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INTERSTELLAR E IL VUOTO

COSMICO
Alessandra Arvonio
Trama del film:
Nell'anno 2067 il pianeta Terra si sta progressivamente trasformando in un ambiente
inabitabile per l'uomo: solo poche colture risultano ancora coltivabili, minacciate
costantemente dalla "piaga" che si nutre di azoto e quindi è destinata a crescere e
consumare l'ossigeno terrestre, rendendo quindi il pianeta inabitabile; il cibo
scarseggia e le tempeste di polvere rendono la vita quotidiana impossibile. Cooper,
ingegnere ed ex-pilota della NASA, vive e lavora nella sua fattoria con la famiglia.
La figlia Murph crede che la sua stanza sia infestata da un "fantasma" che sembra
cerchi di comunicare con lei in codice Morse. Durante una grande tempesta di
polvere, una manifestazione dell'anomalia gravitazionale che dà vita al "fantasma" di
Murph, reca un messaggio. Cooper intuisce possa trattarsi di codice binario e ottiene
così delle coordinate geografiche che conducono lui e Murph a una base segreta di
ricerca e di lancio della NASA, guidata dal professor John Brand e localizzata nel
centro NORAD.

Brand rivela a Cooper dell'esistenza di un cunicolo spazio-temporale, apertosi in


prossimità di Saturno, che conduce a un'altragalassia e a nuovi pianeti, che
potrebbero rappresentare un rifugio per l'umanità. La missione "Lazarus" della NASA
ha identificato tre pianeti sui quali sembrerebbe possibile sopravvivere, orbitanti
intorno a un buco nero chiamato Gargantua: i tre pianeti sono stati raggiunti dagli
astronauti Miller, Edmunds e Mann. Brand chiede a Cooper di dirigere la missione
esplorativa che, a bordo dell'astronave Endurance, raggiungerà i pianeti per
recuperare i dati sulla loro abitabilità raccolti dagli astronauti e, se uno dei pianeti
risultasse abitabile, ritornare sulla Terra per guidare l'esodo dell'umanità, a bordo di
enormi stazioni spaziali. Nella durata della missione, infatti, Brand si ritiene in grado
di risolvere le equazioni della teoria del tutto che dovrebbero permettere la
costruzione dei veicoli che dovrebbero fungere da scialuppe per la popolazione
umana residente sulla Terra. Cooper capisce che la missione rappresenta l'ultima
possibilità di salvezza per gli uomini e accetta di prendervi parte; non può però
spiegarlo ai suoi figli, che vuole invece rassicurare sul futuro. Parte quindi con la
consapevolezza del dolore di Murph, che si rifiuta di salutarlo.
Il resto dell'equipaggio dell'Endurance è composto da Amelia, figlia di Brand, dagli
scienziati Romilly e Doyle, e dai robot TARS e CASE. Il viaggio fino a Saturno
richiede due anni; attraversato il tunnel spaziale, il primo pianeta che raggiungono è
quello esplorato da Miller. Il pianeta risulta così vicino a Gargantua che la gravità del
buco nero rallenta lo scorrere del tempo: ogni ora trascorsa sulla superficie del
pianeta equivale a sette anni sulla Terra. Mentre Amelia, Cooper e Doyle
compongono la squadra di sbarco, Romilly rimane sull'Endurance cercando di
acquisire dati sul buco nero. Il pianeta si rivela però inospitale, ricoperto da un unico
oceano attraversato da gigantesche quanto distruttive onde di marea. Miller, sulla
superficie da sole poche ore a causa del ritardo temporale esistente rispetto alla Terra,
è verosimilmente deceduta quando la sua nave è stata investita da un'onda. La stessa
squadra di sbarco rischia di subire la stessa sorte: al sopraggiungere di una prima
onda, Doyle rimane ucciso e la nave, piena d'acqua, non riesce a ripartire se non dopo
alcune ore. Quando Cooper e Amelia raggiungono finalmente l'Endurance, sono
trascorsi ventitré anni dalla loro partenza e Romilly è visibilmente invecchiato.

Il tempo è trascorso anche sulla Terra. Murph è cresciuta e lavora come scienziata
alla NASA, aiutando Brand nel suo lavoro, che tuttavia sembra percorrere un vicolo
cieco. Solo in punto di morte, Brand confida alla ragazza di aver risolto
quell'equazione ben prima della partenza di Cooper e di aver capito che la sua
soluzione non permette di sviluppare le navi che avrebbero potuto portare in salvo gli
abitanti della Terra. L'unica salvezza per la specie umana è quindi rappresentata dal
"piano B" predisposto da Brand: far nascere una nuova popolazione umana su un
altro pianeta da embrioni congelati presenti a bordo dell'Endurance. Murph ne è
sconvolta, ma capisce altresì che il piano originario potrebbe ancora funzionare se si
avessero delle informazioni presenti solo all'interno di un buco nero e pertanto, però,
inaccessibili.

Poiché nessuno sull'Endurance conosce lo scopo reale della missione secondo i piani
di Brand, gli astronauti si trovano davanti al dilemma di dover scegliere quale pianeta
visitare, avendo a disposizione il carburante per raggiungere solo uno dei due pianeti
possibili, prima di tornare sulla Terra. Dopo una tesa votazione il gruppo decide di
raggiungere Mann e il suo pianeta, poiché è l'unico che ancora trasmette dati. Quando
Amelia, Cooper e Romilly sbarcano sulla superficie, scoprono un ambiente freddo e
coperto di ghiacciai. Mann è ancora vivo, lo risvegliano e nel suo accampamento
sono raggiunti dalla notizia della morte di Brand: Murph, che comunica in un
messaggio registrato ad Amelia della morte del padre, fa anche riferimento ai piani
dello scienziato e all'impossibilità di salvare la popolazione della Terra. Cooper, che
l'ascolta, decide di tornare al più presto sulla Terra, dopo aver lasciato gli embrioni
sul pianeta affinché nasca un seconda popolazione umana.

Tuttavia, il dottor Mann, che era stato informato del fatto che il Piano B fosse sin
dall'inizio l'unico obiettivo della missione, aveva falsificato i dati sull'abitabilità del
pianeta affinché giungessero a salvarlo. Non può permettere agli altri di tornare sulla
Terra e aggredisce prima Cooper, che rischia di morire per soffocamento. Mentre
Amelia riesce a salvarlo, un ordigno uccide Romilly nel laboratorio e Mann cerca di
acquisire il comando dell'Endurance. Sbaglia però la manovra di aggancio, causando
così un'esplosione in cui rimane ucciso e che danneggia seriamente la nave. Solo
l'esperienza e la determinazione di Cooper permettono a lui e ad Amelia di riprendere
il controllo del veicolo, consumando però una grande quantità di carburante.

È ormai impossibile tornare sulla Terra; l'unica opzione per portare a termine almeno
il piano B della missione è raggiungere il terzo pianeta, esplorato da Edmunds,
attraverso una manovra di fionda gravitazionale attorno al buco nero.
L'avvicinamento al buco nero determinerà un ulteriore ritardo di cinquantuno anni
rispetto al tempo sulla Terra. Affinché Amelia possa farcela, però, è necessario
alleggerire la nave e Cooper e TARS si lasciano inghiottire dal buco nero.
Incredibilmente non vengono distrutti, ma si ritrovano in un tesseratto: un cubo
quadrimensionale in uno spazio di cinque dimensioni, creato da esseri avanzati
affinché Cooper possa interagire con Murph attraverso di esso. In effetti, Cooper
risulta essere l'autore dei messaggi che il "fantasma" comunicava alla bambina.
Riesce così a trasmettere sulla Terra i dati sulla singolarità raccolti da TARS che,
trovati dalla Murph ormai adulta, le consentono di completare la teoria. Conclusa la
trasmissione dei dati, il tesseratto comincia a collassare; Cooper viaggia indietro
attraverso il tunnel spaziale e si ritrova, con TARS, in orbita attorno a Saturno, dove
vengono raccolti da una nave umana. Cooper ritrova allora Murph, ormai anziana e
morente, che ha guidato l'esodo della popolazione umana nello spazio. Soddisfatta
che il padre abbia mantenuto la promessa di tornare da lei, Murph lo convince ad
andare alla ricerca di Amelia, che si trova con CASE sul pianeta di Edmunds, ormai
morto, e sta attuando il Piano B. Cooper ruba quindi uno shuttle e parte insieme a
TARS.

Teoria della relatività di Einstein

Nel 1905 Einstein ha pubblicato il primo di due importanti studi sulla teoria
della relatività, Elettrodinamica dei corpi in movimento, nel quale negava l'esistenza
del moto assoluto. Einstein sosteneva infatti che nessun oggetto dell'universo
poteva rappresentare un sistema di riferimento assoluto e universale fisso
rispetto al resto dello spazio. Inoltre qualsiasi corpo poteva essere considerato un
buon sistema di riferimento per lo studio delle leggi sul moto dei corpi.

Per Einstein il movimento era un concetto relativo, che poteva essere descritto in
qualsiasi sistema di riferimento inerziale: tutti gli osservatori che descrivono i
fenomeni fisici nei sistemi di riferimento giungono alle stesse leggi di natura. Questa
è l'ipotesi fondamentale (Principio di relatività) di tutta la teoria di Einstein: per
due osservatori in moto relativo uno rispetto all'altro a velocità costante valgono le
stesse leggi della natura. Le osservazioni di Einstein erano già state stabilite da
Newton, secondo il quale "il riposo assoluto non può essere determinato
dall'osservazione della posizione dei corpi nella nostra regione di spazio".

Nel 1915 Einstein ha formulato la teoria della relatività generale, valida anche per
sistemi in moto accelerato uno rispetto all'altro. La necessità di tale teoria era data
dall'apparente contrasto tra le leggi della relatività e la legge della gravitazione. Per
risolvere questi conflitti, Einstein ha sviluppato un approccio nuovo al concetto di
gravità, basato sul principio di equivalenza. Nella nuova formulazione, le forze
associate alla gravità sono equivalenti a quelle prodotte da un'accelerazione. Quindi è
teoricamente impossibile distinguere i due tipi di forze. L’analogia fra le due
relatività è evidente: la teoria della relatività ristretta stabiliva che una persona,
all'interno di una macchina a velocità costante su una strada liscia, non poteva in
alcun modo sapere se si trovava in quiete o in moto rettilineo uniforme; la teoria della
relatività generale affermava che una persona, all'interno della macchina in moto
accelerato, decelerato o curvilineo, non poteva stabilire se le forze che determinavano
il moto fossero di origine gravitazionale o se si trattava di forze di accelerazione
attivate da altri meccanismi.

Secondo la teoria di Einstein, la legge di gravitazione di Newton era un'ipotesi


non necessaria. Einstein considerava infatti tutte le forze, compresa la forza
gravitazionale, come effetti di un'accelerazione. L'ipotesi di Newton, secondo la
quale due oggetti si attraggono con una forza di entità proporzionale alle loro masse,
è stata sostituita nella relatività generale dall'ipotesi che lo spazio-tempo sia curvato
nelle vicinanze dei corpi massivi. La legge della gravitazione di Einstein consiste in
sintesi nell'affermazione che la linea universale di un corpo è una curva che
congiunge i vari punti dello spazio secondo il percorso più breve.

Il relativismo di Pirandello
LUIGI PIRANDELLO nacque a Girgenti (l'attuale Agrigento) nel 1867 da una
famiglia borghese agiata di tradizioni risorgimentali. Dopo gli studi liceali, si iscrisse
all'Università di Palermo, e , successivamente, alla facoltà di Lettere a Roma. Si
trasferì all'Università di Bonn nel 1891 e si laureò in Filologia romanza. La sua
produzione poetica era già iniziata in Germania e proseguì, quando nel 1892, si
trasferì a Roma.

Entrando in contatto con il mondo culturale romano, conobbe Fleres e Capuana. Del
1893 è il suo primo romanzo, "L'esclusa"e nel 1894 pubblicò una raccolta di
racconti, Amori senza amore. Era l'anno in
cui sposava a Girgenti Maria Antonietta Portulano con la quale si stabilì a Roma. Nel
1897 divenne supplente di letteratura italiana presso l'Istituto Superiore di Magistero
di Roma, dove nel 1908 divenne docente di ruolo. Nel frattempo aveva già scritto una
commedia "Il nibbio" ridefinita "Se non così" nel 1915 e poi nel 1921 "La ragione
degli altri".

Nel 1903 la sua famiglia subì un tracollo economico in quanto il padre perse, a causa
di un allagamento, la miniera di zolfo nella quale aveva investito il suo patrimonio.
Da quel momento la moglie dello scrittore perse l'equilibrio psichico soffrendo di una
forte crisi che la portò alla follia (manifestata come una gelosia patologica). In quel
periodo mutò anche la condizione sociale di Pirandello che, per integrare il suo
stipendio di professore, tra il 1904 ed il 1915, intensificò la produzione di romanzi.

L'esperienza della declassazione segnò profondamente la vita e la poetica


di questo autore che spesso rifletteva nelle sue opere la condizione alienante della vita
piccolo-borghese. Dal 1910 al 1915 si intensificò anche la sua produzione teatrale
con "Lumie di Sicilia" e "La morsa" e, tra il 1916 ed il 1918, scrisse e fece
rappresentare numerosi drammi tra cui : "Pensaci Giacomino!" e "Liolà" (1916),
"Così è (se vi pare)", " Il berretto a sonagli", "Il piacere dell'onestà"(1917), "Il giuoco
delle parti"(1918).

Negli anni della guerra Pirandello si schierò con coloro che vedevano il conflitto
come il compimento del processo risorgimentale. La prigionia del figlio Stefano e
l'aggravarsi della malattia mentale della moglie ( che fu ricoverata presso una casa di
cura fino alla sua morte), influenzeranno ulteriormente lo scrittore. Nel 1920 iniziò il
successo teatrale di Pirandello. Egli si dedicò interamente a quest'arte, abbandonando
nel 1922 la cattedra universitaria. Del 1921 è "Sei personaggi in cerca di autore",che
contribuì ad accrescere la fama del drammaturgo a tal punto che nel 1925 egli
divenne direttore del Teatro d'Arte a Roma.
Dopo il delitto Matteotti nel 1924 Pirandello si iscrisse al partito fascista, anche se il
suo atteggiamento verso la dittatura restò sempre ambiguo. Quando il regime rivelò il
suo carattere di vuota esteriorità egli smise di appoggiarlo evitando, però, di
manifestare apertamente la sua opinione (nel 1929 partecipò all'istituzione
dell'Accademia d'Italia). Negli ultimi anni lo scrittore pubblicò "Novelle per un anno"
(raccolta della sua produzione narrativa) e "Maschere nude" (raccolta di testi teatrali),
e partecipò con interesse allo sviluppo della cinematografia. Nel 1934 ottenne il
Nobel per la letteratura e nel 1936 morì lasciando incompiuto il suo capolavoro
teatrale: "I giganti della montagna".

Il relativismo psicologico o conoscitivo

« La verità? è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola - Ah! - E la
seconda moglie del signor Ponza - Oh! E come? - Sì; e per me nessuna! nessuna! -
Ah, no, per sé, lei, signora: sarà l'una o l'altra! - Nossignori. Per me, io sono colei che
mi si crede. (...) Ed ecco, o signori, come parla la verità. »

(Dialogo finale di Così è (se vi pare))

Dal contrasto tra la vita e la forma nasce il relativismo psicologico che si esprime in
due sensi: orizzontale, ovvero nel rapporto interpersonale, e verticale, ovvero nel
rapporto che una persona ha con se stessa.

Gli uomini nascono liberi ma il Caso interviene nella loro vita precludendo ogni loro
scelta: l'uomo nasce in una società precostituita dove ad ognuno viene assegnata una
parte secondo la quale deve comportarsi.

Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone, anche se l'io
vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l'intervento del caso può accadere di
liberarsi di una forma per assumerne un'altra, dalla quale non sarà più possibile
liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de Il fu Mattia Pascal.

L'uomo dunque non può capire né gli altri né tanto meno se stesso, poiché ognuno
vive portando - consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente - una maschera
dietro la quale si agita una moltitudine di personalità diverse e inconoscibili.

Queste riflessioni trovano la più esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno,
nessuno e centomila:

 Uno perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche
particolari;
 Centomila perché l'uomo ha, dietro la maschera, tante personalità quante sono
le persone che ci giudicano;

 Nessuno perché, paradossalmente, se l'uomo ha 100.000 personalità invero non


ne possiede nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo
vero "io".

L'incomunicabilità

Il relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa il pensiero di Pirandello si


scontra con il conseguente problema dell'incomunicabilità tra gli uomini: poiché ogni
persona ha un proprio modo di vedere la realtà, non esiste un'unica realtà oggettiva,
ma tante realtà quante sono le persone che credono di possederla e dunque ognuno ha
una propria "verità".

L'incomunicabilità produce quindi un sentimento di solitudine ed esclusione dalla


società e persino da se stessi, poiché proprio la crisi e frammentazione dell'io
interiore crea diversi io discordanti. Il nostro spirito consiste di frammenti che ci
fanno scoprire di essere "uno, nessuno, centomila".

I personaggi dei drammi pirandelliani, come il Vitangelo Moscarda del romanzo Uno,
nessuno e centomila e i protagonisti della commedia Sei personaggi in cerca di
autore, di conseguenza avvertono un sentimento di estraneità dalla vita che li fanno
sentire «forestieri della vita» [49], nonostante la continua ricerca di un senso
dell'esistenza e di un'identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la maschera,
o le diverse e innumerevoli maschere, con cui si presentano al cospetto della società o
delle persone più vicine.

La reazione al relativismo

Reazione passiva

L'uomo accetta la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gli altri tendono a
identificarlo. Ha provato sommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di
essere ma, incapace di ribellarsi o deluso dopo l'esperienza di vedersi attribuita una
nuova maschera, si rassegna. Vive nell'infelicità, con la coscienza della frattura tra la
vita che vorrebbe vivere e quella che gli altri gli fanno vivere per come essi lo
vedono. Accetta alla fine passivamente il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla
scena dell'esistenza. Questa è la reazione tipica delle persone più deboli come si può
vedere nel romanzo Il fu Mattia Pascal.

Reazione ironico - umoristica


Primo piano di Luigi Pirandello

Il soggetto non si rassegna alla sua maschera però accetta il suo ruolo con un
atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno esempio varie opere di
Pirandello come: Pensaci Giacomino, Il giuoco delle parti e La patente. Il
personaggio principale di quest'ultima opera, Rosario Chiàrchiaro, è un uomo cupo,
vestito sempre in nero che si è fatto involontariamente la nomea di iettatore e per
questo è sfuggito da tutti ed è rimasto senza lavoro. Il presunto iettatore non accetta
l'identità che gli altri gli hanno attribuito ma comunque se ne serve. Va dal giudice e,
poiché tutti sono convinti che sia un menagramo, pretende la patente di iettatore
autorizzato. In questo modo avrà un nuovo lavoro: chi vuole evitare le disgrazie che
promanano da lui dovrà pagare per allontanarlo. La maschera rimane ma almeno se
ne ricava un vantaggio.

