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DE SANCTIS, Francesco

di Attilio Marinari - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

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DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28 marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in
prov. di Avellino), al centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di cui
gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva, mentre il potere era gestito
direttamente dal clero e dai piccoli o medi proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla
Chiesa sul piano economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i primi nove
anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento, perché sempre egli lo ebbe presente
come "polo reale" e, insieme, come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e rispetto
alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso" (morale, culturale, civile).

La famiglia De Sanctis apparteneva a quel ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti,
gli avvocati e i pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro (1787-1874), che però
viveva del reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un "buon matrimonio"
locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi progressivamente sempre più dissestata; preti i
due zii Carlo e Giuseppe; medico lo zio Pietro (ed anche per costui la qualifica professionale servì
soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come molti esponenti del
"galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in
funzione patriottica e antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in
esilio per dieci anni, serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il patrimonio. L'altro prete,
invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come titolare di una stimata "scuola di lettere" (un
ginnasio privato).

Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo zio Carlo.

Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare l'elenco delle discipline da lui studiate, con
fortissimo impegno, per tutta la durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica,
Rettorica, Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e inoltre "l'Aritmetica,
la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una serie di notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che
critico e innovativo ("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi in
mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie di Goldsmith, la Gerusalemme del
Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria").

Poiché i cinque anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in due anni di studi
"filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di don Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di
dichiarate convinzioni sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di "Locke,
Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del Genovesi, ma (e questo è un tratto molto
importante, destinato a rimanere come atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era
propria sia dell'ambiente familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il sensismo en una cosa
buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a Lamettrie e ad Elvezio .... Voltaire,
Diderot, Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli"). Lo stesso amalgama
di aperture progressiste e di scarsa chiarezza ideologica fu nell'esperienza successiva (quella degli
studi giuridici), in un'altra scuola privata, dove (con l'abate Garzia) il D. imparò ad apprezzare
soprattutto i codici napoleonici, aprendosi così alla dialettica giuridica liberale. Questi studi
avrebbero dovuto rappresentare il punto d'arrivo di tutto il lavoro precedente (poiché, scartata una
primitiva ipotesi di carriera ecclesiastica, si pensava di far di lui un avvocato), ma a determinare una
diversa scelta di vita intervenne una grave malattia dello "zio Carlo", in seguito alla quale il peso
della scuola cadde sulle fragili spalle del D. diciottenne, ed egli divenne fonte di sostegno
economico per la sua numerosa famiglia (dopo la morte della primogenita Genoviefa, restavano ben
cinque tra fratelli e sorelle, che sempre in qualche modo gravarono su di lui, con molte
preoccupazioni e ben poche gratificazioni affettive o sociali).

Un altro avvenimento, questo di qualche anno prima (1833), aveva preparato nel D. tale mutamento
di interessi e di scelte: il suo ingresso nella "scuola di lingua italiana" del marchese Basilio Puoti: di
un "maestro", cioè, che rappresentava in quel momento uno dei punti di riferimento più vivi della
cultura napoletana e che presto prese a stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed è in ambito puotiano che
nascono i primi scritti a stampa del D.: la sua volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano
Nicio Eritreo (Discorso contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e
del cugino Giovannino) al Puoti dell'edizione (da entrambi curata) del Volgarizzamento delle Vite
de' santi Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale di Feo Belcari (1836).

Non è da qui però che si può ricavare l'immagine complessiva di ciò che egli era alla fine del suo
corso ufficiale di studi e all'inizio del suo primo magistero.

Certo, la competenza grammaticale e testuale e la sensibilità alle cose della lingua (alla lingua come
sistema formale in cui penetrare con il rigore dell'intelligenza, della scienza e del gusto) erano allora
e restarono per sempre una componente molto importante del D. studioso e maestro (questo va
ribadito, anche per opporsi a una troppo lunga sottovalutazione critica dell'eredità puristica attiva
all'interno della metodologia critica desanctisiana); ma dalla sua precedente esperienza culturale
egli aveva ricavato anche un complessivo eclettismo nozionistico e ideologico, un evidente taglio
"settecentesco" nell'impostazione del sapere e in più una vastissima pratica di letture, che egli
sottolinea con forza nella Giovinezza e che si riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo dai suoi
"ricordi", risulta che il D., diciottenne, aveva letto con profondo coinvolgimento (oltre a tanti latini,
greci, filosofi, storici e giureconsulti) un'incredibile quantità di classici italiani maggiori e minori,
dai trecentisti a Metastasio, e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo, Manzoni, Berchet,
Leopardi, e Fénelon e Voltaire, Young e Scott (ma la zona "moderna" ed "europea" andava
rapidamente allargandosi: a poco più di venti anni, il suo patrimonio di lettura spaziava con
sicurezza da Shakespeare a Richardson, da Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e
Hugo).

La professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva (grazie all'intervento del marchese


