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LA STAGIONE

la Stagione

Rita Indiana, I gatti non hanno nome


Cristina Henríquez, Anche noi l’America
Jenny Offill, Le cose che restano
Joseph Incardona, La metà del Diavolo
Giacomo Sartori, Sono Dio
Giorgio Serafini Prosperi, Una perfetta geometria
Rupert Thomson, Katherine
Tristan Garcia, Faber
Vicente Alfonso, Le ossa di San Lorenzo
Brian Turner, La mia vita è un paese straniero
Antonio Franchini, Racconti postemingueiani

Kent Haruf, Le nostre anime di notte

Trilogia della Pianura


Kent Haruf

Benedizione
Canto della pianura
Crepuscolo
Giacomo Sartori
SONO DIO
Copyright © 2016 by Giacomo Sartori
Published by arrangement with The Italian Literary Agency

© 2016 Enne Enne Editore, Milano


www.nneditore.it
A Piuma Lange, che dopo avermi trasmesso il morbo delle pagine
mi ha lasciato in eredità la sua invitta fragilità
Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana
in gran parte sia stata la fonte dell’ateismo, o della incredulità religiosa?
Eppure io così penso. L’uomo naturalmente non è incredulo,
perché non ragiona molto e non cura gran fatto delle cagioni delle cose.
Giacomo Leopardi

Se la religione è arrivata al suo termine, non lo si evince tanto dalla rarefazione


della fede, quanto dalla ricomposizione dell’universo umano-sociale al di fuori
della religione, e per di più a controcorrente della logica religiosa originaria.
Marcel Gauchet

Le scienze naturali non hanno scoperto da nessuna parte un qualsiasi dio;


la critica della conoscenza dimostra l’impossibilità di conoscere Dio; ma l’anima
si fa sotto e afferma di avere l’esperienza di Dio. Dio è una realtà psichica della quale
si può avere un’esperienza immediata. Se non fosse così, mai, ma proprio mai,
si sarebbe posta la questione di Dio. Questo è un fatto che vale in se stesso,
senza che ci sia bisogno di prove non psicologiche, e inaccessibile a qualsiasi forma di
critica non psicologica. Può anzi essere l’esperienza più immediata, dunque più reale, della
quale non si ha il diritto di sorridere, e che nessuna prova potrebbe distruggere.
Carl G. Jung

Qualunque sia il loro sentimento di appartenenza religiosa, tra i nostri contemporanei


molti non vogliono più un Dio comprensibile con la ragione e al quale ci si rivolge come a
una persona. Si cerca un Dio più misterioso, impersonale, che sfugge all’intelletto umano.
Frédéric Lenoir
non ho bisogno di pensare

Sono Dio. Lo sono sempre stato, lo sarò sempre. Un sem-


pre però con riflessi affilati di diamante, e senza corrispetti-
vi nelle lingue degli umani. Quando un uomo dice ti amerò
sempre tutti sanno che quel sempre è una pagliuzza che si libra
fragile e inconsistente nell’aria. Un voto velleitario, o che
comunque ha pochissime probabilità di essere assolto. In al-
tre parole una menzogna. Se invece sono io a dirlo, sempre
è davvero sempre. Va fatto uno sforzo per capirsi.
Sono Dio e non ho bisogno di pensare. Fino a questo mo-
mento non ho mai pensato, e non mi è mancato in alcun
modo. L’umanità è messa così male perché pensa: il pensie-
ro è per definizione lacunoso e imperfetto, e fuorviante. A
un pensiero se ne può opporre un altro di segno opposto, a
quest’ultimo un altro ancora, e avanti così: questo inane cica-
leccio mentale è quanto di meno divino si possa immaginare.
Qualsiasi pensiero è destinato a morire, come la mente che
lo ha formulato. Un dio non pensa, ci mancherebbe altro.
Una galassia spirale è una galassia spirale, una nana
gialla è una nana gialla, un platelminta turbellare è un
platelminta turbellare, io invece sono Dio. È così. Non do-
mandatemi come ho fatto a essere Dio, perché nemmeno
io lo so. O meglio lo so come so tutto, ma sarebbe infini-
tamente lungo da mettere in parole, e detto francamente
non mi sembra che il gioco valga la candela. Il mio rango,
chiamiamolo così, presuppone che mi si accordi un mini-
mo sindacale di fiducia.

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Un dio non guarda, non aspetta, non ascolta. Non digeri-
sce, non agogna, non rutta. Un dio è impegnato in qualcosa
che il linguaggio umano non può esprimere, e che com-
prende tutte le azioni e le non azioni che l’insieme delle
lingue può enunciare, ma anche quelle indicibili a parole. E
quindi travalica le prime come le seconde. Si potrebbe dire
che un dio è, se solo il verbo essere potesse costituire una
pallidissima ombra del mio autentico esistere che è in primo
luogo senso. Sono il significato di tutto.
Beninteso il platelminta e il sole, che come tutti sanno
è una nana gialla, sono in un certo senso anch’essi divini,
visto che li ho creati io. Se qualcuno li chiamasse dio, certo
non mi offenderei. Se però molte civiltà del passato consi-
deravano il sole un dio, per quanto ne sappia nemmeno la
comunità più radicalmente animista ha fatto di un verme
necrofago una divinità. Qualcuno dovrebbe spiegarmene il
motivo: per quanto mi riguarda non vedo alcuna ragione
perché una stellina, il sole, debba essere papabile e il platel-
minta no. Ci sarebbe insomma da discutere. Per semplifi-
care le cose (se ci mettiamo a fare i puntigliosi non ne ve-
niamo più fuori) consideratemi distinto dalle nane gialle e
dai platelminti turbellari: immaginatemi come Dio e basta.
Chiunque è capace di immaginarsi Dio.
Non so nemmeno io perché mi sono risolto a esprimermi,
o più propriamente a scrivere. Nessuno mi ci ha costret-
to e non si può nemmeno parlare di bisogno impellente:
non soffrivo di solitudine, non avevo qualcosa da esternare
o da tramandare. Non mi stufavo, non provavo desiderio di
ascoltare, diciamo così, la mia stessa voce. Non volevo fare
una nuova esperienza, espressione per me senza senso, non
cercavo il successo mediatico (il nuovo Paradiso a cui ambi-
scono gli umani), o anche solo della comprensione. Dio non
ha bisogno di queste quisquilie. Diciamo allora che non lo

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so. In realtà però nella mia onniscienza so anche questo. Ci
vorrebbero forse dieci enciclopedie interattive con miliardi
di voci e rimandi per spiegarlo con sufficiente trasparenza
e intelligibilità agli umani, che sono poco intelligenti, ma
sarebbe possibile. Non vedo però i vantaggi di una siffatta
performance ermeneutica.
la motociclista sodomitica

Un dio fa infinite cose, questo lo sanno proprio tutti, ma


nello stesso tempo per quanto possa sembrare paradossale
non ha niente di particolare da fare. Non è uno sfaccenda-
to, però nemmeno un ragioniere che timbra ogni giorno il
cartellino, e tanto meno un fanatico dell’attività. Fa quello
che deve fare senza affannarsi e senza stressarsi, senza farlo
pesare. Per certi versi senza nemmeno accorgersene. Un dio
come prima cosa sta lì a fare il dio. Guarda e ascolta, anche
se il suo guardare e ascoltare non hanno nulla a che fare con
quelli degli uomini. Sono Dio, pensa.
Contemplo, veglio. Osservo per esempio la galassia chiama-
ta Via Lattea, e più precisamente quello che viene chiamato
sistema solare, e più in dettaglio ancora il pianetino chiamato
Terra. I miei occhi, faccio per dire, cadono su una ragazza
molto alta (tutto è relativo) che si trova in una stalla supertec-
nologica: agli antipodi, non vorrei che sorgessero equivoci,
del bucolico raccoglimento di un presepio. Vedo che infila la
mano guantata nell’ano di una mucca, e con un rapido movi-
mento rotatorio del polso ne estrae qualche manciata di feci
di consistenza fangosa. Dopodiché pulisce la turgida vulva
dell’animale, la divarica e inserisce l’apice di uno strumento
che ricorda per certi versi una siringa e per altri una pistola,
spingendo per farlo penetrare, ogni tanto ruotandolo. Nello
stesso tempo rinfila il pugno sinistro nel sedere, questa volta
immergendo tutto il braccio fino oltre il gomito. Come sbilan-
ciandosi per raccogliere un oggetto caduto dietro un mobile.

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Non saprei dire perché tra le tante (per non dire infini-
te) possibilità che gli si presentano, negli ultimi tempi il mio
sguardo converga sempre sulla Via Lattea. E perché all’inter-
no della Via Lattea, che non è poi così minuscola, si focalizzi
proprio sul sistema solare, e nel sistema solare precisamente
sul pianetucolo a stento visibile chiamato Terra. E perché
sulla Terra, che per quanto infinitesimale ha pur sempre ben
altre attrattive, inquadri la ragazza con due codini viola che
a ogni piè sospinto infila il braccio nel culo delle mucche.
L’universo rigurgita di sbalorditivi panorami e anfratti, di
rarefatte lande interstellari, di repentine apoteosi di gas in-
candescenti, di pozzi di nerissimo vuoto. E invece prima an-
cora che me ne renda conto il mio sguardo (continuiamo a
chiamarlo così) si concentra sulla Via Lattea, e mette a fuoco
il braccio nel posteriore e la lunga faccia occhialuta che su-
pervisiona l’operazione: l’espressione concentrata di chi sta
adempiendo un compito importante, di chi sta pregando.
La perticona con la tuta da operaio agricolo continua a
sprofondare il braccio nelle viscere della mucca, fino quasi
a arrivare alla spalla. La bovina si lascia sodomizzare – non
saprei che altro termine usare, scartando a priori il termine
anglosassone fisting, in odore di pornografia – senza fiatare,
perché se c’è un animale pacifico tra tutti quelli che ho crea-
to (e questo anche prima della cosiddetta domesticazione, alias
la schiavizzazione) è proprio lei. Molte altre bestie azzanne-
rebbero la sodomizzatrice, o le inietterebbero un micidiale
veleno, o almeno le darebbero un calcione con le zampe po-
steriori: quella invece se ne sta lì paziente, come un umano
aspetterebbe l’autobus a una fermata.
Non si tratta di un gratuito atto sadico: armeggiando nel
retto la ragazzona guida l’avanzata dello strumento appun-
tito nella cervice. Correggendo la traiettoria con le dita lo fa
arrivare all’ostio cervicale interno, e poi spingendo ancora

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nel corno uterino dove il suo indice ha individuato il folli-
colo prossimo alla deiscenza: a forza di guardare sono di-
ventato anch’io un esperto. Solo a questo punto aziona il
mandrino dell’aggeggio. Quando si è Dio si vede quello che
succede fuori e quello che succede dentro, fa parte delle pre-
rogative di base.
Lo ripeto, e non certo per vantarmi: il cosmo è in assolu-
to la più incredibile opera d’arte che si possa immaginare,
al contempo la più tragica e più comica, la più favolosa.
Qualsiasi incendiato tramonto tropicale, o adamantino
mare, o sfavillante ghiacciaio, o possente cascata, al con-
fronto è solo un quadretto di un pittorucolo di provincia,
uno scorcio senza alcun interesse. Le sue bellezze tolgono
letteralmente il fiato (per il sottoscritto questa espressione
è ahimè pura retorica). Nemmeno l’occhio divino, chia-
miamolo così, ne ha mai abbastanza dell’infinità varietà
di forme e delle incessanti metamorfosi, delle cangianti
coreografie che animano la sua farraginosa complessità. Io
ho passato milioni di anni, miliardi, a guardare l’universo,
e non mi sono mai stufato. Adesso invece fisso imbambo-
lato la Terra, con le sue devastazioni e discariche, fisso la
motociclista sodomitica.
L’incallita miscredente prende dal frigorifero portatile
un’altra dose di seme, la sistema nel marchingegno a forma
di pistola, proprio come farebbe uno spietato cecchino. In-
fila la mano nel deretano di un’altra mucca e lo svuota. Poi
la rificca dentro, dirigendo il pistolet (si chiama così) verso la
cervice. Si vede che lo ha fatto tante volte: i suoi movimenti,
pur precisi e misurati, hanno ormai un che di meccanico.
Ogni tanto tra un animale e l’altro si leva i guanti da chirur-
go e va a arrotolarsi una sigaretta fuori dalla stalla. A ogni
boccata soffia fuori il fumo con la testa viola un po’ piegata
all’indietro, quasi volesse sputarmelo in faccia.

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Le mucche sono fatte per accoppiarsi con i tori, tutto è
pensato per quello, fino nei minimissimi particolari. Ora
invece gli uomini masturbano i tori, e una volta ottenuto
il liquido seminale lo diluiscono e lo diluiscono ancora, in
modo da ridurre il costo unitario di ogni fecondazione. Poi
lo congelano, come congelano i piselli e i pesci. Tutto è ra-
zionalizzato e ottimizzato, si dice così, per ottenere i miglio-
ri risultati e il maggior guadagno, sprezzando bellamente
come il sottoscritto aveva organizzato le cose. A dispetto di
quanto si dice in giro io non sono affatto uno che vuole de-
cidere sempre tutto, e sono anzi aperto a qualsiasi proposta
di cambiamento. Però non mi va nemmeno che stravolgano
sistematicamente ogni cosa che ho fatto. Vorrei vedere se
andassi a casa loro e cambiassi la posizione dei mobili del
salotto, o usassi lo spazzolino del water per mescolare una
besciamella al tartufo. Come dire, un minimo di rispetto.
E ancora le manze sono privilegiate. La maggior parte
dei torelli finisce invece in padella: con quel loro sistema un
solo toro basta per ingravidare migliaia di femmine. Vorrei
vedere se qualcuno rendesse loro lo stesso servizio, cosa di-
rebbero. Se si proponesse di sostituire il normale rapporto
sessuale con l’introduzione nell’utero di una siringa di pla-
stica guidata da una penetrazione anale, lasciando un solo
uomo ogni mille donne, e cuocendo a fettine gli altri nove-
centonovantanove. Senza contare che per la strada si in-
contrerebbero un mare di bambini dall’aria familiare: tutti
fratellastri, o ben che vada cugini. E le vedove, chiamiamole
così, dormirebbero da sole.
Quando ha finito di ficcare il braccio nel posteriore delle
mucche la stangona sistema la valigetta degli strumenti sul
bagagliaio della bicilindri a V, e si toglie la tuta azzurra,
sotto la quale appare la sua abituale tenuta motociclistica
post-punk. Poi si infila il casco, monta in sella e parte come

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una cosiddetta stella iperveloce. La tipica frenesia di una per-
sona atea, se posso esprimere un giudizio personale. Fa una
sosta in una pasticceria, dove senza togliersi il casco si sbafa
due cornetti alla crema e una sfogliatella napoletana. Arri-
vata in città si dirige verso l’Istituto di genetica molecolare
dove lavora.
Dal punto di vista statistico (per una volta voglio usare
anch’io quest’espressione agnostica che mi ha sempre fatto
sorridere), le probabilità che i miei occhi si soffermino pro-
prio su quella ragazza sono molto più basse di quelle che uno
stesso granellino di sabbia si ritrovi a due anni di distanza tra i
capelli di uno stesso cammelliere.* Potrei inquadrare moltissi-
mi esemplari umani più interessanti, e con occupazioni meno
disgustose. E invece il mio sguardo punta lei, preciso come un
raggio laser. Si direbbe quasi che la cerchi. Come si può im-
maginare, il mio mettere a fuoco non è certo quello esclusivo
e monomaniaco di un essere umano, che quando fissa qual-
cosa, tanto più se ci sono di mezzo gli ormoni sessuali, esiste
solo quello. Il fulcro della mia attenzione resta pur sempre
lei. È una cosa sotto molti aspetti incongrua che da qualche
tempo mi succede, per usare questa espressione, anche se tec-
nicamente parlando sono io che faccio succedere le cose. Mi
dico che dovrei smettere di fissarla, e invece la fisso. Beninteso
è assurdo che a un dio accadano cose assurde, però la realtà
è questa. Io stesso pensavo di essere immune da ogni sorta di
aporia, e anzi ritenevo che a farla tanto difficile fossero solo
certi cervellotici teologi medioevali.**

*
Questo paragone sarebbe stato forse più adatto duemila anni fa, visto
che adesso le merci, comprese quelle illecite, viaggiano sui camion e
sugli aerei. Ma mi è venuto così, quindi lo lascio.
**
Se c’è una disciplina che ho sempre considerato petulante, mi scuso
per la franchezza, è la teologia: i teologi trasudano sufficienza, quasi gli
dei fossero – nel loro surrealista raziocinare – loro.

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la devozione interessata degli uomini

Per decine di migliaia di anni gli uomini hanno venerato


gli spiriti dei fiumi, gli spiriti dei pesci, gli spiriti degli alberi,
gli spiriti dei cervi, delle lepri, delle montagne, delle nuvole,
della pioggia: gli spiriti di tutti, tranne del sottoscritto. De-
gli sciamannati avevano la capacità (credevano di averla) di
entrare in contatto con questa folla di spiriti, e quindi erano
tenuti in altissima considerazione, come ora i cantanti rock
e i calciatori. Con le loro arruffate capigliature saltavano e
giravano su se stessi fino a non capire più niente, poi con
gli occhi rovesciati e sputando bava intercedevano per i loro
clienti, pensavano di farlo, facendosi promettere mucchi di
selvaggina, guarigioni da malattie, assistenza per ogni sorta
di incombenze pratiche. Uno spettacolo penoso. E io intanto
ero lì, e aspettavo che se ne accorgessero.
Poi finalmente si sono resi conto che esistevo. Meglio tardi
che mai, mi sono detto. Per qualche altro millennio hanno avu-
to un’idea molto riduttiva delle mie capacità: ritenevano che
avessi appeso nel cielo il sole per illuminarli, e le stelle per ren-
dere le loro notti più suggestive. C’è voluta un’eternità prima
che si rendessero conto che la loro benedetta Terra non è che
un granellino nel sistema solare, a sua volta un infimo gru-
metto nella Via Lattea, una trascurabile molecola nella vastità
dell’universo. Mi ci è voluta davvero molta pazienza per non
adombrarmi. Il bello è che invece di riconoscere finalmente i
miei meriti, dando a Cesare quello che è di Cesare – il mio suppo-
sto figliolo aveva il bernoccolo per le formule a effetto, questo

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bisogna riconoscerglielo – proprio allora hanno cominciato a
spargere la voce che l’universo si fosse creato da solo. Che fos-
se spuntato dal nulla: Big Bang, e ecco a voi il coniglio.
Dimenticavo il periodo delle grigliate votive. Le intenzio-
ni erano ottime, non dico, però sarebbe come presupporre
che il vicino sia contento di ricevere in faccia gli effluvi del
tuo barbecue: più fumo producevano più erano contenti,
più si sentivano purificati. Ogni tanto abbrustolivano anche
delle giovinette o dei giovinetti, era raccapricciante. Tutte
queste offerte di primitiva gastronomia erano in mio onore,
o insomma in onore mio e dei miei supposti colleghi, visto
che per loro eravamo uno squadrone: erano persuasi che
andassi in brodo di giuggiole (che espressione!). Il bello è che
quasi sempre a me lasciavano le frattaglie: a lor signori il
filetto, a me l’acre fumosità e le viscere sanguinolente.
Del resto anche molte celebrazioni liturgiche più recenti
mi indispongono. Se c’è una categoria di edifici che non mi
è mai piaciuta, per esempio, è quella delle chiese. Le trovo
truci e tristi, troppo alte, troppo monumentali: deprimenti,
macabre. Piene di gelidi marmi, di orride statue, di dipinti
bigotti, di arredi e simboli di dubbio gusto. E poi non ho
mai sopportato l’odore dell’incenso, che mi fa venire mal di
testa – questa è l’impressione – solo a pensarci.
Quello che però mi lascia più perplesso è il lato interessato
dei loro afflati religiosi. Non ci vuole molto a capire che se
pregano è perché vogliono qualcosa in cambio: mi ossequia-
no e blandiscono come si paga un’assicurazione, per sentirsi
coperti nei confronti di qualsiasi rischio. O peggio ancora pen-
sano a me solo quando le cose si sono messe davvero male,
come nell’emergenza si chiamano i pompieri. Mi omaggiano,
mi fanno complimenti, mi adulano, ma in realtà pensano solo
a pararsi il culo (mi scuso, ma nel ridotto campionario a di-
sposizione l’espressione più adatta resta questa), e a migliorare

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la loro situazione materiale. Vorrebbero poter acquisire mag-
giori quantità di beni mobili e immobili, vorrebbero disporre
di somme di denaro più cospicue, con le quali si immaginano
felici. E soprattutto non vorrebbero morire mai.
Non sarebbe poi così difficile prendere atto che la loro
esistenza è emozionante e struggente proprio perché poi
ha fine. E invece per negare la realtà, per non rassegnarsi,
per illudersi che vivranno anche dopo essere morti, si rac-
contano mille stravaganze. Si immaginano che una volta
trapassati saranno accolti in un parco disseminato di sedie a
sdraio e di alberi tropicali, con un trattamento da albergo
di lusso. Il che è un’assurdità, se ne renderebbe conto anche
un bambino. Pure gli altri animali tirano le cuoia, e si vede
dagli occhi, se li hanno, che non sprizzano felicità, e prova-
no qualche incomodo. La prendono però bene: si mettono
semplicemente lì e aspettano di cessare di respirare.*
Non hanno ancora imparato a morire. Anzi si direbbe che
più passa il tempo, più credono di avere capito tutto, e più
sono impreparati. Sono rarissimi gli esemplari che affrontano
il passaggio alla fase decompositiva con un minimo di dignità
e se la sbrigano in fretta. I più perdono quel poco di ritegno
che avevano: d’improvviso si ricordano di pregare, scongiu-
randomi di rimetterli in carreggiata non foss’altro che per
qualche giorno, o comunque – se proprio non c’è verso – di
trattarli bene. Quasi sempre ci cascano anche quelli che non
sembravano malaccio: pure loro pianti, dichiarazioni solenni,
voti assurdi. Fanno venire da ridere, quei disgraziati.

*
E si parla di miliardi di miliardi di formiche ogni anno, di miliardi di
miliardi di miliardi di batteri ogni secondo, mica di bazzecole. Vorrei
vedere il pandemonio, se venuto il momento ogni insetto (e magari anche
ogni lombrico), cominciasse a gemere, a rilasciare solenni dichiarazioni,
a implorare di essere in qualche modo graziato.

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il laboratorio del due a zero

La stangona sale le scale divorando i gradini a tre a tre,


supera la porta antincendio del secondo piano e scivola da-
vanti all’ufficio del direttore come sigillata in metagenomici
pensieri. Arrivata nel suo laboratorio con il tipico odore di
prodotti chimici e di plastica di ogni laboratorio, saluta i col-
leghi, i quali l’accolgono con quella affabilità affranta pro-
pria degli addetti al culto della genetica. Appena la vede, il
ricercatore con i brufoli viola diventa color lava incande-
scente, e sembra che stia per piangere. Lei alza gli occhi al
cielo, e infila il camice bianco sopra la sua divisa post-punk.
La ragazzona collabora a un progetto che mira a creare
ceppi batterici capaci di fabbricare alcol dagli scarti del le-
gno. Spara nei microbi derelitti geni di scorpioni e funghi
porcini, cercando di suscitare l’appetito per i trucioli.* Stan-
do al suo contratto di collaboratrice tecnica ausiliaria, lei
sarebbe incaricata della bassa manovalanza, ma nei fatti è
talmente brava a inventarsi manipolazioni e a elaborare i

*
Per quattro miliardi di anni i poveri batteri sono vissuti in santa
pace, riproducendosi milioni di volte ogni giorno, e quindi dando vita
a famiglie di miliardi di miliardi di individui: se un qualsiasi batterio
volesse organizzare una cena di Natale con i parenti più stretti, dovrebbe
spedire, ammesso che riuscisse a procurarsi i nomi e gli indirizzi,
miliardi di miliardi di miliardi di inviti. Se c’è una cosa che mi dà noia
(naturalmente è solo un modo di dire), è che invece di prendersela per
esempio con i coccodrilli o i piraña, esseri che si possono in qualche
modo difendere, quei codardi di uomini si accaniscono su di loro. Una
prova aggiuntiva, se ancora ce ne fosse bisogno, della loro vigliaccheria.