Reazione drammatica

L'uomo, accortosi del relativismo, si renderà conto che l'immagine che aveva sempre
avuto di sé non corrisponde in realtà a quella che gli altri avevano di lui e cercherà in
ogni modo di carpire questo lato inaccessibile del suo io.

Vuole togliersi la maschera che gli è stata imposta e reagisce con disperazione. Non
riesce a strapparsela ed allora se è così che lo vuole il mondo, egli sarà quello che gli
altri credono di vedere in lui e non si fermerà nel mantenere questo suo atteggiamento
sino alle ultime e drammatiche conseguenze. Si chiuderà in una solitudine disperata
che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio. Da tale sforzo verso un obiettivo
irraggiungibile nascerà la voluta follia. La follia è infatti in Pirandello lo strumento di
contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale, l'arma che fa
esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza.
Solo e unico modo per vivere, per trovare il proprio io, è quello di accettare il fatto di
non avere un'identità, ma solo centomila frammenti (e quindi di non essere "uno" ma
"nessuno"), accettare l'alienazione completa da se stessi. Tuttavia la società non
accetta il relativismo, e chi lo fa viene ritenuto pazzo. Esemplari sono i personaggi
dei drammiEnrico IV, dei Sei personaggi in cerca d'autore, o di Uno, nessuno e
centomila.

Uno nessuno e centomila

Luigi Pirandello, benché inizi a lavorare a Uno, nessuno e centomila già da tempo,
riesce a completare le proprie fatiche letterarie (anche per l'avvio della fortunatissima
carriera teatrale) solo nel 1926, quando l'opera è pubblicata prima a puntate sulle
pagine della rivista "Fiera letteraria", e successivamente in volume. Come ne Il fu
Mattia Pascal il tema centrale è quello dell’identità, o per meglio dire delle
molteplici identità dell'io narrante, che, ricorrendo spesso al monologo tra sé e sé,
indaga sulle molte sfaccettature della propria intima natura. E, in accordo con
il saggio pirandelliano sull'umorismo, a questa autoanalisi introspettiva si
accompagnano sempre le tinte del grottesco, che invita a riflettere (spesso
amaramente) sulla condizione umana.

Inizialmente Vitangelo Moscarda (Gengé per gli amici) ci viene presentato come un
uomo del tuttocomune e normale, senza nessun tipo di angoscia né di tipo esistenziale
né materiale: conduce una vita agiata e priva di problemi grazie alla banca (e alla
connessa attività di usuraio) ereditata dal padre. Un giorno questa piatta tranquillità
viene però turbata: l’elemento disturbatore è un banale e innocente commento
pronunciato dalla moglie di Vitangelo riguardo al fatto che il suo naso penda un po’
da una parte. Da questo momento la vita del protagonista cambia completamente,
poiché Gengé si rende conto di apparire al prossimo molto diverso da come egli si è
sempre percepito. Così decide di cambiare radicalmente il suo stile di vita, nella
speranza di scoprire chi sia veramente, e a quale proiezione di sécorrisponda il suo
animo. Nel processo di ricerca per trovare sé stesso compie azioni che vanno contro a
quella che era stata la sua natura sino a quel momento: sfratta una famiglia di
affittuari per poi donare loro una casa, si sbarazza della banca ereditata dal padre
(inimicandosi ovviamente familiari e parenti), e inizia ad ossessionare chi gli sta
vicino, con discorsi e riflessioni oscure che lo fanno passare per pazzoagli occhi della
comunità. La situazione si aggrava al punto che la moglie abbandona la casa
coniugale, e, insieme ad alcuni amici, inizia un'azione legale contro Vitangelo col
fine d’interdirlo. Gli rimane fedele in un primo momento solo un’amica della moglie,
Anna Rosa, che poco dopo però, spaventata dai ragionamenti di Vitangelo, arriva
addirittura a sparargli, senza ucciderlo ma ferendolo in modo serio. Vitangelo, il cui
"io" è ormai completamente frantumato nei suoi "centomila" alter ego, sembra
trovare una tregua ai propri patimenti solo nel confronto con un religioso, Monsignor
Partanna, che lo sprona a rinunciare a tutti i suoi beni terreni in favore dei meno
fortunati. Il tormentato protagonista pirandelliano, rifugiatosi nell'ospizio ch'egli
stesso ha donato alla città, riesce così a trovare un po’ di pace e di serenità solo
nella fusione totalizzante (e quasi misticheggiante) con il mondo di Natura, l'unico in
cui egli può abbandonare senza timori tutte le "maschere" che la società umana gli ha
a mano a mano imposto.

Il tema della scomposizione ad infinito della personalità e della "forma" umana si


riflette sia nello stile di Pirandello sia nella struttura del romanzo, composto da otto
capitoli condotti dalla voce narrante di Gengé stesso, come già avveniva per le
"memorie" de Il fu Mattia Pascal; in più la riflessione sulla personalità modifica qui
anche alcune linee di forza della poetica pirandelliana. All'umorismo, che permea la
narrazione e che ritrova nel Tristram Shandy di Laurence Sterne (1713-1768) uno dei
suoi modelli, si aggiunge la dimensione grottesca, che descrive la progressiva follia
di Vitangelo, con effetti distraniamento e di distorsione nella rappresentazione di una
realtà che, per l'ultimo Pirandello, diventa ormai solo una somma di frammenti privi
di senso.

Storia: Gli anni del fascismo

- L’ITALIA DEL PRIMO DOPOGUERRA

Gli effetti della Grande Guerra sull‘economia e sulla società italiana furono
drammatici. Le cifre della bilancia commerciale per il 1919 rivelarono che le
esportazioni coprivano solo il 36% delle importazioni. Il costo della vita era 4 volte
superiore a quello del 1913, mentre il deficit di bilancio aveva raggiunto livelli senza
precedenti. Incombevano l’enorme aumento del debito pubblico; la necessità di
riconvertire a non facili e immediati processi produttivi normali del tempo di pace
quei settori industriali che proprio durante la guerra avevano raggiunto eccezionali
livelli di profitto e di concentrazione; le difficoltà di fronteggiare l’aumento dei
prezzi mentre i salari diminuivano e gli stipendi dei dipendenti pubblici erano
bloccati dallo Stato; la contraddizione di dover accelerare la smobilitazione
dell’esercito per alleggerire le finanze pubbliche, ma senza poter prevenire
l’automatico surplus di disoccupati che, lasciata l’uniforme, non trovavano lavoro
nella vita civile. Al momento dell‘armistizio c‘erano oltre 3.000.000 di uomini sotto
le armi e 500.000 prigionieri in mano agli austriaci. La rapida smobilitazione
produsse 2.000.000 di disoccupati già alla fine del 1919.
I lavoratori organizzati erano decisi a proteggere il posto di lavoro e il loro tenore di
vita contro le devastazioni della disoccupazione e dell‘inflazione.

- IL BIENNIO ROSSO

Mai come allora apparve più concreta in Italia la possibilità della rivoluzione. Nel
1919 si registrarono 1663 scioperi industriali e 208 scioperi agricoli. L’impennata dei
prezzi, causata dalla congiuntura internazionale e dai debiti dell’Italia, fece scoccare
la scintilla a La Spezia l’11 giugno 1919, in seguito alla serrata dei commercianti per
protestare contro l’aumento dell’imposta sui consumi. Fra giugno e luglio il moto si
estese rapidamente dal nord al centro-sud; dove la forza pubblica aprì il fuoco, lo
scontro si radicalizzò.
Fra il settembre e il novembre del 1919, i contadini dell‘Italia centrale e meridionale
iniziarono spontaneamente l‘occupazione delle terre povere o non coltivate. Lungo
l‘intera penisola, una violenta lotta di classe divampò in forme che assunsero
l‘aspetto di una vera e propria guerra civile.
Nell’interno del Partito Socialista si rafforzava l’ala massimalista, cioè quella
corrente che propugnava il programma massimo per rovesciare il sistema
capitalistico. Avvalendosi delle tensioni sociali, provocherà l’incremento della
violenza e l’occupazione delle fabbriche. L’esito di questa prova di forza portò
certamente alcuni vantaggi economici agli operai, ma i sindacati di sinistra più di
tanto non furono in grado di ottenere.
Gli scioperi del 1919 e del 1920, guidati dai socialisti, crearono ondate di
risentimento fra il ceto medio, che vedeva nelle agitazioni un disturbo e una minaccia
al proprio stato. Il sistema dell‘istruzione pubblica, inoltre, continuava a sfornare
diplomati e laureati senza che si provvedesse in pari tempo a uno sbocco adeguato nel
campo professionale. La disoccupazione, l‘inflazione e le diffuse attese che la guerra
aveva generato tra tutte le classi sociali avevano creato una situazione esplosiva.
Il 29 luglio 1920 l’anarchico Bruno Filippi, che sognava “la rivoluzione sovietica”,
fece esplodere alcune bombe a Piazza Fontana, a Milano, a Via Paleocapa, poi al
Palazzo di Giustizia, sempre a Milano. E ancora nel capoluogo lombardo, sempre ad
opera dell’attivissimo anarchico, una nuova bomba il 31 agosto. Infine, lo stesso
attentatore, nel porre un nuovo ordigno, il 7 settembre a Palazzo Marino, gli esplose
in mano dilaniandolo. Né gli attentati cessarono con la morte del Filippi; infatti altri
gravi episodi di terrorismo funestarono la vita italiana. Il più grave ebbe luogo la sera
del 23 marzo 1921, quando una bomba esplose nel teatro Diana a Milano, causando
la morte di 21 spettatori e il ferimento di un altro centinaio.
La Nazione di Firenze il 2 marzo 1921 titolava: “Le strade di Firenze insanguinate
dalla guerra civile”. Il giornale riportava che verso la fine di febbraio e i primi di
marzo del 1921 “giorni di rivolte armate e di conflitti tragici si conclusero con un
bilancio di diciotto morti e oltre cinquecento feriti”.
Il giorno dopo, altri quindici morti e cento feriti.
Da Lenin partivano messaggi incitanti al terrorismo. L’ordine era di essere
“implacabili in modo esemplare. Bisogna incoraggiare il terrore di massa. Fucilate
senza domandare niente a nessuno e senza stupide lentezze”. Sono solo alcuni estratti
del Komsomolskaja Pravda, riportati da Andrea Bonanni, corrispondente a Mosca del
Corriere della Sera. A queste direttive, l’Italia trovò masse diseredate che, aspirando
ad una più equa giustizia sociale, fecero proprie le indicazioni che provenivano da
Est.
Il Governo non era in grado di intervenire efficacemente per annientare la violenza e
riportare l’ordine.
In tre anni si cambiarono sette governi e cioè: dal governo Orlando si passò a quello
di Nitti (23/6/1919); di nuovo Nitti (21/5/1920); Giolitti (15/6/1920); Bonomi
(4/7/1921); Facta (26/2/1922); di nuovo Facta (1/8/1922).
Tutto ciò denota la grave crisi che attanagliava lo “Stato liberale” e la sua capacità a
controllare una situazione di guerra civile che andava di giorno in giorno
sviluppandosi sempre più sanguinosamente.

- I FASCI DI COMBATTIMENTO

L’essersi posti contro i combattenti fu il grave errore dei socialisti prima e dei
socialcomunisti poi. Da questi reduci, spontaneamente, nacquero le prime squadre
combattentistiche per opporsi alle azioni di quelle “rosse”. Quindi i primi scontri non
avvennero fra “fascisti” e “rossi”, in quanto il fascismo non era ancora nato, o era in
stato embrionale.
Infatti i “Fasci di Combattimento” videro la luce il 23 marzo 1919. In quella sede, si
danno convegno i fascisti della prima ora, un centinaio di “fedelissimi” tra cui Balbo,
De Bono, Bianchi e De Vecchi, i futuri Quadrumviri della Marcia su Roma, e circa
duecento aderenti che osservano e ascoltano. Così i grandi quotidiani la salutarono:
Albertini direttore del Corriere della Sera “Il fascismo ora interpretato é l’aspirazione
più intensa di tutti i veri italiani”. Gli fece eco La Stampa di Torino “Il governo
Mussolini é l’unica strada da percorrere per ridare agli italiani quell’ordine che tutti
ormai reclamano intensamente”.
Le prime azioni di “chiara marca fascista” avvennero dopo il 17 novembre di
quell’anno, data della pesante sconfitta elettorale subita dal movimento mussoliniano.
Nei primi scontri i fascisti furono sommersi dal gran numero degli avversari e molti
comizi di Mussolini e dei suoi furono sciolti per i gravi incidenti provocati dai
“rossi”.
Gran parte dei fascisti e dei loro alleati nazionalisti provenivano da una lunga, dura
disciplina militare: erano quindi avvezzi ad obbedire secondo un ordine gerarchico.
Al contrario, dall’altra parte, il disordine regnava assoluto e specialmente fra gli
anarchici la disciplina era disprezzata; di conseguenza fu possibile conquistare le
piazze e il favore dei contadini, stanchi dei soprusi ai quali erano sottoposti
dall’arroganza delle “cooperative rosse”.
Il Paese era stanco di disordini e sangue, anelava a rientrare nella normalità. Questo
fenomeno è evidenziato dal consenso che in breve tempo acquisì il movimento
mussoliniano: gli 88 “Fasci” diventarono 834 e i 20 mila iscritti oltre 250 mila,
divenendo un “movimento di massa” fortemente radicato nel mondo del lavoro, tanto
che i sindacati fascisti potevano contare su circa 400 mila contadini iscritti e su 200
mila operai.
Certamente il fascismo fu un movimento che usò la violenza, ma della validità di
questa danno attestato alcuni autori che, almeno attualmente, non possono essere
accusati di simpatie per il movimento mussoliniano. Scrive Giorgio Bocca che il
fascismo fu violento e sopraffattore, ma lo fu perché trovò davanti a sé una sinistra
antidemocratica, violenta, autoritaria e sopraffattrice. Anche il giornalista inglese
Percival Phillips, corrispondente del Daily Mail, che visse per lungo tempo in Italia,
ecco come ricorda quegli avvenimenti: “Essi (i fascisti) combattevano il terrore rosso
con le stesse armi. Ai sistemi di Mosca risposero con i sistemi fascisti. Ma non
imitarono i sistemi comunisti, di gettare vivi gli uomini negli altiforni, come fu deciso
a Torino da un tribunale rosso composto in parte da donne, né torturarono i
prigionieri come fecero in altre parti d’Italia i seguaci di Lenin”.
Di non dissimile parere era lo stesso De Gasperi; infatti su Il Nuovo Trentino, il 7
aprile 1921, così scrisse: “Il fascismo fu sugli inizi un impeto di reazione
all’internazionalismo comunista che negava la libertà della Nazione. Noi non
condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista
sotto la generica condanna della violenza. Ci sono delle situazioni in cui la violenza,
anche se assume l’apparenza di aggressione, è in realtà una violenza difensiva, cioè
legittima”.
In fatto di “violenza” non erano da meno i “moderati”. Il cattolico Guido Miglioli,
uno dei fondatori del Partito Popolare in Vita Italiana, 15 marzo 1922, così manifestò
il suo pensiero: “Faremo fare agli agrari la fine di Giuda: li appenderemo coi piedi in
su e la testa in giù agli alberi delle nostre terre: squarceremo il loro putrido ventre da
cui usciranno le grasse budella turgide di vino. E nelle contorsioni dell’agonia noi
danzeremo intorno non la danza della vendetta, ma la danza della più umana
giustizia. E i fascisti, delinquenti, scherani, lanzichenecchi, assoldati all’agrario,
seguiranno l’eguale sorte”.
In un suo studio Antonio Falcone osserva: “In un certo senso si può dire che i fascisti
la violenza non tanto la imposero quanto la subirono. Lo dimostra il numero dei loro
caduti, che fu di gran lunga superiore a quello degli avversari. Secondo Roberto
Forges-Davanzati, le vittime fasciste, tra morti e feriti, si contano a centinaia, mentre
quelle avversarie si contano a decine. Nel 1924, uno degli anni più “caldi”,
specialmente nei mesi che precedettero e seguirono le elezioni legislative, caddero
una ventina di fascisti e ne furono feriti almeno 140, mentre nella parte avversa si
ebbe un solo morto”.
Falcone continua: “La sproporzione si spiega col fatto che, mentre gli squadristi
cercavano lo scontro frontale e aperto, i rossi conducevano la loro lotta a forza di
imboscate e di attentati. Se poi opponendo violenza a violenza, furono i fascisti ad
avere il sopravvento, ciò non fu perché fossero più violenti, o numericamente più
forti, ma solo perché erano molto meglio organizzati e quindi più efficienti”.
Per completare il quadro generale degli anni che vanno dal 1919 al 1922, è opportuno
riportare la testimonianza del professor Ardito Desio che in una intervista concessa
alcuni anni fa, così rispose ad una domanda di un giornalista: “Il fascismo ha avuto
molti aderenti, dopo la fine della prima guerra mondiale, fra noi ufficiali perché si
viveva in un clima di puro terrore. Si subivano pestaggi, bastonature. Numerosi
furono assassinati per il solo fatto di portare le stellette. Il fascismo portava il rispetto
civile, l’ordine, il rinnovato senso della Patria ed è per questo che ha avuto un gran
seguito”.
Preoccupata dalla minaccia del comunismo bolscevico la reazione borghese
riconobbe nello squadrismo fascista l’avanguardia antiproletaria in difesa tanto della
nazione quanto della proprietà. Durante il “biennio rosso” il dominio incontrastato
delle organizzazioni operaie e contadine, i metodi intolleranti della sinistra nella
difesa dei diritti dei lavoratori che spesso si traduceva in forme lampanti di sopruso,
avevano finito per drammatizzare la lotta politica, facendo sembrare imminente una
rivoluzione bolscevica.
I ceti medi produttivi si sentirono perciò difesi dalla “sana reazione” dello
squadrismo. Lo Stato liberale pensò che lo squadrismo fosse il male minore e lasciò
che il fascismo si radicasse nel tessuto sociale diventando il garante della
pacificazione politica. Non è vero che a sinistra ci fossero solo vittime inermi, come
pure non risponde a realtà che la violenza fosse patrimonio di una parte sola. È
infondato sostenere che i fascisti aggredissero a freddo e muovessero all’attacco in
dieci contro uno: diversi di loro morirono per i colpi dei franchi tiratori. Il movimento
Fascista ebbe la forza di trasformare i suoi caduti in martiri. Tra i grandi Squadristi
storici ricordiamo Italo Balbo, Ettore Muti, ma anche intellettuali come Giuseppe
Bottai e Alessandro Pavolini, politici del calibro di Dino Grandi e artisti come Filippo
Tommaso Marinetti.

- IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA


Nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921 i Fasci di Combattimento ottengono oltre
700.000 voti e conquistano 35 seggi in Parlamento. L‘11 novembre 1921 a Roma
durante il III congresso dei Fasci di Combattimento viene fondato il Partito Nazionale
Fascista (PNF).
Nell’ottobre 1922 il PNF aveva 300.000 iscritti, alla fine del 1923 erano diventati
783.000.
E già nel successivo 1924 alle elezioni politiche il listone fascista fu votato da
4.305.936 italiani.

Programma del PNF


Fondamenti Il Fascismo è costituito in Partito politico per rinsaldare la sua disciplina
e per individuare il suo «credo». La Nazione non è la semplice somma degli individui
viventi né lo strumento dei partiti pei loro fini, ma un organismo comprendente la
serie indefinita delle generazioni di cui i singoli sono elementi transeunti; è la sintesi
suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe.
Lo Stato è l’incarnazione giuridica della Nazione.
Gli Istituti politici sono forme efficaci in quanto i valori nazionali vi trovino
espressione e tutela. I valori autonomi dell’individuo e quelli comuni a piú individui,
espressi in persone collettive organizzate (famiglie, comuni, corporazioni, ecc.),
vanno promossi, sviluppati e difesi, sempre nell’ambito della Nazione a cui sono
subordinati. Il Partito Nazionale Fascista afferma che nell’attuale momento storico la
forma di organizzazione sociale dominante nel mondo è la Società Nazionale e che
legge essenziale della vita nel mondo non è la unificazione delle varie Società in una
sola immensa Società: «L’Umanità», come crede la dottrina internazionalistica, ma la
feconda e, augurabile, pacifica concorrenza tra le varie Società Nazionali.

Lo Stato
Lo Stato va ridotto alle sue funzioni essenziali di ordine politico e giuridico.
Lo Stato deve investire di capacità e di responsabilità le Associazioni conferendo
anche alle corporazioni professionali ed economiche diritto di elettorato al corpo dei
Consigli Tecnici Nazionali.
Per conseguenza debbono essere limitati i poteri e le funzioni attualmente attribuiti al
Parlamento. Di competenza del Parlamento i problemi che riguardano l’individuo
come cittadino dello Stato e lo Stato come organo di realizzazione e di tutela dei
supremi interessi nazionali; di competenza dei Consigli Tecnici Nazionali i problemi
che si riferiscono alle varie forme di attività degli individui nella loro qualità di
produttori. Lo Stato è sovrano: e tale sovranità non può né deve essere intaccata o
sminuita dalla Chiesa alla quale si deve garantire la piú ampia libertà nell’esercizio
del suo ministerio spirituale.
Il Partito Nazionale Fascista subordina il proprio atteggiamento, di fronte alle forme
delle singole Istituzioni politiche, agli interessi morali e materiali della Nazione
intesa nella sua realtà e nel suo divenire storico.

Le Corporazioni
Il Fascismo non può contestare il fatto storico dello sviluppo delle corporazioni, ma
vuol coordinare tale sviluppo ai fini nazionali.
Le corporazioni vanno promosse secondo due obbiettivi fondamentali e cioè come
espressione della solidarietà nazionale e come mezzo di sviluppo della produzione.
Le corporazioni non debbono tendere ad annegare l’individuo nella collettività
livellando arbitrariamente le capacità e le forze dei singoli, ma anzi a valorizzarle e a
svilupparle. Il Partito Nazionale Fascista si propone di agitare i seguenti postulati a
favore delle classi lavoratrici e impiegatizie:
1) La promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i salariati la
giornata «legale» media di otto ore, colle eventuali deroghe consigliate dalle
necessità agricole o industriali.
2) Una legislazione sociale aggiornata alle necessità odierne, specie per ciò che
riguarda gli infortuni, la invalidità e la vecchiaia dei lavoratori sia agricoli che
industriali o impiegatizii, sempre che non inceppi la produzione. 3) Una
rappresentanza dei lavoratori nel funzionamento di ogni industria, limitatamente per
ciò che riguarda il personale.
4) L’affidamento della gestione di industrie o di servizi pubblici ad organizzazioni
sindacali che ne siano moralmente degne e tecnicamente preparate.
5) La diffusione della piccola proprietà in quelle zone e per quelle coltivazioni che
produttivamente lo consentano.

Capisaldi di politica interna


Il Partito Nazionale Fascista intende elevare a piena dignità i costumi politici cosí che
la morale pubblica e quella privata cessino di trovarsi in antitesi nella vita della
Nazione.
Esso aspira all’onore supremo del Governo del Paese; a ristaurare il concetto etico
che i Governi debbono amministrare la cosa pubblica non già nell’interesse dei partiti
e delle clientele ma nel supremo interesse della Nazione.
Va restaurato il prestigio dello Stato Nazionale e cioè dello Stato che non assista
indifferente allo scatenarsi e al prepotere delle forze che attentino o comunque
minaccino di indebolire materialmente e spiritualmente la compagine, ma sia geloso
custode e difensore e propagatore della tradizione nazionale, del sentimento
nazionale, della volontà nazionale.
La libertà del cittadino trova un duplice limite: nella libertà delle altre persone
giuridiche e nel diritto sovrano della Nazione a vivere e svilupparsi.
Lo Stato deve favorire lo sviluppo della Nazione, non monopolizzando, ma
promovendo ogni opera intesa al progresso etico, intellettuale, religioso, artistico,
giuridico, sociale, economico, fisiologico della collettività nazionale.

Capisaldi di politica estera


L’Italia riaffermi il diritto alla sua completa unità storica e geografica, anche là dove
non è ancora raggiunta; adempia la sua funzione di baluardo della civiltà latina sul
Mediterraneo; affermi sui popoli di nazionalità diversa annessi all’Italia saldo e
stabile l’impero della sua legge; dia valida tutela agli italiani all’estero cui deve
essere conferito diritto di rappresentanza politica.
Il Fascismo non crede alla vitalità e ai principi che ispirano la cosí detta Società delle
Nazioni, in quanto che non tutte le Nazioni vi sono rappresentate e quelle che lo sono
non vi si trovano su di un piede di eguaglianza. Il Fascismo non crede alla vitalità e
alla efficienza delle internazionali rosse, bianche o di altro colore, perché si tratta di
costruzioni artificiali e formalistiche le quali raccolgono piccole minoranze di
individui piú o meno convinti in confronto delle vaste masse delle popolazioni che
vivendo, progredendo o regredendo, finiscono per determinare quegli spostamenti di
interessi davanti ai quali tutte le costruzioni internazionalistiche sono destinate a
cadere, come la recente esperienza storica documenta.
L’espansione commerciale e l’influenza politica dei trattati internazionali debbono
tendere a una maggiore diffusione dell’italianità nel mondo.
I trattati internazionali vanno riveduti e modificati in quelle parti che si sono palesate
inapplicabili e quindi regolati secondo le esigenze dell’economia nazionale e
mondiale.
Lo Stato deve valorizzare le colonie italiane del Mediterraneo e d’oltre Oceano con
istituzioni economiche, culturali e con rapide comunicazioni.
Il Partito Nazionale Fascista si dichiara favorevole a una politica di amichevoli
rapporti con tutti i popoli dell’Oriente vicino e lontano.
La difesa e lo sviluppo dell’Italia all’estero vanno affidate a un Esercito e a una
Marina adeguati alla necessità della sua politica e all’efficienza delle altre Nazioni, e
ad organi diplomatici compresi della loro funzione e forniti di coltura, di animo e di
mezzi sí da esprimere nel simbolo e nella sostanza la grandezza dell’Italia di fronte al
Mondo.

Capisaldi di politica finanziaria e di ricostruzione economica del Paese


Il Partito Nazionale Fascista agirà:
1) Perché sia sancita un’effettiva responsabilità dei singoli e delle corporazioni nei
casi di inadempienza dei patti di lavoro liberamente conclusi.
2) Perché venga stabilita e regolata la responsabilità civile degli addetti alle pubbliche
amministrazioni e degli amministratori per qualsiasi loro negligenza in confronto dei
danneggiati.
3) Perché venga imposta la pubblicità sui redditi imponibili e l’accertamento dei
valori successori al fine di rendere possibile un controllo sugli obblighi finanziari di
tutti i cittadini verso lo Stato.
4) Perché l’eventuale intervento statale, che si rendesse assolutamente necessario per
proteggere taluni rami dell’industria agricola e manifatturiera da una troppo
pericolosa concorrenza estera, sia tale da stimolare le energie produttive del Paese,
non già da assicurare un parassitario sfruttamento dell’economia nazionale da parte di
gruppi plutocratici.
Saranno obbiettivi immediati del Partito Nazionale Fascista:
1) Il risanamento dei bilanci dello Stato e degli enti pubblici locali, anche mediante
rigorose economie in tutti gli organismi parassitari o pletorici e nelle spese non
strettamente richieste dal bene degli amministrati o da necessità di ordine generale.
2) Il decentramento amministrativo per semplificare i servizi e per facilitare lo
sfollamento della burocrazia, pur mantenendo l’opposizione recisa ad ogni
regionalismo politico.
3) La rigida tutela del denaro dei contribuenti, sopprimendo ogni sussidio o favore, da
parte dello Stato o altri Enti pubblici, a Consorzi, Cooperative, Industrie, clientele e
simili, incapaci di vita propria e non indispensabili alla Nazione.
4) La semplificazione dell’organismo tributario e la distribuzione dei tributi secondo
un criterio di proporzionalità, senza partigianerie pro o contro questa o quella
categoria di cittadini, e non secondo concetti di progressività spogliatrice.
5) L’opposizione alla demagogia finanziaria e tributaria che scoraggi le iniziative o
isterilisca le fonti del risparmio e della produzione nazionale.
6) La cessazione della politica di lavori pubblici abboracciati, concessi per motivi
elettorali ed anche per pretesi motivi di ordine pubblico, o comunque non redditizi
per la loro stessa distribuzione saltuaria e a spizzico. 7) La formazione di un piano
organico di lavori pubblici secondo le nuove necessità economiche, tecniche, militari
della Nazione, piano che si proponga principalmente di: completare e riorganizzare la
rete ferroviaria italiana, riunendo meglio le regioni redente alle linee della penisola
nonché alle comunicazioni interne della penisola stessa, specie quelle longitudinali
dal sud al nord attraverso l’Appennino; accelerare nel limite del possibile,
l’elettrificazione delle ferrovie ed in genere lo sfruttamento delle forze idriche
sistemando i bacini montani anche a favore dell’industria e dell’agricoltura; sistemare
ed estendere le reti stradali, specie nel Mezzogiorno ove ciò rappresenta una necessità
pregiudiziale alla risoluzione di innumerevoli problemi economici e sociali; istituire e
intensificare le comunicazioni marittime con la Penisola da un lato e le Isole e la
sponda orientale adriatica e le nostre Colonie mediterranee dall’altro, nonché fra il
nord e il sud della Penisola stessa, sia quale ausilio alla rete ferroviaria, sia per
incoraggiare gli italiani alla navigazione; concentrare le spese e gli sforzi in pochi
porti dei tre mari, dotandoli di tutto l’attrezzamento moderno; lottare e resistere
contro i particolarismi locali che, in materia specialmente di lavori pubblici, sono
causa di dispersione di sforzi e ostacolo alle grandi opere di interesse nazionale.
8) Restituzione all’industria privata delle aziende industriali alla cui gestione lo Stato
si è dimostrato inadatto: specialmente i telefoni e le ferrovie (incoraggiando la
concorrenza fra le grandi linee e distinguendo queste ultime dalle linee locali
esercibili con metodi diversi).
9) Rinunzia al monopolio delle Poste e dei Telegrafi in modo che l’iniziativa privata
possa integrare ed eventualmente sostituire il servizio di Stato.

Capisaldi di politica sociale


Il Fascismo riconosce la funzione sociale della proprietà privata la quale è, insieme,
un diritto e un dovere. Essa è la forma di amministrazione che la Società ha
storicamente delegato agli individui per l’incremento del patrimonio stesso.
Il Partito Nazionale Fascista di fronte ai progetti socialistici di ricostruzione a base di
economia pregiudizialmente collettivistica, si pone sul terreno della realtà storica e
nazionale che non consente un tipo unico di economia agricola o industriale e si
dichiara favorevole a quelle forme – siano esse individualistiche o di qualsiasi altro
tipo – che garantiscano il massimo di produzione ed il massimo di benessere.
Il Partito Nazionale Fascista propugna un regime che spronando le iniziative e le
energie individuali (le quali formano il fattore piú possente ed operoso della
produzione economica) favorisca l’accrescimento della ricchezza nazionale con
rinuncia assoluta a tutto il farraginoso, costoso e antieconomico macchinario delle
statizzazioni, socializzazioni, municipalizzazioni, ecc.
Il Partito Nazionale Fascista appoggerà quindi ogni iniziativa che tenderà ad un
miglioramento dell’assetto produttivo, avente lo scopo di eliminare ogni forma di
parassitismo individuale o di categoria.
Il Partito Nazionale Fascista agirà:
a) perché siano disciplinate le incomposte lotte degli interessi di categorie e di classi,
e quindi: riconoscimento giuridico con conseguenti responsabilità delle
organizzazioni operaie e padronali; b) perché sia sancito e fatto osservare, sempre e
comunque, il divieto di sciopero nei servizi pubblici con contemporanea istituzione di
tribunali arbitrali composti di una rappresentanza del potere esecutivo, di una
rappresentanza della categoria operaia o impiegatizia in conflitto e di una
rappresentanza del pubblico che paga.

Politica scolastica
La scuola deve avere per scopo generale la formazione di persone capaci di garantire
il progresso economico e storico della Nazione; di elevare il livello morale e culturale
della massa e di sviluppare da tutte le classi gli elementi migliori per assicurare il
rinnovamento continuo dei ceti dirigenti.
A tale scopo urgono i seguenti provvedimenti:
1) Intensificazione della lotta contro l’analfabetismo, costruendo scuole e strade
d’accesso e prendendo di autorità, per opera dello Stato, tutti i provvedimenti che
risultassero necessari.
2) Estensione dell’istruzione obbligatoria fino alla sesta classe elementare inclusa, nei
Comuni in grado di provvedere alle scuole necessarie e per tutti coloro che dopo
l’esame di maturità non seguono la via della scuola media; istruzione obbligatoria
fino alla quarta elementare inclusa, in tutti gli altri Comuni. 3) Carattere
rigorosamente nazionale della scuola elementare in modo che essa prepari anche nel
fisico e nel morale i futuri soldati d’Italia; per ciò rigido controllo dello Stato sui
programmi, sulla scelta dei maestri, sulla opera loro, specie nei Comuni dominati da
partiti antinazionali.
4) Scuola media e universitaria libera, salvo il controllo dello Stato sui programmi e
lo spirito dell’insegnamento e salvo il dovere dello Stato di provvedere esso
all’istruzione premilitare, diretta a facilitare la formazione degli ufficiali.
5) Scuola normale informata ai medesimi criteri esposti per la scuola a cui i futuri
insegnanti sono destinati: perciò carattere rigorosamente nazionale anche negli Istituti
da cui escono gli insegnanti elementari.
6) Scuole professionali, industriali e agrarie istituite con piano organico utilizzando il
contributo finanziario e d’esperienza degli industriali e degli agricoltori, allo scopo di
elevare le capacità produttive della Nazione e di creare la classe media di tecnici fra
gli esecutori e i direttori della produzione. A tale scopo lo Stato dovrà integrare e
coordinare le iniziative private, sostituendosi ad esse ove mancano.
7) Carattere prevalentemente classico delle scuole medie inferiori e superiori; riforma
ed unificazione di quelle inferiori in modo che tutti gli studenti studino il latino; il
francese non sia piú l’unica lingua sussidiaria a quella italiana: scegliere e adattare
invece la lingua sussidiaria secondo le necessità delle singole regioni, specie di quelle
di frontiera.
8) Unificazione di tutte le beneficenze scolastiche, borse di studio e simili, in un
Istituto controllato e integrato dallo Stato, il quale scelga fin dalle classi elementari
gli alunni piú intelligenti e volonterosi e assicuri la loro istruzione superiore,
imponendosi, se occorra, all’egoismo dei genitori e provvedendo con un congruo
sussidio nei casi in cui fosse necessario.
9) Trattamento economico e morale dei maestri e dei professori, nonché degli
ufficiali dell’Esercito, quali educatori militari della Nazione, tale da assicurare ad essi
la tutela della propria dignità e i mezzi di accrescere la propria cultura, e da ispirare
ad essi ed al pubblico la coscienza dell’importanza nazionale della loro missione.

La Giustizia
Vanno intensamente promossi i mezzi preventivi e terapeutici della delinquenza
(riformatori, scuole per i traviati, manicomi criminali, ecc.).
La pena, mezzo di difesa della Società nazionale lesa nel diritto, deve adempiere
normalmente la funzione intimidatrice ed emendatrice: i sistemi penitenziari vanno,
in considerazione della seconda funzione, igienicamente migliorati e socialmente
perfezionati (sviluppo del lavoro carcerario).
Vanno abolite le magistrature speciali. Il Partito Nazionale Fascista si dichiara
favorevole alla revisione del codice penale militare. La procedura deve essere spedita.

La difesa nazionale
Ogni cittadino ha l’obbligo del servizio militare.
L’Esercito si deve avviare verso la forma della Nazione Armata in cui ogni forza
individuale, collettiva, economica, industriale e agricola sia compiutamente
inquadrata al fine supremo della difesa degli interessi nazionali. All’uopo il Partito
Nazionale Fascista propugna l’immediato ordinamento di un Esercito che in
formazione completa e perfetta, da una parte, sorvegli, vigile scorta, le conquistate
frontiere, e, dall’altro, tenga preparati in Paese, addestrati ed inquadrati, gli spiriti, gli
uomini ed i mezzi che la Nazione sa esprimere, nelle sue infinite risorse, nell’ora del
pericolo e della gloria.
Agli stessi fini l’Esercito, in concorso con la scuola e con le organizzazioni sportive,
deve dare fin dai primi anni al corpo e allo spirito del cittadino l’attitudine e
l’educazione al combattimento e al sacrificio per la Patria. (Istruzione premilitare).

Organizzazione Il Fascismo in atto è un organismo:


a) politico
b) economico
c) di combattimento.
Nel campo politico accoglie senza settarietà quanti sinceramente sottoscrivono i suoi
principi e ubbidiscono alla sua disciplina; stimola e valorizza gli ingegni particolari
riunendoli secondo le attitudini in gruppi di competenza; partecipa intensamente e
costantemente a ogni manifestazione della vita politica attuando in via contingente
quanto può essere praticamente accolto dalla sua dottrina e riaffermandone il
contenuto integrale. Nel campo economico promuove la costituzione delle
corporazioni professionali, siano schiettamente fasciste, siano autonome, a seconda
delle esigenze di tempo e luogo, purché informate sostanzialmente alla pregiudiziale
nazionale per la quale la Nazione è al di sopra delle classi.
Nel campo dell’organizzazione di combattimento il Partito Nazionale Fascista forma
un tutto unico con le sue squadre: milizia volontaria al servizio dello Stato nazionale,
forza viva in cui l’Idea Fascista si incarna e con cui si difende.