Puoti) nel 1838-39, più o meno contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima alla
scuola dei sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare della Nunziatella, prestigiosa accademia
militare borbonica) e in quello privato (con la "scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì per lui,
affidandogli all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua stessa funzione
docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano importanti documenti nei Quaderni discuola e
una vasta rievocazione nella Giovinezza) si attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la
definizione di "prima scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più giusto comprendere nella
definizione l'esperienza didattica complessiva del decennio 1838-48: il decennio che consacrò il
successo indiscusso del D. maestro, il quale intanto (nelle diverse fasi della sua frenetica attività)
metteva a punto il suo metodo e il suo atteggiamento critico, mentre andava costruendo intorno a sé
rapporti affettivi e intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita, e mentre andava
maturando fondamentali scelte ideologiche, filosofiche, politiche.
I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo insegnamento desanctisiano, furono in
massima parte scritti dagli alunni sotto dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei
diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come veri e propri libri di testo costruiti in
parallelo con l'esperienza scolastica. Si tratta, perciò, di una testimonianza ampia e diretta del suo
progressivo evolversi (a stretto contatto con la cultura del proprio tempo) dal purismo e
dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il neocattolicesimo, la
partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello storicismo romantico. In vista della loro
funzione manualistica, i quaderni sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola
(alcune presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo stesso D. testimonia nella
Giovinezza). La grammatica fu l'insegnamento originario della scuola, ma i quaderni
"grammaticali" più importanti che ci restano appartengono agli ultimi anni e si configurano perciò
come approdo della ricerca desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo romantico,
del giobertismo, di Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro possesso sono quelli di Lingua e
stile (1840-41), dove, dopo una serie di precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza
della "grande Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo documentato il primo impatto
con il pensiero romantico tedesco (in particolare con F. Schlegel) e tracciata la prima sintesi di
storia della letteratura italiana ("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già alcune
caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in ambito postilluministico, con
grande attenzione all'Europa e al presente letterario, ma presenta come modello privilegiato di
scrittore "contemporaneo" il Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista neocattolico, che
andrà attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia è nei quaderni dedicati alla Lirica
(1841-42), in cui l'approdo è rappresentato dal Leopardi; i quaderni sul Genere narrativo (1842-43)
hanno le loro fonti in Villemain, Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità
notevolissimo si avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45 (Estetica applicata), in cui
l'esigenza di definire teoricamente i problemi dell'arte trova un sicuro sostegno nelle teorie estetiche
di Gioberti, mentre Hegel fa la sua apparizione nel corso di Storia della critica (1845-46), che
introduce una più stimolante rivisitazione della lirica. Nei due anni successivi egli presenta ai suoi
allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione francese di Ch. Bénard. Alla luce dei nuovi principî
affronta inoltre l'esame della Letteratura drammatica (1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere
di Shakespeare. Dell'ultimo anno di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto di Storia e
filosofia della storia, che ha come punti di riferimento costanti Vico, Sismondi, Hegel e che aiuta a
chiarire il senso dei "compendi" (autografi) della Storia d'Inghilterra di Hume e della Storia civile
del Regno di Napoli di Giannone. Questo blocco di materiali storiografici conferma il livello
criticamente e ideologicamente molto avanzato della ricerca desanctisiana alla fine della "prima
scuola", attestando una visione laica della storia, un rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte
rivendicazione della "concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché una chiara assunzione di
metodo hegeliano in direzione progressista.Negli entourages di Puoti, della Nunziatella, della sua
stessa scuola (e delle altre che dopo il 1830 fiorirono a Napoli, inaugurando il clima "filosofico"
vichiano-hegeliano), il D. aveva finito per trovarsi al centro dell'intellettualità progressista
napoletana, non si sa fino a che punto compromettendosi con le frange estremistiche di essa. Fatto
sta che molti giovani della sua scuola si schierarono a combattere sulle barricate del maggio 1848
(dove fu ucciso quello che era certamente il più colto e il più ideologizzato fra tutti: Luigi La Vista)
e che dopo quella data il D. fu in qualche modo implicato in una setta segreta rivoluzionaria di
ascendenza musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato per il quale, tra gli altri, furono
condannati a morte L. Settembrini e C. Poerio ("Si facevano i più matti deliri: porre una mina sotto
Palazzo Reale pareva un gioco ... Fu la prima volta e sola che fui in convegni segreti"). "Espulso",
perciò, dalla Nunziatella e da "ogni altra scuola anche privata" (come recitano i rapporti della
polizia borbonica, che cominciava ad interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in Calabria presso
un noto e attivo "patriota", il barone Francesco Guzolini, in casa del quale fu arrestato il 3 dic. 1850
con l'accusa di essere "uno dei principali agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-
Rollin". Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì due anni e mezzo di "carcere duro",
e fu infine giudicato politicamente molto pericoloso ("attendibilissimo") e perciò bandito dal Regno
e imbarcato per gli Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici napoletani (in particolare A.C. De
Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in esilio) lo aiutarono a sbarcare a Malta, per raggiungere il
Piemonte, inserendosi nell'allora foltissima schiera degli illustri esuli politici ivi rifugiatisi (tra i
meridionali, sono da ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P. S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G.
Nicotera, E. Cosenz).

Gli scritti del periodo calabrese e della prigionia rappresentano la punta massima della "spinta a
sinistra" che segnò il pensiero desanctisiano a partire dal 1848. In Calabria furono elaborati due
saggi (Introduzione all'Epistolario di G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di F. Schiller), in cui
l'interpretazione dei testi esita in senso fortemente politico (sia Leopardi sia Schiller segnano la fine
di un'epoca, quella dell'individualismo, dalla quale va nascendo un'epoca nuova - dell'"Umanità" -
impegnata in senso sociale). In Calabria fu probabilmente impostato anche un dramma in prosa, il
Torquato Tasso, terminato negli anni di prigionia (il modello più vicino è quello goethiano; il
linguaggio è leopardiano; evidente è l'identificazione personale-politica dell'autore con
l'intellettuale perseguitato). Negli stessi anni il D. studiò la lingua tedesca e se ne servì sia per
tradurre il Manuale di una storia generale della poesia di K. Rosenkranz, sia per leggere in lingua
originale la Logica di Hegel, che ridisegnò in una serie di Quadri sinottici (praticamente una sintesi
completa dell'intera opera). Ma il testo più interessante elaborato in Castel dell'Ovo (nel 1850-51) è
certamente La prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti (l'unica prova poetica, se si esclude
qualche poesia d'occasione), che rappresenta il punto massimo di "giacobinismo" realizzato dal D.,
con il rifiuto e la denuncia di ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto al neocattolicesimo
degli anni della "prima scuola"), e con una proposta politico-ideologica chiaramente ispirata
all'interpretazione "di sinistra" della filosofia di Hegel. Fortissima è anche la svolta di atteggiamento
nei confronti del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e scettica divulgata nel clima del primo
romanticismo napoletano si sostituisce un'immagine combattiva e materialistica del poeta di
Recanati (che offre, del resto, il modello stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come storia
metaforica del pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la tirannia, l'oscurantismo,
l'ingiustizia sociale).

A Torino il D. rimase dal settembre 1853 al marzo 1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De
Meis e Marvasi e con B. Spaventa, ma molto isolato rispetto al potere politico e culturale. Il suo
unico lavoro fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano nell'istituto femminile della signora Eliott
(dove si verificò un episodio d'innamoramento - per la giovanissima Teresa De Amicis - che
riempirà d'illusioni e di malinconie gli anni successivi); ma ebbe anche alunni privati dal nome
prestigioso (come Virgina Basco - futura destinataria del Viaggio elettorale -, Ainardo di Cavour,
Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del periodo torinese si realizzò, tuttavia, attraverso due corsi
di "lezioni pubbliche" su Dante (1854 e 1855): conferenze organizzate dai suoi amici per
soccorrerlo "nella dignitosa povertà dell'esilio" e che di fatto lo rivelarono alla cultura italiana.

Nel 1855 egli prese a collaborare alle appendici letterarie: sul Cimento di Torino pubblicò alcuni
saggi fondamentali, vero e proprio punto d'arrivo della sua critica "militante". E allo stesso anno
risale anche il primo episodio di giornalismo politico della sua vita: la pubblicazione, sul Diritto di
Torino, di una serie di interventi contro il "murattismo" (cioè contro l'ipotesi di una sostituzione
"diplomatica" della dinastia borbonica di Napoli con la discendenza di Gioacchino Murat), che
rappresenta la prima fase di avvicinamento del D. alla monarchia sabauda (questa viene proposta
come unico possibile strumento di unificazione della nazione, in un'ottica di "patriottismo
costituzionale" cui, in seguito, egli resterà sempre sostanzialmente fedele).

