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CORSO DI FORMATORI

INDICE

INDICE .................................................................................................................... 1

INTRODUZIONE ..................................................................................................... 3

CAPITOLO PRIMO ................................................................................................. 5

LA FORMAZIONE DEI CHIERICI ........................................................................... 5

1) Premessa .................................................................................................................................................5

2) Cura pastorale delle vocazioni ................................................................................................................5


La vocazione divina..................................................................................................................................5
Soggetti sui quali incombe la responsabilità di promuovere le vocazioni......................................................8

3) La formazione dei chierici..................................................................................................................... 10


a) Autorità competente ........................................................................................................................... 10

4) I seminari .............................................................................................................................................. 11
Elementi storici ...................................................................................................................................... 11
Il seminario minore ................................................................................................................................ 11
Il seminario maggiore ............................................................................................................................. 13
I) Obbligatorietà ................................................................................................................................ 13
II) Personalità giuridica e rappresentanza legale................................................................................... 14
III) Esenzione dalla giurisdizione del parroco ...................................................................................... 15
IV) Norme che regolano la vita del seminario ..................................................................................... 16
f) Formazione degli alunni in seminario................................................................................................... 16
I) Ammissione in seminario................................................................................................................ 16
Requisiti personali......................................................................................................................... 16
Requisiti documentali .................................................................................................................... 18
II) I mezzi di formazione .................................................................................................................... 21
La formazione spirituale ................................................................................................................ 22
Formazione liturgica ..................................................................................................................... 23
Formazione alla vita di comunione fraterna .................................................................................... 24
Formazione al celibato .................................................................................................................. 25
Formazione all’obbedienza ............................................................................................................ 26
Formazione allo spirito di povertà .................................................................................................. 27
Formazione missionaria................................................................................................................. 27
Formazione dottrinale.................................................................................................................... 28
La formazione strettamente pastorale ............................................................................................. 34
III) I responsabili del seminario .......................................................................................................... 36
Il Vescovo .................................................................................................................................... 36
Altri responsabili........................................................................................................................... 36

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L’ORDINAZIONE SACRA ..................................................................................... 54

La celebrazione ......................................................................................................................................... 54

Ministro dell’ordinazione.......................................................................................................................... 54
Problematica circa il ministro in genere ................................................................................................... 54
Consacrazione dei vescovi e mandato pontificio....................................................................................... 57
Ordinazione presbiterale e diaconale: lettere dimissorie ............................................................................ 60
Vescovo ordinante ............................................................................................................................. 60
Lettere dimissorie.......................................................................................................................... 62

BIBLIOGRAFIA..................................................................................................... 81

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CORSO DI FORMATORI

INTRODUZIONE
Il titolo “De ministris sacris seu de clericis”, come titolo III, si trova nella parte I “De christifide-
libus” del libro II “De populo Dei”.
Nel CIC 1917, nella sez. “De clericis in genere” erano compresi anche i titoli “De officiis eccle-
siasticis” e “de potestate”, mentre nel CIC 1983 questi due titoli si trovano nel libro I.
Inoltre nel CIC 1917 il titolo “De seminariis” si trovava nella parte IV del libro III “De magiste-
rio ecclesiastico”; invece nel CIC 1983 il nostro titolo III del libro II comincia proprio col cap. I
“De clericorum institutione”.
Senza dubbio l’ordine sistematico del nuovo CIC è migliore di quello che si trovava nel vecchio,
in quanto non solo i chierici, ma tutti i fedeli sono riconosciuti capaci di ricevere degli uffici eccle-
siastici e possono partecipare all’esercizio della potestà di governo ecclesiastico.
Inoltre i seminari sono istituiti proprio per la formazione specifica dei ministri ordinati, e, come
fin dal 1968 il gruppo di studio preposto alla riforma di questa parte del CIC affermava, per una
formazione integrale di essi, cioè spirituale e pastorale e non solo dottrinale. Per questo i seminari è
più giusto che siano trattati in questo titolo sui ministri sacri che non nel libro sul magistero, che
comprende le scuole cattoliche e le università e facoltà cattoliche ed ecclesiastiche, dove sono for-
mati fedeli di ogni categoria, prevalentemente sotto l’aspetto dottrinale. La cosa, però, rimase incer-
ta lungo l’iter di formazione di questo capitolo del Codice, almeno fino al 1979. Comunque, pur
nell’incertezza della collocazione sistematica, una cosa era chiara: il seminario non deve essere con-
siderato solo sotto la prospettiva della formazione dottrinale, ma in una prospettiva più globale del-
la formazione al ministero. Nello schema 1980 i canoni sulla formazione dei chierici rimarranno nel
libro II e non si tornerà più sulla collocazione sistematica di loro. Probabilmente la Congregazione
per l’Educazione Cattolica diede parere positivo a che rimanessero dove si trovavano.
Nonostante questo, la Cost. ap. Pastor Bonus attribuisce la competenza sui seminari alla Con-
gregazione “De seminariis atque studiorum institutis”, che in Acta Apostolicae Sedis continua ad esse-
re chiamata “De institutione catholica”, invece che alla Congregazione “pro clericis”.
Il titolo “De ministris sacris seu de clericis”. Abbiamo una chiara identificazione tra ministri sacri
e chierici, coerentemente con i cc. 207 §1, 1008, 1009 §1, secondo i quali chiaramente sono consi-
derati ministri sacri solo i diaconi, i presbiteri e i vescovi, cioè coloro che sono costituiti nel ministe-
ro sacro con il sacramento dell’ordine.
Nel CIC 1917 il titolo era semplicemente “De clericis”. I chierici non si identificavano solo con
coloro che ricevevano il sacramento dell’ordine, in quanto erano chiamati chierici anche coloro che
si trovavano negli ordini minori (cc. 108; 949 CIC 1917).
Già il M. p. Ministeria quaedam (15. 8. 72) aboliva la tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato,
in modo che già per il M. p. Ad pascendum (15. 8. 72) uno diventava chierico con l’ordinazione
diaconale.
Secondo il CIC 1983 coloro che sono istituiti nel ministero di lettore o di accolito, sia in modo
stabile (c. 230, §1) sia in modo transitorio come prerequisito per l’ordinazione diaconale (cc. 1035;
1050,1) debbono essere considerati laici. In questo modo nel nuovo Codice si ha una chiara identi-
ficazione tra i ministri sacri, cioè coloro che hanno ricevuto gli ordini sacri, e i chierici.
La parola “clericus” viene dal greco “kléros”, che innanzitutto significa “sorte”, poi, in modo de-
rivato, “porzione assegnata in sorte”.
Nella 1Pt. 5,3 “kléros” significa “porzione che spetta a qualcuno in sorte o divinamente assegna-
ta”, “kléroi” significano le “porzioni della Chiesa attribuite ai singoli pastori”. Infatti, l’autore della

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lettera, parlando dei doveri dei presbiteri dice: “pascete il gregge di Dio che vi è affidato, non spa-
droneggiando sulle persone (kléroi), ma facendovi modelli del gregge”.
Già dal sec. III il termine “clerus” è usato per designare coloro che esercitano delle funzioni sa-
cre (Tertulliano; Origene).
Secondo S. Girolamo i chierici sono così chiamati perché sono per sorte del Signore, o perché il
Signore è la loro sorte, la loro parte (PL 22,531). Anche per S. Agostino il termine “kléros” significa
le sorti promesse da Dio, le parti di eredità, che sono distribuite al popolo, quindi fu stabilito che la
tribù di Levi non avesse parte (di eredità) tra i suoi fratelli, perché sarebbe stata sostenuta dalle loro
decime (Num. 18, 20-21). “Clerus” e “clerici”, secondo S. Agostino, debbono essere chiamati colo-
ro che sono ordinati nei gradi del ministero ecclesiastico, in quanto Mattia è eletto a sorte e fu il
primo ad essere ordinato dagli Apostoli (At. 1,26).
Anche Graziano nel Decreto (C. XII, q. 1, c. 5) riporta il testo di Girolamo a cui abbiamo fatto
riferimento sopra, ma raccoglie anche un altro testo (c. 7), che rimane incerto se sia di Girolamo o
no, dove è fatta una chiara distinzione tra i chierici e i laici. I primi così si chiamano perché scelti
per sorte, scelti da Dio, e sono legati al servizio divino e dediti alla contemplazione e all’orazione,
alieni dalle cose temporali. I laici sono detti tali da “laós, popolo, e vivono nel matrimonio e negli
affari temporali.
Infine è da tener presente che tutto ciò che è stabilito nel tit. III sui ministri sacri o chierici, ri-
guarda solo i diaconi e i presbiteri, non i vescovi, dei quali si tratta nella parte II del libro II (c. 375-
411).

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CAPITOLO PRIMO
LA FORMAZIONE DEI CHIERICI
1) Premessa
Questa parte del CIC è strettamente connessa con i canoni sull’ordine sacro del L. IV.
E’, poi, da considerare anche la Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis data dalla Congregazione
per l’educazione cattolica, il 19 marzo 1985.
Si pone il problema circa il valore giuridico di questo documento. Dal primo Sinodo dei vescovi
del 1967 fu approvato il quesito, proposto dal Prefetto della Congregazione per l’educazione catto-
lica, di approntare una Ratio fundamentalis, che fosse norma per la redazione delle Rationes da parte
delle Conferenze dei vescovi, al fine di conservare l’unità e, nello stresso tempo di ammettere la va-
rietà. Di questo riferiscono le “Note preliminari” della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis del 6
genn. 1970.
La Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis data dalla Congregazione il 6 genn. 1970, fu approvata
in forma specifica da Paolo VI e dichiarata obbligante per quanto riguardava i punti principali, de-
terminati in calce alla pagina delle “Note preliminari”; quindi fu promulgata negli Acta Apostolicae
Sedis il 15 luglio 19701.
Con la promulgazione del Codice del 1983, dato che questi riordina ex integro tutta la materia,
come viene dichiarato nella prefazione della Ratio fundamentalis del 1985, la Ratio del 1970 perdeva
ogni forza giuridica, e sarebbe dovuta essere sostituita dalla nuova Ratio del 1985. Questa è stata
approvata da Giovanni Paolo II, ma dato che, forse a causa di una svista, non è mai stata promulga-
ta a norma del c. 8, cioè negli Acta Apostolicae Sedis o in altro modo stabilito dall’autorità, non ha for-
za giuridica di legge in deroga alle disposizioni del Codice nei punti in cui le contraddicesse, assu-
mendo niente più che il valore di un’istruzione (c. 34,§2).
Meraviglia il fatto che nell’Es. ap. Pastores dabo vobis venga citata sempre e solo la Ratio
fundamentalis del 1970 (4 volte) e venga completamente ignorata quella del 1985. Ugualmente mera-
viglia che vengano totalmente ignorati i canoni riguardanti la formazione sacerdotale. L’unico cano-
ne che in tutto il documento viene citato è il 220, con rimando al c. 642.

2) Cura pastorale delle vocazioni


E’ un tema nuovo introdotto nel CIC 1983, dato il problema attuale del numero delle vocazioni,
particolarmente acuto negli anni ‘80. Al tempo del CIC 1917 c’era piuttosto il problema di dare una
buona e sicura formazione dottrinale, dato il problema del modernismo, che allora si agitava.
La vocazione divina.
Il c. 233,§1 riguarda il dovere di favorire le vocazioni. Il canone non parla esplicitamente della
vocazione come un atto divino, ma questo è da sottintendersi. Infatti esso è innanzitutto richiesto
dalla stessa natura del sacramento dell’ordine, per mezzo del quale sono istituiti nel ministero sacro
coloro che ad esso sono chiamati per partecipare allo stesso munus di Cristo. Inoltre, i più recenti
Romani Pontefici esplicitamente hanno parlato della vocazione divina, come Pio XI nell’Enc. Ad
catholici sacerdotii del 20. 12. 1935 (AAS 28,1936,44-45), Pio XII nell’Es. ap. Menti nostrae del 13.
9. 1950 (AAS 42,1950,681-687) e nella Cost. ap. Sede Sapientiae del 31. 5. 1956 (AAS 48,1956,357-

1 Cf. AAS 72 (1970) 321-384.

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358), Paolo VI nella Lett. ap. Summi Dei verbum del 4. 11. 1963 (AAS 55,1963,986-989) e Giovan-
ni Paolo II nella Lett. Novo incipiente dell’8. 4. 79 e nell’Es. ap. Pastores dabo vobis del 25. 3. 92. Infi-
ne, la stessa Commissione fin dall’inizio ebbe presente l’esigenza che la vocazione non apparisse
come un qualcosa di meramente umano, pur conscia che non tutto nei canoni poteva essere espres-
so, in quanto il Codice non è un trattato teologico.
All’inizio del nostro secolo si sviluppò una grande discussione circa la vocazione divina. Essa
ebbe inizio col libro di L. Brancherau, La vocation sacerdotale (Paris/Lyon 1896), dove l’autore af-
fermava che la vocazione è una chiamata interiore di Dio, percepita misticamente dal soggetto
chiamato. Da questo veniva dedotto che era illecita l’ordinazione di uno che non percepisse tale
chiamata interiore dello Spirito.
A questa tesi si oppose J. Lahitton col suo libro La vocation sacerdotale - Traité théorique et
pratique à l’usage des séminaires et des recteurs de prêtres (Paris 1909), dove egli sosteneva che la
vocazione consiste nella chiamata del vescovo, che rappresenta la Chiesa, per mezzo del quale Dio
chiama. Tale teoria era condivisa dalla maggior parte degli autori del tempo.
Fu istituita da Pio X una Commissione di 12 cardinali per dirimere la controversia e per dichia-
rare la dottrina ufficiale della Chiesa sulla vocazione. La decisione della Commissione fu approvata
dal Papa il 26 giugno 1912 e fu comunicata al Vescovo Aturense con lettera della Segreteria di Stato
del 2 luglio del 1912. Essa dichiarava che:
1) nessuno ha mai diritto all’ordinazione prima della libera chiamata da parte del vescovo;
2) la condizione soggettiva, che è chiamata vocazione, in nessun modo consiste, almeno necessa-
riamente e ordinariamente, in una qualche interna ispirazione del soggetto, o in impulsi dello Spirito
santo;
3) Perché uno sia chiamato legittimamente dal vescovo, si richiede in lui la retta intenzione in-
sieme con l’idoneità che consiste nelle doti di grazia e di natura di cui è ricoperto (AAS 4,1912,485).
Come si può vedere la Commissione faceva sua la tesi di Lahitton.
Un progresso si ha con Pio XII, che nella sua Cost. ap. Sedes Sapientiae del 31. 5. 56 affermava
che la vocazione si compone di due elementi, uno divino e un altro ecclesiastico.
L’elemento divino è la vocazione di Dio allo stato sia religioso che sacerdotale. Se esso manca,
viene meno tutto il fondamento dell’edificio. La vocazione di Dio è manifestata da segni esteriori,
come l’attitudine psichica, intellettuale e morale, l’inclinazione naturale allo stato religioso o clerica-
le, la retta intenzione.
L’elemento ecclesiastico è necessario, e consiste nell’ammissione canonica da parte del vescovo,
cioè nel riconoscimento dell’idoneità e della retta intenzione del candidato. Tale riconoscimento ec-
clesiastico è un libero atto del vescovo. Dall’elemento soggettivo della mozione interna non viene
un diritto a ricevere gli ordini, per cui tale elemento dev’essere riconosciuto dal vescovo, che libe-
ramente ammette agli ordini.
Come si vede, Pio XII univa le due sentenze di Brancherau e di Lahitton e segnava un grande
progresso rispetto alla Commissione del 1912.
OT 2c mette insieme gli elementi che erano già offerti da questi documenti pontifici e afferma
che l’azione umana volta a favorire le vocazioni è una cooperazione con l’azione della Divina Prov-
videnza, che dà le qualità necessarie agli uomini che sceglie per il sacerdozio gerarchico. I vescovi
hanno il compito di chiamare i candidati e di consacrarli al culto di Dio e al servizio della Chiesa, se
non secondo i segni di vocazione divina, quali la retta intenzione, la piena libertà e le vari doti che li
rendono idonei al ministero.

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PO 11a parla della vocazione al sacerdozio ministeriale come “vox Dei vocantis”, che, però, va
conosciuta ed esaminata attraverso quei segni con i quali di cui ogni giorno si serve il Signore per
far apparire la sua volontà. In questo si inserisce l’eventuale chiamata del Vescovo, nel pieno rispet-
to della libertà sia esterna che interna di chiamati.
Dice infatti S. Tommaso: Illos quos Deus ad aliquid aligit, ita praeparat et disponit ut ad is quod
eliguntur inveniantur idonei: secundum illud II Cor. 3 (secundae Epistolae ad Corintios): Idoneos
nos fecit ministros novi Testamenti” (S. Th. III, q. 27, a. 4 in corp).
Non possiamo, infatti, pensare, come diceva Paolo VI nella sua Lett. ap. Summi Dei verbum
(1963), che Dio chiami al sacerdozio fanciulli o adolescenti, che non avendo le sufficienti qualità in-
tellettuali e di volontà, oppure essendo affetti da qualche tara psicologica congenita o da qualche in-
fermità fisica, non siano da ritenersi adatti ad adempiere degnamente i doveri legati al ministero e a
sostenere gli oneri con esso connessi (EV 2/71).
Giovanni Paolo II, oltre che nella Lett. Novo incipiente dell’8. 4. 1979 e in varie sue allocuzioni,
affronta la questione espressamente nell’Es. Ap. Pastores dabo vobis del 25. 3. 1992 (AAS 84, 1992,
657-804), dove viene sottolineato che il presbitero riceve la vocazione da Dio nella Chiesa e per la
Chiesa, come una gratia gratis data, cioè un carisma. La Chiesa è mediatrice privilegiata di tale voca-
zione, per cui il candidato, ricevendo la vocazione di Dio per mezzo della Chiesa, deve accettare
con umiltà e gratitudine anche le circostanze e le condizioni che la stessa Chiesa pone (n. 35). La
versione italiana dell’Esortazione aggiunge un testo che non si trova nel testo latino. Dice: “E’ pro-
prio del vescovo o del superiore competente non solo sottoporre ad esame l’idoneità e la vocazione
del candidato, ma anche riconoscerla. Un simile elemento ecclesiastico inerisce alla vocazione al
ministero presbiterale come tale”.
Mediante il sacramento dell’ordine, si dice nel n. 70, Dio chiama il candidato coram Ecclesia al
sacerdozio; la chiamata di Gesù trova la sua piena e suprema proclamazione nella celebrazione del
sacramento, dove si manifesta ed è proclamata attraverso la voce della Chiesa, che risuona sulle lab-
bra del vescovo che prega e impone le mani. E’ grave, allora, la responsabilità della Chiesa di coope-
rare con l’azione di Dio che chiama, nel creare e mantenere le condizioni nelle quali il buon seme,
sparso da Dio, possa portare copiosi frutti (n. 2). Il chiamato deve rispondere liberamente ed umil-
mente alla vocazione di Dio (n. 36), tuttavia il vescovo deve promuovere e verificare l’idoneità dei
candidati al ministero (n. 66). Quindi, secondo la Pastores dabo vobis, Dio è la fonte della vocazio-
ne e il vescovo deve discernere sull’autenticità di essa, in quanto la vocazione, essendo nella Chiesa
e per la Chiesa, quest’ultima si fa mediatrice della stessa vocazione.
In conclusione, la vocazione divina si può definire come l’atto con cui Dio, per suo beneplacito,
sceglie uno e lo destina al ministero sacro da esercitarsi nella Chiesa, quindi gli elargisce le qualità e
le grazie necessarie, le quali debbono essere comprovate dall’autorità ecclesiastica (Vescovi o supe-
riori religiosi), che ammette agli ordini sacri, secondo le condizioni stabilite. Questo vale sia per il
clero secolare che per quello regolare.
Tuttavia, poiché la vocazione divina, come atto gratuito di Dio, in se stessa non può essere in
modo diretto comprovata, il Codice non definisce la vocazione divina, né esplicitamente la menzio-
ne nel c. 233, §1, sebbene lo faccia nel cc. 646, 652,§3, 722,§1, 735, trattando della vita consacrata. Il
Codice, nel c. 1029, stabilisce gli elementi dai quali il Vescovo proprio o il superiore competente,
tenuto conto di tutto, può dedurre che il candidato sia realmente chiamato da Dio. Infatti, i requisiti
stabiliti nel c. 1029 possono essere comprovati.
Di vocazione divina suscitata dallo Spirito Santo parla espressamente la RFIS, che giustamente
inserisce la vocazione al sacerdozio gerarchico o ministeriale nell’ambito più ampio della vocazione

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CORSO DI FORMATORI

cristiana (n. 5). Tale vocazione al sacerdozio può manifestarsi in vari modi a diverse età:
nell’adolescenza o in un’età più avanzata, ma anche, nella fanciullezza, in cui si possono già manife-
stare germi di vocazione (n. 7).
Soggetti sui quali incombe la responsabilità di promuovere le vocazioni
Il c. 233,§1 menziona i soggetti che hanno il dovere di promuovere le vocazioni:
1) Per prima, tutta la comunità cristiana, cioè la Chiesa universale, particolare e locale, nella tota-
lità dei suoi componenti, ma è chiaro che di fatto tale dovere incombe concretamente sulla diocesi e
la parrocchia. PDV 41, che riprende OT 2, mette in particolare rilievo il carattere ecclesiale della
vocazione sacerdotale e quindi questo dovere di tutta la Chiesa.
2) All’interno della comunità cristiana, il primo soggetto che è tenuto a promuovere le vocazioni
in modo speciale, è la famiglia cristiana, che, come afferma OT 2a, la quale, animata da spirito di fe-
de, di carità e di pietà, costituisce come il primo seminario. La famiglia, infatti, viene definita sia da
LG 11b e da PDV 41 come Chiesa domestica. E’ da notare che il c. 233,§1 si riferisce non solo ai
genitori, che faceva espressamente il c. 84,§1,1 dello Schema 1977, ma a tutta la famiglia come am-
biente in cui possono germinare ed essere alimentate delle vocazioni, sebbene è chiaro che il dovere
maggiore incombe sui genitori, che hanno l’obbligo e il diritto di educare la prole (cc. 266,§2;
793,§1; 796-798).
3) Infine, il canone menziona gli educatori in generale. Sotto questa categoria dobbiamo com-
prendere, secondo OT 2a, tutti coloro che in qualche modo curano l’educazione dei fanciulli e dei
giovani, specialmente scuole e le associazioni cattoliche, che debbono cercare di educare gli adole-
scenti loro affidati in modo che possano scoprire la vocazione divina e di seguirla con generosità.
Alla funzione delle associazioni cattoliche si riferisce in modo speciale PDV 41, che le considera at-
tualmente come veri e propri luoghi di proposta e crescita vocazionale.
4) In modo particolare vengono indicati dal canone i sacerdoti, specialmente i parroci, i quali,
come dice OT 2a, possono attirare verso il sacerdozio gli adolescenti, con il loro zelo apostolico e
tutta la loro vita di santità e di carità fraterna. I presbiteri debbono attentamente prendere in consi-
derazione tutti quei segni con i quali si manifesta la volontà di Dio che chiama (PO 11).
5) Ai Vescovi diocesani, spetta in sommo grado curare la promozione delle vocazioni. In PDV
41 i Vescovi diocesani sono i primi ad essere enumerati. Il c. 385 dispone che è dovere del Vescovo
diocesano di favorire le vocazioni ai diversi ministeri e ala vita consacrata, ma avendo particolare
cura delle vocazioni sacerdotali e missionarie.
Il c. 233,§1 allude anche ad alcuni mezzi, che il Vescovo deve usare:
- deve istruire la porzione di popolo di Dio affidatogli circa l’importanza del ministero sacro e
della necessità di ministri nella Chiesa;
- deve promuovere e sostenere iniziative atte a favorire le vocazioni, con opere instituite proprio
a questo scopo.
Riguardo a queste opere, è da dire qualcosa circa il Regolamento o piano diocesano per le voca-
zioni e circa l’Opera delle vocazioni, circa le quali la Congr. per l’Ed. Catt. dava dei suggerimenti
con una Lett. circ. agli ordinari dei luoghi sui piani pastorali per le vocazioni, in data 2. 1. 1978
(prot. 461-77-2; EV 6/526-575).
a) Il Regolamento o piano diocesano per le vocazioni, secondo la lettera circolare della Congre-
gazione, deve inserire la pastorale per le vocazioni nel contesto della cura pastorale generale di tutta
la diocesi e considerare il tema delle vocazioni sotto l’aspetto dottrinale, spirituale e di attuazione
pratica della stessa cura pastorale delle vocazioni (Lett. circ. , I,1-3).

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CORSO DI FORMATORI

Il Regolamento dev’essere redatto con la collaborazione di tutti i responsabili delle varie voca-
zioni nella Chiesa: al presbiterato, al diaconato permanente, alla vita consacrata religiosa e secolare,
alla vita missionaria (II,1). Il Regolamento, infatti, deve servire a tutte le vocazioni, tenuto conto
della particolare importanza della vocazione presbiterale. L’esigenza di un coordinamento tra Ve-
scovi e Superiori religiosi nella promozione delle vocazioni sorse fin dall’inizio.
L’Es. ap. Vita consecrata, al n. 64, insiste particolarmente sulla collaborazione tra pastori, religiosi,
famiglie ed educatori in genere, in modo che la pastorale vocazionale nelle sue diverse articolazioni
diventi parte integrante della pastorale d’insieme della Chiesa particolare. Già PC 24a aveva insistito
sul fatto che i sacerdoti e gli educatori debbono promuovere anche le vocazioni religiose, trattando,
i sacerdoti, dei consigli evangelici e della scelta dello stato religioso più frequentemente nella predi-
cazione ordinaria. Quest’intervento del Concilio è da ritenersi quanto mai attuale, in quanto rara-
mente i sacerdoti nella predicazione ordinaria trattano della vita consacrata per la professione dei
consigli evangelici. Per questo si rende ancora più opportuno che i membri degli Istituti di vita con-
sacrata possano nella diocesi avere un programma di pastorale vocazionale secondo un Regolamen-
to proprio, anche se in stretta connessione con il Regolamento diocesano generale. In caso di con-
flitto di competenza su questioni riguardanti la cura pastorale delle vocazioni, tutti debbono seguire
le norme date dalla S. Sede e dall’Ordinario del luogo, come, riferendosi a PC 24b, suggeriva la Lett.
circ. del 1978 (II,2).
Il Regolamento, secondo la stessa lettera circolare, dev’essere approvato dal Vescovo diocesano
e solo dopo tale approvazione assume l’efficacia di norma di azione per tutta la comunità diocesana
(II,2). Si suggerisce che il Regolamento sia promulgato dal Vescovo, per es. nel giorno mondiale di
preghiera per le vocazioni e che il Vescovo lo comunichi alla S. Sede (II,3).
b) Strumento per l’organizzazione della pastorale vocazionale è l’Opera delle vocazioni, a cui su-
bito ci si è riferiti nella Commissione. Poiché la pastorale delle vocazioni è un’azione alquanto com-
plessa, richiede una qualche organizzazione. Negli ultimi due secoli già nella maggior parte delle
diocesi era stata istituita l’opera delle vocazioni, quando Pio XII eresse la Pontificia opera per le vo-
cazioni sacerdotali (M. p. Cum nobis, 4. 11. 1941, in AAS 33, 1941, 479; Statuta et normae exsecu-
tivae, in AAS 35, 1943, 369-373).
OT 2d. e dispone che le Opere delle vocazioni già erette o da erigersi nelle singole diocesi, re-
gioni o nazioni, a norma delle direttive pontificie, debbono dirigere in maniera metodica e armonica
tutta l’azione pastorale per le vocazioni, usando tutti i mezzi necessari e utili, tenendo conto anche
delle vocazioni religiose e non solo del bene della Chiesa particolare, ma anche di quello della Chie-
sa universale. Riprenderemo questo punto quando tratteremo dell’incardinazione.
Il Regolamento diocesano, allora, deve adempiere quanto disposto dal Concilio:
- se l’Opera delle vocazioni ancora non ci fosse, dovrà essere istituita;
- se già ci fosse, dovrà essere rinnovata secondo la mente del Concilio;
- devono essere determinate le funzioni di coloro che, scelti dal Vescovo, sono preposti
all’Opera;
- l’Opera come tale deve avere la funzione di moderare l’azione pastorale per le vocazioni e pre-
parare gli aiuti necessari allo svolgimento di essa. Deve, allora, rendere efficace il Regolamento dio-
cesano anche nelle parrocchie, in un’azione unita tra il clero diocesano e membri di Istituti di vita
consacrata (Lett. circ. III,3. 4).
Secondo PDV 41, il Vescovo deve tener presenti i gruppi vocazionali, i movimenti ecclesiali e le
altre associazioni di fedeli, in cui germogliano e maturano vocazioni al ministero sacro.

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c) Altri mezzi per favorire le vocazioni, secondo la Lett. circ. del 1978 (III,3. 1-3) sono: innanzi-
tutto la preghiera e la penitenza, poi una migliore formazione dei fedeli, sia attraverso la predicazio-
ne e la catechesi sia attraverso la scuola e i mezzi di comunicazione sociale, con i quali mettere in
luce la necessità, la natura e l’importanza della vocazione sacerdotale nella Chiesa (OT 2d; RFIS 5-
10).

3) La formazione dei chierici


a) Autorità competente
Il c. 232 enuncia il dovere e diritto proprio ed esclusivo di formare coloro che sono destinati ai
ministeri sacri. Fonte del canone è il c. 1352 CIC 1917, dove, tuttavia, veniva affermato solo il dirit-
to proprio ed esclusivo della Chiesa, ma non il suo dovere. Il canone, come affermava chiaramente
il Segretario della Commissione di riforma del Codice, voleva escludere ogni rivendicazione della
società civile circa la formazione del clero. Anche nell’attuale c. 232 si afferma questo diritto con lo
stesso intento, ma innanzitutto viene affermato il dovere della Chiesa, che si pone all’interno di essa
stessa.
Autorità competente sono innanzitutto la S. Sede per tutti i chierici; la Conferenza episcopale e i
singoli Vescovi per i loro sudditi; i Moderatori degli istituti di vita consacrata e delle società di vita
apostolica, a norma delle Costituzioni, per i membri dei propri istituti e società. Su queste compe-
tenze, come affermazione di principio, tutti i membri del gruppo di studio in seno alla Commissio-
ne si trovarono d’accordo fin dall’inizio. Fin dalla prima stesura di questa parte del Codice fu for-
mulato un canone che le stabiliva dettagliatamente nel modo sopra enunciato. Su questo punto nel-
lo schema 1977 si trovava il c. 83, il quale, però sparì nello schema 1980, in quanto tali competenze
furono ritenute ovvie e stabilite in altre parte parti del Codice. Comunque si insistette che non ve-
nisse attribuita alle Conferenze Episcopali una competenza generica, che sarebbe risultata troppo
ampia.
Per questo non possiamo interpretare il canone nel senso di una riserva della formazione dei
ministri sacri al carisma del vescovo diocesano, senza alcuna distinzione, come fa qualche autore,
tuttavia nei canoni che seguono il Codice tratta di fatto solo della responsabilità del Vescovo dioce-
sano. Infatti, anche se il Codice, in questo titolo III tratti dei ministri sacri in genere, dobbiamo os-
servare che di fatto si riferisce in modo prevalente ai chierici diocesani. Così anche la Pastore dabo
vobis.
Da questo non dobbiamo essere tratti nell’errore di considerare in modo univoco il ministero
sacro, identificandolo semplicemente con il ministero sacro diocesano, in quanto nella Chiesa uno è
il ministero sacro istituito da Cristo, che è esercitato in modo differente o nella diocesi o negli istitu-
ti religiosi o nelle società di vita apostolica, cioè secondo carismi diversi. Il che è indirettamente ri-
conosciuto nei cc. 659,§§2,3 dove si afferma che la formazione dei membri che negli istituti religiosi
sono chiamati al ministero sacro, è regolata sia dal diritto universale, cioè dai cc. 232-234, sia dal
proprio Regolamento di formazione e degli studi. Ciò è affermato nel contesto della formazione
generale che i membri di un Istituto debbono ricevere a norma del diritto proprio (cc. 659-661). La
RFIS 2 stabilisce che i piani di formazione degli istituti religiosi dovranno conformarsi a quanto
stabilito nella stessa RFIS, ma con i dovuti adattamenti. Adattamenti che sono richiesti al piano di
formazione generale dell’Istituto, conforme al carisma proprio.
Riguardo ai membri delle società di vita apostolica, il c. 736,§2 stabilisce che per i piano di studi
si seguano le norma previste per i chierici secolari, ma il c. 735,§§1,3 riconosce una competenza ge-
nerale della Società di formare spiritualmente e pastoralmente i propri membri, quindi anche quelli

10
CORSO DI FORMATORI

assumeranno il ministero sacro. E’ evidente che i membri degli Istituti secolari sottostanno comple-
tamente al diritto universale.
I problemi che si pongono riguardo ai movimenti ecclesiali o altri tipi di associazioni che hanno
un buon numero di candidati agli ordini sacri, i quali, però, hanno talvolta difficoltà di integrazione
in un seminario diocesano o interdiocesano, li affronteremo quando parleremo in modo specifico
dei seminari e anche dell’incardinazione.

4) I seminari
Elementi storici
A Roma fin dal sec. IV esisteva una “Schola lectorum” per la formazione di coloro che erano
chiamati al ministero sacro. Nel Medio Evo queste scuole si trovavano non solo presso i parroci,
ma anche presso i vescovi e i monasteri. Nel Decreto di Graziano si trovano testimonianze che già
dal sec. IV c’era la consuetudine di scegliere i ministri sacri tra i giovani riuniti presso le chiese e che
prima dell’ordinazione dovevano conoscere la S. Scrittura e i Concili.
Il Conc. Toletano IV (633) stabilì l’internato con una sua disciplina e sotto la direzione di un ec-
clesiastico. Il Conc. Lateranense III (1179), c. 18, stabilì la gratuità dell’insegnamento dei chierici e
degli alunni poveri presso le chiese cattedrali. Il Conc. Lateranense IV (1215), cost. 11, estese tale
disposizione a tutte le chiese che avessero i mezzi sufficienti, e aggiunse che le Chiese metropolitane
istituissero un teologo, che insegnasse la S. Scrittura ai chierici e li formasse al ministero pastorale.
Dal sec. XIII, per la formazione dei chierici, assunsero grande importanza le università, ma, data
la decadenza progressiva delle scuole e dei collegi presso le chiese e le università, convocato il Con-
cilio di Trento, la prima preoccupazione di Paolo III fu di attuare una riforma del clero e di proibire
l’ammissione agli ordini sacri di chierici ignoranti e viziosi. Già prima del Concilio di Trento i gesui-
ti, tra il 1548 e il 1562, fondarono molti collegi, che possono essere considerati una forma precorri-
trice dei seminari, tra i quali eminenti a Roma il Collegio Romano (1552) e il Collegio Germanico
(1552). La stessa cosa fece il Card. Pole con il Decr. XI della sua Reformatio Angliae. Basandosi su
questi esperimenti, il Conc. di Trento istituì i seminari, senza distinguere terminologicamente tra
maggiori e minori, come luogo in cui direttamente gli alunni di qualsiasi età, dai dodici anni in su,
fossero preparati al sacerdozio.
Il CIC 1917, sulla base del Concilio di Trento, stabiliva l’istituzione obbligatoria in ogni diocesi
del seminario minore e di quello maggiore, distinguendo tra i due.
Il seminario minore
OT 3a dà il fine dell’erezione dei seminari minori e delinea i mezzi adatti per conseguire tale fine,
tuttavia non parla della necessità della loro istituzione, come OT 4a fa riguardo ai seminari maggio-
ri.
Lo scopo dei seminari minori è quello di coltivare i germi di vocazione.
I mezzi sono: una speciale formazione religiosa; un’appropriata direzione spirituale; una paterna
guida dei superiori; la cooperazione dei genitori. Inoltre, tutte le norme riguardanti il seminario
maggiore si debbono applicare anche al seminario minore, per quanto lo consentano le finalità e la
natura di questo.
OT 3b ammette anche l’esistenza di Istituti speciali che per le condizioni del luogo servono an-
che a perseguire i fini propri del seminario minore.
PDV 63 non dice niente di nuovo, quindi nella nostra esposizione ci basiamo sul CIC e sulla
RFIS.

11
CORSO DI FORMATORI

Il c. 234,§1 non stabilisce l’obbligo di erezione del seminario minore in ogni diocesi o in più dio-
cesi congiuntamente, ma ne raccomanda vivamente l’istituzione. Infatti il canone stabilisce in gene-
rale che si debbono favorire i seminari minori; quindi che, dove il seminario minore esiste, si deve
mantenere, dove non esiste, il Vescovo diocesano, se lo ritiene opportuno deve provvedere alla sua
erezione.
Dall’iter di formazione del canone è da notare il passaggio da un’impostazione più liberale, se-
condo al quale i seminari minori si sarebbero potuti esigere o conservare se fossero apparsi utili, ad
una disciplina meno liberale del canone attuale, sotto l’influsso della Congr. per l’Ed. Catt. che spin-
geva ad un’affermazione più vigorosa circa l’erezione dei seminari minori, visti gli effetti negativi
dalle soppressine di essi in varie parti del mondo, sulla base di una falsa interpretazione del Conci-
lio. Espressamente la Relatio per la Plenaria 1981 che nel canone si stabilisce che i seminari minori
debbono essere favoriti, perché la loro erezione è fortemente desiderabile, anche se non la si può
imporre.
Secondo quanto si trova in OT 3b, il canone assimila al seminario minore altri istituti, così che
per il perseguimento dei fini delineati nel canone, non si considera necessaria la struttura del semi-
nario minore inteso in senso proprio. Tali istituti sono collegi o scuole nelle quali, insieme alle altre
vocazioni, vengono coltivati anche i germi di vocazione sacerdotale. RFIS 18 stabilisce che per tali
istituti vengano date norme simili a quelle per la formazione nei seminari minori.
Secondo il canone il fine primario del seminario minore è quello di incrementare le vocazioni.
Tale fine viene perseguito per mezzo di una peculiare formazione religiosa, insieme a quella umani-
stica e scientifica. Nel §2, facendo suo ciò che prevedeva OT 3a, si dispone che, salvo eccezioni, la
formazione umanistica e scientifica dev’essere uguale a quella che i giovani della regione ricevono
come preparazione agli studi superiori. Questo per dare una vera libertà di scelta ai giovani in ordi-
ne alla vocazione.
In modo più ampio la RFIS 11 dà come fine dei seminario minore quello di aiutare gli adole-
scenti che sembrano possedere germi di vocazione, a riconoscerla più facilmente e a corrispondevi.
La stessa Congr. Ed. Catt. il 7. 6. 1976 rendeva pubblica una Nota sui seminari minori (EV
5/2054-2064), si diceva che ogni equivoco circa la natura e lo scopo del seminario minore viene
evitato, se rimane chiaro che il seminario non viene eretto per coltivare vocazioni già certe, in quan-
to la stessa età degli alunni non permette questa certezza, ma perché i responsabili prendano in con-
siderazione i segni di possibili vocazioni sacerdotali. Tenendo presente questo, verranno in modo
più appropriato ed efficace stabilite le condizioni di ammissione al seminario e la disciplina di vita
all’interno di esso. Infatti debbono essere ammessi nel seminario minore solo gli adolescenti che,
insieme ai loro genitori, formalmente ammettono la possibilità di una vocazione divina al sacerdo-
zio, sebbene i segni di essa possano essere più o meno chiari e la volontà di accedere al sacerdozio
più o meno espressa.
Secondo RFIS 13 è attentamente da evitare tutto ciò che possa in qualsiasi modo diminuire la li-
bertà nella scelta dello stato di vita. Questo considerando che tra gli alunni alcuni possono aperta-
mente già guardare al sacerdozio, altri che lo ammettono solo come una possibilità, altri, infine, che
pur essendo piuttosto esitanti e dubbiosi circa la vocazione, tuttavia, avendo le doti necessarie, non
escludono ogni possibilità che un giorno possano giungere al sacerdozio. Se riguardo a qualche
alunno svanisce ogni speranza che possa giungere al sacerdozio, egli dev’essere dimesso dal semina-
rio. Infatti, se fossero ammessi o trattenuti alunni che non danno alcuna speranza di vocazione al
sacerdozio, il seminario minore non potrebbe perseguire il suo scopo e verrebbe rovinato.

