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DIRITTO COMMERCIALE

VOLUME I

Marco Cian
Aggiornato alla legge 11 agosto 2014, n.116
Per diritto commerciale si intende l’insieme delle norme di diritto privato che disciplinano le attività
produttive e il loro esercizio.
Al centro del fenomeno economico si staglia l’attività creatrice di nuova ricchezza (genera beni ed eroga
servizi), cioè produttrice di utilità capaci di soddisfare i bisogni umani ed a cui la comunità attribuisce un
valore economico.
L’attività produttiva è una manifestazione dell’agire umano che si sviluppa nel tempo e nello spazio e che
dà vita a relazioni con ogni altro attore della comunità. Inoltre è un’attività che non viene esercitata da un
solo individuo, ma da organismi costituiti appositamente (le società), che raccolgono finanziamenti da
gruppi di investitori.
Per questo l’attività produttiva è un fenomeno che si colloca sul piano dei rapporti interprivatistici tra le
persone e per tale motivo lo si definisce come il diritto privato delle attività produttive.

Gli storici collocano la nascita del diritto commerciale in Italia nel tardo medioevo. In Mesopotamia, in
Grecia e nell’Impero romano esistevano attività produttiva ma non esisteva un corpo di norme rivolto alla
loro disciplina. Il diritto commerciale viene collocato dopo l’anno Mille d.C.
Proprio in quest’epoca, infatti, la civiltà esce lentamente da un periodo di declino successivo alla caduta
dell’Impero romano d’occidente. E’ anche l’epoca dei Comuni, in Italia, all’interno dei quali si afferma la
classe sociale dei mercanti. Per la protezione e la promozione delle proprie iniziative, i mercanti si
riuniscono nelle Corporazioni di Arti e Mestieri. I mercanti hanno esigenze ed interessi che il diritto
comune non è capace di soddisfare; per questo motivo, attraverso la pratica del commercio, si sono
osservati gli usi derivanti dai loro rapporti, in base ai quali si crea un complesso di regole di numero sempre
crescente. Inizialmente queste erano consuetudini non scritte, successivamente raccolte e codificate negli
Statuti delle Corporazioni che disciplinavano l’esercizio dell’attività e che vincolavano i mercanti iscritti alla
Corporazione stessa. L’applicazione di tali norme era garantita dai consoli che esercitavano nei confronti
degli associati il potere giudiziario.
Il diritto commerciale è un diritto che non risponde agli interessi locali ed è per tale motivo che le
consuetudini in esso formate vengono rapidamente esportate in tutta Europa.
A partire dal XVI-XVII secolo lo scenario cambia profondamente. Il rafforzamento degli Stati nazionali fa
emergere la tendenza ad accentrare il potere legislativo sotto il controllo statale e anche la produzione
normativa diviene, quindi, una produzione statale. Nel 1673 Luigi XIV, in Francia, emana l’Ordonnance du
commerce.
Il diciottesimo secolo è quello della Rivoluzione Industriale e della Rivoluzione Francese.
La prima cambia lo scenario economico, infatti la produzione diventa una produzione di massa e il
commercio diviene il protagonista del mercato; la seconda, invece, abolisce ogni forma di privilegio e di
distinzione tra ceti sociali affermando il principio di libertà – che rispetto all’attività produttiva, è intesa
come libertà di iniziativa economica – portando ad un cambiamento del sistema commerciale che, da
corpus normativo su base soggettiva, cioè imperniato sulla figura e sulla disciplina di una determinata
categoria di soggetti, diventa un sistema a base oggettiva a cardine del quale è posto l’atto di commercio. Il
più importante è il Code de commerce napoleonico del 1807. E’ proprio l’800 ad essere riconosciuto come
il secolo delle grandi codificazioni. Il primo Codice di commercio dell’Italia unita risale al 1865, sostituito
dopo pochi anni da quello del 1882.
Nel 1942, però, venne varato il nuovo Codice Civile e la materia del commercio trovò posto al suo interno,
occupando il quinto libro dedicato al “Lavoro”.

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Come si è detto, il diritto commerciale è il diritto privato dell’attività produttiva. Al centro del sistema
produttivo sta il concetto di impresa definita dall’art. 2082 come l’attività economica organizzata svolta
professionalmente, diretta alla produzione o allo scambio di beni e servizi.
L’attività d’impresa è un complesso di atti materiali e giuridici ma il diritto dell’impresa non è una
disciplina organica e completa poiché non esiste un corpus normativo che regoli il suo esercizio.
Il diritto dell’impresa è un complesso di disposizioni applicabili a chiunque intraprenda un iniziativa
economica avente le caratteristiche contenute nell’art. 2082.
Al diritto dell’impresa è affiancata la disciplina delle società dovuta dal fatto che l’attività produttiva è
sempre meno individuale.
E’ a Lorenzo Mossa, uno dei maestri del diritto commerciale del primo novecento, che si deve la definizione
di impresa, intesa però come impresa commerciale medio-grande.
Tra le attività produttive concepite dal Codice del 1942, quelle distanti dalla nozione di impresa sono le
professioni intellettuali ossia attività che di per sé rispondono a tutti i requisiti dell’art. 2082 ma che
restano sottratte dalla disciplina dell’impresa.
Storicamente il diritto commerciale nasce come disciplina del commercio. Commercio e agricoltura sono
sempre stati divisi dal punto di vista sociale. Anche il Codice di commercio del 1882, infatti, trascurava del
tutto l’attività agricola, per questo motivo il legislatore del 1942 scelse una soluzione di compromesso: al
vertice del sistema venne introdotta la figura generale di imprenditore, con la comprensione al suo interno
di quello agricolo (art. 2135).

Per fattispecie si intende la disciplina che rappresenta l’oggetto della materia oggetto di studio.
Questa deve essere ricercata guardando al corpo di norme che disciplinano quella determinata materia.
Nell’ordinamento giuridico italiano tali norme sono contenute nel Codice Civile esattamente nel V libro (Del
lavoro) al titolo II (Del lavoro nell’impresa) che si apre con l’art. 2082 (Imprenditore) che definisce
“imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione
o dello scambio di beni e servizi”. La norma definisce più in particolare il fenomeno che l’imprenditore pone
in essere, cioè descrive un suo comportamento che si sostanzia in un’attività produttiva triplicemente
qualificata dai requisiti di organizzazione, professionalità ed economicità che prende il nome di impresa.
Infatti, la norma considerata viene definita come disciplina dell’impresa.

La nozione di impresa varia a seconda della disciplina che deve trovare applicazione.
L’art. 2082 descrive l’impresa in termini di attività e la qualifica poi come produttiva.

a) L’attività può essere immaginata come un modello comportamentale costituito da tanti singoli
comportamenti considerati nel loro insieme sul piano normativo. Essi rappresentano una sequenza
coordinata strutturalmente e funzionalmente, orientata al raggiungimento di un determinato
scopo.
b) L’attività viene qualificata a seconda della natura del suo scopo. Poiché qui parliamo di attività
produttiva, significa che tale sequenza deve essere rivolta a produrre un’utilità che prima non
c’era attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi.

Soltanto i fenomeni che si presentano nella forma di attività produttiva sono oggetto del diritto
commerciale, quindi un primo gruppo di fenomeni estranei a questa materia sono le attività di godimento,
immaginate come una sequenza di comportamenti finalizzati ad un risultato non produttivo, cioè si trae
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utilità di uso o di scambio da qualcosa che già si ha senza dar luogo ad alcun incremento di ricchezza
preesistente.
E’ un’impresa, quindi, solo l’attività produttiva che presenta i tre attributi previsti dall’art. 2082:
professionalità, organizzazione ed economicità.

Anzitutto, un’attività produttiva, per poter essere qualificata come impresa, deve essere svolta
professionalmente richiedendo che essa abbia luogo in maniera abituale, stabile e reiterata, in definitiva
non occasionale o sporadica.
In primo luogo si ritiene che professionalità non è sinonimo di esclusività, poiché tale requisito sussiste
anche nel caso in cui un’attività produttiva non costituisca l’unica attività svolta da colui che la pone in
essere. Ad esempio, si immagini un soggetto che gestisce un punto di ristoro di giorno e di sera insegna in
una palestra.
In secondo luogo, si ritiene che professionalità non è sinonimo di continuità, poiché tale requisito sussiste
anche nel caso in cui l’attività produttiva sia svolta in modo non continuativo e sia quindi caratterizzata da
interruzioni. Tali interruzioni devono essere però legate alle esigenze naturali del ciclo produttivo
sottostante, sicché l’attività interrotta deve ricominciare dopo un certo periodo, per poi interrompersi
nuovamente secondo un intervallo costante. Ad esempio, si pensi alle attività stagionali come la gestione di
un impianto sciistico o di uno stabilimento balneare.
Infine, si ritiene che professionalità non è sinonimo di pluralità di risultati prodotti, poiché tale requisito
sussiste anche nel caso in cui l’attività produttiva sia finalizzata alla realizzazione di un unico affare. Ad
esempio, si pensi al caso in cui il risultato della produzione sia un’opera complessa (un ponte, una strada
ecc.) che si realizza attraverso un’attività produttiva che non può essere improvvisata.
Un’attività produttiva che difetti del requisito della professionalità è estranea alla materia del diritto
commerciale, trattandosi di un’iniziativa occasionale.

Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, dev’essere poi organizzata. Il requisito
dell’organizzazione definisce l’attività sul piano dei mezzi impiegati nel suo svolgimento, richiedendo che
sia esercitata non solo con la capacità lavorativa di chi la pone in essere, ma anche con l’aiuto di altri fattori
produttivi.
I fattori produttivi impiegabili si possono ricondurre a due categorie fondamentali: lavoro e capitale.
Per lavoro si intende la forza lavoro acquisita sul mercato a prescindere dal titolo al quale l’acquisizione è
avvenuta (rapporto di lavoro subordinato, coordinato, continuativo, occasionale ecc); per capitale si
intende qualsiasi entità materiale o immateriale a prescindere dal titolo che ne consente di averne la
disponibilità (proprietà, usufrutto, uso ecc).
Peraltro, non è necessario che le due tipologie di fattori produttivi ricorrano congiuntamente poiché non è
da escludere che determinati processi produttivi possano richiedere esclusivamente il fattore lavoro (labour
intensive) o il fattore capitale (capital intensive).
Il ruolo del titolare di un’attività produttiva organizzata è quello di svolgere un’opera di organizzazione,
cioè un’opera che consiste nello stabilire un ordine funzionale e strutturale dei fattori produttivi che utilizza
nel processo produttivo.
Inoltre, l’opera di organizzazione non deve necessariamente manifestarsi nella realizzazione di un apparato
organizzativo tangibile, ad esempio, basti pensare alle attività di investimento che si sostanziano nella
raccolta di una certa quantità di denaro e nel successivo impiego in strumenti finanziari, oppure alle attività
che si svolgono esclusivamente attraverso internet.
Se manca il requisito di organizzazione e il lavoro personale del titolare risulta il solo fattore necessario e
sufficiente, allora l’iniziativa non può essere qualificata come impresa ma come lavoro autonomo.

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Infine, un’attività produttiva per essere qualificata come impresa, deve essere economica. Tale requisito
definisce l’attività sul piano del metodo che deve essere seguito nel suo svolgimento.
L’identificazione del metodo a cui si riferisce, è stata a lungo incerta.
Secondo un primo orientamento, il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo
lucrativo che tende a far conseguire un margine di profitto. Pertanto, secondo questo orientamento, un
fenomeno produttivo per potersi qualificare come impresa, deve essere un’attività lucrativa nella quale i
prezzi di cessione dell’oggetto della produzione devono essere fissati ex ante in modo da consentire di
recuperare non solo i costi sostenuti nel corso del processo produttivo, ma anche di conseguire un margine
di profitto.
Secondo un diverso orientamento, il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo
economico in senso stretto, che tende ad assicurare il pareggio tra ricavi e costi, essendo eventuale ed
irrilevante il profitto. Secondo quest’orientamento, un fenomeno produttivo si qualifica come impresa se è
un’attività meramente economica e non necessariamente lucrativa e quindi un’attività in cui i prezzi
vengono fissati ex ante in modo da consentire di coprire i costi relativi all’acquisto dei diversi fattori
produttivi impiegati.
Deve, in definitiva, trattarsi di un’attività che sia in grado di mantenersi in equilibrio economico e
finanziario, preservando così nel lungo periodo, l’autonomia da altre economie.
Tuttavia se l’impresa fosse autonoma da altre economie, sarebbe esposta al rischio che l’offerta della
produzione non trovi riscontro nella domanda, quindi si realizzerebbero ricavi inferiori ai costi che portano
ad uno squilibrio economico (perdita) che, a lungo andare, si riflette sulla situazione finanziaria e
patrimoniale dell’impresa, squilibrandola e provocando uno stato di dissesto. In definitiva, tutti coloro che
finanziano un’iniziativa produttiva autonoma da terze economie, sono esposti al rischio di mercato (che
rappresenta il tipico rischio d’impresa), cioè al rischio di non riuscire a soddisfare le proprie aspettative
originate dall’operazione finanziaria posta in essere, se il mercato non assorbe la produzione offerta.
D’altra parte resta incerto se possa considerarsi economica quell’attività che viene svolta stabilendo
inizialmente un livello dei prezzi-ricavo insufficiente a coprire i costi di produzione, sapendo quindi di
prevenire ad una perdita. Si parla in questo caso di logica di perdita programmata.
Tale logica si può considerare compatibile con il criterio dell’economicità se vi è l’impegno, da parte di chi lo
assume, a coprire la perdita per ogni unità di prodotto o servizio venduto di cui si tiene conto nella
fissazione del prezzo.
Queste situazioni ricorrono soprattutto nel mondo delle attività non profit che producono servizi rivolti
generalmente alla persona, che vengono ceduti all’utente che ne fa richiesta senza che questi
corrispondano l’intero prezzo.
Situazioni simili ricorrono anche nelle iniziative mutualistico-consortili, soprattutto in quelle che hanno la
forma di consorzio e che producono servizi a favore degli imprenditori. Questi ultimi cedono tali servizi
inizialmente sottocosto o gratuitamente, poi recuperano il necessario per coprire i costi di produzione
attraverso i c.d. contributi consortili.

L’art. 2082 ha permesso di individuare quali sono i fenomeni produttivi che possono essere qualificati come
impresa, descrivendo un modello comportamentale esaustivo che contiene gli elementi necessari e
sufficienti che devono caratterizzare un certo fenomeno produttivo affinché possa appunto considerarsi
come impresa.
Grazie a tale modello, quindi, si possono escludere dalla definizione di impresa quelle attività in cui la
produzione non sia destinata ad essere collocata sul mercato (c.d. impresa per conto proprio) o nel caso in
cui tale attività sia svolta senza osservare le condizioni richieste dalla legge (c.d. impresa illegale) o
persegua direttamente o indirettamente una finalità illecita (c.d. impresa immorale o mafiosa).
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Quindi, sia nel primo che nel secondo caso, si giunge alla conclusione che il fenomeno produttivo può
considerarsi come impresa solo se presenta le tre caratteristiche di professionalità, organizzazione ed
economicità.

L’esame della rilevanza normativa dell’impresa consiste nel vedere qual è la disciplina che trova
applicazione nei confronti della stessa. La disciplina dell’impresa, sotto forma di statuto, trova applicazione
non tanto nei confronti dell’impresa in quanto tale, ma sono i singoli istituti (dell’azienda, della concorrenza
e dei consorzi, dei segni distintivi), singole norme o gruppi di norme che trovano applicazione nei confronti
di questa. Inoltre, all’impresa, si applicano anche disposizioni sparse che si trovano nel codice civile.
Dunque, l’impresa, è destinataria più che altro di singole disposizioni, che nell’insieme costituiscono una
disciplina molto frammentaria non considerabile come statuto.
Infatti dalla nozione unitaria di impresa si scindono due sottofattispecie sul presupposto che non tutti i
fenomeni produttivi rientranti nella nozione generale di impresa devono essere assoggettati alla stessa
disciplina poiché, per alcuni, l’applicazione di tutto il corpo di norme che costituisce il diritto commerciale è
eccessivo ed inutile rispetto alle finalità perseguite. Tali fenomeni imprenditoriali sono due:
- il primo guarda alla natura della produzione e quindi si riferisce all’impresa agricola;
- il secondo guarda alla dimensione dell’organizzazione e quindi si riferisce alla piccola impresa.

La nozione di impresa agricola si desume dall’art. 2135, il quale la descrive come attività di coltivazione del
fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.
Tradizionalmente si qualificano le prime come attività agricole essenziali e le seconde come attività
agricole per connessione.
La ragione per cui l’impresa agricola viene esclusa dai fenomeni imprenditoriali regolati dalla disciplina
dell’impresa nel suo insieme è data soprattutto dal fatto che essa si caratterizzava per avere un processo
produttivo incentrato essenzialmente sul fondo, dove appunto il fattore principale era la terra e il cui
esercizio si svolgeva insieme all’esercizio del diritto di proprietà sul fondo, atteso che l’imprenditore era
anche il proprietario di questo.
In particolare, l’impresa agricola si basava sullo sfruttamento del fondo attraverso la sua messa a coltura
e/o la sua utilizzazione come luogo di allevamento del bestiame, alla quale si poteva poi aggiungere anche
l’attività di trasformazione e/o commercializzazione di prodotti provenienti dalla coltivazione o
dall’allevamento del bestiame, purché quest’ultima attività rientrasse nel normale esercizio dell’agricoltura
o risultasse subordinata alla prima.
Per questo motivo il legislatore del 1942 assoggettava l’impresa agricola ad una disciplina più circoscritta,
sul presupposto che questa non presentava particolari esigenze di investimento in fattori produttivi
necessari per lo svolgimento di un processo produttivo, in quanto quei fattori produttivi coincidevano con il
fondo e quindi con un bene che già si possedeva, in quanto bene di proprietà.
La modernizzazione del settore agricolo, invece, ha integrato la versione originaria dell’art. 2135 di due
commi che descrivono rispettivamente che cosa siano le attività agricole essenziali e le attività agricole per
connessione.
Per attività essenziali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico di
carattere animale o vegetale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque.
Per attività connesse, invece, si intendono le attività di conservazione, manipolazione, trasformazione e
commercializzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti dalle attività agricole essenziali, nonché le
attività dirette alla produzione e alla fornitura di beni o servizi ottenuti mediante l’utilizzazione prevalente di
attrezzature o risorse dell’azienda agricola (ad es. l’agriturismo che offre servizi di ristorazione o alberghieri grazie alle

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strutture che compongono l’azienda e offrendo ai clienti prodotti come cibo e bevande di produzione propria all’azienda).
Per quanto riguarda le attività agricole essenziali, originariamente rientravano in questa categoria soltanto
quelle di coltivazione e allevamento che avevano luogo sul fondo; oggi invece la norma stabilisce
espressamente che un’attività di coltivazione o di allevamento utilizza o può utilizzare il fondo, con la
conseguenza che questo è passato dall’essere fattore produttivo essenziale, a fattore produttivo eventuale
e quindi non più elemento costitutivo della fattispecie essendo stato sostituito dalla cura e dallo sviluppo
di un ciclo biologico.
Con riferimento alle attività agricole connesse, non si identificano più soltanto quelle poste in essere da un
agricoltore o allevatore in un determinato momento storico o in una certa area geografica e subordinate
economicamente a quelle essenziali. Sono considerate come connesse anche le attività che utilizzano come
materia prima prevalente i prodotti derivanti dall’attività di coltivazione e/o allevamento di animali
esercitata dallo stesso soggetto (ad es. esercita attività agricola per connessione il produttore di uva che anziché venderla
/tutta/ sul mercato, la utilizza per trasformarla in vino e vendere così il vino ottenuto).

La nozione di piccola impresa si desume dall’art. 2083, il quale la descrive come un’attività professionale
organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia di quest’ultimo e fa
poi riferimento alle figure soggettive del coltivatore diretto del fondo, dell’artigiano e del piccolo
commerciante.
La scelta di attribuire alla piccola impresa una rilevanza normativa più ristretta si coglie dal fatto che il
processo produttivo deve essere organizzato prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti
della sua famiglia e cioè sul fattore produttivo rappresentato dal proprio lavoro e dal lavoro dei propri
familiari, quindi su un fattore produttivo di cui già si dispone, senza bisogno di doverlo acquisire da terzi.
Per questo motivo la piccola impresa non è soggetta al diritto dell’impresa nella sua interezza e il fatto che
deve essere organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia
mette in posizione di preminenza questo lavoro rispetto agli altri fattori produttivi.
La prevalenza va accertata non tanto in senso quantitativo, cioè verificando che il lavoro del titolare e della
sua famiglia valga di più, in termini economici, rispetto agli altri fattori produttivi; piuttosto in senso
qualitativo, cioè verificando che il lavoro del titolare e della sua famiglia costituisce un fattore essenziale e
imprescindibile nel processo produttivo. Questo vuol dire che non può essere sostituito dall’organizzazione
e dagli altri fattori produttivi impiegati, rappresentando quindi un fattore infungibile, cioè che senza
l’intervento di questo lavoro il processo produttivo non potrebbe completarsi (o iniziare) o pervenire ad un
risultato produttivo (bene o servizio) (ad es. il sarto. Questo è titolare di una piccola impresa se cura personalmente la
confezione di tutti gli abiti dei clienti. Il suo lavoro non è l’unico fattore produttivo dal momento che viene affiancato dai macchinari
necessari alle diverse fasi della lavorazione. Però è il fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo intervento la
confezione non si produce. Il sarto non è più titolare della piccola impresa, invece, quando decide di assumere uno o più dipendenti
che siano in grado di svolgere l’intero processo produttivo. In questo caso il suo lavoro cessa di essere essenziale).
Resta però il dubbio se si tratti di un criterio che si può impiegare solo quando l’impresa fa capo ad una
persona fisica, o anche quando fa capo ad un ente collettivo e, in particolare, ad una società.
Anche se il criterio sembra legato alla persona fisica, vi sono comunque casi in qui questo può trovare
applicazione nelle società. Qui, il problema sarà individuare qual è il lavoro che deve prevalere sugli altri
fattori produttivi.
Nelle società si può ritenere che il lavoro che debba prevalere è quello dei soci con la conseguenza che si
potrà parlare di piccola impresa solo se questo prevale sul lavoro altrui e sul capitale.

La valutazione del se la prevalenza effettivamente ricorra, non è sempre agevole e quindi non sempre è
semplice tracciare una linea di confine tra le piccole imprese e le imprese.
Per questo motivo al criterio di prevalenza, si affianca un criterio quantitativo ossia le procedure
concorsuali, dove occorre individuare i fenomeni produttivi soggetto ad un istituto che compone lo statuto
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dell’impresa.
Quando si decide sull’apertura di una procedura concorsuale, non solo occorre ridurre il più possibile le
incertezze in merito alla sussistenza del presupposto, ma occorre anche essere abbastanza tempestivi per
evitare che la gestione concorsuale cominci troppo tardi e non sia in grado si perseguire gli interessi.
In particolare, l’art.1 co.2, fall. esclude l’apertura delle procedure concorsuali di fallimento che si attestano
al di sotto di tre parametri: due di carattere patrimoniale e uno di carattere reddituale.
Tali parametri sono:

1. l’esposizione debitoria complessiva sussistente al momento di apertura della procedura


concorsuale non superiore a 500 mila euro;
2. l’attivo patrimoniale nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni esercizio a 300 mila euro;
3. i ricavi lordi nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni esercizio a 200 mila euro.

La categoria di impresa commerciale comprende quelle medio-grandi. E’ disciplinata dall’art.2195 che


contiene un primo precetto comportamentale (l’obbligo di pubblicità):

1. un’attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi;


2. un’attività intermediaria nella circolazione di beni;
3. un’attività di trasporto per terra, per acqua e per aria;
4. un’attività bancaria o assicurativa;
5. un’attività ausiliaria alle precedenti.

Queste, quindi, sono le attività produttive che esemplificano l’impresa commerciale che, pertanto, può
essere definita come un’attività di produzione di beni e di servizi, qualificata come industriale, e/o
un’attività di circolazione di beni qualificata come intermediaria.
Si deduce che i tratti identificativi dell’impresa commerciale sono l’industrialità e l’intermediarietà.
L’interpretazione di questi due requisiti, però, è stata a lungo controversa e, al riguardo, sono state
avanzate due opzioni interpretative diverse:

a) secondo una prima interpretazione, l’industrialità alluderebbe al processo produttivo, mentre


l’intermediarietà alluderebbe alle attività commerciali di acquisto (all’ingrosso) per la rivendita (al
dettaglio). Secondo questa interpretazione, si perviene ad una nozione di impresa commerciale in
positivo, cioè che si riferisce a tutti i fenomeni produttivi caratterizzati dalla trasformazione fisico-
tecnica della materia, o diretti alla circolazione dei beni. Però vi possono anche essere anche altri
fenomeni produttivi che non hanno né natura agricola, né commerciale e quindi si aggiungerebbe
un’altra categoria di impresa che è quella civile. Questa interpretazione è stata oggetto di molte
critiche riferite soprattutto al problema dell’individuazione della disciplina applicabile a questa
nuova categoria di imprese. Prevale però l’idea che l’impresa civile abbia una rilevanza normativa
uguale a quella riconosciuta all’impresa agricola e alla piccola impresa.
b) l’opinione prevalente ormai è orientata ad interpretare in un altro modo i due requisiti, attribuendo
a quello dell’industrialità il significato di non agricolo, e all’intermediarità quello di scambio.
Secondo questa interpretazione, si perviene ad una nozione di impresa commerciale residuale in
grado di assorbire tutti i fenomeni imprenditoriali che, in ragione della loro natura, non possono
qualificarsi come agricoli, non lasciando quindi alcuno spazio alla categoria dell’impresa civile.

L’impresa commerciale, in base alla sua forma giuridica, può essere classificata in due categoria: l’impresa
pubblica e l’impresa privata.

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L’espressione impresa pubblica fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura
commerciale esercitato da o riconducibile ad un soggetto di diritto pubblico (ente pubblico).
In particolare, un’attività commerciale può costituire l’oggetto esclusivo o principale di un ente pubblico,
che in questo caso si qualifica come ente pubblico economico; o può essere anche un’iniziativa secondaria,
che in questo caso si identifica come ente pubblico non economico.

a) L’ente pubblico economico si prefigge di perseguire il suo fine istituzionale attraverso un’attività
commerciale. In passato questo rappresentava i principali settori dell’economia italiana (bancario,
assicurativo, trasporti ecc.) ma ormai assume una dimensione più circoscritta nei mercati in regime
di monopolio legale (tabacchi, giochi e scommesse).
La ragione di questo mutamento sta nel fatto che gran parte degli enti pubblici economici, sono
andati incontro ad un processo di privatizzazione che ne ha comportato la “trasformazione” in
società (di capitali). Alla fine di tale processo, il soggetto giuridico dell’impresa non è più un
soggetto di diritto pubblico, essendo diventato un privato, e solo il soggetto economico rimane di
diritto pubblico a patto che le società che risultano dalla “trasformazione” figurino come società in
mano pubblica, in quanto le relative partecipazioni sociali sono attribuite ad un ente pubblico
(Stato o un ente pubblico territoriale). Per questo motivo si qualifica questo processo con
l’espressione privatizzazione in senso formale.
b) L’ente pubblico non economico, invece, realizza i propri fini attraverso un’azione che si articola in
numerose iniziative le quali tipicamente non presentano i caratteri dell’impresa, ma che talvolta
possono essere vere e proprie imprese. L’esempio più importante è rappresentato dagli enti
pubblici locali (comuni e regioni), nei quali non è raro riscontrare, a fianco delle attività
amministrative, anche una o più attività commerciali.
Possono assumere le sembianze di attività commerciali anzitutto i servizi pubblici locali che si
dividono in: servizi a rilevanza economica, cioè che possono essere erogati a condizioni che
consentono di conseguire un margine di profitto (servizi pubblici nei settori energetici come il gas,
la luce, l’acqua); e in servizi privi di rilevanza economica, cioè che non si prestano ad essere erogati
a condizioni che consentono di conseguire un margine di profitto (come i servizi sociali), infatti
questi possono essere erogati a condizioni meramente economiche, cioè a prezzi che consentono
di recuperare i costi di produzione, quindi sottocosto.
Possono assumere le fattezze di attività commerciali anche le iniziative non qualificabili come
servizi pubblici (case da gioco comunali).
La gestione dei servizi a rilevanza economica non può essere effettuata direttamente dall’ente
pubblico locale ma deve essere affidata ad una società di capitali a partecipazione pubblica con la
quale intercorre una relazione così intensa da poter essere qualificata interorganica e che viene
qualificata come “società in house providing”.
La gestione dei servizi privi di rilevanza economica, invece, è lasciata alla discrezionalità dell’ente
pubblico e può essere affidata da quest’ultimo, o ad una società in house o ad un’autonomia
funzionale con soggettività giuridica (l’azienda speciale) o priva di soggettività giuridica
(l’istituzione) ovvero viene esercitata in economia.
Infine, la gestione delle altre iniziative imprenditoriali rimane sempre nella discrezionalità dell’ente
pubblico.
Pertanto l’impresa pubblica può presentarsi nella forma della società pubblica (impresa-società),
dell’ente pubblico (impresa-ente) o all’interno del contesto organizzativo di un ente pubblico non
economico (impresa-organo).

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Con il termine impresa privata si fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale che assume la
forma giuridica di diritto privato cioè la persona fisica (impresa individuale), la società (impresa societaria) o
un altro ente privato non societario (impresa collettiva non societaria).

a) Se l’impresa assume la forma individuale, non si verificano particolari ripercussioni con riguardo
alla disciplina applicabile.
b) Se l’impresa assume la forma societaria, si replica la stessa conclusione, con la precisazione che se
si tratta di società di forma commerciale (snc, sas, srl, sa) e cooperative, la disciplina della forma
giuridica implementa alcune regole (considerate come regole della forma giuridica) come la tenuta
delle scritture contabili e l’obbligo di pubblicità.
c) Se l’impresa assume la forma di un ente privato non societario (gruppo europeo di interesse
economico, consorzio tra imprenditori, associazione o fondazione), nel codice civile manca ogni
riferimento in merito all’applicazione della disciplina dell’impresa. Ciò ha fatto sì che si sia dubitato,
per lungo tempo, sull’ammissibilità dell’impresa collettiva non societaria; tuttavia si ritiene ormai
acquisito che un ente non societario può esercitare un’impresa che può essere sia il suo oggetto
esclusivo o principale, ma anche secondario.
La maggiore controversia circa l’applicazione della disciplina dell’impresa spetta alle associazioni e
fondazioni, anche se oggi prevale l’idea che tale disciplina debba trovare applicazione nella sua
interezza anche nelle associazioni e nelle fondazioni che esercitano un’attività commerciale,
qualunque sia la posizione o il ruolo assunta da quest’ultima (esclusiva, principale o secondaria).

Le professioni intellettuali, come l’impresa, sono fenomeni produttivi che si presentano nella forma
dell’attività produttiva, cioè sono immaginabili come una successione di comportamenti, coordinati
funzionalmente e strutturalmente, e quindi tecnologicamente orientati verso il raggiungimento di un
determinato risultato identificato come prestazione professionale.
Pertanto bisogna verificare se tra i due fenomeni produttivi c’è coincidenza; in caso affermativo, bisogna
verificare qual è il trattamento normativo delle professioni intellettuali e se queste sono assoggettate alla
disciplina dell’impresa.
Il legislatore del ’42 li considerava come fenomeni nettamente distinti tra essi e, di conseguenza, erano
orientati verso trattamenti normativi differenti.
Oggi, invece, i due fenomeni non appaiono sempre diversi anche se, comunque, sembra che le professioni
intellettuali risultino come “fatti” estranei al diritto commerciale.

Le professioni intellettuali, sono fenomeni produttivi che comportano la produzione di servizi professionali
come l’assistenza, la difesa in giudizio, la progettazione di un immobile, il design degli interni ecc.
Esse si distinguono in professioni protette e in professioni non protette; le prime sono regolate da una
propria specifica disciplina, le seconde, invece, non hanno una propria specifica disciplina.
Piuttosto, però, bisogna comprendere se a questa disciplina possa aggiungersi quella dell’impresa, quindi è
utile accertare il rapporto che intercorre tra le professioni intellettuali e l’impresa.

a) Le professioni intellettuali sono un fenomeno produttivo che può dirsi integrato già quando viene
reso un solo servizio professionale. Se un soggetto si limita a svolgere la professione intellettuale di
tanto in tanto, producendo singoli servizi intellettuali, si realizza un fenomeno che costituisce
un’attività produttiva occasionale e quindi non esercitata “professionalmente”.
Se invece il soggetto svolge la professione intellettuale a tempo pieno, cioè non sporadicamente o
occasionalmente, producendo servizi professionali in maniera continuativa, si realizza un fenomeno
che è un’attività esercitata “professionalmente” quindi assimilabile all’impresa.
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b) Inoltre, le professioni intellettuali possono essere un’attività produttiva che si sviluppa attraverso il
solo lavoro del professionista. Quest’ultimo si avvale si veri e propri fattori produttivi per lo
svolgimento della sua attività, pertanto emerge che la professione può essere un’attività
“organizzata” assimilabile all’impresa. Se ciò accade, si può ulteriormente accertare se il lavoro del
professionista è o meno prevalente rispetto agli altri fattori. Infatti, vi sono casi in cui il lavoro del
professionista può essere preminente rispetto agli altri fattori, ed altri casi in cui, invece, può essere
sostituito dall’organizzazione e quindi lo rende irrilevante. In quest’ultima ipotesi, l’attività
professionale è potenzialmente analoga all’impresa commerciale.
c) Infine occorre constatare che le professioni intellettuali sono senz’altro un’attività economica. Si
tratta, infatti, normalmente di un’attività lucrativa, cioè un’attività in cui il servizio è ceduto ad un
prezzo superiore rispetto al costo di produzione sostenuto. Pertanto, la professione intellettuale è
un’attività produttiva che ormai può presentare tutti e tre i requisiti dell’impresa.
Pertanto, poiché può esservi coincidenza tra i due fenomeni, bisogna vedere quali sono le
implicazioni che conseguono sul piano della disciplina applicabile.

Sebbene in alcuni casi sia previsto che, laddove le professioni intellettuali siano organizzate in forma
d’impresa, debbano essere assoggettate alla sua disciplina, vi sono anche altri casi in cui si ritiene il
contrario.
Infatti, l’art. 2238, co.1 subordina l’applicazione della disciplina dell’impresa alla condizione che l’esercizio
della professione costituisca l’elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, cioè in cui il servizio
professionale sia realizzato a favore di o confluisca in un’attività imprenditoriale.
Pertanto se ne deduce che non troverà applicazione la disciplina dell’impresa nei casi in cui l’attività
produttiva si esaurisca nella realizzazione di un servizio professionale.
Ne consegue che l’art. 2238, co.1 è da intendersi come una norma che costituisce una sorta di privilegio a
favore di una figura soggettiva o una categoria di soggetti, vale a dire i professionisti intellettuali. Essi sono
soggetti sottratti alla disciplina dell’impresa anche qualora pongano in essere un fenomeno che, di per sé,
non andrebbe sottratto da questa disciplina. Bisogna quindi far ricorso ad un criterio oggettivo per
individuare la figura soggettiva o la categoria dei professionisti individuali, che viene identificato nella
circostanza che, nello svolgimento dell’attività o nella cessione del servizio, venga utilizzata una particolare
tipologia di contratti, ossia il contratto d’opera intellettuale che prevede un minimo di intellettualità nello
sforzo professionale nella produzione del servizio e da un minimo di personalità nella prestazione.

Tuttavia, la conclusione in merito all’assoggettamento delle professioni intellettuali alla disciplina


dell’impresa e il conseguente privilegio che si configura in capo ai professionisti intellettuali, sembra
presentare qualche cedimento. Infatti, l’esenzione delle professioni intellettuali dalla disciplina dell’impresa
non può riferirsi ad ogni istituto che la compone, in particolar modo non può riferirsi alla parte relativa
all’antitrust. La disciplina antitrust individua delle regole di comportamento destinate agli operatori
economici per evitare che questi ultimi, attraverso accordi reciproci o abusando della posizione di potere
acquisita, modifichino la struttura del mercato, passando da un mercato concorrenziale ad un modello
oligopolistico o monopolistico, traendo eccessivo vantaggio.
Inoltre l’interpretazione delle norme che costituiscono tale disciplina, deve essere effettuata in base ai
principi dell’ordinamento dell’Unione Europea in materia di concorrenza, per poter, in questo modo,
identificare i soggetti destinatari delle regole comportamentali, ossia le imprese, che devono ritrovarsi nei
fenomeni che rientrano nella nozione di impresa comunitaria e a cui si applica, quindi, la legge antitrust.
In particolare, in questa nozione, rientrano tutti i fenomeni compresi nel titolo III del libro V del cc, vale a
dire sia il lavoro autonomo sia le professioni intellettuali.

