginare Lucas allestire un


forum online dove concordare in anticipo con il suo pubblico la
narrazione e i suoi personaggi. Se l’avesse fatto, non avrebbe mai
incluso Jar Jar Binks nella storia o dedicato così tanto tempo all’in­
fanzia e all’adolescenza di Anakin Skywalker, decisioni che hanno
contrariato i suoi fan più fedeli. Koster voleva invece che gli appas­
sionati di Star Wars avessero la sensazione di aver progettato da so­
li la loro galassia.
Gli studiosi di videogiochi Kurt Squire e Constance Steinkueh-
ler hanno esaminato le interazioni tra Koster e la sua comunità di
fan. A loro avviso egli ha permesso agli utenti di agire come “gene­
ratori di contenuto creando imprese da compiere, missioni e rela­
zioni sociali che costituiscono il mondo di Star Wars”. Ad assumere
ancora più importanza, tuttavia, è lo spazio lasciato al feedback dei
fan nel “dare il tono” alla cultura di Star Wars:

Gli utenti avrebbero stabilito le norme civili della comunità e i ruoli


da ricoprire al suo interno, dando ai creatori la possibilità di gettare i
semi del mondo di Star Wars Galaxies addirittura vari mesi prima che
il gioco giungesse sugli scaffali dei negozi... il gioco promesso dagli
autori e atteso dai player era largamente definito dall’utente. L’econo­
mia del gioco sarebbe stata prodotta da articoli (per esempio abiti, ar-

citato di successo commerciale nato dal modding, ma numerosi mod


meno noti sono stati inclusi dalla Bioware nei pacchetti di espansione
di Neverwinter Nights (2002). Altre comunità di appassionati hanno
esercitato storicamente una funzione di palestra preparatoria a ll'in ­
gresso nel settore dei media commerciali: molti fumettisti e scrittori di
fantascienza, per esempio, hanno iniziato le loro carriere dalle pubbli­
cazioni fan. Tuttavia, la comunità del modding è unica in questa prati­
ca dell'acquisizione e della distribuzione di opere amatoriali da parte
delle imprese commerciali. A llo stesso tempo, il confine tra produzio­
ne amatoriale e professionale sfuma, perché piccole aziende possono
costruire i loro giochi servendosi degli stessi strumenti, e poi ricorrere
alle stesse aziende produttrici originali per la distribuzione3.

a. D. Nieborg, "Am I Mod or Not? An Analysis of First Person Shooter Modification


Culture", dossier presentato alla Creative Gamers Conference, University of Tam-
piere, Tampiere, Finlandia, gennaio 2005.
172 C a p it o l o 4

mature, case, armi) creati dai giocatori con prezzi da essi stabiliti, at­
traverso aste e negozi autogestiti. Città e paesi sarebbero stati proget­
tati dai giocatori, e i sindaci e i capi dei consigli avrebbero escogitato
le missioni e le imprese per altri giocatori. La Guerra Civile Galattica
(la lotta tra i ribelli e i rappresentanti dell’impero) avrebbe fatto da
cornice al gioco, ma i giocatori avrebbero creato le loro missioni m et­
tendo in scena la saga di Star Wars. In breve, il sistema è stato pensato
per essere “guidato” dall’interazione con il pubblico, con il mondo
virtuale meno prodotto dagli autori e più creato dai giocatori stessi.41

I protagonisti del videogioco possono adottare l’identità di una


delle numerose razze aliene rappresentate nell’universo di Star
Wars - dai Jawa ai Wookie - , svolgere diverse professioni - dai pi­
loti di navicelle ai cacciatori di taglie - e interpretare a pieno fanta­
sie individuali e condivise. Quello che i giocatori non possono fare
è invece interpretare i ruoli dei personaggi principali di Star Wars.
Per conquistare lo status di cavaliere Jedi devono portare a termine
una serie di missioni del gioco. Se così non fosse, la trama narrativa
sarebbe crollata di fronte a migliaia di Han Solo che sfuggono alla
cattura di altrettante migliaia di Boba Fett. Al fine di mantenere un
mondo coerente, i giocatori devono abbandonare le loro fantasie
infantili di diventare i protagonisti e accontentarsi di recitare il

Tali pratiche riducono i rischi legati all'innovazione, permettendo ai


dilettanti di sperimentare possibili nuove direzioni e sviluppi, e
all'azienda di mettere sul mercato i prodotti che portano profitti. Allo
stesso tempo, il processo del modding può prolungare la vita di mer­
cato del prodotto, anche se la sua tecnologia nel frattempo invecchia,
grazie al ruolo della comunità nel mantenere attivo l'interesse del
pubblico. Queste pratiche, inoltre, accrescono la fedeltà del consu­
matore: i fan più accaniti sono meglio disposti nei confronti delle
aziende che permettono il modding perché sanno di potere procurarsi
contenuti gratuiti del gioco acquistato. In qualche caso, le imprese
produttrici riducono i contenuti del prodotto venduto all'in izio , affi­
dandosi ai modder per l'ampliamento dell'esperienza e della natura
del gioco. L'analogia con Tom Sawyere la pittura dello steccato si pre­
sta alla perfezione: i produttori di giochi sono stati in grado di convin­
cere i consumatori a spendere una grande quantità di lavoro non re­
tribuito trattando la progettazione come un'estensione dell'esperienza
di gioco. A llo stesso tempo, la comunità del m odding può spingersi
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 173

ruolo di personaggi secondari, che interagiscono con altri innume­


revoli personaggi secondari, alPinterno di un mondo fantastico
condiviso. Ciò che rende possibili tali negoziazioni e collaborazioni
è il fatto che esse sono il frutto di un background comune nell’am­
bito della mitologia già ben definita di Star Wars. Come è stato no­
tato da Squire e Steinkuehler, “Gli autori del gioco non possono ri­
chiedere agli Jedi di agire coerentemente con l’universo di Star
Wars, ma possono progettare delle strutture del gioco, per esempio
dei premi, che consentano agli utenti di usufruire e mettere in gio­
co le caratteristiche dello Jedi (per esempio dando un alto bonus a
chi cattura uno Jedi che potrebbe compiere azioni segrete alle spal­
le di altri suoi simili)”42.
Tornando al nostro punto iniziale, possiamo quindi dire che un
numero crescente di giocatori usa personaggi, strumenti e ambienti
del gioco Star Wars Galaxies come mezzi per produrre i propri fan
film. In qualche caso, usano questo corredo per riproporre delle
scene del film o per creare la propria fan fiction. Probabilmente la
più intrigante tra le nuove forme di fan cinema che emergono dal
mondo del gioco sono le cosiddette Cantina Crawls43. Nello spiri­
to della scena del bar presente nel film Star Wars, il gioco ha creato
una serie di personaggi le cui funzioni nel mondo del gioco stesso
consistono nell’intr attener e gli altri giocatori. Questi possono com-

sino a divenire quasi un movimento sperimentale e indipendente in­


torno ai giochi, con un gran numero di amatori che producono giochi
solo vagamente affiliati all'industria commerciale, in un tempo in cui
il consolidamento del controllo produttivo del settore è nelle mani di
un gruppo ristretto di grandi imprese, avverse al rischio e orientate ver­
so profitti commerciali su larga scala3.
Il m oddingè la versione estrema di pratiche più diffuse attraverso le
quali i giocatori personalizzano personaggi, ambienti ed esperienze
di gioco. W ill Wright, il creatore di SimCity (1989) e di The Sims
(2000), sostiene che i produttori di giochi mantengono un muro d ivi­
sorio più basso tra produttori e consumatori rispetto ad altri settori

a. H. Postigo, "From Pong to Placet Quake; Post-Industrial Transitions from Leisure to


Work", Information.Communication & Society, dicembre 2003. J. Kuckilich, "Pre-
carious Playbour: Modders and thè Digital Games Industry", dossier presentato alla
Creative Gamers Conference, University of Tampiere, Tampiere, Finlandia, genna­
io 2005.
174 C a p it o l o 4

Figura 4.3 Ogni personaggio in questo numero musicale da Christmas Crawl


1 dei Gypsies, creato con il gioco Star Wars Galaxies, è controllato
da un diverso giocatore.

piere speciali movimenti che consentono loro di danzare e muover­


si in modo erotico, se il giocatore preme determinate combinazioni
complesse di tasti. Gruppi di più di tre dozzine fra musicisti e bal­
lerini ideano, provano ed eseguono in modo sincronizzato com­
plessi numeri musicali: per esempio Christmas Crawl 1 di The
Gypsies presentava alcuni numeri come “Santa Claus is Coming to
Town” e “Have Yorself a Merry Little Christmas”; ballerine dalla

dell'industria dell'intrattenim ento, in parte perché molti di loro non


hanno dimenticato quando la gente progettava giochi in cantina3.
Con The Sims, W right ha creato la casa di bambole più spettacolare
del mondo, ha convinto il pubblico a pagare per entrarvi a giocare e
ha incoraggiato gli utenti a cambiarla secondo i loro gusti. W right e il
suo gruppo si rivolsero alla base di fan già esistente per il franchise
SimCity, offrendo ad alcuni webmaster-chiave il diritto di partecipare
al dibattito aperto sul progetto del gioco e sul suo sviluppo, dando lo­
ro un accesso avanzato agli strumenti di modifica che potevano usare
per disegnare le loro "skin" e produrre i loro arredamenti, permetten­
do quindi loro di vedere webcast e scaricare migliaia di immagini su
come il gioco si andava sviluppando. Al tempo in cui fu messa in ven­
dita la prima versione, c'erano già almeno cinquanta siti web di fan.

a. Se non indicato diversamente, le citazioni di W ill Wright sono tratte da un'intervi­


sta con l'autore del giugno 2003.
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 175

pelle blu e dai capelli a tentacoli agitano le loro scarpette; alieni si­
mili a lucertole con indosso un berretto da Babbo Natale suonano
il sax; dei tipi con le branchie danzano come una boy band mentre
attorno a loro scendono fiocchi di neve (Figura 4.3). Immaginate
cosa sarebbe sembrato Star Wars se fosse stato diretto da Lawrence
Welk!
Può darsi benissimo che ci sia molto da dire sotto il profilo este­
tico, comunque bisogna ammirare la perizia tecnica e il gioco di
squadra richiesti nella produzione di tali contenuti filmici. Quando
fornisci alle persone comuni degli strumenti creativi, non si può
mai dire che cosa possano farci - e questo costituisce una buona
parte del divertimento.

Dove arriveremo ì

È ancora presto per dire se gli esperimenti di contenuti generati


dai consumatori possano esercitare un’influenza sulle imprese dei
mass media. Alla fine, dipende da quanto seriamente dobbiamo
prendere la loro retorica sul liberare i consumatori e dare loro po­
tere, come mezzo per costruire una forte fedeltà al marchio. Per il
momento, quello che si vede è contraddittorio: per un franchise

Oggi ce ne sono invece migliaia. W right stima che, alla fine, più del
60% del contenuto di The Sims è stato sviluppato dai suoi fan. Questi
hanno disegnato vestiti, costruito case e arredamenti, programmato
comportamenti e scritto le proprie storie, ampiamente illustrate con
schermate del gioco. Nota poi con modestia: "A noi probabilmente va
il merito del primo milione di unità vendute, ma è stata la comunità a
far compiere il salto di qualità all'operazione".
Per distribuire tutto questo contenuto, i fan hanno creato una grande
varietà di siti online. Forse il più complesso e conosciuto tra questi è
"The Mall of The Sims". I visitatori possono dare un'occhiata a più di
cinquanta negozi diversi che offrono qualsiasi articolo, dall'elettroni­
ca più aggiornata all'antiquariato, dagli arazzi medievali ad abiti per
taglie strane - e skin che riproducono l'aspetto di Britney Spears o di
Sarah M ichelle Gellar, o di personaggi presi da Star Wars. The Mail ha
il suo quotidiano locale e la sua stazione tv. Attualmente, la comunità
vanta più di 10.000 iscritti. Wright nota che il successo del franchise
ha quasi provocato l'estinzione della comunità dei fan, perché i siti
176 C a p it o l o 4

che si apre e che corteggia i suoi fan ce ne sono altri che inviano let­
tere di diffida. Di fronte alPintersezione tra la convergenza grass­
roots e quella corporate, non dobbiamo sorprenderci del fatto che
né i produttori, né i consumatori sappiano ancora quali siano le re­
gole che dovrebbero governare le loro interazioni. Entrambi i sog­
getti sono tuttavia costantemente spinti a vedere la controparte co­
me responsabile delle proprie scelte e azioni. La differenza è che la
comunità dei fan si trova a dover negoziare da una posizione rela­
tivamente priva di potere, facendo leva solo sull’autorità morale
collettiva, mentre le grandi aziende, per il momento, si comporta­
no come se avessero la forza della legge dalla loro parte.
Tirando le somme, la posizione proibizionista non risulta esse­
re, tranne che per situazioni locali, molto efficace, a meno che le
media company non riescano a conquistare il consenso popolare.
Dovunque abbiano intenzione di tracciare i confini, dovranno ri­
spettare il clima d’opinione sempre più diffuso intorno a ciò che
costituisce un uso equo del contenuto mediatico, permettendo
quindi al pubblico di incidere significativamente sull’elaborazione
delle proprie forme culturali.
Per raggiungere questo equilibrio, gli studios dovranno accetta­
re (e promuovere attivamente) alcune distinzioni basilari: tra la
concorrenza commerciale e l’appropriazione amatoriale; la logica

più popolari dovevano pagare bollette salate per la banda che consu­
mavano. La situazione si è risolta quando l'azienda ha rinegoziato i
termini degli accordi di licenza, in modo che i fan potessero chiedere
un piccolo contributo di iscrizione per coprire i costi di gestione dei
centri di distribuzione. Tutti gli articoli in vendita nei negozi virtuali
sono prodotti da altri giocatori, e una volta pagata l'iscrizione è pos­
sibile scaricare qualsiasi cosa gratuitamente.
Ancora più importante, tutto avviene con l'approvazione di W ill W ri­
ght e Maxis, l'azienda per cui lavora. Non è stato lui a costruire The
M ail, non vigila sul copyright né pretende la proprietà sulle creazioni
dei fan. W right lascia che tutto vada per la sua strada. Come spiega:

Noi vediamo tanti benefici daN'interazione con i nostri fan. Non


sono solo acquirenti dei nostri prodotti. In un senso molto concre­
to, ci aiutano a crearli...Noi siamo in concorrenza con altre azien­
de per avvalerci della collaborazione di questi individui creativi.
Tutta questa varietà di giochi differenti si contende le varie comu-
St a r W ars di Q u e n t in Ta r a n t in o ? 177

del profitto e l’economia dello scambio su cui si basa il Web; la rie­


laborazione creativa e la pirateria.
Ognuna di queste concessioni sarà tanto difficile da mandare
giù, per le grandi aziende, quanto necessaria se esse vogliono eser­
citare una sufficiente autorità morale per battere le forme di pira­
teria che minacciano il loro sostentamento economico. In tempi
duri come questi, non credo che gli studios allenteranno volonta­
riamente la stretta sulla proprietà intellettuale. Ciò che mi dà qual­
che speranza, tuttavia, è il fatto che l’approccio collaborativo sta
guadagnando qualche punto d’appoggio all’interno degli stessi me­
dia.
Gli esperimenti in corso su questo piano suggeriscono che i pro­
duttori mediatici possano ottenere più fedeltà e più conformità ai
propri interessi legittimi se corteggiano i fan. La cosa migliore per
ottenere questo obiettivo è dare loro un qualche motivo di coinvol­
gimento nella sopravvivenza del franchise, facendo in modo che il
contenuto che ricevono rifletta al meglio i loro interessi, creando
uno spazio dove possano portare il loro contributo creativo, e dan­
do poi il giusto riconoscimento ai lavori migliori che ne emergono.
In un mondo in cui le opzioni nel campo dei media sono in con­
tinua espansione, assisteremo a una caccia agli spettatori come le
corporation non hanno mai visto prima. Molta della gente più bril-

nità in campo, che alla lunga saranno quelle che determineranno


le nostre vendite...Il gioco che riuscirà ad attrarre la migliore co­
munità, sarà quello che avrà maggiore successo. Ciò che si può fa­
re per aumentarne il successo non è tanto migliorare il gioco,
quanto migliorare la comunità.

L'immagine qui fornita da W right delle aziende produttrici di video­


giochi che si contendono i consumatori creativi è in linea con la pre­
dizione di McCracken, secondo cui le imprese più brillanti del futuro
saranno quelle che incoraggeranno, anziché limitare, la partecipazio­
ne degli utenti, mentre quelle che non rafforzeranno il loro legame
con i consumatori non saranno in grado di competere. Come risultato
della prospettiva illuminata di Wright, The Sims è divenuto forse il
franchise di gioco di maggior successo di tutti i tempi.
178 C a p it o l o 4

lante delle imprese mediatiche ne è consapevole: qualcuno sta già


tremando, altri stanno provando a rinegoziare le loro relazioni con
i consumatori. I produttori dei media, in fin dei conti, hanno biso­
gno dei fan almeno quanto questi hanno bisogno di loro.
C a p it o l o 5

Perché Heather può scrivere


La letteratura mediale e le guerre di Harry Potter

Abbiamo visto finora che i media corporate stanno prendendo


gradualmente coscienza del valore e della minaccia insiti nella par­
tecipazione dei fan. Produttori e pubblicitari oggi parlano di “capi­
tale emozionale” o di “lovemarks” per riferirsi all’importanza
dell’investimento e del coinvolgimento dei pubblici nei contenuti
mediatici. Gli autori oggi concepiscono la narrazione in termini di
creazione di aperture alla partecipazione dei consumatori. Allo
stesso tempo, gli utenti usano le nuove tecnologie per accedere ai
contenuti dei vecchi media, vedendo Internet come strumento per
il problem solving collettivo, il dibattito pubblico e la creatività
grassroots. In effetti abbiamo ipotizzato che sia l’interazione - e la
tensione - tra la forza top-down della convergenza corporate e
quella bottom-up della convergenza grassroots, a guidare molti dei
cambiamenti che osserviamo nel panorama dei media.
Da tutti i lati e a tutti i livelli, il termine “partecipazione” è
emerso come concetto dominante, sebbene circondato da aspetta­
tive opposte. Le grandi aziende immaginano la partecipazione co­
me qualcosa da poter accendere e spegnere, incanalare e instrada­
re, mercificare e vendere. I proibizionisti tentano di impedirne la
variante non autorizzata, mentre i collaborazionisti provano a tira­
re dalla loro parte i creatori grassroots. Sul fronte opposto, i consu­
matori rivendicano il diritto di partecipare alla definizione della lo­
ro cultura nei loro termini e nelle loro modalità. Questi ultimi, oggi
dotati di una rinnovata potenza, affrontano una serie di battaglie
per preservare e ampliare questo diritto alla partecipazione.
Tutte queste tensioni sono venute chiaramente alla luce in due
gruppi di conflitti, generatisi attorno ai libri di Harry Potter di J. K.
180 C a p it o l o 5

Rowling, che i fan hanno definito “le guerre di Potter”. Da una


parte, vi è stata la lotta di insegnanti, bibliotecari, editori e gruppi
per le libertà civili che hanno preso posizione contro i tentativi del­
la destra religiosa di togliere i libri di Harry Potter dalle biblioteche
scolastiche e vietarne la vendita nelle librerie. Dall’altra, abbiamo
assistito ai tentativi di Warner Bros, di tenere sotto controllo l’ap­
propriazione da parte dei fan dei libri di Harry Potter allorché tale
pratica, a suo avviso, violava i suoi diritti di proprietà intellettuale.
Entrambi i tentativi erano una minaccia al diritto dei bambini di
partecipare al mondo immaginario di Harry Potter - l’uno conte­
stava il loro diritto a leggere e l’altro quello a scrivere. Da un punto
di vista puramente legale, il primo costituisce una forma di censu­
ra, l’altro un legittimo esercizio dei diritti proprietari. Dalla pro­
spettiva del consumatore, invece, la differenza va a sfumare, poiché
entrambe le condotte impongono restrizioni alla possibilità di la­
sciarci coinvolgere a pieno da un’opera di fantasia che ha ormai
conquistato un posto centrale nella nostra cultura.
Più guardiamo da vicino questi due conflitti e più ci sembrano
complessi. Contraddizioni, confusioni e prospettive multiple sono
sicuramente da mettere in conto in un momento di transizione in
cui un vecchio paradigma mediatico muore e un altro è in gestazio­
ne. Nessuno di noi sa realmente come agire in questa era di conver­
genza mediatica, intelligenza collettiva e cultura partecipativa. I
cambiamenti in atto stanno generando ansie e incertezze, perfino
panico, dal momento che la gente da una parte immagina un mon­
do senza gatekeeper e dall’altra si scontra con la dura realtà di un
potere crescente dei media corporate. Le nostre risposte a questi
cambiamenti non possono facilmente essere inquadrate negli sche­
mi ideologici tradizionali: non esiste una risposta univoca di destra
o di sinistra alla cultura convergente. All’interno della Cristianità,
ci sono gruppi che accolgono con favore il potenziale della cultura
partecipativa e altri che ne sono terrorizzati. Per ciò che concerne
le aziende, come abbiamo visto, vi sono improvvise oscillazioni tra
risposte proibizioniste e collaborazioniste. Tra i riformatori dei
media, alcune forme di partecipazione sono più apprezzate rispetto
ad altre. Gli stessi fan sono in disaccordo tra loro su quanto con­
trollo Warner Bros, o J. K. Rowling debbano avere su quel che i
consumatori fanno con Harry Potter. Nessuno sa tutte le risposte.
Quanto è stato scritto fin qui suggerisce che le guerre di Potter
sono fondamentalmente uno scontro sui diritti di lettura e di scrit­
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 181

tura relativamente ai grandi miti della cultura - cioè una lotta per
l’alfabetismo. In questo contesto, alfabetismo non riguarda solo
quello che possiamo fare con il materiale stampato, ma più in ge­
nerale quello che possiamo fare con i media. Proprio come non ab­
biamo mai considerato “alfabeta” qualcuno che sappia leggere ma
non scrivere, allo stesso modo non possiamo concepire che qualcu­
no sia, per così dire, medialfabeta se può solo consumare ma non
ha alcuna possibilità di espressione. Nella storia, le limitazioni
all’alfabetizzazione derivano da tentativi di controllare segmenti
diversi della popolazione - alcune società hanno abbracciato l’idea
di un’alfabetizzazione universale, altre ne hanno ristretto la possi­
bilità a specifiche classi sociali oppure in base alla razza o al genere.
Possiamo anche leggere l’attuale battaglia sull’alfabetismo in fun­
zione dei suoi esiti: decideranno chi ha il diritto di stabilire chi può
partecipare alla nostra cultura e in quali termini. Harry Potter è un
caso piuttosto emblematico per l’analisi dei limiti attualmente posti
all’alfabetismo, perché il libro stesso tratta esplicitamente i temi
dell’educazione (spesso prestando la sua voce all’espressione dei di­
ritti dei ragazzi rispetto ai vincoli delle istituzioni) e anche perché è
stato molto apprezzato dalla critica per avere sollecitato i giovani a
sviluppare le proprie capacità di alfabetizzazione.
Tuttavia, i libri sono anche stati al centro di vari tentativi di limi­
tare le possibilità di scrittura e lettura dei ragazzi. La mia attenzione
è rivolta alle guerre di Harry Potter come scontro tra nozioni oppo­
ste di medialfabetizzazione e sul modo in cui questa dovrebbe essere
insegnata: la pedagogia informale che è emersa all’interno della co­
munità di fan di Harry Potter, ai tentativi di intercettare l’interesse
verso il libro da parte dei bambini nelle classi scolastiche e nelle bi­
blioteche; agli sforzi dei media corporate di impartirci una lezione
su un trattamento responsabile della loro proprietà intellettuale; al­
le ansie sulla secolarizzazione dell’istruzione espresse dai conserva-
tori cristiani; alla concezione profondamente diversa di pedagogia
condivisa dai difensori cristiani dei racconti di Harry Potter all’in­
terno del “movimento del discernimento”. Tutte le parti in causa
reclamano una quota partecipativa alla formazione dei ragazzi, poi­
ché la loro istruzione è spesso vista come il cantiere della nostra cul­
tura futura1. Analizzando più da vicino le varie posizioni in tema di
educazione, possiamo individuare alcune delle aspettative contrad­
dittorie che stanno dando forma alla cultura convergente. Lungo la
strada, prenderò in considerazione cosa accade quando il concetto
182 C a p it o l o 5

di cultura partecipativa si va a scontrare con due delle forze più in­


fluenti sulle vite dei bambini: l’educazione e la religione.
Pensatela come una storia della partecipazione e delle sue avver­
sità.

Tutti a Hogwarts

All’età di tredici anni, Heather Lawver lesse un libro che, come


disse in seguito, ha cambiato la sua vita: Harry Potter and Sorcerer’s
Stone2. Ispirata dai commenti che il libro di Rowling stava spingen­
do i bambini alla lettura, ha voluto anche lei fare la sua parte per
promuovere l’alfabetismo. Meno di un anno dopo, lanciò The Dai­
ly Prophet (http//www.dprophet.com), un “giornalino scolastico”
online della immaginaria scuola di Hogwarts. Oggi collaborano al­
la sua pubblicazione 102 ragazzi di tutto il mondo.
Lawver, ancora giovanissima, è caporedattore. Assume giornali­
sti che scrivono con cadenza settimanale - di tutto, dalle ultime
partite di quidditch alla cucina dei babbani. Heather redaziona per­
sonalmente ogni articolo prima di pubblicarlo, incoraggia i suoi
collaboratori a confrontare i loro testi originali con le versioni re-
dazionate e offre la sua consulenza sui vincoli stilistici e grammati­
cali da osservare. All’inizio, Heather ha pagato con i suoi risparmi
le spese di gestione del sito, poi qualcuno le ha suggerito di pren­
dere una casella postale a cui i partecipanti potevano inviare i loro
contributi; continua ancora a cavarsela con un budget molto ridot­
to ma almeno oggi può attingere alle donazioni dei suoi amici e
collaboratori per restare a galla in caso di difficoltà.
Lawver, tra l’altro, ha studiato a casa e non ha messo piede in
un’aula scolastica dopo la prima elementare. La sua famiglia è ri­
masta inorridita dal razzismo e dall’anti-intellettualismo che hanno
incontrato quando la figlia ha cominciato a frequentare la prima
elementare in un istituto scolastico di campagna del Mississippi.
Lei stessa ha spiegato: “Era difficile combattere i pregiudizi doven­
doli subire ogni giorno. Ci hanno ritirato dalla scuola, me e uno dei
miei fratelli. E non abbiamo più voluto tornarci.”
Una ragazzina che non era più andata a scuola dopo la prima
elementare era alla testa di uno staff internazionale di studenti-
scrittori che pubblicavano, senza nessuna supervisione di adulti, il
giornalino scolastico di una scuola che esisteva solo nella loro im-
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 18 3

maginazione. Fin dall’inizio, Lawver inquadrò il suo progetto


all’interno di una cornice pedagogica che aiutava i genitori a com­
prendere la partecipazione dei loro figli. In una lettera aperta ai ge­
nitori dei suoi collaboratori, Lawver illustra gli obiettivi del sito:

The Daily Prophet è un’organizzazione dedicata a trasferire la vita let­


teraria in quella v era... Creare un “giornalino” online con articoli che
invitano i lettori a credere all’esistenza reale del mondo fantastico di
Harry Potter, apre la mente all’esplorazione dei libri, all’identificazio­
ne con i personaggi e all’analisi della grande letteratura. Sviluppando
l’abilità mentale di esaminare la parola scritta in giovane età, i bambini
possono scoprire meglio di altri l’amore per la lettura. Creando questo
mondo fittizio impariamo, creiamo e ci divertiamo in una società uto­
pica composta da amici.3

Lawver è così brava a imitare il linguaggio degli insegnanti che


ci si dimentica facilmente che non ha ancora un’età adulta. Per
esempio, fornisce rassicurazioni sul fatto che il sito proteggerà le
identità reali dei bambini e che pubblicherà solo quegli articoli che
non trattano contenuti inadatti a giovani lettori4. Lawver era ansio­
sa di avere un riconoscimento al suo lavoro da parte di docenti, bi­
bliotecari e dei suoi colleghi autodidatti. Ha sviluppato quindi pia­
ni dettagliati su come gli insegnanti potessero usare il suo modello
per creare versioni proprie del giornalino scolastico di Hogwarts
come progetto di classe. Alcuni di loro hanno accolto la sua offerta.
Incontrato nell’ambito dell’istruzione formale o al di fuori di es­
sa, il progetto di Lawver ha permesso ai bambini di immergersi nel
mondo immaginario di Hogwarts e di sentirsi realmente in connes­
sione con una comunità vera di bambini in tutto il mondo che la­
voravano insieme alla realizzazione di The Daily Prophet. La scuola
che inventavano insieme (sulla base del racconto di J. K. Rowling)
non poteva essere più diversa da quella nel Mississippi da cui era
scappata Heather. Anche qui, gente di diverse origini nazionali,
razziali ed etniche (alcune vere, altre fittizie) formava una comuni­
tà dove le differenze tra individui erano accettate e l’apprendimen­
to era posto al centro del gioco.
Il punto d’ingresso a questa scuola immaginaria era dato dalla
costruzione di un’identità fittizia, poi questi personaggi divenivano
protagonisti delle “storie di cronaca” di Hogwarts. Per molti ragaz­
zi, tutto quello che scrivevano era il loro profilo: avere un alter ego
184 C a p it o l o 5

all’interno della fiction appagava quei bisogni che li avevano porta­


ti a partecipare al sito. Per altri, invece, era solo il primo passo ver­
so un fantasticare più complesso della loro vita a Hogwarts. Nelle
loro descrizioni, spesso i bambini mescolavano dettagli banali delle
loro vite quotidiane a storie fantastiche ambientate nel mondo in­
ventato da J. K. Rowling:

Mi sono trasferito di recente, dalPAccademia di Magia di Madame


M cKay in America, alla scuola di Hogwarts. H o vissuto per molti anni
nel sud della California e mia madre non ha mai confessato a mio pa­
dre di essere una strega, fino al giorno del mio quinto compleanno (lui
se ne è andato poco dopo).

Rimasta orfana all’età di 5 anni, quando i suoi genitori m orirono di


cancro, questa strega “purosangue” fu spedita a vivere in una famiglia
di maghi associati al Ministero della Magia.

L’immagine di un bambino speciale cresciuto in una normale fa­


miglia (in questo caso babbana), che scopre la sua vera identità in
età scolare, è un tema tipico dei romanzi fantasy e delle fiabe. Tut­
tavia in questi testi sono frequenti i riferimenti al cancro e al divor­
zio, difficoltà del mondo reale che molti bambini si trovano a do­
ver affrontare. Dalle descrizioni stesse, non possiamo sapere con
certezza se questi sono problemi biografici o se si tratta di possibi­
lità temute ed esplorate nelle loro fantasie. Heather ha affermato
che molti bambini approdano al The Daily Prophet perché le loro
scuole o le loro famiglie li hanno delusi in qualche modo; usano co­
sì la nuova comunità scolastica per rielaborare i loro sentimenti su
qualche evento traumatico o per compensare la loro estraniazione
dai loro coetanei più prossimi. Alcuni bambini sono attratti da cre­
ature fantastiche - come elfi, goblin, giganti, e così via - mentre al­
tri faticano a immaginare se stessi diversi dai semplici babbani, an­
che nella fantasia del gioco. I bambini usano le storie come fuga
dalla loro vita reale o per riaffermarne invece qualche aspetto5.
Il mondo ricco e dettagliato di Rowling concede molte porte di
ingresso. Alcuni bambini si sentono legati ai personaggi, a quelli
principali come Harry Potter o Snape, ma anche alle figure secon­
darie - gli inventori delle scope per il quidditch, gli autori dei libri
di testo, i capi delle agenzie referenziate, i compagni di classe dei
genitori di Harry - tutte affiliazioni che permettono di reclamare
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 185

un posto speciale per se stessi nella storia. Nel suo libro Writing Su-
perberoes (1997), Anne Haas Dyson usa la metafora del “biglietto
d’ingresso” al fine di descrivere come i ruoli forniti dai prodotti
mediatici per bambini vengano interpretati dagli stessi nell’ambito
di una dimensione scolastica, per stabilire a chi è permesso parteci­
pare e quali ruoli può impersonare6. Alcuni bambini si sentono a
loro agio nei ruoli disponibili; altri si sentono esclusi e devono la­
vorare duramente per proiettarsi nel mondo fantastico. Dyson
pensava soprattutto alle divisioni di genere e razziali ma, data la
natura globale di The Daily Prophet, anche la nazionalità era alme­
no potenzialmente in questione. Nei libri successivi della saga,
Rowling dice chiaramente che Hogwarts interagisce con scuole di
tutto il mondo, il che ha dato agli studenti di molti paesi un “lascia­
passare” per quel mondo immaginario: “Sirius è nato in India da
Ariel e Derek Koshen. Derek lavorava in quel paese come amba­
sciatore del Ministero della Magia. Sirius crebbe a Bombay e parla
correntemente la lingua Hindi. Quando si trovava lì, salvò un Ip-
pogrifo rimasto ferito dal pericolo di diventare una giacca, rinsal­
dando così il suo lungo amore per le creature magiche. Frequentò
la Scuola di Magia e Stregoneria di Gahdal, in Thailandia.” Qui è
d’aiuto il fatto che la comunità si sforzi di essere inclusiva e di ac­
cettare anche fantasie che magari non vanno del tutto d’accordo
con il mondo descritto nei romanzi.
Una conseguenza sorprendente dell’importanza assegnata
all’educazione nei libri di Harry Potter, è che quasi tutti i parteci­
panti del The Daily Prophet si immaginano come studenti dotati. I
bambini che leggono per puro piacere sono una piccola parte
dell’intera popolazione scolastica, perciò è più che comprensibile
che molti di loro siano i prediletti degli insegnanti. Il personaggio
di Hermione ha rappresentato un modello di comportamento par­
ticolarmente influente per le ragazzine studiose che costituivano le
collaboratrici di spicco di The Daily Prophet. Alcune critiche fem­
ministe sostengono che il personaggio cade nello stereotipo femmi­
nile della dipendenza e del sostegno7. Sarà anche vero, ma il perso­
naggio offre alcuni spunti di identificazione per le lettrici in un li­
bro che sarebbe, altrimenti, molto centrato sui ragazzi. Ecco come
una giovane scrittrice formula il suo rapporto con il personaggio:

Il mio nome è Mandi Granger. H o dodici anni e sono nata babbana.


Sì, sono parente di Hermione Granger, siamo cugine. Frequento la
186 C a p it o l o 5

Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Sono al terzo anno. Sto


scrivendo questo articolo mentre faccio i compiti. Spero di aver preso
la bravura di mia cugina. Sono ospite alla casa del Grifondoro, proprio
come lei. Conosco personalmente Harry Potter per via di Hermione.
Lei lo ha portato a casa mia prima che venissi a Hogwarts. Ci troviamo
spesso a parlare della scuola e dei bambini dei Weasley.

Attraverso il fantasticare dei bambini, Hermione assume un


ruolo più attivo e centrale di quello che le viene attribuito da
Rowling nei suoi libri. Come nota Ellen Seiter a proposito del car­
tone per ragazze Strawberry Shortcake (1981), i genitori femministi
sottovalutano la capacità delle loro figlie di andare oltre ciò che
viene rappresentato sullo schermo, e stigmatizzano così la già esi­
gua varietà di contenuti mediatici a esse destinati8. Le lettrici sono
certamente libere di identificarsi con una serie di personaggi
delPaltro sesso - e anche sostenere l’esistenza di legami familiari
particolari può essere un modo per marcare quelle identificazioni.
Tuttavia, in un’età nella quale i ruoli di genere sono rafforzati da
tutte le parti, trasgredirli nella fantasia può risultare più difficile
che non ricostruire i personaggi perché fungano da veicolo per le
proprie fantasie di responsabilità e potere.
In qualche caso, il racconto del passato di questi personaggi è
arricchito con descrizioni dettagliate delle loro bacchette magiche,
di animali domestici, trucchi, materie preferite, progetti futuri e
così via. Questi personaggi di finzione possono contenere i semi
per narrazioni più ampie, e ci fanno capire come la costruzione di
un’identità possa alimentare una successiva fan fiction:

Sono Punica sorella di H arry Potter e quest’anno entrerò come caccia­


tore nella squadra di quidditch di Grifondoro. La mia migliore amica
è Cho Chang e sto uscendo con D raco M alfoy (anche se Harry non ne
è proprio entusiasta). Un altro tra i miei più grandi amici è Riley Ra-
venclaw, con il quale scriviamo insieme. H o pochi animaletti: un The-
stral alato di nome Bostrio, un puledro di unicorno che si chiama Gol­
den e un gufo nevoso (come Hedwig) di nome Cassiddia. Sono riuscita
a scampare all’attacco alla mia famiglia da parte di Lord Voldemort
perché mi trovavo in vacanza da mia zia Zeldy, in Irlanda, ma ho pian­
to molto per la perdita di mamma e papà. Ero furiosa con Ms. Skeeter
per via delle cose orribili che ha scritto sul mio fratellino, e così le ho
spedito il suo pacchettino di pus di bubotubero puro. HA!
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 187

Nello scrivere articoli sulla scuola di Hogwarts per il The Daily


Prophet, i giovani reporter si inseriscono a vicenda come personag­
gi all’interno delle storie raccontate, cercando di conservare quello
che ciascuno vede come il suo posto speciale in quel mondo fanta­
stico. Ne risulta una creazione collettiva di fantasia, a metà strada
tra un gioco di ruolo e una fan fiction. L’intrecciarsi delle fantasie
diviene un elemento chiave per il legame tra questi ragazzi, che si
avvicinano l’uno all’altro interagendo tramite i loro personaggi.
Quali abilità devono avere i ragazzi che vogliono partecipare at­
tivamente alla cultura convergente? In questo libro ne abbiamo in­
dividuate alcune: la capacità di unire la propria conoscenza ad altri
per creare un’intrapresa collaborativa (come per lo spoiling di Sur-
vivor); la capacità di condividere e mettere a confronto sistemi di
valori nel valutare drammi e dilemmi etici (come succede nel gossip
che fiorisce intorno ai reality televisivi); l’abilità di trovare collega-
menti fra frammenti sparsi di informazione (come succede con The
Matrix, 1999, o con Pokémon, 1998); la capacità di esprimere in­
terpretazioni e sentimenti nutriti nei confronti di fiction popolari
attraverso la propria cultura folk (è il caso del fan cinema di Star
Wars) e, infine, la capacità di far circolare le proprie creazioni in re­
te così da poterle scambiare con altri (ancora una volta è il caso del
fan cinema). L’esempio del The Daily Prophet ci suggerisce, tutta­
via, un’altra importante competenza culturale: il gioco di ruolo co­
me mezzo di esplorazione di un regno immaginario e come stru­
mento per lo sviluppo di una conoscenza adeguata di noi stessi e
della cultura che ci circonda. Questi bambini hanno capito Harry
Potter perché hanno occupato uno spazio a Hogwarts; il loro in­
gresso fittizio nella scuola li ha aiutati a mettere in relazione le re­
gole di quel mondo fantastico e i ruoli che i vari personaggi vi svol­
gevano. Proprio come un attore che nella costruzione di un perso­
naggio si affida alla combinazione di ricerca esteriore ed introspe­
zione personale, allo stesso modo i bambini attingevano alla loro
esperienza soggettiva per arricchire in molti modi la fiction di
Rowling. Si tratta di una sorta di padronanza intellettuale che si ac­
quisisce solo attraverso la partecipazione attiva. Allo stesso tempo,
il gioco di ruolo forniva loro l’ispirazione per accrescere le loro
abilità letterarie - proprio quelle che erano già apprezzate
nell’istruzione tradizionale.
Ciò che colpisce in questo processo, tuttavia, è che ha luogo
fuori dalle aule scolastiche e lontano dal controllo diretto degli
188 C a p it o l o 5

adulti. I bambini si insegnano reciprocamente come partecipare a


pieno alla cultura convergente. Sempre di più, gli educatori impa­
rano a valutare l’apprendimento che si attua in questi spazi infor­
mali e ricreativi, specialmente quando lo confrontano con le restri­
zioni imposte dalle politiche educative ufficiali che, apparentemen­
te, tendono a misurare l’apprendimento solo per mezzo di test
standardizzati.
Se i ragazzi acquisiranno gli strumenti necessari alla partecipa­
zione diretta e completa alla loro cultura, potranno apprendere
quelle competenze impegnandosi in attività come la pubblicazione
di un giornalino di una scuola immaginaria o insegnandosi a vicen­
da le abilità necessarie per un gioco massively multiplayer o qualsi­
asi altra cosa che insegnanti e genitori bollano abitualmente come
banali passatempi.

Verso la rielaborazione della scuola

James Paul Gee, docente della School of Education all’Universi-


tà del Wisconsin a Madison, ha coniato l’espressione “spazi di affi­
nità” per definire le culture di apprendimento informale. Lo stu­
dioso si domanda perché la gente impari meglio, partecipi più atti­
vamente e si lasci coinvolgere più in profondità dalla cultura popo­
lare che non dai contenuti dei libri di testo9. Come mi ha detto un
sedicenne fan di Harry Potter: “Una cosa è disquisire su un raccon­
to di cui non hai mai sentito parlare e che non ti interessa affatto,
e un’altra è parlare di una composizione di 50.0 0 0 parole che rac­
conta di Harry ed Hermione e che i tuoi amici hanno scritto in tre
mesi”10. Gli spazi di affinità concedono grandi opportunità di ap­
prendimento, afferma Gee, perché sono sostenuti da intraprese co­
muni che gettano un ponte su differenze di età, classe, razza, gene­
re e livello culturale, perché le persone possono partecipare in mo­
di diversi in funzione delle loro capacità e dei loro interessi, perché
dipendono da un apprendimento “tra pari” in cui ogni partecipan­
te è costantemente motivato ad acquisire nuovo conoscere o a per­
fezionare le competenze che già possiede, che permettono a ogni
partecipante di sentirsi un esperto mentre si avvale delle abilità e
conoscenze degli altri. Gli esperti si rendono sempre più conto che
l’interpretazione, la ripetizione e l’appropriazione di elementi da
storie esistenti è una componente organica e preziosa del processo
Pe r c h é H e a t h e r p u ò s c r iv e r e 189

attraverso il quale i bambini sviluppano la loro alfabetizzazione


culturale11.
Dieci anni fa, la maggior parte delle pubblicazioni di fan fiction
era opera di donne ventenni, trentenni e oltre. Oggi, queste scrit­
trici più mature sono affiancate da una generazione di giovanissimi
colleghi che hanno scoperto la fan fiction navigando in rete e han­
no deciso di cimentarsi nella scrittura in prima persona. Harry Pot­
ter., in particolare, ha incoraggiato molti ragazzi a scrivere e a scam­
biarsi le loro prime opere. Zsenya, la trentatreenne Webmistress di
The Sugar Quill, uno dei siti principali della fan fiction di Harry
Potter, così ha commentato:

In molti casi, gli adulti prestano attenzione ai membri più giovani (in
teoria, tutti gli iscritti al nostro forum devono avere almeno 13 anni).
È come se il sito divenisse una sorta di mamma chioccia. Penso sia un
modo davvero stupendo di com unicare... L’assenza di relazioni faccia-
a-faccia ci mette tutti su uno stesso piano, e dà ai partecipanti più gio­
vani la possibilità di parlare con gli adulti senza sentirsi intimiditi co­
me spesso succede. Dall’altra parte, credo che ciò possa aiutare gli
adulti a ricordarsi com ’è avere una certa età o trovarsi in una certa fase
della vita.12

Questi fan più adulti spesso si ritrovano direttamente a contatto


con persone come Flourish, che ha iniziato a leggere le fan fiction
di X-Files a dieci anni, quando ne aveva dodici scrisse i suoi primi
racconti di Harry Potter e a quattordici pubblicò il suo primo ro­
manzo online13. Divenne presto un mentore per altri fan scrittori
emergenti, alcuni dei quali avevano più del doppio della sua età.
Molti pensavano che Flourish fosse una studentessa universitaria.
L’interazione in rete le ha permesso di tenere nascosta la sua età, fi­
no a quando è diventata una figura così centrale per la comunità
che il fatto di frequentare ancora la scuola media ha perso per tutti
qualsiasi rilevanza.
Gli educatori amano parlare di “impalcatura” per indicare le
modalità di funzionamento passo-dopo-passo del processo pedago­
gico. Questo metodo consiste nell’incoraggiare i ragazzi a mettere
alla prova le sue nuove abilità basandole su quelle già acquisite, co­
sicché queste ultime siano un supporto per le nuove fino a quando
il bambino non le manipolerà comodamente. A scuola, l’impalcatu­
ra viene fornita dall’insegnante. Nella cultura partecipativa, l’inte­
190 C a p it o l o 5

ra comunità si accolla la responsabilità di aiutare i neofiti a trovare


la loro strada. Molti giovani autori hanno cominciato a comporre
le proprie storie come risposta spontanea alla cultura popolare. Per
questi, il passo successivo fu la scoperta della fan fiction su Inter­
net, che offriva loro modelli alternativi di autorialità. In primo luo­
go, la comunità offre stimoli ai lettori per varcare la soglia della
mera lettura e passare alla creazione e alla pubblicazione dei propri
componimenti. Una volta che un fan si lascia convincere, i feedback
che riceve fungono da ulteriore ispirazione e da fonte di migliora­
mento della scrittura.
Che differenza può fare, a lungo termine, il fatto che un nume­
ro crescente di giovani scrittori inizi a pubblicare e ricevere com­
menti ai propri scritti ancora in età da liceo? Svilupperanno più ve­
locemente la loro arte? Troveranno la loro vera voce più presto? E
cosa accade quando questi giovani scrittori si scambiano osserva­
zioni, diventano critici, redattori e mentori? Tutto ciò potrà aiutar­
li ad acquisire un lessico critico che servirà loro per riflettere sulla
narrazione? Nessuno ha risposte certe, ma le potenzialità sembrano
enormi. L’autorialità è circondata da un’aura quasi sacra, in un
mondo dove le occasioni di far circolare le proprie idee verso un
pubblico più vasto sono piuttosto limitate. Ampliando l’accesso al­
la distribuzione di massa via Web, il significato che attribuiamo alla
figura dell’autore - nonché l’autorità che dovrebbe essergli ascritta
- cambia necessariamente. Tale passaggio può condurre a una mag­
giore consapevolezza dei diritti della proprietà intellettuale, dal
momento che sempre più persone provano un senso di possesso nei
confronti dei loro scritti. Tuttavia, ne potrà venir fuori anche una
demistificazione del processo creativo, un riconoscimento progres­
sivo della dimensione espressiva pubblica, dato che la scrittura ri­
prende per molti aspetti la pratica della tradizione folk.
La comunità dei fan ha compiuto enormi progressi nell’offerta
di un’istruzione informale per gli scrittori emergenti. Il più vasto
archivio di Harry Potter, www.fictionalley.org, ospita attualmente
più di 3 0 .0 0 0 storie e capitoli di libri, fra cui centinaia di romanzi
completi o parziali. Queste storie sono scritte da autori di tutte le
età. Più di duecento sono i componenti volontari dello staff, di cui
quaranta sono mentori che si occupano di accogliere individual­
mente i nuovi arrivati. Nel sito The Sugar Quill, www.sugar-
quill.net, ogni storia pubblicata viene prima sottoposta a beta-lettu­
ra (il processo di revisione tra pari). Essa prende il suo nome dal be­
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 191

ta-testing della programmazione informatica: i fan chiedono consi­


gli sulle bozze dei loro lavori quasi completi in modo da corregger­
ne i “difetti” e migliorarli nella stesura finale. Come spiegano i re­
dattori: “Vogliamo che questo sia un posto dove la fan fiction vie­
ne letta e apprezzata, e dove gli scrittori non desiderosi soltanto di
complimenti possano trovare critiche obiettive e costruttive (gar­
bate - pensate a Lupin, non a McGonagall), e una redazione tecni­
ca. Abbiamo trovato essenziali tutti questi contributi per le nostre
storie e ci piacerebbe aiutare gli altri nel perseguire lo stesso scopo.
Speriamo che questa esperienza dia alla gente il coraggio e la fidu­
cia nelle proprie capacità, dati necessari per iniziare il percorso del­
la scrittura”.14 (Lupin e McGonagall sono due degli insegnanti de­
scritti nei racconti di Rowling. Il primo è un pedagogo affabile,
mentre il secondo si distingue per un approccio più duro alPinse-
gnamento.) Gli autori inesperti spesso scrivono molte bozze e si af­
fidano a numerosi beta-lettori prima che le loro storie siano pronte
per la pubblicazione. “Il servizio di beta-lettura mi ha aiutata dav­
vero a eliminare gli avverbi di troppo dai miei scritti, mettere le
preposizioni al posto giusto, migliorare la sintassi e rifinire la qua­
lità generale del testo.” Così spiega Sweeney Agostines, una matri­
cola del college con anni di pubblicazioni alle spalle15.
Le istruzioni per i beta-lettori, pubblicate su Writer’s University
(www.writersu.net), sito di supporto per fan scrittori e fan redatto­
ri, offrono alcune indicazioni sui presupposti pedagogici che guida­
no il processo:

Un buon beta-lettore:
• Informa lo scrittore dei suoi punti di forza e di debolezza, dicendo
per esempio: “Io sono un buon beta-lettore di trame ma non di or­
tografia!” Chiunque si offra di correggere l’ortografia, la gramma­
tica e la punteggiatura di qualcun altro, deve essere degno di un vo­
to ottim o, o perlomeno buono, in lingua inglese.
• Legge criticamente per analizzare problemi di stile, coerenza, lacu­
ne nella trama, ambiguità, scorrevolezza dell’azione, lessico (scelta
delle parole), realismo, appropriatezza dei dialoghi e così via. Il te­
sto si impantana in descrizioni e retrostorie inutili? I personaggi
“suonano bene” come dovrebbero? La trama procede in modo lo­
gico e i protagonisti hanno dei motivi per quello che fanno?
• Suggerisce, non fa modifiche. In molti casi, un beta-lettore non do­
vrebbe riscrivere o semplicemente correggere i difetti. Richiamare
192 C a p it o l o 5

l’attenzione dell’autore verso i problemi può aiutarlo ad assumerne


consapevolezza e a migliorare.
• Fa notare le cose che gli piacciono in una storia. Anche se vi trova­
ste di fronte alla peggiore storia che abbiate mai letto, dite qualcosa
di positivo! Dite molte cose positive! Provate a individuare il po­
tenziale che ogni storia porta con sé...
• E cauto nel giudicare, anche davanti a grandi carenze - ma è, allo
stesso tem po, onesto.
• Si perfeziona. Se vuoi impegnarti nell’aiutare gli autori, prendi in
considerazione l’idea di leggere qualcuno dei testi indicati in fondo
alla pagina, che ti daranno eccellenti rassegne degli errori più co ­
muni commessi dagli scrittori di fan fiction, oltre a suggerimenti di
base per una buona scrittura.16

Questa descrizione fonda una relazione tra chi guida e chi ap­
prende, che è molto diversa da quella tipica dell’insegnamento sco­
lastico della scrittura, a cominciare da quell’invito iniziale ai redat­
tori, di riconoscere i propri punti forti e deboli, per continuare con
la priorità accordata al suggerimento più che alla direttiva, come
mezzo con il quale indurre gli studenti a riflettere sulle implicazio­
ni del loro processo di scrittura.
Come nota Rebecca Black, ricercatrice di pedagogia, la comuni­
tà dei fan spesso è più tollerante sugli errori linguistici rispetto agli
insegnanti di scuola tradizionali, ed è più efficace nell’aiutare chi
apprende a individuare le proprie intenzioni comunicative, giacché
lettore e autore agiscono all’interno della stessa cornice di riferi­
mento, legati come sono da un profondo investimento emotivo
verso il contenuto che esplorano17. La comunità dei fan promuove
una maggiore varietà di forme letterarie - non solo la fan fiction
ma anche varie modalità di commento - rispetto a quelle accessibili
agli studenti in classe. Spesso poi possono proporre, a chi è sulla
strada dell’apprendimento, modelli realistici per il “passo successi­
vo” da compiere, anziché mostrare solo esempi di scrittura profes­
sionale, di gran lunga troppo lontani da qualsiasi cosa la maggior
parte degli studenti sia in grado di produrre.
Oltre alla beta-lettura, The Sugar Quill fornisce vari altri riferi­
menti importanti agli scrittori fan, alcuni concernenti la grammati­
ca e lo stile, altri che riguardano aspetti specifici dell’universo di
Harry Potter. Tutti, in ogni caso, sono finalizzati ad aiutare gli aspi­
ranti autori a migliorare le loro storie e a spingersi in nuove dire­
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 193

zioni. Le classificazioni di genere di The Sugar Quill forniscono lo­


ro modelli diversi del tipo di lavoro che possono svolgere sul testo
di Rowling: “Punti di vista alternativi” che reincorniciano gli even­
ti narrati attraverso lo sguardo di un personaggio diverso da Harry;
“Mi chiedo se”, dove si esplorano le “possibilità” abbozzate ma
non sviluppate nei romanzi; “Momenti Perduti”, che riempiono gli
spazi vuoti tra gli eventi della trama; “L’estate dopo il Quinto An­
no”, che si estende oltre lo stato attuale del racconto senza entrare
negli eventi che probabilmente saranno narrati da Rowling quando
riprenderà la penna in mano. The Sugar Quill vincola gli scrittori a
un’interpretazione stretta e letterale, e insiste affinché le informa­
zioni che essi includono nelle storie sia coerente con quanto già
mostrato da Rowling. Come spiega un redattore:

N on scrivo fan fiction per “aggiustare” le cose, scrivo per esplorare gli
angoli in cui [Harry Potter] non ha potuto sbirciare o per ragionare su
che cosa potrebbe aver portato a qualcos’altro o su che cosa potrebbe
risultare da qualche altra. Una storia che lascia questi angolini mera­
vigliosi non ha bisogno di aggiustamenti, ma invita all’esplorazione,
come quelle deliziose stradine alberate che non succede mai di percor­
rere quando si è sull’autobus, che ci porta al lavoro lungo i viali prin­
cipali. Ciò non vuol dire che ci sia qualcosa che non va nell’autobus,
nei viali principali o nel recarsi al lavoro - ma soltanto che in giro ci
sono molte più cose a cui vai la pena di dare uno sguardo.18

Molti adulti sono preoccupati perché questi ragazzi “copiano”


contenuti mediatici già esistenti invece di creare opere originali. Le
loro appropriazioni si dovrebbero invece considerare come una
sorta di apprendistato. Una volta i giovani artisti imparavano dai
maestri affermati, a volte contribuendo ai loro lavori, spesso se­
guendo il loro modello prima di sviluppare stili e tecniche proprie.
Le nostre aspettative moderne circa l’originalità creativa rappre­
sentano un carico pesante per chiunque si trovi agli esordi della
carriera. In questo stesso modo, questi artisti in erba imparano ciò
che possono dalle storie e dalle immagini che sono loro più fami­
liari. Compiere i primi sforzi appoggiandosi a prodotti culturali già
esistenti permette loro di indirizzare altrove le proprie energie,
prendendo dimestichezza con la tecnica, approfondendo cono­
scenze e comunicando idee. Come molti altri giovani scrittori,
Sweenie ha sostenuto che i libri di Rowling le hanno fornito l’im­
194 C a p it o l o 5

palcatura di cui aveva bisogno per potersi focalizzare meglio su al­


tri aspetti del processo di scrittura: “È più facile sviluppare un
buon senso della trama, una buona caratterizzazione e altre tecni­
che letterarie se il tuo lettore conosce già il mondo in cui è ambien­
tata la storia”. Sweenie scrive principalmente sugli insegnanti di
Hogwarts, provando a raccontare gli eventi a partire dalle loro
prospettive ed esplorando le loro relazioni quando non essi non si
trovano in un’aula scolastica. Come spiega:

Immagino che J. K. Rowling tratterà quel mondo dalla parte degli stu­
denti man mano che Harry prosegue negli studi. Il problema della cre­
azione di mondi è che vi è così tanta retrostoria su cui fantasticare. Io
amo riempire i buchi... Vedere se si può elaborare un modo plausibile
di spiegare, restando nei canoni del racconto, perchè Snape ha abban­
donato Lord Voldemort schierandosi con Dumbledore. Ci sono tante
spiegazioni possibili di questa scelta, ma ancora non sappiamo nulla
per certo. Così quando lo scopriremo, se lo scopriremo, ci saranno
tante persone che andranno a leggere le storie e, se qualcuno ci ha az­
zeccato, verrà fuori, sì, io ci ho visto giusto.

Altri hanno notato che scrivere di personaggi già inventati da al­


tri, invece di attingere direttamente alla propria esperienza perso­
nale, fornisce una distanza critica per riflettere su cosa gli autori
cercavano di esprimere. Sweenie ha parlato di quanto entrare nella
testa di un personaggio molto differente da lei l’abbia aiutata a ca­
pire i compagni di scuola che arrivavano da ambienti diversi dal
suo e si comportvano secondo valori diversi. Interpretava la fan fic­
tion5, in questo senso, come una risorsa utile per sopravvivere al li­
ceo. La fan fiction di Harry Potter ha raccolto una quantità infinita
di storie di crescita adolescenziale, descrivendo personaggi che
combattono contro le ingiustizie che i loro creatori affrontano ogni
giorno a scuola. Spesso, gli autori più giovani hanno mostrato di
essere molto affascinati dalla possibilità di entrare nella testa dei
personaggi adulti. M olte delle storie più efficaci sono narrate dalla
prospettiva degli insegnanti, oppure ritraggono genitori e maestri
di Harry nella loro età scolare. Alcuni racconti sono dolcemente
romantici o agro-amare storie di formazione (dove il rapporto ses­
suale arriva quando i due personaggi si prendono per mano); altri
sono carichi di rabbia o di sensazioni sessuali ancora immature, te­
mi che, come gli autori stessi hanno dichiarato, sarebbero stati dif­
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 195

ficili da trattare in un compito scolastico. Quando discutono di


questi racconti, sia i fan giovani che quelli più adulti parlano aper­
tamente delle loro esperienze personali, scambiandosi consigli su
qualcosa di più che sulle questioni di intreccio o di caratterizzazio­
ne dei personaggi.
Attraverso le discussioni online, i giovani autori acquisiscono
un vocabolario per parlare di scrittura e imparano strategie per ri­
scrivere e migliorare i propri lavori. Quando parlano dei libri, dan­
no vita a confronti con altre opere letterarie o propongono colle­
gamenti con tradizioni teologiche e filosofiche; dibattono sugli ste­
reotipi di genere nei personaggi femminili; citano interviste con
l’autrice o leggono analisi critiche delle opere; usano degli schemi
d’analisi che probabilmente non incontreranno prima delle lezioni
universitarie.
La scuola rimane chiusa in un modello di apprendimento auto­
nomo che contrasta fortemente con i tipi di apprendimento neces­
sari agli studenti in procinto di entrare nelle nuove comunità del
sapere. Gee e altri insegnanti sono preoccupati del fatto che gli stu­
denti che si mostrano a loro agio nella partecipazione e nello scam­
bio di conoscenza negli spazi di affinità risultano meno abili quan­
do entrano in classe:

L’apprendimento diviene sia una traiettoria unica e personale attraver­


so uno spazio complesso di opportunità (il movimento originale e spe­
cifico di un individuo attraverso differenti spazi di affinità nel corso
del tem po), sia un viaggio sociale in cui si condividono, per un tempo
più o meno lungo, degli aspetti di quella traiettoria con altri (che, per
parte loro, possono essere molto diversi da noi e per altro abitano spa­
zi molto diversi). Ciò che questi giovani vedono ed esperiscono a
scuola è niente a confronto. Può sembrare loro che manchi compieta-
mente di quell’immaginazione che invece riempie gli aspetti non sco­
lastici della loro vita. Come minimo, potrebbero sollevare il dubbio:
“A che serve la scuola?”. 19

Se l’attenzione di Gee è rivolta al sistema di supporto che emer­


ge intorno al singolo studente, quella di Pierre Lévy si concentra
invece sui modi con i quali ogni discente contribuisce alla più am­
pia intelligenza collettiva, ma entrambi stanno descrivendo parti
della stessa esperienza - vivere in un mondo dove il sapere è condi­
viso e l’attività critica è continuativa e duratura.
196 C a p it o l o 5

In modo comprensibile, qualcuno che ha già pubblicato il suo


primo romanzo online e ricevuto decine di lettere di commento
trova deludente tornare in classe, dove il suo lavoro sarà letto solo
dall’insegnante e in cui, quindi, il feedback può essere davvero mol­
to limitato. Alcuni adolescenti confessano di nascondere i propri
racconti nei libri di testo e di correggerli durante le ore di lezione;
altri siedono attorno a un tavolo a pranzo e dibattono di trame e
personaggi con i loro compagni, oppure provano a lavorare sui
racconti usando i computer della scuola fino a quando non vengo­
no richiamati dai bibliotecari, che li rimproverano di perdere tem­
po. Non vedono l’ora che suoni la campanella della fine delle lezio­
ni per potersi concentrare sulla loro scrittura.
Lawver non è stata Tunica a scorgere le potenzialità didattiche
insite nella scrittura fan. Alcune biblioteche hanno organizzato in­
contri con fantasiosi esperti della vita dei babbani, o organizzato
corsi per il fine settimana, sul modello della scuola di Hogwarts.
Un gruppo di editori canadesi ha organizzato un campus estivo di
scrittura per bambini, progettato per aiutarli a perfezionare la pro­
pria tecnica. Gli editori hanno risposto alla proliferazione di mano­
scritti non richiesti inviati dai fan di Potter20. Un gruppo didattico
ha organizzato Virtual Hogwarts, che offriva corsi sia di materie
accademiche, sia su argomenti resi famosi dai libri di Rowling. In­
segnanti adulti di quattro continenti hanno elaborato materiale
online per trenta diversi corsi, e l’iniziativa ha richiamato più di
tremila studenti di settantacinque nazioni.
Non è ancora chiaro se i successi riscossi dagli spazi di affinità
siano facilmente duplicabili nelle aule scolastiche semplicemente
proponendo attività simili. La scuola impone una severa gerarchia
(e ruoli ben distinti per adulti e ragazzi); è molto improbabile che
in tale contesto qualcuno come Heather o Flourish avrebbe avuto
le stesse opportunità editoriali che ha trovato nella comunità dei
fan. La scuola appare meno flessibile nel sostenere scrittori che si
trovano in stadi molti diversi del loro sviluppo. Anche gli istituti
scolastici più innovativi mettono dei limiti a quello che gli studenti
possono scrivere, rispetto alla libertà di cui godono per i fatti loro.
Di sicuro gli adolescenti si espongono a dure critiche pubblicando
in rete le loro storie più discutibili, ma sono loro stessi a decidere
che rischi vogliono assumersi, affrontandone le conseguenze.
Detto ciò, bisogna ammettere che il miglioramento dell’abilità
di scrittura è solo un vantaggio secondario conseguente alla parte­
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 197

cipazione a una comunità di fan fiction. D’altra parte parlare di fan


fiction in questi termini rende l’attività più apprezzabile da parte di
insegnanti e genitori che, altrimenti, sarebbero piuttosto scettici in
merito. I ragazzi, da parte loro, prendono sul serio l’arte della scrit­
tura e sono orgogliosi dei risultati che raggiungono. Allo stesso
tempo, la scrittura acquista valore poiché espande la loro esperien­
za del mondo di Harry Potter e grazie alle connessioni sociali che
facilita nei confronti degli altri fan. I ragazzi si appassionano alla
scrittura attraverso la passione per l’oggetto di cui scrivono. Per
certi versi, far entrare tali attività all’interno della scuola le porte­
rebbe all’estinzione poiché la cultura scolastica genera un diverso
atteggiamento mentale rispetto alla nostra vita ricreativa.