Nel 1856, sempre per interessamento dei suoi compagni d'esilio, fu finalmente gratificato di un
importante incarico pro- fessionale: l'insegnamento della letteratura italiana presso l'Istituto
universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. Gli anni di Zurigo furono
anni di nostalgia e di isolamento (anni di réve, com'egli stesso diceva), ma produssero almeno due
conseguenze molto importanti: l'elaborazione di lezioni che sarebbero rimaste come una pietra
miliare della sua ricerca critica (soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia cavalleresca) e il contatto
con ambienti culturali e politici di vera e propria avanguardia in Europa (Wagner e Matilde
Wesendonck, Moleschott, gli Herwegh, Burckhardt, Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di conoscere
e di valutare criticamente (per esempio, prendendo le distanze dall'irrazionalismo di Wagner e di
Schopenhauer molto prima che le mode irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di capire i
limiti concreti del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era ancora un mito in Italia).

Dei corsi danteschi di Torino non restano manoscritti, ma ciascuna lezione fu ricostruita su appunti
di allievi (Marvasi, D'Ancona), in vista di una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le
conferenze torinesi (undici di argomento teorico, diciannove dedicate all'Inferno, cinque al
Purgatorio) sviluppano presupposti romantico-hegeliani, con particolare riguardo ai problemi
dell'"unità" e della "forma" del poema di Dante. Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno,
emergono le grandi figure alla cui analisi è legata la fama popolare del D. dantista (Farinata,
Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio monografico che sarà proprio dei maggiori saggi
desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e prolungandola fino a percorrere tutta la Divina
Commedia, il D. insegnò Dante a Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta la
ricostruzione da appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò successivamente su
Dante e sul suo tempo (ivi compresi i capitoli della Storia, che ne tesaurizzano le idee-forza), ma i
risultati metodologici più avanzati da lui raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai
contemporanei scritti giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i Saggicritici). Il
Pier delle Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese trascritta, per LaNazione di Firenze, da A.
D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i "grandi caratteri" e le "grandi passioni" dei
personaggi e ne analizza le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La Divina Commedia
(versione di Lamennais), anch'esso del 1855, dichiara la fine dell'antico metodo retorico e il rifiuto
del metodo "storico" di oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante e sua utopia (1856)
individua il "centro" della grandezza poetica di Dante nella sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera
l'esistenza in tutta la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese (molto più
problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito nel saggio del 1857 Dell'argomento della
Divina Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del sistema e dall'altra la validità degli
strumenti d'analisi hegeliani, a stretto contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per il D.
definitivo).

Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o d'occasione (destinati a giornali torinesi e


anch'essi in massima parte raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno
"militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo critico che sono al centro
dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente politico di questi saggi è L'ebreo di Verona
(febbraio 1855), che consacrò, a livello nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore
del romanzo, il gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo manzoniano,
ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista: il suo ruolo storico, dopo la
sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi colpi codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica
passa sempre attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della letteratura. In
Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza: di fronte al poemetto di G. Prati "la
fantasia rimane inerte: il cuore riman freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi
non vi è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è forse il primo poeta di
second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto, i suoi testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della
"declamazione rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati: essa è
condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi politiche, come nella
Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel "vecchio repertorio" delle "metafore" e dei
"luoghi comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della "grande poesia" nel
mondo moderno, dice in un importantissimo saggio, e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla
sua donna. Poesia di G. Leopardi ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D.,
che, con parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di poeta laico,
interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi "critico e filosofo" e di far "scintillare"
la poesia dalla "meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del presente letterario fa
temere un ritorno alla identificazione tra poesia e retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti,
1855). A questa pericolosa tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi
contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la Mirra), ed
evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la rivalutazione della fase
"eroica" del classicismo settecentesco, nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò
questa rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo e
"Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e la polemica colpisce anche un critico
come A. de Lamartine ("Cours familier de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso
ambito il modello di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e "Le
contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il recupero di un classico manierato come
Racine, perché capace di creare dei grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In
questo ambito, infine, si configura una delle prime, ma già precise professioni di "realismo" del D.
critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il sentimento astratto non è poesia, non è cosa vivente ... La
poesia dee riprodurre la realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un uomo vivo", perché
questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo personaggio poetico".

La progressiva conquista di un punto di vista "realistico" con cui guardare al testo letterario è
registrata dai ricchi appunti che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi sul Poema
epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine "realismo" (ancora nuovo nella
critica francese più avanzata da cui lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano
come strumento di critica letteraria e conferma la validità degli strumenti d'approccio al testo
ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio filosofico più complessivo, nell'ultima fase del suo
esilio e del suo vitale contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo
Schopenhauer e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura leopardiana (ispirata alla
provocatoria ironia delle Operette morali), ma s'interessa a Leopardi solo nell'ultima parte,
dedicando molto spazio all'illustrazione del pensiero di Schopenhauer, indicato come il liquidatore
di un'epoca (quella "dell'Ottantanove", "del Trenta", "del Quarantotto") che egli considera
"un'illusione, o piuttosto ... una imbecillità generale". La filosofia di Schopenhauer è, perciò,
"nemica della libertà, nemica dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone "lo Stato
monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi", nega la libertà di stampa e odia Hegel come
"corrompiteste" (la moda di Schopenhauer in Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso
storico: la sua tardiva riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima
vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer; ma, in realtà, c'è tra i
due una vera e propria opposizione, e Leopardi è tanto interno alla fase "eroica" (progressista e
rivoluzionaria) dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza non è
solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo "spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue
scelte di stile "inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della retorica), ma anche e
soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce come uomo e poeta veramente "grande" (egli
"non crede al progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è scettico, e ti
fa credente").

Dopo le speranze e le delusioni della seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei
Mille, il D. lasciò improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un ruolo,
probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito garibaldino" (e lo stesso Garibaldi)
ad accettare il plebiscito "piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di preparazione del
plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di Avellino e si mostrò attivissimo
organizzatore del consenso politico, della guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era
già esploso violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo, fu direttore
dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il novembre del 1860), tesaurizzando
tutte le precedenti esperienze di riforme liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò
una vera e propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad insegnare illustri
rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a
Mancini); in sostituzione del liceo gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei
maestri elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò l'istituzione di
scuole "normali" in tutte le province della luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per
sempre nei suoi ricordi come il periodo eroico della sua vita).

Eletto deputato al primo Parlamento nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con
Cavour e con Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata a
Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta e ibrida realtà nazionale
(in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre una "legge di riforma" della scuola italiana, si
limitò ad estendere con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo del
primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza teorizzata nel programma
iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in
carta. Sapete, o signori, quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo
effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero ... Provvedere
all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo ambito si pone anche la battaglia per
istituire una rete capillare di "scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché l'impegno per la
qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate furono anche in questo campo le più
importanti scelte progressiste, come quella che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott
ad insegnare fisiologia nell'università di Torino).