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Con l’espressione inizio dell’impresa si fa riferimento al momento dal quale comincia a trovare
applicazione la disciplina dell’impresa. Questo momento deve essere accertato necessariamente secondo
un criterio di effettività, cioè deve essere identificato nel momento in cui nella realtà concreta si verifica un
fenomeno produttivo qualificabile come impresa. Esso invece trascura qualunque tipo di adempimento
formale che si associa allo svolgimento dell’impresa (ad es. l’iscrizione nel registro delle imprese, l’autorizzazione o la
licenza per lo svolgimento di specifiche attività).
Tale discorso resta indifferente dal fatto che si tratti di un’impresa esercitata da una persona fisica o da una
società (o altro ente). Meno certo, invece è se l’inizio dell’impresa deve aversi sin dalla fase di
organizzazione, cioè dalla preparazione dei fattori produttivi alla successiva attività produttiva, o se debba
posticiparsi alla fine di questa fase.
C’è anche chi distingue tra l’attività di organizzazione e l’attività dell’organizzazione e associa solo a
quest’ultima l’inizio dell’impresa. Questo perché non è sempre facile determinare una separazione tra la
fase di preparazione del complesso produttivo e l’attività produttiva in senso stretto, senza considerare
però che, nel corso della prima, vengono considerati gli interessi della seconda e che addirittura vengono
considerati in maniera più consistente, visto che in questo momento si realizza la parte più consistente
degli investimenti.
Si esclude, però, che l’inizio dell’impresa si può già avere a seguito del compimento di singoli atti di
organizzazione e, di conseguenza, si ritiene necessaria l’esecuzione di una serie di atti coordinati tra loro e
volti ad organizzare un’attività produttiva.

Con l’espressione fine dell’impresa si vuole fare riferimento al momento in cui la disciplina dell’impresa
cessa di trovare applicazione.
Anche la fine dell’impresa deve essere accertata secondo un criterio di effettività, cioè deve essere
identificata nel momento in cui nella realtà concreta viene meno il fenomeno produttivo qualificabile come
impresa.
Con riferimento alla fine dell’impresa, si deve escludere che per il venir meno di quest’ultima, occorra
attendere la fase della disgregazione del complesso produttivo, quindi la liquidazione che rappresenta la
fase in cui vengono monetizzati tutti i beni che costituiscono il complesso aziendale e si risolvono tutti i
rapporti pendenti (creditori e debitori). Infatti, la liquidazione non è una fase essenziale nell’impresa, ma
più che altro è una fase che riguarda l’eliminazione dell’ente attraverso cui si esercita l’impresa. E’ però una
fase obbligatoria della società (e di ogni altro ente collettivo).
Quindi è evidente che l’impresa di una società (o di altro ente) può cessare anche prima della fine della
società (o altro ente) che invece sopravvive finché non è liquidata e, successivamente, estinta attraverso la
sua cancellazione dal registro delle imprese.

Tutto questo trova però eccezione per quanto riguarda uno degli istituti che compongono la disciplina
dell’impresa, ossia le procedure concorsuali.
Infatti, la fine dell’impresa non comporta il venir meno della possibilità di aprire una procedura concorsuale
che può essere messa in atto ancora per l’anno successivo alla cessazione, a condizione che lo stato di
insolvenza sia antecedente alla cessazione dell’iniziativa o che si sia verificato l’anno successivo.
In questo modo si impedisce al titolare dell’impresa di sfuggire alla soluzione concorsuale dell’insolvenza
attraverso la cessazione della sua iniziativa e, nello stesso tempo, si consente ai creditori di chiedere
l’apertura della procedura concorsuale.

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L’impresa e, soprattutto, quella commerciale, necessita di essere ricondotta ad un soggetto. Ciò in quanto
la relativa disciplina, ossia l’insieme degli obblighi comportamentali, deve avere un soggetto su cui gravare.
Tale soggetto è colui al quale si imputa l’impresa, ossia l’imprenditore in senso giuridico.
L’individuazione di tale soggetto, tuttavia, è problematica. Da un lato c’è chi ritiene che l’impresa si imputi
secondo un criterio formale ossia la spendita del nome, concludendo che l’imprenditore è colui che svolge
l’impresa a suo nome; dall’altro c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio sostanziale ossia
dell’interesse perseguito, concludendo che l’imprenditore è colui nel cui interesse l’impresa è svolta.
La questione relativa all’imputazione appare risolta senza problematiche nel momento in cui l’impresa
viene svolta in nome e per conto di uno stesso soggetto, cioè quando l’elemento formale e sostanziale
convergono nella stessa sfera giuridica soggettiva, concludendo che l’impresa si imputa a tale soggetto che
è l’imprenditore.
Questa conclusione prescinde dalla circostanza che il soggetto eserciti materialmente l’impresa. E infatti,
l’imprenditore può affidare l’esercizio dell’impresa ad uno o più soggetti diversi. Questa ipotesi è frequente
nel caso delle medie-grandi imprese, dove l’esercizio concreto dell’iniziativa è affidato all’organizzazione e
al personale.
Talvolta, l’imprenditore è addirittura obbligato ad affidare l’esercizio dell’impresa ad uno o più altri soggetti
(i quali eseguono tale incarico in nome e per conto del primo). Questa ipotesi è frequente nel caso in cui
l’imprenditore non abbia capacità di agire e quindi non può compiere personalmente i diversi atti di
disposizione del patrimonio, o perché non l’ha ancora acquistata (il minore), o perché non la può acquisire
o l’ha persa in tutto (l’interdetto) o in parte (l’inabilitato). In questo caso deve necessariamente affidare
l’esercizio dell’impresa al suo sostituto legale, cioè il tutore o il curatore, per poi riassumere l’esercizio una
volta che abbia (ri)conseguito tale capacità.

Il problema dell’imputazione dell’impresa si fa, invece, più rilevante, nel momento in cui l’elemento formale
della spendita del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito, fanno capo a soggetti diversi,
nell’ipotesi in cui un soggetto esercita l’impresa a suo nome per perseguire l’interesse di un altro soggetto.
In questo caso è problematico determinare se per l’imputazione bisogna considerare l’elemento formale o
quello sostanziale.

L’orientamento prevalente è quello che definisce che l’elemento decisivo ai fini dell’imputazione
dell’impresa è quello della spendita del nome, ritenendo che l’impresa si imputa al soggetto il cui nome
viene speso nello svolgimento di questa.
Quindi, di fronte al problema che nell’ordinamento manca un criterio di imputazione dell’attività, si pone
rimedio attraverso il ricorso al criterio previsto dall’ordinamento per l’imputazione degli atti giuridici, dal
momento che l’attività è un insieme di atti giuridici. Pertanto, poiché questo criterio è rappresentato dalla
spendita del nome, se ne deduce che dovranno imputarsi al soggetto anche gli atti che costituiscono
l’attività e, quindi, l’attività stessa.
Tuttavia, tale conclusione è soggetta ad alcune forme di abuso.
Si supponga che il soggetto che svolge l’impresa a proprio nome sia un nullatenente, che non ha, quindi,
non ha nulla da perdere nel caso in cui l’iniziativa non vada a buon fine e si presti a fungere da prestanome
nello svolgimento di un’impresa per conto di un altro soggetto, il quale invece ha interessa a non esporre il
suo patrimonio al rischio di impresa. In questa eventualità, è evidente che, se l’iniziativa non va
effettivamente a buon fine, il peso economico dell’insolvenza è destinato a gravare quasi integralmente su
coloro che hanno finanziato l’iniziativa a titolo di credito. Da un lato, il patrimonio del prestanome non
contiene sostanze patrimoniali sufficienti a soddisfare le ragioni creditorie; dall’altro il patrimonio del
dominus non può essere aggredito dai creditori del prestanome, a meno che tali creditori, vantino nei
confronti del dominus una forma di garanzia diretta nei suoi confronti. Tuttavia è difficile che essi siano in
grado di farsi rilasciare dal dominus tale garanzia a tutela del credito; soltanto i grandi fornitori e le banche

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ci riescono. Peraltro, questi creditori, nel momento in cui vanno a riscuotere la garanzia devono comunque
sperare di trovare il patrimonio del dominus ancora capiente.

Proprio in ragione di tali pericoli, sono state proposte diverse ricostruzioni, tutte volte a dimostrare che
l’impresa si deve imputare a prescindere dall’imputazione dei singoli atti giuridici e, quindi, dal nome speso
nel suo svolgimento. Quella più importante è la teoria dell’imprenditore occulto.
Essa parte dal presupposto che, nell’ordinamento, vi sia un’indivisibile relazione biunivoca tra potere e
rischio, tanto che chi ha la direzione di un’iniziativa economica e, in particolare, imprenditoriale, non può
sottrarsi alle relative conseguenze patrimoniali e non può non essere responsabile delle obbligazioni che
sorgono durante il suo svolgimento.
Pertanto, si deduce che il dominus di un’iniziativa imprenditoriale debba essere responsabile per le
obbligazioni sorte nel corso dello svolgimento di un’impresa.
Sulla base di questa conclusione, la teoria dell’imprenditore occulto cerca di dimostrare che un dominus
non è solo responsabile per le obbligazioni, ma acquista anche la qualifica di imprenditore: di conseguenza
è assoggettato alla disciplina dell’impresa e, soprattutto, in caso di insolvenza, alle procedure concorsuali.

Tale conclusione è stata sugellata dagli art. 24, co.1, d.lgs 270/1999 e 147, co. 5, l. fall.
Entrambe queste disposizioni si riferiscono all’ipotesi di un’impresa individuale e si dispone che, se dopo la
dichiarazione di insolvenza (e, quindi, fallimento) emerge che l’imprenditore dichiarato insolvente (e,
quindi, fallito) sia in realtà legato ad un altro soggetto da un rapporto di società, in cui entrambi sono soci
illimitatamente responsabili, allora gli effetti della dichiarazione di insolvenza (e, quindi, fallimento) devono
estendersi anche nei confronti del soggetto scoperto.
Tali disposizioni, in altre parole, contemplano l’ipotesi in cui un’impresa all’apparenza individuale venga,
invece, esercitata per conto di una società occulta. E’ chiaro, quindi, che un’impresa esercitata per conto di
una società occulta debba imputarsi proprio ad essa, restando irrilevante il fatto che l’attività fosse
svolta senza spenderne il nome.

La disciplina dell’impresa contempla un obbligo di pubblicità, finalizzato ad assicurare un minimo di


trasparenza informativa su alcuni fatti e alcune vicende che riguardano l’organizzazione dell’impresa.
Si tratta di un obbligo pubblicitario minimo, che mira a conciliare due diverse esigenze: da un lato, quella
dell’imprenditore di poter contare sulla certezza legale che alcune informazioni possano considerarsi
conosciute da parte dei terzi con i quali entra in contatto; dall’altro quella dei terzi e del mercato di poter
utilizzare concretamente di alcune informazioni inerenti all’impresa.
Per poter fissare un punto di equilibrio tra queste esigenze, l’obbligo originario è conformato al principio di
tipicità in forza del quale le informazioni da sottoporre a pubblicità sono tutte e soltanto quelle per le quali
la legge impone tale obbligo pubblicitario.

La pubblicità dell’impresa ruota attorno all’istituto del registro delle imprese, ossia un registro pubblico
previsto dal legislatore del ’42 con la funzione di fungere da collettore di fatti e atti di impresa per i quali è
prescritto l’obbligo di pubblicità.
In particolare, il registro delle imprese è affidato alla gestione delle camere di commercio di ogni provincia
e, specificamente, al segretario generale o ad un altro soggetto che ha funzioni dirigenziali, che funge da

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conservatore, sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale (c.d. giudice del registro),
che funge da organo giudiziale competente di curare inizialmente le controversie riguardanti i procedimenti
di iscrizione e di deposito.
Il registro delle imprese, inoltre, è tenuto secondo tecniche informatiche e si presenta nella forma di una
“banca dati” di tutte le imprese soggette all’obbligo di iscrizione e di tutti i fatti o gli atti per cui la legge
impone l’obbligo di pubblicità. Esso è consultabile tramite terminale ed è disponibile in tempo reale su
internet sul portale della camera di commercio.
Tale registro, si articola in sezioni: una sezione ordinaria e diverse sezioni speciali.

La sezione ordinaria è destinata ad accogliere le imprese commerciali non piccole, le forme giuridiche
commerciali (le società commerciali e le cooperative) e le altre forme giuridiche (gli enti pubblici
economici, i consorzi) per le quali il codice civile prevede un obbligo di iscrizione, con l’aggiunta di due
forme giuridiche, una di fonte europea e l’altra di fonte interna.
Le informazioni sono quelle relative gli elementi dell’assetto organizzativo strutturale dell’impresa
stabilite dall’art. 2196, co.1 e cioè: le generalità dell’imprenditore; l’eventuale ditta; l’oggetto dell’impresa;
la sede dell’impresa; gli eventuali institori e procuratori. Ad esse, si è aggiunta recentemente anche la posta
elettronica certificata che inizialmente era richiesta solo per le società.
A queste informazioni se ne aggiungono altre durante lo svolgimento dell’iniziativa che variano a seconda
del contesto soggettivo di riferimento (ad es. l’eventuale autorizzazione alla continuazione dell’impresa di un incapace; la
sentenza dichiarativa di fallimento ecc.).
L’iscrizione deve essere richiesta entro il termine di trenta giorni dall’inizio dell’impresa o dal verificarsi
del fatto o dell’atto oggetto di pubblicità (ad es. l’istituzione di una sede secondaria, la modifica degli atti o dei fatti già
pubblicati, ecc.). Una tempistica diversa, invece, è riferita all’obbligo di pubblicità delle società di capitali.
L’iscrizione è, inoltre, subordinata ad un controllo finalizzato ad accertare la sussistenza delle condizioni
previste dalla legge per l’iscrizione. Tale controllo è volto a verificare, in primo luogo, il rispetto del principio
di tipicità e cioè che sia un’iscrizione prescritta dalla legge, in secondo luogo, la regolarità formale della
domanda con cui si richiede l’iscrizione. Questo controllo è esercitato normalmente dall’ufficio del registro
(art. 2189, co.2) ma è stato devoluto recentemente al pubblico ufficiale (ad es. notaio) per le iscrizioni
richieste dalle imprese diverse dalle società azionarie sulla base di un atto pubblico o di una scrittura
privata autentica (legalità formale, veridicità del fatto e dell’atto per cui si chiede l’iscrizione; legalità sostanziale, validità
dell’atto stesso).
Peraltro, se l’iscrizione avviene senza che ricorrano le condizioni previste dalla legge, è possibile porre
rimedio attraverso la cancellazione d’ufficio, che è ordinata dal giudice del registro con decreto, sentito
l’interessato (art. 2191).
Bisogna anche aggiungere che l’iscrizione comporta degli effetti.
Anzitutto, l’iscrizione ha un’efficacia dichiarativa, in forza della quale, una volta che si perfeziona,
determina una presunzione di conoscenza del fatto o dell’atto per il quale la legge prescrive l’obbligo di
pubblicità, con cui la relativa informazione si considera conosciuta senza bisogno di accertare che lo sia in
concreto (ad es. dopo che è stato iscritto il trasferimento della sede dell’impresa, ogni dichiarazione recettizia inviata dai terzi
presso la vecchia sede, non produce più i propri effetti, in quanto non indirizzata correttamente al suo destinatario, a prescindere
dal fatto che il mittente ignorasse in concreto il mutamento della sede).
Inizialmente, tale presunzione era assoluta fin da subito con riferimento a tutti gli atti o i fatti iscritti (art.
2193, co. 2), senza alcuna possibilità per i terzi di contestare la propria ignoranza. Successivamente, il diritto
europea ha imposto di rendere tale presunzione relativa per i primi quindici giorni di iscrizione con
riferimento ai soli fatti o atti delle società di capitali, consentendo ai terzi in questo lasso di tempo di
superare la presunzione di conoscenza dimostrando l’impossibilità ad acquisire l’informazione oggetto di
iscrizione. La presunzione diventa poi assoluta dal sedicesimo giorno.
Per contro, nel caso in cui l’iscrizione obbligatoria sia stata omessa, si verifica una presunzione di ignoranza
dei fatti o degli atti che avrebbero dovuto essere iscritti (ad es. la mancata iscrizione del trasferimento della sede

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d’impresa, fa sì che tutte le dichiarazioni recettizie inviate dai terzi presso la vecchia sede producano i propri effetti come se fossero
state indirizzate al destinatario presso la sua attuale sede effettiva). La presunzione di ignoranza è sempre relativa e
può essere superata dall’imprenditore se dimostra che, nonostante l’omissione di pubblicità, il fatto o l’atto
da pubblicare era comunque conosciuto (e non semplicemente conoscibile) da parte del terzo, anche se il
più delle volte, tale prova, è difficile da accertare.
All’efficacia dichiarativa, talvolta, si aggiunge un’efficacia normativa, nel senso che l’obbligo pubblicitario
costituisce una condizione per rendere applicabile una certa disciplina (ad es. l’iscrizione di una società commerciale di
persone rappresenta una condizione per rendere applicabile alla società la disciplina della società regolare. Invece, in mancanza di iscrizione, la
disciplina che si applica alla società è diversa ed è quella società irregolare).
Dall’efficacia normativa si distingue poi l’efficacia costitutiva riconosciuta all’iscrizione delle società di
capitali e ad alcune decisioni sociali di queste ultime società (come quelle modificative dell’atto costitutivo).
Si ritiene che tali iscrizioni abbiano l’effetto di far venire ad esistenza la società e di rendere operative le
modifiche apportate al suo codice organizzativo: in altre parole, l’atto produce effetti solo con l’iscrizione.

Le sezioni speciali sono state previste, invece, con l’obiettivo di organizzare le diverse forme di pubblicità
gestite dalla camera di commercio. In particolare, queste sezioni nascono con l’obiettivo di farvi confluire le
imprese e le forme giuridiche che non trovano spazio nella sezione ordinaria, in quanto imprese diverse da
quelle commerciali non piccole o forme giuridiche per le quali non è previsto un obbligo di pubblicità nelle
norme del codice civile.
Inizialmente, venivano istituite tante sezioni speciali ad hoc per ogni tipologia di impresa e forma giuridica
obbligata ad iscriversi. Successivamente, queste sezioni sono state riunite in un’unica sezione in cui devono
prendere iscrizione: i titolari di imprese agricole, i titolari di piccole imprese, le società semplici; e devono
essere annotati: i titolari di imprese artigiane e i loro consorzi (la differenza tra l’iscrizione alla quale sono tenute le
imprese agricole, le piccole imprese e le società semplici, e l’annotazione alla quale sono tenute le imprese artigiane e i loro
consorzi, sta nel fatto che le imprese artigiane appartengono al genus delle imprese commerciali e, in quanto tali, se non piccole
sarebbero già iscritte nella sezione ordinaria, se piccole, sarebbero già annotate in quelle speciali).
Nel corso degli anni sono state istituite altre cinque sezioni speciali qualificate come sezioni apposite.
La prima è quella che istituisce la sezione speciale riservata alle società tra avvocati e ora generalizzata a
tutte le società tra professionisti.
La seconda è quella che istituisce la sezione apposita riservata agli enti e alle società che esercitano o sono
assoggettati al coordinamento e alla direzione altrui (società ed enti di gruppo).
La terza è quella che istituisce la sezione riservata agli enti titolari in imprese sociali.
La quarta è quella che istituisce una sezione apposita nella quale le società di capitali possono replicare i
fatti e gli atti già iscritti nella sezione ordinaria con una traduzione giurata di un esperto in un’altra lingua
ufficiale dell’Unione Europea.
La quinta è quella che istituisce una sezione riservata alle imprese di start-up innovative (cioè imprese che
sviluppano, producono e commercializzano prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico).
Ad un simile aumento di sezioni, non sono mancate le incertezze circa gli effetti che si associano alle
iscrizioni in esse contenute. In particolare è stato messo in dubbio se a tali iscrizioni può continuare a
riconoscersi l’effetto di pubblicità notizia, ossia la mera conoscibilità di fatto delle informazioni rese
disponibili.
Tali incertezze decadono solo se si consideri che l’art. 8, l. 580/1993 è stato riformulato ad opera dell’art.1,
co. 10, d.lgs. 23/2010 che, al co. 5 ripropone che nelle sezioni speciali le iscrizioni producono sempre effetti
di pubblicità notizia, salvo che non sia disposto diversamente nel dato normativo.

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La disciplina dell’impresa, sotto diversi aspetti, si occupa anche dell’organizzazione dell’impresa stessa.
Anzitutto, essa stabilisce un obbligo di documentazione di impresa e, in particolare, si tratta dell’obbligo di
dare rappresentazione scritta dei diversi accadimenti relativi allo svolgimento dell’attività dell’impresa, che
viene realizzato attraverso l’obbligo di tenuta delle scritture contabili.
Tale obbligo viene indicata dal legislatore come regola di buona gestione, in quanto si presta ad essere
osservata da tutte le iniziative economiche e non solo nelle imprese commerciali, con l’obiettivo di creare le
condizioni per una conduzione razionale ed efficiente dell’impresa e di accrescere il livello di tutela dei terzi
coinvolti nell’impresa e, soprattutto, di coloro che hanno finanziato l’impresa a titolo di capitale di credito.
L’obbligatorietà della documentazione di tutto ciò che accade nel corso dello svolgimento dell’attività
costituisce anche una condizione di tutela dei creditori. Ciò in quanto, attraverso le scritture contabili,
l’imprenditore può avere un riscontro ex post di come si è svolta l’iniziativa e di accertare se i risultati che
ne sono derivati sono in linea con quanto era stato programmato ex ante: in questo modo è possibile
decidere in maniera consapevole se è il caso di proseguire regolarmente la gestione, o riprogrammare o
arrestarla del tutto.

Quindi, chi esercita un’impresa commerciale non piccola (o chi assume una forma commerciale) ha
l’obbligo di dare rappresentazione scritta dei diversi accadimenti in cui si sostanzia l’iniziativa posta in
essere tramite le scritture contabili.
Il dato normativo stabilisce un criterio per determinare tale obbligo: in particolare, impone la tenuta delle
scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalla dimensione dell’impresa, le quali perciò possono
variare da impresa a impresa (art. 2214).
Il dato normativo fissa comunque due scritture contabili obbligatorie minime, cioè che vanno tenute a
prescindere dalla natura e dalla dimensione dell’impresa, vale a dire il libro giornale e il libro degli inventari.
Il libro giornale è la scrittura contabile nella quale vanno indicate giorno per giorno tutte le operazioni
relative all’esercizio dell’impresa (art. 2216) secondo l’ordine con il quale si susseguono; essa perciò è una
scrittura che va tenuta secondo un criterio cronologico.
Nel libro giornale vanno rilevati i fatti di gestione nel loro profilo patrimoniale e reddituale, cioè
accertandone l’impatto sulla consistenza del patrimonio d’impresa e sulla formazione del risultato
d’esercizio.
Il libro degli inventari è la scrittura contabile nella quale vengono indicate e valutate le attività e le passività
relative all’impresa e quelle estranee alla stessa (art. 2217), ed è perciò una scrittura che va tenuta secondo
un criterio sistematico.
Il libro degli inventari deve dare notizia di tutto il patrimonio dell’imprenditore. Infatti, gli elementi da cui è
costituito devono essere indicati e valutati, vale a dire che devono essere riportati in forma descrittiva e
poi, nel caso in cui si prestino ad essere valutati, anche attraverso la loro valutazione.
L’inventario deve essere redatto all’inizio dell’impresa (c.d. inventario iniziale) e poi con cadenza annuale
(c.d. inventario annuale). Quest’ultimo si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite (c.d.
bilancio d’esercizio).

Il bilancio di esercizio è composto da tre documenti: lo stato patrimoniale, il conto economico e la nota
integrativa.
Nell’ordinamento giuridico italiano manca una disciplina giuridica generale sul bilancio di esercizio. Essa è
prevista soltanto nel diritto della società per azioni; peraltro, questa disciplina è in qualche modo
richiamata nel diritto delle altre società di capitali e delle cooperative.
Resta, invece, aperta la questione su quale disciplina debba applicarsi al bilancio d’esercizio delle imprese
che assumono una forma giuridica diversa dalle società di capitali, dalle società per azioni e dalle
cooperative. Tale questione risulta solo parzialmente risolta dall’art. 2217, co. 2, il quale generalizza la

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disciplina del bilancio delle società per azioni nella parte relativa alle valutazioni (art. 2426) che trova
applicazione nei bilanci di tutte le imprese.

Le scritture contabili devono essere conservate (assieme alla corrispondenza e alle fatture spedite e
ricevute: art. 2220) per dieci anni dall’ultima registrazione. La conservazione può avvenire anche attraverso
supporti di immagine, a condizione che le registrazioni possano essere messi a disposizione in ogni
momento.
Infatti le scritture contabili svolgono un’importante funzione di prova relativa all’esistenza di obbligazioni
e/o diritti, quindi possono costituire mezzi di prova.

La disciplina dell’impresa considera l’organizzazione non solo sotto il profilo documentale, ma anche quello
della struttura e delle sorti dell’apparato produttivo.
Nei fenomeni imprenditoriali, l’organizzazione assume un ruolo centrale in quanto può essere in grado di
svolgere l’intero processo produttivo. Normalmente l’organizzazione è composta sia da un profilo personale
sia da un profilo materiale: con la prima espressione si fa riferimento ai diversi soggetti impiegati
nell’apparato produttivo nelle diverse mansioni (i collaboratori interni di impresa); con la seconda si fa
riferimento invece ai diversi beni materiali e immateriali che costituiscono l’apparato produttivo (l’azienda).
La disciplina dell’impresa si occupa di entrambi i profili: quanto al profilo personale, essa stabilisce il regime
giuridico della sostituzione nel comportamento imprenditoriale riguardante le decisioni e le dichiarazioni,
atteso che nelle iniziative imprenditoriali che superano certe dimensioni può essere necessario decentrare
le decisioni e le dichiarazioni, per non rischiare di compromettere l’efficienza della gestione; per quanto
riguarda il profilo materiale, invece, essa stabilisce il regime giuridico della sostituzione nell’uso e nella
disposizione dei beni impiegati nell’esercizio dell’impresa.

Il dato normativo prevede tre tipologie di collaboratori interni di impresa, distinguendoli a seconda del
posto occupato nell’ambito dell’apparato organizzativo e dei poteri attribuiti ad ognuna di esse per il
completamento delle mansioni affidate.

a) La prima figura è l’institore, termine con il quale si identificano i collaboratori posti al vertice
dell’organigramma di impresa. Essi sono preposti all’esercizio dell’impresa, ad una serie secondaria
o ad un ramo particolare e sono dei veri e propri alter ego dell’imprenditore o dei soggetti con
qualifiche dirigenziali, noti come direttori generali, direttori di filiale o responsabili di uno specifico
settore produttivo.
b) La seconda figura è il procuratore, termine con il quale si identificano i collaboratori che occupano
un livello intermedio nell’organigramma dell’impresa. Essi sono preposti al compimento di atti
relativi all’esercizio dell’impresa e riconducibili ad una specifica funzione che può essere gli acquisti,
le vendite, il marketing, ecc. Essi sono soggetti che hanno qualifiche dirigenziali in uno di questi
ambiti funzionali e sono noti come direttori del personale, responsabili del servizio commerciale,
della comunicazione, ecc.
c) La terza figura sono i commessi, termine con il quale si identificano i collaboratori che occupano il
livello più basso nell’organigramma dell’impresa. Essi sono preposti al compimento delle specifiche
operazioni di cui sono incaricati e sono quindi soggetti con qualifiche essenzialmente esecutive.

Ciascuna di queste figure è investita di poteri necessari al compimento delle proprie mansioni: non solo di
quelli decisori, che consentono ai singoli collaboratori di assumere le decisioni che rientrano nel proprio
ambito operativo, ma anche quelli dichiaratori, che consentono ai medesimi collaboratori di dare
esecuzione alle decisioni prese, attraverso la stipulazione di atti negoziali e di contratti con i terzi.
Il dato normativo, partendo dal presupposto che l’imprenditore avvalendosi di collaboratori non fa altro
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che articolare il processo decisionale dell’impresa, fa sì che ciascuno di essi sia un vero e proprio centro
decisionale e, di conseguenza, adegua al potere decisionale così decentrato, il potere di rappresentanza,
nel senso che attribuisce ad ogni collaboratore poteri di gestione esterna (di rappresentanza) coerenti
rispetto ai poteri di gestione interna (decisori), legittimandolo, quindi, al compimento di tutti gli atti
necessari ad attuare le decisioni prese nell’esercizio delle sue funzioni.
Questo è finalizzato ad agevolare lo svolgimento dei traffici commerciali nella massima sicurezza.
Nel caso in cui si voglia apportare limitazioni ai poteri naturali, cioè che appartengono normalmente, ad un
collaboratore (che possono essere limitazioni qualitative o quantitative), occorre uno specifico atto che
prende il nome di procura.
In questo caso, si pone il problema di come rendere opponibili ai terzi i limiti contenuti nella procura, in
particolare quelli che interessano il potere di rappresentanza. Tale problema viene risolto attraverso
l’assoggettamento della procura ad un regime di pubblicità: alla pubblicità di impresa, mediante l’iscrizione
della procura stessa nel registro delle imprese, nel caso sia rilasciata all’indirizzo degli institori o dei
procuratori; alla pubblicità di fatto rendendo conoscibile la procura con mezzi idonei, nel caso in cui sia
rilasciata all’indirizzo dei commessi.
In assenza di tale pubblicità, la procura e i limiti che essa contiene, non può essere opposta ai terzi, a
meno che non si provi che questi ultimi erano comunque a conoscenza dei relativi limiti. L’inopponibilità fa
sì che la violazione di tali limiti da parte dei collaboratori non abbia alcuna conseguenza all’esterno e non
pregiudichi l’efficacia degli atti posti in essere. Pertanto, la violazione avrà conseguenze solo all’interno
dell’impresa ed esporrà il collaboratore coinvolto in tale violazione ad un’eventuale azione di responsabilità
per i danni arrecati all’imprenditore.

L’institore è il collaboratore preposto all’esercizio dell’impresa (art. 2203, co.1) o ad una sola parte di essa,
che può essere rappresentata da una sede secondaria o da un ramo particolare.
Può esservi un unico institore o possono esservi più institori: uno preposto all’impresa e uno o più ad ogni
sua articolazione organizzativa o funzionale.
Nel caso in cui vi siano più institori, essi agiscono disgiuntamente, cioè ognuno agisce indipendentemente
dall’altro o dagli altri, rispetto all’ambito operativo assegnato ad ognuno di essi. Essi agiscono
disgiuntamente anche nel caso in cui vi siano più institori per uno stesso ambito operativo. Infatti,
un’eventuale azione congiunta, costituirebbe una limitazione dei poteri dell’institore, che deve risultare da
un’apposita procura.
L’institore può compiere tutti gli atti pertinenti all’impresa (art.2204) cioè può decidere e fare tutto ciò
che sia congruo rispetto all’iniziativa gestita, salva poi la necessità di verificare la congruità a seconda della
natura degli atti posti in essere e della circostanza in cui quegli atti sono stati posti in essere. La valutazione
della congruità è qualcosa che può essere fatto solo ex post, cioè dopo il compimento dell’atto, al fine di
accertare se in base alla nature e alle circostanze quell’atto risulta o meno compatibile con l’impresa
gestita. Di conseguenza, l’institore non può spingersi al di là della gestione dell’impresa, come ad es.
alienare l’azienda o cambiare l’oggetto dell’impresa gestita; non può alienare o ipotecare neanche gli
eventuali immobili di cui l’azienda si compone.
Peraltro, come già detto in precedenza, all’institore possono essere apportate ulteriori limitazioni ai suoi
poteri da parte dell’imprenditore attraverso il rilascio di una procura. Tali ulteriori limiti devono poter
essere resi opponibili nei confronti dei terzi, il che si realizza attraverso la pubblicità della procura nel
registro delle imprese, che fa scattare una presunzione assoluta di conoscenza riguardo al suo contenuto.
L’eventuale omissione della pubblicità della procura stessa non consente di rendere opponibili ai terzi i
limiti in essa contenuti, salvo che non si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza (art. 2206).
L’institore aggiunge ai poteri sostanziali i poteri processuali, potendo stare in giudizio per l’imprenditore
come attore o convenuto.

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Inoltre è tenuto, assieme all’imprenditore, all’osservanza delle disposizioni riguardanti le scritture contabili
e la pubblicità commerciale (art. 2205), cioè è tenuto all’osservanza degli obblighi di impresa.
Poi, è tenuto a spendere il nome dell’imprenditore; in caso di omissione, diventa titolare di tutti gli atti
compiuti a proprio nome. Tuttavia, se si tratta di atti pertinenti all’impresa, si affianca anche la
responsabilità dell’imprenditore (art. 2208).

Il procuratore è il collaboratore che compie atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur senza esservi
preposto. Per questa figura non vi è una vera e propria disciplina specifica, ma ad essa è dedicato solo l’art.
2209, che rinvia agli art. 2206 e 2207 dettati per l’institore, con riferimento alla pubblicità, alla modifica e
alla revoca della procura.
Da parte di qualcuno si è tratta la conclusione che il procuratore sia una figura di decentramento della sola
attività dichiarativa, cioè dotata solo di poteri di rappresentanza e quindi priva di poteri decisionali; ma tale
conclusione non è condivisa dall’opinione prevalente che è, invece, dell’avviso che il procuratore abbia
anche poteri decisionali, seppur circoscritti al proprio ambito operativo.
Non essendo preposto all’impresa o ad una parte di essa, il procuratore non ha rappresentanza
processuale. Per la stessa ragione, su di lui non incombono doveri relativi all’impresa, come l’obbligo di
tenuta delle scritture contabili, di pubblicità e non si può presentare, in nessun caso, neanche la
responsabilità del preponente in caso di omessa spendita nel compimento di atti di impresa.

I commessi sono collaboratori che compiono gli atti che comporta ordinariamente la specie di operazioni
per cui sono incaricati.
Essi hanno poteri decisori e dichiaratori nell’ambito delle operazioni che sono incaricati di porre in essere.
Tuttavia, tali poteri sono perlopiù dichiaratori in quanto si tratta essenzialmente di operazioni prive di
autonomia funzionale e necessitando di essere eseguite con i terzi con cui l’impresa entra in contatto.
Per questo motivo, il dato normativo detta delle specifiche disposizioni che riguardano il momento della
conclusione dei contratti (art. 2211 e 2212) e della vendita (art. 2210 e 2213).
Le prime norme impongono ai commessi di attenersi agli eventuali contratti standard utilizzati per la
contrattazione d’impresa, autorizzano i commessi a ricevere le dichiarazioni che riguardano l’esecuzione
dei contratti e li legittimano a chiedere eventuali provvedimenti cautelari.
Le seconde norme, invece, accordano ai commessi il potere di concedere i soli sconti e/o le sole dilazioni di
pagamento che rientrano negli usi commerciali e di riscuotere il prezzo delle merci vendute, a meno che
alla riscossione non sia destinata una cassa speciale, il che avviene tipicamente nei casi in cui alla vendita
non fa seguito la relativa consegna della merce venduta.

Lo svolgimento dell’attività d’impresa, richiede sempre l’allestimento di un apparato produttivo più o meno
di ampie dimensioni, composto da diversi fattori che vengono coordinati ed assoggettati al perseguimento
dell’obiettivo economico. Questo apparato costituisce l’azienda, che è definita dal codice civile come il
complesso di beni che l’imprenditore organizza per l’esercizio dell’impresa.
La disciplina che la riguarda (art. 2556) è dedicata a regolare alcuni aspetti della sua circolazione.
Dal punto di vista economico, l’azienda ha una rilevanza unitaria, perché l’aggregazione dei diversi fattori
consente di conseguire un risultato che gli stessi, presi singolarmente, non sono idonei a raggiungere.
Proprio in occasione del suo trasferimento, questa caratteristica dell’azienda assume importanza: infatti, la
cessione dell’azienda implica non solo la trasmissione di una pluralità di beni, ma determina anche

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l’alternarsi di un imprenditore ad un altro nell’esercizio di un’attività in corso, che si verifica quando questa
è continuata dall’acquirente.

Proprio per il fatto che l’azienda rappresenta un’entità unitaria che va oltre i singoli elementi, la nostra
giurisprudenza individua tra i beni aziendali “un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il
conseguimento di un determinato fine produttivo”.
Tale vincolo è dato dall’organizzazione, ossia dal coordinamento dei diversi elementi da parte
dell’imprenditore, che viene attuata attraverso un progetto imprenditoriale che viene sviluppato nel
momento in cui si forma l’azienda e che richiede una costante attività di mantenimento dell’efficienza
produttiva.
L’attitudine a produrre nuova ricchezza e alla maturazione di un reddito, rappresenta l’avviamento
dell’azienda, il cui valore viene iscritto nel bilancio dell’impresa (art. 2426). Esso rappresenta il maggior
valore del complesso rispetto alla somma di quelli dei singoli beni. L’avviamento non costituisce un bene a
sé stante, ma rappresenta una qualità intrinseca ad ogni azienda, che non può essere ceduta
separatamente dal complesso ma che contribuisce alla determinazione del prezzo del complesso stesso
Questo tipo di avviamento è definito oggettivo, cioè che dipende appunto da fattori intrinseci allo stesso
complesso, mentre rimane estraneo alla determinazione del prezzo il c.d. avviamento soggettivo, ossia la
componente che dipende dalle abilità e dalla reputazione personale dell’imprenditore.
Dalla nozione di avviamento va distinta quella di clientela, a cui l’ordinamento fa riferimento nella stessa
disciplina dell’azienda (art. 2557). Essa consiste non in determinati soggetti, ma nel flusso di domanda
riferibile ad un’impresa in un dato momento storico, come conseguenza della sua presenza sul mercato.
Come abbiamo detto, l’azienda può essere costituita da un insieme assai vario di beni che, giuridicamente,
ciascuno di essi conserva la propria autonomia e rimane dunque oggetto di posizioni giuridiche
indipendenti l’una dall’altra.
Inoltre, non è necessario che l’imprenditore sia proprietario di ciascuno di questi beni, ma è sufficiente che
agli abbia un titolo giuridico per poterne godere (ad es. appartiene all’azienda anche l’immobile presso il quale viene
esercitata l’attività e che l’imprenditore conduce attraverso un contratto di locazione).
Possiamo ancora dire che l’azienda è un complesso di beni mutevole, la cui composizione è destinata a
variare quotidianamente per effetto dell’ingresso di nuovi elementi (ad es. nuove materie prime) e dalla
cessione di altri (ad es. prodotti finiti, macchinari obsoleti ecc). Anche la sua formazione non è istantanea, ma
richiede la progressiva attuazione del progetto organizzativo, attraverso l’acquisizione dei beni e il loro
coordinamento. Essa si costituisce anche nel caso in cui debbano ancora essere inseriti o siano venuti meno
alcuni elementi, purché questi non siano beni essenziali.
L’azienda quindi, viene ad esistenza quando si è formato un complesso identificabile in relazione all’ambito
di attività in cui è destinata ad operare in un concreto contesto economico e non coincide quindi con un
generico settore merceologico. Un bene si definisce essenziale quando appunto rappresenta un elemento
primario in tale ambito di attività.
Allo stesso modo, l’azienda può esistere indipendentemente dall’avvio dell’attività e non viene meno nel
caso in cui questa cessi, fino a quando l’insieme non viene disgregato (ad es. un azienda di trasporti non perde la
propria identità per effetto dell’interruzione dell’impresa finché permangono le vetture, una potenziale clientela, rapporti di lavoro
con gli autisti ecc).