Difesa contro arti magiche

J. K. Rowling e Scholastic, il suo editore, avevano inizialmente


mostrato molta simpatia verso gli scrittori-fan, sottolineando che la
narrazione incoraggiava i ragazzi a espandere le loro immaginazio­
ni e li metteva in condizione di trovare la loro voce come scrittori.
Attraverso la sua agenzia di Londra, la Cristopher Little Literary
Agency, Rowling ha pubblicato, nel 2003, una presentazione della
sua linea politica, manifestando apertura nei confronti “del vasto
interesse che i fan hanno mostrato di avere per la serie”, così come
accogliendo con favore “il fatto che essa li abbia incoraggiati alla
scrittura”21. Quando Warner Bros acquistò i diritti cinematografici
nel 2001, in ogni caso, le storie rientrarono in un secondo regime
di proprietà intellettuale non altrettanto benevolo22. La casa cine­
matografica applicò, anche in questo caso, la sua pratica abituale di
scovare i siti web il cui dominio riprendeva i nomi di marchi regi­
strati o protetti dal copyright. La legge vigente in materia è stata
istituita allo scopo di evitare la “confusione potenziale” riguardo ai
soggetti produttori di particolari beni o contenuti; Warner era con­
vinta di avere un obbligo legale di sorveglianza sui siti che fiorivano
intorno alle sue proprietà. Diede dunque avvio al processo che de­
finisce di “selezione”, per effetto del quale ogni spazio in rete veni­
va momentaneamente chiuso fino all’accertamento, da parte della
casa stessa, circa l’uso del franchise di Harry Potter. Diane Nelsen,
vicepresidente senior di Warner Bros Family Entertainment ha così
chiarito:
198 C a p it o l o 5

Quando abbiamo scavato sotto alcuni di questi nomi di dominio, si ve­


deva chiaramente chi usava uno schermo per sfruttare illegalmente la
nostra proprietà. Con i fan non si doveva andare troppo lontano per
accorgersi che erano solo degli appassionati e che esprimevano qual­
cosa di vitale sulla loro relazione con questa p roprietà... odiamo pe­
nalizzare un fan autentico per colpa di uno malintenzionato, ma ab­
biamo registrato molti casi di gente che veramente sfruttava i bambini
nel nome di Harry Potter.

In molti casi, fu consentito al proprietario originale del sito di


continuare a usare il sito con il nome originale, ma Warner Bros
manteneva il diritto di farlo chiudere qualora vi avesse individuato
la presenza di un “contenuto offensivo o inappropriato”.
I fan si sentirono presi a schiaffi in faccia da quello che videro
come il tentativo della casa cinematografica di operare un control­
lo sui loro siti. Molti di quelli finiti in mezzo a queste battaglie era­
no bambini e adolescenti che erano tra gli organizzatori più attivi
del mondo degli appassionati di Harry Potter. Heather Lawver, la
giovane editrice di The Daily Prophet, fondò un’organizzazione
con sede in America, chiamandola Defense Against thè Dark Arts,
quando apprese che alcuni suoi amici fan avevano ricevuto minac­
ce di azioni legali: “Warner è stata molto furba nello scegliere chi
attaccare... Ha colpito un intero gruppo di ragazzi in Polonia. Che
rischio c’è in tutto ciò? Sono corsi dietro a dodicenni e quindicenni
e ai loro modesti siti fatti in casa. Hanno sottovalutato la capacità
di interconnessione della nostra comunità di fan. Hanno sottovalu­
tato il fatto che noi conoscevamo questi bambini polacchi e cono­
scevamo i loro modesti siti fatti in casa e ci importava di loro.” He­
ather non ha mai ricevuto una lettera di diffida a continuare la sua
attività, ma ha ritenuto suo dovere difendere gli amici che erano
stati minacciati da atti legali. Nel Regno Unito, la quindicenne
Claire Field è divenuta famosa come modello nella battaglia dei fan
contro Warner Bros. Lei e i suoi genitori hanno assunto un avvoca­
to dopo aver ricevuto una lettera di diffida per il suo sito,
www.harrypotterguide.co.uk e hanno portato il caso all’attenzione
dei media inglesi. La sua storia è stata quindi ripresa dai media in
tutto il mondo e, a partire da quel momento, in ogni luogo tutti i
casi di altri webmaster adolescenti i cui siti erano stati costretti alla
chiusura dalla Warner vennero allo scoperto23. Lawver unì le sue
forze ai sostenitori inglesi di Field, aiutandoli a coordinare le co­
Pe r c h é H e a t h e r p u ò s c r iv e r e 199

municazioni con i media e l’attivismo nei confronti della casa cine­


matografica.
Defense Against Dark Arts sosteneva che i fan avevano contri­
buito a trasformare un libro per ragazzi quasi sconosciuto in un
best-seller internazionale e che i titolari dei diritti dovevano rico­
noscere loro un po’ di spazio per fare il loro lavoro. La petizione si
chiude con una “chiamata alle armi” contro le case cinematografi­
che ingrate nei confronti dei loro sostenitori: uCi sono forze oscure
in movimento, più malefiche perfino di Colui-Che-Non-Deve-Es-
sere-Nominato, poiché osano cercare di portarci via qualcosa di
così basilare e così umano da poter essere considerate quasi come
degli assassini. Ci stanno rubando la nostra libertà di parola, la li­
bertà di esprimere i nostri pensieri, sentimenti, idee, e stanno di­
struggendo tutto il piacere di un libro magico”24. Lawver, l’appas­
sionata ed eloquente adolescente, ha retto un dibattito con un por­
tavoce di Warner Bros, nel programma Hardball with Chris Mat­
thews (1997) per MSNBC. La ragazza ha spiegato: “Non eravamo
più dei ragazzini disorganizzati. Avevamo un seguito di pubblico e
una petizione di 1500 firme raccolte in due settimane. Loro [War­
ner Bros.] alla fine hanno dovuto negoziare con noi.”
All’intensificarsi della disputa, Diane Nelson, vicepresidente se­
nior di Warner Bros Family Entertainment, ammise pubblicamente
che la risposta legale della casa cinematografica era stata “inge­
nua”, e un “atto di errata comunicazione”25. Nelson, attualmente
vicepresidente esecutivo del Global Brand Management, mi ha det­
to: “Non ci rendevamo conto di ciò che avevamo tra le mani ri­
guardo a Harry Potter. Facemmo ciò che avremmo fatto normal­
mente per proteggere la nostra proprietà intellettuale. Non appena
ci rendemmo conto che stavamo provocando costernazione fra i
bambini e i loro genitori, smettemmo subito.” Abbandonato Pat­
teggiamento conflittuale, la Warner ha adottato una politica più
collaborativa per legarsi ai fan di Harry Potter, simile a quella che
Lucas cercava di adottare con i registi fan di Star Wars:

Heather è indubbiamente una ragazza molto intelligente e ha lavorato


attivamente per attirare l’attenzione sul problem a... Ha portato alla
nostra attenzione i casi di quei fan che riteneva fossero vittime delle
nostre lettere. Li abbiamo chiamati. In un caso, si trattava di un ragaz­
zo che lei stava sostenendo come esempio tipico del nostro cattivo
com portam ento. Era un ragazzo che viveva fuori Londra. Lui e due
200 C a p it o l o 5

dei suoi compagni di scuola avevano iniziato un Torneo Triangolare


fra Maghi in rete. Disputavano le loro gare attraverso i loro siti... Alla
fine, il modo in cui ci com portam m o con loro creò il precedente per
ciò che avremmo fatto con altri in seguito. Li abbiamo assistiti. Abbia­
mo finito con lo sponsorizzare il loro torneo e pagare l’affitto di una
casella postale per le iscrizioni offline alla g ara... non eravamo affatto
contrari al sito o a quello che faceva il suo proprietario, o a come
esprimeva la sua passione. In effetti, fin dal primo giorno eravamo
convinti che quei siti fossero fondamentali per il successo di quello che
facevamo e che quanto più numerosi fossero stati, tanto meglio sareb­
be andata. Abbiamo finito quindi per dargli un’autorizzazione ufficia­
le e l’accesso a materiali da includere nel sito, in modo da farlo entrare
in famiglia e continuare a proteggere i contenuti di Harry Potter in
modo appropriato.

Molti fan di Potter hanno apprezzato la Warner per aver am­


messo i propri errori e per aver risolto i problemi nei rapporti con
i fan. Lawver però non si è affatto convinta della buona fede dello
studio e ha visto l’esito della vicenda più come il tentativo di aggiu­
dicarsi una vittoria in pubbliche relazioni che come un’inversione
della linea di condotta aziendale. Ha quindi recentemente aggiunto
una sezione al Daily Prophet per fornire risorse ad altre comunità
di fan che vogliono difendersi dalle restrizioni imposte dalle case
cinematografiche alla loro espressione e partecipazione26.
Heather Lawver e i suoi compagni avevano promosso la loro
campagna contro Warner Bros, partendo dal presupposto che l’at­
tivismo dei fan avesse una lunga storia alle spalle. Ha spiegato:
“Ho pensato che con tutta la storia dei fan scrittori di Star Wars e
Star Trek, qualcuno prima di noi l’avesse già fatto. Non ci ho pen­
sato molto. Pensavo ci fossero dei precedenti, ma evidentemente
non era così.” Altri gruppi, in effetti, avevano provato a fare la stes­
sa cosa in passato, ma senza avvicinarsi a quei successi. Dopo diver­
si decenni di condotta aggressiva da parte di Hollywood, non esiste
ancora una giurisprudenza in materia di fan fiction. L’ampiezza dei
diritti rivendicati dalle case cinematografiche non è mai stata og­
getto di controversia legale. Gli studios minacciano, i fan si piega­
no e nessuno dei gruppi che normalmente marcia in difesa del di­
ritto alla libertà di espressione ha inserito in agenda le istanze dei
creativi amatoriali. Le organizzazioni per la libertà di parola, come
American Civil Liberties Union ed Electronic Frontier Foundation,
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 201

si sono unite a Muggles for Harry Potter, un gruppo nato a soste­


gno degli insegnanti che volevano portare nelle aule scolastiche i li­
bri di Harry Potter, ma non sono scesi in campo a difesa degli scrit­
tori di fan fiction che affermavano il loro diritto a costruire le pro­
prie fantasie intorno ai romanzi di Rowling. Lo Stanford Center
for Internet and Society ha pubblicato, sul suo sito web Chilling Ef­
fects (http://www.chillingeffects.org/fanfic), una dichiarazione - in
apparenza solidale, ma implicitamente avversa - sulla fan fiction.
La dichiarazione in effetti dà per buone molte delle rivendicazioni
sostenute dalle case cinematografiche27. Assumendo una posizione
analoga, il presidente del consiglio di amministrazione di Electro­
nic Frontier Foundation, Brad Templeton, scrive: “La quasi totali­
tà della ‘fan fiction’ può essere considerata una violazione del
copyright. Se vuoi scrivere una storia su Jim Kirk e Mr. Spock, devi
chiedere il permesso alla Paramount, punto e basta.” Notate come
Templeton passa da termini un po’ vaghi, come “può essere consi­
derata” all’inizio del periodo, alla certezza morale di espressioni
come “punto e basta”28, nella seconda. Quando si hanno amici co­
me questi, chi ha bisogno di nemici?
La comunità dei fan include molti avvocati, alcuni informati, al­
tri meno, che si sono mostrati disponibili a intervenire laddove i
gruppi di pubblico interesse avevano fallito, e di offrire assistenza
legale ai fan per contrastare i tentativi di chiusura dei loro siti
web29. Fan attivisti, per esempio, sostengono Writers University,
un sito web che, tra i vari servizi, offre aggiornamenti periodici sul­
le risposte alla fan fiction da parte dei vari franchise mediatici e di
autori singoli, così da distinguere quelli che sono favorevoli alla
partecipazione rispetto a quelli che la vietano30. L’obiettivo del sito
è quello di consentire ai fan di compiere una scelta informata sui ri­
schi da preventivare nel caso in cui vogliano praticare i loro hobby
e interessi. Rosemary J. Coombe e Andrew Herman, studiosi di di­
ritto, notano che i fan hanno trovato che la pubblicazione in rete
delle lettere di diffida ricevute è una tattica efficace, perché costrin­
ge le media company ad affrontare pubblicamente le conseguenze
dei loro atti e aiuta i fan a cogliere i meccanismi di queste iniziative
legali che, altrimenti, sarebbero noti solo ai soggetti direttamente
chiamati in causa31.
Nessuno sa dire per certo se la fan fiction rientri nell’attuale si­
stema di protezione del fair use dei contenuti. La legge vigente sul
copyright, semplicemente, non contempla una categoria che com­
202 C a p it o l o 5

prende l’espressione creativa amatoriale. Laddove è stato incluso


un “pubblico interesse” nella definizione di uso equo - come per la
volontà di proteggere il diritto delle biblioteche a far circolare i li­
bri, quello dei giornalisti a citarli o la possibilità per gli studiosi di
citare opere di altri ricercatori - se ne parla per gruppi particolari
di utenti, e non come diritto pubblico generale alla partecipazione
culturale. La nostra nozione corrente di uso equo è l’artefatto di
un’era in cui l’accesso al mercato delle idee era limitato a poche
persone, legate peraltro a specifiche classi professionali. La materia
richiede indubbiamente un aggiornamento, considerando lo svi­
luppo tecnologico che determina l’ampliamento del numero dei
creatori e dei distributori di prodotti culturali. I giudici sanno come
agire nei riguardi di persone che hanno interessi professionali nella
produzione e circolazione della cultura; viceversa, si trovano spiaz­
zati di fronte agli amatori o presunti tali.
La tendenza dei gruppi industriali è stata quella di concentrare
la questione del copyright sul problema della pirateria, focalizzan­
dosi sulla minaccia del file sharing più che ponendo attenzione alla
complessità della fan fiction. Il loro materiale illustrativo ufficiale è
stato criticato per l’eccessiva attenzione verso la protezione dei di­
ritti d’autore, in assenza di qualsiasi riferimento all’uso equo. In
modo implicito, i fan sono considerati semplicemente dei “pirati”
che rubano agli studios senza dare nulla in cambio. Gli studios
spesso giustificano i loro attacchi ai fan sostenendo che, se non fa­
cessero valere attivamente i loro copyright, si renderebbero più
vulnerabili di fronte ai concorrenti commerciali che violassero i lo­
ro contenuti.
La migliore soluzione legale per uscire dalle sabbie mobili po­
trebbe essere una riforma normativa sull’uso equo, che renda legit­
tima la circolazione di saggi critici e storie a commento di contenu­
ti mediatici, qualora essa sia di origine grassroots e non finalizzata
al profitto. Le imprese hanno il diritto di proteggersi dagli attacchi
della concorrenza. Tuttavia, con il sistema attuale, giacché le azien­
de sanno bene fin dove possono spingersi nella manipolazione dei
contenuti, e sono poco propense a citarsi vicendevolmente in giu­
dizio, spesso hanno più agio di appropriarsi di contenuti mediali e
di modificarli, rispetto ai dilettanti, che non conoscono i loro dirit­
ti e, se anche li conoscessero, non avrebbero i mezzi per difendersi.
Ciò che risulta paradossale è che proprio quelle opere che si mo­
strano più ostili verso gli autori originali, e che pertanto possono
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 203

essere lette più esplicitamente come critiche alla fonte, sono anche
meno soggette alle restrizioni imposte dal copyright rispetto ai la­
vori che accolgono l’idea alla base della creazione originale limi­
tandosi a cercare di estenderla in altre direzioni. Una storia in cui
si narra che Harry e gli altri studenti si ribellano al paternalismo di
Dumbledore è idonea a essere giudicata come discorso politico e
parodia, mentre una che immagina Ron ed Hermione che si danno
un appuntamento è così vicina all’originale che la distanza critica è
meno chiara, e perciò l’opera che ne risulta può essere letta come
un’infrazione.
A breve termine, è più verosimile che ci sia un cambiamento
nell’atteggiamento delle imprese mediatiche rispetto alle comunità
di fan, e non una riforma normativa. E questo perché gli approcci
collaborativi che abbiamo visto nei due capitoli precedenti possono
essere passi avanti importanti nella ridefinizione dello spazio parte­
cipativo degli amatori. Nelson ha dichiarato che la controversia su
Harry Potter ha fatto nascere una conversazione interna alla casa
cinematografica, tra uomini del commerciale, delle pubbliche rela­
zioni, creativi e membri del’ufficio legale, sui principi-guida del lo­
ro rapporto con fan e sostenitori: “Stiamo cercando di pesare le
esigenze di altri stakeholder creativi, quelle dei fan e i nostri obbli­
ghi legali, all’interno di un’arena nuova e in evoluzione. Non ab­
biamo dei precedenti chiari per l’interpretazione degli eventi o sul
modo in cui si dovrebbe agire qualora i casi fossero portati al giu­
dizio di una corte.”
Nel corso dell’intervista, Nelson ha descritto i fan come “azio­
nisti di punta” di un bene specifico, come “linfa vitale” del franchi­
se. La casa cinematografica doveva trovare i modi per rispettare la
“creatività e l’energia” che i suoi fan avevano portato al franchise,
anche se avevano bisogno di proteggerlo dai possibili attacchi di
gruppi che volevano trarne profitti, così come di rispondere velo­
cemente alle informazioni errate oppure, nel caso di prodotti desti­
nati a un mercato giovane, di proteggere i bambini dall’accesso ai
contenuti per adulti. Per quel che riguarda la fan fiction:

Ci rendiamo conto che è il massimo dei complimenti se i fan si inseri­


scono nella proprietà e vogliono esprimere il loro amore per essa. Ab­
biamo molto rispetto per ciò che tutto questo significa. C ’è tuttavia un
limite entro il quale la fan fiction è accettabile da parte degli autori, e
oltre quello diviene inappropriata e irrispettosa, andando al di là dei
204 C a p it o l o 5

diritti dei fan. M olto dipende anche dal modo in cui questi ultimi pen­
sano di pubblicare i loro lavori e se vogliono ricavarne benefici econo­
mici. Nel caso in cui si tratti semplicemente dell’espressione di conte­
nuti che altri possano leggere e apprezzare, ritengo che l’atteggiamen­
to delle case proprietarie dei diritti, nonché degli autori, possa essere
tollerante. In linea generale, più i fan vogliono diffondere la fan fic­
tion per trarne guadagni, promozione e pubblicità, meno le case e gli
autori saranno pazienti.

Tuttavia, come riconosce Nelson, il “senso di proprietà” che


molti fan avvertono nei confronti di determinati contenuti, costi­
tuisce una sfida alle case cinematografiche:

Quando ci allontaniamo dal materiale sorgente o da ciò che i fan per­


cepiscono come le vere radici di una proprietà, siamo sotto esame. L o­
ro possono diventare o paladini di quello che facciamo o forti opposi­
tori. Possono cambiare l’aatteggiamento verso il modo in cui una pro­
prietà viene introdotta sul mercato, a seconda che percepiscano che lo
stiamo presentando con cura, attenzione e rispetto... I fan possono cer­
care di promuovere quella proprietà utilizzando i loro canali in rete,
nei loro termini, ma a volte, invece, rischiano di comprom ettere la no­
stra responsabilità di proteggere quella proprietà intellettuale in modo
da mantenerla pura e da conservare intatti i nostri diritti legali.

C ’è ancora - e forse ci sarà sempre - un immenso dislivello tra


la visione delle case cinematografiche su ciò che costituisce una
partecipazione dei fan appropriata e il senso di “proprietà” morale
che gli stessi fan, in prima persona, rivendicano sul prodotto. Gli
studios, oggi, trattano i prodotti cult come “lovemarks” e i fan co­
me “consumatori ispiranti” i cui sforzi contribuiscono ad allargare
l’interesse verso i loro prodotti. Costruire la fedeltà dei fan spesso
comporta un allentamento dell’esercizio del controllo tradizionale
che le aziende esercitano sulle loro proprietà intellettuali, aprendo
quindi uno spazio più ampio per l’espressione creativa grassroots.

Muggles for Harry Potter

I legali di Hollywood non sono stati l’unico gruppo a minaccia­


re i diritti di partecipazione dei bambini al mondo di Harry Potter.
Pe r c h é H e a t h e r p u ò s c r iv e r e 205

I romanzi di Harry Potter sono stati al centro delle controversie sui


libri di testo e sulle biblioteche, negli ultimi anni, più di qualsiasi al­
tro libro. Nel 2 0 0 2 , sono stati al centro di più di cinquecento “sfi­
de” in scuole e biblioteche di tutto il paese32. A Lawrence, Kansas,
per esempio, la Oskaloosa Public Library fu costretta a rinunciare
al progetto di uno speciale “corso Hogwarts” per “aspiranti giova­
ni streghe e maghi” perché i genitori della comunità pensarono che
la bibliotecaria cercasse di reclutare ragazzi da iniziare all’adorazio­
ne del demonio. Paula Ware, promotrice dell’iniziativa, si ritirò
quindi di corsa dall’intento: “Per me è il periodo più impegnato
dell’anno e non ho voglia di entrare in una lite. Se si fosse trattato
di mettere al bando i libri, però, avrei portato il caso fino alla Corte
Suprema”33. Ad Alamogordo, New Mexico, la Christ Community
Church ha bruciato più di trenta copie di Harry Potter, assieme ad
alcuni Dvd del film Disney Biancaneve e i sette nani (1937), Cd di
Eminem e romanzi di Stephen King. Jack Brock, il pastore della
chiesa, ha giustificato il rogo con la spiegazione che Harry Potter,
un libro che lui stesso ha ammesso di non aver letto, era “un capo­
lavoro di inganno satanico” e un manuale di istruzioni per le arti
magiche34. La CNN ha citato un altro sacerdote, il Reverendo Lori
Jo Scheppers, il quale ha dichiarato che i bambini esposti ad Harry
Potter avrebbero “buone possibilità di diventare come Dylan Kle-
bold e gli altri tipi della Colombine”35.
Ci siamo concentrati finora sulla partecipazione come fattore
positivo nelle vite dei bambini - qualcosa che dà loro le motivazio­
ni a leggere, scrivere, formare comunità e padroneggiare altri tipi
di contenuti, per non parlare del rivendicare i loro diritti. Appena
rivolgiamo l’attenzione alle osservazioni di qualche critico conser­
vatore di Harry Potter, il concetto di partecipazione assume im­
provvisamente connotazioni più sinistre. Phil Arms, della chiesa
evangelica, per esempio, descrive Harry Potter e Pokémon (1998)
come “attrazioni fatali” che spingono i bambini verso il regno
dell’occulto: “Presto o tardi, chiunque faccia il suo ingresso nel
mondo di Harry Potter dovrà scoprire il vero volto che si cela die­
tro il velo. Quando accadrà, scopriranno cosa succede quando si
scherza con il fuoco, e cioè che loro magari sono convinti di gioca­
re soltanto, ma il Diavolo fa sul serio”36. I riformatori morali cita­
no l’esempio dei bambini che si vestono da Harry Potter, si infilano
cappelli magici in testa per imitare un rituale di iniziazione descrit­
to nel libro oppure disegnano sulle loro fronti un fulmine che imita
206 C a p it o l o 5

la cicatrice di Harry, come prove evidenti del fatto che i bambini


passano dalla lettura dei romanzi alla partecipazione ad attività oc­
culte. Intercettando le ansie più profonde legate alla pratica di re­
citazione teatrale e del gioco di ruolo, Arms e i suoi compagni si di­
cono preoccupati che l’immersione nei mondi immaginari possa
equivalere a una forma di “proiezione astrale”37, così come temo­
no che quando pronunciamo formule magiche le forze demoniache
che evochiamo non si rendano necessariamente conto che faceva­
mo per finta. Questi critici conservatori ci mettono in guardia sul
rischio che le esperienze coinvolgenti della cultura popolare possa­
no annullare quelle del mondo reale, fino a portare i bambini a per­
dere la capacità di distinguere realtà e fantasia. Per alcuni, questo
livello di coinvolgimento è sufficiente a destare il sospetto su Harry
Potter: “Questi libri sono letti e riletti dai bambini nello stesso mo­
do in cui dovrebbe essere letta la Bibbia”38.
Più in generale, ciò che li preoccupa è la natura immersiva ed
espansiva dei mondi immaginari contenuti nei franchise mediatici
contemporanei. Berit Kjos, sempre della chiesa evangelica, con­
fronta i libri di Harry Potter con Dungeons and Dragons (1975):

1. Entrambi consentono ai fan di immergersi in un mondo fantastico,


plausibile e ben disegnato, caratterizzato da una storia in evoluzio­
ne, una geografia costruita con cura e dei maghi che incarnano lo
spaventoso e potente mito dello sciamano.
2. In questo mondo fantastico sia gli adulti, sia i bambini, vengono
spinti dentro esperienze immaginate che generano ricordi, costrui­
scono nuove idee, guidano i pensieri e modellano la nostra com ­
prensione del reale.39

I critici conservatori sembrano prendere di mira il concetto stes­


so di narrazione transmediale, vedendo l’idea della creazione di
mondi come pericolosa in se stessa, in quanto incoraggerebbe a in­
vestire più tempo nell’apprendimento dei dettagli di un ambiente
fittizio e meno nell’esperienza e nel confronto con il mondo reale.
Se questi riformatori religiosi sono preoccupati delle qualità im-
mersive di Harry Potter, lo sono anche nei confronti dell’interte-
stualità. Kjos ci avverte:

II principale prodotto che viene veicolato attraverso il film è un siste­


ma di credenze che cozza contro tutto ciò che Dio ci offre per la nostra
Pe r c h é H e a t h e r p u ò s c r iv e r e 207

pace e per la sicurezza. Questa ideologia pagana si completa con figu­


rine, computer game e altri giochi di magia, abiti e decorazioni stam­
pate con i simboli di HP, action figure, pupazzetti e audiocassette che
mantengono la mente dei bambini concentrata sull’occulto giorno e
notte. Agli occhi di Dio questa panoplia diventano poco più che ten­
tazioni e porte d’ingresso a un coinvolgimento più profondo nell’oc­
culto.40

In modo particolare, sostengono che Rowling abbia inserito,


nei primi quattro libri, più di sessanta riferimenti specifici a vere
pratiche occulte e a personaggi storici dell’alchimia e della strego­
neria. Sono state così individuate alcune allusioni letterarie e stori­
che inserite da Rowling per i lettori più colti. Valga come esempio
il riferimento a Nicolas Flamel, l’alchimista medievale a cui viene
attribuita la scoperta della Pietra Filosofale, o a Merlino e Morgana
dai racconti di Artù come soggetti delle figurine da collezione. Al­
cuni critici fondamentalisti interpretano il fulmine sulla fronte di
Harry come “il marchio della bestia” o individuano Voldemort co­
me “l’innominabile” - una sorta di anti-Cristo. Sostengono che i
bambini che si spingono alla ricerca di informazioni ulteriori ver­
ranno spinti verso opere del paganesimo che promettono più cono­
scenza e più potere. Uno scrittore cattolico spiega: “Cosa farà il
bambino una volta terminata la lettura della serie di Harry Potter,
a chi ci si rivolgerà? Bene, egli sarà accolto da una grande industria
di oggetti sinistri per giovani che vogliono appagare i loro appetiti
più sordidi”41. Per essere onesti, bibliotecari e insegnanti sfruttano
molti di questi stessi riferimenti intertestuali. Per esempio, tra quel­
li offerti su Virtual Hogwarts ci sono corsi di predizione, astrologia
e alchimia, indubbiamente presentate come credenze e pratiche di
altri tempi, ma comunque profondamente offensive per i fonda­
mentalisti.
Questi riformatori morali sono concordi nel riconoscere che il
libro stimoli l’alfabetizzazione e l’apprendimento, ma manifestano
apprensione rispetto ai contenuti trasmessi. Alcuni attivisti vedono
i libri come una diluizione dell’influenza cristiana sulla cultura
americana, in favore di un nuovo spiritualismo globale. Kjos am­
monisce che “i libri di Harry Potter non sarebbero stati accettati
culturalmente mezzo secolo fa. Il clima culturale odierno - una
‘apertura mentale’ verso l’occulto come intrattenimento e una
‘chiusura mentale’ nei confronti della cristianità biblica - fu pro-
208 C a p it o l o 5

gettato un secolo fa. Venne abbozzato dalle Nazioni Unite alla fine
degli anni Quaranta ed è stato insegnato e alimentato attraverso lo
sviluppo di un sistema educativo globale durante gli ultimi sessanta
anni”42. Mentre una generazione fa questi gruppi avrebbero preso
di mira l’umanesimo secolare, ora vedono una nuova fase della glo­
balizzazione nella quale le imprese multinazionali e le organizza­
zioni sovranazionali si attivano nella cancellazione delle differenze
culturali. Per raggiungere un mercato globale, sostengono questi
critici cristiani, il capitalismo statunitense deve spogliarsi delle ulti­
me vestigia della tradizione giudaico-cristiana e per promuovere il
consumismo deve erodere ogni resistenza alla tentazione. Alcuni
aspetti delle fedi orientali e pagane stanno entrando nelle aule sco­
lastiche in una forma secolarizzata - l’adorazione della terra sotto
forma di ecologia, la proiezione astrale negli esercizi di visualizza­
zione - mentre la cristianità viene chiusa fuori dai paladini della se­
parazione tra chiesa e stato. I libri di Harry Potter produrranno, di
conseguenza, effetti molto diversi da quelli generati da II Mago di
Oz (1900), che fu letto dai bambini all’interno di una cultura pro­
fondamente cristiana. Invece, ammoniscono i fondamentalisti, i
bambini americani di oggi sono suscettibili alle influenze pagane di
questi testi perché li consumano accanto a spettacoli televisivi co­
me Pokémon (1998) o li leggono in un contesto scolastico già seco­
larizzato e globale.
Se qualche adulto, come Paula Ware, era semplicemente “trop­
po occupato” per difendere Harry Potter dagli aspiranti censori,
molti insegnanti hanno invece rischiato il loro posto di lavoro per
sostenere i diritti di questa favola. Mary Dana, della scuola media
di Zeeland, Michigan, è stata fra gli insegnanti che si sono ritrovati
coinvolti nella disputa43. Dana era approdata all’insegnamento do­
po aver gestito per più di dieci anni la propria libreria. Era reduce
da una serie di controversie che l’avevano coinvolta per via di alcu­
ni libri che aveva introdotto nella sua comunità. Nel 2000 essa en­
trò nelle pagine della cronaca quando un sovrintendente locale de­
cise di vietare la lettura pubblica dei libri di Harry Potter, rimuo­
vendo questi ultimi dagli scaffali aperti delle biblioteche, vietando­
ne l’acquisto in futuro e rendendoli accessibili agli studenti solo
dietro il permesso dei genitori. Dana spiega: “Non mi piacciono le
discussioni e non amo parlare in pubblico. In realtà sono una per­
sona timida. Dai tempi in cui possedevo una libreria, sono divenuta
esperta in materia di sfide al Primo Emendamento. Ero già stata at­
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 209

taccata in passato. È stata un’esperienza molto sgradevole ma alla


fine, anche quando pensi di non poterli combattere, devi continua­
re perché loro sono in torto... Non avevo nessuna intenzione di ar­
rendermi.” Come Lawver, Dana ha colto nei libri di Harry Potter il
potere di condurre i bambini alla lettura e all’apprendimento; rite­
neva che quei libri dovessero varcare il confine delle scuole.
Collaborando con un genitore locale, Nancy Zennie, Dana or­
ganizzò un movimento di opposizione alla decisione del sovrinten­
dente locale, contribuendo a scrivere e a far circolare una petizio­
ne, organizzando manifestazioni di protesta e portando persone a
un consiglio scolastico in cui il problema si doveva discutere. Nel
tentativo di guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica, Dana e
Zennie contribuirono a fondare un’organizzazione, Muggles for
Harry Potter, per richiamare l’interesse dei fan nazionali e interna­
zionali. Si unì loro un gruppo di otto associazioni, in rappresentan­
za di librai, editori, bibliotecari, insegnanti, scrittori, difensori delle
libertà civili e consumatori. “Muggles for Harry Potter si batte in
difesa del diritto di studenti e insegnanti all’utilizzo dei migliori li­
bri per ragazzi che siano in commercio, anche quando i genitori vi
siano contrari”, disse Christopher Finan, presidente della Ameri­
can Booksellers Foundation for Free Expression. “I libri di Harry
Potter aiutano a trasformare in lettori i giocatori di videogame.
Non possiamo permettere l’intervento della censura”44. Alla fine, il
consiglio scolastico ha revocato molte delle restrizioni, ma il divie­
to di lettura in classe non è stato stralciato.
Nei nove mesi successivi, più di 18.000 persone hanno aderito
alla campagna promossa dai Muggles attraverso il sito web. A que­
sto gruppo è stato in seguito attribuito il merito di aver frenato gli
sforzi dei fondamentalisti tesi a bandire i libri da tutte le scuole del­
la nazione45. L’organizzazione si incaricava di insegnare ai giovani
lettori di Harry Potter l’importanza di rivendicare il diritto alla li­
bertà di espressione. Il gruppo, che in seguito cambiò il nome in
“kid-SPEAK!” (www.kidspeakonline.org), ha creato forum in rete
nei quali i bambini possono scambiarsi i loro punti di vista sulle
guerre di Potter e su altre questioni legate alla censura. Per esempio
Jaclyn, studente di scuola media, così ha commentato la notizia se­
condo cui un sacerdote fondamentalista aveva fatto a pezzi alcune
copie di Harry Potter dopo che i vigili del fuoco gli avevano negato
il permesso di farne un rogo:
210 C a p it o l o 5

Il Reverendo Taylor, rappresentante del Jesus Party, dovrebbe osserva­


re a fondo prima di giudicare. I ragazzi leggono questi testi e si accor­
gono che la vita non è solo andare a scuola. Che cosa hanno scoperto
esattamente? La loro immaginazione. Il Reverendo Doug Taylor è
consapevole di ciò che sta facendo? I bambini lottano per i loro diritti
protetti dal Primo Emendamento, ma devono combattere anche in di­
fesa della loro immaginazione - Tunica cosa che ci rende differenti
l’uno dall’altro? Noi ci alziamo in piedi e lo guardiamo fare a brandelli
i libri, quasi simbolicamente, fare a pezzi la nostra immaginazione. I
bambini amano quei libri perché sognano di vivere in quei mondi, vo­
gliono vedere la magia, non un mago fasullo che estrae un coniglio dal
cappello. Sognano di avere un amico coraggioso come H arry Potter,
sorvolare il lago oscuro, dove si nasconde il calamaro gigante, fino al
grande castello di Hogwarts. Desiderano fare tutto ciò, è vero, ma al
tempo stesso sanno perfettamente che Hogwarts non è reale e Harry
Potter non esiste.

Una delle cose che colpiscono di più nelle discussioni su kid-


SPEAK è data dalla quantità di volte in cui i bambini sono costretti
ad abbandonare le loro fantasie per difendere il proprio diritto ad
avere delle fantasie. Ecco un altro esempio: “E un’altra cosa, gente
Anti-Harry Potter, è FICTION, mettetevelo in testa, tutta di fanta­
sia, tranne che per Tambientazione (l’Inghilterra) e i luoghi (Kings
Cross Station). Ma dubito seriamente che se andate a Londra tro­
verete The Leaky Cauldron o un mago. Questo è quel che è la fic­
tion: inventata. Perciò, tutti voi, nemici di Harry Potter, Piantate­
la”46.
I fondamentalisti sostengono che le rappresentazioni fantasti­
che della violenza e dell’occulto abbiano influenzato credenze e
azioni dei bambini nel mondo reale. Replicando a tali affermazioni,
i difensori dei libri furono costretti a sostenere che le fantasie non
sono davvero importanti, mentre per quanto abbiamo sostenuto fi­
nora abbiamo motivo di pensare che la qualità immersiva dei libri
è ciò che li rende potenti catalizzatori dell’espressione creativa.
Perfino il nome dell’organizzazione comunica l’incertezza sul tipo
di relazione che gli adulti vorrebbero favorire nei confronti
delTimmaginario dei racconti. Dana ha così spiegato: “Il termine
indica chiunque non possieda poteri magici. Chiunque non sia un
mago è, per definizione, un muggle, un babbano. Di certo, era an­
che divertente perché se le persone non erano intenzionate ad am­
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 211

mettere di essere muggle (babbani), allora avrebbero dovuto soste­


nere di avere dei poteri magici.” Da un lato, il nome fa affidamento
sul sapere dei fan: solo coloro che hanno una certa familiarità con
il mondo inventato da Rowling possono conoscere il significato del
termine. Dall’altro, l’adozione di un’identità babbana avvicina i
partecipanti al mondo terreno. Rowling è senza pietà nel prendere
in giro la chiusura mentale dei Dursley, la famiglia adottiva di Har­
ry. Essa si trova molto a disagio con i suoi poteri soprannaturali e
lo chiude, letteralmente, in ripostiglio. Il contrasto tra la simpatia
del gruppo verso i babbani e le identificazioni fantastiche che
Lawver aveva attivato attraverso The Daily Prophet non potrebbe
essere più forte. Insegnanti, bibliotecari ed editori vedevano i libri
come mezzi per un fine - una via per appassionare i bambini alla
lettura - mentre per i fan leggere e scrivere costituivano un mezzo
per il loro fine: penetrare più in profondità nel fantastico mondo
di Hogwarts.
I cristiani conservatori sono solo la punta dell’iceberg di un’am­
pia varietà di gruppi opposti ad Harry Potter, ciascuno armato di
proprie motivazioni ideologiche per contrastare il cambiamento di
paradigma mediatico. I cristiani Anti-Harry Potter condividono
molti temi con altri gruppi riformisti che collegano le preoccupa­
zioni per il potere persuasivo della pubblicità con quelle per la na­
tura demoniaca dell’immersione, e sfruttano il disagio nei confron­
ti del consumismo e del capitalismo multinazionale all’interno del­
le loro critiche allo spiritualismo globale. In Plenitude (1998),
Grant McCracken parla di “withering o f thè whiterers”, cioè dello
sfaldamento del potere che i gruppi tradizionali esercitano sulle
nuove forme di espressione culturale47. I gatekeeper delle grandi
aziende, le autorità scolastiche e i leader religiosi rappresentano
forze diverse che in passato hanno saputo contenere le tendenze al­
la diversificazione e alla frammentazione culturale. Negli ultimi de­
cenni, sostiene McCracken, questi gruppi hanno progressivamente
perso il loro potere di dettare norme culturali, man mano che si an­
dava ampliando la gamma dei diversi media e dei canali di comuni­
cazione. Idee a pratiche una volta distanti dalla sguardo pubblico -
come le credenze wiccane che i fondamentalisti ritengono abbiano
forgiato i libri di Harry Potter - stanno entrando a far parte delle
conoscenze accessibili a tutti, e questi gruppi lottano strenuamente
per mantenere il controllo sulla cultura che penetra nelle loro case
e nelle loro comunità.
212 C a p it o l o 5

Se gli educatori riformisti, come James Gee, sperano di spezzare


la stretta dell’istruzione formale sull’apprendimento dei bambini e
di espandere le possibilità di praticare le loro competenze alfabeti­
che al di fuori dell’ambiente scolastico, queste voci sono più caute
e cercano di riaffermare valori e strutture tradizionali in un mondo
che non possono più controllare a pieno. Vediamo questo impulso
a recuperare e salvaguardare i vecchi valori quando assistiamo alle
battaglie in atto per introdurre le classificazioni restrittive nel mon­
do dei videogame o per bandire dalle scuole i libri di Harry Potter.
Laddove alcuni vedono in questo scenario un mondo liberato dai
gatekeeper, loro vi scorgono un mondo in cui siamo inondati da un
flusso incontrollabile di “liquame” che ci entra in casa. Echeggian­
do i timori espressi da molti genitori laici, questi critici fondamen­
talisti affermano che la pervasività dei media moderni rende diffi­
cile per i genitori rispondere ai loro messaggi. Michael O ’Brien
protesta: “La nostra cultura ci invita continuamente ad abbassare la
guardia, a esprimere giudizi superficiali che sembrano essere più fa­
cili solo perché riducono la tensione della vigilanza. Il ritmo tor­
mentato e l’alto volume del consumo che la cultura moderna sem­
bra pretendere da noi rendono sempre più difficile fare delle scelte
genuine”48.

Cosa farebbe Gesù con Harry Potter?

Potremmo commettere un errore a considerare le guerre di Pot­


ter come uno scontro simbolico tra cristiani conservatori ed educa­
tori liberali e fan. Se alcuni vogliono semplicemente rimettere in
auge le vecchie autorità e rimettere in piedi le istituzioni messe in
difficoltà da una cultura più partecipativa, altri vogliono insegnare
ai bambini a essere più critici verso i contenuti mediatici. Molti
gruppi di cristiani si sono prodigati a difendere i libri ispirandosi al
concetto di “discernimento” come alternativa alla teoria dello
scontro di culture. Connie Neal, autrice di What’s a Christian to
Do with Harry Potter?, inquadra le due posizioni nei termini di “al­
zare un muro” per proteggere i bambini da influenze esterne oppu­
re “dotarli di una corazza” cosicché possano farsi portatori dei pro­
pri valori nell’incontro con la cultura popolare. Neal nota che “le
restrizioni alla libertà possono incitare alla curiosità e alla ribellio­
ne, spingendo la persona che tentiamo di proteggere a superare le
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 213

barriere di protezione per scoprire cosa si sta perdendo... Anche


nel caso in cui riusciste a tenere lontani i bambini da influenze po­
tenzialmente pericolose, stareste togliendo loro la possibilità di
raggiungere quella maturità che permette di riconoscere e scansare
da soli il pericolo”49. Neal propone, invece, di fornire ai bambini
gli strumenti culturali adeguati per valutare e interpretare la cultu­
ra popolare alPinterno di una cornice di riferimento cristiana.
Uno dei gruppi del “discernimento”, Ransom Fellowship, defi­
nisce tale dote di discernimento come “la capacità, dono di Dio, di
tracciare con creatività un percorso benedetto in mezzo a un labi­
rinto di scelte e opzioni che incontriamo, anche quando esse af­
frontino situazioni e temi che non sono contemplati nelle Sacre
Scritture”50. Il movimento del discernimento trae ispirazione da
una serie di passaggi biblici che narrano di persone che hanno man­
tenuto la fede in paesi avversi. I cristiani, sostengono, si trovano a
vivere una “cattività moderna”, dovendo proteggere e trasmettere
la loro fede in un contesto sempre più ostile.
In “Pop Culture: Why Bother?”, Denis Haack, fondatore e di­
rettore di Ransom Fellowship, sostiene che confrontarsi con la cul­
tura popolare, anziché isolarsene, porta notevoli benefici. Gli eser­
cizi di discernimento possono aiutare i cristiani a sviluppare una
miglior comprensione del proprio sistema di valori, possono forni­
re strumenti di analisi della visione del mondo dei “noncredenti” e
offrire la possibilità di uno scambio sensato tra cristiani e non-cri-
stiani. Secondo Haack: “Se vogliamo comprendere coloro che non
condividono le nostre convinzioni più profonde, dobbiamo sfor­
zarci di capire in che cosa credono, perché lo credono e come quel­
le credenze si manifestano nella vita di tutti i giorni”51. Il loro sito
fornisce temi di discussione e consigli sui metodi di promozione
dell’acculturazione mediatica, all’interno di un contesto dichiarata-
mente religioso, trovano idee contro cui battersi in opere commer­
ciali molto varie come Bruce Almighty (2003), Cold Mountain
(2003) e Lord ofthe Rings (2001). L’Oracolo di The Matrix (1999)
è paragonato a un profeta biblico; gli spettatori sono invitati a ri­
flettere sulla funzione della preghiera nei film di Spiderman (2002)
e sulle “gravi responsabilità” che spettano ai cristiani; essi sono,
inoltre, incoraggiati a mostrare simpatia verso le questioni spiritua­
li poste dagli indigeni in Whale Rider (2002) o dal personaggio di
Bill Murray in Lost in Translation (2003). Il sito dice chiaramente
che i cristiani possono essere benissimo in disaccordo su cosa vi sia
214 C a p it o l o 5

di valido o meno in queste opere, ma che il processo di discussione


di queste differenze concentra l’energia sulle questioni spirituali e
aiuta tutte le persone coinvolte a migliorarsi nella pratica e nella di­
fesa della propria fede.
Mentre alcuni critici conservatori hanno interpretato l’immersi-
vità della cultura popolare contemporanea come la leva dell’inizia­
zione dei giovani in pericolosi regni fantastici, alcuni all’interno del
movimento del discernimento hanno promosso l’uso dei giochi di
ruolo e dei computer game come spazi per esplorare e dibattere su
questioni morali. I Christian Gamers Guild (la cui newsletter men­
sile è nota come The Way, The True & The Dice [La Via, la Verità,
il Gioco]) sono emersi nel bel mezzo dei forti attacchi da parte di
alcuni leader evangelici nei confronti dei giochi di ruolo e dei com­
puter game.
Nel rivolgere la loro attenzione ai giochi, portano il concetto di
discernimento un passo avanti, sostenendo che i campioni dei gio­
chi (le persone che partecipano ai giochi di ruolo dal vivo) hanno
il potere di appropriarsi e di trasformare queste risorse culturali in
accordo alle loro credenze. Si tratta quindi, per adottare il nome di
un altro gruppo, di Fans for Christ (FFC).

La co ntro cultu ra cristiana

Invece di rigettare totalmente la cultura popolare, un numero crescen­


te di cristiani sta producendo e consumando i propri contenuti media­
tici popolari, ai margini del mondo dell'intrattenim ento mainstream.
Mentre molti cristiani si sono sentiti tagliati fuori dai mass media, que­
sti altri hanno velocemente accolto le nuove tecnologie - come la v i­
deocassetta, la tv via cavo, stazioni radio a bassa potenza e Internet-
che permettono di aggirare i gatekeeper più potenti. Ne è risultata la
creazione di contenuti che rispecchiano le convenzioni di genere del­
la cultura popolare, riuscendo tuttavia a esprimere una scelta alterna­
tiva di valori. In Shaking thè W orld for Jesus (2004), Heather Hender-
shot offre un resoconto articolato della tipologia di cultura popolare
prodotta da e per gli evangelici3. Insoddisfatti dai network televisivi, i
creativi conservatori hanno creato e distribuito in video le proprie se-

a. H. Hendershot, Shaking thè World for Jesus: Media and Conservative Evangelical
Culture, Chicago, University of Chicago Press, 2004.
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 215

Gruppi come Fans for Christ e Anime Angels si definiscono con


lo stesso linguaggio della politica delle identità che sostiene gay, le­
sbiche e bisessuali o organizzazioni cristiane femministe. Come è
spiegato nella sezione FAQ del sito FCC:

Siamo stati isolati troppo a lungo! Ci sono molti di noi fan che si sen­
tono diversi perché siamo come siamo. Alcuni ci definiscono freak.
weirdo, geek, nerd e in tanti altri modi ancora. FFC è per voi un’occa­
sione per parlare con i vostri fratelli e sorelle che sono cristiani e che
condividono la vostra stravaganza... siete i benvenuti qui, anche se sie­
te freak o geek . .. FFC è qui per mostrare che il nostro stile di vita come
fan è perfettamente compatibile con la fede per Gesù. Speriamo di aiu­
tare i membri FC C a essere in grado di spiegare agli altri che la Bibbia
non ci condanna per ciò che facciamo, che sappiamo che la fiction è
finzione, e che Dio ci ha fatti differenti e ciò è meraviglioso.52

Il sito fornisce una lista di chiese “amiche dei fan”, che rispetta­
no quindi le loro scelte di vita e valutano i loro punti di vista solo
in materia spirituale. In cambio, i membri promettono di condivi­
dere il loro amore per Cristo con gli altri fan, di organizzare incon-

rie animate e sit-com. Hanno creato i loro romanzi di fantascienza,


horror, mystery, d'amore, che vengono poi venduti online. Allarmati
dai videogame contemporanei, ne hanno prodotti alcuni in proprio,
come Victory at Hebron (2003), in cui i giocatori lottano contro Satana
o salvano i martiri. L'emergere delle nuove tecnologie ha concesso al­
le persone più religiose qualche livello di autonomia rispetto ai media
commerciali, permettendo loro di individuare quei prodotti che me­
glio rispecchiano la loro visione del mondo e di usufruirne. La tecno­
logia ha anche abbassato i costi di produzione e distribuzione, abili­
tando quella che rimane essenzialmente una nicchia di mercato a so­
stenere una vasta gamma di prodotti culturali. Di certo, per essere un
"mercato di nicchia", questo è sorprendentemente grande. Secondo
un sondaggio del 2002 di ABC News e Beliefnet, l'83% degli ameri­
cani si considera cristiano, mentre i Battisti (solo una delle tante clas­
sificazioni evangeliche) formano il 15% della nazione0.

b. G. Langer, "Poll: Most Americans Say They're Christian", ABC News, 18/7/2002,
http://abcnews.go.com/sections/us/DailyNews/beliefnet_poll_-1 -718.html.
216 C a p it o l o 5

tri per promuovere gli autori cristiani di fantasy e fantascienza e


scrivere proprie fan fiction che affrontino argomenti religiosi.
Molti leader del movimento del discernimento appaiono meno
celebrativi nei confronti degli aspetti “geek e freak” della cultura
popolare, ma percepiscono il valore di appropriazione e rilettura
delle opere della cultura popolare. Tanti sostenitori del discerni­
mento vedono i libri di Harry Potter come un’occasione proficua,
nelle mani dei genitori, per parlare con i loro figli della necessità e
della sfida di preservare i loro valori in una società secolarizzata.
Haack spiega:

Qui si insegnano delle verità, verità su cui vale la pena di riflettere e


discutere, e anche se sono presentate in un mondo immaginario, si ap­
plicano anche alla realtà... il mondo in cui vive Harry Potter è un
mondo di ordine morale, dove le idee e le scelte com portano delle
conseguenze, dove il bene e il male sono chiaramente distinti, dove il
male è disumanizzante, distruttivo, e la morte è dolorosamente rea­
le ... anche se i critici avessero ragione, la linea difensiva delle loro rac­
comandazioni appare comunque francamente imbarazzante. Se i ro ­
manzi di Harry Potter fossero introduzioni alPoccultismo, la chiesa

Da quando i media commerciali hanno scoperto questa fascia demo­


grafica, il muro che divideva i cristiani dalla cultura popolare com­
merciale si sta abbattendo. I video animati Veggie Tales (1994) hanno
trovato posto tra gli scaffali di Wal Mart; le registrazioni del radio­
dramma Adventures in Odyssey (Ί 991 ), prodotto da Focus on thè Fa­
mily, vengono distribuite come omaggio con le confezioni-pasto per
i bambini al C hick-fil-A; i libri di The Left Behind (1996) diventano
top sellers su Amazon.com; la cantante pop cristiana Amy Grant entra
in radio nella Top 40. Nell'am bito di tale processo, alcuni dei più im­
portanti segni religiosi vengono dismessi. I network televisivi hanno
iniziato a produrre spettacoli come Touched by an Angel (1994), 7th
Heaven (1996) e Joan o f Arcadia (2003), che trattano temi religiosi
con uno stile studiato per attrarre sia i "ricercatori di fede" che i "sal­
vati". Com'è comprensibile, molti cristiani sono spaventati dalla mer­
cificazione della Cristianità, e dal rischio che Gesù diventi solo un al­
tro marchio nel grande "mercato delle idee".
È in questo contesto che si deve inquadrare il successo sorprendente
del film The Passion o f thè Christ (2004) di Mei Gibson. I Cristiani
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 217

dovrebbe accoglierli come opportunità di affrontare il tema. Il N eo­


paganesimo è sempre più diffuso nel nostro mondo post-cristiano, e i
nostri bambini devono imparare ad affrontarlo armati di una fede se­
rena nel Vangelo. Hanno bisogno di conoscere la differenza tra lette­
ratura fantastica e occultismo, e hanno bisogno di vedere gli adulti agi­
re con criterio e non con scandalo.53

Sono pochi i sostenitori del discernimento che come Heather


Lawver arrivano a invitare i bambini a interpretare ruoli fantastici
e a giocare alPinterno del mondo della storia, ma alcuni di loro si
servono dei libri per parlare dei valori cristiani. Connie Neal ha
suggerito ai genitori cristiani di pensare che cosa avrebbe fatto Ge­
sù se si fosse trovato davanti queste storie:

Gesù leggerebbe le storie di Harry Potter e le userebbe come spunto


per le sue parabole... Proprio come Egli intuiva e comprendeva i biso­
gni fisici degli altri esseri umani, potrebbe anche comprendere le esi­
genze terrene rivelate nelle vite di coloro che si identificano con i per­
sonaggi di Harry Potter. Li farebbe parlare di Harry Potter e cerche­
rebbe di percepire quali siano le cose con cui si identificano di più: di­

hanno in questo caso saputo trascinare le folle nei cinema. Per esem­
pio, Gibson, per promuovere il suo film , si rivolse a Faith Highway, un
gruppo che in passato aveva offerto un servizio pubblico di messag­
geria mediante il quale le chiese locali potevano farsi pubblicità sulle
tv via cavo, in modo da conferire alle loro voci un tono più professio­
nale. Faith Highway domandò aiuto alle comunità ecclesiastiche per
finanziare la pubblicità del film, così come per favorire la circolazio­
ne tramite i loro servizi di messaggeria locale. Molte chiese hanno ca­
ricato i loro pulmini di fedeli per condurli alle proiezioni del film , e
quando e uscito il Dvd ne hanno ordinato grandi quantità per far ar­
rivare il film nelle mani dei loro fedeli. Alcuni leader religiosi hanno
ammesso di aver promosso attivamente il film nella speranza di ga­
rantirgli un successo commerciale che avrebbe richiamato su di loro
l'attenzione di Hollywood. L'amministratore delegato di Faith H i­
ghway, Dennis Dautel, ha spiegato: "I leader della chiesa stanno fa­
cendo di tutto per trovare dei media che possano essere utili alla dif­
fusione del proprio messaggio. Hollywood non li produce...Le con­
gregazioni lo hanno sostenuto perché erano interessate a che la gente
vedesse il film . Vi era quindi un forte desiderio, nella comunità cristia-
218 C a p it o l o 5

sattenzione, povertà, discriminazione, abuso, paure, sogni, difficoltà


di adattam ento, desiderio di realizzare qualcosa nella vita o di sfuggire
dallo stress della scuola. Gesù mostrerebbe quindi loro come affronta­
re quelle realtà delle loro vite.54

Invece di bandire i contenuti che non rispecchiano fedelmente


le loro visioni del mondo, i cristiani del movimento del discerni­
mento insegnano ai ragazzi e ai genitori cristiani come leggere que­
sti libri in maniera critica, come attribuire loro nuovi significati e
utilizzarli per accedere a prospettive spirituali alternative.
Invece di cancellare l’intertestualità, così dilagante nell’era della
narrazione transmediale, Neal, Haack e altri leader del discerni­
mento cercano i modi per imbrigliarne la potenza. Forniscono con­
sigli di lettura ai genitori che vogliono utilizzare l’interesse dei loro
bambini per Harry Potter come una porta di ingresso alla fantasy
cristiana. Molte associazioni del discernimento hanno pubblicato
guide alla lettura dei libri e alla visione dei film di Harry Potter, te­
sti corredati da “domande di approfondimento” per esplorare le
scelte morali fatte dai protagonisti della storia, accompagnate da
passi della Bibbia che fanno vedere come le stesse scelte siano af-

I
na, che quel film fosse un grande successo. Questa era, in fondo, la
'nostra' Passione"c.
La disputa su Harry Potter è stata alimentata proprio da questi canali
mediatici alternativi.
Mentre molti dei predicatori radiofonici e televisivi, come Charles
Colson e James Dobson, hanno accolto pacificamente l'universo di
Rowling, supportandolo apertamente o invitando i genitori a proce­
dere con cautela0, le più vivaci voci anti-Potter venivano più spesso
da nuovi ministri che si erano ritagliati un proprio spazio su Internet.
Essi hanno usato il dibattito per colpire quello che vedevano come un
establishment teologico. Uno di questi siti, Trumpet Ministries, si spin­
se fino a definire Colson e Dobson come dei "Giuda Iscariota dei gior­
ni nostri", dato il loro rifiuto di unirsi alla campagna contro i libri sotto

c. D. Dautel, intervista con l'autore, autunno 2004.