Dopo questo incarico ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un
anno, tra il 1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione rispetto ai nuovi gruppi di
potere (le "consorterie", che vedeva via via riavvicinarsi ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea
mediana di progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si pose il giornale L'Italia
(che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al gruppo emergente della Sinistra costituzionale,
che nel 1865 ottenne proprio nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento
garibaldino ai tempi di Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un importante
discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo ideologico, politico ed
economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della sua partecipazione politica.

Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da
cui non nacquero figli) non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la sua
vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di réve e di comunicazione
sentimentale. All'interno di una sempre meno inconfessata delusione politica e personale, egli tornò,
quindi, agli studi che gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872
pubblicò in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici dell'esilio), il Saggio critico
sul Petrarca, la Storia dellaletteratura italiana, i Nuovi saggi critici.

Il Saggio critico sul Petrarca (1869) ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno
1858-59, con "pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso si articola in dodici
capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come
lettura tematica e analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista per
l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata dal D. a partire dalla "prima
scuola" e consolidata appunto negli anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del
romanticismo, dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti panlogistici;
rivendicazione della "poesia" come "forma uscita dal più profondo della vita reale" e come
"sostanza vivente", secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In
quest'ottica, Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica ne aveva segnalato, e va
rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo (cioè dalla sua riduzione a modello "rettorico" e
"platonico"). La "poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in particolari "situazioni" liriche
(soprattutto nella "malinconia" e nei momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli
frapposti dall'educazione "rettorica" e da una visione "spiritualistica" della vita. Particolare interesse
è rivolto alla figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la creatura più reale ...
che il Medioevo poteva produrre", e la sua "realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere,
non si spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa "situazione" Petrarca
tocca le sue rare punte di "poesia sublime").

La Storia della letteratura italiana (1870-71) nacque come testo scolastico ed è, infatti, una sintesi
didattico-pedagogica di materiali in gran parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica
(quella appena illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per un progetto
complessivo di informazione-formazione (il progetto dell'"educazione nazionale") nel quale
convergono tutte le attese (ed anche i timori) del D. "letterato" e "politico" agli inizi degli anni
Settanta. Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della letteratura italiana
che va dal XIII al XIX sec. secondo il "principio direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno
dei suoi ultimi scritti) della "successiva riabilitazione della materia" (di "un graduale avvicinarsi alla
natura e al reale", in parallelo con i progressi della scienza, della cultura, del costume, della vita
politica, della stessa morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia perché l'ipotesi del
"graduale" svolgimento della storia letteraria verso mete progressive è fortemente contraddetta dalle
fasi di stasi, d'involuzione, di "ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o divaricazioni
tra livello storico e livello letterario (e qui s'innesta la forte rivendicazione della "forma" come
valore specifico del testo letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il metodo
monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna lunghe soste con rapidissimi
voli, grandi indugi analitici con improvvise e fortissime elisioni. La Storia procede, perciò, per
grandi nodi tematici e testuali, muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e richiami tra
fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del linguaggio dal familiare e dal basso
all'oratorio e al patetico, non senza momenti di carattere mimetico a ciascun livello di scrittura
(sono queste, del resto, le caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino
della Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come "scuola poetica ... feudale
e cortigiana", legata alla potenza della corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a
maturità", radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di radicamento si analizza nel
ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e
sulla "scienza" che si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto d'arrivo
di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il breve capitolo dedicato a La lirica di
Dante la definisce come "la voce dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente)
l'epoca della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo moderno". Coi capitoli IV e V il discorso
ritorna alle origini, per esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono
"l'idea religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che restano a livello di fase letteraria
preparatoria dell'"aureo" Trecento. A questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai
Fioretti, al Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla "maravigliosa cronaca" di
D. Compagni), che però anch'esso converge, romanticamente, verso la grande figura protagonistica
di Dante. La trecentesca "commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui nascerà La
"Commedia" (cap. VII), con la sua "base ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma
tutto ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa poetica" attraverso e
nonostante la quale Dante crea un'opera somma di poesia (una vasta analisi del poema tende proprio
a mostrare come, per virtù di passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri,
quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura
moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il "Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca
non è solo un "artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma è il rappresentante di una nuova
generazione culturale che, dopo Dante, "volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo
romano e latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da una parte c'è il
"rinnovamento" inteso come nascita della coscienza laica; dall'altra la letterarietà come
"erudizione", "imitazione", abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli, la storia della
letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il Decamerone (cap. IX) appare come "l'apoteosi
dell'ingegno e della dottrina" in dimensione laica, ma anche come espressione di un "niondo
borghese" che, liberatosi dai vincoli dello spiritualismo, non riesce ad innalzarsi, al di là del
"comico", fino alle "alte regioni dello spirito". Il Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede l'arte
assoldata al mecenatismo, pur quando potrebbero porsi le condizioni storiche per un avvicinamento
tra cultura e "popolo" (ad esempio, nella Firenze medicea) e pur quando sono già stati raggiunti
grandi vertici di raffinatezza letteraria (ad es., nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine il
Seicento, simboleggiato dal Marino (cap. XVIII), produce in letteratura "idilli" ed "elegie",
"voluttà" e "musica", mentre l'intellettuale italiano si fa "estraneo al movimento della cultura
europea e a tutte le lotte del pensiero", stagnando "in un classicismo e in un cattolicesimo di
seconda mano". Nell'arco fra '300 e '600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli episodi
letterari che il D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori, dedica interi capitoli: a F.
Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La Maccaronea il cap. XV, a Pietro Aretino il cap. XVI.
L'opera dell'Ariosto (L'Orlando furioso, cap. XIII) è esaminata secondo i parametri zurighesi:
inserita nella serialità storica, essa si propone come "sintesi dell'intero Rinascimento", mentre
l'"ironia" e il "riso scettico" di Ariosto si manifestano espressione di un "secolo adulto" (cioè
divenuto capace di critica e ormai maturo per la libertà "borghese", pur nell'accettazione di fatto
della realtà "cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII), autore-simbolo dell'ambivalenza ideologica e
sentimentale, offre l'occasione per un discorso altrettanto ambivalente sulla Contro-riforma e sul
suo significato storico-culturale. Il poema del Tasso è lo specchio della "ipocrita" cultura
controriformistica italiana e i suoi valori letterari vanno individuati in senso opposto rispetto a
quello programmatico e ufficiale: non nella "falsa" religiosità, ma nell'"idillio", nell'"elegia", nella
"voluttà" (Tasso è, perciò, accostato al Petrarca, nella tradizione di storiografia politica risalente a
Sismondi e Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una punta alta, un
grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli (cap. XV), che riesce a costruire una valida ipotesi
di "rinnovamento", sia opponendo alla teocrazia "l'autonomia e l'indipendenza dello Stato" ("un
presentimento dei nostri ordinamenti costituzionali"), sia rinnovando il "metodo" della conoscenza,
col rifiuto della "teologia" e del principio di "autorità" (per lui "la verità è la cosa effettuale, e perciò
il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti").
Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le riserve moralistiche precedentemente
espresse su di lui) è un caso-limite d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a
simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché il D.-maestro che scrive
la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa
riferimento) vuol proporre ai giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi
indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che indichi anche lo strumento di una
lingua letteraria "precisa e concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene
attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a distanza di 4
capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva della Storia, che consiste nei due ultimi
lunghissimi capitoli, intitolati La nuova scienza (cap. XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il
rapporto tra essi è derivativo: la "nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla "scienza", che ha
come obiettivo "il progresso e il miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la
libertà intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno" (i primi intellettuali capaci
di "lottare, poetare, vivere, morire" per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella,
Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle spalle il pensiero laico
europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come s'innesta in questo clima la "nuova
letteratura"? Dopo l'affascinante ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la
scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo autore "vero" della "nuova letteratura"
è Goldoni (ma con dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi vengono
Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti negli eccessi e nelle scelte di
stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora
offerto, in Italia, modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario è,
perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il mondo moderno in mondo nostro,
studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, "esplorare il proprio petto" secondo il motto
testamentario di G. Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna".

Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì
alcuni scritti (in gran parte composti per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la
stesura della Storia e che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico è
Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che, recensendo l'opera appena
pubblicata, la denuncia come fondata su "pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che nulla
hanno a che fare col letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di autori come Machiavelli,
Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si contrapporrà, appunto, la Storia desanctisiana).
Fondamentale, per chi indaghi sulla genesi della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici
(1869), in cui il D. condanna il grave limite del contenutismo radicale settembriniano, così come
aveva condannato il contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed afferma che una vera storia
della letteratura dovrebbe essere un lavoro interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte,
storia, filologia") al quale la cultura italiana non è ancora attrezzata (risalendo queste considerazioni
al periodo iniziale di stesura della Storia, esse dimostrano la problematicità del D. nei confronti
della sua opera maggiore, e la profonda consapevolezza della "parzialità" di essa). Più collegati alla
componente ideologica "positiva" della Storia risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei
puristi del 1868. Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma, per il presente,
la necessità di un impegno tutto reale e concreto ("il materialismo è uscito trionfante dal seno stesso
del mondo hegeliano" e impone la "serietà della vita terrestre"); nel secondo, la stroncatura di un
purista attardato (F. Ranalli) dà luogo a una attenta e intelligente rievocazione del Puoti e della sua
scuola, che fu "bandiera" di "libertà, scienza, progresso, emancipazione" nei primi decenni del
secolo, ma che (a parte il valore sempre vivo del "metodo" puotiano) esaurì il suo ruolo storico alla
vigilia della fase rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia puristica risulta storicamente e
politicamente ingiustificata). Anche i grandi saggi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini, Il
Farinata di Dante, L'Ugolino di Dante) nacquero in margine alla Storia, sia come ripresa del tema-
Dante (e, in particolare, delle riflessioni zurighesi), sia come esempio di quel lavoro di
"monografia" che il D., all'epoca, considerava storicamente e scientificamente più valido delle
"sintesi". I personaggi danteschi prediletti dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti
rispettivamente in chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio politico (Farinata),
complessità e profondità di sentimenti antinomici (Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta,
sensibile lettura testuale (era in questo, appunto, che il D. voleva proporsi come modello di critica
"attuale", "paziente" e costruttiva, ed è appunto questo l'aspetto dei Saggi che va ancor oggi
rivendicato). Il saggio L'uomo del Guicciardini (1869) ripropone l'antitesi (presente anche nella
Storia) fra Machiavelli, precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui "particulare"
rifiuta ogni "vincolo religioso, morale, politico" (ma la vera funzione del saggio si esplicita
nell'ultima frase, di amara denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del Guicciardini
vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni passo").

Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura comparata nell'università di Napoli, dove egli
tenne quattro corsi annuali, dal 1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come "seconda scuola
napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni, rispettivamente su Manzoni, Scuola cattolico-
liberale, Scuola democratica, Leopardi). Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di
saggi (Nuovi saggi critici, Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli
orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica che sarebbe continuata, per dieci
anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874 e il 1875 realizzò un nuovo momento d'impegno
politico attivo, in occasione delle elezioni che prepararono l'avvento al potere della Sinistra
costituzionale (in particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna elettorale,
la propria candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella provincia d'origine, e ne rivisse il
ricordo in una serie di cronache giornalistiche pubblicate prima sulla Gazzetta di Torino e subito
dopo in volume, col titolo Un viaggio elettorale, 1876).

Al 1877 data il terzo e ultimo episodio importante di giornalismo politico desanctisiano: ancora un
impegno battagliero, ma interno alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e antidemocratica del
potere da parte di Depretis e Nicotera), condotto soprattutto sulle colonne del Diritto di Roma. Nel
1878 Cairoli riaffidò al D. il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al 1880,
riproponendo, dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti" (la "scuola per l'infanzia", la "scuola
primaria", la formazione dei maestri) e quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di cultura
"scientifica" da sostituire alla "cultura retorica"; ma ancora una volta fu sconfitto nei punti più
qualificanti del suo programma (la traccia più concreta che ne rimase fu l'inserimento
dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento: un omaggio alla rivalutazione positivistica
dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito da una grave malattia agli occhi, lasciò l'incarico ministeriale e
dedicò i suoi ultimi anni di vita a un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie che andò
dettando alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione della riflessione
petrarchesca e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883, lasciando incompiuti i suoi ultimi lavori,
cui, pur tra le sofferenze della malattia, si dedicò sino alla fine.