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risultati – ha sempre avuto il pallino della matematica – che
grazie a lei il direttore del laboratorio ha pubblicato presti-
giosi articoli scientifici con il proprio nome ben in evidenza.
Articoli scritti da lei.
Va detto che i batteri che digeriscono la cellulosa la ap-
passionano solo fino a un certo punto: a lei interessano quel-
li che fabbricano elettricità. Sulle pile a batteri ha fatto la
sua tesi di dottorato, con la quale ha anche vinto uno di quei
premietti scientifici che vengono assegnati alle idee originali
considerate irrealizzabili. E adesso continua a occuparsene
di nascosto: quatta quatta ha messo in piedi una rete di ri-
cercatori di diversi paesi che considerano l’idea prometten-
te. È persuasa che sia solo questione di tempo.
Verso la metà del pomeriggio il direttore sempre molto
elegante incede nel laboratorio, e con un intrico di frasi so-
spese nel vuoto come ponti non finiti chiede alla spilungona
a che punto è con le elaborazioni statistiche di cui hanno
parlato il giorno prima. Fissa il pavimento con la fronte un
po’ meno liscia del solito, ma il suo perenne sorriso di auto-
soddisfazione affiora alla superficie come un cadavere osti-
nato. Togliendosi anche il secondo auricolare lei risponde
che i risultati sono molto interessanti: glieli manda subito
via mail. Anche lei parla come se avesse un po’ male allo sto-
maco: è la loro rituale maniera di comunicare. O meglio, da
quando una sera di sei mesi prima sono rimasti soli perché
dovevano terminare una sequenzializzazione importante.
Meglio ancora: lei lo faceva, lui più che altro la intralciava.
Accarezzandosi le guance molto riposate lui le ha chiesto
se potevano andare sul poggiolo a fumare una delle sue si-
garette arrotolate. Lei ha aggrottato un po’ le sopracciglia,
perché il desiderio che leggeva nei suoi occhi da gattone in
calore era più sessuale che nicotinico, anche senza contare
che non è un fumatore. Gli ha preso l’ultima falange del

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mignolo e l’ha guardato negli occhi, sorridendo appena,
come le succede quando entra in modalità sesso. A que-
sto punto lui ha avvicinato la faccia ben rasata e profumata
alla sua, pur essendo più bassino, e lei ha fatto in modo
che trovasse le sue labbra. Poi gli ha messo una mano sulla
patta dei morbidi pantaloni, calcando bene il membro già
in erezione. Dopo qualche sbilanciamento e annaspamen-
to attorno a bottoni e cerniere lui ha cercato di penetrarla
spingendola contro la supercentrifuga a quindicimila giri,
come si vede fare in molti film.
Lei allora lo ha fatto sedere per terra sotto il recipiente
di plastica dell’acqua distillata, e si è sistemata a cavalcioni
su di lui come se inforcasse la sua moto per partire in quar-
ta. Questo per il primo coito. Per il secondo si è messa in
ginocchio e lui l’ha presa da dietro, anche lui a gattoni: la
differenza di statura non era più un impedimento. Neppure
stavolta ha avuto un orgasmo: due a zero, quindi. Io proprio
non ci tengo a vedere certe cose che fanno gli uomini, ma
come ci si può immaginare per un dio non ci sono tetti o
tramezze o lenzuola o sotterfugi che tengano: purtroppo mi
sorbisco tutto. Poi sono andati effettivamente sul poggiolo
della stanza dei reagenti a fumare una sigaretta. Anche lui
ne ha accesa una, pur tossicchiando un po’.
L’azzimato direttore, che è cattolico praticante* con mo-
glie e due figlie, confida che la cosa sia archiviata in faldoni
supersegreti, ci conta fermamente. Di solito è solo ai con-
gressi scientifici, che sembrano servire soprattutto a questo,
e dove i rischi sono davvero minimi, che salta addosso a
una collega, proprio come fanno i galli nei pollai. Gli pare
*
Se dovessi fare la lista di tutte le amenità che ho visto svolgersi nei conventi
e nelle sacrestie nel corso dell’ultimo millennio, mi ci vorrebbero dieci
anni: come è risaputo sono proprio quelli che predicano e pontificano,
che nei meandri ombreggiati della pratica le combinano più grosse.

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di intuire che la ragazza con i capelli viola non sia quel
tipo di leggerona che va a vantarsi in giro o anche solo a
confidarsi con l’amica del cuore. Avverte che a dispetto del
look neometropolitano il suo vero grande amore è la ricer-
ca scientifica, e da come lo guarda con i suoi occhi molto
distanti non gli sembra che ce l’abbia con lui. Però non è
tranquillo al cento per cento. Quella sua imbalsamata gen-
tilezza è insomma puro terrore.
Mentre il narciso profumato di dopobarba torna con pas-
si giovanilistici nel suo ufficio dalla monumentale scrivania
priva di qualsiasi scartoffia, mi dico che nella loro grotte-
sca presunzione gli uomini si credono superiori e inimi-
tabili, e invece sono goffi e difformi, ottusi, monomaniaci
e erotomani,* sempre pronti a incappare in ogni sorta di
credulonerie e fanatismi, a sterminarsi a vicenda, a combi-
nare una serie di bestialità da fare rizzare i capelli. E come
se non bastasse sono infestati da parassiti interni e esterni, e
da terribili malattie contagiose: in altre parole sono perico-
losi. Nonché facilmente putrescibili.
Se mi fosse dato di pentirmi, cosa da escludere a priori,
sarebbe proprio di averli creati. Senza gli uomini non esi-
sterebbe il male e tutto il corteggio di obbrobri e atrocità
nei quali si materializza, e la perfezione del cosmo sarebbe
totale. Niente infanticidi, niente vendette di sangue, guerre,
stragi di innocenti, olocausti. Se tornassi indietro, altra for-
mula priva di senso, ricreerei le giraffe, le pulci, i trichechi, i
*
Pur di copulare questi glabri scimmioni mentono e si mentono, si
travestono, circuiscono, scialacquano, distruggono amicizie e matrimoni, si
dissanguano, assassinano: con una creatività e una inventiva ben superiori
a quelle che confluiscono nei progressi tecnici. Se ricominciassi da capo li
doterei di una libido, per usare questo termine che fa pensare al nome di un
gruppo rock, cento volte più moderata, o anche limitata a un brevissimo
periodo dell’anno, come ho fatto per tante altre specie. Così tra le varie cose
sarebbero di meno.

26
dinosauri (che poverini hanno fatto una brutta fine), le sala-
mandre e magari aggiungerei anche qualche novità, come
succede sempre quando si rifà da capo qualcosa e vengono
nuove idee, ma mi guarderei bene dal rimettere in circola-
zione l’uomo. Insomma, lascerei Noè sul molo. Uomo? No
grazie! per dirla con la formula degli antinuclearisti.
Finito quello che ha da fare, e anche quello che secondo
i programmi ufficiali non avrebbe da fare, l’intelligentona
torna direttamente all’ex pescheria trasformata in abitazio-
ne: appena entrata fila verso il gabinetto e urina tenendo la
gatta cieca sulle ginocchia. Poi apre una vaschetta di riso
al tonno, e lo mette nella coppetta della micia. Per sé stap-
pa con uno schiocco una lattina di mais, la scola, aggiunge
dell’olio di oliva, mezza cipolla tagliata a scagliette sottili,
dei capperi sotto sale e dell’uvetta bianca: ci pesca dentro
con un cucchiaio seduta per terra davanti alla televisione,
addentando di tanto in tanto il pezzo di formaggio (simil-
fontina) che tiene nell’altra mano. E prima di coricarsi nella
vasca per i pesci foderata di piastrelline verdi, guarda un or-
rendo telefilm con una bella ragazza che dovrebbe sposare
un pilota aeronautico, ma che in realtà finisce per amoreg-
giare con la ex compagna di questo che fa la bagnina: prima
si stimola sfregandosi sul cuscino infilato tra le gambe, e poi
con le dita. Proprio un bello spettacolo!

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sono perfetto

Sono Dio, e sono avvolto dal silenzio. Un silenzio con-


sono al mio ruolo divino. Un silenzio che è però anche fra-
casso assordante: una cacofonia di fragori e sfrigolii che a
volte si sciolgono in celestiali sinfonie, a volte si annullano
vicendevolmente. Un silenzio che è luce accecante, vale a
dire tripudio di eccesso di colori, o anche buio infinito. Ma
mi esprimo male, perché come si può immaginare non è
facile tradurre la mia esistenza, definiamola così, nel rozzo
linguaggio umano. La lingua fa resistenza, si rifiuta di acco-
gliere la mia trascendenza: le lingue sono state forgiate per
gli uomini.
Sono Dio, e sono perfetto (niente quindi di più falso della
locuzione nessuno è perfetto). La mia perfezione è incontesta-
bile, assiomatica. Si potrebbe pensare che alla lunga tutta
questa assenza di difetti, anche minimi, venga a noia, so-
prattutto quando nei dintorni non c’è poi una gran ressa per
apprezzarla (anzi, non c’è proprio nessuno). E invece non è
così, perché della perfezione fanno parte anche un perfetto
carattere – altro che collere e crudeltà della Bibbia – e una
non perfettibile, in quanto appunto già priva di impurità,
pazienza. La perfezione è anche perfezione della perfezione.
È la prima volta che mi esprimo, ma non mi impappi-
no nei vocaboli che non ho mai usato, non inciampo nel-
le costruzioni più complicate: le parole zampillano da me,
per usare una metafora idraulica, come l’acqua da una
fonte. Avverto solo di quando in quando una leggerissima

29
vertigine, qualcosa come il principio di un malessere. Io
sono immenso, e la mia immensità deve incanalarsi nelle
strettoie anguste del lessico e nei passaggi obbligati (che fan-
no pensare ai meandri di un sistema digestivo) della sintassi.
È una sensazione, per quello che può valere questo termine
riferito a un dio, simile a quella che provano gli speleologi
durante il loro strisciante avanzare nelle morse di roccia del-
le caverne.
Qualche volta mi chiedo perché l’ho creato, l’uomo. Va
sottolineato che le cose non sono certo andate come asseri-
sce la Bibbia, uno dei romanzi più inaffidabili e deliranti che
esistano. Io mi sono messo a creare, adesso non mi ricor-
do nemmeno più perché, e di punto in bianco mi ritrovavo
davanti microbi a stento visibili perfino con il mio occhio
divino, ingombranti ruminanti, pianticelle, funghi e alghet-
te, serpenti, cactus, conchiglie, moscerini. Non è vero che
sono venuti prima i pesci e il giorno dopo (giorno dopo?) gli
animali: io creavo e creavo, e prima ancora che me ne ren-
dessi conto davanti a me si materializzava un guazzabuglio
di specie animali e vegetali. Si ha un bell’essere onniscienti,
certe cose ti lasciano a bocca aperta.*
Certo, non appena la adocchiavo sapevo come si chiama-
va ciascuna di quelle specie, sapevo come era fatta eccetera,
però mentirei se dicessi che proprio in quel preciso istan-
te mi ero riproposto di creare quell’essere che si chiamava
così e era fatto così, e poi quell’altro che si chiamava colà
e era colà, e così via. Andavo avanti seguendo l’ispirazione
del momento, a naso. Anche Picasso si stupiva di quello che

*
Quando si crea si è talmente concentrati – è una specie di trance – che
non ci si stupisce di niente. Lascio però immaginare cosa si provi a trovarsi
di fronte un brontosauro che ti squadra come domandandosi se ti abbia già
visto da qualche parte, e cosa diavolo abbia combinato la sera prima per non
ricordarsi un fico secco.

30
schizzava fuori dal suo pennello: figuriamoci allora com’era
vulcanica la mia creazione, considerando che io sono on-
nipotente. È in una situazione del genere, non dico caoti-
ca, ma pur sempre frastornante, che è saltato fuori – senza
che avessi deciso niente in proposito – l’uomo. Sbaglia di
grosso chi si immagina una lenta progettazione da studio
di architettura o di programmazione informatica, una li-
matura paziente, una lucidatura da artigiano. Del resto an-
che sproloquiare di immagine e somiglianza con il sottoscrit-
to è senz’altro esagerato, seppure qualcosina di famigliare
effettivamente ci fosse, come ho notato subito io stesso.
la cena dei poveri cristi

Gli uomini sono tanti, anche se in confronto per esem-


pio ai batteri possono essere considerati una specie in via di
estinzione. Come è noto brulicano ormai ai quattro cantoni
della Terra, e molte zone di questo pianetino, viste dall’alto,
sembrano colonie di enterococchi, con l’aggravante dei fumi
pestilenziali e della luminescenza notturna. Si potrebbe quin-
di supporre che io tenga d’occhio equanimemente tutte le
regioni geografiche (per me non ha molto senso la divisione
tra nazioni). E invece seguo soprattutto quello che succede
nello stivaletto scalcagnato che ha fagocitato, è cosa buona e
giusta, lo Stato Vaticano. Inquadrando in particolare la gran-
de città del nord non troppo distante dalla catena di mon-
tagne famose per le loro rupestri bellezze. E ancora più in
dettaglio la ragazza bionda, quando non si dipinge di viola,
mezza magra (in alto) e mezza grossetta (in basso), insoppor-
tabilmente arrogante. Faccio fatica a spiegarmelo perfino io.
Anche quel pomeriggio la spilungona occhialuta tralascia
la caccia grossa sacrilega, e fila direttamente a casa. Questa
volta cucina del riso orientale con i gombo, secondo una
ricetta che escogita via via. E prepara un’insalata di alghe,
capperi e cetrioli sott’aceto, con un odore di spiaggia atlan-
tica e di gusci di ostriche. Quando ha finito va verso il ripo-
stiglio con la finestrella a baionetta che dà sul vialone delle
nigeriane, ne sfila la porta dai cardini e la monta sui due ca-
valletti di solito adibiti a sostegno per complesse stratigrafie
di vestiti. La copre con la tovaglia ricavata da un paracadute

33
a strisce colorate, dono di uno sportivo svizzero con il quale
ha avuto tre o quattro due a zero.
Mi infastidiscono questi suoi preparativi, ma non riesco
a farne a meno: guardo ogni gesto, soppeso ogni sospiro.
Si potrebbe chiamarlo interesse maniacale, se solo nel caso di
un dio avesse senso parlare di interesse, maniacale o no. O
anche fissazione, il che mi si addirebbe ancora meno. Se non
addirittura ossessione. Certo è che in tanti miliardi di anni
non mi è mai successa una cosa del genere: è questo che mi
spiazza. Non mi sono mai sentito così poco divino.
Quando i due invitati arrivano lei va alla postazione con
il grappolo di computer e monitor, tira fuori da un sacco di
plastica una manciata di crocifissi e li dispone nel minuscolo
caminetto, alternandoli in modo da formare una catasta or-
dinata. Poi appicca il fuoco utilizzando i fogli di una vecchia
rivista di microelettronica. Prima ancora che il piccolo rogo
prenda, vi accosta le mani per scaldarle come si fa d’inver-
no: dopo una breve esitazione anche gli ospiti – una ragazza
piccoletta e il suo compagno belloccio – fanno lo stesso. È
ormai giugno, ma ha continuato a piovere, e l’estate ancora
non s’è vista. Per un po’ guardano tutti e tre le vampate che
si dimenano tra i crocifissi senza dire niente.
Se pensa di impressionarmi si sbaglia di grosso. Ne ho
viste ben altre: roghi umani, squartamenti, stupri orrendi,
fiumi di sangue ancora caldo, genocidi. La fanatica gene-
tista mi fa anzi un po’ pena, con quella facciotta allungata
da puledra sempre vigile. Lei e i suoi compari atei militanti.
Che strappino pure tutti i crocifissi dai muri e li abbrustoli-
scano, non sono certo queste le cose che contano. Certo a
un padre non fa piacere che l’effigie del figlio, specialmente
se è un figlio unico, e deceduto ancora giovane, venga in-
cenerita, però non è nemmeno il caso di farne un dramma.
Ce ne sono in giro centinaia di milioni, di crocifissi, qualche

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decina in più o in meno non cambia molto. Del resto la
posa in cui quel povero ragazzo è immortalato non mi è
mai piaciuta tanto: troppo enfatica, troppo melodrammati-
ca, troppo umana.
Ammesso che quell’esaltato sia davvero mio figlio, inten-
diamoci. In realtà io non ne sapevo niente, finché lui non si è
messo a proclamare ai quattro venti della Palestina di essere
il Figlio di Dio. Ci sono sempre state frotte di squilibrati che
sbraitano cose del genere, magari arrampicati in cima a una
palma da dattero: la celebrità ha sempre un prezzo, come
ha sentenziato qualcuno. La differenza era che lui riusciva a
convincere anche i muri: invece di rinchiuderlo si metteva-
no in ginocchio, annotavano quello che diceva o non dice-
va, lo tempestavano di domande, lo seguivano ovunque. Da
non crederci. Perché era effettivamente mio figlio, o perché
sapeva plagiare le persone meglio di tutti? Confesso che non
è un dilemma che mi impedisce di dormire.*
Una volta che le croci hanno preso bene, la miscredente
aggiunge qualche crocifisso più grande. Solo quando il rogo
è ormai scoppiettante ci sdraia sopra un grosso angelo az-
zurro. Gli atei pensano di potersi disfare di me prendendo-
sela con gli orpelli delle religioni. Non si accorgono che più
si danno da fare più sprofondano nelle sabbie mobili della

*
All’inizio non avevo il minimo dubbio: era un cialtrone, un impostore.
Poi se ne sono dette talmente tante e disparate che hanno finito per
confondere le idee anche a me, che pure dovrei saperlo se è mio figlio
e come è stato concepito. Se c’è una cosa che i teologi hanno sempre
saputo fare molto bene è riempirmi la testa di fumo: per certe religioni è
esistito, per altre no, secondo alcune ha una natura più umana che divina,
secondo altre più divina che umana: un pasticcio tremendo. Per quanto
mi riguarda se uno vuole crederci va bene, se invece è scettico va bene
lo stesso: l’importante è che credano in me. I parenti, anche se per molti
versi si sono dati da fare per la causa, contano fino a un certo punto.
Spero che nessuno ci rimanga male se parlo in modo schietto.

35
loro fede alla rovescia, più ripiegano su surrogati destinati
a piantarli ben presto in asso: basta vedere come è anda-
ta con il comunismo. Rimango sempre un po’ stupito, per
quanto possa rimanere stupito un dio, che mi sottovalutino
a questo punto. Che non siano sfiorati dall’idea che sono lì
che li osservo, che potrei mangiarmeli in un boccone. For-
se dovrei prendermela, e invece mi fanno solo tenerezza.
Come quando si osservano dei bambini compiere gestacci
dei quali non colgono la portata.
La perticona e la piccoletta si sono conosciute pochi gior-
ni prima nel bel mezzo di un guazzabuglio di invasati che
si baciavano e accarezzavano in mezzo alla strada: intendo
individui dello stesso sesso.* Ora sproloquiano di crocifissi
e di angeli davanti al fuoco. La prima dice che è tutta col-
pa della Chiesa se il paese non ha ancora una legge che
tuteli le coppie omosessuali: impedisce qualsiasi progresso
in tema di diritti civili e di ricerca scientifica. La seconda ri-
batte che purtroppo la cosa non è imminente: non è certo il
nuovo papa sorridente che metamorfoserà quella micidiale
impresa a delinquere fascistoide, la quale fin dall’inizio ha
perseguitato ogni forma di reale spiritualità. Il ragazzo sog-
guarda la collezione di falli votivi sul ripiano del mobiletto
di bambù con la fronte aggrottata: come fanno gli uomini
quando ascoltano le donne che parlano tra loro.
Naturalmente un po’ mi disturba che quelle due ragaz-
zotte, e pure il loro compare che finge di interessarsi alle
statuette priapiche, diano per scontato che io proprio non
esista. Scoccerebbe a chiunque: tu sei lì, ascolti ogni parola,
vedi cosa c’è dietro ogni singola sillaba o sospiro, e quelli
fanno come se non ci fossi, e non fossi mai esistito. Non
si tratta solo di maleducazione, diventa anche una totale
*
Beninteso non ho niente contro gli omosessuali, però se ho creato uomini
e donne è per qualcosa, non so se mi spiego.

36
mancanza di riconoscenza, considerando che sono io che
ho creato tutto il ben di dio che li circonda. Se però pensano
di farmi qualcosa parlando male della chiesa hanno sbaglia-
to indirizzo: io non ho mai dato la minima disposizione al
riguardo, come non l’ha data nemmeno quel ragazzo che
considerano mio figlio, e che probabilmente mio figlio non
è. E se c’è un’istituzione che mi ha sempre nuociuto, è pro-
prio quella.
Dopo aver contemplato a lungo il rogo cristiano, i tre si
siedono a tavola. Lei dalla parte del bancone del pesce adi-
bito a piano cucina, il tipo di fronte, e la nanetta contro i
mattoni di vetro che danno sulla corte postproletaria. Lei
racconta che da diversi anni lavora in un centro di ricerca
genetica, ma ha anche un secondo lavoro di emergenza nel
ramo dell’allevamento bovino. Allora ti piacciono i microbi? le
domanda il fusto in un tono che vorrebbe forse simulare del
raccapriccio, ma che è solo mieloso. Molto, risponde lei, con
la faccia di quando si pensa a qualcosa che fa tenerezza. Del
resto il nostro avvenire è in mano a loro, sentenzia con un’espres-
sione da suora in trasporto mistico. Mi scricchiolano i denti
(faccio per dire) a sentirla delirare in quel modo, ma se do-
vessi correggere ogni follia detta dagli uomini starei fresco:
sarei costretto a intervenire decine di miliardi di volte ogni
giorno.

37
il turismo intergalattico

Quando ho un po’ di tempo (ci siamo capiti), quello che


mi piace di più è bighellonare (che verbo buffo: voi bighellona-
ste... che essi bighellonassero...) per le galassie e gli spazi interga-
lattici. Non conosco spettacolo più intenso e appassionante
delle galassie e degli ammassi di galassie. Se solo potessi, e
non avessi mai da sfacchinare, mi dedicherei solo a quello.
Va però tenuto presente che per un dio non ha senso la di-
stinzione tra lavoro e tempo libero, perché come è intuibile
il mio non è un vero lavoro, e men che meno il mio tempo
libero è davvero libero. Per semplificare al massimo, altri-
menti non ne usciamo, diciamo che appena posso esco a
passeggiare.*
Per essere chiari: non vado in giro per l’universo pavo-
neggiandomi come farebbe il titolare di una grossa impre-
sa nei corridoi della sua azienda, e tanto meno come un
arcigno latifondista tolstoiano a cavallo, anche se a molti
piace attribuirmi una gran barba bianca. In fondo il ter-
mine che si avvicina di più, pur restando di gran lunga ina-
deguato, è ancora quello di turista. Come un turista non ho
nessun fine preciso, come un turista ho una disposizione
aperta e benevolente, non sono stressato, e sono incline alle

*
Dovrei forse dire fiondarmi, viste le velocità infinitamente superiori a
quelle della luce, in barba alla fisica quantistica: se preferisco attenermi
a questo termine è proprio per sottolineare il carattere sotto ogni punto
di vista rilassato e pacificante del mio viaggiare. Procedo come sempre per
approssimazioni molto grossolane.