d. Per avere una panoramica sulla risposta dei cristiani, vedi Neal, What's a Christian
to Do? Vedi anche "Opinion Roundup: Positive about Potter", Christianity Today,
httpy/www.christianitytoday.com/ct/1999/150/12.0.html.
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 219

frontate nella tradizione cristiana. Così si concentrano, per esem­


pio, sul momento in cui la madre di Harry sacrifica la propria vita
per salvarlo, valutando il ruolo del personaggio come rappresenta­
tivo del modello di amore cristiano, oppure dibattono sulla mora­
lità corrotta che ha portato alla creazione della Pietra Filosofale
mostrandola come esempio del peccato. Mentre i cristiani anti-
Harry Potter vogliono proteggere i bambini dal pericolo di questi
libri, il movimento del discernimento si concentra sulla facoltà dei
consumatori di appropriarsi dei contenuti dei media e di trasfor­
marli.
Come possiamo vedere, le ragioni che hanno dato luogo alle
guerre di Potter non si riducono allo scontro tra censori malvagi e
difensori buoni delle libertà civili. Il caos generato dalla cultura
della convergenza non ci permette di muoverci con un tale grado
di certezza morale e manicheismo. Tutti questi gruppi cercano di
affrontare la natura immersiva e la qualità espansiva dei nuovi fran­
chise delPintrattenimento. Nell’era della convergenza mediatica, la
partecipazione dei consumatori costituisce il problema concettuale
di centrale importanza: i gatekeeper tradizionali vogliono tenersi
stretto il controllo culturale, e altri gruppi - fan, difensori delle li-

accusae. Come la fluidità culturale ha permesso ai giovani un accesso


al paganesimo molto più facile che in passato, ciò ha comportato an­
che la possibilità per i piccoli sacerdoti di esercitare la loro influenza
a livello mondiale, pubblicando critiche e sermoni dai loro piccoli
pulpiti nazionali. In modo analogo, piccole imprese di produzione v i­
deo, come Jeremiah Films, hanno potuto produrre documentari in
Dvd con titoli come Harry Potter: Witchcraft Repackaged (2001) e
venderli ai genitori interessati online oppure nelle televendite nottur­
ne sui canali via cavo.
La comunità evangelica ha cercato di individuare alcuni scrittori cri­
stiani di genere fantasy come alternativi ad Harry Potter. Sulla scia di
Lewis e Tolkien, G. P. Taylor, un parroco anglicano, ha usato il suo ro­
manzo fantasy Shadowmancer (2004) per affrontare questioni teolo­
giche e morali. Il libro ha battuto Harry Potter per quindici settimane
nel Regno Unito e, nell'estate 2004, è stato nella classifica dei best

e. "Harry Potter? What Does God Have to Say?", http://www.lasttrumpetmini-


stries.org/tracts/tract7.html.
220 C a p it o l o 5

berta civili e cristiani legati al movimento del discernimento - desi­


derano trasmettere loro le abilità necessarie per costruirsi da soli la
propria cultura. Secondo alcuni, come Heather Lawver o James
Gee, la scrittura di fan fiction e i giochi di ruolo sono pratiche utili
perché permettono ai bambini di capire i libri da capo a fondo; tali
attività comportano una negoziazione tra autoespressione e scam­
bio di risorse culturali, tra introspezione e costruzione collaborati­
va di mondi fantastici. Altri, come i Fans for Christ o i Christian ga-
mers, vedono di buon occhio queste attività perché permettono a
giocatori e scrittori di esplorare opzioni morali, di valutare le no­
stre qualità contro ostacoli finzionali e di affrontare sfide immagi­
narie che potrebbero allenarci per gestire meglio le nostre vite quo­
tidiane. Altri ancora, come i cristiani conservatori che si sono op­
posti all’ingresso dei libri nelle scuole, giochi di ruolo e fantasie
condivise sono pericolosi perché distraggono i giovani da una seria
educazione morale e li espongono al fascino di gruppi pagani e di
pratiche occulte. Tuttavia, in qualche modo, anche gruppi come
Muggles for Harry Potter sembrano d’accordo nel ritenere che la
fantasia stessa possa essere pericolosa per i bambini, specialmente
se essi non sanno distinguere i regni fantastici dalla realtà.

seller del N ew York Times per sei settimane di seguito. Fu pubbliciz­


zato molto sui media cristiani, come il programma "700 Club" di Pat
Robertson e "Focus on thè Family" di James Dobson, che lo definì "la
cosa giusta per contrastare la magia di Harry Potter." Shadowmancer
irruppe nelle librerie cristiane che normalmente non trattavano libri
fantasye da lì si infiltrò in quelle laiche che normalmente non ospita­
vano molti libri di fiction spirituale. I diritti cinematografici sono stati
subito acquistati da Fortitude Films, un gruppo nato a sostegno del
film The Passion o f thè Christ di Mei Gibson e, secondo alcune voci,
lo stesso Gibson si sarebbe dovuto occupare del l'adattamento cine­
matografico.
Da parte sua, Taylor ha detto di aver scritto il libro per mostrare ai
bam bini la potenza di Dio e non come alternativa alla saga di Harry
Potter, che sostiene di non aver mai lettof.

f- D. Smith, "Harry Potter Inspires a Christian Alternative", New York Times, 24/7/
2004, A 15.
Pe r c h é H e a t h e r pu ò s c r iv e r e 2 21

Possiamo interpretare questa diatriba come il risultato di una


serie di reazioni contro molte caratteristiche della cultura conver­
gente che abbiamo finora esaminato: contro l’espansione di regni
fantastici attraverso i vari media; contro il desiderio di conoscere a
fondo i particolari arcani di quei testi e trasformarli in risorse per
una cultura più partecipativa. Per alcuni, il nodo del problema ri­
siede nel contenuto specifico di quelle fantasie - se sia compatibile
con la visione del mondo cristiana. Per altri, riguarda la commer­
cializzazione verso i bambini di tali prodotti - vogliamo che le loro
occasioni partecipative vengano mercificate? Ironicamente, allo
stesso tempo, le grandi aziende guardano con preoccupazione a
questi giochi fantastici, perché sfuggono al loro controllo diretto.
Diversamente dalle dispute del passato riguardanti la cultura dei
bambini, in ogni caso, qui non si tratta di giovani generazioni vitti­
me dei tentativi degli adulti di porre nei loro confronti restrizioni
e limitazioni. Stiamo parlando invece di soggetti che partecipano
attivamente a questi nuovi paesaggi mediatici, esprimendo le loro
voci attraverso le comunità di fan, esercitando e facendo valere i
loro diritti anche nei confronti di attori potenti e a volte persino
sfuggendo al controllo dei loro genitori pur di fare ciò che ritengo­
no giusto. Allo stesso tempo, mediante la loro partecipazione, que­
sti bambini stanno individuando nuove strategie di negoziazione di
fronte alla globalizzazione, alle battaglie sulla proprietà intellettua­
le e alla conglomerazione dei media. Usano Internet per connetter­
si con altri bambini di tutto il mondo, e in questo modo scoprono
interessi comuni e costruiscono alleanze politiche. Siccome la pas­
sione per Harry Potter coinvolge sia adulti che bambini, è diventata
anche uno spazio per la conversazione intergenerazionale. Nel di­
battito intorno alla pedagogia dei media, quindi, non dobbiamo
più immaginare un processo di apprendimento nel quale gli adulti
insegnano e i bambini imparano. Piuttosto, dovremmo interpretare
questo scenario come uno spazio in cui i bambini imparano l’uno
dall’altra, e in cui anche gli adulti, se aprissero gli occhi, potrebbe­
ro apprendere molto.
C a p it o l o 6

Photoshop per la democrazia


I nuovi rapporti tra politica e cultura popolare

Nella primavera 2004 circolava in Internet un breve video, Tfee


Apprentice (2004), costruito con spezzoni di notiziari e del reality
televisivo di Donald Trump. Il video si presenta come un’antepri­
ma di The Apprentice: un narratore spiega: “A George W . Bush è
affidato il compito di fare il presidente. Fa crollare l’economia^
mente per giustificare la guerra, sfora il bilancio e sta per farla fran­
ca ma poi The Donald lo scopre”. Poi c’è uno stacco e si passa in
una sala riunioni dove Trump prima chiede “di chi è stata
quest’idea cretina?” e poi licenzia Dubya. Il suo sguardo di disap­
punto incrocia quello di Bush che scuote il capo con stupore e di­
sappunto. La parola passa infine all’annunciatore: “Sfortunata­
mente, ‘The Donald’ non può licenziare Bush al posto nostro. M a
possiamo farlo noi stessi. Unisciti anche tu a True Majority Action.
Licenzieremo Bush insieme, e sarà uno spasso”1.
Chi avrebbe mai immaginato Donald Trump nei panni di un
portavoce del popolo o che l’icona vivente del potere delle corpo-
ration potesse ispirare un movimento per la democrazia? In un cu­
rioso mix di cinismo e ottimismo, il video ha messo in ridicolo la
corrente amministrazione agli occhi dei Democratici, incitandoli a
spodestarla.
True Majority venne fondato da Ben Cohen (di Ben & Jerry’s
Ice Cream). I suoi obiettivi erano accrescere la partecipazione al
voto del 200 4 e sostenere i progressisti. Secondo quanto riportato
nel sito web (www.truemajority.org), l’organizzazione conta più di
30.000 sostenitori, che ricevono regolari avvisi e collaborano alle
campagne di corrispondenza2.
224 C a p it o l o 6

Intervistato a poche settimane dal voto, Garrett LoPorto, con­


sulente creativo per True Majority, ha dichiarato che il cuore del
marketing virale sta nel far arrivare l’idea giusta nelle mani giuste
al momento giusto3. Questo video ha ricevuto un’attenzione supe­
riore alla media, sostiene, sia perché ha espresso il malcontento co­
mune su un governo fallimentare, sia perché The Apprentice ha for­
nito la metafora perfetta per ridare le giuste dimensioni alla scelta
da prendere: “Non stiamo discutendo della possibilità di investire
qualcuno come leader del mondo libero. Stiamo solo cercando di
cacciare un tipo che ha sbagliato. E semplice.” Il loro scopo era dif­
fondere queste idee nel modo più ampio possibile. Per fare ciò,
hanno cercato di creare immagini forti, memorabili ed evocative.
E, aspetto più importante, il contenuto doveva essere coerente con
l’idea del mondo che la gente si era più o meno già fatta. Localiz­
zare persone con le quali abbiamo vedute comuni è facile, sostiene
LoPorto, perché tendiamo a cercare comunità in rete animate da
idee simili alle nostre. Ogni persona che si passava il video riaffer­
mava il proprio impegno per quelle convinzioni e avanzava di un
passo verso l’azione politica. Una certa percentuale di destinatari
seguì il link al sito di True Majority allungandone la mailing list.
Replica questo processo più volte con più persone - si sostiene - e
puoi mettere in piedi un movimento e iniziare a “spingere” dalla
tua parte una struttura dominante di convinzioni. Almeno in teo­
ria. La vera sfida consiste nel trasferire tali idee ai media mainstre-
am, da cui raggiungeranno persone che non condividono, in par­
tenza, le nostre posizioni. Come ha ammesso LoPorto: “Ciò che ci
serviva era che la NBC ci facesse causa. Se ci avessero fatto causa,
la cosa avrebbe ottenuto una visibilità globale, raggiungendo dav­
vero tutti. Questa era l’altra nostra speranza... La NBC fu troppo
astuta per cadere nel tranello; hanno capito che il video era una pa­
rodia e non hanno abboccato.”
N ell’intento di rendere la politica più divertente, l’home page
del sito di True Majority offriva agli utenti non solo il filmato
“Trump Fires Bush”, ma anche un gioco in cui si poteva sculacciare
Dubya e un altro video dove “Ben thè Ice Cream M an” riduce il bi­
lancio federale a cataste di biscotti Oreo e mostra come spostare
qualche biscotto ci permetta di occuparci di problemi urgenti, così
come altri esempi di ciò che il gruppo definisce “divertimento se-
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 225

In un certo senso, tutto questo libro parla di “divertimento se­


rio”. L’esercito statunitense sviluppa un massively multiplayer ga­
me per agevolare la comunicazione tra militari e civili. Imprese co­
me Coca Cola e BMW accedono aH’industria dell’intrattenimento
per stimolare un legame affettivo più forte verso i loro marchi. Gli
educatori accolgono la pedagogia informale tipica delle comunità
di fan come modello di sviluppo per le abilità letterarie. I gruppi in
difesa del Primo Emendamento monitorano l’interesse dei ragazzi
per i libri di Harry Potter. Le chiese “amiche dei fan” organizzano
dibattiti su film e spettacoli televisivi per aiutare le loro congrega­
zioni a sviluppare la capacità del buon senso. In ogni caso, le istitu­
zioni, solitamente trincerate dietro se stesse, assorbono gli schemi
delle comunità grassroots di fan, si reinventano per un’era di con­
vergenza mediatica e di intelligenza collettiva. Perciò, perché non
applicare queste stesse lezioni alla politica presidenziale? Noi non
possiamo rovesciare l’ordine costituito (così come il potere dei par­
titi politici e dei loro finanziatori) dà un giorno all’altro: nessuno
tra i partecipanti a queste campagne modellate dalla cultura popo­
lare osa parlare di rivoluzione, digitale o di altro genere. Ciò di cui
si sta parlando è una trasformazione del ruolo del pubblico all’in­
terno del processo politico, che consiste nell’avvicinare l’ambito
del discorso politico alle esperienze della vita quotidiana dei citta­
dini; si sta mettendo in gioco il cambiamento dei modi in cui la
gente pensa la comunità e il potere, così da rendersi capace di mo­
bilitare l’intelligenza collettiva nell’impresa di mutare i governi.
Ciò di cui si sta argomentando, infine, è del passaggio da una con­
cezione individualistica di cittadino informato a una più collabora­
tiva di cittadino monitorante.
Questo capitolo sposta l’attenzione dai franchise di intratteni­
mento popolare alla scelta del presidente degli Stati Uniti d’Ameri­
ca. In linea generale, i due processi sono ben distinti: uno è ineren­
te al consumo, l’altro alla cittadinanza. Tuttavia, con le elezioni del
2004, i cittadini hanno iniziato ad applicare la lezione appresa co­
me consumatori di cultura popolare a forme più aperte di attivismo
politico. La cultura popolare ha influenzato i modi con cui le cam­
pagne corteggiano gli elettori ma, soprattutto, ha plasmato le mo­
dalità di elaborazione e di azione del discorso politico.
In questa sede, dedicherò meno attenzione alle riforme di istitu­
zioni o leggi - che sono l’argomento centrale della scienza politica -
mentre mi concentrerò sui cambiamenti in atto nei sistemi di comu­
226 C a p it o l o 6

nicazione e nelle norme culturali, che hanno bisogno di essere com­


presi mediante strumenti tratti dallo studio dei media e della cultura
popolare. L’attuale diversificazione dei canali comunicativi assume
un’importanza politica perché amplia la varietà di voci che possono
essere ascoltate: anche se alcune di esse sono dominanti rispetto ad
altre, nessuna parla a titolo di un’autorità indiscussa. I nuovi media
operano in accordo a principi differenti rispetto ai media broadcast
che hanno dominato la politica americana così a lungo: accesso,
partecipazione, reciprocità e comunicazione punto-a-punto anziché
uno-a-molti. Dati tali principi, dovremmo prevedere che la demo­
crazia digitale sarà decentralizzata, non equamente distribuita, pro­
fondamente contraddittoria e lenta a palesarsi. Queste forze si ma­
nifesteranno prima attraverso forme culturali: un nuovo sentimento
comunitario, un maggior senso di partecipazione, minore dipen­
denza dal sapere istituito e una maggiore fiducia nel problem solving
collettivo, tutti aspetti già esaminati nel corso del libro. Alcuni argo­
menti di questo capitolo ci riconducono alla vecchia politica con­
dotta in modi nuovi, come i tentativi di influenzare l’opinione pub­
blica, convincere al voto gli elettori, mobilitare i sostenitori e gon­
fiare i “difetti” del candidato avversario. Altri temi ci sembreranno
meno familiari: elezioni che si svolgono all’interno dei mondi vir­
tuali dei massively multiplayer game, programmi-parodia di notizia­
ri e immagini modificate con Photoshop. Tuttavia, queste forme di
cultura popolare producono anche effetti politici, rappresentando
degli spazi ibridi dove ridurre la complessità politica (e cambiarne il
linguaggio) così da acquisire la competenza di cui abbiamo bisogno
per partecipare al processo democratico.
La campagna del 2004 è stata una fase di sperimentazione e in­
novazione nell’uso delle nuove tecnologie mediatiche e delle stra·
tegie basate sulla cultura popolare. Da un lato, l’approssimarsi del­
le elezioni ha infiammato le passioni degli elettori che per primi si
erano fatti coinvolgere ed erano più convinti del candidato scelto.
Dall’altro, la vicinanza del voto ha reso frenetiche le campagne pel
mobilitare la base, attrarre gli elettori indecisi e convincere i nuovi
al voto (specialmente per quanto riguarda i giovani). Aggiungiamo
a tutto ciò la presenza di una nuova generazione di organizzatori di
campagne elettorali che avevano studiato con attenzione l’evolu*
zione della cultura digitale durante l’ultimo decennio ed erano]
pronti a mettere in pratica la lezione imparata. A tal proposito, Hj
campaign manager di Howard Dean, Joe Trippi, ha posto le do·
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 227

mande fondamentali in un intervento che ha suscitato molte di­


scussioni: “Gli strumenti, l’energia, la leadership e il candidato giu­
sto sono tutti ingredienti indispensabili per creare la Tempesta Per­
fetta della politica presidenziale. Dov’è che milioni di americani si
uniscono e mobilitano le loro comunità, i loro quartieri e distret­
ti... Come si incontrano? Come si organizzano? Come collabora-
no? Come si attivano insieme?”4 E a questo punto che entra in gio­
co la cultura popolare.

“La rivoluzione non sarà trasmessa in Tv”

Lavorando per un candidato oscuro e sovversivo al quale pochi


esperti avevano concesso speranze concrete di vittoria, Trippi ha
cercato di sfruttare il potere delPemergenza grassroots. Dean ha
raccolto più denaro online sommando piccoli contributi rispetto a
tutti i candidati precedenti, ha dettato un modello che poi è stato
ripreso da John Kerry per ridurre il “gap di finanziamenti” che lo
distanziava dai Repubblicani. Il suo staff ha usato il blogging per
creare un rapporto più intimo e in tempo reale con i sostenitori.
Ha usato tattiche in stile “smart mob” - fra l’altro con un uso abile
di Meetup.com - per organizzare eventi in breve tempo, riunendo
migliaia di persone quando gli altri candidati perdevano ancora
tempo a parlare dentro stanze mezze vuote. Dean non ha in realtà
creato il movimento. Il suo staff si è semplicemente impegnato ad
ascoltare e a imparare dalla base5.
Trippi definisce i successi iniziali della campagna di Dean come
un “punto di svolta”, in cui la politica televisiva ha ceduto il passo
a quella di Internet. Come fecero i dirigenti delle dot-com prima di
lui, Trippi (e Dean) hanno scambiato la loro capacità imbonitoria
per un modello realistico del cambiamento mediatico. Finora, i cy-
bercandidati più attivi sono stati rivoluzionari incapaci di trasfor­
mare i media digitali in strumenti per la vittoria, ma in grado, co­
munque, di cambiare la natura del dibattito. E significativo il fatto
che Trippi abbia intitolato la sua autobiografia The Revolution Will
Not Be Televised (2005), citando la canzone di Gii Scott Heron. Lo
slogan divenne una profezia auto-avverante. Se Internet costruì la
candidatura di Dean, la televisione la distrusse.
Negli anni ’60, quando Heron interpretò per la prima volta la
canzone, era chiaro che lo stretto controllo esercitato dalle imprese
228 C a p it o l o 6

mediatiche major non permettesse di comunicare idee che fossero


in contrasto con gli interessi dominanti. La controcultura si espri­
meva principalmente nei media grassroots come giornali under­
ground, canzoni folk, manifesti, radio popolari e fumetti. I network
e i quotidiani filtravano i messaggi che non volevano farci ascolta­
re, e le pratiche di esclusione operate da questi intermediari favori­
rono la domanda di canali di tipo grassroots e partecipativo. Trippi
definisce la televisione una tecnologia sostanzialmente passiva (e
tranquillizzante): “Mentre la tv era un mezzo che ci ha resi stupidi,
disimpegnati e disconnessi, Internet ci rende più intelligenti, più
coinvolti e meglio informati”6. Chiunque abbia letto sino a questo
punto il libro saprebbe ben mettere in discussione entrambe le af­
fermazioni.
Se, a proposito del 2004, ci domandiamo quanto e come la ri­
voluzione sarà digitalizzata, le nostre risposte saranno molto diver­
se. L’abbassamento delle barriere all’ingresso del Web ha aperto la
strada all’espressione di idee innovative e perfino rivoluzionarie,
almeno per quel segmento di popolazione, in crescita, che ha acces­
so al computer. Coloro che erano stati messi a tacere dai media cor­
porate, furono i primi a trasformare i loro pc in piccole tipografie.
Di tale opportunità hanno beneficiato partiti minori, rivoluzionari,
reazionari e perfino razzisti. Essa ha anche fatto nascere la paura
nei vecchi intermediari e nei loro alleati. Quella che per una perso­
na è diversità, è anarchia per un’altra.
Il sottotitolo del libro di Trippi, Democracy, thè Internet, and
thè Overthrow o f Everything [Democrazia, Internet e il rovescia­
mento di ogni cosa], fissa il potenziale rivoluzionario che autori co­
me Hans Enzensberger vedono nello sviluppo tecnologico in grado
di attivare la comunicazione grassroots7. Trippi celebra in ciò che
vede come l’“era dell’empowerment” il momento in cui i cittadini
comuni sfidano il potere di solide istituzioni: “Se l’informazione è
potere, allora questa nuova tecnologia, che è la prima a distribuire
equamente informazione, sta realmente diffondendo il potere. Il
potere sta slittando dalle mani delle istituzioni che hanno sempre
funzionato dall’alto al basso - organizzando l’informazione dal
vertice, dicendoci come condurre le nostre vite - verso un nuovo
paradigma in cui esso è distribuito e condiviso da tutti”8.
Consideriamo ora un secondo slogan, che gli studenti cantava­
no per le vie di Chicago durante le proteste del ’68: “Tutto il mon­
do sta guardando”. Con tutte le difficoltà del caso, se i manifestanti
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 229

fossero riusciti a far passare le loro immagini e le loro idee attraver­


so i canali broadcast di ABC, CBS e NBC, avrebbero raggiunto un
segmento significativo della popolazione. C ’è qualche posto in rete
dove tutto il mondo sta guardando?
Come abbiamo suggerito nel corso del libro, il panorama me-
diatico contemporaneo si compone di molte tendenze contraddit­
torie e concorrenti: nello stesso momento in cui il cyberspazio
spazza via l’informazione tradizionale e i gatekeeper della cultura,
si registra una concentrazione di potere all’interno dei vecchi me­
dia che non ha precedenti nella storia. Un allargamento dello spa­
zio di discussione coesiste con una contrazione della pluralità in­
formativa trasmessa dai canali più facilmente accessibili.
La nuova cultura politica - proprio come la nuova cultura po­
polare - riflette lo strattonarsi di questi due sistemi mediatici: uno
di tipo broadcast e commerciale, l’altro narrowcast e grassroots.
Nuove idee e prospettive alternative emergono con maggiore pro­
babilità in un ambiente digitale, che verrà monitorato dai media
mainstream, alla ricerca di contenuti di cui appropriarsi e da far
circolare. I canali mediatici grassroots entrano nella stessa cornice
di riferimento creata dagli intermediari tradizionali; buona parte
dei contenuti “virali” di maggiore successo che circolano in rete
(come per esempio il video “Trump Fires Bush”) critica o scim­
miotta i media mainstream. Il broadcasting trasmette la cultura di
massa, mentre il web offre canali più localizzati per rispondervi.
In alcune parti del suo libro, Trippi riconosce l’interazione tra i
due tipi di potere mediatico in gioco. Per esempio, scrive del suo
stupore nell’assistere alle donazioni ricevute mediante Internet in
tempo reale, durante una trasmissione radiofonica: “La gente mi
ascoltava alla radio, andava al computer e offriva il suo contributo
alla campagna. Internet stava permettendo alla gente di dare una
risposta immediata. Dopo di ciò, avremmo monitorato le uscite
della stampa, della televisione e della radio sino a essere in grado di
prevedere accuratamente la quantità di denaro che avremmo ac­
quisito online dopo la partecipazione di Dean ad Hardball (1997)
o dopo un articolo pubblicato da Osa Today, e avremmo saputo
quali media scegliere per raccogliere più fondi”9. Questa non è né
politica televisiva, né politica digitale. Questa è la politica della
convergenza.
Altrove, Trippi rigetta la convergenza, che associa invece al
controllo delle corporate:
230 C a p it o l o 6

Prima o poi, di certo, ci sarà la convergenza. Una scatola. Uno scher­


mo. Leggerai la tua e-mail, ordinerai la tua spesa e controllerai i com ­
piti di tuo figlio da quello stesso schermo. Potrebbe essere il mom ento
più pericoloso per questo movimento dem ocratico emergente - il m o­
mento in cui le corporation e gli inserzionisti minacceranno di appro­
priarsi dell’etica della democrazia in rete e di eroderla. Il futuro assu­
merà un aspetto diverso se la scatola sarà dominata dalle regole del
broadcasting o piuttosto dal potere populista di Internet.10

Trippi è vittima della Fallacia della Scatola Nera. Non sono in


disaccordo con la sua posizione centrale, che il pubblico deve lot­
tare per il proprio diritto alla partecipazione, per il suo accesso cre­
scente all’informazione e per il conseguente potere di dar forma al
processo democratico. Condivido l’idea secondo cui il consolida­
mento delle corporation costituisce una minaccia potenziale a quel
potere. Tuttavia, come questo libro ha cercato di dimostrare, stia­
mo già vivendo in una cultura convergente. Stiamo già imparando
come districarci nel mezzo di quei sistemi mediatici multipli. Le
battaglie-chiave si combattono adesso. Se ci concentriamo sulla
tecnologia, lo scontro sarà perso prima ancora di iniziare a lottare.
Dobbiamo confrontarci con le regole sociali, culturali e politiche
che circondano il paesaggio tecnologico e ne definiscono le moda­
lità d’uso.
E un errore pensare in modo isolato a ciascun settore del potere
mediatico. Il nostro sistema di convergenza in evoluzione si regge
su controlli ed equilibri. 60 Minutes (1968) dedicò una puntata alla
vecchia accusa secondo cui Bush avrebbe usato l’influenza paterna
per venire meno alla sua responsabilità nella guerra del Vietnam
mentre prestava servizio militare nella National Guard. I blogger
conservatori iniziarono a sezionare i documenti dell’accusa, riu­
scendo a dimostrare, nel finale, che essi erano stati prodotti con
una macchina da scrivere non ancora in commercio all’epoca dei
fatti. In principio, la CBS bollò quei blogger come degli amatori
ben intenzionati ma maiinformati - “un tipo che scrive in pigiama
seduto nel suo salotto” - che mancavano di “molteplici livelli di
controllo ed equilibrio” indispensabili a garantire l’accuratezza
dell’informazione televisiva11. Tuttavia, alla fine, la CBS si vide co­
stretta a scusarsi pubblicamente per l’inesattezza della notizia e a li­
cenziare autori e giornalisti di lunga carriera.
Ph o t o s h o p p e r l a d e m o c r a z ia 231

Alcuni studiosi hanno letto la vicenda come la vittoria dei nuovi


media sui vecchi. Il direttore della rivista Reason, Jesse Walker, in­
vece, ha scorto alle spalle del suo svolgersi l’evidenza di una cre­
scente integrazione tra i due:

[I blogger] stavano riportando cronaca fresca e analisi puntuali della


vicenda. Lo stesso vale per ABC, Associated Press e Washington Post.
I media professionali raccolgono idee dai blogger; questi li ricambiano
linkandosi ai loro articoli. I vecchi e i nuovi media non erano in disac­
cordo gli uni con gli altri o, se lo erano, lo erano anche con se stessi.
Si complimentavano a vicenda, sino a mostrarsi parte dello stesso eco­
sistem a... I nuovi canali non stanno rimpiazzando i vecchi, li stanno
semplicemente trasformando. Lentamente ma inesorabilmente, i vec­
chi media diventano più veloci, trasparenti e interattivi - non perché
vogliono ma perché devono. La concorrenza sta accelerando il ciclo
delle notizie indipendentemente dalla volontà dei singoli. I critici met­
tono sotto esame il lavoro dei reporter, anche quando i loro occhi in­
discreti non sono ben accolti.12

Lo stesso può accadere per le campagne presidenziali. I candi­


dati possono costruirsi la propria base su Internet, ma hanno biso­
gno della televisione per vincere le elezioni. Ecco qual è la differen­
za tra i media push (che inviano messaggi al pubblico, che esso lo
voglia o meno) e i media pulì (i quali raggiungono solo coloro che
si interessano attivamente a un’informazione specifica). Internet si
rivolge allo zoccolo duro, la tv agli indecisi. Dean ha esordito in re­
te, e ciò gli ha offerto visibilità anche per il broadcasting e per i me­
dia commerciali. E stato capace di raccogliere attraverso il Web
quelle enormi somme di denaro che servivano a finanziare la pub­
blicità in televisione. Le tattiche usate per avvicinare i sostenitori a
Internet sono state citate fuori contesto in tv. I suoi post venivano
ridotti a frammenti di audio. Quando i media broadcast hanno co­
minciato a cavargli il sangue - per esempio, con il noto discorso “I
have a scream” - gli squali di Internet lo hanno accerchiato e fatto
a pezzi. Un sito web si linka a più di trecento parodie del conces­
sion speecb autodistruttivo pronunciato da Dean, a seguito dell’in­
successo dei caucus nello Iowa; fra le altre, ci sono fotografie in cui
lo si vede mentre afferra ululando Janet Jackson, urla a un gattino,
o semplicemente lascia esplodere una passione repressa troppo a
lungo (Figure 6.1 e 6.2). Tutto ciò dimostra come il ruolo politico
232 C a p it o l o 6

della rete si stia espandendo senza sminuire il potere dei media


broadcast.

Figure 6.1 e 6.2 La comunità di Internet si è rivoltata contro Dean dopo il


concession speech pronunciato in seguito alla sconfitta ai
caucus in lowa: il risultato, un gran numero di parodie e pre­
se in giro sul Web.

Possiamo comprendere questo passaggio rifacendoci alla diffe­


renza tra “culture jamming”, una tattica politica che rispecchia la
logica della rivoluzione digitale, e il blogging, che sembra essere
una pratica emblematica della cultura convergente. Nel suo saggio
del 1993 “Culture Jamming: Hacking, Slashing and Sniping in thè
Empire of Signs”, il critico culturale Mark Dery ha documentato le
tattiche emergenti della resistenza grassroots (“media hacking,
guerra informativa, terror-art e guerriglia semiologica”) a una for­
ma di “tecnocultura ancora più intrusiva e strumentale il cui modus
operandi è la produzione del consenso attraverso la manipolazione
dei segni”13. Nel gergo dei radioamatori, il termine “jamming” si
riferisce ai tentativi di “introdurre rumore nel segnale, quando esso
passa dall’emittente al ricevente”. Il saggio di Dery documenta
un’importante fase della storia dei media fai-da-te, inaugurata dal
momento in cui gli attivisti hanno imparato a usare i nuovi mezzi
per esprimere una prospettiva alternativa rispetto a quella offerta
dai media di massa.
Forse, però, il concetto di culture jamming ha esaurito la sua uti­
lità. La vecchia retorica che dipingeva uno scenario di opposizione e
Ph o t o s h o p p e r l a d e m o c r a z ia 233

cooptazione tra le parti in gioco presupponeva un mondo dove i


consumatori avevano un potere diretto molto limitato per plasmare
i contenuti mediatici e dovevano affrontare enormi barriere all’in­
gresso del mercato, mentre il nuovo ambiente digitale allarga il rag­
gio e la portata delle attività dei consumatori. Pierre Lévy descrive
un mondo dove la comunicazione grassroots non è l’interruzione
momentanea del segnale delle corporate, ma il modo consueto con
cui opera il nuovo sistema: “Finora ci si è riappropriati della parola
solo grazie a un movimento rivoluzionario, a una crisi, a una cura, a
un atto creativo eccezionale. Quale potrebbe essere una riappro­
priazione della parola normale, tranquilla, istituita, se si potesse
parlare di un processo continuamente fondante?”14
Il blogging potrebbe rappresentare meglio la conversazione
pubblica permanente di cui parla Lévy. Il termine “blog” è l’abbre­
viazione di Weblog, una nuova forma di espressione grassroots,
personale e subculturale che propone continuamente riferimenti,
riassunti e link verso altri siti. In effetti, il blogging è una modalità
di convergenza grassroots. Mettendo in comune l’informazione e
usufruendo della competenza diffusa, discutendo le prove ed esa­
minando tutti i dati disponibili, e forse, in modo più potente, sfi­
dando ciascuno le convinzioni degli altri, la comunità del blogging
sta dando vita allo “spoiling” del governo americano. Si potrebbe
individuare una similitudine tra la comunità dei fan che raggiunge
la location di Survivor alla ricerca di tracce da seguire e la comunità
del blogging che mette insieme i soldi utili a inviare reporter indi-
pendenti a Baghdad o alle convention di partito, ricercando l’infor­
mazione che altrimenti teme non riceverebbe mai, perché non su­
pererebbe il filtro dei media mainstream15. Prendiamo per esempio
le fotografie dei soldati americani che ritornano dall’Iraq nelle bare
avvolte dalle bandiere, oppure le immagini degli abusi sui prigio­
nieri di Abu Ghraib. Entrambe sono entrate nei media mainstream
come foto digitali, scattate e diffuse al di fuori dei canali militari uf­
ficiali. Donald Rumsfeld somiglia un po’ a Jeff Probst quando spie­
ga: “Stiamo operando con gli impedimenti tipici di una situazione
di pace, con requisiti legali, mentre siamo in stato di guerra nell’era
dell’informazione. La gente corre avanti e indietro armata di foto­
camere digitali, scatta foto incredibili e le consegna, contro la leg­
ge, ai media, con nostra sorpresa”16. (O forse è possibile la lettura
opposta: Survivor spesso sembra ispirarsi alla condotta militare co­
me quando mette sotto sorveglianza l’area della produzione, cosa
234 C a p it o l o 6

che non soprende poi troppo, visto il passato di paracadutista


dell’esercito britannico di Mark Bunett.) In qualche caso i blogger,
come gli spoiler, sono all’inseguimento di notizie su eventi già ac­
caduti; ma in molte altre situazioni cercano invece di influenzare
gli avvenimenti futuri, aiutando con i dati scoperti a intervenire nel
processo democratico.
Proprio come i membri delle comunità di brand divengono i
punti principali di raccolta delle critiche alle aziende che ritengono
abbiano tradito la loro fiducia, le comunità online forniscono ai lo­
ro partecipanti i mezzi per manifestare la loro sfiducia nei confron­
ti dell’informazione mediatica e il loro malcontento per la “solita”
politica. L’insoddisfazione verso i canali di informazione tradizio­
nali si è manifestata nel momento in cui i blogger hanno scelto di
pubblicare gli exit poli su cui i network si basavano per “assegnare”
gli stati ai diversi contendenti. Cedendo alle proteste secondo le
quali una pubblicazione prematura degli exit poli avrebbe influen­
zato gli esiti dei precedenti risultati elettorali, i network hanno de­
ciso di non renderli pubblici. Fin dal tardo pomeriggio dell’Elec-
tion Day, gli exit poli furono largamente disponibili in Internet, e
al pubblico fu possibile guardare la copertura delle informazioni
elettorali con un occhio più critico. Un blogger spiegò: “Il nostro
approccio è: noi pubblichiamo, voi giudicate.” Sfortunatamente,
gli exit poli mostravano un vantaggio di Kerry laddove il conteggio
reale dei voti avrebbe portato a una modesta vittoria di Bush. I
blogger liberali - e attraverso loro la campagna pro-Kerry - videro
le loro speranze sollevarsi e infine infrangersi, poiché l’informazio­
ne, normalmente centellinata dai network, era facilmente disponi­
bile come mai in precedenza. I giornalisti di professione hanno uti­
lizzato Pinaffidabilità di quegli exit poli (raccolti da professionisti)
per sostenere che chi professionista non è non dovrebbe raccontare
o interpretare le notizie17.
Poiché il potere grassroots del blogging era ancora una novità
mai messa alla prova, non sorprende molto che la campagna del
200 4 sia stata una giostra di fallimenti e successi. Nei prossimi
quattro anni, possiamo esserne certi, i blogger di ogni orientamen­
to politico affineranno gli strumenti e affileranno le lame. I blogger
non fanno professione di obiettività, sono spesso dichiaratamente
schierati, parlano per voci e allusioni e, come vedremo, è provato
che sono letti principalmente da lettori che sono già in partenza
d’accordo con loro. Il blogging può, per un verso, facilitare il flusso
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 235

di idee attraverso il paesaggio mediatico, mentre per altri tende a


polarizzare ancora di più il dibattito politico. Di certo, come i blog-
ger fanno subito notare, lo stesso giornalismo mainstream è sempre
più inattendibile, poiché è guidato da un’agenda ideologica anziché
da standard professionali, insabbia storie che contrastano i suoi in­
teressi economici, riduce la complessità a cronaca spicciola e sem­
plifica la politica concentrandosi su lotte per il potere e gare eletto­
rali. In un tale contesto, i blogger si batteranno contro i giornalisti
mainstream storia dopo storia, notizia dopo notizia. A volte avran­
no la meglio, altre perderanno, ma costringeranno sempre un seg­
mento di pubblico a mettere in dubbio le rappresentazioni domi­
nanti. In effetti, non si può contare che una delle due parti dia sem­
pre al pubblico la verità, tutta la verità e niente altro che la verità.
Tuttavia, l’opposizione tra queste due forze ci dà l’opportunità di
correggere molti errori.
Nello svolgimento della campagna del 2004, i due partiti mag­
giori mostrarono un graduale miglioramento della capacità di far
passare un messaggio attraverso i diversi sistemi di media, così co­
me impararono a porre in qualche modo l’attività dei blogger al lo­
ro servizio. Prendiamo, per esempio, l’annuncio di John Kerry del
nome scelto come eventuale vicepresidente. Esso fu dapprima tra­
smesso via e-mail ai sostenitori iscritti al suo sito web. La campagna
di Kerry usò quindi l’annuncio per espandere la sua lista di poten­
ziali supporter in vista di un ulteriore invio di posta elettronica nel
successivo autunno, e sfruttò tutto il “rumore” prodotto dall’an­
nuncio via e-mail per ampliare la platea per l’annuncio televisivo. I
Repubblicani, però, si mostrarono ancora più efficienti nell’usare
Internet per rispondere all’annuncio di Kerry. Nel giro di pochi
minuti, pubblicarono una serie di discussioni che criticavano la
candidatura di Edwards, con tanto di dettagli sulla sua carriera le­
gale, le sue tendenze di voto al senato e i suoi commenti sulla cam­
pagna elettorale. La contro-informazione sui candidati avversari
non è affatto una novità, ma generalmente questo tipo di informa­
zioni vengono pubblicate un po’ per volta lungo tutta la durata del­
la campagna e non buttate in massa in rete. Si trattava quindi di un
attacco preventivo preparato per tagliare il consenso nascente nei
confronti di Edwards. Ma, ancor di più, era una forma di spin “fai
da te”.
La parola spin indica genericamente tutti gli interventi, nell’am­
bito di una campagna, che cercano di “curvare” l’informazione a
236 C a p it o l o 6

favore di una parte. Le campagne sviluppano argomenti o temi di


conversazione (talking point), che ogni portavoce riprende
e ripete, e che implicano un’interpretazione degli eventi. Lo spin è,
in qualche modo, un prodotto della cultura televisiva. Tempo fa,
era praticato senza troppe fanfare e la maggior parte del pubblico
non si rendeva conto che in ogni intervista l’intervistato portasse
avanti progettualmente la propria agenda. Nelle elezioni più recen­
ti, i media giornalistici hanno concentrato un’enorme attenzione
sul processo dello spin - mentre le campagne hanno coordinato an­
cor più sistematicamente i loro temi di conversazione. Il pubblico è
stato istruito sulle modalità di funzionamento dello spin. La dina­
mica di elaborazione e spinning dei messaggi è ormai divenuta una
parte centrale nella trama di serie televisive come The West Wing
(Tuttigli uomini del presidente, 1999-2006) o Spin City (1996). Da
quando lo spin è pubblicamente ammesso, le due fazioni conten­
denti se lo rimpallano a vicenda per quello che è: un tentativo di
plasmare il senso degli eventi a proprio vantaggio. Non mancano i
conduttori che promettono nel loro programma una “no spin zo­
ne” (e naturalmente di solito è lo spazio più di parte).
Pubblicando in rete i suoi temi di conversazione su Edwards, il
Grand Old Party non stava tentando tanto di manipolare una sto­
ria, quanto piuttosto di fornire al pubblico lo strumento da usare
per rendersi protagonista dello spin nelle conversazioni con amici
e conoscenti. I conduttori delle talk radio fecero un uso abbondan­
te di quelle fonti per nutrire di contenuti le loro trasmissioni, e gli
ascoltatori intervennero commentandole così come leggendo i
messaggi nel modo in cui erano stati in principio depositati in rete.
E le stesse idee si ritrovavano nelle lettere ai giornali. I blogger non
solo linkarono il sito, ma lo usarono come una raccolta di indizi
per scavare nel passato del candidato. I media broadcasting ribadi­
rono questi argomenti, spesso fornendo audio o immagini a sup­
porto dell’informazione grezza. Mentre la squadra di Kerry aveva
sperato che Edwards desse nuovo impulso alla campagna, il candi­
dato alla vicepresidente era ridotto a merce avariata nel giro di po­
che ore dopo aver accettato l’invito di Kerry.
Come l’improvvisa visibilità del blogging ha cambiato la dina­
mica dell’informazione tradizionale e dell’opinione pubblica, la ri­
forma del finanziamento della campagna elettorale ha contribuito
a trasferire il controllo dai candidati e dai partiti ai gruppi attivisti
indipendenti.
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 237

Una nuova scappatoia, rispetto al McCain-Feingold Act del


20 02, determinò la possibilità, per organizzazioni politiche indi-
pendenti, di rivendicare una maggiore autonomia e visibilità nel
processo elettorale18. Si trattava dei cosiddetti 501 (gruppi com­
merciali o finanziari) e 527 (gruppi di sostegno non a scopo di lu­
cro). A questi la legge vietava di coordinare la propria attività a
quelle della campagna elettorale. Inoltre, vietava loro di sostenere
candidati specifici, ma non di criticare i candidati e le loro politi­
che. Non erano soggetti a limitazioni sull’entità dei finanziamenti
che potevano raccogliere, e le loro spese non entravano nei conti
per le restrizioni alle quali le campagne dovevano conformarsi. Co­
me risultato, si ebbe che questi gruppi divennero i principali attack
dog, i “cani da combattimento” della campagna del 2004. A destra
gli Swift Boat Vétérans for Truth, a sinistra i Texans for Truth, so­
no saliti alla ribalta della cronaca acquistando spazi commerciali in
un numero limitato di settori, che hanno utilizzato per fare procla­
mi provocatori allo scopo di interessare i media mainstream e, di
conseguenza, aumentare il traffico verso i propri siti web. Questo
mix tra diversi sistemi mediatici rese stranamente complicata la
campagna del 2004. In questo senso i partiti politici non erano
molto diversi dai produttori di media o dagli inserzionisti pubblici-
tari desiderosi di sfruttare l’interesse dei consumatori verso i loro
prodotti. Restava un alone di incertezza, invece, sulle dosi di liber­
tà da concedere a quei gruppi che potevano minare le loro strategie
di comunicazione a lungo termine.
Durante le ultime settimane della campagna, entrambi i partiti
maggiori dibatterono sugli stessi temi che erano emersi da queste
organizzazioni indipendenti e imitarono le loro tattiche. Per esem­
pio, i siti ufficiali dei partiti pubblicarono video brevi, pungenti e
spesso sarcastici inerenti al dibattito in corso. Il sito di Bush distri­
buì una serie di video che mostrava le spiegazioni “altalenanti” di
Kerry per i suoi voti sulla guerra in Iraq, mentre i Democratici usa­
rono i video per inchiodare Cheney alle sue “menzogne” e mostra­
re la “disperazione” di Bush durante il primo dibattito televisivo.
Questi video venivano prodotti la notte e pubblicati la mattina suc­
cessiva. Come era successo per il cortometraggio “Trump Fires
Bush”, anche tutti gli altri contributi audiovisivi furono progettati
per la circolazione virale affidata ai loro sostenitori.
238 C a p it o l o 6

Fan, consumatori, cittadini

Se guardiamo più da vicino ai meccanismi attraverso i quali


Trippi e altri hanno cercato di allargare la partecipazione popolare
alla campagna, ci renderemo conto dei molti modi in cui la campa­
gna traeva insegnamento dalla cultura dei fan. Il fondatore di
Meetup.com, Scott Heiferman, cercava solo una strada per facilita­
re lo scambio di peluche Beanie Baby tra i collezionisti, ma quale
potenziale avesse il suo sito si capì per la prima volta quando gli ap­
passionati di X-Files (1993) si mobilitarono, usando Meetup.com,
per ottenere che la loro serie preferita continuasse ad andare in on­
da. Heiferman dichiarò in un’intervista: “Noi non abbiamo proget­
tato Meetup.com intorno alla politica o all’amministrazione locale.
Sapevamo solo che gli impallinati del Signore degli anelli volevano
incontrarsi”19. I giovani sostenitori di Dean divennero per tutti i
“Deanie Babies” e Trippi racconta l’entusiasmo che li prese quando
in Meetup.com il loro numero superò quello di tutti gli altri gruppi
di fan registrati al sito20.
Moveon.org avrà anche avuto origine da un obiettivo più espli­
citamente politico - invitare i politici a move on, passare oltre, “li­
berarsi” dell’ossessione per la vita sessuale di Bill Clinton e riporta­
re l’attenzione sui bisogni del paese - ma ha comunque seguito
molti insegnamenti della cultura popolare. Nell’autunno del 2003,
per esempio, lanciò il concorso “Bush in 30 seconds”, che si propo­
neva di stimolare i cittadini a usare videocamere digitali per pro­
durre spot che spiegassero i motivi per i quali Bush non doveva es­
sere eletto una seconda volta21. I filmati ricevuti furono pubblicati
in rete, dove la comunità si attivò a passarli al setaccio. Poi una giu­
ria illustre - composta da artisti famosi, come Jack Black, Marga-
reth Cho, Al Franken, Janeane Garofano, Moby, Eddie Vedder e
Gus Van Sant - si occupò della selezione finale. Questo processo si
avvicina molto a Project Greenlight, un concorso indetto da Matt
Damon e Ben Affleck per dare ai giovani registi la possibilità di
produrre e distribuire film indipendenti. Molti partecipanti aveva­
no imparato il mestiere girando fan movie oppure riprendendo
acrobazie con lo skateboard, e per la prima volta applicarono le co­
noscenze acquisite al servizio dell’attivismo politico. Lo spot vinci­
tore sarebbe stato trasmesso durante il Super Bowl, uno degli even­
ti più seguiti della stagione televisiva. Ancora una volta, possiamo
scorgere qui la politica della convergenza in azione, nell’intento di
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 239

usare i media grassroots per la mobilitazione e i media mainstream


per la pubblicazione. Ma si può vedere bene anche la differenza tra
l’apertura dei media grassroots verso una larga partecipazione e il
controllo esercitato dalle corporate sul broadcasting: la CBS si ri­
fiutò di mandare in onda lo spot in questione, trovandolo “troppo
controverso”. Di certo, paragonato ai seni nudi di Janet Jackson
mostrati durante la prima metà dello show, lo spot, che si concen­
trava sul debito pubblico che sarebbe stato ereditato dalle future
generazioni, mostrando dei bambini costretti a lavorare per risana­
re il deficit, sarebbe sembrato piuttosto leggero. In passato, i
network avevano spesso negato lo spazio di trasmissione a pubbli­
cità legate a problemi appartenenti a determinati gruppi di interes­
se, considerandole fondamentalmente diverse dalle pubblicità
“normali” sponsorizzate dalle grandi corporation. Essi avevano
adottato queste politiche per impedire la messa in onda di spot an­
ticonsumistici nello stesso tempo in cui promuovevano con la pub­
blicità ordinaria un messaggio generale di invito al più largo consu­
mo possibile. Quasi certamente Moveon sapeva che la battaglia per
la messa in onda dello spot durante il Super Bowl era destinata al
fallimento, e quello che cercava veramente era l’inevitabile spazio
che gli organi di informazione avrebbero dedicato al rifiuto, da
parte del network, di vendergli lo spazio di trasmissione. Così lo
spot andò in onda molte volte sulle emittenti giornalistiche via ca­
vo, mentre gli esperti di tutte le tendenze dibattevano se la CBS
aveva fatto bene o male a rifiutarlo.
La preistoria dei gruppi come Moveon.org e Meetup.com da
una parte ci riporta indietro al movimento dei media alternativi, al­
le radio amatoriali, alla stampa underground, alle zine attiviste, al
primo attivismo Web e alla nascita del movimento degli “indy” me­
dia sulla scia delle proteste di Seattle contro il World Trade Orga­
nization. Molti blogger si definiscono chiaramente in opposizione
ai media mainstream e ai loro contenuti, che ritengono siano con­
trollati dalle corporate. Un ramo genealogico ci conduce ai tentati­
vi di connessione in rete dei fan e di esercizio della loro influenza
collettiva al fine di proteggere gli spettacoli preferiti.
Attivisti, fan e umoristi di ogni parte, grazie a programmi com­
merciali di grafica come Photoshop, si appropriano di immagini e
le manipolano per farne dichiarazioni politiche. Queste creazioni si
possono vedere come l’equivalente grassroots dei cartoon politici -
i tentativi di incapsulare temi di attualità all’interno di un’immagi­
240 C a p it o l o 6

ne evocativa. John Kroll, uno dei creatori di Photoshop, ha dichia­


rato a Salon che il suo programma ha democratizzato i media in
due modi: permettendo a piccoli gruppi di usufruire della grafica
di qualità professionale a basso costo e consentendo al pubblico di
manipolare e rimettere in circolazione immagini potenti per creare
dichiarazioni politiche22.
Questi usi politici di Photoshop si sono visti bene all’indomani
del riconteggio dei voti in Florida, quando entrambe le fazioni han­
no sfruttato le immagini per mettere in ridicolo gli avversari. Im­
magini simili hanno avuto una circolazione ancor maggiore sulla
scia dell’11 settembre: a volte espressione di fantasie violente
sull’auspicabile pena da infliggere a Bin Laden e ai suoi sostenitori,
altre volte come messa in scena del lutto per la tragedia subita
dall’intera nazione23. Durante la campagna del 2004, siti web come
FreakingNews.com e Fark.com ospitarono concorsi giornalieri che
eleggevano l’utente che avesse usato in modo più efficace Photo­
shop a parodia di un particolare evento o candidato. JibJab, una
squadra di cartooner professionisti, ha usato la tecnica del collage,
prendendo a modello le caricature amatoriali create con Photo­
shop, per produrre una serie di video parodistici - tra cui il famoso
“This Land” - che si diffusero ampiamente durante gli ultimi giorni
della campagna.
L’uso di immagini può essere brutale e secco, come quando la
faccia di Bush viene trasformata dal morphing in quella di Hitler o
nel volto di Alfred E. Neuman, icona di Mad Magazine, oppure
quando il volto di Kerry è deformato fino a farlo somigliare a Her­
man Munster. Alcune immagini possono essere ancora più sofisti­
cate: quando John Kerry dichiarò di godere del supporto di molti
leader stranieri, un umorista creò un falso della storica copertina
dell’album dei Beatles Sergent Pepper’s Lonely Hearts Club Band
(1967), che mostrava decine di famigerati dittatori e terroristi
schierati in posa dietro il candidato democratico (Figura 6.3). Que­
ste immagini elaborate con Photoshop spesso proiettano motivi
della cultura popolare nel cuore della campagna elettorale: un col­
lage ritrae i candidati democratici correre in discesa su un gigante­
sco carrello da supermercato preso a prestito dal poster fatto per la
serie Jackass (2000) su MTV.
E facile ridere dell’espressione “Photoshop per la democrazia”,
soprattutto considerando quanto prevalgano i riferimenti alla cul­
tura “bassa” e popolare rispetto ai temi più seri delle campagne
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 241

Figura 6.3 Le immagini rielaborate con Photoshop che prendono in giro la


campagna presidenziale sono entrate a far parte della guerra dei
media grassroots per promuovere e criticare i candidati.

elettorali. Qualcuno forse dirà che far circolare immagini di questo


tipo è un cattivo surrogato di forme più tradizionali di attivismo
politico. Non sono del tutto in disaccordo, specie pensando alle
persone che semplicemente premono il pulsante di invio e, senza
starci a pensare, inoltrano le immagini a tutte le persone che cono­
scono. Tuttavia, vorrei anche far notare che cristallizzare una posi­
zione politica in un fotomontaggio destinato a una larga circolazio­
ne è un atto di passione civica tanto quanto inviare una lettera a un
giornale che deciderà di pubblicarla o meno. Per un numero cre­
scente di giovani americani, le immagini (o meglio, la combinazio­
ne di parole e immagini) possono rappresentare un insieme di ri­
sorse retoriche importanti quanto i testi. Girarle a un amico costi­
tuisce un atto politico altrettanto valido che stamparle su un volan­
tino di propaganda o su un adesivo. L’oggetto fisico che viene
scambiato non è tanto importante in sé o per sé, ma perché può di­
ventare tema di conversazione e strumento di persuasione. Ciò che
cambia, in ogni caso, è in che misura un non professionista può in­
serire le proprie immagini e le proprie opinioni all’interno del pro­
cesso politico - e, almeno in qualche caso, queste immagini posso­
no avere una circolazione molto ampia e raggiungere un pubblico
numeroso.
In passato, molti critici hanno visto il consumo quasi come il
polo opposto rispetto alla partecipazione civica. Lauren Berlant
242 C a p it o l o 6

parla del consumo principalmente in termini di privatizzazione, e


imputa al passaggio verso una politica basata su tale logica quella-
che considera la contrazione della sfera pubblica24. Oggi il consu­
mo assume invece una dimensione più pubblica e collettiva: non
più solo questione di preferenze e scelte individuali, è diventato ar­
gomento di discussione pubblica e decisione collettiva; la condivi­
sione di interessi spesso porta anche alla condivisione di conoscen­
za, idee e azioni. Una politica basata sul consumo potrebbe rappre­
sentare una via senza uscita se il consumismo sostituisse la parteci­
pazione civica (il vecchio cliché del “votiamo con i nostri dollari”);
può invece trasformarsi in una forza dirompente laddove colpire
economicamente istituzioni chiave possa avere conseguenze dirette
sul loro potere e la loro influenza25. Dobbiamo ancora imparare a
tenere separate le due cose. Un caso del genere si è verificato quan­
do i conservatori hanno cercato di boicottare gli album delle Dixie
Chicks, mentre gli attivisti progressisti esortavano ad acquistarli,
dopo che la cantante principale del gruppo, Natalie Maines, aveva
espresso dei commenti negativi su George W. Bush durante un
concerto, nei giorni precedenti il bombardamento di Baghdad26. E
che cosa dire di quando Moveon.org ha invitato i sostenitori ad ac­
correre in massa alle proiezioni del film Fahrenheit 9/11 nel primo
week end della sua uscita, nella convinzione che i telegiornali
avrebbero preso più sul serio il movimento qualora il film avesse
raggiunto la vetta delle classifiche.
I gruppi legati alla comunità delPintrattenimento stanno sempre
di più usando la loro visibilità e influenza per spingere i giovani a
una maggiore partecipazione nel processo politico. M TV, Nickelo-
deon, Norman Lear, la Def Jam di Russell Simmons e il World
Wrestling Entertainment hanno contribuito a istruire, registrare e
avvicinare al voto i giovani. Questi gruppi si unirono nella cosid­
detta “20 Million Loud”, ovvero una campagna di mobilitazione
intorno a eventi pubblici - concerti, incontri di wrestling, prime ci­
nematografiche e così via - che aveva lo scopo di comunicare il
messaggio di fronte a un pubblico di giovani il più ampio possibile.
Questi gruppi erano, in prevalenza, non schierati politicamente, e
cercavano solo di reclutare nuovi giovani elettori senza badare al
loro credo politico, ma non era un segreto che fossero emersi in ri­
sposta alle cosiddette guerre culturali, le quali miravano a sfruttare
il disgusto nei confronti della cultura popolare a fini politici. Stan-,
do ai dati riferiti dal Center for Information and Research on Civic
Ph o to sh o p p e r l a d e m o c r a z ia 243

Learning and Engagement, la campagna “20 Million Loud” rag­


giunse il suo obiettivo: quasi 20 milioni di persone sotto i trenta
anni parteciparono al voto nel 2004 - il 9,3% in più rispetto al
2000. Negli stati riconosciuti come i terreni principali della batta­
glia politica, i giovani elettori aumentarono del 13% rispetto alle
elezioni precedenti27.