Come tutti i principali episodi dell'insegnamento desanctisiano, anche le lezioni della "seconda
scuola napoletana" sono documentate da riassunti (redatti in genere da F. Torraca), rivisti e
ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso (gennaio-marzo 1872) fu dedicato a Manzoni e
rappresenta il punto d'arrivo di una riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a
Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza trovare una sistemazione editoriale.
In queste lezioni le posizioni ideologiche e gli strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto agli
anni della "prima scuola", ma non cambia il giudizio di valore. La grandezza del Manzoni è
identificata ora nella sua capacità di "calare l'ideale nel reale": da lui escono tre "grandi idee critiche
che hanno importanza universale": la "misura dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la "forma"
diretta e "popolare". Manzoni rappresenta la massima realizzazione della letteratura "moderna" in
Italia e le "scuole letterarie" non segnano alcun progresso né sul piano dell'arte né su quello
dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò, appunto, lo svolgimento della letteratura in
Italia a partire dal Manzoni, dividendola (secondo una traccia già seguita da Emiliani Giudici, da
Settembrini e da altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti rispettivamente "scuola liberale" e
"scuola democratica". Alla Scuola liberale fu dedicato il secondo anno di lezioni universitarie
(1872-73), con risultati di giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per l'"educazione
popolare" non offre risultati validi in arte e svolge un ruolo (più o meno esplicito) d'insegnamento
reazionario ("nuovi Arcadi" sono Grossi, Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini
ripropongono una dimensione "metafisica" della storia e della politica; D'Azeglio resta attardato su
una vecchia e superata immagine di letteratura retorica). Un interessante excursus riguarda, però, la
letteratura meridionale dell'Ottocento: poeti poco noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P. Parzanese,
N. Sole) vengono esaminati con interesse e simpatia. Il corso del 1873-74 fu dedicato alla Scuola
democratica, e anche in quest'ambito il giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti, Berchet,
Niccolini non possono fornire il modello della "nuova letteratura". Si conferma così l'esito perplesso
e sostanzialmente pessimistico che caratterizza le ultime pagine della Storia e l'affermazione del
principio del "realismo".
I saggi più importanti elaborati dal D. nell'ultimo decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche
del realismo (alcuni di essi furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879). Dopo la
prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono da ricordare: Ilprincipio del realismo
(1876), Studio sopra Emilio Zola (1878), Zola e l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte
(1883). L'assunto complessivo è che il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col
materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è molto valido come
scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e attento). La letteratura del "reale"
dev'essere (cfr. Manzoni) "l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac forza morale
impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la reazione, l'autoritarismo sempre in
agguato.

Nell'ultima fase della sua vita il D. non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità" del
realismo in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici all'interno del problema per farne
emergere i pericoli (o quelli che a lui sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire
delle prove concrete di narrativa realistica, utilizzando un registro di linguaggio "familiare", che già
aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con estrema semplificazione sintattica e con frequenti
coloriture dialettali) e che, del resto, non era ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica.
L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio elettorale (1876):
una serie di cronache del tragicomico attraversamento della provincia natia da lui compiuto a
sostegno di una candidatura politica poco chiara e poco fortunata. Nella cronaca, il bozzettismo
locale si alterna col patetico dei ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del testo
va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può dimenticare che nella storia del
realismo italiano esso si colloca quasi in contemporanea con Nedda (1874), quattro anni prima di
Giacinta (1879), sei anni prima dei Malavoglia (1881).

Alla vigilia della morte (sempre su materiali autobiografici e sempre in ambito di racconto dal vero
in linguaggio familiare), il D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la stesura di
un'autobiografia, della quale, però, non riuscì a portare a termine che la prima parte (egli l'aveva
intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il frammento realizzato col titolo La giovinezza). Così
come ci resta, il frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e consta di due
nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato ai personaggi bozzettistici della famiglia paesana e
degli ambienti napoletani alti e bassi (preti, professori, avvocati, ragazze da marito, giovani
avventurieri, vecchie serventi) e, al centro di essi, l'autore pone il personaggio "comico" di se
stesso, pieno di tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo nucleo è legato, invece, alla
formazione culturale e all'esperienza della "prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e
impegnativo: il D. (utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di scuola") vuole offrire un
importante contributo alla critica di se stesso, mostrando come siano andate formandosi le linee di
forza del suo metodo. In ciò la Giovinezza non è del tutto veritiera (molti sono gli imprestiti
ideologici e teorici che il vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma resta,
comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi, la scoperta del romanticismo, di
Vico e di Hegel, l'autoritarismo borbonico e le utopie libertarie del primo '800 napoletano.

Nell'ultimo anno d'insegnamento all'università di Napoli (1875-76), argomento delle lezioni era
stato Leopardi: dagli appunti delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di vita, uno Studio su G.
Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo
schema della "biografia critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però, incompiuta,
chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D. definisce i grandi canti del 1827-29), e proprio
in questo tentativo di riduzione di Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è stato foriero di gravi
equivoci e fraintendimenti nella successiva critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si giustifica
come tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di "realismo" che si era rivelata
funzionale per il Manzoni e il suo romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle
figure femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o quella donna; è il primo apparire
della giovinezza in un cuore femminile", ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge molto né
alla conoscenza del Leopardi né alla critica del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era
stato detto nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti considerazioni della
"prima scuola", né il ruolo interessantissimo, problematico e antidogmatico, che Leopardi ha nelle
ultime pagine della Storia). Altri saggi leopardiani appartengono alla fase e al clima di ricerca della
Storia (La prima canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La Nerina, 1877). In
quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più importanti) della donna nella poesia leopardiana:
"La vita è tutta e solo in terra... La morte è l'altro motivo tragico di questa concezione ... Il motivo
della Silvia è lo sparire. Il motivo della Nerina è il riapparire".

Lasciando da parte la fortuna del D.-maestro (un vero e proprio appassionamento suscitato nei
giovani allievi di Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la storia del dibattito sul D. bisogna
muovere da un dato obiettivo di iniziale "sfortuna" critica: lo scarto fra i tempi della genesi dei testi
maggiori (a partire dagli anni '40) e quelli della loro pubblicazione (intorno al '70). A causa di
questo scarto, egli apparve subito come un idealista "attardato" (e perciò più meritevole di giudizi
sommari che di attenzione testuale), nel clima di positivismo dominante in cui i suoi scritti si
offrivano ad un'interpretazione globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D. ignorasse "la
pazienza della ricerca e dello studio", e G. Carducci gli attribuiva "difetto" di "cognizione dei fatti e
dei documenti"). A sintomatico che, in un dibattito così fortemente pregiudiziale, venisse del tutto
ignorato non solo il tipo di formazione del D., ma anche l'ultimo decennio della sua produzione, con
la dichiarata opzione "realistica" e con la forte propensione per lo scientismo. Ma proprio a causa
della pregiudizialità del dibattito di fine secolo (rilevata, fin d'allora, da qualche attento osservatore
straniero, come A. Gaspary), il D. poté divenire, attraverso l'elaborazione crociana, lo strumento
chiave per il rilancio di un metodo critico antipositivistico e per la progressiva riaffermazione
culturale e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del '900. Al Croce spetta, certo, il merito di
aver "costretto" la cultura italiana a riconoscere nel D. un protagonista dell'800 (la sua appassionata
cura di editore e di studioso del D. durò per oltre mezzo secolo); ma, contemporaneamente, Croce
prese a "rielaborare" il "pensiero" del D., fino a propome la riduzione a teoria del "puro" gusto
estetico (G. A. Borgese, che nel 1905 presentò il D. come punto di arrivo di "tutte le esperienze
della critica romantica in Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più autorevoli interpreti di questa
tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe, d'altra parte, una proposta di G. Gentile per un "ritorno al
De Sanctis" di segno fascista).