12
CORSO DI FORMATORI

Dato che la vocazione si basa su peculiari doti naturali, gli alunni dovranno essere esaminati ac-
curatamente circa le loro famiglie, le loro qualità fisiche, psichiche, morali e intellettuali, in modo
che i responsabili possano tempestivamente formarsi un giudizio circa la loro idoneità. Infatti, se
una qualche qualità fondamentale manca, si deve dubitare che la vocazione divina ci sia veramente
(RFIS 11).
Nello schema 1977, nonostante i dubbi fin dall’inizio espressi nel gruppo di studio, il c. 85,§2
prevedeva la possibilità dell’ammissione nel seminario minore o in un istituto simile, se la Confe-
renza Episcopale lo avesse giudicato utile, di giovani virtuosi, sebbene non si sentissero chiamati al
ministero sacro. Tuttavia, dopo un’ampia consultazione su questo punto, sulla base della richiesta di
molti Vescovi, la Congr. Ed. Catt. suggeriva che questo paragrafo fosse soppresso, in quanto la fi-
gura del seminario minore rimaneva completamente svuotata e così già nello schema 1980 il para-
grafo in questione non si trova più. Il Relatore alla Plenaria 1981, alla richiesta di rintroduzione del
paragrafo, così rispondeva: “Quod proponitur (l’ammissione di coloro che non pensano di essere
chiamati al sacro ministero) modo tantum exceptionali fieri potest, si adiuncta id revera sinant”.
Queste parole non possono essere interpretate nel senso che il canone implicitamente ammetta ciò
che è stato soppresso; il che non esclude la possibilità di eccezioni per casi particolari. Inoltre, RFIS
11 sembra escludere tale ammissione, in quanto il fine proprio del seminario minore è quello di
“aiutare gli adolescenti che sembrano avere germi di vocazione, perché più facilmente riconoscano
la loro vocazione e siano capaci di corrispondervi”.
Tuttavia, si deve tener presente che tale esclusione riguarda solo i seminari minori e non gli isti-
tuti ad essi assimilati, in quanto, come abbiamo visto, la stessa RFIS 18 dice che in questi ultimi i
germi di vocazione sacerdotale vengono coltivati insieme ad altre vocazioni.
Nel seminario minore gli alunni debbono innanzitutto vivere più pienamente la loro consacra-
zione battesimale, progredire nello spirito apostolico e crescere in una disposizione d’animo che
faccia loro percepire la vocazione come un dono e accettarla liberamente, qualora sopravvenga
l’approvazione della legittima autorità (RFIS 11). Il che può essere ottenuto innanzitutto attraverso
una valida formazione spirituale, che si ha con una valida guida spirituale, che aiuti gli alunni a svi-
luppare armonicamente tutte le loro qualità fisiche, morali, intellettuali e affettive; con la vita liturgi-
ca, gli esercizi di pietà e la vita sacramentale (RFIS 14). Inoltre al raggiungimento dello scopo della
formazione contribuiscono sia i dovuti rapporti con le famiglie e i coetanei, che facilitano un sano
sviluppo psicologico, specialmente affettivo, sia una confidenza familiare con i superiori la fraterna
amicizia tra gli alunni (RFIS 13). Su tutto questo il Regolamento del seminario deve contenere nor-
me specifiche.
Secondo RFIS 17 gli studi sono da farsi nelle scuole proprie del seminario o, se il Vescovo per
particolari circostanze lo giudichi meglio e prudentemente attuabile, anche in scuole cattoliche o al-
tre scuole. E’ evidente che il criterio fondamentale di giudizio del Vescovo dev’essere che non ne
venga un danno alla formazione integrale degli alunni.
Il seminario maggiore
I) OBBLIGATORIETÀ
Come abbiamo detto, OT 4a afferma che i seminari maggiori sono necessari per la formazione
sacerdotale, la quale deve tendere a formare veri pastori di anime, cioè all’esercizio del ministro della
parola, del culto e della santificazione, e di conduzione della comunità cristiana. PDV riafferma la
necessità del seminario maggiore come comunità formativa nel suo complesso.

13
CORSO DI FORMATORI

Il c. 235,§1, come si può eruere dal lavoro della commissione, esige la formazione in seminario
per tutto il tempo stabilito, come via normale per giungere al sacerdozio. Eccezionalmente, se a
giudizio del Vescovo diocesano le circostanze lo richiedono, almeno per quattro anni. E’ evidente
che dal Vescovo diocesano dev’essere data una licenza espressa.
Allora, il canone non stabilisce l’obbligo assoluto della dimora nel seminario per tutto il tempo
della formazione, ma l’obbligo che la formazione avvenga in seminario. Di regola la formazione ri-
chiede la dimora nel seminario, ma non necessariamente. Per cui, chi eccezionalmente dimorasse in
modo legittimo fuori del seminario, secondo il §2 dello stesso canone, dev’essere dal Vescovo dio-
cesano affidato ad un sacerdote pio e idoneo, che abbia cura che sia debitamente formato alla vita
spirituale e alla disciplina. Il canone parla solo di vita spirituale e di disciplina, non esplicitamente
degli studi, che i candidati al sacerdozio debbono compiere o nel seminario o in qualche Facoltà o
Università ecclesiastica, in quanto la vigilanza sulla disciplina comprende quella sugli studi. Va detto
che la figura de questo sacerdote non va confusa con quella del “moderator vitae spiritualis” di cui
al c. 246,§4, di cui tratteremo più avanti, in quanto il sacerdote di cui al c. 235,§2 fa in un certo mo-
do le veci del rettore del seminario. Il canone dice che deve vigilare (“invigilet”) che sia debitamente
formato alla vita spirituale e non che cura la vita spirituale. E’ una figura che svolge il suo ufficio nel
foro esterno.
Affinché si possa avere la formazione in un seminario il c. 237,§1, sulla base di OT 7a, stabilisce
che nelle singole diocesi ci sia un seminario maggiore, se ciò risulta possibile e opportuno, altrimenti
gli alunni siano affidati ad un altro seminario oppure venga eretto un seminario interdiocesano, che
può essere regionale, centrale o nazionale.
A norma del c. 237,§2 autorità competente per l’erezione di un seminario interdiocesano è la
Conferenza dei Vescovi, se si tratta di un seminario per tutto il territorio di quest’ultima, altrimenti
sono i Vescovi interessati. Tuttavia, in ottemperanza a quanto già stabilito da OT 7a, prima dell’ere-
zione si richiede l’approvazione della S. Sede sia dell’erezione che degli statuti. Infatti un seminario
interdiocesano può essere eretto solo se ciò si rende necessario per le circostanze particolari delle
diocesi, cioè se i seminari diocesani non avrebbero o un numero sufficiente di alunni, o dei respon-
sabili ben preparati per svolgere la loro funzione, o professori sufficienti per numero e qualità, o
una sede adatta, una biblioteca ecc. La S. Sede deve dare il suo giudizio su tali circostanze.
Se per le particolari circostanze locali la stessa erezione di un seminario interdiocesano non por-
tasse alla soluzione di tali problemi, si richiede una fraterna collaborazione tra clero diocesano e cle-
ro religioso, affinché, con l’unione dei mezzi e delle forze, fatti giustamente salvi i diritti e gli obbli-
ghi dell’uno e dell’altro clero, si possano più facilmente costituire idonei centri di studi ecclesiastici,
frequentati dagli alunni dei due cleri, i quali, però, riceveranno la propria formazione spirituale e pa-
storale nelle rispettive case (RFIS 21). Quest’ultimo punto è importante, in quanto non sono risulta-
ti positivi gli esperimenti dove gli alunni del clero diocesano e quelli di vari istituti religiosi hanno
dimorato insieme, in quanto la formazione generica al ministero sacro ha portato alla perdita
dell’identità carismatica sia del clero diocesano che del clero religioso.
II) PERSONALITÀ GIURIDICA E RAPPRESENTANZA LEGALE
Secondo il c. 238, un seminari legittimamente eretto gode per il diritto stesso di personalità giu-
ridica nella Chiesa (§1) e il rettore lo rappresenta in tutti gli affari, a meno che per determinate que-
stioni l’autorità competente non abbia stabilito in modo diverso (§2).
Per la vita del seminario è essenziale ricevere la personalità giuridica canonica, in quanto molti
governi civili riconoscono la personalità giuridica solo a quegli istituti canonici che hanno tale per-
sonalità secondo lo stesso diritto canonico.

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CORSO DI FORMATORI

Il canone non fa distinzione, quindi vale per ogni tipo di seminario, minore o maggiore, diocesa-
no o interdiocesano. E’ da tener presente, però, che sono legittimamente eretti soltanto i seminari
interdiocesani approvati dalla S. Sede, quindi i seminari interdiocesano che non hanno tale approva-
zione sono illegittimamente eretti e di conseguenza non godono di personalità giuridica. Di per sé,
senza l’approvazione della S. Sede, l’atto di erezione del seminario interdiocesano è valido, ma, dato
che a causa dell’illegittimità dell’atto il seminario non riceve personalità giuridica, è come se esso
non esistesse perché come tale non potrebbe agire nell’ordinamento giuridico canonico e in molti
parti anche in quello civile.
III) ESENZIONE DALLA GIURISDIZIONE DEL PARROCO
Il c. 262 dichiara che il seminario è esente dalla giurisdizione parrocchiale.
Il seminario, di qualsiasi genere, è sottratto alla giurisdizione del parroco per la legge stessa, cioè
per lo stesso diritto comune, purché, si intende, esso sia stato legittimamente eretto.
La potestà del rettore è ordinaria, in quanto annessa al suo ufficio, e, specifica il canone, può es-
sere delegata. E’ cumulativa con la giurisdizione del parroco, in quanto il parroco può validamente
esercitare la sua potestà riguardo a tutti coloro che si trovano nel seminario posto entro il suo terri-
torio, ma di per sé non lecitamente, senza la licenza del rettore del seminario o di un suo delegato.
Si tratta di un’esenzione personale-territoriale, in quanto riguarda tutte le persone che si trovano
nel seminario, sia quelle che abitualmente dimorano giorno e notte entro le mura del seminario (ret-
tore, professori, confessori, economo, direttore spirituale, alunni interni, domestici, religiose che
prestassero servizio nel seminario, ecc. ) sia quelle che actu si trovano nel seminario, come gli alunni
esterni quando si trovano nel seminario, o altre persone che ad altro titolo actu si trovano nel semi-
nario. Quindi l’esenzione riguarda le persone in quanto si trovano in relazione al seminario. Tutta-
via, il seminario di per sé rimane territorio della parrocchia in cui si trova, per questo la potestà è
cumulativa e i parroco, secondo il c. 262, mantiene la sua competenza esclusiva riguardo alla cele-
brazione dei matrimoni.
In forza di questa esenzione il rettore o un suo delegato può amministrare alle persone che si
trovano nel seminario, tutti i sacramenti elencati nel c. 530, rimanendo riservata al parroco la mate-
ria matrimoniale, così che il rettore, a meno che non sia stato delegato dal parroco per la celebra-
zione di un matrimonio, non può, come assistente qualificato prendere il posto del parroco.
Secondo il c. 985, richiamato dal c. 262, il rettore del seminario non può udire le confessioni dei
suoi alunni che dimorano nella stessa casa, a meno che gli alunni in casi particolari non lo chiedano
spontaneamente. Nonostante questa prescrizione che lascia una possibilità, sarebbe meglio che il
rettore non udisse mai la confessioni dei suoi alunni, se non in caso di necessità, in quanto il sigillo
sacramentale potrebbe essere un impedimento al suo governo.
Il rettore, può anche dispensare dei voti provati o commutarli (c. 1196, 1; 1197), può dispensare
dalla legge di osservare i giorni festivi o di penitenza oppure può concedere la commutazione in al-
tra opera pia (c. 1245), può celebrare i funerali (c. 530,5) si coloro che sono morti nel seminario
(cf. c. 1177,§3).
E’ da tener presente che il rettore del seminario non è tenuto agli obblighi propri del parroco,
come, per es. , quello di applicare la Messa per il popolo.
Secondo gli autori, anche la villa dipendente dal seminario, deve considerarsi esente dalla giuridi-
zione del parroco del luogo in cui si trova

15
CORSO DI FORMATORI

IV) NORME CHE REGOLANO LA VITA DEL SEMINARIO


Il c. 242,§1 stabilisce che ogni nazione abbia una Ratio di formazione sacerdotale (RFSN), ema-
nata dalla Conferenza episcopale, la quale dev’essere approvata dalla S. Sede.
Secondo RFIS 1 la RFSN viene dapprima approvata ad experimentum dalla Congr. Ed. Catt. , in
modo che se nel tempo dell’esperimento sorgesse l’urgente necessità di una revisione di essa, non si
escludono mutamenti, ma la S. Sede ne deve essere tempestivamente avvertita. Tuttavia, prima della
scadenza del tempo ad experimentum, la Ratio, alla luce dell’esperienza fatta, verrà riveduta dalla
Conferenza Episcopale e dovrà essere di nuovo sottoposta all’approvazione della S. Sede. Questa
revisione verrà fatta con l’aiuto della Commissione episcopale per i seminari oppure della Commis-
sione o Segretariato, cui è affidata la cura dei seminari, così come anche di commissioni tecniche di
esperti o di singoli esperti. Queste commissioni furono caldamente raccomandate dal Sinodo dei
vescovi del 1967 e la loro composizione, funzione e competenza devono essere determinate dalla
Conferenza dei Vescovi.
La Ratio, secondo il giudizio della Conferenza episcopale, dev’essere adattata nel tempo alle
nuove situazioni, e necessita sempre dell’approvazione della S. Sede.
In questa Ratio, dice il c. 242,§§1,2, debbono essere definiti i principi essenziali e le norme gene-
rali della formazione seminaristica, che, adattate alle necessità pastorali di ogni regione e provincia,
debbono essere osservate i tutti i seminari, sia diocesani che interdiocesani, compresi nel territorio
della Conferenza.
Ogni seminario, poi, a norma del c. 243, deve avere una propria Ordinatio (regolamento), con
cui le norme della RFSN vengano adattate alle situazioni particolari e vengano determinate più pre-
cisamente soprattutto le questioni disciplinari che riguardano la vita quotidiana degli alunni e il
buon ordine del seminario. E’ da tener presente che le norme disciplinari riguardanti sia la vita co-
mune che la vita dei singoli non possono essere uguali per tutti gli anni di corso degli alunni, in
quanto man mano che la maturità e il senso di responsabilità personale di questi cresce, le norme
disciplinari debbono diminuire, in modo che gli alunni imparino ad autodisciplinarsi (RFIS 26).
Tale Regolamento dev’essere approvato dal Vescovo diocesano, o dai Vescovi interessati se si
tratta di un seminario interdiocesano.
Infine, il seminario è regolato dalla RFIS, sulla cui base le Conferenze Episcopali debbono redi-
gere la propria Ratio. Del suo valore giuridico abbiamo già trattato.
f) Formazione degli alunni in seminario
I) AMMISSIONE IN SEMINARIO
Requisiti personali
Il c. 241,§1 stabilisce che competente per l’ammissione in seminario è il Vescovo diocesano e of-
fre i criteri di giudizio circa l’idoneità personale, in ordine all’ammissione (RFIS 39).
Tali criteri sono:
- le doti umane e morali: sincerità, maturità affettiva, buona educazione, fedeltà agli impegni pre-
si (difficoltà attuali: divorzio), senso della giustizia, senso dell’amicizia, senso di responsabilità, tem-
peramento industrioso e attivo, capacità di cooperare con gli altri, fermezza di volontà , ecc. ;
- doti spirituali, come, amore a Dio e al prossimo, senso di fraternità e di abnegazione, docilità,
provata castità, conoscenza abbastanza ampia della dottrina della fede e senso della fede e della
Chiesa, sollecitudine apostolica e missionaria, ecc. ;

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CORSO DI FORMATORI

- doti intellettuali, retto e sano giudizio, intelligenza sufficiente per affrontare gli studi ecclesiasti-
ci, retta nozione del sacerdozio e delle sue condizioni, ecc;
- salute fisica e psichica, che dev’essere attestata, se necessario, da medici e psicologi, tenendo
conto delle eventuali eredità familiari (per es. alcoolismo), fatto salvo il diritto alla tutela della pro-
pria intimità sancito dal c. 220 (RFIS 39). Il c. 241,§1 non richiama espressamente il c. 220, come lo
fa il c. 642 riguardo all’ammissione in noviziato. Del modo di uso dei mezzi di indagine psicologica
tratteremo più avanti;
- retta intenzione e libera volontà (cf. OT 6a): retta volontà di servire solo Dio e la Chiesa e li-
bertà da ogni coazione sia fisica che psicologica.
Fondandosi su questi elementi, il Vescovo diocesano deve giudicare se il candidato potrà essere
capace di dedicarsi per sempre al ministero sacro e se avrà la capacità di assumersi gli oneri sacerdo-
tali e di esercitare gli uffici pastorali (OT 6a).
Il vescovo potrà essere aiutato nel formare il suo giudizio dall’istituzione di quel periodo prope-
deutico auspicato da PDV 62, per provvedere a tutte quelle carenze che nei candidati si presentasse-
ro nella preparazione umana, cristiana, intellettuale e spirituale. Date le diverse condizioni sociali e
religiose delle varie parti del mondo, il tempo, il luogo, la forma e i contenuti di questo periodo do-
vranno essere determinati nella RFSN e nel regolamento di ogni seminario. La Congr. Ed. Cattolica
ha inviato ai vescovi e agli educatori un documento informativo dal titolo Il periodo propedeutico
sulle diverse attuazioni di esso in varie parti del mondo, preparato sulla base dei dati forniti dalle
Conferenze Episcopali, dalle RISN, dalle relazioni delle visite apostoliche e da altre fonti. Il docu-
mento porta la data dell’1 maggio 1998.
In alcune parti si è cercato di colmare le lacune dei candidati al seminario con un potenziamento
della preparazione umana e spirituale, all’interno del sessennio filosofico-teologico, durante il primo
anno di seminario, nel quadro del corso introduttivo al mistero di Cristo, già previsto da OT 14b e
da RFIS 61-62 (Introd. ; I). L’aspetto debole di questo metodo è che ne viene a soffrire lo studio
della filosofia (III. 4).
In altre nazioni si è invece introdotto un vero e proprio periodo propedeutico, previo al semina-
rio maggiore. La Congr. Ed. Catt. aveva auspicato questo periodo distinto nella sua Lett. The do-
cument del 6. 1. 1980. Questo periodo viene generalmente inteso come un periodo piuttosto pro-
lungato, da sei mesi a due anni, trascorso in una sede separata del seminario (III. 3), di dicernimento
vocazionale e di maturazione umana, spirituale e comunitaria, nonché di completamento della base
culturale necessaria per gli studi fiolosofico-teologici (II. 1).
In altri luoghi il periodo propedeutico è stato integrato nel seminario maggiore o minore, pre-
vendo un anno aggiuntivo che precede il biennio folosofico (II. 2).
In altri ancora la preparazione maggiore avviene lenn’ambito della pastorale vocazionale (Introd.
; II. 3).
Le conclusioni, a mo’ di riassunto, che la Congregazione trae sono le seguenti:
- prima del periodo propedeutico è necessario un congruo periodo di accompagnamento da par-
te degli operatori vocazionali;
- il periodo propedeuti dev’essere distinto sia dal seminario minore che da quello paggiore, costi-
tuendo un’istituzione imntermedia;
- all’inizio del sessennio nel seminario maggiore deve continuare ad eserci il corso introduttivo,
di cui parleremo più avanti (III. 4);

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CORSO DI FORMATORI

- per coloro che vengono da gruppi o movimenti poco radicati nella realtà diocesana , dovrà es-
sere accentuato l’aseptto di comunione con il proprio Vescovo, il presbiterio e la Cjiesa particolare
(III. 5).
Requisiti documentali
Il c. 241,§2 richiede che prima dell’ammissione, i candidati debbono presentare i certificati di
battesimo e di confermazione e tutti gli altri documenti che fossero richiesti dalla RFSN.
Il §3 prevede il caso di chi fosse stato dimesso da altro seminario o da un istituto religioso. Prima
dell’ammissione è richiesta una dichiarazione del rispettivo superiore, soprattutto circa le cause della
dimissione o dell’uscita. La RFIS 39 stabilisce un obbligo grave del Vescovo di indagare su tali cau-
se. Si può notare che il contesto di tale obbligo è quello dell’eventuale opportunità di indagine circa
la salute fisica e psicologica, ricorrendo anche a medici e psicologi, e della considerazione delle
eventuali eredità familiari. La Congr. Ed. Catt. , con la Lett. circ. Ci permettiamo del 9. 10. 1986
(prot. 575/ 83) ha ribadito quest’obbligo del Vescovo (EV 10/949-952).
i) Fine della formazione
Il fine della formazione sacerdotale si basa sulla nozione di sacerdozio cattolico, quale ci viene
dalla rivelazione e dalla costante tradizione della Chiesa, esplicitata dal magistero ecclesiastico. La
PDV mostra questo attraverso la sua stessa struttura: i primi tre capitoli sono sulla natura del sacer-
dozio e la missione del sacerdote, il quarto è sulla vocazione sacerdotale e solo il quinto è stretta-
mente sulla formazione al ministero.
Il ministro sacro con l’imposizione delle mani è innanzitutto consacrato da Dio al ministero
(consacrazione divina sacramentale) affinché, come dice il c. 241,§1, si consacri a Dio nel ministero
stesso in perpetuo (consacrazione soggettiva). Tuttavia la perpetuità della consacrazione soggettiva
si basa sulla perpetuità della consacrazione divina, che è indicata dal carattere sacramentale (PO 2c;
c. 1008). La consacrazione ministeriale tocca la persona nel suo essere e comporta un mutamento
ontologico rispetto alla consacrazione battesimale, in quanto il sacerdozio comune dei fedeli e il sa-
cerdozio ministeriale o gerarchico differiscono tra loro non solo di grado ma di essenza (LG 10b).
Con consacrazione sacramentale il chierico entra nello stato clericale con obblighi e diritti propri
(consacrazione oggettiva), per svolgere le funzioni proprie del ministero (consacrazione funzionale).
La peculiare configurazione a Cristo sacerdote, maestro e pastore consacra i ministri sacri, ciascuno
secondo il suo grado, alle funzioni di santificare, insegnare e governare (LG 28a; c. 1008).
In tutti gli atti ministeriali compiuti da un ministro sacro agisce sempre Cristo per il bene della
Chiesa, ance se in modo diverso a seconda che si tratti di atti sacramentali o no. Tuttavia, sebbene
sia vero che il ministro sia uno strumento dell’azione salvifica dei Cristo, la cooperazione tra il mini-
stro e Cristo non può essere solo strumentale, in quanto il ministro è e rimane un uomo con una
propria libera volontà. Il ministro, consapevole del valore e della dignità degli atti che compie,
dev’essere degno delle funzioni che esercita e quindi adempierle degnamente e fedelmente, osser-
vando gli obblighi che assume con lo stato clericale. L’adempimento fedele e degno delle funzioni
sacerdotali dev’essere considerata come la risposta personale alla consacrazione ricevuta come dono
da Dio. Il ministro sacro deve consacrarsi a Dio e al suo popolo nell’esercizio stesso del suo mini-
stero, fino al sacrificio della vita (PO 13a). Il servizio agli altri è il contenuto della consacrazione e
della santità del ministro sacro (PO 12b; c. 276,§2,1).
Per questo la formazione in seminario deve tendere a formare presbiteri capaci di annunciare la
parola di Dio, di santificare il popolo di Dio e ad essere sua guide pastorali. Allora, perché i ministri
possano fedelmente e degnamente adempiere queste funzioni debbono essere formati ad una vita

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santa nell’adempimento di tutti gli obblighi che sorgono dalla condizione clericale e che trovano
alimento nello stesso ministero sacro (cc. 273-289).
Già in forza della consacrazione battesimale, il ministero sacro, come ogni altro fedele, è tenuto
a vivere secondo lo spirito delle beatitudini, quindi a condurre una vita santa (c. 210); ma, in forza
della consacrazione ministeriale, è tenuto, eccezion fatta per i diaconi permanenti coniugati,
all’osservanza del consigli evangelici, proprio per il più fedele e degno esercizio del ministero, in cui
attua la sua consacrazione personale, come risposta al dono d’amore ricevuto da Dio Padre. Infatti,
il ministero di per se stesso esige un’assimilazione del cuore e della mente a Cristo (Fil 2,5-11), che è
l’autore principale degli atti ministeriali che il ministro compie. Il ministro sacro è chiamato ad un
titolo peculiare a partecipare al mistero pasquale di Cristo, il quale mistero è reso presente dal mini-
stro nell’offerta eucaristica che fa a nome di tutto il popolo di Dio.
Segno di questa peculiare configurazione a Cristo è l’obbedienza ai superiori, il celibato per il
Regno dei cieli, una vita austera senza ricchezze ed onori, in vista di un maggior servizio di Dio e
della Chiesa (PDV 27-30). In virtù della sua consacrazione personale, come risposta alla consacra-
zione che di lui ha fatto Dio, si ha il consapevole inserimento del ministro sacro nel mistero pasqua-
le, quindi nel sacrificio eucaristico, attuando nella vita quello che fa sull’altare (PO 13; 14).
Vivendo lo spirito delle beatitudini nell’esercizio del suo ministero, il ministro sacro consegue la
perfezione della carità e rende a Dio il vero culto. Il culto vero e perfetto è reso a Dio Padre solo da
Cristo, il cui sacrificio viene rinnovato sull’altare dal ministro, che rende a Dio il vero culto consa-
crandogli la vita per la salvezza dei fratelli. Come Cristo rende al Padre il culto perfetto nell’offerta
della sua vita, così anche il ministro sacro rende il culto vero a Dio nell’offerta della sua vita. Il mini-
stro sacro vive la dimensione di offerta della vita propria del sacerdozio comune, proprio attraverso
il fedele esercizio del suo ministero. In questo modo il ministro diventa testimone della croce di
Cristo e segno vivo del mondo futuro (PO 16b). Infatti, Cristo consumò sulla croce la sua castità
verginale come amore universale, in modo radicale e perfetto; sulla croce Cristo aderì, obbediente,
alla volontà del Padre in somma povertà e umiltà.
Perché questo possa essere raggiunto, il c. 244 dice che gli alunni del seminario debbono essere
formati a stabilire uno stretto rapporto con Cristo, il c. 246,§1 a partecipare alla stessa carità di Cri-
sto, il c. 245,§2 a nutrire un amore profondo per la Chiesa, in un legame di carità umile e filiale con
il Romano Pontefice, in un’unione di cooperazione col proprio Vescovo e di collaborazione con i
fratelli nel ministero (OT 8a; PO 3; 8; 9; RFIS 3; PDV 45; 46).
In questo modo, come dice la PDV 45, la formazione spirituale costituirà ciò che unifica e dà vi-
ta all’essere prete e al fare il prete, per cui la formazione spirituale è il fondamento della formazione
pastorale (c. 235,§1).
Importante è considerare il tempo di formazione come un tempo di prova, di maturazione e di
discernimento in relazione al fine concreto da raggiungere. Prova e maturazione del candidato agli
ordini sacri e di discernimento sia da parte di questi che da parte dei responsabili della sua forma-
zione e della sua ammissione agli stessi ordini. In questo processo è implicata la responsabilità sia
del candidato che dei formatori.
Purtroppo nel Codice questo aspetto, almeno espressamente, non emerge nella parte specifica
sulla formazione dei ministri sacri; nei canoni riguardanti il sacramento dell’ordine, piuttosto viene
preso in considerazione il giudizio del vescovo o del superiore competente circa le qualità esterna-
mente constatabili del candidato per l’ammissione agli ordini (c. 1029), ma niente si dice della re-
sponsabilità del candidato stesso. Anche il rito liturgico di ammissione (c. 1034,§ 1) e la ricezione
dei ministeri di lettore e accolito (c. 1035,§1), non appaiono come momenti di espressione respon-

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CORSO DI FORMATORI

sabile di una maturazione dinamica da parte del candidato. Data la povertà del Codice in queste par-
ti, esse debbono essere completate alla luce di canoni contenuti in altre parti e di altri documenti
della Chiesa.
Nella parte sulla formazione dei religiosi, è da notare, si parla espressamente, cosa che, come ab-
biamo visto, non viene fatto per quello che riguarda i ministri sacri, di vocazione divina, di cui i no-
vizi debbono prendere meglio coscienza, nella verifica della loro intenzione e della loro idoneità (c.
646); nello stesso tempo il maestro deve discerne e verificare l’autenticità della vocazione dei novizi,
mentre li forma gradatamente a vivere la vita di perfezione propria dell’istituto (c. 652,§1). In virtù,
poi, del senso di responsabilità che i novizi debbono avere, questi debbono collaborare con il mae-
stro per poter rispondere fedelmente alla grazia della vocazione divina (c. 652,§3). Questi principi,
dati per il noviziato, evidentemente valgono anche per il tempo di formazione che segue alla pro-
fessione temporanea, che dev’essere determinata secondo la Ratio propria dell’istituto (c. 659,§§1,2).
Il documento Potissimum institutionis in vari punti pone particolarmente in rilievo, per tutte le tappe
della formazione, la responsabilità personale del religioso in formazione e dei formatori riguardo al
discernimento circa l’autenticità della chiamata divina e la maturazione del religioso stesso (nn. 29;
30; 52; 53; 59; 63). Tutto, poi, va considerato alla luce del c. 630,§5, che raccomanda che i religiosi
instaurino un rapporto di fiducia e di dialogo con i superiori, così da poter palesare il proprio animo
con spontanea libertà. Il che è di fondamentale importanza dato che responsabili dell’ammissione
alla professione religiosa e agli ordini sacri sono i superiori maggiori (cc. 656,2; 657,§2; 658;
1019,§1; 1029). L’ammissione, infatti, non si deve ridurre ad un atto burocratico, ma dev’essere un
atto responsabile, frutto di un discernimento condotto dal superiore competente, sulla base di una
conoscenza personale e spirituale del suddito.
Questi elementi fondamentali che vengono codificati per la formazione dei religiosi, con i dovuti
adattamenti pratici, sono validi anche per la formazione nei seminari del clero secolare. A tali ele-
menti corrispondono, infatti, l’insegnamento e gli indirizzi della S. Sede.
Nel n. 61 dell’Es. ap. Pastores dabo vobis troviamo che “l’opera educativa, per sua natura, è
l’accompagnamento delle persone storiche concrete che camminano verso la scelta e l’adesione a
determinati ideali di vita”. “Proprio per questo - continua il documento - l’opera educativa deve sa-
per armonicamente conciliare la proposta chiara della meta da raggiungere, la richiesta di cammina-
re con serietà verso questa meta, l’attenzione al «viandante», ossia al soggetto concreto impegnato in
questa avventura, e dunque ad una serie di situazioni, di problemi, di difficoltà, di ritmi diversificati
di cammino e di crescita”. Nel n. 65, poi, come riprenderemo più diffusamente, viene ricordato che,
il vescovo, dato che deve autenticare la chiamata interiore dello Spirito, per rispondere alla respon-
sabilità formativa che ha nei confronti dei candidati al sacerdozio li deve visitare spesso in un modo
tale che “stia” con loro.
Tra i formatori e gli alunni, secondo la Ratio fundamentalis (n. 24), animati da una mutua fiducia, si
deve cercare in ogni modo di instaurare un autentico ed efficace dialogo, in modo che le decisioni,
che spettano per diritto ai superiori vengano prese dopo maturo esame del bene comune. Tra que-
ste decisioni è da comprendere tutto ciò che riguarda l’iter di formazione comune e personale dei
singoli alunni ed anche la decisione circa l’ammissione agli ordini sacri. Un debole riferimento alla
responsabilità degli alunni del seminario per quanto riguarda la disciplina si ha, come vedremo, nel
c. 239,§3.
Molto ricco è il n. 39 della Ratio fundamentalis. Riguardo alla responsabilità di un serio discerni-
mento da parte dei responsabili della formazione, esso chiede “un serio esame dei singoli giovani,
da compiersi con l’aiuto di esperti, durante tutto il periodo degli studi, perché si possa acquisire la
certezza della volontà di Dio in merito alla loro vocazione”. Per ciò che concerne la responsabilità

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CORSO DI FORMATORI

degli alunni nella “sincera ricerca della volontà di Dio - aggiunge il documento - si richieda volentie-
ri la compartecipazione degli stessi candidati in esame, per procurare più speditamente e con più si-
curezza il loro maggiore bene spirituale”. L’alunno si deve sentire personalmente responsabile da-
vanti a Dio e alla Chiesa del cammino di formazione che sta compiendo e soprattutto della libera
scelta che deve fare di abbracciare il ministero sacro, come risposta definitiva alla vocazione divina,
quindi come attuazione del valore supremo di fare la volontà di Dio. Per questa ragione nel n. 40 la
Ratio stabilisce che “periodicamente, e con l’aiuto degli stessi alunni la cui vocazione è allo studio, si
esamini la situazione di ciascuno, così che coloro che non sono ritenuti idonei dal rettore e dai suoi
consiglieri vengano benevolmente invitati, e anche aiutati, a scegliere un altro stato di vita, per il be-
ne della Chiesa e dello stesso alunno”. “Questa sicura scelta dello stato di vita - prosegue lo stesso
numero - deve essere fatta tempestivamente e appena possibile, perché la troppo e inutile dilazione
non si svolga in danno del candidato”. E’ questa una norma di grande importanza, in quanto una
superficiale ammissione agli ordini sacri si traduce in un’ingiustizia nei riguardi dell’alunno, che di-
venta vittima della mancanza dell’adempimento di un dovere da parte di chi è responsabile della sua
formazione ed ammissione agli ordini sacri. Per questo, se i superiori al momento opportuno non
seppero valutare l’idoneità del candidato alla vita di celibato, anche perché non usarono tutti i mezzi
per arrivare ad un prudente giudizio, può essere concessa la dispensa da tale obbligo.
Secondo il n. 39 della Ratio fundamentalis, con il coinvolgimento volta per volta della responsabili-
tà dell’alunno, il giudizio circa l’idoneità, deve essere fatto sulle doti umane, morali, spirituali e intel-
lettuali, nonché sullo stato di salute fisica e psichica, che potrà essere stabilito, se necessario, anche
con il parere di medici ed esperti psicologi, tenendo conto delle eventuali eredità familiari (cf. cc.
1029; 1051), avendo riguardo, come vedremo più diffusamente, di quanto dispone il c. 220 circa la
tutela del diritto all’intimità di ciascuno.
In questo continuo dialogo corresponsabile e improntato a mutua fiducia tra il candidato al sa-
cerdozio e il rettore del seminario o della casa di formazione religiosa, lo scrutino che quest’ultimo,
come responsabile immediato della formazione, deve approntare, non sarà fatto solo su informa-
zioni date da altri, anche se accuratamente prese, come dispongono il c. 1051 e il n. 41 della Ratio
fundamentalis, ma su un giudizio personale, fondato su una conoscenza diretta e spirituale. E’ eviden-
te che l’organizzazione del seminario o della casa di formazione e soprattutto il numero di alunni,
debbono permettere questa conoscenza diretta. Un seminario o una casa religiosa di formazione
troppo grandi e molto numerosi sono dispersivi, favoriscono una dannosa formazione massiva e
non permettono una conoscenza reciproca tra gli alunni e il rettore. Il danno sarebbe aumentato se
a questo si aggiungesse la mancanza di un rapporto aperto e fiducioso con il vescovo o il superiore
religioso maggiore, che sono i responsabili dell’ammissione agli ordini sacri. Per questo di grande
importanza è la raccomandazione fatta dalla Pastores dabo vobis al n. 65, già da noi ricordata più sopra,
che il vescovo visiti spesso i seminaristi e in qualche modo “stia” con loro. Ciò evidentemente vale
anche per il superiore maggiore religioso, che non può limitare il suo rapporto con i membri in
formazione solo alla visita canonica stabilita dal c. 628,§1.
II) I MEZZI DI FORMAZIONE
Posto il fine della formazione, vanno individuati i mezzi principali per raggiungerlo. Essi sono:
1) la formazione spirituale a cui è strettamente unita la formazione liturgica, la formazione ai
consigli evangelici e allo spirito missionario (cc. 244-247; 256,§2; 257);
2) la formazione dottrinale (cc. 244; 247; 250-252; 254);
3) la formazione pastorale (cc. 255; 256,§1).