Intrattenendo il cittadino monitorante

Nel suo famoso saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua ri­
producibilità tecnica, Walter Benjamin sostenne che la possibilità
di produzione e circolazione di massa delle immagini avrebbe avu­
to un impatto profondamente democratico sulla società28. La sua
più nota affermazione era che la riproduzione meccanica erode
l’“aura” che circonda le opere artistiche sminuendone l’autorità
culturale. Sostenne anche che una nuova forma di conoscenza po­
polare sarebbe emersa - la gente si sarebbe sentita più autorizzata a
esprimere pareri sulle squadre sportive o sui film di Hollywood
piuttosto che sui capolavori rinchiusi nei musei. Fare della politica
una forma di cultura popolare permette ai consumatori di applica­
re la conoscenza acquisita come fan alla responsabilità civile? I no­
tiziari parodistici come The Daily Show (1996) forse ci stanno in­
segnando proprio questo.
All’inizio del 20 0 4 , la Pew Foundation pubblicò alcuni dati sta­
tistici interessanti. Nel 2 0 0 0 , il 39% degli intervistati assumeva re­
golarmente notizie sulla campagna elettorale dai telegiornali. Nel
2004, il numero era sceso al 23% . Durante lo stesso periodo, la
percentuale di persone sotto i trenta anni che avevano acquisito
buona parte dell’informazione sulla campagna dai comedy show
come Saturday Night Live (1975) o The Daily Show era aumentata
dal 9 al 21 per cento29. In questo contesto, il programma This
Week with George Stephanopoulos aggiunse una vetrina con brani
salienti dei monologhi settimanali di David Letterman, Jay Leno e
Jon Stewart.
Già nel 1994, Jon Katz aveva dichiarato su Rolling Stone che
una percentuale crescente di giovani trovava che i media di intrat­
tenimento, più dell’informazione tradizionale, rispecchiassero i lo­
ro punti di vista sui temi di attualità30. Katz sosteneva che i giovani
apprendono buona parte dell’informazione sul mondo da video
244 C a p it o l o 6

musicali e canzoni rap, dagli sketch e dai comici impegnati di Sa-


turday Night Live, dalle storie drammatiche in prima serata e dalle
gag delle sit-com. Katz vedeva tutto ciò come una tendenza positi­
va, poiché le prospettive ideologiche delPintrattenimento popolare
erano meno controllate rispetto all’informazione, che a suo avviso
era finita sempre più sotto la stretta delle corporate. L’idea di Katz
fu accolta in modo sprezzante daìVestablishment giornalistico.
Lo studio della Pew Foundation, pubblicato alla vigilia della
campagna del 2004, aggiunse benzina sul fuoco. Indicava che i gio­
vani si informavano attraverso i media dell’intrattenimento e non
mediante quelli giornalistici (ma la domanda posta nel questiona­
rio chiedeva agli intervistati solo se i media di intrattenimento fos­
sero, per loro, una fonte d’informazione, ma non se fosse l’unica o
la principale), dimostrando inoltre che le persone informate da tali
fonti erano, in generale, meno informate sul mondo - o per lo me­
no, erano meno capaci di ricordare certi fatti a proposito dei can­
didati - rispetto ai consumatori di news tradizionali. Come altri
hanno velocemente ribattuto, ricordare è una cosa diversa dal com­
prendere, e molte delle voci presenti nella ricerca Pew (per esem­
pio, quale candidato fosse stato appoggiato da Gore o quale altro
avesse commesso un errore riguardo alla bandiera confederata), il­
lustravano piuttosto come spesso gli articoli giornalistici banaliz­
zassero il processo politico, concentrandosi solo sui sondaggi elet­
torali oppure sulle gaffe e gli scandali.
The Daily Show, un programma notturno di news parodistiche,
è diventato rapidamente il centro di questo dibattito. Comedy
Central offrì molte più ore di copertura delle Convention del 2004
di repubblicani e democratici di quanto non abbiano fatto ABC,
CBS e NBC messe insieme: i media dell’informazione sfuggivano le
loro responsabilità storiche e la cultura popolare prendeva più sul
serio il suo potenziale pedagogico. Secondo uno studio condotto
dall’Annenberg Public Policy Center dell’Università della Pennsyl­
vania:

Gli spettatori di The Daily Show sono più coinvolti nella campagna
presidenziale, più istruiti, giovani e liberali rispetto airam ericano me­
d io... Tuttavia, questi fattori non bastano a spiegare la differenza tra
il livello di informazione sulla campagna tra chi guarda The Daily
Show e chi non lo segue. Infatti, gli spettatori abituali sono più infor­
mati sulla campagna di quanti guardano i telegiornali delle reti nazio-
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 245

nali o dei lettori di quotidiani - anche quando si tengano in conside­


razione altri fattori, come il livello d’istruzione, l’identificazione di
partito, il fatto di seguire o meno la politica, di guardare canali via ca­
vo, di ricevere informazione sulla campagna dalla rete, nonché l’età e
il genere.31

La controversia raggiunse il suo culmine quando Jon Stewart,


conduttore del Daily Show, invitato dalla CNN al programma di
approfondimento giornalistico Crossfire (1982), ebbe un acceso di­
verbio con il commentatore e co-conduttore Tucker Carlson. Que­
sti voleva, chiaramente, che Stewart raccontasse barzellette e pro­
muovesse il suo libro, mentre egli rifiutò di interpretare quella par­
te: “Non ho intenzione di fare la tua scimmietta”. Stewart invece
accusò il programma di corrompere il processo politico tramite
l’organizzazione scientifica di litigi architettati per sostenere una
parte politica: “Voi avete una responsabilità nel discorso pubblico
e state fallendo miserabilmente... State aiutando i politici e le cor­
poration ... Siete partecipi delle loro strategie”32. La circolazione,
legale o illegale, di questa sequenza, raggiunse un numero ben più
ampio di cittadini rispetto a coloro che avevano assistito al pro­
gramma, rappresentando forse la prova più evidente della preoccu­
pazione diffusa circa i modi nei quali la concentrazione dei media
stesse distorcendo l’accesso pubblico all’informazione che conta.
Per comprendere a fondo l’importanza di tali controversie,
avremmo bisogno di rivedere i presupposti di ciò che significa es­
sere un cittadino informato. Michael Shudson ha ripercorso i pas­
saggi storici del concetto di cittadinanza lungo i primi duecento e
passa anni della storia della repubblica statunitense. La nostra no­
zione moderna di “cittadino informato” è emersa agli inizi dello
scorso secolo. Il tasso di alfabetismo stava progressivamente cre­
scendo, il prezzo dei quotidiani e di altre pubblicazioni si stava ab­
bassando e il diritto di voto si allargava a molti di coloro che ne
erano stati privati fino ad allora. La nozione di cittadino informato
prese forma nel contesto di una rivoluzione dell’informazione che
ha reso possibile agli elettori cogliere le sfumature del dibattito sul­
le politiche pubbliche. La nozione di cittadino informato costituiva
una sfida alle tradizionali nozioni di cittadinanza che rimandavano
alla competenza degli aristocratici e dei partiti politici.
Alla fine del Ventesimo secolo, sostiene Schudson, la diffusione
delle tecnologie dell’informazione ci ha inondato di una quantità
246 C a p it o l o 6

di dati superiore a quella che siamo in grado di elaborare. La pro­


messa della rivoluzione digitale era la completa padronanza del
flusso informativo: “Tutti possono sapere tutto! Ogni cittadino po­
trà essere a conoscenza del numero dei voti ricevuti da ciascun po­
litico! L’intero mondo dell’informazione politica sarà alla portata
di ogni computer e alla velocità di una connessione in dial-up !”33
In realtà, secondo Schudson, “Il gap tra la quantità di informazioni
politiche facilmente accessibili e la capacità dell’individuo di tener­
la monitorata sta crescendo a dismisura”34. Nessun cittadino può
essere in grado di sapere tutto, anche limitatamente a un argomen­
to specifico, per non parlare dei temi inerenti alla politica naziona­
le. Piuttosto, egli sostiene, “i cittadini monitoranti tendono a essere
più difensivi che proattivi... Il cittadino monitorante è più impe­
gnato nel controllo dell’ambiente informazionale che non nella
raccolta di informazione. In tal senso ha luogo qualcosa di simile a
ciò che avviene quando i genitori controllano i propri bambini
mentre fanno il bagno in piscina: non stanno raccogliendo infor­
mazione, ma tengono d’occhio la scena. Sembrano passivi, ma in
realtà sono pronti ad agire appena venga loro richiesto di interve­
nire. Il cittadino monitorante non è distratto ma sempre vigile, an­
che mentre sta facendo qualcos’altro”35. Sebbene i cittadini moni­
toranti “siano meglio informati dei loro simili nel passato, avendo
nelle loro teste qualche dato informativo in più”, aggiunge Shud-
son, “non è sicuro che sappiano cosa fare con la conoscenza che
hanno a disposizione”36.
Si potrebbe vedere il cittadino monitorante di Schudson come
un membro di quel tipo di comunità del sapere che descrive Lévy -
esperto in qualche settore, discretamente informato su altri, ope­
rante in un contesto di reciproca fiducia e di risorse condivise. Co­
me abbiamo visto in questo libro, molti stanno imparando a condi­
videre, dispiegare, fidarsi, valutare, contestare e agire secondo il sa­
pere collettivo, come parte della loro vita ricreativa. Applicare que­
sti schemi a un programma di news parodistiche potrebbe signifi­
care compiere un passo avanti verso una più completa partecipa­
zione al processo decisionale democratico; un modo di mobilitare
le conoscenze apprese che, secondo Benjamin, rappresentano la
nostra spontanea risposta alla cultura popolare, ma che sono diffi­
cili da coltivare per quanto riguarda l’informazione e la politica.
The Daily Show concentra molto l’attenzione su argomenti che
non vengono coperti in maniera adeguata dai media mainstream,
Ph o t o s h o p p e r l a d e m o c r a z ia 247

garantendone così la ricezione da parte di molti cittadini


monitoranti37. Data la natura del suo genere, lo show deve cogliere
i suoi target, ma un numero crescente di spettatori sta discutendo
dei target che il programma identifica. Non tutti gli spettatori si
impegneranno nelPapprofondimento dei temi trattati durante la
trasmissione ma, se le statistiche di Annenberg sono accurate, alcu­
ni di loro lo faranno.
Il cittadino monitorante deve sviluppare nuovi strumenti critici
per valutare l’informazione - un processo che agisce sia a livello in­
dividuale quando siamo a casa o in ufficio, sia a un livello più coo­
perativo attraverso il lavoro di numerose comunità del sapere. Il
mix di parodia e interviste a reali personaggi pubblici che troviamo
nel The Daily Show richiede allo spettatore di essere attivo e attento
nel distinguere la realtà dei fatti dalla fantasia. Un tale programma
è un’ottima palestra per i cittadini monitoranti. John Hartley so­
stiene che l’informazione e l’intrattenimento si reggono su diversi
“statuti di verità” che a loro volta plasmano i modi di rappresenta­
zione e interpretazione delle notizie38. Le regole alla base della buo­
na informazione ci rassicurano del fatto che essa ci fornisca la cono­
scenza necessaria a costruire il senso del mondo e ci presenti le no­
tizie in modo “equo e imparziale”. Dall’altro lato, il docudrama e i
programmi parodistici attirano lo scetticismo del pubblico, poiché
l’equilibrio tra i due statuti di verità concorrenti è instabile e fluido.
The Daily Show non ha la pretesa di offrire un punto di vista sul
mondo che sia completo e obiettivo. Come ha detto Stewart a Car-
lson durante l’incontro a Crossfire: “Tu sei alla Cnn. Il programma
che viene subito prima del mio è uno spettacolo di marionette che
fanno scherzi telefonici”. Filmati presi da altri notiziari e interviste
ai newsmaker si alternano a ricostruzioni comiche e parodie delle
comuni pratiche giornalistiche. Fin dall’inizio, The Daily Show ha
sfidato gli spettatori a cercare i segni della montatura, scimmiottan­
do costantemente le convenzioni del giornalismo tradizionale e il
controllo dei media operato dalle corporate. Programmi come que­
sto sollevano domande anziché dare risposte. In questi spazi le no­
tizie sono qualcosa che deve essere scoperto attraverso l’interroga­
zione attiva di differenti fonti, e non un dato immediatamente dige­
ribile proveniente da un’emittente autorevole.
248 C a p it o l o 6

Il gioco della politica adAlphaville

Nel suo libro The Making o f Citizens (2000), David Buckin­


gham analizza i fattori che tendono a scoraggiare bambini e giovani
dal consumo delPinformazione39. Alcuni sono già stati trattati in
questo testo: il linguaggio della politica non è né familiare né affa­
scinante per i bambini se confrontato all’immediatezza dell’intrat­
tenimento popolare; le news presentano un mondo separato erme­
ticamente dalle loro vite quotidiane. Ma c’è dell’altro: i bambini e
i giovani si sentono impotenti di fronte alle loro vite quotidiane e
di conseguenza hanno difficoltà a immaginare di esercitare un po­
tere che possa assumere un significato politico. Ai bambini non è
consentito il voto, essi non sono ritenuti dei soggetti politici e per­
ciò non si possono sentire in modo pieno destinatari dell’informa­
zione. Se vogliamo che i giovani votino, dobbiamo iniziare presto,
modificando il loro processo di socializzazione alla cittadinanza. Se
ha ragione Buckingham, allora un modo con cui la cultura popola­
re può abilitare un civismo più attivo è dando alla gente la possibi­
lità di agire con il potere a un microlivello, di esercitare il controllo
sui mondi immaginari. E di nuovo in questo contesto che la cultura
popolare può spianare la strada a una cultura pubblica più signifi­
cativa; in questo caso, l’esempio più efficace viene dal mondo dei
videogame. Consideriamo quanto è successo ad Alphaville, una
delle città più vecchie e più popolate del gioco on-line The Sims,
una versione massively multiplayer del gioco che ha avuto più suc­
cesso al mondo.
Affinché la democrazia funzioni ci deve essere un contratto so­
ciale tra i partecipanti, e questi devono avere la sensazione che le
loro azioni hanno delle conseguenze nella comunità. Come nel
mondo reale, questi erano gli elementi in ballo ad Alphaville nel
2004. Ad Alphaville, però, i bambini avevano un ruolo attivo e le
loro voci contavano, tanto che veniva addirittura chiesto loro il pa­
rere su argomenti di una certa complessità etica.
Il creatore del gioco, Will Wright, sostiene di non aver avuto
nessuna idea di cosa sarebbe accaduto quando ha messo in rete The
Sims40. Sapeva che i giocatori si sarebbero identificati profonda­
mente nei personaggi e nella comunità. Non poteva prevedere, tut­
tavia, che il crimine organizzato potesse dilagare e che i leader della
comunità si sarebbero organizzati contro truffatori e prostitute, o
che le elezioni immaginarie sarebbero degenerate nel gettarsi fango
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 249

addosso e nella manipolazione. Nell’elezione per il controllo


dell’amministrazione cittadina, il candidato in carica, Mr. Presi­
dent (l’avatar di Arthur Baynes, un ventunenne addetto alla bigliet­
teria per la Delta Airlines di Richmond, Virginia), si batteva contro
Ashley Richardson (l’avatar di Laura McKnight, una studentessa di
scuola media di Palm Beach, Florida).
Nella primavera del 2004, poiché la campagna di Howard Dean
si stava ormai disintegrando, le elezioni presidenziali di Alphaville
attrassero l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Il pro­
gramma Talk o f thè Nation di National Public Radio ospitò un di­
battito tra i candidati, con una tribuna di opinionisti che pontifica­
va sulla cyberpolitica e sull’economia virtuale (io ero uno di lo­
ro ...). La migliore copertura della campagna veniva da Alphaville
Herald, il quotidiano cittadino al servizio dei bisogni della comuni­
tà virtuale. L’Alphaville Herald è diretto da Peter Ludlow, profes­
sore di filosofia e linguistica presso la University of Michigan. Nel
regno del game, Ludlow interpreta il personaggio di Urizenus.
In questa sede sono in ballo temi importanti, sia nel mondo del
gioco, sia in quello reale. All’interno del gioco, i candidati rappre­
sentano diverse prospettive su ciò che è meglio per la loro comuni­
tà; la scelta dei leader potrebbe influenzare l’esperienza di gioco
dei partecipanti. Ashley Richardson voleva installare chioschi in­
formativi ai confini della città per indicare ai nuovi arrivati i truc­
chi con cui i truffatori potevano privarli del loro denaro. E interes­
sante che uno dei candidati fosse più giovane di cinque anni rispet­
to all’età minima consentita per il voto nelle vere elezioni presiden­
ziali, e che i partecipanti ai dibattiti in rete si accusassero a vicenda
di giocare la “carta anagrafica”. Pensiamo a ciò che significa eserci­
tare il potere in un mondo virtuale quando si ha un controllo così
risibile su ciò che accade alle nostre vite quotidiane.
In un’altra epoca, molti dei giovani coinvolti in queste elezioni
virtuali avrebbero potuto dedicare le loro energie ai consigli stu­
denteschi dei loro licei, in rappresentanza di poche centinaia di
elettori. Alphaville ha una popolazione che viene stimata intorno ai
settemila abitanti e i dipendenti comunali sono più di 150 (per la
maggior parte appartenenti alle forze dell’ordine). I membri del
consiglio studentesco, in passato, dovevano negoziare con il presi­
de il tema del ballo scolastico. I leader della cittadina virtuale devo­
no trattare con Electronic Arts, l’azienda che ha prodotto e com­
mercializzato il franchise The Sims, per determinare le linee politi­
250 C a p it o l o 6

che da adottare nel governo della comunità. Qualche adulto po­


trebbe ancora preferire l’impegno nelle elezioni studentesche giac­
ché queste permettono di agire a un livello locale - azioni che han­
no un impatto nel mondo vero. Questa è una classica critica avan­
zata alle comunità on line: non contano poiché non hanno a che
vedere con la dimensione faccia-a-faccia della società. Da un’altra
prospettiva, i ragazzi hanno più opportunità di esercitare la leader­
ship e più influenza sui mondi virtuali di quante non ne abbiano nei
loro consigli scolastici. Dopo tutto, la scuola non dà loro molto po­
tere reale per cambiare il loro ambiente quotidiano.
Si contano i voti: Mr. President ha vinto per 469 voti contro
411. Ma Ashley grida all’imbroglio, perché sa di più di cento suoi
sostenitori a cui non è stato consentito di votare. I difensori di Mr.
President inizialmente sostengono che la sottostima degli elettori
sia dovuta a un difetto nel sistema che ha reso difficile agli utenti di
America Online accettare i cooky presenti nel sito elettorale. E poi,
dicono, molti dei sostenitori di Ashley non erano realmente “citta­
dini” di Alphaville. Mr. President sostiene di aver fatto la sua cam­
pagna tra i partecipanti più attivi del gioco, mentre Ashley ha coin­
volto nel processo, dal mondo esterno, i suoi amici e familiari veri
(molti dei quali non erano neppure iscritti). La costituzione di Al­
phaville chiarisce i requisiti di eleggibilità dei candidati, ma non
specifica invece chi può accedere al voto. Nessuno “vive” davvero
ad Alphaville, ma molti possono chiamare “casa” la comunità onli­
ne. Bisogna aver interagito al suo interno per un periodo specifico
per acquisire il diritto di voto, oppure questo dev’essere aperto a
chiunque, anche a chi non ha mai visitato prima la comunità?
La diatriba si è acuita quando YAlphaville Herald ha pubblicato
la trascrizione di quella che sosteneva fosse una sessione di chat av­
venuta tra Mr. President e J. C. Soprano (l’avatar di un giocatore
che con tutta probabilità svolge una vita rispettosa della legge nel
mondo reale). La chat faceva pensare che il processo elettorale po­
tesse essere stato manipolato fin dall’inizio, e che Mr. President era
un amico segreto della famiglia mafiosa che si era occupata di ma­
nipolare l’apparato di voto. Mr. President aveva codificato il pro­
gramma che determinò l’esito delle elezioni. Se quello era gioco,
non tutti giocavano secondo le stesse regole.
Firmandosi con il suo vero nome, Ludlow sollevò l’interrogati­
vo su\YAlphaville Herald: “Che cosa stavamo insegnando, sulla vita
politica, ad Ashley e agli altri giovani partecipanti del gioco?”. Sì,
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 2 51

scrisse, The Sims in rete è un gioco, ma “niente è solo un gioco. I


giochi hanno conseguenze. Essi ci danno l’opportunità di liberarci
di ruoli e azioni che potrebbero esserci state imposte nella vita rea­
le. Io ho deciso di approfittarne. Ho fatto il mio gioco”41.
Dalla lettura delle risposte dei lettori su Alphaville Herald, ap­
pare chiaro che, per molti, le elezioni truccate sono state motivo
per porsi qualche domanda fondamentale circa la natura della de­
mocrazia. La coincidenza strana per la quale molti tra coloro che
avevano provato e non erano riusciti a votare venivano da Palm Be-
ach, stimolò il paragone con la disputa in Florida di quattro anni
prima. Ashley, una sostenitrice di John Kerry, evocò lo spettro di
Bush-Cheney e della loro “elezione rubata” mentre, a sua volta, ve­
niva chiamata la “bambina piagnucolosa” ed era accostata ad Al
Gore. Uno dei partecipanti reclamò: “Dov’è la Corte Suprema di
Alphaville quando ce n’è bisogno?”.
Anche nel gioco, la democrazia statunitense ha fallito.
Prima di considerare l’intera vicenda come una “lezione da im­
parare”, dovremmo farci qualche domanda in più sui modi con i
quali i mondi virtuali possano modellare le democrazie ideali (o
non così ideali) in rete. Nella storia, i tribunali degli Stati Uniti han­
no garantito una maggiore libertà di espressione nelle piazze citta­
dine che nei centri commerciali: la piazza è un luogo finalizzato al
discorso civico, dove esistono garanzie ancora ampie, ma in cre­
scente diminuzione, a protezione del nostro diritto all’assemblea e
al dibattito pubblico. I centri commerciali sono considerati invece
proprietà privata, e alla loro amministrazione è ammesso espellere
chiunque causi un’interruzione del loro ritmo; c’è poco spazio per
il dissenso in questo tipo di ambiente. Per quanto si presentino co­
me esperimenti civici, comunque, i mondi dei game massively mul­
tiplayer., come i centri commerciali, sono luoghi di mercato. Do­
vremmo avere a cuore quanto accade alla libertà di espressione in
un ambiente controllato dalle corporate, dove le ragioni del profit­
to possono annullare qualsiasi scelta dei cittadini e dove l’azienda
può chiudere il sipario ogni volta che le vendite risultino in perico­
lo. Per esempio, molto prima della disputa sulle elezioni, Ludlow,
caporedattore di Alphaville Herald, fu sospeso da Sims Online
(2002) perché Electronic Arts era irritata dal modo in cui erano
trattati alcuni dei temi su cui si confrontava la comunità - in parti­
colare, a proposito di un articolo in cui denunciava una forma pro­
stituzione minorile (teenager che vendevano cybersesso per ottene­
252 C a p it o l o 6

re crediti nel gioco). Ci indigneremmo, se venissimo a sapere che


un’amministrazione cittadina ha espulso il direttore del giornale
locale: sarebbe un atto che fondamentalmente mette in discussione
il nostro senso di funzionamento della democrazia. L’espulsione di
Ludlow dal gioco commerciale suscitò invece solo proteste isolate.
Come abbiamo visto in tutto il libro, le persone investono con
passione, anche se a breve termine, in queste comunità online, ma
sono sempre pronte ad andare altrove se il gruppo giunge a conclu­
sioni che vanno contro il loro credo o i loro desideri. Questi giochi,
in quanto tali, rappresentano spazi interessanti e a volte perfidi do­
ve “giocare” con il civismo e con la democrazia. Nonostante tutti
questi aspetti, possiamo ancora pensare che una democrazia in stile
Alphaville sia un esperimento di pensiero attivo, soprattutto in vir­
tù del fatto che i partecipanti si intrattenevano, discutevano delle
loro diverse prospettive ed esperienze, e lavoravano insieme al per­
fezionamento dei meccanismi che governavano la loro comunità.
Ponendosi tali questioni i partecipanti arrivano a comprendere i
valori alla base della loro idea di democrazia e a percepire quali
passi sono disposti a fare per proteggerla. Partecipando a questi di­
battiti i giocatori di Alphaville hanno scoperto come far sentire le
loro voci come cittadini, e hanno imparato a esercitare la loro in­
fluenza come comunità.
Curiosamente, nel periodo in cui ad Alphaville succedevano
queste cose, molte grandi fondazioni mi hanno chiamato come
consulente per progetti di valore civico finalizzati a un maggiore
coinvolgimento dei giovani nella politica sociale tramite l’uso dei
videogiochi. Il mio consiglio era di favorire una maggiore riflessio­
ne su quanto accadeva all’interno del mondo del gioco, e di colle­
gare l’esperienza virtuale a temi che i partecipanti incontravano
nell’ambito delle loro vite quotidiane. Tuttavia, tutto ciò stava ac­
cadendo spontaneamente all’interno di un gioco che era nato solo
come proposta di intrattenimento. I partecipanti dibattevano con
calore sugli eventi in corso nel gioco e facevano continuamente pa­
ralleli con la vera campagna presidenziale. Si potrebbe immaginare
che un’elezione manipolata all’interno di un gioco possa distrugge­
re ogni senso di poter incidere sulla politica nel mondo reale, ma
per Ashley e i suoi sostenitori fu il contrario: gli eventi virtuali, di­
chiarano, hanno dato loro delle motivazioni per uscire allo scoper­
to e portare un contributo nelle proprie comunità di provenienza,
sino a spingerli a una maggiore partecipazione alle elezioni nazio-
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 253

nali e locali, facendoli persino pensare a un futuro in cui potrebbe­


ro candidarsi e intervenire nel gioco della politica in termini diver­
si. Quando qualcosa si rompe in una cultura della conoscenza, il
primo impulso è cercar di capire come aggiustarla, perché una cul­
tura della conoscenza mette i suoi membri in grado di individuare
problemi e sperimentare soluzioni. Se impariamo a farlo attraverso
il nostro gioco forse possiamo imparare come estendere quelle
esperienze anche alla vera cultura politica.
Jane McGonigal trova che i Cloudmakers, che avevano fondato
la loro comunità e testato la loro intelligenza collettiva contro
“The Beast” (Capitolo 4), sono ora pronti a rivolgere la loro atten­
zione a problemi sociali più grandi. Dopo P II settembre, nei loro
forum in rete ci sono state discussioni animate, sul fatto che le loro
capacità di risolvere enigmi potessero risultare utili per scovare i
terroristi. Come spiegò un membro: “Ci piace impegnare i nostri
7000 membri e i nostri appettiti voraci in problemi difficili, ma
quando le carte sono scoperte, possiamo realmente fare la nostra
parte?”42. Dopo molti giorni di dibattito, il gruppo è giunto alla
conclusione che smascherare una rete terroristica globale sarebbe
stato un problema di ben altro ordine di grandezza rispetto agli
enigmi inventati; ma il tema riemerse quando un cecchino stava
terrorizzando Washington D.C. e in quell’occasione il gruppo fece
uno sforzo combinato al fine di individuare il colpevole. Come
spiega McGonigal “Questa strategia si ispirò a vari metodi svilup­
pati dai Cloudmakers durante la loro attività contro ‘The Beast’,
come la combinazione di risorse tecnologiche per effettuare analisi
massicce in rete; l’interpretazione degli indizi sulla personalità per
ottenere più informazioni e l’impiego della rete disponibile per in­
teragire con quanti più informatori possibili”.
In seguito, un altro Alternative Reality Group, Collective De­
tective, formò un think tank il cui primo compito fu indagare sulla
corruzione e gli sprechi nelle spese del governo federale america­
no. Uno dei membri della squadra spiegò: “È il caso perfetto per
Collective Detective. La prima fase consiste nella ricerca delle fonti
di informazione. La seconda nella ricerca all’interno delle fonti. La
terza è l’analisi dei risultati della ricerca per individuare le possibili
correlazioni. La quarta fase è una ricerca secondaria per collegare
fra loro le singole connessioni trovate. Per me è addirittura diver­
tente. E può anche influire davvero su come viene gestito il paese.”
McGonigal è scettico sul fatto che i gruppi siano pronti ad affron­
254 C a p it o l o 6

tare tali problemi su larga scala, suggerendo che la loro esperienza


di gioco abbia dato loro un senso “soggettivo” di potere non com­
misurato alle loro risorse e capacità. Tuttavia, ciò che mi interessa
è la connessione che il gruppo ha disegnato tra gioco e impegno ci­
vico e anche i modi attraverso i quali esso, composto da persone
che condividono interessi culturali ma non necessariamente pro­
spettive ideologiche, potrebbe lavorare per giungere a soluzioni
“razionali” a complesse questioni politiche.

Vota nudo

Una pubblicità dei Webby Awards, premi per contributi ecce­


zionali allo sviluppo della cultura digitale, raffigura due piedi nudi
di donna, mentre sullo sfondo si intravede un letto. Lo slogan reci­
ta: “Vota nudo”. Fin dalla prima volta che ho visto lo spot, sono ri­
masto intrigato dal possibile significato dell’espressione “Vota nu­
do”. Il messaggio suggerisce che i computer attuali ci permettono
di compiere il più pubblico degli atti all’interno della nostra pri­
vacy casalinga in qualunque condizione di abbigliamento o nudità
ci troviamo. Più ancora, l’immagine e lo slogan ci invitano a ipotiz­
zare un tempo in cui saremo a nostro agio nel ruolo di cittadini co­
me nella nostra pelle, dove la politica sarà un aspetto familiare,
quotidiano e intimo della nostra vita quanto la cultura popolare di
oggi. Guardiamo la tv anche senza vestiti, mentre per andare a vo­
tare siamo ancora costretti a vestirci.
Ci lasciamo appassionare dalla cultura popolare, ne accogliamo
i personaggi e integriamo le loro storie nelle nostre vite, le rielabo­
riamo e le facciamo nostre. Abbiamo visto che consumatori e fan
iniziano a provare piacere per aver scoperto il potere di plasmare
l’ambiente mediatico. Usano elementi presi a prestito dalla cultura
popolare per promuovere la conversazione con altre persone che
non hanno mai incontrato faccia a faccia. Tutto ciò potrà fornirci
un nuovo stile di partecipazione al mondo politico? Come possia­
mo contrastare il senso di alienazione e distanza che molti america­
ni sentono nei confronti del processo politico? Come possiamo di­
rigere verso il potere istituito di Washington lo stesso coinvolgi­
mento emotivo che i fan normalmente provano verso il potere isti­
tuito di Hollywood? Quando saremo capaci di partecipare al pro-
Ph o t o s h o p p e r l a d e m o c r a z ia 255

cesso democratico con lo stesso agio con cui partecipiamo ai regni


immaginari eretti dalla cultura popolare?
In questo capitolo ho individuato una serie di modi diversi con
i quali gli attivisti hanno mobilitato la cultura popolare al fine di
promuovere la consapevolezza degli elettori e la partecipazione al­
la campagna presidenziale del 2004. Hanno adottato tecniche e
tecnologie sperimentate dalla comunità dei fan per mobilitare gli
elettori. I fan hanno usato i luoghi dedicati ai concerti e agli spetta­
coli come uffici di registrazione degli elettori. Le proiezioni dei
film sono diventate occasioni di discussione politica e dibattito
pubblico. Hanno creato parodie con Photoshop per affrontare te­
mi centrali. Hanno dato vita a giochi dove comunità immaginarie
potevano imparare ad autogovernarsi. E sì, hanno permesso ad al­
cuni di noi di immaginare per un po’ un mondo in cui Bush era
semplicemente un apprendista che poteva essere licenziato dal po­
tere con un gesto della mano di The Donald*.
Molti dei gruppi che abbiamo trattato hanno reagito con pro­
fondo disappunto all’esito elettorale. Essi hanno infatti dedicato
molti sforzi, risultati vani, al fine di sconfiggere Bush. Gli attivisti
più conservatori, invece, hanno sentito che i loro sforzi di promo­
zione per il voto cristiano e il loro lavoro di opposizione al candi­
dato Democratico sono stati elementi decisivi per la vittoria di
Bush. Comunque ci poniamo di fronte al risultato delle elezioni,
possiamo sostenere che una crescente integrazione della politica
nella cultura popolare e nella vita quotidiana ha fornito un apporto
notevole al livello di partecipazione record al voto. Le comunità
grassroots di ogni orientamento - che fossero di destra o di sinistra
- si sono attivate per promuovere il proprio programma e inserire
i loro membri nei sondaggi. Candidati e partiti hanno registrato
una certa perdita di controllo sul processo politico e le reti televisi­
ve sono apparse meno autorevoli nel definire i termini in cui i cit­
tadini hanno letto e inteso la campagna.
E adesso? Proprio perché questi sforzi erano legati in modo
stretto a una elezione particolare, i fan hanno considerato la parte-

Qui Jenkins fa riferim eno al reality show statunitense The Apprentice: alla fine della
stagione, il vincitore guadagna l’ingresso nel grande m ondo dei media di Donald
Trum p, che segue la trasmissione (è lui “The D onald”) e la com m en ta con un blog
dal sito relativo. Basta dunque un cenno della sua m ano per determ inare la caduta
di un con corren te. [N.d.R .]
256 C a p it o l o 6

cipazione politica come un evento speciale, e non ancora come par­


te integrante delle loro vite quotidiane. Il prossimo passo consiste
nel pensare la cittadinanza democratica come uno stile di vita.
Nel libro U intelligenza collettiva (2000), Pierre Lévy propone
ciò che definisce “utopia realizzabile”: ci chiede di immaginare co­
sa potrà accadere quando la condivisione della conoscenza e l’eser­
cizio grassroots del potere diventeranno normativi. Nel mondo di
Lévy, persone di diversi punti di vista scoprono il valore del dialo­
go e dell’ascolto reciproci, e tali deliberazioni gettano le basi per la
stima e il rispetto reciproci. Un simile ideale guida l’attività del
Center for Deliberative Democracy della Stanford University43. In­
teressato ai modi per ricollegare la fase della deliberazione (quella
in cui si “pesano” dati e argomentazioni), alla democrazia popola­
re, il Centro ha promosso in tutto il mondo una serie di ricerche te­
se a individuare le forme dei nuovi processi tramite i quali i parte­
cipanti di diversa estrazione politica possono convivere - in rete e
a volte faccia a faccia - per un lungo periodo di tempo, forniti di
informazioni adeguate sui problemi delle politiche pubbliche e con
la possibilità di porre domande agli altri membri o agli esperti. Nel
corso del tempo, sono state rilevate forti differenze nel modo in cui
i partecipanti ragionavano su quei temi, avendo imparato a prende­
re in considerazione punti di vista alternativi e a inglobare nelle lo­
ro riflessioni esperienze e idee differenti. Per esempio: in uno di
questi esperimenti, inizialmente solo il 20 per cento dei partecipan­
ti era favorevole agli aiuti statali ad altri Paesi, mentre alla fine i fa­
vorevoli erano diventati la maggioranza (53 per cento), in parte
perché il gruppo apprese quale piccola percentuale del budget to­
tale federale fosse destinata a tale scopo. Allo stesso modo il dibat­
tito sulla guerra in Iraq portò a una nuova posizione di consenso
che vedeva l’Iraq come un interesse legittimo degli USA, ma distin­
to dalla Guerra al Terrorismo, e che sarebbe stato meglio combat­
tere con azioni multinazionali anziché unilaterali44. Si è visto anche
che chi si sentiva meglio informato su quei temi era più propenso
al voto o ad altre forme di partecipazione al processo politico. In
teoria, dicono al Centro, i cittadini hanno in potenza una maggiore
possibilità di deliberazione rispetto ai corpi governativi perché non
sono legati da alcun vincolo formale a partiti o organizzazioni po­
litiche, perciò sono più liberi di cambiare idea e rivedere le proprie
posizioni. La sfida è quindi creare un contesto in cui persone di dif­
ferenti posizioni realmente parlino e si ascoltino a vicenda.
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 257

A partire dalla fine del 2004, molti hanno iniziato a chiedere


come faremo a ricucire lo strappo che separa l’America rossa da
quella blu. Quando la gente integra la politica alla propria vita quo­
tidiana trova più difficile comunicare con i familiari, i conoscenti,
le scuole, le chiese e i luoghi di lavoro. Rimasi raggelato, durante il
periodo delle elezioni, dalla reazione che ebbe un’amica quando le
rivelai di avere amici repubblicani. Uno sguardo di orrore attraver­
sò la sua faccia. Mi disse: “Suppongo che anche i nazisti avessero
degli amici, ma non avrei mai voluto essere uno di questi”. (Per la
cronaca, questa mia amica vive in uno Stato rosso!) Dal momento
che la “politica degli attacchi” si svolge a un livello grassroots, può
anche capitare di trovarci in disaccordo con coloro che ci circonda­
no, di criticarli per le loro scelte politiche, oppure di non essere di­
sposti a condividere i nostri punti di vista per paura che esprimerli
possa danneggiare i rapporti con persone a cui teniamo. Votiamo
nudi non nel senso che ci sentiamo coinvolti intimamente nella po­
litica, ma perché ci sentiamo ormai spogliati, esposti e vulnerabili.
Detto questo, malgrado i proclami apocalittici di segno oppo­
sto, non siamo più polarizzati in questo momento di quanto non lo
siamo stati in passato nella storia americana. Chiunque abbia letto
un buon libro di storia sa perfettamente che l’America ha affronta­
to una serie di dispute dal forte contenuto divisorio - battaglie sui
conflitti di competenza dei governi federali e locali, il dibattito sul­
la schiavitù e la ricostruzione, il disaccordo sul New Deal e la mi­
gliore risposta alla Grande Depressione, lo scontro acceso sul mo­
vimento dei diritti civili e la guerra del Vietnam. Per ciascuna que­
stione, la polarizzazione ha generato disaccordo su punti importan­
ti, che doveva essere ricomposto; se siamo maturati è perché gli at­
tivisti ci hanno costretto a confrontarci e a risolvere questi disac­
cordi invece di far finta che non esistessero. Nella fase storica at­
tuale, entrano in gioco anche importanti principi intorno alla
Guerra del Golfo o alla politica economica o ai valori culturali, che
rendono difficile, per i membri di opposti partiti, di accordarsi sul­
le premesse principali di ogni discorso in campo. Tuttavia, la pola­
rizzazione odierna indica anche la nostra incapacità di trovare
principi unificanti e agire secondo punti d’accordo. In una certa
misura, è frutto anche di opportunismo: da entrambe le parti ci so­
no quelli che l’alimentano, perché vi vedono un’occasione per rac­
cogliere danaro e mobilitare gli elettori.
258 C a p it o l o 6

C ’è anche chi sostiene che la polarizzazione è, almeno in parte,


il prodotto di un mondo in cui è possibile scegliere canali di comu­
nicazione che si attagliano perfettamente alle nostre idee e posizio­
ni politiche, e di conseguenza è possibile maturare un’immagine
più spigolosa e meno ricca di sfumature di quel che pensano gli al­
tri. Per quanto scarso sia il pluralismo di idee espresso dai media
mainstream o commerciali, esso ha gettato le basi per ciò che Da­
vid Thornburn ha chiamato la “cultura del consenso”, contribuen­
do a individuare quello che molta gente definisce come uno spazio
di cultura comune che ha rafforzato il dialogo45. Nelle ultime pagi­
ne di Technologies Without Boundaries, scritto appena prima della
sua morte nel 1984, Ithiel De Sola Pool ci mette in guardia sui po­
tenziali pericoli che la democrazia potrebbe incontrare, con l’emer­
gere di nicchie comunicative:

Dobbiamo aspettarci un’enorme crescita delle sottoculture intellettua­


li specializzate... Se ciò accadrà, le proteste che ascolteremo dai critici
sociali saranno esattamente l’opposto di quelle attuali... Probabilmen­
te sentiremo lamentare che il vasto proliferare di informazione specia­
listica serve solo interessi particolari e non la comunità; che frammen­
ta il sociale, perché non fornisce nessuno dei temi comuni di interesse
e di attenzione in grado di rendere coerente una società. I critici pian­
geranno l’indebolimento della cultura popolare nazionale, una volta
condivisa da tutti nella comunità. Ci diranno che siamo inondati da in­
formazione non digerita proposta su una lavagna elettronica e che ciò
di cui una società dem ocratica ha bisogno è la condivisione di prìncipi
organizzativi e un consenso di interessi. Com e quelle attuali alla socie­
tà di massa, anche queste critiche saranno vere solo in parte. Una so­
cietà in cui diventa facile per ogni piccolo gruppo accordarsi e sceglie­
re i propri singoli e particolari gusti, avrà in effetti maggiore difficoltà
a mobilitarsi in nome dell’unità.46

Più o meno come ha predetto Pool, c’è chi, sulla scia delle ele­
zioni del 2 0 04, sostiene che sia giunto il momento di uscire fuori
dalle enclavi digitali e di comunicare oltrepassando le differenze.
Scrivendo all’indomani della sconfitta elettorale di John Kerry,
l’editorialista di tecnologia Andrew Leonard, su Salon, domandò se
la blogosfera fosse diventata una “sala da eco”:
Ph o t o s h o p p e r la d e m o c r a z ia 259

Per settimane intere mi sono svegliato, ho preparato il mio caffè, mi


sono equipaggiato di argomenti e aneddoti per la giornata, spin e re­
torica presi in larga parte dal dibattito spinte-e-pugni della blogosfera
di sinistra. Quando visitavo la blogosfera di destra, è stato come anda­
re allo zoo a vedere animali esotici... L’ho quindi respinta sicuro
dell’arm atura protettiva che mi era fornita dalle comunità di persone
che condividevano le mie idee. ... Quello che mi disturba, in ogni ca­
so, è quanto Internet abbia reso facile non solo e non tanto trovare con
Google quel che mi serve quando mi serve, bensì trovare l’orienta­
mento e l’atteggiamento che voglio quando lo voglio47.

Cass Sustein, docente di diritto dell’Università di Chicago, ha


sostenuto che le comunità in rete frammentano l’elettorato e ten­
dono a esasperare qualsiasi consenso emerga nel gruppo48. La rivi­
sta Time ha espresso una posizione affine nel descrivere il divario
crescente tra “Verità Blu” e “Verità Rossa”: “La Verità Blu vede
Bush come un salvatore; la Verità Rossa lo considera invece un fa­
natico da fermare. In entrambi i mondi non ci sono eventi frutto
del caso ma solo cospirazioni, e i fatti hanno valore solo nella mi­
sura in cui sono a sostegno della Verità”49. E bene ricordare che
queste divisioni non sono puramente un prodotto dei mediascape:
sempre più persone scelgono dove vivere in base agli stili di vita de­
siderati, ivi includendo ciò che percepiscono come norme politiche
dominanti delle diverse comunità. La gente, in altri termini, decide
se vivere in uno stato rosso oppure in uno stato blu, allo stesso mo­
do in cui sceglie di partecipare a.una comunità on line blu o rossa.
Finché la narrazione dominante delle vita politica degli Stati
Uniti è quella della guerra delle culture, i nostri leader ci governe­
ranno seguendo la prospettiva del chi-vince-prende-tutto. Ogni
questione viene risolta con una violenta guerra civile quando inve­
ce, per ogni argomento specifico, c’è un consenso che unisce, alme­
no in parte, alcuni segmenti dell’America rossa e di quella blu. Sia­
mo d’accordo su molto; ci fidiamo poco. In un mondo così, nessu­
no può governare e nessuno può proporre o accettare compromes­
si. Manca, letteralmente, un terreno comune.
Quelle che abbiamo descritto come culture della conoscenza di­
pendono dalla qualità e dalla varietà delle informazioni a cui han­
no accesso. La capacità di apprendimento derivante dallo scambio
di vedute o dal confronto di opinioni è seriamente minata quando
le persone condividono già in partenza idee e conoscenze. La ra­
260 C a p it o l o 6

gione per cui Lévy manifestava ottimismo rispetto al fatto che


l’emergenza di una cultura basata sulla conoscenza avrebbe raffor­
zato la democrazia e la comprensione globale, dipendeva dal fatto
che, a suo avviso, tale sistema avrebbe modellato nuove regole di
interazione in un modo tale da superare le differenze esistenti tra le
persone. Di certo, queste regole non sorgono in maniera spontanea
come conseguenza inevitabile del cambiamento tecnologico. Esse
emergeranno, piuttosto, dalla sperimentazione e da uno sforzo
consapevole. Questo momento rappresenta una delle parti della fa­
se generale di “apprendistato” teorizzata da Lévy. Stiamo ancora,
in effetti, imparando a operare all’interno di una cultura della co­
noscenza. Stiamo ancora discutendo per sciogliere i principi-base
che definiranno le nostre interazioni reciproche.
Le tesi di Sustein presuppongono che i gruppi web si costruisca­
no principalmente attorno a un asse ideologico e non culturale.
Tuttavia, solo pochi di noi interagiscono all’interno di comunità
politiche; molti si uniscono ai gruppi sulla base di interessi ricrea­
tivi. Molti di noi sono fan di una o di un’altra forma di cultura po­
polare. Essa ci permette di esperire contesti alternativi, in parte
perché la posta in gioco è più bassa, le nostre fedeltà di spettatori
non hanno lo stesso peso delle nostre scelte nella cabina elettorale.
La nostra volontà di uscire dalle enclavi ideologiche potrebbe
esprimersi al meglio quando dibattiamo sul tipo di persona che di­
venterà Harry Potter crescendo, o sul tipo di mondo che emergerà
quando umani e macchine impareranno a collaborare in Matrix
(1999). Possiamo quindi essere in grado di oltrepassare le differen­
ze che ci separano se troviamo affinità nelle nostre fantasie. Questa
è, alla fine, un’altra ragione per la quale la cultura popolare conta
da un punto di vista politico - perché non sembra affatto riguarda­
re la politica.
Non intendo con ciò che la cultura popolare o le fan communi­
ty siano la panacea per i mali che attanagliano la democrazia statu­
nitense. Dopo tutto, così come il paese si è sempre più polarizzato,
la stessa cosa è avvenuta nei nostri gusti rispetto alla cultura popo­
lare. Peter Benedeck, scopritore di talenti di Hollywood, ha dato al
New York Times un’analisi dei risultati elettorali centrata su culture
del gusto in concorrenza e in contraddizione fra loro: “La maggio­
ranza del pubblico votante americano non si trova a suo agio con
ciò che vede in televisione o nei film ... Hollywood è ossessionata
dal pubblico tra i 18 e i 34 anni, ma quelle persone non sono anda-
Ph o to sh o p p e r la d e m o c r a z ia 261

te a votare. La mia ipotesi è che molte persone che guardavano I


Soprano hanno votato per Kerry. Molti tra gli spettatori di The
Grudge non hanno votato”50. Molti di quelli che hanno visto La
passione di Cristo hanno invece votato per i Repubblicani. La forte
identificazione del Partito Democratico con artisti e contenuti con­
troversi potrebbe aver mobilitato tanto persone culturalmente con­
servatrici quanto giovani elettori. Tuttavia, sembra esserci una
maggiore pluralità di opinioni nei siti che trattano di cultura popo­
lare che in quelli che si occupano direttamente di politica. Se vo­
gliamo mediare tra l’America rossa e quella blu, dobbiamo indivi­
duare un terreno comune e ampliarlo. Dobbiamo creare un conte­
sto dove ci ascoltiamo e impariamo gli uni dagli altri. Dobbiamo
deliberare insieme.
C o n c l u s io n e

Democratizzare la televisione?
La politica della partecipazione

Nell’agosto 2005, l’ex vicepresidente democratico Albert Gore


contribuì al lancio di una nuova emittente televisiva giornalistica
via cavo, Current. L’obiettivo dichiarato del network era promuo­
vere la partecipazione attiva dei giovani come citizen journalists;
agli spettatori, cioè, non veniva solo richiesto il consumo dei pro­
grammi offerti, ma anche di collaborare alla loro realizzazione, se­
lezione e distribuzione. Come spiegò Gore durante una conferenza
stampa dell’autunno del 2004: “Stiamo dando il potere, a questa
nuova generazione di giovani fra i 18 e i 34 anni, di impegnarsi in
un dialogo democratico e di raccontare le loro storie, quello che
succede nella loro vita, nel medium dominante dei nostri tempi. In­
ternet ha aperto un canale ai giovani, le cui passioni possono final­
mente essere ascoltate, ma la Tv non ne ha seguito l’esempio... il
nostro scopo è quello di dare voce ai giovani, di democratizzare la
televisione”1. Secondo una stima effettuata dalla rete tv, il 25% dei
contenuti che verranno trasmessi saranno opera dei suoi spettatori.
I produttori mediatici amatoriali caricheranno i loro video digitali
sul sito web; i visitatori valuteranno ciascun singolo contributo, e
quelli che riceveranno il maggiore gradimento saranno trasmessi.
L’idea di un’informazione moderata dai lettori non è nuova.
Slashdot è stato uno dei primi siti a sperimentare la moderazione
degli utenti, raccogliendo un gran numero di notizie con l’aiuto di
uno staff di cinque persone retribuite, soprattutto part-time, per­
mettendo ai lettori non solo di pubblicare le loro storie, ma anche
di lavorare in collettivo per valutare ciascun contributo. Slashdot si
occupa specificamente di tecnologia e cultura, perciò è diventato
un punto di riferimento per l’informazione su argomenti legati alla
264 C o n c l u s io n e

privacy in rete, al dibattito sui filtri obbligatori per le biblioteche


pubbliche, al movimento open-source e così via. Slashdot attira cir­
ca 1,1 milioni di visitatori unici ogni mese e circa 2 5 0.000 al gior­
no, costituendo una base di utenti pari a quella di molti siti infor­
mativi, che siano di interesse generale o di tecnologia, di rilievo
nazionale2. Tuttavia, è la prima volta che una cosa simile al model­
lo Slashdot viene applicato alla televisione.
Ancora prima dell’apertura delle trasmissioni, la promessa fatta
da Current di “democratizzare la televisione” divenne un tema cen­
trale nei dibattiti sulla politica della partecipazione. Cara Mertes,
produttore esecutivo della serie di documentari POV, della PBS -
lei stessa simbolo della battaglia per una televisione alternativa -
chiese: “Cosa intendete dire quando parlate di ‘democratizzare i
media?’ E il loro uso per il potenziamento dei fini democratici, la
creazione di un ambiente favorevole al processo democratico attra­
verso l’unità, l’empatia e il discorso civile? O vuol dire trasferire i
mezzi di produzione, che risponderebbe alla logica del pubblico ac­
cesso?”3 Current sarebbe stata democratica nei contenuti (concen­
trandosi sui generi di informazione di cui una società democratica
ha bisogno per funzionare), negli effetti (mobilitando i giovani ver­
so una partecipazione più attiva al processo democratico), nei va­
lori (promuovendo il discorso razionale e un senso più forte di con­
tratto sociale) o nei processi (allargando l’accesso ai mezzi di pro­
duzione e distribuzione mediatica)?
Altri si spinsero oltre, sostenendo che le pressioni economiche,
la richiesta di soddisfare gli inserzionisti e di placare gli azionisti,
avrebbero impedito a qualsiasi rete commerciale di raggiungere il
livello di democrazia promesso da Gore. Ogni forma realmente de­
mocratica di broadcasting avrebbe dovuto manifestarsi al di fuori
dei media corporate e anzi li avrebbe considerati il primo obiettivo
per una riforma. Anche se il network rimanesse fedele agli scopi in­
dicati dal progetto, secondo tali voci scettiche gli utenti più portati
a una prospettiva di media alternativi sarebbero diffidenti sulla va­
lidità di un canale basato sul lavoro dei consueti gatekeeper delle
grandi aziende. Un numero crescente di servizi Web - come parti­
cipai ory culture, or g e ourmedia.org - iniziavano a agevolare la visi­
bilità in rete dei produttori amatoriali senza che questi dovessero
cedere i diritti di esclusiva dei loro materiali a un network finanzia­
to da alcuni degli uomini e delle donne più ricchi del paese. In una
società dove i blog - sia testuali che video - prosperavano, perché
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 265

qualcuno dovrebbe aver bisogno della tv per pubblicare i propri


contenuti?
Altri hanno espresso disappunto per l’approccio volontaristico
del network. Il progetto originale di inviare registi indipendenti a
fare i corrispondenti dal mondo, regolarmente retribuiti, aveva la­
sciato il passo a un piano che consentiva agli amatori di proporre
la pubblicazione di contenuti propri, e di ricevere un compenso in
caso di accettazione. Il primo progetto, sostennero i critici, avrebbe
sostenuto un’infrastruttura a supporto della produzione di media
alternativi; l’altro, invece, avrebbe portato a poco più che a un ca­
nale di pubblico accesso.
Il network si difendeva dietro la scusa del work in progress - fa­
cendo del suo meglio per democratizzare un medium tenendo con­
to dei vincoli di mercato. Un portavoce osservò: “Per qualcuno,
l’ideale della perfezione è sempre nemico del bene”4. Current può
anche non essere una svolta rivoluzionaria per la tv, dichiaravano,
ma potrebbe portarvi delle novità. Gore era fermamente convinto
che l’abilitazione del pubblico alla produzione di contenuti rappre­
sentasse un potenziale di diversificazione del discorso civico: “So­
no sicuro che quando il medium sarà legato ai narratori grassroots
che sono là fuori, esso produrrà un impatto sui tipi di argomenti
trattati e sul modo in cui se ne parla”5.
Nello stesso momento, la British Broadcasting Company acco­
glieva una visione ancora più radicale del rapporto tra consumatori
e contenuti. I primi segnali di una nuova linea politica erano venuti
dal discorso pronunciato da Ashley Highfield, direttore di BBC
New Media & Technology, a ottobre 2003, che illustrava come la
diffusione dell’uso della banda larga e delle tecnologie digitali cam-
bierà il modo in cui il network servirà il suo pubblico:

La tv del futuro sarà irriconoscibile rispetto a quella odierna, non più


confezionata e pianificata da dirigenti televisivi, caratterizzata non so­
lo da canali lineari; essa sarà più simile a un caleidoscopio, con miglia­
ia di flussi di contenuto, alcuni non più distinguibili come canali. Que­
sti flussi mescoleranno i programmi e i contenuti della rete ai contri­
buti dei nostri spettatori. Al livello più semplice il pubblico vuole or­
ganizzare e rielaborare i contenuti a proprio piacimento. Com m ente­
ranno i nostri programmi, li voteranno, e in genere dedicheranno loro
attenzione. A un altro livello, però, vorranno creare da zero quei flussi
di video, con o senza il nostro aiuto. A questa estremità dello spettro,
266 C o n c l u s io n e

il tradizionale rapporto basato sul “monologo del broadcaster” allo


“spettatore grato” crollerà.6

A partire dal 2005, la BBC iniziò a digitalizzare buona parte dei


contenuti di archivio, rendendoli acquisibili in streaming dalla
rete7. La BBC promosse altresì la sperimentazione grassroots
nell’annotazione e nell’indicizzazione di quei materiali. Il percorso
di Current andava dal Web, dove molti potevano scambiarsi le loro
creazioni, ai media broadcast, dove tanti utenti potevano fruire
delle creazioni di pochi. Gli sforzi della BBC andavano invece in di­
rezione opposta - all’apertura del contenuto televisivo agli impulsi
più partecipativi che danno forma alla cultura digitale.
Entrambe le reti promuovevano, in qualche senso, ciò che que­
sto libro chiama cultura convergente. La convergenza non dipende
da nessun particolare meccanismo di delivery. Piuttosto, rappre­
senta un cambio di paradigma - il passaggio da contenuti specifici
per un medium a contenuti che fluiscono su più canali mediatici, a
una maggiore interdipendenza dei sistemi di comunicazione, a mo­
dalità molteplici di accesso ai contenuti e, infine, a relazioni ancora
più complesse tra i grandi media top-down e la cultura partecipati­
va bottom-up. Nonostante la retorica sulla “democratizzazione
della televisione”, tale passaggio è guidato da interessi economici e
non dalla missione sociale di conferire più potere al pubblico. Le
aziende dei media vedono con favore la convergenza per vari mo­
tivi: perché le strategie basate sulla convergenza sfruttano i vantag­
gi della conglomerazione mediatica; perché la convergenza crea
molti modi di vendita dei contenuti ai consumatori, perché raffor­
za la fedeltà dei consumatori in un’epoca in cui la frammentazione
del mercato e lo sviluppo del file sharing minacciano i vecchi modi
di fare business. In alcuni casi, la convergenza viene “spinta” dalle
grandi aziende come occasione per plasmare il comportamento dei
consumatori. In altri, essa viene “spinta” dai consumatori, che ri­
chiedono alle imprese un maggiore riguardo per i loro gusti e inte­
ressi. Tuttavia, al di là delle diverse motivazioni, la convergenza sta
cambiando le modalità operative delle imprese mediatiche, nonché
la percezione che ha la gente comune della sua relazione con i me­
dia. Ci troviamo in un momento critico di transizione, nel quale le
vecchie regole sono aperte alla riforma e le imprese si vedono co­
strette a rinegoziare il loro rapporto con i consumatori. La questio­
ne è se il pubblico sia pronto a rivendicare una maggiore partecipa­
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 267

zione o se invece preferisca mantenere la vecchia linea di rapporto


con i mass media.
In uno scritto del 1991, W. Russell Neuman analizzò come le
“abitudini” dei consumatori, ovvero quella che definiva “la psico­
logia del pubblico di massa, la mentalità di semi-attenzione, orien­
tata alPintrattenimento, del comportamento quotidiano verso i
media” potessero ostacolare il potenziale interattivo delle tecnolo­
gie digitali emergenti8. Stando al suo modello, la tecnologia era a
portata di mano, ma la cultura non si mostrava ancora pronta ad
accoglierla: “I nuovi sviluppi nei media orizzontali e controllati
dall’utente, che gli permettono di modificare, riformattare, imma­
gazzinare, copiare, inviare ad altri e commentare il flusso di idee,
non mettono fuori gioco la comunicazione di massa. Essi rappre­
sentano invece un complemento dei mass media tradizionali”9. A
suo avviso, quindi, il pubblico non rivedrà di colpo la sua relazione
con i contenuti mediatici così come le imprese non rinunceranno
senza combattere al controllo culturale.
Oggi è più facile sentire l’affermazione opposta - che gli early
adapters corrano più degli sviluppi tecnologici. Non appena una
nuova tecnologia - per esempio, Google Maps - viene diffusa, le
più varie comunità grassroots cominciano a giocarci, ne espandono
le funzionalità, ne modificano il codice e la spingono verso una di­
rezione più partecipativa. Infatti, molti imprenditori sono dell’av­
viso che la principale ragione per cui la televisione non potrà con­
tinuare a operare secondo le vecchie modalità è che i broadcaster
stanno perdendo i loro spettatori più giovani, che si aspettano di
esercitare una maggiore influenza sui media che consumano. In
una sua comunicazione al M IT, nell’aprile 2004, il vice presidente
esecutivo per la ricerca e la pianificazione aziendale di M TV
Networks, Betsy Frank, ha definito questi consumatori “media-at-
tivi”, identificandoli come “un gruppo di persone nate intorno alla
metà degli anni Settanta, che non hanno mai visto un mondo senza
tv via cavo, videoregistratore o Internet; che non sono mai state co­
strette a scelte obbligate o a optare per il programma meno delu­
dente; che sono state abituate a una fruizione mediale sul modello
‘ciò che voglio quando lo voglio’ e che, come risultato, assumono
un ruolo più attivo nello scegliere i media”10. Facendo notare che
“le loro impronte digitali sono sul telecomando”, Frank ha detto
che i media stanno faticosamente cercando di dare un senso e di ri­
spondere al calo drammatico di spettatori all’interno di quella pre­
268 C o n c l u s io n e

ziosa fascia demografica che comprende il pubblico maschile dai


18 ai 27 anni, disaffezionati alla tv e in fase di migrazione verso ca­
nali mediatici più interattivi e partecipativi.
In questo libro si è tentato di documentare un momento di pas­
saggio durante il quale almeno qualche segmento di pubblico ha
già imparato cosa significhi vivere in una cultura convergente.
Betsy Frank e altri ricercatori tendono ancora a enfatizzare i cam­
biamenti individuali, mentre la tesi centrale di questo libro è che i
cambiamenti più rilevanti avvengono nelle comunità di consumo.
La trasformazione più grande è forse il passaggio dal consumo me­
diale individuale e personalizzato a quello che viene vissuto come
pratica collettiva e reticolare.
I media personalizzati erano uno degli ideali della rivoluzione
digitale nei primi anni Novanta; secondo molti i “media digitali” ci
avrebbero liberato dalla “tirannia” dei mass media, permettendoci
di accedere solo al contenuto che avremmo reputato personalmen­
te interessante. George Gilder, ideologo conservatore divenuto te­
orico del digitale, sostenne che le proprietà intrinseche del compu­
ter spingevano per una personalizzazione e decentralizzazione cre­
scente. A confronto con la dieta “taglia unica” dei media broadcast,
l’era mediale nascente sarebbe stata un “banchetto di nicchie e aree
speciali”11. L’era dei contenuti personalizzati e interattivi, affermò,
avrebbe solleticato le nostre ambizioni più alte, non quelle più bas­
se, poiché saremmo entrati in “una nuova età dell’individuali­
smo”12. L’ideale di Gilder dei “media di prima scelta” può essere
un ulteriore modello di come democratizzare la televisione.
Al contrario, tuttavia, questo libro ha sostenuto che la conver­
genza incoraggia la partecipazione e l’intelligenza collettiva. Una
posizione ben sintetizzata da Marshall Sella sul New York Times:
“Con l’aiuto di Internet, il sogno più maestoso per la televisione di­
venta realizzabile: una strana forma di interattività. La tv era una
strada a senso unico, che scorreva dai produttori ai consumatori,
mentre oggi sta divenendo una via a doppio senso. Un uomo con
una macchina (una tv) è condannato all’isolamento, ma uno con
due macchine (tv e computer) può sentirsi parte di una comuni­
tà”13. Ognuno dei casi di studio citati dimostra cosa accade quando
coloro che hanno a disposizione varie macchine consumano - e
producono - media insieme; quando uniscono le loro idee e le loro
informazioni, si mobilitano in nome di interessi condivisi e fungo­
no da intermediari grassroots garantendo una più ampia circolazio­
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v i s i o n e ? 269

ne di messaggi importanti e contenuti interessanti. Più che parlare


di personal media, dovremmo parlare di media comunitari - media
che entrano nelle nostre vite in quanto membri di varie comunità,
sia a livello locale con frequentazioni faccia a faccia, sia in rete.
Nel corso del libro ho mostrato che la cultura convergente ren­
de possibili nuove forme di partecipazione e collaborazione. Se­
condo Lévy, il potere di partecipare a comunità del sapere coesiste
con quello che gli stati-nazione esercitano sui cittadini e con quello
che il capitalismo delle merci esercita su lavoratori e consumatori.
Secondo Lévy, al culmine del suo utopismo, il potere emergente
della partecipazione funge da correttivo robusto contro quelle fon­
ti di potere tradizionali, anche se esse cercheranno di reindirizzarlo
per i propri fini. Stiamo imparando proprio ora come esercitare
quel potere - individualmente e collettivamente - e stiamo ancora
lottando per definire i termini entro i quali ci sarà concesso di par­
tecipare. Molti temono questo potere, altri lo accolgono con entu­
siasmo. Non esistono garanzie sul fatto che lo useremo più respon­
sabilmente di come abbiano fatto gli stati-nazione e le grandi azien­
de. Stiamo cercando di elaborare i codici etici e i contratti sociali
che determineranno le nostre reciproche relazioni proprio come
tentiamo di definire i modi con cui questo potere si inserirà nel si­
stema dell’intrattenimento o nel processo politico. Ciò che dobbia­
mo fare, in parte, è capire come - e perché - gruppi con diversi
background, agende, prospettive e conoscenze, possano ascoltarsi a
vicenda e collaborare nella realizzazione di un obiettivo condiviso.
Abbiamo ancora molto da imparare.
In questa fase stiamo capendo come applicare le nostre abilità
partecipative attraverso la nostra relazione con l’intrattenimento
commerciale - o, più precisamente, proprio ora alcuni gruppi di
pionieri stanno tastando il terreno per indicare il percorso ai pub­
blici più numerosi che vorranno seguirlo. Queste abilità vengono
applicate prima alla cultura popolare per due ragioni: da un lato,
perché i costi da sostenere sono bassi; da un altro, perché giocare
con la cultura popolare è molto più divertente che farlo in ambiti
più “seri”. Tuttavia, la lezione che abbiamo imparato guardando la
campagna elettorale del 2004, attraverso lo spoiling di Survivor o
nella rielaborazione di Star Wars, si può facilmente applicare anche
all’attivismo politico, all’istruzione o al lavoro.
Tra gli ultimi anni Ottanta e i primi Novanta, gli studiosi, inclu­
so me, consideravano le comunità di fan dei media come importan­
270 C o n c l u s io n e

ti laboratori di idee sul consumo attivo e la creatività grassroots.