- LA MARCIA SU ROMA

Il 22 ottobre 1922 Mussolini aveva già pronto il proclama per il momento


dell’insurrezione. Gli mancava solo una prova per verificare la possibilità di spostare
un numero sufficiente di uomini per ferrovia, concentrandoli alle porte di Roma. A
questo scopo aveva una quinta colonna in una posizione chiave nel governo Facta:
Vincenzo Riccio, responsabile delle Ferrovie dello stato. Riccio acconsentì a fornirgli
i treni necessari a trasportare le camicie nere.
Mussolini decise di convocare i fascisti a Napoli per un congresso da tenersi il 24
ottobre, quale prova generale della marcia su Roma. Là sperava di saggiare la
reazione delle autorità romane alla sua offerta di assunzione del potere.
A Napoli arrivò poco dopo la mezzanotte del 24 ottobre, accompagnato dai tre
fedelissimi Marinelli, Bianchi e Acerbo. Alla stazione c’erano ad attenderli due
quadrumviri, Balbo e De Bono, eccitatissimi, che li accompagnarono all’albergo
Vesuvio per preparare la marcia su Roma. La prima parte del piano stava
funzionando bene. C’era stato qualche dubbio sulla situazione dei treni, ma Riccio,
come promesso, aveva ormai consegnato i treni speciali che stavano arrivando senza
incidenti da tutte le parti d’Italia.
Il teatro San Carlo era stato decorato con bandiere fasciste e vessilli. Quando
Mussolini, che indossava camicia e pantaloni neri e ghette grigie, fece il suo ingresso,
un trombettiere suonò l’attenti: i capi fascisti e i notabili napoletani intonarono
Giovinezza! «Noi fascisti» disse Mussolini poggiando le mani sui fianchi e
sollevando la testa «non intendiamo arrivare al potere dalla porta di servizio … ». Le
camicie nere con il petto ricoperto di medaglie sollevarono i loro elmetti della Grande
Guerra. «Noi fascisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura
d’ideali per una miserabile porzione di minestra ministeriale».
Nel pomeriggio circa sessantamila fascisti guidati dai loro gerarchi sfilarono per le
vie di Napoli spazzate da una pioggia sottile. Nella luce declinante del crepuscolo,
con un ultimo raggio di sole che illuminava le nuvole scure, Mussolini parlò alle
milizie fasciste radunate nell’enorme piazza. «Io vi parlo con tutta la solennità
richiesta dal momento; o ci daranno il governo, o ce lo prenderemo calando su Roma.
Non è questione di giorni, ma di ore. » Mussolini portava di traverso sulla camicia
nera una splendida fascia con i colori giallo-rossi di Roma. A poco a poco riecheggiò
per tutta la piazza un coro ritmato: «Roma! Roma! Roma!».
Quella notte, nella camera dell’albergo Vesuvio, Mussolini informò i suoi generali
sugli ultimi dettagli del piano operativo. Alla mezzanotte tra il 26 e il 27 il comando
sarebbe passato al quadrumvirato, cui tutti i fascisti avrebbero dovuto prestare
obbedienza senza discutere. Alla mezzanotte tra il 27 e il 28 si sarebbe proceduto alla
mobilitazione dell’intera milizia con l’ordine di impadronirsi degli edifici pubblici
delle principali città italiane, ovunque fosse stato possibile. Contemporaneamente tre
colonne di uomini si sarebbero concentrate nei punti di partenza della marcia vera e
propria: a Tivoli, una trentina di chilometri a est della capitale, sulla via Tiburtina; a
Monterotondo, sulla via Salaria, poco meno di 50 km a nord di Roma; a Santa
Marinella, sulla via Aurelia, 56 km a nordovest di Roma.
Il mattino del 28 ottobre le tre colonne avrebbero dovuto marciare sulla capitale per
obbligare Facta a rassegnare le dimissioni, consentendo a Mussolini di prendere il
potere con un governo dominato dai fascisti. Ma gli ordini erano categorici: evitare
gli scontri con l’esercito regolare; le camicie nere avrebbero dovuto dimostrare tutta
la loro simpatia e il loro rispetto verso tutte le truppe regolari che avessero incontrato.
Mussolini era sicuro che la minaccia di una guerra civile avrebbe provocato una crisi
di governo, consentendo al re di costituire un nuovo esecutivo a forte partecipazione
fascista, compresi almeno sei ministri in camicia nera. La riunione all’albergo
Vesuvio di Napoli si concluse senza particolari cerimonie: solamente poche strette di
mano e qualche parola d’incoraggiamento pronunciata da Mussolini.
Si convocarono i capi regionali per consegnare loro gli ordini della mobilitazione
segreta. L’Italia fu divisa in due zone, ciascuna agli ordini di un comandante di
provate capacità militari. Ogni comandante ebbe venticinquemila lire e il saluto
«Arrivederci a Roma».
I comandanti avrebbero avuto molto da fare in tempi strettissimi: era necessario un
grande sforzo per radunare i reparti della milizia fascista in tutte le zone del paese,
soprattutto nel Sud; si doveva organizzare la cavalleria, creare i reparti della Croce
rossa, costituire un sistema di rifornimenti, diffondere appelli per arruolare personale
essenziale, come i cucinieri.
Alle due del pomeriggio del 25 Mussolini partì da Napoli alla volta della capitale. Là,
in attesa del treno della notte per Milano, egli avrebbe portato avanti la cospirazione
consultandosi con parecchi personaggi chiave giunti alla stazione Termini per parlare
con lui.
Facta convocò una riunione del consiglio dei ministri, la maggior parte dei quali si
oppose alle sue dimissioni; soprattutto Taddei, ministro della Guerra, che disse che
l’esercito era del tutto pronto ad affrontare qualunque assalto fascista. Soleri, ministro
dell’Interno, garantì al governo che la polizia era pronta ad arrestare i capi fascisti in
tutto il paese. Invece di rassegnare le dimissioni, i ministri rimisero i loro dicasteri a
disposizione di Facta, suggerendogli di fare tutto il possibile per resistere alla
minaccia fascista.
Facta telegrafò a Vittorio Emanuele di ritornare al più presto nella capitale. Alle otto
di sera del 27, scendendo dal treno a Roma, il re era di pessimo umore. Mostrò la sua
irritazione e l’impazienza ai ministri di Facta venuti ad accoglierlo, rimproverandoli
per aver permesso un tale deterioramento della situazione. A quel punto Vittorio
Emanuele ribadì che Roma doveva essere difesa a tutti i costi. Nessun fascista in armi
sarebbe dovuto entrare nella capitale.
Rinfrancato dalla fermezza del re, il governo sembrò deciso a resistere ai fascisti. Si
piazzarono reticolati di filo spinato e postazioni di mitragliatrici nei punti strategici
della città, si mise l’artiglieria pesante in postazione alle porte e in corrispondenza dei
ponti sul Tevere, cavalleria e autocarri armati di mitragliatrici stazionavano intorno al
palazzo reale e al ministero dell’Interno. I prefetti ebbero l’ordine di tenersi pronti ad
arrestare i capi fascisti.
Verso mezzanotte le notizie che giungevano al ministero dell’Interno cominciarono a
farsi allarmanti: nell’Italia centrale le prefetture e le stazioni ferroviarie erano prese
d’assalto dai fascisti, soprattutto a Firenze, Pisa e Perugia, dove le camicie nere erano
entrate in azione in anticipo.
Preoccupato da questi sviluppi, Facta si precipitò da Taddei, al ministero della
Guerra. Decisero di affidare ai militari il controllo dell’ordine pubblico, a partire
dalle 12.30 meridiane del 28. Per proteggere Roma sarebbero state minate le linee
ferroviarie presso i maggiori centri in prossimità della capitale, come Chiusi, Orte e
Civitavecchia.
Facta andò quindi dal re con la bozza della dichiarazione dello stato d’assedio e di un
proclama rivolto al popolo italiano, nel quale il governo affermava «il suo compito
supremo di difendere lo stato a tutti i costi, con qualunque mezzo, contro chiunque
violasse le leggi».
Facta tornò al ministero dell’Interno con l’approvazione del re e dichiarò che sarebbe
rimasto al suo posto a costo della vita. «Questa è una rivolta» esclamò. «Dovremo
schiacciarla.» Quindi convocò una riunione del consiglio dei ministri da tenersi alle
cinque del mattino presso il ministero dell’Interno, al Viminale. Cominciò a cadere
una pioggia leggera.
A Milano Mussolini stabilì il quartier generale dell’insurrezione nei suoi uffici del
Popolo d’Italia, dove aveva accumulato la carta da giornale per le edizioni speciali.
Altre bobine di carta da giornale erano accatastate tutt’intorno all’edificio, formando
barricate per la guardia armata formata da squadristi.
Un centinaio di chilometri a nord di Roma, nella città di Perugia, il quadrumvirato di
Balbo, De Bono, De Vecchi e Michele Bianchi aveva stabilito il proprio quartier
generale all’albergo Brufani, un edificio di mattoni rossi ornato di colonne situato
nella piazza principale vicino alla prefettura. A mezzanotte del 27 il quadrumvirato
emanò gli ordini per la mobilitazione generale della milizia fascista.
Molti tra i massimi gradi dell’esercito, tra i quali il maresciallo d’Italia Armando
Diaz (cui si attribuiva la paternità della vittoria italiana nella Prima guerra mondiale),
dichiararono immediatamente il loro appoggio alla causa fascista. Il duca d’Aosta,
comandante della 3a armata e viceré sul campo in tempo di guerra, giunse a Perugia
per tenersi in contatto con l’alto comando fascista.
Cinque generali dell’esercito regolare – Fara, Ceccherini, Magiotto, Zamboni e Tiby
– assunsero il comando delle varie colonne fasciste che dovevano marciare alla volta
di Roma da Civitavecchia, Valmontone, Monterotondo, Mentana, Tivoli e Santa
Marinella. A partire dalla mezzanotte le forze fasciste erano ovunque in movimento.
Sulle camicie nere di cotone, lana o seta indossate su calzoni e scarpe dell’esercito
erano stati appuntati cordoncini dorati. Inquadrati in colonne con borracce, zaino e
coperte arrotolate sulle spalle, i fascisti erano armati in modo eterogeneo con
schioppi, fucili, rivoltelle, pugnali, bombe a mano e manganelli. Altri reparti erano
stipati su autocarri scoperti forniti dall’esercito, mezzi a quattro ruote con cabine di
guida scoperte che sobbalzavano pesantemente sulle strade polverose strepitando con
i loro clacson.
I treni furono sommariamente requisiti, al personale delle ferrovie da uomini della
milizia fascista. Sui vagoni fu tracciata alla meglio la scritta “A ROMA”, oltre
all’onnipresente motto “Me ne frego” e ai nomi delle squadre. Uomini in camicia
nera si sporgevano dai finestrini dei vagoni agitando i gagliardetti.
I fascisti che non si trovavano sui treni o sulle strade, erano occupati ad assaltare gli
edifici pubblici delle città occupando e presidiando le stazioni ferroviarie, gli uffici
postali e telegrafici, le armerie, quasi sempre con il consenso delle autorità locali.
Per tutta la notte e nelle prime ore del mattino affluirono al ministero dell’Interno
telegrammi che riferivano i nomi delle città e delle prefetture occupate dai fascisti o
delle guarnigioni militari che fraternizzavano con le camicie nere.
Alle cinque del mattino il governo Facta si riunì al ministero dell’Interno, al
Viminale. Il generale Cittadini, aiutante di campo del re, dichiarò che se non fosse
stato proclamato lo stato d’assedio il re avrebbe abdicato, abbandonando il paese.
Perciò si decise di dichiarare lo stato d’assedio alle ore 12 del 28. Ma nessuno sapeva
come formulare il decreto, per cui si iniziò una ricerca affannosa per trovare una
copia dell’ultimo decreto del genere promulgato. Alle 7.10 del mattino i prefetti e i
comandanti militari ebbero l’ordine di usare qualsiasi mezzo per impedire ulteriori
occupazioni di edifici pubblici e di arrestare i capi e i promotori dell’insurrezione.
Quaranta minuti più tardi fu inviato a tutti i prefetti d’Italia un telegramma che
annunciava l’entrata in vigore dello stato d’assedio a partire dal mezzogiorno del 28.
In città fu vietato tutto il traffico non militare, le truppe pattugliavano le strade
principali e vennero creati cordoni intorno alla periferia della capitale.
Nei dintorni di Perugia, sede del comando del quadrumvirato, le truppe dell’esercito
regio accerchiarono la città, pronte a eseguire ogni ordine. Nella sala da biliardo
dell’albergo Brufani i quadrumviri avevano srotolato le carte della campagna sui
panni verdi dei tavoli, seguendo le posizioni delle truppe fasciste. Quando, poco dopo
le 20, giunse loro la notizia dello stato d’assedio, nella sala calò un doloroso silenzio.
Alle nove del mattino del 29, Luigi Federzonì, l’unico nazionalista del gruppo,
telefonò a Mussolini a Milano per chiedere istruzioni. Gli fu detto che il Duce
avrebbe accettato qualunque decisione il quadrumvirato avesse preso.
Ormai anche Milano, nonostante il prefetto filofascista, era saldamente nelle mani
dell’esercito. Mussolini poteva circolare solo con il consenso delle forze armate che
pattugliavano le strade. A un certo punto il prefetto Lusignoli fu costretto perfino a
informare Mussolini che avrebbe potuto trovarsi nell’obbligo di arrestarlo.
Al ministero dell’Interno Facta era ancora in riunione con il suo governo, tentando
ripetutamente di raggiungere il re per telefono. Vittorio Emanuele era stato avvicinato
dai generali Dìaz, Pero e Giraldi. Questi erano riusciti a convincere il re che in caso
di conflitto armato con i fascisti, l’esercito avrebbe compiuto il suo dovere, ma che
forse sarebbe stato più saggio non metterlo alla prova e che non era certo che
avrebbero accettato di sparare contro gli ex compagni d’arme, guidati da generali
dell’esercito coperti di medaglie.
Il re era ormai deciso a non rischiare né il trono né la guerra civile. Ripeté a Facta che
sarebbe stato impossibile impedire l’occupazione di Roma senza ricorrere alla guerra
civile, e che molte province erano già cadute in mani fasciste.
Con uno storico dietrofront, il re rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio che
Facta aveva preparato.
Alle 11 il governo al completo rassegnò le dimissioni. Alle 11.30 un comunicato
ufficiale annunciò che lo stato d’assedio era stato revocato.
Alla notizia della revoca, i fascisti di Roma cominciarono a raccogliersi davanti al
palazzo del Quirinale per applaudire il re. Le camicie nere si spostavano stipate sugli
autocarri sotto la pioggia sottile e ordinavano agli abitanti della città di issare il
tricolore su tutti gli edifici. Le camicie nere e le camicie azzurre dei nazionalisti
correvano per le strade aggrappate alle automobili aperte pigiando il clacson, mentre
distaccamenti di fascisti giungevano a passo di marcia con il braccio teso nell’antico
saluto romano, cantando Giovinezza! Si formò una folla di gente che osservava e
commentava.
A Milano Mussolini pubblicò un comunicato in edizione straordinaria del Popolo
d’Italia, nel quale dichiarava che la maggior parte dell’Italia centrale e settentrionale
era nelle mani dei fascisti, che avevano occupato le prefetture e le stazioni.
Alle 16 il rappresentante monarchico di Mussolini, De Vecchi, si recò dal re.
Increspando le labbra, il sovrano chiese al quadrumviro fascista se avrebbe accettato
una soluzione Salandra con quattro ministeri per i fascisti. Quando Federzoni riuscì a
comunicare telefonicamente con Milano, Mussolini spiegò che non aveva alcun senso
mobilitare decine di migliaia di camicie nere solo per formare un governo Salandra.
Il re, che aveva letto il testo delle intercettazioni compiute dai censori sulle
conversazioni telefoniche tra Mussolini e le sue coorti, sapeva come stavano
realmente le cose e incaricò il generale Cittadini di inviare il seguente telegramma: «
Sua Maestà il re Vittorio Emanuele III vi prega di venire immediatamente a Roma.
Egli intende offrirvi l’incarico di formare un nuovo governo».
Mussolini aveva le valigie già pronte.
Il Duce del Fascismo si diresse all’imponente stazione Centrale di Milano indossando
un cappotto grigio nuovo, con ghette e bombetta grigie. Era la sera del 29 ottobre e
pioveva ancora. Gli strilloni vendevano le edizioni straordinarie dei giornali con titoli
a tutta pagina che annunciavano la caduta di Facta.
Mussolini stringeva sotto braccio un libro sulla vittoria italiana a Vittorio Veneto
nella Grande Guerra: intendeva donarlo al re.
Migliaia di persone si erano raccolte nella stazione e negli immediati dintorni.
Qualcuno lanciò dei fiori e gli ammiratori si sporsero dalle carrozze degli altri treni
per guardare e applaudire Mussolini che si dirigeva verso l’espresso per Roma. Il
fratello di Mussolini, Arnaldo, guidò una moltitudine di fascísti milanesi verso il
vagone letto mentre Mussolini rispondeva ai saluti delle camicie nere in servizio sul
treno e diceva al capo stazione: «Voglio partire in perfetto orario. Da oggi in poi tutto
deve funzionare come un orologio».
Il mattino del 30 il treno entrò a Civitavecchia. Centinaia di persone intonarono
Giovinezza! I gerarchi fascisti, allineati lungo il marciapiede, urlarono: «Per Benito
Mussolini, eia eia, alalà!», un saluto ripreso dai legionari fiumani di D’Annunzio, che
il poeta diceva fosse stato il saluto dei seguaci di Enea al loro capo.
Sulla campagna si stendeva una nebbia sottile e fredda. Mussolini si cambiò nello
scompartimento, indossando abiti presi a prestito: i pantaloni neri con le bande e la
giacca a coda di rondine richiesti dal protocollo, che egli indossò sopra la camicia
nera e le ghette bianche trattate con talco.
Alle 10.30 il treno entrò nella vecchia stazione romana di Termini, dove lo attendeva
una limousine reale.
Nel palazzo del Quirinale il piccolo re in alta uniforme, completa di sciabola, era in
attesa di salutare il nuovo primo ministro. Giunto alla presenza del sovrano,
Mussolini si inchinò e strinse la mano regale: « Porto a V. M. l’Italia di Vittorio
Veneto, riconsacrata dalle nuove vittorie. Vostra Maestà voglia perdonarmi se mi
presento indossando ancora la camicia nera della battaglia che fortunatamente non c’è
stata. Io sono un suddito fedele di Vostra Maestà».
In quello stesso pomeriggio Mussolini formò il suo governo. Alle 19.30 portò
l’elenco dei ministri al re.