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CORSO DI FORMATORI

Tali mezzi, tuttavia, come indica il c. 244, non possono essere considerati disgiuntamente, in
quanto debbono essere coordinati armonicamente e finalizzati a far acquisire agli alunni lo spirito
del Vangelo e un rapporto profondo con Cristo, unito ad un’adeguata maturità umana, secondo
l’indole di ciascuno.
La formazione spirituale
I fini da perseguire con la formazione spirituale degli alunni si ricavano dai cc. 244, 245 e 247,§1:
maturità umana; maturità religiosa e spirituale; maturità apostolica; maturità nell’esercizio
dell’obbedienza e nell’osservanza della castità celibataria.
Per perseguire tali fini debbono essere usati specifici mezzi.
Innanzitutto si richiede un amore della parola di Dio, che può essere percepita e accolta soltanto
nel silenzio interiore (PDV 47). Tale silenzio interiore è della massima importanza perché, avendo la
sua fonte e il suo termine in Cristo, è frutto di fede viva e di carità verso Dio. Esso è indispensabile
per percepire la presenza di Dio e lasciarsene conquistare.
Strettamente connesso con questo è l’orazione personale e profonda, di cui al c. 246,§3, nella
quale gli alunni debbono essere accompagnati da maestri nello spirito.
Secondo la Lett. The document inviata dalla Congr. Ed. Catt. a tutti gli ordinari del luogo, in da-
ta 6. 1. 1980, l’orazione personale dev’essere coltivata con costanza, per cui dev’essere determinato
il tempo in cui gli alunni si dedicano ad essa (EV 7/623). E’ opportuno che ognuno stabilisca il
tempo migliore da dedicare all’orazione mentale, secondo anche l’organizzazione personale della
giornata. Per questo è da procurare nel seminario che l’ambiente di silenzio esterno che favorisca
l’orazione (RFIS 57). Il Regolamento del seminario deve dare delle norme riguardanti il silenzio.
La formazione all’orazione personale è della massima importanza per la vita del sacerdote, sia
per la sua santificazione che per quella degli altri, poiché il sacerdote, come ammonisce PDV 47,
dev’essere maestro di orazione per gli altri.
Poiché la vita sacerdotale dev’essere un’inserzione più profonda nel mistero pasquale, gli alunni
debbono essere formati ad entrare in comunione con questo mistero (PDV 48). Ciò si ha per mez-
zo della liturgia della Chiesa, il cui culmine e la celebrazione eucaristica.
Secondo il c. 246,§1 la celebrazione eucaristica dev’essere considerata il centro di tutta la vita del
seminario, quindi gli alunni debbono vi partecipare ogni giorno. Il canone non esplicita anche
l’obbligo di ricevere la comunione sacramentale ogni giorno. La RFIS 52 dice che la celebrazione
quotidiana dell’eucaristia si completa con la comunione sacramentale, che dev’essere ricevuta con
piena libertà e degnamente. Da questo sembra potersi dedurre che, anche se normalmente la parte-
cipazione quotidiana all’eucaristia comporta che si riceva la comunione sacramentale, tuttavia non si
vuole imporre un obbligo affinché questo avvenga nella libertà e soprattutto degnamente. Se un
alunno un giorno non si trova nelle dovute disposizioni, non si deve sentir spinto a ricevere ugual-
mente la comunione sacramentale, aggravando la situazione della sua coscienza.
Con la partecipazione alla celebrazione eucaristica si connette strettamente una formazione al
culto eucaristico, che si può comprendere sotto la generale dicitura “altri esercizi di pietà” di cui al
c. 246,§3.
Alla formazione al culto eucaristico RFIS 53 unisce strettamente la formazione all’ufficio divino,
in modo che, come dice il c. 246,§2, gli alunni siano consci che con la celebrazione della liturgia del-
le ore, i ministri di Dio, lo invocano a nome della Chiesa per tutto il popolo loro affidato, anzi per
tutto il mondo.

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CORSO DI FORMATORI

Per una buona formazione spirituale, secondo il c. 246,§4 gli alunni debbono accostarsi con fre-
quenza al sacramento della penitenza. La penitenza sacramentale è un atto personale, da farsi singo-
larmente, che comunque deve mantenere il suo carattere liturgico, per cui si distingue dalla direzio-
ne spirituale, che vello stesso paragrafo del canone viene raccomandata. La distinzione si pone sul
piano della natura dei due atti e delle disposizioni d’animo della persona, non riguardo al ministro
del sacramento e al moderatore della vita spirituale, in quanto le due funzioni si possono cumulare
in un’unica persona, anzi, come vedremo,in genere è così.
La frequenza al sacramento della penitenza, secondo il n. 36 dell’Istr. In ecclesiasticam futuro-
rum data dalla Congr. Ed. Catt. il 3. 6. 1979, dev’essere determinata dall’alunno insieme al suo con-
fessore. Secondo gli autori la frequenza dev’essere di almeno una volta al mese, non oltre. Inoltre,
perché meglio sia manifestata la natura ecclesiale della penitenza, sarà bene che ogni tanto, special-
mente nelle quaresima o durante gli esercizi spirituali, vengano fatte delle celebrazioni liturgiche pe-
nitenziali, o senza la confessione sacramentale, o con la confessione sacramentale e l’assoluzione sa-
cramentale individuale. In questo secondo caso dev’essere sempre tutelata la libertà dei singoli.
Infine, altre l’orazione mentale e gli altri esercizi di pietà, secondo il c. 246,§3, dev’essere favorito
il culto della Beata Vergine Maria, anche per mezzo della recita del rosario, affinché attraverso la
familiarità con Maria, i candidati al sacerdozio possano giungere ad una sempre maggiore familiarità
con Cristo (Congr. Ed. Catt. Lett. The document, 6. 1. 1980, EV 7/86).
Formazione liturgica
Nel seminario, in stretta connessione con la formazione spirituale, è necessaria una seria forma-
zione liturgica affinché possa in modo particolare essere perseguito quanto stabilito nel c. 246,§§1,2
circa la celebrazione dell’Eucaristia e della liturgia delle ore, così che poi i chierici, secondo il loro
grado, possano con adesione interna dell’animo pienamente adempiere a quanto stabilito nel c.
276,§2,2, 3.
L’Istr. In ecclesiasticam futurorum (EV 6/1550-1704), che, secondo le parole della stessa istru-
zione (n. 6), per quello che riguarda l’aspetto liturgico della formazione nei seminari, doveva essere
considerata come il complemento della RFIS del 1970, per cui aveva la stessa forza obbligante di
quest’ultima. Allora, con la promulgazione del CIC 1983, insieme all’abrogazione della RFIS 1970,
quest’istruzione nel suo complesso ha perso la sua forza obbligante, ma la si può continuare ad usa-
re per meglio comprendere e spiegare i numeri dell’attuale RFIS che risultano immutati rispetto a
quella del 1970.
I futuri ministri sacri debbono ben comprendere la natura della liturgia, che dev’essere armoni-
camente integrata nella vita spirituale e nel lavoro apostolico quotidiano (RFIS 53). Infatti, tale na-
tura della liturgia in connessione con la vita di tutti i giorni, nel modo dovuto dovrà essere comuni-
cata dei ministri sacri ai fedeli (Istr. In ecclesiasticam futurorum, nn. 1; 3), contro la secolarizzazione
della società, che tende ad offuscare la genuina natura della liturgia e li fa più restii a partecipare ad
essa e a viverla (n. 4).
In modo particolare i nn. 52 e 53 della RFIS 1985, rispettivamente sulla celebrazione dell’Eucari-
stia e sulla liturgia delle ore, rimangono sostanzialmente immutati rispetto agli stessi della RFIS
1970, per cui li spieghiamo alla luce dell’Istruzione del 1979.
Durante il primo anno di seminario, che dev’essere dedicato ad una più intensa formazione spiri-
tuale, si raccomanda che gli alunni ricevano un’iniziazione liturgica che permetta loro di partecipare
fin dall’inizio alla vita spirituale del seminario, cioè una catechesi sulla Messa, sull’anno liturgico, sul
sacramento della penitenza e sulla liturgia delle ore (n. 8).

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CORSO DI FORMATORI

E’ da tener presente che il carattere comunitario delle celebrazioni liturgiche forma gli alunni a
quello spirito comune, che dovrà essere alla base dell’unità del presbiterio. Per favorire l’unione del-
la comunità, il rettore e i professori del seminario sono invitati a celebrare la liturgia con gli alunni
(n. 12). Sebbene, per quanto or ora detto, sia bene che abitualmente tutta la comunità si riunisca per
le celebrazioni liturgiche, tuttavia è anche da ritenere opportuno che di quando in quando qualche
azione liturgica sia celebrata a gruppi più ristretti, sia per coloro che, entrati da poco in seminario,
hanno bisogno di una catechesi liturgica, sia, nei seminari interdiocesani, per gli alunni di una stessa
diocesi, onde favorire la loro unione. Questo, però, senza mai intaccare l’unità della comunità del
seminario (n. 14).
Salva l’eccezione di cui sopra, la celebrazione eucaristica dev’essere vissuta come azione di tutta
la comunità, per cui ad essa ognuno parteciperà attivamente, secondo la propria condizione e il
proprio ministero (n. 22).
Per quello che riguarda la liturgia delle ore, vengano celebrate in comune, frequentemente, come
dice RFIS 53, le lodi mattutine e i vespri, che dalla tradizione della Chiesa sono considerate i cardini
della liturgia delle ore; la compieta venga recitata privatamente, quando non può essere detta in co-
mune; dove c’è la consuetudine di un tempo di preghiera comunitaria durante la giornata, sarà bene
dedicarlo alla recita dell’ora media. E’ lodevole recitare l’ufficio delle letture specialmente le dome-
niche e le vigilie delle solennità. Infine, durante gli esercizi spirituali, la recita di tutto il corso della
liturgia delle ore potrà segnare i tempi della preghiera (n. 30).
Certamente la celebrazione comune della liturgia delle ore è buona per fomentare anche la vita
comune nel seminario, ma è legittimo chiedersi se questa sia la migliore formazione alla celebrazio-
ne individuale della liturgia delle ora, che, poi, in genere il chierico dovrà fare quando sarà immesso
nel ministero.
Fa parte della formazione liturgica anche provvedere a che sia ben chiara la natura ecclesiale
dell’assemblea liturgica. La comunità del seminario è una parte peculiare della Chiesa, quindi
dev’essere aperta a tutta la comunità ecclesiale, per cui è bene che specialmente in particolari occa-
sioni si unisca alle celebrazioni liturgiche parrocchiali e a quelle officiate dal Vescovo, nelle maggiori
solennità e specialmente nel triduo pasquale (n. 15).
Inoltre, data la natura ecclesiale della liturgia, gli alunni debbono assumere la coscienza che le
azioni liturgiche non sono mai azioni private, ma sempre celebrazioni della Chiesa, che quindi ap-
partengono alla Chiesa universale, lo manifestano e lo alimentano. Per questo sono rette dalle leggi
della Chiesa. Ne consegue che nel seminario le celebrazioni debbono essere esemplari, riguardo ai
riti, al loro carattere spirituale e pastorale, e all’osservanza sia delle prescrizioni e dei testi dei libri li-
turgici, sia delle norme emanate dalla S. Sede e della Conferenza Episcopale (n. 16). Gli alunni, allo-
ra, debbono essere formati ad assimilare quegli elementi della liturgia sacra che appartengono alla
parte immutabile, perché di istituzione divina, della liturgia, e dai quali debbono essere distinti gli
elementi che non sono di istituzione divina, che secondo le indicazioni dei libri liturgici possono
trovare degli adattamenti (n. 18).
Formazione alla vita di comunione fraterna
La vita comune è per gli alunni del seminario non solo il luogo in cui trova il suo perfeziona-
mento la formazione liturgica, ma anche il luogo in cui gli alunni stessi si abituano a mettere da par-
te la propria volontà individuale per cercare il maggior bene del prossimo e il bene comune, quindi
per giungere ad una vita di comunione fraterna.
In questo modo, come suggerisce il c. 245,§2, i candidati al sacerdozio potranno disporsi alla fra-
terna comunione col presbiterio diocesano di cui fanno parte ed essere preparati ad adempiere, una

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CORSO DI FORMATORI

volta che hanno ricevuto l’ordine sacro, l’obbligo di cooperazione tra gli stessi chierici, stabilito dal
c. 275,§1, e a seguire la raccomandazione contenuta nel c. 280 di praticare una consuetudine di vita
comune. Per questo gli alunni debbono essere progressivamente introdotti alla vera condizione del-
la diocesi, in modo che conoscano le necessità spirituali dei fedeli, per potere in futuro esercitare il
loro ministero pastorale con maggior frutto (RFIS 46-47).
Tutto questo, secondo PDV 59, si basa sulla coscienza della Chiesa come comunione, che
nell’azione pastorale spinge ad una collaborazione con i vari soggetti ecclesiali, specialmente i laici,
nel rispetto di diversi doni e carismi.
Formazione al celibato
Parte importante della formazione spirituale generale dei candidati al diaconato permanente celi-
batario e al sacerdozio è la formazione al celibato, affinché, come dice il c. 247,§1, possano apprez-
zarlo come un peculiare dono di Dio e in futuro possano adempiere con cuore gioioso il prescritto
del c. 277,§1.
Su questo punto abbiamo la Lett. enc. Sacerdotalis caelibatus data da paolo VI il 24. 6. 1967,
l’Istr. Il presente sussidio sul celibato sacerdotale data dalla CEC l’11. 4. 1974 (EV 5/190-426), riaf-
fermate nella loro validità da PDV 50. Ci si può ispirare anche alle Diretttive Potissimum institutio-
ni per la formazione negli Istituti religiosi, data dalla CIVC/SVA il 2. 2. 1990 (n. 13).
Secondo PDV 50 gli alunni debbono assimilare i valori positivi del celibato, percepito come una
grazia speciale, un dono dello Spirito, e quindi abbracciato come scelta di un amore più grande e
senza divisioni per Cristo e per la sua Chiesa, ina una disponibilità più piena per il ministero pasto-
rale. In questo modo il celibato sacro non sarà considerato come una semplice norma giuridica, né
come una condizione del tutto esteriore per essere ammessi all’ordinazione, ma un valore profon-
damente connesso con l’ordinazione sacra, che configura a Gesù buon pastore e sposo della Chiesa.
La formazione al celibato, allora, presuppone l’approfondimento del senso della preghiera e della
vigilanza.
Sebbene la formazione al celibato si debba considerare anche alla luce delle scienze
dell’educazione, tuttavia essa non può essere configurata solo sotto l’aspetto naturale, in quanto so-
no da considerarsi fondamentali due cose: a) l’azione della grazia di Dio; b) l’osservanza delle nor-
me ascetiche. Perciò gli alunni debbono coltivare l’unione con Cristo e giungere ad una sempre più
profonda comprensione del mistero della Chiesa.
Gli alunni debbono essere aiutati a considerare il celibato in stretta connessione con gli altri con-
sigli evangelici della povertà e dell’obbedienza, che sono dono della grazia e insieme impegni con-
nessi con la consacrazione al ministero. L’assimilazione a Cristo costituisce un’unità: avere gli stessi
sentimenti di Cristo significa assumerne lo stesso stile di vita. Quando il candidato al sacerdozio nel-
la Chiesa latina si offre a Dio, assume quella forma di vita evangelica, che fu scelta da Cristo stesso.
Essendo la missione del sacerdote una partecipazione peculiare alla missione apostolica di Cristo, i
consigli evangelici nella vita sacerdotale alimentano anche la carità pastorale. Sotto questa prospetti-
va il candidato al sacerdozio può meglio percepire il valore positivo del celibato, in modo che non
consideri solo come imposto dalla legge ecclesiastica, ma, come veramente è, un dono di Dio, un
carisma, che arricchisce di una connotazione particolare alla vita del sacerdote , la quale assume il
valore di un’oblazione pubblica di fronte alla Chiesa (cc. 247,§1; 277,§1; Istr. Il presente sussidio, n.
47; RFIS 48; PDV 50).
Gli alunni debbono essere condotti ad una maturità umana, specialmente affettiva (PDV 44), e
spirituale soprannaturale, in quanto la persona giunta a questa maturità non si percepisce sotto la
costrizione della legge canonica esteriore, né considera le norme ascetiche come delle cautele impo-

25
CORSO DI FORMATORI

ste solo dall’esterno. Infatti la castità celibataria non è da considerarsi come un tributo che si paga al
Signore, ma un dono che si riceve dalla sua misericordia per la santificazione propria e per l’efficacia
dell’azione apostolica. Per questo la formazione nel seminario deve preparare uomini mature, sotto
l’aspetto umano, cristiano e sacerdotale, che hanno senso di responsabilità e godono di una vera li-
bertà (Istr. Il presente sussidio, 16; cf. PDV 50).
Affinché si abbia una scelta veramente libera del celibato, dice RFIS 48, è necessario che il gio-
vane percepisca alla luce della fede la forza evangelica di questo dono, e quindi stimi rettamente i
valori dello stato matrimoniale. Infatti, deve godere di una piena libertà psicologica interna ed ester-
na. Per questo si richiede un’adeguata educazione sessuale, che deve consistere più nello sviluppare
un amore casto tra le persone che non nella preoccupazione di evitare di peccare, in quanto deve
preparare ai rapporti con uomini e con donne che il sacerdote dovrà necessariamente intrattenere
nel suo futuro ministero pastorale. Perciò con sana prudenza spirituale gli alunni nell’esercizio
dell’apostolato debbono sperimentare e manifestare la capacità di un amore sincero, umano, frater-
no, personale e immolato, sull’esempio di Cristo, verso tutti e verso ciascuno. In questo modo gli
alunni apprenderanno a superare la solitudine del cuore, alla quale debbono essere formati (cf. Istr.
Il presente sussidio, nn. 84; 49). Guidati dal direttore spirituale e dai superiori, debbono imparare a
discernere nel Signore questo amore umano. tuttavia è da stimarsi sempre prudente evitare relazioni
singole e particolari, specialmente solitarie e prolungate, con persone di altro sesso, o in generale
con persone che possono mettere in pericolo la castità celibataria (PDV 44; Istr. Il presente sussi-
dio, n. 61).
Come stabilisce i c. 247,§2, gli alunni debbono essere resi debitamente consapevoli dei doveri e
degli oneri propri dei ministri della Chiesa, senza alcuna reticenza sulle difficoltà della vita sacerdo-
tale (cf. Istr. Il presente sussidio, n. 35). Questo perché siano pienamente liberi nella loro scelta.
L’affermazione del canone è di carattere generale, ma essendo posta come §2 del canone, di seguito
al paragrafo sull’educazione al celibato, essa assume un particolare rilievo riguardo proprio al celiba-
to. Gli alunni, allora, debbono imparare a conoscere le proprie inclinazioni e a valutare la propria
capacità di superarle, in quanto, se venisse alla luce che non hanno le qualità necessarie per
l’osservanza del celibato, debbono essere aiutati ad eleggere un altro stato di vita. Tutelato il diritto
alla propria intimità sancito dal c. 220, può essere chiesto l’aiuto di uno psicologo (istr. Il presente
sussidio, n. 38). Sull’uso delle perizie psicologiche tratteremo più avanti in modo specifico.
Tenuto conto della natura propria del celibato, è necessario che i candidati al sacerdozio prati-
chino la mortificazione e la custodia dei sensi, usando tutti i mezzi naturali, che giovano alla sanità
mentale e fisica, come l’esercizio fisico (RFIS 48; PDV 44). La formazione al sacerdozio come tale,
e al celibato in particolare, richiede una peculiare ascesi, esigente, ma non soffocante, fatta di un
controllo di sé non solo nel dominare gli impulsi sessuali, ma anche l’uso del tabacco dell’alcool, la
frequenza a spettacoli (cf. c. 666), l’eccesso nel cibo, ecc. . Gli alunni del seminario debbono essere
aiutati a convincersi che una sana ascesi è necessaria al perseguimento di una maturità umana, cri-
stiana e sacerdotale, nonché ad una più profonda partecipazione al mistero pasquale di Cristo (cf.
Istr. Il presente sussidio, nn. 28; 53-56).
Tutelata l’unità del seminario, in circostanze particolari, alla formazione alla sana amicizia può
essere vantaggiosa la divisione degli alunni in diversi gruppi, secondo criteri sia umani che apostolici
(Istr. Il presente sussidio, n. 73).
Formazione all’obbedienza
Parte della formazione spirituale è la formazione all’obbedienza, di cui al c. 245,§2, affinché do-
po l’ordinazione possano essere adempiuti fedelmente gli obblighi stabiliti dai cc. 273 e 274,§2.

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CORSO DI FORMATORI

La stessa stretta relazione con la persona e la missione di Cristo che gli alunni debbono raggiun-
gere, richiede che essi imparino ad offrire con sincera fede la loro volontà al servizio di Dio e dei
fratelli, per mezzo dell’obbedienza (PO 15b).
Spetta quindi ai superiori formare i giovani all’obbedienza vera e matura (RFIS 50), cioè, come
vedremo, all’obbedienza non di pura esecuzione, ma a quella della volontà e del giudizio (PO 15b),
che si ha quando si è capaci di cogliere, nella fede e nell’amore, i valori di cui è portatrice la legge o
il singolo comando. Per ottenere questo tipo di obbedienza la vita del seminario dev’essere regolata
in modo chiaro, fermo nei punti fondamentali, ma anche sobrio, in modo che le stesse norme, ap-
plicate in modo flessibile, educhino gli alunni alla libertà interiore e alla capacità di darsi una regola
personale di vita.
Formazione allo spirito di povertà
Nel CIC non incontriamo alcun canone sulla formazione allo spirito di povertà, ma tratta di
questo RFIS 50.
Non è un punto di secondaria importanza, perché gli alunni debbono coltivare lo spirito di po-
vertà per poter poi adempiere, una volta ordinati, quanto prescritto in modo generale dal c. 282,§1
cioè di condurre una vita semplice ed estranea a ogni tipo di vanità, e dai cc. 282,§2 e 286, restrittivi
circa il libero uso dei beni materiali da parte dei chierici.
In vista di questo, i candidanti al sacerdozio, già come alunni del seminario, debbono cercare di
acquisire una vera libertà di figli di Dio e giungere a quella padronanza spirituale
che è necessaria per avere un giusto rapporto con i beni temporali e quindi abituarsi alla rinuncia
generosa del superfluo (cf. PO 17).
Formazione missionaria
Il c. 257,§1, preso da ES I,§2,3, riflette la visione universalistica del ministero sacro, che ha il
Concilio (PO 10).
Infatti, dispone il canone, la formazione in seminario dev’essere impostata in modo tale che gli
alunni sentano la sollecitudine non solo per la Chiesa particolare in cui saranno incardinati, ma an-
che della Chiesa universale e si mostrino pronti a dedicarsi a quelle Chiese particolari che si trovano
in gravi necessità.
Su questo interveniva la CED con le Note dir. Postquam apostoli (n. 23) sulla promozione della
cooperazione tra le Chiese particolari e specialmente su una più adatta distribuzione del clero, date il
25. 3. 1980 (EV 7/277). In questo documento si trattava anche dell’idoneità specifica per le missio-
ni. Infatti, la vocazione missionaria è una vocazione speciale, che richiede un’indole adatta e peculia-
ri doti naturali e soprannaturali. Quindi, i superiori debbono avere molta cura nello scegliere candi-
dati idonei alla missione (n. 24).
Per questo il c. 257,§2 prevede una formazione speciale per coloro che intendono svolgere il lo-
ro ministero in terra di missione o comunque in una Chiesa particolare di un’altra area geografica
(Note Postquam Apostoli, n. 25; AG 26f). Per avere tale formazione,i candidati possono essere in-
viati a speciali centri missionari intercomunitari, dove la formazione dottrinale e la stessa vita sono
ordinate immediatamente all’attività missionaria (CEP, Lett. Puisque la “Ratio”, 17. 5. 1970, EV
3/2603).
Coloro che intendono svolgere il loro ministero in terra di missione o comunque in una Chiesa
particolare di un’altra area geografica (Note Postquam Apostoli, n. 25; AG 26f). Per avere tale for-
mazione,i candidati possono essere inviati a speciali centri missionari intercomunitari, dove la for-

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CORSO DI FORMATORI

mazione dottrinale e la stessa vita sono ordinate immediatamente all’attività missionaria (CEP, Lett.
Puisque la “Ratio”, 17. 5. 1970, EV 3/2603).
Formazione dottrinale
 A. Fine
Il fine della formazione dottrinale, secondo il c. 248, è far sì che gli alunni acquisiscano, insieme
ad una cultura generale rispondente alle necessità di tempo e di luogo, una dottrina ampia e solida
nelle scienze sacre, affinché, con la propria fede in essa fondata e da essa nutrita, possono annuncia-
re convenientemente il messaggio del Vangelo agli uomini del proprio tempo , in modo adeguato
alle loro capacità.
Il fine primario, allora, è quello di preparare dei ministri che siano capaci di svolgere bene la fun-
zione di maestri del popolo di Dio. Tuttavia, il canone mette in luce che la formazione dottrinale è
strettamente unita alla vita di fede e spirituale degli alunni, in quanto la dottrina che ricevono deve
alimentare la loro fede, mediante la quale possono annunciare adeguatamente il Vangelo. Il Vangelo
è annunciato mediante la fede, ma potrà essere adeguatamente annunciato perché la fede è alimen-
tata da ampia e solida dottrina. PDV 51 ribadisce che la formazione intellettuale si connette con la
formazione umana e spirituale e vocazionale, in un modo così profondo da far pervenire l’alunno a
quell’intelligenza del cuore, che è la base della comunicazione del mistero di Dio ai fratelli.
Abbiamo già considerato la necessità in determinati casi del periodo propedeutico, anche per
l’acquisizione di una cultura generale più completa.
 B. Ratio studiorum
Secondo i cc. 249-252 e RFIS 59, la formazione dottrinale comprende:
- ove ce ne sia bisogno, un supplemento di formazione letteraria e scientifica, presupposto il cur-
ricolo di cui al c. 234 e RFIS 16, cioè gli studi umanistici e scientifici delle scuole medie;
- la formazione filosofica;
- la formazione teologica.
Secondo il c. 250 e RFIS 60, questi studi, esempificativamente, si possono coordinare in tre mo-
di:
1) I vari studi possono essere fatti in periodi distinti e successivi: a) il complemento di studi
umanistici e scientifici, qualora ce ne sia bisogno; b) gli studi filosofici; c) gli studi teologici.
2) Gli studi umanistici e scientifici possono essere completati insieme allo studio della filosofia e
poi vengono fatti gli studi teologici.
3) Dopo il completamento degli studi umanistici e scientifici, possono essere uniti insieme gli
studi filosofici e quelli teologici, ma in modo che la filosofia venga insegnata con distinte discipline
e secondo il suo metodo proprio, evitando che sia ridotta ad una trattazione frammentaria e saltua-
ria dei problemi, svolta unicamente in funzione di speciali questioni teologiche.
RFIS 60 ammette altri modi di ordinare gli studi, che debbono essere stabiliti dalla RIS della
Conferenza dei Vescovi.
Tuttavia, in qualsiasi modo verranno ordinati gli studi, RFIS 61, sulla base del c. 250, ribadisce
che debbono essere salvaguardati i seguenti elementi:
1) Si deve sempre iniziare con un corso introduttivo al mistero di Cristo e alla storia della salvez-
za. Tale introduzione, secondo RFIS 62, deve tendere a far comprendere agli alunni il significato e il
fine pastorale degli studi ecclesiastici, in modo che essi possano dare un solido fondamento alla loro

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CORSO DI FORMATORI

fede e aiutare a più profondamente e ad abbracciare con maggiore consapevolezza la vocazione sa-
cerdotale (cf. OT 14b).
2) Se la filosofia e la teologia vengono insegnate separatamente, si deve provvedere ad un coor-
dinamento tra le discipline filosofiche e quelle teologiche, specialmente tra la teologia naturale e il
trattato dommatico su Dio, tra l’etica e la teologia morale, tra la storia della filosofia e la storia della
Chiesa e dei dogmi, ecc.
3) Il tempo dedicato allo studio della filosofia deve comunque corrispondere ad almeno un
biennio (oppure ad un congruo numero di cosiddette ore semestrali, secondo i sistemi scolastici vi-
genti in alcune nazioni); il tempo impiegato per gli studi teologici dev’essere almeno di un quattro
anni (o un congruo numero di ore semestrali), in modo che complessivamente gli studi filosofici e
quelli teologici abbraccino almeno un sessennio (oppure, secondo altri modi di ordinare gli studi,
quella quantità di materia che comunemente viene trattata in un sessennio).
Posti questi punti fermi, il c. 254, ribadito da RFIS 63 e 90, prevede che i docenti, nell’insegnare
le varie discipline evidenzino costantemente l’intrinseca unità e l’armonia di tutta la dottrina della
fede, evidenziando il suo aspetto salvifico, affinché gli alunni possano sperimentare
l’apprendimento di un’unica scienza.
Per perseguire meglio questo scopo, aggiunge il canone, nel seminario ci dev’essere un prefetto
degli studi, che coordina tutto il piano degli studi (RFIS 90). Inoltre secondo RFIS 63, gli alunni,
completato il curricolo degli studi, debbono riservare un congruo tempo a fare, sotto la guida dei
docenti e in forza della formazione dottrinale già ricevuta, una sintesi delle varie discipline teologi-
che per poter percepire la parola di Dio nella sua semplicità e unità, così come dovrà essere tra-
smessa al popolo di Dio. Ciò potrà essere fatto o verso la fine del normale corso degli studi oppure,
se le Conferenze dei Vescovi lo riterranno preferibile, dopo qualche anno di esperienza pastorale.
Se poi i Vescovi, o singoli oppure come Conferenza, abbiano stabilito, come prevedono il c.
1032,§2 e RFIS 42c, di instaurare per uno o più anni l’esercizio del diaconato alla fine del normale
corso di studi, sarà più utile trasferire tale sintesi, dice RFIS 63, a quando i diaconi torneranno per
un periodo sufficientemente lungo in seminario in preparazione al sacerdozio.
Tutta la formazione dottrinale, poi, dev’essere adattata, dice RFIS 64, alle diverse culture, affin-
ché gli alunni possano approfondire ed esprimere il messaggio di Cristo secondo le modalità pro-
prie a ciascuna cultura e possano quindi adattare la vita cristiana alla mentalità e all’indole delle ri-
spettive culture.
Riguardo alla dimensione ecumenica della formazione dottrinale, essa deve informare le varie di-
scipline, più che essere data inserendo nel programma semplicemente una disciplina
sull’ecumenismo ed essere volta ad una più profonda conoscenza della chiese e delle comunità ec-
clesiali separate dalla sede apostolica, affinché gli alunni possano contribuire al ristabilimento
dell’unità. RFIS 80 fa riferimento all’osservanza del decreto Unitatis redintegratio e del Dir. ecum
Spiritus Domini del 16. 4. 1970, che è stato sostituito dal Dir. ecum. La recherce de l’unité del 25. 3.
1993.
Il Direttorio si stabilisce quanto segue.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi della Chiese orientali RIS debbono dare norme per pro-
muovere e regolare la collaborazione tra i cattolici e gli altri cristiani, a livello di seminario e di pri-
mo ciclo degli studi teologici. La Commissione ecumenica dovrà essere costituita in relazione a que-
sto. Anche i superiori religiosi dovranno collaborare alla redazione di tali regolamenti ecumenici (n.
193; cf. CD 35,5. 6).

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CORSO DI FORMATORI

Gli alunni cattolici possono assistere a corsi speciali che in varie istituzioni e nei seminari, ven-
gono tenuti da cristiani non cattolici, tuttavia si deve vagliare:
a) se tali corsi sono in armonia con i criteri generali della formazione ecumenica degli studenti
cattolici e se vengono rispettate le norme stabilite dai Sinodi delle Chiese orientali o dalle Conferen-
ze episcopali;
b) l’utilità del corso nel contesto generale della formazione;
c) la qualità e lo spirito ecumenico del docente;
d) la preparazione previa degli alunni;
e) la loro maturità spirituale e psicologica;
f) in modo particolare l’opportunità che gli studenti assistano a corsi che trattano direttamente
questioni dottrinali.
La formazione di base del primo ciclo dev’essere impartita da docenti cattolici. Solo nel secondo
e terzo ciclo possono essere invitati docenti non cattolici a tenere conferenze sulle posizioni dottri-
nali delle proprie chiese o comunità, per completare la formazione ecumenica che gli studenti han-
no ricevuto dai loro docenti cattolici. I docenti non cattolici potranno tenere corsi di natura tecnica,
come per es. , corsi di lingue, di comunicazione sociale, di sociologia religiosa, ecc. I Sinodi delle
Chiese orientali e le Conferenze episcopali dovranno dare norme circa la qualifica di questi “confe-
renzieri invitati, il periodo di insegnamento, la loro responsabilità circa il contenuto dei corsi,
l’integrazione, nell’insieme del programma del seminario, dell’insegnamento ricevuto in questi corsi
(n. 195).
I metodi didatti debbono essere riesaminati secondo le linee segnate dal c. 254,§2 e RFIS 91-93.
 C. Gli studi delle lettere e delle scienze
[Se, pur completato il corso degli studi medi, necessario per poter accedere agli studi che prepa-
rano al sacerdozio, si dovessero constatare delle carenze in questo campo, per es. la mancanza di
una sufficiente conoscenza della lingua latina e di lingue straniere, esigita dal c. 249, tali carenze, se-
condo RFIS 66 e 67, debbono essere colmate o prima del corso filosofico o durante esso (cf. RFIS
60). Sarebbe utile anche la conoscenza delle lingue bibliche, il greco e l’ebraico. L’indice e il pro-
gramma di tali discipline dovranno essere indicate nella RIS data dalla Conferenza episcopale.
RFIS 67 e 68 dispone anche che si dia una formazione per apprendere l’arte di parlare e di scri-
vere, specialmente la prima estremamente necessaria per i sacerdoti. A questo si aggiunga anche una
formazione nella musica, specialmente in quella sacra, e all’uso dei mezzi audiovisivi.
Infine, gli alunni debbono essere iniziati alla conoscenza e alla valutazione alla luce della legge
naturale e dei precetti evangelici, i problemi della vita sociale della propria nazione (RFIS 69). ]
 D. Gli studi filosofici e delle scienze affini
 A. Fine
Secondo il c. 251 e la RFIS 70, il fine della formazione filosofica è l’arricchimento della forma-
zione umana degli alunni, l’esercizio dell’acutezza del pensiero critico e così prepararli agli studi teo-
logici e ad esercitare il ministero apostolico con la capacità di stabilire un dialogo con gli uomini del
nostro tempo.
Negli ultimi decenni lo studio della filosofia è stato sottovalutato, al contrario esso va ritenuto
necessario per una duplice ragione.
Innanzitutto i problemi fondamentali oggetto della riflessione degli uomini d oggi, come quelli
riguardanti la persona, la natura, il mondo e Dio, non possono essere affrontati solo alla luce delle

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CORSO DI FORMATORI

scienze positive, ma si rende necessaria una più profonda riflessione metafisica (RFIS 71; PDV 52).
Poi, affinché molti di questi problemi possano essere chiariti, non si può ricorrere semplicemente
alle affermazioni che troviamo nella rivelazione divina, sia perché l’adesione alla rivelazione non è
un cieco atto di fede non sostenuto da ragioni intellettuali (ratio credendi e ratio credibilitatis), sia
perché si impedirebbe un qualsiasi dialogo con la cultura contemporanea e con gli uomini che non
credono.
Per questo, tutelato il primato delle fonti della rivelazione e della trasmissione dell’annuncio del
Vangelo ed evitato un uso sproporzionato ed indiscriminato della filosofia per la comprensione del-
le verità rivelate, gli studi filosofici debbono essere considerati necessari per la formazione dei can-
didati al sacerdozio, sia per una migliore comprensione della rivelazione, sia per il dialogo con i non
credenti, basato sulla ricerca di una verità oggettiva (CEC, Lett. En cette période, 20. 1. 1972, EV
4,1531-1534; PDV 52).
 B. Ordinamento degli studi
Secondo il c. 251 e RFIS 71, la formazione filosofica deve tener presente due cose.
Innanzitutto si deve fondare sul patrimonio filosofico perennemente valido, i cui pilastri sono i
più grandi filosofi cristiani, che hanno formulato i primi principi filosofici dotati di valore perenne,
in quanto hanno fondamento nella stessa natura.
La Lett. En cette période sulla formazione filosofica nei seminari, data dalla CEC il 20. 1. 1972,
di cui ha ribadita il vigore giuridico la Cost. ap. Sapientia christiana del 24. 4. 1979, art. 80, sugli stu-
di nelle Università e Facoltà ecclesiastiche, affermava che, per evitare un’opposizione tra filosofia e
rivelazione cristiana, è necessario che si riconosca un nucleo fondamentale di verità: il realismo cri-
tico della conoscenza umana, come fondamento dell’ontologia; un’ontologia realistica, che metta in
luce i valori trascendenti e giunga all’affermazione di un Assoluto personale creatore di tutte le cose;
un’antropologia che conduca ad un’etica teocentrica e trascendente (EV 4/1546-1554). Questi pre-
supposti sono necessari come fondamenti della riflessione teologica (PDV 52).
Posto questo, la formazione filosofica deve anche tener conto delle ricerche filosofiche contem-
poranee, specialmente di quelle che hanno maggior influsso nell’ambiente culturale di ogni regione
(cf. OT 15).
Per raggiungere i fini della formazione filosofica, di particolare importanza è l’insegnamento, in
tutte le sue parti, della filosofia sistematica, che porta ad acquisire una solida e coerente conoscenza
dell’uomo, del mondo e di Dio (RFIS 71). Non vanno trascurate la storia della filosofia e le scienze
affini, come complemento delle discipline principali: la matematica, le scienze naturali e le scienze
dell’uomo, cioè la sociologia, la psicologia, la pedagogia, l’economia, la politica e la scienza della
comunicazione sociale (RFIS 72; 73).
Infine nella RIS elaborata dalle Conferenza episcopale, o nell’appendice si essa, dispone RFIS
75, dev’essere riportato un prospetto di tutte le discipline che riguardano il corso filosofico, indi-
cando brevemente il programma delle singole discipline, il numero degli anni o di semestri e l’orario
settimanale delle lezioni. Se questo non può essere attuato per difficoltà oggettive (grande estensio-
ne del paese con diversi sistemi di insegnamento), debbono essere almeno indicati alcuni modelli di
programmi, che possano offrire degli indirizzi sicuri e utili per tutti.
 E. Gli studi teologici
 A. Fine
Dal c. 252,§1 e da RFIS 76 risulta un triplice fine della formazione teologica, che dev’essere
sempre illuminata dalla fede e guidata dal magistero (cf. PDV 55):

31
CORSO DI FORMATORI

- l’integra conoscenza da parte degli alunni della dottrina cattolica, fondata sulla rivelazione;
- l’alimento della loro vita spirituale (cf. PDV 53);
- acquisizione della capacità di annunciare il Vangelo e a difendere la dottrina cattolica in modo
appropiato nell’esercizio del ministero sacro (cf. OT 16; PDV 54; 55).
E’ la stessa complessa situazione culturale e religiosa contemporanea ad esigere una solida e ap-
profondita formazione teologica nei seminari e quindi a manifestare la grande importanza di essa,
contro la tendenza in alcuni contesti ecclesiali a ridurre la serietà e l’impegno degli studi teologici,
conseguenza anche, di una precedente preparazione di base lacunosa e insufficiente (RFIS 56). In-
fatti, in molte parti del mondo sacerdoti e diaconi debbono annunciare il Vangelo in un mondo se-
colarizzato e indifferente, caratterizzato da un pluralismo filosofico e teologico, segnato dalla neces-
sità del dialogo ecumenico e dalle domande pressanti che vengono dalla realtà sociale e dalle scienze
umane, nonché da nuove situazioni ecclesiali (CEC, Lett. Tra i molteplici segni, 22. 2. 1976, nn. 4;
10-15; EV 5/1769; 1775-1780).
 B. Ordinamento degli studi
Le varie discipline teologiche, dice RFIS 77, tenuto presente la loro dimensione ecumenica, mis-
sionaria, ecc, debbono essere insegnate in modo che innanzitutto appaia chiaramente la loro intima
connessione, quindi sia posto debitamente in luce il mistero della Chiesa (cf. OT 17) e infine con-
vergano tutte nella spiegazione della storia della salvezza, che si attua nella storia della Chiesa e nelle
vicende del mondo.
La Lett. tra i molteplici segni del 1976, proprio in ordine ad un’adatto annuncio della fede, am-
metteva che dev’essere favorito un certo pluralismo teologico, ma non senza limiti, in quanto
dev’essere preservata l’unità della fede, in ossequio alla dottrina comune della Chiesa e al sensus fi-
delium (nn. 64-68). PDV 55 insiste sul saper distinguere chiaramente, nell’insegnamento della teo-
logia, tra dottrina comune della Chiesa, opinioni dei teologi e “mode” di pensiero, evitando così un
magistero “parallelo”.
Il c. 252,§2 e RFIS 78, attribuiscono una particolare importanza all’insegnamento della S. Scrit-
tura, da considerarsi come l’anima di tutta la teologica, che deve informare tutte le discipline teolo-
giche (cf. OT 16; DV 24). I docenti debbono offrire una sintesi teologica della rivelazione divina,
per dare solidi fondamenti alla loro vita spirituale e alla loro futura predicazione (cf. OT 16; DV 23).
Secondo il c. 252,§1 e RFIS 79 la teologia dommatica dev’essere insegnata in modo integrale e
sistematico, per cui non è sufficiente dare solo corsi monografici sulle singole discipline teologiche.
A norma del c. 252,§3 e di RFIS 79 la teologia dommatica si deve fondare sulla Scrittura e sui Padri
della Chiesa d’oriente e d’occidente, lo sviluppo storico dei dogmi, in modo che gli alunni, sotto la
guida di S. Tommaso, imparino a a penetrare in modo speculativo più profondamente i misteri del-
la salvezza e a coglierne il nesso. Il riferimento a S. Tommaso, già richiesto da diversi organi di con-
sultazione (Comm. 14, 1982, 52), è stato introdotto nel testo definitivo su sollecitazione di Giovan-
ni Paolo II con una lettera (n. 56190) alla Segreteria di Stato, del 22. 12. 1980.
Nel corso di teologia morale, raccomanda RFIS 79, debbono essere illustrate la vocazione cri-
stiana radicata nella carità e gli obblighi che ne scaturiscono, in modo che venga offerta agli alunni
una soluzione ai problemi umani alla luce della rivelazione, applicando le verità eterne alle diverse
condizioni della realtà umana. Infatti, i problemi che riguardano la vita morale, non possono essere
risolti solo nella prospettiva e con l’apporto delle scienze umane positive, come la psicologia, la so-
ciologia ecc. Queste possono essere un aiuto. Lo studio della teologia morale, infatti, deve tendere a
far scoprire nella coscienza il senso della virtù e del peccato (cf. OT 16). La dottrina morale, poi,
deve trovare il suo complemento nella teologia spirituale, che tra le altre cose deve comprendere

