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LA RICERCA MUSICALE
XXI Secolo (2009)
di Giorgio Battistelli
La ricerca musicale
Il problema
L!orizzonte della ricerca musicale appare oggi molto più indefinito che in passato.
Non è nemmeno più ovvio distinguere tra una musica di ricerca e una pratica
musicale generalizzata che sembra avverare una previsione formulata da Brian
Eno (n. 1948) nei primi anni Ottanta, secondo cui gran parte della produzione
musicale più avanzata sarebbe diventata opera di non musicisti, cioè di artisti privi
di preparazione classica e spesso incapaci anche di leggere il pentagramma. Di
certo, rispetto alle prime sperimentazioni elettroacustiche degli anni Cinquanta e
Sessanta, lo sviluppo delle tecnologie ha provocato cambiamenti profondissimi.
L!elaborazione elettronica del suono non è più appannaggio di pochi centri di
ricerca istituzionali, ma è accessibile potenzialmente a tutti purché abbiano un
buon computer, mentre il controllo esercitato sul materiale sonoro, considerato un
tempo il discrimine fra le composizioni ingenue e quelle rigorose, è affidato alla
competenza informatica piuttosto che al bagaglio della preparazione accademica.
Più ancora che con le possibilità e i limiti del mezzo informatico, però, occorre
confrontarsi con un mutamento di paradigma che investe tutti i parametri della
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Un nuovo paradigma richiede però che muti anche la prospettiva del giudizio. Un
pensiero musicale che ci ha accompagnato a partire dal Romanticismo non è in
grado di afferrare la situazione del presente. Il nostro orecchio e il nostro cervello
sono sottoposti a continue trasformazioni del campo percettivo. Nuove tecnologie e
nuovi media costringono a modificare il nostro atteggiamento nei confronti della
musica. La rilevanza di questi fenomeni non è solo sociale, ma anche estetica e
antropologica. Poiché il modello evolutivo, orizzontale, è stato sostituito da un
modello globalizzato, verticale, è necessario chiedersi se la musica debba
rimettersi soltanto a un laissez-faire governato dai principi del mercato oppure se vi
sia ancora spazio per una ricerca qualitativamente diversa, che non emuli cioè
tardivamente lo spirito e le dinamiche dei movimenti d!avanguardia.
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Musica e pensiero
È anzitutto nella vicinanza fra la pratica musicale e questa «arte di pensare» che si
possono rintracciare non solo argomenti a favore di una musica di ricerca per
l!attualità, ma anche segnali significativi che provengono dal panorama
contemporaneo. In linea di principio la situazione non è diversa in musica rispetto a
quello che avviene in altre forme d!arte: una constatazione, questa, che sottolinea
come la musica non sia qualcosa di separato, un!isola rispetto al mondo dell!arte o
della cultura in genere. Eppure è proprio una condizione di separatezza ciò che la
musica sembra scontare rispetto agli altri ambiti delle pratiche artistiche. In un
dialogo del 1983 con Pierre Boulez (n. 1925), Michel Foucault (1926-1984) notava
il paradosso di un!arte, la musica, del tutto interna al contesto delle trasformazioni
culturali ma percepita come un caso a sé, indipendente e per molti aspetti
incomprensibile. «Come può essere», si chiedeva Foucault, «che noi sentiamo la
musica come qualcosa di così lontano, di proiettato in una distanza quasi
incolmabile, quando invece è così vicina e così consustanziale a tutta la nostra
cultura?» (M. Foucault, P. Boulez, La musique contemporaine et le public,
conversazione del 1983, in M. Foucault, Dits et écrits, 4° vol., 1994, p. 488). Gli
esempi portati da Foucault hanno la forza dell!evidenza: con l!eccezione del
cinema e della fotografia, la musica è stata più sensibile di ogni altra arte alle
trasformazioni tecnologiche; il suo cammino nel Novecento presenta forti affinità
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con quello della pittura; infine «i problemi teorici che la musica ha posto a se
stessa, il modo in cui ha riflettuto sul proprio linguaggio, sulle proprie strutture, sui
propri materiali, sono il riflesso di un tipo di interrogazione che, mi pare, ha
attraversato tutto il 20° secolo: un!interrogazione sulla "forma! che è stata quella di
Paul Cézanne o dei cubisti, di Arnold Schönberg e dei formalisti russi o della
scuola di Praga», un!interrogazione sulla materia e sulla maniera di organizzarla
che è stata la stessa delle altre arti e di molte scuole di pensiero nei campi del
linguaggio, della filosofia, dell!estetica. Eppure, malgrado questa prossimità, i
cambiamenti vissuti dalla musica non sono penetrati nell!immaginario collettivo.