DUST BOWL IN AMERICA

È noto il fatto che ci fosse instabilità economica nell'agricoltura durante gli anni
1920, a causa della sovrapproduzione che fece seguito alla prima guerra mondiale. Le
forze di mercato nazionali e internazionali durante la guerra avevano fatto sì che gli
agricoltori spingessero lo sfruttamento agricolo oltre i suoi limiti naturali. Terre
sempre più marginali, che oggi verrebbero considerate inadatte alla coltivazione,
vennero sfruttate per catturare i profitti derivanti dalla guerra.

Con le loro terre sterili e le case requisite a causa di debiti non pagabili, molte
famiglie contadine si arresero e partirono. La migrazione fu drastica; il 15% della
popolazione dell'Oklahoma si spostò ad ovest, e i migranti venivano generalmente
indicati come "Okies", che venissero o meno dall'Oklahoma. Le stime più alte per il
numero di americani dislocati arrivano a 2,5 milioni, ma la cifra più bassa di 3-
400.000, basata sulla popolazione di 2,3 milioni di abitanti dell'Oklahoma all'epoca è
più probabile. Questo processo migratorio da allora non si è mai completamente
arrestato e ha determinato lo spopolamento delle Grandi Pianure degli Stati Uniti
d'America.
Macchinari sepolti dalla polvere. Dallas (Sud Dakota), maggio 1936.

L'11 novembre 1933, una tempesta di polvere molto forte strappò via la superficie del
terreno dei campi del Sud Dakota, in una serie di disastrose tempeste di polvere di
quell'anno. Quindi l'11 maggio 1934, una forte tempesta di polvere durata due giorni
rimosse grandi quantità della superficie del terreno delle Grandi Pianure, in una delle
peggiori di queste tempeste nel Dust Bowl. Le nuvole di polvere arrivarono fino
a Chicago, dove lo sporco cadeva come neve, scaricando l'equivalente di 1,8 kg di
detriti per ogni abitante della città. Diversi giorni dopo, la stessa tempesta raggiunse
alcune città dell'est, come Buffalo, Boston, New York eWashington DC.
Quell'inverno sul New England cadde della neve rossa.

Il 14 aprile 1935, noto come la "Domenica Nera", si ebbe una delle peggiori tempeste
nel Dust Bowl, che provocò danni estesi, e trasformò il giorno in notte. Testimoni
riportarono che in certi punti non si riusciva a vedere a due metri di distanza.

Durante i primi 100 giorni della presidenza di Franklin D. Roosevelt, vennero


realizzati programmi governativi per ripristinare l'equilibrio ecologico della nazione.
Il governo statunitense stava istituendo il Soil Conservation Service, l'odiernoNatural
Resources Conservation Service.

La crisi umanitaria venne documentata da fotografi della Farm Security


Administration; tra questi la più famosa fu Dorothea Lange. Dopo il picco massimo
del 1935, per effetto delle politiche di equilibrio adottate dalla Amministrazione, il
fenomeno perse di intensità fino a pressoché scomparire.

Lo sbarco dell’uomo sulla luna


Quarantasei anni fa, il 20 luglio 1969, alle ore 22.56 EDT (le ore 5.56 ora italiana del
21 luglio) l'astronauta americano Neil Armstrong posava il primo piede umano sul
suolo lunare. Quella missione era iniziata il 16 luglio alle 9.32 ora locale, quando il
gigantesco razzo vettore Saturno 5, alto oltre 111 metri, si era alzato dalla rampa
39/B del Centro spaziale Kennedy in Florida. A bordo vi erano tre astronauti: il
Comandante della missione Neil A. Armstrong, il Pilota del modulo di comando
Michael Collins ed il Pilota del modulo lunare Edwin E. Aldrin Jr.

Dopo un viaggio tranquillo, durato quattro giorni, i tre uomini arrivarono in orbita
lunare. Armstrong e Aldrin salirono sul LEM (Lunar Excursion Module - Modulo
Lunare) e si sganciarono dal modulo di servizio Columbia dove rimaneva a bordo
Collins. Alle 22.17 minuti ora italiana del 20 luglio il LEM battezzato Eagle (Aquila)
toccava dolcemente il suolo lunare in una zona chiamata Mare della Tranquillita'. La
manovra era stata effettuata in modo manuale perché in automatico si rischiava di
andare a finire dentro un cratere. Alla fine della manovra il combustibile del motore
era quasi terminato e il modulo era disceso a circa sei chilometri dal punto previsto.
Dopo alcune ore ed aver controllato che tutto fosse in ordine dal Centro Controllo di
Houston, nel Texas, veniva dato l'ok per l'uscita. Toccava quindi ad Armstrong
scendere per primo e quando giunse alla fine della scaletta e finalmente fece l'ultimo
salto che lo divideva dal suolo selenico pronuncio' la storica frase: "Questo e' un
piccolo passo per un uomo ma e' un grande balzo per l'Umanita'".

Dopo poco anche Aldrin segui Armstrong sul suolo lunare ed entrambi iniziarono a
sistemare alcune apparecchiature scientifiche. Venne piantata anche la bandiera degli
Stati Uniti e raccolti campioni del suolo lunare. L'attivita' all'esterno del LEM duro'
circa 2 ore e 40 minuti. Al loro rientro nel modulo li attendeva un periodo di riposo e
poi doveva iniziare il distacco dalla superficie selenica. Anche questa rischiosa
operazione mai tentata prima ebbe successo e dopo poche ore i tre uomini si
riunivano nel modulo di comando Columbia che, dopo aver sganciato l'ormai inutile
LEM, riaccendeva i motori per rientrare felicemente sulla Terra come eroi. A questa
storica missione lunare ne seguirono altre che ebbero piu' o meno fortuna ma che
riuscirono a far si che ben 12 uomini passeggiassero sulla superficie lunare. Oggi, a
46 anni da quella storica data nessuno sembra ricordarsi piu' che siamo stati sulla
Luna, ma noi siamo qui per questo e lo faremo ogni anno sperando di poter vedere
presto di nuovo l'uomo sul nostro satellite e questa volta per restarci.

Francese: Albert Camus et La Peste


L’enfance algérienne et les débuts

Albert Camus est né en 1913 en Algérie. Elevé par sa mère quasi-analphabète


d’origine espagnole et sa grand-mère, ils vivent avec son frère une enfance dans la
plus grande pauvreté, son père étant mort à la guerre en 1914. C’est son instituteur, à
qui il dédiera son discours de remise du Prix Nobel de littérature, qui le remarque,
l’aide et lui permet ainsi d’obtenir une bourse et d’aller au lycée à Alger en 1924.

Il suit ensuite des études de philosophie, et adhère au Parti Communiste dès 1934. Il
se marie la même année avec Simone Hié. Sa santé fragile (il est atteint de
tuberculose) l’empêche de suivre une carrière dans l’enseignement. Son engagement
politique très profond l’amène donc tout naturellement à la profession de journaliste.
Il rompt avec le Parti Communiste qui lui reproche sa liberté de pensée dès 1937,
alors qu’il est déjà séparé de sa première épouse. Il rédige de nombreux articles et
fonde un théâtre.

L’engagement

En 1940, il épouse Francine Faure et quitte l’Algérie pour la France avec elle. Ils
auront deux jumeaux, Jean et Catherine. Il obtient une place journal Paris-Soir en tant
que secrétaire.

Dès 1941 il s’engage dans la Résistance et publie en 1942 « l’Etranger », soutenu par
André Malraux, ainsi que « le Mythe de Sisyphe », entamant ainsi son « cycle de
l’absurde ». En 1944 il prend la direction du journal clandestin Combat qu’il gardera
jusqu’en 1947. Ses nombreux articles humanistes et révoltés seront rassemblés sous
le titre d' »Actuelles I – Chroniques 1944-1948″ en 1950 et « Actuelles II –
Chroniques 1948-1953 » en 1953.

Après la guerre Camus n’aura de cesse de dénoncer lee injustices du monde, quelles
qu’elles soient, se fâchant ainsi avec nombre de ses amis mais affirmant un esprit
libre, révolté et insoumis toujours au service de l’humanisme et de la justice, ardent
défenseur de la paix.

Albert Camus, l’écrivain

Dès 1936 il fonde et dirige un théâtre qu’il veut populaire, ouvert aux plus
défavorisés, le Théâtre du Travail, qui devient en 1937 le Théâtre de l’Equipe. Il est
aussi acteur, il écrit des pièces et met en scène de grands classiques comme des
créations. Ce goût du théâtre l’occupera toute sa vie.

Après la publication des quatre ouvrages de ce qu’il nomme lui-même « le cycle de


l’absurde », c’est-à-dire le roman « l’Etranger » et l’essai « le Mythe de Sisyphe » en
1942 et les deux pièces de théâtre « Le Malentendu » et « Caligula » en 1944, la
publication de son roman « la Peste » en 1947 est très remarquée. Il connaît un grand
succès du public immédiat et reçoit le Prix des Critiques. C’est en 1957 qu’il recevra
le Prix Nobel. Toute l’oeuvre de Camus sonde l’homme et son rapport au monde, la
nécessité de questionner l’existence et dans le même temps l’impossibilité de
répondre à ce questionnement, à comprendre le sens de la vie. C’est donc cette
philosophie de l’ « absurde » qui mène l’homme à la révolte, mais à une révolte
empreinte d’humanisme.

La fin prématurée

Ses amitiés comptaient André Malraux, Emmanuel Roblès, René Char, André Gide,
un temps Jean-Paul Sartre, etc., et le neveu de l’éditeur Gaston Gallimard, Michel
Gallimard. C’est avec lui qu’il trouve la mort le 4 janvier 1960, dans un tragique
accident de voiture.

La peste

Résumé détaillé de La Peste

L’ouvrage « La peste » a été publié pour la première fois en 1947. Son succès n’a été
reconnu que quelques années plus tard. Cette tragédie écrite par Albert Camus se
présente en cinq actes. Albert. Camus termine chaque chapitre par une phrase
mystérieuse, laissant planer le doute et l’énigme. L’action se déroule dans les années
40 au sein de la ville d’Oran, une ville algérienne bordée par la mer Méditerranée. Le
lecteur ne prend connaissance du nom du narrateur qu’à la fin de l’ouvrage.

Première partie : la maladie frappe à Oran

Tout commence un matin d’avril 194X… Le Docteur Rieux fait l’étrange découverte
d’un rat mort devant sa porte. Pensant que ce rat est une mauvaise blague des petits
jeunes du quartier, il s’empresse d’en avertir le concierge de l’immeuble, Monsieur
Michel, qui vient constater les faits. Bien que sceptiques, les deux compères ne
s’attendent aucunement à un début d’épidémie redoutable et foudroyante. Avec une
femme en mauvaise santé, le Docteur Rieux oublie rapidement les faits qui se sont
produits ce matin-là. D’autant plus qu’il doit accompagner sa femme à midi à la gare
afin qu’elle reçoive les meilleurs soins dans le village voisin.

Quelques jours après les faits, les médias s’empressent de faire une annonce
terrifiante qui engendre un début de panique dans la ville d’Oran ; des milliers de rats
ont été retrouvés morts en une seule journée pour des raisons inexpliquées. Les
habitants émettent des suppositions et rejettent la faute sur le manque d’hygiène et de
propretés de la ville. La municipalité se presse pour faire le nettoyage et la tension
redescend lorsque les journalistes rassurent les citoyens en annonçant une baisse du
nombre de rats morts. Mais les habitants de cette ville ne sont pas au bout de leurs
surprises. L’épidémie ne fait que commencer…

Si les citoyens tentent au maximum de minimiser l’événement qui vient de se


produire, la maladie continue de frapper. Le concierge tombe brutalement malade.
Bien que le docteur Rieux tente de lui sauver la vie, la maladie l’emporte rapidement
et violemment. Une disparition si brutale et si incompréhensive… qui touche
profondément le docteur Rieux et qui reste perplexe face aux symptômes inconnus et
étranges de cette nouvelle maladie.

Peu de temps après la mort de Monsieur Michel, Grand, un employé de mairie


sollicite le Docteur Rieux pour venir ausculter. Costard qui est pris de folie et qui
cherche à se suicider. Docteur Rieux parvient à le ramener à la raison. Dans la ville
d’Oran, l’épidémie prend de l’ampleur et les personnes décèdent les unes après les
autres. Bien que Rieux présage que la peste frappe la ville d’Oran, il se tourne vers
son confrère. Castel pour en obtenir la certitude. Le verdict tombe. Oran est touché de
pleins fouets par cette maladie qui est provoquée par la bactérie « le bacille yersinia
pastis ». Après des recherches, Rieux s’acharne auprès de la municipalité pour mettre
la ville en quarantaine afin de arrêter la pandémie. Les autorités prennent conscience
de la dangerosité de la situation et décident d’isoler provisoirement la ville.

Deuxième partie : peur sur la ville


La ville d’Oran se retrouve dos à la mer. Plus personne ne peut en sortir et personne
n’est autorisé à y entrer. Les habitants sont coupés du monde. Cet isolement
provisoire engendre un changement de comportement chez les habitants et l’air
devient irrespirable. La folie passagère et la panique deviennent invivables. Les
habitants deviennent méfiants au point d’en devenir égoïstes et nombrilistes.

Alors que le Docteur Rieux met tout en œuvre pour soigner les patients atteints de la
peste, Rambert lui demande expressément de l’aider à quitter la ville pour rejoindre
sa femme. Face à la dangerosité de la situation, Rambert ne parvient pas à trouver les
arguments pour convaincre le Docteur. Rambert deviendra alors un soutien pour le
docteur Rieux. Tarrou, le fils de procureur viendra seconder le Docteur Rieux pour
l’aider dans la lutte de l’épidémie. Tarrou croit aux pouvoirs de l’homme. Il sait que
main dans la main les hommes peuvent surmonter cette douloureuse épreuve.

Cottard qui avait plaidé la folie se contente étrangement de la situation. Quant à


Grand il souhaite raconter cette aventure dans un livre, mais il reste bloqué sur la
première phrase.

Les habitants se renferment sur eux-mêmes n’ayant plus envie de vivre.

Troisième partie : l’épidémie se propage

L’été est arrivé. Trois mois ont passé depuis le début de l’épidémie, mais les tensions
sont toujours au summum et l’épidémie est toujours d’actualité. La peste fait de plus
en plus de victimes et continue à se propager. Le nombre de victimes est si élevé que
la municipalité ne prend plus le temps d’organiser des obsèques ni de les enterrer. Ils
sont jetés dans la fosse comme des animaux.

La psychose s’installe dans les mœurs de chaque habitant. Certains attendent que
leurs heures soient venues pour rejoindre le paradis, tandis que d’autres multiplient
les actes de vandalisme et de pillages avec pour seul mot d’ordre : survivre à cette
épidémie.
Face à la folie des gens et aux traumatismes subis par cette épidémie, la municipalité
d’Oran se voit dans l’obligation d’engager des sanctions et des réprimandes. Mais les
habitants ont perdu tout espoir de vivre. Les illusions d’avoir une vie normale sont
pour eux définitivement perdues et les réprimandes ne les aident pas à renoncer à la
démence. Ils se contentent d’attendre…

Quatrième partie : le sérum miraculeux de la peste

L’automne débute. Après plusieurs mois d’attente, le journaliste Rambert a enfin la


possibilité de partir rejoindre sa femme. Mais après des mois de lutte et de soutien au
Docteur Rieux, Rambert préfère renoncer à cette opportunité. Il estime qu’après des
mois de combat acharné, il doit rester aux côtés de Tarrou et de Rieux.

Le jeune fils du juge Othon tombe à son tour malade. Sa souffrance peine Rieux qui
se sent impuissant ainsi que l’abbé Paneloux qui commence à porter des jugements
néfastes sur la foi. Cette peine invite l’abbé à se retrancher dans une solitude. Il meurt
de la pesteen serrant un crucifix dans sa main et en refusant l’intervention des soins
du médecin.

Noël arrive. C’est au tour de Grand de faire face à cette maladie. Au fond de lui-
même, il sait pertinemment que ces dernières heures ont sonné, mais un nouveau
sérum vient bouleverser le cours des choses. Grand s’en sort vivant. La ville
commence à retrouver calme et sérénité lorsque les habitants apprennent l’existence
de ce sérum miraculeux et sont avertis par le retour des rats. L’espoir renaît et se lit
sur les visages des habitants.

Cinquième partie : la fin d’un long traumatisme

L’année terrifiante est passée…Le calme est de retour dans la ville d’Oran avec pour
compensation une pandémie qui ne cesse de diminuer. Certes, de nombreuses
victimes sont encore à déplorer, mais en comparaison avec les mois précédents une
nette amélioration se fait sentir. Les habitants commencent à retrouver la joie de
vivre.
Parmi les dernières victimes de l’épidémie, on recense la mort d’Othon et de Tarrou.
L’acolyte de Rieux lui laissera d’ailleurs ses carnets de notes. Cottard, quant à lui,
sera prise d’une crise de démence lorsqu’il apprendra que l’épidémie a quitté la ville.
Ses nerfs lâchent lorsqu’il apprend cette bonne nouvelle au point de se faire arrêter
par la police.

Bien que sortie indemne de cette tragédie de la peste, le Docteur Rieux replongera
dans la souffrance en apprenant par télégramme la mort de sa femme. Elle n’aurait
pas survécu à la peste. Coupé du monde, le docteur Rieux n’avait pas conscience que
sa femme était atteinte de cette maladie.

En février, la fin de l’événement catastrophique est annoncée et la ville d’Oran rouvre


ses portes. C’est avec un grand soulagement que les habitants séquestrés depuis plus
de 10 mois accueillent la nouvelle. Bien que commotionnés par l’épidémie, ils
savourent, ils profitent et ils vivent pleinement ce cadeau de Dieu de les avoir
épargnés. Cette épidémie devient une leçon de la vie.

La fin de l’ouvrage

Le nom du narrateur n’est connu qu’en fin d’ouvrage. Bien que le lecteur ait des
doutes, il s’agit du Docteur Rieux. Il narre sa lutte et son angoisse face à la pandémie
de peste qu’il a connu. Cet ouvrage est comparable à un journal intime pour que
personne n’oublie les horreurs du passé. Il est considéré comme un ouvrage préventif.

Le roman

La Peste d’Albert Camus a pour trame de fond, la ville d’Oran aux prises avec la
peste qui décime tout sur son passage, et a pour personnage central, le médecin
Rieux qui se consacre à venir en aide aux autres avec deux autres personnages, un
prêtre et un journaliste qui tentent d’aider leurs semblables chacun à leur façon.
Son œuvre mêle plusieurs idées, la prise de conscience de l’absurde, la révolte ainsi
que la solidarité. Les mots utilisés par Albert Camus pour décrire la ville d’Oran sont
assez sévères. Il y présente la laideur, la fragilité face aux éléments et le manque de
caractère de la ville d’Oran dans laquelle se déroule le roman. La nature désertique,
sans âme, vulnérable crée un sentiment de tristesse et de désolation, est rehaussée
par le plaisir fugace de retrouver les eaux de la mer lors du bain de Rieux et Tarrou.