All’interno del complesso aziendale, si possono individuare eventuali sottoinsiemi dotati della stessa
autonomia funzionale sul piano produttivo.
Questi sono i rami d’azienda; essi costituiscono delle parti del agglomerato aziendale, isolabili da esso e
destinabili all’esercizio di un’impresa, sempre che sia individuabile l’ambito di attività entro cui sono
impiegabili e che non manchino gli elementi essenziali.
L’art. 2112 definisce il ramo come una parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente
autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al
momento del suo trasferimento.
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Non tutte le aziende possiedono singoli rami poiché essa può possedere un’unità ed una identità non
scindibile. I rami sono presenti soprattutto quando le aziende sono costituite per operare in settori diversi.
Ai fini dell’individuazione di un ramo, non è necessario che sussista una completa separazione organizzativa
rispetto alle restanti parti del complesso, né che sia tenuta una contabilità separata, poiché è normale che
alcuni elementi servano all’intera attività imprenditoriale senza che però questo impedisca l’individuazione
del ramo.
La circolazione autonoma del ramo è soggetta alle regole della cessione d’azienda.

L’art. 2556 fa riferimento alla “proprietà” dell’azienda. Siccome l’azienda è composta da beni di cui
l’imprenditore può godere a vario titolo (come proprietario, licenziatario, usufruttuario ecc.), la “proprietà”
sul complesso si risolve nella titolarità delle diverse posizioni giuridiche (proprietà, usufrutto, diritto
personale di godimento) che hanno ad oggetto i singoli beni aziendali.

La disciplina dell’azienda è orientata principalmente verso la regolamentazione del momento circolatorio.


La fattispecie principale è quella del “trasferimento della proprietà” sul complesso, ossia della cessione del
fascio di posizioni giuridiche possedute dall’alienante, su ciascuno degli elementi aziendali; si tratta, quindi,
di trasferire rispettivamente la proprietà dei beni e i diritti reali o personali di godimento sui beni.
Il “trasferimento dell’azienda” non costituisce un tipo negoziale autonomo ma, a seconda dello schema
prescelto dalle parti, può aversi una compravendita, una donazione, una permuta ecc. a cui si applica
integralmente la rispettiva disciplina negoziale.
Tuttavia, la causa del negozio è un aspetto spesso svalutato dalla dottrina aziendale, ma seppure il corpo
normativo dedicato a tale fattispecie sia povero, mette comunque in evidenza il fatto che il trasferimento
dell’azienda è valutato e regolato in quanto è finalizzato ad immettere l’acquirente nel contesto
imprenditoriale servito dall’azienda stessa e pertanto costituisce un sottotipo contrattuale il cui scopo non
consiste esclusivamente nella cessione di uno o più beni.

Nel trasferire l’azienda è sufficiente che le parti la identifichino in base ad elementi estrinseci (la localizzazione,
la ditta, il settore di attività ecc.), perché l’effetto negoziale coinvolga tutti i singoli elementi che attualmente la
compongono.
Allo stesso modo, non è impedito alle parti che intendono trasferire l’azienda, di escludere dal
trasferimento uno o più dei suoi beni; ma per fare ciò è necessario che esse specifichino quali sono quelli
destinati a rimanere all’alienante. Tale esclusione è possibile solo se non si tratti di elementi essenziali del
complesso, anche se è bene precisare che l’esclusione di un bene essenziale non comporta l’invalidità del
negozio, ma semplicemente la sua non qualificabilità come “trasferimento d’azienda” ed è dunque un atto
negoziale che rimane estraneo all’ambito di applicazione degli art. 2556 ss.

In generale, il contratto traslativo dell’azienda è a forma libera, a meno che una determinata forma non sia
richiesta dalla natura del contratto stesso; ciò significa che l’azienda non ha una propria legge di
circolazione ed è assoggettata allo statuto dei diversi tipi contrattuali attraverso cui può essere ceduta e dei
diversi beni che la compongono. Inoltre, deve anche rispettare le prescrizioni pubblicitarie relative al
trasferimento di ciascun bene.
L’art. 2556 impone tuttavia la forma scritta ad probationem (quando la forma richiesta non influisce sulla validità del
negozio ma costituisce l'unico mezzo per provare l'esistenza di quel negozio ), quando il contratto ha ad oggetto aziende
relative ad imprese soggette a registrazione (quelle commerciali).
Lo stesso art. 2556 dispone poi che il contratto, redatto in forma di atto pubblico o per scrittura privata,
deve essere depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese, a cura del notaio. La disposizione,
realizzando in questo modo gli obiettivi di trasparenza, persegue non solo l’interesse del sistema
pubblicitario, ma anche quello pubblico al contenimento dei rischi di riciclaggio del denaro frutto di attività

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illecite.
Il presupposto per la sua applicazione è che il contratto sia redatto in una delle forme indicate, non per la
validità del negozio, ma solo al fine di permettere l’adempimento dell’obbligo di deposito.

L’art. 2557 vieta all’alienante dell’azienda di iniziare, dopo il trasferimento della stessa, qualsiasi attività
imprenditoriale che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela
dell’azienda ceduta.
La ragione che sta alla base di tale obbligo di astensione, dipende dalla speciale pericolosità che l’eventuale
concorrenza del cedente avrebbe nei confronti del cessionario poiché, l’alienante, ha un’esperienza diretta
e specifica delle abitudini e delle inclinazioni dei propri clienti e in questo modo può facilmente
raggiungerli; inoltre, essendo conosciuto dagli stessi potrebbe con maggiore facilità dirottarli presso la
propria nuova attività, dando l’idea di star continuando quella precedente.
Il divieto di avvio di una nuova attività ha una durata quinquennale. Non sono specificati l’oggetto e i
caratteri dell’attività preclusa, poiché l’estensione del divieto è determinata dall’idoneità alla distrazione
della clientela (attuale e potenziale) e quindi abbraccia ogni iniziativa che manifesti tale caratteristica,
anche se riguarda, ad es. la commercializzazione di beni diversi ma succedanei (non potrebbe aprire una
paninoteca chi ha ceduto una pizzeria), o se esercitata attraverso canali alternativi, ma concorrenti (non
potrà avviare un’attività di vendita di prodotti online chi ha ceduto un’azienda di vendita degli stessi
prodotti per corrispondenza).
Dal punto di vista delle fattispecie dalle quali scaturisce il divieto, sono costituite innanzitutto da tutte le
ipotesi di cessione dell’azienda, a qualunque titolo. Deve però trattarsi di un’azienda commerciale, poiché,
in caso di trasferimento di un’azienda agricola, esso riguarda esclusivamente le attività connesse, sempre
che vi sia in concreto un rischio di sviamento della clientela.
Anche nel caso in cui l’azienda venga concessa in usufrutto o in affitto, il divieto opera a carico del
proprietario per tutta la durata del rapporto. Allo stesso modo esso si applica all’usufruttuario e al
conduttore al termine del rapporto.

Come abbiamo visto, se osservata da un punto di vista statico, l’azienda è un complesso di beni, mentre
guardandola da un punto di vista dinamico, si nota come attorno ad essa ruoti una serie di rapporti giuridici
che nascono, hanno esecuzione e si estinguono nel corso della vita dell’apparato produttivo. Questi
rapporti si riferiscono, giuridicamente, all’imprenditore, ma in occasione del trasferimento dell’azienda
interviene il legislatore in quanto tale negozio è strumentale all’acquisizione di un complesso di beni che
deve conservare la propria funzionalità imprenditoriale ed è strumentale al subentro dell’acquirente stesso
in quell’attività.
Per questo motivo, l’art. 2558 dispone l’automatico subingresso dell’acquirente nei contratti stipulati per
l’esercizio dell’impresa. Si tratta di contratti in forza dei quali il titolare dell’azienda può godere dei beni
aziendali di cui non è proprietario (ad es. il contratto di locazione o di leasing avente ad oggetto locali o macchinari) o in
virtù dei quali egli approvvigiona periodicamente o stabilmente l’impresa di alcuni elementi (ad es. i contratti
con i fornitori) o consegue determinate prestazioni collaborative (contratto di prestazione d’opera con un
professionista) ma anche di tutti i contratti che nascono nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, soprattutto
con la clientela.
In tutti questi rapporti negoziali subentra l’acquirente dell’azienda: ciò risponde non solo al suo interesse si
acquisire un complesso pienamente operativo e di mantenere la clientela già raggiunta, ma anche
all’interesse dei terzi di avere, come controparte, il soggetto che continuerà l’esercizio dell’impresa.
La successione in questi rapporti contrattuali rappresenta un effetto naturale e automatico del
trasferimento dell’azienda e si determina ex lege, al momento in cui diviene efficace il trasferimento
stesso. Si tratta, pertanto, di una previsione normativa che fa riferimento alla disciplina generale in tema in
cessione del contratto. In primo luogo, infatti, il subentro dell’acquirente prescinde dalla sua volontà e da
quella del cedente, perciò egli succede nella posizione dell’alienante anche se ignora che un certo contratto

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sia in corso, alla condizione che si tratti di un contratto inerente all’azienda e che non abbia carattere
personale. In secondo luogo, non è richiesto il consenso del terzo contraente, quindi a prescindere dalla
volontà di quest’ultimo il rapporto prosegue con il solo acquirente, che acquista la titolarità dei crediti che
scaturiscono dallo stesso e ne assume i debiti, con integrale e immediata liberazione dell’alienante.
La successione, però, riguarda solo i contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite da nessuno
dei due contraenti nel momento in cui si verifica il trasferimento dell’azienda.
Vi è, tuttavia, una categoria di rapporti contrattuali rispetto ai quali la regola della successione non viene
attuata e quindi essi continuano a far capo all’alienante: questi sono i contratti a carattere personale.
Questi sono i contratti nella cui stipulazione il terzo contraente abbia attribuito una specifica rilevanza alle
qualità personali della controparte, quindi all’alienante dell’azienda. Tale categoria coincide solo con quei
contratti in cui la prestazione promessa dall’alienante sia oggettivamente infungibile (ad es. il contratto avente
ad oggetto la fornitura di un mobile decorato a mano personalmente dall’alienante) o soggettivamente infungibile (ad es. un
rapporto incedibile).
La previsione normativa esaminata risulta comunque derogabile (revocabile) dalle parti. Abbiamo visto che
nel contratto traslativo dell’azienda, alienante ed acquirente possono escludere dalla successione uno o più
rapporti contrattuali, a meno che non si tratti di rapporti in forza dei quali il cedente consegue la
disponibilità di un bene essenziale dell’apparato produttivo.
L’esclusione dalla successione comporta che il rapporto prosegua tra alienante e il terzo contraente.
L’accordo tra le parti può provocare anche, viceversa, il subentro dell’acquirente in un rapporto pur avente
carattere personale, ma è necessario che vi sia il consenso del terzo. Quest’ultimo subisce, in questo caso,
la modifica soggettiva del rapporto e quindi lo stesso art. 2558 predispone una tutela a suo favore,
riconoscendogli il diritto di recesso dal contratto, qualora sussista una giusta causa.
Il diritto di recesso si esercita nei confronti dell’acquirente entro tre mesi dalla notizia del trasferimento e
determina l’estinzione del rapporto, con efficacia ex nunc (i suoi effetti si verificano dal momento in cui si presenta il
caso). Esso però è possibile solo se sussista una giusta causa, ossia quando il terzo contraente può
richiamare l’esistenza di ragioni oggettive che si oppongono alla prosecuzione del rapporto stesso con
l’acquirente e che devono riguardare la sua persona o precedenti rapporti con il terzo stesso (ad es. qualora la
situazione patrimoniale precaria dell’acquirente faccia temere seriamente per il corretto adempimento del contratto da parte sua).
In caso di recesso, lo stesso art. 2558 co.2, fa salva la responsabilità dell’alienante. Si tratta di una
responsabilità nei confronti del terzo per i danni che questo ha subito per essere stato costretto a risolvere
anticipatamente il contratto, ma in cui l’alienante incorre quando gli sia attribuibile una culpa in eligendo,
cioè una negligenza da parte dell’individuazione del cessionario e quindi una insufficiente attenzione alla
posizione e alle aspettative del terzo contraente.

Diversa, invece, è la disciplina contenuta negli art. 2559 e 2560 che regolano i crediti e debiti puri, cioè dei
rapporti obbligatori di fonte extracontrattuale (il credito dell’alienante al risarcimento del danno arrecato da un terzo) e
di quelli di fonte contrattuale, quando risulti una prestazione isolata a favore o a carico del cedente (si applica
l’art. 2560 al debito dell’alienante al pagamento del prezzo relativo alla fornitura della merce già consegnatagli). Ovviamente
deve trattarsi sempre di crediti e debiti inerenti all’esercizio dell’azienda.
Per i crediti, l’art. 2559 si limita a stabilire che il loro trasferimento diviene efficace nei confronti dei terzi,
anche in assenza della notifica o dell’accettazione del debitore ceduto, con l’iscrizione nel registro delle
imprese dell’atto traslativo dell’azienda. La pubblicità nel registro è equiparata alle modalità previste dalla
disciplina generale sulla cessione dei crediti, per risolvere i conflitti tra più acquirenti dello stesso credito o
tra acquirente e creditore pignorante e rende anche efficace la cessione nei confronti del debitore che è,
tuttavia, liberato se paga in buona fede all’alienante, anche ad iscrizione avvenuta.
Per i debiti, l’art. 2560 dispone che l’acquirente ne risponde verso i creditori, se e solo se essi risultano dalle
scritture contabili obbligatorie. La norma riflette l’interessa generale della prosecuzione dei rapporti
aziendali da parte del continuatore dell’impresa e indirettamente soddisfa anche l’aspettativa del terzo
creditore di conservare il patrimonio aziendale come garanzia dell’adempimento della prestazione. In
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quanto stabilita a tutela del terzo, la norma è inderogabile dalle parti.
In ogni caso, l’alienante continua a rispondere di tali debiti in solido con l’acquirente, a meno che i creditori
non acconsentano alla sua liberazione.
La registrazione del debito costituisce condizione essenziale e imprescindibile per tale responsabilità,
altrimenti il cessionario non risponderebbe di alcun altro debito, neppure se da lui conosciuto o risultante
da altri documenti contabili tenuti dal cedente.
Entrambi gli articoli, quindi, disciplinano solo i rapporti obbligatori nei confronti dei terzi, ma non si
occupano dei rapporti interni tra cedente e cessionario. Questo perché, trattandosi di debiti e crediti
isolati, essi rappresentano rispettivamente costi e ricavi dell’attività propria dell’alienante e che dunque
continuano a far capo a quest’ultimo. Però vi è anche la tesi della automatica successione del continuatore
dell’impresa dei rapporti pendenti e quindi anche nei crediti e nei debiti.
Va però segnalato che è sostenuta anche la tesi contraria, secondo la quale l’acquisto dei crediti
richiederebbe un patto di cessione e il subentro nei debiti richiederebbe invece un patto di accollo. In ogni
caso, l’alienante e l’acquirente possono regolare liberalmente questi aspetti.

Abbiamo visto che l’azienda può essere oggetto anche di negozi che costituiscono un diritto di godimento
sui beni che la compongono, ossia un diritto reale, e in questo caso si avrà concessione in usufrutto
dell’azienda; o di un diritto personale di godimento, e in tal caso di avrà affitto dell’azienda.
Tuttavia, anche queste sono vicende giuridiche destinate a produrre la continuazione dell’attività, sia pure a
titolo provvisorio da parte del beneficiario. Per questa ragione, la disciplina appositamente dedicata a tali
diritti (art. 2561) regola i diritti e i doveri che fanno capo a tale soggetto, tra cui assume particolare
importanza il dovere di gestire l’azienda; si tratta di norme che vanno integrate con la disciplina del tipo
negoziale prescelto dalle parti.

DIRITTO REALE DI GODIMENTO: attribuiscono a una persona il potere di utilizzare, in modo pieno e immediato, un bene di
proprietà di un'altra persona. *USUFRUTTO: diritto di un soggetto (usufruttuario) di godere di un bene di proprietà di un altro
soggetto (nudo proprietario) e di raccoglierne i frutti, ma con l'obbligo di rispettarne la destinazione economica. Il diritto di
usufrutto è sempre temporaneo. Non può infatti durare oltre la vita dell'usufruttuario o, se questo è una persona giuridica, oltre il
termine di trent'anni.

DIRITTO PERSONALE DI GODIMENTO: diritto di credito avente ad oggetto il godimento di un bene, e che ha il carattere di
apparente immediatezza. Si differenzia dai diritti reali di godimento perché questi ultimi non derivano da un rapporto obbligatorio.
*AFFITTO: cessione a tempo determinato dell'uso di un bene immobile dietro pagamento.

Lo svolgimento dell’attività imprenditoriale si inserisce all’interno di un sistema economico complesso, in


cui imprenditori concorrenti cercano di mantenere ed incrementare il proprio volume d’affari mediante
l’offerta di beni e servizi che rispondono ai bisogni della clientela. L’insieme di tali offerte degli imprenditori
e delle domande di acquisto della clientela prende il nome di mercato. L’azione dell’impresa sul mercato
giustifica l’introduzione di norme speciali che riguardano, da un lato, l’attività contrattuale delle imprese;
dall’altro le relazioni extracontrattuali. In generale, tutte queste norme sono poste a presidio di un corretto
funzionamento del mercato, così che ciascuna impresa eserciti e sia allo stesso tempo esposta alle
pressioni concorrenziali, tali da incentivare il costante adeguamento dell’offerta ai bisogni della clientela.

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Il contratto d’impresa si colloca tipicamente all’interno di una complessa rete di rapporti, in funzione
dell’esercizio di un’attività concorrenziali. A questo proposito ci si è chiesti se tali caratteristiche della
contrattazione d’impresa possono ricostituire principi generali comuni.
L’attuale unificazione dei precedenti codice civile e di commercio ha ridotto notevolmente l’autonomia
della disciplina dei contratti d’impresa, ma permangono nel codice alcuni articoli dettati specificamente a
tutela dell’interesse della continuità dell’attività economica e alla organizzazione “seriale” dei suoi
rapporti.
Questo interesse si esprime soprattutto attraverso le norme che garantiscono la sopravvivenza del
contratto al mutamento delle vicende personali dell’imprenditore, quando restano le esigenze
dell’organizzazione produttiva. In particolare, l’art. 1330 prevede la conservazione dell’efficacia della
proposta o dell’accettazione contrattuale da parte di un imprenditore “quando è fatta nell’esercizio della
sua impresa se egli muore o diviene incapace prima della conclusione del contratto”. In questo caso la
continuazione dell’attività d’impresa spetta agli eredi del defunto o ai rappresentanti legali dell’incapace.
L’interesse imprenditoriale, si esprime anche nelle norme che tutelano l’esigenza di velocizzare e
semplificare le trattative rendendo possibili contrattazioni serializzate e standardizzate.

Esistono particolari princìpi applicabili alla contrattazione d’impresa nei rapporti con i consumatori. Questi
princìpi riflettono l’esigenza di proteggere il consumatore in quanto contraente debole, non solo dal punto
di vista economico, ma la debolezza del consumatore deriva anche da insufficiente capacità di
ponderazione e carenze di informazione in merito alle caratteristiche del contratto, dell’offerta delle
imprese e delle alternative disponibili.
In particolare l’insufficiente possibilità di ponderazione delle clausole contrattuali, può determinare la sua
esposizione ai rischi. Tale problema è stato avvertito non solo a livello nazionale, ma anche europeo ed ha
portato all’approvazione del codice di consumo che prevede l’inefficacia di una serie di clausole tendenti
ad imporre al consumatore dei rischi ritenuti in contrasto con i princìpi generali del corretto equilibrio del
rapporto.
Il problema della carenza d’informazione relativa alle caratteristiche dei prodotti o servizi delle imprese
determina rischi di insufficiente possibilità di ponderare l’acquisto, ed inoltre ostacola anche la possibilità di
confrontare le diverse proposte delle imprese concorrenti. Anche questo problema è stato avvertito a
livello europeo ed è disciplinato dalla direttiva sulle pratiche commerciali sleali, che tutela non solo la
correttezza di informazione del consumatore, ma anche la sua libertà di scelta a fronte di sollecitazioni di
acquisto.

Il problema delle carenze informative relative alle caratteristiche del contratto era stato avvertito già dalla
redazione originaria del codice civile, che prendevano in considerazione tale problema in via generale negli
art. 1341-1342 che impongono la specifica sottoscrizione delle clausole predisposte da un contraente, tali
da imporre alla controparte delle condizioni contrattuali particolarmente gravose.
Nelle ipotesi di contratti tra imprese e consumatori, il legislatore europea ha previsto delle tecniche di
tutela del consumatore debole che non sono ispirate ad un principio “formalistico” di sottoscrizione e
conoscibilità della clausola vessatoria, ma ad un principio sostanzialistico di invalidità delle clausole
squilibrate (c.d. clausole vessatorie).
Questa disciplina presuppone soprattutto un contratto tra un professionista (persona fisica o giuridica che agisce
nell’esercizio della propria attività commerciale, artigianale o professionale) ed un consumatore (persona fisica che agisce per
scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta ). In generale, la
disciplina di protezione del consumatore riguarda solo le clausole che non sono state oggetto di trattativa
individuale.

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Inoltre, il legislatore non consente al consumatore di negoziare nemmeno, sulla base di una trattativa
individuale, alcune clausole che si risolverebbero attraverso una “scommessa” sull’adempimento del
professionista o sul contenuto del contratto; esse, quindi, sono considerate vessatorie (e quindi nulle)
sempre, anche se sono state oggetto di una trattativa. Sono clausole che escludono la responsabilità del
professionista per danni al consumatore o per inadempimento totale o parziale, o che estendono gli
impegni contrattuali attraverso il rinvio ad ulteriori clausole di fatto non conoscibili.
All’opposto, il legislatore esclude che possono avere carattere vessatorio le clausole che riguardano
l’oggetto del contratto e l’adeguatezza del corrispettivo, purché siano individuati in modo chiaro e
comprensibile.

La disciplina dei contratti con i consumatori si incentra sul principio di nullità delle clausole vessatorie.
La nozione di vessatorietà si incentra soprattutto sulla norma dell’art. 33, co. 1, secondo cui si considerano
vessatorie le clausole che determinano a carico del consumatore uno squilibrio significativo dei diritti e
degli obblighi derivanti dal contratto.
L’accertamento della vessatorietà deve avvenire tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e della tipologia di bene o
servizio.
Il legislatore predispone un elenco di clausole vessatorie presunte, salvo prova contraria del professionista. Esse sono quelle che
tendono a limitare la responsabilità del professionista per danni al consumatore o per inadempimento; a restringere l’opponibilità
di eccezioni del consumatore; ad imporre penali o risarcimenti eccessivi; a dare al professionista poteri di recesso senza preavviso
e di modifica unilaterale ingiustificata delle clausole contrattuali.
La disciplina a tutela dei consumatori è completata da alcuni princìpi in tema di forma ed interpretazione del contratto: esso deve
essere scritto in forma chiara e comprensibile, poiché l’incomprensibilità della clausola ne determina la vessatorietà e la
conseguente invalidità; inoltre, prevede che in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione del consumatore.

Le clausole vessatorie inserite nei contratti con i consumatori sono invalide. Il legislatore ha previsto più
precisamente una particolare nullità di protezione, che opera solo a vantaggio del consumatore e può
essere rilevata d’ufficio dal giudice. Coerentemente, il legislatore prevede che la dichiarazione di nullità della clausola non
priva di effetti il contratto nel suo complesso, tutelando così l’interesse del consumatore a far valere l’efficacia del contratto
riequilibrato. Dove manchi tale interesse da parte del consumatore, egli può chiedere la nullità del contratto per intero.
Inoltre i costi giudiziali per ottenere una dichiarazione di nullità delle clausole vessatorie sono notevoli, così che il consumatore
spesso preferisce dare esecuzione al contratto squilibrato, pur di non sopportare spese legali. Per questo motivo il legislatore ha
previsto una tutela preventiva in forma collettiva dei consumatori contro l’utilizzazione di clausole vessatorie.

La disciplina dei rapporti fra produttori e consumatori non si esaurisce nelle norme relative alle reciproche
relazioni contrattuali, ma si estenda anche ai comportamenti tenuti fin dal momento delle trattative iniziali.
Il legislatore impone, in particolare, a chi offre beni o servizi di tenere un comportamento corretto in
qualsiasi contatto istaurato con i consumatori “prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a
un prodotto”. Naturalmente è possibile che scorrettezze in fase di trattativa favoriscano la conclusione di
un contratto che contiene pattuizioni vessatorie e in questo caso la disciplina delle sanzioni dei
comportamenti, sarà riferibile a quella di invalidità delle clausole contrattuali.
La disciplina del comportamento delle imprese nei rapporti con i consumatori è ispirata a un divieto di
pratiche commerciali scorrette, intese dal legislatore in senso ampio, che comprendono qualsiasi contatto
con il consumatore e quindi “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, compresa la pubblicità
e la commercializzazione del prodotto”. Tale divieto si applica a tutti i professionisti e non solo agli
imprenditori, quindi anche ai lavoratori autonomi e ai professionisti intellettuali.
La struttura della disciplina è particolarmente complessa. Il legislatore introduce, innanzitutto, una
clausola generale di divieto di pratiche commerciali scorrette e le divide in due categorie: le pratiche
ingannevoli e le pratiche aggressive. All’interno di queste tipologie, vi sono ulteriori sottotipologie

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considerate ingannevoli e aggressivi. Queste sono ulteriormente articolate redendo problematica
l’individuazione di fattispecie non classificate e scorrette.

L’art. 20, co. 2, c. cons. (codice del consumo), definisce scorrette le pratiche commerciali contrarie alla
diligenza professionale ed idonee a falsare il comportamento economico del consumatore.
Il criterio della diligenza professionale impone ai professionisti il dovere di prestare “ il normale grado di
competenza specifica e attenzione che i consumatori attendono”. Il comportamento economico del
consumatore risulta falsato quando la pratica commerciale altera la capacità del consumatore di prendere
una decisione consapevole inducendolo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti
non avrebbe preso, relativa all’acquisto o alla cessione di un prodotto, alle modalità di pagamento o
all’esercizio di diritti.
E’ irrilevante in questo proposito l’intenzione del professionista di falsare il comportamento del
consumatore, laddove questo risulti obbiettivamente influenzato dalla scorrettezza.

Le pratiche ingannevoli costituiscono la tipologia più importante di comportamenti sleali e rivestono un


particolare rilievo economico e sociale quando vengono poste in essere attraverso comunicazioni
pubblicitarie. Le azioni ingannevoli comprendono la comunicazione di informazioni non rispondenti al vero
e qualsiasi pratica che seppur di fatto corretta, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio.
Fra le ipotesi di pratica ingannevole ritroviamo l’uso di segni distintivi confondibili con quelli di un concorrente e il mancato
rispetto dei codici di condotta a cui il professionista ha aderito. L’ingannevolezza può derivare anche da omissioni di informazioni
rilevanti perché il consumatore medio possa prendere una decisione consapevole, o da informazioni oscure e incomprensibili.

Le pratiche aggressive sono quelle attuate attraverso molestie (di carattere fisico o psicologico) idonee a
limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio. L’aggressività
viene valutata in base alla persistenza delle molestie (ad es. continue sollecitazioni telefoniche), alla presenza di
minacce, allo sfruttamento di eventi tragici, a comportamenti ostruzionistici nei confronti del consumatore
(ad es. si pensi al rifiuto di disconnettere un utente telefonico che intenda recedere dal contratto per rivolgersi ad un altro
operatore).

La disciplina dell’attività economica deve garantire un corretto equilibrio nei reciproci rapporti tra
imprenditori. Tale problema sorge nei sistemi ispirati al principio di libertà di concorrenza. In questi sistemi,
ogni imprenditore può cercare di ampliare la propria offerta, anche attraverso la sottrazione della clientela
alle imprese concorrenti e, reciprocamente, ciascun consumatore può decidere verso quali imprese
orientare la propria domanda.
Il mercato, quindi, è essenzialmente un sistema in cui le decisioni relative alla domanda e all’offerta di
prodotti e servizi sono lasciate all’autonomia dei singoli consumatori e alle imprese. La volontà
dell’ordinamento di riconoscere e proteggere un sistema di mercato emerge dall’art. 41, Cost. secondo cui
“l’iniziativa economica privata è libera” e emerge, ora, anche dall’art. 119 TFUE, secondo cui “l’azione degli
Stati membri e dell’Unione comprende l’adozione di una politica economica condotta in base al principio di
un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Tale scelta è stata fatta sulla base dell’idea che il sistema concorrenziale è in grado di soddisfare le
preferenze del pubblico in modo più efficiente di quanto avviene nelle economie pianificate. Tale capacità
presuppone, tuttavia, che le imprese siano effettivamente interessate ad offrire prodotti o servizi che
rispondono alla domanda dei consumatori e che tale interesse dovrebbe dipendere dall’esigenza di
mantenere o incrementare il proprio volume d’affari e non perdere quote di mercato a vantaggio dei
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concorrenti.
La coincidenza tra l’interesse delle imprese e dei consumatori non costituisce però un presupposto che
caratterizza necessariamente i sistemi concorrenziali, e richiede il rispetto di alcuni princìpi riconosciuti e
protetti giuridicamente dall’ordinamento. Da un lato, infatti, occorre che la domanda e l’offerta si svolgano
su un mercato trasparente e leale e che l’ordinamento deve evitare che le imprese approfittino di
situazioni di potere di mercato, ossia situazioni in cui è assente una concorrenza effettiva.
La disciplina della concorrenza sleale mira essenzialmente a vietare i tentativi di creare e approfittare di
situazioni di mercato non trasparenti, mentre il problema del contenimento del potere di mercato è alla
base della disciplina antitrust. Uno stesso problema ispira alcune norme relative ai rapporti contrattuali fra
imprenditori: come quelle sugli abusi di dipendenza economica, sul franchising e sui ritardi di pagamento,
che si preoccupano di contenere il potere di mercato esercitabile anche da un singolo contraente.

La protezione contro gli atti di concorrenza sleale è imposta, a livello internazionale, dall’art 10-bis della
Convenzione d’Unione di Parigi (CUP) per la protezione della proprietà industriale. Tale Convenzione
introduce una clausola generale che identifica come atti di concorrenza sleali “ogni atto di concorrenza
contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale” considerando come illecite le fattispecie
confusorie, le affermazioni false screditanti, e l’uso di indicazioni e affermazioni ingannevoli. La concorrenza
sleale è poi ulteriormente disciplinata dall’ordinamento italiano all’interno del codice civile, negli art 2598
ss. che comprendono alcuni atti di concorrenza sleale che coincidono con quelli dell’art. 10-bis CUP come
quelli confusori (art. 2598, n.1) e screditanti (art. 2598, n.2), e individua anche un’ulteriore fattispecie di
slealtà costituita dagli atti di appropriazione di pregi (art. 2598, n.2) e si chiude con una clausola di divieto di
atti contrari ai princìpi di correttezza professionale (art. 2598, n.3).
La disciplina della concorrenza sleale regola i conflitti fra imprenditorie, ma impone di risolverli in relazione
all’interesse generale ad un corretto funzionamento dei meccanismi di economia di mercato, ricostituiti in
base ai princìpi della costituzione economica.
La tutela di un’economia di mercato, come abbiamo detto, dovrebbe incentivare l’offerta di beni e servizi
che rispondono alla domanda del pubblico ed è in questa senso che i princìpi di correttezza professionale
devono essere ricostruiti in base ai modelli di comportamento imprenditoriale in grado di adeguare
l’offerta alle esigenze dei consumatori.
La disciplina della concorrenza sleale presuppone la qualità di imprenditore sia del soggetto attivo (autore
dell’atto di concorrenza) sia di quello passivo (danneggiato). Questo si desume dall’art. 2598, n.3, che vieta
gli atti contrari ai princìpi di correttezza professionali che danneggiano l’azienda altrui, considerato come
oggetto dell’illecito.
Inoltre, tale disciplina, presuppone l’esistenza di un rapporto di concorrenza che sussiste quando le
imprese si rivolgono ad una clientela comune. L’esistenza di un rapporto di concorrenza viene verificata
innanzitutto sotto il profilo merceologico, e ricorre quando i prodotti o i servizi offerti sono idonei a
soddisfare uguali bisogni. Il rapporto di concorrenza è inoltre verificato dal punto di vista territoriale, e
presuppone che le imprese si rivolgano alla clientela di uno stesso luogo. Pertanto è sufficiente che la
clientela coincida anche in minima parte (ad es. un’impresa di moda internazionale può essere considerata in concorrenza
con una piccola sartoria locale, quando i clienti di quest’ultima possono rivolgersi anche alla prima per i loro acquisti). Il luogo di
attività deve, poi, essere individuato non in relazione agli stabilimenti dell’imprenditore, ma in base alla
clientela che raggiunge.
I presupposti soggettivi per poter applicare la disciplina della concorrenza sleale, limitano la legittimazione
di agire in giudizio. Questa legittimazione spetta solo all’imprenditore concorrente ed è esclusa in capo a chi
non abbia la qualifica di imprenditore o non si trovi in rapporto di concorrenza con l’autore dell’atto.

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Pertanto si esclude la legittimazione ad agire dei consumatori, a meno che il loro interesse abbia comunque
rilievo nella valutazione della prevalenza di un interesse imprenditoriale in conflitto.

La prima fattispecie di concorrenza sleale disciplinata dall’art. 2598, n.1, è costituita dall’utilizzazione di
nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati
da altri o, in generale, dal compimento di atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un
concorrente. Tale fattispecie è riconducibile all’interesse generale alla trasparenza del mercato e a potere
identificare attraverso segni distintivi l’impresa responsabile dell’organizzazione aziendale o dell’offerta del
prodotto o del servizio offerto. Per questo motivo tale articolo tutela tutti i segni distintivi riconducibili
all’ordinamento, in particolare la ditta, la ragione e denominazione sociale, l’insegna e il marchio, titoli e
testate dei periodici e il nome a dominio. Può proteggere anche altre tipologie di segni come la ditta
irregolare ed eventuali segni distintivi atipici.
La disciplina concorrenziale assume, quindi, importanza per definire i presupposti e l’ambito di protezione
dei segni distintivi non registrati, mentre in materia di marchi registrati trova applicazione l’art. 2598, n.1,
che viene assorbita dalla protezione prevista dal codice della proprietà industriale.
L’art. 2598, n.1, comprende fra gli atti vietati, il comportamento di chi “imita servilmente i prodotti di un
concorrente”. L’inclusione dell’imitazione servile fa concludere che il divieto si basa sull’effetto confusorio
del comportamento. Il divieto quindi si applica quando l’aspetto esterno del prodotto assume presso i
consumatori una funzione distintiva dell’impresa responsabile dell’offerta, così che l’imitazione da parte di
un terzo determina un inganno sull’identità del produttore.

L’art. 2598, n.2, prevede altre due fattispecie di concorrenza sleale, ossia gli atti di denigrazione e di
appropriazione dei pregi.
La fattispecie della denigrazione comprende il comportamento di chi diffonde notizie ed apprezzamenti di
discredito sui prodotti e sull’attività di un concorrente.
Visto che il termine diffusione fa intendere che la comunicazione è rivolta ad una pluralità di destinatari,
non vi è ragione di considerare come screditanti le notizie comunicate ad un solo destinatario (ad es.
attraverso l’invio di una lettera).

La seconda fattispecie di concorrenza sleale disciplinata dall’art. 2598, n.2, riguarda l’appropriazione di
pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. Si tratta di un comportamento in contrasto con il
principio di trasparenza del mercato e che ricorre quando un imprenditore riproduce nei propri cataloghi i
prodotti del concorrente; o dichiara di aver ricevuto premi o riconoscimenti attribuiti, invece, ad altri; o che
afferma di intrattenere rapporti commerciali con un’impresa particolarmente nota al pubblico, mentre
invece questi rapporti sono intrattenuti da terzi (ad es. la qualità di distributore esclusivo di una celebre marca di
prodotti). Tale fattispecie presuppone che il pregio venga vantato falsamente e non si applica ad
affermazioni veritiere.