Essendo arte astratta per eccellenza, richiedendo la mediazione di interpreti ed
esecutori, la musica tocca le nostre convenzioni culturali a un livello di profondità
che spesso ostacola la sua ricezione anche da parte di chi, in altri ambiti della
creazione artistica, sembra condividerne poetica e linee-guida: il caso di artisti
sordi alla musica del loro tempo, o sorprendentemente disinteressati a una musica
che non fosse pura classicità o intrattenimento, non è raro oggi e non lo è stato nel
recente passato.
Questa condizione paradossale non può essere aggirata, ma deve essere assunta
come una difficoltà in più per lo statuto della ricerca musicale: un problema di
comunicazione che in molti casi, quasi per reazione, ha provocato atteggiamenti
autoreferenziali di chiusura rispetto a ciò che avveniva altrove, nel mondo dell!arte
e della cultura. Il rischio dell!omologazione e della rinuncia alla ricerca che oggi
corre la musica si ripresenta anche negli altri campi delle pratiche artistiche. Nella
musica, però, l!individuazione di un!esperienza rivelatrice, che abbia il valore di un
punto d!incontro significativo per l!ascolto, appare attualmente un compito
particolarmente arduo.
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per primi esplorato lo spazio della musica concreta, autori come Pierre Schaeffer
(1910-1995) o Pierre Henry (n. 1927), ancora oggi avvertiamo nella loro opera la
freschezza e l!ingenuità della scoperta, sentiamo aprirsi paesaggi sonori nuovi,
atmosfere percettive diverse e coinvolgenti più di quelle che sono state capaci di
creare, in seguito, la stessa musica concreta e poi la ambient music. Malgrado il
tempo trascorso, cogliamo in quella musica l!azione di un pensiero, l!individuazione
di nuovi campi proiettivi, mentre nella ripetizione di quella formula o nelle sue
applicazioni commerciali riconosciamo solo il ritorno del già noto, pronto per una
confezione che lo appiattisce. Un secondo aspetto problematico deriva dall!effetto
di dispersione seguito al venir meno del modello evolutivo, lineare, e di linguaggi
artisticamente egemoni com!è stato a lungo quello dell!avanguardia. Oggi vi sono
tante poetiche quanti compositori e occorre analizzare singolarmente i percorsi di
ciascuno, cercando al limite di rintracciare quelle che Ludwig Wittgenstein
chiamava «somiglianze di famiglia» ma rinunciando alle categorie di una visione
d!insieme, come pure a qualcosa che possa essere definito una tendenza. Una
difficoltà, questa, che si trasforma però in una nuova opportunità critica se la si
applica anche ai musicisti delle generazioni passate: se si smette, cioè, di
considerarli come rappresentanti di un!unica estetica e si pone attenzione ai
passaggi del loro cammino artistico, alle loro coerenze e discontinuità.
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incontro con una forma di estraneità radicale, inattesa; per un altro, quella che la
musica sia essenzialmente un!esperienza, l!ascolto di un pensiero che trasforma
sé stesso e chi vi si affida.
La musica di ricerca segue oggi strade diverse, molte delle quali dipendono ancora
dalle istanze di sperimentazione avviate dai compositori del dopoguerra. È
possibile, però, distinguere alcuni elementi che permettono di raggruppare percorsi
individuali seguendo linee di demarcazione verticali, non riconducibili alla
cronologia di un!evoluzione storica. Niente più che «somiglianze di famiglia», ma
già un criterio utile all!osservazione. Per limitare il campo verranno presi qui in
considerazione, con alcune significative eccezioni, solo compositori ancora in
attività o scomparsi alle soglie del nuovo secolo. Nella loro opera si cercherà di
rintracciare, sia pure in modo sommario, un cammino di ricerca e un pensiero
musicale che abbiano prodotto innovazioni feconde. Andando al di là dei
programmi e delle poetiche, verrà delineato un panorama certo non esaustivo, ma
indicativo del fatto che la ricerca di nuovi campi proiettivi, quando è stata condotta
in termini essenzialmente musicali, si misura costantemente con l!esperienza
dell!incanto.