32
CORSO DI FORMATORI

anche lo studio della teologia e della spiritualità del sacerdozio e della vita consacrata per la profes-
sione dei consigli evangelici.
Lo studio della teologia pastorale, poi, ha lo scopo di illustrare i principi teologici dell’azione con
cui la volontà salvifica di Dio può essere portata ad effetto nella Chiesa odierna per mezzo dei di-
versi ministeri ed istituzioni (RFIS 79; PDV 57).
Lo stesso fine pastorale deve perseguirlo lo studio del diritto canonico (RFIS 79). La CEC nella
Lett. circ. Postremis hisce annis del 2. 4. 1975, riaffermava la necessità dello studio del diritto cano-
nico, sia in ordine alla debita preparazione di futuri pastori d’anime, sia per fornire alla Chiesa degli
esperti in diritto canonico, illuminati interpreti del diritto vigente e suoi diligenti tutori ed esecutori.
Il rifiuto del diritto canonico che ha caratterizzato gli anni successivi al Vaticano II, si fondava spes-
so in una falsa interpretazione dell’ecclesiologia di quest’ultimo e anche in una legittima reazione
contro il giuridismo formale e il legalismo. Per questo, nell’insegnamento del diritto canonico è della
massima importanza indicare i fondamenti teologici generali di esso, in relazione all’antropologia
teologica, alla teologia morale ed all’ecclesiologia, nonché gli elementi teologici particolari di ciascun
istituto giuridico. In questo modo verranno mostrati lo spirito da cui è animato l’ordinamento giu-
ridico della Chiesa, differente da quello di tutti gli altri ordinamenti umani, e la sua funzione pasto-
rale. Infatti, i futuri sacerdoti debbono far loro i principi del diritto canonico e le norme positive,
affinché possano adattare gli uni e le altre alle necessità pastorali dettate dalle situazioni concrete. Di
una certa utilità è anche insegnare alcuni elementi del diritto civile della propria nazione, special-
mente quelli riguardanti le materie di competenza mista della Chiesa e dello Stato, e il diritto con-
cordatario, là dove c’è.
Per questo tale lettera circolare della CEC stabiliva che in nessun seminario maggiore o scolasti-
cato di un istituto religioso deve mancare una cattedra di diritto canonico, che dev’essere annovera-
to tra le discipline obbligatorie. Bisogna tener presente che prima della promulgazione del Codice in
alcuni seminari tale cattedra era stata soppressa.
Dev’essere spiegato tutto il Codice, per cui nella RIS della Conferenza episcopale dev’essere ben
definita la materia che dev’essere insegnata e nei regolamenti degli studi di ogni seminario
dev’essere aggiunto il numero di ore assegnato all’insegnamento del diritto canonico (EV 5/1221;
1233-1238).
La sacra liturgia dev’essere considerata una delle discipline principali e dev’essere insegnata non
solo sotto l’aspetto giuridico, ma specialmente teologico, storico, spirituale e pastorale, in connes-
sione con le altre discipline (cf. OT 16; SC 2; 10; 14-16). Debbono essere esposte le norme liturgi-
che affinché gli alunni posano ben distinguere tra le parti liturgiche immutabili, in quanto di istitu-
zione divina, dalle altre parti mutabili. L’Istr. In ecclesiasticam futurorum data dalla CEC il 3. 6.
1979, richiamata in nota da RFIS 79 a cui ci siamo già riferiti nel trattare della formazione liturgica
nel contesto della formazione spirituale, stabiliva che nel seminario ci fosse un docente proprio, ben
formato, per l’insegnamento della liturgia (EV 6/1613).
Nell’esposizione della storia ecclesiastica dev’essere alimentato negli alunni io senso del concorso
dell’azione divina e di quella umana nella storia, nonché il vero senso della chiesa e della storia
(RFIS 79).
Discipline ausiliarie e speciali di particolare utilità debbono essere ritenute la lingua ebraica e
quella greco-biblica (RFIS 80).
Nella RIS della Conferenza episcopale, o in una sua appendice, stabilisce RFIS 81, dev’essere da-
to un prospetto di tutte le discipline insegnate nel curricolo teologico, indicando brevemente il pro-
gramma delle singole discipline, il numero degli anni o dei semestri, nonché delle ore settimanali in

33
CORSO DI FORMATORI

cui esse vengono insegnate. Se questo dovesse risultare molto difficile o non potesse essere assolu-
tamente fatto nelle nazioni più grandi, dove c’è una legittima varietà nell’ordinamento degli studi,
approvata dalla stessa Conferenza episcopale, debbono essere almeno indicati, come esempio, alcu-
ni punti più generali degli studi.
 F. Studi speciali
RFIS 82-85, assicurata la formazione generale filosofico-teologica, prevede degli studi speciali da
farsi per svolgere particolari funzioni. Ciò può avvenire in due modi, a seconda della finalità da rag-
giungere.
1) Studi speciali, in modo particolare utili per l’azione pastorale, possono essere fatti nello stesso
seminario, specialmente l’ultimo anno, senza bisogno di frequentare Istituti peculiari, per es. in pre-
parazione di un apostolato da esercitarsi con qualche gruppo sociale particolare, come operai, con-
tadini, ecc. Poiché tale preparazione viene fatta all’interno del sessennio filosofico-teologico, essa
può essere conseguita in due modi: a) o per mezzo di discipline speciali, che vengono offerte o lun-
go l’anno scolastico o durante le vacanze; b) oppure, raggruppando nel primo quinquennio tutte o
quasi tutte la discipline comuni, e organizzando il sesto anno una formazione particolare con corsi
speciali. Nella RIS della Conferenza episcopale dev’essere indicato quanto questa ha stabilito per le
diverse regioni e secondo le possibilità dei seminari.
2) Un altro tipo di preparazione è vista come necessaria per quei sacerdoti che sono destinati ad
esercitare un ministero che richiede una formazione particolare, che si può avere solo in istituti spe-
cializzati, come per es. l’insegnamento di scienze sacre o profane. In questo caso, terminata la for-
mazione generale e dopo una certa esperienza pastorale, i candidati sono inviati in tali istituti o fa-
coltà per ottenere anche i necessari gradi accademici. Le Conferenze episcopali debbono dare nor-
me su questo punto e dove esistano seminari maggiori nei quali gli studi teologici sono strutturati
con metodo scientifico, prendano in considerazione la possibilità di affiliarli a qualche facoltà teolo-
gica, in modo che essi stessi possano conferire, sotto la direzione di tale facoltà, i gradi accademici.
Infine, in considerazione della particolare importanza dei collegi romani, viene auspicato che si
abbiano sempre più stretti legami tra le Conferenze episcopali e i rispettivi collegi, per incrementare
con uno sforzo comune il compito di tali collegi per rispondere alle necessità delle singole nazioni e
della Chiesa universale.
La formazione strettamente pastorale
Sebbene tutta la formazione in seminario deve perseguire un fine pastorale, tuttavia il c. 255 di-
spone che nell’iter formativo dev’essere prevista una preparazione pastorale in senso stretto, allo
scopo di far apprendere i principi e i metodi riguardanti l’esercizio del ministero di insegnare, santi-
ficare e governare il popolo di Dio, secondo le necessità di tempo e di luogo. Il c. 256,§1 dà il con-
tenuto della formazione strettamente pastorale: attività catechetica e omiletica; culto divino e parti-
colarmente celebrazione dei sacramenti; dialogo con le persone, anche non cattoliche o non creden-
ti; amministrazione parrocchiale, ecc. (OT 19; AG 16; PO 10; RFIS 94). Tutto questo, evidente-
mente non può basarsi che su un’eccellente livello degli studi.
Per una formazione pastorale più completa, gli alunni possono essere aiutati dalla conoscenza
delle discipline psicologiche, pedagogiche e sociologiche, acquisita secondo metodi retti e le norme
date dall’autorità ecclesiastica (RFIS 94). E’, infatti, da tener presente che si tratta sempre dello stu-
dio di realtà connesse con l’azione della grazia.
I candidati al ministero sacro debbono essere istruiti sulle varie forme di apostolato moderno,
per es. sull’azione cattolica e le altre forme associative, specialmente i movimenti ecclesiali, sul mo-

34
CORSO DI FORMATORI

do di agire con i laici, per promuovere e favorire la loro attività apostolica e la loro collaborazione
(RFIS 95; cf. c. 275,§2). I candidati al ministero debbono essere preparati a cooperare con tutte le
forze spirituali e apostoliche presenti nella chiesa, specialmente con quelle che hanno una spiccata
caratteristica carismatica, la quale dev’essere rispettata e favorita, nell’inserimento armonico nella vi-
ta pastorale della diocesi. Ugualmente gli alunni debbono essere formati alla conoscenza della vita
consacrata, per essere preparati a rispettarne la specificità nella collaborazione che i vari istituti pre-
stano all’attività pastorale delle Chiese particolari (VC 48; 50).
Secondo il c. 256,§2 e RFIS 96, in connessione con il c. 245,§1, gli alunni debbono essere forma-
ti ad uno spirito autenticamente cattolico, che li aiuti a trascendere i confini della propria diocesi,
nazione o rito, e li disponga a sovvenire alle necessità della Chiesa universale
Quindi, la formazione pastorale di deve sviluppare attraverso la riflessione e insieme
l’applicazione operativa: le esperienze pastorali, che possono costituire un vero e proprio tirocinio
pastorale, da svolgersi preferenzialmente in parrocchia, nelle carceri, tra i giovani ecc. , debbono es-
sere metodicamente verificate (PDV 57; 58; RFIS 98). Le attività pastorali hanno un aspetto profes-
sionale, ma esso non deve prevalere sullo spirito pastorale con cui tale professionalità viene applica-
ta. Secondo il c. 258 e RFIS 97-99, sia durante l’anno scolastico sia soprattutto durante le vacanze,
gli alunni debbono svolgere, sotto la guida di un sacerdote esperto, attività pastorali, da determinare
secondo il prudente giudizio dell’ordinario e adattate all’età degli alunni e alle situazioni locali (cf.
OT 21). Le Conferenze episcopali sono invitate a dare opportune norme circa le esperienze pasto-
rali che gli alunni eventualmente hanno in paesi stranieri durante le vacanze estive (RFIS 97).
Affinché la formazione pastorale sia completa, come viene detto nella nota n. 217 di RFIS, si ri-
chiede che il seminario stabilisca i dovuti contatti non solo con la Chiesa locale, ma anche con la
società civile, che costituiscono il campo dell’azione apostolica. Per questo la vita di seminario non
dev’essere concepita e strutturata in un modo così chiuso che gli alunni si sentano come avulsi dalla
condizione degli altri uomini, ma neppure così aperta che sia lecito agli alunni fare qualsivoglia
esperienza. Per questo le esperienze apostoliche, come abbiamo detto, debbono essere determinate
dall’Ordinario ed essere condotte sotto la moderazione di un prefetto dell’apostolato. Tutto, infatti,
dev’essere condotto alla luce della futura vita sacerdotale, rettamente intesa.
RFIS 42 permette che le Conferenze episcopali eventualmente prevedano nell’iter formativo di
tutti i seminaristi o di singoli, l’interruzione, a giudizio dell’Ordinario proprio, della dimora in semi-
nario, per un anno o per un semestre, tempo in cui vengono interrotti o gli studi e la vita nel semi-
nario, oppure solo la vita in seminario, continuando gli studi filosofico-teologici altrove. Durante
questo periodo di assenza l’alunno, sotto la guida di un esperto sacerdote, presta aiuto nel servizio
pastorale, venendo a contatto con l’ambiente in cui dovrà nel futuro svolgere il suo ministero e
quindi mette alla prova le sue attitudini alla vita e al ministero sacerdotale. Non sono neanche esclu-
se esperienze nel lavoro manuale o nel servizio militare,
dove questo è obbligatorio.
Altra possibilità ammessa, è quella di concedere, dopo il primo anno di seminario maggiore, che
l’alunno si dedichi agli studi profani in un’università, oppure compia fuori del seminario gli studi di
qualche disciplina speciale, in modo che egli possa acquisire una maggiore libertà interna ed esterna
in relazione al consolidamento della sua vocazione.
Infine, la Conferenza dei Vescovi debbono definire quanto prescritto dal c. 1032,§2 e da RFIS
63, cioè, come abbiamo già visto, che completato il corso filosofico-teologico, gli alunni esercitino
per uno o più anni il ministero diaconale, sia per meglio maturare e consolidarsi nella vocazione,

35
CORSO DI FORMATORI

sotto la guida di un esperto sacerdote sia per assimilare le discipline pastorali studiate in seminario,
sia per facilitare il passaggio al ministero sacerdotale.
III) I RESPONSABILI DEL SEMINARIO
Il Vescovo
Il c. 259,§1 enuncia che supremo moderatore del seminario è il Vescovo diocesano, oppure sono
supremi moderatori i Vescovi interessati, se si tratta di un seminario interdiocesano, in quanto
all’uno o agli altri spetta decidere ciò che riguarda l’alta direzione ed amministrazione del seminario.
Per questo, secondo il c. 259,§2, il Vescovo diocesano i Vescovi interessati debbono frequentemen-
te visitare di persona il seminario, vigilare sulla formazione in generale dei propri alunni e sull’in-
segnamento filosofico e teologico loro impartito, informarsi sulla vocazione, indole, pietà e progres-
so degli alunni, soprattutto in vista del conferimento degli ordini sacri. Il Vescovo, quindi, attraver-
so un rapporto frequente, deve giungere ad una conoscenza personale dei suoi seminaristi, in quan-
to è lui che poi dovrà dare un giudizio sulle qualità di essi in ordine al conferimento del diaconato e
del presbiterato (c. 1025,§1), fondandosi su argomenti positivi (c. 1052,§1). Come dice PDV 65,
primo rappresentante di Cristo nella formazione sacerdotale è il Vescovo, il quale deve autenticare
la chiamata interiore dello Spirito. Il Vescovo per conoscere personalmente i seminaristi, deve “sta-
re” con loro, quindi sarebbe bene che il Vescovo viva per qualche tempo nel seminario, dia gli eser-
cizi spirituali si seminaristi, ecc.
Altri responsabili
I cc. 239 e 240, RFIS 27 e PDV 66 enumerano gli altri moderatori interni al seminario: il rettore,
il vice rettore, il direttore o i direttori spirituali, il prefetto degli studi, il prefetto degli esperimenti
pastorali, il prefetto di disciplina, i moderatori dei gruppi degli alunni, l’economo, il bibliotecario. Di
tutte debbono essere definiti le competenze, i doveri, i diritti e la giusta retribuzione. E’ da tener
presente che nei seminari di minore entità, con un ristretto numero di alunni, strettamente non si
richiede che ai singoli uffici sino preposte altrettante persone (RFIS 27).
RFIS 28, esplicitando il c. 259,§1, dispone che tutti i moderatori del seminario, in quanto a diver-
so titolo e in vario modo rappresentano il Vescovo, a meno che gli statuti del seminario non preve-
dano differentemente, sono nominati dal Vescovo diocesano o dai Vescovi interessati, dopo una
diligente consultazione. I moderatori, infatti, debbono essere scelti con la massima cura, in quanto
debbono svolgere la funzione di educatori spirituali. Per questo si richiede che siano animati da spi-
rito sacerdotale e apostolico, capaci di prestarsi mutua e fraterna collaborazione, aperti nel percepire
le necessità della Chiesa e della società civile, dotati di esperienza pastorale, specialmente parroc-
chiale, conoscitori dell’animo giovanile, fedeli alla Chiesa, particolarmente nelle persona del Vesco-
vo, esempi di vita sacerdotale integra (RFIS 30).
Proprio perché, come enuncia PDV 66, tutta la comunità del seminario ha una responsabilità
formativa, nel seminario, a norma del c. 239,§3, deve vigere il principio di un’organica correspon-
sabilità nella formazione degli alunni. Infatti gli statuti del seminario deve contenere norme che sta-
biliscono le modalità secondo cui la responsabilità del rettore sia condivisa dagli altri moderatori,
dagli insegnanti e anche degli stessi alunni. Il canone dice “in disciplina praesertim servanda”, quin-
di la corresponsabilità si può estendere ad ogni aspetto della vita del seminario e non solo a quelli
strettamente disciplinari. Le varie forme concrete di partecipazione debbono essere determinate nel
regolamento del seminario. Comunque, secondo il c. 261,§2, non solo il rettore deve curare che gli
alunni osservino fedelmente la RFIS, la RIS della Conferenza episcopale e il regolamento del semi-
nario, per quello che concerne la formazione al sacerdozio, ma anche, per la parte che a ciascuno

36
CORSO DI FORMATORI

compete e sotto la sua autorità, gli altri moderatori e gli insegnanti. Ugualmente il moderatore degli
studi condivide col rettore la responsabilità di provvedere che gli insegnanti adempiano nel debito
modo il loro incarico, secondo le norme della S. Sede, della Conferenza episcopale e del seminario.
I moderatori del seminario, quindi, proprio per svolgere bene il loro compito di formatori, oltre
le doti naturali e soprannaturali di cui sopra, debbono avere avuto una peculiare formazione spiri-
tuale, pedagogica e tecnica, finalizzata alla funzione che debbono svolgere, da acquisire o in istituti
specializzati oppure con la partecipazione a convegni e a corsi di formazione, come programma di
una formazione permanente (RFIS 30; 31). Le Direttive Tra i vari mezzi date dalla CEC sulla prepa-
razione degli educatori nei seminari, il 4. 11. 1993 (EV 13/3151-3284), specificano i principi genera-
li che si trovano nel CIC, nella RFIS e nella PDV.
Data la difficoltà di reperire formatori capaci e ben formati, spesso sarà necessario unire le forze
tra Vescovi e istituti religiosi.
 Il rettore
Il c. 239,§1 chiaramente enuncia che il rettore dirige il seminario, cioè, come specifica il c. 260,
ha il governo quotidiano del seminario in modo tale che, a norma della RFIS e della RIS della Con-
ferenza episcopale, nonché del regolamento del seminario, tutti, ciascuno nella propria condizione e
nell’adempimento dei propri incarichi, debbono obbedire al rettore, specialmente, come ulterior-
mente puntualizza il c. 261, gli alunni e gli insegnanti.
Il rettore dev’essere il coordinatore dei moderatori e in vario modo deve favorire una stretta col-
laborazione con loro e fra di loro, affinché rispettato il segreto di coscienza e tutelato il foro inter-
no, si abbia un’impostazione concorde delle linee di formazione. Per ottenere questo è auspicabile
che i moderatori vivano insieme nel seminario e che almeno si riuniscano spesso, per es. una volta
al mese, per coordinare la loro attività comune, esaminare i problemi del seminario e cercare delle
soluzioni (RFIS 29). E’ evidente che in questi incontri dev’essere molto discreta la presenza e la par-
tecipazione del direttore o dei direttori spirituali del seminario.
In virtù dell’autorità che riceve, dice il c. 238,§2, il rettore rappresenta il seminario in tutti gli af-
fari, a meno che, per determinate questioni l’autorità competente non abbia stabilito diversamente.
 Il vice rettore
Il vice rettore, solo nominato nel c. 239,§1. Non si dice niente riguardo alla sua funzione; co-
munque, mai dev’essere considerato come un duplice organo di governo (Comm. 8,1976, 157),
quindi aiuta il rettore, secondo le sue direttive, nel governo quotidiano del seminario e lo sostituisce
in sua assenza.
 Il prefetto della vita comune e i moderatori dei gruppi degli alunni.
Il prefetto della vita comune, che è solo nominato in RFIS 27 senza alcuna aggiunta, e i mo-
deratori dei gruppi degli alunni, in cui il seminario, specialmente se numeroso, può essere diviso,
aiutano il rettore, secondo le competenze che il regolamento del seminario attribuisce loro. Della
figura del moderatore di gruppo tratta RFIS 23, dicendo che conserva uno stretto e continuo rap-
porto col rettore, con gli alunni del proprio gruppo e con i moderatori degli altri gruppi, in ordine
alla migliore formazione degli alunni.
 L’economo
L’economo, anch’esso solo nominato dal c. 239,§1, è il responsabile della vita economica del
seminario, ma non nel senso di sostituirsi al consiglio per gli affari economici o che abbia una facol-

37
CORSO DI FORMATORI

tà di decisione in ordine all’economia del seminario, ma solo nel senso che ha l’amministrazione or-
dinaria del seminario e provvede alle sue necessità quotidiane, con quella potestà che per questo ri-
ceve.
 I docenti
I docenti, che insegnano le varie discipline filosofiche, teologiche e giuridiche (c. 239,§1), come
dispone il c. 253,§1, sono nominati dal Vescovo o dai Vescovi interessati, se si tratta di seminario
interdiocesano, a meno che non sia disposto diversamente, dopo aver consultato, precisa RFIS 33,
il rettore e il collegio dei docenti, i quali possono proporre i candidati che ritengono idonei. Il nu-
mero dei professori dev’essere sufficiente in relazione alle discipline che debbono essere insegnate,
al metodo di insegnamento e al numero degli alunni, in quanto il c. 253,§2 dispone che debbono es-
sere nominati insegnanti singoli per le singole discipline enumerate nel canone: S. Scrittura, teologia
dommatica, teologia morale, liturgia, filosofia, diritto canonico, storia ecclesiastica, ecc. In conse-
guenza di questo RFIS 32 esige che in ogni seminario con corsi filosofico-teologico si abbia un
elenco dei docenti necessari per i diversi corsi e le distinte discipline.
Il Codice non dice niente se i docenti debbano essere chierici o possano essere ammessi anche
laici, mentre RFIS 33 determina che per le discipline sacre essi siano generalmente dei sacerdoti e
aggiunge che debbono dare agli alunni, secondo il loro stato, esempio di vita cristiana o sacerdotale.
Quindi, anche se eccezionalmente, possono essere ammessi anche dei laici. PDV 66 ritiene oppor-
tuno coinvolgere, in forme prudenti e adattate ai vari contesti culturali, la collaborazione dei fedeli
laici, uomini e donne, nella formazione dei futuri sacerdoti. Le Direttive tra i vari mezzi del 4. 11.
1993, al n. 20, richiamando PDV 66 e aggiungendo la è possibile collaborazione di diaconi perma-
nenti, precisa che la collaborazione sia di laici che dei diaconi può essere un arricchimento special-
mente in quei settori in cui dispongono normalmente di particolare competenza, come la spiritualità
familiare, la medicina pastorale, i problemi politici, economici e sociali, le questioni scientifiche, la
bioetica, l’ecologia, la storia dell’arte, i mezzi di comunicazione sociale, le lingue classiche e moder-
ne, ecc.
I docenti debbono essere insigni per virtù (c. 253,§1) e, insistono RFIS 38 e PDV 67, nello svol-
gimento della loro funzione si debbono reputare dei veri formatori, quindi debbono tener sempre
ben presenti le norme circa la dottrina da trasmettere e il metodo di insegnamento, il progresso nel-
la scienza, nella vita spirituale e nella personalità presbiterale da parte degli alunni. La ragione della
preferenza di sacerdoti per l’insegnamento nei seminari, allora, non è tanto la competenza nella ma-
teria, in quanto questa può essere acquisita anche da laici, ma il fatto che i docenti si debbono senti-
re investiti di una funzione formativa più globale in ordine al sacerdozio, di cui debbono diventare
nello stesso tempo anche modelli di identificazione per gli alunni. Per questa stessa ragione non
possono essere assunti al compito di docenti nei seminari, come a nessun altro compito, coloro che
hanno abbandonato il ministero. Proprio in ordine alla complessa finalità formativa da perseguire,
RFIS 38 esorta i docenti a riunirsi spesso, per es. una volta al mese.
I docenti, che debbono anche possedere doti pedagogiche, perché acquisiscano la dovuta prepa-
razione scientifica, stabilisce il c. 253,§1, debbono aver conseguito, per le discipline filosofiche, teo-
logiche e giuridiche il dottorato o la licenza in un’università o facoltà riconosciuta dalla S. Sede, op-
pure, ammette RFIS 34 una qualificazione equivalente, mentre per le altre discipline i gradi accade-
mici corrispondenti. Sarà loro compito continuamente aggiornare la loro preparazione scientifica
(RFIS 36).
I professori delle scienze teologiche in particolare debbono essere consci di esercitare nella Chie-
sa un vero e proprio ufficio o ministero, in quanto non insegnano a nome proprio, ma a nome della

38
CORSO DI FORMATORI

Chiesa, dalla quale hanno ricevuto la missione (RFIS 87). Questa missione è della stessa natura del
mandato che i professori delle facoltà o università ecclesiastiche ricevono dall’autorità ecclesiastica,
a norma del c. 818, in quanto, come dice PDV 67 l’insegnante di teologia nello svolgimento del suo
compito collabora col Vescovo. La collaborazione tra il docente e il magistero, con il mandato, di-
venta, in un certo senso, una partecipazione all’opera del magistero. Per questo nel loro insegna-
mento debbono manifestare il “sensus Ecclesiae” in piena fedeltà al magistero (RFIS 87; PDV 67).
Posto questo, tuttavia, i professori, per tenersi aggiornati nel campo della teologia, debbono godere
della giusta libertà di ricerca e di esprimere il loro pensiero, procedendo però sempre come leali
cooperatori della verità, distinguendo i diversi gradi di certezza teologica nella dottrina proposta,
cioè quello che è di dottrina di fede, quello che è provato dal consenso dei dottori, le nuove spiega-
zioni probabili, le proprie ipotesi (RFIS 88).
Così si può capire il c. 253,§3, che cioè, in coerenza col c. 810,§1, il docente che in modo grave,
cioè per motivi di ordine morale e dottrinale, venga meno al suo incarico dev’essere rimosso dalla
competente di cui al §1 dello stesso canone. Contro il decreto di rimozione è dato ricorso.
 Il prefetto degli studi
Il prefetto o moderatore degli studi esercita un duplice compito. Innanzitutto, come rileva il c.
254,§1, quello di moderare tutto l’ordinamento degli studi, in modo che i docenti mettano in evi-
denza l’intima unità e l’armonia di tutta la dottrina della fede, in modo che gli alunni sperimentino
che stanno studiando un’unica scienza; poi che, a norma del c. 261,§1, provvedano, insieme al retto-
re, che gli insegnanti adempiano debitamente il loro incarico.
 I formatori della vita spirituale
 Figure e funzioni
Centrale e insostituibile nella formazione spirituale è la direzione spirituale.
Varie sono le figure che nel Codice troviamo come agenti della formazione spirituale: lo spiritus
director o gli spiritus directores e gli alii sacerdotes ad hoc munus ab episcopo deputati, di cui al c.
239,§2; i confessarii ordinarii e gli alii confessarii, di cui al c. 240,§1; il moderator vitae spiritualis, di
cui al c. 246,§4.
Innanzitutto è da dire che notevole è stato il cambiamento rispetto al Codice del 1917, il quale
col c. 1358 assicurava nel seminario la presenza di un director spiritus e di almeno due confessarii
ordinarii. Mentre non si faceva nessun accenno alla libertà degli alunni riguardo alla direzione spiri-
tuale, il c. 1361,§§1 e 2 permetteva una libera scelta tra i confessori designati, oltre agli ordinari. Fin
dall’inizio dei lavori di riforma del Codice, tra il gruppo di studio e tra i consultori fu fatta la propo-
sta di avere più directores spiritus nel seminario e quindi di un loro modo collegiale di procedere,
tenendo presente due esigenze: l’unicità della direzione spirituale da una parte e la libertà di coscien-
za dei seminaristi dall’altra. Fu accettata la pluralità di directores spiritus per dare libertà di coscienza
anche riguardo alla direzione spirituale e non solo per il sacramento della penitenza, ma fu respinto
il modo collegiale di procedere, evidentemente per il fatto che sarebbe potuta facilmente essere vio-
lata la segretezza dell’ambito della coscienza. Inoltre, fu aggiunta la possibilità di avere nel seminario
altri sacerdoti, che pur non ricevendo l’ufficio di directores spiritus, sono deputati dal vescovo, af-
finché gli alunni si possano ad essi rivolgere liberamente per la direzione della loro coscienza. Quin-
di possiamo dire che da una parte si è voluta evitare una certa anarchia nella formazione spirituale,
ma nello stesso tempo si è voluta tutelare il più possibile la libertà degli alunni di scegliere chi me-
glio li possa aiutare nella propria vita spirituale. Si è compreso, infatti, che è di importanza fonda-

39
CORSO DI FORMATORI

mentale per una buona formazione che gli alunni abbiano un consigliere spirituale con il quale pos-
sano con fiducia e sincerità aprire tutto il proprio animo.
Per soddisfare in modo più completo quest’ultima esigenza, viene introdotta nel c. 246,§4 la fi-
gura del moderator vitae spiritualis, che dalla Relatio per la Congregazione Plenaria del 20-29 otto-
bre 1981 veniva dichiarata giuridicamente differente dalla figura del director spiritus presente nel
seminario, sebbene nella Relatio stessa permanga una certa confusione con la figura del confessore.
Infine, la libertà nella scelta del confessore, anche all’esterno del seminario, è tutelata dal c.
240,§1, che fin dall’inizio è stato formulato nella sua stesura definitiva. La libertà della coscienza
viene anche tutelata dal c. 985 che proibisce l’ascolto delle confessioni da parte del rettore del semi-
nario, a meno che in casi particolari gli alunni non lo chiedano spontaneamente.
Sebbene le tre figure si possano cumulare in un’unica persona, anzi generalmente così avviene ed
è auspicabile che avvenga, quando il director spiritus del seminario è scelto dall’alunno come mode-
rator suae vitae spiritualis e come confessarius, tuttavia non c’è dubbio che dal punto di vista giuri-
dico si debba chiaramente distinguere tra di esse. Infatti se la figura giuridica del moderatore della
vita spirituale fosse la stessa che quella del direttore spirituale, la disposizione contenuta nel c.
246,§4 non si vede perché non sia stata messa nel c. 239,§2; similmente se tale figura si identificasse
giuridicamente con quella del confessore, quanto contenuto nella seconda parte del c. 246,§4 sareb-
be dovuto andare nel c. 240,§1.
Allora si tratta di determinare bene specialmente le figure giuridiche del director spiritus, di cui al
c. 239,§2, e del moderator vitae spiritualis, di cui al c. 246,§4, pur rimanendo che nella generalità dei
casi esse si cumulano in una sola persona, quella del director spiritus.
Ad una chiarificazione non contribuiscono né le traduzioni del Codice in lingua volgare, che in
genere dal punto di vista terminologico identificano le due figure, né la Ratio fundamentalis, né la Pa-
stores dabo vobis. Quest’ultima, riaffermata la distinzione tra foro esterno e foro interno, sempli-
cemente menziona la libertà nello scegliere il confessore e la prudenza e discrezione propria del mi-
nistero della direzione spirituale (n. 66). Invece la Ratio fundamentalis complica ulteriormente le cose.
Nel n. 55 si dice che ognuno deve avere il proprio director spiritus, al quale aprire con umiltà e con-
fidenza la propria coscienza per essere più facilmente diretto nella strada del Signore, ma in nota
viene citato il c. 246,§4, al quale il numero della Ratio corrisponde per contenuto, ma non per ter-
minologia, in quanto nel canone si usa il termine moderator vitae spiritualis. Subito dopo, nello
stesso numero, si aggiunge che il moderator spiritus e il confessarius siano scelti con piena libertà
dagli alunni fra quelli che il vescovo ha ritenuto idonei per questo ministero, citando in nota il c.
240,§1, che tratta dei confessarii e il c. 239,§2, che è sul director spiritus e sugli alii sacerdotes ad hoc
munus ab episcopo deputati. Disponendo che i confessori debbono essere scelti fra quelli che il ve-
scovo ha ritenuto idonei a tale ministero la Ratio entra in contrasto con il c. 240,§1, che lascia la
piena libertà agli alunni di rivolgersi a qualunque confessore sia all’interno che all’esterno del semi-
nario, quindi anche tra quelli non designati dal vescovo. Il testo rimane immutato rispetto allo stes-
so numero della Ratio del 1970, la quale riportava in nota i cc. 1358 e 1361 del CIC 1917, senza che
ci si accorga che il CIC 1983 ha cambiato la disciplina. Dato che la Ratio fundamentalis del 1985, co-
me abbiamo visto, non ha forza di legge perché non è stata in nessun modo promulgata, questa di-
sposizione contenuta nel n. 55 non può avere valore abrogativo del c. 240,§1.
La funzione del director spiritus (o dei directores) del seminario è duplice, in quanto si definisce
in relazione sia alla comunità che agli alunni come singoli.
E’ proprio del direttore spirituale innanzitutto animare tutta la vita spirituale del seminario, cioè
dare gli esercizi spirituali agli alunni o procurare chi li dia, dare istruzioni circa la dottrina sulla vita

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CORSO DI FORMATORI

spirituale, organizzare la preghiera liturgica e comune, ecc. Tutto questo spetta solo al direttore spi-
rituale o ai vari direttori spirituali se ce ne fossero, ma non agli altri sacerdoti che fossero deputati
dal vescovo a norma del c. 239,§2, in quanto è proprio di questi avere solo cura della vita spirituale
dei singoli alunni che a loro si rivolgono e non della comunità in quanto tale. Sotto l’aspetto comu-
nitario il compito del director spiritus rimane nell’ambito del foro esterno. Perciò nel caso in cui, a
norma del c. 239,§2 fossero nominati più directores spiritus - come nel caso in cui la comunità del
seminario fosse molto numerosa e fosse divisa in vari gruppi, per es. a seconda degli anni di corso, -
nulla vieta, anzi è necessario, che in questo ambito, fatto salvo il segreto a cui sono tenuti riguardo
all’ambito della coscienza, agiscano in stretto collegamento tra di loro, anzi collegialmente.
Altro aspetto della funzione del director spiritus è quello di consigliere spirituale, cioè di aiuto
agli alunni che lo scegliessero nel discernere l’azione di Dio, accompagnarli nelle vie del Signore,
concretamente nella preghiera e nella formazione della coscienza, perché arrivino a quel discerni-
mento responsabile circa l’autenticità della propria vocazione per poter fare una scelta consapevole
e libera. Per meglio aiutare l’alunno, il director spiritus, può in determinati casi, consigliare l’aiuto di
uno psicologo, salvo il diritto dell’alunno di proteggere la propri intimità, sancito dal c. 220. E’ evi-
dente che il director spiritus può fungere anche da confessore, se l’alunno lo richiede liberamente.
Gli alunni debbono essere lasciati liberi di accedere per la direzione della loro coscienza ad uno dei
directores spiritus che fossero nel seminario. E’ da osservare che se i vari directores spiritus fossero
preposti ai diversi anni di studio, sarebbe dannoso per l’alunno dover avere come suo moderator
vitae spiritualis il director spiritus della sua classe, perché ogni anno dovrebbe cambiare.
La libertà di scelta degli alunni viene poi ulteriormente tutelata a norma dello stesso c. 239,§2,
con la deputazione, da parte del vescovo diocesano o dei vescovi interessati, di altri sacerdoti che
svolgono la funzione di consiglieri spirituali. Questi altri sacerdoti debbono essere considerati con-
siglieri spirituali dei singoli alunni, in quanto il loro compito si restringe alla direzione spirituale dei
singoli e alla funzione di confessori di essi, se da questi venisse richiesto anche il sacramento della
penitenza. L’alunno ha il dovere di informare il rettore circa il sacerdote che ha scelto come suo
consigliere spirituale. E’ compito di colui che l’alunno ha scelto - sia che si tratti del director spiritus
sia che si tratti di uno degli altri sacerdoti di cui al c. 239,§2 - dare all’alunno stesso il parere circa la
sua idoneità agli ordini sacri, in quanto è lui solo che ha una vera conoscenza dell’alunno. Tale
compito sorge dall’ufficio ricevuto dal vescovo e dal rapporto stabilito con l’alunno.
Il moderator vitae spiritualis di cui al c. 246,§4, è, come abbiamo detto, una figura giuridicamente
distinta dal direttore spirituale. Si tratta di un sacerdote liberamente scelto dall’alunno, anche esterno
al seminario, che non riceve alcuna ufficiale deputazione, al quale l’alunno possa aprire con fiducia
maggiore la propria coscienza. L’alunno deve informare della sua scelta e delle ragioni di essa, il ret-
tore del seminario, come responsabile della sua formazione spirituale; quest’ultimo per gravi ragioni,
che non è tenuto a rivelare, specialmente se toccassero la buona fama della persona, può proibire
all’alunno di accedere al moderator vitae spiritualis scelto e consigliarne qualche altro. Questo vale
pure in relazione al confessore che l’alunno avesse liberamente scelto, anche all’esterno del semina-
rio, a norma del c. 240,§1, non tra quelli ordinari o straordinari. Avuta l’approvazione del rettore,
l’alunno non è più tenuto ad accedere al director spiritus del seminario, come suo consigliere spiri-
tuale. La funzione del moderator vitae spiritualis è quella della direzione della coscienza dell’alunno,
di ascoltarne eventualmente le confessioni, e di esprimere a lui il suo parere circa l’idoneità a riceve-
re gli ordini sacri. In base al c. 246,§4 l’alunno proveniente da un movimento ecclesiale o da altra
forma di aggregazione di vita evangelica, come da un istituto secolare clericale, non dovrebbe ve-
dersi negata dal rettore del seminario la licenza di avere come moderatore della sua vita spirituale un
membro del movimento o aggregazione di origine.