Les thèmes abordés par La Peste d’Albert Camus

L’écrivain met en exergue le combat contre l’injustice grâce au personnage de


Rieux, qui, face aux cris, larmoiements et plaintes, témoigne, tient à faire connaître la
lutte menée par l’homme face à la maladie, face à son destin, parle pour que les morts
ne soient pas oubliés et s’exprime sur la condition humaine en montrant qu’en tout
homme, il y a plus de choses admirables que méprisables et que même mort, un
homme doit recevoir tout l’honneur qui lui est dû.

Camus s’intéresse également au combat et à la victoire, en montant à quel point


elle peut être fragile. En effet, face à la peste implacable et inlassable, le combat est
rude et n’est pas gagné, mais nécessite d’insister, d’être continué. Pour que le combat
puisse être mené jusqu’à son terme, la prise des armes illustrée par la révolte est
nécessaire.

La prise de conscience est un autre aspect du roman. Car, si dans la troisième partie,
les cris d’allégresse montrent à quel point les habitants n’ont pas conscience du
danger, l’écrivain met en opposition la menace toujours présente et réelle, mais tapie,
attendant son jour et la nécessité d’une prise de conscience. Les cris de joie se mêlent
aux souvenirs de cris d’agonie de Rieux et rappellent à quel point, même lorsque tout
semble aller pour le mieux, la menace est toujours là, juste tapie, endormie
quelque part, mais pouvant se réveiller à tout moment.

Analyse de La Peste d’Albert Camus

Dans son œuvre, Albert Camus fait état de la condition humaine prisonnière de
son destin, illustrée par la terrible peste, maladie redoutée pour ses effets
dévastateurs. La peste ou l’expérience de la détresse humaine. Dans la ville d’Oran
envahie par la peste, l’homme n’est plus, il devient souffrance. La peste est à la fois
symbole chimérique, symbole mystique et représentation intemporelle du
nazisme, de l’occupation allemande. Face à la peste, la résistance, la résistance face
à la détresse, la résistance grâce à la solidarité collective initiée par Rieux. Cette
résistance, cette solidarité illustre bien la résistance face au nazisme (peste), face
à l’occupation allemande.

Par ce fléau qu’est la peste, Albert Camus veut illustrer la terreur et la tyrannie
combattues par la résistance. Mais la terreur et la tyrannie n’auront pas le dessus en
restant dans le déni, l’ignorance, l’absurde. Les hommes seront contraints à un éternel
recommencement s’ils ne se révoltent contre la peste (terreur, tyrannie). Même s’ils
restent impuissants face à la peste, ils doivent se révolter, prendre conscience de la
menace.

Si aujourd’hui, l’occupation allemande n’est plus qu’un fait du passé, le roman


d’Albert Camus s’applique toujours à la condition humaine, au combat entre la
solidarité humaine, la révolte contre la terreur, la tyrannie, même lorsque l’issue est
incertaine. Dans son roman, l’écrivain montre bine les différents comportements que
les hommes ont face au mal, comportements qui peuvent être parfois absurdes, car le
mal est une chose sur laquelle l’homme n’a aucune prise, qui limite l’action de
l’homme et doit être acceptée.

Spagnolo: Federico Garcia Lorca y Poeta en Nueva York

En poetas como Federico vida y obra son dos aspectos inseparables que fluctúan y se
interrelacionan constantemente. Como muy bien dijo Aleixandre “en Federico todo
era inspiración, y su vida, tan hermosamente de acuerdo con su obra, fue el triunfo de
la libertad, y entre su vida y su obra hay un intercambio espiritual y físico tan
constante, tan apasionado y fecundo, que las hace eternamente inseparables e
indivisibles”.1 Así pues estudiar Poeta en '(")$%*!+, es adentrarnos en un momento
crítico dentro de la vida de Lorca porque la escritura de este libro supone una ruptura
y una innovación, provocada por una serie de circunstancias que veremos a
continuación. Cuando Lorca escribió este libro atravesaba una profunda crisis
provocada seguramente por una doble decepción. Por un lado, en el plano
sentimental, en el que se sentía emocionalmente traicionado por personas muy
cercanas a él, entre ellos su posible relación con Salvador Dalí2 , y en general por la
frustración que sentía ante una sociedad que no reconocía como lícita su condición de
homosexual. Por otro, la depresión que suscitó en él el éxito del Romancero Gitano y
la fácil fama que ganó con él, que amenazaba con tildarle de poeta regional con el
único tema de la gitanería3 . Toda esta situación empujará al poeta a buscar un
cambio de aires embarcándose en ese viaje a Nueva York el 19 de junio de 1929,
tranquilizándole enormemente el hecho de que allí le esperaban excelentes amigos y
admiradores, entre otros el incondicional apoyo que obtuvo de Federico de Onís, que
sería el encargado de introducirle en aquel desconocido mundo.4 El contacto de
Federico con la colosal y desconcertante metrópolis provocó un gran choque que,
lejos de consolar su desánimo, acució aún más la profunda crisis que venía
arrastrando. Nueva York le transmitió una enorme desesperación y una sensación de
estar constantemente perdido, que sumó a la desorientación personal en la que se
encontraba y le hará concebirla como una ciudad cruel y violenta tal y como escribe
en una carta a su amigo norteamericano Cummings.5 En Nueva York volvió a
encontrar la opresión y la marginación que había relatado en el Romancero Gitano,
pero en dosis aún mayores, que surgirán sobre todo con el contacto con el mundo
negro, en su visita a Harlem, y en general, con su oposición ante el opresivo sistema
capitalista. Pero no todo fueron experiencias negativas, ya que el encuentro con la
gran urbe le aportó una gran ampliación de sus perspectivas humanas, sobre todo ante
la extraordinaria variedad de razas, religiones y formas de vida con las que allí se
topó, cuyas impresiones quedarán plasmadas en los poemas que por entonces está
escribiendo. Este mundo con el que se encuentra tan diferente del que viene y tan
heterogéneo, desbordará a Lorca y le hará estallar en un enorme grito salpicado de
ecos de contenida intimidad que lleva por título Poeta en '(")$%*!+,, convirtiéndose
éste en una experiencia poetizada de lo vivido y sentido por el poeta.

Federico García Lorca (Fuentevaqueros, 5 de junio de 1898 - Víznar, 19 de agosto de


1936). Poeta y dramaturgo español.

En 1915 comienza a estudiar Filosofía y Letras, así como Derecho, en la Universidad


de Granada. Forma parte de El Rinconcillo, centro de reunión de los artistas
granadinos donde conoce a Manuel de Falla. Entre 1916 y 1917 realiza una serie de
viajes por España con sus compañeros de estudios, conociendo a Antonio Machado.
En 1919 se traslada a Madrid y se instala en la Residencia de Estudiantes,
coincidiendo con numerosos literatos e intelectuales.

Junto a un grupo de intelectuales granadinos funda en 1928 la revista Gallo, de la que


sólo salen 2 ejemplares. En 1929 viaja a Nueva York y a Cuba. Dos años después
funda el grupo teatral universitario La Barraca, para acercar el teatro al pueblo, y en
1936 vuelve a Granada donde es detenido y fusilado por sus ideas liberales.

Escribe tanto poesía como teatro, si bien en los últimos años se volcó más en este
último, participando no sólo en su creación sino también en la escenificación y el
montaje. En sus primeros libros de poesía se muestra más bien modernista, siguiendo
la estela de Antonio Machado, Rubén Darío y Salvador Rueda. En una segunda
etapa aúna el Modernismo con la Vanguardia, partiendo de una base tradicional.

En cuanto a su labor teatral, Lorca emplea rasgos líricos, míticos y simbólicos,


y recurre tanto a la canción popular como a la desmesura calderoniana o al teatro de
títeres. En su teatro lo visual es tan importante como lo lingüístico, y predomina
siempre el dramatismo.

En la actualidad Federico García Lorca es el poeta español más leído de todos los
tiempos.

Poeta en Nueva York

Si bien, Poeta en Nueva York--uno de los libros más celebrados y estudiados


de Federico García Lorca--, es vanguardista, surrealista y muestra el lado impersonal
de la ciudad, no es, sin lugar a dudas, un libro de poesía deshumanizada.

El poemario se publicó póstumamente en 1940, pero Lorca compuso estos poemas


más de 10 años antes, entre 1929 y 1930, durante su estancia en la Universidad de
Columbia, en Nueva York, y luego en Cuba. El año 1929 es clave, ya que el poeta
observó de primera mano las repercusiones del Crack de la Bolsa y el inicio de la
crisis económica en Estados Unidos. Esta experiencia le impactó profundamente,
como se puede apreciar en la crítica del capitalismo y de la industrialización de la
sociedad moderna que abunda en este libro. Ejemplos de esta denuncia se hallan en
estos poemas:

Fragmento de "Grito hacia Roma":

Porque ya no hay quien reparta el pan ni el vino,


ni quien cultive hierbas en la boca del muerto,
ni quien abra los linos del reposo,
ni quien llore por las heridas de los elefantes.
No hay más que un millón de herreros
forjando cadenas para los niños que han de venir

Fragmento de "La aurora":

La aurora llega y nadie la recibe en su boca


porque allí no hay mañana ni esperanza posible.
A veces las monedas en enjambres furiosos
taladran y devoran abandonados niños.
Los primeros que salen comprenden con sus huesos
que no habrá paraíso ni amores deshojados:
saben que van al cieno de números y leyes,
a los juegos sin arte, a sudores sin fruto.

Así como Lorca simpatizaba con los gitanos en España, en Nueva York simpatizaba
con los negros, otro grupo minoritario y desfavorecido. Pues, en una entrevista con
Giménez Caballero, en 1928, Lorca afirmó: "Yo no soy gitano. Mi gitanismo es un
tema literario y un libro. Nada más". De la misma manera, los negros se convierten
en un tema literario importante para el poeta, quien les dedica una sección entera
en Poeta en Nueva York. Ésta es una estrofa de "El rey de Harlem":

¡Ay Harlem! ¡Ay Harlem! ¡Ay Harlem!


¡No hay angustia comparable a tus rojos oprimidos,
a tu sangre estremecida dentro del eclipse oscuro,
a tu violencia granate sordomuda en la penumbra,
a tu gran rey prisionero con un traje de conserje!

Lorca también critica la religión institucionalizada, ya que la iglesia no cumple con


su papel de ayudar a los menos favorecidos, como se puede ver en estos fragmentos
de "Grito hacia Roma", en que aparecen varias imágenes religiosas, empezando con
el "hombre vestido de blanco", que se refiere al Papa:

Pero el hombre vestido de blanco


ignora el misterio de la espiga,
ignora el gemido de la parturienta,
ignora que Cristo puede dar agua todavía,
ignora que el beso de prodigio
y da la sangre del cordero al pico idiota del faisán.
[...]
Porque queremos el pan nuestro de cada día,
flor de aliso y perenne ternura desgranada,
porque queremos que se cumpla la voluntad de la Tierra
que da frutos para todos.

Es importante destacar que este libro en realidad no se trata sólo de Nueva York, sino
de cualquier ciudad. Nueva York se viste de forma metonímica y se convierte en una
ciudad despersonalizada, que le sirve de excusa para criticar el mundo. En una
entrevista publicada enLa Gaceta Literaria, 1931, Lorca definió la ciudad como una
"interpretación personal, abstracción impersonal, sin lugar ni tiempo dentro de
aquella ciudad mundo. Un símbolo patético: sufrimiento".

Estructura y estilo

El poemario consiste en 35 poemas divididos en diez secciones que siguen su viajes y


experiencias en Estados Unidos y Cuba:

1. Poemas de la soledad en Columbia University


2. Los negros
3. Calles y sueños
4. Poemas del lago Eden Mills
5. En la cabaña del farmer (Campo de Newburg)
6. Introducción a la muerte
7. Vuelta a la ciudad
8. Dos odas
9. Huida de Nueva York
10. El poeta llega a la Habana

Como otros poetas de la Generación del 27, Lorca busca la libertad expresiva y
pretende sorprender al lector y romper sus expectativas. Emplea versículos y se sirve
de imágenes muy alejadas de la realidad, pero en el fondo configuran una clara
coherencia temática. También utiliza muchos símbolos, metáforas y anáforas, como
en este fragmento de "Poema doble del Lago Eden":

¡Ay voz antigua de mi amor!


¡Ay voz de mi verdad!
¡Ay voz de mi abierto costado,
cuando todas las rosas manaban de mi lengua
y el césped no conocía la impasible dentadura del caballo!

La Aurora:

Este poema pertenece al libro Poeta en Nueva York, escrito por Federico García
Lorca durante su estadía en estados Unidos en los años 1929 y 1930. El poema
refuerza la serie, que ya había iniciado, de una visión pesimista de la ciudad moderna
y sugiere que la aurora, fenómeno natural, tiene un carácter específico en la ciudad de
Nueva York.
• Primera estrofa: Lorca dedica un poema al amanecer en Nueva York. La idea de
que la aurora podría ser un evento lleno de esperanza es defraudada en la primera
estrofa. Ya desde un inicio utiliza imágenes negativas, con los términos "cieno",
"negras", "podridas". Es decir que el título, que podría considerarse literal en un
principio porque la aurora connota alegría, nuevo día que comienza, renacimiento de
la naturaleza, va cambiando su significación a medida que avanza la lectura.

La aurora de Nueva York tiene

cuatro columnas de cieno

Lorca mezcla aquí dos campos semánticos diferentes: uno cultural(columnas) y otro
natural (cieno que significa "barro" pero con connotaciones negativas). La imagen es
una antítesis de la aurora que es luminosa: la aurora se apoya (se utiliza una metáfora)
en el barro oscuro y sucio.

¿Por qué "cuatro" columnas y no cinco o seis? Cuatro da una idea de algo acabado,
completo, cerrado como un cuadrado.

y un huracán de negras palomas

que chapotean las aguas podridas.

"huracán “y las "palomas" presentan propiedades similares: los dos se desplazan en el


aire. También tienen una diferencia: el huracán es destructivo y las palomas connotan
paz y armonía. Pero al crear laimagen visual "negras palomas" el poeta continúa la
serie oscura y negativa iniciada por "cieno" .En nuestra cultura, el “negro" tiene una
connotación negativa.

que chapotean las aguas podridas: las "aguas podridas" bien puede ser una imagen
literal vinculada a lo urbano (por metonimia). Esta imagen literal cierra la serie
inaugurada por "cieno"
• Segunda estrofa: La aurora es personificada y aparece definida por el dolor, pero
también por la búsqueda y por su movilidad entre los edificios de la ciudad.

La aurora de Nueva York gime

por las inmensas escaleras

buscando entre las aristas

nardos de angustia dibujada

Personificación de la aurora. La aurora se desplaza por las escaleras. La imagen tiene


que ver con la ciudad a la que hace referencia: Nueva York es conocida por las
escaleras de incendio de sus edificios (escalera es una metonimia de enormes
edificios)

Aristas, literalmente, es una palabra que proviene de la geometría “línea formada por
la intersección de dos planos” y que se refiere a la escalera.

La aurora de Nueva York gime: la imagen auditiva connota sufrimiento.

nardos de angustia dibujada: los nardos son plantas de jardín de flores bancas muy
aromáticas. Es una imagen visual, pero, para quien conoce esta flor, puede resultar
una imagen olfativa.

Angustia dibujada es una imagen de carácter metafórico: la angustia adquiere forma,


espesor, realidad.

Tercera estrofa-. La aurora contrasta con las situaciones o el ánimo de quienes viven
en la ciudad.

La aurora llega y nadie la recibe en su boca

porque allí no hay mañana ni esperanza posible.

A veces las monedas en enjambres furiosos

taladran y devoran abandonados niños.


Imagen compleja de connotación negativa, que combina el mundo del dinero con la
naturaleza. "Enjambre" está usada en sentido figurativo como multitud. Los verbos
"taladrar" y "devorar" connotan destrucción

Cuarta estrofa: El poema se centra en los habitantes de la ciudad y en el trabajo que


comienza con el día.

Los primeros que salen comprenden con sus huesos,

que no habrá paraíso ni amores deshojados;

saben que van al cieno de números y leyes,

a los juegos sin arte, a sudores sin fruto.

Los primeros que salen: Abre un campo semántico nuevo en el poema: el mundo del
trabajo. Fragmentación del cuerpo por meton¡m¡a:"huesos” en este verso y "boca" en
la estrofa anterior.

La metáfora "amores deshojados" puede referirse al juego de deshojar la margarita.

a los juegos sin arte: ¿el mundo del arte pertenece a la noche o está excluido del
mundo de los neoyorquinos? No hay en el poema una definición positiva del arte.

saben que van al cieno de números y leyes : "Los números y las leyes" son
una metáfora del trabajo vinculado a la contabilidad y a la legalidad.

Quinta estrofa: La aurora, que era el tema del poema, desaparece frente al "impúdico
reto" de la ciudad.

La luz es sepultada por cadenas y ruidos

en impúdico reto de ciencia sin raíces.


Por los barrios hay gentes que vacilan insomnes

como recién salidas de un naufragio de sangre.

La luz que distingue a la aurora es sepultada. Es una metáfora que habla de la aurora
como si fuese un ser vivo. Se cierra la serie del mundo del trabajo y se une con la
explicitación de la serie del "cieno":"números y leyes; juegos sin arte; sudores sin
fruto"; "cadenas y ruidos. 'Cadenas" también connota el encierro y la falta de libertad.

Por los barrios hay gentes que vacilan insomnes: las personas están insomnes y a la
vez tuvieron pesadillas.

como recién salidas de un naufragio de sangre : el "naufragio de sangre" parece


referirse al mundo de las pesadillas. La relación entre "naufragio" y "sangre" está
dada por la propiedad común de lo liquido (mar, agua, sangre).

Inglese: George Orwell- 1984 and Animal Farm

Born Eric Blair in India in 1903, George Orwell was educated as a scholarship
student at prestigious boarding schools in England. Because of his background—he
famously described his family as “lower-upper-middle class”—he never quite fit in,
and felt oppressed and outraged by the dictatorial control that the schools he attended
exercised over their students’ lives. After graduating from Eton, Orwell decided to
forego college in order to work as a British Imperial Policeman in Burma. He hated
his duties in Burma, where he was required to enforce the strict laws of a political
regime he despised. His failing health, which troubled him throughout his life, caused
him to return to England on convalescent leave. Once back in England, he quit the
Imperial Police and dedicated himself to becoming a writer.