39
divagazioni e alle comparazioni. So bene che molti conside-
rano il turismo un’attività poco spirituale, e invece io riten-
go che se tutti i turisti si comportassero da turisti anche nella
loro vita di tutti i giorni, il mondo andrebbe molto meglio.
Le galassie sono decine e decine di miliardi, e anche la
più infima di esse comprende vari miliardi di stelle di tut-
ti i colori, con aloni di varia foggia, pretenziosi pennacchi,
nuvoloni dai colori più sgargianti, o anche solo pianeti e
satelliti. Qualcuna se ne sta tranquilla come un angioletto,
nonostante le micidiali reazioni nucleari al suo interno, la
maggior parte paiono invece possedute dal demonio: spu-
tano spumeggianti scatarrate di lava che si gonfiano come
gigantesche bolle di sapone, o tutto all’opposto collassano,
rattrappendosi fino quasi a scomparire, fino a diventare un
miliardo di volte più dense del piombo. Ma pure gli spazi
interstellari, con la loro atmosfera fresca e corroborante –
più di duecentosessanta gradi sotto zero, per usare una scala
che tutti possono capire – e con il loro baluginare di polveri
più o meno impalpabili, non sono certo deserti senza alcu-
na attrattiva, e sono molto vari. Insomma, stufarsi diventa
quasi impossibile.
Vista la quantità di stelle e il gran daffare che si dà ognu-
na, ogni galassia potrebbe essere considerata un multisala
con milioni o miliardi di schermi. Si potrebbe quindi dire,
se si volesse dare un’idea non troppo distorta del mio esi-
stere, che io sono abbonato a miliardi di multisala con mi-
lioni o miliardi di schermi. Con la differenza che io seguo
in contemporanea tutti i film, e che ci sono proiezioni, per
dirla così, ventiquattr’ore su ventiquattro. In qualche modo
il mio lavoro potrebbe essere allora avvicinato a quello del
supervisore di una megagalattica centrale nucleare: il posto
(dovrei forse dire postazione?) dove sto potrebbe essere visto
come una gigantesca sala di controllo.

40
Si potrebbe obiettare che so già quello che vedrò, e quin-
di ci provo poco gusto. È però un modo fuorviante di vede-
re le cose. Sarebbe come pretendere che un tranviere che
ha lavorato in una data città per qualche milione di anni si
ricordasse la faccia di tutti i passeggeri che ha trasportato,
com’erano vestiti, a che fermata sono scesi, eccetera eccete-
ra. Visti i miei illimitati poteri io non ho nessuna difficoltà a
rappresentarmi le caratteristiche di ognuna delle miliardi e
miliardi di stelle, però quando mi ritrovo lì mi stupisco pur
sempre di tanta diversificazione, e morale della favola, se
mi è concessa quest’espressione quasi un po’ blasfema, mi
diverto come un pazzo.
Una grossa differenza con il cinema sono gli odori. Una
delle grandi attrattive sta proprio lì. Qualche volta sono fra-
granze delicate che evocano la vaniglia, o la cannella, altre
volte sono leggeri sentori di bruciato, qualcosa come il fumo
di una sigaretta percepito da lontano, o forse meglio di pipa.
Spesso invece sono aggressive esalazioni di etere o acetone,
vapori di idrocarburi policiclici e altri micidiali composti or-
ganici che potrebbero fare pensare al cratere di un rabbio-
so vulcano, a qualche periferia fitta di fabbriche chimiche.
Puzze e tanfi che invece di molestarmi mi fanno pensare
alla struggente violenza di certi magnifici quadri espressio-
nisti. Io non sono certo un damerino che ama solo l’acqua
di colonia e l’odore di sapone, per buona pace dei teologi
bacchettoni: in certe occasioni adoro riempirmi i polmoni
di fumi acri, o anche solo di protossido di azoto, che mi fa
ridere fino alle lacrime. Proprio come l’odore di spazzature
di Napoli non ha niente a che vedere con quello di conifere
di Copenhagen, tante galassie le riconosco così.

41
il latte delle montagne

Finite di mangiare le alghe con i capperi e una spruzzati-


na di licheni di larice di alta montagna, la stangona chiede
al ragazzo ben cosciente della propria bellezza cosa fa nella
vita. Con un sospiro di finta umiltà Vittorio (manco a farlo
apposta si chiama così) risponde che studia cose inutili. Per
esempio? Per esempio il latte di monte. Con il fiato mozzo lei
dice che non sapeva che le montagne facessero il latte, e lui
ribatte che non tutte le montagne lo producono, ma alcune
sì. E come si fa a mungerle? chiede lei, sgranando gli occhi da
uccello come fanno i bambini. Lui risponde che basta anda-
re nelle grotte con un recipiente adatto, e raccogliere il latte.
Poi si beve? chiede lei, come deglutendo un grosso sasso. Riav-
viandosi il neoromantico ciuffo di capelli, lui risponde che il
latte di monte serve piuttosto a quantificare i disastri causati
dall’uomo, in altre parole a sapere di che morte moriremo.
Nell’ex pescheria trasformata in sala da pranzo si ripete il
rituale di sempre: le frasi pronunciate dagli uomini sono un
paravento dietro il quale si nascondono bassi istinti. Il fatto
è che il ragazzo fascinoso è molto attratto dalla ragazza che
martirizza i batteri e ingravida le mucche. Non occorre es-
sere Dio per accorgersene: ha le pupille grosse come biglie,
parla accarezzandosi la gola con ogni parola. Anche la sua
compagna lo vede bene: lo fissa come fosse un malandrino
che ne sta combinando un’altra delle sue, l’ultima di una
lunga serie. L’irriverente ricercatrice però fa la gnorri: si alza
e aggiunge qualche altro crocifisso al fuoco, che è un po’

43
mogio, radunando sul lato con una lunga forchetta i reden-
tori rimasti senza croce. Producono un rumore di vecchia
catena arrugginita, tutti quei poveri cristi mezzo affumicati.
Fanno pensare a soldatini sorpresi con le braccia spalancate
nel momento di morire. O forse già defunti, e quindi ap-
punto irrigiditi.
La ragazza che in alto ricorda un personaggio bislungo e
asimmetrico del pittore El Greco e in basso una tizianesca
matroncella (ho sempre amato l’arte, fin dalle prime opere
rupestri) si risiede, ma con la sedia rivolta verso la posta-
zione di guerriglia informatica e i gomiti appoggiati allo
schienale. Parlando come una ragazzina svampita, come
cioè fanno le donne sdilinquite, dice che le piacerebbe as-
saggiare il latte di monte. Fragilità, il tuo nome è donna! penso.
Sorridendo amabilmente l’infido maschio ribatte che non
c’è niente di più facile: se vuole la porterà in una grotta dove
ce n’è moltissimo. Fiumi di bellissimo latte.
Qualche volta mi dico che in fondo non è tanto bello sa-
pere sempre in anticipo come termineranno tutte le cose.
Mi piacerebbe godermi il mio film dall’inizio alla fine, sgra-
nocchiando in santa pace dei popcorn, il cui odore di unto
e di terra mi ha sempre attirato.* Come dicevo il proble-
ma di essere Dio è che si vede anche quello che gli uomini
non vedono. Non sono un veggente, ma vedo pur sempre
il futuro un milione di volte meglio di qualsiasi indovino o
cartomante. Del resto vedo anche nel passato: constato per
esempio che una sera della settimana precedente il nostro
bel Vittorio ha detto alla piccoletta che andava in palestra,
e invece si è precipitato dalla migliore amica di questa. Vedo
*
Prima di cominciare a pensare mi andava bene tutto, e non mi sarei mai
sognato di trovare anche solo il più infinitesimale motivo di rimostranza.
Ora dietro le mie parole spuntano molte insoddisfazioni, mi accorgo,
molte voglie impossibili.

44
che sono quasi subito finiti a letto: lui ha avuto due orgasmi
e lei uno. Poi a tarda notte è tornato a dormire a casa della
madre: da bravo ragazzone italiano è ancora saldamente
attaccato alle sue gonne.
Potremmo farci una bella gita in grotta tutti assieme, no? chiede
l’atea militante in un impeto ecumenico. Con un fremito
delle spalle da cerbiatta la piccolina risponde che le grotte
le danno la claustrofobia. Una volta ha provato a andare,
aggiunge: le pareva di essere di nuovo in prigione, è quasi
soffocata. Le sembra di essere stata poco gentile con la ra-
gazza che li ha invitati, e vuole rimediare (spesso il lettore
si domanda come fa chi scrive a sapere cosa pensa il per-
sonaggio: nel mio caso questo dubbio non ha senso). Con
una tipica grettezza maschile il fusto la prende alla lettera, e
commenta che lei alle grotte preferisce di gran lunga le igua-
ne, il vero problema è quello. Ognuno è libero di ritenere le iguane
più interessanti dei buchi nelle montagne, ribatte lei, scoprendo le
gengive color gengiva. Le mie grotte almeno non mordono, dice
lui, mostrando una cicatrice sul bordo della mano.*
Dopo aver servito il caffè con i semi di cardamomo la
ricercatrice aggiunge al fuoco due grossi legni squadrati.
Con testosteronici gorgheggi l’avvenente pseudo attore le
domanda se provengano da un crocifisso, e lei risponde che
sono travi prese in un cantiere lì vicino, davanti all’indiano

*
Se c’è un dominio dove gli umani dimostrano la loro imperfezione è
proprio la vita di coppia. Personalmente non ho mai visto una coppia di
pinguini che si urlano addosso, lanciandosi terribili accuse a proposito
della suocera o dello smarrimento delle forbicine per le unghie, tanto per
intenderci. Gli umani sono invece sempre scontenti, sembra quasi che
facciano apposta a trovare delle buone ragioni per bisticciare. O meglio, a
un primo breve periodo di idillio segue un crescendo di incomprensioni e
di insopportabilità reciproca, fino a arrivare alla guerra aperta: proprio un
bell’andazzo, per una specie che si diletta con cantici e canzoni d’amore, e
si crede mille volte superiore a tutte le altre.

45
che vende telefoni della camorra. Ma come se fosse una do-
manda seria, come le dispiacesse che non si tratti davvero
di un crocifisso.
Con una vocetta pulita come uno zampillo d’acqua, e
quasi accarezzandola con un ondeggiamento circolare del-
la testa, la piccola le chiede se brucia sempre i crocifissi.
Certo tra poco tempo la odierà, la odierà con tutte le cellule
miocardiche e tutti i neuroni del suo cervello, ma per il mo-
mento si direbbe quasi che le stia simpatica. La Marianna
rivoluzionaria con le treccette viola risponde che sono or-
mai anni che li brucia, come è ovvio solo quando fa freddo.
Se tutti facessero così il problema dello strapotere della Chiesa cattolica
sarebbe risolto, sentenzia il seduttore, certo per fare bella figu-
ra. La sua compagna le chiede invece dove li prende tutti
quei crocifissi, e lei la guarda come se non capisse la doman-
da. Attaccati ai muri, finisce poi per rispondere, constatando
che non c’erano intenti polemici, ma semplice curiosità.

46
l’incredibile tracotanza degli uomini

Buona parte degli esseri umani sono convinti che Dio sia
al loro servizio. Miliardi di uomini, anche i più disastrosi, i
più impresentabili, si crogiolano nell’assurdo convincimen-
to che Dio non abbia niente di meglio da fare che adottare
il loro meschino e insignificante punto di vista, vedere tutto
l’universo con i loro occhi. Il che sarebbe tecnicamente pos-
sibile, intendiamoci: la capacità di lavorare in parallelo, di
immedesimarsi in infiniti soggetti – ai sette miliardi di esseri
umani vanno aggiunti i miliardi di miliardi di miliardi di pro-
tozoi, insetti, aracnidi, miriapodi, spugne, anellidi, molluschi,
collemboli, e chi più ne ha più ne metta – la moltiplicazione
esponenziale dei punti di vista, e lo stoccaggio di tutte le infor-
mazioni, fanno parte anzi delle armi più basilari del mestiere.
Sarebbe fattibile, ripeto. Ma non lo faccio. Un dio deve
sapere mantenere le distanze, non foss’altro per non cor-
rompere la sua immagine e per non inflazionarsi. Ma anche
per permettere a ognuno di mostrare quello che vale dal
punto di vista morale: altrimenti diventerebbe poi inutile
organizzare il Giudizio Universale, ammesso che dia dav-
vero seguito a quest’idea che piaceva tanto al mio supposto
figlio, o insomma tirare in qualche modo le somme. La mia
filosofia, per usare questa parola che non mi è mai piaciuta,
è: lascia a ognuno la massima libertà, e poi alla fine si faranno i conti.
Altri uomini, molti altri, troppi, cascano nell’errore dia-
metralmente opposto: sono convinti che io non esista. Sono
gli integralisti della razionalità, della scienza, del progresso,

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i fanatici della logica, della rivoluzione francese, del livella-
mento sociale, degli ordinamenti democratici. Quegli intel-
ligentoni che vanno in giro a dire che Dio è una droga come
un’altra, e che senza di lui gli umani potranno finalmente
realizzarsi e essere soddisfatti (come se potessero essere ap-
pagati in maniera durevole da qualcosa). I macilenti filosofi
e poeti che si compiacciono con ghigni nevrotici del loro
coraggio a affrontare l’esistenza senza disporre del minimo
lacerto di spiegazione o di senso. E soprattutto i miliardi di
furbetti che approfittano della mia evacuazione per sguaz-
zare nel materialismo, pensando solo a come consumare
più merci e a godere giorno dopo giorno il più possibile.
Ai riti di un tempo, perché hanno pur sempre bisogno di
qualche celebrazione liturgica, hanno sostituito rumorose
esibizioni musicali e giochi con la palla, intrisi anch’essi di
mercantilismo.
Ci sono poi le vie di mezzo, gli indecisi cronici. Per loro io
forse esisto e forse no, forse tengo le redini del cosmo e forse
no, forse sono onnipotente e forse sono solo un’invenzione
come Sancho Panza e Madame Bovary: loro non lo sanno,
e non si prendono la briga di saperlo. Alzano le spalle, fieri
della loro supposta apertura mentale. Spesso questi oppor-
tunisti guardano di buon occhio a certe improbabili reli-
gioni per le quali io sono un’Intelligenza Superiore, un Principio
Supremo, un’Essenza Cosmica, un Grande Tutto. Per certi versi
questi dubbiosoni mi stanno ancora più sulle scatole, con
licenza parlando. Mi verrebbe da apparirgli davanti con il
mio barbone e l’inizio di stempiatura che mi hanno affib-
biato i pittori rinascimentali e barocchi, e vedere come ca-
volo reagiscono. qualcuno mi cercava? sbraiterei, imitando
lo sguardo del temuto ricercato di un film poliziesco. un
volontario vuole ricevere un calcione dallʼintelligenza
organizzatrice dove dico io?

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Capisco però che per un essere umano non sia facilis-
simo figurarsi chi sono, come la penso, diciamo così, e di
cosa sono capace. È come se si domandasse a un protozoo
di descrivere un elefante: lui potrà descrivere una porzio-
ne infinitesimale di un determinato pelo dello scroto, o di
una cellula dell’epidermide del canale uditivo dell’orecchio
destro, insomma quello che gli sta nell’immediato intorno,
non certo l’elefante nella sua maestosa interezza. Ma natu-
ralmente la differenza che passa tra l’uomo e me è qualche
miliardo di miliardi di volte più grande di quella tra l’uomo
e il protozoo, e l’elefante non è detentore del senso di tutte
le cose, era solo un esempio con una sua efficace icasticità.
Per avere una misura del loro discernimento basta ve-
dere quanto poco capiscono uno dell’altro. Per valutarsi e
giudicarsi a vicenda si basano su qualche indizio qua e là,
fraintendendolo e travisandolo, e ricamandoci sopra tutto
un assurdo tessuto di illazioni. Rinforzano poi l’inconsisten-
te trama con scampoli tratti dall’esperienza personale, ina-
datti, senza alcun rapporto logico o di altro tipo con i dati
di fatto, anzi più spesso in contraddizione, o in speculare
antitesi. Questo esercizio di arlecchinesca sartoria dà luogo
a vaneggianti costruzioni, pessimi romanzi o fiabesche im-
posture utili solo per capire le fissazioni e le tare di chi ne è
autore.
La maggior parte delle azioni degli uomini è pur sempre
in surreale sintonia con il modo in cui vorrebbero essere
considerati: passano il loro tempo a fingere, a mimetizzar-
si, simulare e dissimulare. In realtà ogni umano può essere
considerato uno scafato professionista della menzogna, un
attore con molta esperienza di recitazione, in grado di rag-
giungere vette eminentissime. Confondere le acque per loro
è una dote naturale, per non dire una necessità fisiologica,
un marchio distintivo: come per gli usignoli fischiettare e

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per i canguri saltare. Ogni specie ha la sua specialità, e loro
eccellono nell’impostura. Sono venuti male, e la situazione
non ha fatto che aggravarsi. Il mio supposto figlio, insomma
il capellone emaciato che si diceva frutto di un’inseminazio-
ne a distanza, ha provato a riprendere in mano le cose, ma
direi che ha fatto più danni che altro.
Devo però ammetterlo, in certi momenti sono anche una
gran distrazione. Non è che un dio abbia bisogno di svaghi,
ci mancherebbe altro, però questi pagliacci sono talmente
pieni di se stessi, talmente maneggioni, a tal punto prevedi-
bilmente imprevedibili, immorali e assurdi, che uno spetta-
tore può finire per stare lì tutto il giorno a guardarli. Sono
subdoli come la televisione: resti incollato anche se non ne
hai tanta voglia, anche se sai già che si tratterà solo di fre-
gnacce e di ogni sorta di astuzie per catturare l’attenzione.
La loro fortuna è che non hanno concorrenti: in tutto l’uni-
verso non c’è alcuna forma di materia organica che anche
solo lontanamente eguagli la loro subdola operosità, la loro
infestante invadenza, la loro sconclusionata ma anche astu-
ta irragionevolezza, e la destrezza nel trarre vantaggio da
ogni nuova situazione.

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la gestazione del cosiddetto amore

La mattina dopo, la perticona con le treccette orizzontali


si alza di buon umore, e prima ancora che faccia giorno
saluta attraverso la serranda a mezz’asta il vicino indiano
che sta trasformando la sua camera da letto in negozio. Poi
monta in sella alla bicilindri. Arrivata alla Federazione degli
allevatori sale a prelevare dai vassoietti immersi nell’azoto
liquido le dosi di seme di un toro tedesco che in quel mo-
mento fa furore. Quindi parte alla volta di una valle alpina
non lontanissima dalla grande città, ma considerata non a
torto molto arretrata.
Il proprietario della stalla è un paradigmatico rappre-
sentante di quell’enclave predigitale: si capisce a stento
quello che biascica con la sigaretta spenta in bocca. Non
crede ai suoi occhi, quando lei si leva il casco: non solo ha
i capelli viola, ma non è un uomo. Non si è mai visto un
addetto all’inseminazione artificiale che non sia un ma-
schio, e abbia un orecchino piantato in una narice e un
giubbotto di pelle nera con le borchie. Resta quindi im-
palato accanto a lei per tutto il tempo, sorvegliando ogni
suo minimo gesto con gli occhi sbarrati, come sul punto
di lanciare un urlo. Come sempre in questi casi lei fa finta
di nulla. Ogni tanto capita un contadino lobotomizzato.
Sa però che la cosa non va presa alla leggera: deve essere
molto più abile del maschio più virtuoso, per essere con-
siderata alla pari. Sente sulle mani e sulla pelle lo sguar-
do tribale del bifolco, che se osasse esprimerebbe le sue

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perplessità, come ci si lamenta con un amico fidato. È già
successo anche questo.
L’apprendista stregona non si chiede perché sopporta
così bene il buzzurro che le alita sul collo e sulla nuca, non
si chiede perché si sente così euforica. Con una strategia
diversiva tutta umana, pensa alla sera prima. E non pensa
ai lineamenti aggraziati del cascamorto, ma alla sua com-
pagna. Si dice che aveva proprio un bel vestito da contadi-
na medioevale, e lo portava molto bene, con una eleganza
innata. Lei di solito non va matta per le anticaglie del ge-
nere, che le ricordano le foto di sua madre, quello però le
è rimasto impresso. Pensa questo. Non occorre però essere
degli indovini per avere la certezza che tra non molto lei e il
damerino con il ciuffo ieratico, accumunati da un analogo
fondamentalismo darwiniano, si assoceranno per togliere di
mezzo la rivale. Non sto dicendo che il sodalizio sarà di lun-
ga durata, si badi bene.
Invece di accoppiarsi e basta, come gli altri animali, gli
uomini ne fanno tutta una commedia: sospirano, si sdilin-
quiscono, scrivono sdolcinate poesie, si ubriacano in un
mare di nobili aspirazioni, fanno promesse assurde. Qui
non siamo però ancora a quello stadio: per ora l’ingenuo-
na pensa intensamente al latte di monte e ai pericoli dei
cambiamenti climatici. Deve del resto fare un bel cammi-
no: finora le sue storie d’amore, mi adeguo alla formula di
prammatica,* si sono limitate a un unico contatto copulati-
vo, meno spesso due o tre, rarissimamente quattro o cinque.
Alla prova dei fatti scopriva che il maschio di turno proprio

*
Il cosiddetto amore è la facciata di rappresentanza, se si vuole andare al
nocciolo della questione, che nell’era della mercificazione totalitaria gli
esseri umani utilizzano per presentare a se stessi e agli altri l’attrazione
sessuale. Ma certo ci sono anche implicazioni psicologiche, legate in
particolare al loro terrore della solitudine.

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non le si confaceva. Erano eloquenti i punteggi: due a zero,
uno a zero, tre a zero. Sempre zero, sia che giocasse in casa
che fuori. Lei allora senza scoraggiarsi pescava, più spesso
per via elettronica, un altro soggetto con i cromosomi XY,
con il quale le cose non andavano meglio: di nuovo uno a
zero, tre a zero, due a zero. E nessuna particolare empatia.
È da quando aveva quattordici anni, quando per fare
sesso doveva scappare come una gattaccia dal collegio in-
tegralista, che va avanti così. A lei stessa la cosa comincia
a suonare un po’ strana, ma non si sconforta, perché è una
persona ottimista, un autentico Sagittario: così chiarisco
che non ho nulla contro lo zodiaco, anzi. I suoi conoscenti
la considerano una ragazza molto libera, lei sa però che la
libertà non c’entra niente: cerca la persona giusta, e finora
non l’ha trovata. Sente però che prima o poi sarà la volta
buona: come quelle scoperte scientifiche che fanno dannare
per anni, ma poi si rivelano delle rivoluzioni durature.
Il retto delle brune alpine è meno largo e meno lungo
di quello delle razze di maggiori dimensioni, e lei stringe
di più il pugno che penetra verso la zona corrispondente
alla cervice. E pure la vagina è più piccola e più corta. A
lei le brune alpine piacciono perché sono come le persone
che hanno poche esigenze e non si danno arie, ma anche
appunto perché le loro dimensioni si adattano da dio (sic) a
quelle della sua mano e del suo braccio. E quindi lavora più
volentieri del solito, nonostante i sospiri assillanti dell’omi-
nide le cui spalle sembrano essere sostenute da un’invisibile
gruccia. È chiaro che i gesti di lei non lo convincono: li trova
troppo sdilinquiti, troppo poco decisi. Vorrebbe fargli pre-
sente che un braccio nel culo è pur sempre un braccio nel
culo: le mucche sono esseri come gli altri.
L’allevatore sbuffa e muove le gambe come un orso legato
a un palo, desidererebbe che facesse più in fretta. Lei ha

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visto come fanno i maschi, vorrebbe dirgli: il loro unico fine
è che il braccio destro arrivi in fretta all’altezza dell’utero,
e che la siringa penetri nel modo più rapido possibile. La
stessa precipitazione che mostrano durante il sesso, e che le
impedisce di arrivare all’orgasmo. Lei non sta lì a perdere
tempo, però evita i movimenti bruschi, e fa in modo che la
bestia si rilassi: non forza mai.*
Mentre si toglie la tuta blu scuro, lo stesso colore dei suoi
occhi, la ragazza si dice che forse andrebbero migliorati ge-
neticamente anche i contadini di certe zone tribali, non solo
le mucche. Anzi, si dovrebbe cominciare proprio da loro.
Quell’esemplare andrebbe incrociato con un genotipo dallo
sguardo intelligente, che si tenga diritto e che parli con voce
limpida, invece di biascicare come un tricheco con la siga-
retta piantata all’angolo della bocca. Senz’altro il fenotipo
risultante sarebbe più in sintonia con i tempi.

*
Gli esseri umani trovano sempre la maniera di mettersi a posto
la coscienza: e questo in modo particolare nello stivale scalcagnato
chiamato Italia. I ladri italiani pensano di essere ladri onestissimi, e gli
assassini italiani assassini molto altruisti: ognuno di loro trova il modo
per far quadrare i conti intimi. Voglio ben vedere se in sede di Giudizio
Universale vigerà lo stesso lassismo.