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scelto per tre delle sue ultime composizioni (1987-1989), completato titolo dopo
titolo, è il simbolo di una vita vissuta nel segno della ricerca musicale e
un!indicazione più generale su come questa debba essere intesa, in senso sia
etico sia estetico: Caminantes, no hay caminos, hay que caminar… soñando.
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Una ricerca musicale incline a una continua trasformazione dei risultati raggiunti
non è stata però appannaggio esclusivo dei compositori di area colta o
accademica, ma è stata perseguita anche da artisti attivi in ambiti diversi, per i
quali un principio di metamorfosi ha corrisposto all!inquietudine di un!interrogazione
sul proprio universo espressivo. Nel caso della musica jazz questo tipo di
atteggiamento è diffuso, specie in quelle esperienze che si allontanano dai suoni e
dai gesti più fortemente connotati e stratificati in una pluralità di stili. È però nella
strada percorsa da ciò che è stato chiamato Free jazz, e più ancora in quelle
esperienze di composizione estemporanea legate, in Europa, soprattutto ai nomi di
Misha Mengelberg (n. 1935) e Han Bennink (n. 1942), che si trovano punti di
intersezione con la ricerca musicale condotta dai compositori di area colta. I
connotati di riconoscimento della matrice jazzistica vengono infatti talmente
riformulati da inoltrarsi in una terra di nessuno in cui non valgono più campi di
appartenenza. Su un altro piano, appare guidato da uno spirito di ricerca originale il
cammino di Frank Zappa (1940-1993), la cui via sperimentale rappresenta
l!esempio più flagrante di contiguità fra il mondo del rock e quello della musica di
estrazione accademica. Già nel suo modo di adoperare il virtuosismo c!è la volontà
di dar vita a un!azione musicale che può essere avvicinata a quella di un
compositore come Mauricio Kagel (1931-2008). Inoltre nel suo ultimo progetto
portato a termine, The yellow shark (1992), Zappa ha mostrato di mirare
consapevolmente a una fusione di orizzonti collaborando con un!orchestra da
camera, l!Ensemble Modern, ma senza dar vita a una musica separata dalla sua
esperienza nel rock. Il lavoro compiuto da Zappa con gli strumentisti dell!orchestra
tedesca non è molto dissimile da quello realizzato da L. Nono con i solisti del
Prometeo: Zappa ha infatti sollecitato l!inventiva degli interpreti, ha dato
consistenza teatrale ai numeri virtuosistici, ha forzato la materia sonora in modo da
produrre effetti nuovi anche nel caso dell!esecuzione di brani appartenenti al suo
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Una bellezza pura, classica, nel suo rigore a volte incline al formalismo, è quella
delle composizioni di Pierre Boulez (n. 1925), il quale fa uso della tecnologia per
rafforzare il controllo dell!effetto acustico. Di classico, nella musica di Boulez, c!è
anzitutto il valore assegnato alla dimensione persino scultorea della forma: la sua
musica è fatta di oggetti duri, ben modellati, nei quali alla materia sonora non è
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defunta signorina Trussova (Poslanija pokojnoj R.V. Trusovoj, 1980), per soprano e
piccolo ensemble, o in Kafka-Fragmente (1985-86), per soprano e violino, la
sobrietà dei colori e la densità della costruzione ottengono effetti espressivi
inaspettati e di impatto immediato. In brani come Grabstein für Stefan (1989), per
chitarra e piccolo ensemble, o Samuel Beckett: what is the word (1990-91) la
dislocazione degli strumenti in luoghi differenti mette in luce una personale poetica
dello spazio sonoro che tuttavia non si associa a una drammaturgia dell!ascolto,
bensì contribuisce a rendere evidente il processo di condensazione formale della
sua scrittura.