L’art. 2598 si chiude al n.3, con una clausola generale di divieto di avvalersi direttamente o indirettamente
di ogni altro mezzo non conforme ai princìpi di correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’azienda
altrui.
La funzione di tale clausola è quella di lasciare al giudice la valutazione caso per caso, analizzando gli
interessi degli imprenditori in conflitto in ogni singola fattispecie. Tuttavia, la giurisprudenza ha elaborato
una casistica di generali tipologie di comportamenti scorretti.
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a) La casistica dimostra innanzitutto che la clausola generale vieta comportamenti contrari ai princìpi
di trasparenza del mercato. Sono vietate, dunque, tutte le affermazioni ingannevoli relative al
proprio prodotto o attività. L’ipotesi è normalmente definita in termini di concorrenza sleale per
mendacio (falsità, menzogna).
b) Nella casistica emergono poi ulteriori ipotesi che riflettono una scorretta imputazione dei costi e dei
benefici dell’attività imprenditoriale. Tale scorrettezza può derivare dalla violazione di norme di
diritto pubblico che introducono limiti e costi allo svolgimento dell’attività d’impresa. La violazione
di queste norme consente di realizzare opportunità di guadagno o di sottrarsi a fattori di costo.
c) In generale, il corretto funzionamento del mercato presuppone che il soggetto responsabile di
decisioni imprenditoriali ne sopporti i costi e i benefici. Per questo motivo appaiono scorretti gli atti
intesi a trarre profitto da iniziative imprenditoriali altrui o a scaricare sui terzi i costi delle proprie
decisioni. Un esempio è rappresentato dai costi di spionaggio industriale, che si verifica quando un
imprenditore cerca di venire a conoscenza dei segreti tecnici o commerciali di un concorrente, così
da risparmiare sui costi di investimento in ricerca, sviluppo o organizzazione della rete di fornitura e
distribuzione. In generale la sottrazione di segreti può avvenire scorrettamente non solo attraverso
atti di spionaggio, ma anche grazie alle rivelazioni di dipendenti e collaboratori del concorrente, i
quali spesso pongono termine al rapporto con il datore di lavoro per poter sfruttare a proprio le
informazioni ricevute.
d) Può costituire illecito anche il c.d. storno di dipendenti, cioè l’iniziativa volta a sottrarre lavoratori
al concorrente promettendo loro delle migliori condizioni retributive e mansioni. Questo
comportamento risulta illecito soprattutto quando l’offerta di migliori condizioni contrattuali sia
resa possibile dal risparmio di costi di formazione e organizzazione del lavoro in squadra che
abbiano fatto acquisire al personale delle particolari esperienze.

La violazione della disciplina della concorrenza sleale comporta l’applicazione delle sanzioni degli art. 2599-
2600. Date le difficoltà di provare danni significativi, riveste importanza centrale l’azione inibitoria, cioè
l’ordine del giudice di cessare dalla continuazione dell’illecito. Tale ordine può disporre di opportuni
provvedimenti per eliminare gli effetti dell’atto.
Il risarcimento del danno può essere richiesto in caso di atti dolosi o colposi, ma la disciplina concorrenziale
prevede un’agevolazione dell’onere probatorio, in quanto “accertati gli atti di concorrenza, la colpa si
presume”. Dove può essere pronunciato il risarcimento del danno, può essere ordinata la pubblicazione
della sentenza.

La disciplina relativa alla libertà di concorrenza, definita come antitrust, si propone di contrastare il potere
di mercato delle imprese, ossia le situazioni in cui una o più imprese si sottraggono alla pressione
concorrenziale e sono in grado di imporre livelli di prezzi più elevati, o di peggiorare la qualità dei prodotti,
senza subire contraccolpi che derivano dalla perdita di clientela. La disciplina antitrust cerca di impedire alle
imprese di creare un potere di mercato attraverso intese restrittive della concorrenza o operazioni di
concentrazione; inoltre, cerca di impedire lo sfruttamento abusivo del potere di mercato delle imprese che
hanno acquisito una posizione dominante. Il diritto antitrust consente invece l’acquisizione di posizioni
dominanti e del relativo potere di mercato, che deriva dalla crescita interna delle imprese e dalla loro
capacità di prevalere nella competizione.

La disciplina antitrust trova la propria fonte principale non nel diritto interno, ma nelle norme dell’Unione
europea e precisamente negli art. 101-102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e
nel Regolamento CE 139/2004 sulle concentrazioni, che ha importanza fondamentale anche per quanto
riguarda i criteri di coordinamento tra la disciplina europea e nazionale.
La legislazione nazionale si applica soltanto alle fattispecie restrittive della concorrenza che non
pregiudicano il commercio fra stati membri dell’UE, e alle concentrazioni che non superano le soglie di
fatturato previste a livello europeo. In presenza di un pregiudizio al commercio fra stati membri dell’UE, o
30
in caso di superamento delle soglie di fatturato, l’applicazione della disciplina europea esclude
l’applicazione di quella nazionale. Il sistema si ispira al principio della barriera unica, per il quale gli atti
restrittivi della concorrenza ricadono alternativamente nell’ambito della disciplina europea o quella
nazionale, ma non possono essere assoggettati contemporaneamente ad entrambe le discipline.
I meccanismi di applicazione del diritto antitrust (identificato con il termine enforcement) vedono
l’intervento di diverse autorità europee e nazionali. L’accertamento degli illeciti antitrust può avvenire in
via amministrativa da parte di autorità dotate di poteri di iniziativa e di acquisizione del materiale
probatorio. Queste autorità possono applicare sanzioni pecuniarie ed ordinare la cessazione dell’infrazione
(c.d. public enforcement). L’autorità competente all’applicazione del diritto antitrust europeo è la
Commissione. In Italia la funzione di autorità di controllo della concorrenza è svolta dall’Autorità garante
della concorrenza e del mercato che applica in via amministrativa, sia il diritto europeo che quello
nazionale.
L’accertamento delle violazione del diritto antitrust può avvenire anche in via privatistica da parte
dell’autorità giudiziaria ordinaria, secondo le regole del processo civile, su iniziativa della parte interessata
ad accertare la nullità dei contratti conclusi in violazione della disciplina della concorrenza, o ad ottenere il
risarcimento del danno subito (c.d. private enforcement). In questi casi la autorità giudiziarie degli stati
membri sono competenti sia a giudicare le azioni fondate sul diritto antitrust europeo, sia le azioni fondate
sulla violazione delle norme nazionali, ma i giudici nazionali devono evitare di prendere decisioni in
contrasto con quelle adottate dalla Commissione.

La normativa sulla concorrenza si applica ai comportamenti delle imprese intesa come qualsiasi attività
economica, compresa quella dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti.

Gli effetti restrittivi della concorrenza devono essere valutati relativamente ad un mercato per il quale si
ritiene opportuno preservare le condizioni di competitività. Il diritto antitrust prevede di determinare il
mercato rilevante per la valutazione degli effetti restrittivi e delle posizioni dominanti.
Il mercato rilevante viene circoscritto in base a due fattori fondamentali: quello geografico e quello
merceologico. Il mercato geograficamente rilevante è delimitato dal territorio in cui le condizioni di
concorrenza sono omogenee e sensibilmente diverse da quelle dei territori contigui. La disomogeneità delle
condizioni di concorrenza può derivare ad es. dai costi di trasporto, da tradizioni linguistiche o dalla
presenza di situazioni di monopolio legale o naturale.
In tutti questi casi l’ordinamento della concorrenza deve preoccuparsi degli effetti restrittivi relativi a
ciascun singolo territorio, per il quale i consumatori rischiano di subire l’esercizio di un potere di mercato
da parte di imprese non esposte alla concorrenza di offerte provenienti da territori diversi.
Il mercato merceologico, invece, è delimitato dalla tipologia dei prodotti o sevizi reciprocamente
sostituibili.

La disciplina antitrust europea e nazionale, prevede tre tipologie fondamentali di pratiche restrittive della
concorrenza: le intese, gli abusi di posizione dominante e le operazioni di concentrazione.
La disciplina in materia di intese è contenuta nell’art. 101 TFUE; il divieto d’intesa vuole, in generale,
impedire pratiche di concentrazione di comportamenti, vale a dire l’esercizio di potere di mercato in forma
congiunta da parte delle imprese che aderiscono all’accordo, nel loro interesse e a danno dei consumatori.
Il divieto di intese, colpisce gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le
pratiche concordate che hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della
concorrenza.
Oltre ai veri e propri contratti, rientrano nel divieto anche le decisioni in associazioni di imprese, come
consorzi e organizzazioni, e le pratiche concordate, costituite da accordi privi di valore contrattuale ma
osservati spontaneamente. La pratica concordata comprende anche gli scambi di informazioni in base alla
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rispettive strategie imprenditoriali che presuppongono l’intenzione di evitare “guerre commerciali” per
incrementare le quote di fatturato.
L’intervento antitrust nei confronti delle intese presuppone, infine, che il pregiudizio alla concorrenza si
manifesti in maniera sensibile; infatti, la Commissione ha emanato una comunicazione sugli accordi di
importanza minore (c.d. comunicazione de minimis) secondo cui gli accordi relativi a quote di mercato
inferiori al 10% non risultano pregiudizievoli per la concorrenza.
Il divieto di intese restrittive della concorrenza non si applica solo agli accordi tra imprese che operano allo
stesso livello economico (c.d. intese orizzontali), ma anche tra imprese operanti a livelli economici diversi
della catena di produzione e di distribuzione (c.d. intese verticali). L’estensione del divieto di intese
consente anche l’applicazione del diritto antitrust alle pattuizioni che producono effetti limitativi
indirettamente alle scelte imprenditoriali (ad es. obblighi di acquisto di quantitativi minimi di forniture che pregiudicano la
possibilità di rivolgersi a terzi concorrenti).

L’art.101 TFUE contiene un’elencazione delle tipologie di intese vietate che ha carattere esemplificativo e,
quindi, lascia all’interprete la libertà di identificare altre fattispecie. Tuttavia tale elenco è utile per
individuare le ipotesi più frequenti. Sono in particolar modo vietate:

a) Le intese che consistono nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita
o altre condizioni di transazione;
b) Le intese diretta a limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli
investimenti;
c) Le intese dirette a ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) Le intese dirette ad applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili
per prestazioni equivalenti, determinando così uno svantaggio nella concorrenza;
e) Le intese dirette a subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri
contraenti di prestazioni supplementari, che, per la loro natura o uso commerciale, non hanno
alcun nesso con i contratti stessi.

Alcune intese, seppur restrittive della concorrenza, possono essere esentate dai divieti antitrust quando
risultano idonee a produrre effetti positivi di efficienza economica, infatti, vi è la possibilità di esentare dal
divieto le intese che contribuiscono a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a
promuovere il progresso tecnico o economico. Le norme, tuttavia, richiedono che questi miglioramenti
riservino agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva (ad es. un accordo di ricerca e sviluppo in
comune può produrre effetti di efficienza in quanto può far sì che vengano ripartiti i costi di investimento, ma può essere esentato
dal divieto antitrust solo se comporta una diminuzione dei prezzi praticati ai consumatori).
Il miglioramento della produzione e il beneficio per gli utilizzatori sono spesso definite come condizioni
positive di esenzione a cui si aggiungono due condizioni negative. L’intesa da un lato deve evitare
restrizioni che non sono indispensabili al miglioramento della produzione e non deve dare alle imprese
partecipanti la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti.

La seconda fattispecie anticoncorrenziale disciplinata dall’ordinamento antitrust è costituita dallo


sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato. La posizione
dominante consiste in un potere di mercato che consente al suo titolare di tenere comportamenti
indipendenti: e cioè comportamenti che non espongono al rischio di perdita di fatturato a vantaggio dei
concorrenti.
Lo sfruttamento della posizione dominante si esprime attraverso comportamenti unilaterali delle imprese,
indipendentemente da qualsiasi intesa.

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L’art. 102 TFUE contiene un’elencazione di ipotesi di sfruttamento abusivo di posizione dominante.
Anch’essa, come per le intese, è un’elencazione di carattere esemplificativo, in quanto le ipotesi di abuso
sono immaginabili ogniqualvolta una o più imprese cerchino di sfruttare il loro potere di mercato per
comprimere la libertà economica dei concorrenti e di consumatori e trarre profitto dalle conseguenti
restrizioni. L’elencazione descrive, tuttavia, le ipotesi di abuso più frequenti e può consistere:

a) Nell’imporre direttamente o indirettamente prezzi d’acquisto, vendita o altre condizioni di


transazioni non eque;
b) Nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico a danno dei consumatori, prendendo in
esame anche i comportamenti diretti a provocare l’uscita di imprese dal mercato (ad es. attraverso il
boicottaggio);
c) Nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni
equivalenti, determinando così uno svantaggio per la concorrenza;
d) Nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di
prestazioni supplementari che, per loro natura o uso commerciale, non ha alcun legame con
l’oggetto del contratto stesso.

La terza fattispecie disciplinata dall’ordinamento antitrust è costituita dalle operazioni di concentrazione


restrittive della concorrenza. Quelle rilevanti sul piano concorrenziali si realizzano attraverso qualsiasi
operazione idonea a determinare una modifica duratura del controllo, per effetto della quale imprese
precedentemente indipendenti vengono assoggettate ad un potere di direzione unitario. La nozione
concorrenziale di controllo risalta la possibilità di esercitare un’influenza determinante sull’attività di
impresa.
Non vi è una vera e propria tecnica giuridica utilizzata per modificare il controllo delle organizzazioni
produttive; le operazioni di concentrazione, infatti, possono realizzarsi attraverso fusioni societarie,
acquisti di partecipazioni e trasferimenti di azienda o rami di essa. Tali operazioni, a differenza delle
intese, dovrebbero perseguire obiettivi di razionalizzazione produttiva e diminuzione dei costi, quindi gli
obiettivi di efficienza sottostanti alle concentrazione giustificano la scelta del legislatore di non intervenire
di fronte a qualsiasi operazione idonea a restringere la concorrenza, ma solo quando il fatturato delle
imprese coinvolte supera alcuni “valori critici”. Le soglie di fatturato che determinano l’intervento delle
autorità antitrust sono fissate a diversi livelli dall’ordinamento europeo e da quello nazionale. Il
superamento del livello fissato dal legislatore europeo esclude l’applicazione della normativa italiana (c.d.
concentrazioni di dimensione europea); viceversa, il superamento delle soglie fissate dal legislatore
nazionale, esclude l’applicazione della normativa europea (c.d. concentrazioni di dimensione nazionale).
Le operazioni che rientrano in tali soglie, devono essere oggetto di una notificazione preventiva alla
Commissione o alla AGCM. L’obbligo di notifica consente di prevenire la realizzazione di operazioni
restrittive della concorrenza che sono difficili da eliminare ex post. L’inosservanza di questo obbligo è esso
stesso un illecito, che viene sanzionato indipendentemente dalla valutazione degli eventuali effetti
anticoncorrenziali della concentrazione.
Il procedimento avviato dalla notifica, si conclude con una decisione della Commissione o dell’AGCM che
verifica la compatibilità dell’operazione con la disciplina della concorrenza. I criteri di valutazione sono
leggermente diversi nei due sistemi. In quello europeo la Commissione valuta se l’operazione ostacola in
modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, a causa
della creazione o del rafforzamento di una posizione dominante; nel sistema nazionale, invece, AGCM
valuta se l’operazione comporti la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato
nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale o durevole la concorrenza.

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Abbiamo già visto che l’accertamento delle violazioni del diritto antitrust e l’applicazione delle relative
sanzioni può avvenire parallelamente in via amministrativa e giurisdizionale.
La Commissione e l’AGCM esercitano i loro poteri sanzionatori attraverso l’applicazione di pene pecuniarie
(ammende), che nel sistema europeo sono previste non solo a fronte della violazione della disciplina
antitrust, ma anche a fronte di tentativi di ostacolare l’attività istruttoria di acquisizione di prove.
Commissione e AGCM possiedono, inoltre, poteri inibitori in ordine alla continuazione dell’illecito e di
ripristino della concorrenza. In alternativa possono accettare impegni proposti dalle imprese ed idonei ad
eliminare gli effetti restrittivi del comportamento.
Il procedimento giurisdizionale di applicazione del diritto antitrust si svolge davanti ai giudici dei paesi
membri. L’azione giudiziaria mira ad ottenere l’accertamento della nullità delle intese restrittive della
concorrenza che è diretta ad ottenere il risarcimento del danno derivante da comportamenti
anticoncorrenziali vietati dalla legge italiana ed europea.
E’ esercitabile in via giudiziale anche l’azione inibitoria.

La disciplina dei rapporti tra imprenditori si caratterizza, inoltre, per la presenza di norme relative alle loro
relazioni contrattuali. Si tratta di norme che tutelano la parte debole del rapporto, presupponendo che
situazioni di squilibrio contrattuale possono determinarsi non solo nelle relazioni tra imprese e
consumatori, ma anche nelle relazioni imprenditoriali.
La disciplina dell’abuso di dipendenza economica contenuta nell’art. 9, l 192/1998 è di particolare rilievo.
La norma si riferisce a qualsiasi situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti
commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi. Tale art. vieta, in generale,
queste situazioni di abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si
trovi una impresa cliente o fornitrice. Questa ipotesi può ricorrere tipicamente quando un’impresa ha
dovuto sopportare specifici investimenti in funzione dell’interesse ad intraprendere relazioni contrattuali
con un determinato partner. L’eccessivo squilibrio di diritti o obblighi ricorre quando una parte mira ad
imporre all’altra dei sacrifici che pregiudicano l’interesse alla remunerazione degli investimenti.

La l. 129/2004 contiene specifiche norme dedicate all’affiliazione commerciale (nota con il termine di
franchising), che a loro volta si propongono di tutelare una parte imprenditoriale contrattualmente debole,
ossia l’affiliato rispetto all’affiliante.
La tutela della parte debole si riferisce ad una relazione contrattuale specifica, costituita proprio dal
rapporto di affiliazione. Il contratto di affiliazione ha per oggetto il consenso dell’affiliante a che l’affiliato
utilizzi, sotto corrispettivo, un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale, in funzione
all’inserimento dell’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, con
lo scopo di commercializzare determinati beni e servizi. Tale contratto permette di realizzare, così, un
sistema di distribuzione in cui diversi distributori affiliati adottano gli stessi metodi di promozione
commerciale si si identificano uniformemente attraverso i segni distintivi dell’affiliante. L’adozione di
questo sistema è frequente per le grandi catene di abbigliamento, alberghiere e di supermercati.
La posizione di debolezza dell’affiliato deriva dalla necessità di quest’ultimo di sostenere investimenti
specifici per organizzare la sua impresa di distribuzione, in modo conforme alle scelte di politica
commerciale dettate dall’affiliante. L’affiliato è esposto al rischio di cessazione del rapporto che implica, per
quest’ultimo, l’esigenza di ricostituire ex novo relazioni di vendita con diversi fornitori, ripensare la propria
organizzazione distributiva, ristrutturare i propri locali per non incorrere in violazione dei diritti sui segni
distintivi dell’ex affiliante. Quindi il legislatore introduce delle norme a tutela dell’affiliato relativa alla
forma e contenuto del contratto, dirette a predefinire con certezza i rischi di investimento e di cessazione

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del rapporto. La legge, inoltre, prevede obblighi di informazione e correttezza diretti a prevenire la
possibilità di esporre l’affiliato a rischi non previsti al momento dell’accordo.

L’interesse fondamentale sottostante all’attività imprenditoriale è quello di ciascun operatore economico di


rendersi visibile presso il pubblico, distinguendosi rispetto ai concorrenti attraverso i segni di
identificazione. L’ordinamento giuridico riconosce e tutela questo interesse attraverso un’articolata
disciplina ispirata alle fonti internazionali ed europee e che prende il nome di “diritto dei segni distintivi”.
Questo diritto è incentrato sul riconoscimento legislativo di una pluralità di strumenti utilizzati dagli
imprenditori per presentarsi sul mercato, classificati dal codice civile, che individua tre grandi categorie: la
ditta (art. 2563 ss.), l’insegna (art. 2568) e il marchio (art. 2568 ss.). La disciplina del codice civile relativa ai
marchi si limita a poche norme, poiché è dettagliatamente contenuta negli art. 7 ss. del codice della
proprietà industriale. In Italia, inoltre, sono protetti i marchi registrati con effetto nell’intera Unione
europea (marchi comunitari), disciplinati dal regolamento sul marchio comunitario (RMC).
Secondo la tradizionale classificazione, la ditta è il segno di identificazione dell’imprenditore nella propria
attività di affari, e quindi il suo nome commerciale; l’insegna è il segno distintivo dei locali utilizzati
dall’imprenditore per lo svolgimento della sua attività; il marchio è il segno distintivo del prodotto.

La distinzione consiste in un’operazione di separazione di elementi dotati di caratteristiche comuni e di


contrapposizione rispetto ad altri elementi che ne sono privi. La tutela di segni distintivi presuppone
l’interesse ad identificare alcuni suoi elementi o risultati dell’attività di impresa e le caratteristiche comuni
che essi devono presentare.

La disciplina dei segni distintivi ruota intorno al principio di esclusività di uso del segno in capo ad un unico
e solo imprenditore. Questo principio è codificato dall’art. 2563, secondo cui “l’imprenditore ha diritto
all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta” ed è ribadito dall’art. 2569, secondo cui “chi ha registrato un
nuovo marchio ha diritto di valersene in modo esclusivo per prodotti e servizi”. Il principio di esclusività
esprime la volontà dell’ordinamento di riconoscere e proteggere l’interesse ad identificare il soggetto che
ha assunto determinate scelte imprenditoriali. Quindi, la riferibilità ad uno ed un solo soggetto costituisce
una caratteristica di tale principio.
La funzione distintiva è coerente anche alla possibilità che uno stesso segno venga utilizzato sia come nome
commerciale, che come insegna e marchio (ad es. il segno FIAT costituisce da un lato la denominazione della casa
automobilistica, ma è anche l’insegna dei suoi stabilimenti e il marchio delle sue autovetture). Ciò giustifica la ricostruzione
di princìpi generali comuni.

Come abbiamo detto la funzione distintiva giuridicamente riconosciuta e protetta si esprime attraverso
l’identificazione di scelte imprenditoriali riferibili ad un unico soggetto. Questo non esclude l’esistenza di
segni che però vengono utilizzati da una pluralità di soggetti e che hanno una funzione distintiva ulteriore,
estranea all’ambito di protezione dell’ordinamento e perciò non formano oggetto di diritti esclusivi. Si pensi
ad es. al termine “lavanderia”, che spesso vediamo come “insegna” all’ingresso dei locali delle imprese del
settore. Questo termine ha un significato distintivo di un’attività dotata di particolari caratteristiche, per
questo motivo l’ordinamento vuole che il termine sia liberamente utilizzabile dalla generalità di
imprenditori, in quanto è uno strumento necessario a comunicare al pubblico lo svolgimento di una
tipologia di attività. L’espressione capacità distintiva denota perciò la capacità del segno di identificare
scelte riferibili ad uno ed un solo imprenditore e si contrappone ai segni privi di carattere distintivo,
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liberamente utilizzabili dalla generalità degli imprenditori. La più importante categoria di segni privi di
carattere distintivo è costituita dai nomi generici e descrittivi (come appunto la lavanderia) di prodotti ed
attività.
Quindi la capacità distintiva costituisce il primo requisito di tutela del segno. Esso trova una disciplina
estremamente articolata in materia di marchi ma non è invece previsto nelle norme sulla ditta e l’insegna.
Inoltre, il requisito della capacità distintiva non può essere inteso in senso assoluto, ma va valutato in base
alla tipologia di attività e prodotti per cui il segno viene utilizzato (ad es. il segno “diesel” non può essere un
marchio per le automobili in quanto esso evidenzia il carattere distintivo di una tipologia di motore che può essere prodotto da
diversi imprenditori. Lo stesso segno però, può essere un valido marchio di prodotti di abbigliamento che non possono avere alcuna
caratteristica merceologica appartenente al genere descritto dal termine “diesel”).

La funzione distintiva assume ulteriore rilievo in base alla valutazione del conflitto fra segni. L’ordinamento,
infatti, deve innanzitutto preoccuparsi che segni uguali non vengano utilizzati da più imprenditori diversi.
Inoltre c’è anche da dire che il pubblico non può memorizzare perfettamente gli elementi del segno
distintivo o comunque non presta attenzione a differenze di dettaglio, per quando motivo il legislatore
tendenzialmente vieta l’utilizzazione di segni anche soltanto simili da parte di imprenditori diversi.
In questa prospettiva il concetto di somiglianza viene concretizzato in base all’interesse alla distinzione nei
confronti del pubblico. La somiglianza assume valore giuridico se è idonea ad indurre il pubblico a credere
erroneamente che segni simili siano utilizzati dal medesimo imprenditore. Nel linguaggio giuridico, tale
principio si esprime in termini di divieto di utilizzazione confusoria dei segni distintivi. Esso è ampiamente
disciplinato in materia di marchi ma è riferita a tutti i segni.
Il principio di non confondibilità, rileva inoltre il requisito di tutela del segno: infatti, i segni che risultano
confondibili con segni altrui non meritano alcuna protezione da parte dell’ordinamento. Tale confondibilità
è in particolare considerata dalla legge dei marchi come motivo di assenza di novità. Dunque, novità e
capacità distintiva costituiscono i più importanti requisiti di protezione comuni a tutti i segni.
Il principio di non confondibilità implica poi che segni simili o addirittura identici possono essere utilizzati da
imprenditori diversi nell’ambito di attività a loro volta differenti, che i consumatori non riferiscono ad un
unico imprenditore (ad es. questa situazione ricorre per il noto marchio “Ferrari” che viene utilizzato da imprenditori diversi
nel settore delle autovetture e in quello vitivinicolo, senza determinare nel pubblico l’erronea convinzione che la nota casa
automobilistica sia la stessa produttrice di spumanti). In questo caso la protezione del segno non è assoluta ma
relativa al settore merceologico di utilizzazione (c.d. principio di relatività della tutela). Il linguaggio
giuridico utilizza i termini “identità” e “affinità” dei prodotti o servizi per fare riferimento alle situazioni in
cui l’utilizzazione di segni uguali o simili può determinare rischi di confusione nel pubblico.
Il principio di relatività della tutela non si applica a tutte le tipologie di segni distintivi; tale principio è
entrato in crisi nell’economia moderna a seguito della tendenza imprenditoriale a cercare di sfruttare il
valore pubblicitario di un segno distintivo anche in settori merceologicamente diversi (ad es. il marchio Armani è
utilizzato non solo per l’abbigliamento ma anche per gli orologi).

Il principio di confondibilità pone alcuni problemi di applicazione con riferimento agli usi meramente
potenziali del segno.
Così, ad es. è possibile che un segno distintivo utilizzato da un determinato imprenditore sia conosciuto
solo ad una parte del pubblico o del mercato in circoscritte aree territoriali; e che un segno distintivo
uguale o confondibile venga utilizzato da un terzo presso un pubblico diverso, in aree territoriali differenti.
In queste situazioni il rischio di confusione può anche attualmente non determinarsi purché il segno risulti
utilizzato per prodotti o servizi identici o affini.
Tuttavia una disciplina che tutela solo i rischi di confusione attuali presenta una serie di inconvenienti: sia
perché l’utilizzazione dei segni è sempre potenzialmente estensibile e può sovrapporsi alle stesse aree
territoriali e di pubblico; sia perché le imprese, soprattutto di grandi dimensioni, hanno un forte interesse a

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conseguire una tutela predefinita in base a parametri certi, come la conoscenza del segno presso i
consumatori. Ciò perché l’accreditamento di un segno presso il pubblico richiede un certo periodo di tempo
e rende necessarie iniziative pubblicitarie, che le imprese adottano solo quando possono confidare su una
protezione ex ante.
L’ordinamento ha scelto di tutelare gli interessi attraverso lo strumento della registrazione del segno
distintivo. Da qui si fa la distinzione fra segni distintivi registrati e non registrati. I marchi costituiscono
l’unica tipologia di segni registrabili in base all’interesse ad acquistare una tutela estesa a rischi di
confusione derivanti da usi potenziali.

L’esercizio di attività competitive su mercati in continua evoluzione presuppone una notevole


diversificazione di risorse economiche e finanziarie, di aggiornate competenze tecnologiche, strategie ed
investimenti che un imprenditore è impossibilitato a procurarsi o effettuare da solo, quindi necessitano di
strumenti di cooperazione e reciproca integrazione.
Questi rapporti si realizzano con alleanze su base territoriale per il soddisfacimento di esigenze comuni. Se
poi gli obiettivi iniziali vengono realizzati, allora le relazioni iniziali si consolidano in cooperazioni dotati di
un apparato organizzativo più o meno complesso.
Vi è una gamma articolata di forme di cooperazione ed integrazione tra imprese. Gli strumenti di
cooperazione trovano la propria fonte in contratti mediante i quali gli imprenditori conservano (salvo
qualche eccezione) la propria autonomia giuridica ed economica; le forme di integrazione, invece, sono
caratterizzate dall’esistenza di legami partecipativi nella proprietà dell’impresa e comportano la
formazione di un’unica entità economica.
Per quanto riguarda gli strumenti di integrazioni tra imprese, si fa particolare riferimento alle forme di
cooperazione tra imprese su base contrattuale, che si dividono in forme inderogabilmente “strutturate”,
come consorzi, società consortili e cooperative che presuppongono un rapporto stabile e duraturo tra gli
imprenditori; e in forme potenzialmente “flessibili”, come i contratti di rete e le associazioni temporanee
di impresa, prive di una rigida organizzazione interna e indirizzate verso una cooperazione occasionale in
vista del perseguimento di obiettivi specifici comuni.

Il consorzio è un contratto con il quale più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la
disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. Tale nozione è stata poi
modificata dall’art. 1, l.377/1976 per effetto del quale, il consorzio da mero accordo volto a disciplinare e
limitare la concorrenza tra imprenditori, è divenuto strumento di coordinamento interaziendale.
Gli imprenditori consorziati mirano al conseguimento di un vantaggio economico diretto nell’esercizio della
propria attività (c.d. mutualità consortile), che consiste solitamente in un risparmio di spesa o in un
maggior ricavo che risulta da un’organizzazione del ciclo produttivo o distributivo.
L’oggetto del consorzio, individuato nello svolgimento di “fasi delle rispettive imprese”, consente di
individuare una pluralità di modelli consortili, caratterizzati da un grado di coesione fra le imprese in
relazione alle funzioni di coordinamento interaziendale assegnate dal contratto all’organizzazione comune.
Tuttavia l’attuale definizione di consorzio, non esclude la vecchia funzione di limitare la concorrenza tra
imprenditori ma tale finalità è consentita solo nei limiti tracciati dalla disciplina antimonopolistica, visto che
questi contratti costituiscono tipici esempi di intese anticoncorrenziali, che sono vietate qualora abbiano
per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato
nazionale o in una parte rilevante di questo.
La disciplina del consorzio è composta da una serie di disposizioni generali e di alcune regole specifiche
applicabili solo ai consorzi con attività esterna, che operano, cioè, anche con i terzi.
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Queste regole speciali sono alla base della distinzione tra consorzi con attività interna e consorzi con
attività esterna. Entrambi si caratterizzano per la costituzione di un’organizzazione comune che però nei
primi è volta a regolare i rapporti reciproci degli imprenditori consorziati; nei secondi, invece, è volta non
solo a tale obiettivo, ma anche a disciplinare l’attività imprenditoriale svolta dal consorzio con i terzi, come
soggetto giuridico autonomo.

Il consorzio (art. 2602) è costituito mediante un contratto tra imprenditori e per questo motivo le parti del
contratto non possono essere persone fisiche o giuridiche che non sono qualificabili come imprenditori,
quali i professionisti intellettuali o le società tra professionisti.
Il contratto del consorzio deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità e deve contenere una serie di
indicazioni, delle quali sono da considerarsi importanti solo l’oggetto e gli obblighi assunti dai consorziati ed
i contributi da essi dovuti sia costituiti da versamenti iniziali che da versamenti periodici.
L’assenza degli altri dati (durata, attribuzioni e poteri degli organi consortili, condizione di ammissione di nuovi consorziati,
casi di recesso ed esclusione ed eventuali sanzioni per inadempimento degli obblighi) può essere rimediata con il ricorso ai
princìpi generali o, nel caso della durata, a specifiche norme suppletive.
In particolare, in mancanza di una diversa determinazione della durata del contratto del consorzio, questo è
valido per dieci anni.
Elemento essenziale del consorzio fra imprenditori è la presenza di un’organizzazione comune per il
compimento di atti necessari all’esecuzione del programma consortile. La sua disciplina fissa solo poche
regole derogabili, lasciando libero spazio all’autonomia privata.
Poiché il consorzio si crea anche in presenza di un collegio di mandatari, nulla impedisce che questo sia
dotato di un unico organo con funzioni deliberative ed esecutive. Il modello legale, però, prevede una
struttura più complessa fondata sull’articolazione di un organo deliberativo (art. 2606) e un organo
esecutivo (art. 2608).
L’organo deliberativo è retto dal principio maggioritario, vale a dire che se il contratto del consorzio non
dispone diversamente, le deliberazioni che attuano l’oggetto del contratto sono adottate “con il voto
favorevole della maggioranza dei consorziati”.
Le modificazioni del contratto devono essere fatte per iscritto a pena di nullità e decise all’unanimità. Fra
le modifiche non rientrano le variazioni dei consorziati dato che nel consorzio assume rilievo non la
personalità dell’aderente, ma le caratteristiche e l’ambito produttivo in cui opera la sua impresa; il
contratto, perciò, è tendenzialmente aperto all’adesione di tutti gli imprenditori che sono in possesso dei
requisiti di ammissione stabiliti. Se non sono esplicitate le condizioni di ammissione per i nuovi consorziati,
la volontà delle parti deve intendersi nel senso che il rapporto ha una struttura chiusa e l’ingresso dei nuovi
membri deve avvenire per consenso unanime dei contraenti.
L’organo esecutivo del consorzio, invece, è composto dalle persone preposte dai consorziati alla direzione
del rapporto, per le quali è previsto, anche a garanzia dei terzi, un regime di responsabilità che consiste nel
richiamo delle regole del mandato in caso di compimento di atti di gestione pregiudizievoli per i consorziati
e dei terzi. Questo organo deve anche controllare l’esatto adempimento delle obbligazioni assunte dai
consorziati.
Come per le società, anche la disciplina del consorzio prevede cause di scioglimento del contratto e della
singola partecipazione dei consorziati.
Il contratto di consorzio si scioglie per il decorso del termine di durata, per il conseguimento dell’oggetto o
l’impossibilità di conseguirlo, o in seguito ad una decisione unanime dei consorziati o su una loro delibera
maggioritaria se sussiste una giusta causa. Vi è, però, la possibilità di prevedere nel contratto ulteriori cause
di scioglimento.
Lo scioglimento della singola partecipazione può essere, invece, originato dalla volontà del consorziato
(recesso) o dalla decisione degli altri consorziati (esclusione).
Recesso ed esclusione sono possibili nei casi previsti dal contratto ai quali deve aggiungersi anche la
perdita della qualità di imprenditore che costituisce il requisito essenziale di partecipazione al consorzio.
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L’esclusione del consorziato costituisce la tipica sanzione prevista per l’inadempimento degli obblighi
consortili.

I consorzi con attività esterna costituiscono dei centri autonomi dotati di soggettività giuridica. Quindi essi
acquistano la qualità di imprenditori commerciali esercitando un’attività ausiliaria che consiste nella
disciplina o nello svolgimento di fasi delle imprese consorziate. I consorzi con attività esterna sono dunque
esposti al fallimento.
La soggettività dei consorzi con attività esterna è legittimata dall’istituzione di un ufficio destinato a
svolgere attività con i terzi e dall’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese di un estratto
del contratto che contiene l’oggetto del consorzio, la sede dell’ufficio comune, le generalità dei consorziati,
la durata e l’indicazione delle presone a cui è attribuita la presidenza, la direzione e la rappresentanza del
consorzio con i rispettivi poteri. Alla stessa pubblicità legale è sottoposta ogni modifica dell’accordo.
I consorzi con attività esterna godono di un regime di autonomia patrimoniale. I contributi dei consorziati
ed i beni acquistati con questi confluiscono in un patrimonio autonomo che prende il nome di fondo
consortile del quale, per l’intera durata del consorzio, non può essere chiesta la divisione dai consorziati.
L’elemento essenziale dell’autonomia patrimoniale è un particolare regime di responsabilità verso i terzi
delle obbligazioni consortili.
Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio dai suoi rappresentanti, i terzi possono far valere i loro
diritti esclusivamente sul fondo consortile.
Le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati, invece, sono imputabili
solo a questi ultimi, con l’aggiunta di una responsabilità sussidiaria, a titolo di garanzia, del fondo
consortile. Se il consorzio è costretto a pagare, gli organi consortili potranno esercitare un’azione di rivalsa
per l’intera somma pagata nei confronti del consorziato interessato (c.d. solidarietà passiva disuguale).
L’art. 2615 prevede, inoltre, per il caso di insolvenza, la ripartizione del debito dell’insolvente fra tutti gli
associati in proporzione delle rispettive quote.
Le persone che hanno la direzione del consorzio devono redigere, entro due mesi dalla chiusura
dell’esercizio, una situazione patrimoniale in conformità delle regole relative al bilancio di società per
azioni.