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CORSO DI FORMATORI

La ragione delle due figure, dal punto di vita istituzionale, del director spiritus e del moderator
vitae spiritualis sgorga da una duplice necessità: da una parte che il vescovo deputi in modo ufficiale
qualcuno che all’interno del seminario sia di piena fiducia quanto alla dottrina, alla pietà e ai costumi
e che quindi agisca in qualche modo a suo nome in tutte le funzioni che svolge riguardo sia alla co-
munità che ai singoli che lo scegliessero come consigliere spirituale; dall’altra parte, di tutelare la più
piena libertà dell’alunno di scegliere un sacerdote al quale aprire in modo pieno la propria coscienza,
cosa che talvolta per svariate ragioni può rimanere difficile con il director spiritus del seminario. Co-
sì, il moderatore della vita spirituale può essere di molto aiuto all’alunno, specialmente nei momenti
di difficoltà, anche dopo l’ordinazione. Tuttavia, ripeto, la figura del moderator vitae spiritualis e
quella del director spiritus si cumulano in un’unica persona, se l’alunno sceglie quest’ultimo come
guida della sua coscienza.
In base al c. 246,§4 l’alunno proveniente da un istituto secolare clericale, non dovrebbe vedersi
negata dal rettore del seminario la licenza di avere come moderatore della sua vita spirituale un
membro dell’istituto di appartenenza.
Tutto ciò che è stato fin qui detto va applicato anche ai religiosi in formazione verso il sacerdo-
zio, ma viene ulteriormente illuminato anche dalla disciplina riguardante questi ultimi.
La libertà riguardo al sacramento della penitenza e la direzione di coscienza è tutelata in modo
generale dai cc. 630,§1 e 985, salva la disciplina dell’istituto. Nelle case di formazione, secondo il §3
del c. 630, i superiori debbono provvedere a che vi siano confessori ordinari approvati
dall’ordinario del luogo d’intesa con la comunità, senza, però l’obbligo dei religiosi di presentarsi a
loro, i quali, allora possono liberamente scegliere il proprio confessore. Il superiore religioso re-
sponsabile della formazione può intervenire solo se per gravi ragioni, che non è tenuto a dire, ritie-
ne che il confessore scelto potrebbe essere dannoso per la formazione del suddito. Inoltre, dato che
la formazione della coscienza anche attraverso la confessione fa parte della spiritualità stessa
dell’istituto è sempre altamente opportuno che i religiosi in formazione abbiano come confessore
un sacerdote del loro stesso istituto. In un istituto totalmente dedito alla contemplazione, la libertà
di scelta sarà necessariamente più limitata.
A maggior ragione si deve dire lo stesso riguardo al rector vel monitor spiritualis o director spiri-
tualis di cui parlano i nn. 63 e 30 del documento Potissimum institutioni; infatti, salva la libertà di
coscienza di scegliere, col consenso del superiore responsabile della formazione, anche un altro
consigliere spirituale diverso da quello designato ufficialmente, è evidente che esso debba essere un
membro dello stesso istituto, perché non vi siano disarmonie nella formazione che deve avvenire
secondo il carisma dell’istituto.
PDV 68 affronta il problema dei seminaristi che hanno ricevuto la loro formazione di base in
movimenti ecclesiali o altro tipo di associazioni e che si riferiscono ad essi per la loro esperienza di
Chiesa, affermando che non dovranno sentirsi invitati a sradicarsi dal loro passato e ad inter-
rompere le relazioni con l’ambiente che ha contribuito al determinarsi della loro vocazione, né do-
vranno cancellare i tratti caratteristici della spiritualità che là hanno imparato e vissuto, in tutto ciò
che di buono, edificante e arricchente essi contengono.
Questo va collegato con il c. 246,§4, che dà la libertà all’alunno di scegliere un “moderator suae
vitae spiritualis” anche al di fuori dello “spiritus director” o degli “spiritus directores”, o anche degli
altri sacerdoti predisposti dal Vescovo nel seminario, a norma del c. 239,§2. In base a questo cano-
ne, proprio per dare concreta attuazione a quanto affermato da PDV 68, il rettore del seminario
non dovrebbe opporsi a che un seminarista abbia come “moderator suae vitae spiritualis” un mem-
bro del movimento da cui proviene e al quale rimane spiritualmente legato, a meno che il rettore

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CORSO DI FORMATORI

non abbia delle fondate riserve circa la persona del “moderator” scelto e non sul fatto che faccia
parte di tale movimento. Infatti, se la Chiesa ha approvato il movimento, ne ha approvato il metodo
pastorale e la spiritualità.
Tuttavia, PDV 68 aggiunge che è necessario che nel seminario tali giovani imparino «il rispetto
delle altre vie spirituali e lo spirito di dialogo e di cooperazione», si riferiscano con coerenza e cor-
dialità alle indicazioni formative del Vescovo e agli educatori del seminario, affidandosi con fiducia
alla loro guida e alle loro valutazioni. Questo, affinché siano preparati ad una genuina scelta presbi-
terale al servizio dell’intero popolo di Dio, nella comunione fraterna del presbiterio e in obbedienza
al Vescovo.
Infatti, si deve tener presente che proprio per mantenere viva quella spiritualità che è stata
all’origine della vocazione ed è ancora un fruttuoso alimento spirituale, i seminaristi provenienti da
un movimento che ha una forte connotazione carismatica tendono spontaneamente a costituire nel
seminario un gruppo a sé, con un certo danno della comunità di vita con gli altri seminaristi.
Allora, per mantenere vivo il carisma a cui sono chiamati a partecipare ed evitare nello stesso
tempo le tensioni all’interno del seminario diocesano o interdiocesano, in alcuni casi è stata adottata
la soluzione di concedere la facoltà al movimento di formare i propri membri agli ordini sacri in un
seminario proprio, che sia però sotto la responsabilità e la vigilanza dell’ordinario del luogo, al quale
spetterà, come richiama VC 62, stabilire, alla luce di chiari criteri, l’idoneità dei candidati e di am-
metterli agli ordini sacri.
E’ importante, però, tener presente anche i pericoli soggiacenti a questa soluzione. Infatti una
formazione distinta da quella degli altri candidati al ministero sacro, da esercitarsi poi come clero
diocesano, potrebbe semplicemente spostare il problema al momento dell’inserimento nel presbite-
rio e nel pieno dell’attività pastorale nella diocesi.
A mio parere la soluzione di permettere che un movimento abbia un seminario proprio
dev’essere considerata in una prospettiva più ampia, in relazione, cioè, alla natura e alla finalità del
movimento in questione e al problema dell’incardinazione. Di questo tratteremo a suo tempo.
 Rapporto con i superiori di foro esterno.
Il c. 240,§2 proibisce che venga richiesto al director spiritus e ai confessori il parere circa
l’ammissione degli alunni agli ordini sacri o alla dimissione dal seminario. L’alunno, tuttavia, è da
considerarsi moralmente obbligato a comunicare ai superiori di foro esterno (rettore e vescovo) il
parere espresso da colui che ha scelto come consigliere spirituale, sia che si tratti dello stesso direc-
tor spiritus del seminario, sia che si tratti di uno degli altri sacerdoti di cui al c. 239,§2, sia che si trat-
ti di un altro moderator vitae spiritualis, scelto a norma del c. 246,§4. Questo obbligo sorge sia dal
fatto stesso che i superiori del seminario sono i responsabili della formazione spirituale degli alunni,
per cui debbono fare lo scrutinio circa le qualità dell’ordinando (c. 1051); sia dalla responsabilità del-
lo stesso alunno riguardo alla sua ordinazione. Tutta la formazione, come abbiamo visto, deve esse-
re indirizzata a rafforzare il senso di responsabilità personale degli alunni e di apertura sincera
dell’animo con i superiori, per il loro maggior profitto nella formazione stessa. Se tra i superiori e
l’alunno si è stabilito quel vero e sincero rapporto di apertura fiduciosa di cui abbiamo già parlato
sopra, può essere ritenuta legittima la domanda dei superiori del seminario (vescovo e rettore) rivol-
ta allo stesso alunno circa il parere positivo o negativo del direttore spirituale, senza però chiedere
nulla circa le motivazioni date da questi. Inoltre il rettore e il vescovo sono strettamente e grave-
mente tenuti al segreto di ciò che con piena fiducia l’alunno confida loro. Il rettore, come chiara-
mente suggerisce la Ratio fundamentalis al n. 29, non può comunicare niente di ciò che conosce in
questo modo neanche ai membri dell’equipe di formazione. E’ evidente che, da una parte, i superio-

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CORSO DI FORMATORI

ri debbono sapersi guadagnare con la loro saggezza, discrezione e santità di vita, la fiducia degli
alunni; questi, dall’altra, man mano che maturano debbono superare le barriere psicologiche che li
allontanano dai superiori.
Salvo tutto questo, può presentarsi una difficoltà. Se il Regolamento del seminario stabilisse che
tutti gli alunni, anche se hanno un proprio moderator vitae spiritualis che non sia il director spiritus
del seminario, periodicamente si incontrino anche con quest’ultimo, questi potrà dare il suo parere
all’alunno, ma solo entro i limiti della conoscenza acquisita, anche se forse piuttosto esteriore.
L’alunno deve informare il rettore del seminario del grado di relazione che ha stabilito con il direc-
tor spiritus del seminario e della scelta del moderator suae vitae spiritualis, in quanto il rettore nel
redigere il suo scrutinio deve tener conto sia del grado di relazione intercorrente tra l’alunno e il di-
rettore spirituale del seminario, affinché possa farsi un giudizio circa il parere espresso da
quest’ultimo all’alunno e di cui l’alunno deve averlo informato, sia del parere dato dal moderatore
della vita spirituale dell’alunno, di cui quest’ultimo avrà di sua iniziativa informato lo stesso rettore.
Per quello che riguarda i religiosi, rispettata la competenza propria del confessore e del direttore
spirituale (director spiritualis) in senso stretto, secondo il n. 30 del documento Portissimum institu-
tioni, gli educatori (maestro dei novizi e responsabili dei professi temporanei) debbono accompa-
gnare il religioso in formazione sulle strade del Signore secondo la spiritualità e il carisma proprio
dell’istituto, attraverso un dialogo diretto e regolare. Tutto, comunque è da leggere alla luce del §5
del c. 630, secondo il quale, fatta salva la libertà della coscienza, per cui il superiore in nessun modo
può chiederne la manifestazione, i religiosi, come abbiamo visto, sono invitati a stabilire un rappor-
to spirituale con i superiori, e quindi a rivolgersi ad essi con fiducia, palesando loro l’animo con
spontanea libertà. E’ da osservare che c’è una certa differenza tra manifestazione della coscienza in
senso stretto e apertura dell’animo. La prima comprende oltre la comunicazione degli atti esterni
anche di quelli interni, come peccati, colpe, virtù, grazie speciali, desideri, ecc. ; la seconda, invece,
oltre la comunicazione degli atti esterni anche delle ansietà interne o dei dubbi riguardo alla dottrina
spirituale, alla prassi nell’istituto e al modo concreto di attuare il carisma proprio. Infatti, come dice
il documento Potissimum institutioni al n. 63, i superiori, anche se non possono sostituirsi al diret-
tore spirituale, sono veri maestri di spirito in relazione al progetto evangelico del proprio istituto.
E’ infine da dire che solo in questo dialogo a tre angoli, che il candidato agli ordini deve stabilire:
direttore spirituale, responsabili immediati della formazione, superiori, si potrà avere un fruttuoso
discernimento spirituale in ordine alla formazione e alla maturazione del candidato agli ordini sacri.
Se mancasse uno degli angoli, la formazione risulterebbe carente e tale discernimento si renderebbe
difficile e difettoso; il giudizio dei superiori, infatti, sarebbe puramente esterno e quindi potrebbe
non corrispondere alla reale maturazione del candidato, con gravi danni per questi e per la comunità
ecclesiale.
 Consultazioni psicologiche
Data la delicatezza della materia, per renderci conto della mente del legislatore e della S. Sede,
considereremo anche documenti e canoni riguardanti la vita consacrata, in quanto i principi validi
per tale ambito sono applicabili anche ai seminari.
Il c. 241,§1 richiede una salute non solo fisica ma psichica per l’ammissione al seminario.
PDV 40 afferma che durante la formazione l’accompagnamento spirituale può essere aiutato in
determinati casi e a precise condizioni, ma non sostituito, da forme di analisi e di aiuto psicologico.
In nota si fa riferimento al c. 220 che protegge il diritto di ogni persona di difendere la propria inti-
mità. Fa riferimento anche al c. 642, che ammette che in ordine all’ammissione in noviziato, la salu-
te, l’indole e la maturità possono essere, all’occorrenza verificati da esperti, fermo restando il c. 220.

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CORSO DI FORMATORI

Le Dir. Potissimun institutioni della Congr. per gli IVC (2. 2. 1990), al n. 52, sulla stessa linea di
PDV 40, ricorda che i maestri dei novizi debbono essere consapevoli che i soli mezzi psicologici
non potranno sostituirsi ad un’autentica guida spirituale.
Il c. 1029 afferma che possono essere ammessi agli ordini sacri coloro che, tra le altre cose, siano
dotati di qualità fisiche e psichiche congruenti con l’ordine che dev’essere ricevuto.
I cc. 1041,1 e 1044,§2,2 determinano che è irregolare a ricevere e ad esercitare gli ordini chi è
affetto da qualche forma di pazzia o altra infermità psichica, per la quale, consultati i periti, viene
giudicato inabile a svolgere nel modo appropriato il ministero.
Le Direttive Tra i vari mezzi della CEC (4. 11. 1993), nel contesto della preparazione pedagogica
dei formatori, richiamato al n. 58 il fatto che i principi formali della psicologia, come delle altre
scienze umane, assumono una precisa specificità, in quanto vanno messi al servizio di una sempre
migliore realizzazione dell’educazione cristiana, nel n. 59 ricorda i limiti di tali scienze, in quanto
ciascuna di esse afferra solo un aspetto parziale dell’uomo. Quindi nello stesso numero richiama la
necessità di un riferimento ad una sana antropologia teologica, di una mediazione filosofica per il
confronto tra le teorie psicopedagogiche, di un’attenzione particolare al magistero su specifici pro-
blemi morali (in nota ci si riferisce alla Dich. Persona humana, Lett. Homosexualitatis problema, e
alla lett. circ. orationis forma) e sul rispetto dell’intimità ed inviolabilità della coscienza umana, fa-
cendo riferimento in nota al c. 220 e al monito Cum compertum della Congr. della Fede (15. 7.
1961).
Questo monito del 1961 afferma che è da respingersi l’opinione di coloro ritengono che sia ne-
cessaria una previa formazione psicoanalitica per ricevere gli ordini sacri, oppure che veri e propri
esami e indagini debbono essere suggeriti ai candidati al sacerdozio e alla professione religiosa. Il
che vale, continua il documento, anche se si tratta di indagini circa l’attitudine al sacerdozio o alla
professione religiosa. Quindi, si conclude, i sacerdoti e i religiosi possono andare da psicanalisti solo
col permesso del proprio ordinario dato per una grave causa. Come si vede questo documento, ri-
chiamato dalle Direttive Tra i vari mezzi CEC è estremamente restrittivo e sembra contrastare con
altri successivi indirizzi dati dalla S. Sede.
Riguardo alla questione è innanzitutto da tener presente che ci sono due tipi di tecniche per la
conoscenza della psiche:
1) quelle che misurano l’efficienza di quelle prestazioni psichiche, che si conoscerebbero anche
senza ricorrere a tali tecniche, ma non nel grado che interessa nel caso specifico: grado di intelli-
genza, attenzione, memoria, prontezza, ecc. Queste tecniche non dovrebbero porre nessun pro-
blema, proprio perché sono finalizzate alla determinazione di un qualcosa che già è costatabile
esternamente, anche se non nel grado esatto.
2) quelle che tendono a cogliere i tratti psicologici dell’esaminando, specialmente quelli più na-
scosti ed intimi, attraverso un’indagine psicoanalitica: tecniche di libera associazione, tests figurativi,
interpretativi, proiettivi ecc. (tecniche per conoscere la personalità).
L’uso di questo secondo tipo di tecnica è lecito solo se prima c’è una informazione
dell’esaminando sulla natura e il fine di esso e questi dà il suo libero consenso (Cf. Renovationis
causam, 11. III: leggere). Infatti è illecito per chiunque appropriarsi dell’intimo di una persona senza
il suo consapevole e libero consenso. Questo non vale solo sul piano naturale, ma anche sopranna-
turale, in quanto l’interiorità della persona umana è quella sfera che è in diretta e immediata relazio-
ne con Dio ed è costitutiva di tale relazione.
In base al c. 220 è illecito per qualsiasi autorità diocesana o religiosa condizionare in modo gene-
ralizzato l’ammissione in seminario o in noviziato ad una indagine psicologico proiettiva volta alla

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CORSO DI FORMATORI

rivelazione dell’intimo della persona, a meno che il candidato, pienamente informato sulla natura e
il fine dell’indagine non vi acconsenta con piena libertà. Lo stesso vale se la persona si trova già in
formazione oppure sia già prete o incorporato in un istituto. Un’indagine del genere, in casi partico-
lari, può essere solo consigliata dai superiori, usando la dovuta prudenza riguardo allo psicologo da
consultare, a seconda della scuola psicologica alla quale appartiene (cf. Monitum Cum compertum,
4; Dir. Il presente sussidio, 38: leggere; Enc. Sacerdotalis caelibatus, 63: leggere; RFIS, 39: leggere;
Renovarionis causa,11. III;).
L’indagine del primo tipo, invece, può essere comunque una condizione per l’ammissione e i su-
periori possono richiedere i risultati di essa, in quanto non tocca l’intimità della persona.
Nel caso di indagine del secondo tipo alla quale la persona ben informata ha liberamente accon-
sentito, lo psicologo è tenuto al segreto naturale professionale, per cui non può assolutamente rive-
lare niente che riguardi l’intimità della persona. Alcuni ammettono che può solamente dire se la per-
sona è idonea oppure no alla vita sacerdotale o alla vita religiosa, senza rivelare altro, se la persona
sapeva che l’indagine era una condizione per essere ammessa in seminario o in noviziato; altri
escludono anche questo. Personalmente escluderei sempre che lo psicologo dia un giudizio
sull’idoneità, in quanto questo lo deve dare il rettore o il superiore, in base ad una complessità di cri-
teri, tra cui anche il riferimento ai risultati dell’indagine psicologica. Quindi, a mio parere lo psicolo-
go si deve limitare solo a dare i risultati dell’indagine e non esprimere alcun giudizio. Comunque i
risultati dell’indagine e le cause del parere positivo o negativo possono essere rivelati solo col per-
messo scritto dell’interessato.
In caso di serio e fondato timore di qualche atto inconsulto che la persona potrebbe compiere,
come il suicidio, lo psicologo potrebbe informare in modo generico i superiori perché su un altro
piano aiutino la persona. In questo caso la carità cristiana va al di là della assolutezza del diritto
all’intimità. Comunque nel caso che dall’indagine emergano degli elementi che renderebbero diffici-
le la vita sacerdotale o religiosa è responsabilità del candidato innanzitutto parlarne con il suo mo-
deratore della sua vita spirituale, poi eventualmente, sulla base del parere di questi, informarne i su-
periori, per poter discernere insieme sulla convenienza dell’ingresso in seminario o in noviziato, op-
pure per ricevere un adeguato aiuto durante la formazione, oppure per l’opportunità di essere am-
messo agli ordini o alla professione.
Infatti la consultazione di uno psicologo dev’essere per meglio aiutare il candidato agli ordini o ai
voti (cf. Istr. Il presente sussidio, 38).
In conclusione il problema di fondo non è se applicare i mezzi di indagine psicologica, ma nel
come farlo.
Tre punti sono importanti: 1) il libero assenso; 2) il segreto da parte dello psicologo; 3) la com-
petenza professionale da parte di quest’ultimo, cioè che sia guidato da una antropologia cristiana.
Se ci sono questi tre elementi non si dà un’opposizione tra i diritti del candidato alla sua intimità
e quelli dell’istituzione a conoscere l’idoneità e la sanità psichica del soggetto. Come abbiamo visto
una delle ragioni per cui viene data la dispensa dal celibato è se i superiori , al momento opportuno,
non poterono valutare prudentemente e sufficientemente se il candidato fosse realmente idoneo alla
vita celibataria.
In tutta la questione è necessaria una libera e responsabile collaborazione del candidato, che si
basa innanzitutto su una disponibilità alla formazione secondo le modalità offerte dall’istituzione
(seminario o istituto religioso), quindi sul dialogo e la fiducia tra il soggetto e i responsabili della
formazione.

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CORSO DI FORMATORI

E’ necessario, poi, che l’istituzione presenti il ricorso allo psicologo come un aiuto offerto al
candidato. Tale offerta può essere fatta in modo generalizzato, anzi sarebbe opportuno, ma in mo-
do personale a chi se ne vede che ne ha bisogno.
Ci dev’essere l’assicurazione che solo con formale permesso lo psicologo fornirà i risultati ai su-
periori.
Se il candidato rifiuta l’aiuto, non ci dev’essere alcuna pressione e i superiori dovranno ricorrere
ai mezzi usuali di discernimento, tenendo presente anche il fatto che il candidato non ha accettato
l’aiuto offerto. Se ci saranno dei dubbi seri sull’idoneità agli ordini, l’ammissione ad essi è illecita,
quindi il superiore non deve ammettere (c. 1052,§3).
 Amministrazione economica del seminario
Il c. 263 fissa il fine dell’amministrazione economica del seminario: provvedere alla costituzione
e conservazione di esso, al sostentamento degli alunni, alla remunerazione dei docenti e alle altre
necessità. Il canone non dice niente espressamente circa la remunerazione degli altri che lavorano
nel seminario, ma la dobbiamo comprendere sotto la dicitura generale di provvedere alle altre ne-
cessità del seminario. A tutte queste necessità debbono far in modo che si provveda il Vescovo dio-
cesano o, se si tratta di seminario interdiocesano, i Vescovi interessati, secondo quanto hanno de-
terminato di comune accordo. E’ da notare il “curare debent ut provideatur”, formula voluta per
evitare che tutta la copertura delle necessità del seminario ricadessero personalmente sul Vescovo,
ma che questi avesse solo l’obbligo di aver cura che si provvedesse.
Il c. 264 determinati le fonti di sostentamento del seminario:
a) la questua speciale, che secondo il c. 1266 dall’Ordinario del luogo può essere richiesta che si
raccolga in tutte le chiese ed oratori, anche appartenenti ad istituti religiosi, che di fatto siano abi-
tualmente aperti ai fedeli (§1);
b) il tributo speciale a cui sono soggette tutte le persone giuridiche ecclesiastiche, anche private
con sede nella diocesi, ma non le persone fisiche; Unica eccezione riguarda le persone giuridiche
che si sostengono solo di elemosine oppure quelle in cui ci sia attualmente un collegio di studenti o
docenti finalizzato a promuovere il bene comune della Chiesa, non quindi il bene particolare di una
singola comunità o di singole persone; Tale tributo dev’essere comunque proporzionato ai redditi di
chi ne è sottoposto e alle necessità del seminario (§2). Questo tributo specifica la norma generale
contenuta nel c. 1263, nel senso che riguardo ad esso non si applica la distinzione che in tale canone
viene fatta tra persone pubbliche giuridiche e persone giuridiche private.
Per il fatto stesso che il seminario legittimamente eretto è costituito persona giuridica pubblica
(c. 238,§1), i beni che possiede sono beni ecclesiastici, la cui amministrazione è retta, secondo il c.
1257,§1, dal libro V del CIC.
Per questo il seminario deve avere un consiglio per gli affari economici (c. 1280) e un economo
che curi l’amministrazione ordinaria (c. 239,§1, mentre il rettore rappresenta il seminario anche negli
affari economici, a meno che l’autorità competente non abbia stabilito diversamente riguardo a spe-
cifici affari (c. 238,§2). Nel c. 89,§4 dello schema 1977, si prevedeva la deputazione di un gruppo di
persone all’amministrazione dei beni del seminario, il cui parere doveva essere richiesto dal Vescovo
negli affari di maggiore importanza, ma nella revisione dello schema tale canone fu soppresso, in
quanto venne ritenuto inutile per il fatto che secondo il diritto comune (c. 1280) ogni persona giuri-
dica, quindi anche il seminario, deve avere un consiglio per gli affari economici.

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CORSO DI FORMATORI

 Formazione per le vocazioni degli adulti al sacerdozio


Su questo punto nel CIC abbiamo solo i brevi accenni del c. 233,§1, che esorta i sacerdoti e spe-
cialmente i Vescovi diocesani ad impegnarsi ad aiutare tali vocazioni.
RFIS 19 stabilisce quanto segue:
- a seconda delle necessità locali, in ciascuna nazione si erigano istituti destinati alla formazione
dei candidati adulti al sacerdozio (cf. OT 3a);
- tali istituti debbono avere un proprio regolamento riguardo alla vita di pietà, alla disciplina e
agli studi, affinché tali candidati, mediante un metodo pedagogico e didattico che tenga conto della
precedente formazione di ciascuno, possano ricevere la formazione spirituale e scientifica di cui ab-
bisognano per poter poi iniziare gli studi ecclesiastici;
- tenuto conto delle circostanze locali, di dovrà giudicare se tali alunni, dopo aver compiuto gli
studi medi, possano continuare i corsi ordinari in seminario, oppure debbano frequentare speciali
scuole filosofiche e teologiche.
RFIS 19 rimanda alla Lett. circ. Vocationes aduntorum data dalla CEC il 14. 7. 1976, riportata
come fonte del c. 233,§2, la quale riporta le conclusioni della congregazione plenaria dei giorni 30-
31. 7. 1976 della CEC.
In tale congregazione plenaria si avvertiva la necessità di usare una grande cautela nella selezione
delle vocazioni adulte, così come di una pedagogia aggiustata alle esigenze dell’età dei singoli candi-
dati e alle loro condizioni socio-culturali (I,2; EV 5/2098).
Dove la formazione delle vocazioni adulte avviene nei seminari normali, si deve insistere che
debbono essere rigorosamente osservate le norme circa la durata del curricolo degli studi, evitando
arbitrarie riduzioni del corso filosofico e teologico, senza la dovuta dispensa (I,5; EV 5/2099).
La congregazione plenari giudicava pericolosa la propensione che si costatava esserci in alcune
regioni di staccare la cura delle vocazioni e la formazione sacerdotale dalle istituzioni tradizionali per
trasferirle alla cosiddetta “base”, a cui dovrebbe essere riconosciuto il diritto e la facoltà di formare i
sacerdoti per le sue necessità particolari secondo speciali criteri. Questo non veniva ammesso per il
fatto che sia l’immagine del sacerdote che la formazione sacerdotale debbono dipendere da quanto
determina la legittima autorità ecclesiastica, a cui solo compete ordinare con delle leggi la formazio-
ne sacerdotale (I,8; EV 6/2100). Non è da dimenticare che buona parte dell’efficacia della riforma
di Trento è stata dovuta proprio all’istituzione dei seminari. Gli adattamenti pedagogici alle diverse
culture e gruppi sociali debbono essere tenuti in seria considerazione, ma sempre nel pieno rispetto
delle leggi della Chiesa. Allora, la cura della e la formazione delle vocazioni adulte, provveduto ad
un particolare ordinamento di vita e degli studi, dev’essere un efficace complemento alla disciplina
canonica, senza che si sostituisca ad essa o la sovverta. Per questa ragione, la CEC disponeva che la
formazione dei candidati adulti avvenisse, per quanto possibile, in un seminario speciale, destinato
proprio a tali vocazioni, oppure nel seminario normale, con particolari programmi adattati ai singoli
casi I,11; EV 5/2101).
Tra i membri della congregazione plenaria, tuttavia, prevaleva l’opinione che la formazione filo-
sofica e teologica comunque avvenisse, con i dovuti adattamenti singoli casi, nel seminario maggio-
re normale, per cui seminari speciali erano considerati necessari od opportuni piuttosto negli studi
medi (ginnasio e liceo) che in quelli filosofici e teologici (II. 5; EV 5/2105).
Dalla RFIS e da questa lettera della CEC possiamo in sintesi trarre quanto segue:
- in ciascuna nazione dev’essere favorita l’erezione di un istituto o seminario per la formazione
delle vocazioni adulte; tale erezione non è obbligatori,

48
CORSO DI FORMATORI

- gli studi medi possono essere fatti in questo istituto o seminario per le vocazioni adulte;
- dopo gli studi medi i candidati adulti possono o essere integrati nel curricolo ordinario degli
studi del seminario maggiore normale, dimorando sia in esso sia nell’istituto o seminario speciale di
cui sopra, oppure possono essere inviati a particolari scuole di filosofia e teologia, dimorando nel
seminario maggiore oppure nell’istituto o seminari speciale di cui sopra.
 Formazione permanente dopo il seminario
Riguardo alla formazione permanente dei sacerdoti OT 22 stabiliva che la formazione sacerdota-
le deve proseguire sotto l’aspetto spirituale, dottrinale e pastorale, anche dopo che è terminato il
curricolo del seminario, a motivo, soprattutto, delle circostanze della società moderna.
Il c. 279 dà delle disposizioni molto generali in proposito. La formazione permanente è un dove-
re del presbitero (§1), ma come precisa il Dir. Tota Ecclesia per il ministero e la vita dei presbiteri,
dato dalla CC il 31. 1. 1994, essa è anche un suo diritto e impartirla è un diritto-dovere della Chiesa
(n. 72). Il diritto particolare deve predisporre un programma di lezioni di carattere pastorale che i
sacerdoti debbono seguire (§2). Così i sacerdoti debbono partecipare anche ad altre lezioni, conve-
gni teologici o conferenze per acquisire una conoscenza più approfondita innanzitutto delle scienze
sacre e dei metodi pastorali (§2), ma anche di altre scienze, specialmente quelle che hanno un rap-
porto con le scienze sacre e che possono essere utili per il ministero pastorale (§3).
PDV 70 indica nel dinamismo intrinseco del sacramento dell’ordine, come dono che va conti-
nuamente ravvivato (2Tm 1,6), le ragioni teologiche della necessità di una formazione permanente
dei sacerdoti, oltre quelle che sorgono dall’esigenza umana di una sempre maggiore qualificazione
per un miglior servizio al popolo di Dio. I principi generali tracciati da PDV 70, vengono ripresi e
specificati dal Dir. Tota Ecclesia nei nn. 69-80.
PDV 79 indica i soggetti primariamente responsabili della formazione permanente. La responsa-
bilità ricede innanzitutto sul singolo sacerdote, che deve sentire questo dovere come espressione
della sua fedeltà a Dio (Dir. Tota Ecclesia, nn. 87-88). Quindi il Vescovo, in quale, insieme al pre-
sbiterio, deve delineare un programma capace di offrire una formazione permanente ben strutturata
e non come qualcosa di episodico e sporadico. Per attuare un programma di formazione permanen-
te sia nel campo intellettuale che spirituale, il Vescovo solleciterà l’apporto e la collaborazione di fa-
coltà e altri istituti teologici e pastorali, seminari, organismi o associazioni di sacerdoti, religiosi e lai-
ci, impegnati nella formazione presbiterale, per formare un gruppo di formatori, centri di spirituali-
tà, monasteri e santuari (cf. Dir. Tota Ecclesia, n. 79; 89-92). Collegato con questo il Dir. Tota Ec-
clesia auspica la creazione di un gruppo di programmazione e di realizzazione per aiutare sotto que-
sto profilo (n. 90).
RFIS 101 stabilisce che per ottenere una formazione permanente efficace, la Conferenza episco-
pale deve indicare i mezzi da impiegare. Da RFIS 101, PDV 80 e il Dir. Tota Ecclesia, nn. 81-86
come mezzi per una formazione permanente vengono indicati:
a) un anno o un biennio pastorale subito dopo l’ordinazione per facilitare il passaggio armonico
dalla vita di seminario a quella del pieno impegno pastorale. In tale periodo di tempo i novelli sa-
cerdoti potrebbero vivere insieme, in modo che, mentre viene facilitata la comunione tra di loro,
per alcuni giorni alla settimana possono frequentare delle scuole e applicarsi all’approfondimento di
questioni e della prassi pastorali (liturgia, confessioni, catechesi, predicazione, ecc. ), per una mag-
giore assimilazione di quanto hanno studiato in seminario, mentre negli altri giorni esercitano il mi-
nistero pastorale (RFIS 101; Dir. Tota Ecclesia, 82);

49
CORSO DI FORMATORI

b) una formazione pastorale protratta per alcuni anni, durante i quali i sacerdoti giovani già ad-
detti al ministero si ritrovano ogni settimana per uno o due giorni, per corsi o studi aventi per og-
getto la pastorale (RFIS 101; PDV 80);
c) corsi da tenersi durante le vacanze o in altro tempo ritenuto opportuno, nei quali i giovani sa-
cerdoti esaminano insieme i problemi pastorali e ne cercano una soluzione (RFIS 101; PDV 80);
d) un mese sacerdotale dopo circa cinque anni di ministero per un rinnovamento interiore con
esercizi spirituali e un aggiornamento nelle scienze sacre e nella prassi pastorale (RFIS 101);
e) un periodo sabatico più o meno lungo a seconda delle necessità del singolo sacerdote per una
ripresa spirituale e anche per un periodo di aggiornamento, da trascorrersi in monasteri o santuari o
altri centri di spiritualità (Dir. Tota Ecclesia, 83);
f) incontri di studio e riflessione comune (PDV 81);
g) fedele partecipazione ai ritiri mensili e agli esercizi spirituali annuali (cf. cc. 276,§2,4; 533,§2;
550,§3), programmati e organizzati dal Vescovo, che siano veramente tempi di incontro personale
con il Signore nella preghiera e nel silenzio e non corsi di aggiornamento teologico-pastorale (Dir.
Tota Ecclesia, 85);
h) uso della direzione spirituale (PDV 81).
Gli ultimi tre mezzi, incontri di studio e riflessione, partecipazione ai ritiri mensili e agli esercizi
annuali e direzione spirituale, possiamo ritenerli mezzi usuali, che comunque da tutti e durante tutta
la vita dovrebbero essere sempre usati per mantenere viva la propria vita spirituale e la dedizione al
ministero.
Per favorire i ritiri, gli esercizi e gli incontri programmati, sarebbe opportuna l’erezione di una
“casa del clero” da parte della diocesi o anche di più diocesi insieme, ed anche la nomina di un sa-
cerdote col compito si organizzare i tempi e i modi del loro svolgimento (Dir. Tota Ecclesia, 84;
85).
E’ anche auspicabile l’organizzazione di ritiri speciali per i sacerdoti ordinati negli ultimi anni, nei
quali abbia parte attiva il Vescovo (Ibid. , 85).
Anche l’attuazione di varie forme di vita comune e la partecipazione ad associazioni sacerdotali,
incoraggiate dai cc. 278,§§1,2 e 280, sono da considerarsi mezzi che stimolano a mantenere viva la
vita spirituale e l’attività pastorale (PDV 81).
In questo contesto è bene menzionare l’iniziativa di Giovanni Paolo II, ad iniziare dal 1979, che
durante la Messa in Coena Domini del giovedì santo, festa del sacerdozio, tutti i sacerdoti davanti e
con il Vescovo rinnovino le promesse fatte al momento dell’ordinazione sacerdotale, specialmente
quella di celibato e di obbedienza al Romano Pontefice e al prorpio Ordinario (Giovanni Paolo II,
Lett. Novo incipiente, 8. 4. 1979: EV 6/1288; CC, Lett. circ. Inter ea, sulla formazione permanente
del clero, 4. 11,1969: EV 3,1759).
 Formazione dei diaconi permanenti
 Competenze
Il c. 236 stabilisce la competenza della Conferenza episcopale circa la formazione dei diaconi
permanenti.
Il canone non dice niente circa il programma di formazione, così anche la RFIS e la PDV, che
hanno come oggetto la formazione al sacerdozio.
La Ratio Fundamentalis Institutionis Dioconorum Permanentium data dalla Congr. Ed. Catt. il
22. 2. 1998, in stretta connessione con il Direttorio per il ministero e la vita dei diacono permanenti,

50
CORSO DI FORMATORI

dato anche il 22. 2. 1998 dalla Congr. per il Clero, integra le disposizioni già contenute nelle fonti
del c. 236, cioè il M. p. Sacrum diaconatus ordinem del 18. 6. 1967, la Lett. circ Come è a conoscen-
za data dalla CEC il 16. 7. 1969, e il M. p. Ad pascendum del 15. 8. 1972 ed offre un piano organico
per la formazione dei diaconi permanenti.
Il c. 236 attribuisce la competenza, tra le altre, di dare norme specifiche circa la formazione dei
diaconi permanenti alle Conferenze episcopali, le quali, nel tracciare gli itinerari formativi dovranno
far riferimento alle linee fondamentali tracciate dalla RFIDP (RFIDP 13-14). Le Conferenze epi-
scopali dovranno sottoporre all’approvazione della S. Sede le loro Rationes institutionis diacono-
rum permanentium (RFIDP 15).
Il M. p. Sacrum diaconatus ordinem (II,1) dava la competenza delle Conferenze episcopali, con
l’assenso del R. Pontefice, di restaurare o no il diaconato permanente. Tuttavia, precisa RFIDP 16,
si deve tener presente che la restaurazione del diaconato permanente in una nazione decisa dalla
Conferenza dei vescovi, non comporta l’obbligo della sua restaurazione in tutte le diocesi. Ogni Ve-
scovo decide, dopo aver sentito il parere del Consiglio presbiterale e, se esiste, del Consiglio pasto-
rale. Sulla base della Ratio data dalla Conferenza episcopale, il Vescovo redigerà, aggiornandolo pe-
riodicamente, un regolamento diocesano (RFIDP 16).
RFIDP 17 ribadisce quanto disposto dal M. p. Sacrum diaconatus ordinem (VII,32) circa
l’istituzione del diaconato permanete negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Aposto-
lica: essa spetta alla S. Sede, che esamina e approva i voti dei Capitoli o Assemblee generali. Il pro-
gramma di formazione dovrà essere approvato dalla Congr. IVC/SVA o dalla Congr. per
l’evangelizzazione dei popoli o di quella per le Chiese orientali, sentito il parere della Congr. per
l’Ed. catt. , per ciò che riguarda la formazione intellettuale (RFIDP 17).
 Fine della formazione dei diaconi permanenti
Il fine della formazione dei diaconi permanenti, dell’una e dell’altra categoria è, come dice il c.
266, alimentare la vita spirituale e l’istruzione ad adempiere gli uffici propri dell’ordine diaconale
corrispondenti, come specifica il Direttorio della Congr. per il clero, alla diaconia della liturgia, della
parola e della carità (nn. 22-38).
 Incaricati della formazione
Incaricati della formazione sono il direttore per la formazione, il tutore, il direttore spirituale, il
parroco o altro ministro a cui il candidato è affidato, i professori.
Il direttore per la formazione è un presbitero o un diacono, preferibilmente distinto dal respon-
sabile per i diaconi ordinati, che è nominato dal vescovo o dal Superiore maggiore competente, con
i seguenti compiti:
a) di coordinare gli altri incaricati della formazione;
b) tenere i contatti con le famiglie degli aspiranti e dei candidati coniugati, nonché con le loro
comunità di provenienza;
c) presentare al Vescovo o al Superiore maggiore competente, dopo aver sentito i parere degli al-
tri formatori, tra cui il direttore della casa specifica di formazione qualora a norma del c. 236,1 esi-
stesse, ma escluso il direttore spirituale, il giudizio di idoneità sugli aspiranti per l’ammissione tra i
candidati e sui candidati per l’ammissione all’ordine del diaconato (RFIDP 21).
Il tutore, dove il numero dei diaconi permanenti lo richiedesse, è un diacono o un presbitero,
designato dal direttore per la formazione, ma nominato dal vescovo o dal Superiore maggiore com-
petente, col compito di accompagnare più direttamente ogni aspirante e ogni candidato, in stretta
collaborazione col direttore della formazione (RFIDP 22).