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di opere preesistenti di autori come Luigi Boccherini (Quattro versioni originali della
ritirata notturna di Madrid, 1975), Franz Schubert (Rendering, 1988) o Giacomo
Puccini (nuovo finale per Turandot, 2002), Berio ha saputo trasformare la disciplina
tradizionale del comporre nella risorsa fondamentale di una nuova forma di
pensiero articolata in suoni.
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Una domanda sull!origine del suono muove anche il lavoro di Beat Furrer (n. 1954)
verso l!esplorazione di un territorio individuato con chiarezza fin dalle prime
composizioni, per es. in opere come Die Blinden (1989) e Narcissus (1994). Nel
rapporto con i testi e nel trattamento della voce si avverte l!esigenza di retrocedere
fino a espressioni non impostate, non educate, intese come ritorno alla natura
primaria dell!emissione vocale, mentre sul piano strumentale Furrer procede
passando dal pieno al vuoto per sottrazione progressiva di segni e di materia.
L!elemento visivo sottolinea spesso il senso della sua ricerca facendo esplodere la
musica in gesti di forte evidenza drammaturgica. In Fama (2005), da lui definita
una forma di «teatro dell!ascolto», gli strumentisti abbandonano via via il
palcoscenico e continuano a suonare dietro le quinte, o in altri punti della sala,
mentre il direttore rimane sul podio e continua a guidare, in collegamento video,
quella che agli occhi dello spettatore appare come un!orchestra assente, spettrale.
Fama, a tutt!oggi l!opera più significativa di Furrer, rivela forti continuità con le
composizioni precedenti soprattutto dal punto di vista della costruzione, un
montaggio e una ricombinazione di elementi che tendono a variare la
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Suoni nuovi provengono, oggi, anche dalla diffusione globale delle culture musicali
extraeuropee, ma il loro uso risponde a standard nei quali non si intravede la
ricerca di una forma, il tentativo di far suonare quegli strumenti in modo diverso per
rispondere a una nuova idea di musica. Nella World music il fenomeno è evidente:
suoni di strumenti che appartengono a una sorta di grande catalogo mondiale
vengono giustapposti tramite un medium che li equalizza, per lo più elettronico, e
livellati come se provenissero da un unico crogiuolo, un!unica cultura,
depotenziandone la capacità di spaesamento. Gli strumenti delle tradizioni
extraeuropee possiedono, d!altra parte, una sedimentazione storica fortissima, tale
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per cui appare difficile trovare la strada per un loro impiego che non sia
semplicemente coloristico. In chiave sarcastica è quanto ha dimostrato M. Kagel in
brani nei quali la critica, svolta in termini prettamente musicali, riesce persino a
individuare una maniera del tutto innovativa di riferirsi alle tradizioni extraeuropee.
In Exotica (1972) i musicisti di un ensemble classico sono costretti a cimentarsi con
strumenti e impasti timbrici a loro estranei generando, anche tramite
l!improvvisazione, l!impressione di una soluzione posticcia e piena di retorica. La
stessa critica è ribadita da Kagel nella versione per Salonorchester dei brani che
compongono il ciclo Die Stücke der Windrose (1988-1994), stavolta avendo di mira
proprio il fenomeno della World music. Toru Takemitsu (1930-1996) aveva riflettuto
sul suo rapporto con la tradizione giapponese, dalla quale proveniva, e con
l!espressione della musica colta occidentale, nella quale si era formato, parlando
della possibilità di ospitare una memoria nell!altra. Ospitare vuol dire però non solo
accogliere, ma anche mettersi a disposizione di chi arriva e lasciarsi sorprendere,
modificare dalla visita. È il contrario di una forma di omologazione che in realtà non
ospita ma assimila, non accoglie ma incasella. Eppure creare le condizioni di un
dialogo fra le diverse memorie, non di un monologo colorato di elettronica e cultura
locale, è difficile e finora non ha prodotto risultati felici, anche se si tratta di un
terreno sul quale la ricerca musicale sembra obbligata, oggi, a esercitarsi. In un
concerto come The compass (2006), dell!australiana Liza Lim (n. 1966), oppure
nell!opera di uno dei più significativi compositori cinesi del nostro tempo, Guo
Wenjing (n. 1956), l!introduzione del didgeridoo, antico strumento a fiato degli
australiani aborigeni, o dell!ehru, violino cinese a due corde, tenta di rompere il
contesto del loro uso tradizionale e, al tempo stesso, di destrutturare la forma-
concerto in vista di un!architettura nuova, costruita appunto sulle possibilità di
quegli strumenti. Prevale, tuttavia, ancora un!impronta di esotismo che consuma
rapidamente l!incanto di queste musiche, come avviene anche nei tentativi di autori
interessanti quali la compositrice kuwaitiana di origine indonesiana Rashidah
Ibrahim (n. 1954), che usa un flauto arabo in Music for ney and chamber orchestra
(1995), oppure il giapponese Misato Mochizuki (n. 1969), autore fra l!altro di Silent
circle (2006) per flauto, koto (strumento musicale cordofono appartenente alla
famiglia della cetra) ed ensemble.