Gli scopi tipici del contratto di consorzio di coordinamento interaziendale possono costituire l’oggetto
sociale di una società consortile.
L’art. 2615-ter consente di costituire la società consortile in tutti i tipi di società lucrative, esclusa quella
semplice. Inoltre sono ammesse le società consortili cooperative i cui soggetti realizzano lo scopo
mutualistico attraverso l’integrazione delle rispettive imprese o alcune fasi di esse.
Resta invece dubbia la disciplina applicabile a tali società e sulla identificazione del suoi scopo.
I caratteri tipici dello scopo consortile possono ricavarsi dalla nozione di consorzio. Esso è qualificato, sul
versante soggettivo, dalla necessaria qualità di imprenditori dei consorziati; sul piano oggettivo, dal
carattere ausiliario svolto dall’impresa consortile rispetto all’attività esercitata dai singoli consorziati che,
con la stipulazione del contratto di consorzio, mirano ad integrare le rispettive imprese e alcune delle loro
fasi.
Controversa invece è la disciplina in quanto vi è prevalenza della tesi per la quale le società consortili vanno
regolate esclusivamente sulla base delle norme stabilite per il tipo societario prescelto.
Non è ammessa di applicare una disciplina mista, cioè che prevede sia aspetti formali, che riguardano
l’articolazione e il funzionamento degli organi e che vengono regolati secondo la disciplina societaria, sia
aspetti sostanziali, che riguardano i rapporti tra i soci e tra questi e i terzi ai quali andrebbe applicata la
disciplina dei consorzi.
L’impresa comune (o cooperativa) è un’impresa costituita da due o più imprese fondatrici che ne acquistano il controllo congiunto.

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Sono forme di cooperazione potenzialmente flessibili i contratti associativi la cui disciplina non prevede
inderogabilmente la costituzione di un’organizzazione comune e che possono utilizzarsi anche per il
perseguimento di obiettivi contingenti o per una collaborazione temporanea. Esse sono: il contratto di rete
e le associazioni temporanee di impresa.

Con il contratto di rete, più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e


collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e si obbligano, sulla
base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti attinenti all’esercizio delle proprie
imprese, o a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologia,
o ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa.
Per quanto riguarda la forma, il contratto deve essere redatto per atto pubblico o per scrittura privata
autenticata, o per atto scritto firmato digitalmente da ciascun imprenditore o dal legale rappresentante
dell’impresa e redatto in conformità di un modello standard del decreto ministeriale.
Quanto al contenuto, invece, il contratto deve avere una serie di indicazioni tra cui: nome, ditta, ragione o
denominazione sociale di ogni partecipante per originaria sottoscrizione del contratto o per adesione
successiva, l’indicazione degli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità
competitiva dei partecipanti e le modalità concordate tra essi per misurare l’avanzamento di tali obiettivi e
deve contenere una definizione di un programma di rete.
Il patrimonio della rete può consistere in un fondo comune alimentato dai contributi delle imprese
partecipanti, al quale deve applicarsi la disciplina dei consorzi con attività esterna. Per le obbligazioni
contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i loro diritti
esclusivamente sul fondo comune.
La previsione nel contratto di rete di un organo comune e di un fondo patrimoniale comune non implica
necessariamente che la rete acquisti soggettività giuridica, ma essa può acquistarla se il contratto è
stipulato nelle forme previste e se è iscritto nella sezione ordinaria del registro delle imprese. Inoltre, il
regime pubblicitario e gli obblighi contabili corrispondono a quelli previsti per i consorzi con attività
esterna.
Quanto alle modifiche del contratto di rete, esse sono redatte e depositate per l’iscrizione nel registro
delle imprese.
E’ invece rimessa all’autonomia delle parti la previsione di eventuali cause facoltative di recesso anticipato
e di esclusione di un’impresa aderente. Il rinvio alle regole generali di legge in materia di scioglimento
totale o parziale dei contratti plurilaterali porta ad ammettere anche la facoltà di recesso per giusta causa.
Manca invece una specifica disciplina per quanto riguarda l’insolvenza e per la crisi delle reti di impresa.

La partecipazione a gare per l’assegnazione di appalti di opere pubbliche presuppone che imprenditori,
dotati di specializzazioni distinte, uniscano temporaneamente le proprie forze per soddisfare i requisiti
qualitativi e quantitativi richiesti dai commettenti che intendono assicurarsi una sufficiente affidabilità sulla
reale capacità delle imprese assegnatarie delle commesse di eseguire opere complesse nei tempi
prestabiliti.
A questa esigenza degli imprenditori, i contratti associativi non offrono una risposta soddisfacente in
quanto la loro costituzione comporta dei costi preventivi che potrebbero rivelarsi superflui nel caso in cui
l’appalto dovesse essere assegnato ad altri. Inoltre, gli imprenditori ambiscono non solo a conservare la
propria autonomia ed individualità nell’esecuzione dell’opera ma anche a procedere singolarmente e
rendere riconoscibile ai terzi il compimento personale della frazione della commessa di loro competenza.
Di qui la nascita del fenomeno delle associazioni temporanee di imprese (joint venture). Si tratta di
40
specifiche forme di cooperazione a carattere contingente ed occasionale tra imprenditori che non
determina alcuna organizzazione. Le imprese aspiranti alla commessa si presentano distinte ed autonome al
committente ed il loro collegamento consiste, da un lato, a sottoporre al committente un’offerta congiunta
assumendo il comune impegno di eseguire l’opera complessiva; dall’altro, nell’assegnare ad una di esse
(impresa capogruppo o capofila), l’incarico di gestire i rapporti con il committente ed assicurare il
necessario coordinamento esecutivo dell’opera.
La giurisprudenza configura ormai tali associazioni come contratti associativi innominati.

La ricchezza monetaria e finanziaria rappresenta il cuore dell’economia e comprende: denaro, risparmio,


investimenti finanziari nelle attività imprenditoriali e nello Stato e viene classificata, nel complesso, come
ricchezza mobiliare, che si contrappone a quella immobiliare che è costituita dalla proprietà fondiaria.
Ora la ricchezza mobiliare è una ricchezza essenzialmente circolante e la sua movimentazione è una delle
componenti centrali del traffico giuridico, assicurata da due fattori: celerità e sicurezza.
Il perseguimento di questi obiettivi, oggi, è alla base di numerosi e complessi istituiti di cui si possono
riconoscere due grandi gruppi che corrispondono alle due forme che lo spostamento di ricchezza può
assumere, cioè l’attribuzione di unità monetarie da parte di un soggetto a favore di un altro o nella
circolazione di una situazione giuridica che rappresenta un valore finanziario. A questa suddivisione
corrispondono gli strumenti di pagamento e gli istituiti che riguardano la circolazione dei rapporti
finanziari.

Il titolo di credito (art. 1992) è un documento, cartaceo od elettronico, che esprime la titolarità da parte
del soggetto indicato nel titolo stesso di una posizione complessa di diritti, patrimoniali e/o amministrativi.
Quindi il titolo di credito menziona una situazione giuridica attiva che circola in modo autonomo
mediante la movimentazione del documento, ed al cui esercizio è legittimato il soggetto nella cui
disponibilità materiale si trova il documento.
La ratio dei titoli di credito è quella di rendere quanto più celere la circolazione dei diritti e rendere certo il
trasferimento della ricchezza (certezza e celerità dei finanziamenti e degli investimenti).
I titoli di credito possono essere cartacei o strutturali (elettronici e quindi dematerializzati) e sono previsti
due regimi di circolazione differenti, quello dei titoli cartacei e quello della dematerializzazione.
I titoli di credito si differenziano in base al contenuto dei diritto ed in base alla legge di circolazione.

Il titolo di credito nasce con la sottoscrizione del documento (creazione) da parte dell’emittente e con la
sua emissione, normalmente volontaria, ma che produce i suoi effetti anche se involontaria, purché il terzo
ne acquisti il possesso in buona fede.

1. In base al contenuto del diritto:

A seconda della natura della posizione giuridica documentata, possono distinguersi:

a) titoli di finanziamento, che incorporano un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione
pecuniaria (ad es. Titoli di Stato, cambiali ecc.);

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b) titoli partecipativi, che incorporano una posizione giuridica complessa, rappresentata dalla
partecipazione economica ed organizzativa ad una iniziativa produttiva (ad es. azioni di società);
c) altri valori finanziari, che documentano posizioni giuridiche di vario tipo (come dritti di opzione, quote di
fondi comuni di investimento);
d) titoli rappresentativi di merci, il cui il documento individua l’avente diritto alle merci indicate dal
documento stesso (ad es. derrate alimentari).

È opinione comune che il sistema sia retto dal principio di atipicità, per cui è possibile la creazione di Titoli
diversi da quelli normativamente tipizzati.

2. In base alle leggi di circolazione:

I titoli di credito cartacei possono distinguersi in:

a) titoli al portatore, non hanno l’indicazione nominativa del soggetto e circolano mediante semplice
consegna materiale, perciò l’applicazione delle regole cartolari si ricollega al possesso semplice del
documento, senza ulteriori formalità (ad es. libretto di risparmio);
b) titoli all’ordine, che contengono l’impegno ad eseguire la prestazione “all’ordine di” un soggetto
menzionato dal documento stesso e circolano mediante consegna materiale accompagnata dalla
girata, cioè una sottoscrizione, apposta dall’alienante (girante) sul documento stesso, con
l’indicazione del nuovo creditore (giratario) con cui lo legittima a subentrargli nella legittimazione (il
possessore ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purchè sia legittimato nelle forme previste dalla
legge),
in base ad una serie continuativa di girate, perciò il girante deve figurare come giratario della
girata precedente. La girata deve essere senza condizioni e suo effetto è il trasferimento
automatico di tutti i diritti in capo al giratario, che quindi sarà legittimato ad ottenere la
prestazione.
c) titoli nominativi, in cui è richiesta una doppia annotazione, per cui il possessore di un titolo
nominativo è legittimato all’esercizio del diritto in esso menzionato per effetto dell’intestazione a
suo favore contenuta nel titolo e nel registro dell’emittente. La relativa circolazione può avvenire
tramite:
 transfert: mediante consegna della chartula (titolo) e doppia annotazione del nome
dell’acquirente sul titolo e nel registro, a cura dell’emettente;
 girata autenticata: l'alienante pone sul titolo il nome del giratario e successivamente vi
sarà l’annotazione del trasferimento nel registro dell’emittente. La girata deve essere
datata e sottoscritta dal girante deve contenere le indicazioni del giratario e, se il titolo non
è interamente liberato deve essere sottoscritto anche dal giratario. Il questo caso il
giratario è legittimato ad ottenere l’annotazione che gli permetterà di ottenere la
prestazione, quindi la sua legittimazione alla prestazione non è automatica, ma sorge solo
dopo l’annotazione del trasferimento nel registro dell’emittente. Se a circolare è una
azione, il socio può comunque esercitare i diritti sociali anche se tale annotazione non è
ancora intervenuta.

Invece, per i titoli di credito dematerializzati, è previsto un particolare regime di dematerializzazione


basato su movimentazioni contabili telematiche. Sono dei titoli scritturali (titoli dematerializzati) la cui
disciplina è contenuta nel Testo Unico della Finanza e ad essa sono soggetti necessariamente i titoli
negoziati in mercati regolamentati (azioni quotate, titoli di Stato, ecc.) e facoltativamente (cioè a scelta
dell’emittente) i titoli di massa (cioè emessi in serie) non quotati (dematerializzazione parziale).
Nei titoli di credito elettronici il rapporto giuridico è documentato in forma telematica in un conto acceso
presso un intermediario abilitato (conto-terzi) e intestato al possessore del titolo; l’insieme dei titoli di
pertinenza dei clienti di uno stesso intermediario viene a sua volta registrato in un conto intestato
all’intermediario stesso e acceso presso una società di gestione accentrata (Sga), scelta dalla società
emittente.

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La circolazione dei titoli dematerializzati avviene attraverso movimentazioni contabili telematiche
(operazione di giro) in cui la quantità di titoli ceduta viene prima addebitata a carico del conto dell’alienante
e del conto-terzi del suo intermediario, e la medesima quantità viene poi accreditata a favore del conto
dell’acquirente e del conto-terzi del relativo intermediario.
La disciplina dei titoli dematerializzati ricalca quella dei titoli cartacei, infatti:
1. l’acquirente che ha ottenuto l’accredito a proprio favore in buona fede non è soggetto alla
rivendicazione di precedenti titolari ed è possibile anche un acquisto a non domino, purché in buona fede.
2. all’intestatario del conto in cui il titolo è registrato sono opponibili solo le eccezioni a lui personali e
quelle comuni a tutti gli altri titolari della stessa serie, quindi non le eccezioni personali ai precedenti
possessori.
3. il titolare del conto ha la legittimazione piena ed esclusiva dell’esercizio dei diritti nascenti dal
rapporto documentato, perciò, per esercitare tali diritti, al possessore del titolo basta esibire all’emittente
la certificazione rilasciatagli dall’intermediario ed attestante la registrazione dei titoli nel suo conto, senza
dover fornire altra prova della sua titolarità.

1. Autonomia: la creazione del titolo scinde giuridicamente il diritto cartolare dal rapporto giuridico
ha dato causa (c.d. rapporto fondamentale), rendendo quest’ultimo irrilevante nei confronti dei
successivi possessori del titolo che non sono parte di questo rapporto;
2. Autonomia:
• obbligatoria: il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo
personali e una serie di altre eccezioni opponibili a chiunque, mentre le eccezioni fondate sui
rapporti personali con i precedenti possessori sono opponibili a quello attuale solo se,
nell’acquistare il titolo, questi ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo. Quindi la
posizione dell’acquirente è indipendente da quella dei precedenti creditori.
• reale:
‐ per i titoli cartacei: chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, in
conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a rivendicazione e
quindi è possibile anche un acquisto a non domino (chi non è proprietario), purché in buona fede, senza
che il terzo proprietario possa rivendicare il titolo nei suoi confronti. È, però, necessaria l’esistenza
di un negozio traslativo pienamente valido ed efficace, in quanto il possesso sana esclusivamente il
difetto di proprietà dell’alienante e non altri vizi che inficino l’atto. Nei titoli al portatore è
sufficiente il possesso semplice del documento, mentre nei titoli all’ordine occorre in più la girata a
proprio favore (ultima di una serie continuata) e nei titoli nominativi anche il transfert o la girata.
- per i titoli scritturali: il contenuto del diritto è correlato alla lettera del documento, perciò il
contenuto della pretesa azionabile dall’acquirente è quello risultante dal titolo e il possessore può
esercitare la pretesa nei termini che sono indicati nel titolo.

Si distinguono in:

a) eccezioni reali comprendono:


• eccezioni fondate sul contesto letterale del titolo e quelle della forma;
• eccezioni di non riferibilità dell’obbligazione cartolare alla volontà di chi figura come debitore,
cioè falsità della firma, difetto di capacità di agire o di rappresentanza al momento dell’emissione, a
cui va aggiunta la violenza fisica.
b) eccezioni personali comprendono:
• eccezioni personali in senso stretto: il difetto di proprietà del titolo (ad es. perché acquistato in base ad
un negozio nullo, o a non domino in mala fede) e il difetto di legittimazione (cioè la carenza di possesso del titolo);

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• eccezioni fondate su rapporti personali con l’attuale possessore: si tratta di tutti i fatti che
incidono sull’esistenza o sul contenuto della pretesa documentata, intercorsi col possessore (atti o
vicende modificative del rapporto cartolare come la concessione di una dilazione di pagamento, ecc.);
• eccezioni fondate su rapporti personali con i precedenti possessori: se il possessore attuale ha
acquistato il titolo intenzionalmente a danno del debitore, cioè allo scopo di privarlo dell’eccezione.

1. Nei titoli cartacei:


• legittimazione attiva: il possessore ha diritto alla prestazione del documento in esso indicata,
perciò il possessore che esibisca il titolo non deve fornire altra prova della sua titolarità in quanto il
possesso determina una presunzione di titolarità anche se il debitore può comunque fornire la
prova contraria.
• legittimazione passiva: il debitore, che senza dolo o colpa grave adempie la prestazione nei
confronti del possessore, è liberato anche se questi non è il titolare del diritto. Dolo o colpa grava
del debitore si hanno quando costui disponesse (dolo) o avrebbe potuto agevolmente disporre
(colpa grave) di prove certe e liquide che gli avrebbero consentito di respingere la pretesa del
possessore.
2. Nei titoli scritturali:
• legittimazione attiva: è collegata all’intestazione del conto in cui il titolo è registrato, per cui
effettuata la registrazione, il titolare del conto ha legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei
diritti relativi agli strumenti finanziari in esso registrati.
• legittimazione passiva: il debitore, che senza dolo o colpa grave adempie nei confronti
dell’intestatario del conto è liberato anche se questi non è il titolare del conto.

Le obbligazioni pecuniarie possono essere eseguite, oltre che con la materiale consegna dei pezzi monetari,
anche con modalità differenti. Il denaro inteso come mezzo di pagamento (ossia strumento di scambio con
altre merci) ha perso, nel corso del tempo, gran parte della sua “consistenza fisica” trasformandosi prima
da pezzo monetario a strumento cartaceo (banconota) e poi a mero “segno” o “scritturazione” di una
disponibilità monetaria più generale.
Le tesi “reali” del pagamento (come trasferimento materiale di denaro direttamente dal debitore al
creditore) hanno poi fare i conti, nel corso del tempo, con lo sviluppo nella prassi di un sistema variegato di
strumenti di pagamento. Con questa espressione si fa riferimento ad un insieme di modalità di
trasferimento di disponibilità monetarie attraverso dei procedimenti che coinvolgono le banche e altri
soggetti di natura finanziaria in funzione di intermediazione.
L’attuale sistema dei pagamenti ruota intorno alla nozione di moneta scritturale, cioè moneta che
costituisce il prodotto della prestazione di servizi di pagamento. Più precisamente, con questa espressione
ci si riferisce all’insieme dei saldi disponibili dei conti accesi presso banche o altri intermediari specializzati,
la cui movimentazione trasferisce una certa disponibilità monetaria da un soggetto all’altro.
Il pagamento in moneta scritturale si esegue per lo più mediante il trasferimento della titolarità di fondi
detenuti dal pagatore presso banche o intermediari abilitati.
Storicamente, la maggior parte degli strumenti di pagamento diversi dal contante si è sviluppata insieme al
conto corrente bancario che è la principale figura contrattuale con cui le banche rendono possibile la
circolazione della moneta scritturale. Successivamente anche le Poste, con il conto corrente postale, hanno
realizzato un servizio simile a quello delle banche. Ancora più recentemente, dal 2010, anche altri
intermediari (istituti di pagamento), sono stati legittimati a offrire, con eccezione degli assegni, la stessa
gamma di servizi di pagamento delle banche, basandosi sulla movimentazione di fondi versati su conti di
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pagamento. Questi sono figure contrattuali simili ai conti correnti ma dotati di una funzionalità più limitata
in quanto circoscritta solo all’esecuzione dei pagamenti.
Basandosi sulla movimentazione dei crediti disponibili, l’uso della moneta determina la costante fiducia del
pubblico nella solvibilità degli intermediari coinvolti e nella loro capacità di convertirla, in qualsiasi
momento, in moneta legale. Ciò presuppone l’esistenza di un sistema dei pagamenti in grado di agevolare
il trasferimento monetario e di tutelare la fiducia del pubblico.
Per queste ragioni, negli Stati moderni la prestazione di servizi di pagamento e l’uso della moneta
scritturale sono circondati e presidiati da un regime di controlli pubblici.
E’ stata, inoltre, elaborata una distinzione fra mezzi di pagamento sostitutivi e mezzi di pagamento
alternativi del denaro contante.
Ai mezzi di pagamento sostitutivi sono ricondotti tutti quegli strumenti che consentono di evitare un
trasferimento diretto di denaro contante fra debitore e creditore sostituendolo con la consegna di
documenti rappresentativi di esso, accettati normalmente come corrispettivo di uno scambio in
sostituzione temporanea della moneta. Il ruolo principale è svolto dagli assegni bancari e circolari che
vengono utilizzati frequentemente nella circolazione di denaro da un soggetto all’altro, in quanto
consentono di realizzare il trasferimento di una certa disponibilità monetaria.
I mezzi di pagamento alternativi sono invece strumenti attraverso i quali viene evitato totalmente il
trasferimento materiale di denaro poiché vengono eseguite, da banche o istituti di pagamento, delle -
scritturazioni a debito e a credito sui conti dei soggetti coinvolti nell’operazione.

I titoli cambiari, in particolar modo l’assegno e la cambiale, sono stati utilizzati per il pagamento di debiti
pecuniari consentendo al debitore di evitare un trasferimento materiale di moneta.
Sotto l’aspetto strutturale, l’assegno e la cambiale mostrano dei caratteri simili presentandosi come una
promessa di pagamento del sottoscrittore a favore della persona indicata nel titolo (prenditore) –
(nell’ipotesi del pagherò cambiario e dell’assegno circolare) – o come un ordine di pagamento impartito da
un soggetto (traente) ad un altro soggetto (trattario) sempre a favore del portatore del titolo (nell’ipotesi
della cambiale tratta e dell’assegno bancario).
Il traente risponde nei confronti del portatore del mancato pagamento o della mancata accettazione del
titolo da parte del trattario.
Sotto l’aspetto funzionale, invece, i titoli cambiari vengono divisi in maniera diversa: la cambiale tratta e il
pagherò cambiario che rispondono ad una funzione creditizia, cioè il differimento nel pagamento di una
certa somma; l’assegno bancario e l’assegno circolare, invece, rispondono ad una funzione di pagamento,
consentendo a chi abbia somme disponibili presso una banca di utilizzarle per effettuare pagamenti a terzi.
Al fenomeno cambiario la funzione creditizia appare naturale in quanto esso è un titolo all’ordine che
contiene l’obbligazione incondizionata di pagare o di far pagare una somma di denaro alla scadenza e nel
luogo indicati nel titolo stesso. Sia nella forma della cambiale tratta che in quella del pagherò cambiario, la
scadenza assume un ruolo fondamentale, la cui funzione è quella di differire il pagamento di una somma di
denaro, con attribuzione al prenditore della possibilità di monetizzare agevolmente il credito mediante il
trasferimento del titolo.
Diversamente, l’assegno, sotto l’aspetto funzionale, si caratterizza come strumento di pagamento e questo
perché è caratterizzato dall’esigibilità a vista e l’assoggettamento alla sua presentazione in tempi
brevissimi.
Solo l’assegno poi si caratterizza come connesso con l’attività di intermediazione bancaria. La consegna
dell’assegno non comporta l’immediata estinzione dell’obbligazione pecuniaria. Il pagamento effettuato
tramite assegno, infatti, si intende salvo buon fine, cioè l’effetto estintivo si produce solo nel momento in
cui il prenditore dell’assegno lo incassa effettivamente o ne riceve la disponibilità sul proprio conto.

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La cambiale è un documento che viene detto completo, nel senso che tutte le clausole che individuano e
regolano il diritto cartolare di credito devono essere contenute nello stesso documento cambiario. Solo ai
fini fiscali è obbligatorio l’uso della carta bollata e non per la validità della cambiale, ma perché se non
viene bollata fin dall’inizio, non assume la qualità di titolo esecutivo.
Essendo un titolo all’ordine, circola attraverso la girata che produce l’effetto di far diventare il giratario
portatore legittimo della cambiale.
E’ un titolo astratto, perché il rapporto sottostante tra traente della cambiale e primo prenditore (detto
rapporto di valuta) non risulta dal titolo e può essere vario. Nella cambiale tratta, oltre al rapporto di
valuta, vi è anche un rapporto di provvista tra traente e trattario, che vede il trattario come debitore della
somma verso il traente per un debito non cambiario. In questa ipotesi, il trattario, pagando la cambiale,
estingue contemporaneamente il rapporto di valuta del traente verso il prenditore e il rapporto di provvista
di se stesso verso il traente.
La cambiale nasce con la dichiarazione cambiaria del traente; spesso però dopo l’emissione del titolo e
prima della sua scadenza, sulla cambiale vengono aggiunte altre dichiarazioni, da ognuna delle quali nasce
un obbligo cambiario del sottoscrittore verso il creditore cambiario.
Nella cambiale tratta può accadere che il trattario accetti (scrivendo e sottoscrivendo sul documento una
dichiarazione di accettazione), diventando obbligato cambiario. Oppure, nell’ipotesi di circolazione per
mezzo della girata, è il girante a divenire obbligato cambiario nei confronti del proprio giratario e dei
giratari successivi. Vi possono essere poi le dichiarazioni di avallo, con cui si garantisce il pagamento del
debito cambiario assunto da un altro soggetto. Anche gli avallanti diventano obbligati cambiari.
Gli obbligati cambiari si distinguono in obbligati diretti (emittente, accettante e loro avallanti) e obbligati di
regresso (traente, giranti e loro avallanti).
Alla scadenza, il pagamento della somma cambiaria deve essere chiesto al trattario nella cambiale tratta,
all’emittente nella cambiale propria. Legittimato a chiedere il pagamento è il portatore legittimo della
cambiale, cioè chi risulta ultimo giratario in base ad una serie continua di girate.
Se l’obbligato principale rifiuta il pagamento della somma indicata, l’ultimo giratario può rivolgersi per il
pagamento ad uno qualunque, a sua scelta, tra gli obbligati cambiari.
Solo se il pagamento è compiuto dall’emittente o dall’accettante, si estinguono tutti i rapporti cambiari; se,
invece, il pagamento viene eseguito da un altro obbligato cambiario, questo può pretendere a sua volta il
rimborso di quanto ha pagato dai giranti che lo precedono, dal traente o dai loro avallanti. In questo
consiste il c.d. ordine (o nesso) cambiario.
La cambiale, infine, è un titolo esecutivo, in quanto il creditore cambiario ha il potere di dare avvio subito
alla procedura esecutiva sui beni dei debitori cambiari inadempienti, senza ottenere prima una sentenza di
condanna o un decreto ingiuntivo di pagamento.

Uno dei mezzi di pagamento più comuni è l’assegno bancario, del quale si serve chi stipula con una banca
un contratto di conto corrente in virtù del quale, sulla base della c.d. convenzione di assegno, viene
autorizzato dalla banca a trarre su di essa dei titoli di credito (appunto gli assegni bancari). Con l’assegno
bancario, il cliente (traente) ordina alla banca (trattaria) di pagare una determinata somma di denaro a
favore del legittimo portatore del titolo (prenditore o beneficiario).
L’assegno bancario non può essere accettato e, di conseguenza, la banca trattaria non diventa mai
obbligato cartolare nei confronti del portatore legittimo dell’assegno, rimanendo soltanto obbligata
extracartolarmente verso il traente, secondo il contenuto della convenzione di assegno.
Gli assegni bancari sono di solito redatti su moduli prestampati che la stessa banca fornisce al cliente al
momento della stipula della convenzione di assegno.
Nel rispetto del principio di letteralità, in quanto titolo di credito, l’assegno bancario è soggetto ad alcuni
requisiti formali ossia: la denominazione di assegno bancario; l’ordine incondizionato di pagare una somma

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determinata; il nome del trattario; il luogo di pagamento; l’indicazione della data e del luogo di emissione
dell’assegno; la sottoscrizione del traente. A differenza della cambiale non è necessaria l’indicazione della
scadenza perché essa è sempre a vista.
L’assegno può essere emesso con la specifica indicazione del nome del beneficiario (cioè chi è legittimato a
presentarlo all’incasso) o al portatore e anche a favore dello stesso traente.
L’assegno pagabile ad una persona determinata si trasferisce per mezzo della girata a meno che l’assegno
sia emesso con la clausola non trasferibile; quello al portatore, invece, si trasferisce con la semplice
consegna del documento.
L’emissione dell’assegno bancario presuppone: l’esistenza della c.d. convenzione di assegno, cioè
dell’accordo in forza del quale la banca consegna al proprio cliente il libretto degli assegni, lo autorizza ad
emetterli e, in presenza di fondi disponibili, si obbliga ad onorarli; l’esistenza di fondi disponibili, cioè non
solo quelli che risultano da rapporti attivi (ad es. depositi in conto), ma anche quelli che derivano da operazioni
di cessione di credito da parte della banca (ad es. aperture di credito).
Sia la mancanza della convenzione di assegno che la carenza di fondi disponibili (c.d. assegno a vuoto)
rendono l’ordine di pagamento non vincolante per la banca trattaria nei confronti del cliente.
Inoltre, è previsto dalla legge che l’assegno bancario sia presentato per il pagamento entro un termine
finale che inizia a decorrere dalla data di emissione, cioè entro otto giorni se l’assegno è “su piazza”, ossia
emesso nella stessa località (il comune) in cui opera lo sportello presso il quale è aperto il conto del traente;
quindici giorni se, invece, l’assegno è “fuori piazza”. Trascorso questo tempo (“termine utile”) senza che vi
sia stata richiesta di pagamento, si hanno diverse conseguenze: si estingue l’obbligazione di regresso (di
assunzione del pagamento) dei giranti; se il traente dà al trattario l’ordine di non pagare l’assegno, il trattario
deve eseguirlo. Però, il beneficiario di un assegno ha interesse ad incassarlo entro questi termini perché,
trascorsi questi ultimi, egli perderà il diritto al “protesto”.
Poiché l’assegno bancario è un titolo esecutivo, il beneficiario, dopo la formale contestazione del mancato
pagamento mediante il protesto effettuato da un pubblico ufficiale, può esercitare l’azione di regresso
(obbligo a pagare) contro gli eventuali giranti.
Il protesto è un atto pubblico mediante il quale viene accertato, da parte di un notaio o di un ufficiale
giudiziario, il mancato pagamento di un assegno, consentendo a chi non ha ricevuto il pagamento di poter
agire in via giudiziaria per ottenere la somma riportata nel titolo di credito.
A fronte della depenalizzazione, coloro che emettono un assegno bancario senza autorizzazione o a vuoto,
commettono un illecito amministrativo e sono soggetti a sanzioni pecuniarie e accessorie anche gravi che
vengono graduate in relazione alla gravità dell’illecito e all’importo dell’assegno.
Inoltre, in caso di mancato pagamento di un assegno per mancanza di autorizzazione o di provvista, la
banca trattaria iscrive il nominativo del traente nella Centrale di allarme interbancaria (CAI) ossia un
archivio informatizzato istituito presso la Banca d’Italia.
Il beneficiario può presentare l’assegno all’incasso presso la banca trattaria dove l’emittente possiede il
conto corrente: in questo caso la banca è tenuta a verificare, oltre la copertura dell’assegno, anche
l’autenticità della firma del traente (confrontandola con lo specimen – firma del cliente rilasciata alla banca
-, raccolto al momento della stipula della convenzione di assegno), l’assenza di alterazioni dell’assegno e la
continuità delle girate.
E’ però divenuto frequente che un assegno venga presentato all’incasso presso una banca diversa da quella
trattaria, che di solito è quella dove il beneficiario è titolare di un conto corrente. In questo caso la banca
negoziatrice accredita in c/c l’importo “salvo buon fine”, cioè a condizione che questo venga regolarmente
pagato dalla trattaria all’esito della negoziazione.

Gli assegni bancari presentano la caratteristica di non offrire al portatore legittimo la sicurezza del
pagamento e l’esistenza della provvista.

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Diversamente, invece, l’assegno circolare ha una struttura di promessa di pagamento come il pagherò
cambiario. Esso viene emesso direttamente, su richiesta del cliente, dalla banca emittente, la quale
promette di pagare una somma determinata di denaro a favore del soggetto indicato nel titolo ed è
direttamente obbligata nei confronti di quest’ultimo.
L’emissione di assegni circolari è consentita solo alle banche autorizzate dalla Banca d’Italia e solo per
somme che siano disponibili presso di esse al momento dell’emissione. Cioè significa che la banca deve
acquisire da chi richiede l’emissione del titolo la c.d. provvista, che può consistere nell’autorizzazione
all’addebito sul conto corrente del richiedente o nel versamento di contanti della somma corrispondente.
Questa circostanza rende l’assegno circolare uno strumento di pagamento di assai elevata affidabilità.
L’assegno circolare è invalido se non contiene gli elementi essenziali previsti e cioè: la denominazione di
assegno circolare; la promessa incondizionata; l’indicazione del prenditore; l’indicazione del luogo e della
data di emissione e la sottoscrizione della banca emittente.
All’assegno circolare si applicano le stesse norme previste per il pagamento dell’assegno bancario, con la
particolarità che il termine di presentazione è di trenta giorni dalla data di emissione e la prescrizione
dell’azione contro l’emittente nel termine di tre anni.

La seconda categoria di strumenti utilizzati nel trasferimento materiale di denaro contante è quella degli
strumenti di pagamento alternativi, i quali risultano accomunati dalla caratteristica della totale assenza di
traditio (forma di trasferimento del possesso con la semplice consegna del bene) di pezzi monetari tra debitore e
creditore e comprende operazioni come bonifici, addebiti diretti, pagamenti a mezzo carte.
L’operazione più diffusa è quella del bonifico. Con questa espressione si fa riferimento ad un procedimento
di trasferimento di fondi che ha luogo su iniziativa di un soggetto, titolare di un contro, che ordina il
trasferimento della disponibilità di una determinata somma dal suo conto ad un altro, interessato ad un
altro titolare o allo stesso.
Quando, invece, il trasferimento di fondi ha luogo su iniziativa del soggetto debitore anziché del creditore,
si parla di addebito diretto. La forma più conosciuta di questo strumento di pagamento è il Rapporto
Interbancario Diretto (RID), che permette l’incasso automatico dei crediti da parte di un’azienda, su
sottoscrizione da parte del correntista di un’autorizzazione alla propria banca ad accettare gli ordini di
addebito che l’azienda invia periodicamente.
Per quanto riguarda, invece, la tipologia di pagamenti mediante carta, va rilevato che ad essa vengano
ricondotte sia le carte di debito, che consentono transazioni e/o prelievi con movimentazione dei fondi
disponibili sul conto corrente; sia le carte di credito, che consentono di effettuare transazioni e/o prelievi
con regolamento sul conto rinviato ad un momento successivo.
Per quanto riguarda le carte di debito, la più importante e diffusa è il Bancomat, che consente al titolare di
un c/c bancario di prelevare presso gli sportelli automatici situati sull’intero territorio nazionale, localizzati
presso le banche anche diverse da quelle di cui il soggetto è cliente, purché aderenti alla convenzione
interbancaria istitutiva del servizio. Al servizio Bancomat si è poi affiancato il servizio Pagobancomat, che
permette di effettuare pagamenti senza utilizzare denaro contante attraverso i c.d. terminali POS (point of
sale) installati nei punti vendita. I prelievi sono consentiti solo nei limiti del saldo disponibile nel conto
intestato al titolare della carta e nel limite di un massimale di utilizzo.
Per quanto riguarda, invece, le carte di credito, esse consentono al titolare di acquistare beni e servizi non
solo senza esborso di denaro ma anche potendo differire nel tempo il pagamento e ciò in quanto l’addebito
sul conto avviene decorso un certo lasso di tempo (di solito trenta giorni).
Le carte prevedono un accordo complesso che coinvolge tre soggetti (emittente della carta, titolare della
carta ed esercente convenzionato). Tra emittente e titolare della carta sussiste un rapporto di provvista,
mentre tra emittente e fornitore di beni o servizi una convenzione, in forza della quale il fornitore si obbliga

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ad eseguire la prestazione nei confronti dell’emittente, richiestagli dal titolare della carta di credito, mentre
l’emittente si obbliga nei confronti del fornitore a pagare il corrispettivo del bene o del servizio.

Della famiglia degli strumenti alternativi di pagamento si è occupato anche il legislatore comunitario
attraverso l’emanazione della direttiva 2007/64/CE, sui servizi di pagamento nel mercato interno
(Payment Service Directive).
La disciplina PSD si applica a tutti i pagamenti in euro prestati nell’Unione europea, senza distinzione tra
pagamenti domestici (nazionali) e transfrontalieri e senza limitazione di importo.
In relazione all’ambito soggettivo, la nuova disciplina in materia di servizi di pagamento si applica alle
banche, agli istituti di moneta elettronica, agli istituti di pagamento e a Poste Italiane spa. Inoltre, si applica
anche ai rapporti intrattenuti con i clienti, in maniera differente, siano essi consumatori, micro-imprese o
grandi imprese.
Con la PSD si è scelto poi di dettare una disciplina a carattere trasversale delle operazioni di pagamento,
non differenziata cioè secondo lo specifico tipo di operazione considerato. Il legislatore ha introdotto regole
diversificate a due categorie di operazioni, distinte secondo il soggetto che avvia l’operazione: operazioni su
iniziativa del pagatore e operazioni su iniziativa del beneficiario. Alla prima categoria appartengono i
bonifici di varia tipologia, RiBa, bollettini precompilato; alla seconda categoria appartengono, invece, gli
addebiti diretti e le operazioni realizzate essenzialmente mediante carte di pagamento.