54
la poesia della matematica

L’occhialuta genetista tutta ossa e spigoli asimmetrici in


alto e anche troppo rotondetta in basso è convinta che la
scienza spieghi tutto: come si è originato l’universo, dove
va, che senso ha tutto quello che succede. Per lei c’è una
sola vera spiegazione, una sola entità trascendente: la Teoria
dell’Evoluzione. Per lei un giorno molto vicino la scienza sve-
lerà anche come è nata la vita: con i suoi occhi distanti da
uccello guarda controluce le sue provette, e crede di vedere
un inizio di ricostruzione. Quasi si trattasse di una pedis-
sequa ricetta di cucina: qualche buon ingrediente solido o
gassoso, una determinata sequenza di reazioni chimiche, e
voilà, ecco a voi gli esseri viventi.
Non è certo la sola, per carità. Più passa il tempo più gli
esseri umani sono ebbri di quella che considerano la loro
peculiarità, il pensiero cosiddetto razionale: non si rendono
conto che razionale o non razionale l’attività cerebrale è
sempre erronea e fuorviante. Per definizione il raziocinio si
focalizza via via su un dato aspetto, e già in questa assurda
arbitrarietà rivela la sua fallacia e la sua impotenza: l’unica
verità è il tutto, vale a dire Dio, il sottoscritto. E la cosiddetta
razionalità non è che un’illusione ottica, una versione un po’
meno capricciosa, ma pur sempre fantasmagorica, dell’ir-
razionalità, del bisogno fisiologico degli uomini di credere
in qualcosa. Questo però loro non possono saperlo, perché
non possono pensare il pensiero (il linguaggio umano non
mi permette di dirlo meglio).

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Gli uomini si accaniscono nelle loro scopertine scienti-
fiche e nelle innovazioncine tecniche per non pensare alla
loro finitezza, come le anziane si concentrano sulle tovaglie
all’uncinetto per distrarsi dalle magagne e dalla fine che si
avvicina. Qualche inezia di risultato la ottengono: adesso
possono per esempio fotografare i batteri, o scambiarsi i
reni, o volare da un punto all’altro del pianeta, seppure a
una lentezza esasperante (le scie lasciate nel cielo dai loro
velivoli fanno appunto pensare a bave di lumaca). Ma per
quei loro piccoli esiti hanno devastato tutto, e si sono gio-
cati l’avvenire. A ogni tappa del loro cosiddetto progresso
preferiscono nascondersi gli annessi e connessi, l’avvicinarsi
dell’inerente catastrofe.
L’ho capito fin da quando hanno cominciato a trame-
nare con i loro rudimentali cannocchiali e le loro bacinelle
di mercurio, che il vero fine dei cosiddetti scienziati, come
avevano ben capito gli inquisitori, era entrare in competi-
zione con il sottoscritto. Per poi finalmente sedersi nella mia
poltrona. Se però questi furbetti considerassero che anche
viaggiando con un razzo a energia atomica impiegherebbe-
ro qualche migliaio delle loro vite per attraversare una ga-
lassietta di medie dimensioni, e lasciamo stare gli ammassi
di galassie, che la temperatura all’interno della più pacifica
stellina è qualche milione di gradi più alta di quella dell’ac-
qua che usano per cucinare i loro spaghetti, e la pressione
qualche milione di volte superiore a quella della pentola
fornita di valvola dove cuociono i carciofi, e soprattutto che
Andromeda sta puntando dritto su di loro alla velocità di
quattrocentotrentamila chilometri all’ora, abbasserebbero
le arie. E invece sorridono beati, convinti di fare progressi
su progressi, di avere di fronte chissà quale avvenire.
Eppure, eppure devo confessarlo, le scoperte scientifiche
mi hanno sempre intrigato. Può apparire forse poco coerente,

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ma non ho mai affermato di esserlo. Mi piace vedere come
la materia e gli organismi viventi vengono macinati e digeriti
dall’intelligenza – anche se certo molto limitata – umana,
come i fenomeni più complicati vengano ridotti a monacali
segni algebrici, a algide equazioni. Come si può facilmen-
te immaginare le differenti discipline scientifiche, con i loro
nomi pretenziosi, non mi fanno mai scoprire qualcosa di
nuovo, visto che tutte le cose le ho create io – con le mie mani,
potrei dire, se non temessi di peccare di prosopopea – e quin-
di so meglio di chiunque altro come sono fatte e cos’hanno
dentro, però mi divertono lo stesso. Per paradosso nelle leggi
scientifiche, sempre un po’ goffe e assertivamente insicure,
qualcosa di grazioso di solito lo trovo. Ma certo è proprio
l’ermetica poesia della matematica – che per me non è altro
che una fumosa approssimazione, un confuso balbettio di
bambino piccolo – che mi attira.
Per quanto possa apparire incongruo, a un dio piace stare
al passo con i tempi, lo attirano le novità. Si potrebbe quasi
dire lo entusiasmano, se questo termine, che pure mi tira in
ballo con la sua etimologia, non fosse così poco divino. Per
lui non sono appunto vere novità, e anzi sono cose vecchie
come il mondo, visto che passato e futuro si equivalgono. Lo
invogliano però pur sempre a tenersi aggiornato. È come
se ripassasse delle nozioni per certi versi non freschissime,
come se aprisse in un punto preciso un’enciclopedia mo-
nografica scritta tempo addietro. Del resto io sono sempre
stato curioso, anche se certo l’aggettivo andrebbe depurato
da tutta la morchia umana che si porta dietro.
Quando ero giovane, diciamo così, andavo matto per gli
animali. Potevo stare a osservarli per anni, per secoli. Certo
che sono stato proprio bravo! finivo sempre per dirmi, constatan-
do che erano tantissimi e diversissimi, con le abitudini più
strane, e le particolarità più impensate. E beninteso mano a

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mano cambiavano: evolvevano, direbbero i biologi, che vedo-
no l’evoluzione anche nella cottura della pastasciutta. Certo
era tutto previsto fin dall’inizio, però l’effetto teatrale resta-
va: certi pesci si mettevano a passeggiare sulla terraferma,
a un lucertolone spuntavano le ali e si metteva a volare, se
ne vedevano di tutti i colori. Io non ho certo aspettato quel
depresso cronico di Charles Darwin per apprezzare questi
fenomeni.
Ammetto però che con l’età, diciamo così, mi interessa-
no di più gli uomini. Mi indispongono, con quel loro culto
barbaro della tecnologia e il disprezzo per le cose importan-
ti, mi fanno rabbia, mi dico sempre che a far bene dovrei
dargli la lezione che si meritano. Ma non riesco a non guar-
darli. Non so nemmeno io cosa mi succede, è una specie di
droga (un dio che si droga!).
i silenzi trascendentali del paleobeatnik

Tornata in città la sodomizzatrice di mucche neomende-


liana si ferma a sbafarsi qualche cannolo. Per la precisione
uno, più un altro, poi un altro ancora: il cameriere palestinese
pinponga lo sguardo dalla sua parte superiore magra a quella
inferiore grossetta, come alla ricerca di una spiegazione. Ha
sempre difficoltà a morigerarsi, con il sesso e con i cannoli
siciliani. Quando arriva al suo angoletto di laboratorio è già
quasi mezzogiorno, e quindi non è molto tranquilla. Tutti
sanno che la sua produttività scientifica è impressionante, ma
a lei sembra di non fare niente. Forse a questo punto ci sta-
rebbero bene, però non sarò certo io a tirare fuori i complessi
di colpa giudeo-cristiani eccetera: dio ce ne liberi.
Quel pomeriggio non è molto concentrata sull’amplifica-
zione in programma: in pasticceria ha letto su un quotidiano
i nuovi dati sulle emissioni di anidride carbonica. Il fusto
bello come il sole ha proprio ragione, si dice: invece di dare
retta ai segnali di allarme sempre più accorati degli scien-
ziati i politici fanno di tutto per aumentare la cosiddetta
crescita economica, alias incrementare l’inquinamento, e
cioè preparare il grande autogol. L’unica soluzione è che la
scienza trovi in tempi molto rapidi efficaci risposte per i pro-
blemi dell’energia e delle contaminazioni. Ogni ricercatore
deve darci dentro più che può. E certo la sua pila a batteri,
se funzionerà, potrà dare un contributo.
Mi dà un po’ fastidio (ma forse è dire troppo) che questa
ragazza per certi versi insopportabile, pur con tanti aspetti

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simpatici,* non si renda ancora conto di essere rimasta abba-
gliata dal paleoclimatico casanova. Mi verrebbe la tentazione
di metterla in guardia: un modo lo troverei, che discorsi. Ma è
molto raro che intervenga in questo genere di faccende. Come
dire, io non sono Afrodite, e nemmeno Cupido: sono un dio
unico, con tutto quello che ne consegue in termini di status e
di contegno. Non avrei più un secondo di pace, se cominciassi
a immischiarmi in questo genere di intrighi e intrighetti: sta-
rebbero tutti a implorarmi, a promettermi questo e quello in
cambio di un piccolo favore sentimentale, o sessuale. Qualsiasi
cosa succeda devo salvaguardare la mia trascendente dignità.
Uscita dal laboratorio la ragazza attraversa la città come sem-
pre zigzagando con atea baldanza tra le file di macchine che
intasano le vie. Dopo un’altra breve sosta epicurea, due cornetti
alla crema, si dirige verso le colline a sud. Lasciata la pianura
cementificata in ridondanza non prende verso gli ameni declivi
con le ville neo-oligarchiche, si dirige verso la stretta valletta dei
marginali, per non dire scoppiati. Arrivata a destinazione par-
cheggia la moto accanto alla casa, è un eufemismo, dell’amico
di sua mamma. Lui è nella rimessa adiacente al pollaio con la
testa immersa nel motore del decrepito trattore a cingoli. Indos-
sa una tunica arancione macchiata qua e là di olio, e i pochi ca-
pelli, che partono sui lati del cranio e sotto la nuca, sono riuniti
in un lungo e smilzo codino. Dopo aver coccolato a lungo i due
cani grossoni e quello piccolo maniaco sessuale, che le fanno
tutti molte feste bisticciando per la pool position, lei si avvicina e lo
saluta con una impennata del collo da uccello. Poi subito tuffa a
sua volta la testa viola nel neolitico motore.

*
Sono il primo a stupirmene: prima proprio non li vedevo. Sarebbe però
sbagliatissimo considerare la giustizia divina come un verdetto tetragono
e irrevocabile: essere giusti vuol dire anche dare il peso appropriato a
elementi che in precedenza non erano così evidenti, esattamente come
succede nella giustizia penale quando salta fuori qualche nuova prova.

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Senza bisogno di parole ha capito che il problema è anco-
ra una volta la pompa del gasolio: l’unica vera soluzione sa-
rebbe andare da un pompista e cambiarla. Si mettono invece
a cercare di rianimarla. Come sempre si danno da fare senza
proferire verbo, a parte i passami questo e passami quello.
Spesso si tratta appunto di esercizi di meccanica antiquaria,
ma può essere anche la riedificazione di un muro crollato,
la sostituzione di una grondaia marcia, la potatura di un
melo agonizzante, e tante altre bucoliche operazioni legate a
uno stile di vita ispirato a una misticheggiante autarchia. Lei
l’aiuta, o addirittura prende in mano la situazione, quando
c’è di mezzo l’elettronica (non è il caso del trattore) o anche
solo vitine molto piccole. Spesso non hanno gli attrezzi che
sarebbero più adatti, ma finiscono per trovare una soluzione.
Gran parte del loro diletto sembra risiedere proprio lì.
Quando hanno finito di rimontare la pompa, il cingola-
to si accende scatarrando una antiecologica fumata nera.
Soddisfatto del successo lui le passa uno straccio lercio per
pulirsi le mani, e con la sigaretta annegata nel barbone in-
diano pulisce le proprie in un vecchio paio di mutande. Poi
entrano nella parte di legno della costruzione – forse però
anche dire costruzione è troppo – che funge da cucina e da
salotto.* Seguiti a ruota dai due cani grandi, quello con il
pelo lungo e quello con il pelo corto, dal cagnetto piccolo e
arruffato, e da un gatto multicolore. Lui le offre una lattina
di birra, e poi si siede in posizione yoga a prepararsi una
canna di marijuana, come un lavoratore che dopo una dura
giornata di fatiche può finalmente concedersi un meritato
regalino. Lei si siede nella poltrona sfondata, e rimangono
uno di fronte all’altra senza dire niente.
*
La roulotte originaria (all’epoca della madre della stangona c’era solo
quella) è stata inglobata nell’eclettico cumulo di materiali di scarto, come
un pesce piccolo rimane intrappolato nello stomaco di un pesce più grande.

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Sotto la finestrella che dà sul pollaio abitato da un’unica ana-
tra spelacchiata e zoppa, c’è un altarino con una ghirlanda di
lucette colorate simili a quelle che si usano per l’albero di natale.
Davanti alla statuetta dell’obeso a torso nudo che lo sormonta
è posata un’offerta di banane un po’ troppo mature, accompa-
gnate da una pera in avanzato stato di putrefazione, come di-
mostra l’allegro svolazzare di moscerini. Per fortuna queste schifezze
non sono dedicate a me, mi dico. Dopo anni di psichedelici va e
vieni dall’India l’amico della madre della ragazza è ora adepto
di una setta orientaleggiante. Instupidito dalle lunghe sedute di
meditazione trascendentale è convinto che attualmente la sua
amica dei tempi andati sia un’indiana. O meglio, nel suo delirio
prima è stata una farfalla rossa e gialla, e adesso appunto, come
ci si trasferisce in un appartamento più confortevole, è una don-
na con un bollino in mezzo alla fronte. Non ha alcun dubbio, e
anzi sostiene che ogni tanto la vede. È proprio per non ascolta-
re pazzie di questo genere che la stangona preferisce stare zitta
(come non darle ragione?), sorseggiando in pace la sua birra.
Mentre scende la sera lui fuma un altro spinello, e lei beve
una seconda birra, riservando attenzioni particolari all’arruf-
fato maniaco sessuale, che le sta molto simpatico. Le bestie
hanno ciascuna il proprio posto sulla tal poltrona o cuscino, si
capisce che quell’abitazione è in primo luogo loro. Sembrano
però un po’ perplesse che non stia succedendo niente, niente
di alimentare: si muovono con quell’inquietudine che precede
l’ora del pasto. Perché questi due affabili bipedi non si decidono a pre-
parare qualcosa da mettere sotto i denti? si chiedono (io vedo anche
i pensieri animali). Come mai non parlano come tutti gli altri uomini?
Poi quando è già buio pesto lei saluta con una scossa delle
treccette il relitto umano che si considera suo padre, e che per
campare lavora saltuariamente come innaffiatore e pulitore di
piscina nella villa di un ex comunista che commercia all’ingros-
so banane biologiche. Inforca la moto, e si avvia verso la città.

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la notte dei rospi innamorati

A mezzogiorno del sabato seguente il bellimbusto telefona


alla stangona, e con voce distratta le propone di bere qualcosa
assieme quella sera. Lei risponde che le farebbe molto piacere,
ma purtroppo è già d’accordo con la sua compagna per andare
a salvare i rospi innamorati. Lo splendente giovanotto rima-
ne con il fiato imbalsamato: a quanto pare la sua fidanzata ha
chiamato quella ragazza che gli monopolizza il cervello da tre
giorni, e l’ha cooptata per il melodramma dei rospi arrapati.
Non se l’aspettava proprio un tiro del genere. Per guadagnare
tempo tossicchia, borbottando parole incomprensibili. La sua
convivente ha intuito qualcosa e lo ha preso in contropiede? Gli
sembra assai poco probabile, ma non riesce a scartare l’ipotesi.
In ogni caso fatica a ritrovare la sua sicumera. Poi finisce per
dire che verrà anche lui, che discorsi: lui adora gli anfibi anuri.
La ragazza arriva in moto nel piazzale sterrato dell’appun-
tamento: nel buio più buio si aggirano già molti salvatori di ro-
spi, ognuno con una pila frontale sulla testa. La piccoletta, pure
lei con una lampada da minatore, le spiega di cosa si tratta: i
rospi che in quel periodo dell’anno calano dai boschi verso il
lago, sul cammino atavico della riproduzione incappano nella
strada che taglia trasversalmente il versante. Non è un’arteria a
grandissimo scorrimento, ma ogni notte ne risulta pur sempre
una carneficina. In attesa che i politici corrotti si decidano a
far scavare dei camminamenti sotterranei, l’unica soluzione è
rallentare le auto e dare una mano ai rospi a attraversare.
Alla genetista piace molto l’energia gioiosa della piccoletta,

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quella sua concentrazione calma e determinata, ma anche
appunto leggera e imprevedibile come una foglia nel vento,
quasi scherzosa. È chiaro che è perfettamente a suo agio in
quel buio brulicante di animali e di insetti notturni, e con
quel buon odore di bosco: è per così dire nel suo habitat na-
turale. E per quel che può vedere tutte quelle persone hanno
facce simpatiche, si capisce che sono abituate a fare cose del
genere. Per la prima volta le viene il dubbio che forse il suo
laboratorio non è il posto più bello del mondo: quelli che ci
lavorano sono tutti un po’ emaciati, tutti mezzo depressi. E
lei è abituata a rapporti per via elettronica, non ai corpi con
profumi diversi e fiato che ti sfiora lieve le guance.
A un certo punto dal buio spunta anche il grande bello,
che la saluta con gli occhi bassi, fingendo di essere timido. In
realtà è solo preoccupato che in quella pece nera il suo fasci-
no noncurante non sia così efficace come potrebbe esserlo
per esempio in un caffè ben illuminato e con dei comodi diva-
netti. E anche un po’ che quella strana ragazza spiattelli alla
sua compagna che lui l’ha chiamata: un cocktail che rende la
sua ombrosità ancora più intrigante, più misteriosa. Presa dal
formicolare di affabili militanti lei però si era completamente
dimenticata che sarebbe venuto anche lui: proprio per questo
ricambia con un abbraccio un po’ esagerato.
Quando prendono posizione sullo stradone asfaltato la ra-
gazzona nello stesso tempo magra e grossotta constata con
acume filogenetico che i pletorici rospi non cercano in alcun
modo di evitare le automobili. Essendo stati programmati qual-
che centinaio di milioni di anni prima che comparisse la prima
auto, restano anzi incantati a guardare i fari: probabilmente le
prendono per coppie di lucciole giganti che volano appaiate.* Si
*
Come sempre spaccio per un’ipotesi quello che so per certo, come fa qualsiasi
scrittore che non voglia apparire (a chi, nel mio caso?) troppo saccente. Non
mi entusiasma, ma mi adatto ai trucchi insegnati nei corsi di scrittura creativa.

64
mette quindi di buona lena a dare man forte agli altri volontari,
munita anche lei di pila frontale e giubbotto riflettente. Rac-
coglie e accatasta gli anfibi nel secchio che le hanno affidato, e
poi quando è quasi pieno lo svuota con dolcezza sul pendio a
valle. Spesso però gli autistici autisti non capiscono, o fingono di
non capire, rifiutandosi di essere guidati nei zig zag tra le orribili
bestiole (ognuno è libero di avere le opinioni che crede, e tanto
più Dio). Proprio per i numerosi impoltigliamenti l’asfalto in
molti tratti è letteralmente coperto da una mucillagine scivolo-
sa: i mezzi di tanto in tanto slittano e sbandano come sulla neve.
Dopo aver preso atto dei vari elementi del problema la pic-
coletta prende in mano la situazione. Convince gli altri a or-
ganizzare una circolazione alternata. Per far questo bisogna
che i due volontari alle due estremità della discesa restino in
contatto telefonico, e che quelli sparsi sul percorso badino a
rimuovere i rospi dalla corsia di marcia. Nel tratto con l’alto
muro a valle, dove avviene il maggior numero di maciulla-
menti, accompagnati dalle indignate grida dei salvatori, fa
procedere le automobili a passo d’uomo. Dà ordini e quando
necessario non esita a essere brusca, ma tutti si adattano vo-
lentieri, perché la sua voce limpida come il vetro è sprovvi-
sta di velleità autoritarie. Affiora semmai, ma questo lo vedo
io, qualche fastidiosa tonalità da Madre Teresa di Calcutta.
La perticona è posizionata all’inizio del percorso, e è con-
tenta: le sembra di fare qualcosa di veramente utile. Le pia-
ce prendere in mano i rospi e posarli sul bordo della strada
verso valle, correre a salvare quelli che mostrano istinti sui-
cidi, battere le mani per fare avanzare quelli un po’ lenti.
Schizza con le sue gambe lunghe e abbondantucce in qua e
in là, grida, sgrida gli anfibi che battono la fiacca, terroriz-
za gli automobilisti che vanno troppo in fretta, si piazza in
mezzo alla loro corsia per farli rallentare. Il dongiovanni si
è appostato vicino a lei, e maneggia i rospi con una faccia

65
raggrinzita, come si raccolgono le cacche di cane. Dentro di
lui, posso dirlo senza timore di sbagliare, considera che ab-
biano fatto il loro tempo: non ci sarebbe niente di male se si
estinguessero. Ma ci tiene a starle incollato e allora si dà da
fare, beninteso seminando spiritosaggini: imita la voce dei
rospi, fa discorsi da rospo, canticchia delle arie d’opera. Lei
ride, perché le grandi capacità matematiche non rendono
certo più saggi.
Come sempre quella maledetta ragazza riesce a incollare
la mia attenzione: osservo come accoglie tra le lunghe mani
i rospi, quasi fossero vaporosi gattini, guardo come dà retta
al gattone, senza concedergli troppa confidenza ma forag-
giando quanto basta il suo testosteronico amor proprio. Mi
immagino, ma il verbo immaginare non rende l’idea della
nitidezza con la quale mi vedo la scena, l’amplesso che si
sta preparando. Sarà un tre a tre, me lo sento (espressione
poco adatta per una divinità, ma che qui suona bene). Cer-
co di pensare a altro, mi impongo di astrarmi. E invece l’ho
sempre sotto gli occhi. La vedo, e soprattutto vedo il seguito.
Se fossi meno magnanimo e meno tollerante, simile cioè
a come quei quattro scribacchini mi hanno dipinto nell’An-
tico Testamento, la farei investire da un’auto in transito, e
le farei battere la nuca contro l’asfalto: toc! Un filino di
sangue, e non se ne parlerebbe più. La corsa all’ospedale per
salvare la volontaria animalista è stata inutile, titolerebbero i gior-
nali locali. La giovane è deceduta prima di arrivare al pronto soccorso,
direbbero. Distoglierei finalmente gli occhi dalla Terra (di
terra vera e propria ce n’è in realtà solo una sottile pellico-
la), per un po’ mi occuperei solo di galassie e di stelle. Può
ringraziare il cielo che io non sia il crudele Dio del libro di
Giobbe, altrimenti sarebbe spacciata.

66
la buona coscienza degli ecologisti

Teoria dell’evoluzione o non teoria dell’evoluzione gli


uomini danno per scontato che io li prediliga agli altri ani-
mali, e li consideri superiori. Quando invece per me non
c’è molta differenza tra un uomo, un tricheco e una sar-
dina, e se un uomo schiatta non provo certo più tristezza,
diciamo così, che se schiatta un batterio o una rapa. Anzi,
in verità per molti aspetti preferisco le rape, che almeno
stanno zitte, e come molte altre crocifere hanno una bel-
la dignità vegetale. Per non parlare dei grandi mammiferi
marini, ai quali sono molto attaccato: come si può pensare
che io preferisca il peggiore degli uomini a un bel tricheco?
È puro delirio!
Ogni giorno gli uomini proseguono implacabili il ge-
nocidio delle specie animali e vegetali intrapreso ormai
da tempo, ogni giorno impestano un po’ di più quello che
chiamano ambiente (come fosse stato concepito per loro!),
ogni giorno approfittando della loro astuzia, non parlerei
di intelligenza, per raschiare il fondo del barile delle risorse:
considerano tutto ciò che gli torna utile una scorta a loro
esclusiva disposizione. Ormai la loro frenesia ha raggiun-
to la fase parossistica: stanno letteralmente sfasciando il
pianetino al quale la forza di gravità li tiene appiccicati.
A differenza delle colonie batteriche, che si avviano verso
l’annegamento nei loro stessi escrementi con una silenziosa
dignità, ce la mettono tutta perché l’epilogo si svolga nella
maniera più farraginosa e raccapricciante.