51
CORSO DI FORMATORI

Il direttore spirituale, scelto da ogni aspirante o candidato, dove essere approvato dal vescovo o
dal Superiore maggiore, per aiutare nel discernimento vocazionale e nel progresso della vita spiritua-
le (RFIDP 23).
I parroco, o altro ministro, scelto dal direttore della formazione, d’accordo con l’équipe formati-
va, per iniziare e accompagnare il candidato al diaconato nelle attività pastorali, da verificare perio-
dicamente (RFIDP 24).
I professori, con la loro competenza scientifica e testimonianza di vita debbono contribuire ad
una formazione unitaria (RFIDP 25).
 Tappe di formazione
L’ammissione tra gli aspiranti al diaconato permanente inizia con un periodo propedeutico, che
avrà una congrua durata (RFIDP 42).
Questo periodo non dovrebbe prevedere degli studi, ma piuttosto essere incentrato sul incontri
di preghiera, istruzioni, momenti di riflessione e di confronto per favorire un serio discernimento
vocazionale (RFIDP 43).
E’ auspicabile che gli aspiranti formino una loro comunità con propri ritmi di incontri e di pre-
ghiera, anche con momenti di incontro con la comunità dei candidati (RFIDP 42).
Alla fine di questo periodo, sulla base dell’attestato del direttore per la formazione e in forza del-
la sua conoscenza personale, il Vescovo o il Superiore maggiore competente ascriverà tra i candidati
solo coloro sui quali raggiungerà la certezza morale della loro idoneità (RFIDP 44). L’ammissione
tra i candidati avviene con un rito liturgico (c. 1034,§1).
Questo secondo periodo di formazione deve durare almeno tre anni.
A questo punto è da tener presente che Il c. 236, ripreso dalla RFIDP 49-51, prevede due cate-
gorie di candidati:
a) candidati giovani, celibi, che per almeno tre anni debbono dimorare in una casa specifica, a
meno che per gravi ragioni il Vescovo non disponga altrimenti; è da tener presente che quasi tutti
questi giovani sono candidati ad una futura vita celibataria;
b) candidati di età più matura, sia celibi che coniugati, che debbono seguire un programma for-
mativo di tre anni, determinato dalla Conferenza episcopale.
RFIDP 53 aggiunge che se i percorsi formativi previsti del diritto universale non fossero attuabi-
li, i candidati debbono essere affidati alla cura di un sacerdote.
Inoltre, sottolinea RFIDP 56 (cf. n. 78), nella formazione dovranno essere coinvolte anche le
mogli e i figli dei candidati coniugali, nelle forme che si riterranno opportune.
Per quello che riguarda la formazione umana e spirituale, in linea generale vale quanto detto ri-
guardo ai chierici in genere, anche se con le particolari applicazioni di cui in RFIDP 66-78.
Chiaramente, come affermava la Lett. circ. Come è a conoscenza del 1969, richiamata dalla
RFIDP 79, la formazione da impartire ad ambedue le categorie di candidati non dev’essere accelera-
ta e superficiale, in quanto anche le funzioni che i diaconi debbono svolgere richiedono una forma-
zione solida ed efficace. La formazione dottrinale dev’essere per tutti analoga a quella che ricevono i
candidati al sacerdozio e deve comprendere corsi di S. Scrittura, teologia fondamentale, teologia
dommatica, teologia morale, teologia spirituale, diritto canonico, liturgia, storia della Chiesa, teologia
pastorale, pedagogia, catechesi, amministrazione ecclesiastica, ecc. (RFIDP 80; 85).
Per la formazione dottrinale è consigliato che ci si può servire anche degli Institi di Scienze Reli-
giose o di altri Istituti analoghi, oppure di scuole apposite per la formazione dei diaconi permanenti,
sempre, però, provvedendo che il numero delle ore di lezioni e dei seminari non sia inferiore ad un

52
CORSO DI FORMATORI

migliaio nell’arco del triennio, che i corsi fondamentali si concludano con un esame e che alla fine vi
sia un esame complessivo (RFIDP 82).
Deve completare la formazione pastorale un tirocinio pratico da farsi nelle strutture pastorali
diocesane (RFIDP 86; 87).
Per i giovani che si votano al celibato questa formazione dottrinale deve avvenire in istituti o ca-
se specifiche, dove i corsi siano più sistematicamente organizzati e una formazione spirituale appo-
sitamente finalizzata non solo all’esercizio delle funzioni diaconali, ma anche alla vita celibataria. Per
i candidati di età più avanzata e coniugati, l’organizzazione del corso di formazione deve tener con-
to dei loro impegni di lavoro e familiari, per cui potrebbe essere costituito da corsi serali, da setti-
mane di studio, ecc. , tenendo conto del grado di cultura di ciascuno (RFIDP 50; 51).
Della formazione permanente dei diaconi si tratta nel Direttorio per il ministero e la vita dei dia-
coni permanenti, dato dalla Congr. per il Clero, nn. 63-82.
Le finalità sono sostanzialmente le stesse di quelle per i presbiteri, con a particolarità di essere
volta a superare ogni frattura fra l’eventuale professione civile e la spiritualità diaconale, e quindi il
ministero, armonizzando, così tutte le dimensioni della vita e del ministero del diacono (nn. 66; 68).
Comunque, afferma il Direttorio nel n. 79, con l’approvazione del Vescovo dev’essere elaborato
un piano di formazione permanente realistico e realizzabile, che, cioè, tenga conto dell’età e delle
specifiche situazioni dei diaconi, specialmente se svolgono una professione civile e se hanno una
famiglia (n. 79). In quest’ultimo caso nel piano di formazione permanente sarà opportuno che siano
coinvolte anche le migli e i figli (n. 81). Quindi viene auspicato un organismo di coordinamento dei
diaconi, che tra le altre cose programmi anche la formazione permanente dei diacono (n. 80).

53
CORSO DI FORMATORI

L’ORDINAZIONE SACRA
La celebrazione
Gli ordini, secondo il c. 1009,§2, debbono essere conferiti, per la validità, mediante l’imposizione
delle mani e la preghiera consacratoria, prescritte per i singoli gradi dai libri liturgici. Il canone non
specifica altro, in quanto non è proprio del Codice definire i riti che debbono essere osservati se-
condo i libri liturgici (c. 2), tuttavia fa riferimento espressamente all’imposizione delle mani e alla
preghiera consacratoria, essendo la questione circa la materia e la forma nell’ordinazione stata defi-
nita chiaramente da Pio XII con la Cost. Ap. Sacramentum ordinis, del 30 nov. 1947 (AAS 40,
1948, 5-7).
Due canoni, senza distinguere tra i vari gradi, come invece faceva il c. 1006 CIC 1917, stabilisco-
no il tempo e il luogo della celebrazione dell’ordinazione.
Secondo il c. 1010 l’ordinazione si deve avere durante la Messa solenne, di domenica e in un
giorno festivo di precetto, senza altra specificazione; tuttavia può aversi anche in altri giorni, com-
presi i feriali, ma solo per ragioni pastorali.
Data l’importanza che per la vita della Chiesa le ordinazioni rivestono, il c. 1011,§1 determina
che generalmente esse debbono essere fatte nella chiesa cattedrale, ma per ragioni pastorali permet-
te che siano celebrate in un’altra chiesa o anche in un oratorio. Comunque al conferimento degli
ordini sacri debbono essere invitati fedeli di ogni categoria, chierici, laici e religiosi, affinché vi par-
tecipino in gran numero, esprimendo il carattere ecclesiale dell’avvenimento (§2).

Ministro dell’ordinazione
Problematica circa il ministro in genere
Il c. 1012 enuncia solo quanto segue “Sacrae ordinationis mionister est Episcopus consecratus”
e non fa alcuna distinzione tra ministro ordinario e straordinario, come invece faceva il c. 951 CIC
1917.
Il canone riguarda, in modo generale, tutte le ordinazioni. Alcuni, durante la preparazione, chie-
sero che fosse determinato che unicamente (“unice”) il vescovo è ministro dell’ordinazione, ma il
gruppo di studio sui sacramenti non accolse la richiesta (cf. Communicationes 10, 1978, 182).
Per risolvere la questione se la disposizione del c. 1012 sia di diritto divino o di diritto ecclesiasti-
co, dobbiamo considerare attentamente l’evoluzione della cosa nel Concilio.
Nel primo schema De Ecclesia, discusso durante il primo periodo conciliare (1962), la dimostra-
zione della sacramentalità della consacrazione episcopale e la superiorità dell’episcopato rispetto al
presbiterato, come abbiamo visto, veniva fondata nel fatto che il vescovo consacrato, in virtù del
sacro carattere ricevuto, non può mai tornare semplice sacerdote o laico, e che non può mai perde-
re la potestà di conferire il sacramento della confermazione e di ordinare i ministri della Chiesa (cf.
AS I/IV,23).
Il secondo schema della costituzione conciliare, discusso durante il secondo periodo (1963), non
faceva già più alcuna allusione né alla perpetuità della potestà del vescovo di conferire validamente il
sacramento della confermazione e dell’ordine, né, come abbiamo già visto, alla superiorità del ve-
scovo nella gerarchia d’ordine rispetto ai presbiteri, in quanto la Commissione Dottrinale, tenuto
conto delle osservazioni fatte dai Padri, non vole affermare in modo esclusivo che solo il vescovo
ha la capacità ontologica di conferire questi due sacramenti (cf. AS II/I,233).

54
CORSO DI FORMATORI

Lo schema presentato nel terzo periodo (1964), e quindi anche il testo definitivo della Lumen
Gentium 21b, risulta quasi completamnte cambiato e di proposito non afferma niente circa la supe-
riorità del vescovo rispetto ai presbiteri e circa la sua capacità di conferire il sacramento dell’ordine,
come dichiarava lo stesso Relatore in aula conciliare (cf. AS III/I,241).
In LG 26c si afferma semplicemente «Ipsi (Episcopi) sunt ministri originarii confirmationis, di-
spensatores sacrorum ordines et moderatores disciplinae poenitentialis. . . ». Questa formulazione
del testo risponde a testimonianze antiche e a fatti storici a cui i Padri conciliari hanno più volte fat-
to riferimento, per i quali non si può affermare che per diritto divino solo i vescovi possono confe-
rire l’ordine del presbiterato e del diaconato. Inducono a questo:
- Il c. 13 dell Concilio di Ancyra del 314, dove si dice “Chorepiscopos non licere presbyteros vel
diaconos ordinare, sed neque urbis presbyteros, nisi cum litteris eb episcopo permissum fuerit, in
aliena paroecia” (cf. MANSI,2,518). Si discute sulla figura dei corepiscopi se fossero vescovi o no,
ma molti sono per la sentenza negativa.
- Le attestazioni di Cassiano (cf. Collat. 4,1).
- Il fatto che in Germania nel sec. VIII i missionari S. Wilehado e S. Ludgero ordinarono presbi-
teri per le nuove Chiese, sebbene essi solo alla fine della loro attività missionaria furono promossi
all’episcopato, su richiesta dell’Imperatore.
- La Bolla di Bonifacio IX, Sacra religionis dell’1 febbr. 1400 (cf. DS 1145), che concedeva in
perpetuo agli abati non vescovi del monastero dell’Ordine di S. Agostino sito in Essexia nella dioce-
si di Londra la facoltà di conferire liberamente e lecitamente non solo gli ordini minori, ma anche
quelli maggiori, compreso il presbiterato. Tale facoltà fu revocata tre anni dopo con la Bolla Apo-
stolicae Sedis del 6 febbr. 1403, non per ragioni dommatiche, ma solo disciplinari (DS 1146).
- La Bolla di Martino V, Gerentes ad vos del 16 nov. 1427 (cf. DS 1290), che concedeva per un
quinquennio la stessa facoltà all’abate non vescovo del monastero cistercense di Altzelle in Sasso-
nia.
- La Bolla di Innocenzo VIII, Exposcit tuae devotionis del 9 apr. 1498 (cf. DS 1435), che conce-
deva in perpetuo agli abati non vescovi dei monasteri cistercensi di Citeaux, La Ferté, Pontigny,
Clairvaux e Morimond, di conferire ai propri sudditi il suddiaconato e il diaconato, affinché essi non
dovessero uscire dalla clausura. Queste facoltà non furono revocate neppure dal Concilio di Trento,
come testimoniano altri fatti storici e ancora il rituale cistercense del 1949 (cf. J. BEYER, Nature et
position. . . , 367,nota n. 19).
- Il privilegio degli abati benedettini, dei missionari francescani in India e dell’amministratore
apostolico in Polonia nel 1946 di ordinare suddiaconi (cf. Ibid. ,366, note nn. 17 e 18).
LG 26c dice semplicemente che i vescovi sono “dispensatores sacrorum ordinum”. La Relatio al
n. 26 su questo punto tace, probabilmente perché ritiene sufficiente ciò che era già stato detto nella
Relatio al n. 21: “Commissio statuit nihil esse declarandum de quaestione utrum solus episcopus
possit sacerdotes ordinare, ideoque non solvit quaestionem iuris neque facti”, facendo riferimento
alle Bolle di Bonifacio XI e di Martino V (Ibid. ,241), di cui abbiamo già parlato (cf. p. 22). Il c.
1012, come abbiamo detto, enuncia che il ministro della sacra ordinazione è il vescovo consacrato,
senza distinguere tra ministro ordinario e straordinario, come invece faceva il c. 951 CIC 1917.
Riguardo alla stessa consacrazione episcopale alla fine del n. 21 dello schema della terza sessione
ancora troviamo, come comnseguenza della sacramentalità della consacrazione episcopale: “Quare
soli Episcopi per sacramentum Ordinis novos electos in corpus episcopale assumere possunt” (cf.
AS III/I,215), invece il testo definitivo della LG 21b dice semplicemente: «Episcoporum est per Sa-
cramentum Ordinis novos electos in corpus episcopale assumere». Nella risposta al Modo 51 la

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CORSO DI FORMATORI

Commissione Dottrinale, di fronte a varie proposte di emendamento del testo tutte nel senso di af-
fievolirlo oppure di sopprimerlo, dichiarava: “Suppressio normis generalibus contradicit. Commis-
sionis est solum factum historicum asserere. . . ” (AS III/VIII,64). Tale mutamento del testo fu ap-
portato in seguito alle osservazioni di alcuni Padri che ricordavano le testimonianze di Gerolamo,
Severo Antiocheno e Eutichio circa l’istituzione nei primi secoli del patriarca della Chiesa di Ales-
sandria da parte dei presbiteri, per mezzo anche dell’imposizione delle mani (Cf. H. MÜLLER, art.
cit. ,613-614). Dice S. Girolamo: “Alexandriae a Marco Evangelista usque ad Heraclam et Diony-
sium episcopos presbyteri semper unum de se electum et in exceltiori gradu conlocandum episco-
pum nominabant” (PL 22, col. 1194). Similmente Severo Antiocheno nel sec. VI. Eutichio nel sec.
X afferma: “Constituit autem evangelista Marcus, una cum Hanania patriarcha, duodecim presbyte-
ros, qui nempe cum patriarcha manerent, adeo ut cum vacaret patriarchatus, unum de duodecim
presbyteris eligerent, cuius capiti reliqui undecim manus imponentes ipsi benedicerent et patriar-
cham crearent” (PL 11, col. 892 BC).
Tutto questo sembrerebbe contraddire il Concilio di Trento che nel c. 7 del Decr. de sacram.
ordinis della sess. XXIII dice: “Si quis dixerit, episcopos non esse presbyteris superiores; vel non
habere potestatem confirmandi et ordinandi, vel eam quam habent, illis esse cum presbyteris com-
munem” (DS 1777).
Per comporre insieme i vari dati raccolti e comprendere che cosa Trento voleva dire, dobbiamo
tener presente quello che abbiamo già detto sulla differenza tra episcopato e presbiterato, nonché in
che modo intendendere la superiorità del primo sul secondo. Inoltre dobbiamo considerare che nel-
la LG 26c, riguardo alla loro amministrazione vengono posti sulla stessa linea tre sacramenti: la con-
fermazione, gli ordini sacri, la penitenza.
La Relatio al n. 26, riguardo alla confermazione, dichiara: “Pro Confirmatione Episcopus voca-
tur «originarius», ut ratio servetur etiam disciplinae orientalis (AS III/I,223). LG 26c non ha voluto
usare il termine “ordinarius”, come invece si trova nel c. 3 del Decr. de sacramentis della sess. VII
del Concilio di Trento (DS 1630). Per spiegare il termine “originarius”, non è solo la prassi orientale
che si deve tener presente, ma anche il c. 782, §§2,3 CIC 1917, la disciplina postcodiciale (cf.
CONGR. SACR. , Decr. Spiritus Sancti munera, 14 sett. 1946, in AAS 38, 1946, 349-354; PAOLO
VI, M. p. Pastorale munus, 30 nov. 1963,I 13, in AAS 56, 1964, 8), i cc. 882-884 CIC 1983, che
prevedono vari casi in cui un presbitero è ministro della confermazione. Allora il termine “origina-
rius” è da interpretarsi nel senso storico che nei primi secoli il vescovo era ministro unico della con-
fermazione e nel senso canonico di una successiva riserva al vescovo, per cui il presbitero
nell’amministrare tale sacramento deve usare l’olio consacrato dal vescovo (c. 880,§2). Non con-
traddicendo affatto il Concilio di Trento, si può dire che il vescovo è per diritto positivo ministro
ordinario della confermazione perché lo è per il suo stesso ufficio, che corrisponde alla pienezza
della sua partecipazione al munus ministerii apostolici in virtù della legittima consacrazione; per
questo la conferisce sempre validamente, mentre il presbitero solo quando il diritto universale o una
speciale concessione della competente autorità permettono l’esercizio della potestà sacramentale di
santificazione già ricevuta nell’ordinazione (potestà d’ordine).
Anche nel caso dell’amministrazione del sacramento dell’ordine, non contraddicendo affatto il
Concilio di Trento, si può dire che il vescovo ha la facoltà di ordinare validamente per il suo stesso
ufficio, che corrisponde alla pienezza della sua partecipazione al munus ministerii apostolici in virtù
della legittima consacrazione, mentre il presbitero potrebbe averla, ma solo in forza di un indulto
speciale della suprema autorità ecclesiastica, altrimenti l’ordinazione sarebbe invalida.

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Per la stessa ragione i vescovi sono “moderatores disciplinae poenitentialis” (LG 26c), e quindi
hanno la facoltà di ascoltare le confessioni ipso iure, mentre i presbiteri l’hanno o vi officii oppure
vi concessionis (c. 967).
In tutti e tre questi casi, che dalla LG 26c sono posti sulla stessa linea, si tratta di riserve al ve-
scovo per diritto positivo e non per diritto divino.
Cos’, anche riguardo al ministro degli ordini sacri non si può affermare che ci sia differenza tra
episcopato e presbiterato a livello di partecipazione della potestà sacramentale di santificazione
d’ordine, ma solo nell’esercizio di essa, infatti nessuna funzione cultica può essere considerata, ri-
spetto ai presbiteri di esclusivo esercizio del vescovo, per diritto divino. Se dobbiamo stare alle te-
stimonianze di S. Girolamo, Severo Antiocheno e Eutichio dobbiamo dire che anche nel caso
dell’episcopato la pienezza del munus ministerii apostolici sia stato depositato dall’Apostolo fonda-
tore nel collegio dei presbiteri, insieme a colui che fu istituito come primo patriarca; tale collegio lo
avrebbe trasmesso con la benedizione e l’imposizione delle mani ad un membro di esso, costituito
così Patriarca.
Da tutto questo si può concludere che la disposizione del c. 1012 circa il vescovo come ministro
della sacra ordinazione è di diritto ecclesiastico e non di diritto divino. Il diritto positivo stabilisce
che solo il vescovo consacrato conferisce validamente gli ordini sacri.
Come si vede la questione è di estrema importanza ecumanica. Infatti Leone XIII nella Cost. ap.
Apostolicae curae del 13 sett. 1896 dichiarava “. . . certa scientia pronuntiamus et declaramus, ordi-
nationes ritu Anglicano acta irritas proprsus fuisse et esse omnino nullas”, per difetto di forma e di
intenzione della prima consacrazione episcopale avvenuta nella Chiesa anglicana avvenuta nel 1559
secondo l’Ordinale Eduardi VI (DS 3315-3319). Se, infatti, l’ordine sacro può essere conferito an-
che da presbiteri, la questione potrebbe essere ridiscussa, cioè ci si potrebbe chiedere se quei vesco-
vi anglicani, che erano stati validamente ordinati presbiteri, hanno ordinato validamente altri presbi-
teri, continuando la successione apostolica, anche se non nella sua piena espressione
nell’episcopato. La cosa è molto complessa e non è qui il caso entrarvi fino in fondo. Attualmente
la Risposta cattolica al «Rapporto finale» della prima commissione mista internazionale tra la Chiesa
cattolica e la Comunione anglicana (ARCIC-I: 1971-1981), pur riconoscendo la convergenza circa la
natura sacramentale dell’ordinazione e la distinzione tra sacerdozio comune e sacerdozio comune,
precisa che nel Rapporto finale non rimane chiara la dottrina circa l’istituzione da parte di Cristo
dell’ordine sacro, il soggetto ordinando, il carattere sacerdotale e l’ininterrotta successione apostoli-
ca (L’Osservatore Romano 6 dic. 1991). La questione viene complicata dall’ammissione delle donne
al presbiterato e all’episcopato; torneremo su questo punto.
Consacrazione dei vescovi e mandato pontificio
Riguardo alla consacrazione episcopale cade ogni esplicita affermazione della riserva al Romano
Pontefice, che si trovava nel c. 953 CIC 1917, e il c. 1013 CIC 1983 dice semplicemente: «Nulli Epi-
scopo licet quemquam consecrare in Episcopum, nisi prius constet de pontificio mandato». Nel c.
745 del CCEO, invece, si trova: «Ordinatio episcopali reservatur ad normam iuris Romano Pontifi-
ci, Patriarchae vel Metropolitae ita, ut nulli Episcopo liceat quemquam ordinare Episcopum, nisi an-
tea constat de legitimo mandato». Si parla di “legitimum mandatum” e non di “pontificium man-
datum”, perché il mandato sarà dato dalla legittima autorità, a seconda dei casi, in conformità alla
struttura propria delle Chiese orientali.
Rimaniamo nell’ambito della disciplina della Chiesa latina. La consacrazione avvenuta senza
mandato pontifico è valida, ma illecita. Questo è chiaro, ma la questione che sorge è se tale disposi-
zione sia di diritto divino oppure di diritto ecclesiastico.

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Il vescovo viene posto nella comunione gerarchica per mezzo della legittimazione della sua con-
sacrazione episcopale, che si ha per la libera nomina o la conferma da parte del Romano Pontefice
(c. 377. §1), oppure con il mandato pontificio o apostolico, se non è lo stesso Romano Pontefice a
consacrare il vescovo. Solo il vescovo legittimamente consacrato si trova nella comunione gerarchi-
ca col Capo del Collegio e i suoi membri (c. 1382); diviene così membro del Collegio episcopale (c.
336; LG 22a) e può pienamente essere costituito nell’ufficio episcopale (LG 24b). Come membro
del Collegio, il vescovo legittimo partecipa della potestà suprema e piena sulla Chiesa universale, sia
di governo che di magistero autentico, di cui per diritto divino il Collegio è soggetto, in quanto suc-
cede al Collegio degli Apostoli nel governo pastorale e nel magistero (cc. 336; 749,§2; LG 22b). Se-
condo una dottrina consolidata nella tradizione della Chiesa si può anche sostenere che i vescovi
sono resi partecipi della potestà collegiale non immediatamente da Cristo per il fatto stesso di entra-
re a far parte del Collegio, ma mediante il Romano Pontefice, che trasmette loro, non delega, tale
potestà. Tuttavia, anche se si sostiene che il Collegio dei Vescovi riceve immediatamente da Cristo
la potestà collegiale, per il fatto che in esso, se è in comunione con il suo Capo, è presente conti-
nuamente il Corpo degli Apostoli, non viene escluso il rapporto di comunine gerarchica tra il Ro-
mano Pontefice e tutti i vescovi anche presi insieme collegialmente, in quanto il Collegio «necessa-
rio et semper Caput suum cointelligit, quod in Collegio integrum servat suum munus Vicarii Christi
et Pastoris Ecclesiae universalis» (NEP 3º). Il che è reso appunto manifesto dal fatto che la consa-
crazione episcopale debba essere legittimata da un qualche atto diretto o indiretto del Romano Pon-
tefice, affinché il vescovo sia posto nella comunione gerarchica e quindi possa essere membro del
Collegio con tutti i diritti e i doveri connessi. Il vescovo illegittimo è vero vescovo, ma non è mem-
bro del Collegio Episcopale e quindi non è partecipe della potestà collegiale. La consacrazione epi-
scopale e la comunione gerarchica, inm quanto causa il primo e condicio qua non il secondo - come
veniva affermato nella Relatio al n. 22 dell’ultimo schema De Ecclesia (AS III/I,242-243) - sono
due elementi ugualmente necessari, perché il vescovo entri nel Collegio, e quindi per la costituzione
stessa del Collegio in quanto tale. Senza Capo, infatti, non si dà Collegio.
Solo il vescovo legittimamente consacrato, quindi integrato nella comunione gerarchica, può ri-
cevere dal Sommo Pontefice la missione canonica, con la quale è concesso un particolare ufficio
oppure gli sono assegnati i sudditi (LG 24b; NEP 2º). Degli effetti di questo abbiamo già parlato
sopra (pp. 28-29). Il vescovo al quale il Romano pontefice rifiuti o neghi la comunione apostolica
non può essere assunto nell’ufficio (LG 24b). Il che spiega perché le funzioni (“munera”) di inse-
gnare e di governare, ricevute nella consacrazione episcopale insieme a quella di santificare, per loro
natura (“natura sua”) non possono essere esercitate se non nella comunione gerarchica col Capo e
le membra del Collegio (c. 375,§2; LG 21b; NEP 2º).
Dobbiamo, inoltre, ben tener presente la differenza tra mandato pontificio o apostolico e mis-
sione canonica. Il primo non conferisce alcuna potestà, in quanto semplicemente legittima la consa-
crazione, se non è lo stesso Pontefice a consacrare il vescovo; invece la seconda, sul presupposto
della legittimità della consacrazione, conferendo l’ufficio, determina l’ambito di esercizio della pote-
stà, che il vescovo ha ricevuto da Cristo tramite la comunione gerarchica col Capo del Collegio e i
membri di esso. Il vescovo è posto nella comunione gerarchica con la legittima consacrazione, non
con la missione canonica. LG 24b e NEP 2º, non tenendo affatto presente la funzione del mandato
pontificio, sembrano attribuire alla missione canonica (“canonica seu iuridica determinatio”) la fun-
zione di immettere nella comunione gerarchica, il che genera confusione. Il distinguere chiaramente
tra la potestà universale partecipata dal vescovo come membro del Collegio immediatamente o, se
si vuole, anche mediatamente, e la potestà particolare determinata per mezzo della missione canoni-
ca, fa meglio anche capire perché un vescovo titolare abbia ed eserciti la potestà universale, pur non

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CORSO DI FORMATORI

esercitando potestà su alcuna Chiesa particolare; e perché un vescovo diocesano, che abbia rinun-
ciato alla sua diocesi, conservi la potestà universale collegiale. E’ evidente che un vescovo non legit-
timamente consacrato, oppure che rompa la comunione gerarchica, non essendo nella legittimità
del suo ufficio, non è mai stato costituito o non è più membro del Collegio e quindi non ha mai
avuto o perde ogni potestà sia universale che particolare, sia di governo sia di magistero autentico
(cc. 1331,§1,3º;§2,2º; 1336,§1,2º).
Infine il vescovo non potrebbe stabilire i suoi sudditi nella comunione cattolica, se essi stessi
non partecipassero, in forza della legittimità della sua consacrazione e della missione canonica, alla
struttura della comunione gerarchica col Capo del Collegio e i membri di esso. Se il vescovo non
fosse nella comunione gerarchica costituita dall’esercizio della potestà primaziale del Capo del Col-
legio, la sua Chiesa sarebbe scismatica, in quanto non si troverebbe nella comunione ecclesiastica
con la Chiesa di Roma, e quindi con tutte le altre Chiese particolari (LG 13c; 15; AG 22b). Dob-
biamo notare che la relazione di comunione gerarchica è duplice: con il Capo del Collegio e con i
membri di esso. La relazione col Capo del Collegio costituisce lo stesso ufficio episcopale relativa-
mente sia alla Chiesa universale sia a quella particolare. Da questo vincolo individuale stabilito tra
ciascun vescovo e il Capo del Collegio, ne deriva che tutti i vescovi insieme siano legati dallo stesso
vincolo con lo stesso Capo. Tale vincolo di comunione gerarchica di ciascun vescovo e di tutti i ve-
scovi insieme col Capo, oltre la comune consacrazione episcopale, fa sì che ogni vescovo sia stabili-
to in una relazione di comunione organica con tutti gli altri vescovi, in quanto la stessa relazione in-
dividuale del vescovo con il Capo del Collegio, oltre la consacrazione, lo pone, da una parte, in un
vincolo di comunione individuale tra pari con ciascun vescovo del Collegio, e, dall’altra, in un vin-
colo di comunione gerarchica con tutti i vescovi presi insieme, i quali, per la presenza tra di loro del
Romano Pontefice come Capo, formano un Collegio (LG 22b; 23a; 25a; NEP 1º; 3º; 4º; c. 336). In
questo modo si struttura la comunione ecclesiastica tra le Chiese particolari e la Chiesa di Roma, e
tra le Chiese particolari stesse, così che la varietà di esse non sia a detrimento dell’unità, anzi la ma-
nifesti (LG 13c; AG 22b; 38a; OE 2) e in esse e da esse sussista l’una ed unica Chiesa Cattolica (LG
23a; c. 368). Detto questo appare chiaro perché il c. 1382 stabilisca la scomunica l. s. riservata alla
Sede Apostolica nei riguardi del Vescovo che senza il mandato pontificio consacri qualcuno vesco-
vo e nei riguardi di colui che ha ricevuto tale consacrazione.
Possiamo concludere che mentre la comunione gerarchica del vescovo col Capo del Collegio e i
membri di esso è richiesta per diritto divino - cioè dalla stessa natura della Chiesa e dell’ufficio epi-
scopale, affinché il vescovo sia membro del Collegio e sia assunto nel suo ufficio - la disposizione
del c. 1013 circa la liceità della consacrazione episcopale per mezzo del mandato pontificio è di di-
ritto ecclesiastico, affinché lo stesso diritto divino sia protetto ed espresso. Lo stesso si deve dire
anche riguardo alla missione canonica. La Chiesa potrebbe anche disporre che il mandato pontificio
si abbia per la validità della consacrazione, ma finora non l’ha mai fatto, in quanto non è esigito dal
diritto divino. Infatti si deve ben distinguere tra la consacrazione, che anche senza mandato pontifi-
cio può essere conferita validamente, come riconosce lo stesso c. 1013, e la comunione gerarchica,
che si ha solo per il mandato del Romano Pontefice (c. 1382).
In tempi a noi recenti consacrazioni episcopali senza mandato pontificio sono quelle che avven-
gono in Cina (Pio XII, Lett. Enc. Ad Sinarum gentem, 7 ott. 1954, in AAS 47, 1955, 9; Ad Aposto-
lorum Principis, 20 giu. 1958, in AAS 29 giu. 1958, in AAS 50, 1958, 610; Giovanni XXIII, All. al
Concistoro segreto, 15 dic. 1958, in AAS 50, 1958, 983). Poi ci sono state quelle fatte l’11 genn.
1976 da Pietro Martino Ngò-dinh-Thuc, vescovo titolare di Bullesium Regiorum (Congr. Fede,
Decr. del 17 sett. 1976, in AAS 68, 1976, 623), il quale, in seguito, chiesta la remissione della sco-
munica, l’ottenne, ma, avendo, poi, dal 1981 fatto altre consacrazioni illegittime incorse di nuovo

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nella scomunica (Congr. Fede, Decr. 12 mar. 1983, in AAS 75, 1983, 392-393). Ultimo caso è quello
delle consacrazioni episcopali fatte dall’Arciv. tit. Marcel Lefebvre il 13 giu. 1988, che hanno con-
sumato il suo scisma (Giovanni Paolo II, M. p. Ecclesia Dei, in AAS 80, 1988, 1495-1498).
Data, infine, la dimensione collegiale dell’episcopato, il c. 1014 dispone «Nisi Sedis Apostolicae
dispensatio intercesserit, Episcopus consecrator principalis in consecratione episcopali duos saltem
Episcopos consecrantes sibi adiungat; valde convenit autem, ut una cum iisdem omnes Episcopi
praesentes electum consecrent». Questa disposizione, come si sa, viene da una prassi antichissima
della Chiesa.
Il c. IV del Concilio di Nicea (a. 325) stabiliva che consacranti fossero tutti i vescovi della pro-
vincia, o, se questo fosse stato difficile, almeno tre (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna
1973, 7). Il c. 954 CIC 1917 così era: “Episcopus consecrator debet alios duos episcopos adhibere,
qui sibi in consecratione assistant, nisi hac super re a Sede Apostolica dispensatum fuerit”.
Pio XII nella Cost. ap. Episcopalis consecrationis del 30 nov. 1944, dicendo “et ipsi Consecrato-
res effecti proindeque conconsecratores deinceps vocandi” (AAS 37, 1945, 131), veniva a risolvere
la questione se gli altri due vescovi fossero da considerarsi solo degli “assistenti” del vescovo consa-
crante, come sembrava suggerire il CIC 1917, oppure dei con-consacranti. La ragione data da Pio
XII era che si avesse una maggiore certezza per la validità della consacrazione episcopale e quindi
della pienezza della successione apostolica. Si trattava di un motivo di certezza giuridica.
Il Pontificale Romanum del 1968 De ordinatione Diaconi, Presbyteri et Episcopis, al n. 2 dei
Praenotanda al rito dell’ordinazione del vescovo parlava di almeno altri due vescovi consacranti e
che è conveniente (“decet”) che tutti i vescovi presenti, insieme al consacrante principale, ordinino
(“ordinent”) l’eletto. Il Pontificale Romanum del 1990 De ordinatione Episcopi, presbyterorum et
diaconorum, ai nn. 16 e 25 dei Praenotanda è ancora più esplicitamente sulla stessa linea, in un con-
testo in cui viene messa fortemente in risalto il carattere di segno della collegialità episcopale (nn.
12; 16).
iI c. 1014 CIC 1983 parla espressamente di vescovi conscranti ed è da leggersi sullo sfondo della
teologia dell’episcopato del Vaticano II, al di là, quindi, della motivazione data da Pio XII. Ciò che
richiede per la liceità della consacrazione è nell’ordine del segno della collegialità episcopale.
Ordinazione presbiterale e diaconale: lettere dimissorie
VESCOVO ORDINANTE
Il c. 1015 stabilisce che:
1) L’ordinazione deve essere fatta dal vescovo proprio, a meno che non sia impedito da una giu-
sta causa. Non è più prevista la necessità della facoltà della S. Sede per la promozione ad un grado
superiore di chi è stato ordinato in un grado dal Romano Pontefice, come stabiliva il c. 952 CIC
1917.
2) A tutela dei differenti riti nella Chiesa, perché il vescovo proprio possa ordinare lecitamente
un suddito di rito orientale, è necessario un indulto della S. Sede (Congr. culto div. /disc. sacr. ). E’
da tener presente, tuttavia, che se uno di rito orientale viene ordinato dal vescovo proprio secondo
il rito latino, di per sé non viene ascritto al rito latino ( c. 112,§2).
3) Il vescovo non proprio può ordinare solo con le legittime lettere dimissorie. Le lettere dimis-
sorie sono necessarie per la liceità dell’ordinazione, non per la validità. Se un diacono o un presbite-
ro vengono ordinati senza le lettere dimissorie non si trovano in comunione gerarchica con il loro
vescovo e con l’ordine dei vescovi (PO 7a) e, per il fatto che sono sospesi dall’ordine conferito loro
illegittimamente, non possono esercitare legittimamente o validamente, a seconda dei casi, le fun-

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zioni (“munera”) ricevute nell’ordinazione; mentre il vescovo ordinante illegittimamente ha la proi-


bizione di conferire per un anno gli ordini sacri (c. 1383).
Il §3 afferma un principio generale: se colui che dà le lettere dimissorie è vescovo, può ordinare i
suoi sudditi. Questo vale sempre per il vescovo proprio quando si tratta del clero diocesano e del
clero assimilato ad esso, cioè di membri o di istituti secolari, di diritto diocesano oppure pontificio,
se non hanno la facoltà di dare le lettere dimissorie, o di istituti religiosi oppure di società di vita
apostolica, di diritto diocesano. Quando, invece, si tratta di membri di istituti religiosi clericali di di-
ritto pontificio o di istituti secolari anche di diritto pontificio, che abbiano la facoltà di di dare le let-
tere dimissorie, o di società clericali di vita apostolica di diritto pontificio o di prelature personali (c.
195,§1), sebbene i loro superiori diano le lettere dimissorie (c. 1019,§1), tuttavia, evidentemente,
non possono da questi ricevere gli ordini sacri, se non sono vescovi.
E’ da notare che non è normale, per la natura stessa degli istituti secolari clericali incardinare i
chierici e dare le lettere dimissorie per la loro ordinazione, perché questo li assimila sempre più agli
istituti religiosi, in quanto i loro membri dipendono dai vescovi “ad instar religiosorum” (c. 715,§2).
Già prima del Concilio c’erano alcuni istituti che a norma delle costituzioni approvate dalla S. Sede
incardinavano e davano le lettere dimissorie: Opus Dei (ora prelatura personale), Compagnia di S.
Paolo, Operarios diocesanos, Association de Prêtres du Prado. Il rescritto pontificio Cum admote
del 6 nov. 1964, I,II,2 (AAS 59, 1967, 378), estendeva la facoltà di dare le lettere dimissorie ai Mo-
deratori generali degli Istituti secolari di diritto pontificio, per quei chierici che venivano incardinati
nell’istituto stesso. Già prima potevano incardinare l’istituto Pie X (Québec) e Acies Christi; dopo il
rescritto anche l’istituto Notre Dame de Vie. Questi potevano dare anche le lettere dimissorie, se-
condo il rescritto. Il c. 1019,§2 revoca la facoltà concessa nel rescritto, ma non vale per tutti quegli
istituti che hanno la facoltà di dare le lettere dimissorie per mezzo dell’approvazione delle Costitu-
zioni da parte della s. Sede.
Il c. 1016, semplificando molto il c. 956 CIC 1917, stabilisce chi è da considerare vescovo pro-
prio per quello che riguarda l’ordinazione diaconale e quella presbiterale.
Nel caso di ordinazione diaconale vescovo proprio è:
a) o il vescovo della diocesi, in cui l’ordinando ha il domicilio ( c. 102,§2);
b) o il vescovo della diocesi in cui l’ordinando vuole esercitare il suo ministero.
In questo modo, come si vede, il canone vuole lasciare la libertà di scegliere la propria diocesi.
Nel caso di ordinazione presbiterale, evidentemente, vescovo proprio è il vescovo della diocesi
in cui il diacono è già incardinato.
Il canone si riferisce al clero secolare, il quale soltanto ha vescovo proprio. Il clero appartenente
agli istituti religiosi di diritto pontificio, alle società di vita apostolica di diritto pontificio (c. 1019),
alle prelature personali (c. 195,§1), agli istituti secolari di diritto pontificio che a norma del c. 266,§3
incardinano i loro membri (c. 715,§2) e che hanno la facoltà di dare le lettere dimissorie, non ha ve-
scovo proprio e quindi è ordinato da qualsiasi vescovo con le lettere dimissorie dei superiori. Tra il
clero secolare debbono essere compresi: i membri di istituti secolari sia di diritto pontificio, che non
incardinano, sia di diritto diocesano; le società di vita apostolica di diritto diocesano, secondo il pre-
sctritto del c. 1019,§2, del quale tratteremo più sotto.
Un vescovo, poi, fuori della propria diocesi, secondo il c. 1017, non può ordinare se non con la
licenza del vescovo dioeceano. Infatti il vescovo è pastore della Chiesa affidatagli, quindi le funzioni
e le potestà conferitegli non le può esercitare in un’altra Chiesa particolare affidata ad un altro ve-
scovo (LG 23/339); tuttavia la licenza che è richiesta dal canone non è per la validità
dell’ordinazione, ma solo per la liceità. La licenza del vescovo diocesano si richiede, per es. , quando