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Che una simile ricerca possa produrre risultati nuovi si può constatare guardando
all!opera di Wolfgang Rihm (n. 1952), il compositore che con maggiore acume è
riuscito a passare oltre la lezione delle avanguardie senza rinnegarla, senza
affidarsi completamente alla tecnologia, senza adagiarsi nella restaurazione del
passato. Nella musica di Rihm vengono portati a sintesi i due atteggiamenti di
ricerca fin qui distinti: molte composizioni simili fra loro indagano un identico
perimetro espressivo, eppure le minime differenze che egli introduce danno anche
al lavoro di mappatura il senso di un percorso che diviene evidente laddove
appaiono diversità maggiori. Più che mettere in discussione i suoi risultati
precedenti, il cammino di Rihm presenta aspetti di continuità particolarmente forti,
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agganciati a una visione etica del rapporto con la tradizione e a una forma di
pensiero musicale nella quale occupa un posto importante il sodalizio con il filosofo
Peter Sloterdijk (n. 1947). Rihm recupera moduli del passato ma li trasforma
conferendogli l!aura dell!inedito. L!invenzione formale corrisponde anche a una
ricerca sul timbro, sul suono, ma questa non è mai indipendente da quella:
procedono insieme, e separare l!una dall!altra avrebbe tanto poco senso quanto
voler staccare il recto e il verso di un unico foglio. Molto spazio, nella ricerca di
Rihm, hanno il teatro musicale e l!opera. Die Hamletmaschine (1983-1986), su
testo di Heiner Müller, ricorre ai canoni classici dell!opera, ma li rende imprevedibili
attraverso un lavoro di decostruzione e ricostruzione che non ha paragoni con
modelli del passato. In Séraphin (1994), da Antonin Artaud, la forma operistica
viene trasformata e, senza testo, il coro viene piegato a suoni onomatopeici che gli
conferiscono un!espressività inedita. In un lavoro precedente, Die Eroberung von
Mexico (1987-1991), basato sempre su un testo di Artaud, la sperimentazione di
Rihm si focalizza sul suono orchestrale e su un impasto singolare di coro registrato
e dal vivo: il testo di Artaud viene potenziato musicalmente tramite l!uso di un
organico strumentale che gli schemi classici considererebbero squilibrato, con
pochi archi e un alto numero di ottoni e legni. Il più recente Das Gehege (2006), su
testo di Botho Strauss, è una sorta di Lied per soprano e orchestra che vive,
tuttavia, di un!interna drammaturgia sonora tale da renderlo intrinsecamente
teatrale: il riferimento alla tradizione delle radici mitteleuropee è qui sensibilissimo,
ma il trattamento dell!orchestra e l!organizzazione armonica mostrano la volontà di
rinnovare quelle radici, di conferire loro un incanto nuovo. È possibile rintracciare lo
stesso impegno di ricerca nelle sue composizioni per orchestra da camera, per es.
in Nach-Schrift (1982-2004), nei Lieder su testi di Hölderlin, Celan, Nietzsche,
come pure in opere sinfoniche come Jagden und Formen (1995-2001), nella quale
l!invenzione ritmica e timbrica aggiunge ulteriore forza al tentativo di far suonare
nuovo l!impianto tradizionale dell!orchestra. Le date delle composizioni di Rihm,
spesso compiute lungo l!arco di diversi anni, sono un segno del suo concepire la
musica come un work in progress: la ricerca infatti prosegue opera dopo opera e, a
volte, anche nella creazione di un solo titolo, come se il cammino della
sperimentazione fosse più importante dei singoli risultati raggiunti.