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Quello che spaventa negli uomini è proprio il fanatico
accanimento materialista. Ognuno di loro investe tutte le
sue energie fisiche e mentali (che non sono poche, a dispet-
to della scarsissima longevità) per sprecare e scialacquare
quanto più gli riesce, e non si dà pace finché non ha fatto la
sua parte di danni. L’unica cosa sulla quale si trovano d’ac-
cordo è proprio quella di combinare più disastri possibile: a
differenza per esempio delle formiche e delle api e di altre
specie gregarie non sono mai stati particolarmente solidali
tra loro, e lo sono sempre meno. Io non sono un intran-
sigente conservatore, intendiamoci, però non vedo perché
debbano sciupare e fracassare tutto.
La maggior parte dei cosiddetti ambientalisti, qui volevo
parare, sono ancora peggio: loro si credono meglio non solo
degli animali, ma anche dei loro congeneri che maltrattano
la cosiddetta natura e gli animali. Sono anzi persuasi che i
loro discorsi e le loro esternazioni contribuiranno a salvare
il globo terrestre dalla catastrofe: si considerano dei benefat-
tori. Approfittano pure loro della dilapidazione accelerata
di ogni cosa, vivono anche loro come nababbi, ma passano
il tempo a fare la lezione agli altri. A sentire loro l’uma-
nità potrebbe benissimo mantenere un tenore da albergo
a cinque stelle senza provocare alcuno scempio. A sentire
loro basterebbe che tutti usassero detersivi biodegradabili e
facessero la raccolta differenziata e mettessero un pannello
solare sul tetto per risolvere l’impiccio. Vorrebbero quel che
si dice la botte piena e la moglie ubriaca.
Lo immaginavo fin dall’inizio che una delle tante specie
avrebbe finito per prendere il sopravvento, e avrebbe mes-
so sotto le altre. A dir la verità mi sarei però aspettato che
fossero i leoni, o gli scorpioni, o qualche tipo di combattive
formiche. Non gli avrei dato un soldo, a quegli scimmioni
che perdevano sempre più peli e si davano sempre più un

68
tono da intellettualini. Pensavo anzi che si sarebbero estinti,
fragili com’erano, e con quei cuccioli così amorfi e mollicci,
inerti bamboloni di mozzarella. E invece con la loro gesui-
tica furbizia hanno saputo compensare l’inettitudine fisica,
e dagli oggi, dagli domani, hanno fatto secchi i vari nemici,
compresi quelli molto più forti, lasciandosi terra bruciata
alle spalle. Ci hanno messo un po’, ma hanno finito per
imporre la loro implacabile dittatura: la trovano normale.
Hanno però bisogno di lavarsi la coscienza, e allora firma-
no petizioni per difendere le balene, o le tigri asiatiche, o le
foreste tropicali.
le manacce dappertutto

Dio non è la mummia imperturbabile che molti credenti


si immaginano, su questo bisogna essere molto chiari. A Dio
piace seguire quello che succede nel cosmo, e se c’è bisogno
di intervenire interviene, il che non vuole dire necessariamen-
te fare piazzate o stragi in stile biblico. Certo, ci sono effettiva-
mente dei momenti (possono durare anche qualche milione di
anni) in cui me ne rimango per così dire in pantofole. Soprat-
tutto quando attorno a me non succede molto e anche spre-
mendomi le meningi non mi viene in mente nulla di impro-
crastinabile da fare: le stelle continuano il loro inesorabile ciclo
di vita, le galassie evolvono come devono evolvere, ma anche
a livello subatomico tutto procede come previsto. Non dico
che dormo, perché un dio non dorme mai, però il mio stato
non è poi così diverso dall’ibernazione degli orsi, o dal letargo
dei serpenti. Diciamo che me la prendo con molto comodo.
Poi però di botto la musica cambia: di punto in bianco
mi ritrovo a avere mille rogne da risolvere, milioni di affa-
ri da seguire. Corri di qui, corri di lì, tampona questo, ar-
gina l’altro, metti una pezza sull’altra: fatico quasi a stare
dietro a tutto. Ancora peggio da quando quell’incredibi-
le pasticcione e impiccione che è l’uomo ha cominciato a
combinarne di tutti i colori: guerre, massacri, epidemie,
sconquassamenti, distruzioni. Ai disastri collettivi va aggiun-
ta la miriade di crisi individuali: donne mezze morte di fame,
poveri ragazzini maltrattati, o tratti in orridi pericoli, stra-
zianti agonie. Sette miliardi di individui, ognuno con la sua

71
irresponsabilità, sono pur sempre sette miliardi di individui:
qualche volta mi sembra di essere un assistente sociale, inve-
ce che Dio. Altro che sprezzante nevrastenico della Bibbia!
Questa volta però non si tratta di un olocausto, o di un
assedio alle fasi terminali, quando i trincerati non hanno
più una goccia d’acqua da bere, e hanno la gola stretta dal-
la sete e dall’angoscia, ma solo di una ragazza dai costumi
sessuali un po’ troppo facili, che dà continue prove della
sua leggerezza. Non lo so nemmeno io, perché non riesco a
scollare gli occhi: non vedo nessuna spiegazione plausibile.
Non avrei mai creduto di potermi ritrovare in una situazio-
ne del genere. Se non fosse uno stato che non ha niente a
che fare con la divinità, e per certi versi anzi incompatibile,
direi che sono un po’ confuso.
Verso mezzanotte le auto sono ormai pochissime, e i ro-
spi in amore sembrano aver imparato a tenere la destra. Il
marpione improvvisa allora una lezioncina di astronomia,
accompagnata dall’omaggio di qualche quadretto di cioc-
colata allo zenzero: due notori afrodisiaci. Spente con due
clic sbadati la propria pila frontale e quella della stangona,
le indica le varie costellazioni e le singole stelle, disquisendo
sui colori che riflettono le temperature, sull’età, la velocità,
il tipo di fissione nucleare. Impacchettando in frasi molto
incisive le cose che sa, questo bisogna riconoscerglielo, le
parla poi a lungo della recente scoperta di Sagittarius A*:
pur essendo minuscolo quel buco nero è un milione di volte
più pesante del Sole, le dice, come si parla di un corridore
che vince sempre. Con la scusa di indicarglielo meglio le
sfiora quasi il seno – adora le donne con i seni di ragazzina
– e la irrora con il suo fiato saturo di ormoni maschili. E lei
non arretra, perché è ammaliata: sembra anche lei un rospo
abbagliato dai fari. Basterebbe che facesse un passo indietro,
e sarebbe salva. Continua invece a bere le sue spiegazioni,

72
che sono in realtà una nenia incantatrice, sul bucone super-
massiccio attorno al quale ruotano le centinaia di miliardi
di stelle della Via Lattea.
Eccoci, mi viene da pensare, quando il gagliardo seduttore
caracolla ancora di più verso di lei, e la bacia sulla bocca.
Certi avvenimenti sono talmente prevedibili che li vedrebbe
arrivare anche un bradipo ubriaco, senza scomodare le fa-
coltà divine. Eppure danno lo stesso noia. Lei non ci mette
troppo del suo, ma nemmeno lo respinge: constatando che
ha ormai via libera lui la stringe contro il parapetto di pietra
della vecchia strada, mettendole le mani dappertutto. An-
che questo faceva parte del copione, intendiamoci, però lei
poteva pur sempre dargli uno spintone, poteva correre via.
Niente di tutto questo: lo bacia anzi appassionatamente a
sua volta con gli occhi distanziati semichiusi, percorrendogli
il torace con il palmo della mano, come una persona intenta
a spannare un vetro. Nonostante il buio pesto io vedo la sce-
na come se fosse inquadrata da un riflettore, e sento anche
gli odori: le labbra di lei hanno un vago sentore di metallo,
direi rame, con però una punta di chiodo di garofano e di
galassia neonata.
È solo quando la macchina che sta arrivando li ha quasi
raggiunti che si disavvinghiano. Erano talmente presi dai
loro maneggi che non l’avevano nemmeno sentita, rischian-
do di venire investiti. E il bello è che non me n’ero accorto
nemmeno io. Qualche rarissima volta mi succede di essere
colto alla sprovvista, ma è molto strano. Loro hanno il cer-
vello annebbiato dalla dopamina e dagli altri ormoni ses-
suali, che sono le peggiori droghe che esistano, e anch’io
non mi sento tanto normale. È imbarazzante.
Ormai l’epilogo non può essere che una penetrazione al
di là del parapetto di pietra della provinciale: una piazzola
erbosa che sembra fatta apposta per quel tipo di esercizio

73
fisico a due. Il fantomatico tre a tre si avvicina. L’arrapato
apollo l’ha avvistato, il balconcino a picco sul lago, con il
suo acume probabilistico ne ha già soppesato pregi e difetti.
Ha stimato la distanza euclidea dei due volontari acchiap-
parospi più vicini, concludendo che le onde sonore scende-
ranno sotto la soglia di udibilità prima di raggiungerli. Ha
verificato che il preservativo infilato per ogni evenienza nella
tasca posteriore dei pantaloni sia ancora al suo posto. Io
sono lì mezzo incantato: mi preparo a una delle solite scene
vietate ai minori di diciotto anni.
Senza preavviso lei riaccende invece la lampada frontale
e si dirige con i suoi lunghi passi di trampoliere sovrappeso
verso la parte iniziale della salita, quella dove sta la picco-
letta. Il delfico giovanotto resta basito (a dire il vero non me
l’aspettavo nemmeno io): già si pregustava una penetrazione,
o almeno l’abbandono solipsistico di un pompino, come viene
definito. Ma soprattutto ha un gran timore che quella pazza
sia partita a spiattellare tutto alla sua fidanzata. Si gratta i
ciuffi romanticamente aerodinamici, mentre la vede diventa-
re un ballonzolante fascetto di luce nella notte, domandando-
si se non è andato forse un po’ troppo veloce, se ha sbagliato
per caso qualcosa. La sua legnosa erezione è solo un ricordo.
Senza darlo troppo a vedere si avvicina quindi anche lui,
tenendo ben rizzate le orecchie. Ha mal di pancia, e prova
un bisogno impellente di defecare.* La genetista però non
*
Se c’è una cosa che mi dà noia degli uomini, parlo dei maschi, è la
vigliaccheria. Fanno i gradassi, fanno credere e si convincono essi stessi
di essere coraggiosi come leoni, spendono e spandono, si pavoneggiano,
pontificano. E poi alla minima difficoltà diventano bambocci incapaci di
trattenere le feci: mugolano, piangiucchiano sulle loro sorti, elemosinano
un’ala compassionevole sotto la quale rifugiarsi. Tutti uguali, da che
mondo è mondo: l’unica differenza è che nel Paleolitico superiore non
c’erano ancora i telefoni portatili e i social network. Non so perché siano
venuti così male. Io ho fatto del mio meglio.

74
spiattella niente, sta semplicemente lì con la zoologa tasca-
bile, raccogliendo i rospi e posandoli con dolcezza materna
– magari accarezzandoli con il dorso delle dita – a valle
della strada. E anche la sua voce è più leggera e gioiosa, ora
che la luna sporca di bianco la superficie di piombo del lago:
pare essere infine contenta. Il fusto tira un sospiro di sollie-
vo, e guardando il suo telefono si dice che per fortuna (non
posso sopportare questa espressione) tutto sembra essere
sotto controllo. Proprio in quell’istante mette però il pie-
de su un anfibio spiaccicato sull’asfalto, e scivola. Cadendo
batte con violenza, proprio con estrema violenza, il gomito:
si sente un rumore come di ramo che si spezza di netto.
il riposo delle galassie

Questa vicenda ininteressante sotto tutti i punti di vista


mi mette a disagio, usando l’espressione che nel ridottissimo
campionario a disposizione si avvicina di più.* Ci penso – è
d’obbligo il corsivo – davvero troppo. È per questo che oggi
ho deciso di cambiare un po’ aria. Vagavo insomma dove
mi portavano i miei piedi divini (reattori atomici?), godendomi
l’aria buona (chiamiamola così) degli spazi extragalattici, e
ascoltando da lontano l’incessante lavorio delle galassie el-
littiche o spirale o anche globulari, che sono le più affollate,
e insomma più metropolitane. Gli uomini hanno un’idea un
po’ ottocentesca del cosmo, si immaginano sonorità postro-
mantiche, con sviolinamenti e muggiti wagneriani, quando
invece la sua musica è piuttosto una sequenza ininterrotta
di limpidi tintinnii intervallati da insistenti fruscii o rarefatti
boati, con improvvisi e per certi versi nevrastenici strappi
metallici. Qualcosa come un concerto di musica contem-
poranea.
Certo i pochissimi corpi celesti visibili dal pianetino chia-
mato Terra sono carini, e si può capire che abbiano ispirato
liriche e cantici caramellati da buoni sentimenti. Anche dal
buco di una serratura si possono vedere spettacoli degni di
interesse, se è per quello. Ognuno si accontenta di quello
che ha, è più che comprensibile. Niente può però eguagliare
*
Gli etnolinguisti si stupiscono dei linguaggi primitivi, che con uno
stesso termine abbracciavano concetti diversissimi, e non si rendono
conto che le cose non sono poi migliorate molto.

77
le struggenti immensità dell’universo, baluginanti di sem-
pre cangianti lucori, e di palpitanti cascate di stelle. Senza
parlare dell’incontaminatezza: se dio vuole nessun ficcanaso
ci ha ancora messo piede, escludendo qualche sgangherata
sonda terrestre con una ridicola autonomia chilometrica.
Senza volerlo – potrebbe sembrare ironico: non lo è –
sono capitato nei pressi di due galassie, una piccola e una
grande, che si stavano avvicinando una all’altra. La defor-
mazione della piccoletta, leggera ma già percettibile anche
a un occhio non divino, come il ventre di una donna verso
il quarto o quinto mese di gravidanza, rivelava che tra loro
era nata un’attrazione. Poi si sarebbero avvicinate ancora, e
la galassia bassina e cicciotta sarebbe stata risucchiata dalla
grande e slanciata, cedendo una parte della sua massa, o
anche annientandosi: un incidente che ha sempre un che
di conturbante. Questi sono spettacoli edificanti, queste sono vicen-
de che valgono la pena di essere guardate, mi dicevo, ritrovando
la serenità che sempre pervade il mio cuore, chiamiamolo
così, di fronte alle scene (scenografie?) cosmiche. Gravitazioni
senza superfluo scialo di sentimenti, senza stucchevoli ro-
manticherie, o parole inutili: grandiose proprio per la loro
austera astrattezza. Ho tutto il tempo, me ne sto qui fino alla fine,
mi dicevo, cercando di ottimizzare il mio angolo prospettico
e mettendomi per così dire comodo. Come si allungano le
gambe assistendo a quei film d’autore molto lunghi in cui
succede in fondo molto poco, anzi quasi niente, ma che con
la loro perfezione stilistica avvincono chi ha gusto.
Se c’è una cosa che mi rasserena e che mi fa sentire dav-
vero divino, sono le relazioni tra galassie. Sarà l’eleganza
delle traiettorie, preziose coreografie studiate nei minimi
particolari, sarà l’inesorabile lentezza, e il senso di strug-
gente malinconia, ma anche di pace, quasi di allegria, una
allegria appunto affranta, che ne scaturisce, fatto sta che

78
dimentico tutto il resto, e sono felice. Beninteso un dio è
sempre felice – ci si immagina male un dio scontento, e ma-
gari lamentoso – ma come dire, lo sono lievissimamente più
del solito: quando si è per definizione perfetti tutto si gioca
nell’ambito di microscopiche sfumature.
Però parliamoci chiaro: in bocca mi era spuntato un re-
trogusto non del tutto gradevole (in mancanza di bocca,
papille gustative e via dicendo, la metafora non va presa
alla lettera), che non faceva che aumentare. Guardavo le
due galassie che convergevano una verso l’altra, e mi dicevo
che anche la stangona era destinata a sbattere contro un
corpo con una densità e forze gravitazionali infinitamen-
te maggiori alle sue, seppure di dimensioni minori. Certo
i tempi erano molto diversi, in quel caso era questione di
giorni, non di decine di milioni di anni, ma il prevedibile
seguito, come era ormai successo centinaia di miliardi di
volte nella storia del cosmo, sarebbe stato che il dongiovanni
le avrebbe sottratto una parte della sua materia, e avrebbe
continuato imperturbabile per la sua strada. O addirittura
l’avrebbe spietatamente fagocitata, festeggiando con un rut-
tino il saporito boccone.
Ero io stesso stupito da quello che pensavo: non mi era mai
capitato di cogliere nell’incontro di due galassie il simbolo
di qualcos’altro. In altre parole mi ero rovinato lo spettaco-
lo. Insomma, ho lasciato le due belle signore al loro destino,
e me ne sono tornato a casa. Come dire, il posto dove sto
di solito, e che è piuttosto una localizzazione mentale/spi-
rituale. Forse quello che mi ha fatto muovere le chiappe,
per usare una tantum quest’espressione alquanto trasandata,
è stato il pensiero che se me ne stavo lì fino alla fine poi della
spilungona non avrei trovato la minima traccia. Nemme-
no un dente sarebbe restato, di quella poveraccia, tra qual-
che milione di anni. Mi sarei forse imbattuto in schiere di

79
coccodrilli, e altri orrendi animalacci con le fauci sguainate
tipici di climi più caldi di quello attuale. Forse anche iguane.
Migliaia di iguane che battevano l’ex pianura industrializ-
zata un tempo abitata dai bipedi, ormai estinti, e che adesso
era diventata una palude tropicale. Iguane che non hanno
nessuna voglia di scherzare, iguane che mordono.*

*
Dei coccodrilli, che hanno sempre morso e sempre morderanno, è inutile
parlare: sono io che li ho creati così, mi assumo tutte le responsabilità.
D’altra parte, se non avessi organizzato le cose in questo modo, invece
di una catena alimentare avrei ottenuto un sovraffollato centro di
accoglienza: la natura sarebbe subito andata in tilt. L’unica soluzione
era che gli animali grossi divorassero quelli piccoli, non potevo lasciarmi
prendere dalle remore sentimentali.
il concorso di bellezza

La stangona ha fatto le fotocopie e ha preparato le innu-


merevoli scartoffie necessarie per partecipare al concorso
per il nuovo posto nel suo laboratorio. Lei non conta di vin-
cere, come sempre ha la testa monopolizzata da arzigogo-
lati algoritmi, però qualcosa in lei sa che ha molti più titoli
degli altri, e le mormora che se vincesse non avrebbe ogni
anno il patema d’animo di venire eliminata come si cesti-
nano i fazzolettini usati. Conterebbe forse qualcosa di più,
potrebbe magari riuscire a portare avanti alla luce del sole
le sue ricerche sulla pila a batteri. Se lo vincesse.
Ma non lo vincerà. Mi verrebbe da dirle che è inutile per-
dere tempo con tutti quei formulari e quelle dichiarazioni
di avere il sangue color sangue e le unghie all’apice delle
dita. Non occorrono particolari doti divine, basta la logica:
trionferà la nuova dottorata, che è lì solo da qualche mese
ma è diventata in quattro e quattr’otto la protetta del diret-
tore del laboratorio. Non è la sua amante, e la sua abilità
sta appunto nel lasciare aperto uno spiraglietto di speranza,
senza concedersi.* Va considerato che somiglia un po’ a una
nota valletta televisiva, elemento che sull’arduo cammino
concorsuale ha l’effetto di un doping. La stangona invece fa

*
Cosa ottimale per tutti, perché in fondo nemmeno lui vuole una relazione
extra coniugale. Come dire, ne desidererebbe i vantaggi, ma non gli
inconvenienti, e in primo luogo il timore di essere scoperto dalla moglie
tedesca, la quale presiede una agguerrita associazione che si occupa di
donne maltrattate.

81
pensare a una cavalla stufa di essere sempre nello stesso re-
cinto.
Lei però queste correnti sotterranee non le coglie, per-
ché è tutta presa dalle sue ricerche clandestine, che hanno
sempre più successo, e i cui dati arrivano ormai in diretta
alla rete informale di prestigiosi cervelli mondiali: un altro
potentissimo elemento a suo sfavore, se il suo capo maneg-
gione ne venisse a conoscenza. La si può vedere in realtà
come una sorta di Giovanna d’Arco, animata dalla sua mi-
stica adorazione per la scienza, in nome della quale non esi-
ta a sfidare la gerarchia ecclesiastica e mettersi in pericolo.
Non ci pensa al bacio notturno del climatologo. O meglio,
ci pensa ogni tanto, come i telespettatori rimuginano episo-
dicamente su un programma visto senza convinzione. Be-
ninteso un po’ alla volta scoprirà che è attratta, e poco dopo
che è innamorata, per la prima volta davvero innamorata: uso
questa espressione avulsa dalla fisiologia per attenermi alle
convenzioni retoriche in materia.
Lui invece ci pensa giorno e notte. Questa volta non è
una semplice attrazione genitale, è qualcosa di diverso, gli
sembra: più ci pensa più si inebria, più lei gli sembra deside-
rabile. Secondo i canoni tradizionali non è molto bella, ma in realtà è
bella, si dice. Perfino il suo catastrofismo climatico è diventa-
to meno aggressivo, più gioioso, per certi versi quasi baldan-
zoso. E questo nonostante la frattura multipla. Purtroppo
la prima ingessatura non era fatta secondo i crismi, quindi ha
sofferto parecchio: la salute degli uomini è sempre alquanto
precaria, non ci si può fare niente.
Non dovrebbe importarmi nulla di questi maneggi, i cui
meccanismi conosco meglio di chiunque altro. Che si spo-
sino, che facciano quattordici figli, che si suicidino in cop-
pia: per me non cambia proprio niente. Ho miliardi di altri
uomini da osservare, miliardi di miliardi di animali di ogni

82
tipo, miliardi di miliardi di miliardi di interessantissime stel-
le. Senza contare le numerose guerre in corso, le spietate
attività terroristiche, le carestie, le altre catastrofi naturali
legate o meno ai cambiamenti climatici, i focolai di malaria
e di colera, le odissee dei rifugiati, e via dicendo. E invece
ci penso spesso. Mi sembra incredibile che una persona così
intelligente – in quanto a intelligenza è intelligente, non c’è
che dire – non veda che il cascamorto si stuferà anche di lei,
dopo avere ottenuto quello che vuole, e farà sfilare di nuovo
la rubrica del cellulare. E lei rimarrà con il culo per terra, se
posso usare quest’espressione non proprio raffinata. Senza
lavoro e senza fidanzato.
L’efebico furbone si accorge di avere voglia di rompere:
più ci pensa più gli sembra che le ubbie ecologiste della
piccola e quel suo sogno di fare la contadina medioevale
siano proprio insopportabili. Si rende però conto che la si-
tuazione è delicata, che deve muoversi bene. Se farà le cose
a regola d’arte, si dice, non ci sarà alcun pericolo di inter-
ferenze incontrollate. E invece lei ha già mangiato la foglia da
un pezzo, perché per queste cose le umane hanno antenne
lunghe come quelle dei grilli. Ha registrato i suoi trucchetti
per stare incollato alla ragazzona la sera dei rospi, ha fo-
tografato la sua confusione testosteronica quando è ricom-
parso: ne ha dedotto che probabilmente l’ha baciata, come
ha baciato lei qualche anno prima, come ha baciato tante
altre mentre stavano assieme, ogni volta giurando, quando
veniva scoperto, che era l’ultima. Dovrebbe essere gelosa,
e un po’ forse lo è, ma molto meno di quanto si sarebbe
aspettata: se ne stupisce lei stessa.