Inspired by Jack London’s 1903 book The People of the Abyss, which detailed
London’s experience in the slums of London, Orwell bought ragged clothes from a
second-hand store and went to live among the very poor in London. After
reemerging, he published a book about this experience, entitled Down and Out in
Paris and London.He later lived among destitute coal miners in northern England, an
experience that caused him to give up on capitalism in favor of democratic socialism.
In 1936, he traveled to Spain to report on the Spanish Civil War, where he witnessed
firsthand the nightmarish atrocities committed by fascist political regimes. The rise to
power of dictators such as Adolf Hitler in Germany and Joseph Stalin in the Soviet
Union inspired Orwell’s mounting hatred of totalitarianism and political authority.
Orwell devoted his energy to writing novels that were politically charged, first
with Animal Farm in 1945, then with1984 in 1949.

1984 is one of Orwell’s best-crafted novels, and it remains one of the most powerful
warnings ever issued against the dangers of a totalitarian society. In Spain, Germany,
and the Soviet Union, Orwell had witnessed the danger of absolute political authority
in an age of advanced technology. He illustrated that peril harshly in 1984. Like
Aldous Huxley’s Brave New World (1932), 1984 is one of the most famous novels of
the negative utopian, or dystopian, genre. Unlike a utopian novel, in which the writer
aims to portray the perfect human society, a novel of negative utopia does the exact
opposite: it shows the worst human society imaginable, in an effort to convince
readers to avoid any path that might lead toward such societal degradation. In 1949,
at the dawn of the nuclear age and before the television had become a fixture in the
family home, Orwell’s vision of a post-atomic dictatorship in which every individual
would be monitored ceaselessly by means of the telescreen seemed terrifyingly
possible. That Orwell postulated such a society a mere thirty-five years into the future
compounded this fear.

Of course, the world that Orwell envisioned in 1984 did not materialize. Rather than
being overwhelmed by totalitarianism, democracy ultimately won out in the Cold
War, as seen in the fall of the Berlin Wall and the disintegration of the Soviet Union
in the early 1990s. Yet 1984 remains an important novel, in part for the alarm it
sounds against the abusive nature of authoritarian governments, but even more so for
its penetrating analysis of the psychology of power and the ways that manipulations
of language and history can be used as mechanisms of control.

1984

Winston Smith is a low-ranking member of the ruling Party in London, in the nation
of Oceania. Everywhere Winston goes, even his own home, the Party watches him
through telescreens; everywhere he looks he sees the face of the Party’s seemingly
omniscient leader, a figure known only as Big Brother. The Party controls everything
in Oceania, even the people’s history and language. Currently, the Party is forcing the
implementation of an invented language called Newspeak, which attempts to prevent
political rebellion by eliminating all words related to it. Even thinking rebellious
thoughts is illegal. Such thoughtcrime is, in fact, the worst of all crimes.
As the novel opens, Winston feels frustrated by the oppression and rigid control of
the Party, which prohibits free thought, sex, and any expression of individuality.
Winston dislikes the party and has illegally purchased a diary in which to write his
criminal thoughts. He has also become fixated on a powerful Party member named
O’Brien, whom Winston believes is a secret member of the Brotherhood—the
mysterious, legendary group that works to overthrow the Party.

Winston works in the Ministry of Truth, where he alters historical records to fit the
needs of the Party. He notices a coworker, a beautiful dark-haired girl, staring at him,
and worries that she is an informant who will turn him in for his thoughtcrime. He is
troubled by the Party’s control of history: the Party claims that Oceania has always
been allied with Eastasia in a war against Eurasia, but Winston seems to recall a time
when this was not true. The Party also claims that Emmanuel Goldstein, the alleged
leader of the Brotherhood, is the most dangerous man alive, but this does not seem
plausible to Winston. Winston spends his evenings wandering through the poorest
neighborhoods in London, where the proletarians, or proles, live squalid lives,
relatively free of Party monitoring.

One day, Winston receives a note from the dark-haired girl that reads “I love you.”
She tells him her name, Julia, and they begin a covert affair, always on the lookout
for signs of Party monitoring. Eventually they rent a room above the secondhand
store in the prole district where Winston bought the diary. This relationship lasts for
some time. Winston is sure that they will be caught and punished sooner or later (the
fatalistic Winston knows that he has been doomed since he wrote his first diary
entry), while Julia is more pragmatic and optimistic. As Winston’s affair with Julia
progresses, his hatred for the Party grows more and more intense. At last, he receives
the message that he has been waiting for: O’Brien wants to see him.

Winston and Julia travel to O’Brien’s luxurious apartment. As a member of the


powerful Inner Party (Winston belongs to the Outer Party), O’Brien leads a life of
luxury that Winston can only imagine. O’Brien confirms to Winston and Julia that,
like them, he hates the Party, and says that he works against it as a member of the
Brotherhood. He indoctrinates Winston and Julia into the Brotherhood, and gives
Winston a copy of Emmanuel Goldstein’s book, the manifesto of the Brotherhood.
Winston reads the book—an amalgam of several forms of class-based twentieth-
century social theory—to Julia in the room above the store. Suddenly, soldiers barge
in and seize them. Mr. Charrington, the proprietor of the store, is revealed as having
been a member of the Thought Police all along.
Torn away from Julia and taken to a place called the Ministry of Love, Winston finds
that O’Brien, too, is a Party spy who simply pretended to be a member of the
Brotherhood in order to trap Winston into committing an open act of rebellion against
the Party. O’Brien spends months torturing and brainwashing Winston, who struggles
to resist. At last, O’Brien sends him to the dreaded Room 101, the final destination
for anyone who opposes the Party. Here, O’Brien tells Winston that he will be forced
to confront his worst fear. Throughout the novel, Winston has had recurring
nightmares about rats; O’Brien now straps a cage full of rats onto Winston’s head and
prepares to allow the rats to eat his face. Winston snaps, pleading with O’Brien to do
it to Julia, not to him.

Giving up Julia is what O’Brien wanted from Winston all along. His spirit broken,
Winston is released to the outside world. He meets Julia but no longer feels anything
for her. He has accepted the Party entirely and has learned to love Big Brother.

Winston Smith

Orwell’s primary goal in 1984 is to demonstrate the terrifying possibilities of


totalitarianism. The reader experiences the nightmarish world that Orwell envisions
through the eyes of the protagonist, Winston. His personal tendency to resist the
stifling of his individuality, and his intellectual ability to reason about his resistance,
enables the reader to observe and understand the harsh oppression that the Party, Big
Brother, and the Thought Police institute. Whereas Julia is untroubled and somewhat
selfish, interested in rebelling only for the pleasures to be gained, Winston is
extremely pensive and curious, desperate to understand how and why the Party
exercises such absolute power in Oceania. Winston’s long reflections give Orwell a
chance to explore the novel’s important themes, including language as mind control,
psychological and physical intimidation and manipulation, and the importance of
knowledge of the past.

Apart from his thoughtful nature, Winston’s main attributes are his rebelliousness and
his fatalism. Winston hates the Party passionately and wants to test the limits of its
power; he commits innumerable crimes throughout the novel, ranging from
writing“DOWN WITH BIG BROTHER” in his diary, to having an illegal love affair
with Julia, to getting himself secretly indoctrinated into the anti-Party Brotherhood.
The effort Winston puts into his attempt to achieve freedom and independence
ultimately underscores the Party’s devastating power. By the end of the novel,
Winston’s rebellion is revealed as playing into O’Brien’s campaign of physical and
psychological torture, transforming Winston into a loyal subject of Big Brother.
One reason for Winston’s rebellion, and eventual downfall, is his sense of fatalism—
his intense (though entirely justified) paranoia about the Party and his overriding
belief that the Party will eventually catch and punish him. As soon as he
writes “DOWN WITH BIG BROTHER”in his diary, Winston is positive that the
Thought Police will quickly capture him for committing a thoughtcrime. Thinking
that he is helpless to evade his doom, Winston allows himself to take unnecessary
risks, such as trusting O’Brien and renting the room above Mr. Charrington’s shop.
Deep down, he knows that these risks will increase his chances of being caught by
the Party; he even admits this to O’Brien while in prison. But because he believes
that he will be caught no matter what he does, he convinces himself that he must
continue to rebel. Winston lives in a world in which legitimate optimism is an
impossibility; lacking any real hope, he gives himself false hope, fully aware that he
is doing so.

Julia

Julia is Winston’s lover and the only other person who Winston can be sure hates the
Party and wishes to rebel against it as he does. Whereas Winston is restless, fatalistic,
and concerned about large-scale social issues, Julia is sensual, pragmatic, and
generally content to live in the moment and make the best of her life. Winston longs
to join the Brotherhood and read Emmanuel Goldstein’s abstract manifesto; Julia is
more concerned with enjoying sex and making practical plans to avoid getting caught
by the Party. Winston essentially sees their affair as temporary; his fatalistic attitude
makes him unable to imagine his relationship with Julia lasting very long. Julia, on
the other hand, is well adapted to her chosen forms of small-scale rebellion. She
claims to have had affairs with various Party members, and has no intention of
terminating her pleasure seeking, or of being caught (her involvement with Winston
is what leads to her capture). Julia is a striking contrast to Winston: apart from their
mutual sexual desire and hatred of the Party, most of their traits are dissimilar, if not
contradictory.

O’Brien

One of the most fascinating aspects of 1984 is the manner in which Orwell shrouds
an explicit portrayal of a totalitarian world in an enigmatic aura. While Orwell gives
the reader a close look into the personal life of Winston Smith, the reader’s only
glimpses of Party life are those that Winston himself catches. As a result, many of the
Party’s inner workings remain unexplained, as do its origins, and the identities and
motivations of its leaders. This sense of mystery is centralized in the character of
O’Brien, a powerful member of the Inner Party who tricks Winston into believing
that he is a member of the revolutionary group called the Brotherhood. O’Brien
inducts Winston into the Brotherhood. Later, though, he appears at Winston’s jail cell
to abuse and brainwash him in the name of the Party. During the process of this
punishment, and perhaps as an act of psychological torture, O’Brien admits that he
pretended to be connected to the Brotherhood merely to trap Winston in an act of
open disloyalty to the Party.

This revelation raises more questions about O’Brien than it answers. Rather than
developing as a character throughout the novel, O’Brien actually seems to un-
develop: by the end of the book, the reader knows far less about him than they
previously had thought. When Winston asks O’Brien if he too has been captured by
the Party, O’Brien replies, “They got me long ago.” This reply could signify that
O’Brien himself was once rebellious, only to be tortured into passive acceptance of
the Party. One can also argue that O’Brien pretends to sympathize with Winston
merely to gain his trust. Similarly, one cannot be sure whether the Brotherhood
actually exists, or if it is simply a Party invention used to trap the disloyal and give
the rest of the populace a common enemy. The novel does not answer these
questions, but rather leaves O’Brien as a shadowy, symbolic enigma on the fringes of
the even more obscure Inner Party.

Themes

Themes are the fundamental and often universal ideas explored in a literary work.

The Dangers of Totalitarianism

1984 is a political novel written with the purpose of warning readers in the West of
the dangers of totalitarian government. Having witnessed firsthand the horrific
lengths to which totalitarian governments in Spain and Russia would go in order to
sustain and increase their power, Orwell designed 1984 to sound the alarm in
Western nations still unsure about how to approach the rise of communism. In 1949,
the Cold War had not yet escalated, many American intellectuals supported
communism, and the state of diplomacy between democratic and communist nations
was highly ambiguous. In the American press, the Soviet Union was often portrayed
as a great moral experiment. Orwell, however, was deeply disturbed by the
widespread cruelties and oppressions he observed in communist countries, and seems
to have been particularly concerned by the role of technology in enabling oppressive
governments to monitor and control their citizens.

In 1984, Orwell portrays the perfect totalitarian society, the most extreme realization
imaginable of a modern-day government with absolute power. The title of the novel
was meant to indicate to its readers in 1949 that the story represented a real
possibility for the near future: if totalitarianism were not opposed, the title suggested,
some variation of the world described in the novel could become a reality in only
thirty-five years. Orwell portrays a state in which government monitors and controls
every aspect of human life to the extent that even having a disloyal thought is against
the law. As the novel progresses, the timidly rebellious Winston Smith sets out to
challenge the limits of the Party’s power, only to discover that its ability to control
and enslave its subjects dwarfs even his most paranoid conceptions of its reach. As
the reader comes to understand through Winston’s eyes, The Party uses a number of
techniques to control its citizens, each of which is an important theme of its own in
the novel. These include:

Psychological Manipulation

The Party barrages its subjects with psychological stimuli designed to overwhelm the
mind’s capacity for independent thought. The giant telescreen in every citizen’s room
blasts a constant stream of propaganda designed to make the failures and
shortcomings of the Party appear to be triumphant successes. The telescreens also
monitor behavior—everywhere they go, citizens are continuously reminded,
especially by means of the omnipresent signs reading“BIG BROTHER IS
WATCHING YOU,” that the authorities are scrutinizing them. The Party undermines
family structure by inducting children into an organization called the Junior Spies,
which brainwashes and encourages them to spy on their parents and report any
instance of disloyalty to the Party. The Party also forces individuals to suppress their
sexual desires, treating sex as merely a procreative duty whose end is the creation of
new Party members. The Party then channels people’s pent-up frustration and
emotion into intense, ferocious displays of hatred against the Party’s political
enemies. Many of these enemies have been invented by the Party expressly for this
purpose.

Physical Control

In addition to manipulating their minds, the Party also controls the bodies of its
subjects. The Party constantly watches for any sign of disloyalty, to the point that, as
Winston observes, even a tiny facial twitch could lead to an arrest. A person’s own
nervous system becomes his greatest enemy. The Party forces its members to undergo
mass morning exercises called the Physical Jerks, and then to work long, grueling
days at government agencies, keeping people in a general state of exhaustion.
Anyone who does manage to defy the Party is punished and “reeducated” through
systematic and brutal torture. After being subjected to weeks of this intense
treatment, Winston himself comes to the conclusion that nothing is more powerful
than physical pain—no emotional loyalty or moral conviction can overcome it. By
conditioning the minds of their victims with physical torture, the Party is able to
control reality, convincing its subjects that 2 + 2 = 5.

Control of Information and History

The Party controls every source of information, managing and rewriting the content
of all newspapers and histories for its own ends. The Party does not allow individuals
to keep records of their past, such as photographs or documents. As a result,
memories become fuzzy and unreliable, and citizens become perfectly willing to
believe whatever the Party tells them. By controlling the present, the Party is able to
manipulate the past. And in controlling the past, the Party can justify all of its actions
in the present.

Technology

By means of telescreens and hidden microphones across the city, the Party is able to
monitor its members almost all of the time. Additionally, the Party employs
complicated mechanisms (1984 was written in the era before computers) to exert
large-scale control on economic production and sources of information, and fearsome
machinery to inflict torture upon those it deems enemies. 1984reveals that
technology, which is generally perceived as working toward moral good, can also
facilitate the most diabolical evil.

Language as Mind Control

One of Orwell’s most important messages in 1984 is that language is of central


importance to human thought because it structures and limits the ideas that
individuals are capable of formulating and expressing. If control of language were
centralized in a political agency, Orwell proposes, such an agency could possibly
alter the very structure of language to make it impossible to even conceive of
disobedient or rebellious thoughts, because there would be no words with which to
think them. This idea manifests itself in the language of Newspeak, which the Party
has introduced to replace English. The Party is constantly refining and perfecting
Newspeak, with the ultimate goal that no one will be capable of conceptualizing
anything that might question the Party’s absolute power.

Interestingly, many of Orwell’s ideas about language as a controlling force have been
modified by writers and critics seeking to deal with the legacy of colonialism. During
colonial times, foreign powers took political and military control of distant regions
and, as a part of their occupation, instituted their own language as the language of
government and business. Postcolonial writers often analyze or redress the damage
done to local populations by the loss of language and the attendant loss of culture and
historical connection.

Motifs

Motifs are recurring structures, contrasts, and literary devices that can help to
develop and inform the text’s major themes.

Doublethink

The idea of “doublethink” emerges as an important consequence of the Party’s


massive campaign of large-scale psychological manipulation. Simply put,
doublethink is the ability to hold two contradictory ideas in one’s mind at the same
time. As the Party’s mind-control techniques break down an individual’s capacity for
independent thought, it becomes possible for that individual to believe anything that
the Party tells them, even while possessing information that runs counter to what they
are being told. At the Hate Week rally, for instance, the Party shifts its diplomatic
allegiance, so the nation it has been at war with suddenly becomes its ally, and its
former ally becomes its new enemy. When the Party speaker suddenly changes the
nation he refers to as an enemy in the middle of his speech, the crowd accepts his
words immediately, and is ashamed to find that it has made the wrong signs for the
event. In the same way, people are able to accept the Party ministries’ names, though
they contradict their functions: the Ministry of Plenty oversees economic shortages,
the Ministry of Peace wages war, the Ministry of Truth conducts propaganda and
historical revisionism, and the Ministry of Love is the center of the Party’s operations
of torture and punishment.

Urban Decay

Urban decay proves a pervasive motif in 1984. The London that Winston Smith calls
home is a dilapidated, rundown city in which buildings are crumbling, conveniences
such as elevators never work, and necessities such as electricity and plumbing are
extremely unreliable. Though Orwell never discusses the theme openly, it is clear that
the shoddy disintegration of London, just like the widespread hunger and poverty of
its inhabitants, is due to the Party’s mismanagement and incompetence. One of the
themes of1984, inspired by the history of twentieth-century communism, is that
totalitarian regimes are viciously effective at enhancing their own power and
miserably incompetent at providing for their citizens. The grimy urban decay in
London is an important visual reminder of this idea, and offers insight into the Party’s
priorities through its contrast to the immense technology the Party develops to spy on
its citizens.

Symbols

Symbols are objects, characters, figures, and colors used to represent abstract ideas
or concepts.

Big Brother

Throughout London, Winston sees posters showing a man gazing down over the
words “BIG BROTHER IS WATCHING YOU” everywhere he goes. Big Brother is
the face of the Party. The citizens are told that he is the leader of the nation and the
head of the Party, but Winston can never determine whether or not he actually exists.
In any case, the face of Big Brother symbolizes the Party in its public manifestation;
he is a reassurance to most people (the warmth of his name suggests his ability to
protect), but he is also an open threat (one cannot escape his gaze). Big Brother also
symbolizes the vagueness with which the higher ranks of the Party present
themselves—it is impossible to know who really rules Oceania, what life is like for
the rulers, or why they act as they do. Winston thinks he remembers that Big Brother
emerged around 1960, but the Party’s official records date Big Brother’s existence
back to 1930, before Winston was even born.

The Glass Paperweight and St. Clement’s Church

By deliberately weakening people’s memories and flooding their minds with


propaganda, the Party is able to replace individuals’ memories with its own version
of the truth. It becomes nearly impossible for people to question the Party’s power in
the present when they accept what the Party tells them about the past—that the Party
arose to protect them from bloated, oppressive capitalists, and that the world was far
uglier and harsher before the Party came to power. Winston vaguely understands this
principle. He struggles to recover his own memories and formulate a larger picture of
what has happened to the world. Winston buys a paperweight in an antique store in
the prole district that comes to symbolize his attempt to reconnect with the past.
Symbolically, when the Thought Police arrest Winston at last, the paperweight
shatters on the floor.