Eravamo attratti dall’idea che la fan culture agisse all’ombra di e in
risposta alla cultura commerciale, ponendosi come una sua alterna­
tiva. La fan culture si caratterizzava per l’appropriazione e la suc­
cessiva trasformazione di materiali presi a prestito dalla cultura di
massa; si trattava dell’applicazione delle pratiche tipiche della cul­
tura folk ai contenuti della cultura di massa14. Nell’ultimo decen­
nio, il Web ha portato questi consumatori dai margini al centro del
mondo dei media; oggi dei fan si occupano anche personalità im­
portanti nel mondo legale, commerciale, finanziario. Coloro che
una volta sarebbero stati definiti “lettori avventurosi” sono gli
odierni “consumatori ispiranti” di Kevin Roberts. La partecipazio­
ne viene percepita come una delle normali modalità operative dei
media, tanto che i dibattiti attuali sono centrati non più sul concet­
to astratto, quanto sui termini e sui modi della nostra partecipazio­
ne. Proprio come lo studio della fan culture ci ha aiutato a com­
prendere meglio le innovazioni che si verificano ai margini del
mondo dei media, potremmo anche guardare alle strutture delle
comunità di fan come esempi di nuovi modi di pensare il civismo e
la collaborazione. Gli effetti politici di queste nuove comunità non
sono conseguenza semplicemente della produzione e circolazione
di nuove idee (la lettura critica dei testi preferiti), ma anche dell’ac­
cesso a nuove strutture sociali (intelligenza collettiva) e di nuovi
modelli di produzione culturale (cultura partecipativa).
M i sono spinto troppo oltre? Sto attribuendo troppo potere a
queste comunità di consumo? Può darsi. Ma sappiate che io non
cerco di predire il futuro. Voglio evitare i grandi proclami sulla
morte della comunicazione di massa, che oggi, a distanza di dieci
anni, rendono ridicola la retorica che ha accompagnato la rivolu­
zione digitale. Piuttosto, provo a mostrare il potenziale democrati­
co insito in alcune tendenze culturali contemporanee. Nessun esito
può essere inevitabile. È tutto da costruire. Pierre Lévy definisce la
sua idea di intelligenza collettiva come una “utopia realizzabile”,
ed è così. Io penso a me stesso come a un utopista critico. Come ta­
le, voglio individuare all’interno della nostra cultura che quelle co­
se che potrebbero portare semplicemente a una società migliore,
più giusta. Le mie esperienze di fan hanno cambiato il mio pensiero
riguardo alle politiche dei media, aiutandomi a cercare e a pro­
muovere i potenziali non realizzati più che a rifiutare subito ciò che
non soddisfa i miei standard. La fandom, dopo tutto, è frutto
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 27 1

delPequilibrio tra fascinazione e frustrazione: se il contenuto me-


diatico non ci avesse affascinato, non ci saremmo lasciati coinvol­
gere; nel contempo, se non ci avesse frustrati a qualche livello, non
avremmo avuto lo stimolo per riscriverlo o rifarlo. Si fa oggi un
gran parlare di frustrazione per lo stato della nostra cultura media-
tica, ma sorprendentemente si parla molto poco di come lo si possa
“riscrivere”.
Limitarsi a indicare le occasioni per il cambiamento, tuttavia,
non è sufficiente. Si devono anche individuare i numerosi ostacoli
che ne impediscono la realizzazione e cercare di aggirarli. Avere
chiara l’immagine di come funzioni una società più ideale ci conce­
de un’unità di misura per stabilire che cosa fare per raggiungere i
nostri obiettivi. In questo libro sono stati offerti dei casi di studio
specifici di gruppi che hanno già raggiunto alcune delle promesse
dell’intelligenza collettiva o di una cultura più partecipativa. Non
voglio dire che questi gruppi siano rappresentativi del consumatore
medio (ammesso che tale figura esista ancora in un’epoca di media
di nicchia e cultura frammentata). Piuttosto, dovremmo leggere
questi casi come dimostrazioni di quel che si può fare nel contesto
della cultura convergente.
Questo approccio si distingue profondamente da quello che de­
finisco “pessimismo critico”. I pessimisti critici, come Mark Cri­
spin Miller, Noam Chomsky e Robert McChesney, si concentrano
soprattutto sulle difficoltà di realizzare una società più democrati­
ca. Nel farlo, spesso esagerano il potere dei grandi media per im­
paurire e spingere all’azione i lóro lettori. Non discordo sulla pre­
occupazione per la concentrazione dei media, ma il modo in cui
questi autori inquadrano la questione è controproducente: tolgono
potere ai consumatori anche se li invitano a mobilitarsi. Una buona
parte della retorica sulla riforma dei media si basa su discorsi me­
lodrammatici di vittimizzazione e vulnerabilità, seduzione e mani­
polazione, “macchine per la propaganda” e “mezzi di inganno di
massa”. Più volte, questa versione del movimento per la riforma
dei media ha ignorato la complessità del rapporto tra pubblico e
cultura popolare, finendo per fiancheggiare gli oppositori di una
cultura più variegata e partecipativa. La politica dell’utopismo cri­
tico è fondata sulla nozione di responsabilizzazione; la politica del
pessimismo critico su quella di vittimizzazione. La prima analizza
ciò che facciamo con i media, la seconda si occupa di ciò che i me­
dia fanno con noi. Come è già accaduto per le rivoluzioni del pas-
272 C o n c l u s io n e

sato, il movimento per la riforma dei media acquista slancio quan­


do la gente si sente più responsabile e non quando si sente più de­
bole.
La concentrazione è un problema molto concreto che potrebbe
frenare molti degli sviluppi di cui si è trattato in questo libro. La
concentrazione è un male perché impedisce la concorrenza e mette
i media al di sopra delle richieste dei loro consumatori. La concen­
trazione è un male perché soffoca il pluralismo - dato importante
per ciò che concerne l’elaborazione della cultura popolare, essen­
ziale invece per quanto riguarda l’informazione. La concentrazione
è un male perché abbassa gli incentivi delle aziende a negoziare con
i loro consumatori e innalza le barriere contro la partecipazione.
Le grandi concentrazioni dei media possono ignorare i pubblici (al­
meno fino a un certo punto), mentre i media più piccoli, di nicchia,
li devono accontentare.
Detto ciò, la lotta contro la concentrazione mediatica non è
l’unica battaglia che dovrebbe riguardare i riformatori. Il potenzia­
le di una cultura più partecipativa è un’opportunità per cui vale la
pena combattere. Proprio oggi, la cultura convergente ha gettato i
media in una situazione fluida, allargando le opportunità per i
gruppi grassroots di rispondere alla comunicazione di massa. M et­
tiamo tutte le nostre forze nella lotta contro i conglomerati e que­
sta finestra di opportunità si chiuderà. Ecco perché è tanto impor­
tante combattere contro il regime del copyright imposto dalle
grandi aziende, opporsi alla censura e al panico morale che vorreb­
bero patologizzare queste forme emergenti di partecipazione, sfor­
zarsi di diffondere pubblicamente le pratiche migliori di queste co­
munità online, espandere l’accesso e la partecipazione a gruppi che
altrimenti sarebbero lasciati indietro, così come promuovere forme
di educazione all’alfabetismo dei media che aiutino tutti i bambini
a sviluppare le competenze necessarie per partecipare a pieno alla
loro cultura.
Se i primi lettori forniscono qualche indicazione generale, l’af­
fermazione più controversa di questo libro potrebbe essere il mio
presupposto operativo secondo cui la crescente partecipazione alla
cultura popolare è una cosa buona. Troppi pessimisti critici sono
ancora trincerati dietro le vecchie politiche del culture jamming.
Resistere diventa un fine in sé invece che uno strumento per garan­
tire il pluralismo culturale e la responsabilità delle aziende. Il dibat­
tito rischia di essere distorto dalla visione di un’unica alternativa
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v i s i o n e ? 273

possibile, che è quella di rinunciare del tutto ai media e di vivere


nei boschi, nutrirsi di ghiande e lucertole e leggere solo libri stam­
pati con carta riciclata da piccole tipografie alternative. Cosa com­
porterebbe, invece, sfruttare il potere dei media per i nostri scopi?
La purezza estetica e ideologica sono veramente più preziose della
trasformazione della nostra cultura?
Una politica della partecipazione parte dal presupposto che
possiamo disporre di un maggiore potere di negoziazione collettiva
se ci riuniamo in comunità di consumo. Prendiamo per esempio Se-
quential Tart. Nato nel 1997, www.sequentialart.com è un gruppo
di difesa delle consumatrici frustrate dal mondo dei fumetti, che
storicamente le ha del tutto trascurate o trattate con sufficienza.
Marcia Alias, membro di Sequential Tart, spiega: “All’inizio vole­
vamo cambiare la percezione diffusa della lettrice di fumetti... Vo­
levamo mostrare ciò che già sapevamo - che il pubblico femminile
dei comics, pur essendo meno ampio di quello maschile, è ben di-
versificato, e collettivamente dispone di un reddito significativo”15.
Nel suo lavoro di ricerca su Sequential Tart, Kimberly M. De
Vriers ha sottolineato il rifiuto consapevole, da parte del gruppo,
degli stereotipi negativi che gli uomini all’interno e intorno all’in­
dustria dei fumetti hanno costruito sulla figura delle lettrici, ma an­
che dello stereotipo, magari ben intenzionato ma ugualmente co­
strittivo, elaborato dalla prima generazione di studiose femministe
del fumetto16. Le Sequential Tarts difendono il piacere della lettura
dei fumetti da parte delle donne, nonostante le loro critiche sulla
rappresentazione negativa del genere femminile. La Webzine me­
scola interviste ad autori, rivenditori e imprenditori dei comics,
con recensioni delle nuove pubblicazioni e saggi critici su genere e
fumetto. Presenta le pratiche produttive che attraggono e disgusta­
no le donne, fa luce sul lavoro di piccole case editri e promuove li­
bri che riflettono i gusti e gli interessi del suo pubblico. Le Sequen­
tial Tarts sono sempre più corteggiate da editori e artisti che pen­
sano di avere contenuti interessanti per il pubblico femminile, e
hanno contribuito a far sì che gli editori maggiori fossero più atten­
ti a questo mercato prima quasi ignorato.
Le Sequential Tarts rappresentato una nuova tipologia di grup­
po di difesa dei consumatori, che spinge per la diversificazione dei
contenuti e stimola i mass media ad avere una maggiore considera­
zione dei loro consumatori. Ciò non vuol dire che i media com­
merciali opereranno mai davvero secondo principi democratici. Le
274 C o n c l u s io n e

grandi imprese, infatti, non hanno bisogno di condividere i nostri


ideali per cambiare le loro pratiche. La loro motivazione è l’inte­
resse economico. La motivazione di politiche basate sul consuma­
tore saranno invece i nostri interessi politici e culturali condivisi.
Tutto il nostro potere di cambiamento resterà piuttosto limitato,
fin quando non sarà possibile un dialogo più intenso con i media.
Una politica di opposizione deve lasciare il passo a una politica
centrata sulla collaborazione tattica. Il vecchio modello, che molti
hanno giustamente abbandonato, diceva che i consumatori votano
con il loro portafoglio. Il nuovo modello prevede una nostra azio­
ne collettiva per cambiare la natura del mercato; così facendo stia­
mo mettendo sotto pressione le imprese perché cambino i loro pro­
dotti e i modi di relazionarsi con i consumatori.
Non disponiamo ancora di modelli validi che ci dicano come sa­
rà una cultura della conoscenza matura e pienamente realizzata. La
cultura popolare, tuttavia, potrebbe fornirci dei prototipi. Un caso
del genere ci è dato dalla serie a fumetti Global Frequency di War-
ren Ellis. Ambientata in un futuro prossimo, essa narra di un’orga­
nizzazione multinazionale e multirazziale per la quale persone co­
muni prestano il proprio servizio. Come spiega Ellis, “Potrebbe ca­
pitarti di stare tranquillamente seduto a guardare il notiziario e im­
provvisamente sentire una suoneria di cellulare sconosciuta, e da lì
a pochi istanti vedere il tuo vicino che esce di casa in tutta fretta,
indossando una giacca o una maglietta con il distintivo Global Fre­
quency... oppure, la tua ragazza potrebbe rispondere al telefono...
e dirti che ti spiegherà dopo... Chiunque potrebbe appartenere a
Global Frequency, e tu non lo saprai finché non arriverà una chia­
mata”17. Ellis rifiuta di rappresentare i potenti semidei e i gruppi
d’élite della tradizione dei supereroi, e preferisce raccontare le vi­
cende di persone che sono l’equivalente del ventunesimo secolo dei
volontari della protezione civile. Ellis ha ideato la sua opera sulla
scia dell’11 settembre come alternativa alla richiesta di maggiori
poteri statali e di limitazioni paternalistiche alle comunicazioni:
Global Frequency non immagina un governo che salva i suoi citta­
dini da qualunque Grande Cattivo in circolazione. “Global Fre­
quency parla di noi che salviamo noi stessi.” Ogni vicenda narrata
ruota intorno a personaggi e ambientazioni diversi, e racconta i si­
gnificati del contributo personale e professionale di ciascun mem­
bro di Global Frequency, in favore di una causa molto più grande
del loro interesse individuale. Gli unici personaggi fissi della serie
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v i s i o n e ? 275

sono quelli del centro di comunicazioni che contatta i volontari.


Una volta che i membri di Global Frequency vengono chiamati
all’azione, molte delle decisioni-chiave sono prese in loco, poiché i
volontari possono agire in base allo loro conoscenza specifica e lo­
calizzata. Molte delle sfide da affrontare sono date dalle conse­
guenze del collasso subito dal complesso militare-industriale e dalla
fine della guerra fredda - “Le brutte cose folli rimaste nell’ombra
di cui la gente non è mai venuta a conoscenza”. In altri termini, i
cittadini assoldati usano la conoscenza distribuita per mettere ripa­
ro ai pericoli delle manovre segrete del governo.
La rete Global Frequency immaginata da Ellis somiglia molto a
ciò che il giornalista e attivista digitale Howard Rheingold ha scrit­
to a proposito delle smart mob: “La mobilità intelligente si compo­
ne di persone in grado di agire di comune accordo anche senza co­
noscersi. I gruppi di smart mobs collaborano secondo modalità che
non erano mai state possibili, poiché gli strumenti di cui si avvalgo­
no sono in grado sia di comunicare sia di elaborare dati. [...] I grup­
pi che useranno questi strumenti assumeranno nuove forme di po­
tere sociale”18. A Manila come a Madrid, gli attivisti si sono mo­
strati in grado, grazie ai telefoni cellulari, di radunare un numero
massiccio di oppositori al governo. Quest’ultimo, senza il loro in­
tervento avrebbe facilmente controllato e gestito il discorso politi­
co dei mass media. Sforzi sociali di questo tipo hanno portato delle
trasformazioni nella dimensione del potere. A Boston, gli home
schooler, i ragazzi che ricevono la loro istruzione a casa senza fre­
quentare una scuola, usano queste stesse tecnologie per organizza­
re “al volo” gite che portano decine di bambini e genitori a visitare
un museo o un sito storico, nel giro di poche ore.
Altri, come lo scrittore di fantascienza Cory Doctorow, defini­
sce questi gruppi adhoc-crazie. All’opposto di una burocrazia, una
“adhoc-crazia” è un’organizzazione caratterizzata dall’assenza di
gerarchie. Al suo interno, ogni persona contribuisce ad affrontare
un particolare problema affidandosi alle proprie conoscenze e ca­
pacità, e i ruoli di leadership si alternano con il variare dei compiti.
Una adhoc-crazia, perciò, è una comunità del sapere che trasforma
l’informazione in azione. Il romanzo di fantascienza Down and
Out in thè Magic Kingdom di Doctorow racconta un futuro in cui i
fan sono abitanti di Disney World, il supporto pubblico diviene la
più importante moneta di scambio e il dibattito sulla cultura popo­
lare svolge il ruolo di centro della politica19.
276 C o n c l u s io n e

La visione di Ellis del Global Frequency Network e quella di


Doctorow di una Disney World grassroots, è bene dirlo, sono im­
magini fantastiche - superano di gran lunga tutto ciò che abbiamo
già visto nel mondo reale. Nonostante ciò, i fan mettono in pratica
qualcosa di quel che hanno imparato da Global Frequency : usufru­
ire di molteplici canali di comunicazione per convincere i network
e le case produttrici a mandare in onda dei programmi televisivi20.
Lo si può pensare come un altro esempio di quello che può voler
dire “democratizzare la televisione”. Mark Burnett, produttore
esecutivo di Survivor, ha acquisito i diritti per adattare la storia a
fumetti per la televisione. La Warner Brosha addirittura annuncia­
to l’intenzione di trasmettere Global Frequency a metà stagione,
ma poi ne ha posticipato la messa in onda e alla fine l’ha cancellata.
Una copia delPepisodio pilota della serie è arrivata in qualche mo­
do su Internet, scaricabile illegalmente da BitTorrent, e ha messo in
movimento un tentativo grassroots per far rientrare in produzione
tutta la serie. John Rogers, autore principale e produttore della se­
rie, ha detto che una risposta così estesa a una serie mai trasmessa
aveva dato ai produttori uno strumento su cui far leva per chiedere
la distribuzione dell’episodio pilota in DVD e magari la cessione
della serie completa a un altro network. I dirigenti della rete e della
casa cinematografica, come era prevedibile, hanno parlato di pre­
occupazione per quello che i consumatori stavano facendo: “Che
l’episodio pilota sia stato approvato o meno, rimane una proprietà
di Warner Bros. Entertainmente. E noi proteggiamo seriamente
tutte le nostre proprietà intellettuali... La Warner Bros. Entertain­
ment apprezzan le risposte del pubblico, ma la violazione del
copyright non è un buon modo per influenzare una decisione
dell’azienda.” Rogers ha scritto nel suo blog a proposito di questo
incontro con i fan di Global Frequency : “Questo cambia il modo in
cui gestirò il mio prossimo progetto... Pubblicherò su Internet gli
episodi pilota, senza nemmeno pensarci un secondo. Ne volete cin­
que in più? Venite a comprare il pacchetto completo.” I commenti
di Roger ci invitano a ipotizzare un futuro in cui piccole nicchie di
consumatori, disposti a investire denaro per una causa, potranno
garantire la produzione di programmi anche se questi dovessero in­
teressare solo una minoranza del pubblico. Dal punto di vista di un
produttore, un simile schema potrebbe essere attraente poiché le
serie televisive vengono prodotte in perdita per le prime stagioni,
almeno fin quando l’impresa produttrice non accumula un numero
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 277

di puntate sufficienti alla vendita di un pacchetto in syndication. Il


DVD riduce il rischio permettendo ai produttori di vendere le serie
una stagione per volta, e perfino di confezionare e vendere le pun­
tate non trasmesse. La vendita diretta ai consumatori potrebbe per-
mettere ai produttori di recuperare i costi ancora prima dei tempi
previsti dal normale ciclo di produzione.
Nelle aziende che si occupano di intrattenimento si fa un gran
parlare, in questo periodo, di ciò che Chris Anderson, reporter di
Wired, ha definito “la coda lunga”21. Anderson sostiene che, poi­
ché i costi di distribuzione si abbassano, gli editori possono mante­
nere in circolazione un numero crescente di titoli di catalogo e le
comunità di nicchia possono usare il Web per mobilitarsi in favore
dei prodotti di loro interesse. In questo scenario faranno maggiori
profitti quelle imprese che sapranno generare la più ampia varietà
di contenuti, rendendoli disponibili ai prezzi più ragionevoli. Se
Anderson ha ragione, i prodotti di nicchia hanno molte più possi­
bilità di un tempo di trasformarsi in fonti di profitto. Il modello
della coda lunga presuppone un consumatore di media sempre più
consapevole, che si procurerà da sé i contenuti di proprio interesse
e sarà orgoglioso di consigliarli anche agli amici.
Immaginiamo un modello basato sull’abbonamento, per il quale
gli spettatori si impegnino a pagare un contributo mensile per la vi­
sione stagionale di una serie che entra nelle loro case in banda lar­
ga. Si potrebbe produrre un episodio pilota per sondare il terreno
e, se la risposta dovesse essere positiva, si potrebbero mettere in
vendita gli abbonamenti fino a raggiungere almeno un numero di
abbonati sufficiente a compensare i costi di produzione iniziali. I
primi abbonati potrebbero acquistare l’intero pacchetto a basso
prezzo, mentre gli altri, in seguito, potrebbero acquistare contenuti
secondo la formula pay-per-view, andando a coprire i costi della
seconda fase di produzione. Altri ancora potrebbero acquistare
l’accesso a singoli episodi. La distribuzione potrebbe essere su
DVD spedito per posta oppure via streaming (o magari potreste
semplicemente scaricare la serie sul vostro iPod).
Quando ABC-Disney ha comunicato che avrebbe messo a di­
sposizione gli episodi recenti delle sue serie tv di culto (come Lost
e Desperate Housewives) per il download da Apple Music Store, il
dibattito ha fatto un salto di qualità. Altre reti hanno subito seguito
l’esempio, confezionando in fretta i loro pacchetti da scaricare. Nei
primi venti giorni, furono più di un milione le puntate televisive
278 C o n c l u s io n e

scaricate dal Web. L’iPod video sembra emblematico della nuova


cultura convergente; non perché tutti siano convinti che il piccolo
schermo dell’iPod sia il mezzo ideale per guardare un contenuto
broadcast, ma perché la possibilità di scaricare repliche on demand
rappresenta una grande svolta nel rapporto tra consumatori e con­
tenuti mediatici.
Ivan Askwith ha analizzato, su Siate, alcune conseguenze del
download televisivo:

Poiché iTunes e i suoi inevitabili concorrenti offrono sempre più con­


tenuti televisivi broadcast, i p rod uttori... non dovranno scendere a
compromessi sui loro programmi per soddisfare le richieste del broad­
cast. La lunghezza degli episodi può variare come meglio pare oppor­
tuno, i contenuti possono essere più forti, più attinenti all’attualità e
più espliciti... Il pubblico già si aspetta di trovare nei DVD i director’s
cut e scene che erano state tagliate nel montaggio per la sala. N on è
difficile immaginare che i network possano mandare in onda dei
broadcast cut , degli “adattamenti televisivi” di un episodio, e poi in­
coraggiare gli spettatori a scaricare la versione originale più lunga il
giorno d o p o ... M entre oggi i DVD danno al pubblico la possibilità di
mettersi in pari con la visione fra una stagione e l’altra, la televisione
on-demand ci perm ette di farlo in ogni mom ento, in modo veloce e le­
gale. I produttori non saranno più costretti a scegliere tra il rischio di
tener lontani i nuovi spettatori con trame complesse e quello di anno­
iare il pubblico regolare con i riassunti delle puntate precedenti... Sca­
ricare direttamente i contenuti perm etterà agli spettatori di salvare
uno spettacolo dal rischio di fine produzione, “votando con il proprio
portafogli” mentre è ancora in onda. Quando succede che un pro­
gramma viene interrotto, il pagamento diretto dei fan potrebbe pro­
durre un fatturato sufficiente a continuarne la produzione anche solo
per il mercato online.22

Quasi immediatamente, i fan delle serie cancellate, come The


West Wing e Arrested Development, hanno iniziato ad accogliere un
simile modello come metodo di sostegno alla produzione dei pro­
grammi, investendo il loro denaro a supporto dei contenuti
preferiti23. I produttori di televisione cult hanno cominciato a par­
lare apertamente di aggirare i network e vendere le loro serie diret­
tamente ai consumatori più fedeli. Si può immaginare che i produt­
tori indipendenti usino il download come modalità per la distribu­
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 279

zione di contenuti che non verrebbero mai trasmessi nella tv com­


merciale. Aprendo la distribuzione alla rete, la tv diventa subito
globale e spiana la strada ai produttori internazionali disposti a
vendere i loro contenuti direttamente ai consumatori americani.
Google e Yahoo! hanno iniziato a stringere accordi con i produtto­
ri di media nella speranza di ricavare profitti da questa nuova eco­
nomia del download televisivo. Tutto questo è arrivato tardi per
Global Frequency e finora i produttori di The West Wing e Arrested
Development non si sono ancora affidati al modello basato sull’ab-
bonamento. Tuttavia, sono in molti a pensare che prima o poi
qualche produttore sonderà le acque, proprio come ha fatto ABC-
Disney con il suo annuncio per il video iPod. Anche in questo caso,
probabilmente ci saranno molti altri che aspettano al varco per lan­
ciarsi nell’affare, dopo aver appurato la risposta positiva del pub­
blico. Quello che una volta sarebbe sembrato come il frutto della
fantasia di un ragazzino appassionato, oggi sembra avvicinarsi sem­
pre più alla realtà.
Mentre produttori, analisti e fan hanno considerato il caso di
Global Frequency per esplorare i modi di rielaborare la distribuzio­
ne di contenuti televisivi, la vicenda della serie ci offre anche qual­
che strumento in più per riflettere sulle nuove tipologie di comuni­
tà del sapere di cui si è scritto in questo libro. Se si cerca, nel mon­
do reale, un esempio simile a Global Frequency Network, basta
guardare a Wikipedia - una iniziativa grassroots e multinazionale
per costruire un’enciclopedia gratuita online, scritta in collabora­
zione da un’armata di volontari in circa duecento lingue diverse.
Finora, i principi “adhoc-cratici” sono stati accolti dal movimento
open-source, in cui informatici di tutto il mondo collaborano a pro­
getti finalizzati al bene comune. Wikipedia rappresenta l’applica­
zione di tali principi nella produzione e nella gestione della cono­
scenza. Wikipedia contiene più di 1.6 milioni di voci e riceve, ogni
giorno, circa 60 milioni di visite24.
Forse l’aspetto più controverso e interessante del progetto
Wikipedia riguarda la rottura dell’idea ufficiale del sapere (dai temi
generalmente “approvati” dalle enciclopedie tradizionali a una più
ampia varietà di argomenti per specifici gruppi di interesse e sub­
culture) e di quella di expertise (dai titoli accademici riconosciuti a
qualcosa di più simile all’idea di intelligenza collettiva elaborata da
Pierre Lévy). Alcuni sono preoccupati che l’enciclopedia possa
contenere molte informazione approssimative, ma la comunità di
280 C o n c l u s io n e

Wikipedia, nelle sue migliori espressioni, agisce come un’adhoc-


crazia auto-correttiva. Ogni informazione immessa e pubblicata
può essere (e con tutta probabilità sarà) revisionata e corretta dagli
altri lettori.
Affinché questo processo funzioni, tutti i coinvolti dovranno
impegnarsi a includere e rispettare le differenze. Il progetto Wiki-
pedia ha ritenuto necessario sviluppare una sua politica e una sua
etica - una serie di norme comunitarie - sullo scambio della cono­
scenza:

Probabilmente, via via che cresciamo, troverem o quasi tutti i punti di


vista su qualsiasi argomento tra i nostri autori e i nostri letto ri... ma
poiché Wikipedia è una risorsa internazionale e comunitaria, natural­
mente non possiamo aspettarci l’accordo totale, e neppure frequente,
dei nostri collaboratori, su cosa costituisca la conoscenza in senso
stretto ... Dobbiamo sforzarci di presentare correttam ente queste teo­
rie in conflitto, senza parteggiare per l’una o per l’a ltra... Quando è
chiaro ai lettori che noi non ci aspettiamo da loro che adottino una
particolare opinione, ciò contribuisce a farli sentire liberi di formarsi
una loro opinione e perciò ne incoraggia Vindipendenza intellettuale.
Così, i governi totalitari e le istituzioni dogmatiche di qualunque po­
sto, hanno ragione di opporsi a W ikipedia... Noi, i suoi creatori, ci af­
fidiamo alla capacità dei lettori di farsi la propria idea. I testi che pre­
sentano onestamente i meriti di più prospettive, senza pretendere che
il lettore ne accetti una o un’altra, sono liberatori.25

Non crederete a Wikipedia fin quando non la proverete, ma il


processo funziona. Funziona perché sempre più persone prendono
sul serio gli obblighi che sono loro richiesti in quanto membri della
comunità. Ciò non significa, chiaramente, che già tutti si compor­
tino in tal senso. Possiamo assistere, infatti, a scontri tra persone di
diverse posizioni etiche e politiche che interagiscono alPinterno
delle stesse comunità del sapere. Tali dispute spesso pongono in
primo piano quanto si dà per scontato e che invece è fonte di con­
flitto, costringendo le persone a riflettere più a fondo sulle loro
scelte. Ciò che una volta era preso per buono, oggi deve essere
spiegato. Quella che emerge è una sorta di economia morale
delPinformazione, ovvero un senso di obbligo reciproco e di aspet­
tative condivise sul concetto di buona cittadinanza alPinterno di
una comunità del sapere.
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 281

Potremmo pensare le comunità di fan fiction come l’equivalente


letterario di Wikipedia: intorno a ogni specifica proprietà dei me­
dia, gli scrittori costruiscono una vasta gamma di interpretazioni,
espresse attraverso le storie. Lo scambio di questi racconti apre
nuovi percorsi di senso nel testo. Qui, i contributi individuali non
devono necessariamente essere neutrali; i partecipanti semplice-
mente devono essere d’accordo nel non essere d’accordo, a tal pun­
to che molti fan iniziano ad apprezzare versioni diverse degli stessi
personaggi e delle stesse situazioni. Dall’altro lato, i mass media
hanno puntato a esercitare un controllo stretto sulla proprietà in­
tellettuale, per dominare gli svariati processi di interpretazione del
testo e dettare un’unica versione ufficiale. Tali controlli stretti ac­
crescono la coerenza del franchise e proteggono gli interessi econo­
mici del produttore, ma la cultura è impoverita da tanta regola­
mentazione. La fan fiction ripara i danni causati da una cultura
sempre più privatizzata. Prendiamo per esempio questa dichiara­
zione di un fan:

Ciò che amo della fandom è la libertà che qui è concessa di creare e
ricreare i personaggi più e più volte. La fan fiction resta raramente im­
mobile. Come un organismo vivente e in evoluzione, è dotata di vita
propria, una storia ne ispira un’altra, le idee rimbalzano da uno scrit­
tore a un altro e addirittura si fondono insieme fino a dare alla luce
una nuova creazione... Trovo che la fandom può essere estremamente
creativa, perché siamo capaci di cambiare i nostri personaggi e trasfor­
marli in continuazione. Possiamo ucciderli e resuscitarli ogni qual vol­
ta lo desideriamo. Possiamo cambiare le loro personalità e i loro modi
di reagire alle varie situazioni. Siamo in grado di prendere un perso­
naggio e di renderlo dolce e attraente oppure crudele e spietato. Pos­
siamo dare loro una vita infinita e sempre in evoluzione invece di quel­
la singola vita dell’opera originale.26

I fan rifiutano l’idea di una versione definitiva, autorizzata e re­


golata da qualche conglomerato mediatico. Piuttosto, essi immagi­
nano un mondo dove tutti possiamo partecipare alla creazione e al­
la circolazione di una mitologia culturale. In questo senso, il pre­
supposto della partecipazione alla cultura è “la libertà che noi stessi
ci siamo concessi”, non un privilegio accordato dalla benevolenza
di un’impresa. Essi non sono disposti a barattare questa acquisizio­
ne per file audio di qualità migliore o per un sito Web gratuito. I
282 C o n c l u s io n e

fan, inoltre, rifiutano l’idea (sostenuta dalle case cinematografiche)


della proprietà intellettuale come “bene limitato”, che perciò deve
essere messo sotto chiave onde evitare di diluirne il valore. Diver­
samente, essi accolgono la visione di proprietà intellettuale come
“condivisione”, qualcosa che aumenta di valore nella misura in cui
si dislochi tra vari contesti, venga raccontata in modi diversi, at­
tragga pubblici molteplici e si apra al proliferare di significati alter­
nativi.
Nessuno è in grado di immaginare un momento in cui tutte le
burocrazie diventeranno adhoc-crazie. Il potere concentrato tende
a rimanere tale. Tuttavia, vedremo che i principi adhocratici ver­
ranno applicati a progetti sempre più vari. Tali esperimenti prospe­
rano all’interno della cultura convergente, in cui gli spettatori - in­
dividualmente e collettivamente - possono riplasmare e riconte­
stualizzare i contenuti massmediatici. Buona parte di tale attività si
svolgerà alla periferia della cultura commerciale, per opera di me­
dia di nicchia e grassroots, come fumetti o giochi. Su quella scala,
piccoli gruppi come le Sequential Tarts possono fare una differen­
za sostanziale e gli imprenditori sono incentivati a dare ai consu­
matori maggiori opportunità di partecipazione alla creazione e di­
stribuzione di contenuti. Procedendo verso il centro, verso le im­
prese più vecchie e commerciali, la resistenza alla partecipazione
grassroots aumenta: gli interessi in ballo non permettono la speri­
mentazione e l’impatto economico di ogni specifica comunità di
consumo va a scemare. Tuttavia, anche all’interno di queste impre­
se ci sono dei potenti alleati che per loro ragioni potrebbero appel­
larsi al supporto del pubblico per avere man forte nelle scelte
aziendali. Un’impresa che non voglia perdere il suo pubblico più
affezionato di fronte alla concorrenza degli altri media potrebbe
vedersi costretta a correre più rischi per soddisfare gli interessi dei
consumatori.
Come abbiamo avuto modo di vedere, la cultura convergente è
altamente prolifica: alcune idee si diffondono dall’alto al basso,
partono dai media commerciali e vengono adottate e fatte proprie
dai diversi pubblici mentre si aprono verso l’esterno attraverso
l’elaborazione culturale. Altre idee emergono dal basso dei vari siti
di cultura partecipativa ed entrano negli spazi più commerciali, se
qualche impresa vi vede qualche possibilità di profitto. Il potere dei
media grassroots sta nella diversificazione, quello dei media broad­
cast nell’amplificazione. Ecco perché dovremmo occuparci più che
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 283

altro della loro interazione: l’espansione del potenziale partecipati­


vo rappresenta la più grande opportunità per la diversità culturale.
Se gettassimo via il potere del broadcasting avremmo solo fram­
mentazione culturale. Il potere della partecipazione non ha origine
dalla distruzione della cultura commerciale, ma dalla sua riscrittu­
ra, dalla sua correzione ed espansione, dall’aggiungervi una varietà
di prospettive, poi dal rimetterla in circolo diffondendola attraver­
so i media mainstream.
Letta in questi termini, la partecipazione diventa un diritto po­
litico fondamentale. Nel contesto statunitense, si può sostenere che
la protezione garantita dal Primo Emendamento rispetto alle liber­
tà di espressione, di stampa, di convinzione e di riunione, rappre­
senti il diritto più astratto alla partecipazione a una cultura demo­
cratica. Dopo tutto, il Primo Emendamento è sorto nell’ambito di
una cultura folk piuttosto florida, dove era consueto che storie e
canzoni fossero rinarrate molte volte per diversi scopi. I suoi docu­
menti ufficiali furono scritti da uomini che si appropriavano dei
nomi degli oratori classici e degli eroi mitologici. A quei tempi, la
libertà di stampa spettava, di fatto, solo a coloro che potevano per­
mettersi l’acquisto di una pressa tipografica. L’emergere delle tec­
nologie dei nuovi media asseconda la spinta democratica a permet­
tere a sempre più persone la creazione e la circolazione di prodotti
mediatici. A volte, essi sono progettati in risposta ai contenuti dei
mass media - in positivo o in negativo - e altre volte la creatività
grassroots visita luoghi mai immaginati dall’industria commerciale.
La sfida consiste oggi nel reinterpretare il Primo Emendamento nei
termini di un’opportunità espansa di partecipazione. Dobbiamo,
perciò, tenere conto dei suoi impedimenti - siano di mercato o di
governo - come altrettanti ostacoli da aggirare se vogliamo “demo­
cratizzare la televisione” o qualsiasi altro aspetto della nostra cultu­
ra. Nel libro sono stati individuati alcuni di questi ostacoli, dedi­
cando più attenzione all’analisi delle sfide in atto da parte delle
grandi aziende per il controllo della proprietà intellettuale e per la
necessità di una definizione più chiara dei diritti di “fair use”, che
hanno artisti, scrittori, giornalisti e critici amatoriali che vogliono
condividere opere ispirate a (o da) contenuti mediatici esistenti.
Un altro ostacolo grave può essere costituito dal gap di parteci­
pazione. Finora, gran parte del dibattito sul digitai divide ha messo
in primo piano il problema dell’accesso, analizzando la questione
soprattutto in termini tecnici, ma un medium è qualcosa di più di
284 C o n c l u s io n e

una tecnologia. Quando gli attivisti hanno esplorato una varietà di


mezzi per ampliare l’accesso ai media digitali, hanno dato vita a un
crogiuolo di occasioni partecipative. Alcuni hanno un accesso am­
pio a queste risorse da casa, e altri ne hanno uno limitato, filtrato e
regolato dalle scuole e dalle biblioteche pubbliche. Dobbiamo ora
confrontarci con i fattori culturali che diminuiscono la possibilità
di partecipazione per i diversi gruppi. Le differenze di razza, classe
e lingua amplificano le disparità nelle opportunità di partecipazio­
ne. La ragione fondamentale per la quale ci sono degli early adop-
ters non è tanto e solo la loro confidenza nei confronti delle nuove
tecnologie, quanto il fatto che certi gruppi sembrano più a loro
agio nelPintervenire pubblicamente con le loro idee sulla cultura.
Nella storia, l’educazione pubblica degli Stati Uniti è stata il
prodotto del bisogno di distribuire le capacità e le conoscenze ne­
cessarie alla preparazione di cittadini informati. Il gap di partecipa­
zione acquista ancora più importanza se pensiamo a che cosa vor­
rebbe dire favorire le competenze e le conoscenze necessarie ai cit­
tadini monitoranti: in questo ambito, la sfida non riguarda solo il
saper leggere e scrivere, ma Tessere in grado di deliberare su quali
sono i problemi importanti, quali conoscenze contano, e quali me­
todi di conoscenza meritano autorevolezza e rispetto. L’ideale del
cittadino informato sta crollando perché ci sono troppe conoscen­
ze che ogni individuo dovrebbe padroneggiare. L’ideale della citta­
dinanza monitorante dipende dallo sviluppo di nuove capacità di
collaborare e di una nuova etica del sapere condiviso che ci per­
metterà di deliberare in modo collettivo.
Le persone stanno oggi apprendendo le modalità partecipative
di queste comunità, al di fuori di un contesto di istruzione formale.
Per buona parte, l’apprendimento ha luogo in quegli spazi di affi­
nità che crescono intorno alla cultura popolare. L’emergere di que­
ste comunità del sapere riflette parzialmente le aspettative che que­
sti testi ripongono nei consumatori (la complessità dell’intratteni­
mento transmediale, per esempio), ma rispecchia anche quelle che
i consumatori ripongono nei media (la voglia di complessità, il bi­
sogno di comunità, il desiderio di riscrivere storie centrali). Molte
scuole rimangono apertamente ostili verso questi tipi di esperienze
e continuano a promuovere la soluzione autonoma dei problemi da
parte di alunni autosufficienti. In questo campo, la collaborazione
non autorizzata è considerata una truffa. Alla fine della stesura di
questo libro, la mia attenzione si è concentrata in maniera crescen­
D e m o c r a t iz z a r e la t e l e v is io n e ? 285

te sull’importanza dell’educazione all’alfabetismo mediale. Molti


degli attivisti impegnati su questo fronte si comportano ancora co­
me se il ruolo dei mass media fosse rimasto immutato nonostante
l’introduzione delle nuove tecnologie. I media sono letti più come
minacce che come risorse. La maggiore attenzione nei loro con­
fronti è rivolta ai pericoli della manipolazione piuttosto che alle
possibilità di partecipazione, alla necessità di restringerne l’accesso
- spegnere la tv, dire no a Nintendo - piuttosto che ad applicare le
capacità acquisite nel loro impiego per i propri scopi e nella riscrit­
tura della nostra cultura. Uno dei modi per plasmare il futuro della
cultura consiste nel resistere ad approcci all’alfabetizzazione ai me­
dia che scoraggiano e deresponsabilizzano. Abbiamo bisogno di ri­
vedere gli obiettivi dell’educazione ai media in modo che i giovani
possano sentirsi produttori partecipi alla cultura, e non soltanto
consumatori, critici o meno. Per raggiungere questo scopo, c’è bi­
sogno di un’educazione ai media anche per gli adulti. I genitori, per
esempio, ricevono una grande quantità di consigli sul concedere o
meno il televisore nella camera dei loro figli o sulle ore settimanali
permesse per il consumo mediale. Tuttavia, essi non ricevono quasi
nessuna indicazione su come aiutare i bambini a sviluppare un rap­
porto significativo con i media.
Benvenuti nella cultura convergente, dove vecchi e nuovi media
collidono, dove i grandi media e i media grassroots si incrociano,
dove il potere dei produttori dei media e quello dei consumatori
interagiscono in modi imprevedibili. La cultura convergente è il fu­
turo, ma sta prendendo forma oggi. I consumatori ne usciranno più
potenti, ma soltanto se sapranno riconoscere e usare quel potere in
veste di consumatori e cittadini, come partecipanti attivi della no­
stra cultura.
P o s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a l ia n a

Estendere la conversazione

Ho scritto Cultura convergente con l’obiettivo di avviare una


conversazione con il pubblico in generale sulla natura del cambia­
mento dei media e sulla forma che sta assumendo la nostra cultura
in un’era di convergenza e di intelligenza collettiva. Ma nel farlo
mi rendevo dolorosamente conto che il mondo che descrivevo era
ancora in una condizione di flusso. E passato meno di un anno da
che è stata pubblicata l’edizione in lingua inglese, e abbiamo visto
la formidabile crescita di YouTube e Second Life, la reazione con­
tro MySpace e i software di social networking, l’attrito sempre più
forte fra utenti e produttori in merito al contratto sociale implicito
che definisce il Web 2.0, l’uso di queste nuove piattaforme media-
tiche da parte dei candidati alla presidenza degli Usa, la formidabi­
le diffusione degli iPod e iPhone come nuovi media-domestici. Sot­
to molti aspetti, ciascuno di questi sviluppi riflette l’estensione del­
le tendenze che questo libro descrive, mentre la convergenza dà
una nuova forma al mondo in cui viviamo giorno per giorno, anche
ora per ora.
Per tenere il passo con questi sviluppi, permettetemi di invitarvi
a seguire il mio blog, all’indirizzo henryjenkins.org. Nel blog trove­
rete le mie riflessioni su tutta una serie di questioni, interviste ad al­
cune delle persone che plasmano o studiano il paesaggio dei media,
messaggi di ricercatori che contribuiscono ai progetti del Compa­
rative Media Studies Program del M IT, e altri materiali che do­
vrebbero interessare quelli di voi che sono arrivati fino a questo
punto nella lettura del libro.
Quelli che seguono sono brani tratti dal primo anno di vita del
mio blog, che approfondiscono alcuni degli argomenti trattati nel
288 Po s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a lia n a

libro. Indico l’indirizzo dei post originali, per chi volesse approfon­
dire questi temi (e altri che vi sono collegati).
In qualche caso, il blog aggiorna specificamente la riflessione su
qualcuno dei franchise di cui si parla nel libro. Ecco, per esempio,
qualcuna delle mie riflessioni su quel che è successo a Star Wars
Galaxies, il gioco multiplayer di cui si discute nel Capitolo 4.

Il collasso di un impero: Star Wars Galaxies ci indica


i modi giusti e quelli sbagliati di corteggiare i fan
http://www.henryjenkins.org/2006/07/so_what_happened_to_star_wars.html

Verso la fine del 2005, l’azienda ha annunciato di voler rivita­


lizzare radicalmente le regole e il contenuto del gioco, una decisio­
ne che le ha alienato il favore di quasi tutti i giocatori, portando a
defezioni in massa. Resta da vedere se il progetto attirerà nuovi
consumatori; è chiaro invece che una parte significativa della pre­
esistente cultura dei fan è stata distrutta.
Le dichiarazioni di Nancy Maclntyre, senior director del gioco
per la LucasArts, al New York Times illustrano il grande cambia­
mento di idee dalla filosofia originale di Koster a questo franchise
“ristrutturato”: “Avevamo proprio bisogno di rendere il gioco
molto più accessibile a una base di giocatori molto più ampia.
C ’era tantissimo da leggere, davvero troppo, nel gioco. C’erano un
sacco di chiacchiere sull’imparare abilità diverse. Dovevamo pro­
prio dare alla gente l’esperienza di essere Han Solo o Luke
Skywalker anziché Zio Owen. Volevamo una gratificazione più ve­
loce: colpisci, prendi il tesoro, ricomincia. Avevamo bisogno di da­
re alla gente una maggiore opportunità di essere parte di quello che
hanno visto nei film, e non di qualcosa che hanno creato loro.”
I commenti di Maclntyre raccolgono un classico insieme di er­
rori su come costruire una comunità di fan attorno a una proprietà
intellettuale.

1. Non bisogna confondere “accessibilità” con semplicità. Co­


me nota Steve Johnson nel libro Everything Bad is Good Por You
[Tutto quello che fa male ti fa bene, Mondadori, Milano, 2006] o
come sostiene James Paul Gee nel suo libro, Video GamesAre Good
Por thè Soul, il pubblico dei media contemporanei cerca la com­
plessità, non la semplicità. I videogiochi che hanno più successo sul
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 289

mercato sono quelli che chiedono di più ai giocatori - non quelli


che richiedono minore impegno. La chiave per avere un gioco di
successo non è un contenuto stupido, ma una complessità organiz­
zata e gestita in modo che gli utenti la possano maneggiare.

2. Non sottovalutate l’intelligenza dei consumatori. I giocatori


non sono illetterati. Le statistiche dicono che il giocatore medio ha
una trentina d’anni (o qualcuno meno o qualcuno di più) e ci sono
tutte le indicazioni che il mercato dei giochi è in espansione, man
mano che la prima generazione di giocatori invecchia. I consuma­
tori di Star Wars Galaxies erano mediamente un po’ più vecchi e,
proprio per questo, volevano qualcosa di diverso rispetto all’espe­
rienza di gioco desiderata dai fan di Star Wars più giovani. E se
pensate che i vostri consumatori siano idioti, non è un’idea brillan­
te dirlo ai giornalisti del New York Times. I fan leggono i quotidia­
ni e, in quanto membri di una comunità a intelligenza collettiva,
hanno una rete enorme per la circolazione delle informazioni che
interessano al gruppo.

3. In un’era di narrazione transmediale, non date per scontato


che i fan vogliano la stessa esperienza da ogni episodio o versione
dello stesso franchise. Ci sono molti film, libri, fumetti e giochi che
si concentrano sull’esperienza dei protagonisti centrali della serie.
Koster saggiamente si è reso conto che qualche singolo giocatore
vuole ESSERE Luke Skywalker o Hans Solo, ma un mondo in cui
tutti fossero Jedi sarebbe noióso per tutti i suoi abitanti. Invece ha
creato un mondo di gioco in cui c’erano molte classi diverse di gio­
catori (compresa la classe Intrattenitore) e in cui tutti questi diversi
ruoli interagivano in una complessa ecologia di esperienze.

4. Non sottovalutate la varietà delle culture dei fan. Contraria­


mente a quello che spesso si sostiene, i prodotti dei media di mag­
gior successo non sono attraenti per il minimo comun denominato-
re, ma raccolgono una coalizione di micro-pubblici, ciascuno con i
propri interessi per il materiale, ciascuno che esprime i propri col-
legamenti emotivi con il contenuto a modo suo. Così, Star Wars ha
un seguito molto ampio o molto variegato, interessato alle cose più
varie, dalla flora e dalla fauna alle interrelazioni fra i personaggi.
Data tanta varietà, perché si dovrebbe immaginare che i compo­
nenti della sezione principale del mercato vogliano solo far saltare
290 P o s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a l ia n a

in aria le cose? Perché, data la ricchezza dell’espressione creativa


dei fan attorno a Star Wars si dovrebbe pensare che quello di Luke
Skywalker sia l’unico ruolo che interessi alla gente? L’obiettivo do­
veva essere ampliare la gamma delle esperienze disponbili nel gio­
co, invece di smantellare quello che attraeva un pubblico, nella spe­
ranza di attirarne un altro.

5. Non sacrificate la base di fan esistente per cercare un merca­


to totalmente diverso. Il tipo di culture dei fan, robuste e creative,
che Wright e Koster descrivono nei loro commenti sono difficili da
costruire e ancor più difficili da ricostruire. Fino a un certo grado,
i fan devono trovare prodotti dei media che soddisfino le loro ne­
cessità, anche se le aziende possono adottare politiche delle relazio­
ni con i fan che le rendano più ricettive nei loro confronti e contri­
buiscano a sostenere quelle comunità, una volta che emergono.
Koster ha faticato parecchio per conquistare i fan di Star Wars che
erano scettici delle sue iniziative, data la storia precedente dei gio­
chi legati al franchise, che erano tutti titoli semplicistici, orientati
all’azione e pensati per giocatori solitari.

* ìv *

Oppure considerate questo post, che svolgeva ulteriormente le


mie idee su The Matrix e la narrazione transmediale del Capitolo 3,
analizzando la costruzione di un altro franchise, Pirati dei Caraibi.

Il piacere dei pirati e quello che ci dice


sulla costruzione dei mondi nelVintrattenimento marchiato
http://www.henryjenkins.org/2007/06/forced_simplicity_and_the_crit.html

Di regola, mai fidarsi dell’opinione di un critico cinematografi­


co affermato a proposito di un film con un numero dopo il titolo -
e il grado di sfiducia va moltiplicato per ogni numero superiore a
due. La stessa idea di intrattenimento basato su franchise sembra ti­
rar fuori le peggiori idee della cultura “alta” nella maggior parte
dei critici cinematografici americani (e al di fuori degli Stati Uniti
la situazione è altrettanto senza speranza). I franchise sono visti
esclusivamente in termini della loro funzione economica entro il
supersistema dell’intrattenimento di Hollywood, come se Hol-
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 291

lywood facesse film che non hanno senso dal punto di vista econo­
mico. I franchise vengono visti come abominii estetici e i critici non
mostrano molto interesse a esplorare quali tipi di nuove esperienze
siano resi possibili dalla serialità. E così i critici rispondono ai se-
quel con atteggiamento straordinariamente conservatore, dando
per scontato che tutto quello che i film possono fare sia riprodurre
al meglio possibile i piaceri offerti dal primo della serie, invece di
immaginare il quadro più ampio che diventa possibile consentendo
alle persone di lavorare nell’ambito delle attese generiche create
dalle opere precedenti, eppure al contempo di trasformarle.
Per essere giusti, una percentuale elevata dei film di franchise
sono costruiti su formule che hanno poca o nessuna motivazione
estetica. Ma questo non vale per tutti i sequel e non dice nulla della
funzione che hanno i sequel nel paesaggio dei nuovi media. Per es­
sere giusti, la maggior parte dei sequel si appoggiano più sulla ri­
sposta del passaparola che non alle recensioni in sé, perché la mag­
gior parte degli appassionati dell’intrattenimento popolare hanno
imparato a non fidarsi dei critici su questi argomenti.
Tutto questo mi viene in mente mentre rifletto sulla valanga di
critiche negative che si è abbattuta sul nuovo film della serie dei Pi­
rati, Pirati dei Caraibi: Ai confini del mondo. Andate a vedere il sito
web Rotten Tomatoes, che ha i collegamenti a decine di recensioni
online del film, quasi tutte negative, quasi tutte sintonizzate sullo
stesso tema:
1. Il film è troppo complicato e chiede troppo ai suoi consumato­
ri. Vogliamo che i film dell’estate siano grandi, rumorosi e stu­
pidi.
2. Il film non offre abbastanza spazio a Jack Sparrow, il personag­
gio di Johnny Depp, che sembra essere l’unica ragione per cui
gli spettatori dovrebbero essere interessati a un film di questo
genere.
3. Il film non ha un intreccio con una traiettoria semplice e diret­
ta, ma continua a spostarsi lungo una serie di scene e di digres­
sioni, che in prevalenza portano in scena personaggi secondari
(cioè qualunque personaggio non sia Jack Sparrow).
Questo riassunto per sommi capi cattura la sostanza, anche se
non il tono di queste recensioni, che sembra quello di una critica a
ciò che autori come Jason Mittell e Steven Johnson hanno descritto
292 P o s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a lia n a

come la complessità crescente della cultura popolare contempora­


nea. Prendiamo qualche esempio, più o meno casuale, delle decine
di recensioni elencate nel sito:

Con così tanti fili da tirare, Ai confini del mondo è così pazzescamente
pesante nell’intreccio da richiedere scena dopo scena di esposizione, e
tutto va semplicemente a fondo sotto il peso della storia... Fatta ec­
cezione per qualche momento di grandi effetti speciali, Ai confini del
mondo è praticamente TU TTO esposizione, e i fan finiranno per stan­
carsi della storia, complicata senza necessità, poiché non c ’è abbastan­
za azione da intrattenerli per quasi tre ore.
- Brian Tallerico, UnderGround Online

Ma anche se volessi rovinare le cose, non potrei. Questo film è male­


dettamente difficile da seguire. Succedono così tante cose diverse,
qualche volta tutte insieme, che è difficile tenere il conto di chi sta su
quale nave, chi tradisce chi e anche chi viene ucciso, dove e come. E
non importa se avete visto i primi due film della serie o no. Ne meste­
rete comunque confusi.
- Gene Seymour, Newsday

Tutte le maledizioni, le vendette, i tradimenti reciproci, le riconcilia­


zioni, i gingilli, le negoziazioni e i mostri del mare che desiderano es­
sere ancora esseri umani mi hanno provocato un affaticamento men­
tale prima del traguardo delle due ore. I blockbuster estivi possono
avere molti obiettivi, ma l’affaticamento mentale non dovrebbe farne
parte... Perciò sì, Ai confini del mondo ha qualche cosa di divertente.
Se solo non fosse così imbottito fino alle branchie di parti in movimen­
to.
- Chris Vognar, Dallas Morning News

Qui sicuramente non c’è alcun riconoscimento per le ambizioni


di Ai confini del mondo, nessun apprezzamento per tutti i nuovi ti­
pi di richieste concettuali che fa ai suoi spettatori, nessuna lode per
la perizia tecnica che incorpora. No, e invece viene reinfilato nella
stessa scatola in cui i critici sistemano tutto l’intrattenimeno popo­
lare. L’idea che le pellicole per l’estate siano senza testa e motivate
da considerazioni esclusivamente commerciali viene sovrapposta a
forza a questo film; Ai confini del mondo viene condannato per
ogni passo che fa oltre i confini di un film costruito in modo total­
mente classico.
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 293

Il problema è che Ai confini del mondo non è un film costruito


in modo classico. Non c’è alcun dubbio che i personaggi abbiano
degli obiettivi, che ci siano collegamenti causali fra le loro azioni, o
che il film sia basato su uno stile di montaggio dalla continuità in­
tensificata. Ma, sotto molti aspetti, il nocciolo del film non è rac­
contare una storia lineare classica. Questo film vuole esplorare un
mondo e gran parte della sua complessità emerge dal fatto che ab­
biamo saputo accumulare e padroneggiare tante informazioni su
quel mondo grazie ai primi due film. Questo è uno dei migliori film
estivi che abbia visto da molto tempo a questa parte ed è un esem­
pio potente dei modi in cui la cultura della convergenza sta cam­
biando il funzionamento dell’intrattenimento a franchise.
In Cultura convergente spiego che il centro dell’attenzione di
Hollywood si è spostato dalle storie come generatrici di idee filmi­
che ai personaggi che possono sostenere dei sequel ai mondi che
possono dispiegarsi su più piattaforme mediatiche. Questo sposta­
mento è per uno spettatore molto più attivo, che vuole vedere i
film preferiti più e più volte, facendo nuove scoperte ogni volta, e
che si diverte a raccogliere informazioni online e a confrontare le
proprie riflessioni in una più ampia cultura della conoscenza. Ho
utilizzato The Matrix come esempio estremo di questa tendenza
all’intrattenimento transmediale e a film orientati più alla costru­
zione di mondi che ai personaggi o all’intreccio. The Matrix, in un
certo senso, chiedeva agli spettatori più di quello che erano prepa­
rati a dare, poiché disponeva il suo materiale in film, animazioni,
fumetti e giochi, con pochissima ridondanza nel passaggio da una
piattaforma all’altra. I sequel sono finiti nel punto cieco dell’occhio
della maggior parte dei critici, che restano legati a un unico me­
dium e non erano preparati ad accettare i giochi, i fumetti o i film
di animazione come contributo allo stesso metatesto.
Ai confini del mondo adotta una strategia un po’ più prudente -
mantenere tutto (più o meno) nei tre film, ma nei film successivi
della serie raggiungere una densità di informazione che non sareb­
be stata possibile nel primo titolo del franchise. L’insistenza dei cri­
tici sul personaggio di Depp, Jack Sparrow, fa pensare che abbiano
perso un passo nell’evoluzione dei franchise mediatici - e siano ri­
masti fermi al tempo in cui i sequel si basavano sul fascino di un
unico personaggio ben definito. Non fraintendetemi - Sparrow è
un grande personaggio e quella di Depp è una prestazione magi­
strale. Senza Sparrow, il primo film non potrebbe mai aver rag­
294 P o s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a l ia n a

giunto quel suo grande fascino - che è una cosa strana da dire di un
personaggio effeminato, eccentrico ed egocentrico come questo. E
sì, sono d’accordo, non c’è abbastanza Depp nel terzo film - cosa
strana da dire visto che ci ci sono parecchie sequenze in cui Depp
recita tutte le parti. Ma, sin dagli inizi, i film dei Pirati hanno avuto
successo grazie a un cast straordinario, di cui fanno parte alcuni de­
gli attori migliori o più interessanti del cinema contemporaneo
(Geoffrey Rush, Orlando Bloom, Keira Knightley, Bill Nighy, Stel-
lan Skarsgard, Naomie Harris) e, per il terzo film, possiamo ag­
giungere le performance, brevi ma memorabili, di Yun-Fat Chow e
Keith Richards e una serie molto più ampia di caratteristi, ciascuno
dei quali ha il suo momento sotto i riflettori. Abbiamo incontrato
questi personaggi nel tempo, introdotti un po’ alla volta nei primi
due film, e ora i registi sono in grado di metterli insieme, di metter­
li uno contro l’altro, in una serie di alleanze e conflitti variabili.
Tutto questo tiene il film costantemente in movimento e ci dà un
“aggancio” emozionale per quasi ogni singola scena.
Poi, considerate tutte le gag che vedono in causa i vari pirati (e
i loro animali) a bordo della Perla nera e pensate come l’uso di in­
crostazioni molto caratteristiche ma riconoscibili, sui vari membri
dell’equipaggio dell’Olandese volante, ci permettano di riconosce­
re e ricordare tutti quei personaggi secondari ogni volta che com­
paiono sullo schermo.
E poi pensate a come il dispositivo del Consiglio dei Pirati per­
metta al film di alludere a una schiera di culture dei pirati differenti
e globali - pirati cinesi, pirati dell’Asia meridionale, pirati dell’est
europeo, pirati spagnoli, pirati francesi ecc. - che possono essere
evocati rapidamente, inquadratura per inquadratura, mentre si ve­
de il film. Sono rimasto intrigato all’idea che i pirati, che viaggiano
in mare aperto invece di stare sotto costa e di seguire le vie com­
merciali, stabiliscono un diverso insieme di zone di contatto delle
nazioni a cui appartengono, e dagli indizi della composizione mul­
ticulturale degli equipaggi dei pirati (anche tenendo conto degli
impulsi polìtically correct di rappresentazione e inclusione che
hanno informato questa particolare rappresentazione del proces­
so).
Oppure pensate alla ricchezza dell’atmosfera della Singapore
nel diciannovesimo secolo ricostruita nel film, che dipende da tutta
una serie di dettagli, che molti spettatori potranno registrare co­
scientemente o meno, ma che suggeriscono un contesto culturale e
E stend ere la c o n v e r s a z io n e 295

storico specifico molto più ampio delle azioni del film. Alle figure
principali sono dati archi narrativi che legano fra loro fili dell’in-
treccio che arrivano dai film precedenti e a ciascuno è assegnato al­
meno un momento (o più di uno) di transizione e disvelamento. I
personaggi secondari si basano pesantemente su quella che il mio
ex studente Geoffrey Long definisce “capacità negativa” - sono ab­
bastanza ben definiti perché possiamo immaginare chi sono, che
cosa vogliono e perché fanno quello che fanno, ma per il pubblico
rimane molto da cavare dalla propria immaginazione. Il Consiglio
dei Pirati, in particolare, ci invita a mettere insieme quello che sap­
piamo da altre fonti, e ci fa capire che il mondo di questo franchise
è molto più ampio e differenziato di quello che potevamo aver so­
spettato fino a questo punto. Qui viene comunicato così tanto, at­
traverso i particolari del trucco, del disegno dei costumi e della re­
gia, da evocare una cultura complessa dietro personaggi che po­
trebbero non avere mai un nome e che potrebbero comparire solo
in qualche inquadratura o in qualche scena.
Il film, in altre parole, ci lancia un sacco di cose e si aspetta che
riusciamo ad afferrarle. I critici hanno lasciato cadere la palla, ma
il film gioca onestamente - c’è un motivo, una ragione, una spiega­
zione dietro ogni elemento, e le parti si sommano in un tutto sod­
disfacente, se colleghiamo fra loro tutti i pezzi. Per qualcuno vera­
mente impegnato nel guardare il film, il risultato è l’epistemofilia,
una folle ondata di informazioni che vengono veicolate insieme e si
infilano con un clic nella categoria mentale giusta. Ho avuto questa
esperienza anche se avevo visto La maledizione del forziere fanta­
sma quasi un anno prima. Posso solo immagiinare i piaceri che ci
aspettano quando potremo vedere tutti e tre i film uno dopo l’altro
in una maratona di Dvd o tutti i dettagli significativi che riuscirò a
cogliere alla seconda o alla terza visione - e questo è parte di quel
che volevo dire. I modi in cui consumiamo questi film sono cam­
biati. La maggior parte dei film non meritano una prima visione,
tanto meno una seconda, ma per quelli che ci soddisfano e ci intri­
gano, una percentuale molto più alta di spettatori è coinvolta in
quelle che un tempo sarebbero state considerate pratiche da visio­
ne cult. Una volta che troviamo un franchise che ci prende, ci di­
sponiamo a una relazione di lungo periodo e vogliamo esplorare
tutti gli angoli e i punti più nascosti. Vogliamo sapere tutto quello
che si possa sapere di questo mondo e i film dei franchise contem­
poranei sono pensati proprio per soddisfare i nostri interessi.
296 P o s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a lia n a

In questo caso, una conseguenza è che ci si affida pesantemente


sulle inquadrature di reazione, mentre leggiamo quello che succede
attraverso gli occhi di una serie di personaggi diversi e proviamo
simpatia per i diversi punti di vista, anche in contraddizone fra lo­
ro. Sotto questo profilo, Ai confini del mondo segue strettamente
quello che altri hanno scritto sulle soap-opera televisive - la reazio­
ne è importante quanto l’azione - anche se in questo caso vediamo
e cerchiamo di assimilare le reazioni magari di tre o quattro perso­
naggi in una singola inquadratura.
Un’altra conseguenza è lo sviluppo di oggetti che incapsulano
relazioni, conflitti, storie e investimenti emotivi. Questo è ancora
nel repertorio standard del melodramma, dove gli oggetti della
persona amata possono veicolare gran parte del peso affettivo della
storia. Ma qui, dato che ci sono così tanti personaggi diversi e così
tanti sottointrecci, abbiamo una proliferazione di oggetti dotati di
significato (bussole, anelli, “pezzi da otto”, bandiere, navi, forzieri
del tesoro, cuori e via elencando) che portano tipi diversi di senso
e di potere e molta parte dell’azione consiste nella presentazione e
nello scambio di questi oggetti fra i diversi personaggi.
Un terzo aspetto del film sembra prendere molto a prestito dai
drammi collettivi della televisione - ogni scena può presentare più
di un personaggio e più di un sottointreccio, con il risultato che il
film va avanti attraverso una serie di in tersezion i e interruzioni dei
suoi sviluppi narrativi. I fili dell’intreccio si incrociano l’uno con
l’altro: una scelta che sembra portare la risoluzione di una linea
d’intreccio apre nuove complicazioni per un’altra linea; una deci­
sione che ha senso da una prospettiva sembra enigmatica da un’al­
tra; e lo spettatore deve stare attento a tutti questi diversi livelli di
sviluppo, deve pensare a quello ch e la scena significa per ciascun
personaggio e per ciascun filo d e ll’intreccio, se vuole trarre dalla
storia tutti i piaceri che può dare. Quella che a tutta prima può
sembrare una digressione può acquistare significato man mano che
il film procede - pensate come u n a serie di battute e di elementi
della scenografia che chiamano in causa, poniamo, delle funi, possa
prendere la forma, con il procedere del film, di una particolare in­
terpretazione del modo, improvvisato e tuttavia attentamente cal­
colato, che ha Jack di muoversi n e l mondo.
Ma, ancora, possiamo guardare il film come una serie di mo­
menti memorabili, godendoci le singole battute o divertendoci a
vedere la gente che salta in aria e, dato che qui succedono così tante
E sten d er e la c o n v e r s a z io n e 297

cose, in generale ce la spasseremo. Come il primo Matrix (e a dif­


ferenza dei suoi sequel), il film è abbastanza viscerale che lo si può
godere anche restando a un livello superficiale.
Il problema è che le persone hanno qualche difficoltà a passare
da una condizione all’altra - se all’improvviso si rendono conto che
il film è molto più complesso e stratificato di quel che avevano pre­
visto, possono cominciare a distrarsi e alla fine a sonnecchiare, che
sembra sia quel che è successo a un’alta percentuale dei critici cine­
matografici. Sono entrati in sala aspettandosi un certo tipo di espe­
rienza; non avevano imparato come trovare piacere nella sua co­
struzione di mondi; non vogliono scavare più a fondo nel film do­
po il fatto, confrontando online le loro reazioni con quelle di altri
spettatori, perché il loro mestiere vuole che passino rapidamente al
film successivo e si concentrino sui loro pensieri privati, individua­
lizzati.
Tutto questo vuol dire che i critici non sono stati imprecisi nella
loro descrizione di A* confini del mondo: è una miscela complessa,
qualcuno direbbe eccessivamente complessa, di elementi narrativi
diversi; ci tira in molte direzioni diverse contemporaneamente;
non è centrato su un singolo protagonista. Dove non siamo d’ac­
cordo è nella nostra esperienza emotiva e nella nostra valutazione
estetica delle caratteristiche del film. Queste sono le ragioni per cui
Ai confini del mondo è il mio preferito nella serie dei Pirati dei Ca-
raibi e non sono certo ragioni per stroncarlo.
Fine dello sproloquio. Voi critici potete spegnere di nuovo il er-
vello. Ma non aspettatevi che io spenga il mio.