83
il mio immenso senso estetico

Se si immagina che Dio non abbia alcun senso estetico, si


sbaglia di grosso. Se c’è anzi uno che apprezza le cose belle
e che fa di tutto per conservarle e valorizzarle, sono proprio
io.* Se non avessi la passione delle cose belle, per intender-
ci, avrei pensato solo alla funzionalità: avrei concepito gli
alberi come informi brodaglie gelatinose, qualcosa di simile
a una ributtante fanghiglia di reflui industriali. Al posto dei
tramonti avrei messo luci al neon che si spengono di botto,
al posto delle cascate fasci di tubature arrugginite, al posto
dei fiori obbrobriose trappolacce che attirano gli insetti con
ormoni puzzolenti. Detto senza vanagloria alcuna ho sapu-
to sfornare una montagna di meraviglie.
Nessun tignoso filosofo (e ce ne sono stati tanti) ha mai
sostenuto che il mondo fa ribrezzo e la natura è orripilan-
te, e nessun ingrugnato naturalista ha mai argomentato che
nel regno animale o in quello vegetale ci sarebbe tutto da
rifare. Così come nessun contorto poeta ha mai decanta-
to la sgradevolezza del mare o della propria innamorata.
Tutti i grandi uomini – per me è un po’ come dire tutte le
*
Gli uomini primitivi lo sapevano bene: mi offrivano commoventi
statuette e altri oggettini votivi davvero carini. Erano convinti che fossi
una grassona con fianchi ridondanti e seno felliniano, e non c’era verso
di fargli cambiare idea, ma insomma mi adoravano come potevano.
Appena hanno capito un po’ meglio come stavano le cose, si sono poi
lanciati in altari intagliati nella pietra, templi, chiese, cattedrali, statue
dei materiali più diversi, affreschi, quadri con sontuose madonne e santi
barbuti, collanine, ostensori: fa sempre piacere ricevere regali graziosi.

85
grandi formiche, o tutti i grandi pidocchi – hanno semmai messo
l’accento sull’incredibile magnificenza del creato e sulla sua
perfezione: si sono commossi, hanno partorito scaffalate di
versi e auliche metafore. Lo considero un bel successo, te-
nendo conto di quanto sono criticoni gli uomini.
Ammetto di esserne rimasto stupito io stesso. Creavo e
creavo, senza potermi fermare, e quello che mi colpiva, più
ancora dell’enorme quantità di oggetti e della stravolgente
varietà morfologica e dimensionale, era proprio lo splen-
dore di ogni singolo pezzo. Slanciate pantere, incantevoli
palme, ieratiche giraffe, superbi trampolieri, elegantissime
orchidee, sofficissimo e verdissimo muschio, luccicanti coc-
cinelle, struggenti margheritine. Sono proprio io che dal nulla
creo tutte queste magnificenze? mi chiedevo. Si ha un bell’essere
dio: una cosa è dare vita a oggetti e esseri dozzinali, anche
se ineccepibili dal punto di vista tecnico, un’altra è scodella-
re pezzi per così dire da raffinata galleria d’arte.
La tentazione sarebbe stata quella di prendere visione
con calma di ogni singola novità, come un qualsiasi visi-
tatore di un museo delle scienze. Bisogna tenere presente
che una cosa è incappare in un leone quando se ne sono
visti a bizzeffe alla televisione, un’altra è contemplarne uno
da una distanza molto ravvicinata quando ancora non si sa
niente dei leoni. Morderà? mi chiedevo. Farà le uova? Andrà in
letargo? Certo se mi concentravo la risposta mi veniva, visto
che so tutto, però nella frenesia creativa non ero più sicuro
di niente. Non esistono pause sigaretta e tanto meno orari
sindacali, quando si crea. Dovevo continuare a creare.
I cosiddetti artisti contemporanei espongono corpi tra-
fitti, pezzi di lavatrici, legni spiaggiati, ferrami, pietre, foto-
grafie di organi genitali o di cadaveri di anziani, segatura di
polistirolo, flaconi di medicine, donne nude (vive), o anche
solo i loro stessi escrementi: il pubblico finge di essere in

86
qualche modo interessato. Sembrerebbe proprio che non
ci sia più nessuno che sa tenere un pennello in mano,
nell’epoca degli schermi e della globalizzazione dell’idiozia.
A me piacciono invece le opere la cui armonia ricorda che
nell’universo c’è un ordine, e che dietro quell’ordine ci sono
io. Se l’artefice fosse un altro, dico per assurdo, sarei pron-
tissimo a riconoscerne i meriti, non è vanagloria. Mi incan-
tano per capirci gli elettroni che vorticano come infaticabili
dervisci attorno ai nuclei di certi atomi molto piccoli, mi
mandano in visibilio le molecoline trasparenti di acqua, i
vispissimi e ostinati raggi X, gli alveari ben ordinati di cellu-
le nei tronchi degli alberi, i gorghi di magma incandescente
nel cuore del pianeta. Adoro farmi piccolo piccolo, e ag-
girarmi tra i quark come se fossero imponenti e magnifici
palloni aerostatici.
Le bellezze più incredibili si trovano però nel cosmo: pro-
babilmente solo l’acido lisergico può dare a un essere uma-
no una pallida idea dell’apoteosi di sfavillamenti e fosfore-
scenze, cangianti come geometrie effimere di un caleido-
scopio, e degli odori selvaggi, quasi eccessivi, o tenuissimi e
vagamente minerali, appena più insistenti di fiochi ricordi,
che le accompagnano. Chi potrebbe negare la mia gran-
dezza, di fronte a spettacoli di questo genere? Non certo gli
astrofisici, i quali si ostinano a spiare l’universo attraverso i
loro ridicoli osservatori e cannocchialini (a loro sembrano
enormi) e cercano di capirci qualcosa con i radar e altri
flebili sensori.* Qualche volta mi dico che dovrei portarli
a fare un giretto accanto alla bocca spaventosa ma anche

*
Sarebbe come giudicare una bella donna da una serie di radiografie e
di ecografie, perdendosi la finissima grana della pelle elastica e tiepida, la
dolce armonia delle forme, le minute ma struggenti crepacciature delle
labbra, e via dicendo, il tutto messo in valore dalla piacevolezza dei vestiti
e degli ammennicoli.

87
affascinante di Sagittarius A*, senza andare tanto lontani.
Si renderebbero conto che i loro sterili calcoli e calcolini
non sono più illuminanti della conta del numero di atomi
contenuto in un bocciolo di rosa, e si arrenderebbero alla
bellezza, che si porta sempre dietro una zavorra di mistero.
Negli ultimi tempi mi capita però di pormi strane doman-
de. Cos’è la bellezza? mi chiedo per esempio. Per me, tanto per
essere concreti, una bella ragazza, quella che gli uomini considerano una
bella ragazza, è davvero bella? Naturalmente no, mi rispondo, perché
nel concetto stesso di bella ragazza c’è una componente di
triviale desiderio carnale che apre una vetrina, per chi avesse
bisogno di documentarsi, sui bassifondi istintivi della psiche
umana. E non parliamo di espressioni politicamente scorret-
te, seppure molto utilizzate, come per esempio bella gnocca. Se
io quindi dicessi, ammettendo per assurdo che parlassi con
qualcuno, che ho visto una bella ragazza, si dovrebbe pren-
derla come un’inappellabile garanzia di integrità: la mia bella
figliola non sarebbe solo molto bella, ma anche moralmente
certificata. Una madonna, una santa. Al contempo un bel
corpo resta pur sempre un bel corpo: come dare a ogni fat-
tore il giusto peso? Come apprezzare le doti morali, senza
castigare il fisico? Come non farsi accecare dalla morale, che
come tutti sanno in men che non si dica diventa moralismo?
La stangona, per fare un esempio, è bella? mi chiedo. Secondo
i criteri umani ha le mani e i piedi troppo grandi, le spal-
le troppo larghe, la faccia troppo lunga, gli occhi troppo
distanti, la bocca troppo larga, e soprattutto il sedere e le
cosce troppo abbondanti, per essere considerata una bom-
ba di ragazza. E certo quei pesanti occhiali da scienziato
e le treccette da lolita punk non la valorizzano. Eppure io
ora trovo che abbia magnifici occhi, splendidi capelli, fan-
tastiche caviglie. Quindi per me è infinitamente più bella di
molte attrici o indossatrici considerate insuperabili.

88
Ma sono sicuro che questa lingua sciancata non mi ab-
bia già contaminato con qualche istanza umana, come una
micidiale infezione ancora alle primissime fasi? No, non ne
sono sicuro. Anche senza voler essere troppo bacchettoni è
impossibile equiparare la ragazza in questione alla supposta
madre del mio supposto figlio: una madonna non ha tutti i
rapporti sessuali improvvisati e senza seguito che ha lei, non
ruba i crocifissi e li brucia, non passa le nottate a cercare
di mandare in tilt il sito del Vaticano. A essere sincero, e lo
sono sempre, devo purtroppo rispondere che non sono più
sicuro che il mio apprezzamento sia al cento per cento divi-
no. Il che mi mette in crisi.
gli occhi preistorici dellʼiguana

Appena lei appare sulla soglia del loro appartamentino


adibito a zoo di beneficienza Vittorio le mette in mano un
regalo: una scatola di una famosa marca di scarpe da ginna-
stica – non sto certo anch’io a fare della pubblicità – piena
fino all’orlo di crocifissi. Sono proprio belli! esclama la stango-
na, tuffandoci la mano e muovendoli con le dita, come i pe-
scatori che distinguono a colpo d’occhio i pesci che valgono
di più e la moneta corrente. Sei proprio bravo! ripete, conti-
nuando a scavare tra i cristi, e ogni tanto estraendone uno
per guardarlo meglio. Presa da un raptus di simpatia tende
il suo lungo collo in avanti e gli dà un bacio sulla guancia.
Se c’è una cosa che mi fa ridere sono proprio gli atei mi-
litanti. Per loro l’universo s’è generato da solo, così come la
Terra, gli animali che la abitano, le piante, e naturalmente gli
uomini. Senza alcun intervento esterno, alcuna ragione ulti-
ma: colpettino di bacchetta magica e tutto esisteva, tutto funzio-
nava alla perfezione. Non sono certo i soli, del resto: anche i
bambini credono che tutti i regali vengano da Babbo Natale.
Quando questi stessi signori montano sulla loro automo-
bile sanno bene che il complicato congegno che li scorrazza
non si è costruito da solo, ma è stato progettato e fabbricato
da qualcuno che ci sa fare. Vedono bene che il volante e la
leva del cambio, per non parlare del motore e del sofistica-
to sistema antislittamento delle ruote, non sono cosette che
si improvvisano all’impronta, e che c’è dietro un sacco di
lavoro. In quel caso, guarda un po’, non sono così ingenui

91
da credere che la perfezione, o qualcosa che tende a essa,
sia apparsa di notte in un campo di cavoli. Se però vedo-
no una regale sequoia, una slanciata giraffa che bruca, un
magnifico airone sospeso nel cielo, una catena di montagne
mozzafiato o qualsiasi altra meraviglia in natura (come se ci
fosse qualcosa di naturale!), non importa quanto elaborata e
quanto perfezionata, ridiventano candidi come pinguini, e
invocano la generazione spontanea. Invece di venerare me
venerano l’Evoluzione. Anche per quanto riguarda le auto-
mobili potrebbero appellarsi alla selezione naturale, se è per
quello: veicoli sempre più efficienti, sempre più belli, più
grandi, grazie all’Evoluzione.
La zoologa zoofila parrebbe molto contenta che la loro
nuova amica sia venuta da loro. Non sembra far conto del
bel compagno, come del resto nemmeno il pappagallone
bianco che ha sulla spalla. L’aria che si respira è quella di
una tregua, tipica di una coppia sazia di litigi. Lui è fiero
della sua giacca da spazzino maoista, e ha ancora il braccio
appeso al collo. Purtroppo per qualche strano motivo (papali pa-
role del traumatologo) la frattura tarda a rimarginarsi. Siste-
mato il pappagallo sul suo trespolo e fatta la presentazione
degli altri numerosi uccelli assiepati in una grande gabbia
accanto al frigorifero, si mettono a tavola.
Mentre mangiano il gelato al basilico previsto come anti-
pasto la stangona lancia un grido e scatta in piedi: ha avvi-
stato un serpente verde bottiglia che striscia mellifluo contro
la parete opposta della cucina, quella del frigorifero. Avan-
za senza fretta, ma con un’andatura pur sempre ostinata
di serpente. La piccoletta invece di imitarla guarda l’ani-
male come fosse un amico che si è finalmente deciso a fare
apparizione dopo la siesta. È proprio carina, no? dice con un
sospiro di tenerezza. La ricercatrice si accovaccia sulla sedia
tenendo i piedi sul ripiano, e dice che le hanno sempre fatto

92
impressione i serpenti. L’apollineo convalescente la guarda
come per farle capire che è assolutamente normale.
È molto velenosa? chiede la ragazza appollaiata sulla sedia.
Con voce esitante e come a malincuore la piccola animali-
sta risponde di sì. Ma lanciando un sorriso da cerbiatta al
pappagallo, quasi per rassicurarlo, le spiega che in realtà è
rarissimo che i serpenti mordano, e anche quando mordono
il più delle volte non iniettano il veleno: sono animali molto
pacifici. La stangona chiede al seduttore se gli capita spesso
di avere serpenti che bazzicano per casa, e lui sospirando
risponde: abbastanza.
Se ci sono delle bestie che non mi sono mai piaciute sono
proprio i serpenti.* Qualche volta mi dico che ho fatto male
a crearli, anche se naturalmente dopo i topi di campagna
e le talpe ci voleva un qualche tipo di bestiaccia per con-
tinuare il ciclo trofico, e meglio di tutti erano pur sempre
animali che strisciassero a terra, in modo che i grandi uc-
celli potessero avvistarli dall’alto e scendere a arraffarli. Se
ci attaccavo delle zampe, quelli al minimo segno di pericolo
mettevano le gambe in spalla: addio chiusura del ciclo del carbo-
nio. Se invece ci appiccicavo delle pinne si sarebbero buttati
in acqua, e anche in questo caso gli uccelli rapaci sarebbero
rimasti a stomaco vuoto. Bisognava che fossero proprio così,
lunghi salami flessibili, senza appendici che facilitassero la
fuga, senza orecchie da drizzare in caso di minaccia.
La zoologa chiede alla spilungona se vuole toccare la vi-
pera (si tratta di una Vipera ammodytes, alias vipera con il cor-
no), e senza aspettare risposta afferra il serpente per il collo,

*
Nel mio caso non si tratta di impressionabilità, e men che meno c’entra il
ruolo di cattivacci che una certa religione nota a tutti – con questo scritto
che nessuno mai leggerà non intendo certo tirare acqua al mio mulino –
ha affibbiato loro: la mia diffidenza era già lì molti milioni di anni prima
che quelle credenze apparissero.

93
sollevandolo con fermezza. L’animalaccio pende dai due lati
della sua mano alla maniera di un pezzo di corda, e si lascia
effettivamente accarezzare come farebbe un gattino. Ogni
tanto spalanca la bocca, ma non sembra davvero arrabbiato.
Lo sai che non devi andare in bagno, che ci sono i topolini, lo ammo-
nisce la piccoletta come si parla ai bambini un po’ discoli.
Il figone (pesco questo termine poco elegante dalla cor-
teccia dell’emisfero sinistro della genetista) le spiega che il
bagno del loro appartamento è in realtà un’unità di riani-
mazione per animali in crisi. Quando un cittadino trova un
pipistrello con l’ala rotta o un’anatra che zoppica, cosa fa?
Telefona ai vigili urbani, e quelli consigliano di rivolgersi al
Museo di scienze. In nove casi su dieci dal Museo gli ani-
mali malmessi finiscono da loro, dove vengono imboccati,
incerottati, steccati, e ricevono le medicine del caso. Dal
loro bagno sono passati tassi investiti da automobili, aqui-
lotti fulminati dai fili dell’alta tensione, gufi impallinati dai
cacciatori, volpi che hanno fatto indigestione di pesticidi,
marmotte insonni, ricci depressi, gatti caduti dai poggioli,
anatre con la bronchite, e via dicendo. Una volta ristabili-
ti i convalescenti vengono riaccompagnati nel loro habitat.
L’iguana invece è un caso a parte, perché ha messo radici.
Sempre tenendo la vipera come se fosse una cravatta e
accarezzandola, la piccoletta ribatte che prima o poi l’igua-
na andrà a vivere con qualcuno che le vuole bene. Il bel-
limbusto zoofobo alza due dita, che a quanto pare vogliono
dire due anni. E aggiunge che ogni nuovo candidato viene
implacabilmente bocciato, perché non viene giudicato ab-
bastanza devoto alla causa iguanesca. Quindi la lucertolona
continuerà a sbafarsi chili di carote biologiche e a cresce-
re, finché diventerà un brontosauro. Il tono vorrebbe essere
scherzoso, ma dalla voce è chiaro che è esasperato (o vuole
mostrarsi tale).

94
Ti interessa vederla? chiede la cerbiatta alla cavalla, invece di
polemizzare con il suo fidanzato, scoprendo le gengive color
gengiva, come sempre quando sorride con trasporto. Lei
diventa rossa, tanto questa proposta inaspettata la prende in
contropiede. L’erpetofila posa allora la vipera a terra, dan-
dole un buffetto sul collo, come si dà una pacca sulle spalle
a un cane. E rassicura con una cenno il pappagallo, che ha
scosso più volte la testa come uno scatenato cantante rock.
L’iguana occupa quella che è stata la stanza da letto
dell’appartamento, ora trasformata in camera da iguana,
con lampade riscaldanti e tutto. Acquattata sul ramo più
alto dell’albero senza foglie incastrato contro il soffitto sem-
bra che dorma: non si muove di un millimetro. Le guarda
però pur sempre con i suoi occhietti preistorici da iguana.
Posso toccarla? chiede la microbiologa. La piccoletta le dice
che basta che eviti i movimenti bruschi, visto che non si
conoscono. La accarezza allora sul dorso come fa con le
mucche, accogliendo nella mano il calore. Con la differenza
che l’iguana è appena tiepida. Da come questa fissa la sua
mentore, e da come lei si mette a scuoterle per gioco le cre-
ste attorno alla testa, è chiaro che se la intendono benone.
Chi non sembra essere entusiasta è il pappagallo: si stringe
contro la testa della sua servitrice (lui vede le cose così), con
le penne del collo rizzate.

95
la lingua umana mi vince

Qualche volta mi sembra di non essere più io. Sono e re-


sto Dio, e conservo tutte le prerogative e le facoltà di un dio
unico, su questo non ci piove (vorrei ben vedere che potesse
piovere su un’affermazione, come piove sul parcheggio di un
supermercato o su un campo di cavoli), eppure a momenti
ho l’impressione che le cose non vadano più per il verso giu-
sto. Me la prendo coi serpenti, che poverini non hanno mai
fatto male a nessuno, a parte immischiarsi nella famigerata
cacciata dal Paradiso, sempre ammesso che non sia anche
quella una trovata di un aedo con la fantasia galoppante: io
non ricordo niente del genere. E invece di dedicarmi a qual-
cosa di meglio,* sto lì a fissare – come un povero scienziato
stregato dai microbi all’altro capo del microscopio – quei tre
ragazzi in una cucinetta senza attrattive di una multietnica
periferia sul minuscolo pianeta di una stellina di una piccola
galassia fantasiosamente nominata Via Lattea.
Stando alla teoria non dovrebbe importarmi proprio un
fico secco (sic) che questo avvicendamento di partner sessuale,
visto che è lì che si va a parare, venga effettuato in tempi più
o meno rapidi, o piuttosto vadano tutti e tre a buttarsi giù da
una rupe, o siano vittime di un orribile incidente stradale. E
invece ho l’impressione di sperimentare qualcosa di molto
*
Un ventaglio di possibilità che va dall’assistere dal palco presidenziale, si
potrebbe dire, allo spaventoso strizzamento gravitativo di una stella che ha
finito il carburante, alla doccia di raggi X di una nana bianca, o al surfare
nello spazio-tempo a cavallo di una gigantesca onda gravitazionale.

97
diverso dal solito, qualcosa che sembrerebbe apparentarsi
a una di quelle dozzinalissime turbolenze umorali, o per la
precisione endocrine, che sono alla radice dei melodram-
matici sospiri dei bipedi,* dei disastri che combinano, della
loro ostentata e inguaribile (nonché noiosissima) infelicità,
e in definitiva del grandioso suicidio collettivo che stanno
preparando. Faccio fatica io stesso a crederci.
Dovrei smettere di scrivere. Smettere di pensare e smet-
tere di scrivere. In quattro e quattr’otto la situazione si ag-
giusterebbe: schioderei finalmente gli occhi dalla cosiddetta
Via Lattea e tornerei a contemplare il cosmo, che tanto mi
piace. Vedrei sfilare i milioni di anni senza nemmeno accor-
germene, come ho sempre fatto. Sarei di nuovo felice come un
papa (non saprei come altro dirlo).
È una fatica titanica battersi con una lingua che non è
pensata per un dio. Ogni frase che dico deforma il mio pen-
siero (per chiamarlo ancora così), mi fa dire corbellerie che
non vorrei dire, che mi ripugna dire. Ogni volta parto dalle
mie somme visioni e dalle mie sublimi idee, e quello che mi
ritrovo tra le mani sono affermazioni intrise di meschinità,
interessate, volgari, per non dire perfide, nelle quali mi è
impossibile riconoscermi. Mi sforzo di scansare ogni scivolo
o trappola, di fare ancora più attenzione, e il risultato è an-
cora più costernante. Ho un bel essere Dio, la lingua umana
mi vince. È un’esperienza per certi versi sconvolgente, se
solo un dio potesse essere in qualche modo sconvolto.
Se mi ritrovo in questa incresciosa situazione è perché
sono un dio unico. Se avessi dei colleghi (chiamiamoli così),

*
Andrebbe forse precisato che all’inizio non erano bipedi: ognuno ha in
mente la figura con lo scimmione dapprima a gattoni e poi sempre più
eretto, fino a arrivare alla versione incravattata. Ma lasciamo stare: sono
sicuro che moltissimi teologi non gradirebbero raffigurarsi Adamo che
passeggia a quattro zampe.