Come tutti i fatti umani, anche l’attività di impresa ha un inizio e una fine e delle fasi di crescita e di declino.
L’attività di impresa può essere esercitata da un ente impersonale la cui esistenza resta indifferente alle
vicende personale delle persone fisiche che vi hanno partecipato, o può proseguire avvalendosi dello stesso
complesso aziendale, in capo ad un successivo acquirente dell’azienda stessa.
Può anche accadere, inoltre, che l’attività di impresa cessi proprio in relazione alle vicende biologiche o alla
volontà di chi la esercita; è questo il caso di morte dell’imprenditore se nessuno rileva e prosegue l’impresa
cessata; o quando questo decide di smettere liberamente la sua attività, come il caso in cui la società che
ne è titolare deliberi di sciogliersi, liquidando il suo patrimonio e cessando ogni attività.
Queste sono vicende che non destano particolare allarme e non richiedono uno specifico intervento del
legislatore, se non per regolare alcuni passaggi.
Vi sono però dei casi in cui l’attività di impresa è costretta a cessare per ragioni intrinseche al suo
andamento, in quanto venga meno, o non sia raggiunta, la sua capacità di recuperare i costi di produzione
con i ricavi, ossia l’economicità che è uno dei requisiti che costituiscono l’impresa e che ne orienta e ne
giustifica l’esercizio. In questi casi, nonostante lo svolgimento dell’attività sia stato programmato secondo
un metodo economico, capita che in realtà un’impresa, anziché produrre ricchezza, disperde valore,
costando più di quel che produce.
Tale squilibrio finanziario può risalire a cause industriali o finanziarie. In ogni caso, se questo accade,
l’imprenditore che si è indebitato per l’esercizio della sua attività non è più in grado di far fronte alle sue
obbligazioni e tale situazione viene descritta dall’art. 5 del decreto 267/1942 (c.d. legge fallimentare) come
insolvenza; oppure, pur essendo ancora in grado, vede che è in corso una fase di declino, o crisi, che lascia
immaginare come imminente uno stato di insolvenza.
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L’impresa dissestata, allora, o è costretta ad interrompersi, con il problema di come regolare i debiti insoluti
con un valore insufficiente che è quello del patrimonio residuo del debitore; o facendo leva su tale valore, si
potrà tentare una soluzione per risanarsi e rilanciarsi. Tale soluzione può anche consistere nella
separazione dell’impresa stessa dall’imprenditore indebitato e nella sua prosecuzione da parte di un nuovo
titolare che rileva l’azienda.

Quando lo stato di insolvenza coinvolge un’impresa commerciale, allora si fa riferimento, per la sua
regolazione, al diritto fallimentare.
Si tratta di regole diverse ed autonome dal diritto comune e le ragioni di tale specialità risultano
dall’esigenza di una disciplina ad hoc per regolare l’insolvenza dell’imprenditore commerciale che trae
origine soprattutto dalla particolare complessità di tale insolvenza, infatti risulta ampia ed articolata la
regolazione dei rapporti obbligatori che ne derivano.
Si rende perciò opportuna una procedura unitaria che consente un’attuazione coattiva e simultanea di tutti
i debiti insoluti. E’ opportuna non solo perché è più efficiente ed economica rispetto all’alternativa di una
pluralità di azioni individuali, ma anche più equa poiché opera a favore di tutti.
In questa prospettiva la procedura esecutiva diventa collettiva ed universale, in quanto riguarda tutti i
debiti dell’imprenditore e coinvolge il suo intero patrimonio.
In questo caso si apre un concorso sul patrimonio del fallito da parte di tutti i creditori, tale per cui tutti
meritano di essere soddisfatti in eguale proporzione, secondo il principio della c.d. par condicio creditorum
(o proporzionalità), salvi i casi in cui un creditore riesca ad avvalersi di determinate ragioni di preferenza; se
più creditori si trovassero in tale posizione, si tornerà ad operare secondo il principio della par condicio.
Questo è un criterio a cui diventa indispensabile ricorrere dal momento che il patrimonio dell’imprenditore
insolvente risulta quasi sempre insufficiente a soddisfare per intero i creditori, che finiscono per essere le
vere vittime dell’insolvenza del debitore, poiché sono proprio loro a sopportare le perdite dell’impresa.
Tra le ragioni che separano il diritto fallimentare da quello comune, vi è anche la considerazione che
l’insolvenza che esso regola, oltre ad essere più complessa di quella di chi non svolge un’attività di impresa,
è anche di maggior allarme sociale, in quanto è capace di provocare, in una sorta di effetto domino,
ulteriori dissesti imprenditoriali, trascinando nell’insolvenza anche le controparti commerciali che, avendo
fatto credito all’imprenditore poi divenuto insolvente, non riescono più a recuperare quanto prestato col
rischio di veder danneggiata anche la loro reputazione e la loro affidabilità nel sistema imprenditoriale.

L’attuale destinatario della disciplina fallimentare è l’imprenditore commerciale non piccolo.


Però non si può escludere che essa potrebbe applicarsi anche allo stato di insolvenza riferibile ad altre
figure di debitore (c.d. debitori civili) ossia quelli che esercitano un’attività professionale finalizzata alla
produzione di beni e servizi anche se non qualificabile come “impresa commerciale non piccola”; questo è il
caso degli imprenditori agricoli, dei piccoli imprenditori, dei lavoratori autonomi e dei professionisti
intellettuali.
Ovviamente questo non deve trascurare il fatto che tra le condizioni di applicabilità dell’attuale disciplina
fallimentare operi come presupposto soggettivo la qualifica di imprenditore commerciale non piccolo del
debitore insolvente.
Eppure vi è un’apposita disciplina dell’insolvenza del debitore civile diretta a regolare, appunto, qualsiasi
debitore. Questa esigenza è stata avvertita per il fatto che anche il c.d. debitore civile ricorre al credito
secondo le modalità che possono generare fatti non diversi da quelli che richiedono l’applicazione del
diritto fallimentare. Così, anche nel nostro ordinamento, affianco alla legge fallimentare, è comparsa una
particolare procedura volta alla “composizione del sovraindebitamento” o alla “liquidazione del patrimonio”
di coloro che non sono assoggettati alle procedure concorsuali prevista dalla legge fallimentare.

La c.d. legge fallimentare non prevede soltanto la disciplina del fallimento, ma anche altre due procedure
concorsuali: il concordato preventivo e la liquidazione coatta amministrativa.
Ma il nostro ordinamento contempla anche un’altra importante procedura concorsuale denominata
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amministrazione straordinaria delle grandi imprese in caso di insolvenza.
Vi sono, quindi, una pluralità di procedure che, pur essendo al pari del fallimento, risultano ad esso
alternative. La spiegazione del perché siano previste più procedure per regolare un fenomeno che può
considerarsi unico, può ritrovarsi in tre chiavi di lettura.

Una prima chiave di lettura va individuata in un accordo tra debitore e creditori. Tali soluzioni negoziate
della crisi d’impresa – che possono essere intraprese prima ancora che l’impresa giunga in stato di
fallimento, ma che possono comunque avere senso quando si è giunti ad uno stato di insolvenza vera e
propria – possono offrire il vantaggio di conseguire risultati più proficui di un fallimento.
Una accordo può infatti consentire al debitore di sfuggire agli effetti più indesiderati del fallimento (sia in
termini di sanzioni personali che di spossessamento del suo patrimonio), ma può consentire anche ai
creditori di ottenere, grazie all’impegno dell’imprenditore, una soddisfazione che, seppur non integrale, è
comunque maggiore rispetto a quella che potrebbero ricavare dall’esito di un fallimento. Naturalmente, a
fronte della soddisfazione che gli viene promessa, i creditori accettano di rinunciare a parte delle loro
pretese.
Queste soluzioni, avendo natura consensuale, si riferiscono ad una prospettiva puramente privatistica, in
cui ogni singolo creditore decide liberamente per sé, non producendosi alcun tipo di concorsualità.
Dove però si viene a formare il diritto concorsuale, è oggetto di una procedura giudiziaria capace di
conferirgli, a certe condizioni, una portata e degli effetti che, da soli non avrebbero mai potuto raggiungere
(c.d. effetti legali). Così la possibilità che le condizioni previste nell’accordo raggiunto dal debitore con i
titolari della maggioranza dei crediti si estendano e si impongano anche quelle degli altri creditori che non
vi hanno aderito.
In questo modo, grazie all’incentivo degli ulteriori effetti legali di natura protettiva, le soluzioni della crisi
d’impresa possono essere effettivamente realizzate anche a dispetto del dissenso di una minoranza di
creditori. Fra gli effetti legali protettivi operano (oltre alla sottrazione del fallito alle afflizioni personali),
anche la sottrazione ad iniziative cautelari ed esecutive, e la conservazione della disponibilità del proprio
patrimonio e dell’amministrazione della propria impresa.
A questi percorsi appartiene la procedura del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione.
Inoltre si considerano anche le soluzioni concordatarie praticabili all’interno delle procedure di
liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria, oltre che all’interno della stessa
procedura fallimentare (c.d. concordato fallimentare).

La seconda chiave, invece, deriva dal fatto che sempre più, nel diritto concorsuale moderno, alla
tradizionale vocazione liquidatoria tipica del fallimento, si è affiancata una nuova sensibilità legislativa
orientata a comporre l’insolvenza prodottasi o a prevenire un’insolvenza non ancora prodottasi,
salvaguardando il complesso produttivo dell’impresa in crisi.
In questo modo si può consentire all’imprenditore di restare alla guida della sua impresa o di cederla a terzi
ma con il vantaggio di uscirne in modo più utile ed onorevole.
Il risanamento o la cessione dell’azienda, può consentire, infatti, un risultato più soddisfacente delle
smembramento dello stesso e della successiva liquidazione dei singoli cespiti che lo compongono. Questa
maggiore utilità sarà apprezzabile non solo dal punto di vista del debitore, ma anche per i creditori, che con
la prosecuzione dell’impresa risanata potranno beneficiare di nuovi flussi finanziari capaci di ripagarli
meglio di quanto si sarebbe potuto sperare per effetto della liquidazione.
In questa prospettiva di salvataggio del complesso produttivo delle grandi imprese e del mantenimento dei
relativi livelli occupazionali, trova giustificazione la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi
imprese in stato di insolvenza.
Anche il concordato preventivo, però, si presta al risanamento di un’impresa insolvente o alla prevenzione
dell’insolvenza di un’impresa in crisi.
Persino all’interno della stessa procedura fallimentare non mancano delle opzioni in grado di assecondare

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la salvaguardia del complesso produttivo e dei livelli occupazionali. Si tratta di opzioni che incoraggiano
l’affitto e poi la cessione a terzi dell’azienda in blocca, o di suoi rami, o anche una prosecuzione dell’attività
di impresa da parte degli stessi organi della procedura al fine di preservarne l’avviamento e mantenere
integro il valore di mercato dell’azienda, in attesa di poterlo monetizzare mediante una cessione a terzi.

Una terza chiave, infine, considera la componente amministrativa che, per alcune procedure, si
giustappone a quella giudiziaria, anche mettendola da parte.
Il fallimento e il concordato preventivo si sono sempre svolte sotto il presidio e la vigilanza dell’autorità
giudiziaria, che è l’unica autorità pubblica coinvolta. Ovviamente vi sono anche momenti in cui anche il
giudice è chiamato dalla legge ad operare valutazioni e ad assumere decisioni discrezionali che risultano
essere perlopiù di natura amministrativa (come la scelta di proseguire o meno l’impresa fallita subito dopo
la dichiarazione di fallimento). Questo però non toglie che l’autorità giudiziaria operi all’interno di tali
procedure soprattutto nell’esercizio della propria funzione giurisdizionale senza la discrezionalità della
pubblica amministrazione, aprendo quelle procedure ogni volta che si noti la sussistenza dei presupposti
previsti dalla legge e poi risolvendo le eventuali controversie insorte e garantendo l’attuazione coattiva dei
diritti.
Quindi l’autorità giudiziaria si limita allo ius dicere, restando disinteressata all’esito della procedura o alle
scelte discrezionali che risultano devolute agli altri organi che compongono l’apparato della procedura, se
non addirittura lasciate all’autonomia privata. Al giudice interessa soltanto che la procedura venga svolta
secondo il percorso e le finalità previste dalla legge.
Questa dovrebbe essere la regola, ma nel nostro sistema operano, invece, altre due procedure oltre al
fallimento e al concordato preventivo che sono la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza che sono accomunate dal fatto di risultare gestite
da un apparato al cui interno il ruolo principale è affidato all’autorità amministrativa, pur non restando del
tutto escluso l’intervento dell’autorità giudiziaria.
Il fallimento e il concordato preventivo, infatti, dovrebbero essere le procedure concorsuali principali
all’interno di un sistema del genere. Tuttavia, nel nostro ordinamento concorsuale, la maggior parte delle
imprese più importanti – per tipo di attività svolta e fatturato – risultano in caso di crisi, assoggettate alle
procedure amministrate.

Secondo quanto chiarito dall’art. 1, l. fall., le procedure concorsuali si applicano all’imprenditore che
esercita un’attività commerciale, le cui dimensioni dell’azienda consentono di qualificarlo come non
piccolo e che sia privato, esclusi cioè gli enti pubblici.
Tali requisiti sono definiti come presupposti soggettivi del fallimento e la loro sussistenza è una condizione
necessaria perché possa aprirsi una procedura fallimentare, ma non sufficiente.
Perché possa definirsi fallimento, la legge richiede la sussistenza anche di un’altra condizione, e cioè lo
stato di insolvenza. Infatti, secondo l’art. 5 l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato
fallito.

Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il
debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.
Da questa norma emergono due profili del presupposto oggettivo del fallimento: quello intrinseco, legato
alla condizione di obbiettiva impotenza finanziaria e quello estrinseco legato a fattori esteriori che la

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manifestano.
Innanzitutto deve rilevarsi che l’incapacità ad adempiere alle proprie obbligazioni rappresenta una
situazione pregiudizievole non solo per i creditori, ma per tutti coloro che vantino un credito nei confronti
dell’imprenditore. Inoltre è anche allarmante per l’intero mercato e cioè per chi, pur senza esserlo ancora,
potrebbe divenire creditore dell’imprenditore già insolvente.
A tutela di questi e della par condicio creditorum occorre che la gestione dell’impresa e l’amministrazione
del patrimonio del debitore vengano sottratte all’imprenditore addebitato (c.d. spossessamento),
recuperando solo quanto fuoriuscito da tale patrimonio nel fallimento.
L’incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni viene riconosciuta dalla legge come
rilevante nella sua obiettività, cioè a prescindere dalle eventuali responsabilità del debitore o dalle cause
che hanno determinato il dissesto. Non importa neanche il numero dei creditori e il numero di obbligazioni
che gravano sull’imprenditore o il loro ammontare o il fatto che siano già scadute oppure no.
Nell’individuare la fattispecie di fallimento occorre tenere in considerazione anche un’altra norma ossia
l’art. 15, co. 9, secondo il quale “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti
scaduti e non pagati risultanti dagli atti di istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a
trentamila euro”.
La condizione prevista dalla legge che fa riferimento all’incapacità ad adempiere regolarmente alle proprie
obbligazioni consente anche di comprendere il rapporto tra insolvenza e inadempimento.
Dal requisito della regolarità deriva che potrebbe esservi un’incapacità ad adempiere “regolarmente” anche
quando non sussisti ancora alcun inadempimento. La regolarità dei pagamenti riguarda infatti non solo
l’integralità e la puntualità dei singoli adempimenti, ma anche le modalità attraverso cui li si effettua o ci si
procura il denaro necessario.
Inoltre, anche se la situazione di insolvenza si rileva nella sua attualità (e quindi solo se è temuta come
imminente), è pur vero che l’irregolarità degli adempimenti già rileva l’insolvenza proprio perché lascia
prevedere che a breve il debitore non potrà più adempiere, neanche irregolarmente. Questo costituisce un
pericolo attuale per i creditori dell’impresa.
Inoltre il concetto di capacità esprime una mera potenzialità e quindi esprime anche la condizione di chi sia
in grado di adempiere perché ha i mezzi per farlo, a prescindere dal fatto che poi, in concreto, si astenga dal
farlo. Potrebbe esservi così la capacità ad adempiere regolarmente pur in presenza di uno o più
inadempimenti. Questi potrebbero dipendere da ragioni diverse dall’incapacità finanziaria del debitore, ad
esempio quando quest’ultimo si rifiuta ad adempiere perché contesta la pretesa del creditore.
Per quanto riguarda il profilo estrinseco dell’insolvenza, l’art. 5 prevede che l’incapacità ad adempiere
regolarmente alle proprie obbligazioni deve manifestarsi con inadempimenti o con altri fatti esteriori.

Il fallimento è dichiarato da un tribunale civile per iniziativa privata o pubblica.


E’ privata l’iniziativa di uno o più creditori. A questo fine il creditore (o creditori) faranno ricorso al
tribunale dovendo legittimarsi provando la propria qualità di creditori. Essi dovranno quindi provare
l’esistenza di un credito, anche se non necessariamente liquido o scaduto e neppure superiore
all’ammontare minimo previsto dalla legge per aprire la procedura (trentamila euro); resta discusso solo se
il credito possa essere solo condizionato.
Il creditore procedente dovrà poi allegare la sussistenza dei presupposti del fallimento, eventualmente
offrendo dei mezzi di prova come supporto.
Può anche essere lo stesso debitore, sempre con ricorso, a chiedere di essere dichiarato fallito (c.d.
autofallimento).
L’iniziativa pubblica, invece, è affidata alla richiesta, sempre rivolta al tribunale competente, di un pubblico
ministero al quale risulti l’insolvenza di un’impresa fallibile.
Il procedimento, sempre se non si concluda con la rinuncia agli atti del creditore procedente (c.d. istanza di

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desistenza) e quindi con un possibile decreto di archiviazione prima di ogni pronuncia, si conclude con una
sentenza dichiarativa di fallimento o con un decreto di rigetto.
La sentenza dichiarativa di fallimento, necessariamente motivata, ha natura di accertamento costitutivo
dello stato di fallimento, derivandone tutti gli effetti connessi all’apertura della procedura fallimentare. Tali
effetti si producono nei confronti delle parti dopo che essa sia stata notificata o comunicata ad esse, e nei
confronti dei terzi dopo la sua iscrizione nel registro delle imprese.
La sentenza, inoltre, conterrà ulteriori provvedimenti di natura ordinatoria per la prosecuzione della
procedura stessa: si nominano alcuni organi della procedura (il giudice delegato e il curatore), si ordina al
fallito il deposito della documentazione relativa alla sua situazione economica e finanziaria e si stabiliscono
i termini entro i quali dovrà tenersi l’adunanza per l’esame dello stato passivo (e cioè il complesso delle
pretese che saranno avanzate da chi affermi di vantare crediti o diritti su cose in possesso del fallito).
Il procedimento per la dichiarazione di fallimento potrebbe anche concludersi con un decreto di rigetto,
fondato sull’accertata insussistenza dei presupposti del fallimento, o della soglia minima dei trentamila
euro di debiti scaduti o della stessa qualità di creditore di chi avesse proposto ricorso.

E’ innanzitutto il tribunale che apre il procedimento dichiarando il fallimento e resta poi investito dell’intera
procedura (art. 24). Il tribunale non solo nomina altri due organi ossia il giudice delegato e il curatore, ma
può anche, sorvegliando lo svolgersi della procedura, revocarli o sostituirli per giusta causa. Per svolgere
tale sorveglianza, il tribunale oltre ad avere un rapporto diretto con il giudice delegato, può anche sentire
gli altri organi fallimentari e lo stesso fallito.

Il tribunale, inoltre, ha il potere di decidere tutte le controversie relative alla procedura che non siano di
competenza del giudice delegato: quelle “interne” ad essa (ad es. i reclami contro i provvedimenti del giudice
delegato o la revoca del curatore), ma anche quelle “esterne” ossia tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne
sia il valore, comprese quelle immobiliari.
Le cause che derivano dal fallimento sono tutte quelle che in assenza della procedura fallimentare
potrebbero essere di competenza di altri giudici ma che, per il fatto di derivare dal fallimento, determinano
una competenza inderogabile al tribunale fallimentare. Queste riguardano tutte quelle cause che, anche se
si riferiscono a rapporti preesistenti al fallimento, non avrebbero avuto ragione di esistere in assenza del
fallimento, come l’azione revocatoria fallimentare, o le controversie in cui si discute se la procedura
fallimentare ha prodotto lo scioglimento o no di un certo contratto. Non sono cause di fallimento, invece,
quelle che il fallito avrebbe potuto proporre per suo conto, anche a prescindere dal fallimento e cioè
l’azione per ottenere il pagamento di una fornitura effettuata o il risarcimento per un illecito subito.

Il giudice delegato assume le decisioni attraverso cui svolge il suo ruolo centrale per la procedura
attraverso un decreto. Egli non dirige la procedura ma vigila e controlla la sua regolarità (art. 25). Inoltre, il
suo rapporto con il tribunale è molto stretto e si instaura quando quest’ultimo nomina il giudice delegato
scegliendolo al suo interno, e si sviluppa nel continuo rapporto tra questo e il collegio, al quale dovrà
riferire su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio e sulle quali quest’ultimo è
chiamato a decidere.

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Il curatore è nominato dal tribunale tra soggetti muniti di particolari requisiti di professionalità, esperienza
ed indipendenza, ed è l’organo, investito della qualità di pubblico ufficiale, che operativamente si fa carico
di attuare la finalità della procedura.
Egli ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura (art.31).
Egli pertanto è legittimato a compiere atti negoziali con terzi (ad es. contratti di affitto dell’azienda, o vendendo beni
dell’asse fallimentare) e a stare in giudizio per conto della procedura. Nell’esercitare questo potere il curatore è
sostanzialmente autonomo, infatti i suoi atti possono costituire oggetto di reclamo solo dal punto di vista
dell’eventuale violazione di legge.
La sua legittimazione risulta condizionata da autorizzazioni: sono autorizzazioni del giudice delegato (come
quella a continuare l’esercizio dell’impresa o ad affittare l’azienda) o di quelle del comitato dei creditori per gli atti di
straordinaria amministrazione, cioè tutti quegli atti che, per la loro rischiosità o il loro impatto, sono capaci
di condizionare gli esiti della procedura. Inoltre, delle transazioni e degli atti eccedenti i cinquantamila euro,
dovrà darsi notizia al giudice delegato.
Se poi si tratta di atti che attuano l’azione liquidatoria pianificata ex ante in un programma di liquidazione,
questo dovrà essere approvato dai creditori e comunicato al giudice delegato, che autorizzerà il
compimento degli atti ad esso conformi.
Poco dopo l’inizio della sua attività, il curatore dovrà presentare al giudice delegato una relazione
particolareggiata sulle cause e sulle circostanze del fallimento e sulla condotta e le eventuali responsabilità,
anche penali, del fallito; dopodiché ogni sei mesi deve presentare un rapporto riepilogativo delle attività
svolte.
Infine, all’esito del suo mandato, renderà il conto della gestione con il quale potrà liberarsi della
responsabilità. Se invece, dopo il rendiconto o durante la procedura gli venisse contestato di non aver
adempiuto ai suoi doveri con la diligenza professionale, allora potrà essere revocato e subire un’azione di
responsabilità.

I poteri di gestione del curatore vengono compartecipati dal comitato dei creditori.
Questo, infatti, è chiamato a condividere le iniziative del curatore, spesso autorizzandole o limitandosi ad
esprimere un mero parere non vincolante.
La condivisione delle scelte che possono rivelarsi anche strategiche, rende opportuno che il comitato dei
creditori venga composto da creditori scelti dal giudice delegato, dopo aver consultato il curatore e i
creditori, in modo da rappresentare in maniera equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo
alla possibilità di soddisfarli.
Per orientare meglio le proprie scelte, il comitato ha ampi poteri ispettivi (su tutta la documentazione della
procedura) ed informativi (chiedendo notizie al curatore e al fallito), decidendo poi, anche informalmente e con
voto espresso a distanza a maggioranza dei votanti.
Anche contro tali decisioni è ammesso reclamo al giudice delegato da parte del fallito o di ogni altro
interessato, per violazione di legge. Poi il giudice deciderà attraverso decreto motivato, a sua volta
reclamabile al tribunale.

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Lo spossessamento è la sentenza che dichiara il fallimento e che priva il fallito di amministrare e disporre
dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione del fallimento (art. 42): per beni si intende ogni situazione
giuridica attiva, anche processuale, di cui il fallito è titolare.
Da questo momento (dichiarazione della sentenza ed iscrizione nel registro delle imprese) e per tutta la
durata della procedura, tali poteri spetteranno al curatore, per destinare il patrimonio del fallito alla
soddisfazione dei creditori, dando così attuazione al principio della responsabilità patrimoniale che
comporta che il debitore risponda non solo con i suoi beni presenti, ma anche con quelli futuri, poiché
saranno compresi anche i beni che pervengono al fallito durante la procedura (ad es. un’eredità o il denaro
guadagnato per mezzo di attività lavorativa o anche una vincita al gioco. Non sono, invece, da considerarsi pervenuti i beni
preesistenti ma occultati dal debitore e rinvenuti poi durante la procedura).
Lo spossessamento si caratterizza per la relatività della sua efficacia. Esso, infatti, opera solo a beneficio
dei creditori e non riguarda necessariamente tutti i beni del fallito. Soprattutto, per quanto riguarda i beni
appresi dalla massa, incide solo sulla legittimazione del fallito ad amministrare i beni o a disporne, ma non
sulla titolarità dei relativi diritti che rimane immutata almeno fino a quando essi non escano dal patrimonio
per essere stati ceduti a terzi. Se però all’esito della procedura, tale cessione non avviene, il fallito non solo
sarebbe ancora titolare dei diritti sui beni residui, ma recupererebbe anche la piena legittimazione a
disporne. Lo spossessamento è un effetto temporaneo, che dura finché resta aperta la procedura.

Perdere la legittimazione a disporre di beni appresi alla procedura significa solo che, finché essa dura,
nessuna iniziativa del fallito può distogliere quei beni dalla finalità di soddisfare i creditori, rispetto ai quali,
ogni iniziativa del fallito resterà del tutto inefficace. Si parla, appunto, di inefficacia relativa. Infatti, siccome
il fallito, per effetto dello spossessamento non perde né la titolarità dei suoi beni, né la capacità di agire,
ogni atto da lui compiuto durante la procedura sarebbe valido e produrrebbe i suoi effetti nei confronti dei
terzi, ed eccezione dei creditori concorsuali, rispetto ai quali quell’atto non modifica la consistenza del
patrimonio fallimentare destinato ad essere liquidato a loro soddisfazione (ad es. se il fallito, con regolare atto di
vendita iscritto nei registri immobiliari, alienasse un bene immobile compreso nel patrimonio fallimentare, ciò sarebbe totalmente
inefficace per la procedura e il curatore potrebbe vendere quell’immobile e destinare il ricavato ai creditori concorsuali. Ciò, però,
non impedirebbe che il terzo che abbia acquistato dal fallito, invocando la validità dell’atto compiuto, potrebbe, fuori dalla
procedura, agire contro l’alienante per l’evizione subita) .
Quindi il significato della regola che costituisce il corollario dello spossessamento è che tutti gli atti
compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori. Questa regola
si estende anche ai pagamenti eseguiti e ricevuti dal fallito, così se il fallito utilizzasse attività occultate alla
procedura per pagare alcuni creditori concorsuali non solo compirebbe un reato (c.d. bancarotta
preferenziale) ma metterebbe colui che avesse ricevuto il pagamento nella condizione di dover riversare
alla procedura quanto ottenuto. Se invece un debitore del fallito effettuasse un pagamento direttamente a
quest’ultimo, ciò non lo libererebbe dal debito, ma lo costringerebbe a pagare nuovamente alla procedura,
salvo che non sia lo stesso fallito a rimettere il pagamento ottenuto nelle mani del curatore.

Sul piano processuale, come è spossessato dal suo patrimonio, allo stesso modo viene spossessato di tutte
le controversie relative a rapporti patrimoniali che lo riguardano. Egli non potrà partecipare al processo
ma verrà sostituito dal curatore che assume la veste di sostituto processuale in rappresentanza del fallito.
Gli effetti della dichiarazione di fallimento per il fallito oltre che patrimoniali, possono essere anche
personali, che possono essere individuati in due diritti garantiti dalla costituzione: la segretezza epistolare
(scritti che contengono informazioni di carattere confidenziale e personale, inerenti all’intimità della vita privata ) e la libertà di
circolazione.

Come abbiamo visto, la finalità del fallimento è quella di soddisfare le obbligazioni assunte nei confronti dei
creditori concorsuali, chiamati in tal modo in quanto l’apertura della procedura farà sì che l’accertamento e
la soddisfazione delle rispettive pretese dovrà avvenire collettivamente, anche al fine di rispettare la regola
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della par condicio e quindi concorsualmente
Dall’apertura del fallimento, pertanto, tali creditori non potranno più agire individualmente, in quanto ne
deriverebbe che, chi per primo si fosse attivato aggredendo il patrimonio del debitore, vedrebbe
soddisfatto interamente il suo credito anche nel caso in cui il patrimonio del debitore non bastasse poi a
soddisfare più gli altri creditori. Però si è osservato che il diritto fallimentare ha cercato di porvi rimedio
affermando il principio della proporzionalità, assicurando così una regolazione concorsuale di tutti i crediti
(universalità soggettiva) su tutto il patrimonio del debitore (universalità oggettiva) all’interno della
procedura.
Tuttavia, il principio della par condicio, nel fallimento, opera solo fra creditori di pari rango e deve
convivere con il contrastante principio di preferenza, che consiste che fra i creditori concorsuali potrebbero
esservene alcuni muniti di legittime cause di prelazione (privilegio, pegno, ipoteca). Questi sono perciò
anche detti “privilegiati” poiché meriteranno di essere soddisfatti con precedenza rispetto agli altri
creditori, detti invece “chirografari”. Vi sono tanti casi in cui il principio di preferenza prevale su quello di
proporzionalità. Tra i chirografari, inoltre, possono esservi anche altri creditori, detti subordinati o
postergati, che potranno essere soddisfatti soltanto dopo tutti gli altri chirografari.
Inoltre, anche se la finalità principale del fallimento è quella di soddisfare tutti i creditori concorsuali, vi
sono anche altri due tipi di pretese di cui essa dovrà tener conto: si tratta, innanzitutto, delle pretese aventi
ad oggetto diritti, reali o personali, su beni i quali si escludono dalla massa attiva destinata alla regolazione
concorsuale dei crediti. Chi vanta di tali pretese, quindi, chiederà che questi beni vengano separati dalla
massa attiva per essergli attribuiti in quanto è l’unico avente diritto, che viene così soddisfatto
integralmente e non concorsualmente (ad es. il proprietario di un bene che giace, magari per una riparazione, nel
magazzino dell’impresa fallita, potrà rivendicare tale bene facendo valere la titolarità di un diritto reale su cosa, che gli spetta per
intero senza essere destinata alla liquidazione concorsuale).
Benché, poi, i crediti sorti dopo il fallimento restano del tutto estranei alla procedura, possono esservene
altri dei quali invece la massa dovrà farsi carico per legge o per scelta degli organi concorsuali (ad es. si pensi a
quanto occorra per pagare il compenso del curatore; o alle obbligazioni assunte dalla curatela per proseguire l’esercizio
dell’impresa; o per far fonte all’acquisto di beni sopravvenuti, come un eredità accettata). In questi casi, non si tratta di
debiti concorsuali ma di debiti della massa, cioè di debiti che gli organi della procedura hanno
dovuto/voluto assumere e che dovranno quindi essere pagati per intero e prima degli altri crediti, ossia in
prededuzione e quindi non concorsualmente.
Anche per questi crediti e per le altre pretese su beni di cui si chiede la separazione dalla massa, è previsto
che il relativo accertamento e la loro regolazione avvenga all’interno della procedura e secondo le regole da
essa imposte.
Tali principi, trovano espressione in due regole fondamentali poste dagli art. 51 e 52.

i. Il primo prevede il c.d. blocco delle azioni esecutive e cautelari (individuali): cioè dal giorno della
dichiarazione di fallimento nessun azione individuale esecutiva o cautelare, anche per i crediti
maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita nei confronti di questo.
ii. Inoltre, ogni credito e ogni altro diritto reale o personale, dovrà essere accertato secondo le norme
stabilite, cioè ogni pretesa avanzata nei confronti della procedura dovrà essere verificata secondo
le norme tipiche della procedura fallimentare, in tema di accertamento del passivo e dei diritti
mobiliari dei terzi.

Le domande dei creditori cautelari circa il soddisfacimento dei loro crediti, una volta verificate, andranno a
formare la c.d. massa passiva (cioè dei debiti fallimentari), facendo divenire i creditori concorsuali dei versi
e propri creditori concorrenti sulla c.d. massa attiva, cioè nella ripartizione dell’attivo fallimentare.
Per realizzare questa finalità è necessario che la massa attiva e la massa passiva siano omogenee e
stabilmente definite.
L’omogeneità sarà assicurata dal rendere entrambe le masse misurabili in denaro.
La stabilizzazione, invece, verrà assicurata da un lato impedendo che dalla massa attiva possono essere
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integrati valori al di fuori delle regole della procedura e dell’iniziativa dei suoi organi, e dall’altro
attribuendo un valore nominale fermo ai crediti concorsuali, cioè senza che il trascorrere del tempo, e
quindi il maturare degli interessi, possa variarne la consistenza. In questo caso si parla anche di
cristallizzazione del patrimonio fallimentare.
Tali esigenze sono disciplinate dagli art. 59 e 55.
Il primo si occupa dei crediti non pecuniari e cioè che hanno ad oggetto una prestazione diversa dal denaro
(ad es. un terzo che attendeva la fornitura di merce) o anche in una prestazione in denaro ma determinata con
riferimento ad altri valori (ad es. una fattura da regolarsi in dollari). Tali crediti, detti di valore, se non sono ancora
scaduti, concorreranno secondo il loro valore alla data della dichiarazione del fallimento; mentre, se
scaduti, concorreranno secondo il valore che la prestazione avrebbe avuto alla data di scadenza, aumentato
magari dal valore del risarcimento per il ritardo.
Essi si considereranno scaduti agli effetti del concorso.
Quando si tratta, invece, di crediti pecuniari, le esigenze di stabilizzazione troveranno risposta soprattutto
impedendo che su di essi possano essere conteggiati interessi ulteriori rispetto a quelli già maturati alla
data del fallimento. Essi così verranno ammessi per il loro valore attuale e dal quel momento in poi il corso
degli interessi sarà sospeso agli effetti del concorso, cioè che tali ulteriori interessi non potranno essere fatti
valere nella procedura, ma nei confronti del fallito dopo la chiusura della procedura stessa.

In ultimo, va ricordata un’importante eccezione al principio della par condicio, e cioè quella che consente ai
creditore di compensare i propri crediti con i debiti eventualmente assunti verso il fallito, anche se non
scaduti.
L’eccezione sta nel fatto che, mentre gli altri creditori concorsuali vengono soddisfatti solo in parte all’esito
del fallimento, chi può liberarsi di un debito compensandolo con un proprio credito, consegue un risultato
equivalente all’integrale soddisfazione del credito. Per impedire, quindi, che tale vantaggio sia perseguito
strumentalmente, la legge impedisce che la compensazione operi se il credito è stato acquistato per atto tra
vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore.

Fra le conseguenze che la legge ricollega all’apertura della procedura fallimentare vi è la possibilità di
eliminare gli effetti di alcuni atti giuridici che, prima del fallimento, ma quando l’insolvenza si era già
verificata, hanno inciso negativamente sulla garanzia patrimoniale che si offre ai creditori concorsuali nel
momento in cui si apre la procedura. Quindi bisogna reintegrare tale garanzia riportandola alla maggiore
consistenza che aveva nel periodo precedente al fallimento.
Anche nel caso di atti posti in essere prima del fallimento, occorre affermare la loro inefficacia rispetto ai
creditori, quindi non la loro invalidità inter partes, ma la possibilità di recuperare quanto fuoriuscito dal
patrimonio del debitore per effetto di quegli atti, per poi sottoporlo all’esecuzione fallimentare o alla c.d.
revocatoria incidentale, cioè di disconoscere ogni pretesa sorta in capo a terzi per effetto di tali atti.
Un meccanismo di reintegrazione della garanzia patrimoniale del debitore è già contemplato dal nostro
ordinamento sotto il nome di azione revocatoria ordinaria. Questo è uno strumento che consente ad un
creditore di far dichiarare inefficaci nei suoi confronti gli atti con i quali il debitore ha recato pregiudizio alle
sue ragioni, in modo che questo, ottenuta la dichiarazione di inefficacia dal giudice, possa agire
esecutivamente sul bene oggetto dell’atto impugnato, come se questo non fosse mai stato sottratto alla
sua garanzia patrimoniale. L’esercizio di tale azione è prevista dalla stessa legge fallimentare rimettendola
ala sola iniziativa del curatore e a beneficio di tutti i creditori concorsuali. I presupposti di tale azione,
l’onere probatorio e l’ambito degli atti revocabili, comportano però dei limiti alla possibilità di

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reintegrazione della garanzia patrimoniale che la legge ha voluto attenuare con riferimento al caso in cui il
debitore è un imprenditore fallito, prevedendo un regime ad hoc più favorevole.

Vi sono innanzitutto degli atti compiuti dall’imprenditore prima del suo fallimento la cui inefficacia rispetto
ai creditori opera di diritto. Ciò vuol dire che il provvedimento con il quale il tribunale fallimentare afferma
tale inefficacia, avrà natura meramente dichiarativa, accertando un effetto che si è già prodotto con
l’apertura del fallimento.

i. Sono inefficaci di diritto, gli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla
dichiarazione di fallimento (art. 64). Questi sono: gli atti traslativi (come la donazione), gli atti di
destinazione (come un fondo patrimoniale) o gli atti di rinunzia ad un diritto o di remissione del debito.
ii. Allo stesso regime sono sottoposti i pagamenti anticipati, sempre se compiuti nei due anni
anteriori al fallimento (art. 65). Si tratta di pagamenti non di tutti i crediti non ancora scaduti, ma di
crediti la cui scadenza sarebbe venuta a verificarsi nel giorno della dichiarazione del fallimento o nei
successivi, e ciò perché se per il pagamento si fosse attesa la naturale scadenza, al momento
dell’apertura del fallimento tali crediti sarebbero stati sottoposti alla regolazione concorsuale come
tutti gli altri. Attraverso la revoca, quindi, si provoca la parificazione.