Tenere con regolarità un blog mi ha permesso di documentare


e pubblicizzare una serie di forme diverse di interventi dei fan nella
produzione e nella circolazione dei contenuti dei media, prenden­
do spunto dalle riflessioni sulPintelligenza collettiva (nel Capitolo
1) e la cultura partecipativa (nel Capitolo 4).
298 P o s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a lia n a

Lattivismo dei fan in una cultura di rete: il caso di Stargate SG-1


http://www.henryjenkins.org/2006/08/fan_activism_in_a_networked_cu.html

Nell’autunno del 2006, alla viglia del suo duecentesimo episo­


dio, Sci-Fi Channel ha annunciato che non avrebbe ripreso Stargate
SG-1, ponendo fine a una serie che si è estesa per dieci stagioni. La
serie è iniziata su Showtime, dove è stata cancellata dopo cinque
stagioni e poi, grazie alPattivismo dei fan, è stata ripresa da Sci-Fi
Channel, dove è andata in onda per altre cinque stagioni e ha dato
vita a un sequel di successo, Stargate: Atlantis. Si può pensare che
la serie stesse morendo di vita naturale dopo una vita molto più
lunga di quella della maggior parte delle serie (di fantascienza o
d’altro genere) nella storia della televisione americana, o che la rete
e gli artisti creativi stessero dando una “dolce morte” a una serie
che poteva aver superato la sua maturità ma che, per quanto ri­
guarda i suoi appassionati più incalliti, “non è ancora morta”. Stan­
no cercando di raccogliere ancora una volta le loro forze e i loro
sforzi dimostrano quale sia il potenziale dell’attivismo del pubblico
in una cultura di rete.
La prima cosa che colpisce quando si considerano i tentativi del­
la comunità dei fan di salvare SG-1 è la velocità con cui sono stati
in grado di rispondere alla notizia della possibile cancellazione del­
la serie. Il fan contemporaneo è il volontario all’erta di oggi - pron­
to a rispondere immediatamente a informazioni che minacciano la
comunità, non importa che si tratti della notizia della conclusione
della serie o di una lettera di diffida. Sara Goetz, una studentessa
della California, mi ha scritto il giorno dopo che Sci-Fi Network
aveva annunciato il suo verdetto: “Il mondo dei fan di SG-1 non è
nuovo alle campagne, visto che ha fatto lobby quattro anni fa per
far ritornare nella serie un attore particolarmente amato (anche se
si può dubitare se il suo ritorno sia stato merito dei fan o dell’attore
stesso e della casa produttrice - non facevo parte della comunità a
quell’epoca e posso solo fare supposizioni). Inoltre, con il recente
inserimento nel cast di due attori provenienti da una serie chiusa,
Farscape, molti fan sono arrivati da quella a SG-1, e hanno una ter­
ribile sensazione di deja vu. I fan della fantascienza ormai si sono
praticamente allenati, così ci siamo messi in moto non appena ieri
pomeriggio è arrivata la notizia. L’esperienza del passato dà forma
all’azione di oggi, e anche se non so che successo riusciranno ad
avere i fan di SG-1, di sicuro si faranno sentire”.
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 299

Il nucleo della comunità dei fan era formato da veterani di lun­


go corso che sapevano che cosa bisognava fare e si sono rimboccati
le maniche e hanno subito preso il controllo della situazione. La
notizia della decisione della rete si è diffusa fra liste di discussione,
siti web dei fan, blog e pagine di Live Journal e, nel frattempo tutti
hanno cominciato a soppesare le varie tattiche, a raccogliere le in­
formazioni pertinenti e a distribuirsi i compiti. Questo è un
bell’esempio di come le comunità della conoscenza agiscono per
mettere in comune le risorse e sfruttare le reti per raggiungere i lo­
ro obiettivi. L’obiettivo qui è far arrivare l’informazione al maggior
numero possibile di persone attraverso tutti i mezzi utili. In questo
senso, le comunità dei fan sono adhoc-crazie e non buro-crazie:
certe persone si sono fatte carico di aspetti diversi del processo vo­
lontariamente, ma nessuno ha cercato di controllare od orchestrare
il movimento come un tutto.
La seconda cosa che si nota è la natura internazionale della ri­
sposta dei fan: un sito, per esempio, includeva modelli in molte lin­
gue diverse, dallo spagnolo al croato, che i fan di quei paesi pote­
vano usare per scrivere lettere ai decisori. Sci-Fi Network avrà ma­
gari preso la sua decisione visto il declinare degli spettatori negli
Stati Uniti, ma, dato che la serie è venduta in molti altri paesi, la de­
cisione avrà conseguenze per i fan in tutto il mondo. I fan di molti
paesi diversi lavorano insieme per rispondere alla cancellazione del
programma, esercitando pressione non solo direttamente sulla rete
e la casa di produzione, ma anche attraverso le reti dei paesi in cui
la serie va in onda. Il coordinamento di questi sforzi fra le diverse
nazioni (per non parlare dei problemi linguistici) è una finestra sul­
la composizione globale della maggior parte delle comunità di fan
online. Più in generale, si può vedere che i fan ricorrono a siti di so­
cial networking e ad applicazioni Web 2.0 come MySpace e Flickr
come strumenti per identificare i potenziali sostenitori e arruolarli
alla causa. Consigliano anche di usare Bittorrent e altre tecnologie
peer-to-peer per identificare fan che scaricano la serie e sollecitarli
a dare un sostegno all’iniziativa.
Detto tutto, sia le tattiche, sia l’analisi che ci sta dietro indicano
una comprensione estremamente sofisticata dell’attuale paesaggio
dei media e i vari punti su cui le comunità grassroots possono far le­
va per esercitare la loro pressione su tutti quelli che, nelle aziende,
hanno un qualche interesse investito nella serie. Gli attivisti di ogni
tipo possono imparare molto esaminando in dettaglio come queste
300 Po s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a lia n a

persone si impegnano per salvare la loro serie preferita. Da fan di


lungo corso, non posso fare a meno di mettere a confronto queste
iniziative con quelle relativamente primitive, basate sul vecchio si­
stema postale, che hanno tenuto in vita Star Trek negli anni Sessan­
ta: i nuovi media hanno dato ai fan molte più risorse da mobilitare,
in una situazione all'incirca analoga.

***

In quest'arco di tempo, YouTube ha rappresentano una costante


fonte di interesse per quelli fra noi che vogliono capire come agisca
la cultura partecipativa in un’epoca di convergenza dei media. In
una serie di post, ho cercato di catturare l'estetica e la politica della
cultura di YouTube. Questo post riassume le mie riflessioni princi­
pali su YouTube, in rapporto ai temi di questo libro.

Nove tesi per una teoria culturale di YouTube


http://www.henryjenkins.org/2007/05/9_propositions_towards_a_cultu.htmll

1. YouTube rappresenta il tipo di spazio mediatico ibrido de­


scritto da Yochai Benkler in The Wealth of Networks - uno spazio j
in cui il contenuto commerciale, amatoriale, nonprofit, governati- J
vo, istruttivo e degli attivisti coesiste e interagisce in modi sempre i
più complessi. Come tale, rappresenta in potenza un sito di conflit- j
to e di rinegoziazione fra forme diverse di potere. Un esempio che j
illustra bene questo punto è l’emergere di Astroturf, un falso me- ]
dium grassroots, attraverso il quale gruppi molto potenti cercano di j
mascherarsi da entità prive di potere per guadagnare una maggiore j
credibilità nella cultura partecipativa. In passato, questi interessi j
forti si sarebbero accontentati di esercitare il loro controllo sui me- j
dia broadcast e di massa ma ora spesso devono nascondere il loro j
potere per agire all’interno della cultura delle reti.

2. YouTube si è affermato come punto di incontro fra una serie


di comunità grassroots diverse, coinvolte nella produzione e nella
distribuzione dei contenuti dei media. Molto di quello che si è
scritto su YouTube dà per scontato che la disponibilità di tecnoio-
gie Web 2.0 ha reso possibile la crescità di culture partecipative. Io
direi proprio il contrario: è l’emergere di culture partecipative di
E sten d er e la c o n v e r s a z io n e 301

ogni tipo negli ultimi decenni che ha preparato la strada all’interes­


samento prima, poi alla rapida adozione e all’uso diversificato di
piattaforme come YouTube. Ma, incontrandosi attraverso questo
portale comune, le varie comunità di fan, comunità di brand e sot­
toculture apprendono tecniche e pratiche le une dalle altre, facen­
do accelerare l’innovazione entro e fra le diverse comunità di pra­
tica. Ci si potrebbe chiedere se quello “You” in YouTube sia singo­
lare o plurale, visto che nella lingua inglese la stessa parola vale per
entrambi i pronomi di seconda persona. YouTube è un sito di
espressione personale, come dicono spesso i giornalisti, o per
l’espressione di visioni condivise entro comunità comuni? Il conte­
nuto più potente su YouTube arriva, ed è utilizzato, da specifiche
comunità di pratica e perciò, in questo senso, è una forma di colla­
borazione culturale.

3. YouTube è un sito in cui curatori dilettanti determinano il va­


lore del contenuto commerciale e lo ri-presentano per varie comu­
nità di consumatori di nicchia. Chi partecipa a YouTube risponde
al flusso infinito e ai molti canali dei mass media operando selezio­
ni, scegliendo momenti significativi che poi vengono aggiunti a un
archivio condiviso. Sempre più spesso ci sono clip che attraverso
YouTube ottengono una visibilità maggiore di quella che avevano
guadagnato attraverso i canali della tv via etere o via cavo da cui
avevano avuto origine. Un esempio classico potrebbe essere la
comparsa di Colbert al Washington Press Club Dinner. Le media
company non sanno molto bene come trattare le funzioni “curato-
riali” di YouTube: lo vedono in certe occasioni come una forma di
marketing virale e in qualche altra come una minaccia al loro con­
trollo sulla loro proprietà intellettuale. Lo si vede quando Colbert
e il suo staff incoraggiano i fan al remix dei loro contenuti nella
stessa settimana in cui Viacom minaccia di adire le vie legali per far
rimuovere le clip di Colbert da YouTube.

4. Il valore di YouTube dipende fortemente dalla sua esposizio­


ne attraverso altri siti di social networking - il contenuto ottiene
una visibilità e una circolazione molto superiori quando viene pro­
mosso attraverso blog, Live Journal, MySpace e altri siti simili.
Molte persone arrivano a YouTube e si divertono a esplorarlo, ma
la vera rivoluzione è stata rendere semplice alla gente diffondere i
suoi contenuti in tutto il Web. Da questo punto di vista, YouTube
302 P o s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a l ia n a

rappresenta un forte allontanamento da un’era di “collosità”


(quando l’obiettivo era attirare e tenere attaccati gli spettatori al
proprio sito) per andare verso un’età in cui il valore più alto è la
diffondibilità (un termine che mette in evidenza il ruolo attivo dei
consumatori nel creare valore e rafforzare la consapevolezza attra­
verso la circolazione dei contenuti dei media).

5. YouTube si offre, insieme a Flickr, come un sito importante


per i citizen journaliste facendo premio di un mondo in cui la mag­
gior parte delle persone ha una fotocamera incorporata nel telefo­
no cellulare che porta con sé ovunque vada. Nell’ultimo anno ci so­
no stati molti esempi di storie o immagini che non avrebbero atti­
rato l’attenzione dei media se qualcuno non avesse pensato di regi­
strarli mentre si svolgevano grazie ad apparecchiature di registra­
zione facilmente accessibili: i commenti sui “macachi” di George
Alien, l’incidente alla biblioteca delPUniversità della California a
Los Angeles, le battute razziste di Michael Richard al nightclub, an­
che le immagini dell’esecuzione di Saddam Hussein, sono un pro­
dotto di questa formidabile miscela di tecnologia mobile e distribu­
zione digitale.

6. YouTube incorpora forse una particolare opportunità per


tradurre la cultura partecipativa in impegno civico. Il modo in cui
i sostenitori di Obama e Clinton si sono appropriati della pubblici­
tà “1 9 8 4 ” della Apple e l’hanno utilizzata all’interno del dibattito
politico ci fanno pensare come YouTube potrebbe diventare cen­
trale nella prossima campagna presidenziale. In molti modi. You­
Tube può incarnare al meglio la visione di una cultura politica più
popolare che Stephen Duncombe discute nell’ultimo suo libro,
Dream: Re-Imagining Progressive Politics in thè Age o f Fantasy: “I
progressisti dovrebbero aver imparato a costruire una politica che
abbracci i sogni delle persone e metta in scena spettacoli che danno
forma a quelle fantasia - una politica che usa simboli e associazioni,
una politica che racconta buone storie. In breve, dovremmo avere
imparato a costruire il dissenso... Dati gli ideali progressisti di
egualitarismo e una politica che dà valore all’input di tutti, i nostri
paesaggi di sogno non saranno creati da esperti dei media della si­
nistra e poi passati al resto di noi da guardare, consumare e crede­
re. Invece, i nostri spettacoli saranno partecipativi: sogni che il
pubblico può modellare e foggiare in proprio. Saranno attivi: spet­
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 303

tacoli che funzionano solo se le persone collaborano a crearli. Sa­


ranno aperti: definiranno il palcoscenico su cui porre domande e
lasceranno i silenzi per formulare risposte. E saranno trasparenti:
sogni che uno sa sono sogni ma che hanno ancora il potere di atti­
rare e ispirare. E, infine, gli spettacoli che creiamo non copriranno
né sostituiranno la realtà e la verità ma la svolgeranno e l’amplifi­
cheranno.” Così facendo, dobbiamo anche renderci conto che la
cultura partecipativa non è sempre progressista. Per quanto bassi
siano gli standard, i partiti politici esistenti pongono dei limiti a
quello che possono dire in un dibattito politico surriscaldato, e noi
dobbiamo prevedere che ci saranno ondate di razzismo, di sessismo
e altre forme di intolleranza quando un pubblico generale, che agi­
sce al di fuori di quelle regole e di quelle norme, utilizzerà media
partecipativi per rispondere a una competizione che vede donne,
afro-americni, ispanici, mormoni, italo-americani, cattolici e così
via come figure di spicco in una lotta per il controllo sulla Casa
Bianca.

7. YouTube ci aiuta a vedere le trasformazioni che si verificano


nell’economia culturale: la cultura grassroots si appropria dei con­
ten u ti dei mass media commerciali e li remixa; i mass media ten­
gono sotto osservazione le tendenze e cercano di riportare le inno­
vazioni nel sistema, di amplificare e diffonderle ad altre popolazio­
ni. Nel fare questo, spesso modificano proprio le relazioni sociali
ed economiche che hanno alimentato questa produzione culturale.
Vedremo un numero crescente di discussioni sulle relazioni fra
l’economia del dono di una cultura partecipativa e le relazioni mer­
cificanti che caratterizzano il contenuto generato dagli utenti. Cer­
tamente c’è spazio perché questi siti vengano visti come una poten­
ziale fonte da sfruttare economicamente: la produzione di media
viene trasferita dai creativi, specializzati e molto ben pagati, alle lo­
ro controparti amatoriali non remunerate.

8. Nell’era di YouTube, il social networking si presenta come


una delle capacità sociali importanti e delle competenze culturali
che i giovani debbono acquisire per poter diventare partecipanti si­
gnificativi nella cultura intorno a loro. Dobbiamo essere preoccu­
pati del gap di partecipazione tanto quanto del digitai divide.
Quest’ultimo ha a che vedere con l’accesso alla tecnologia; il gap di
partecipazione ha a che fare con l’accesso a esperienze culturali e
304 Po s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a lia n a

con le abilità che le persone acquisiscono attraverso la loro parte­


cipazione nelle comunità online e nelle reti sociali attuali.

9. YouTube ci insegna che una cultura partecipativa non è ne­


cessariamente una cultura diversificata. Come ci ha mostrato John
McMuria, le minoranze sono fortemente sottorappresentate - al­
meno nei filmati più visti su YouTube, che nella maggior parte dei
casi sono prodotti da maschi bianchi della classe media. Se voglia­
mo vedere una cultura più “democratica”, dobbiamo esplorare e
scoprire quali meccanismi possano favorire una maggiore differen­
ziazione fra i partecipanti, fra gli autori dei lavori visibili, e in ciò
che viene caricato di valore nella nuova cultura della partecipazio­
ne.

* * *

Questo post offre qualche riflessione sull’estetica di YouTube e


su come sia un riflesso di un contesto di media “diffondibili”.

YouTube e l'estetica del vaudeville


http://www.henryjenkins.org/2006/ll/youtube_and_the_vaudeville_aes.html

Il mio primo libro, What Made Pistachio Nuts?, esplorava l’in­


fluenza del vaudeville americano sulle prime commedie del sonoro,
e vedeva il varietà come un’influenza importante nei film dei fratel­
li Marx, di W .C. Fields, Eddie Cantor, Burns e Allen, Jimmy Du­
rante, Ed Wynn, Joe E. Brown, Wheeler e Woolsey, e un’altra lun­
ga serie di clown e comici dei primi anni Trenta. Ammetto che, vi­
sti i miei attuali interessi di ricerca, non mi capita spesso che mi
venga chiesto di pontificare sui particolari del teatro popolare agli
inizi del ventesimo secolo. Ma l’altro giorno un giornalista mi ha
chiesto di dare un’occhiata al videoclip “Treadmills” di OK Go, in
questo momento molto popolare su YouTube, perché stava scri­
vendo un articolo sull’impatto della distribuzione digitale dei con­
tenuti sulle case discografiche. E mi ha improvvisamente colpito
l’idea che YouTube rappresenta per gli inizi del ventunesimo seco­
lo qualcosa di simile a quello che è stato il vaudeville per gli inizi
del ventesimo.
E sten d er e la c o n v e r s a z io n e 305

Vediamo se riesco a farvi vedere qualcuna delle somiglianze: co­


me suggerisce anche il nome, il varietà era basato sul principio del­
la variazione e diversificazione costante. Era una scatola piena di
tutti gli interessi culturali e le ossessioni di un’epoca segnata da
drammatiche trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche. Nel
corso di una serata, si poteva vedere un attore shakespeariano im­
pegnato in un monologo, un cane addestrato, un recital operistico,
un giocoliere o un acrobata, un comico in pantaloni sformati, un
escapista o un mago, un esecutore di tap dance, e qualche forma di
stupidità umana (come un tizio con dei martelli sulle scarpe che sal­
ta su un gigantesco xilofono o una scena in cui dei babbuini suona­
no degli strumenti musicali). Analogamente, YouTube ci dà una
miscela altrettanto eclettica di contenuti presi da tutti gli angoli
della nostra cultura e ce li squaderna davanti come se avessero tutti
lo stesso interesse e la stessa importanza, come se fosse sicuro che
ciascun utente è perfettamente in grado di stabilire il valore relati­
vo di ogni elemento.
In secondo luogo, le performance del vaudeville erano brevi
unità modulari - di solito di durata inferiore ai 20 minuti - e si è
scritto molto sull’impatto delle richieste delPeconomia - salire sul
palco, dare tutto e scendere - sulle scelte estetiche. Non c’era il
tempo per caratterizzazioni sottili o per gli sviluppi dell’intreccio.
Ogni elemento doveva mettere in gioco il suo peso. Non poteva so­
pravvivere nulla che non fosse necessario per l’impatto emotivo
complessivo. Anche una delle caratteristiche di YouTube è la spinta
alla concisione. In teoria il contenuto potrebbe essere di lunghezza
qualsiasi, ma in realtà ciò che viene messo in circolazione in preva­
lenza è breve e ridotto all’osso. Chi va a vedere YouTube diventa
irrequieto se qualcosa dura troppo. E c’è un’enfasi simile sull’im­
patto emotivo immediato.
Il vaudeville aveva una modalità di produzione centrata sull’at­
tore. Non c’era un regista che potesse costruire un insieme. Gli at­
tori sceglievano ciascuno il proprio materiale, affinavano le pro­
prie capacità, e vivevano e morivano esclusivamente in base alla lo­
ro capacità di creare un collegamento uno-a-uno con il loro pubbli­
co. Era una forma che premiava moltissimo il virtuosismo, cioè
l’abilità dell’esecutore di impressionare lo spettatore con il suo me­
stiere. Analogamente, YouTube è uno spazio di espressione indivi­
dualizzata. Il video non riguarda altro che la padronanza e il vir­
tuosismo di questi giovani esecutori. Stiamo lì a vedere con il fiato
306 P o s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a lia n a

sospeso che cosa faranno adesso e se saranno capaci di tirar fuori


una prestazione ad alto rischio. Quando il vaudeville è passato al
cinema, ha favorito certe scelte stilistiche che mantengono l’inte­
grità delle prestazioni individuali - così per esempio la ripresa lun­
ga perché si possa vedere che sicuramente l’esecutore ha fatto quel­
lo che è rappresentato sullo schermo. Una delle cose che mi colpi­
scono di questo video è che questa complicata serie di acrobazie
viene eseguita in un’unica ripresa, perciò se qualcosa non va gli ese­
cutori devono ricominciare tutto dall’inizio: il giornalista mi ha
detto che ci sono voluti cinquanta tentativi per completare il video.
Anche gli spettacoli di vaudeville filmati venivano recitati diretta-
mente davanti alla macchina da presa, con gli esecutori che cerca­
vano attivamente di catturare l’attenzione e l’approvazione degli
spettatori. Anche qui, non è questione che la macchina da presa sia
parte di una quarta parete invisibile non osservata da chi sta sullo
schermo: questi artisti recitano in primo piano e ce la mettono tut­
ta per ottenere la nostra approvazione.
In un contesto di variazione costante, il singolo artista cerca so­
prattutto di essere memorabile, il che normalmente significava ba­
sarsi fortemente sulla spettacolarità e sull’intensificazione degli ef­
fetti emotivi. Analogamente, gli esecutori di YouTube vogliono es­
sere così spettacolari che chi li guarda si senta spinto a far circolare
quel contenuto ai suoi amici. Fa conto su spettacoli estremi, shock
e acrobazie per produrre contenuti che si muoveranno viralmente
attraverso la blogosfera. I contenuti migliori di YouTube sono con­
tenuti così incredibili da dover essere condivisi.
Una delle figure retoriche tipiche del vaudeville era l’interruzio­
ne: l’attore cioè fingeva una serie di interruzioni e distrazioni che
minacciassero di distruggere la scena costruita con cura, dando
quindi un senso di spontaneità che rafforzava l’effetto “dal vivo”
dell’esperienza recitata. Analogamente, anche se chiaramente in
modo diverso, l’artista di YouTube insegue un senso di amatoriali:
tà che mette fortemente l’accento sull’apparente spontaneità: molti
video sono messi in scena con grande attenzione a farli sembrare
improvvisati. Non c’è necessariamente una spinta verso il “vivo”,
ma di certo verso il “realismo” - verso l’idea che non si riesce a cre­
dere che quel che si vede sia realmente accaduto - e spesso ci ren­
diamo conto di aver ragione. L’artista di YouTube mette in scena il
“realismo” e molto di quello che è “finto” passa per reale.
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 307

Il vaudeville tendeva spesso anche a una costruzione per tema e


variazione - scegliendo qualche spazio della vita quotidiana per poi
giocare con tutte le possibili permutazioni. Lo stesso principio in­
forma il video di OK Go e mi fa ulteriormente riflettere sui colle­
gamenti con il vaudeville. Ovviamente, il vaudeville non era soltan­
to performance umana. In un’epoca in cui si inventavano e si dif­
fondevano a gran velocità molte nuove tecnologie, il vaudeville era
anche un luogo di virtuosismo tecnologico. Molte delle nuove in­
venzioni di quel periodo sono state presentate al pubblico per la
prima volta sul palcoscenico del vaudeville - in particolare, negli
Stati Uniti, il cinema stesso. Il mago era un early adopter e un adat­
tatore delle tecnologie, e usava il senso di meraviglia che aleggiava
intorno ai nuovi meccanismi per stupire e confondere i suoi spetta­
tori. Non sorprende dunque che qualcosa di simile ritorni alla su­
perficie in un altro momento di rapido sviluppo e rapida diffusione
di nuove tecnologie.
Infine, il vaudeville ha avuto una sua particolare funzione in
una fase di colonizzazione e immigrazione. Ha portato in America
persone e tradizioni di angoli esotici del mondo e ha messo in scena
le differenze culturali che davano forma all’esperienza degli immi­
grati. YouTube è un prodotto di questo momento della globalizza­
zione, in cui ci affascina scoprire che i giovani cinesi guardano le
boy band americane o i programmi giapponesi per bambini, altri­
menti sconosciuti nel contesto americano, possono affascinare an­
che se estratti dal loro contesto originale. In un futuro non molto
lontano, gli storici sociali analizzeranno i contenuti attuali di You­
Tube come un microcosmo della cultura contemporanea, così co­
me le esibizioni popolari del vaudeville ci danno ancora un ricco
spaccato della cultura dell’inizio del secolo scorso.

* ì'c *

L’interesse suscitato da YouTube ha portato più in generale a ri­


considerare il valore della cultura partecipativa, specialmente dopo
la pubblicazione di libri come The Cult o f thè Amateur di Andrew
Keen, che hanno visto gli impulsi alla partecipazione come un ab­
bassamento degli standard culturali. Nel post che segue, ho cercato
di delineare un argomento opposto a questa prospettiva.
308 P o s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a lia n a

In difesa della spazzatura


http://www.henryjenkins.org/2007/02/in_defense_of_crud.html

“Il novanta per cento di qualsiasi cosa è spazzatura”, ha scritto


Theodore Sturgeon.
Si è fatto sempre più acceso il dibattito sulla qualità dei conte­
nuti generati dagli utenti e la cultura partecipativa. Ecco qualcuno
dei modi in cui dovremmo affrontare il problema.

1. Non bisogna ridurre il valore della cultura partecipativa ai


suoi prodotti, biosgna invece pensare al suo processo. Pensate per
un momento a tutti i corsi d’arte e di scrittura creativa che si ten­
gono nelle scuole di tutto il mondo, Pensate, per esempio, a quanti
bambini imparano a produrre vasi d’argilla. Non glielo insegniamo
perché pensiamo che molti di loro da adulti diventeranno ceramisti
di professione. In effetti, molti di loro produrranno solo blocchi in­
formi di argilla che solo una mamma può apprezzare (anche se ci
dice qualcosa sul valore che attribuiamo alla cultura il fatto che
quegli oggetti spesso siano mostrati con orgoglio per decenni). Lo
facciamo perché vediamo un valore nel processo di creazione di
qualcosa, nell’apprendere a manipolare l’argilla o quello che si ha
a disposizione. In altre parole, c’è un valore nella creazione, del
tutto indipendente dal valore che attribuiamo poi al frutto dell’atto
creativo. In questa prospettiva, l’allargamento del numero di quan­
ti possono creare e condividere con altri quello che hanno creato è
importante anche se nessuno di noi produce nulla di meglio
dell’equivalente letterario di un grumo informe di argilla che verrà
apprezzato da coloro a cui è destinato (la mamma o la comunità dei
fan) e da nessun altro.

2. Tutte le forme d’arte hanno bisogno di un posto in cui gli ar­


tisti alle prime armi possono produrre cose brutte, imparare dai lo­
ro errori e migliorarsi. Un mondo di espressione totalmente profes­
sionalizzata nasconde e maschera il processo di apprendistato che
tutti gli artisti debbono compiere per poter esprimere tutto il loro
potenziale. Un mondo in cui gli artisti dilettanti possono condivi­
dere il loro lavoro è un mondo in cui può avvenire l’apprendimen­
to. Se gli unici film che potete vedere sono le produzioni da milioni
di dollari di Steven Spielberg, quasi tutti penserete di non aver nul­
la di sensato da contribuire alla cultura e lascerete perdere. Se in ve­
Esten d ere la c o n v e r s a z io n e 309

ce è possibile vedere film di qualità molto diversa, anche quelli che


sono, per dirla con Sturgeon, “spazzatura”, allora diventa possibile
pensare di diventare artisti anche noi. La cattiva arte genera più ar­
tisti della buona, per questo motivo: ma io posso fare di meglio!

3. Un mondo in cui circola una gran quantità di cattiva arte di­


minuisce i rischi della sperimentazione e dell’inovazione. In un
mondo del genere, non ci si deve preoccupare di andare a segno o
di rendersi ridicoli. Ci si possono prendere dei rischi, si possono
provare cose che mettono duramente alla prova, si possono sonda­
re nuove direzioni, perché il costo di un fallimento è relativamente
basso. Per questo una cultura partecipativa è in potenza così proli­
fica. In questo momento, l’innovazione si ha più spesso al livello
grassroots e solo in un secondo tempo arriva ai mass media, che
l’amplificano.

4. La cattiva arte ispira risposte che spingono la cultura al mi­


glioramento, nel corso del tempo. Ho sostenuto che la fandom è
ispirata da un misto di fascinazione e frustrazione. Se lo spettacolo
non ci avesse affascinato non continueremmo a tornarci. Se ci aves­
se soddisfatto completamente, non ci sentiremmo spinti a rifarlo.
Molti degli spettacoli che hanno ispirato più fan fiction non sono i
migliori ma quelli che hanno un vero potenziale. Con il tempo, la
cattiva arte può diventare un agente irritante, come la sabbia
nell’ostrica, che diventa una perla quando viene rielaborata più e
più volte da molte immaginazioni diverse. La buona arte può sem­
plicemente troncare la conversazione.

5. Buono e cattivo, come standard artistici, sono legati al conte­


sto. Buono per che cosa? Buono per quali standard? Buono per
quale pubblico? In un certo senso, si può sostenere che la fiction
professionale pubblicata sui programmi della televisione popolare
è superiore almeno alla maggior parte della fan fiction - in termini
di una pulizia professionale dello stile di scrittura, in termini di re­
dazione, in termini magari anche di costruzione degli intrecci. Ma
probabilmente non è buona quanto la fan fiction ad altri livelli - in
termini di quello che rivela dei personaggi e delle loro relazioni, in
termini della corrispondenza con le fantasie condivise della comu­
nità dei fan, in termini della sua libertà di andare al di là di certi
vincoli del genere.
310 Po s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a lia n a

6. Che cosa sia buono e che cosa cattivo è difficile da stabilire,


quando le forme di espressione a cui ci si riferisce sono nuove e an­
cora in evoluzione. Questo vale per molte delle forme di cultura
partecipativa che si stanno sviluppando intorno ai media digitali.
Queste forme sono troppo recenti per avere standard ben definiti
o canoni fissi.

7. Questo non è un gioco a somma zero. Non è chiaro che la


crescita della cultura partecipativa danneggi effettivamente i media
professionali. Si può sostenere che fin qui la maggior parte delle
opere popolari create dai produttori dilettanti di media è stata un
prodotto derivato da storie, personaggi e idee generati dalla cultu­
ra di massa. Le due culture possono esistere nel dialogo fra loro.

La presenza di “cattiva arte” nella cultura partecipativa dovreb­


be preoccuparci meno del bisogno di sviluppare meccanismi di
feedback che permettano agli artisti di imparare e di crescere, della
necessità di sviluppare criteri estetici che ci permettano di valutare
in modo sensato le forme di espressione nuove ed emergenti o che
riflettono i peculiari bisogni di contesti specifici della produzione
culturale, e della necessità di sviluppare meccanismi che aiutino
ciascun consumatore a identificare le forme di espressione cultura­
le che consideri buone.
Tutto questo ci riporta al Verbo di Sturgeon: se il novanta per
cento di qualsiasi cosa è spazzatura, allora caviamo il meglio dalla
statistica. Se cresce il numero delle persone che producono cultura,
si aumenta la quantità assoluta di buona arte, anche se non cresce
la sua quantità relativa. Affermazione discutibile, immagino; non
credo si possa mettere in dubbio invece che, in questo modo, si au­
menti anche la diversificazione della cultura. Moltissimi gruppi di
persone si sono sentiti esclusi dal sistema professionalizzato delle
arti e delle narrazioni, e avrebbero potuto portare contributi vitali
alla nostra cultura. Accogliere quello che producono non significa
che dobbiamo “abbassare” i nostri standard, ma che dobbiamo am­
pliarli per apprezzare nuove forme di espressione che non rientra­
no agevolmente nelle categorie estetiche attuali.

* * *
E st en d er e la c o n v e r s a z io n e 311

A parte YouTube, non c’è fenomeno culturale che abbia solleci­


tato più discussioni sulla cultura partecipativa, negli ultimi anni,
dell’ascesa del mondo virtuale, Second Life. Se Second Life non
esistesse, bisognerebbe proprio inventarlo per avere uno strumento
che scompagini tutte le questioni relative al valore della produzio­
ne culturale collaborativa e alla relazione fra comunità virtuali e
impegno civico nel mondo reale. Le mie riflessioni su Second Life
si sono evolute più lentamente e in modo più frammentario rispet­
to a quelle su YouTube. Per questo quella che segue è una raccolta
di frammenti brevi provenienti da una serie di post messi in linea
nel corso dell’anno, nella cornice di una discussione con Clay Shir-
key, Beth Coleman, Trebor Scholz e altri critici che hanno scritto
della natura, dei valori e delle finalità dei mondi virtuali.

Sperimentare con i marchi in Second Life


http://www.henryjenkins.org/2006/09/experimenting_with_brands_in_s.html

Nel 1954 Frederick Pohl, eccellente autore di satira sociale e di


fantascienza, ha pubblicato un racconto breve, “The Tunnel Under
thè World”, che sarebbe stato un ottimo episodio di Ai confini del­
la realtà. Un uomo si sveglia nel suo letto una mattina, accanto alla
moglie, si alza, va al lavoro e lungo la strada comncia a provare la
sensazione che ci sia qualcosa di sottilmente diverso nel suo mon­
do.

E stato esposto per così tanto tempo alle pubblicità pensata per un
pubblico passivo che ormai il suo orecchio non ci faceva neppure più
caso, ma quello che arrivava dal programma registrato nella cantina
dell’edificio aveva colpito la sua attenzione. Non era semplicemente
che i marchi gli fossero quasi del tutto ignoti; era una differenza nello
schema generale.

Ma nessun altro sembra aver notato che tutto il panorama pub­


blicitario è cambiato dalla sera alla mattina. E poi succede di nuo­
vo, e di nuovo, e di nuovo ancora. Alla fine del racconto, scopre di
trovarsi immerso in un esperimento di ricerca sui consumatori:

Non sono Russi e non sono Marziani. Sono pubblicitari! In qualche


modo - solo il cielo sa come abbiano fatto - hanno conquistato Tyler-
312 P o s t il l a a l l ’ e d i z i o n e it a l ia n a

ton. Ci hanno presi, tutti noi, voi e me e venti o trenta mila altre per­
sone - sotto il loro controllo. Forse ci ipnotizzano e forse è qualche al­
tra cosa; ma di qualsiasi cosa si tratti, quello che succede è che ci fanno
vivere un giorno alla volta. Ci riversano addosso pubblicità per tutta
la dannata giornata. E alla fine della giornata guardano quello che è
successo - e poi ci lavan via tutto dalla mente e ricominciano di nuovo
il giorno dopo con pubblicità diverse... M ettono sotto test ogni mini­
mo dettaglio prima di spendere un nichelino in pubblicità!

Il racconto di Pohl su questo micromondo che permette a Ma


dison Avenue di condurre esperimenti sui consumatori sembra an­
ticipare il ruolo che marchi e pubblicità avranno nei nuovi mondi
dei giochi multiplayer come Second Life. Second Life è stato uno
dei temi più caldi negli articoli sulla cultura partecipativa degli ul­
timi mesi. The Wealth o f Networks di Yochai Benkler usa SL come
esempio principale delle enrgia grassroots liberate nella società del­
le reti. Chi si occupa di istruzione sperimenta sempre più con le
possibilità di questo spazio, il Berkman Center della Harvard Uni­
versity in questo semestre tiene un corso sul diritto della proprietà
intellettuale aperto sia agli studenti di Harvard che ai loro avatar.
Gli psicologi usano Second Life per fare terapia - in particolare per
pazienti autistici, per i quali può rappresentare una introduzione
graduale alla lettura e alla comunicazione di indizi sugli stati emo­
tivi nelle interazioni sociali. Sono in corso esperimenti per esplora­
re nuove strutture di governo nelle scienze politiche, nuove forme
di comunità in sociologia, nuovi tipi di transazioni in economia.
Gli attivisti usano questo spazio per sensibilizzare il pubblico sui
problemi che stanno loro a cuore. E le minoranze sessuali trovano
nuovi ambiti di espressione erotica negli angoli nascosti di questo
mondo.
Si può pensare Second Life come una piattaforma per esperi­
menti ideali - un luogo dove si possono mettere alla prova idee non
ancora del tutto a punto, in cui si possono sperimentare nuovi mo­
di di essere sia a livello personale che a quello collettivo. Se potete
pensarlo, potete costruirlo in Second Life e, finora, se lo costruite,
la gente verrà. Qualcuno ha etichettato Second Life come il corri­
spettivo di Burning Man a Black Rock City - un posto in cui le per­
sone vengono per vedere e per essere viste, per costruire e vedere
quello che altri hanno costruito, e per celebrare il loro potere di ri­
immaginare i termini in cui conducono le loro vite quotidiane...
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 31 3

Un secondo sguardo a Second Life


http ://www.henryjenkins.org/2007/01/a_second_look_at_second_life.html

Qualcuno ha visto (e squalificato) Second Life come un party in


costume - per me è più un carnevale nel senso medievale del termi­
ne - un tempo e un luogo in cui le normali regole delle interazioni
sono sospese, i ruoli si possono scambiare o trasformare, le gerar­
chie possono essere riorganizzate e in cui possiamo lasciare la real­
tà normale per entrare in un “cerchio magico” o un “mondo ver­
de” che può essere estremamente fecondo per l’immaginazione. La
differenza è che in altre epoche il carnevale era qualcosa che esiste­
va per un brevissimo periodo di tempo e che la gente pianificava
per tutto l’anno. Oggi, nell’era di SL, il carnevale è ogni giorno e le
persone devono decidere quanto tempo vogliono spenderci. Un
tempo, le strutture di potere che portavano al carnevale erano reli­
giose e la chiesa doveva decidere se tollerare o meno i riti popolari.
Oggi le strutture di potere che portano a SL sono le grandi aziende,
e queste devono decidere se tollerare o meno i riti popolari. Che la
corporate America esperimenti con la realtà alternativa che costitu­
isce SL è una novità - anche se molti di questi esperimenti fallisco­
no e anche se molte di queste aziende non hanno alcuna idea di che
fare con le loro isole e anche se quasi tutte torneranno nei loro
chiostri nel giro di un anno o due.

Come Second Life influenza la nostra prima vita...


http://www.henryjenkins.org/2007/03/my_main_question_tojenkins.html

Gli ultimi decenni di osservazione del mondo digitale ci inse­


gnano che non è mai totalmente sconnesso dal mondo reale. Anche
quando andiamo nel mondo digitale per “sfuggire” alla realtà, fi­
niamo per impegnarci in rappresentazioni simboliche che leggiamo
in rapporto con la realtà. Impariamo cose sulla nostra prima vita
mettendo piede in una vita Seconda o parallela, che ci consente di
sospendere certe regole, uscire da determinati ruoli e vedere il
mondo da una prospettiva diversa. Più spesso, però, c’è un insieme
complesso di legami sociali, pratiche economiche, discussioni poli­
tiche e così via, che quasi sempre collega quel che avviene online
con quel che succede nelle nostre vite offline.
314 P o s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a lia n a

Ho cominciato seriamente a riflettere su Second Life dopo aver


sentito una presentazione al convegno Games, Learning, and So­
ciety del 2005 a Madison, Wisconsin. Una delle cose che furono
raccontate in quell’occasione e che colpì la mia immaginazione ri­
guardava il modo in cui qualcuno usa quell’ambiente per aiutare
chi soffre di autismo e di sindrome di Asperger a praticare compe­
tenze sociali e a superare ansie che possono essere paralizzanti nelle
interazioni sociali del mondo reale: chiamano la loro isola Brigado-
on. Chi è in terapia a Brigadoon è in grado di interagire attraverso
Second Life per vari motivi, per quello che riesco a capire: innan­
zitutto, perché crea una sorta di cuscinetto fra le persone, riducen­
do lo stress dell’interazione sociale; e in secondo luogo perché ri­
duce la gamma dei segnali sociali attraverso la semplificazione da
cartone animato degli avatar, il che aiuta a imparare a osservare
certi segni e filtrarne altri, idealmente i partecipanti poi ritornano
con queste nuove competenze sociali nella loro prima vita e le ap­
plicano alle loro interazioni. Anche se questo non è possibile per
tutti, hanno avuto una occasione di interagire in modo significativo
con altri esseri umani, sia pure attraverso la mediazione di una rap­
presentazione.
Per me, Brigadoon offre sia una dimostrazione del valore di
avere una “seconda vita” che scorre in parallelo alla prima, sia una
metafora per pensare a come possiamo provare le cose, imparare a
pensare e agire in modi nuovi in mondi virtuali di ogni tipo e poi
riportare indietro con noi, nella realtà quotidiana, quello che ab­
biamo appreso.
In qualche caso, Second Life rende possibili esperienze che non
lo sarebbe sotto i vincoli del mondo reale. John Campbell ha scrit­
to un libro, Getting ìt On Online: Cyberspace> Gay Male Identity,
and Embodied Identity, centrato su una tecnologia meno recente,
quella delle chatroom, ma quello che ha scoperto è perfettamente
pertinente anche per la nostra conversazione. Una delle cose che
ho recepito dal libro di Campbell è l’idea che quelle chatroom ave­
vano una funzione importante per i gay che vivevano in cittadine
di provincia o in zone molto conservatrici del paese, con scarse o
nessuna possibilità di socializzare con altre persone che condivide­
vano le loro preferenze sessuali. L’ingresso in un mondo virtuale
(anche semplice come era quello del prime chat) consentiva loro di
iniziare a esplorare aspetti della loro identità sessuale che ancora
non potevano affrontare nella loro “prima” vita. Grazie a questo-
E sten d ere la c o n v e r s a z io n e 31 5

processo hanno sviluppato la fiducia in se stessi necessaria per rive­


larsi ad amici e familiari, hanno sentito qualche collegamento con
il dominio delPattivismo omosessuale, hanno operato una serie di
altre scelte di vita. Volevo introdurre questa riflessione nella con­
versazione perché ogni tanto vedo che i teorici accademici tendono
a trascurare il tipo di sperimentazione sessuale che avviene in Se­
cond Life, perché sarebbe solo “pornografia interattiva”. Una defi­
nizione che tradisce la scarsa comprensione di ciò che questi spazi
possono spesso significare per le persone che partecipano a queste
sottoculture sessuali nei mondi virtuali.
Ammiro il lavoro che sta facendo Barry Joseph con la sua orga­
nizzazione Global Kids in Teen Second Life. Joseph si sta impe­
gnando molto a usare il mondo virtuale per educare e responsabi­
lizzare i giovani e riorientarli ad affrontare i problemi nel mondo
sociale. Pensiamo, per esempio, alla loro recente collaborazione
con PU.S. Holocaus Memorial Museum per rendere visibili ai gio­
vani visitatori di Teen Second Life le immagini del genocidio in
Darfur. Il museo già proiettava queste fotografie sulla sua facciata
nel mondo reale. Il gruppo di Global Kids si è dato da fare per pre­
sentare quelle stesse immagini nel mondo virtuale e, nel farlo, ha
imparato molte cose sulla sofferenza nel mondo reale, e a usare Se­
cond Life come piattaforma per informare su un problema mon­
diale che altrimenti avrebbe potuto sfuggire alla loro attenzione.
Secondo tutti quelli che ne hanno parlato, è stata un’esperienza che
ha trasformato gli adolescenti coinvolti, e li ha spinti a dedicare
maggiori energie a cercare di cambiare il mondo reale.

Tutti questi esempi funzionano perché Second Life non rispec­


chia perfettamente la realtà della nostra prima vita, ma possiamo
vedere moltissimi altri modi più comuni e quotidiani in cui Second
Life e altri “multiversi” possono essere (e sono) usati per agevolare
gli incontri nelle organizzazioni del mondo reale, anche quelle che
hanno effetti politici sul mondo reale.

Charlie Geer va oltre, nel rigettare il valore di Second Life.


Contesta la mia idea che valga la pena di difendere la cultura par­
tecipativa rappresentata in SL. Scrive, fra l’altro:

Mi sembrerebbe ovvio che cercare di dare un senso e trovare i modi


di mitigare la violenza e l’ingiustizia nella complessità del mondo e
316 P o s t il l a a l l ’ e d iz io n e ita lia n a

della cultura che già abitiamo necessariamente, non ultimo con il no­
stro corpo fisico, sia più pressante e assai più degno di essere difeso di
qualunque supposta capacità di “progettare e abitare i nostri mondi e
costruire la nostra cultura”. Questa mi sembra nel migliore dei casi
una autorizzazione al solipsismo di massa e nel peggiore qualcosa co ­
me il tipo di pensiero che sta alla base di molti totalitarismi, e anche
un’evasione dalle nostre responsabilità verso il mondo che troviamo.
Una fantasia del genere sembra in gioco sia nella “mai interrotta co ­
struzione e asserzione dell’identità”, una spinta che va in direzione op­
posta a una giusta solidarietà sociale e quindi dà man forte a quanti di­
fendono lo status quo, sia nella fantasia a cui indulge il governo Bush,
per cui il M edio Oriente si può riprogettare come se si fosse in un vi­
deogioco.
A parte tutto, la cultura non è qualcosa che si può semplicemente co ­
struire. E qualcosa in cui siamo gettati e con cui possiamo solo, nel mi­
gliore dei casi, cercare di negoziare la nostra relazione. La cultura
coinvolge necessariamente altre persone e strutture preesistenti.
Jenkins ha pensato che cosa vorrebbe dire, se tutti si sentissero liberi
di “costruire la loro cultura” ? Anche se una cosa simile fosse possibile,
certamente non sarebbe desiderabile, specialmente se vogliamo avere
qualche speranza di produrre una cultura veramente partecipativa.
Francamente, per quanto mi riguarda, SL è davvero solo un tipo di
pornografia culturale e sta alla cultura vera così come la masturbazio­
ne sta al sesso con un’altra persona. Mi piace la masturbazione come
a qualunque altro uom o, o a qualunque donna, ma non com m etto l’er­
rore di scambiarla per qualcosa che non è. A parte ogni altra cosa,
manca proprio di quell’elemento che il sesso invece ha, il coinvolgi­
mento di una vera, incarnata responsabilità nei confronti di qualcun
altro e delle potenziali conseguenze dell’atto stesso.

Ci sono molte cose fuorvianti in questi commenti. Tanto per


cominciare, non ho mai voluto suggerire che dovremmo occuparci
di SL escludendo qualsiasi preoccupazione per il mondo reale. Ma
vedo la lotta per conservare la cultura partecipativa come una bat­
taglia politica fondamentale, esattamente come il diritto alla pri­
vacy o la difesa della libertà di parola sono fondamenta per qualsi­
asi altro tipo di cambiamento politico. Ci troviamo a un bivio im­
portante, come società: da una parte abbiamo nuovi strumenti e
strutture sociali emergenti che consentono a un segmento della
popolazione più ampio che mai di partecipare alle discussioni cen­
E stend ere la c o n v e r s a z io n e 317

trali del nostro tempo. Questi strumenti ci riservano enormi poten­


zialità per fini creativi e civici. Dall’altra parte, vediamo ogni sorta
di tentativi di reprimere il nostro diritto di applicare questi nuovi
strumenti e queste strutture sociali. Proprio mentre vediamo una
promessa reale di espansione della libertà di parola, vediamo mi­
nacce reali alla libertà di parola che arrivano sia da parte delle
grandi aziende sia da parte di organi di governo. Dobbiamo fare in
modo di allargare l’accesso alle tecnologie e alle competenze e
all’istruzione necessarie per diventare partecipanti a pieno, invece
di dover difendere la nuova infrastruttura della comunicazione dal­
le varie minacce di governo e aziende.
Gere legge quello che succede in Second Life innanzitutto in
termini individualistici, anziché collaborativi. Sarebbe davvero sen­
za senso parlare di un mondo in cui ognuno costruisce la propria
cultura. Per definizione la cultura è condivisa. Ma non è assurdo
invece immaginare un mondo in cui tutti contribuiscono alla co­
struzione della loro cultura. Non è assurdo immaginare progetti di­
versi in SL come modelli alternativi di come potrebbe funzionare la
nostra cultura. In effetti, il mondo virtuale ci consente non solo di
proporre dei modelli ma anche di metterli alla prova, invitando al­
tri a mettervi piede e valutare come si potrebbe stare in quest’altro
tipo di istituzione sociale. Quello che succede qui è una sorta di te­
oria che prende corpo. E penso che l’interessante sia che questi so­
no modelli intersoggettivi, adottati e messi alla prova da comunità
piccole e grandi.
In ciascuno degli esempi che ho citato, i partecipanti imparano
a lavorare insieme con altri attraverso la creazione di una realtà vir­
tuale condivisa. Certo dobbiamo dedicare più tempo a esplorare
come possiamo collegare quello che succede in questi mondi alle
nostre vite quotidiane, ma questo non significa che ciò che avviene
in uno spazio simbolico sia privo di un contesto sociale e politico
del mondo reale.
Spesso, le istituzioni e le pratiche del mondo reale vincolano la
nostra capacità di agire sul mondo, perché impoveriscono la nostra
immaginazione e ci impediscono di vedere alternative percorribili.
Questo è al centro di molto di quel che si scrive nei cultural studies
su ideologia ed egemonia. SL ci offre un modo per costruire mo­
delli alternativi del mondo e poi entrarvi e sperimentare che cosa
possa significare vivere in un ordine sociale diverso. Penso che in
questo ci siano possibilità, molto reali, di trasformazione politica.
318 Po s t il l a a l l ’ e d iz io n e it a lia n a

* * *

Questo libro si chiude con il proposito di rivolgere l’attenzione


ai problemi della promozione dell’alfabetismo ai media, con l’idea
che una delle sfide a cui ci troviamo di fronte sia garantire a ogni
cittadino il possesso di quelle capacità sociali fondamentali e di
quelle competenze culturali che sono necessarie per poter parteci­
pare a pieno a questo paesaggio emergente dei media. Questa at­
tenzione per l’alfabetizzazione ai media si riflette in un white paper
di cui sono stato coautore per la MacArthur Foundation (lo trovate
alPindirizzo http://www.projectnml.org/files/working/NMLWhite-
Paper.pdf). Le implicazioni di questo libro bianco sono state temi
ricorrenti del mio blog nell’ultimo anno circa, fra l’altro in varie in­
terviste che ho fatto a figure chiave nella riflessione sui nuovi me­
dia e in post che parlavano delle politiche pubbliche con conse­
guenze per gli usi educativi dell’intelligenza collettiva, delle reti so­
ciali e della cultura partecipativa. Vorrei chiudere con un brano
che cerca di riassumere alcune tendenze che stanno definendo il
paesaggio dei nuovi media.

Otto caratteristiche del paesaggio dei nuovi media


http ://www.henryjenkins.org/2006/1 l/eight_traits_of_the_new_media.html#more

Spessissimo, se chiedete a qualcuno di descrivere il panorama


attuale dei media, vi risponderà con un elenco di strumenti e tec­
nologie. La nostra attenzione non dovrebbe fermarsi però sulle tec­
nologie emergenti, ma sulle pratiche culturali emergenti. Anziché
elencare strumenti, dobbiamo capire la logica sottostante che dà
forma a questo momento di transizione dei media. Queste caratte­
ristiche sono trasversali alle diverse piattaforme mediatiche e alle
diverse comunità culturali: ci dicono qualcosa sul modo in cui vi­
viamo in rapporto con i media oggi. Capire la natura della nostra
relazione con i media è fondamentale per qualsiasi tentativo di svi­
luppare un curriculum che possa favorire le abilità e le competenze
necessarie per entrare attivamente in una cultura partecipativa.
Il paesaggio dei media contemporanei è:

1. Innovativo. Ci troviamo in un periodo di cambiamento te


nologico prolungato e profondo. Nuovi media si creano, si disper­
Esten d er e la c o n v e r s a z io n e 319

dono, vengono adottati, adattati e assorbiti nella cultura a un ritmo


vertiginoso. Certo, si possono identificare altre “rivoluzioni” avve­
nute nel mondo delle comunicazioni: il passaggio dall’oralità alla
scrittura, l’ascesa della cultura della stampa, l’emergere dei moder­
ni mass media verso la fine del diciannovesimo e gli inizi del vente­
simo secolo, rappresentano tutti cambiamenti di paradigma impor­
tanti nel modo di comunicare le idee. In ogni caso, una raffica di
cambiamenti tecnologici è stata seguita da un periodo di lento as­
sestamento. Come da tempo hanno notato gli storici e gli studiosi
di letteratura, l’esplosione di nuove tecnologie alla fine del dician­
novesimo secolo ha inaugurato un periodo di consapevolezza pro­
fonda, che oggi chiamiamo modernismo. Il modernismo ha avuto
effetti su tutte le istituzioni, ha dato nuova forma a tutte le moda­
lità di espressione artistica e ha innescato una serie di risultati intel­
lettuali i cui effetti si sentono ancora oggi. Con l’ingresso nel ven­
tesimo secolo la rapidità del cambiamento tecnologico e culturale è
addirittura aumentata, e non accenna a diminuire in questo scorcio
di ventunesimo secolo. La sostituzione delle tecnologie è rapidissi­
ma; la ricaduta economica ha la forza di un cataclisma; e gli effetti
culturali sono imprevedibili.
Oggi l’introduzione delle tecnologie dei nuovi media apre alla
sperimentazione sociale ed estetica. L’antropologo Grant McCrac-
ken ha definito il nostro come un momento di “ abbondanza” cul­
turale, rappresentata da un menu in continua espansione di scelte e
opzioni culturali. McCraken sostiene che si ha “abbondanza” per­
ché le condizioni culturali sono mature per il cambiamento, perché
le tecnologie dei nuovi media hanno abbassato le barriere all’in­
gresso nel mercato culturale, e perché le istituzioni che tradizional­
mente hanno tenuto sotto controllo l’innovazione hanno visto de­
clinare la loro influenza (è quello che chiama “withering o f thè
witherers” ). Il risultato è stato la diversificazione della produzione
culturale. Ogni nuova tecnologia autorizza una nuova gamma di
usi diversi, ispira una varietà di risposte estetiche, viene abbracciata
e messa all’opera da comunità diverse di utenti. Queste trasforma­
zioni ampliano i mezzi dell’espressione personale e collettiva.

2. Convergente. Ogni idea, immagine, suono, storia, marchio e


relazione di una qualche importanza si distenderà sulla più ampia
gamma possibile di canali mediatici. La convergenza viene foggiata
dall’alto verso il basso dalle decisioni prese dai grandi conglomerati
320 P o s t il l a a l l ’ e d iz i o n e it a l ia n a

mediatici, che hanno forme di controllo su tutti i possibili sistemi


di media e che hanno il potere di fare in modo che i loro contenuti
abbiano una circolazione globale. E nel loro interesse economico
trasferire qualsiasi contenuto di successo da un sistema di delivery
a un altro, per massimizzare i profitti e ampliare i mercati potenzia-
li. Allo stesso tempo, la convergenza viene foggiata dal basso verso
l’alto dagli impulsi partecipativi dei consumatori, che vogliono po­
ter controllare e dare forma al flusso dei media nelle loro vite; vo­
gliono i media che vogliono quando li vogliono e dove li vogliono.
E, di conseguenza, trascinano i contenuti dei media in nuovi spazi,
illegalmente se non sono disponibili per l’acquisto in quei formati.
Inoltre, quegli stessi consumatori sfruttano le tecnologie dei nuovi
media per rispondere ai contenuti esistenti dei media, farne dei re­
mix e reindirizzarli ad altre finalità; usano il Web per parlare a loro
volta ai produttori di media o per raccontare le loro storie sui per­
sonaggi della finzione.