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questi per giusta causa è impedito ( c. 1015,§1); quando un vescovo è chiamato fuori della propria
diocesi per ordinare un suo suddito oppure un membro di un istituto religioso o di una società di
vita apostolica di diritto pontificio, o di un’istituto secolare di diritto pontificio che incardina i suoi
membri, o di una prelatura personale.
Lettere dimissorie
 Autorità concedente.
- Per i secolari diocesani, a norma del c. 1018,§1,, possono dare le lettere dimissorie;
1) Il vescovo proprio, di cui al c. 1016, cioè per l’ordinazione diaconale il vescovo o della diocesi
in cui l’ordinando ha il domicilio, o della diocesi alla quale ha deciso di dedicarsi; per l’ordinazione
presbiterale il vescovo della diocesi, a cui l’ordinato è già incardinato come diacono.
2) L’amministratore apostolico.
3) L’amministratore diocesano, col consenso del collegio dei consultori ( c. 502).
4) Il pro-vicario e il pro-prefetto apostolico, col consenso del consiglio, di cui al c. 495,§2, che
nei vicariati e nelle prefetture è equiparato al consigio presbiterale.
Non può più dare le lettere dimissorie il vicario generale, né più si parla del vicario capitolare ( c.
958,§1,2º,3º CIC 1917), in quanto ora le dà l’amministratore diocesano.
Espressamente non vengono nominati nel canone il vicario apostolico, il prefetto apostolico,
l’abate o il prelato territoriale, in quanto non è necessario che lo siano, per il fatto che sono assimila-
ti al vescovo diocesano (cc. 134,§1 e 368).
L’amministratore, a cui sono assimilati il pro-vicario e il pro-prefetto (c. 420), gode della stessa
potestà, anche se non piena, del vescovo diocesano. Ha, infatti, una potestà amministrativa che è
limitata o per la natura stessa della cosa o per lo stesso diritto (c. 427,§1), o in base alla disposizione
generale del c. 428, secondo il quale, sede vacante, coloro che reggono la diocesi ad interim non
debbono apportare innovazioni né debbono fare niente che porti pregiudizio ai diritti del vescovo.
Per questo l’amministratore diocesano, il pro-vicario e il pro-prefetto, possono concedere le lettere
dimissorie solo col consenso, rispettivamente, del collegio dei consultori, di cui al c. 502, e del con-
siglio formato di almeno tre presbiteri missionari, di cui al c. 495,§2, e non debbono concederle a
coloro ai quali l’acceso agli ordini fu negato, rispettivamente, dal vescovo diocesano oppure dal vi-
cario o dal prefetto apostolico (c. 1018,§2). Le lettere dimissorie concesse senza il consenso del col-
legio dei consultori o del consiglio di cui al c. 495,§2 sono nulle, mentre anche con tale consenso
non possono essere date a coloro ai quali l’accesso agli ordini fu negato da parte del vescovo dioce-
sano oppure del vicario o del prefetto apostolico. In ambedue i casi l’ordinazione, tuttavia, sarebbe
solo illecita, ma non invalida.
L’amministratore apostolico non sottostà a tutte queste limitazioni, in quanto non regge ad inte-
rim una Chiesa particolare ed ha la stessa potestà che il vescovo diocesano.
- Per i membri degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio o delle società clericali di vita
apostolica di diritto pontificio, l’autorità competente a concedere le lettere dimissorie per
l’ordinazione diaconale e presbiterale è il superiore maggiore. Tali lettere possono essere concesse
solo a quei sudditi che, a norma delle costituzioni, sono ascritti all’istituto o alla società in modo
perpetuo o definitivo (c. 1019,§1). La materia nel nuovo codice viene regolata in modo molto sem-
plificato rispetto al c. 964 CIC 1917, e cadono i cc. 965-967 CIC 1917, che erano molto restrittivi
circa la scelta del vescovo al quale potevano essere mandate le lettere dimissorie.
Tutto questo vale, in modo analogico, per le prelature personali, in quanto non dipendono dal
vescovo diocesano, essendo il prelato loro ordinario, che promuove agli ordini i membri della prela-

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CORSO DI FORMATORI

tura e li incardina in essa (c. 295,§1); e per gli istituti secolari di diritto pontificio che, a norma del c.
266,§3, incardinano i loro sudditi (c. 715,§2).
I superiori maggiori degli altri istituti o società non possono concedere le lettere dimissorie, in
quanto l’ordinazione dei loro sudditi è retta dal diritto del clero secolare diocesano. Nel c. 1019,§2 si
dice espressamente che è revocato qualsiasi indulto fosse stato concesso a tali superiori. Questo §2
del canone riguarda, come abbiamo visto, i membri degli istituti secolari sia di diritto pontificio, che
non hanno la facoltà di incardinare i loro membri e di dare le lettere dimissorie, sia di diritto dioce-
sano; e inoltre i membri degli istituti religiosi di diritto diocesano e quelli delle società di vita aposto-
lica di diritto diocesano.
Secondo il c. 1020 l’autorità competente non deve concedere le lettere dimissorie se prima non
gli sono stati consegnati tutti i certificati e i documenti, che sono richiesti dal diritto (cc. 1050 e
1051).
Infine il c. 1023 dispone che le lettere dimissorie possono essere limitate, quanto al tempo luogo
o altre circostanze, oppure revocate, dallo stesso concedente o dal suo successore, ma una volta
concesse, non si estinguono se viene meno il diritto del concedente. Per la stessa natura della revoca
delle lettere dimissorie si richiede una giusta causa, tuttavia non per la validità della revoca, in quan-
to né il candidato per il fatto stesso della concessione acquisisce un diritto proprio all’ordinazione
come tale o all’ordinazione da un determinato vescovo, né l’autorità del concedente viene meno per
il fatto di aver già concesso le lettere dimissorie ( Cf. F. M. CAPPELLO, Summa iuris canonici, vol.
II, Romae 1962, 280).
 Destinatario
Il c. 1021 dà come prima disposizione generale che le lettere dimissorie possono essere inviate a
qualsiasi vescovo in comunione con la Sede Apostolica, quindi il diacono o il presbitero ordinato da
un vescovo che non è in tale comunione, ipso faco sarebbe sospeso, in quanto le lettere dimissorie
sarebbero illegittime (c. 1383).
Un’unica eccezione al principio generale stabilito è prevista nello stesso canone, cioè le lettere
dimissorie non possono essere inviate a un vescovo di rito diverso da quello dell’ordinando, a meno
che non ci sia un indulto apostolico. Il che è coerente con quanto disposto dal c. 1015,§2, che il ve-
scovo di rito latino non può ordinare lecitamente, senza un indulto apostolico, un suddito di rito
orientale.
Il vescovo ordinante, ricevute le lettere dimissorie, prima di procedere all’ordinazione, deve co-
statare della sicura attendibilità delle lettere (c. 1022).
 Gli ordinandi
Canoni introduttivi: requisiti per la validità dell’ordinazione.
Il c. 1024 dà gli unici due requisiti per la validità dell’ordinazione: il battesimo e il sesso maschile
dell’ordinando.
E’ chiaro che il battesimo sia richiesto dallo stesso diritto divino; íl battesimo, infatti dà una ca-
pacità ontologica per ricevere qualsiasi sacramento (c. 842,§1).
Per quello che riguarda il requisito del sesso maschile, sebbene la questione dommatica circa il
fondamento della secolare e continua tradizione non sia mai stata risolta in modo definitivo, il ca-
none lo richiede per la validità dell’ordinazione, secondo l’attuale e costante dottrina del magistero
autentico.
Comunque ci si chiede se l’esclusione delle donne sia di diritto divino oppure di diritto ecclesia-
stico.

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CORSO DI FORMATORI

Il c. 10241024 riporta come fonte il c. 968 CIC 1917, che è assunto tale quale nella parte riguar-
dante il sesso dell’ordinando. Le fonti che riporta il c. 968,§1 riguardano il battesimo dell’ordinando
e non il sesso maschile. Il nostro canone riporta come fonte PO 2 che non affronta minimamente
la questione. Tra le fonti che ci aiutano ad interpretare il canone è innanzitutto la Dichiarazione In-
ter insignores del 15 ott. 1976 (AAS 69 [1977] 96-116; EV 5/2110-2147), della S. Congregazione
per la dottrina della fede.
Essa afferma:
“. . . Sacra haec Congregatio pro Doctrina Fidei, mandatum exsequens a Beatissimo Patre accep-
tum eiusque subsequens verba, quae in suis die 30 Novembris anno 1975 datis litteris scripsit (AAS
68 [1976] 599-600; cf. Ibid. , pp. 600-601), censet nunc resumendum: Ecclesiam, quae Domini
exemplo fidelis manere intendit, auctoritatem sibi non agnoscere admittendi mulieres ad sacerdo-
talem ordinationem. . . ” (Introd. ).
A prova di questo, viene esplicitato:
“Numquam Ecclesia catholica sensit presbyteralem vel episcopalem ordinationem mulieribus
valide conferri posse” (I).
Infine la Dichiarazione afferma:
“Ecclesiae ergo praxis vim normae habet. In eo autem quod solum viris ordinatio sacerdotalis
confertur, subest traditio continua per totam Ecclesiae historiam, universalis tam in Oriente quam
in Occidente, intenta ad pravos usus statim coërcendos; quae norma, exemplo Christi innixa, ideo
observata est, et observatur, quia putatur conformis esse proposito Dei circa Ecclesiam suam” (IV).

Questi sono gli argomenti positivi portati dalla Dichiarazione. Dopo di essi viene sviluppato un
argomento speculativo (V), ma che, dice la stessa Dichiarazione, non è dimostratiovo, ma chiarifica-
tore della disciplina e della dottrina ad essa sottesa mediante l’analogia della fede.
Sinteticamente l’argomentazione è la seguente. Il sacerdote è rappresentante di Cristo, autore
dell’Alleanza, capo e sposo della Chiesa. Questo si realizza nella forma più altra nella celebrazione
Eucaristica. All’interno dell’economia sacramentale della salvezza, che si fonda su simboli naturali,
che assumono un senso in relazione alla psicolofgia umana, Cristo, che è un uomo, nella Chiesa
dev’essere rappresentato da un uomo, altrimenti si perderebbe il valore del simbolo rappresentativo.
Quindi la bipolarità Cristo, Capo e Sposo, e Chiesa, Sposa, è una bipolarità dell’economia della re-
denzione, fondata nell’ordine della creazione.
Infine la dichiarazione chiarisce che il sacerdozio è un dono e non è un diritto neanche per gli
uomini, per cui non può essere invocata la parità dei diritti degli uomini e delle donne nella Chiesa,
sulla base di Gal. 3,28. Infatti la parità tra l’uomo e la donna là è affermata in ordine alla filiazione
divina e non in relazione ai ministeri. Il battesimo non conferisce alcun titolo personale al ministero
pubblico nella Chiesa. Il sacerdozio ministeriale scaturisce da una vocazione divina per il servizio di
dio e della Chiesa e non per l’onore o il vantaggio di chi lo riceve (VI).
La Chiesa ortodossa è sulla stessa posizione della Chiesa cattolica. Il Patriarca Ecumenico Dimi-
tri I nel 1988, dopo avber consultato le Chiese ortodosse, scrisse una lettera ad esse confermando la
disciplina tradizionale, portando gli stessi argomenti positivbi della Dichiarazione Inter insignores,
ma raccomandando che si ristabilisse l’ordinazione delle disconesse (cf. Herder-Korrespondenz 43,
1989, 96).
La Dichiarazione Inter insignores parla solo dell’ordinazione sacerdotale, cioè presbiterale ed
episcopale, e non di quella diaconale, in quanto, come più sopra già abbiamo detto, il diaconato non
è un grado del sacerdozio ministeriale, se non in un senso molto ampio e entro ristretti limiti; nella

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CORSO DI FORMATORI

Chiesa apostolica e dei primi secoli si avevano delle donne nell’ordine diaconale, alle quali fa allu-
sione anche la stessa Dichiarazione (III). Ad esse si fa accenno in Rom. 16,1-2 e 1Tim. 3,11; 5,9.
Inoltre di esse trattano la Didascalia e la Traditio Apostolica di Ippolito (metà sec. III), il Concilio di
Nicea (c. 19), S. Basilio, S. Epifanio e le Costituzioni Apostoliche (fine sec. IV). Il loro ministero era
di aiuto al vescovo e al diacono per l’assistenza delle donne nel battesimo (unzione), per
l’accoglienza di esse nell’assemblea liturgica, per l’assistenza delle donne malate e bisognose. In di-
gnità venivano subito dopo i diaconi, prima dei suddiaco, degli accoliti e dei lettori, m comunque
veniva espressamente escluso che potessero accedere al presbiterato. Da alcuni testi risulta in orien-
te facevano parte del clero e che venivano ordinate con l’imposizione delle mani, mentre in occi-
dente ne erano escluse. Sparirono tra il V e il VII secolo, prima in oriente e poi in occidente. Per un
approfondito studio sulle diaconesse nella Chiesa orientale, cf. C. VAGAGGINI, L’ordinazione
delle diaconesse nella tradizione greca e bizantina, in Orient. Christ. Periodica 40 [1974] 145-189;
per uno studio sulla questione delle diaconesse nella Chiesa primitiva in genere, cf. H. FROHN-
HOFEN, Diaconesse nella Chiesa primitiva, in Humanitas 41 [1986] 677-690).
Tra il 1975 e il 1976 ci fu uno scambio di lettere tra Paolo VI e l’Arcivescovo di Canterbury,
Dott. Frederick Coggan, circa l’ammissione di donne al sacerdozio nella comunione anglicana. Nel-
la sua lettera del 30 nov. 1975 (AAS 68, 1976, 599-600) Paolo VI, rispondendo a una lettera del 9
luglio 1975 dell’Arcivescovo, affermava che la Chiesa Cattolica non ammette le donne al sacerdozio
per ragioni veramente fondamentali, che sono: l’esempio, registrato nelle Sacre Scritture, di Cristo
che scelse i suoi Apostoli soltanto tra uomini; la prassi costante della Chiesa, che ha imitato Cristo;
il magistero vivente, che ha coerentemente stabilito che l’esclusione delle donne dal sacerdozio, in
armonia con il piano di Dio per la sua Chiesa. Questo affermava Paolo VI, ribadendo le gravi diffi-
coltà che la decisione della comunione anglicana avrebbe introdotto nel dialogo ecumenico, se aves-
se ammesso donne al ministero sacerdotale. Tale posizione veniva ulteriormente ribadita da Paolo
VI nella sua lettera del 23 mar. 1976, in risposta ad un’altra lettera del Dott. Coggan del 10 febbr.
1976 (cf. L’Osservatore Romano 21 ag. 1976). Dopo la pubblicazione della Dichiarazione Inter in-
signores tra il 22 luglio e il 13 ag. 1978 si riuniva a Canterbury l’11ª Conferenza di Lambeth, in cui
su 400 vescovi anglicani partecipanti, 316, contro 37, con 17 astensioni, votarono una risoluzione
circostanziata che riconosceva a ciascuna delle 25 chiese della comunione anglicana il diritto di or-
dinare o no donne (attualmente solo quattro hanno ordinato delle donne: Canada, USA, Nuova Ze-
landa, Hong Kong, e altre otto sono favorevoli). A tale Conferenza intervenne Mons. Cahal Daly, a
nome del Segretariato per l’unità dei cristiani, affermando che è impossibile mettere in dubbio la se-
rietà e la fermezza della posizione cattolica circa la non ammissione delle donne al sacerdozio.
Quest’intervento fu sollecitato dal fatto che si diceva che la Dichiarazione della Congregazione per
la dottrina della fede non afferma essere di diritto divino l’esclusione delle donne dal sacerdozio.
L’intervento contribuì a far sì che per la promozione di donne all’episcopato fosse necessaria la
consultazione previa dell’insieme dei 25 primati di ogni chiesa della comunione anglicana (cf. Inf.
Cath. Int. , 15 ott. 1978, 20-22; Regno/Att. 23, 1978, 355-356). Tra il 17 luglio e il 7 agosto 1988,
però, si è riunita a Canterbury la 12ª Conferenza di Lambeth, composta da 525 vescovi della comu-
nione anglicana, dove con 423 voti a favore, 28 contro e 19 astensioni, è stata votata una risoluzione
che da una parte autorizza le varie provincie che lo vogliano a conferire l’episcopato a delle donne,
senza fare pressione su quelle provincie che non lo vogliano, raccomandando alle une e alle altre di
rimanere in comunione nel rispetto reciproco, senza che tale rispetto significhi necessariamente
l’accettazione dei principi in questione (cf. L’actualitè religieuse dans le monde, n. 58, juillet-août
1988, 12; Regno/Att. 33, 1988, 433-434). Come si sa il Sinodo della Chiesa di Inghilterra ha am-

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CORSO DI FORMATORI

messo le donne al’episcopato l’11 novembre 1992. Da parte cattolica non c’è stata alcuna reazione
ufficiale.
Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Mulieris dignitatem del 15 agosto 1988, al n. 26,
riprende l’affermazione, già contenuta nella Dichiarazione Inter insignores (II), della libertà di Cri-
sto dai condizionamenti ambientali e culturali nello scegliere solo uomini come Apostoli e ribadisce
l’insegnamento circa l’esclusione delle donne dal sacerdozio, all’interno dello sviluppo, nel n. 25,
della dottrina del parallelismo simbolico Cristo/Chiesa e Sposo/Sposa, già contenuta nella Dichia-
razione, in riferimento alla celebrazione dell’Eucarestia dove il ministro sacro agisce “in persona
Christi” (cf. AAS 80 [1988] 1715-1716). Ulteriore conferma della dottrina si ha nell’Es. ap. Christi-
fideles laici del 30 dic. 1988, nei n. 51 (AAS 81, 1989, 492-493).
L’Ep. ap. Ordinatio sacerdotalis, del 22 maggio 1994, da Giovanni Paolo II destinata a tutti i ve-
scovi cattolici, conferma nei primi due paragrafi la dottrina contenuta nella Dich. Inter insignores e
nell’Ep. ap. Mulieris dignitatem. Nel par. 4, parte dalla costatazione seguente “Quamvis doctrina de
ordinatione sacerdotali viris tantum reservanda constanti et universali Ecclesiae Traditione servetur
atque Magisterio in recentioribus documentis firmiter doceatur, temporibus tamen nostris diversis
in partibus disputabilis habetur, aut etiam Ecclesiae sententiae non admittendi mulieres ad ordina-
tionem illam vis mere disciplinaris tribuitur”. E, in relazione a questa costatazione, conclude: “Ut
igitur omne dubium (che l’esclusione delle donne sia di carattere solo disciplinare) auferatur circa
rem magni momenti, quae ad ipsam Ecclesiae divinae constitutionis pertinet, virtute ministerii No-
stri confirmandi fratres (cf. Lc. 22,32), declaramus Ecclesiam facultatem nullatenus habere ordina-
tionem sacerdotalem mulieribus conferendi, hancque sententiam ab omnibus Ecclesiae fidelibus de-
finitive tenenda”.
Nella Dichiarazione Inter insignores e negli altri documenti ufficiali, fino all’Ep. ap. Ordinatio
sacerdotalis non si aveva un’affermazione espressa che l’esclusione delle donne dall’ordinazione sa-
cerdotale è di diritto divino, tuttavia le espressioni usate erano già prossime ad essa.
Con l’Ep. ap. Ordinatio sacerdotalis Giovanni Paolo II va avanti in questo senso. Infatti il Papa
impegna tutta la sua autorità, propria del suo ministero di successore di Pietro nel confermare i fra-
telli nella fede, per rimuovere ogni dubbio circa una questione che riguarda la costitzione divina del-
la Chiesa. Infine dichiara che deve essere tenuta da tutti i fedeli della Chiesa come sentenza definiti-
va, il fatto che la Chiesa non ha la facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne.
Bisogna dire che non si ha una definizione infallibile a norma del c. 749,§3 circa l’esclusione del-
le donne dal sacerdozio, ma che si dichiara che il fatto che la Chiesa non abbia autorità ad ammette-
re le donne al sacerdozio è dottrina definitiva, di magistero ordinario autentico, che richiede pieno e
incondizionato assenso, a norma del c. 750. Tuttavia, per il fatto che tale sentenza da ritenersi come
definitiva non è solo un insegnamento prudenziale o una disposizione solo disciplinare, semplice-
mente rispondente con più probabilità alla realtà delle cose, ma un’affermazione dottrinale da rite-
nersi come certamente vera, che richiede il pieno e incondizionato assenso da parte dei fedeli, fa sì
che l’affermazione che l’esclusione delle donne, riguardante la costituzione divina della Chiesa, in-
duce a dover ritenere che la riserva dell’ordinazione solo agli uomini sia da considerarsi di diritto di-
vino. Ripeto, non c’è una definizione riguardo a questo, ma a questo si è indotti da tutto il contesto
e il modo logico di procedere per arrivare alla dichiarazione definitiva finale. La conseguenza con-
creta di tale dichiarazion definitiva è che non solo i teologi o i vescovi, ma neppure un altro Ponte-
fice o un Concilio Ecumenico, non potranno in futuro affermare che la Chiesa ha la facoltà di am-
mettere le donne all’ordinazione sacerdotale.

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CORSO DI FORMATORI

Infine è da dire che tutti i documenti trattano dell’esclusione delle donne dal presbiterato e
dall’episcopato e non dal ministero diaconale. Certamente la questione dell’ammissione delle donne
al diaconato dipende dalla soluzione del rapporto di questo col sacerdozio ministeriale e se la parte-
cipazione del diaconato al sacerdozio ministeriale anche nel senso ampio che abbiamo spiegato im-
pedisca l’ordinazione diaconale delle donne oppure no. Altro punto è se dal punto di vista storico le
diaconesse ricevessero o no lo stesso ministero diaconale degli uomini. Ciò rimane ancora incerto e
discusso, per cui la questione riguardo al diaconato rimane aperta. A mio parere, per il fatto che
comunque il diaconato non immette nella successione apostolica e non costituisce pastori, sarebbe
ipotizzabile l’ammissione di donne al diaconato.
(1) Requisiti per la liceità dell’ordinazione
Il c. 1025,§1 in modo generale dà l’elenco dei requisiti stabiliti dal diritto ecclesiastico per la licei-
tà dell’ordinazione diaconale e presbiterale. Espressamente il canone si riferisce solo a questi due
gradi del sacramento e non al grado dell’episcopato, in quanto per i vescovi il processo informativo
è condotto dal legato pontificio a norma dei cc. 377,§3 e 364,4º e delle Norme date dal Consiglio
per gli affari pubblici della Chiesa il 25 mar. 1972 (cf. AAS 64, 1972, 387-391; EV 4,1594-1624), i
requisiti sono stabiliti dal c. 378,§1, e il giudizio sull’idoneità è fatto dalla Sede Apostolica (c.
378,§2).
Il canone richiede che il candidato:
1) abbia compiuto il periodo di prova a norma del diritto (cf. cc. 1027; 1032; 235; 236; 250);
2) sia in possesso delle dovute qualità, a giudizio del vescovo proprio o del superiore maggiore
competente (cf. c. 1029);
3) non sia trattenuto da alcuna irregolarità e da nessun impedimento (cf. cc. 1040-1049);
4) abbia adempiuto quanto previamente richiesto a norma dei cc. 1033-1039;
5) abbia fornito i documenti di cui al c. 1050;
6) abbia subito lo scrutinio previsto dal c. 1051.
É evidente che il n. 3 vale anche per la promozione all’episcopato.
Il §2 dello stesso canone richiede inoltre per la liceità dell’ordinazione che il legittimo superiore
giudichi che l’ordinando sia utile per il ministero della Chiesa. Il c. 969,§1 CIC 1917 stabiliva che
l’ordinazione dei secolari fosse fatta solo se fossero stati giudicati dal proprio vescovo necessari alle
chiese della diocesi. Così il giudizio del vescovo riguardava soltanto la sua diocesi, per cui il candida-
to poteva anche essere adatto al ministero diaconale o presbiterale, ma per il fatto che la diocesi non
aveva bisogno di lui, il suo vescovo non lo doveva ordinare; tuttavia non si proibiva che il vescovo
ordinasse un suo suddito, che poi, previa la legittima escardinazione e incardinazione, si dedicasse al
servizio di un’altra diocesi (cf. c. 969,§2 CIC 1917). Secondo il c. 1025,§2 il giudizio del legittimo
superiore circa l’utilità dell’ordinazione del candidato non riguarda soltanto la diocesi o l’istituto o la
società o la prelatura nei quali egli sarà incardinato, ma riguarda la Chiesa universale, il bene della
quale il superiore legittimo deve avere davanti agli occhi (cf. Communicationes 10, 1978, 188). Tut-
tavia, siccome un diacono o un presbitero, se risulta idoneo al ministero, sempre sarà utile alla Chie-
sa, almeno se il candidato si mostra disposto al servizio in un’altra Chiesa particolare, il giudizio del
legittimo superiore circa l’utilità, di fatto, si riduce al giudizio sulle qualità e sull’idoneità
dell’ordinando, delle quali parla il §1. E’ da chiedersi se un candidato che ha tutte le qualità per esse-
re ordinato abbia o no il diritto all’ordinazione. Un diritto a cui corrisponda un dovere del vescovo
proprio, no; può rivolgersi ad altro vescovo.

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CORSO DI FORMATORI

Infine il §3 del canone, coerente col principio sancito dal c. 265, stabilisce che al vescovo che or-
dina un suo suddito, che sarà destinato al servizio di un’altra diocesi, deve constare che l’ordinando
sarà ad essa assegnato.
I cc. 1026-1039 e 1050-1052 trattano in modo particolareggiato dei requisiti per l’ordinazione, i
quali possono essere sistematicamente trattati nel modo seguente.
(2) Qualità personali
(a) Libertà
Il c. 1026, in modo più forte che non il c. 971 CIC 1917, stabilisce : “Ut quis ordinetur debita li-
bertate gaudeat oportet; nefas est quemquam, quovis modo, ob quamlibet causam ad ordines reci-
piendos cogere, vel canonice idoneum ab iisdem recipiendis avertere”.
Interpretando il canone alla luce di OT 2c e PO 11a si tratta di libertà esterna e interna. Il cano-
ne non dice espressamente se tale libertà sia richiesta per la validità oppure per la liceità
dell’ordinazione, quindi dal principio generale sancito dal c. 10, si dovrebbe dire che, anche nel caso
che mancasse la libertà, l’ordinazione sia da considerasi valida. Tuttavia gli autori distinguono vari
casi:
1) Chi non ha almeno l’intenzione abituale di ricevere gli ordini, è ordinato invalidamente. Infatti
l’intenzione abituale, cioè quella che è attuale nel soggetto e che mai è stata revocata, è richiesta per
la validità dalla stessa natura del sacramento.
2) In dottrina si ammette che l’amente abituale sia ordinato validamente, ma l’amente che nei lu-
cidi intervalli abbia manifestato l’intenzione di non ricevere gli ordini, poi non può validamente es-
sere ordinato, per la stessa ragione di cui nel primo caso, perché mencherebbe l’intenzione abituale.
A mio parere l’ordinazione dell’amente dovrebbe essere in ogni caso invalida, in quanto non mi
sembra che in questo caso si possa supporre l’intenzione abituale. Inoltre l’ordinazione è data per
esercitare un ministero nella Chiesa: che ministero può svolgere un amente?
3) Chi costretto da timore grave acconsente all’ordinazione, è validamente ordinato, nella misura
in cui non ha perso l’uso della ragione.
4) E’ invalidamente ordinato colui che dorme, è ubriaco, è sotto effetto di droga, senza che pri-
ma avesse avuto l’intenzione; colui che è costretto da violenza esterna; colui che si presenta
all’ordinante per gioco o per scherzo (cf. F. M. CAPPELLO, op. cit. , 284; A. VERMEERSCH - I.
CREUSEN, op. cit. ,166-167).
Chi è stato ordinato senza il debito rispetto della sua libertà o senza essere pienamente respon-
sabile dei propri atti, può ottenere dalla S. Sede la dimissione dallo stato clericale, e la liberazione
degli obblighi connessi, a norma dei cc. 290,3º e 292; anzi può essere anche dispensato dall’onere
del celibato secondo la procedura e le norme stabilite dalla S. Congregazione per la dottrina della
fede il 14 ott. 1980 (cf. Lett. circ. Per litteras ad universos (AAS 72 [1980] 1132-1135; EV 7,572-
578), Norme Ordinarius competens (AAS 72 [1980] 1136-1137; EV 7,579-586). Tratteremo di que-
sto nel trattato sui chierici. Infatti, secondo l’opinione comune e tradizionale dei canonisti, gli obbli-
ghi legati all’ordinazione non sorgerebbero. Per questa ragione nel c. 214 del CIC 1917 in caso or-
dinazione sotto timore grave, il chierico poteva la dimissione dallo stato clericale con sentenza giu-
diziale, senza che permanessero gli obblighi del celibato e della liturgia delle ore.
Diversa è la dimissione dallo stato clericale per sentenza giudiziale o decreto amministrativo con
cui viene dichiarata l’invalidità dell’ordinazione e la dispensa da tutti gli obblighi connessi, anche da
quello del celibato (cf. cc. 290,1º;291). I capi per cui può essere chiesta la nullità dell’ordinazione
sono; 1) difetto sostanziale del rito; 2) difetto di intenzione nell’ordinando adulto; 3) difetto di sesso
maschile nell’ordinando; 4) difetto di battesimo nello stesso; 5) difetto di potestà nell’ordinante; 6)

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CORSO DI FORMATORI

difetto di intenzione di questi. La procedura per le cause di nullità è regolata dai cc. 1708-1712
(sull’argomento, cf. A. GONZALEZ MARTIN, La nulidad en la sagrada ordenación, in Ius Cano-
nicum 23 [1983] 580-597). Come vedete sono qui riuniti sia i requisiti richiesti per la validità di ogni
sacramento sia quelli per la validità dell’ordine sacro in particolare.
Con il c. 1026 è in stretta connessione il c. 1036, di cui parleremo più sotto, secondo il quale il
candidato deve consegnare al vescovo proprio o al superiore maggiore competente, una dichiara-
zione redatta e firmata di suo pugno, nella quale attesta che intende ricevere l’ordinazione sponta-
neamente e liberamente. Inoltre all’inizio del rito di ordinazione sia diaconale che presbiterale c’è la
Professio propositi de suscipiendo munere, che è una pubblica attestazione della propria libertà
nell’assumere il ministero (Pontificale romanum, De ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Dia-
conorum, Typ. Pol. Vat. 1990).
Lo stesso c. 1026 dichiara, con molta forza che non è assolutamente lecito (“nefas est”) costrin-
gere alcuno, in qualunque modo, per qualsiasi causa a ricevere gli ordini, oppure distogliere un can-
didato canonicamente idoneo a riceverli; questo per meglio proteggere la libertà di quest’ultimo, di
fronte a qualsiasi possibile (“quovis modo”) violenza estrinseca fisica o psicologica, timore anche
non grave, dolo, blandizie ecc. . Non importano le ragioni per cui si agisce (“ob quamlibet cau-
sam”): per odio contro la religione, per amore possessivo verso l’ordinando, per ragioni economi-
che, ecc. . La proibizione impone certamente un obbligo sia morale che giuridico di astenersi da
qualsiasi costrizione, perché sia protetto il diritto di ogni fedele di scegliere liberamente il proprio
stato di vita (cf. c. 219).
Col c. 1026 sono strettamente collegati i cc. 1027 e 1028, che stabiliscono che:
1) gli ordinandi siano formati mediante un’accurata preparazione, a norma del diritto, cioè dei cc.
232-264 e 1032;
2) il vescovo diocesano e il superiore competente debbono provvedere che i candidati, prima
che siano promossi a qualche ordine, vengano debitamente istruiti su ciò che riguarda l’ordine e i
suoi obblighi.
Affinché, infatti, l’ordinando nel ricevere gli ordini goda della dovuta libertà, deve avere la con-
grua formazione sia spirituale che dottrinale e deve essere cosciente degli obblighi che sorgono
dall’ordinazione. Mancando questa formazione e consapevolezza, potrebbe venir meno la dovuta
libertà e responsabilità del candidato. In questo caso l’ordinazione sarebbe valida, ma l’ordinato po-
trebbe essere dimesso dallo stato clericale con rescritto della S. Sede e liberato dagli obblighi con-
nessi (cf. cc. 290,3º; 292) e ottenere la dispensa dal celibato dal Romano Pontefice secondo la pro-
cedura e le norme stabilite dalla S. Congregazione per la dottrina della fede il 14 ott. 1980.
(b) Segni di vocazione divina
Il c. 1029 elenca delle qualità che possiamo denominare segni di vocazione divina che oggetti-
vamente possono essere comprovati nel foro esterno. Infatti il canone espressamente non dice
niente della vocazione divina in quanto tale, la quale, certamente per la stessa natura del sacramento
dell’ordine, è il requisito primo e fondamentale per ricevere gli ordini sacri. Infatti per mezzo di
questo sacramento il ministro ordinato partecipa alla stessa missione e vita (“munus”) di Cristo.
La vocazione divina può essere definita l’atto con cui Dio gratuitamente sceglie uno e lo destina
al ministero sacro, e quindi elargisce a lui le qualità e la grazia necessarie per esso. Dice S. Tommaso
:”Illos quos Deus ad aliquid eligit, ita preparat et disponit ut ad id ad quod eliguntur inveniantur
idonei: secundum illud II Cor. 3: Idoneos nos fecit ministros novi Testamenti” (S. Th. III,q. 27,a. 4
in corp. ). Vediamo più ampiamente di questo nel trattato sui chierici.