98
certo avremmo messo a punto una nostra ineccepibile lin-
gua, nella quale miliardi di miliardi di parole schizzerebbero
come scintille in tutte le direzioni, invece di susseguirsi pe-
dissequamente in fila indiana come stupide formiche: una
lingua tridimensionale, e con una sintassi che nemmeno in
centomila anni di sforzi sovrumani i linguisti più perspica-
ci riuscirebbero a decriptare. Una parlata eterea, univoca-
mente cristallina, avulsa da tutte le bassezze, le brutture, i
sentori pestilenziali che accompagnano ogni azione umana
come un ineludibile corteggio di elettroni. E che anzi espri-
me solo la pace e l’ordine e l’armonia. Certo allora non mi
sentirei un ex re ridotto a andare in giro vestito di stracci, e
costretto a frugare nei bidoni della spazzatura alla ricerca di
qualche resto utilizzabile.
lʼaffondamento del titanic

Tornati a tavola i tre ragazzi mangiano lo sformato di


miglio con guarnitura di fichi d’India biologici preparato
dalla piccoletta, innaffiandolo con il vino turco, non biolo-
gico, portato dalla ricercatrice post-punk. Proprio buono questo
pasticcio con il ragù di cinghiale, commenta Vittorio. A quanto
pare vuole fare lo spiritoso per piacere all’invitata. Questo
deficiente è carnivoro, sospira la piccoletta, come parlando di
qualcosa di raccapricciante. Sei solo tu che sei erbivora, tutti gli
altri qui sono onnivori, ribatte il bellone, cercando la complici-
tà della nuova amica. Lei sorride a entrambi con la faccia
contratta in una maschera di impalato dolore, come si fa
davanti alle coppie che si punzecchiano in pubblico.
La zoofila in via di cornificazione spiega poi che ha smesso
di mangiare animali fin da ragazzina: non le andava di mette-
re in bocca pezzi di cadaveri (crudi o cotti che fossero) di esseri
che non sono altro che reincarnazioni di uomini, o che prima
o poi lo saranno. Ma anche le salme dei pesci le fanno lo stesso
effetto. Io purtroppo vengo da una tribù di cannibali, mio padre adorava
le dita di bambino piccolo, la interrompe l’avvenente compagno.
Ti capisco benissimo, anch’io non mangio volentieri la carne, anche se
qualche volta lo faccio, se ne viene fuori la genetista, rivolta alla
piccola. Lo spiritosone resta con la forchetta piantata in aria.
La combattiva nanerottola è raggiante. Sentenzia che tre
quarti dei cereali coltivati vengono trasformati in cacca di
animale da allevamento, notoriamente non commestibile,
e questi ruttano metano, un terribile gas a effetto serra. E i

101
pesci pescati vengono polverizzati per nutrire pesci di alleva-
mento e polli e maiali, e diventano insomma milioni di ton-
nellate di merda intrisa di antibiotici e altre inquinantissime
porcherie. E i carnivori non fanno che aumentare, mano a
mano che i paesi poveri perdono la loro spiritualità e si con-
vertono al cannibalismo globalizzato. E ormai siamo arrivati
alla clonazione, anche se si preferisce non dirlo troppo in giro.
Accarezzandosi con il palmo della mano i due ciuffi da soffer-
to artista ottocentesco, il ragazzo replica che cannibalismo o
non cannibalismo qualsiasi toppa l’uomo escogiti fa pensare
ai tentativi di rianimazione di un defunto: la verità è che tutti
gli indicatori climatici mostrano che il momento dell’affon-
damento del Titanic è ormai molto vicino, anche se i balle-
rini sono troppo presi dai festeggiamenti per accorgersene.
Guardando il proprio calice di vino come fosse la sfera
di una veggente, la spilungona replica che la scienza tro-
verà le vie di uscita per i vari problemi, non bisogna essere
troppo pessimisti. La ricerca scientifica asservita agli irresponsabili
interessi delle oligarchie transnazionali non fa che accelerare la velocità
del bolide senza guidatore, rendendo più vicino il momento del cozzo
contro la muraglia di cemento armato, pontifica il cicisbeo, con
la fronte esistenzialisticamente aggrottata. Non si aspettava
quella resistenza, ma non è certo uno che si tira indietro,
anche senza contare che la tempesta ormonale rinfocola la
sua combattività. Tu sai solo predicare, e non sai muovere il culo di
un centimetro, taglia corto la piccoletta.
In quattro e quattr’otto la terra si trasformerà in un tostapane, ar-
gomenta lui, mettendocela tutta per mostrare che non si
scompone. I ghiacciai si scioglieranno come coni gelati al sole, le
pianure costiere foderate dalle grandi metropoli andranno sott’acqua,
i tifoni e gli altri cataclismi diventeranno pane quotidiano: le nazioni
imploderanno in un caos condito da epidemie, irradiazioni delle ex
centrali nucleari, e guerre sanguinose attorno a quei pochi pozzi di

102
petrolio non ancora a secco. La zoologa bonsai ogni tanto scuote
la testa, come quando si ritiene che chi sta parlando esageri
sebbene i suoi siano argomenti di peso.
La scienziata non tentenna. Guardandolo come una qual-
siasi fondamentalista guarderebbe un derelitto miscredente,
dice che l’umanità sfrutterà il vento e il sole, ma soprattutto
imparerà a mettere al lavoro i batteri e le alghe. I batteri pos-
sono produrre senza difficoltà l’alcol necessario a riempire
i serbatoi delle automobili, e in un futuro nemmeno tanto
lontano produrranno anche l’elettricità. Con un’espressione
come se avesse dei dolori emorroidali, sente che si sta gio-
cando il tutto per tutto, il fotogenico specialista dei cambia-
menti climatici prima e dopo la rivoluzione francese replica
che per tutte quelle belle cose non resta più tempo: presto le
grandi correnti oceaniche si invertiranno, e metà della ter-
ra s’insterilirà per mancanza d’acqua, l’altra imputridirà a
bagnomaria. La fidanzatina lo guarda tenendo il bicchiere
con due mani come fanno i bambini, le labbra appoggiate
sul bordo. Si direbbe una sportiva ormai esclusa dal gioco.
Non so davvero chi dei due mi da più sui nervi. Per quan-
to riguarda le sorti del pianetino chiamato Terra il baldo
saputello ha perfettamente ragione: io stesso avrei difficoltà
a mettere mano a una situazione ormai tanto degradata,
ammesso e non concesso che me ne saltasse il pallino.* Lui

*
Dovrei depurare l’aria e l’acqua, tappare il buco di ozono, decementificare
milioni di chilometri quadrati, piantare miliardi di alberi, smaltire
montagne di rifiuti e plasticami, disinnescare milioni di mine antiuomo,
ripescare dozzine di sottomarini atomici sovietici, rimettere in circolazione
centinaia di migliaia di specie animali e vegetali estinte, rinnovare
completamente la dotazione delle risorse naturali: un lavorone perfino
per un dio onnipotente. Ma non sarò certo io a occuparmene: quello che
dovevo fare l’ho fatto, non ho nessunissima intenzione di ricominciare
tutto da capo solo perché quattro disgraziati si sono divertiti a sfasciare
tutto. Chi rompe paga, come dice il proverbio.

103
però blatera solo per farsi bello: come molti signorini suoi
simili adora evocare in tono neutro le orrende catastrofi im-
minenti, di preferenza con un calice in mano e un gradevole
sottofondo musicale, ma dentro di sé pensa che il momen-
to fatidico sia in realtà ancora lontano, e chissà come non
lo riguardi. Tutti gli altri creperanno, ma per qualche caso
molto fortuito lui sopravvivrà.
L’ottimismo scientista della stangona mi dà peraltro al-
trettanto fastidio. La presunzione degli uomini non ha
proprio limiti: hanno tramenato fin dalla notte dei tempi
con selci e altri primitivi utensili, pur sempre di micidiale
efficacia, e appena hanno potuto sono passati a diabolici
marchingegni sempre più perfezionati, finalizzati a fare im-
punemente strage attorno a loro. E se c’è una categoria di
tecnofili al top della tracotanza, e che vorrebbero a tutti i
costi rubarmi il mestiere, sono proprio i genetisti. Questi
apprendisti stregoni dimenticano che la cosiddetta vita bio-
logica sul loro insignificante granellino di polvere è permes-
sa da un effimero concorso di circostanze che molto presto,
ben prima del grande coccio con Andromeda (nome ben stra-
vagante), verrà a mancare.
Non bisogna però fermarsi alle apparenze: più che una
discussione la loro va considerata una parata amorosa,
come quella degli elefanti che ballano prima di accoppiarsi.
Siccità o nubifragi presto ci sarà l’anelato coito, e la piccola
sconfitta libererà il campo. Gli uomini sono programmati
per copulare, prima ancora che per filosofare: il fatto è che
all’inizio erano molti meno, e prima che si imbattessero in
un partner potevano passare dieci anni. I due ragazzi non
smentiranno certo la regola.
La cerbiattina ecologista posa il bicchiere, e invece di at-
taccare il compagno traditore, come sarebbe logico (ma con-
troproducente?), dice che ogni falla tappata dalla tecnologia

104
è in realtà una breccia più grande aperta da qualche altra
parte. La vera soluzione starà piuttosto nel privarsi di tutti
gli orpelli inutili: a cominciare dalle automobili, che servo-
no solo a andare a lavorare lontano da casa, per permet-
tersi poi un’auto più costosa adatta a lavorare ancora più
lontano, dalle televisioni, dai forni a microonde, gli aerei, i
frullini elettrici, l’aria condizionata, i navigatori satellitari,
la carta igienica, i computer portatili, le bevande gassate, le
scarpe con i tacchi. Le merci servono solo a creare il biso-
gno fittizio di altre merci prodotte da schiavi all’altro capo
del pianeta, con costanti picchi di sovrapproduzione chia-
mati crisi, e orribili guerre: l’uomo deve pensare alla salute
della propria anima, a quella degli animali e delle piante.
Tutto il resto sono pericolose cavolate.*
La supermaterialista la guarda come guarderebbe un
marziano che abbia fatto un lungo discorso nella lingua dei
marziani. Mai più avrebbe pensato che una persona della
sua età potesse sfornare il ciarpame vintage di quel paz-
zoide dell’amico di sua madre. Senza la ricerca scientifica non
potremmo nemmeno più fare una telefonata, dice, battendo il dito
sul suo telefono portatile di ultimissima generazione. Non
sembra solo indignata, ma anche scossa, turbata. I telefonini
non sono solo completamente inutili, ma anche cancerogeni, bisognereb-
be proibirli, ribatte la piccoletta.
Il ragazzo ieratico gongola del fatto che ognuna sia con-
vinta di avere ragione. Così la smetteranno finalmente di
fare comunella. E lui forse già quella settimana troverà una
scusa per invitare quella benedetta ragazza in un bar con
dei comodi divanetti, e si baceranno come la sera dei rospi.
*
Mi illudevo che i miei nemici fossero solo l’ateismo e l’agnosticismo,
e invece da qualche tempo in qua sono costretto a constatare che
l’animismo, che davo per morto e sepolto, sta di nuovo dilagando, anche
se magari in forme nuove e metropolitane.

105
Questa volta lei non scapperà, e anzi lo rimorchierà nell’ec-
citante ex pescheria dove abita. Già si figura la scena, già
sente il suo membro gonfiarsi. E io posso confermare, mi si
scusi il dettaglio che certo un vero romanziere non riporte-
rebbe, che è così.
Le nostre guide spirituali ci salveranno, dice la cerbiatta dopo
una lunga pausa, come a corto di argomenti migliori, e
scoprendo le gengive color gengiva. Le nostre guide spirituali?
articola la giumenta con la faccia raggrinzita, quasi avesse
appena mangiato un limone. Non ho detto la religione, ho detto
le nostre guide, ribatte lei a voce bassa, quasi scusandosi di
pensare quelle cose. Lei è convinta che le anime dei morti e dei
vivi siano interconnesse in una rete simile a Internet, e che da qualche
parte ci siano dei tecnici che tirano le fila, sotto la supervisione di un
amministratore generale dell’intero sistema, senza una precisa identi-
tà ma potentissimo, dice Vittorio, indicando la compagna con
un radioso sorriso di scherno. Peccato solo che proprio in
quell’istante sia colpito da un’improvvisa fitta allo stoma-
co, un male lancinante: abbandonando senza ritegno la sua
posa di dialettico seduttore si piega in due, e comincia a
gemere come un bambino. Certe volte capita agli uomini di
avere degli improvvisi dolori al ventre, che talvolta si rivela-
no poi un vero malanno.

106
non so cosa mi succede

Non so cosa mi succede: adesso la stangona non mi sem-


bra più così detestabile come mi appariva prima. Certo la
sua devozione nei confronti della scienza mi fa venire il latte
alle ginocchia, ma non mi fa più stridere i denti la sua foia
atea, non mi viene più voglia di annientarla facendola scivo-
lare su una macchia d’olio mentre prende una curva a tutta
velocità. Mi accorgo che per certi versi desidererei cono-
scerla meglio. Come dire, avvicinarla anche di persona, non
solo attraverso le mie illimitate facoltà divine: una forma di
conoscenza forse meno oggettiva, meno completa, ma per
così dire più personale, più calorosa.
Mi limito invece a ascoltare quello che pensa mentre gui-
da la sua benedetta motoraccia, verifico cos’ha nell’appa-
rato digestivo, come procede la crescita di ognuno dei suoi
capelli, come palpitano i pori della sua pelle. Mi rivedo il
suo passato come si potrebbe sfogliare l’album di fotografie
di un familiare al quale si è parecchio affezionati, andando
indietro di un paio di generazioni, o anche di una dozzina
dato che ci sono. Analizzo il lavorio dei suoi geni – i geni sono
molto meno conservatori e noiosi di quanto credano i gene-
tisti – le amicizie che li legano alle sequenze di amminoacidi
di ogni proteina di ogni cellula. Non vengo meno alla mia
normale attività divina: sorveglio, dirimo, salvo, castigo,
lascio correre, ammonisco, condanno, scateno, o anche
mi vendico: qualche volta mi succede, per buona pace di
mio figlio, o supposto tale. Però scannerizzo soprattutto lei.

107
Sono io stesso stupito da quello che mi accade. Mi guardo
allo specchio (uno specchio metaforico, ça va sans dire) e vedo
che sono lo stesso, sono quello che sono sempre stato. La
mia perfezione continua a essere assoluta, su questo non c’è
il minimo dubbio: resto infallibile, onnipotente, onniscien-
te, onnitutto. Eppure, eppure non riesco a trascendere da
questa benedetta Dafne (si chiama così), che mi sia simpa-
tica o no: seguo con attenzione (stavo per dire con bramosia)
l’evolvere della situazione, senza perdermi nemmeno una
virgola. Nonostante i suoi problemi di salute* il seduttivo
paleoclimatologo la marca stretta: con una scusa o con l’al-
tra non smette – la sua nuova trovata è questa – di mandar-
le messaggini sul cellulare. Frasette che vorrebbero essere
spiritose e accattivanti, e invece sono solo molto stupide:
lei comunque le legge dalla prima all’ultima, qualche volta
anche ridendo tra sé. Non occorre essere un dio per capire
che quelle subdole scemenze elettroniche sono la rincorsina
finale per raggiungere la meta agognata: la fessura verticale
che lei ha in mezzo alle gambe.
Sgamato il pericolo, chiunque altra nella sua situazione
le tenterebbe tutte per tenere alla larga la rivale, metterebbe
sotto chiave il proprio partner, lo minaccerebbe di questo o
di quello. La fidanzatina legittima invece sembra sforzarsi
di fare esattamente l’opposto di quello che detterebbe il buon
senso. Non fa che telefonare alla lunga motociclista per pro-
porle di andare qui o là: adora farsi scorrazzare sulla pria-
pica bicilindri. Non dico che mi piacerebbe che prendesse
un coltello elettrico e tagliasse quella maledetta linguaccia

*
Il mal di pancia sbocciato d’improvviso durante la cena iguanesca si è
rivelato una cosa piuttosto seria: per tutta la notte ha rigettato, torcendosi
dal dolore. E la mattina stava ancora peggio: lo hanno ricoverato per
un paio di giorni per accertamenti. Purtroppo la salute degli uomini è
sempre appesa a un filo, basta un niente per far saltare tutto.

108
del suo fidanzato – le violenze superflue non mi sono mai
piaciute, a dispetto di quanto si è detto e scritto – però in-
somma potrebbe pur sempre dargli un aut aut, o minac-
ciare di buttarlo fuori di casa. E invece continua a essere
accondiscendente come un agnellino.
i prodromi rituali del sesso

Il giorno del suo compleanno la terrorista informatica


arriva al lavoro verso le due di notte. Per diverse ore ar-
meggia con la massima concentrazione attorno al nuovo
prototipo di pila a batteri, quello che tiene conto di tut-
ta l’esperienza accumulata finora. Succhiando pezzetti di
zenzero candito aggiunge i nutrienti e gli inoculi concor-
dati, imposta la temperatura e la pressione, programma a
intervalli di tempo stabiliti i rilievi di conduttività e di altro
genere. Le piace il silenzio assorto della notte, le piace sen-
tirsi addosso l’energia dei primi sentori dell’alba, quando
nel parco disastrato che circonda l’Istituto gli uccelli co-
minciano a svegliarsi. Lei non può sapere quello che verrà
fuori, ma sente sulla pelle della nuca e nei polmoni che
sarà molto interessante. Sa che sono sensazioni delle quali
si può fidare.
Quando ha finito i prelievi di materiale genetico rimette
a posto gli strumenti e mimetizza la pila, purtroppo ben più
ingombrante della precedente. Nel frattempo il laboratorio
si è popolato, e il suo giovane spasimante con i brufoli fo-
sforescenti ha preso posto davanti allo spettrometro a assor-
bimento atomico, lanciandole di tanto in tanto gli sguardi
supplichevoli che lei non sopporta. A un certo punto appare
anche il direttore, ma lei non lo vede, tutta presa dall’arti-
colo che sta scrivendo, nonché dalla cantante africana spa-
rata nelle sue orecchie. Il capo allora tossicchia, muoven-
do di lato il piede come per schiacciare un insetto nocivo.

111
Riconoscendo quel suo gorgheggiamento cattolico lei sol-
leva lo sguardo dalle scarpe molto eleganti fino alla faccia
molto riposata, con quella falsa indifferenza che vuole na-
scondere l’intimità degli occhi e della pelle che sarebbero
fuori luogo. Lui le sorride mostrando tutti i denti.
Mentre lei si sfila gli auricolari lui comincia a descriverle
un lavoretto che dovrà fare, accompagnando le frasi che si
contraddicono le une con le altre con ampi movimenti delle
mani corte e tozze (a lei ricordano zampe di talpa), cercan-
do di farle confluire in un unico flusso ordinato con gesti da
vigile urbano. Lei non capisce nulla, non è materialmente
possibile capire, ma si stupirebbe piuttosto del contrario.
Passandosi la mano sulle guance lisce e toniche (le richia-
mano il culetto di un pargolo di buona famiglia), lui conclu-
de che in realtà non è molto urgente. E la fissa sorridendo
anche con gli occhi da bambola buona, quasi fosse molto
soddisfatto della sua risposta (lei non ha detto niente). La
centrifuga a quindicimila giri dove è avvenuto il due a zero
è solo a qualche metro, ma nessuno dei due gira gli occhi
verso quell’angolo di frenesia cinetica.
Il capo in realtà è così affabile perché il giorno prima si
è riunita la commissione del concorso al quale lei ha parte-
cipato. E lui con le sue solite svolazzanti frasi scherzose si è
adoperato, in qualità di presidente, per far vincere la can-
didata con il fisico da velina televisiva. Quindi sarà questa,
così abile a somministrare i propri sorrisi e gli scorci nella
scollatura del camice, che verrà assunta, mentre lei rimarrà
per strada: nel bilancio dell’anno successivo non ci sono i
soldi per tenerla ancora come precaria. Il capo non si pente
di quello che ha fatto. Ci saranno di certo molti meno ar-
ticoli, ma in compenso per lui la vita sarà meno stressante,
adesso che la moglie tedesca lavora anche per il tribunale,
dove si trattano molti casi di divorzio. Da buon cattolico si

112
sente però pur sempre un po’ a disagio, e per questo è venu-
to a interromperla.*
Uscita dal laboratorio con il pretesto della pausa pranzo,
l’ignara Dafne fila con la moto a inseminare una decina di
pezzate nere. È un po’ in ritardo, e quindi deve cassare il so-
lito paio di bignè alla crema nell’ottima pasticceria, proprio
sulla strada, che apprezza assai. La stalla, in un piattissimo
paesone non tanto distante dalla città, è molto grande, e è
piantonata su tre lati da capannoni industriali dismessi. Lì
già la conoscono: hanno fiducia, la lasciano in pace. Mentre
infila il braccio nell’ano della prima frisona si dice però che
la piccoletta non ha in fondo tutti i torti: a far bene non
si dovrebbero mangiare gli animali. Subito dopo si conso-
la con il pensiero che quelle sono mucche da latte, non da
carne.** Resta pur sempre il fatto che la sua amica sarebbe
orripilata se vedesse quella catena di montaggio: per la pri-
ma volta non si sente molto a suo agio.
Tornando a casa si ferma nel solito garage. In realtà dopo
l’ultima riparazione la motocicletta va molto bene, ma lei la
solleva lo stesso sul cavalletto nel piazzale e entra nell’offici-
na. Il titolare le dice che il meccanico che le ha fatto il lavoro
è andato a provare una enduro: lei allora si siede sulla sua
bicilindri in doppia erezione e osserva gli altri bolidi par-
cheggiati. Pensa a come potrebbero essere migliorati. Non
ha studiato ingegneria meccanica, ma ne sa abbastanza per
*
A dispetto della nomea di bonaccioni, i cattolici italiani possono compiere
le peggiori nefandezze: perfino con gli amici, con i parenti più stretti.
Poi però provano strani sommovimenti addominali, qualcosa come una
cattiva digestione, e allora compensano con ipocriti sorrisi e battute di
spirito, in attesa di ripulirsi la fedina religiosa con la confessione.
**
Con una tipica incoerenza di pensiero tutta umana – intrinseco
opportunismo cerebrale? – non tiene conto che le mucche da latte a fine
carriera vengono pur sempre macellate e affettate. Per non parlare dei
vitelli maschi.

113
scannerizzare in due secondi un telaio o un motore, indivi-
duando difetti strutturali e piccole pecche. Quando arriva il
meccanico con il naso appiattito da pugile lei gli sorride, e
gli dice che ci ha ripensato, quella verifica che lui suggeriva
si può fare. Discutono un po’ dei dettagli, e poi lei sfreccia
via. Fa una sosta in una chiesa che frequenta spesso – stendo
un velo pietoso – e poi al supermercato.
Arrivata all’ex pescheria si mette a pulire. Quel genere di
pulizie implacabili che precedono un qualche evento molto
importante, una festività eccezionale. Strofina le due grandi
vetrine che danno sulla corte interna del vecchio caseggiato
– l’entrata della pescheria era lì – lustra il bancone inclinato
del pesce, ora cucina, estrae il materasso da quella che era
la vasca delle trote, ora letto a una piazza e mezzo, aspira,
elimina i gomitoli di polvere dai fili dei computer, lava il pa-
vimento di piastrelle azzurre. Si vede però che non le pesa,
che lo fa anzi con piacere. Piega i vestiti che giacevano ap-
pallottolati qua e là, sistema i piccoli soprammobili (anche
se non ci sono veri e propri mobili), cambia la lettiera della
gatta, la quale pur non vedendoci sembra esserne contenta.
Poi passa ai preparativi d’atmosfera: incenso, candele, piat-
tini di biscotti e zenzero candito simili a offerte votive.
Si direbbe che stia allestendo una cerimonia sacra, invece
di una pedissequa copulazione. Il sesso per il sesso, senza
nemmeno la parvenza di una copertura morale (lasciamo
stare l’istituzione familiare e la cerimonia che la suggella,
sarebbe chiedere troppo), mi dico, avvertendo una sorta di
vago malessere, uno spasimo che mi sembra di non aver mai
provato, quasi un tormento. L’essenza della depravazione
materialista, in un contesto storico di sacralizzazione fetici-
stica dell’individuo e della sua corporalità, sotto il sombrero
pretestuoso della libertà sessuale. Ma non sono anch’io corre-
sponsabile, mi dico, se permetto che copulino nell’abituale

114
maniera sfrenata della grande dissoluta? Non rappresenta
nei fatti una sorta di beneplacito?
Per me sarebbe un gioco da ragazzi mandare a monte
i piani dell’infoiatone. Mi dico: non mi ci vuole nulla per
mandare per terra una bicicletta inforcata da un soggetto
con un braccio immobilizzato e debilitato da inspiegabili
mal di pancia, e far arrivare subito dopo un vecchio fur-
goncino con i freni scassati, o ancor meglio, tanto vale fare
le cose bene, un autotreno. In un certo senso i ciclisti se la
cercano, con il traffico anarchico che c’è in Italia: spesso
succede anche senza che io muova un dito. Solo una forte
botta alla tempia, intendiamoci, senza sangue né altri sbro-
dolamenti raccapriccianti: sfondamento del cranio nella re-
gione parietale. Quando ci si mette il destino è davvero tremendo,
commenterebbe la gente. Almeno non ha sofferto, poveraccio, so-
spirerebbero. Le solite frasi agnostiche alle quali ho ormai
fatto il callo.
Sono pronto a intervenire. Ho già per così dire nel mirino
la bicicletta, manco a dirlo rossa. Aspetto solo che l’interes-
sato, che si tiene un po’ curvo sulla sella,* ci monti sopra
e cominci a pedalare. Mi sfrego i palmi delle mani (sono
costretto a caricare un po’ le tinte: un racconto non può
essere noioso), come farebbe un qualsiasi cecchino. Avverto
dentro di me la leggera tensione del momento fatale. Già mi
sento un po’ meglio: presto quest’incubo, perché per certi
aspetti questo sembra, sarà finito. Sarò di nuovo in perfetta
*
Qualcuno potrebbe forse sospettare che sia io il mandante (diciamo
così) del suo sfracellamento la notte dei rospi. Niente di più falso. Le cose
sono andate così: avendo visto che il piede del ragazzo stava centrando
una chiazza molto scivolosa (un rospo spiaccicato da un pneumatico), ho
corretto appena la traiettoria del capitombolo, in modo da evitare che
posando una mano per terra potesse magari sporcarsela. È vero che
invece di imbrattarsi la mano si è sbriciolato il gomito, però l’intenzione
era buona, come si addice a un dio misericordioso.