L’art. 67 si occupa, invece, di regolare la vera e propria azione revocatoria fallimentare, che potrà essere
promossa dal curatore su autorizzazione del giudice delegato, dinanzi al tribunale fallimentare.
Si tratta di uno strumento volto ad ottenere la dichiarazione di inefficacia, rispetto ai creditori, degli atti a
titolo oneroso, dei pagamenti e delle garanzie poste in essere in un momento in cui l’imprenditore, non
ancora fallito, si trovava già in uno stato di insolvenza noto, o presumibilmente noto, alla controparte.
Si assiste così ad una sorta di retrodatazione dell’effetto prodotto dalla dichiarazione di insolvenza (cioè
l’indisponibilità del patrimonio del fallito) ad un momento precedente (c.d. periodo sospetto) a quello in
cui quell’insolvenza era già in essere.
Tuttavia, anche a tutela delle generali esigenze di buona fede e di sicurezza nei traffici, tale effetto non
deriva dal mero accertamento del caso che un certo atto sia stato compiuto nel periodo sospetto in
presenza di una condizione di insolvenza (presupposto oggettivo), ma dalla circostanza che il terzo
conoscesse, o che presumibilmente conoscesse, tale stato di insolvenza, c.d. scientia decoctionis
(presupposto soggettivo).
Gli atti revocabili sono distinti dalla legge in normali ed anormali. La normalità o l’anormalità di un atto è
riferita alle condizioni e agli elementi che ne caratterizzano il compimento e alla loro capacità di mostrare
un eventuale atto di insolvenza.
Mentre nel caso degli atti compiuti a condizioni naturali sarà il curatore a dover provare lo stato di
insolvenza del terzo; nel caso di atti anormali, la conoscenza dello stato di insolvenza sarà presunta in
capo al terzo e sarà questo a dover fornire l’eventuale prova contraria per sottrarsi agli effetti della
revocatoria, dimostrando che ignorava tale stato.

Sono considerati anormali:

i. gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, se le
prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di otre un quarto ciò che a lui è
stato dato o promesso;
ii. gli atti estintivi (cioè i pagamenti) di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con denaro o
con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento. Se un debito che avrebbe dovuto essere eseguito in denaro venne invece eseguito
attraverso una datio in solutum (merci di magazzino, gioielli, titoli), ciò è sinonimo di una crisi di
liquidità del debitore che fonda una presunzione di insolvenza.
iii. le garanzie (pegni, ipoteche) costituite nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per
propri debiti preesistenti e non scaduti. La presunzione di insolvenza, in questo caso, sta nel fatto
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che normalmente, se un debito ancora non è scaduto, il creditore dovrebbe aspettare; mentre se si
fa rilasciare una garanzia non pattuita originariamente, è presumibile che lo faccia perché teme la
sopravvenuta incapacità del debitore di pagare alla scadenza.
iv. lo stesso vale per le garanzie concesse per debiti scaduti. In questo caso però, il periodo sospetto è
abbreviato a sei mesi rispetto il caso precedente. Dopo la scadenza di un debito, il debitore
dovrebbe pagare, mentre la concessione di una garanzia evidenzia il suo bisogno di ottenere una
dilazione, e quindi una difficoltà, o incapacità, di adempiere alla scadenza.

Sono considerati, invece, normali:

i. i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili (scaduti);


ii. gli atti a titolo oneroso per i quali non ricorrono indici di anomalia;
iii. quelli costitutivi di un diritto di prelazione (pegno, ipoteca) per debiti, anche di terzi, creati
contestualmente.

L’individuazione del periodo sospetto si deve computare a partire dalla data più risalente della
pubblicazione della domanda di concordato preventivo.

L’art. 67 prevede una serie di esenzioni con cui si vuole evitare che la prospettiva di un’azione revocatoria
fallimentare possa scoraggiare il compimento di alcuni atti, potenzialmente utili per superare lo stato di
crisi di un’impresa e che provoca un timore che potrebbe condurre i terzi ad isolare un’impresa in crisi,
aggravando tale crisi fino a renderla irreversibile. Gli atti esenti dalla revocatoria fallimentare sono:

a) Pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso. In
questo modo l’attività d’impresa potrà proseguire senza che le controparti cessino di effettuare le
proprie controprestazioni (ad es. una fornitura di materie prime), potendo confidare nella salvezza dei
pagamenti ricevuti, purché tali pagamenti avvengano nei termini d’uso, cioè nei modi e nei tempi
osservati ordinariamente fra le parti.
b) Le rimesse effettuate su un conto corrente bancario che non abbiano ridotto in misura consistente
e durevole l’esposizione debitoria del fallito verso la banca.
c) Pagamenti per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori del fallito.
d) Gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione di un “piano di
risanamento” dell’impresa. In questa prospettiva l’esecuzione del piano viene “incoraggiata”
garantendo l’esenzione da una possibile futura revocatoria degli atti attraverso i quali dovrebbe
trovare esecuzione.
e) Gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione di un concordato
preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato. Anche in questo caso si tratta
di atti che realizzano una soluzione della crisi d’impresa secondo un piano il cui rispetto dovrebbe
consentire di evitare il fallimento. Tale soluzione viene incoraggiata promettendo che, se non
dovesse riuscire, comunque resteranno sottratti a revocatoria fallimentare gli atti attraverso cui il
piano dovrebbe realizzarsi.
f) Vengono esentati anche i pagamenti eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi
strumentali all’accesso al concordato preventivo.
g) Costituisce un caso a sé, invece, l’esenzione dalla revocatoria delle vendite e dei preliminari di
vendita aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo destinati a costituire l’abitazione principale
dell’acquirente o di suoi parenti o affini fino al terzo grado. Questo però solo a condizione che sia
stato pattuito un giusto prezzo. Invece, si inserisce nella logica protettiva dell’impresa la stessa
esenzione che riguarda gli immobili ad uso non abitativo quando sono destinati a costituire la sede
principale dell’attività d’impresa dell’acquirente.
h) Le operazioni di credito su pegno (ad es. un’anticipazione bancaria) e quelle di credito fondiario.

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Secondo l’art. 69-bis, che pone un termine di decadenza, le azioni revocatorie non possono essere promosse
decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e decorsi cinque anni dal compimento dell’atto.
Per azioni revocatorie si intendono, oltre a quelle fallimentari, anche quelle degli atti inefficaci di diritto e
degli atti fra coniugi, ossia la revocatoria ordinaria.
Il curatore, nel rivolgersi al tribunale per far dichiarare l’inefficacia di un atto, preferirà avvalersi dell’azione
revocatoria fallimentare piuttosto che di quella ordinaria prevista dall’art. 2901 c.c. perché molto più
agevole e di ampia applicazione. Tuttavia, l’azione revocatoria ordinaria potrà risultare necessaria se l’atto
da revocare sia stato posto in essere, sia pure entro il termine di cinque anni dal suo compimento, prima
del periodo sospetto previsto per la revocatoria fallimentare.
Per quanto riguarda gli effetti dell’azione revocatoria, il suo successo comporta l’inefficacia dell’atto nei
confronti dei creditori concorsuali, quindi non la sua invalidità ma la neutralizzazione degli effetti negativi
che quell’atto altrimenti avrebbe prodotto sulla garanzia patrimoniale disponibile al momento dell’apertura
del fallimento.
Questo vuol dire che se l’imprenditore avesse assunto, con atto revocabile, un’obbligazione nei confronti
dei terzi o concesso loro una garanzia, non si tratterà di un’azione revocatoria volta a recuperare il bene
fuoriuscito dal patrimonio del fallito, ma di disconoscere nei confronti del terzo il credito o la garanzia
ottenuta. Si tratta della c.d. revocatoria incidentale che, potendo operare anche in via di eccezione,
potrebbe essere fatta valere anche senza limiti di tempo.
Se invece si tratta di un atto oneroso che ha comportato l’assunzione di un’obbligazione già eseguita o un
trasferimento immediato di un diritto o ancora di un pagamento, allora quanto ricevuto dal terzo, o il
relativo valore (attuale) in denaro, dovrà essere restituito alla curatela per essere sottoposto
all’esecuzione collettiva di tutti i creditori concorsuali.
Il terzo che ha subito la revoca avrà, però, diritto ad insinuarsi al passivo per il credito corrispondente alla
controprestazione da lui effettuata. Conseguentemente, dopo la restituzione, si farà valere un credito pari
al valore della propria prestazione.

Prima del fallimento, il fallito avrà normalmente posto in essere, nell’esercizio della sua attività, una fitta
attività contrattuale.
Potrà trattarsi di contratti che hanno già trovato integrale esecuzione, ed allora vi sarà la possibilità per il
curatore di disconoscerne gli effetti ricorrendo ad un’azione revocatoria che consente di recuperare quanto
è fuoriuscito dal patrimonio del fallito in esecuzione di quei contratti.
Lo stesso discorso vale quando una delle due parti abbia integralmente eseguito la propria prestazione o
l’effetto reale del trasferimento si è già prodotto. In questo caso residuerà solo un credito della
controparte, che potrà insinuarlo al passivo, a meno che il curatore riesca a neutralizzare tale pretesa, o
residuerà solo un credito a favore del patrimonio fallimentare, che il curatore potrà esigere salvo che
preferisca revocare l’atto facendosi restituire quanto prestato in esecuzione del contratto e rinunciare ad
esigere il credito.
Vi è anche la possibilità che all’apertura del fallimento un certo contratto, di per sé opponibile al fallimento,
sia ancora del tutto ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti. In tal caso gli art. 72 ss.
parlando di rapporti giuridici preesistenti, disciplinando gli effetti che l’apertura del fallimento produce su
tali rapporti, indicati anche come contratti pendenti. Rispetto a tali ipotesi, l’interessa della curatela sarà
quello di svincolarsi da un accordo contrattuale ancora da adempiersi.
Tale interesse è assicurato dalla regola generale prevista dall’art. 72.
Innanzitutto, con la dichiarazione di fallimento l’esecuzione dei contratti pendenti resta sospesa e in
questo arco di tempo, il curatore potrà non adempiere agli obblighi previsti dal contratto senza incorrere in
alcun tipo di sanzione, e lo stesso potrà fare il terzo in via di eccezione.
Tale stato di sospensione perdura fino a quando il curatore non scelga se subentrare nel contratto o

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sciogliersi da esso: il primo caso si avrà quando il curatore ritiene conveniente la prosecuzione del
contratto, chiedendo che la sua scelta sia autorizzata dal comitato dei creditori. Tale scelta è pero
discrezionale, nel senso che né il comitato dei creditori, né altro organo della procedura, possono obbligare
il curatore a subentrare nel contratto; né tanto meno una volta che l’autorizzazione fosse avvenuta, si
potrebbe impedire al curatore di non subentrarvi più. La prosecuzione avviene per effetto di una
dichiarazione negoziale rivolta al terzo che, nel frattempo, resta in attesa passiva, salva la possibilità di
sollecitare una decisione del curatore, costituendolo in mora attraverso la richiesta al giudice delegato di
assegnargli un termine (massimo 60 giorni), trascorso il quale, in mancanza di decisione positiva, il
contratto si intenderà sciolto.
La scelta di far proseguire l’esecuzione del contratto è una scelta del curatore. Essa comporta anche
l’assunzione a carico della massa dei relativi obblighi. I crediti del terzo derivanti da quel contratto
diverranno dei debiti della massa, da pagarsi in prededuzione rispetto ai crediti concorsuali e quindi per
intero.
Quando invece il curatore decide che sia più conveniente svincolarsi dagli impegni contrattuali assunti dal
fallito, potrà farlo sciogliendo il contratto (c.d. resiliazione). Ciò, si ritiene senza neanche la necessità di
un’autorizzazione del comitato dei creditori, infatti, potrebbe bastare anche la mera inerzia del curatore a
provocare lo scioglimento. Una volta sciolto il contratto, se il terzo avrà già adempiuto in parte alla sua
prestazione, avrà diritto di far valere nel passivo il relativo credito, da recuperare in moneta fallimentare.
Non avrà però diritto ad alcun risarcimento del danno per non aver ottenuto quanto promesso dal fallito.
Un contratto preliminare, deve precisarsi infine, che è un contratto come qualsiasi altro, salva la
particolarità che in questo caso la prestazione rispetto alla quale scegliere tra l’esecuzione e lo scioglimento
consisterà nella prestazione del consenso alla stipulazione del contratto definitivo.
La regola generale dell’art. 72 ammette delle eccezioni, ossia ipotesi particolari rispetto alle quali la legge
deroga alla regola generale e dispone a volte la prosecuzione automatica, altre lo scioglimento automatico
e altre ancora l’una o l’altra a seconda di alcune circostanze.

Le attività preliminari che devono essere compiute per dare inizio alla procedura, sono disciplinate dagli
art. 84 ss. della legge fallimentare.
Fra queste attività preliminari vi è innanzitutto quella volta a concretizzare materialmente lo
spossessamento del fallito, attraverso la materiale sottrazione alla sua disponibilità di beni che entreranno
nella massa attiva. In questo proposito, la legge attribuisce al curatore il potere/dovere di farsi consegnare
il denaro contante, gli effetti cambiari e gli altri titoli del fallito, le scritture contabili e per gli altri beni di
apporre su di essi di sigilli secondo le norme previste dal Codice di procedura civile.
La vera e propria presa materiale dei beni che andranno a comporre la massa attiva avviene però con la
redazione dell’inventario nel quale non andranno inseriti i beni di terzi che sono nella mera disponibilità
materiale del fallito, mentre andranno però compresi i beni del fallito non sottoposti a sigillazione, come
quelli detenuti dai terzi, o il denaro e i titoli che il curatore si è fatto consegnare.
Uguale è l’attività preliminare con la quale il curatore comincia ad identificare la massa passiva: egli, infatti
sulla base principalmente delle scritture contabili, compilerà un elenco dei creditori, con l’indicazione dei

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rispettivi crediti e dei diritti di prelazione, nonché l’elenco di tutti coloro che vantino diritti reali o personali
su cose in possesso o nella disponibilità del fallito.

La procedura fallimentare, essendo rivolta a regolare le pretese concorsuali presuppone che di tali pretese
si verifichi l’effettivo fondamento giuridico, cioè che si verifichi che chi le vanti sia l’effettivo titolare del
diritto. Tali pretese, come già detto, consistono in crediti verso il fallito, in eventuali diritti reali o personali
su beni in possesso del fallito e dei quali l’avente richiede la restituzione o il rilascio, sperandoli così dalla
massa attiva destinata a soddisfare i creditori concorsuali.
Inoltre, poiché è sempre dalla massa attiva che si dovrà attingere quanto necessario per soddisfare le
ulteriori pretese non concorsuali che si formano dalla procedura stessa (c.d. debiti della massa), anche di
esse dovrà verificarsi il fondamento giuridico, quindi per esse vi sarà concorso formale.
Secondo la regola del concorso “ogni credito, diritto di prelazione, o altro diritto reale o personale, deve
essere accertato secondo le norme previste dal capo V dalla legge fallimentare che prevede l’accertamento
del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi”.

Gli organi fallimentari dovranno quindi attivarsi per definire la massa del passivo, cioè individuando gli
effettivi aventi diritto sui beni compresi nell’attivo del curatore e degli aventi diritto a partecipare, come
creditori, ai riparti del residuo attivo.
Un primo passo fondamentale è rappresentato dagli elenchi dei creditori e dei titolari dei diritti di terzi su
cose in possesso del fallito, sulla base dei quali, oltre alle scritture, il curatore comunicherà a tutti coloro
che risultano vantare pretese concorsuali: che possono partecipare al concorso depositando domanda
presso il tribunale; le date fissate per l’adunanza dei creditori in cui dovrà esaminarsi lo stato passivo e per
presentare la relativa domanda e ogni informazione utile per agevolare la presentazione della domanda.
La domanda è riservata a chiunque vanti una pretesa contro il fallito e sarà proposta con ricorso che
indicherà, a pena di invalidità, il suo oggetto (la somma per la quale si fa ricorso o il bene di cui si chiede la
restituzione), l’eventuale titolo di prelazione e le ragioni che supportano la pretesa, anche producendo i
documenti giustificativi della propria pretesa (ad es. un contratto, una cambiale ecc.).
Alla luce delle domande proposte sarà definito il quadro a disposizione del curatore, che potrà così
predisporre un progetto di stato passivo che contiene le motivate conclusioni raggiunte in merito a
ciascuna domanda; tali conclusioni potranno essere negative quando il curatore eccepisca l’esistenza di
fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, o la sua inefficacia.
L’udienza di verifica è fissata dalla sentenza dichiarativa di fallimento entro 120 o al massimo 180 giorni dal
suo deposito; essa si svolge in un’unica sessione e possono intervenire tutti gli interessati, c.d. adunanza
dei creditori. Alla presenza di questi, il giudice delegato esamina tutte le domande alla luce delle
conclusioni e delle eccezioni del curatore, delle osservazioni svolte e della documentazione prodotta dalle
parti, e all’esito della verifica, il giudice deciderà con decreto motivato su ciascuna domanda:

 dichiarandola inammissibile (perché non proposta nei termini o perché priva dei suoi elementi
necessari) ma potranno essere riproposte;
 respingendola in toto;
 ammettendola in toto, cioè negli stessi termini in cui è stata proposta;
 ammettendola solo in parte;
 ammettendola con riserva.

Terminato l’esame di tutte le domande, il giudice delegato forma lo stato passivo dichiarandolo esecutivo
con decreto depositato in cancelleria, che ha natura decisoria su ciascuna domanda e produce effetto
soltanto ai fini del concorso.
Dell’esito della verifica e del relativo decreto depositato in cancelleria, il curatore darà infine
comunicazione a tutti coloro che hanno proposto domanda e con ciò concludono la fase necessaria
dell’accertamento del passivo.
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La procedura fallimentare opera come una procedura esecutiva collettiva sull’intero patrimonio del
debitore, il cui fine è la realizzazione dell’attivo e la destinazione del ricavato alla soddisfazione dei creditori
concorrenti. Questo obiettivo emerge ripetutamente dallo stesso testo della legge, e soprattutto dalla
disciplina contenuta nel Capo VI “dell’esercizio provvisorio e della liquidazione dell’attivo”.
Si parla di esercizio provvisorio sempre con riferimento all’impresa sottoposta a fallimento, essendo poi
prevista anche la disciplina dell’affitto dell’azienda.
La possibilità di esercitare provvisoriamente l’impresa o di dare in affitto l’azienda di cui si avvale, sono due
delle principali opzioni che il curatore deve considerare, prevedendole se reputate convenienti, nel
pianificare la realizzazione nell’attivo mediante il programma di liquidazione.

L’esercizio provvisorio dell’impresa potrebbe essere disposto dallo stesso tribunale con la sentenza
dichiarativa di fallimento, qualora ritenga che dall’interruzione possa derivare un danno grave.
Salva tale ipotesi, però, è al curatore che spetta di valutare l’opportunità della prosecuzione,
sottoponendola al parere del comitato dei creditori. Se tale parere sarà favorevole, il giudice delegato potrà
autorizzare la prosecuzione dell’impresa, anche limitatamente a singoli rami aziendali. Tuttavia, la
prosecuzione è temporanea, dovendosi prevedere una durata che tenga conto del fine della procedura e
cioè della realizzazione del valore dell’impresa.
La prosecuzione dell’attività comporta l’attribuzione al curatore del potere di gestire anche la parte
strumentale, che comporta di effettuare scelte imprenditoriali e quindi anche di sopportare rischi.
La gestione, pertanto, essendo riferibile solo alle scelte della curatela, prevede che ogni nuova
obbligazione che ne derivi costituirà un debito della massa e lo stesso varrà anche per i debiti derivanti dai
contratti pendenti. Infatti, insieme alla prosecuzione dell’impresa, devono proseguire automaticamente
anche i contratti pendenti, salva la possibilità per il curatore di valutare successivamente se sciogliersene o
sospenderne l’esecuzione.
Dall’insieme delle regole che disciplinano la prosecuzione dell’impresa, risulta evidente come essa sia una
soluzione che deve essere adottata con prudenza. Infatti, la cessazione prima della durata prevista, potrà
essere ordinata sia dal giudice delegato ogni volta che il comitato dei creditori ne riconosce l’opportunità; o
dallo stesso tribunale anche a prescindere dal parere favorevole del comitato dei creditori.

Diversamente, invece, ci si riferisce all’affitto dell’azienda o dei suoi rami.


In questo caso non solo gli organi concorsuali sono sollevati dall’onere di gestire l’impresa direttamente,
ma la legge fissa delle regole volte a far sì che la massa passiva non si aggravi delle obbligazioni nuove sorte
per la prosecuzione dell’attività. Al vantaggio della conservazione dell’avviamento, si aggiunge anche quello
di accrescere la massa, incassando, in attesa della cessione, i canoni del suo affitto.
L’affitto dovrà essere autorizzato dal giudice delegato anche prima della presentazione del programma di
liquidazione e sempre su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori.
Inoltre, al momento della retrocessione dell’azienda affittata, i debiti maturati durante l’affitto
continueranno a gravare solo sull’affittuario, così come i contratti pendenti.

La liquidazione dell’attivo consiste, oltre che nei beni rinvenuti nel patrimonio del debitore all’apertura del
fallimento, anche negli altri diritti derivanti da rapporti giuridici facenti capo al fallito e nelle pretese
estranee al patrimonio del debitore prima dell’apertura del fallimento, ma spettanti alla curatela.
L’obbligo del curatore, quindi, è quello di predisporre un articolato programma di liquidazione che funge
da atto di pianificazione e di indirizzo intorno alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione
dell’attivo. Quindi si impone al curatore di compiere tale missione secondo un piano razionale per evitare i
rischi di irrazionali disgregazioni liquidatorie.

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L’approvazione del piano spetta al comitato dei creditori, mentre al giudice delegato spetta, oltre che un
controllo di legittimità formale del programma, l’autorizzazione dell’esecuzione degli atti conformi.

La legge indica come soluzione preferibile quella delle cessioni aggregate, vale a dire che la liquidazione dei
singoli beni è consentita solo quando risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale o di
suoi rami, o di beni o rapporti giuridici in blocco non consenta una maggiore soddisfazione di creditori.
Il contratto di cessione d’azienda o di suoi rami è sottoposto alla disciplina generale dell’art. 2556, anche
con riferimento ai contratti dai quali il curatore non si sia già sciolto e ai crediti rispetto ai quali il
cessionario continuerà a beneficiare dei privilegi e delle garanzie già concesse al cedente. Per quanto
riguarda i debiti, invece, la loro sorte è diversa in quanto, siccome i debiti dell’impresa fallita eccedono il
suo valore, nessuno la acquisterebbe se dovesse sottostare alla regola dell’accollo. Infatti, la legge vuole
che dei debiti dell’azienda non dovrà farsi carico il cessionario, ma sempre e solo la procedura.
Sono cedibili, inoltre, anche i singoli crediti compresi quelli di natura fiscale o futuri o contestati.
Importante è poi la previsione della cedibilità delle azioni revocatorie concorsuali (art. 106): ciò significa
che se il curatore avesse già intrapreso una o più azioni revocatorie, potrebbe cedere la relativa pretesa ad
un terzo che gli subentri. In questo modo la curatela otterrà un realizzo certo ed immediato della propria
pretesa, senza dover condizionare i tempi della procedura a quelli del procedimento giudiziale in cui è fatta
valere tale pretesa. Il terzo, invece, pagando un prezzo scontato rispetto al valore di quanto si spera di
ottenere dal successo dell’azione, potrà realizzare un risultato maggiore che gli sarebbe stato impossibile
perseguire altrimenti, per non avere la legittimazione originaria.
In ultimo, l’art. 107 definisce le modalità delle vendite e degli altri atti di liquidazione, ossia le procedure
che regolano l’individuazione dell’acquirente e la determinazione del prezzo. Al riguardo, la disciplina
concede ampia libertà al curatore, che potrà avvalersi, oltre che delle procedure di rito, anche di procedure
private, secondo forme libere. Sarà però necessario che rispettino alcune condizioni che dovrebbero
favorire il miglior risultato possibile, cioè che le procedure siano competitive e quindi aperte al massimo
numero di potenziali partecipanti. E’ quindi da escludersi la legittimità di una vendita effettuata a trattativa
privata fra il curatore e un terzo senza che vi sia stata la possibilità per altri soggetti di partecipare alla
trattativa con le loro offerte. Tali procedure dovranno inoltre partire dalla consapevolezza del valore di
mercato dell’oggetto dell’offerta e svolgersi, quindi sulla base di stime.

La soddisfazione dei creditori con l’effettiva ripartizione tra di essi del denaro ottenuto all’esito delle
attività di liquidazione. Nonostante tale fase potrebbe apparire semplice, si complica in seguito a due
problemi.
Il primo riguarda la molteplicità dei criteri legali in ragione dei quali i crediti possono presentarsi con diversa
forza e ciò impedisce di considerarli tutti sullo stesso piano e non consente, quindi, di limitarsi alla
distribuzione del denaro ricavato in proporzione all’ammontare di crediti accertati, ma si deve tener conto
del loro ordine o rango. Quindi si crea una tensione fra il principio di preferenza e quello di proporzionalità.
Il secondo problema deriva, invece, dalla considerazione che la ripartizione è tanto più utile quanto più
tempestiva. Ciò ha condotto il legislatore a prevedere che essa cominci, mediate riparti parziali, senza
attendere il completamento delle attività di accertamento del passivo e di liquidazione dell’attivo, ma man
mano che da tale liquidazione si ricavino somme distribuibili. Questa scelta però va incontro ad uno stato di
incertezza riguardante l’ammontare complessivo del ricavato finale della liquidazione e quella riguardante
l’ammontare complessivo delle pretese che dovranno essere soddisfatte.
Il primo dei due problemi è quello di regolare l’ordine di distribuzione delle somme prevedendo diversi
livelli di preferenza nella partecipazione al riparto. Da tale previsione risalta che il principio della par
condicio vale solo per i crediti dello stesso rango, senza però escludere che possa operare un ordine

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secondo cui alcune categorie di crediti vengano preferite ad altre. Quindi varrà una gerarchia in virtù della
quale ai creditori di un rango più basso non potrà venire ripartito nulla finché non trovino integrale
soddisfazione quelli di rango più elevato. Precisamente, l’art. 111 prevede che le somme ricavate dalla
liquidazione dell’attivo vengano erogate secondo tale ordine:

i. per il pagamento dei crediti prededucibili;


ii. per il pagamento di crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato
dalla legge;
iii. per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell’ammontare del credito per cui siano
stati ammessi;
iv. fra i chirografari dovranno comprendersi anche i crediti postergati o subordinati.

I. I crediti prededucibili sono quelli sorti in occasione o in funzione della procedura concorsuale. Vi
rientrano innanzitutto quelli necessari allo svolgimento della procedura (spese per la procedura),
compresi i compensi che spettano a coloro che abbiano prestato la propria opera all’interno della
procedura stessa (come il curatore), o le spese sostenute dal creditore per ottenere l’apertura della
procedura e quelli relativi ai c.d. debiti della massa, cioè quelli contratti dal curatore. Vi rientrano,
inoltre, quelli sorti in occasione o in funzione di altra procedura concorsuale (ad es. il compenso che
spetta ai professionisti incaricati di redigere la domanda di ammissione al concordato). Nonostante si tratti di
crediti sorti durante la procedura fallimentare, ciò non toglie che anch’essi debbano essere
accertati; una volta accertati, andranno soddisfatti per il capitale, le spese e gli interessi, fino al
giorno del pagamento, ed essendo preferiti agli altri crediti hanno discrete probabilità di essere
pagati per intero.
II. Vengono poi i crediti assistiti da legittime cause di prelazione (pegno, ipoteca, privilegio), detti
anche privilegiati. Anche tra questi può operare un concorso, regolato dall’ordine di graduazione
previsto dalla legge. Quindi, può capitare che i creditori muniti di cause di prelazione non trovino
soddisfazione sull’oggetto della garanzia che era stata loro concessa (ad es. chi gode di un’ipoteca di
secondo grado su un immobile potrebbe vedere che la sua garanzia non sia soddisfatta perché il ricavato del bene
ipotecato vada a favore del creditore ipotecario di primo grado).
III. Vi sono, in ultimo, i creditori chirografari. Solo fra questi opera la par condicio in proporzione
all’ammontare del loro credito sul ricavato della liquidazione che non sia stato assorbito dal
pagamento dei crediti prededucibili o privilegiati.
I chirografari sono sia gli stessi creditori privilegiati che non hanno trovato soddisfazione attraverso
la propria garanzia, sia coloro che vantano di crediti subordinati o postergati.
La subordinazione potrà essere imposta dalla legge o pattuita per contratto e potrà essere assoluta
(cioè nei confronti di tutti i creditori chirografari) o relativa (cioè che opera solo rispetto ad alcuni
chirografari). I creditori subordinati, pertanto, si troveranno in una posizione di subalternità e
vengono indicati come antiprivilegiati.

Le regole che disciplinano la distribuzione tendono ad assecondare l’interesse dei creditori alla maggiore
tempestività, anche se nell’incertezza di quanto sarà, alla fine, il totale del ricavato e dei crediti da
soddisfarsi. Il procedimento della ripartizione comporta che il ricavato possa venire distribuito, mediante
dei riparti parziali, trattenendo però una percentuale delle somme disponibili (c.d. accantonamenti) per
mantenersi in condizione di far fronte, in sede di ripartizione finale, anche ai crediti che sono maturati o
accertati medio tempore.

Le ripartizioni parziali dovranno avvenire nei tempi indicati dal giudice delegato (solitamente ogni quattro
mesi, ma anche con cadenze più ampie) sulla base di un prospetto delle somme disponibili e di un progetto

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di ripartizione elaborati dal curatore (art. 110).
I progetti di ripartizione dovranno prevedere degli accantonamenti, trattenendo e depositando, in una
percentuale non inferiore al 20% delle somme disponibili, le somme occorrenti per la procedura e per far
fronte ai creditori incerti.
Gli accantonamenti sono inevitabili anche perché è esclusa la restituzione di somme riscosse (c.d. principio
dell’irripetibilità, art. 114).
Procedendo ai riparti parziali si giungerà infine al completamento della liquidazione dell’attivo e a questo
punto il curatore dovrà presentare il rendiconto. Approvato tale rendiconto e liquidato il compenso del
curatore, il giudice delegato, sempre su proposta del curatore, ordinerà la ripartizione finale delle somme
che avverrà sempre secondo i criteri che governano le ripartizioni parziali, salvo il fatto che dovranno essere
distribuiti anche gli accantonamenti effettuati.

Secondo il Capo VIII della legge fallimentare, la chiusura del fallimento è uno dei due modi di cessazione
della procedura fallimentare.
Le cause di chiusura del fallimento, diverse dal concordato fallimentare e previste dall’art. 118 sono:

1. La mancanza di domande di ammissione al passivo entro il termine previsto dalla sentenza di


apertura. In questo caso la sentenza rimarrebbe priva di scopo, anche se fosse stata avviata da un
creditore quando, neppure questo, proponesse la domanda. La procedura non avrebbe scopo
neanche se vi fossero solo domande di rivendicazione e restituzione in quanto il loro
soddisfacimento avverrebbe anche senza regolazione concorsuale.
2. Quando vi sia stata la soddisfazione di tutti i creditori anche prima che sia compiuta la ripartizione
finale dell’attivo, se le ripartizione già eseguite hanno raggiunto l’intero ammontare dei crediti
ammessi.
3. Quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo e quindi non resta più nulla da liquidare e
ripartire, anche se alcuni crediti restano insoddisfatti.
4. Per mancanza di attivo sufficiente a far dronte, anche in parte, non solo ai crediti concorsuali ma
anche a quelli prededucibili e alle spese di procedura.

Quando si verificano tale ipotesi, la chiusura del fallimento non avverrà automaticamente ma sarà il
tribunale che, su istanza del curatore o d’ufficio, emanerà un decreto di chiusura.
Gli effetti di tale decreto saranno diversi.
Per il fallito, cesseranno gli effetti dello spossessamento e le incapacità o limitazioni di carattere personale.
Egli così riacquisterà la piena disponibilità ed amministrazione del proprio patrimonio e quindi non solo di
quella parte eventualmente già sottratta agli effetti dello spossessamento, ma anche di quella residuata
che gli verrà restituita, oltre i beni che dovessero sopravvenire. Il fallito potrà proseguire anche nei rapporti
giuridici preesistenti che non siano sciolti.
Gli organi fallimentari, invece, decadranno anche se si lascia individuare qualche competenza
ultrafallimentare.
Nei confronti del creditori gli effetti sono importanti. Con la chiusura del fallimento ogni creditore (anche
posteriore all’apertura del fallimento) riacquisterà il libero esercizio delle azioni verso il debitore. I creditori,
infatti, potranno tornare ad agire individualmente per la parte del loro credito eventualmente non
soddisfatta nel fallimento. Chiusa la procedura, si riaprirà anche la possibilità di esigere gli interessi.
Infine, con riguardo alle azioni già intraprese, occorrerà distinguere le cause intraprese dal curatore in
sostituzione del fallito o dei creditori se non ancora conclusa alla chiusura del fallimento e allora si
interromperanno per essere riassunte dai legittimati naturali. Le azioni derivanti dal fallimento, dove non
cedute a terzi, verranno dichiarate improcedibili e i relativi giudizi saranno interrotti.
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Dopo che il fallimento sia stato chiuso, potrebbe aversi, nel termine massimo di cinque anni, una riapertura dello stesso (art. 121)
in quanto potrebbe essere utile riattivare la procedura per regolare crediti che non hanno trovato soddisfazione alla chiusura della
stessa se nel frattempo si fosse ricreata la possibilità di nuove ripartizioni.

E’ possibile che con la chiusura del fallimento o dopo di essa, si produca l’effetto dell’esdebitazione, che
consiste nella liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti.
Tale effetto può essere disposto quando, nel decreto di chiusura del fallimento o in un successivo decreto ad
hoc, vengano dichiarati inesigibili nei confronti del debitore già fallito:

 sia i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente;


 sia quelli verso i creditori concorsuali non concorrenti.

L’esdebitazione può operare, inoltre, solo a favore di persone fisiche che ne facciano apposita istanza con
ricorso presentato in sede di chiusura del fallimento o entro un anno dopo il relativo decreto.
Alla base di questo beneficio vi è la considerazione che alla prospettiva sanzionatoria convenga far
prevalere quella recuperatoria, incentivando la persona fisica fallita a reimpiegare le proprie forze
lavorative nell’iniziativa economica anziché restare paralizzata dai debiti. Questo obiettivo, però, è
perseguibile solo concedendo una liberazione dai debiti pregressi che non scoraggi la nuova attività (c.d.
fresh start).
Peraltro, il soggetto fallito può cominciare una nuova attività solo se si sia rivelato onesto e meritevole, cioè
che abbia tenuto comportamenti collaborativi con gli organi della procedura e quindi non risulta di aver
avuto nel passato condotte che inducano ad escludere la sua onestà o meritevolezza.
Inoltre, poiché tale beneficio comporta un sacrificio dei creditori, la legge stessa, per evitare che il sacrificio
risulti eccessivo, subordina la concessione di tale beneficio alla condizione che, all’esito della procedura, i
creditori concorsuali siano soddisfatti almeno in parte.
Se tutti questi requisiti sussistono, il tribunale potrà accoglierlo con decreto eventualmente reclamabile dai
creditori insoddisfatti.

Originariamente la procedura fallimentare venne concepita solo con riguardo all’impresa individuale, per
questo motivo vi sono poche norme dettate per le società. Tale strategia legislativa è però inadeguata dal
momento che si è constatato che la maggior parte (in termini di rilevanza economica e non di numero) dei
fallimenti, riguarda le imprese che hanno forma societaria.
La parte della legge fallimentare dedicata alle società si occupa essenzialmente di attuare la responsabilità
(per debito) dei soci e di quella (per illecito) dei componenti degli organi delle società fallite.
Per quanto riguarda gli effetti della dichiarazione di fallimento sulla società, deve ritenersi che il
fallimento, pur comportando normalmente l’integrale liquidazione del patrimonio sociale, non provoca di
per sé lo scioglimento della società di capitali e delle cooperative. Inoltre, il fallimento non provoca
neanche la cessazione del funzionamento degli organi sociali, né la decadenza dei loro componenti.
Ovviamente le competenze degli organi sociali e, in particolare, degli amministratori, sono ridotte in
conseguenza al fallimento e, soprattutto di quella serie di effetti che riguardano lo spossessamento. Infatti,
ogni potere riguardante la gestione dell’impresa o l’amministrazione del patrimonio della società, dovrà
ritenersi sottratto agli organi sociali per effetto dell’avvenuto fallimento.
Inoltre, secondo l’art. 118 in caso di fallimento di una società, il curatore dovrà chiederne la cancellazione
dal registro delle imprese; se però il fallimento si chiude con un residuo attivo per la società, essa, cessati

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gli effetti dello spossessamento, potrebbe proseguire la propria esistenza che potrebbe dipendere da un
aumento di capitale deliberato dai soci o dall’incorporazione della società fallita da parte di altra società in
bonis che ripieni i debiti dell’incorporata o che ne elimini lo stato di insolvenza.