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CORSO DI FORMATORI

Per il fatto che la vocazione divina è un atto gratuito di Dio che si colloca nel foro interno della
persona chiamata, in se stesso non può essere immediatamente definito e comprovato in modo giu-
ridico, quindi il Codice stabilisce solo gli elementi dai quali il vescovo proprio o il superiore maggio-
re competente, tenuto conto di tutti gli elementi di cui dispone, possono dedurre che il candidato
sia veramente chiamato da Dio. Infatti i requisiti enumerati dal c. 1029 possono essere provati nel
foro esterno. Essi sono:
a) Integra fede: lo stesso ministero sacro richiede che il ministro sia in piena comunione di fede,
di sacramenti, e di governo ecclesiastico. Infatti Dio non può chiamare ad un ministero nella Chiesa
chi non professa l’integra fede cattolica e non sia quindi in piena comunione con la Chiesa cattolica.
b) Retta intenzione: si ha quando il candidato cerca il servizio di Dio nella Chiesa e la sua salvez-
za spirituale. Dio certamente non chiama chi cerca propri vantaggi, per es. sociali, economici, ecc.
c) Debita scienza: il c. 1032,§1 dispone che gli aspiranti al presbiterato possono essere ordinati
diaconi solo dopo aver completato il quinto anno del curricolo degli studi filosofico-teologici (cf.
cc. 235;236;250); mentre il §3 in modo generico afferma che gli aspiranti al diaconato permanente
possono essere ordinati solo dopo che hanno completato il tempo di formazione. Anche il c. 236, a
cui si può ricorrere, non dice niente in modo più preciso circa gli studi che debbono essere espletati
dagli aspiranti al diaconato permanente prima della loro ordinazione.
d) Buona stima: viene richiesta sia perché è ragionevole supporre che chi non gode di buona
stima presso il popolo di Dio non possa esercitare con frutto un ministero nella Chiesa, sia perché
la stessa buona stima da parte della gente fa presumere che il candidato abbia quell’integrità di co-
stumi, quelle provate virtù e quelle altre qualità richieste dal canone.
e) Integri costuni e provate virtù: per il fatto stesso che l’ordinato, come dispensatore dei misteri
di Dio, deve istruire i fedeli sui costumi che sono conformi alla vocazione cristiana e deve suscitare
le virtù cristiane in essi, è necessario che viva ciò che amministra e insegna.
f) Qualità fisiche e psichiche: sono necessarie per espletare bene il ministero nella Chiesa. Nel
nuovo Codice scompaiono le irregolarità per difetti fisici, che erano previste dal c. 984,2º, e delle
qualità fisiche come requisito si parla solo in modo generico nel nostro canone e nel c. 1051,1º. In
questo modo viene lasciata ampia discrezionalità al vescovo nel valutare le qualità fisiche
dell’ordinando e quindi anche circa il giudizio funzionale su suoi possibili difetti.
In sede di riforma del Codice fu deciso di eliminare la figura delle irregolarità per difetti fisici, in
quanto anche gli handicappati, possono svolgere non poche mansioni e opere di apostolato (cf.
Communicationes 10 [1978] 196-197). La questione si pone, per es. riguardo ai sordomuti. Fino a
questo secolo non erano mai stati ammessi agli ordini sacri, ma nel 1921 e nel 1951 fu data dispensa
da tale irregolarità compresa nella previsione generale del c. 984,2º CIC 1917. Infatti lo stato di mi-
norazione in cui erano tenuti i sordomuti fu rotto con l’introduzione del cosiddetto “metodo orale”
nella loro educazione. L’esclusione specialmente dal sacerdozio era dovuta al fatto che il sordomuto
non poteva pronunziare in modo conveniente le formule sacramentali, cioè vocalmente, integral-
mente e distintamente, senza mutazioni sostanziali o accidentali. Inoltre si dubitava che il sordomu-
to fosse capace di una ideazione concettuale. Ma se con efficaci metodi si riesce ad ottenere
un’educazione dei sordomuti, in modo che possano emettere una vera voce fisiologica e naturale,
perché proveniente dagli organi della fonazione; possano pronunziare tutte le parole delle formule
sacramentali in modo chiaro e distinto; possano evere la certezza, attraverso controlli non sonori, di
aver pronunciato correttamente una frase voluta, non si vede più perché i sordomuti debbano esse-
re a priori esclusi dall’ordinazione sacerdotale. Sarà il vescovo che, in base a delle perizie, costatati i
segni di vocazione divina nel candidato sordomuto, deciderà di ammetterlo o no agli ordini (cf. per

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CORSO DI FORMATORI

tutta la questione lo studio di F. MARCHISANO, Possono i sordomuti essere ordinati sacerdoti?,


in Seminarium 18 [1966] 417-430). Questo denota un cambiamento di atteggiamento della Chiesa,
dovuto anche ad un mutamento generale della cultura attuale riguardo a coloro che sono colpiti da
menomazioni fisiche (cf. A. GORINI, Ordine sacro e difetti fisici nella nuova legislazione canonica:
prime osservazioni, in Monitor Ecclesiasticus 109 [1984] 166-170).
Si deve notare che la promozione agli ordini sacri dipende solo dal prudente giudizio del vesco-
vo proprio o del superiore maggiore competente. Poiché è Dio che chiama, compete solo a coloro
che nella Chiesa sono da Dio preposti alla guida pastorale discernere coloro che sono adatti a rice-
vere gli ordini sacri (cf. PAOLO VI, Lett. enc. Sacerdotalis caelibatus, 24 giu. 1967, in AAS 59
[1967] 662-663; EV 2,1429). . Nessuno può esigere l’ordinazione. Chi pensa di essere chiamato da
Dio, può solo chiedere l’ordinazione. Se gli viene negata dal suo vescovo o dal suo superiore mag-
giore competente, può chiederla ad un altro vescovo, sottomettendosi al suo giudizio, oppure chie-
dere di essere accolto in un altro istituto o in un’altra società. Tuttavia, secondo il c. 1030, soltanto
per una causa canonica, anche se occulta, il vescovo proprio o il superiore maggiore competente
possono interdire l’accesso al presbiterato ai diaconi loro sudditi ad esso destinati. Questo è com-
prensibile per il fatto che in chi è stato già ordinato diacono in vista del presbiterato è sorto un dirit-
to, il cui esercizio può essere impedito solo per una causa stabilita espressamente dal diritto, come
nel caso di una censura, o di irregolarità e impedimenti sopravvenuti o che già c’erano, ma erano
sconosciuti. Tale causa può essere anche occulta, cioè non essere conosciuta e neppure conoscibile
da altri. Contro l’interdizione del vescovo proprio o del superiore maggiore competente il c. 1030
prevede che chi si sentisse leso in un suo diritto può fare ricorso a norma dei cc. 1732-1739. Diffe-
rente è il caso previsto dal c. 1038, per cui il diacono che rifiuta di essere promosso al presbiterato,
non può essere impedito di esercitare l’ordine ricevuto, a meno che non vi sia trattenuto da un im-
pedimento canonico o altra grave causa, di cui deve giudicare il vescovo diocesano o il superiore
maggiore competente. E’ evidente che nessuno può essere costretto ad assumere il presbiterato se
non lo vuole, ma nello stesso tempo, una volta che uno è ordinato diacono ha diritto ad esercitare il
ministero ricevuto. Gli impedimenti canonici di cui si parla nel canone sono quelli stabiliti dal c.
1044; contro il giudizio del vescovo diocesano o del superiore maggiore competente circa la grave
causa è dato ricorso amministrativo a norma del diritto.
(c) Età canonica
Il c. 1031,§§1,2 stabilisce l’età canonica minima per la liceità dell’ordinazione:
- 23º anno compiuto per gli ordinandi al diaconato, destinati al presbiterato;
- 25º anno compiuto per gli ordinandi al diaconato permanente, non sposati;
- 35º anno compiuto per gli ordinandi al diaconato permanente, sposati, per i quali è inoltre ri-
chiesto il consenso della moglie;
- 25º anno completo per i promovendi al presbiterato, che godano di sufficiente maturità, osser-
vato l’intervallo di almeno sei mesi tra il diaconato e il presbiterato. Infatti, secondo il c. 1032,§2,
completato il curricolo degli studi, il diacono, per un tempo conveniente, da definirsi dal vescovo e
dal superiore maggiore competente, deve avere un’esperienza pastorale esercitando l’ordine ricevu-
to, prima di essere promosso al presbiterato. A qualcuno che sembrava eccessivo richiedere al dia-
cono uno spazio di tempo di esperienza pastorale dopo aver terminato il curricolo degli studi, prima
dell’ordinazione presbiterale, e che quindi chiedeva che l’esercizio del ministero diaconale si avesse
durante l’ultimo anno degli studi, nella Relatio alla Plenaria del 1981 fu risposto che questo avrebbe
contraddetto il fine della legge, mentre i casi particolari il vescovo potrebbe risolverli in base alla di-

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CORSO DI FORMATORI

screzionalità che gli è data dal canone con l’espressione “per tempus congruum” (cf. Communica-
tiones 15 [1983] 218).
Il §3 del c. 1031 riconosce il diritto delle Conferenze Episcopali di stabilire un’età più avanzata
per il presbiterato e il diaconato permanente.
Per l’ordinazione episcopale l’età minima di 35 anni completi è stabilita dal c. 378,3º.
L’età canonica è richiesta solo per la liceità dell’ordinazione. L’ordinazione dei fanciulli, sebbene
illecita, è valida, tuttavia chi fosse stato così ordinato potrebbe chiedere alla sede apostolica di essere
dimesso dallo stato clericale ed essere sciolto da tutti gli obblighi connessi, anche da quello del celi-
bato.
ii) Atti da compiere prima dell’ordinazione
Caduti tutti i canoni del CIC 1917 sulla tonsura, gli ordini minori e il titolo di ordinazio-
ne,sempre per liceità dell’ordinazione si richiedono:
a) Il sacramento della confermazione, che perfeziona l’iniziazione cristiana (c. 1033).
b) Un rito liturgico di ammissione, per mezzo del quale l’aspirante al diaconato o al presbiterato
è iscritto tra i candidati dall’autorità competente (cf. cc. 1016; 1019), dopo aver fatto una previa
domanda, redatta e firmata di suo pugno, accettata dalla medesima autorità (c. 1034,§1). A questo
rito non è tenuto chi è stato cooptato in un istituto clericale mediante voti. Nel M. p. Ad pascen-
dum, del 15 ag. 1972, con cui Paolo VI istituiva questo rito, espressamente si diceva che solo i pro-
fessi negli istituti religiosi clericali non erano tenuti ad esso, al quale, allora erano tenuti i membri
degli istituti secolari e delle società di vita apostolica (cf. AAS 64 [1972] 538; EV 4,1783). Il c.
1034,§2, invece, senza fare distinzioni, parla di cooptazione in un istituto clericale. Dal fatto che è
stata eliminata la delimitazione agli istituti clericali religiosi, che ancora era contenuta nello schema
del 1980 (cf. c. 987,§2), possiamo dedurre che siano esonerati dal rito prescritto anche i cooptati
negli istituti clericali secolari, e, data l’assimilazione, anche quelli nelle società clericali di vita aposto-
lica.
c) I ministeri di lettore e di accolito: perché il candidato sia ammesso al diaconato sia permanen-
te che transeunte, si richiede che abbia ricevuto i ministeri di lettore e accolito e li abbia esercitati
per un tempo conveniente (c. 1035,§1); tra l’accolitato e il diaconato deve esserci un intervallo al-
meno di sei mesi (§2), affinché il candidato si disponga meglio alla duplice funzione sacerdotale,
cioè al ministero della parola e dell’altare (cf. M. p. Ad pascendum, 538; 4,1784).
d) Una dichiarazione redatta e firmata di proprio pugno, con la quale il candidato attesti che
spontaneamente e liberamente intende ricevere l’ordine sacro e che si dedicherà per sempre al mini-
stero ecclesiastico. Tale dichiaraziione rimane presso l’archivio della diocesi o dell’istituto religioso a
cui il candidato appartiene, distintamente dall’annotazione dell’ordinazione di cui nei cc. 1053-1054.
Con la stessa dichiarazione il candidato chiede pure di essere ammesso all’ordine da ricevere. La di-
chiarazione deve essere consegnata al vescovo proprio o al superiore maggiore competente (c.
1036). Questo canone è in stretta relazione con i cc. 1026 e 1034,§1.
e) Un rito pubblico di assunzione dell’obbligo del celibato, al quale è tenuto il candidato al dia-
conato permanente non sposato, e al diaconato transeunte. Il rito deve essere pubblico, in quanto
l’obbligo del celibato (cf. c. 277,§1) viene assunto davanti a Dio e alla Chiesa. Secondo il c. 1037 ad
esso non sono tenuti i religiosi che hanno emesso già i voti perpetui. Da questo canone sorgono al-
cune questioni. Il canone sembrerebbe prescrivere un rito precedente l’ordinazione diaconale, fuori
della Messa di ordinazione, in quanto si dice: “ad ordinem diaconatus ne admittatur, nisi ritu prae-
scripto publice coram Deo et Ecclesia obligationem caeliobatus assumpserit”. Questo non avrebbe
senso se il rito fosse dentro la Messa di ordinazione diaconale, poiché il candidato già dovrebbe es-

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CORSO DI FORMATORI

sere ammesso ammesso al diaconato. Questo sembrerebbe essere confermato dal fatto che anche
nel c. 1036, nel quale si tratta della dichiarazione di libertà, che è certamente un atto che precede
l’ordinazione diaconale, si ha una formulazione simile: “Candidatus, ut ad ordinem diaconatus aut
presbyteratus promoveri possit. . . ”. Alcuni autori hanno interpretato il canone in questo senso (J.
M. González del Valle, T. Rincón, L,Chiappetta, H. Müller, H. Schwendenwein), altri, invece, nel
senso che il rito è compreso nella Messa di ordinazione (E. Gilbert, J. H. Ortal). Conseguenza della
prima interpretazione è che il c. 1037 non abrogava la legge liturgica del 1972, inserita nel Pontifica-
le Roamanum del 1968 e ancora vigente nel 1983, secondo la quale anche i religiosi erano tenuti ad
assumere il celibato nel rito dell’ordinazione diaconale, in quanto si sarebbe trattato di due riti diffe-
renti; conseguenza della seconda interpretazione è che a norma del cc. 2 e 6,§1,2 tale legge liturgica
e il n. VI del M. p. Ad pascendum, che stabiliva il rito anche per i religiosi, sarebbero abrogati, in
quanto contrari al c. 1037. Sebbene la formulazione del canone induca nella prima interpretazione,
tuttavai la promulgazione del Pontificale Romanum del 1990 dirime la questione. Infatti il Decr. Ri-
tus Ordinationum del 29 giu. 1989, al n. 5 dichiara che per speciale mandato del Romano Pontefice
viene abrogato quanto prescrive il c. 1037 e che quindi debbono assumere il celibato nel rito di or-
dinazione diaconale anche i religiosi (AAS 82, 1990, 826-827).
f) Gli esercizi spirituali. Sono tenuti a fare almeno cinque giorni di esercizi spirituali, nel luogo e
nel tempo stabiliti dall’ordinario, tutti coloro che debbono essere promossi a qualunque ordine.
Prima dell’ordinazione il vescovo deve accertarsi che i candidati abbiano assolto a quest’obbligo (c.
1039).
iii) Documenti e scrutinio
a) Documenti richiesti (c. 1050):
1º certificato degli studi regolarmente compiuti a norma del c. 1032;
2º se si tratta di ordinandi al presbiterato,
- certificato di diaconato ricevuto;
3º se si tratta di promovendi al diaconato,
- certificato di battesimo e confermazione,
- certificato dell’avvenuta ricezione dei ministeri del lettorato e dell’accolitato (cf. c. 1035),
- certificato della dichiarazione di cui al c. 1036,
- certificato della celebrazione del matrimonio e del consenso della moglie, sempre nel caso di
candidato al diaconato permanente, sposato.
Quanto è stabilito dal c. 1050, è richiesto dai cc. 1033-1037.

b) Scrutinio sulle qualità


Per quello che riguarda lo scrutinio sulle qualità del candidato, a norma del c. 1051:
1º. vi deve essere l’attestato del rettore del seminario o della casa di formazione, sulle qualità ri-
chieste per ricevere l’ordine, cioè
- la retta dottrina del candidato,
- la sua pietà genuina,
- i suoi buoni costumi,
- l’attitudine ad esercitare il ministero;
inoltre, dopo una diligente indagine, salvo il diritto alla propria intimità (cf. c. 220), un documen-
to sul suo stato di salute sia fisica sia psichica.

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CORSO DI FORMATORI

2º. Il vescovo diocesano o il superiore maggiore competente, perché lo scrutinio sia fatto nel
modo dovuto può avvalersi di altri mezzi che gli sembrino utili, a seconda delle circostanze di tem-
po e di luogo, quali le lettere testimoniali, le pubblicazioni o altre informazioni. Mentre nel CIC
1917 le lettere testimoniali e le pubblicazioni erano obbligatorie, ora sono facoltative, e niente viene
determinato circa il modo di chiedere le lettere tesimoniali o di fare le pubblicazioni o di procurare
altre informazioni, per cui possiamo dedurre che la determinazione di tutto questo viene lasciata la
vescovo diocesano o al superiore maggiore competente. Con questo si connette il c. 1043.
Ciò che è stabilito dal c. 1051 è richiesto dal c. 1029.
iv) Ordinazione di un proprio suddito
Perché il vescovo che conferisce l’ordinazione per diritto proprio, possa procedere ad essa deve
essere certo che:
- siano stati esibiti i documenti dei quali al c. 1050,
- l’idoneità del candidato risulti comprovata con argomenti positivi, dopo aver fatto lo scrutinio
a norma del diritto (c. 1052,§1).
v) Ordinazione di un suddito altrui
Perchè un vescovo proceda all’ordinazione di un suddito altrui, è sufficiente che le lettere dimis-
sorie riferiscano che:
- i documenti richiesti sono a sua disposizione,
- lo scrutinio è stato fatto a norma del diritto,
- consta dell’idoneità del candidato;
- se il promovendo è membro di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, che:
- è stato cooptato definitivamente nell’istituto o nella società,
- è suddito del superiore che dà le lettere (c. 1052,§2). In base a quello che abbiamo già detto ri-
guardo al c. 1019,§1, dobbiamo ritenere che quanto disposto qui valga anche per gli istituti secolari
che hanno facoltà di dare le lettere dimissorie e per le prelature personali.
vi) Obbligo del vescovo
Se nonostante tutte le informazioni ricevute, il vescovo, per precise ragioni, dubita che il candi-
dato sia idoneo a ricevere gli ordini, non lo deve promuovere ad essi (c. 1052,§3), in quanto egli ri-
mane sempre libero e responsabile circa il conferimento degli ordini.
2) Irregolarità e impedimenti
Già nella Scrittura si trovano degli impedimenti per accedere agli ordini sacri (1Tim. 3,1-13; Tit.
1,5-9). Tutti gli impedimenti ancora vigenti sono stati stabiliti prima dell’alto medio evo. Negli ulti-
mi secoli gli autori svilupparono la dottrina sugli impedimenti sotto l’aspetto piuttosto formale, in
quanto li divisero in perpetui, le irregolarità, e temporanei, gli impedimenti semplici. Le irregolarità,
a loro volta si distinguevano in irregolarità ex defectu e irregolarità ex delicto. Queste distinzioni en-
trarono nel CIC 1917. Nel CIC 1983 l’ultima distinzione è scomparsa.
Il c. 1040 sancisce che non possono essere ammessi agli ordini sacri coloro che hanno un qual-
che impedimento sia perpetuo, che è detto irregolarità, sia semplice. Inoltre, sebbene il vescovo
proprio o il superiore competente ammetta agli ordini secondo il suo prudente giudizio (cf. c. 1029),
tuttavia espressamente viene stabilito che non può escudere da essi se non per qualcuno degli im-
pedimenti elencati nei cc. 1041-1042 e 1044. Sia le irregolarità che gli impedimenti rendono illecita
l’ordinazione, ma non invalida.

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CORSO DI FORMATORI

Facendo appello al senso di responsabilità di tutti i fedeli, data l’importanza ecclesiale del confe-
rimento degli ordini sacri, il c. 1043, sancisce l’obbligo di tutti i fedeli di rivelare gli impedimenti di
cui si fosse a conoscenza, all’ordinario o al parroco, prima dell’ordinazione.
Inoltre, nonostante l’ignoranza dell’irregolarità o dell’impedimento, si incorre ugualmente in essi,
tuttavia chi si trovasse in tale situazione non peccherebbe se ricevesse gli ordini o esercitasse quelli
già ricevuti (c. 1045).
a) Irregolarità
E’ l’impedimento canonico, cioè un ostacolo fisico o morale nell’ordinando o nelle’ordinato, per
natura sua perpetuo, che proibisce di ricevere gli ordini oppure di esercitarli. L’irregolarità in quanto
tale non è una pena. Nel nuovo Codice non si distingue espressamente tra irregolarità ex defectu e
irregolarità ex delicto, come facevano i cc. 984 e 985 CIC 1917, ma tale distinzione rimane in dot-
trina. Inoltre si deve dire che per avere un’irregolarità, il fatto dal quale essa sorge deve essere certo,
e, se si tratta di irregolarità ex delicto, deve essere certo come delitto. Infine, la legge che stabilisce le
irregolarità, in quanto si tratta di materia odiosa, nello stesso modo che la legge penale, è sottoposta
a stretta interpretazione (cf. c. 18). Così l’irregolarità non si presume mai, ma deve constare con cer-
tezza.
i) Irregolarità a ricevere gli ordini (c. 1041)
1º. Una qualche forma di pazzia o altra infermità fisica, per la quale, consultati i periti, il candida-
to viene giudicato inabile a svolgere nel modo appropriato il ministero.
Si tratta dell’unica irregolarità ex defectu, della quale debbono giudicare i periti. Nel CIC 1917
erano previste le irregolarità per epilessia, per possessione demoniaca, bigamia per più matrimoni
contratti successivamente, per infamia di diritto, per esercizio dell’ufficio di giudice con pronuncia
di sentenzia capitale, per esercizio dell’ufficio di carnefice (cf. c. 984,3º-7º).
2 Apostasia, eresia, scisma. E’ questa la prima delle irregolarità ex delicto che seguono; diquelle
che erano previste nel c. 985 CIC 1917 cade sia quella per battesimo ricevuto da acattolici che quella
per esercizio dell’arte medica o chirurgica. Poiché secondo il c. 1330 il delitto che consiste in una
dichiarazione o in un’altra manifestazione di volontà, di dottrina o di scienza, non si deve conside-
rare effettivamente compiuto, se nessuno raccolga tale dichiarazione o manifestazione, perché si
abbia irregolarità, l’apostasia, l’eresia o lo scisma, non solo deve configurarsi come peccato contro la
fede (cf. c. 751), anche esternamente manifestato, ma si richiede che di fatto sia percepito da qual-
cuno come un delitto, a norma del c. 1321,§3, che presume l’imputabilità, una volta che sia stata fat-
ta la violazione esterna di una legge divina o ecclesiastica. In altre parole, perché si configuri il delit-
to di apostasia, eresia e scisma, quindi si abbia irregolarità, non basta l’atto peccaminoso totalmente
occulto.
Quest’irregolarità è in coerenza con quanto stabilisce il c. 194,§1,2º, che cioè chi pubblicamente
si è separato dalla fede cattolica o dalla comunione della Chiesa ipso iure è rimosso dal suo ufficio; e
con la scomunica l. s. prevista dal c. 1364,§1, per l’apostata dalla fede, l’eretico e lo scismatico.
3º. Attentato matrimonio anche solo civile. Si può avere attentato matrimonio in due casi, o per-
ché il candidato stesso era impedito da vincolo matrimoniale o da ordine sacro o da voto pubblico
perpetuo di castità dal contrarre il matrimonio, oppure perché ha attentato al matrimonio con una
donna sposata validamente o legata dallo stesso voto. Riguardo al voto pubblico perpetuo di castità
il canone non specifica se si tratti di voto emesso in un istituto religioso oppure anche in un istituto
secolare o in una società di vita apostolica. Si può ritenere che si tratti di una svista e che il canone si
debba interpretare in senso restrittivo, in quanto secondo il c. 1088 sono impediti a contrarre ma-
trimonio solo coloro che hanno emesso voto pubblico perpetuo di castità in un istituto religioso,

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CORSO DI FORMATORI

inoltre secondo il c. 1349,§2 incorre nell’interdetto l. s. solo il religioso di voti perpetui, non chieri-
co, che attenti al matrimonio anche solo civilmente. Questa irregolarità trova inoltre corrispondenza
nel fatto che un chierico che attenta ad un matrimonio anche solo civile, secondo il c. 194,§1,3º, ip-
so iure dev’essere rimosso da qualsiasi ufficio ecclesiastico e incorre, a norma del c. 1394,§1, nella
sospensione l. s. oppure, se ammonito non si ravvede e continua a dare scandalo, gradualmente an-
che nelle privazioni previste dal c. 1336,§1,2º, fino alla dimissione dallo stato clericale.
4º. Omicidio volontario o procurato aborto. Sia l’omicidio che l’aborto debbono essere grave-
mente colpevoli. Gli autori sono dell’opinione che, in quanto si tratta di materia odiosa, l’irregolarità
non sorge da omicidio indirettamente volontario, come nel caso di omissione della debita diligenza
dalla quale sia seguita la morte, anche se si ha, in questo caso, peccato grave (cf. F. M. CAPPELLO,
op. cit. ,296; A. VERMEERSCH - I. CREUSEN, op. cit. ,177). Perché si abbia irregolarità deve ef-
fettivamente avvenire la morte o l’aborto. Inoltre il canone specifica che coloro che cooperano
all’aborto diventano irregolari solo per mezzo di un’azione positiva, cioè deve essere efficace rispet-
to all’effetto, anche se potrebbe non essere stata necessaria (il canone, infatti, non distingue tra ne-
cessaria e non necessaria), nel senso che il delitto sarebbe stato commesso, anche senza la coopera-
zione dei complici. E’ il caso di parenti e amici che consigliano l’aborto. Aborto, secondo la risposta
della Commissione di interpretazione del CIC del 12 febbr. 1988 (AAS 80, 1988, 1818; V. De Pao-
lis, commento in Periodica, 78, 1989, 278-286) si ha quando si sopprime un feto immaturo, in qual-
siasi modo e in qualsiasi momento dal concepimento. E’ immaturo il feto entro i primi 180 giorni
dal concepimento. Dopo questo tempo si tratta di omicidio.
Non c’è totale concordanza tra l’irregolarità in questione e la scomunica l. s. di cui al c. 1398, che
sancisce la scomunica l. s. per chi procura aborto, con effetto ottenuto, in quanto secondo il c.
1329,§2, per quello che riguarda i complici, la cooperazione dev’essere necessaria, nel senso che
senza di essa il delitto non si sarebbe commesso.
L’irregolarità, invece, concorda pienamente con quanto stabilisce il c. 1397, che cioè chi com-
mette delitto deve essere punito, a seconda della gravità del delitto, con le privazioni e le proibizio-
ni, delle quali nel c. 1336,§1,1º-3º; oppure, se l’omicidio è contro il Sommo Pontefice, un vescovo,
un chierico o un religioso deve essere punito con le pene previste nel c. 1370, cioè, rispettivamente,
con la scomunica l. s. riservata alla Sede Apostolica, e, se il delitto fosse stato commesso da un chie-
rico, anche con altra pena, non esclusa la dimissione dallo stato clericale; con l’interdetto l. s. , e, se
si tratta di chierico, anche con la sospensione l. s. ; con giusta pena, se il delitto è stato commesso
per disprezzo della fede, della Chiesa, della potestà ecclesiastica o del ministero.
5º. Mutilazione e tentato suicidio. Si definisce mutilazione il tagliare via un qualche membro del
corpo, che una funzione propria e distinta dagli altri organi. Così non si considera un membro del
corpo il naso, un orecchio, un dito. Fa incorrere nell’irregolarità una mutilazione notevole (“gravi-
ter” dice il canone), o per la quantità della parte mutilata, o per la particolare funzione del membro
mutilato. Caso in genere preso in considerazione è la castrazione. Si pone il problema riguardo alla
sterilizzazione: dato che rimane il dubium iuris, in base al c. 14, non si ha l’irregolarità. Non si con-
sidera aversi mutilazione se il membro rimane solo leso. La mutilazione deve essere dolosa, cioè
colpevole. Quindi sia la mutilazione che il tentato suicidio debbono essere imputabili, cioè si deve
configurare il peccato grave. Tuttavia il tentato suicidio potrebbe essere manifestazione di
un’infermità psichica, per cui si incorrerebbe nell’irregolarità prevista dallo stesso c. 1041,1.
6º. Illecito compimento di atti di ordine. Incorre in questa irregolarità colui che, chierico o laico,
compie un atto proprio dell’ordine dell’episcopato o del presbiterato, quando non è in tale ordine,
oppure, anche se è ordinato, tuttavia ha la proibizione di esercitare tale ordine a causa di una pena

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canonica dichiarata o irrogata. Non basta, allora, che il chierico sia incorso in una pena l. s. non an-
cora dichiarata.
Questo caso di irregolarità è in connessione con il c. 1378,§§2,3, che sancisce l’interdetto l. s. o,
se si tratta di chierico, della sospensione, contro colui che non promosso all’ordine sacerdotale at-
tenta alla celebrazione dell’Eucarestia, e contro colui che, non potendo dare l’assoluzione sacramen-
tale validamente, tenta d’impartirla oppure ascolta la confessione sacramentale. É in connessione
anche con il c. 1384, secondo il quale chi esercita illegittimamente una funzione sacerdotale o altro
sacro ministero, può essere punito con una giusta pena.
ii) Irregolarità ad esercitare gli ordini ricevuti (c. 1044,§1)
1º. Ordini ricevuti illegittimamente per irregolarità. L’irregolarità, infatti, rimane anche dopo che
gli ordini sono stati ricevuti.
2º. Apostasia, eresia o scisma. A differenza dell’irregolarità a ricevere gli ordini(cf. c. 1041,2º), per
quella ad esercitare quelli già ricevuti, il delitto deve essere pubblico, cioè deve già essere divulgato
oppure debbono darsi le condizioni perché si possa e si debba prudentemente ritenere che facil-
mente sarà divulgato. Nel nuovo Codice non si dà una definizione di delitto pubblico, quindi in
dottrina rimane la definizione che veniva data nel c. 2197,1º CIC 1917.
3º. Attentato matrimonio; volontario omicio o aborto; mutilazione o suicidio; compimento illeci-
to di atti di ordine (cf. c. 1041,3º-6º).
b) Impedimenti semplici
É da considerarsi impedimento semplice la condizione, di per sé temporanea, nella quale
l’ordinando o l’ordinato si trova, e che proibisce la promozione agli ordini, oppure l’esercizio di
quelli ricevuti. Rispetto al CIC 1917, cadono gli impedimenti che sorgevano dalla fede acattolica dei
genitori, dalla servitù, dal servizio militare e dall’infamia di fatto (cf. c. 987,1º,4º,5º,7º).
i) Impedimenti a ricevere gli ordini (c. 1042)
1º. Matrimonio. L’uomo sposato non può ricevere gli ordini, a meno che col consenso della mo-
glie non sia legittimamente destinato al diaconato permanente (cf. cc. 1031,§2 e 1050,3º), in quanto i
chierici sono obbligati ad osservare la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli, e quindi
sono tenuti al celibato (cf. c. 277,§1).
Il diacono coniugato permanente che rimane vedovo, è tenuto all’obbligo della perfetta e perpe-
tua castità, in quanto il c. 1087 in modo generale stabilisce che attentano invalidamente al matrimo-
nio coloro che sono costituiti nei sacri ordini. Questo era già stato stabilito da Paolo VI nel M. p.
Ad pascendum, VI, 15 agosto 1972 (AAS 64 [1972] 539; EV 4,1788), ma subito dopo delle Confe-
renze Episcopali chiesero che si ammettesse che in alcuni casi potesse essere data la dispensa, per
permettere ai diaconi permanenti rimasti vedovi di contrarre seconde nozze. La S. Sede si mostrò
disposta a questo (cf. SEGRETERIA DI STATO, Prot. n. 272882; S. CONGREGAZIONE PER
I SACRAMENTI, Prot. n. 428/70, riportato da A. KHORAICHE, La Sacrèe Congregation des
Sacraments. Historire et activité, Roma 1977, 167, come citato in ABATE A. M. , Il matrimonio
nell’attuale legislazione canonica, Brescia 19822, 112), anzi la S. Congregazione per i sacramenti in-
formava che il Papa si era dichiarato favorevole alla dispensa, in quanto è generalmente impossibile
aspettarsi che coloro che hanno vissuto nel matrimonio rinuncino a tale stato (Prot. n. 356/71, Ibid.
). Altra ragione per la quale potrebbe essere data la dispensa potrebbe essere quella di dover allevare
dei figli in tenera età. Mentre lo Schema del Codice del 1977 prevedeva l’impedimento dell’ordine
sacro anche per i diaconi coniugati, lo Schema del 1980 stabiliva che questi non erano tenuti da tale
impedimento, sulla base dei pareri dati da vari organi di consultazione, che cioè sarebbe
un’ingiustizia imporre il celibato a coloro che non l’hanno scelto e inoltre che il matrimonio per

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l’educazione della prole spesso può essere un’ottima soluzione (cf. Communicationes 9 [1977] 364-
365). Nella relazione per la Sessione Plenaria del 1981 la questione si pose di nuovo: alla proposta di
due padri di mettere l’impedimento anche per i diaconi permanenti rimasti vedovi dopo
l’ordinazione il Relatore riferiva che il gruppo di studio competente si era unanimemente espresso a
favore del c. 1040,§2 dello Schema del 1980 per le stesse ragioni già riportate sopra (cf. Ibid. 15
[1983] 229-230). Nonostante questo il testo definitivo del CIC promulgato estende in maniera gene-
rale l’impedimento dell’ordine sacro anche ai diaconi permanenti rimasti vedovi. Tuttavia, salvato il
principio, in casi eccezionali è ipotizzabile la dispensa della S. Sede, che potrebbe permettere le se-
conde nozze.
Nel c. 762 del CCEO quest’impedimento non è previsto.
2º. Esercizio di ufficio o amministrazione vietata ai chierici, di cui si deve render conto. Il cano-
ne si riferisce al divieto contenuto nei cc. 285,§3 e 286.
3º. Condizione di neofito. L’impedimento sorge dal fatto che si tratta di una conversione recente
alla fede cristiana, ma all’ordinario è data la facoltà di giudicare circa la sufficiente prova di vita cri-
stiana che il candidato avesse dato.
ii) Impedimenti ad esercitare gli ordini ricevuti (c. 1044,§2)
1º. Ordini ricevuti illegittimamente per impedimento. L’impedimento rimane anche dopo aver
ricevuto l’ordinazione.
2º. Pazzia o infermità psichica, previste nel c. 1041,1º. Mentre la pazzia o qualsiasi altra infermità
psichica che danno luogo ad un’irregolarità a ricevere gli ordini sono perpetue, per quello che ri-
guarda l’impedimento ad esercitare quelli già ricevuti, l’ordinario può determinare il momento della
cessazione dell’impedimento, una volta consultato un perito, il quale attesti la cessazione della causa
dell’impedimento stesso.
c) Cessazione delle irregolarità e degli impedimenti
Gli impedimenti semplici cessano per cessazione della causa di essi, che di per sé è temporanea,
oppure per dispensa concessa dalla legittima autorità.
Le irregolarità cessano o perché cessa la legge che le stabilisce, oppure, vigente tale legge, perché
è stata concessa dispensa, in quanto le cause di esse per sé sono perpetue. Le irregolarità per delitto
non cessano per la remissione della pena con la quale il delitto è punito, in quanto una volta che
l’irregolarità è contratta, essa è una condizione nella quale la persona si trova indipendentemente
dalla remissione della pena o no.
i) Soggetto della dispensa
(1) Sede Apostolica
La Sede Apostolica può evidentemente dispensare da tutti gli impedimenti e irregolarità, sia oc-
culti che pubblici, anche non riservati ad essa. Per le irregolarità e gli impedimenti occulti la dispen-
sa è concessa dalla S. Penitenzieria nel foro interno; per le irregolarità e impedimenti pubblici è con-
cessa in foro esterno dalla S. Congregazione dei sacramenti, se si tratta di laici o di chierici secolari,
dalla S. Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari, se si tratta di membri di istituti di vita con-
sacrata, dalla S. Congregazione per la dottrina della fede, se si tratta di irregolarità per apostasia, ere-
sia o scisma.
Riguardo agli ordini da ricevere, alla S. Sede è riservata la dispensa:
1º. Da tutte le irregolarità, se il fatto su cui si fondano è stato deferito al foro giudiziale (c.
1047,§1), che può essere sia quello ecclesiastico che quello civile.

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2º. Dalle irregolarità sorgenti dai delitti pubblici (cf. c. 2197,1º CIC 1917) di apostasia, eresia o
scisma, oppure di attentato matrimonio (c. 1047,§2,1º; cf. c. 1041,2º,3º).
3º. Dalle irregolarità provenienti da delitto sia occulto che pubblico di volontario omicidio e di
procuratro aborto (c. 1047,§2,2º; cf. c. 1041,4º). Nel nuovo Codice non si trova la definizione di de-
litto occulto, quindi continua a valere quella che si trovava nel c. 2197,4º CIC 1917, dove era consi-
derato occulto il delitto che non è pubblico, cioè non è divulgato o prudentemente si può e si deve
giudicare che non sarà divulgato. Poiché il nostro canone non dice niente se il delitto debba essere
occulto materialmente, se cioè deve essere nascosto lo stesso delitto, oppure formalmente, se cioè è
nascosa la sua imputabilità, possiamo dire che il canone vuole comprendere l’uno e l’altro caso.
4º. Dall’impedimento del vincolo matrimoniale (c. 1047,§2,3º; cf. c. 1042,1º), dal quale la S. Sede
non concede la dispensa, se la moglie non dà liberamente il suo consenso. La dispensa richiede,
evidentemente, la separazione dei due coniugi. É da dire che la dispensa è richiesta anche nel caso
di legittima precedente separazione dei coniugi.
Riguardo all’ordinazione di uomini coniugati, che conservino la comunione di vita con la moglie,
salvo sempre il diritto del Sommo pontefice, l’ordinazione presbiterale non è ammessa neppure in
casi particolari. L’eventuale dispensa è riservata solo al Sommo Pontefice (cf. SINODO 1971, Doc.
Ultimis temporibus, 30 nov. 1971 (AAS 63 [1971] 918; EV 4,1220). Finora la dispensa è stata data
in alcuni casi di ministri del culto acattolici, che, converitisi alla fede cattolica, hanno chiesto gli or-
dini sacri (cf. S. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione In
June, 1 apr. 1981 (EV 7,1213).
Riguardo agli ordini già ricevuti, alla S. Sede è riservata la dispensa:
1º. Dall’irregolarità per attentato matrimonio anche solo civile (cf. c. 1041,3º), quando tale delitto
è pubblico.
2º. Dall’irregolarità per volontario omicidio o procurato aborto (cf. c. 1041,4º), sia che il delitto
sia pubblico che occulto (c. 1047,§3).
(2) Ordinario
L’ordinario può dispensare da tutte le irregolarità e impedimenti non riservati alla S. Sede. In ba-
se ai cc. 134,§1 e 295,§1, sono da comprendere nella disposizione del canone i Superiori maggiori
degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio e delle società clericali di vita apostolica di diritto
pontificio, nonché il prelato delle prelature personali. Alcuni istituti religiosi, riguardo a questa ma-
teria, godono di particolari privilegi.
ii) Formalità da adempiere
Nella domanda per ottenere la dispensa il c. 1049,§1 richiede che sia fatto un elenco completo
delle irregolarità e degli impedimenti, in quanto, secondo il c. 1046, le irregolarità e gli impedimenti
si moltiplicano a seconda delle loro diverse cause, ma non per ripetizione della stessa causa, a meno
che non si tratti dell’irregolarità da omicidio volontario o da procurato aborto, ottenuto l’effetto.
Poiché quest’ultima irregolarità, si moltiplica sempre, si deve indicare, per la validità della dispensa,
quante volte il delitto è stato commesso (c. 1049,§2). L’indicazione del numero dei delitti per la va-
lidità della dispensa si richiede solo in questo caso, in quanto negli altri la dispensa generale vale se
nella richiesa il numero è stato taciuto in buona fede.
Tuttavia, sempre secondo il c. 1049,§1, la dispensa generale vale per tutti i casi indicati e per
quelli taciuti in buona fede, invece non vale per quelli taciuti in mala fede, per le irregolarità da omi-
cidio volontario e da procurato aborto taciute anche in buona fede, e per tutte le irregolarità deferite
al foro giudiziale, taciute anche in buona fede.
La dispensa generale richiesa per ricevere gli ordini vale per tutti gli ordini (c. 1049,§3).

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iii) Casi occulti urgenti


Nei casi occulti urgenti, secondo il c. 1048, colui che è impedito dall’irreegolarità di esercitare
l’ordine, può esercitarlo se:
- non si può ricorrere all’ordinario in tutti i casi, oppure
- alla S. Penitenzieria, quando si tratta di irregolarità da attentato matrimonio, o da omicidio vo-
lontario o da procurato aborto,
- incombe il pericolo di grave danno o infamia.
Tuttavia rimane l’onere di ricorrere quanto prima all’ordinario o alla S. Penitenzieria, taciuto il
nome e tramite il confessore.
3) Annotazione e certificato dell’avvenuta ordinazione
A norma del c. 1053,§1, compiuta l’ordinazione, nell’apposito libro, da custodirsi diligentemente
nella curia del luogo dell’ordinazione, debbono essere annotati:
- i nomi dei singoli ordinati.
- il nome del ministro ordinante,
- il luogo e il giorno dell’ordinazione.
Così debbono essere accuratamente conservati tutti i documenti delle singole ordinazioni.
Il vescovo ordinante, così sancisce il §2 dello stesso canone, deve conseganre a ciascun ordinato
un certificato autentico dell’ordinazione ricevuta. Se l’ordinazione è stata fatta da un vescovo estra-
neo con lettere dimissorie, gli ordinati debbono presentare il documento ricevuto al proprio ordina-
rio per l’annotazione dell’ordinazione nel libro speciale da conservarsi in archivio.
Infine, a norma del c. 1054, l’ordinario del luogo, se si tratta di secolari, oppure il superiore mag-
giore competente, se si tratta di membri di istituti di vita consacrata o di società di vita apostolica, o
il prelato della prelatura personale, se si tratta di membri di questa, deve comunicare la notizia di
ciascuna ordinazione celebrata al parroco del luogo del battesimo, il quale deve annotarla nel suo
libro dei battesimi, a norma del c. 535,§2.

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