3. Quotidiano. La tecnologizzazione delle case americane è un


processo in corso da tutto il ventesimo secolo. Il nostro salotto è
diventato un centro domestico di intrattenimento. Il cuore delle
nostre famiglie oggi è elettronico. Le tecnologie dei media sono
completamente integrate nelle nostre interazioni sociali quotidia­
ne. Per certi versi, queste tecnologie sono state un cuneo fra i mem­
bri della famiglia; spesso i giovani mettono in campo i media per
separarsi dalle altre persone che hanno intorno. Allo stesso tempo,
però, queste tecnologie hanno reso possibile un collegamento più
forte con i membri della famiglia geograficamente lontani, contri­
buendo così a combattere alcune delle forze che stanno disinte­
grando le famiglie estese. Bruce Sterling ha messo a confronto la
monumentalità dei prodotti della tecnica nel primo ventesimo se­
colo (“le grandi meraviglie che sbuffavano vapore del passato”)
con le tecnologie più quotidiane e familiari della fine del secolo (il
personal computer, il Sony Walkman, il telefono portatile, le lenti
a contatto flessibili). La tecnologia contemporanea “ si attacca alla
pelle, risponde al tocco... pervasiva, incredibilmente intima. Non
fuori di noi, ma prossima a noi” . C ’è un pericolo, in questa tecno­
logia che diventa così familiare, così parte delle nostre routine quo­
tidiane da diventare invisibile per noi: che non si riesca a vedere lo
strato di media che ci circonda, più di quanto un pesce nota l’acqua
in cui nuota.
Esten d er e la c o n v e r s a z io n e 32 1

Allo stesso tempo, ora possiamo portare i nostri media con noi
ovunque andiamo. Stiamo ancora cercando di cogliere tutte le con­
seguenze di quest’ultimo cambiamento nelle modalità di accesso ai
media. Ancora una volta, questa tecnologia può essere usata per se­
pararci dal nostro ambiente e isolarci dalle persone che ci stanno
intorno - come dice la pubblicità dell’iPod, possiamo crearci una
colonna sonora per la nostra vita. In qualche caso, la disponibilità
di questi media aggiunnge un senso di provvisorietà alle nostre in­
terazioni nel mondo reale, che possono essere interrotte in qualsi­
asi momento da richieste che arrivano da altrove. E quella che la
sociologa Linda Stone chiama “attenzione parziale continua” , che
si sposta dagli input mediati a quelli faccia a faccia, a seconda del
sopraggiungere di esigenze diverse. Possiamo anche usare queste
tecnologie per annotare il nostro ambiente - ci danno accesso alle
informazioni quando ne abbiamo bisogno e così aumentano la no­
stra consapevolezza del mondo intorno a noi. Come ha descritto
Mizuko Ito, possiamo usare queste tecnologie per mantenere un
contatto attivo e costante con le persone che per noi contano di
più. Come ha mostrato Howard Rheigold, possiamo usare queste
tecnologie per mobilitarci rapidamente in risposta a urgenze che ri­
chiamano prepotentemente la nostra attenzione.

4. Interattivo. Le nuove tecnologie facilitano il campionamento


e il riorientamento delle immagini dei media. Possiamo citare e ri­
contestualizzare suoni registrati e immagini (fisse o in movimento)
quasi con la stessa facilità cón cui possiamo citare e ricontestualiz­
zare le parole. La nostra cultura comunica sempre di più mediante
frammenti di contenuti presi in prestito dai media. I giovani costru­
iscono nastri mixati per condividere i sentimenti reciproci. Creano
un collage di immagini per esprimere come vedono se stessi. Le lo­
ro pagine web sono l’equivalente digitale dei vecchi diari, una mi­
scela di espressioni personali e materiali presi a prestito. Gli artisti
hanno sempre preso a prestito da opere precedenti della loro tradi­
zione, e su quello hanno poi costruito. Le nuove tecnologie hanno
allargato la cerchia di quanti possono esprimersi attraverso i media
e questa pratica della riscrittura creativa di opere precedenti è di­
ventata parallelamente più diffusa. Non abbiamo ancora un’etica
convincente dell’appropriazione. Ci esprimiamo in modi nuovi ma
non abbiamo ancora le risorse concettuali che ci permettano di fare
un passo indietro e riflettere su quello che stiamo creando.
322 Po s t il l a a l l ’ e d iz i o n e it a l ia n a

Le nuove tecnologie della comunicazione, come il videoregi­


stratore digitale o il lettore di Dvd, permettono ai consumatori di
controllare meglio il flusso dei media nelle loro case. Nuove moda­
lità di intrattenimento, come i giochi per computer o per consolle,
dipendono dal nostro impegno attivo: non ci limitiamo a consu­
marli, li facciamo succedere. Le comunità dei fan online e le cultu­
re del modding stanno rendendo sempre più sfumata la linea di
confine fra chi consuma e chi produce. Vogliamo far parte delle
esperienze mediatiche che ci interessano; vogliamo creare e condi­
videre con altri i nostri stessi media. In qualche modo, i mass media
hanno scalzato gli impulsi partecipativi che caratterizzavano la cul­
tura folk dell’America del diciannovesimo secolo: da paese di pro­
duttori culturali siamo diventati un paese di consumatori culturali.
La produzione amatoriale di cultura è stata spinta nell’ombra, na­
scosta alla vista, anche se non è mai stata totalmente distrutta
dall’ascesa dei mezzi di comunicazione di massa. Il Web ha reso
nuovamente visibile questo strato di produzione amatoriale, met­
tendo a disposizione una infrastruttura in cui i dilettanti possono
condividere le loro creazioni gli uni con gli altri: questa capacità di
condividere i media ha contribuito a motivare la produzione me-
diatica, e il risultato è un’esplosione di espressioni grassroots.

5. Partecipativo. Le tecnologie dei media sono interconnesse,


perciò i messaggi fluiscono facilmente da un luogo all’altro e da
una persona all’altra. La comunicazione si svolge a tanti livelli di­
versi - può essere intima e personale oppure pubblica e a grande
scala. Il modello “un emittente, molti ricevitori” che ha dominato
la cultura della stampa e quella dei mass media moderni sta lascian­
do il passo a un modello “ da molti a molti” , in cui ogni partecipan­
te può far circolare il suo lavoro in una comunità più ampia. La ca­
pacità di “ fare rete” è diventata una abilità sociale e professionale
importante. I giovani si abituano a calcolare i vantaggi e gli svan­
taggi dell’applicazione di sistemi di comunicazione diversi per fina­
lità diverse - e cercano di decidere come comunicare le loro idee
solo a quelli che vogliono le vedano, mentre vogliono mantenere la
riservatezza nei confronti degli occhi indesiderati.

6. Globale. Il contenuto dei media scorre fluidamente oltre i


confin nazionali; le nuove reti di comunicazione si estendono in
modo che le persone possano interagire fra loro in tutto il mondo.
Esten d er e la c o n v e r s a z io n e 32 3

La scia globale di questo panorama dei nuovi media modifica il


modo in cui pensiamo noi stessi e il nostro posto nel mondo. Pos­
siamo immaginare una progressione, dalle nazioni che inviano sin­
goli diplomatici a grandi distanze per poter interagire fra loro,
all’era moderna dei voli internazionali in cui molti hanno l’espe­
rienza di visitare direttamente altre parti del mondo, fino a oggi, in
cui un numero sempre più grande di persone interagisce quotidia­
namente, se non ogni ora, con persone che vivono in qualsiasi altra
parte del pianeta. Le conseguenze di lungo periodo di questo espe­
rimento di scambio culturale globale sono ancora tutte da scoprire.
Qualcuno ha sostenuto che questo ampliamento della comunica­
zione genererà una maggiore comprensione; altri vedono il ritor­
no del fondamentalismo come una reazione contro la minaccia po­
sta da questi scambi globali. Qualcuno teme che le nazioni econo­
micamente più potenti schiacceranno tutte le altre, portando a una
omogeneizzazione delle culture globali; altri sono convinti invece
che un mondo del genere richieda una produzione costante di dif­
ferenze culturali, per soddisfare un desiderio apparentemente insa­
ziabile di uscire dal provincialismo della propria cultura.

7. Generazionale. Nel corso della storia, le tradizioni e le norme


culturali sono state trasferite da una generazione all’altra: questi ti­
pi di trasferimento sono stati l’obiettivo principale delle pratiche
dell’istruzione in queste società tradizionali. Nel corso del ventesi­
mo secolo, però, con l’accelerazione del ritmo del cambiamento
culturale e tecnologico, i giovani hano adottato stili culturali e va­
lori radicalmente differenti e spesso del tutto contrari a quelli della
generazione precedente. Ricerche recenti fanno pensare che giova­
ni e adulti vivano in ambienti mediatici fondamentalmente diversi,
usino le tecnologie della comunicazione in modi diversi e formino
interpretazioni contrastanti delle loro esperienze. Gli adulti sanno,
di quello che fanno i giovani online, meno di quello che pensano di
sapere, e i giovani sanno, dei valori e delle ipotesi di fondo che
danno forma alla relazione degli adulti con i media, meno di quello
che pensano di sapere.

8. Ineguale, qualcuno ha suggerito di definite “elettiva” questa


nuova cultura dei media, perché le persone possono decidere di
passare a piacere da un livello di partecipazione a un ältro diverso.
Almeno chi ha l’accesso e le abilità necessarie per adattarsi rapida­
324 Po s t il l a a l l ’ e d iz i o n e it a l ia n a

mente a nuove comunità adotta un ruolo e lo “ smette” con la stessa


rapidità. M a c’è un altro senso in cui la qualifica di “ elettive” per
queste culture sarebe sbagliata. Nella misura in cui la partecipazio­
ne a queste comunità rappresenta una nuova fonte di potere, di ric­
chezza e di conoscenza, rappresenta anche una nuova sorgente di
privilegio e disuguaglianza. Partecipare può essere una questione di
scelta per chi ha le risorse necessarie, ma chi rimane indietro non
ha questa opzione. Allargare l’accesso al cyberspazio può dare a
nuovi segmenti del pubblico il potere per diventare partecipanti a
pieno alla vita culturale e civica, ma dobbiamo preoccuparci che
queste tecnologie elettroniche rendano invisibile chiunque invece
non è in grado di partecipare. Come nota la ricercatrice inglese So­
nia Livingstone, “ insegnare le abilità necessrie a produrre contenu­
ti è più cruciale che mai. In effetti, non farvo vorrebbe dire togliere
potere ai cittadini, data la spinta attuale a duplicare, o addirittura a
sostituire online le nostre istituzioni sociali e politiche” .

Di queste otto caratteristiche, l’unica che può descrivere le no­


stre attuali istituzioni formative è la disuguaglianza. Per il resto, le
nostre scuole non hanno tenuto il passo con le trasformazioni
dell’ambiente intorno a loro. Se dovessimo ricominciare tutto dac­
capo e progettare un sistema educativo che soddisfi le esigenze del­
la cultura che abbiamo appena descritto, avrebbe ben poco in co­
mune con l’attuale sistema scolastico. Le nostre scuole deludono
due volte i ragazzi: non offrono loro né le conoscenze di cui avreb­
bero bisogno per evitare i rischi, né l’opportunità di sfruttare le po­
tenzialità di questa nuova cultura partecipativa. In effetti, le abilità
di cui avrebbero bisogno nel nuovo paesaggio mediatico sono abi­
lità che spesso sono considerate disfunzionali e distruttive, nel con­
testo dell’istruzione formale. I ragazzi, per lo più, le apprendono
da soli, al di fuori della scuola, con la consequenza che quelle com­
petenze sono distribuite in modo disuguale nella popolazione.
N o te

Introduzione
1. Josh Grossberg, “The Bert-Bin Laden Connections?” , E Online, 10/10/
2001, http://www.eonline.com/News/Items/0,l,8950,00.html. Per una diversa
prospettiva su Bert e Bin Laden, vedi Roy Rosenzweig, “ Scarcity or Abundance?
Preserving thè Past in a Digital Era”, American History Review, giugno 2003.
2. “ RSTRL to Premier on Celi Phone”, IndiaFM News Bureau,6/12/2004,
http://www.indiafm.com/scoop/04/dec/0612rstrlcell/index.shtml.
3. Nicholas Negroponte, Being Digital, Alfred A. Knopf, New York, 1995 [tr.
it. Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995].
4. Ivi, pp. 57-58.
5. George Gilder, “Afterword: The Computer Juggernaut: Life After Life Af­
ter Television”, aggiunto nell’edizione del 1994 di Life After Television: The Co­
ming Transformation of Media and American Life, W.W. Norton, New York,
1995, p. 189. Il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1990.
6. Ithiel De Sola Pool Technologies of Freedom: On Free Speech in an Electro­
nic Age, Harward University Press, Cambridge, Mass., 1983, p. 23.
7. Ibid.
8. Ivi, p. 5.
9. Negroponte, op. cit.
10. Pool, op. cit., pp. 53-54.
11. Per un approfondimento del concetto di media in transizione, vedi David
Thornburn e Henry Jenkins, “ Towards an Aesthetic of transitino”, in David Thor-
nburn, Henry Jenkins (eds), Rethinking Media Change: The Aesthetics of Transi­
tion:, M IT Press, Cambridge, M ass., 2003.
12. Bruce Sterling, “The Dead Media Project: A Modest Proposai and a Public
Appeal” , http://www.deadmedia.org/modest-proposal.html.
13. Ibid.
14. Lisa Gitelman, “Introduction: Media as Historical Subjects”, in Always
Already New: Media, History and thè Data of Culture, in corso di pubblicazione.
15. Per un riferimento utile al concetto ricorrente secondo cui i vecchi media
uccidono i vecchi, vedi Priscilla Coit Murphy, “Books Are Dead, Long Live Boo-
ks”, in David Thorburn, Henry Jenkins (eds.), Rethinking Media Change, cit.
16. Gitelman, op. cit.
326 N ote

17. Cheskin Research, “ Designing Digital Expérience for Youth” , Market Insi-
gbts Series, autunno 2002, pp. 8-9.
18. Mizuko Ito, “Mobile Phones, Japanese Youth and thè Re-placement of thè
Social Contract” , in Rich Ling, Pet Petersen (eds.), Mobile Communications: Re-
Negotiation of thè Social Sphere (di prossima pubblicazione), http://www.ito-
fisher.com/mito/archives/mobileyouth.pdf.
19. Per un utile riferimento sull’argomento, vedi Henry Jenkins, “ Love Onli­
ne”, in Henry Jenkins (ed.), Fans, Gamers, and Bloggers, New York University
Press, New York, 2005.

Capitolo 1
I. J. Pearlstein, “ The Finale as Rerun When Trumping ‘Survivor’” , New York
Times, 27/3/2003.
2 ChillOne ha la sua versione dei fatti, e ha pubblicato in proprio un reso­
conto degli eventi qui descritti. Vedi ChillOne, The Spoiler: Revealing thè Secrets
o f Survivor, IUniverse, New York, 2003.
3. P. Lévy, Collective Intelligence: Mankind’s Emerging World in Cyberspace,
Perseus Books, Cambridge, Mass., 1997, p. 20 [tr. it. V intelligenza collettiva, Fel­
trinelli UE, Milano, 2002, p. 34.
4. Ivi, p. 237 [tr. it. p. 229].
5. Ivi, p. 217 [tr. it. pp. 211-212].
6. Ivi, pp. 214-215. [tr. it. p. 209].
7. M.B. Haralovich, M.W. Trosset, “ ‘Expect thè Unexpected’ : Narrative Ple-
asure and Uncertainty Due to Chance in Survivor” , in S. Murray, L. Ouillette
(eds.), Reality TV: Remaking Television Culture, New York University Press, New
York, 2004, pp. 83-84.
8. Se non riportato diversamente, queste e altre citazioni di Sucksters sono
tratte da “ ChillOne’s Amazon Vacation Spoilers”, disponibile su http//www.
p085.ezboard.com/fsurvivorsucksfrm 12.showM essageRange?topicID=204.topic
& sta rt= l& sto p = 2 0 . Eccetto i partecipanti principali, ho omesso i nomi dei posta-
tori per proteggere la loro privacy. Essi compaiono solo dietro loro esplicita auto­
rizzazione.
9. Le frasi di Wezzie e Dan sono tratte da un’intervista personale all’autore,
condotta via e-mail, nel giugno del 2003.
10. P. Lévy, op. cit., p. 61 [tr. it. p. 74].
I I . La frase “in America” , qui, è evocativa della natura globale di questa comu­
nità di fan. Mentre i programmi di reality vengono prodotti per specifici mercati
locali con i format, ma non i contenuti venduti in tutto il mondo, i fan dei reality
traggono vantaggio da Internet per monitorare le serie in onda negli altri paesi e
collegarsi con altri fan dall’estero.
12. M. Sella, “The Remote Controllers” , New York Times, 20/10/2002.
13. D. R. Epstein, “ Interview: Jeff Probst of Survivor” , Underground Online,
disponibile su http://www.ugo.com/channels/filmtv/features/jeffprobst/.
14. Sullo spoling di Survivor, vedi “ Fear and Spoiling at Survivor Sucks”, http:/
/p085.ezboard.com/fsurvivorsucksfrm32.showMessageRange?start= l& sto p + 20
toopicID = 74.topic.
15. Intervista personale con l’autore, maggio 2003.
N ote 327

16. Vedi TapeWatcherB65, “The REAL Episode 1 Spoiler—Follow The Sun” ,


http://p085.ezboard.com/fsurvivorsucksfrml2.showMessageRangePtopicID =
101,topic& start+ l& sto p = 2 0 .
17. P. Walsh, “ That Withered Paradigm: The Web, thè Export and thè Infor­
mation Hegemony”, in H. Jenkins, D. Thorburn (eds.), Democràcy and New Me­
dia, M IT Press, Cambridge, 2003.
18. P. Lévy, op. cit., p. 70 [tr. it. p. 82].
19. E. Nussbaum, “Television: The End of thè Surprise Ending”, New York Ti­
mes, 9/5/2004.
20. The wingedmonkeys, “ Conference Call with Mark Burnett” , Survivor
News, http://www.survivornews.net/news.p h p ?id = 3 17.
21. S. Tilley, “Will Survivor Survive thè Internet?” , Edmonton Sun, 16/1/
2004.
22. Wezzie, corrispondenza e-mail con l’autore, 29 agosto 2004.

Capitolo 2
1. J. Graham, “ Idol Voting Strained Nerves, Nation’s Telephone Systems”,
USA Today, 27/5/2003, http://www.usatoday.com/life/television/news/2003-05-
26-idol_x.thm.
2. J. Smith, “ Getting thè Mssg: U.S. Wireless Carriers Mining thè Airwaves
for Ways to Profit from Text M essaging”, Rocky Mountain News, 19/5/2003.
3. Ibid.
4. “A T & T Wireless Text Messaging Takes Center Stage with Unprecedented
Performance on Fox’s American Idol” , PR Newswire, 16/4/2003.
5. S. Collins, M.E. Fernandez, “ Unwanted Wrinkles for Idol” , Los Angeles Ti­
mes, 25/5/2004, p. 1.
6. S. Elliott, “The Media Business: Some Sponsors Are Backing Off to Fine-
Tune thè Art of Blending Their Products into Television Shows”, New York Times,
22/1/2003.
7. J. Pendleton, “ Idol a Standard for Integration”, Advertising Age, 24/3/
2003.
8. P. Patsuris, “The Most Profitable Reality Sériés” , Forbes, 7/9/2004, http://
www.forbes.com/home_europe/business/2004/09/07/cx_pp_0907reality.html.
9. G. Levin, “N o Summer Vacation on TV: Networks Aggressively Chase Au­
diences with Reality, Original Sériés” , USA Today, 3/6/2004, p. 1D.
10. C. Hay, “ Idol Ups Stakes for TV Talent” , Billboard, 26/4/2003.
1 1 .K . Peterson, “ False Idols: How to Face Down a Media Monster So We No
Longer Worship Moments Like This” , San Diego Union-Tribune, 16/12/2002.
12. V. Packard, The Hidden Fersuaders, Bantam, New York, 1957 [tr. it. Iper-
suasori occulti, Einaudi, Torino].
13. Applebox Productions, Inc., cartolina di marketing, circa 2000.
14. Corrispondenza personale con l’autore, 31/12/2004.
15. A. Bianco, “The Vanishing M ass Market” , Businessweek, 12/7/2004, p. 62.
16. Ivi, p. 64.
17. Ivi, p. 62.
18. S. Whiting, discorso redatto per il MIT Communications Forum, 17 aprile
2003. Lo streaming audio della sessione è reperibile su http://web.mit.edu/comm-
forum/forums/nielsen.html#audiocast.
328 N o te

19. S. Koerner, discorso per il Media in Transition 3 Conference: Television,


MIT, Cambridge, M ass., 3 maggio 2003. Lo streaming audio di questa sessione è
reperibile su http://cms.mit.edu/mit3/.
20. S. Donaton, Madison and Vine: Why thè Entertainment and Advertising In­
dustries Must Converge to Survive, McGraw-Hill, New York, 2004, pp. 10-11.
21. M. Schneider, “ Fox Revs Ford for Blurb Free 24” , Variety, 21/7/2002.
22. S. Donaton, op. cit., p. 18.
23. S.L. Koerner, D. Ernst, H. Jenkins, A. Chisholm, “ Pathways to Measuring
Consumer Behaviour in An Age of Media Convergence”, dossier presentato alla
Advertising Research Foundation / ESOMAR Conference, Cannes, Francia, giu­
gno 2002.
24. SJ . Heyer, relazione di base per la Advertising Age’s Hollywood + Vine
Conference, Beverly Hills Hotel, Beverly Hills, California, 5 febbraio 2003. Una
trascrizione del discorso è reperibile su http://www.egta.com/pages/Newslet-
ter%20-%20Heyer.pdf. Tutti i successivi riferimenti ad Heyer sono tratti da que­
sto discorso.
25. K. Roberts, Lovemarks: The Future Beyond Brands, Power House Books,
New York, 2004, p. 43.
26. J. D’Angelo, “Ruben Débuts at # 1 but Can’t Match Clay’s First-Week Sa-
les” , VH1, 17/12/2003, http://www.vhl.com/artists/news/1482928/12172003/
aiken_clay.jhtml.
27. T. Howard, “ Real Winner of ‘American Idol’: Coke”, USA Today, 8/9/
2002; W. Friedman, “ Negotiating thè American Idol Product Placement Deal” ,
Advertising Age, 29/9/2002, reperibile su http://www.adage.com/news.cmsPnew-
sld=38800.
28. S. Wilson, intervista con Carol Kruse, IMedia Connection, 2/10/2003, re­
peribile su http://www.imediaconnection.com/content/1309.asp.
29. R. V. Kozinets, “ E-Tribalized Marketing? The Strategie Implications of
Virtual Communities of Consumption” , European Management Journal, 17/3/
1999, pp. 252-264.
30. K. Roberts, op. cit., p. 170.
31. Ivi, p. 172.
32. M. Gobe, Emotional Branding: The New Paradigm for Connecting Brand
sto People, Allworth Press, New York, 2001; J. Hagel III, A.G. Armstrong,
Net.Gain: Expanding Markets through Virtual Communities, Harvard University
Press, Cambridge, Mass, 1997.
33. D. Peppers, “Introduction” , in Seth Gordon, Permission Marketing: Tur-
ning Strangers into Friends and Friends into Consumers, Simon and Shuster, New
York, 1999, p. 12.
34. P. Swann, TV.Com: How Television Is Shaping Our Future, TV Books,
New York, 2000, pp. 9-10.
35. Ivi., p. 31.
36. A. M. Muniz Jr, T. C. O ’Guinn, “ Brand Community” , Journal of Consu­
mer Research, marzo 2001, p. 427.
37. R. V. Kozinets, “ E-Tribalized M arketing?”, cit., p. 10.
38. Ivi, p. 12.
39. Delle riflessioni preliminari erano riportate in D. Ernst, S.L. Koerner, H.
Jenkins, S. Shresthova, B. Thiesen, A. Chisholm, “ Walking thè Path: Exploring thè
N o te 329

Drivers of Expression” , dossier presentato per il Advertising Research Foundation


/ ESOMAR Conference, giugno 2003.
40. D. Morley, Family Television: Cultural Power and Domestic Leisure, Rout-
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41. J. H. McAlexander, J. W. Schouten, H. F. Koenig, “ Building Brand Com­
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42. D. Starr Seibel, “American Idol Outrage: Your Vote Doesn’t Count” ,
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43. D. Jones, “ Gossip: Note on Women’s Orai Culture” , Women’s Studies In­
ternational Quarterly, 1980, 3, pp. 194-195.
44. C. Sustein, Republic.Com, Princeton University Press, Princeton, 2002 [tr.
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45. W. Paulsen, “ Distorted American Idol Voting Due to an Overtaxed Ameri­
can Power Grid?”, Reality TV World, http://www.realitytvworld.com/index/arti-
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46. Staff, “The Right Fix for Fox” , Broadcasting & Cable, 24/5/2004, p. 36.
47. J. Giglione, “ What’s Wrong with thè American Idol VotingSystem”, 24/5/
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48. Wade Paulson, “ Elton John Calls American Idol Voting Tncredibly Ra-
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Capitolo 3
1. P. Bagge, “ Get It?” , http://whatisthematrix.wrnerbros.com, ripubblicato in
A. e L. Wachowsky (eds.), The Matrix Comics, Burlyman Entertainment, New
York, 2003.
2. Sul successo commerciale dei film, vedi “The Matrix Reloaded” , Enter­
tainment Weekly, 10/5/2001.
3. P. Lévy, op. cit. [tr.. it. p. 129].
4. F. Lidz, “ Rage against the Machines” , TV Guide, 25/10/2003, http://
www.reevesdrive.com/newsarchive/2003/tvgl 025 03.htm.
5. D. Gordon, “The Matrix M akers” , Newsweek, 6/1/2001, disponibile on li­
ne su http://msnbc.msn.com/id/3067730.
6. U. Eco, “ Casablanca: Cult Movies and Intertextual Collage” , in Travels in
Hyperreality, Harcourt Brace, New York, 1986, p. 198.
7. Ibid.
8. Ibid.
9. Ivi, p. 200.
10. Ibid.
11. Ivi., p. 210.
12. B. Sterling, “Every Other Movie Is the Blue Pili” , in Karen Haber (ed.),
Exploring the Matrix: Visions of the Cyber Present, St. Martin’s Press, New York,
2003, pp. 23-24.
13. Questa e le successive affermazioni sono tratte da Matrix Virtual Theater,
Wachowsky Brothers Transcript, 6 novembre 1999, disponibile on line su http://
warnervideo.com/matrixevents/wachowski.html.
14. “Matrix Explained: What Is the M atrix?” , http://www.matrix-explai-
ned.com/about_matrix.htm.
330 NOTE

15. J. Silver, citato in “ Scrolls to Screen: A Brief History of Anime” , The Ani-
matrix DVD.
1 6 .1. Askwith, “A Matrix in Every M edium”, Salon , 12/5/2003, online su
http://archive.salon.com/tech/feature/2003/05/12/matrix_universe/index_np.html.
17. Per un utile riferimento, vedi K. Thompson, Storytelling in thè New Hol­
lywood: Understanding Classical Narrative Technique, Harvard University, Cam­
bridge, Mass, 1999.
18. F. Morrow, “Matrix: The ‘trix of thè Trade”, London Indipendente 28/3/
2003.
19. M. Antonucci, “ Matrix Story Spans Sequel Films, Video Game, Anime
DVD”, San Jose Mercury, 5/5/2003.
20. J. Netherby, “The Neo-Classical Period at Warner:Matrix Marketing M a­
nia for Films, DVDs, Anime, Videogame”, Looksmart, 31/1/2003.
21. D. Bilson, intervista con l’autore, maggio 2003. Tutte le successive affer­
mazioni delPautore sono tratte dall’intervista.
22. Vedi W. Brooker, Using thè Force: Creativity, Community, and Star Wars
Fans, Continuum, New York, 2002.
23. N. Young, intervista con l’autore, maggio 2003. Tutte le successive affer­
mazioni di Young sono tratte dall’intervista.
24. J. Gaudiosi, “ The Matrix Video Game Serves as a Parallel Story to Two Se-
quels on Screen” , Daily Yomiuri, 29/4/2002.
25. “Three Minute Epics: A Look at Star Wars: Clone W ars” , 20/2/2003,
www.starwars.com/feature/20040220.
26. Intervista, Yoshiaki Kawajiri, http://www.intothematrix.com/rl_cmp/
rl_interview_kawajiri.html.
27. Per una visione d ’insieme, vedi W. Jon Williams, “Yuen Woo-Ping and thè
Art of Flying”, in K. Haber (ed.), Exploring thè Matrix: Visions of thè Cyber Pre­
senti, St.Martin’s Press, New York, 2003, pp. 122-125.
28. M. Ito, “ Technologies of thè Childhood Imagination: Yugioh, Media
M ixes and Everyday Cultural Production” , in J. Karaganis, N. Jeremijenko (eds.),
Network/Netplay: Structure of Participation in Digital Culture, Duke University
Press, Durham, N. C., 2005.
29. P. Chadwick, “ The Miller’s Tale”, “ Déjà vu” , “Let It Fall Down” , http://
whatisthematrix.warnerbros.com/rl_cmp/rl_middles3_paultframe.html. “The M il­
ler’s Tale” è ripubblicato in A. e L. Wachowski (eds.), The Matrix Comics, Burly-
man Entertainment, New York, 2003.
30. P. Chadwick, Concrete: Think Like a Mountain, Dark Horse Comics, Mi-
lwaukie, Or., 1997.
31. Questa visione condivisa può spiegare la ragione per cui a Chadwick venne
chiesto di sviluppare la sceneggiature del gioco multiplayer online di The Matrix.
Per sapere di più sul ruolo svolto da Chadwick, vedi “The Matrix Online: Inter­
view with Paul Chadwick”, Gamespot, disponibile on line su http://www.game-
spot.com/pc(rpg/matrixonthelinetentatvetitle/preview_6108016.html.
32. Per un dibattito utile sulle continuità e discontinuità di un media franchise,
vedi W. Uricchio, R. E. Pearson, “ I’m Not Fooled by That Chip Disguise”, in R. E.
Pearson, W. Uricchio (eds.), The Many Lives ofthe Batman: Criticai Approaches to
a Superhero and His Media, Routledge, New York, 1991.
N ote 331

33. Il contributo del pubblico nella crescita di Boba Fett è un riferimento fre­
quente in W. Broker, Using thè Force: Creativity, Community and Star Wars Fans,
Continuum, New York, 2002.
34. J. Murray, Hamlet on thè Holodeck: The Future of Narrative in Cyberspa­
ce, M IT Press, Cambridge, Mass, 2002.
35. Ibid.
36. Ibid.
37. “Mahiro M aeda” , intervista, disponibile on line su http://www.intothema-
trix.com/rl_cmp/rl_interview_maeda2.html.
38. G. Darrow, “ Bits and Pieces of Information” , disponibile on line su http://
whatisthematrix.warnerbros.com, ripubblicato in A. e L. Wachowski (eds.), The
Matrix Comics, Burlyman Entertainment, New York, 2003.
39. G. Gordinier, “ 1999: The Year That Changed thè Movies” , Entertainment
Weekly, 10/10/2004, http://www.we.eom/ew/report/0.6115.271806_7_0_00.html.
40. J. Murray, op. cit., p. 257.
41. M. Maeda, intervista.
42. B. S. Flowers, Joseph CampbelVs The Power of Myth with Bill Moyers,
Doubleday, New York, 1988.
43. Vedi, per esempio, M.M. Goldstein, “ The Hero’s Journey in Seven Se-
quences: A Screenplay Structure” , NEFilms, settembre 1998, http://newengland-
film.com/news/archives/98september/sevensteps.htm; Troy Dunniway, “ Using thè
Hero’s Journey in Games”, Gamasutra.com, http://www.gamasutra.com/features/
2000127/dunniway_pfv.htm.
44. R. Ebert, “The Matrix Révolutions”, Chicago Sun Times, 5/11/2003.
45. D. Edelstein, “Neo Con”, Siate, 14/5/2003, http://slate.msn.com/id/
2082928.
4 6 . 1 fan non sono gli unici a ricercare significati in The Matrix. Vedi anche W.
Irwin, The Matrix and Philosophy: Welcome to thè Desert ofthe Reai, Open Court,
Chicago, 2002.
47. B. Takle, “The Matrix Explained” , 20/5/2003, http://webpages.char-
ter.net/btakle/matrix_reloaded.html.
48. Ebert, “ Matrix Révolutions”, cit.
49. J. Gaudiosi, “Matrix Vid Game Captures Film Feel”, Hollywood Reporter,
6/2/2003, disponibile on line su http://www.thelastfreecity.com/docs/7965.htm
50. S. Totilo, “Matrix Saga Continues On Line - Without Morpheus” ,
MTV.com, 26/5/2005, http://www.mtv.com/games/video_games/news/story.jht-
m l?id= 1502973-
51. R. Corliss, “ Populär Metaphysic” , Time, 19/4/1999.
52. Vedi, per esempio, Suz, “The Matrix Concordance” , disponibile on line su
http://members.lycos.co.uk/needanexit/concor.html.
53. D. Buckingham, J. Sefton-Green, “Structure, Agency, and Pedagogy in
Children’s Media Culture” , in J. Tobin (ed.), Pikachus Global Adventure: The Rise
and Fall of Pokémon, Duke University Press, Durham, N.C., 2004, p. 12.
54. Ivi, p. 22.
55. M. Kinder individuò simili tendenze fin dal 1991, sostenendo che i media
per bambini potevano essere visti come luoghi per la sperimentazione delle strate­
gie corporate e posti dove i nuovi consumatori apprendono i requisiti per quella
che definisco come cultura convergente. Le serie di cartoni animati come Teenage
332 N ote

Mutant Ninja Turtles e i giochi come Super Mario Bros, insegnavano a quei bambi­
ni come inseguire i personaggi attraverso le piattaforme mediatiche, conformarsi
alla fluidità di un ambiente mediale in evoluzione e combinare modalità di fruizio­
ne attive e passive. M. Kinder, Playing with Power in Movies, Television and Video
Games: Front Muppet Babies to Teenage Mutant Ninja Turtles, University of Cali­
fornia Press, Berkeley, 1991.
56. M. Castells, The Internet Galaxy: Reflections on thè Internet, Business, and
Society, Oxford University Press, Oxford, 2001, pp. 202-203 [tr. it. Galassia Inter­
net, Feltrinelli UE, Milano, 2006, p. 190.]

Capitolo 4
1. Atomfilms, “Internet Users are M akin’W ookiee!” , comunicato stampa, 23
aprile 1999.
2. Chris Albrecht, intervista con l’autore, luglio 2005.
3. Per un approfondimento su fan e nuovi media, vedi H. Jenkins, “ The Poa-
chers and The Stormtroopers: Cultural Convergence in thè Digital Age” , in P. Le
Guern, Les cultes médiatiques: Culture fan et oeuvres cultes, Presses Universitaires
de Rennes, Rennes, 2002.
4. P. Clinton, “ Filmakers Score with Lucas in Love” , CN N , 24/6/1999, http:/
/wwww.cnn.com/SHOWBIZ/Movies/9906/24/movies.lucas.love.
5. J. Wolk, “ Tr.oop Dreams” , Entertainment Weekly, 20/3/1998, pp. 8-9.
6. M. Castells, a pagina 201 di The Internet Galaxy: Reflections on the Inter­
net, Business, and Society, Oxford University Press, Oxford, 2003, ha definito “ in­
terattività” la capacità dell’utente di manipolare e modificare la sua esperienza me­
diale direttamente e di comunicare con gli altri attraverso i media. Io preferisco te­
nere separate le due componenti della definizione, cosicché, a mio avviso, “ interat­
tività” si riferisce alla diretta manipolazione dei media come tecnologie, mentre
“ partecipazione” indica le interazioni sociali e culturali che si attuano attorno ai
media.
7. G. McCracken, “ The Disney TM Danger” , Plenitude, pubblicato in pro­
prio, 1998, p. 5.
8. L. Lessig, “ Keynote from O SCO N 200 2 ” , accessibile su http://www.oreil-
lynet.com/pub/a/policy/2002/08/15/lessig.html.
9. P. Clinton, “ Filmakers Score with Lucas in Love” , cit.
10. http://evanmather.com. In questo passaggio si parla del sito come se fosse
già stato attivo nel 2000, quando fu scritto il saggio. Dal 2004 in poi, Mather ha
portato avanti la sua produzione e il sito ha ospitato più di quarantotto film digi­
tali. I suoi lavori più recenti lo hanno tenuto lontano da Star Wars, a dimostrazione
del fatto che i suoi primi fan film gli hanno spianato la strada per una carriera ben
più varia.
11. R. Mannion, D. Hawley, “When Senators Attack IV” , http://theforce.net/
theater/animation/wsa4/index.shtml.
12. P.R. Zimmermann, Reel Families: A Social History of Amateur Film, India­
na University Press, Bloomington, 1995, p. 157.
13. P. Clinton, “ Filmmakers Score with Lucas in Love” , cit.
14. “A World from Shane Felux”, The Force.Net, http://www.theforce.net/
fanfilms/comingsoon/revelations/director.asp; C. Thompson, “ May the Force Be
N o te 33 3

with You, and You, and Y ou...: Why Fans Make Better Star Wars Movies than Ge­
orge Lucas” , Siate, 29/4/2005, http://slate.msn.com/id/2117760/.
15. K. Kelly, P. Parisi, “ George Lucas Interview” , accessibile su http://www.de-
lanohighschool.org/BillBaugher/stories/storyReader$1624.
16. C. Kronke, Director’s Note, The New World, http://theforce.net/theater/
shortfilms/newworld/index.shtml.
17. M. Thomas, D. Macomber, Duel, non più accessibile in rete.
18. M. Magee, “ Every Generation Has a Legend” , Shift.com, http://
www.shift.com/content/web/25 9/1 .html.
19. Probot Production, non più accessibile in rete.
20. C. Albrecht, intervista con l’autore, luglio 2005.
21. A. Harmon, “Star Wars’ Fan Films Come Tumbling Back to Earth” , New
York Times, 28/4/2002.
22. W. Brooker, Using The Force: Creativity, Community and Star Wars Fans,
Continuum, New York, 2002, pp. 30-32.
23. Per un approfondimento, vedi H. Jenkins, Textual Poachers: Television
Fans and Participatory Culture, Routledge, New York, 1992, pp. 164-171.
24. Fan Fiction on thè Net, http://members.aol.com:8O/ksnicholas/fanfic/in­
dex.html.
25. J. Brown, “ Fan Fiction on thè Line”, Wired.com, 11/8/1997, http://
www.wired.com/news/topstories/0,1287,5934,00. html.
26. W. Brooker, Using thè Force, cit., p. 167.
27. D.R. Philips, “The 500-Pound Wookie” , Echo Station, 1/8/1999, http://
www.echostation.com/features/lfl_wookie.htm.
28. R. Jinman, “ Star Wars”, Australian Magazine, 17/6/1995, pp. 30-39.
29. Nota ufficiale dal sito di Star Wars, citata in Elizabeth Durack, “ fan-
starwars.con” , Echo Station, 12/3/200, http://www.echostation.com/confans.html.
30. E. Durack, “ fans.starwars.con” , Echo Station, 12/3/2000, http://
www.echostation.com/editorials/confans.htm.
31. Atom Films, “The Officiai Star Wars Fan Film Awards” , http://atomfil-
ms.shockwave.com/af/spotlight/coHections/starwars/submit.html.
32. McCracken, Plenitude, p. 84.
33. Ivi, p. 85.
34. Per avere un saggio interessante che mette a confronto il corteggiamento
che Peter Jackson riserva ai fan di Lord of thè Rings con l’approccio più orientato
al mercato che viene adottato con la fandom di Star Wars, vedi E. Shefrin, “Lord
of thè Rings, Star Wars and Participatory Fandom: Mapping New Congruencies
between thè Internet and Media Entertainment Culture” , Criticai Studies in Media
Communication, settembre 2004, pp. 261-281.
35. R. Koster, “The Rules of Online World Design” , http://www.legend-
mud.org/raph/gaming/gdc.htm.
36. Se non indicato diversamente, tutte le citazioni di Ralph Koster sono tratte
da un’intervista personale con l’autore risalente a ottobre 2004.
37. K. Squire, “Interview with Ralph Koster” , Joystick 101, http://www.legen-
dmud,org/raph/gaming/joystickl 01 .html.
38. R. Koster, “The Rules of Online World Design” , cit.
39. R. A. Bartle, Designing Virtual Worlds, New Riders, Indianapolis, 2004, p.
244.
334 N o te

40. R. Koster, “ Letter to the Community” , http://starwarsgalaxies.sta-


tion.sony.com/team_cmmnts_old.jsp?id= 5 6 2 6 6 & page= Team%20Comments.
41. K. Squire, Constance Steinkuehler, “ The Genesis of ‘Cyberculture’ : The
Case of Star Wars Galaxies” , in A. Park (ed.), Cyberlines: Languages and Cultures
o f the Internet, James Nicholas, Australia, in pubblicazione. Vedi anche K. Squire,
“ Star Wars Galaxies: A Case Study in Participatory Design”, Joystick 101, http://
www. joystick 101 .org.
42. Squire, Steinkuelher, “ Genesis of ‘Cyberculture’” , cit. Per un altro utile re­
soconto sulla creatività dei fan di Star Wars Galaxies, vedi D. Thomas, “ Before the
Jum p to Lightspeed: Negotiating Permanence and Change in Star Wars Galaxies” ,
dossier presentato alla Creative Gamers Conference, University of Tempiere, Tem­
piere, Finlandia, gennaio 2005.
43. Sono in debito con Doug Thomas per aver portato il fenomeno alla mia at­
tenzione. Thomas ha scritto sui musical da cantina e altre forme di creatività grass­
roots in “Before the Jump to Lightspeed” .

Capitolo 5
1. Questi aspetti fondamentali sull’argomento sono trattati più a fondo in H.
Jenkins, “ Childhood Innocence and Other Myths”, in H. Jenkins (ed.), The Chil­
dren s Culture Reader, New York University Press, New York, 1998.
2. Se non indicato diversamente, tutte le citazioni di Heather Lawyer sono
tratte da un’intervista con l’autore dell’agosto 2003.
3. H. Lawyer, “To the Adults” , http://www.dprophet.com/hq/openletter.ht-
ml.
4. Ibid.
5. Per entrare più nel dettaglio, i ragazzi più giovani usano i racconti per rie­
laborare le loro storie di vita reale; vedi H. Jenkins, “ Going Bonkers! Children,
Play, and Pee Wee”, in C. Penley, S. Willis (eds.), Male Trouble, University of Min­
nesota Press, Minnesota, 1993.
6. A. Haas Dyson, Writing Superheroes: Contemporary Childhood, Populär
Culture, and Classroom Literacy, Teacher’s College Press, New York, 1997.
7. Vedi, per esempio, C. Schoefer, “ Harry Potter Girl’s Trouble”, Salon , 13/
1/2000, http://dir.salon.com/books/feature/2000/01/13/potter/index.html?sid=
566202. Per una posizione diversa, vedi C. Gregory, “ Hands Off Harry Potter!
Have Critics of J. K. Rowling’s Books Even read ThemP” , Salon, 1/3/2000, http://
www.salon.com/books/feature/2000/03/01/harrypotter.
8. E. Seiter, Sold Separately: Children and Parents in Consumer Culture, Rut-
gers University Press, New Brunwick, N .J, 1993.
9. J. Gee, Language, Learning, and Gaming: A Critique of Traditional Schoo-
ling, Routledge, New York 2005.
10. Flourish, intervista con l’autore, agosto 2003.
11. Vedi, per esempio, S.A. Wolf, S. Brice Heath, Braid of Literature: Chil-
dren’s World of Reading, Harvard University Press, Cambridge, Mass, 1992.
12. Zsenya, corrispondenza e-mail con l’autore, luglio 2005.
13. Flourish, intervista con l’autore, agosto 2003.
14. S. Quill, http://www.sugarquill.net.
15. Sweeney Agonistes, intervista con l’autore, agosto 2003.
N ote 335

16. E. Durack, “ Beta Reading!” , Writers University, http://www.writersu.com/


WU//modules.php Pname+ Ne w s& file= article&sid = 17.
17. R.W. Black, “Anime-inspired Affiliation: An Ethnographie Inquiry into thè
Literacy and Social Practices of English Language Learners Writing in thè Fanfic-
tion Community”, dossier presentato per il meeting di American Educational Re­
search Association, San Diego, 2004, accessibile on line su http://labweb.éduca­
tion.wisc.edu/rooml30/PDFS/InRevision.pdf.
18. Intervista con Fautore, agosto 2003.
19. Gee, Language, Learning, and Gaming, cit.
20. “ The Leaky Cauldron”, 16 giugno 2001, http://www.the-leaky-caul-
dron.org/MTarchives/000767.html.
21. Τ. Mayor, “Taking Liberties with Harry Potter” , Boston Globe Magazine,
29/6/2003.
22. S. Grunier, J. Lippman, “Warner Bros. Claim Harry Potter Sites” , Wall
Street Journal Online, 20/12/2000, http://zdnet.com .com /2102-ll_2-503255.ht-
ml ; “ Kids 1 - Warner Bros.0: When thè Big Studio Set Its Hounds on Some Harry
Potter Fan Web Sites, It Didn’t Bargain on thè Potterhead Rebellion” , Vancouver
Sun, 17/11/2001.
23. C. Field, intervista con l’autore, agosto 2003.
24. “ Defense Against thè Dark Arts” , http://dprophet.com/dada/.
25. R. Buell, “Fans Call for War; Warner Bros. Claim Misunderstanding!” ,
http://entertainment-rewired.com/fan_appology.htm.
26. Vedi http://www.dprophet.com/dada/.
27. “ Fan Fiction, Chilling Effects” , http://www.chillingeffects.org/fanfic.
28. B. Templeton, “ 10 Big Myths about Copyright Explained” , http://
www.templetons.com/brad/copymyths.html.
29. Vedi, per esempio, R. Tushnet, “ Legal Fictions: Copyright, Fan Fiction,
and a Common Law” , Loyola of Los Angeles Entertainment Law Journal, 1977,
accessibile online su http://www.tushnet.com/law/fanarticle.html.; A. T. Lee,
“ Copyright 101: A Brief Introduction to Copyright for Fan Fiction Authors” ,
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30. K. Dean, “ Copyright Crusaders Hit Schools”, Wired, 13/8/2004, http://
www.wired.com/news/digiwood/0,1412,64543,00.html.
31. R. Coombe, A. Herman, “ Defending Toy Dolls and Maneuvering Toy
Soldiers: Trademarks, Consumer Politics and Corporate Accountability on the
World Wide Web”, dossier presentato al M IT Communication Forum, 12 aprile
2001, accessibile online su http://web.mit.edu/m-i-t/forums/trademark/index_pa-
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32. “ Muggles for Harry Potter to Fight Censorship”, Ethical Spectacle, aprile
2000, http://www.spectacle.org/0400/muggle.html. Vedi anche Judy Blume, “Is
Harry Potter Evil?” , New York Times, 22/10/2000, ripubblicato online su http://
www.ncac.org/cen_news/cn76harrypotter.html.
33. “ The Leaky Cauldron”, 13/6/2001, http://www.the-leaky-cauldron.org/
MTarchives/000771.html.
34. “Satanic Harry Potter Books Burnt”, BBC News, 31/12/2001, http://
news.bbc.co.uk/l/hi/entertainment/arts/173 5623 .stm.
35. C. Mooney, “Muddled Muggles: Conservative Missing the Magic in Harry
Potter”, American Prospect, 11/7/2000, http://www.prospect.org/webfeatures/
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2000/07/m ooney-c-07-ll.html. Vedi “ TalkBack Live: Do thè Harry Potter Books


Cast an Evil Speli?”, 7/7/2000, http://transcript.cnn.com/TRANSCRIPT/0007/07/
tl.00.html.
36. P. Armes, Pokémon & Harry Potter: A Fatal Attraction, Hearthstone, Ok­
lahoma City, 2000, p. 84.
37. http://www.cuttingedge.org/news/nl390.cfm.
38. K.A. Smith, “ Harry Potter: Séduction into thè Dark World of thè Occult” ,
http://www.fillthevoid.org/Entertainment/Harry-Potter-l.html.
39. B. Kjos, “ Harry Potter Book Shares Pre-Sale Frenzy with D & D ”, accessibi­
le online su http://www.crossroad.to/text/articles/D&D-text.htm.
40. B. Kjos, “ Twelve Reasons Not to See Harry Potter Movies” , http://
www.crossroad.to/articles2/HP-Movie.htm.
41. M. O ’Brien, “ Some Thoughts on thè Harry Potter Series”, Catholic Educa­
t o r i Resource Center, http://catholiceducation.org/articles/al0071.html.
42. B. Kjos, “ Harry Potter & The Order of thè Phoenix” : Tt’s Only Fantasy’
and Other Deceptions” , http://www.crossroad.to/articles2/phoeniz.htm.
43. M. Dana, intervista con l’autore, settembre 2003.
44. “Muggles for Harry Potter” .
45. C. Finnan, intervista con l’autore, aprile 2003.
46. Vedi http://www.kidspeakonline.org/kissaying.html.
47. G. McCracken, Plenitude, cit., p. 60.
48. M. O ’Brien, “Some Thoughts” , cit.
49. C. Neal, What’s a Christian to Do with Harry Potter?, Waterbook, Colora­
do Springs, 2001, pp. 151-152.
50. D. Haack, “ Christian Discernment 101: An Explaination of Discernment” ,
Ransom Fellowship, http://ransomfellowship.org/D_101.html.
51. D. Haack, “ Christian Discernement 202: Pop Culture: Why Bother?”,
Ransom Fellowship, http://ransomfellowship.org/D_202.html.
52. “The Purpose of Fans for Christ” , Fans for Christ, http://fansforchrist.org/
phpBB2/purpose.htm.
53. Denis Haack, “ The Scandal of Harry Potter” , Ransom Fellowship, http://
www.fellowship.org/R_Potter.html.
54. C Neal, op. cit„ pp. 88-90.

Capitolo 6
1. Vedi http://www.trumpfiresbush.com
2. http://www.truemajority.org.
3. G. LoPorto, intervista con l’autore, ottobre 2004.
4. J. Trippi, “ The Perfect Storm” , JoeTrippi.com/book/view/23.
5. Per sapere di più sull’uso di Internet nella campagna di Dean, vedi Henry
Jenkins, “ Enter thè Cybercandidates”, Technology Review, 8/10/2003.
6. J. Trippi, The Revolution Will Not Be Televised: Democracy, thè Internet,
and thè Overthrow of Everything, HarperCollins, New York, 2004.
7. H. Magnus Enzenberger, “ Constituents of a Theory of thè Media” , in Paul
Marris, Sue Thornham (eds.), Media Studies: A Reader, New York University Press,
New York, 2000.
8. J. Trippi, The Revolution Will Not Be Televised, cit., p. 4.
N o te 337

9. Ivi, p. 107.
10. Ivi, p. 225.
11. N. Gibbs, “ Blue Truth, Red Truth” , Time, 27/9/2004, pp. 24-34.
12. J. Walker, “ Old Media and New Media: Like It or Not, They’re Partners”,
15/9/2004, http://www.reason.com/links/links091504.shtml.
13. M. Dery, “ Culture Jamming: Hacking, Slashing and Sniping in the Empire
of Signs” , Open Magazine Pamphlet Series, 1993, http://web.nwe.ufi.edu/-mlafey/
cultjaml.html.
14. P. Lévy, op . cit., p. 171 [tr. it. p. 171].
15. Per avere un database sulla copertura informativa dei blogger sulla guerra
in Iraq,vedi http://www.back-to-iraq.com/archives/00464.php.
16. F. Manjoo, “ Horror Show”, Salon, 12/5/2004, http://www.salon.com/te-
ch/feature/2004/05/12/beheading_video/index_np.html.
17. “Blogs Blamed for Exit Poli Fiasco” , Wired, 3/11/2004, http://
www.wired.com/news/politics/0,1283,655 89,00.html?tw+wn_tophead_6; Eric
Engberg, “ Blogging as Typing, Not Journalism”, CBSnews.com, 8/11/2004, http:/
/www.cbsnews.com/stories/2004/1 l/08/opinion/main654285.shtml; Mark Glaser,
“Exit Polls Bring Traffic Deluge, Scrutiny to Blogs, Siate” , USC Annenberg Online
Journalism Review, 5 novembre, http://ojr.org/ojr/glaser/109961933.php.
18. Nicholas Confessore, “ Bush’s Secret Stash: Why the GOP War Chest Is
Ever Bigger than You Think”, Washington Monthly, maggio 2004,www.washin-
gtonmonthly.com/features/2004/0405.confessore.html.
19. C. Lydon, “ The Master of Meet Up: Scott Heiferman” , Christopher Lydon
Interviews, http://blogs.law.harward.edu/lydon/2003/10/21.
20. J. Trippi, The Revolution Will Not Be Televised, cit., p. 91.
21. Vedi http://www.bushin30seconds.org.
22. C. Pikul, “The Photoshopping of the President” , Salon, 1/7/2004, http://
archive, salon, com/ent/feature/2004/07/01/photoshop/.
23. Sull’uso di Photoshop dopo P II settembre, vedi D. Pettam, “ Howthe Web
Became a Tool for Populär Propaganda after S I I ” , Cricket.com, au, 3/2/2002,
http://www.krikey.com.au/media/2002/02/02-Jihadfordummies.html.
24. L. Berlant, The Queen of America Goes to Washington City: Essays on Sex
and Citizenship, Duke University Press, Durham, N.C, 1997.
25. Per un’utile discussione in tema di cittadinanza e consumo, vedi Sarah Ba-
net-Weiser, “We Pledge Allegiance to Kid’s: Nickelodeon and Citizenship”, in H.
Hendershot (ed.), Nickelodeon Nation: The History, Politics, and Economics of
America’s Only TV Channel for Kids, New York University Press, New York, 2004.
26. http://www.ew.com/ew/report/0,6115,446852_4_0_00.html.
27. The Center for Information and Research on Civic Learning and Engage­
ment, “ Turnout of Under-25 Voters Up Sharply” , 9/11/2004, http://www.civi-
cyouth.org/PopUps/Release_1824final.pdf.
28. W. Benjamin, “ The Wotk of Art in an Age of Mechanical Reproduction” ,
accessibile online su http://bid.berkeley.edu/bidclass/readings/benjamin.html [tr. it.
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino].
29. Pew Research Center for the People and the Press, “ Cable and Internet
Loom Large in Fragmented Politicai News Universe”, 11/1/2004, http://people-
press.org/reports/display.php3?ReportID = 200.
338 N o te

30. J. Katz, “ The Media War on Kids: From thè Beatles to Beavis and But-
thead”, Rolling Stone, febbraio 1994, pp. 31-33, 97.
31. D. Glodthwaite Young, “ Daily Show Viewers Knowledgeable about Presi-
dential Campaign, National Annenberg Election Survey Shows” , 21/9/2004, http:
//www.annenbergpublicpolicycenter.org/naes/2004_03_late-night-knowledge-2_9
-21_pr.pdf. Vedi anche B. Long, “ Daily Show Viewers Ace Politicai Quiz” , C N N ;
29/9/2004, http://www.cnn.com/2004/SHOWBIZ/TV/09/28/comedy.politics/.
32. Le citazioni sono tratte dalla trascrizione ufficiale della trasmissione, acces­
sibile online su http://transcript.cnn.com/TRANSCRIPT/0410/15/cf.01.html.
33. M. Schudson, “ Click Here for Democracy: A History and Critique of an
Information-Based M odel of Citizenship”, in H. Jenkins, D. Thornburn (eds.), De­
mocracy and New Media, M IT Press, Cambridge, Mass, 2003.
34. M. Schudson, “ Changing Concepts of Democracy”, MIT Communication
Forum, http://web.mit.edu/comm-forum/papers/schudson.html.
35. Ibid.
36. Ibid.
37. Vedi, per esempio, R. J. Bain, “ Rethinking thè Informed Citizen in an Age
of Hybrid Media Genres: Tanner ’88, K-Street, and thè Fictionalization of thè
News” , Tesi di master, Comparative Media Studies, MIT, 2004. Vedi anche C.
Garcia, “A Framework for Politicai Entertainment” , dossier presentato al Media in
Transition 3 Conference, M IT, Cambridge, M ass., maggio 2003.
38. J. Hartley, “ Regimes of Truth and thè Politics of Reading: A Blivit”, in Te-
le-Ology: Studies in Television, Routledge, New York, 1992.
39. D. Buckingham, The Making of Citizens: Young People, News and Politics,
Routledge, London, 2000.
40. W. Wright, intervista personale con l’autore, giugno 2003.
41. P. Ludlow, “ My View of thè Alphaville Elections” , Alphaville Herald , 20/
4/2004, http://www.alphavilleherald.com/archives/000191.html.
42. Queste e le successive citazioni presenti nel paragrafo sono tratte da Jane
McGonigal, “ ’This Is Not a Gam E: Immersive Aesthetics and Collettive Play” ,
http://www.seanstewart.org/beast/mcgonogal/notagame/paper.pdf.
43. http://cdd.stanford.edu.
44. H.E. Brady, J.S. Fishkin, R.C. Luskin, “ Informed Public Opinion about Fo­
reign Policy: The Uses of Delberative Polling” , Brookings Review, estate 2003,
http://cdd.stanford.edu/research/papers/2003/informed.pdf.
45. D. Thornburn, “ Television M elodrama” , in Horace Newcomb (ed.), Tele­
vision: The Criticai View, Oxford University Press, Oxford, 1994.
46. I. De Sola Pool, Technologies without Boundaries: On Télécommunica­
tions in a Global Age, Harvard University Press, Cambridge, M ass., 1990, pp. 261-
262.
47. A. Leonard, Trapped in the Echo Chamber” , Salon, 3/11/2004, http://
www.salon.com/tech/col/leon/2004/1 l/03/echo_chamber.
48. C. Sustein, “ The Daily We”, Boston Review, estate 2001, http://www.bo-
stonreview.net/BR26.3/Sustein.html.
49. Gibbs, “Blue Truth, Red Truth” .
50. S. Waxman, R. Kennedy, “ The Gurus of What’s In Wonder If They’re out
of Touch”, New York Times, 6/11/2004, p.A12.
N ote 339

Conclusione
1. Ari Berman, “Al Gets Down” , The Nation , 28/4/2005, http://www.thena-
tion.com/doc.mhtmlPi = 2005 0516& c = 1 & s=berm an.
2. Vedi Anita J. Chan (2002), “ Distributed Editing, Collective Action, and
thè Construction of Online News on Slashdot.org” , tesi di master, Comparative
Media Studies Program, MIT, Cambridge, Mass. Per un approfondimento sul gior­
nalismo partecipativo, vedi Dan Gilmor, We The Media: Grassroots Journalism By
The People, For The People, O ’Reilly, New York, 2004; Pablo J. Boczkowski, Di-
gitilizing thè News: Innovation in Online Newspapers, M IT Press, Cambridge,
Mass., 2005.
3. Berman, “Al Gets Down” . Per avere maggiori dettagli su Current, vedi
Niall McCay, “The Vee Pee’s New Tee Vee” , Wired News, 6/4/2005, http://www.
wired.com/news/digiwood/0,1412,67143,00.html; Farhad Manjoo, “The Televi­
sion Will Be Revolutionized” , Salon, 7/7/2005, http://www.salon.com/news/featu-
re/2005/07/ll/goretv/print.htm l; Tamara Straus, “ I Want My Al Tv” , San Franci­
sco Magazine, luglio 2005, http://www.sanfran.com/home/view_story/625/PPHP-
SE SSID =d(efl4a995fed84316b461491dl6f667.
4. F. Manjoo, “The Television” , cit.
5. Berman, “Al Gets Down” , cit.
6. Ashley Highfield, “TV’s Tipping Point: Why the Digital Revolution Is
Only Just Beginning”, Paidcontent.org, 7/10/2003, http://paidcontent.org/stories/
ashleyrts.shtml.
7. “ BBC OPens TV Listings For Remix”, BBC Online, 23/7/2005, http://
news.bbc.co.uk/l/hi/technology/4707187.stm.
8. W. Russell Neuman, The Future of thè Mass Audience, Cambridge Univer­
sity Press, Cambridge, U.K., 1991, p. 54.
9. Ivi, pp. 8-9.
10. Betsy Frank, “ Changing Media, Changing Audiences” , M IT Communica­
tions Forum, 1/4/2004, http://web.mit.edu/comm-forum/forums/changing_ au-
diences.html.
11. George Glider, Life after Television: The Coming Transformation of Media
and American Life, W. W. Norton, New York, 1994, p. 66.
12. Ivi, p. 68.
13. Marshall Sella, “The Remote Controllers” , New York Times, 20/10/2002.
14. Henry Jenkins, Textual Poachers: Television Fans and Participatory Cultu­
re, Routledge, New York, 1991.
15. Marcia Allas, intervista e-mail con l’autore, autunno 2003.
16. Kimberly M. De Vries, “A Tart Point of View: Building a Community of
Resistance Online” , dossier presentato al Media in Transition 2: Globalization and
Convergence, MIT, Cambridge, M ass., 10-12 maggio 2002.
17. Le citazioni presenti nel paragrafo sono tratte da Warren Ellis, “ Global
Frequency: An Introduction”, http://www.warrenellis.com/gf.html.
18. Howard Rheingold, Smart Mobs: The Next Social Revolution, Basic Boo-
ks, New York, 2002, p. xii [tr. it. Smart Mobs, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p.
6].
19. Cory Doctorow (2003), Down and Out in the Magic Kingdom, Tor, New
York.
340 N ote

20. Tutte le notizie e le citazioni presenti nel paragrafo sono tratte da Michael
Gebb (2005), “ Rejected TV Pilot Thrives on P2P”, Wired News, 27/6/2005, http:/
/www.wired.com/news/digiwood/0,1412,6798 6,00.html.
21. Chris Anderson, “The Long Tail” , Wired, ottobre 2004, http://
www.wired.com/ archive/12.10/tail .html ? pg= 3 to o p ic = tail&topic_set.
22. Ivan Askwith, “ TV You’ll Want To Pay For: How $2 Downloads Can Re­
vive Network Television” , Siate , 1/11/2005, http://www.slateuk.com/id/2129003/.
23. Andy Bowers, “ Reincarnating The West Wing:Could thè Canceled NBC
DramaBe Reborn on iTunes?” , Siate , 24/1/2006, http://www.slateuk.com/id/
2134803/.
24. L’informazione è stata tratta dalla voce Wikipedia, su http://en.wikipe-
dia.org/wiki/Wikipedia.
25. “Neutral Point of View” , Wikipedia, http://www.infowrangler.com/
phpwiki/wiki.phtml?title=Wikipedia:Neutral_point_of_view.
26. Shoshanna Green, Cynthia Jenkins, Henry Jenkins, “The Normal Female
Interest in Men Bonking”, in Cheryl Harris, Alison Alexander (eds.), Theorizing
Fandom , Hampton, New York, 1998.
G l o s s a r io

I libri che trattano di media e cultura popolare sono spesso oggetto


di critica per via del loro gergo accademico. Tuttavia, sono le stesse
comunità di creativi, fan e uomini d’affari a parlare degli argomenti di­
scussi in questo libro usando un linguaggio specifico. Nella stesura del
testo, sono stato molto attento a ridurre al minimo l’uso di termini
specialistici che avrebbero potuto impedirmi di raggiungere il più am­
pio numero di lettori. Ho preferito, dove era possibile, usare espres­
sioni già note nel discorso sui media rispetto a quelle tipiche del lin­
guaggio accademico. Il libro, però, esplora molte comunità, ognuna
delle quali ha un proprio slang e un proprio gergo. Fornisco perciò di
seguito un glossario per comprendere i termini più ostici proposti nel
corso del lavoro. Molte delle parole o espressioni presenti assumono
significati diversi in base al contesto. La mia attenzione è rivolta al sen­
so che hanno nel libro. Uno degli obiettivi che il testo si propone con­
siste nell’individuare e utilizzare un linguaggio comune a tutti i settori
interessati al cambiamento mediatico in atto.