L’art. 147 prevede che la sentenza che dichiara il fallimento di una società in nome collettivo, in
accomandita semplice o in accomandita per azioni, produce anche il fallimento dei soci illimitatamente
responsabili (pur se non persone fisiche).
Il fallimento “in estensione” è solo quello che si propaga dalla società ai soci illimitatamente responsabili e
non viceversa. Infatti, secondo l’art. 149 l’eventuale fallimento di uno dei soci, non comporta il fallimento
della società (ma solo, al limite, l’esclusione del socio fallito).
Quando ne ricorrono i presupposti, il fallimento in estensione dei soci si produrrà automaticamente, infatti
dovrà essere dichiarato dal tribunale senza che occorra l’istanza di altri soggetti e senza che occorra
procedere all’accertamento dell’esistenza dei presupposti di fallibilità in capo ai soci.
Il fallimento del socio illimitatamente responsabile può ritenersi un’eccezione che continua a giustificarsi in
ragione dell’utilità di sottoporre anche i patrimoni dei singoli soci alle procedure concorsuali in modo da
governare unitariamente, secondo le regole della par condicio, sia il concorso delle pretese dei creditori
sociali sia di quelli personali dei soci.
Però il fallimento in estensione può verificarsi anche in altre due serie di ipotesi:

a) La prima riguarda i casi in cui il socio abbia cessato di essere tale (per morte, recesso o esclusione)
o di essere illimitatamente responsabile. In questi casi potrà essere dichiarato fallito in estensione
solo se ricorrono due ulteriori condizioni:
i. se non sia decorso più di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla
cessazione della responsabilità illimitata;
ii. sempre che l’insolvenza della società attenga, almeno in parte, a debiti esistenti alla data
della cessazione della responsabilità illimitata del socio.
b) La seconda serie di ipotesi riguarda invece l’eventuale scoperta, successiva alla dichiarazione di
fallimento della società, di soci illimitatamente responsabili. In questo caso la dichiarazione di
fallimento sarà non solo in estensione (o come si distingue in questi casi “in ripercussione”), ma
anche successiva, per effetto di un’ulteriore sentenza del tribunale pronunciata su istanza del
curatore o di uno o più creditori, o di uno o più soci falliti.
i. Potrà trattarsi di soci illimitatamente responsabili ulteriori rispetto a quelli già noti al
momento della dichiarazione di fallimento della società (c.d. soci occulti).
ii. O si tratterà di soci illimitatamente responsabili scoperti dopo il fallimento dichiarato nei
confronti di un soggetto ritenuto di essere un imprenditore individuale quando, sempre
successivamente a tale dichiarazione, si accerti che in realtà l’impresa dichiarata fallita non
era individuale, ma riferibile ad una società di cui il soggetto dichiarato fallito era socio
(c.d. soci occulti di società occulte).
iii. Diverso, invece, è il caso in cui, sulla base di un vincolo sociale soltanto apparente, si arrivi
a pronunciare il fallimento di un socio apparente di società esistente o di una società
apparente e dei suoi soci.

Con la dichiarazione di fallimento della società e dei suoi soci illimitatamente responsabili, si apriranno
altrettante procedure, fra loro distinte ma fortemente connesse, in quanto lo scopo perseguito dalla legge
è proprio quelli di regolare il concorso delle pretese dei creditori sociali con quelle dei creditori personali
dei soci.
Al fine di consentire tale coordinamento, l’art. 148 prevede innanzitutto la nomina di organi comuni alle
diverse procedure; infatti, il tribunale procederà alla nomina di un solo giudice delegato e di un solo
curatore, salva però la possibilità di nominare diversi comitati dei creditori.
Inoltre, siccome ciascun socio risponde illimitatamente e solidalmente verso tutti i creditori sociali, il
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credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intenderà dichiarato per l’intero nel
fallimento dei singoli soci.
D’altra parte, i creditori particolari di ciascun socio parteciperanno solo al fallimento di quest’ultimo,
infatti ne risulta che il patrimonio della società e quello dei soci sono tenuti distinti e per ciascuna
procedura occorrerà procedere, seppur in modo coordinato, formando distinte masse passive,
distinguendo quindi i debiti assunti in nome della società da quelli assunti a nome del socio. Sulla base di
questo stesso principio, occorrerà determinare anche diverse masse attive, cioè quella rappresentata dal
patrimonio sociale e quelle costituite dai patrimoni personali dei singoli soci, su cui concorreranno i
creditori sociali e personali.
Sulla base di queste distinte masse attive e passive, occorrerà assicurare: il concorso fra i creditori personali
e i creditori sociali; la par condicio fra i creditori sociali; la ripartizione del carico delle obbligazioni sociali fra
i soci in misura proporzionale alla partecipazione di ciascuno.

i. Dal primo punto di vista, tutti i creditori, sociali e personali, concorreranno nelle singole procedure
secondo le consuete regole, nei limiti in cui i rispettivi crediti sono stati ammessi, potendo anche
contestare i crediti di qualunque altro creditore con cui si trovino in concorso.
ii. La par condicio fra i creditori sociali sarà invece assicurata dalla loro partecipazione a tutte le
ripartizioni effettuate in ciascuna procedura alla quale siano stati ammessi, fino all’integrale
pagamento.
iii. Infine, qualora risultasse che alcuno dei soci abbia dovuto farsene carico in misura più che
proporzionale rispetto a quanto dovuto in rapporto alla sua partecipazione sociale, resterebbe la
possibilità di un regresso fra i fallimenti dei soci per la parte eventualmente pagata in più, sempre
che vi sia un residuo attivo nelle procedure aperte a carico degli altri soci.

Più semplici sono le conseguenze del fallimento di una società per i suoi soci limitatamente responsabili, in
quanto rispetto a questi, si tratterà solo di attuare i loro obblighi per gli eventuali conferimenti non ancora
eseguiti. Si tratta di soci accomandanti di s.a.s. e di s.a.p.a., di soci di s.p.a., s.r.l. e di società cooperative.
I versamenti ancora dovuti dai soci costituiscono uno dei possibili crediti della massa, di cui il curatore
potrebbe esigere direttamente il pagamento o potrebbe anche chiedere al giudice delegato l’emissione di
un decreto ingiuntivo verso i soci per ottenere i versamenti ancora dovuti, anche se non fosse ancora
scaduto il termine stabilito per il pagamento.
Lo stesso tema è quello affrontato dall’art. 2467 c.c. che legittima il curatore a chiedere ai soci il rimborso di
quanto da essi ha eventualmente ricevuto in restituzione dei finanziamenti concessi alla società.

Vi sono, infine, due titoli di responsabilità in caso di fallimento, che potranno essere fatti valere dal
curatore, ossia la responsabilità verso la società e verso i creditori sociali.
Il curatore esercita le azioni di responsabilità contro:

 gli amministratori;
 i componenti degli organi di controllo;
 i direttori generali e i liquidatori;
 nella s.r.l. contro i soci che abbiano deciso o autorizzato intenzionalmente il compimento di atti
dannosi per la società, i soci e i terzi.

Tali azioni di responsabilità potranno essere esercitate dal curatore solo previa autorizzazione del giudice
delegato e sentito il comitato dei creditori. A queste condizioni, la legittimazione del curatore sarà
esclusiva, poiché tali azioni non possono essere intraprese dai soci o dai creditori ed e si interrompono
eventualmente siano state già intentate.

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La tensione fra un’impresa commerciale in crisi e i suoi creditori può trovare soluzioni diverse da quella che
si impone con l’apertura di una procedura fallimentare.
I percorsi giudiziali alternativi a quello fallimentare che la legge prevede sono il concordato preventivo e gli
accordi di ristrutturazione dei debiti.
Il concordato preventivo costituisce, come il fallimento, una procedura concorsuale giudiziale.
Attraverso di essa un imprenditore in crisi ha la possibilità, senza perdere il potere di gestire la sua impresa
e godendo di una moratoria sui debiti esistenti, di formulare una proposta ai suoi creditori per il
soddisfacimento, parziale o differito, dei loro diritti. La proposta, se regolarmente accettata dalla
maggioranza dei creditori e omologata dal tribunale, limiterà i debiti dell’imprenditore a quanto in essa
promesso, con conseguente liberazione da ogni altro debito preesistente.
Per comprendere la funzione del concordato preventivo, è importante individuare i presupposti e
l’obiettivo che la legge individua nella “ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori”, quindi
ha, al pari di quella fallimentare, una finalità satisfattiva.
Anche dal punto di vista dei presupposti e da quello soggettivo vi è una coincidenza delle due procedure.
Dal punto di vista oggettivo, il presupposto del concordato preventivo è lo stato di crisi in cui si venga a
trovare l’impresa, dove per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza. L’insolvenza, quindi,
rappresenta un possibile (e più grave) stato di crisi, ma quest’ultimo potrebbe anche ricorrere in situazioni
meno gravi.
E’ però importante precisare di quale intensità minima devono essere tali difficoltà per poter essere
qualificati come “crisi”. Lo stato di crisi comprende anche quelle situazioni in cui, pur non essendosi
verificato un vero e proprio stato di insolvenza, vi sia comunque una situazione che realizzi il concreto
rischio, se non addirittura la certezza, che un’insolvenza, ancora non in essere, si verificherà e che sia
imminente.
La possibilità di accedere ad una procedura concorsuale pure in una situazione di difficoltà che non sia
ancora lo stato di insolvenza è data dalla funzione preventiva, anticipatoria, del concordato rispetto al
fallimento. L’imprenditore in crisi ha così la possibilità di avviare una regolazione concorsuale dei propri
debiti prima ancora che la sua situazione economico-finanziaria di deteriori al punto di divenire una vera e
propria insolvenza. In questo modo il debitore, senza subire gli effetti del fallimento, potrà pilotare la crisi
della propria impresa e beneficiare di una parziale esdebitazione; ma anche i creditori potranno beneficiare
di un valore che potrà essere maggiore rispetto a quello ricavabile da una procedura fallimentare e ciò
grazie alla possibilità di anticipare il momento in cui si procederà alla regolazione concorsuale dei loro
crediti e soprattutto grazie ad un piano che, essendo ideato da chi meglio di tutti conosce le potenzialità ed
il reale valore dell’impresa in difficoltà, può consentire di estrarre da quest’ultima un valore superiore a
quello che risulterebbe dall’esito di una liquidazione fallimentare.
Un risultato economico preferibile rispetto all’alternativa fallimentare potrà conseguirsi anche quando al
concordato si accedi già in una condizione di insolvenza: in questo caso il concordato si porrà come
alternativa al fallimento.
Spetterà poi ai creditori chiamati ad approvare la proposta, di valutare, in concreto, quali vantaggi possono
realisticamente essere raggiunti attraverso il piano proposto.

Il nucleo della domanda di concordato consiste in una proposta ai creditori che viene articolata sulla base
di un programma detto piano concordatario. Tale proposta deve essere formulata esclusivamente dal
debitore che ha ampia autonomia nel determinarne i contenuti e nel programmare le modalità attraverso

71
cui gli obiettivi determinati potranno essere perseguiti. Ciò potrà avvenire attraverso qualsiasi forma (art.
160) ma è lo stesso art. che prevede alcune forme in cui il piano potrebbe presentarsi:

a) Fra le forme più semplici rientra la possibilità di una mera promessa di pagamento parziale e/o
dilazionato dei crediti esistenti (c.d. concordato remissorio o dilatorio), solitamente assistita da
garanzie prestate da terzi.
b) Può essere anche prevista una mera cessione dei beni ai creditori (c.d. concordato liquidatorio): in
questo caso si tratta di una forma di liquidazione del patrimonio dell’imprenditore.
c) Forme più complesse si hanno quando il piano intende raggiungere la soddisfazione dei creditori
attraverso il compimento di operazioni straordinarie, come un conferimento d’azienda in una
società nuova o preesistente; un’incorporazione della società in crisi da parte di un’altra in bonis;
una trasformazione della società in crisi.
d) La proposta concordataria potrà essere assistita da garanzie, reali o personali, tipiche o atipiche, a
favore di tutti o alcuni creditori, che potranno essere prestate dallo stesso imprenditore o da terzi.
Anche se tali garanzie provengono dall’imprenditore, non è detto necessariamente che sia proprio
questo a farsi carico di realizzare quanto promesso; infatti, è possibile che la proposta stessa
indichi un terzo, c.d. assuntore che si accolla i debiti di cui il piano prevede il pagamento.
e) Fra le modalità ritroviamo anche la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica
e interessi economici omogenei, riservando trattamenti diversi ai creditori appartenenti a classi
diverse. Tuttavia i creditori di un’impresa in crisi non costituiscono un gruppo omogeneo poiché si
scompone in gruppi che hanno aspettative diverse, in ragione del titolo giuridico vantato e della
loro condizione economica: tra questi ritroviamo i crediti tributari e contributivi.
Ciò mostra che il rischio di un’offerta identica per tutti raccolga un consenso inferiore di quello che
invece potrebbe raggiungersi se l’offerta potesse essere differenziata rispetto ai diversi gruppi.
f) L’art. 160 mostra, infine, un’opzione e cioè quella di prevedere un pagamento non integrale dei
creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, purché la soddisfazione assicuratagli non risulti
inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione. Per la parte restante del credito, i
privilegiati saranno considerati come chirografari e possono essere destinatari di un’offerta di
pagamento parziale in base al patrimonio residuo.

La proposta del debitore risulta rappresentata processualmente dalla domanda di ammissione alla
procedura, che assume la forma del ricorso.
Insieme al ricorso deve essere depositata anche la documentazione idonea a rappresentare le componenti
attive e passive di cui i creditori dovranno tener conto per valutare la convenienza della proposta, e in
particolare:

‐ un’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa;


‐ uno stato analitico ed estimativo delle attività;
‐ l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;
‐ l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore;
‐ il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili;
‐ una descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta.

Quest’ultimo punto risulta di primaria importanza quando il piano prevede che la soddisfazione dei
creditori dovrà realizzarsi impiegando flussi di cassa (redditi futuri) provenienti dalla prosecuzione
dell’esercizio dell’attività d’impresa: c.d. concordato con continuità aziendale.
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Esso riguarda le ipotesi in cui venga prevista espressamente la prosecuzione dell’attività d’impresa
direttamente da parte del debitore, o la cessione dell’azienda in esercizio, o il suo conferimento in una o
più società. La descrizione delle modalità e dei tempi dell’adempimento deve essere integrata anche da
un’indicazione analitica dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal
piano di concordato (c.d. cash flows), delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di
copertura, nonché da una specifica attestazione che attesti che la prosecuzione dell’attività prevista dal
piano è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
La domanda e la documentazione dovranno essere accompagnati dalla relazione di un professionista che
attesti la veridicità dei dati aziendali esibiti e la fattibilità del piano stesso. Tale attestazione deve ripetersi
nel caso in cui, nel corso della procedura, il piano subisca delle modifiche.

Inoltre bisogna tener presente che il legislatore si è fatto carico di favorire l’ammissione al concordato
preventivo anche nei casi in cui l’imprenditore ancora non sia riuscito, o non abbia avuto il tempo, di stilare
un piano concordatario da presentare ai creditori.
L’art. 161 allora consente all’imprenditore in stato di crisi di depositare un ricorso contenente la domanda
di concordato, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione successivamente,
entro un termine assegnatogli dal giudice con decreto; si parla, perciò, di concordato con riserva o
preconcordato (o concordato prenotativo o in bianco).
Il vantaggio sta che nel periodo concessogli dal decreto (dai 60 ai 120 giorni, prorogabili di ulteriori 60 in
presenza di giustificati motivi, più altri 60 giorni in caso già penda istanza di fallimento), il debitore potrà
definire la proposta concordataria senza temere di incorrere in una dichiarazione di fallimento, dal
momento che nel frattempo già cominciano a prodursi alcuni effetti tipici della domanda di concordato, fra
cui il divieto dei creditori di azioni esecutive individuali.
Naturalmente, entro il termine assegnato, l’imprenditore dovrà integrare il ricorso con la proposta, il piano
e la documentazione. In questo caso la procedura prosegue normalmente o potrà, in alternativa,
depositare un ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, dirottando così la
procedura di concordato ma beneficiando ugualmente degli effetti protettivi connessi ad una normale
domanda di concordato.
Se invece entro il termine assegnato non viene consegnata la proposta, con il piano e la documentazione
richiesta, allora vi sarà mancata ammissione della procedura di concordato, con eventuale successivo
fallimento.

Sull’ammissibilità del ricorso deve pronunciarsi il tribunale che potrebbe concedere al debitore un termine
non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti. Il tribunale
dovrà innanzitutto verificare la sussistenza dei presupposti della procedura e della documentazione.
Unico controllo rimesso dalla legge al tribunale è quello della correttezza dei criteri della formazione delle
diverse classi, cioè dovrebbe verificarsi se alla suddivisione dei creditori in classi corrisponda
effettivamente una omogeneità delle relative posizioni giuridiche ed interessi economici, o se essa sia
irrazionale se non addirittura strumentale a penalizzare alcuni a discapito di altri.
In base a questi criteri di giudizio, il tribunale, a norma dell’art. 162, potrà dichiarare inammissibile la
domanda di concordato con decreto non soggetto a reclamo. Tale decreto non esclude che venga proposta
una nuova domanda di concordato, ma è probabile che tale possibilità venga meno per sempre, poiché il
tribunale, contestualmente al rigetto della domanda, potrà anche accertare la sussistenza dei presupposti
richiesti, dichiarando il fallimento del debitore.
Quando invece il procedimento di verifica sull’ammissibilità del ricorso si conclude in modo positivo, il
tribunale, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo. Solo
con il decreto di ammissione il concordato potrà dirsi aperto e con lo stesso provvedimento il tribunale
nominerà gli altri organi della procedura, e cioè un giudice delegato e il commissario giudiziale.

73
Lo stesso provvedimento, inoltre, dovrà essere comunicato ai creditori (che saranno convocati entro trenta
giorni) ed essere pubblicato per la sentenza dichiarativa di fallimento.

Essendo la finalità del concordato quella di definire un accordo tra debitore e creditori, la procedura
concordataria, a differenza di quella fallimentare, tende a lasciare il debitore a capo della sua impresa.
Infatti, secondo l’art. 167, durante la procedura di concordato il debitore conserva l’amministrazione dei
suoi beni e l’esercizio dell’impresa. Di ogni atto compiuto dopo l’apertura della procedura, l’imprenditore
risponderà con il suo patrimonio e le controparti possono pretendere l’esatta prestazione convenuta alla
scadenza e, in caso di inadempimento, possono agire a tutela delle proprie ragioni.
Occorre però evitare che il debitore possa abusare di tale potere di gestione pregiudicando gli interessi dei
creditori; per tale motivo vengono posti due limiti a tale potere:

i. In primo luogo è previsto che il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione non
possono produrre effetti nei confronti dei creditori anteriori al concordato senza l’autorizzazione
del giudice delegato. Così vale il regime che consiste nell’inefficacia degli atti compiuti dal debitore
rispetto ai creditori, cioè nell’impossibilità di sottrarre alla loro garanzia patrimoniale ciò che
costituisce l’oggetto di disposizione. Nel fallimento tale effetto viene definito spossessamento,
mentre nel concordato si parla di spossessamento attenuato.
ii. In secondo luogo il potere di gestione dell’impresa, pur lasciato all’imprenditore, sarà esercitato
sotto la vigilanza del commissario giudiziale, che pur non potendo orientare le scelte di gestione
dell’imprenditore, può comunque controllarle e condizionarle grazie al potere di provocare
l’interruzione della procedura con la revoca dell’ammissione al concordato.

Per i creditori, invece, si produce l’effetto del blocco delle iniziative cautelari ed esecutive. Dalla data della
pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese fino all’omologazione del concordato, i creditori non
possono, a pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, né
acquistare diritti di prelazione o iscrivere ipoteche giudiziali senza l’autorizzazione del commissario
giudiziale (art. 168).
Se poi si tratta di un concordato con continuità aziendale, il piano potrà prevedere una moratoria fino a un
anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di cause legittime di prelazione, a meno che il
piano non preveda la liquidazione dei beni o dei diritti sui quali sussiste tale prelazione, nel qual caso il loro
pagamento avverrà in seguito alla liquidazione.
Il divieto di azioni esecutive vale, però, solo nei confronti dei creditori anteriori alla domanda di concordato,
mentre i creditori posteriori avranno tutto il diritto di essere soddisfatti alla scadenza e alle condizioni
convenute contrattualmente, potendo altrimenti intraprendere individualmente ogni iniziativa cautelare o
esecutiva nei confronti dell’imprenditore. Inoltre, in caso di fallimento, questi crediti andranno pagati in
prededuzione, essendo sorti in occasione della procedura concorsuale.

Vanno poi considerati gli effetti del concordato preventivo sui contratti pendenti e sugli atti pregiudizievoli
compiuti prima della procedura.
Circa i contratti in corso di esecuzione alla data di presentazione del ricorso, l’art. 169-bis prevede che il
debitore possa chiedere, con ricorso, l’autorizzazione a sciogliersi da essi o la loro sospensione per non più
di sessanta giorni.
Trattandosi di effetti “a domanda”, qualora questa non sussista, i contratti continueranno ad avere normale
esecuzione. Se invece vi è richiesta, si riconoscerà al terzo un indennizzo da soddisfarsi come credito
anteriore al concordato stesso.
Vi è silenzio della legge anche circa la sorte dei c.d. atti pregiudizievoli precedenti all’apertura della
procedura. Nella logica del concordato, infatti, non occorre reintegrare il patrimonio del debitore mediante
azioni che presuppongono uno stato di insolvenza del debitore, ma ciò non toglie che se la procedura si
conclude con una dichiarazione di fallimento, il termine per l’individuazione degli atti assoggettabili a

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revocatoria fallimentare risale alla data di apertura del concordato preventivo, con accertamento che lo
stato di crisi che lo ha provocato, consistesse già in quel momento in un vero e proprio stato di insolvenza.

La finalità decisiva per regolare lo svolgimento del concordato preventivo è quella iniziale che la legge
regola come “dei provvedimenti immediati”, cioè dei provvedimenti da compiersi immediatamente dopo
l’apertura della procedura per impulso del commissario giudiziale.
Innanzitutto occorre effettuare una ricognizione dei creditori che ha solo lo scopo di individuare i
legittimanti al voto. Allo stesso tempo, il commissario giudiziale provvederà anche ad una ricognizione della
massa attiva, individuando così i creditori dell’imprenditore in crisi e procedendo all’inventario del suo
patrimonio.
Sia l’attivo che il passivo costituiscono gli elementi determinanti sui quali i creditori potranno fondare una
consapevole scelta di adesione o rigetto della proposta. Sempre in questa prospettiva, il commissario
giudiziale dovrà stilare una relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore,
sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori.
Questo ruolo del commissario giudiziale si riflette anche sulla vigilanza che svolge al fine di tenere al riparto
i creditori da tentativi di frode. Il commissario giudiziale, infatti, non solo vigila sull’attività del debitore
durante la procedura, ma indaga anche su eventuale dolo insito nella proposta di concordato, come quando
si accorge che risultano occultati elementi dell’attivo, o che il debitore ha commesso altri atti di frode. Tale
vigilanza riguarda anche la verifica delle condizioni previste per l’assimilabilità del concordato.
Riscontrate alcune di queste patologie, il commissario giudiziale ne riferisce al tribunale che, verificatone la
sussistenza, disporrà la revoca del decreto di ammissione e l’eventuale dichiarazione di fallimento.

Nella data fissata dal decreto di ammissione alla procedure e comunicata dal commissario giudiziale, ha
luogo l’adunanza dei creditori che sono chiamati ad approvarla o respingerla. L’adunanza si svolgerà in
un’unica udienza, sotto la presidenza del giudice delegato e con la partecipazione del commissario
giudiziale e del debitore che potranno fornire chiarimenti o replicare alle osservazioni dei creditori.
Esaurita la discussione, si procede alla votazione del concordato.
Legittimati al voto sono tutti i creditori chirografari, mentre per creditori privilegiati è previsto che se la
proposta di concordato contempli un pagamento integrale, non avranno diritto al voto.
Tuttavia, i creditori privilegiati potrebbero essere ammessi al voto:

i. se rinunciassero in tutto o in parte al diritto di prelazione;


ii. quando sia la stessa proposta del debitore a riservare un soddisfacimento non integrale ai creditori
privilegiati. In entrambi i casi, infatti, per la parte di credito non ammessa al voto, i privilegiati
saranno equiparati ai creditori chirografari.

Il voto viene dichiarato informalmente ed espressamente nella parte conclusiva dell’adunanza, della quale
deve essere redatto un processo verbale. Ai voti espressi e conteggiati potranno sommarsi anche quelli che
i creditori che non hanno votato in adunanza possono far pervenire per corrispondenza. In mancanza,
coloro che non hanno votato neppure per corrispondenza, si riterranno consenzienti e come tali saranno
considerati ai fini del computo della maggioranza dei crediti.
Il concordato potrà dirsi approvato se avranno votato a favore i creditori che rappresentano la
maggioranza dei crediti ammessi al voto. Si tratta di maggioranza non per teste ma per quote (cioè per
valore in denaro dei crediti: 50% + almeno 1 centesimo di euro). Se però il piano ha previsto diverse classi di
creditori, il concordato è approvato se in aggiunta alla maggioranza complessiva, vi sia anche una
maggioranza per quote all’interno del maggior numero di classi.

Se all’esito della votazione non vengono raggiunte le maggioranze, il concordato viene respinto. Il giudice
riferirà allora l’esito al tribunale con la possibilità che, oltre al decreto di improcedibilità della procedura,
venga emanata anche una sentenza dichiarativa di fallimento del debitore che, diversamente, potrebbe
proporre una nuova domanda di concordato preventivo.
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Al contrario, in caso di approvazione da parte dei creditori, la procedura prosegue con il giudizio di
omologazione, cioè un decreto che, verificata la conformità alla legge della procedura, può produrre gli
effetti tipici del concordato.
Dieci giorni prima dell’udienza fissata potranno costituirsi, oltre al debitore e al commissario giudiziale,
anche i creditori dissenzienti ed ogni altro interessato per proporre opposizione.
Naturalmente, le opposizioni potrebbero anche non essere sollevate da chiunque, e in questo caso il
tribunale, verificata la regolarità della procedura, potrà omologare il concordato con decreto.
Però potrebbero essere sollevate opposizioni da parte di qualunque interessato e in tal caso si instaurerà
un vero e proprio giudizio contenzioso.
Una possibile opposizione può essere fondata sulla sconvenienza della proposta a cui la legge dà conto
solo con riferimento all’ipotesi in cui essa venga sollevata da un creditore appartenente ad una classe
dissenziente; o, in caso di mancata formazione delle classi, da tanti creditori dissenzienti che
rappresentano almeno il 20% dei crediti ammessi al voto.
Quando un’opposizione sia ammissibile, occorrerà pronunciarsi sul suo accoglimento o non, valutandone la
sconvenienza. Il metro che misura tale sconvenienza è un parametro definito come best interest test (test
sulla tutela del miglior interesse del creditore) che consiste nel fatto che l’opposizione sarà respinta, e
quindi non impedirà l’omologazione, qualora il tribunale ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal
concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative praticabili.
Le opposizioni, al di là di tali limiti, potranno fondarsi anche su patologie del procedimento o sulla non
fattibilità del piano.
Nei limiti di motivi fatti valere con le opposizioni, il tribunale dovrà pronunciarsi con decreto motivato
comunicato al debitore e al commissario giudiziale che provvede a darne notizia ai creditori. Se
l’opposizione viene accolta, il decreto sarà di rigetto della proposta e in tal caso potrà farsi luogo al
fallimento del debitore; altrimenti sarà emanato il decreto di omologazione del concordato, con il quale la
procedura potrà dirsi conclusa (art. 181).

Con l’omologazione si produrranno immediatamente gli effetti del concordato:

i. il debitore sarà liberato dalle limitazioni alla disponibilità del suo patrimonio recuperando piena
capacità di agire e processuale e sarà liberato anche dalle obbligazioni il cui adempimento non sia
previsto dalla proposta approvata;
ii. se si tratta di società con soci a responsabilità illimitata, il concordato produrrà effetti liberatori
anche a favore di questi ultimi;
iii. il debitore resterà obbligato a dare esecuzione a quanto promesso nel piano concordatario, sia in
termini di pagamenti veri e propri, sia in termini di atti funzionali;
iv. l’effetto esdebitatorio vincolerà tutti i creditori, compresi quelli dissenzienti, anteriori alla
pubblicazione della domanda di concordato;
v. i creditori anteriori conserveranno intatti i loro diritti nei confronti dei coobbligati, fideiussori del
debitore e degli obbligati in via di regresso con quest’ultimo;
vi. in caso di successivo fallimento (c.d. consecuzione di procedure), poi:
a) gli atti e i pagamenti compiuti in funzione della procedura o in esecuzione del piano saranno
esentati da azione revocatoria fallimentare;
b) i crediti derivanti dalla nuova finanza godranno della prededucibilità;
c) inoltre, varrà l’esenzione dai reati di bancarotta in relazione al compimento di atti o pagamenti
o altre operazioni posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato.

Il decreto di omologazione segna la conclusione della procedura concordataria e comporta la produzione


dei suoi effetti tipici, tra cui soprattutto l’obbligo del debitore di eseguire il piano concordatario,
adempiendo a tutte le obbligazioni previste, nei modi e nei termini indicati.
Spetta poi al commissario giudiziale la sorveglianza sull’adempimento del concordato. Naturalmente dove
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il piano trovi piena e puntuale esecuzione, non vi saranno ulteriori conseguenze giuridiche. Invece, può
anche accadere che gli impegni assunti non vengano rispettati e la legge considera tale ipotesi in senso
oggettivo, cioè a prescindere dai profili di dolo o colpa di chi li ha assunti, sia esso debitore o terzo.
Compete quindi ai creditori la risoluzione del concordato per inadempimento con cui verranno meno
retroattivamente i suoi effetti ma resteranno comunque efficaci gli atti compiuti durante la procedura e in
esecuzione del concordato. I creditori così potranno richiedere, ricorrendo eventualmente al fallimento, il
pagamento dell’intero credito originario, detratto quanto già ricevuto in esecuzione del concordato.
Un altro possibile esito patologico potrebbe essere l’annullamento del concordato con cui si sanzionerà
non tanto l’inadempimento del piano o la sua fattibilità, ma la sua inaffidabilità, rivelata dalla scoperta di un
disegno fraudolento del debitore che abbia dolosamente esagerato il passivo o sottratto una parte
dell’attivo. Tale scoperta potrà allora provocare l’annullamento del concordato da parte del tribunale e con
esso l’abrogazione degli effetti riconnessi alla procedura concordataria, con la conseguente possibilità di
dichiarare anche il fallimento del debitore.

Anche nell’ambito di un fallimento già in atto, il concordato fallimentare è un percorso attraverso il quale
può essere offerta ai creditori la possibilità di esprimersi su un piano di regolazione delle proprie pretese,
alternativo rispetto allo sviluppo che seguirebbe la procedura fallimentare.
Il concordato fallimentare non costituisce un’autonoma procedura concorsuale, ma solo una sub-
procedura che si inscrive all’interno di una procedura fallimentare già in corso, costituendone uno dei
modi di chiusura, e consiste anch’esso in un procedimento giudiziale nel quale i creditori possono
pronunciarsi su una proposta (non proveniente dal debitore) che è orientata ad una loro parziale
soddisfazione, con esdebitazione del fallito per la parte residua.

Come abbiamo detto il concordato fallimentare si realizza in ambito di una procedura fallimentare già
aperta e che ha già prodotto lo spossessamento del fallito e che già è rivolta verso la liquidazione che
porterà alla soddisfazione dei creditori.
Anche tale percorso alternativo può promettere ai debitori risultati migliori rispetto a quelli prevedibili in
base alla procedura in corso.
Il contenuto della proposta di concordato fallimentare non differisce molto da quello del concordato
preventivo. Infatti anche in questo caso si tratta di un piano per realizzare la finalità principale di soddisfare
i creditori, secondo le modalità che il proponente può decidere liberamente e che, come il concordato
preventivo, potranno consistere:

‐ in una soddisfazione parziale dei creditori privilegiati e per la parte residua degradandoli a
chirografari;
‐ nella suddivisione dei creditori chirografari in classi destinatarie di trattamenti differenziati;
‐ nella realizzazione di opere straordinarie capaci di assicurare la conservazione dell’impresa;
‐ può anche prevedersi che il pagamento dei creditori può ottenersi almeno in parte attingendo da
flussi finanziari provenienti dalla prosecuzione, medio tempore, dell’impresa fallita.

Differenze rispetto al concordato preventivo si riscontrano sull’iniziativa. La proposta concordataria, infatti,


potrà essere presentata, almeno inizialmente, solo da uno o più creditori, o da un terzo, e sarà possibile a
partire dal momento in cui si disponga di una rappresentazione complessiva dalla massa dei creditori da
soddisfare e quindi solo dopo che sia stato reso esecutivo lo stato passivo; o prima, ma solo se vi siano
anche una contabilità ed altre notizie tali da consentire al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei
creditori.
Il fallito non potrà invece presentare una proposta di concordato fallimentare, se non dopo il decorso di un
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dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo
stato passivo.

La proposta andrà poi presentata con ricorso al giudice delegato il quale, a sua volta, dovrà acquisire due
pareri: il primo del curatore che deve riferirsi ai presumibili risultati della liquidazione e alle garanzie
offerte; e poi il parere vincolante del comitato dei creditori. Inoltre, se il piano proposto prevede anche una
suddivisione dei creditori per classi destinatarie di trattamenti differenziati, esso dovrà essere sottoposto al
vaglio del tribunale che sarà chiamato a verificare il corretto uso dei criteri in base ai quali è stata operata la
suddivisione in classi e la previsione dei rispettivi trattamenti differenziati. Solo dopo che siano stati assunti
i pareri del curatore e quello necessariamente favorevole del comitato dei creditori, e superato l’eventuale
vaglio del tribunale, il giudice delegato procederà alla comunicazione ai creditori della proposta,
unitamente ai pareri. In tale comunicazione i creditori dovranno anche essere avvisati della regola secondo
la quale la mancata risposta sarà considerata come voto favorevole e del termine entro il quale potranno
pervenire le eventuali dichiarazioni di dissenso nella cancelleria del tribunale.
Legittimati al voto sono tutti i creditori chirografari e quelli muniti di privilegio, pegno e ipoteca solo se e
nella misura in cui la proposta di concordato non prevede l’integrale pagamento, o nella misura in cui essi
rinunceranno, anche parzialmente, al diritto di prelazione.
Sulla base di tali criteri, si procederà alla votazione, conteggiando come consenzienti tutti coloro che non
avranno fatto pervenire il loro dissenso entro il termine fissato dal giudice delegato. La regola del silenzio-
assenso, infatti, prevede che la semplice inerzia comporti l’approvazione di una proposta che essi dovranno
subire senza la possibilità di contestazione.

Completata la votazione, il curatore riferirà l’esito al giudice delegato, il quale a sua volta, se sono state
conseguite le maggioranze previste dalla legge, disporrà che il curatore ne dia comunicazione al
proponente perché richieda l’omologazione del concordato.
Il giudizio di omologazione si concluderà, in caso positivo, con l’omologazione del concordato fallimentare
con decreto motivato del tribunale, emesso alla scadenza del termine per proporre opposizioni o quando
esse risulteranno definitivamente respinte. Il decreto sarà reclamabile davanti alla Corte d’Appello ed
eventualmente ricorribile in cassazione; solo quando diventerà definitivo potrà dirsi efficace.
Dopo di che il tribunale dichiarerà la chiusura della procedura fallimentare, con il che il fallito recupererà la
piena disponibilità del suo patrimonio e la liberazione da ogni impegno che non derivi dal concordato.
Il concordato fallimentare omologato, dunque, risulterà obbligatorio nei confronti di tutti i creditori
anteriori all’apertura del fallimento, e come nel concordato preventivo essi conserveranno la loro azione
per l’intero credito contro i coobbligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso.

L’esecuzione del concordato fallimentare sarà sorvegliata dal giudice delegato, dal curatore e dal comitato
dei creditori, secondo le modalità previste nel decreto di omologazione, fino a quando un provvedimento
del giudice delegato accerterà l’avvenuta esecuzione del concordato, ordinando lo svincolo delle eventuali
cauzioni e la cancellazione delle ipoteche iscritte a garanzia, e ogni altra misura idonea per il
conseguimento delle finalità del concordato.
Qualora il piano non venisse eseguito o risultasse viziato da frode, potrà richiedersi la risoluzione o
l’annullamento del concordato che saranno dichiarati con sentenza che provocherà la riapertura del
fallimento, con i suoi effetti, fra i quali la riammissione dei creditori al passivo per l’importo originario del
credito, detratta la parte riscossa in parziale esecuzione del concordato.
Inoltre, per effetto di tale riapertura, è previsto (art. 140) che potranno essere riproposte azioni revocatorie
già iniziate ed interrotte per effetto del concordato. Non è neanche escluso che, a seguito dell’insuccesso
del concordato fallimentare e della conseguente riapertura del fallimento, possa essere riproposto un
nuovo concordato fallimentare. In questo caso, però, la legge (art. 141) pretende garanzie adeguate ad
evitare un nuovo insuccesso.

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