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Come si sarà potuto notare osservando gli esempi fin qui riportati, il rapporto con la
scena e con il teatro costituisce tuttora un terreno di ricerca musicale
particolarmente fertile. Superati i proclami avanguardistici dell!anti-opera, il
rapporto fra la scrittura musicale e il mondo del teatro, in tutte le sue accezioni, ha
riacquistato una legittimità che lo rende un luogo privilegiato di incontro per le
esperienze musicali più lontane. Storicamente il teatro può essere considerato una
sorta di ombra della musica, un Doppelgänger che ha funzionato come fattore di
inquietudine e stimolo creativo. Non un binomio nato per associare due esperienze
distinte eppure convergenti (il teatro e la musica) ma una dimensione che spinge la
musica a uscire dai suoi confini e a esporsi al confronto con un registro altro. Di
qui, in tempi anche recenti, le accuse di eclettismo rivolte ai compositori che
continuavano a praticare il rapporto con la scena e l!idea che il teatro introducesse
nella concezione compositiva impurità nocive alla distillazione formale della
musica. Per un verso, però, l!eredità più significativa del postmoderno in musica
sta proprio nell!aver tolto ogni patina di negatività all!eclettismo: oggi uno sguardo
eclettico è indispensabile per misurarsi con la verticalità dei fenomeni musicali, con
la loro intensificazione globale. Per un altro, l!impurità è una delle frontiere
fondamentali dei campi proiettivi verso i quali la musica del presente può dirigersi: i
tempi dell!indugio e le forme dell!incanto passano per una materia sonora
costituzionalmente ibrida e non più capace di isolamento, pena il rischio
dell!autoreferenzialità. La convivenza di elementi eterogenei, nel teatro musicale,
costringe al confronto con qualcosa che non cade sotto il controllo del compositore.
È il tipo di impurità con la quale si sono confrontati tutti gli autori che hanno corso il
rischio di pensare una musica da mettere in scena, fossero Nono o Stockhausen,
Berio o Ligeti, Sciarrino, Furrer o Rihm.
Nel campo del teatro musicale, però, la varietà di poetiche e di esperienze fin qui
considerate tende addirittura a esplodere, a ramificarsi in una rete di proposte che
si confrontano ciascuna con un diverso modo di intendere la drammaturgia, la
scena, l!elemento visivo in genere. Se l!anti-opera dei movimenti avanguardistici
poteva rivendicare una parentela con il lavoro del Living Theatre o dell!Odin Teatret
di Eugenio Barba (n. 1936), ora non c!è episodio del teatro musicale che non
possa essere posto in relazione con un!esperienza registica, scenografica o video-
artistica diversa. Particolarmente difficile risulta quindi, in questo caso, orientarsi
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L!ampio catalogo operistico di Hans Werner Henze (n. 1926) si caratterizza per un
rapporto inventivo con la tradizione del melodramma, ma quel che colpisce nei suoi
lavori più recenti è come la sua tendenza all!essenzialità abbia toccato vertici
assoluti di poesia, esempio riuscito del connubio quasi impossibile fra purezza e
impurità della musica concepita per il teatro. In opere come Venus und Adonis
(1997), L!upupa (2003) e Phaedra (2006-07), si trova qualcosa di molto vicino ai
"numeri! dell!opera ottocentesca: duetti, terzetti, arie solistiche, concertati. Queste
forme, però, non valgono come riproposizione del passato, bensì come
individuazione di uno spazio di proiezione immaginativo che la musica colma di un
lirismo nuovo, senza mai rischi di superficialità. Henze ha costruito una musica
evocativa e drammaturgica anche al di fuori dell!ambito teatrale. Le sue non sono
forme chiuse in sé stesse e, nonostante l!estrema cura dei dettagli, non sono
concepite nel senso della perfezione artigianale. A dar loro vita è una sostanza
emotiva e relazionale proiettata verso contenuti extramusicali, verso un!alterità che
si insinua nella composizione attraverso le forme dell!amicizia e della memoria.