Proprio dall'interno della scuola crociana (dai cosiddetti "crociani di sinistra") fu prospettata,
tuttavia, l'esigenza di un dibattito diversamente impostato, volto al recupero della complessità della
figura del D.: mentre L. Russo rivendicava "il significato pedagogico ed etico" dell'opera (1928) e
la sua "intelligenza dell'arte" come notalità" (1931), C. Muscetta sottolineava l'importanza della sua
"poetica realistica" (1931), la sua "serietà" culturale (1934), la sua visione della letteratura come
"vita morale" (1940). Importanti, in questa fase, furono anche gli studi di W. Binni sull'"amore del
concreto" che nutrì tutta la ricerca desanetisiana e che problematizzò i suoi rapporti con l'hegelismo
(1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui la letteratura era studiata nel suo autonomo valore e
insieme nel suo necessario legame con tutta la vita e la cultura" (1942). Infine, presentando una
importante antologia di scritti desanctisiani, nel 1949, G. Contini dichiarò, a nome di un'intera
generazione di studiosi, l'uscita dall'"equivoco formalistico" della "riduzione crociana" del D. e la
necessità di tentare finalmente una comprensione filologica dei testi desanctisiani, con tutta la loro
problematicità anche irrisolta.

Ma lo spostamento ideologico dell'intero dibattito critico mosse dalla pubblicazione dei Quaderni di
Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua celebre affermazione che "il tipo di
critica letteraria proprio della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì
per un'ampia verifica dell'"impegno" del D., del carattere "militante" della sua critica, dei "saldi
convincimenti morali e politici" che, secondo Granisci, la sostanziavano: era una verifica,
evidentemente, molto correlata al bisogno della cultura d'incidere sul presente storico, dopo e contro
il "disimpegno" teorizzato, nel ventennio fascista, da crociani e non crociani. Questo momento di
dibattito produsse, fra l'altro, le iniziative editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere il D.
su testi di alto livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e Laterza (e dirette
rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la pubblicazione delle "opere complete". E non a
caso, negli stessi anni, apparivano fuori d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è scarsissima) due
importanti interventi critici: quello di R. Wellek (che nella sua grande Storia della critica moderna
del 1957 presentò il D. come autore della "più bella storia che sia stata mai scritta di una
letteratura") e quello di P. Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia una documentata e
intelligente biografia culturale). Né a caso, negli anni '50-'60, furono condotte indagini nuove e
approfondite sui legami tra il D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S. Landucci, G. Oldrini).

Alla fine degli anni '70, in un clima culturale ancora una volta mutato, e ormai insofferente
dell'insistenza sull'"impegno politico del letterato", si affermò l'esigenza di uscire dall'ottica di un
D. modello per il presente, e di sottolineare (accanto ai "valori" ormai definitivamente affermati) la
distanza storica e le diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli interpreti di questa esigenza
ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei partecipanti al convegno napoletano del 1977 su "De
Sanctis e il realismo". Con maggiore cautela, le più recenti occasioni offerte dal centenario
desanctisiano (F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo
dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985) si sono mosse su una linea di attenzione ai testi, di
chiarificazione e approfondimento della vasta (ancora aperta e interessante) problematica
desanctisiana, di tricollocazione" storico-culturale nel mutevole orizzonte di cultura europea in cui
tutta la sua ricerca si mosse.

Il materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si trova (tranne una parte di quello epistolare,
sparso un po' in tutta Italia) a Napoli (Bibl. nazionale, bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De
Sanctis Jr.) e ad Avellino (Bibl. prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i voll.
dell'Epistolario, relativi agli anni 1870-1883.

Le raccolte degli scritti, dopo le incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono oggi
quella laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di L. Russo, incompleta) e quella einaudiana
(Torino, Opere di F. De Sanctis, a cura di C. Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll.
dell'Epistolario). La raccolta laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel sec.
XIX, I (A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e la scuola democratica, a
cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura di W. Binni, 1953); Storia della letteratura
italiana, a cura di B. Croce 19121, 19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F.
Brunetti, 1962; Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a cura di L.
Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini, 1954. La raccolta einaudiana,
invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici
e discepoli), a cura di G. Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili,
frammenti di scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo (scritti del
carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T. Lanza, 1972; Lezioni e saggi su Dante, a
cura di S. Romagnoli, 19551, 19672; Saggio sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952;
Verso il realismo (prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di estetica,
saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della letteratura italiana, a cura di N.
Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C.
Muscetta e D. Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura di C.
Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica (a cura di C. Muscetta e
G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C. Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e
la vita (nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e
lo Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F. Ferri, 1960; I partiti e
l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un
viaggio elettorale (seguito da discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari),
a cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M. Mazzocchi Alemanni,
1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a cura di G. Talamo, 1965); 1861-62 (a
cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di
stampa). Ottime antologie degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N.
Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961).

Fonti e Bibl.: Per la bibl. delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro varia
fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis, Pagine sparse, Bari 1944) ed
E. Pesce, Supplemento alla bibliografia desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti
inoltre le rassegne: M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio,
Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola, LXXXVI (1983), pp.
32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo decennio, nel miscellaneo F. D. - Un
secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985.

Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi d'insieme: E. Cione, F. D., Messina-
Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari, F. D., Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883).
Son évolution intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E. Croce-A.
Croce, D., Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener presenti i seguenti scritti: B.
Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia della letteratura, Bari 1926; A. Marinari, Introd. a
Purismo illuminismo storicismo cit., nonché Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola
del D., in Belfagor, XV (1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia desanctisiana,
Firenze 1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in Letteratura e critica, Studi in onoredi N.
Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80; G. Savarese, Primo tempo del D. e altri saggi, Bologna 1971;
P. Luciani, L'"estetica applicata" di F. D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i generi letterari in F. D.
nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della prigionia
e dell'esilio, sono indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella a Castel dell'Ovo, Napoli 1933;
B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e la prigionia di F. D., Napoli 1917 (ora in Aneddoti di
varia letteratura, IV, Bari 1954); F. D. a Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M.
Guglielminetti-G. Zaccaria, F. D. e la cultura torinese (1853-56) e R. Martinoni, Gli anni zurighesi
(1856-60), entrambi in F. D. nella storia della cultura cit. (dello stesso Martinoni, cfr. anche La
puzza della birra e del tabacco. Gli anni zurighesi di F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983,
Bellinzona 1983, pp. 112 s.); O. Besomi, D. "in partibus transalpinis", ma non "infidelium": letture
zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp. 89-118. Per gli anni 1836-60 sono da tener presenti i
voll. dell'Epistolario (con le rispettive introduzioni). Lo stesso vale per gli anni successivi (almeno
fino al 1869). Per il soggiorno del D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D. e Firenze capitale, in F. D. -
Un secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D. ministro, cfr.: G. Talamo, F. D. politico e altri saggi,
Roma 1969; S. Soldani, Scuola e lavoro: D. e l'istruzione tecnico-professionale, in F. D. nella
storia della cultura cit., pp. 451-516; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario,
Milano 1983, ad Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia formativa di F. D., nonché S.
Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di D. ed E. Bottasso, D. ministro e la formazione delle
prime tre biblioteche nazionali (tutti in F. D. - Un secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze
funebri, cfr. In memoria di F. D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist. anast., Napoli 1983, a
cura della Comunità montana "Alta Irpinia").