501s/507s: Gruppi politici che sono sorti in seguito al McCain-Fein-


gold Act e che sponsorizzano i loro stessi sforzi pubblicitari indi­
pendentemente dalle campagne ufficiali.
Achievable utopia (Utopia realizzabile): Espressione coniata da Pierre
Lévy in riferimento ai modi in cui il suo ideale di intelligenza col­
lettiva potrebbe informare e determinare dei passi avanti nella rea­
lizzazione dei suoi obiettivi.
Action figure cinema: L’insieme di film prodotti dai fan e basati
sull’animazione in stop-motion, narranti storie che usano delle ac­
tion figure per rappresentare i personaggi.
Additive compréhension (Comprensione additiva): Secondo Neil
Young, l’ampliamento delle interpretazioni possibili che si accor­
dano a un franchise quando esso si estende su più testi e media.
342 G l o s sa r io

Affective économies (Economia affettiva): Una nuova teoria nella ri­


cerca di marketing e del brand che evidenzia il coinvolgimento
emotivo dei consumatori verso il marchio, come motivazione cen­
trale per le loro scelte d’acquisto.
Affinity space (Spazio di affinità): Secondo James Gee, uno spazio do­
ve avviene l’apprendimento informale, caratterizzato, tra le altre
cose, dalla condivisione di conoscenza e di expertise, in base ad af­
filiazioni volontarie.
Alternative points of view (Punti di vista alternativi): Un genere defi­
nito da The Sugar Quill nel quale storie familiari vengono rinarrate
dalla prospettiva di personaggi diversi, in modo da riempire i vuoti
nella nostra comprensione circa le motivazioni che guidano le loro
azioni.
Alternative reality game (Giochi di realtà alternativa): Secondo Jane
McGonigal, “un dramma interattivo che si svolge sia online che nel
mondo reale e la cui azione si protrae per molte settimane o mesi;
in esso decine, centinaia e migliaia di utenti connessi formano una
rete sociale collaborativa, lavorando insieme alla soluzione di un
problema o di un enigma che sarebbe impossibile raggiungere da
soli”.
Anime: Animazione di produzione giapponese o ispirata allo stile nip­
ponico.
Appointment télévision (Televisione d’appuntamento): Quei pro­
grammi che gli spettatori scelgono consapevolmente di guardare,
in opposizione alla fruizione occasionale che si attua nello zapping
tra i canali. A volte, è chiamata anche “Tv da vedere” (“Must See
TV”).
Aspiration (Aspirazione): Secondo Cristel Russell, “il desiderio di es­
sere davvero parte dello spettacolo o di conoscerne i protagonisti”.
Asset: Ogni singolo elemento creato nel processo produttivo. Gli asset
sono sempre più spesso digitalizzati, così da poter essere condivisi
su tutte le piattaforme mediatiche coinvolte in un franchise.
Attractions (Attrazioni): Termine coniato da Sergei Eisenstein per in­
dicare unità brevi e di forte carica emotiva. L’espressione è usata,
in questo libro, per definire quei segmenti di un programma televi­
sivo che possono essere guardati dentro o fuori sequenza.
The Beast: Gioco creato per il supporto promozionale del film di Ste­
ven Spielberg A L. E stato un primo esempio importante di alter­
native reality game.
Beta reading (Beta-lettura): Processo di revisione peer-to-peer che si
svolge all’interno di una comunità di fan fiction, dove scrittori più
G l o s s a r io 343

esperti fanno da mentori ai nuovi, aiutandoli a perfezionare le loro


opere prima della pubblicazione.
Black Box Fallacy (Fallacia della scatola nera): Il tentativo - all’inter­
no della visione riduttiva della convergenza come fenomeno pura­
mente tecnologico - di identificare la scatola nera (black box) che
costituirà il nesso attraverso il quale si muoverà l’intero flusso di
contenuti mediatici.
Blogging: Abbreviazione di “Weblogging”. L’espressione all’origine
era riferita alla piattaforma tecnologica che permetteva il semplice
e veloce aggiornamento di un contenuto web. In seguito, è stata
usata per indicare la modalità di pubblicazione grassroots a com­
mento dell’informazione prodotta da altri blogger e dai media
mainstream.
Boots (Cacciati): Fra gli appassionati di Survivor, il termine identifica­
va i concorrenti eliminati dal programma.
Brain trusts (Trust di cervelli): Gruppo elitario di spoiler che investi­
gano a porte chiuse al fine di diffondere, in un secondo momento,
le informazioni da essi ottenute ad una comunità più ampia.
Brand communities (Comunità di brand): Secondo Robert Kozinets,
gruppo sociale che condivide un legame ad un particolare marchio
o prodotto.
Brand fests: Espressione aziendale che indica quegli eventi sociali (sia
sponsorizzati dalle corporate, sia organizzati in forme grassroots)
che radunano un vasto numero di consumatori affezionati a un
particolare marchio o prodotto. Tali incontri rappresentano occa­
sioni di educazione dei consumatori, di social networking e di con-
divisione delle conoscenze e delle competenze.
Canon (canone): L’insieme dei testi che la comunità dei fan accetta di
considerare parte legittima di un franchise mediatico. Il canone
quindi definisce l’ambito e i limiti di quello che si può discutere e
immaginare.
Casuals (Occasionali o casuali): Espressione aziendale che indica gli
spettatori che seguono con un basso indice di fedeltà i programmi,
seguendoli quando se ne ricordano e perdendone le puntate che
non sono di loro interesse.
Cease-and-desist letter (Lettera ingiuntiva; ILettera di invito a desiste­
re): Una lettera inviata da chi detiene dei diritti commerciali, trami­
te la quale esso minaccia azione legale contro chiunque ritenga stia
infrangendo le regole in materia di copyright, e richiedente, per
esempio, la rimozione immediata di contenuti pirata.
Challenges (Sfide): Sforzi finalizzati a rimuovere alcuni testi specifici
dalle aule scolastiche o dalle biblioteche pubbliche.
344 G l o s sa r io

Cheat Codes: Password che permettono di saltare dei livelli o di aprire


dei quadri nascosti in un videogioco.
Cloudmakers: La più nota comunità di intelligenza collettiva che lavo­
rava alla soluzione di The Beast.
Co-creation (Co-creazione): Un sistema di produzione per il quale
aziende operanti su diverse piattaforme mediatiche lavorano insie­
me all’ideazione di un prodotto, garantendo così una maggiore col­
laborazione e una più completa integrazione dei testi mediali finali.
Collaborative authorship (Autorialità collaborativa): Espressione co­
niata in questo libro in riferimento a quelle situazioni in cui l’auto­
re principale di un franchise si rende disponibile a collaborare con
altri artisti in vista della realizzazione della sua opera, in modo da
garantire una coerenza globale e permettere allo stesso tempo
l’emergere di nuovi temi e l’introduzione di nuovi elementi.
Collective intelligence (Intelligenza collettiva): Espressione coniata da
Pierre Lévy che si riferisce alla capacità delle comunità virtuali di
formare la conoscenza e l'expertise dei suoi membri, spesso attra­
verso la collaborazione e il dialogo su larga scala. Lévy considera
l’intelligenza collettiva una nuova forma di potere che si manifesta
accanto alle migrazioni nomadi, agli stati-nazione e al capitalismo
delle merci.
Collective knowledge (Conoscenza collettiva): Secondo Pierre Lévy si
tratta della somma totale di informazione posseduta individual­
mente dai membri di una comunità del sapere, che viene resa acces­
sibile, a fronte di una questione specifica, a tutti gli altri partecipan­
ti.
Combination platter movies (Film “piatto misto”): Espressione conia­
ta da Ang Lee e relativa ai film che attingono da diverse tradizioni
culturali. In modo specifico, identifica quelle opere che mescolano
influenze asiatiche ed occidentali, al fine di garantire la circolazio­
ne dei film nel mercato globale.
Commercial culture (Cultura commerciale): Cultura che emerge in un
contesto di produzione industriale e di distribuzione commerciale.
Connectedness (Connessione): Espressione di Cristel Russell che indi­
ca il legame emotivo che si sviluppa tra spettatori e programmi te­
levisivi (o i loro personaggi). Tale legame provoca un forte impatto
sul pubblico in direzione dell’assimilazione della pubblicità occul­
ta.
Consensus culture (Cultura del consenso): Espressione coniata da Da­
vid Thorburn per indicare quelle tipologie di prodotti culturali
emergenti dai canali mediatici mainstream che tendono ad inter­
cettare i sentimenti e le idee condivise dei consumatori.
G l o s sa r io 345

Convergence (Convergenza): Termine che descrive il cambiamento


sociale, culturale, industriale e tecnologico inerente alle modalità
di circolazione della nostra cultura. Tramite questa formula vengo­
no generalmente indicati: il flusso di contenuti attraverso più piat­
taforme mediatiche, la cooperazione tra imprese diverse, la ricerca
di nuove forme di finanziamento tra vecchi e nuovi media e il com­
portamento nomade dei pubblici che sono alla ricerca di nuove
esperienze di intrattenimento gratificanti. Probabilmente, più in
generale, la convergenza mediatica si riferisce ad una situazione di
coesistenza tra sistemi mediatici multipli, nella quale il flusso dei
contenuti è fluido. Essa è intesa in questo libro come il processo in
corso in cui avvengono una serie di intersezioni tra differenti siste­
mi mediatici, non come una relazione stabile.
Corporate convergence (Convergenza corporate): Il flusso di contenu­
ti mediatici diretto da una prospettiva commerciale.
Corporate hybridity (Ibridità corporate): Processo in base a cui poten­
ti imprese mediatiche assorbono elementi da altre culture - per
esempio, da altre tradizioni nazionali o da movimenti subculturali
e di avanguardia - al fine di contrastare la concorrenza potenziale
sul mercato.
Film cult: Secondo Umberto Eco, sono quei film che permettono
l’esplorazione e l’appropriazione da parte dei fan.
Cultural activators (Attivatori culturali): Espressione coniata dall’au­
tore per indicare i testi che funzionano da catalizzatori culturali, in
grado quindi di mettere in moto un processo di costruzione del
senso condiviso.
Cultural attractors (Attrattori culturali): Espressione coniata da Pierre
Lévy per indicare le modalità con cui critici e fan si riuniscono in­
torno ai testi fruiti come occasioni importanti di valutazione e pro­
duzione di significati.
Cultural convergence (Convergenza culturale): Un passaggio nella lo­
gica operativa di ogni cultura che consiste nel potenziamento del
flusso di contenuti attraverso canali mediatici.
Culture Jamming: Espressione resa famosa da Mark Dery che indica la
pratica con cui le organizzazioni grassroots inseriscono “rumore”
all’interno del processo comunicativo, disturbando o interrompen­
do il flusso dei media corporate.
Cybersquatters: Persone che acquistano domini internet i cui nomi so­
no associati a celebrità o a prodotti mediatici al fine di rivenderli a
un prezzo gonfiato.
346 G l o s s a r io

Delivery Technologies (Tecnologie di consegna o di delivery): Tecno­


logie relativamente temporanee - come il lettore MP3 o la cassetta
a otto tracce - che facilitano la distribuzione di contenuti mediatici.
Devotees (Devoti): Secondo Robert Kozinets, una delle quattro cate­
gorie di partecipanti alle comunità di brand online, che si caratte­
rizza per un interesse durevole verso il marchio a fronte di un im­
pegno limitato nell’ambito della comunità sociale.
Digital cinema (Cinema digitale): Espressione che si riferisce ai film
prodotti mediante camere digitali, mostrati attraverso proiezioni
digitali, potenziati con effetti digitali o distribuiti via Web. In que­
sto libro, il riferimento principale è a quest’ultimo caso.
Digital enclaves (Enclavi digitali): Espressione coniata da Cass Sustein
per indicare le comunità online che hanno raggiunto un alto livello
di consenso ideologico interno e manifestano resistenza nei con­
fronti delle influenze esterne.
Digital revolution (Rivoluzione digitale): Il mito per cui le tecnologie
dei nuovi media sostituiranno i media più vecchi.
Digitization (Digitalizzazione): Processo attraverso il quale dati, im­
magini e suoni vengono trasformati in campioni numerici che che
possono passare indifferentemente da una piattaforma all’altra e
possono facilmente riconfigurarsi in in funzione dei differenti con­
testi.
Discernment (Discernimento): Un movimento della cristianità odierna
che si rapporta alla cultura popolare attraverso la leva del giudizio
morale. I suoi sostenitori considerano tale esercizio come un meto­
do per comprendere “ciò che credono i non credenti”.
Dispersed knowledge (Conoscenza dispersa, disseminata): Secondo
James Gee, la conoscenza che può essere portata da ciascun mem­
bro di uno spazio di affinità o di una comunità del sapere.
Distributed knowledge (Conoscenza distribuita): Secondo James Gee,
la conoscenza posseduta dallo spazio di affinità ma non necessaria­
mente appartenente a ciascun individuo che vi partecipa.
Dithering: Processo finalizzato ad integrare dati di informazione tra i
pixel in un film in Pixelvision. Esso genera tuttavia una fluttuazio­
ne della qualità delle immagini da fotogramma a fotogramma.
Divergence (Divergenza): La diversificazione dei canali e dei meccani­
smi di consegna. Secondo Ithiel De Sola Pool la convergenza e la
divergenza sono entrambe parti dello stesso processo di cambia­
mento mediatico.
Do-it-yourself Spin: Argomenti politici dispiegati nelle campagne elet­
torali sotto forma di temi da discutere a livello grassroots tra i so­
stenitori di un candidato o di un partito.
G l o s sa r io 347

Eco-tourism (Ecoturismo): Viaggio motivato dal desiderio di esplora­


re ambienti naturali sconosciuti e incontaminati.
Emotional capitai (Capitale emozionale): Espressione coniata da Ste­
ven J. Heyer, presidente di Coca Cola, in riferimento alla modalità
in cui l’investimento emotivo accordato dai consumatori al conte­
nuto mediatico e al brand accresce la forza del marchio.
Encyclopedic capacity (Capacità enciclopedica): Secondo Janet Mur­
ray, l’insieme di caratteristiche che contribuiscono a far percepire
un mondo finzionale come espansivo e onnicomprensivo e che mo­
tivano il consumatore a una sua maggiore esplorazione.
Entertainment supersystem (Supersistema d’intrattenimento): Termi­
ne usato da Marsha Kinder per riferirsi all’espansione sistematica
di un franchise su più piattaforme mediatiche.
Escape (Fuga): Secondo Cristel Russell, “l’elemento catartico che con­
nette uno spettatore ad un programma”.
Expert paradigm (Paradigma delPesperto): Secondo Peter Walsh, una
struttura di conoscenza basata su un corpo omogeneo di informa­
zioni che possono essere padroneggiate da un individuo. Essa di­
pende spesso dall’autorizzazione concessa agli individui da parte di
istituzioni dotate di un sapere superiore ad essi.
Expression (Espressione): Una nuova unità di misura per indicare la
partecipazione e l’interesse del pubblico nei riguardi di un conte­
nuto mediatico. Il suo impiego è stato proposto da Iniziative Media
sulla base di una ricerca condotta dal MIT Comparative Media Stu-
dies Program.
Extension (Estensione): Sforzi tesi a espandere il mercato potenziale
spostando contenuti e marchi su diversi sistemi di delivery.
Estensive knowledge (Conoscenza estensiva): Secondo James Gee, la
conoscenza e gli obiettivi condivisi dai membri di uno spazio di af­
finità o di una comunità del sapere.
Fair use (Uso equo): In materia di diritto d’autore, è la tutela legale nei
confronti di alcune modalità di copia e citazione di un’opera. Essa
riconosce, per esempio, il diritto dei giornalisti o dei ricercatori di
citare un lavoro al fine di apporvi un commento critico.
Fan Culture (Cultura dei fan): Produzione culturale dei fan e di altri
amatori che viene distribuita in un contesto economico under­
ground e che attinge buona parte dei suoi contenuti dalla cultura
commerciale.
Fan Fiction: A volte è chiamata anche “f a n f i c L’espressione si riferi­
va, in origine, a ogni opera che rinarrava storie e personaggi tratti
dai mass media. Poi LucasArts ha cercato di ridefinirla, nella ricer­
348 G l o s s a r io

ca di una politica per i cineasti digitali tesa a vietare le opere che


“espandono” l’universo finzionale.
Fansubbing: La traduzione e sottotitolazione amatoriale dei cartoni
animati giapponesi.
Fatal attractions (Attrazioni fatali): Secondo Phil Armes, sono quelle
opere, apparentemente innocue, che cercano di plagiare i bambini
iniziandoli all’occultismo.
Final four (Gli ultimi quattro): I concorrenti di Survivor che accedono
al finale della gara.
First-choice medium (Medium di prima scelta): Si tratta di un’idea ela­
borata da George Gilder, secondo il quale i sistemi mediatici più
nuovi si baseranno sui principi del narrowcasting- che permettono
un alto livello di personalizzazione e una più ampia gamma di scel­
ta - in modo tale da offrire a ciascun consumatore il contenuto de­
siderato invece di doverlo selezionare tra i pochi disponibili.
Folk culture (Cultura folk): Cultura che emerge in un contesto di cre­
atività grassroots dove: le conoscenze acquisite passano attraverso
un’educazione informale; lo scambio dei beni è reciproco e si basa
sul baratto; i creativi possono attingere liberamente a una tradizio­
ne culturale e iconografica comune.
Foundational narrative (Narrativa fondante): Secondo Brenda Laurei,
“una leggenda, un ciclo narrativo, una storia o una cronaca” che
aiuta i partecipanti a definire i propri ruoli ed obiettivi (siano essi
artisti commerciali autorizzati o membri di comunità grassroots).
Franchising: Lo sforzo coordinato di branding e commercializzazione
dei contenuto di fiction nell’ambito della conglomerazione dei me­
dia.
Grassroots convergence (Convergenza grassroots): Il flusso di conte­
nuti mediatici informale e talvolta non autorizzato. Esso si sviluppa
nel momento in cui diventa facile per i consumatori annotare, mo­
dificare, espropriare e ridistribuire un contenuto mediatico.
Grassroots intermediaries (Intermediari grassroots): I partecipanti -
per esempio blogger oppure leader dei gruppi di fan - che plasma­
no attivamente un flusso di contenuti operando al di fuori di qual­
siasi sistema di corporate o di governo.
High-concept films (Film-idea): Originariamente, film che potevano
essere riassunti con una singola frase. Secondo Justin Wyatt, lungo-
metraggi che si basano sulla logica “thè look, thè hook, thè book”
(“lo sguardo, il gancio, il libro”), ovvero quelle pellicole che creano
elementi visuali e narrativi che possono essere sfruttati attraverso
più piattaforme mediatiche, e che costituiscono la spinta centrale
delle campagne di marketing e di merchandising.
G l o s sa r io 349

Home movies (Film domestici): Film amatoriali prodotti soprattutto


per uso privato - spesso documentari di vita familiare e domestica.
Essi sono in larga misura caratterizzati da una bassa qualità tecnica
e risultano poco interessanti nei confronti di un vasto pubblico.
Horizontal Integration (Integrazione orizzontale): Una struttura eco­
nomica nella quale delle imprese hanno interessi incrociati in setto­
ri diversi ma correlati. (Si definisce per contrasto con l’integrazione
verticale, che si ha invece quando le aziende controllano produzio­
ne, distribuzione e vendita all’interno del medesimo settore.)
Hybridity (Ibridità): Essa ha luogo quando uno spazio culturale assor­
be e trasforma elementi da un altro; più spesso, si tratta di una stra­
tegia con la quale strutture indigene rispondono all’influsso dei
contenuti mediatici occidentalizzati, producendone in proprio.
Hyperserial (Iperserie): Secondo Janet Murray, una nuova struttura
narrativa in cui i racconti individuali contribuiscono a una più am­
pia esperienza finzionale. Termine dal significato simile a quello di
“narrazione transmediale”.
Hypersociability (Ipersocievolezza): Secondo Mizuko Ito, il principio
della cultura popolare giapponese per il quale l’informazione e
l’esperienza di una storia debbano essere condivise in maniera “pe-
er-to-peer” dai partecipanti, faccia a faccia oppure via Web.
Immersion (Immersione): Una forte identificazione fantastica oppure
una connessione emotiva con un’ambientazione immaginaria -
spesso descritta in termini di “fuga dal reale” o di “essere altrove” .
Imperfect Cinema (Cinema imperfetto): Un’espressione usata origina­
riamente per identificare i lavori prodotti nel terzo mondo con ri­
sorse e conoscenze tecniche limitate, in luoghi dove tali sfide sono
state trasformate in opportunità per parodiare o criticare il cinema
di Hollywood. In questo libro l’espressione viene usata per indica­
re i modi in cui i registi-fan negoziano tra il desiderio di vedere co­
me riescono a imitare gli effetti speciali hollywoodiani e l’impulso
di mascherare le loro limitazioni tecniche grazie al ricorso alla pa­
rodia.
Impression (Impressione): Unità di misura del pubblico usata tradizio­
nalmente dall’industria dell’intrattenimento. In sostanza è il nume­
ro di “occhi” puntati su un canale specifico in un particolare mo­
mento della programmazione.
Informai éducation (Educazione informale): Apprendimento che ha
luogo al di fuori delle aule scolastiche, e che include attività extra-
curriculari e di dopo-scuola, l’istruzione domestica, visite al museo
e ad altre istituzioni pubbliche, così come l’apprendimento, meno
350 G l o s s a r io

strutturato, che proviene dai programmi di intrattenimento e in­


formazione e dalle interazioni sociali.
Informed citizen (Cittadino informato): Secondo Michael Schudson,
l’idea per la quale il cittadino dovrebbe vedersi garantire l’accesso
a tutta l’informazione disponibile prima di dovere assumere una
qualche scelta politica.
Insiders: Secondo Robert Kozinets, una delle quattro categorie di par­
tecipanti delle comunità di brandy caratterizzata da un forte coin­
volgimento sia nel marchio, sia nella comunità sociale fiorita intor­
no ad esso.
Inspirational consumers (Consumatori ispiranti): Secondo Kevin Ro­
berts, sono i consumatori più fedeli e affezionati a un marchio spe­
cifico. Essi risultano i più disposti a esprimere pubblicamente le lo­
ro preferenze di brand, ma allo stesso tempo esercitano una mag­
giore pressione nei confronti dell’azienda produttrice affinché essa
sia a sua volta fedele ai valori del brand.
Intensive knowledge (Conoscenza intensiva): Secondo James Gee, la
conoscenza che ciascun individuo porta a uno spazio di affinità o
ad una comunità del sapere.
Interactivity (Interattività): La capacità delle nuove tecnologie media-
tiche (o dei testi con esse prodotti) di rispondere al feedback del
consumatore. Le determinanti tecnologiche dell’interattività (che
molto spesso sono prestrutturate o programmate fin dal progetto)
contrastano con le potenzialità sociali e culturali della partecipa­
zione (ben più aperte e determinate dalle scelte dei consumatori).
Intertextual commodity: Secondo David Marshall, un nuovo approc­
cio produttivo che permette l’integrazione di contenuti di intratte­
nimento e marketing mentre la narrazione si trasferisce dallo scher­
mo al Web.
Intertextuality (Intertestualità): La relazione tra due testi che si instau­
ra quando un lavoro si riferisce o si ispira a personaggi, frasi, situa­
zioni o idee di un’altra opera.
I Wonder Ifs (Mi chiedo se): Un genere definito da The Sugar Quill
per il quale i fan elaborano ipotesi sulle possibilità narrative accen­
nate ma non espresse palesemente nell’opera originale.
Knowledge Culture (Comunità del sapere, Cultura della conoscenza):
Così è tradotto in inglese il concetto di Pierre Lévy (una comunità
che emerge intorno alla condivisione e all’elaborazione della cono­
scenza), che nella traduzione italiana del suo Intelligenza collettiva
viene reso con “comunità del sapere”. [Jenkins non usa l’espressio­
ne sempre nel senso di Lévy, e in questi ultimi anni è uso parlare
G l o s sa r io 351

più di “conoscenza” che di “sapere” : perciò in vari punti si è prefe­


rito optare per un più letterale “cultura della conoscenza”, N.d.R.]
Least objectionable program paradigm (Paradigma del programma
meno sgradevole): L’idea, diffusa nel discorso aziendale, per la
quale gli spettatori non seguono i programmi che amano, ma sem­
plicemente quelli disponibili alla visione in una finestra temporale
specifica.
Liberation (Liberazione): Secondo Paul Duguid, l’idea secondo cui le
nuove tecnologie mediatiche liberano i consumatori dalle costri­
zioni che venivano loro imposte dalle precedenti tecnologie e isti­
tuzioni dei media.
Licensing (Licenza): Un sistema per il quale l’impresa mediatica prin­
cipale di un franchise - più frequentemente una casa cinematogra­
fico - cede ad altre aziende i diritti di realizzazione e commercializ­
zazione di prodotti derivati. Spesso i contratti di licenza limitano
molto la libertà d’azione delle aziende rispetto alla gestione di que­
sti prodotti derivati.
Loser Lodge: Nello slang dei fan di Survivor, il luogo dove soggiorna­
no i concorrenti dopo essere stati cacciati dal programma.
Lovemarks: Termine coniato da Kevin Roberts, CEO Worlwide di
Saatchi & Saatchi, per riferirsi a quelle aziende che hanno provo­
cato un tale investimento emotivo nei consumatori da poter chie­
dere loro la “fedeltà oltre la ragione”. Letteralmente significa “se­
gni d’amore” .
Lo west common denominator (Minimo comun denominatore): Idea
diffusa per cui i programmi televisivi fanno appello alle pulsioni e
ai desideri umani - molto spesso erotismo o aggressività. L’uso
dell’espressione può in realtà essere esteso fino ad includere una
vasta gamma di bisogni emotivi che oltrepassano le fasce demogra­
fiche.
Loyals (Fedeli): Nel discorso aziendale, si tratta dei telespettatori più
affezionati di un programma, che è molto spesso il loro preferito. I
fedeli sono più portati a seguirlo ogni settimana, a guardare per in­
tero la puntata e a cercare informazioni ulteriori su altri media.
Questi spettatori risultano anche i più sensibili al richiamo dei mar­
chi pubblicizzati dal programma.
Machinima: Un ibrido tra “macchina” e “cinema”. Il termine si riferi­
sce alle animazioni digitali in 3-D create in tempo reale con l’uso di
motori di gioco.
Madison + Vine: Espressione che indica la (potenziale) collaborazio­
ne tra pubblicitari (Madison) e produttori di contenuti (Vine) nel
352 G l o s sa r io

plasmare l’esperienza emozionale totale di un franchise mediatico


con l’obiettivo di motivare le scelte del consumatore.
Manga: Fumetti e racconti illustrati di produzione giapponese.
Manhua: Caratteristico stile di fumetti nato ad Hong Kong.
Market populism (Populismo di mercato): Espressione coniata da
Tom Frank in riferimento ai modi in cui i concetti di responsabiliz­
zazione del pubblico e di resistenza subculturale, che hanno origine
dai cultural studies, sono stati assorbiti dalle imprese mediatiche e
dai loro alleati.
Mass culture (Cultura di massa): Un sistema nel quale i beni culturali
si caratterizzano per una produzione e una distribuzione di massa.
Mass-media mindset (Mentalità massmediale): Secondo W. Russell
Neuman, si tratta dell’insieme di valori, idee, strategie interpretati­
ve e pratiche di consumo che sono emersi in risposta al broadca­
sting e ad altre forme di intrattenimento per il mercato di massa.
McGuffin: Espressione con la quale Alfred Hitchcock indicava un
espediente arbitrario che determina l’azione della trama di un film.
Media: Secondo Lisa Gitelman, essi sono “strutture di comunicazione
affermate socialmente, dove il termine ‘struttura’ include sia le for­
me tecnologiche che le regole ad esse associate, e in cui la comuni­
cazione è intesa come una pratica culturale.”
Media in transition (Media in transizione): Una fase nella quale lo
schema politico, normativo, tecnologico, economico, sociale e cul­
turale dei media si riaggiusta lentamente piuttosto che cambiare in
modo dirompente.
Media Mix: Secondo Mizuko Ito, un approccio nuovo alla narrazione
che è nato in Giappone e per il quale l’informazione è dispersa at­
traverso i media broadcast, le tecnologie mobili, a pagamento e i
luoghi di divertimento.
Micropayments (Micropagamenti): Un nuovo modello di distribuzio­
ne digitale secondo cui i contenuti web possono essere acquistati
pagando piccole somme stabilite da una comune unità di credito.
Minglers (Chi mescola): Secondo Robert Kozinets, una delle quattro
categorie di partecipanti alla comunità di brand online, caratteriz­
zata da un forte legame sociale con il gruppo ma da un interesse li­
mitato per il marchio.
Missing moments (Momenti perduti): Un genere, definito da The Su­
gar Quill, in cui i fan riempiono i vuoti narrativi tra gli eventi rac­
contati.
MMORPGS, Massively Multiplayer Online Role-Playing Games: Un
genere emergente che riunisce migliaia di utenti che interagisco
mediante degli avatar in un’ambientazione grafica di fantasia.
G l o s sa r io 35 3

Modeling: Secondo Cristel Russell, “il grado in cui gli individui tendo­
no a relazionare la propria vita con quella dei personaggi di uno
show”.
Modder: Programmatori amatoriali di giochi; più spesso sono coloro
che modificano i giochi commerciali già esistenti.
Mod: Modifiche amatoriali ai giochi commerciali.
Monitoral citizen (Cittadino monitorante): Secondo Michael Schud-
son, l’idea per cui i cittadini possono tenere sotto osservazione si­
tuazioni in fase di sviluppo, concentrando una maggiore attenzione
sui singoli problemi e accedendo alla conoscenza tramite basi di sa­
pere ad hoc o legate a precisi bisogni.
Monoculture (Monocultura): Termine usato da molti critici dei media
per denunciare ciò che essi avvertono come la mancanza di plura­
lismo culturale nei contenuti dell’informazione e dell’intratteni­
mento generati dai conglomerati dei media.
Monomyth (Monomito): Secondo Joseph Campbell, una struttura
concettuale riassunta dall’analisi cross-culturale delle grandi reli­
gioni del mondo. Il monomito di Campbell è stato adottato nei ma­
nuali di consigli per sceneggiatori e programmatori di giochi, di­
ventando ciò che oggi si chiama “il viaggio dell’eroe”. Tale dispo­
sitivo consente alla moderna cultura popolare di servirsi della
struttura del mito antico.
MUDs, Multiple User Domains: Uno dei primi prototipi di comunità
online che permetteva a molti utenti di interagire principalmente
via testo.
Muggles (Babbani): Termine inventato da J. K. Rowling per definire
le persone che non possiedono poteri magici.
Multiplatform entertainment (Intrattenimento multipiattaforma): Se­
condo Danny Bilson, una modalità di narrazione che si dispiega at­
traverso canali multipli. Esso è più o meno un sinonimo di ciò che
in questo libro si definisce “narrazione transmediale” .
Mundanes: Espressione slang dei fan per indicare i non-fan\ tramite
essa i primi denotano una vita immaginaria molto povera dei se­
condi.
Opposition research (Ricerche sull’opposizione): Studi di indagine
condotti su avversari politici, con l’obiettivo di individuarne dei
punti di vulnerabilità - scandali, dichiarazioni contraddittorie o
estremiste - oppure altri fattori che li rendano meno attraenti per
gli elettori.
Organic convergence (Convergenza organica): Espressione aziendale
che indica i tipi di connessione mentale che i consumatori formano
354 G l o s s a r io

tra le unità di informazione che assumono dalle molteplici piatta­


forme mediatiche.
Origami Unicom (Unicorno origami): Termine coniato da Neil
Young dopo l’aggiunta di un dettaglio secondario ad una scena ta­
gliata dal regista di Biade Runner. Tale operazione invita a formu­
lare congetture circa la possibile identità di replicante del protago­
nista, Deckard. L’uso del termine, in seguito, è stato esteso per in­
dicare ogni elemento che viene aggiunto a un testo, invitando così
a un riesame degli altri elementi che compongono un franchise.
Parody (Parodia): In materia di copyright, il termine si riferisce a quei
lavori che si appropriano e trasformano i contenuti protetti dal di­
ritto d’autore allo scopo di farne un commento critico.
Participation (Partecipazione): Le forme di coinvolgimento del pub­
blico dettate da regole sociali e culturali più che da protocolli tec­
nologici.
Participatory Culture (Cultura partecipativa): Cultura nella quale i
fan e altri consumatori sono invitati a partecipare attivamente alla
creazione e alla circolazione di nuovi contenuti.
Perfect storm (Tempesta perfetta): una metafora adottata da Joe Trip-
pi e tratta dal titolo del film omonimo. L’espressione fa riferimento
alla concomitanza di cambiamenti nelle tecnologie, nelle pratiche
di campagna elettorale, nei modelli di organizzazione grassroots e
nel sentimento pubblico.
Pixelvision: Il nome di una videocamera-giocattolo economica che,
creata da Fisher-Price per i bambini, finì per diventare uno stru­
mento tecnologico per molti registi amatoriali e sperimentali.
Plenitude (Abbondanza): Secondo Grant McCracken, lo stato cultura­
le emergente in una fase caratterizzata dal proliferare di canali e di
scelte per il consumatore, in concomitanza con un calo di influenza
culturale ed economica dei tradizionali gatekeeper.
Populär culture (Cultura popolare): Prodotti culturali che sono stati
fatti propri dai consumatori, i quali li hanno integrati nelle loro vi­
te quotidiane.
Protocols (Protocolli): Secondo Lisa Gitelman, l’insieme di pratiche
culturali, sociali, normative ed economiche che emergono intorno
a un nuovo mezzo di comunicazione.
Public movies (Film pubblici): Opposti agli home movies (film dome­
stici), sono pellicole amatoriali finalizzate alla circolazione oltre gli
amici e i familiari del regista. Essi attingono il proprio contenuto
da una mitologia condivisa, spesso frutto dell’appropriazione di un
prodotto dei mass media .
355 G l o s s a r io

Pull media (Media pull): Media dai quali i consumatori devono estrar­
re informazione, come nel caso di Internet.
Puppetmasters: Persone che progettano e fungono da facilitatori di un
gioco di realtà alternativa.
Push media (Media pusb): Media dai quali il contenuto viene inviato
al consumatore, come nel caso del broadcasting.
Rabbit holes (Tane di coniglio): Sono chiamate così le porte di ingres­
so a un gioco di realtà alternativa.
Recaps (Ricapitolazioni): Riassunti, pubblicati su Internet e spesso
pungenti nei toni, dei programmi televisivi.
Regimes of truth (Statuti di verità): Secondo John Hartley, le norme e
le pratiche che influenzano il modo in cui i media rappresentano il
mondo reale, così come le maniere in cui il pubblico valuta il valore
informativo di tali rappresentazioni.
Saved (Salvati): Secondo i cristiani fondamentalisti, coloro che hanno
accolto Cristo come proprio salvatore.
Searchers (Cercatori di fede): Secondo i cristiani fondamentalisti, co­
loro che non hanno ancora accettato Cristo nella propria vita.
Serious fun (Divertimento serio): Espressione coniata da True Majori­
ty in relazione alla fusione tra attivismo politico e cultura popolare.
Shared Knowledge (Conoscenza condivisa): Secondo Pierre Lévy, l’in­
formazione ritenuta attendibile e posseduta in comune da tutti i
membri di una comunità del sapere.
Shipper (Spedizionieri): Termine del linguaggio dei fan per definire
lettori e scrittori impegnati in un rapporto particolare con i perso­
naggi di un programma.
Skin: Maschera o persona digitale programmata per essere inserita
nell’ambientazione di un gioco. E uno dei metodi più semplici e
diffusi nell’ambito della modificazione amatoriale dei giochi com­
merciali.
Slash: Un genere di fan fiction - o più genericamente di produzione
culturale dei fan - che immagina una relazione omoerotica tra i
personaggi estrapolati dai testi di mass media.
Smart mob: Espressione coniata da Howard Rheingold in riferimento
all’abilità delle persone di usare dispositivi di comunicazione di re­
te e mobili per organizzare una mobilitazione rispetto a situazioni
problematiche in corso di sviluppo.
Sock puppet (Burattino): Un’identità secondaria o uno pseudonimo
usati da un postatore abituale di una lista di discussione spesso allo
scopo di diffondere notizie o esprimere commenti che potrebbero
compromettere la sua reputazione.
356 G l o s s a r io

Sole Survivor (Unico sopravvissuto): Espressione diffusa per indicare


il vincitore di Survivor.
Song vid: Video musicali amatoriali che combinano a canzoni popolari
delle immagini tratte da film o da programmi televisivi.
Sourcing: AlPinterno della comunità dello spoiling, è l’acquisizione di
informazioni da fonti direttamente coinvolte nella produzione del
programma, che possono essere o non essere citate per nome.
Spaceshift: L’atto di doppiare un contenuto di intrattenimento così
che possa essere fruito su una diversa piattaforma mediatica.
Spin: Sforzi compiuti da gruppi politici e team delle campagne eletto­
rali tesi a guidare la risposta del pubblico a determinati eventi o
messaggi.
Spoiling: Inizialmente il termine era riferito a qualsiasi rivelazione di
informazioni relative a un programma televisivo che potrebbero
non essere note a tutti i partecipanti di una lista di discussione in
Internet. In seguito, lo spoiling ha riguardato il processo attivo di
inseguimento di notizie non ancora trasmesse in televisione.
Story are (Arco narrativo): Struttura della narrazione televisiva nella
quale delle sottotrame si protraggono nel corso di varie puntate, a
volte perfino lungo un’intera stagione e nei casi più estremi, per
tutte le edizioni che compongono la serie.
Sucksters: I partecipanti della lista di discussione Survivor Sucks.
Summer after Fifht Years (L’estate dopo il quinto anno): Un genere,
definito da The Sugar Quill, tramite il quale i fan di Harry Potter
scrivono storie narranti vicende che vanno oltre la dimensione
temporale degli ultimi libri pubblicati della saga.
Supercession (Sostituzione): Secondo Paul Duguid, l’idea che ogni
nuovo medium debba sostituire il precedente.
Synergy (Sinergia): Le opportunità economiche che emergono in un
contesto di integrazione orizzontale nel quale un conglomerato
mediatico possiede interessi in molteplici canali di distribuzione.
Tacit knowledge (Conoscenza tacita): Secondo James Gee, la cono­
scenza non esplicitamente espressa o manifestata, ma piuttosto in­
corporata nell’attività quotidiana di partecipazione agli spazi di af­
finità e alle comunità del sapere.
Talking points (Argomenti di discussione politica): Argomenti tema­
tizzati nelle campagne elettorali al fine di divenire oggetti di dibat­
tito tra i sostenitori.
Technological convergence (Convergenza tecnologica): La combina­
zione di funzioni attivabili all’interno di uno stesso dispositivo tec­
nologico.
G l o s sa r io 357

Tele-tourism (Teleturismo): Viaggio ispirato dalla televisione, per


esempio una visita alla location di un programma televisivo.
Ticket to play (Biglietto d’ingresso): Secondo Anne Haas Dyson, il di­
ritto di interpretare un ruolo alPinterno di una rappresentazione
per bambini, che si basa sulla somiglianza con i personaggi presenti
nel libro.
Timeshift: L’atto di registrazione di un contenuto di intrattenimento
che sarà visto in un secondo momento.
Tipping point: Espressione che si riferisce al momento in cui un para­
digma emergente raggiunge la massa critica e trasforma le istituzio­
ni e le pratiche istituite.
Tourists (Turisti): Secondo Robert Kozinets, una delle quattro catego­
rie di partecipanti alle comunità di brand, caratterizzata da legami
sociali deboli con il gruppo e da un interesse transitorio nei con­
fronti del marchio.
Transcreation (Transcreazione): Termine coniato da Marvel Comics a
proposito del suo Spiderman: India, riferendosi al processo di rein­
venzione e di localizzazione di un franchise funzionale già esistente,
al fine di renderlo più accettabile e attraente per un mercato nazio­
nale specifico.
Transmedia storytelling (Narrazione transmediale): Insieme di storie
che si dispiegano su più piattaforme mediatiche e per le quali cia­
scun medium coinvolto dà il suo contributo specifico alla nostra
comprensione del mondo narrato, così come un approccio più in­
tegrale allo sviluppo del franchise rispetto ai modelli basati sui testi
originali e sui prodotti ausiliari.
Uncertainty due to chance (Incertezza dovuta al caso): Secondo Mary
Beth Haralovich e Michael W. Trosset, una situazione il cui esito
non è certo perchè sarà determinato, almeno in parte, dal caso.
Uncertainty due to ignorance (Incertezza dovuta all’ignoranza): Se­
condo Mary Beth Haralovich e Michael W. Trosset, una situazione
il cui esito non è certo perché non si hanno informazioni al riguar­
do o perché esse sono tenute segrete.
Vernacular culture (Cultura vernacolare): Espressione dell’autore per
definire la cultura creata dagli amatori. Il termine viene usato per il
confronto tra la cultura folk e quella dei fan.
Vernacular theories (Teorie vernacolari): Secondo Thomas McLau-
ghlin, sono le formulazioni teoriche dei non-accademici, come per
esempio i professionisti esperti, gli attivisti, i fan o i visionari, che
cercano di spiegare le loro scoperte e le loro intuizioni.
Vid-cap: Espressione slang che sta per “video capture”, ovvero imma­
gini digitali catturate dalla tv broadcasting in modo da poter essere
358 G l o s s a r io

visionate attentamente da parte dei membri di una comunità del sa­


pere oppure, semplicemente, per essere gustate dai fan.
Virai Marketing (Marketing virale): Forme di promozione che dipen­
dono dal passaparola o dallo scambio di materiali tra amici e fami­
liari.
Viewing repertoire (Repertorio di visione): Secondo David J.LeRoy e
Stacey Lynn Koerner, la selezione dei programmi visti regolarmen­
te da un singolo spettatore.
Withering of thè Witherers (Disprezzo degli sprezzanti): Secondo
Grant McCracken, il calo delPinfluenza esercitata dai gatekeeper
tradizionali che impedivano a certe forme o espressioni culturali di
raggiungere la circolazione commerciale.
World-making (Creazione di mondi): Il processo di progettazione di
un universo finzionale che diverrà l’ambientazione di un franchise.
Esso deve permettere l’emergere di storie diverse e allo stesso tem­
po abbastanza coerenti da consentire ad ognuna di convivere con le
altre.
Zappers: Espressione aziendale che indica gli spettatori che si sposta­
no come nomadi irrequieti davanti allo schermo televisivo e che ra­
ramente riescono a seguire più di qualche frammento di un dato
programma.
L ’a u t o r e

Fondatore e direttore del Comparative Media Studies Program


del Massachusetts Institute of Technology (MIT), Henry Jenkins è
stato autore e curatore di dieci libri su vari aspetti dei media e della
cultura popolare, fra cui Textual Poachers: Television Fans and
Participatory Culture; From Barbie to Mortai Kombat: Gender and
Computer Games; The Childrens Culture Reader e Hop on Pop:
The Politics and Pleasures of Populär Culture.
Tra le tappe più significative della sua carriera, si ricorda: la te­
stimonianza davanti al Commerce Committee del Senato U.S.A. sul
tema “Marketing Violence for Youth”, in seguito alla strage di Co-
lumbine; la promozione dell’istruzione basata sulla letteratura me­
diale davanti alla Federai Communications Commission; il discor­
so tenuto davanti al corpo dirigente del World Economic Forum,
sulla proprietà intellettuale e la creatività grassroots ; la guida di
Education Arcade, che promuove l’uso educativo di videogame e
computer; la collaborazione editoriale ai mensili Technology Re­
view e Computer Games , e la sua attività di consulente aziendale
per le relazioni con i consumatori delle maggiori media company .
N o t a f in a l e

La ricreazione della società dello spettacolo


di Vincenzo Susca

Il lettore si sarà probabilmente domandato, durante la lettura


del libro, quante volte e in che misura i traduttori hanno “tradito”
la versione originale del testo di Henry Jenkins. E la stessa doman­
da che a volte mi sono - e ci siamo con Maddalena Papacchioli -
posto nel corso della revisione delle bozze. Provo a sciogliere il
dubbio sperando di non far perdere all’interlocutore la magia di
rientrare nel testo come se la traduzione fosse invisibile e trasparen­
te. Il linguaggio dell’autore è estremamente fluido, colloquiale, di­
retto; instaura una sorta di costante dialogo con chi sfoglia il libro,
come se si trattasse di una interazione immediata che ha luogo in
un comodo e informale salotto all’aperto. Abbiamo quindi dovuto,
seguendo la tradizione editoriale italiana, limare alcuni spiccati
tratti di informalità e tendere - perché di “ tensione” si tratta -
l’elaborato in modo tale da renderlo più “ scientifico” di quanto
non fosse all’inizio. In alcuni casi questa operazione si sente e pesa
nell’economia della narrazione; in altre, a nostro avviso, essa con­
sente un processo di astrazione nei confronti dei passaggi proposti
da Jenkins tale da rendere questi ultimi nella loro effettiva densità
semantica. Bisogna considerare, infatti, che accanto alla dislocazio­
ne spazio-temporale - e linguistica - di questo libro vi è anche una
distanza culturale tra il suo contesto di origine e quello italiano. In
breve, non possiamo non ricordare il ritardo del nostro paese nel
socializzare e affinare i dispositivi, le grammatiche e le narrative
della cultura digitale. Molti dei termini usati dall’autore sono di
uso comune negli USA, mentre rimangono chiavi di nicchia per il
pubblico nostrano, che ancora lamenta un uso della rete piuttosto
basilare. Ciò è tanto vero al punto che molte parole-chiave dissemi­
362 N o t a f in a l e

nate nel corso del libro risultano per noi intraducibili. È stato quin­
di delicato da una parte sfumare l’oralità di Jenkins e dall’altra ar­
ricchire - o meglio integrare tramite alcune spiegazioni - alcuni
passaggi semplici per un lettor e/utente di nuovi media americano,
viceversa ben più complessi anche per uno studente di mediologia
italiano.
Ciò che contribuisce a creare un dislivello nei confronti delle
abitudini del pubblico italiano di questo tipo di saggistica, è da una
parte la competenza/passione dell’autore nei confronti del tema
trattato - tanto che egli rivela apertamente di essere prima di tutto
un “ fan” -, dall’altra la sua estraneità rispetto alle tradizioni di sa­
pere che nel nostro paese, e più in generale in Europa, servono da
griglie interpretative per analizzare l’avvento dei nuovi media e
della loro cultura. Questo rappresenta da una parte un enorme
vantaggio e dall’altra un limite nel tentativo di rendere più esausti­
va possibile la comprensione del fenomeno in questione. Se è vero
che la gran parte degli intellettuali europei più accreditati della
chance di descrivere la dimensione socio-simbolica dei nuovi media
dimostra di non conoscerne abbastanza le grammatiche e le piatta­
forme espressive, quantomeno non con la stessa precisione e pro­
fondità messe in luce nelle pagine di questo volume, è altrettanto
pertinente sottolineare che vi sono, nelle superfici e nel fondo di
questo brulichio culturale, radici che precedono di molto l’inven­
zione del digitale e la retificazione dei rapporti sociali, e che in al­
cuni casi ciò che sembra e appare come nuovo non è che la ripro­
posizione, la riattualizzazione se non la continuazione di processi
che affondono le loro radici almeno nella metà dell’800, allorché
la metropoli si è costituita come dispositivo comunicativo (Abruz­
zese, 1995). Per questo motivo la lettura di questo testo risulta an­
cora più stimolante e esauriente se accompagnata dal quadro di
pensiero dei grandi classici del pensiero europeo sulla cultura di
massa - da Walter Benjamin ad Edgar Morin, da Alberto Abruzzese
a Jean Baudrillard, da Manuel Castells a Michel Maffesoli passan­
do per Derrick de Kerckhove e Pierre Lévy. A “ funzionare” da trait
d ’union tra questi ultimi e Jenkins compare la figura unica e insu­
perabile di un intellettuale ai limiti tra l’accademia e la piazza come
Marshall McLuhan, il quale ha saputo congiungere la sapienza e la
profondità filosofica europea con il pragmatismo e l’empatia pro­
vata nei confronti dei nuovi media del ricercatore nord-americano.
Grazie a questo va-e-vieni McLuhan ha saputo cogliere - e finan­
La r i c r e a z i o n e DELLA s o c i e t à d e l l o s p e t t a c o l o 363

che spezzare - la parabola da cui i nuovi media elettronici scaturi­


scono, così come la loro attualità fenomenica.

Convergence culture offre una fotografia precisa dei flussi e del­


le tensioni che contribuiscono a modellare lo scenario tecno-socia­
le in corso di elaborazione, lasciando intendere, sullo sfondo, le
pulsioni culturali che caratterizzano l’anima di un tale fermento
culturale. In alcuni casi, l’autore mostra come primo piano ciò che,
in realtà, rappresenta semplicemente l’effetto di determinate scin­
tille accese dal cuore e nel fondo stesso dell’immaginario collettivo.
Si tratta di un dettaglio che non nuoce all’efficacia e alla precisione
del libro; una traccia che tuttavia spinge il lettore a invertire l’ordi­
ne delle cause e degli effetti, a rendere più complesso il rapporto
tra media, soggettività sociale e cultura. Entrando nello specifico,
alcuni punti pongono l’opera di Jenkins in un rapporto di congiun­
zione profonda con le osservazioni più efficaci sulla società po­
stmoderna. Quando l’autore si riferisce, ad esempio, alla nozione
di “ adorazione all’altare della convergenza” , mostra bene a che
punto la posta in gioco della cultura digitale non sia legata sempli­
cemente a una questione di strumenti, dati o semplici informazio­
ni, ma a quanto di più profondo struttura un insieme sociale. Du­
rkheim scrive nel suo Le forme elementari della vita religiosa che
non c’è e non può esistere società senza che vi sia in essa una scin­
tilla di religiosità - un fuoco sacro atto a stringere e confortare un
gruppo in un qualcosa che sia al tempo stesso capace di superare i
singoli individui che lo compongono e di porlo in rapporto con la
sua alterità radicale. L’adorazione nei confronti dei nuovi media
pone quindi in essere uno scenario in cui questi ultimi assumono
delle funzioni neo-totemiche, divenendo dei lacci, degli ambienti
in cui, al di là del contenuto presente, una o più sfere pubbliche si
costituiscono e fondono attorno a ciò che di più intimo le caratte­
rizza: l’affetto, il simbolo, la passione, altrettante grammatiche fon­
dative del nuovo modo di essere-insieme che caratterizza lo spirito
postmoderno.
Vediamo bene, a tal proposito, che l’attività dello spoiling, tra­
mite la quale, secondo l’autore, un determinato gruppo sociale si
definisce in quanto “comunità del sapere” , sfonda e rifonda il con­
cetto stesso di conoscenza su cui la società moderna si è basata.
Quest’ultimo non si conforma più nei toni della pulsione scientifi­
ca, metafisica e astratta che ha caratterizzato gli ultimi tre secoli di
364 N o ta f in a l e

storia, adagiandosi invece a uno spirito più sensibile, relativista e


ludico. Lo spoiling forma così una comunità del sapere che trascen­
de i limiti e i paradigmi del Sapere scientifico, divenendo un dispo­
sitivo ludico, affettivo e in qualche modo festivo tramite il quale un
gruppo impara qualcosa divertendosi, mettendo in comune un tipo
di conoscenza che ha a che vedere con il piacere della “ distrazione”
piuttosto che con l’impegno o la serietà dell’accumulazione di dati
al fine di costruire/possedere qualcosa. Ciò che il testo mostra bene
è che una delle figure emblematiche in cui l’intelligenza collettiva
si declina nell’ambito delle nuove piattaforme comunicative, è
quella di un’intelligenza emotiva alla ricerca del piacere ludico e/o
della distrazione estetica, i quali a loro volta si pongono immedia­
tamente come fondamenti di una nuova etica basata sul loisir così
come su un nuovo “patto” al di qua e al di là della politica e della
cultura. Non è un caso che tale analisi coincida bene con le osser­
vazioni di Edgar Morin e di Michel Maffesoli, pensatori attenti ad
interpretare le derive deH’immaginario contemporaneo alla luce
del superamento delle categorie morali, estetiche e politiche sulle
quali la modernità si è fondata.
Tra queste si ritagliano un ruolo centrale la tradizione, i raccon­
ti di cui essa si serve e le figure in cui si materializza nella storia, a
partire dalla distinzione archetipica tra lettore e scrittore come
marca della divisione sociale tra élite e masse (Abruzzese, 1996). Il
fenomeno della reality tv così come illustrato da Jenkins contribu­
isce a chiarire, sebbene nelle sue forme più rudimentali e iniziali, la
rottura del contratto tra autori e lettori, laddove ad emergere è il
desiderio di fare della vita quotidiana e delle sue matrici più ordi­
narie, ludiche e persino triviali i nuovi miti della vita collettiva. Ve­
diamo quindi a che punto non solo gli spettatori scelgono Vameri-
can idol, ma spingono quest’ultimo a divenire un determinato per­
sonaggio e ad incarnare una determinata figura, ben al di là dell’in­
dividuo in gioco. Non è un caso che i forum dove il discorso dei re­
ality show prosegue e si arricchisce si pongono come il contenuto
proprio dei nuovi linguaggi in gestazione, laddove lo spettacolo si
scrive e si riscrive; il luogo in cui si dà vita a un personaggio e lo si
getta nel mondo.
E quest’ultimo il vero protagonista dello spettacolo postmoder­
no: la rete di bolle che elabora una mitologia e la dimena a pioggia
nella società tramite i nuovi media. I produttori non possono fare
altro che inseguire i vortici attivati da queste nebulose societali,
La r i c r e a z i o n e d e lla so c ie tà d e llo s p e tta c o lo 365

tentando di tradurne in merci i vagiti culturali, almeno fino a che


queste ultime lo accetteranno e troveranno il “gioco” funzionale al­
la costituzione del proprio sentire comunitario. Se la “narrazione
transmediale” di Matrix incontra il favore del pubblico è esatta­
mente perché essa si pone come miscellaneo di piccole mitologie in
grado al tempo stesso di aderire a determinati piaceri estetici locali
e globali e di essere manipolata al di là di se stessa e del proprio
“ senso” [non è un caso che i fratelli Wachowski ribadiscano nell’in-
terazione con gli utenti riportata nel testo il loro disinteresse rispet­
to all’idea di stabilire un percorso narrativo prestabilito e indirizza­
to a priori, basando invece la propria scrittura sulPintervento del
pubblico come elemento centrale dell’elaborazione del messaggio.
McLuhan chiamerebbe questo tipo di linguaggio un “medium fred­
do” (1997)]. In termini solo leggermente diversi, a conferma della
stessa tendenza di base, vediamo nel caso delle attività di scrittura
e di riattualizzazione di Star wars e simili un desiderio escanden-
scente, proveniente dal basso, di porre la fantasia del pubblico co­
me protagonista della scena comunicativa. Gli utenti partono
dall’elaborato di Lucas per appropriarsene prima e superarlo poi,
ponendo infine se stessi come oggetto e soggetto della “ricreazio­
ne” estetica. In tutti questi casi, è come se l’industria culturale
“classica” fornisse al pubblico gli elementi di base su cui quest’ulti­
mo gioca e indirizza la propria attività di manipolazione e riappro­
priazione simbolica. Essa si pone come una fonte di testi martiri, la­
boratorio di tessere destinate ad essere frammentate e ricomposte
al di là delle intenzioni con cui sono state disegnate. Ogni ricompo­
sizione equivale a un collage dove un sentire collettivo si rispecchia
e riconosce temporaneamente e a partire dalla condivisione di in­
fo-emozioni estetiche.
La tecnologia non si presenta più, quindi, come una mera pano­
plia di strumenti tramite cui risolvere problemi, assolvere funzioni
o adattare l’ambiente, assumendo invece il volto di una “tecnoma­
gia” utile a congiungere soggettività sociali attorno a vibrazioni
emotive, a piaceri info-estetici e a pulsioni ludiche. Tramite le nuo­
ve piattaforme comunicative tutto il pubblico sperimenta sulla pro­
pria pelle il fascino delle porzioni magiche e dei voli fantastici di
Harry Potter e dei suoi amici. Scrivere nuove storie a partire da
questa mitologia postmoderna equivale così a porre se stessi come
piccoli maghi di un mondo reincantato (Maffesoli, 2007), di cui il
computer è solo la porta d’ingresso. Un portale dove l’immaginario
366 N o ta f in a l e

collettivo si mette in comune e pressa sul mondo perché la propria


realtà invisibile abbia un seguito sul terreno del Reale. Warner
Bros, e tutte le altre corporation sono al corrente di una tale irre-
primibile pulsione. Sanno che essa è al tempo stesso la propria scin­
tilla vitale e il principio di qualcosa d’altro da sé.
*

Jenkins conclude il volume aprendo una parentesi politica giac­


ché la sua analisi mostra a che punto la ridefinizione dei concetti di
sapere, spettacolo e connessione intelligente contribuisca a disarti­
colare l’equilibrio su cui il potere moderno si è finora fondato. Una
volta bruscamente ridisegnato questo scenario di fondo, va da sé
che la cristallizzazione delle istituzioni così come le conosciamo og­
gi scricchiola e viene messa in discussione a partire dalle sue stesse
radici. All’interno di questa scossa si muovono spinte ricreative, lu­
diche e connettive svincolate rispetto alla dialettica della politica
moderna. Solo riconoscendo attentamente il volto e le forme di
queste pulsioni transpolitiche potremo cogliere sino a che punto la
svolta della cultura postmoderna implichi un passaggio a una nuo­
va architettura del sapere e del potere. Un’altra volta: il mezzo è il
messaggio. A voi il compito di riconoscerlo, a Jenkins il merito di
averci aiutato in questa direzione.

Vincenzo Susca
Centre d’étude sur l’actuel et le quotidien, Sorbonne, Paris
McLuhan Program in Culture and Technology,
University of Toronto
Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Milano
La r i c r e a z i o n e d e lla s o c ie tà d e llo s p e tta c o lo 367

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Henry Jenkins è direttore del Comparative Media
Studies Program del MIT. Autore e curatore
di molti libri su vari aspetti dei media e della
cultura popolare tra cui Fans, Bloggers, and Gamers:
Exploring Participatory Culture, New York University
Press, 2006 e From Barbie to Mortai Kombat: Gender
and Computer Games, MIT Press, 2001, collabora
ai mensili Technology Review e Computer Games.

Wu Ming è il nome di un collettivo di narratori.


Nel 1999 con il nome di Luther Blissett hanno
pubblicato il romanzo Q (Einaudi). Dal 2000
hanno scritto diversi romanzi di gruppo
e individuali oltre che la sceneggiatura del film
Lavorare con lentezza. Nel 2007 hanno pubblicato
il romanzo Manituana (Einaudi).
Il loro sito internet è
www.wumingfoundation.com.

Vincenzo Susca è docente a contratto all'Università


IULM di Milano, dottorando di ricerca presso
l'università di Parigi La Sorbonne e la Facoltà
di Scienze della Comunicazione deirUniversità
degli Studi di Roma "La Sapienza".
McLuhan fellow deirUniversità di Toronto e
ricercatore all'ISIMM di Roma e al CeaQ di Parigi.

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