Presente fin dai suoi esordi, questo pathos per l!altro dalla musica è venuto
progressivamente in primo piano nella produzione degli anni più recenti: per
esempio, nella Sinfonia n.9 (1997) per coro e orchestra, nel Requiem (1992),
«concerto spirituale» per pianoforte, tromba e orchestra ciascun movimento del
quale si presenta come il ritratto di un amico scomparso, così come nell!oratorio
Elogium musicum. Amatissimi amici nunc remuti per coro e orchestra (2008).
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teatro, però, questa tecnica conduce a una pluralità dei punti di vista attraverso cui
una vicenda viene narrata, una polifonia di prospettive che ha come centro di
irradiazione non la scena, e neppure il libretto, ma appunto la scrittura musicale. In
The Minotaur (2008) l!uso di un assortimento eccezionalmente vasto di strumenti a
fiato e percussioni lascia emergere una dimensione onirica che infittisce la
diversificazione dello sguardo e affida all!invenzione ritmica il compito di innervare
un tipo di vocalità che appare del tutto anticonvenzionale. Matthias Pintscher (n.
1971) fa leva su mezzi squisitamente musicali per trasformare la relazione con la
scena. Un effetto di incanto, nel suo caso, è perseguito consapevolmente
attraverso il lavoro sui colori dell!orchestra, facendo della differenziazione timbrica
una struttura architettonicamente portante. Un!opera come L!espace dernier
(2002-03) ha la freschezza della scoperta anche se usa un organico strumentale
classico, un coro trattato con ampia libertà di scrittura e un assortimento di voci
soliste che rinvia in modo esplicito alla tradizione: due soprani di coloratura, uno
dei quali drammatico, mezzosoprano di coloratura, basso buffo, tenore lirico spinto.
Il teatro musicale è stato anche il luogo della sperimentazione di una musica carica
di ironia e di verve comica, se non addirittura spinta verso la dimensione
dell!assurdo musicale. M. Kagel ha letteralmente trasformato gli schemi dell!Opéra
comique settecentesca parodiando la tradizione e destabilizzando di continuo i
parametri dell!ascolto con una graffiante espressività che ha spogliato l!esempio di
J. Cage da ogni aura contemplativa. In Staatstheater (1970) tutti i personaggi sono
strumenti oppure oggetti sonori, in Kantrimiusik (1975) la musica possiede una tale
forza mimica e gestuale da elaborare in una chiave totalmente nuova il suo
rapporto con la scena. Le composizioni di Kagel sono disinibite e prive di
pregiudizi: di opera in opera egli non cerca di fissare formule su cui tornare, ma
sperimenta invece soluzioni che hanno come primo effetto quello di produrre una
differenza rispetto a quello che è già noto.
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Nel lavoro di Georges Aperghis (1945), la ricerca sulla relazione fra gli elementi
vocali, strumentali, scenici e gestuali è come un!indagine continua
sull!intermedialità messa alla prova tanto nel caso di opere destinate
espressamente al teatro, quanto in quello di brani nati con destinazione
concertistica. In entrambi gli ambiti la scrittura di Aperghis resta fondamentalmente
drammaturgica, ricca cioè di aspetti espressivi e fisici che movimentano
l!esecuzione introducendovi una dimensione rappresentativa a più facce
organizzata dalla forma musicale. L!opera vera e propria, da lui affrontata per la
prima volta con Jacques le fataliste (1974), è a tutti gli effetti una sintesi degli
approdi cui giunge nelle varie fasi del suo percorso: Avis de tempête (2004) ne è
una prova esemplare per il contrasto fra la limpidezza della scrittura e l!effetto
denso, quasi organico del suono dovuto in primo luogo al trattamento originale cui
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Bibliografia
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