Tra gli studi critici di carattere generale, cfr.: B. Croce, F. D., in Letteratura della nuova Italia, I,
Bari 1956 (per gli altri scritti desanctisiani del Croce, cfr. G. Savarese, Croce e D., in Rassegna
della letteratura italiana, CXLIV [1967], pp. 158-174; L. Russo, F. D. e la cultura napoletana,
Venezia 1928 (poi Firenze 1956, ora Roma 1983); C. Muscetta, F. D., in Letteratura italiana. I
minori, IV, Milano 1962 e in Letteratura italiana. Storia e testi, VIII, 1, Bari 1975, ibid 19854; M.
Fubini, F. D. e la critica letteraria, in Romanticismo italiano, Bari 19653; M. Mirri, F. D. politico e
storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia di F. D.,
Milano 1963 (sul quale cfr. M. Mirri in Critica storica, III [1964] e la risposta di S. Landucci, in
Belfagor, XX [1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la cosa: D. e l'hegelismo, in Storia d'Italia (Einaudi),
IV, 2, Torino 1975, pp. 850-78 e Il "diagramma De Sanctis"... e il nostro, in Letteratura italiana
(Einaudi), Torino 1982, I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le introduzioni ai singoli volumi
delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da tenere inoltre in grande considerazione le
osservazioni di I. Svevo (in Racconti. Saggi. Pagine sparse, Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti
(Commemorazione del D.), 1934 (ora in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971), nonché quelle di W.
Binni (L'amore del concreto e la "situazione" nella prima critica desanctisiana [1942], ora in
Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116), G. Contini (Introd. a F. De
Sanctis, Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto (Storia delle storie letterarie, Milano 1942, ad
Indicem), C. Dionisotti (Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R.
Wellek (Storia della critica moderna, IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche sono le
miscellanee: F. D. e il realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978; F. D. nella storia della
cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra etica e cultura ("Riscontri", VI, 1-2), a cura di
M. G. Giordano, Avellino 1984; D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F. D.,
Bellinzona 1985; F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi filosofici, Napoli 1989.

Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana dell'800, cfr. gli scritti di G. Oldrini (in particolare, La
cultura filosofica napoletana dell'800, Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee già
citate). Per quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni, cfr.: N. Giordano Orsini, D.,
Hegel e la situazione poetica, in Civiltà moderna, XIV (1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello
hegelismo in Italia (F. D., S. Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a
cura di G. Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella storia della cultura, cit.,
pp. 155-84; S. Landucci, cit.

Tra i tanti altri saggi, cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D., Ravenna 1968;
F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna 1970; B. Moretti, La lingua di F. D., Firenze 1970; A.
Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G. Malcangi, F. D. deputato di Trani, con Introd. di A.
Lapenna e A. Marinari, Bari 1972; A. Marinari, Il "viaggio elettorale" di F. D. Il "dossier Capozzi"
e altri inediti, Firenze 1973; F. Ghilardi, Il superamento del kantismo e l'esperienza politica di F.
D., Napoli 1974; G. Guglielmi, Da D. a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna 1976; N.
Celli Bellucci-N. Longo, F. D. e G. Leopardi tra coinvolgimento e ideologia, Roma 1979; M.
Dell'Aquila, Giannone, D., Scotellaro. Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli 1981; G.
Nencioni, F.D. e la questione della lingua, Napoli 1984.

Per i rapporti con le altre letterature europee: per la Francia cfr. F. Neri, Il D. e la critica francese,
1922 (ora in Saggi, Milano 1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise, Firenze-Parigi 1964; U.
Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo dopo cit.; per la Germania, cfr.: G. Bach, La
cultura tedesca in F. D., in Studi e ricordi desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D.,
Bari 1975; M. Westhoff, Schiller e D., Roma 1977; M. Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D. in
Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo angloamericano, cfr.: A.
Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 549-68; D.
Della Terza, D. e la cultura anglosassone, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 527-45, e D.
negli Stati Uniti d'America, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 651-63.

Per la fortuna critica dell'opera del D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo 1960; S. Romagnoli, F. D., in
Iclassici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De Castro, F. D.
nella critica italiana del secondo dopoguerra, in Problemi, LIX (1980); N. Longo, Il "ritorno" di
D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma 1980. Cfr. pure, al riguardo, le rassegne di G. Oldrini, M.
Tondo e P. Tuscano citate a proposito degli scritti bibliografici.

Vedi anche
Gianfranco Contini Filologo e critico italiano (Domodossola 1912 - ivi 1990), prof. di filologia
romanza nelle univ. di Friburgo (1938-52), di Firenze (dal 1952), alla Scuola Normale Superiore di
Pisa (1973-82), presidente della Società Dantesca Italiana (dal 1956), direttore degli Studi danteschi
e del centro di filologia ... Benedetto Cróce Cróce, Benedetto. - Filosofo e storico (Pescasseroli, 25
febbraio 1866 - Napoli, 20 novembre 1952). Studiò a Napoli, che divenne presto la sua dimora
abituale. Scampato dal terremoto di Casamicciola (1883) in cui perdette i genitori, fu accolto a
Roma in casa dello zio Silvio Spaventa, e vi rimase sino ... Basilio Puòti Puòti, Basilio. - Letterato
(Napoli 1782 - ivi 1847); acuto studioso della lingua italiana, tenne a Napoli (dal 1825) una scuola
nella quale educava i giovani, in senso puristico, allo studio severo dei classici antichi e dei
trecentisti e anche, senza apertamente proporselo, a sentimenti patriottici. ... Carlo Muscétta
Muscétta, Carlo. - Storico e critico letterario (Avellino 1912 - Aci Trezza 2004); prof. di letteratura
italiana dal 1963 al 1983 nell'univ. di Catania e poi in quella di Roma. Di formazione crociana,
influenzato da G. Dorso e L. Russo, aderì all'azionismo e successivamente al marxismo.
Collaboratore ...

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