The old picture of St. Clement’s Church in the room that Winston rents above Mr.
Charrington’s shop is another representation of the lost past. Winston associates a
song with the picture that ends with the words “Here comes the chopper to chop off
your head!” This is an important foreshadow, as it is the telescreen hidden behind the
picture that ultimately leads the Thought Police to Winston, symbolizing the Party’s
corrupt control of the past.

The Place Where There Is No Darkness

Throughout the novel Winston imagines meeting O’Brien in “the place where there is
no darkness.” The words first come to him in a dream, and he ponders them for the
rest of the novel. Eventually, Winston does meet O’Brien in the place where there is
no darkness; instead of being the paradise Winston imagined, it is merely a prison
cell in which the light is never turned off. The idea of “the place where there is no
darkness” symbolizes Winston’s approach to the future: possibly because of his
intense fatalism (he believes that he is doomed no matter what he does), he unwisely
allows himself to trust O’Brien, even though inwardly he senses that O’Brien might
be a Party operative.

The Telescreens

The omnipresent telescreens are the book’s most visible symbol of the Party’s
constant monitoring of its subjects. In their dual capability to blare constant
propaganda and observe citizens, the telescreens also symbolize how totalitarian
government abuses technology for its own ends instead of exploiting its knowledge to
improve civilization.

The Red-Armed Prole Woman

The red-armed prole woman whom Winston hears singing through the window
represents Winston’s one legitimate hope for the long-term future: the possibility that
the proles will eventually come to recognize their plight and rebel against the Party.
Winston sees the prole woman as a prime example of reproductive virility; he often
imagines her giving birth to the future generations that will finally challenge the
Party’s authority.

Animal Farm

Old Major, a prize-winning boar, gathers the animals of the Manor Farm for a
meeting in the big barn. He tells them of a dream he has had in which all animals live
together with no human beings to oppress or control them. He tells the animals that
they must work toward such a paradise and teaches them a song called “Beasts of
England,” in which his dream vision is lyrically described. The animals greet Major’s
vision with great enthusiasm. When he dies only three nights after the meeting,
three younger pigs—Snowball, Napoleon, and Squealer—formulate his main
principles into a philosophy called Animalism. Late one night, the animals manage to
defeat the farmer Mr. Jones in a battle, running him off the land. They rename the
property Animal Farm and dedicate themselves to achieving Major’s dream. The
cart-horse Boxer devotes himself to the cause with particular zeal, committing his
great strength to the prosperity of the farm and adopting as a personal maxim the
affirmation “I will work harder.”

At first, Animal Farm prospers. Snowball works at teaching the animals to read, and
Napoleon takes a group of young puppies to educate them in the principles of
Animalism. When Mr. Jones reappears to take back his farm, the animals defeat him
again, in what comes to be known as the Battle of the Cowshed, and take the farmer’s
abandoned gun as a token of their victory. As time passes, however, Napoleon and
Snowball increasingly quibble over the future of the farm, and they begin to struggle
with each other for power and influence among the other animals. Snowball concocts
a scheme to build an electricity-generating windmill, but Napoleon solidly opposes
the plan. At the meeting to vote on whether to take up the project, Snowball gives a
passionate speech. Although Napoleon gives only a brief retort, he then makes a
strange noise, and nine attack dogs—the puppies that Napoleon had confiscated in
order to “educate”—burst into the barn and chase Snowball from the farm. Napoleon
assumes leadership of Animal Farm and declares that there will be no more meetings.
From that point on, he asserts, the pigs alone will make all of the decisions—for the
good of every animal.

Napoleon now quickly changes his mind about the windmill, and the animals,
especially Boxer, devote their efforts to completing it. One day, after a storm, the
animals find the windmill toppled. The human farmers in the area declare smugly that
the animals made the walls too thin, but Napoleon claims that Snowball returned to
the farm to sabotage the windmill. He stages a great purge, during which various
animals who have allegedly participated in Snowball’s great conspiracy—meaning
any animal who opposes Napoleon’s uncontested leadership—meet instant death at
the teeth of the attack dogs. With his leadership unquestioned (Boxer has taken up a
second maxim, “Napoleon is always right”), Napoleon begins expanding his powers,
rewriting history to make Snowball a villain. Napoleon also begins to act more and
more like a human being—sleeping in a bed, drinking whisky, and engaging in trade
with neighboring farmers. The original Animalist principles strictly forbade such
activities, but Squealer, Napoleon’s propagandist, justifies every action to the other
animals, convincing them that Napoleon is a great leader and is making things better
for everyone—despite the fact that the common animals are cold, hungry, and
overworked.

Mr. Frederick, a neighboring farmer, cheats Napoleon in the purchase of some timber
and then attacks the farm and dynamites the windmill, which had been rebuilt at great
expense. After the demolition of the windmill, a pitched battle ensues, during which
Boxer receives major wounds. The animals rout the farmers, but Boxer’s injuries
weaken him. When he later falls while working on the windmill, he senses that his
time has nearly come. One day, Boxer is nowhere to be found. According to
Squealer, Boxer has died in peace after having been taken to the hospital, praising the
Rebellion with his last breath. In actuality, Napoleon has sold his most loyal and
long-suffering worker to a glue maker in order to get money for whisky.

Years pass on Animal Farm, and the pigs become more and more like human
beings—walking upright, carrying whips, and wearing clothes. Eventually, the seven
principles of Animalism, known as the Seven Commandments and inscribed on the
side of the barn, become reduced to a single principle reading “all animals are equal,
but some animals are more equal than others.” Napoleon entertains a human farmer
named Mr. Pilkington at a dinner and declares his intent to ally himself with the
human farmers against the laboring classes of both the human and animal
communities. He also changes the name of Animal Farm back to the Manor Farm,
claiming that this title is the “correct” one. Looking in at the party of elites through
the farmhouse window, the common animals can no longer tell which are the pigs
and which are the human beings.

Napoleon

From the very beginning of the novella, Napoleon emerges as an utterly corrupt
opportunist. Though always present at the early meetings of the new state, Napoleon
never makes a single contribution to the revolution—not to the formulation of its
ideology, not to the bloody struggle that it necessitates, not to the new society’s initial
attempts to establish itself. He never shows interest in the strength of Animal Farm
itself, only in the strength of his power over it. Thus, the only project he undertakes
with enthusiasm is the training of a litter of puppies. He doesn’t educate them for
their own good or for the good of all, however, but rather for his own good: they
become his own private army or secret police, a violent means by which he imposes
his will on others.

Although he is most directly modeled on the Soviet dictator Joseph Stalin, Napoleon
represents, in a more general sense, the political tyrants that have emerged throughout
human history and with particular frequency during the twentieth century. His
namesake is not any communist leader but the early-eighteenth-century French
general Napoleon, who betrayed the democratic principles on which he rode to
power, arguably becoming as great a despot as the aristocrats whom he supplanted. It
is a testament to Orwell’s acute political intelligence and to the universality of his
fable that Napoleon can easily stand for any of the great dictators and political
schemers in world history, even those who arose after Animal Farmwas written. In
the behavior of Napoleon and his henchmen, one can detect the lying and bullying
tactics of totalitarian leaders such as Josip Tito, Mao Tse-tung, Pol Pot, Augusto
Pinochet, and Slobodan Milosevic treated in sharply critical terms.

Snowball

Orwell’s stint in a Trotskyist battalion in the Spanish Civil War—during which he


first began plans for a critique of totalitarian communism—influenced his relatively
positive portrayal of Snowball. As a parallel for Leon Trotsky, Snowball emerges as a
fervent ideologue who throws himself heart and soul into the attempt to spread
Animalism worldwide and to improve Animal Farm’s infrastructure. His idealism,
however, leads to his downfall. Relying only on the force of his own logic and
rhetorical skill to gain his influence, he proves no match for Napoleon’s show of
brute force.

Although Orwell depicts Snowball in a relatively appealing light, he refrains from


idealizing his character, making sure to endow him with certain moral flaws. For
example, Snowball basically accepts the superiority of the pigs over the rest of the
animals. Moreover, his fervent, single-minded enthusiasm for grand projects such as
the windmill might have erupted into full-blown megalomaniac despotism had he not
been chased from Animal Farm. Indeed, Orwell suggests that we cannot eliminate
government corruption by electing principled individuals to roles of power; he
reminds us throughout the novella that it is power itself that corrupts.

Boxer

The most sympathetically drawn character in the novel, Boxer epitomizes all of the
best qualities of the exploited working classes: dedication, loyalty, and a huge
capacity for labor. He also, however, suffers from what Orwell saw as the working
class’s major weaknesses: a naïve trust in the good intentions of the intelligentsia and
an inability to recognize even the most blatant forms of political corruption.
Exploited by the pigs as much or more than he had been by Mr. Jones, Boxer
represents all of the invisible labor that undergirds the political drama being carried
out by the elites. Boxer’s pitiful death at a glue factory dramatically illustrates the
extent of the pigs’ betrayal. It may also, however, speak to the specific significance of
Boxer himself: before being carted off, he serves as the force that holds Animal Farm
together.

Squealer

Throughout his career, Orwell explored how politicians manipulate language in an


age of mass media. In Animal Farm, the silver-tongued pig Squealer abuses language
to justify Napoleon’s actions and policies to the proletariat by whatever means seem
necessary. By radically simplifying language—as when he teaches the sheep to bleat
“Four legs good, two legs better!”—he limits the terms of debate. By complicating
language unnecessarily, he confuses and intimidates the uneducated, as when he
explains that pigs, who are the “brainworkers” of the farm, consume milk and apples
not for pleasure, but for the good of their comrades. In this latter strategy, he also
employs jargon (“tactics, tactics”) as well as a baffling vocabulary of false and
impenetrable statistics, engendering in the other animals both self-doubt and a sense
of hopelessness about ever accessing the truth without the pigs’ mediation. Squealer’s
lack of conscience and unwavering loyalty to his leader, alongside his rhetorical
skills, make him the perfect propagandist for any tyranny. Squealer’s name also fits
him well: squealing, of course, refers to a pig’s typical form of vocalization, and
Squealer’s speech defines him. At the same time, to squeal also means to betray,
aptly evoking Squealer’s behavior with regard to his fellow animals.

Old Major

As a democratic socialist, Orwell had a great deal of respect for Karl Marx, the
German political economist, and even for Vladimir Ilych Lenin, the Russian
revolutionary leader. His critique of Animal Farm has little to do with the Marxist
ideology underlying the Rebellion but rather with the perversion of that ideology by
later leaders. Major, who represents both Marx and Lenin, serves as the source of the
ideals that the animals continue to uphold even after their pig leaders have betrayed
them.

Though his portrayal of Old Major is largely positive, Orwell does include a few
small ironies that allow the reader to question the venerable pig’s motives. For
instance, in the midst of his long litany of complaints about how the animals have
been treated by human beings, Old Major is forced to concede that his own life has
been long, full, and free from the terrors he has vividly sketched for his rapt audience.
He seems to have claimed a false brotherhood with the other animals in order to
garner their support for his vision.

The Corruption of Socialist Ideals in the Soviet Union


Animal Farm is most famous in the West as a stinging critique of the history and
rhetoric of the Russian Revolution. Retelling the story of the emergence and
development of Soviet communism in the form of an animal fable, Animal
Farm allegorizes the rise to power of the dictator Joseph Stalin. In the novella, the
overthrow of the human oppressor Mr. Jones by a democratic coalition of animals
quickly gives way to the consolidation of power among the pigs. Much like the
Soviet intelligentsia, the pigs establish themselves as the ruling class in the new
society.

The struggle for preeminence between Leon Trotsky and Stalin emerges in the rivalry
between the pigs Snowball and Napoleon. In both the historical and fictional cases,
the idealistic but politically less powerful figure (Trotsky and Snowball) is expelled
from the revolutionary state by the malicious and violent usurper of power (Stalin and
Napoleon). The purges and show trials with which Stalin eliminated his enemies and
solidified his political base find expression in Animal Farm as the false confessions
and executions of animals whom Napoleon distrusts following the collapse of the
windmill. Stalin’s tyrannical rule and eventual abandonment of the founding
principles of the Russian Revolution are represented by the pigs’ turn to violent
government and the adoption of human traits and behaviors, the trappings of their
original oppressors.

Although Orwell believed strongly in socialist ideals, he felt that the Soviet Union
realized these ideals in a terribly perverse form. His novella creates its most powerful
ironies in the moments in which Orwell depicts the corruption of Animalist ideals by
those in power. For Animal Farm serves not so much to condemn tyranny or
despotism as to indict the horrifying hypocrisy of tyrannies that base themselves on,
and owe their initial power to, ideologies of liberation and equality. The gradual
disintegration and perversion of the Seven Commandments illustrates this hypocrisy
with vivid force, as do Squealer’s elaborate philosophical justifications for the pigs’
blatantly unprincipled actions. Thus, the novella critiques the violence of the Stalinist
regime against the human beings it ruled, and also points to Soviet communism’s
violence against human logic, language, and ideals.

The Societal Tendency Toward Class Stratification

Animal Farm offers commentary on the development of class tyranny and the human
tendency to maintain and reestablish class structures even in societies that allegedly
stand for total equality. The novella illustrates how classes that are initially unified in
the face of a common enemy, as the animals are against the humans, may become
internally divided when that enemy is eliminated. The expulsion of Mr. Jones creates
a power vacuum, and it is only so long before the next oppressor assumes totalitarian
control. The natural division between intellectual and physical labor quickly comes to
express itself as a new set of class divisions, with the “brainworkers” (as the pigs
claim to be) using their superior intelligence to manipulate society to their own
benefit. Orwell never clarifies in Animal Farm whether this negative state of affairs
constitutes an inherent aspect of society or merely an outcome contingent on the
integrity of a society’s intelligentsia. In either case, the novella points to the force of
this tendency toward class stratification in many communities and the threat that it
poses to democracy and freedom.

The Danger of a Naïve Working Class

One of the novella’s most impressive accomplishments is its portrayal not just of the
figures in power but also of the oppressed people themselves. Animal Farm is not
told from the perspective of any particular character, though occasionally it does slip
into Clover’s consciousness. Rather, the story is told from the perspective of the
common animals as a whole. Gullible, loyal, and hardworking, these animals give
Orwell a chance to sketch how situations of oppression arise not only from the
motives and tactics of the oppressors but also from the naïveté of the oppressed, who
are not necessarily in a position to be better educated or informed. When presented
with a dilemma, Boxer prefers not to puzzle out the implications of various possible
actions but instead to repeat to himself, “Napoleon is always right.” Animal
Farm demonstrates how the inability or unwillingness to question authority
condemns the working class to suffer the full extent of the ruling class’s oppression.

The Abuse of Language as Instrumental to the Abuse of Power

One of Orwell’s central concerns, both in Animal Farm and in 1984, is the way in
which language can be manipulated as an instrument of control. In Animal Farm, the
pigs gradually twist and distort a rhetoric of socialist revolution to justify their
behavior and to keep the other animals in the dark. The animals heartily embrace
Major’s visionary ideal of socialism, but after Major dies, the pigs gradually twist the
meaning of his words. As a result, the other animals seem unable to oppose the pigs
without also opposing the ideals of the Rebellion. By the end of the novella, after
Squealer’s repeated reconfigurations of the Seven Commandments in order to
decriminalize the pigs’ treacheries, the main principle of the farm can be openly
stated as “all animals are equal, but some animals are more equal than others.” This
outrageous abuse of the word “equal” and of the ideal of equality in general typifies
the pigs’ method, which becomes increasingly audacious as the novel progresses.
Orwell’s sophisticated exposure of this abuse of language remains one of the most
compelling and enduring features of Animal Farm, worthy of close study even after
we have decoded its allegorical characters and events.

Motifs

Motifs are recurring structures, contrasts, and literary devices that can help to
develop and inform the text’s major themes.

Songs

Animal Farm is filled with songs, poems, and slogans, including Major’s stirring
“Beasts of England,” Minimus’s ode to Napoleon, the sheep’s chants, and Minimus’s
revised anthem, “Animal Farm, Animal Farm.” All of these songs serve as
propaganda, one of the major conduits of social control. By making the working-class
animals speak the same words at the same time, the pigs evoke an atmosphere of
grandeur and nobility associated with the recited text’s subject matter. The songs also
erode the animals’ sense of individuality and keep them focused on the tasks by
which they will purportedly achieve freedom.

State Ritual

As Animal Farm shifts gears from its early revolutionary fervor to a phase of
consolidation of power in the hands of the few, national rituals become an ever more
common part of the farm’s social life. Military awards, large parades, and new songs
all proliferate as the state attempts to reinforce the loyalty of the animals. The
increasing frequency of the rituals bespeaks the extent to which the working class in
the novella becomes ever more reliant on the ruling class to define their group
identity and values.

Symbols

Symbols are objects, characters, figures, and colors used to represent abstract ideas
or concepts.

Animal Farm

Animal Farm, known at the beginning and the end of the novel as the Manor Farm,
symbolizes Russia and the Soviet Union under Communist Party rule. But more
generally, Animal Farm stands for any human society, be it capitalist, socialist,
fascist, or communist. It possesses the internal structure of a nation, with a
government (the pigs), a police force or army (the dogs), a working class (the other
animals), and state holidays and rituals. Its location amid a number of hostile
neighboring farms supports its symbolism as a political entity with diplomatic
concerns.

The Barn

The barn at Animal Farm, on whose outside walls the pigs paint the Seven
Commandments and, later, their revisions, represents the collective memory of a
modern nation. The many scenes in which the ruling-class pigs alter the principles of
Animalism and in which the working-class animals puzzle over but accept these
changes represent the way an institution in power can revise a community’s concept
of history to bolster its control. If the working class believes history to lie on the side
of their oppressors, they are less likely to question oppressive practices. Moreover,
the oppressors, by revising their nation’s conception of its origins and development,
gain control of the nation’s very identity, and the oppressed soon come to depend
upon the authorities for their communal sense of self.

The Windmill

The great windmill symbolizes the pigs’ manipulation of the other animals for their
own gain. Despite the immediacy of the need for food and warmth, the pigs exploit
Boxer and the other common animals by making them undertake backbreaking labor
to build the windmill, which will ultimately earn the pigs more money and thus
increase their power. The pigs’ declaration that Snowball is responsible for the
windmill’s first collapse constitutes psychological manipulation, as it prevents the
common animals from doubting the pigs’ abilities and unites them against a supposed
enemy. The ultimate conversion of the windmill to commercial use is one more sign
of the pigs’ betrayal of their fellow animals. From an allegorical point of view, the
windmill represents the enormous modernization projects undertaken in Soviet
Russia after the Russian Revolution.

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