115
forma, smetterò una buona volta di pensarci. Ritornerò alle
mie solite occupazioni.
Poi però, mentre Dafne abluziona con meticolosità il pro-
prio corpo bislungo, mi rendo conto che la situazione che
si è creata (come se una situazione potesse crearsi da sola!
Ho bisogno di un po’ di riposo) è completamente ridicola.
Checché ne dica la Bibbia, che insiste davvero troppo sulle
rarissime occasioni in cui mi è montato il sangue alla testa,
io ci tengo a essere giusto e imparziale. So benissimo che
finirei per squalificarmi completamente (evito un vocabolo
ben più colorito), se mi comportassi come un magnate at-
tento solo ai suoi capricci e interessi. Un po’ alla volta si sa-
prebbe in giro, pioverebbero le proteste e le lamentele. Alla
lunga nessuno mi darebbe più retta, l’ateismo trionferebbe
incontrastato.
Mi arrendo insomma alla mia infinita saggezza e poso il
fucile a alta precisione che ho in mano. La bicicletta rossa
non verrà travolta, non comunque per un mio intervento
speciale: se poi un autotreno per un incidente ordinario (dicia-
mo così) la mettesse sotto, sarebbe un altro paio di mani-
che. Trasformata una volta ancora in tempio del sesso, l’ex
pescheria vedrà svolgersi l’ennesimo amplesso profano: io
non posso farci proprio niente.* Se ne riparlerà in sede di
Giudizio Universale.

*
Mi preme che su questo punto ci sia assoluta chiarezza: pur tirando
le fila di quello che accade nel cosmo e sul pianetino chiamato Terra,
molti dettagli li lascio succedere così come il cosiddetto caso si diverte a
riarrangiarli, e amen.

116
quattro passi nel cosmo

Per cambiare aria (sic) sono uscito di nuovo – ancora una


approssimata metafora architettonica – a fare quattro passi
tra le galassie. Non volevo più saperne di quello che faceva o
non faceva quella ragazzona in calore. Io sono Dio, mica un
guardone, mica un frate kamikaze che si è messo in testa di
disintossicare il pianetino dall’ubriacatura tecnologico-mer-
ceologica, allergica a ogni forma di trascendenza e osses-
sionata dal mito dell’appagamento sessuale. Che copulasse
con chi voleva, quella miscredente dagli occhi lontani come
quelli degli uccelli. Che si facesse torturare con attrezzi sa-
domaso, o sodomizzare da un rinoceronte, a me proprio
non importa nulla. Adesso mi calmerò, mi dicevo, sentendomi
in realtà più inquieto che mai.
Mi sono sentito subito meglio, una volta frapposto tra me
e la Terra, con la sua ineluttabile familiarità con il male,
qualche miliardino di anni luce: come una persona inton-
tita dallo stress può finalmente abbandonare il caos di una
metropoli e addentrarsi in una pacifica foresta (cerco via via
di congegnare, ormai lo si è capito, paragoni che parlino a
tutti), riposando l’udito e la vista, svuotando il cervello da
ogni pensiero. Mi faceva bene, alla stregua di un passeggero
che scende da un treno (i cunicoli spazio temporali non sono
molto differenti da un convoglio ferroviario), contemplare
quell’indescrivibile galleria di mastodontici quadri astratti,
o forse meglio surrealisti. Le sfumature cromatiche erano
innumerevoli, ma come sempre prevalevano i viola, i verde

117
smeraldo, gli ocra annacquati che tirano al grigio perla: le
tonalità che ho preferito già mentre creavo. Del resto quan-
do parlo di colori vanno considerati anche i raggi infrarossi,
che danno un piacevole tepore sulla pelle (se la si ha), e i
raggi X, con il loro effetto vivificante: quasi un’iniezione en-
dovenosa di caffeina, una droga leggera. Senza dimenticare
le onde radio, che creano una cacofonia strana e misterio-
sa, qualcosa di simile a un concerto di musica sperimentale
elettronica eseguito in fondo a un’abissale caverna, e ascol-
tato porgendo l’orecchio dall’apertura in alto. Quindi parlo
di colori solo per farmi capire.
Bighellonando senza una meta precisa sono incappato in
una stella blu. Azzurra, mi è venuto da pensare, come gli
occhi di Dafne. Era davvero magnifica: sembrava una pietra
preziosa incastonata nel cosmo. Quel tipo di splendore che
stringe il cuore, arrecando un’apprensione, forse proprio
perché l’esistenza delle stelle blu è cosi effimera: quattro o
cinque milioni di anni, e tutto è finito. Contemplandole non
si riesce a fare astrazione da questo tragico dato di fatto.
Com’è ovvio un dio non se ne farebbe niente di un telefono
cellulare, altrimenti avrei scattato una fotografia.
Sono poi transitato non lontano da una di quelle stelle
senescenti alle quali gli umani hanno affibbiato l’appellativo,
più adatto forse per una discoteca di provincia, di supernova.
La luce della colossale esplosione era così accecante che rim-
piangevo di non avere gli occhiali da sole (che in realtà non
indosserei mai: farebbe troppo new age). Anche senza essere
degli esperti si capiva che in quella vecchia caldaia erano
in corso micidiali fissioni al confronto delle quali le bombe
nucleari tanto temute dagli umani sono innocui petardini.
Faceva davvero caldo, anche se io lo sopporto benone, e non
sono uno che suda, non avendo un corpo. La bufera stellare
era così forte che mi avrebbe strappato tutti i capelli, se solo li

118
avessi avuti: qualche volta essere immateriali è un vantaggio.
L’odore di sostanze chimiche – manganese abbrustolito, ma
soprattutto acido solforico, con un sottofondo di metilciano-
acetilene – era buono, non dico, ma davvero molto strong.
Lo spettacolo faceva un po’ pensare: quell’immensa palla
di luce più brillante di centinaia di milioni di soli, in appa-
renza un’apoteosi di vita, era a ben guardare un trapasso.
Un’agonia scoppiettante e più che mai splendente, ma pur
sempre un’agonia. Non so perché le cose mi apparissero sot-
to questo punto di vista, e perché mi mettesse così a disagio
pensare alla morte: a forza di usare il mezzo di espressione
degli umani ero stato contagiato? In ogni caso mi disturba-
va – ero il primo a meravigliarmene – il pensiero che Dafne
sarebbe prestissimo deceduta.
Non dovevo lasciarmi prendere da pensieri malinconici,
mi dicevo: dalle polveri sputate fuori da quel pauroso fuoco
d’artificio sarebbero nate altre stelle, magari più belle, e da
queste altre ancora. Dovevo piuttosto approfittare dell’alle-
gro happening di quel gruppo di nane nere alla mia destra –
insomma, prima della boccaccia di un buco nero – che pul-
savano, ruotavano, si comprimevano, allungavano le brac-
cia, agitavano le anche come abilissime ballerine. Una aveva
psichedelici aloni concentrici come una cipolla fosforescente
che si fosse infilata cinquanta giacche a vento colorate una
sopra l’altra, l’altra esibiva enormi occhi da gufo, veri man-
dala riflettenti, una terza pareva una clessidra riempita di
tubi al neon di tutti i colori: sembrava di essere – fatte le
debite proporzioni – al carnevale di Rio, o a un Gay Pride.
Ma guarda quante magnifiche galassie ho creato! mi dicevo, felice
di quello che vedevo, fiero di essere Dio. Sono Dio, mi dice-
vo. Avevo ritrovato la sensazione che si prova contemplando
qualcosa che si è costruito con le proprie mani: quel senso di
lavoro ben fatto, di tempo speso bene. Beninteso l’euforia di

119
un dio non ha niente di quella degli umani, è intrisa di per-
fezione, è essa stessa perfetta. La sensazione immediata era
però per certi versi quella: mi passava per la testa una giran-
dola di buone idee, facevo una miriade di piani per il futuro.*
Aggirandomi a caso mi sono poi imbattuto in due galas-
sie spirale di dimensioni pressappoco equivalenti, già impe-
gnate nel balzo all’indietro che prelude, finiti i convenevoli
dei primi approcci, alla fusione vera e propria. Come spesso
accade a questo stadio della collisione, tra le due c’era già
una tenerissima covata di stelline appena nate: palpitavano
e sembravano dibattersi come pulcini straripanti di fragile
energia. Anche i crepitii acuti che emettevano nel loro nido
al riparo dal gran vento stellare provocato dall’abbraccio
dei genitori facevano pensare a quelli dei pulcini affamati.
Poi un po’ alla volta ciascuna avrebbe preso la propria soli-
taria strada, spesso funesta già nel fiore degli anni, ma per il
momento si godevano la loro spensierata gioventù.
Mi stringeva il cuore, quel quadretto famigliare intriso di
gioia e tenerezza. Provavo, e era la primissima volta che mi
succedeva, un sommovimento che non riuscivo a definire,
qualcosa come lo struggimento di un padre, o forse meglio di
un bisnonno. Ma a fare bene attenzione nel mio languore (non
saprei che altra parola pescare dall’angusto calderoncino del
lessico) c’era anche una sorta di rimpianto per qualcosa che
mi sarebbe piaciuto avere e non avevo. Che ne so, qualcuno
con cui scambiare ogni tanto due chiacchiere, un amico con
cui parlare nei momenti di sconforto. Se non addirittura una
famiglia, dei figliolini. Non erano sensazioni molto divine, lo
erano anzi pochissimo, me ne rendevo conto io stesso, però
erano così dolci che non riuscivo a scrollarmele di dosso.
*
Prima di cominciare questo diario non mi ero mai accorto di avere degli
alti e bassi, o forse ero effettivamente sempre dello stesso algido umore:
parlando e ragionando si finisce per confondersi sempre di più le idee.

120
la liturgia erotica

Il bellone bussa come previsto alla porta della ex pesche-


ria, e la nostra sconsiderata Dafne va a aprirgli. Indossa una
tunica che lascia intravedere i capezzoli e prosegue fino ai
piedi, con uno spacco però che risale fin quasi all’anca. Un
velo impalpabile che al bisogno può sparire senza difficoltà
dalla circolazione, o al limite in un primo tempo può restare
a assistere senza intralciare nessuno. Vittorio è madido di
sudore e un po’ depresso, ma vedendo come è acconciata
si sente subito meglio. Lui lo può solo immaginare, ma io
lo so per certo: sotto c’è direttamente la montagnola pelosa
del pube. Dice che passava di lì per caso (a quell’ora?), e gli
è venuta voglia di salutarla un secondo. Non dice che ha
bucato quasi appena partito, e quindi ha dovuto spingere la
bicicletta nell’afa di quella sera infuocata, rivangando tutti i
guai che gli sono piovuti addosso negli ultimi tempi. Gli inspie-
gabili mal di pancia, per stare a questi, non si decidono a an-
dare via: si estendono qualche volta a tutta la schiena, o pre-
cipitano ai talloni. Sempre meglio che essere maciullato da
un autotreno, ma questo lui non lo sa, e è lungi dall’imma-
ginarlo. Riprendendo coraggio avanza con dinoccolamenti
pelvici da grande felino verso il saccone pieno di briciole di
polistirolo che funge da divano.
Piantata sulle gambe non possenti ma pur sempre gros-
sette la stangona lo guarda come si guardano gli attori
molto belli: con quella deferenza che vorrebbe apparire
morigerata, e che però non trova molte armi per difendersi

121
dal fascino stesso. Lui avverte la sua ammirazione sulla pelle
liscia dell’alta fronte risorgimentale, e con lo sguardo volto
al pavimento sembra scusarsi, sembra dire che purtroppo
non può farci niente, gli è capitato tra capo e collo. La ca-
micia bianca è ora aperta fin quasi allo sterno, in modo da
inquadrare come un sipario il torace piatto e largo. Ai piedi
ha solo delle infradito da spiaggia, quasi a suggerire la pre-
carietà dei vestiti leggeri che indossa, la loro instabilità di
foglie suscettibili di volarsene via al minimo alito di vento
autunnale.
Nell’ex pescheria le luci sono basse, il grosso cero spar-
ge con fragile ostinazione i suoi tremolanti bagliori e il suo
odore sensuale, a dispetto della provenienza ecclesiastica.
Sul pavimento c’è una comoda stuoia che al bisogno può
ospitare due corpi avvinghiati, accanto giace come per caso
un pacchetto di fazzolettini. Anche i minimi dettagli hanno
la loro importanza: perfino la gatta cieca taglia lo spazio
con passi più leggeri del solito, sembra voler ribadire che
appena suonerà il gong scomparirà dalla circolazione.
La lubrica ragazzona accende un bastoncino di incen-
so con sentori poco raccomandabili di sandalo e di spezie
orientali: se c’è una cosa che non sopporto, lo ribadisco,
sono i fumi della resina della Boswellia sacra. E passando dà
un colpetto alla lampada aggrappata al bordo della vasca
dei pesci, in modo da infiochire ulteriormente l’ambiente.
Poi senza darlo a vedere ruota tutt’attorno gli occhi distanti
da cammella: con la sua tunica neoclassica sembra proprio
una sacerdotessa che esegue l’ultima ricognizione prima di
dare l’avvio alle cerimonie. Le vittime da immolare sono
già pronte accanto all’altare, i balsami odorano il tempio, le
spirali di fumo delle fiaccole salgono verso il cielo, presunta
sede di divinità pagane.
Il marpione le mostra il libro sui rapporti tra disastri

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climatici e rivoluzioni sociali che le ha portato (ma non
passava per caso?). Con il braccio sano potrebbe cingerla
subito, visto che è lì inginocchiata al suo fianco, commos-
sa del regalo che sta per ricevere, perfino un po’ arrossita,
e preme più forte la lunga coscia contro il suo ginocchio.
E invece il suo sorriso sfavillante sembra voler ribadire che
preferisce seguire le vie normali previste dalla liturgia eroti-
ca, senza bisogno di scorciatoie: le dà in mano la sua offerta,
necessaria forse per imbonirsi Afrodite. Lei annuisce come
prendendo atto di tutte quelle sue rassicurazioni, e si stringe
contro il seno molto ridotto la bibbia delle rivoluzioni scate-
nate dal clima sfavorevole, soppesandola quasi fosse il dono
di un re magio. Grazie, mormora, con la gola già occlusa dal
desiderio. Lui strizza pigramente gli occhi, come farebbe un
gattone accarezzato sui lati del collo.
A questo punto, adesso sì, sta per posare il braccio non
steccato sulla sua spalla. Sembra essere in atto un silenzioso
conto alla rovescia: meno tre, meno due, meno uno. Un mil-
lesimo di secondo prima dello zero lei scatta però in piedi
con un elegante guizzo di reni che fa pensare al balzo di un
delfino, e gli chiede se ha voglia di un bicchierino di rum.
Un classico, mi dico io, cogliendo le sue intenzioni: gli propi-
na una dose di alcol forte, come si dinamita anche l’ultima
muraglia, sebbene non sarebbe strettamente necessario, di
una città già resa. L’apollo accetta di buon grado: ravvian-
dosi con la mano del braccio non fracassato i verdiani ciuf-
fi, fa tintinnare solennemente nel bicchiere i due cubetti di
ghiaccio.
Sfiorando con il labbro inferiore ben gonfio il bordo del
bicchiere, le chiede in tono noncurante se ha qualcosa da
fare quella sera. Lei sfoggia una faccia altrettanto indiffe-
rente: la più adatta per dare a intendere che l’idea di passare
la serata assieme, per attenersi a questa sineddoche, le viene

123
solo adesso. E invece si schiarisce la gola, e con voce molto
ferma risponde che aspetta una sua zia: devono parlare di
una cosa un po’ fastidiosa. Purtroppo arriverà a momenti, dice,
guardando l’orologio del telefonino. Lui la fissa allibito: gli
sembra di non aver capito bene. E a dire il vero anch’io ho
l’impressione di aver frainteso.
La sacerdotessa dalle treccine viola si è alzata in piedi
e tace, come si fa quando si vuole che qualcuno si decida
a levare l’ancora. Comincia anzi a stringere le labbra che
delimitano la grande bocca orizzontale e a scalpicciare, si
direbbe una cavalla affamata. E allora lui trangugia il rum
e si avvia verso la porta a testa bassa: sembra un pugile che
abbia incassato una gragnola di pugni, con un braccio fuori
uso. Il suo sorriso sicuro è solo un vago ricordo. Proprio
non riesce a capire dove ha sbagliato: tutto pareva filare li-
scio come l’olio, e di punto in bianco si ritrova espulso dal
campo di gioco. Lei gli stringe con affabilità il braccio sano,
come ci si libera dei testimoni di Geova. E sbatte con ener-
gia la porta alle sue spalle, quasi voltando pagina.
Ho l’impressione che le gambe non mi sostengano più,
anche se un dio non ha gambe, e nel caso le avesse sareb-
bero ben solide: non so cosa mi sta succedendo, so solo che
non mi è mai capitato nulla del genere, e proprio per questo
sono ancora più confuso. È come se avessi appena avuto
un malore, uno di quei mancamenti che fanno perdere co-
scienza per qualche istante.
Nello stesso tempo sono sollevato: riprendo per così dire a
respirare in modo normale. Mi verrebbe quasi da piangere,
faccio sempre per dire, da quanto sono contento. Dafne non
aveva preparato un’orgia indiavolata, come avevo creduto,
non si era vestita nel modo più adatto per facilitare il coito,
la stuoia per terra non serviva a quello. O forse per qualche
momento ha esitato, ma poi ha saputo tirare fuori il meglio

124
di sé: ha sconfitto, seppure in extremis, la terribile tentazione.
Sì, ha dei costumi un po’ libertini, certo anche per i tempi
pornografici in cui vive, ma lasciando stare qualche ogget-
tiva intemperanza non è una donna leggera, non lo è mai
stata. Forse un giorno nemmeno tanto lontano si ricrederà
anche sul mio conto.
Mi domando come ho potuto prendere un granchio del
genere (certe espressioni sono proprio ridicole): cos’è che mi
ha impedito di anticipare la vera conclusione dei fatti? Che
fine ha fatto la mia proverbiale preveggenza? Certo tutto
può succedere, però un dio non può materialmente lasciarsi
ingannare dalle apparenze: per lui tra presente e futuro non
c’è differenza, sono solo pagine diverse dello stesso libro che
ha davanti. Ragionando a posteriori mi sembra evidente
che per qualche ragione ero obnubilato: in certe occasio-
ni bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro
nome. Però, andiamo, non vanno visti solo i lati negativi:
l’importante è che tutto sia finito bene.

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mi vengono idee strane

Negli ultimi tempi mi vengono delle idee molto strane.


Mi dico che mi piacerebbe essere un uomo. Un umano vero
e proprio, non un dio incarnato in un uomo: anche facendo
le cose per bene in una divinità incarnata qualcosa di divino
resta sempre. Un uomo che ha un’ideuzza alla volta, e non
ha la più pallida idea del perché è al mondo e di che senso
abbia la sua esistenza. Un paradigmatico bipede perenne-
mente scontento di qualcosa, che trepida per qualcos’altro,
che ha sempre fame o sete o sonno o male da qualche par-
te, passando in un battibaleno dall’euforia alla tristezza più
nera.
In quegli stranissimi momenti mi piacerebbe avere la cer-
tezza che morirò, e che anche tutte le persone intorno a
me moriranno. Senza peraltro sapere quando e come, senza
poterci fare nulla. Essere un uomo deve essere certo molto
meschino, davvero terra terra, e sotto molti punti di vista
abbrutente, ma anche molto romantico, mi dico. Non dico
essere uomo per l’eternità, che non sarebbe nemmeno pos-
sibile a meno di non cambiare incessantemente corpo, ma
quel tanto da togliermi lo sfizio. Provando tra le altre cose
quei fantomatici stimoli sessuali che tanta importanza han-
no nelle loro esistenze. E poi ubriacarmi di vino, provare
anzi in un colpo solo tutti i vini migliori che esistono, e an-
che tutte le birre e un campione rappresentativo di digestivi.
E saggiare una grande felicità, e subito dopo una tremenda
tristezza, e via dicendo.

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Qualche placida sera siderale, in altre parole quando at-
traverso il polverone silicatico di una nebulosa oscura, chiudo
gli occhi e mi immagino di esserlo davvero, un uomo. Non
sono più Dio, sono un Homo sapiens di sesso maschile che per
una serie di coincidenze entra in contatto con la ragazza ma-
gra sopra e grossa sotto. Naturalmente non le direi chi sono
davvero, perché non mi crederebbe, atea com’è. E per non
venir scoperto eviterei tutti gli argomenti che hanno a che
fare da vicino o da lontano con la teologia, e fingerei di
ricordarmi a stento le cose più essenziali, come succede an-
che agli uomini più eruditi, di avere congerie di prevenzioni
e di idiosincrasie. Simulerei di parlare a malapena un pugno
di lingue straniere, e per quanto riguarda la genetica starei
a ascoltarla con l’aria di non capire nulla di quello che dice,
nulla di nulla, come fanno i suoi conoscenti. D’altra parte
non dovrei nemmeno esagerare nel senso contrario, se non
voglio essere preso per un imbecille: occorrerà pur sempre
brillare, affascinarla. Un equilibrio difficile da ottenere, per
qualcuno abituato a eccellere.
A pensarci bene forse il pericolo maggiore sarebbe pro-
prio quello di sembrarle sempliciotto. Sarebbe il colmo se le
apparissi un ometto senza attrattive, e facessi la fine del suo
collega con i brufoli color tramonto. È impossibile scardi-
nare la prima impressione di una donna, una volta che si è
intrufolata: perfino per me, che sono onnipotente (cosa non
si scrive per rendere più avvincente un racconto). Per ras-
sicurarmi allago un pezzo di autostrada o faccio schiantare
un aereo di linea: non si sono potute accertare le cause del disastro.
Poi però mi ritrovo di nuovo in balia delle incertezze e delle
paure.
Forse dire confuso è troppo, però mi sembra che i miei
ragionamenti siano perturbati da bordate che li fanno
vacillare, li incanalano in spirali che fanno pensare agli

128
ancheggiamenti di un ubriaco. Spero di sbagliarmi, ma
temo che siano quelle egotistiche malie dette sentimenti nelle
quali i bipedi si crogiolano fin dal primo istante in cui li ho
creati: me ne sono accorto subito che qualcosa non andava
per il verso giusto. Cerco di scacciarli, e invece restano lì a
minare come subdoli tarli la mia imperturbabilità divina.
Non avevo mai nemmeno sospettato che potesse succeder-
mi una cosa del genere.
il sesso indiavolato

Qualcuno bussa di nuovo alla porta dell’ex pescheria.


Ancora il bel climatologo? Si è per caso storto una caviglia
mentre spingeva la bicicletta bucata in quell’incredibile ca-
lura? Tipiche domande da navigato scribacchino: a parte
un gran mal di testa, forse legato alle emozioni troppo forti,
che si è incistato su quello di pancia, e a parte il gomito
rotto, gli va tutto bene. E a battere non è certo il braccetto
di una zia, per testosteronica che possa essere: è il martel-
lare energico e perentorio di un ominide impaziente, forse
anche violento. Dafne va però a aprire senza alcun timore,
e non sembra per niente stupita di ritrovarsi davanti il mec-
canico della moto. Il tarchiatello con il naso da pugile.
È proprio lui, sebbene non abbia addosso la solita tuta con
la marca giapponese stampata sulla schiena. Questa volta
indossa dei jeans chiari molto attillati e una maglietta rossa
anch’essa avviluppata attorno ai groppi di muscoli promi-
nenti e come scolpiti nel legno: si direbbe un culturista. Ai
piedi ha un paio di scarpe da ginnastica che sembrano troppo
grandi, come quelle dei bambini. Lei però ha appena il tem-
po di vedere questi dettagli, perché lui si impossessa seduta
stante della sua testa, come prendendosi la cosa per la quale
è venuto, come per chiarire fin da subito che non è lì per fare
grandi discorsi. Lei gli affida la sua bocca senza esitare, quasi
avesse un po’ paura di contrariarlo. E non impedisce che le
sue mani dure e ruvide si infilino sotto la tunica, facilita anzi
il loro avanzare prepotente con movimenti concentrici del

131
busto che ricordano gli ondeggiamenti di un insidioso ser-
pente. E quando le grandi spatole trovano i due capezzoli lei
si aggrappa con tutte le forze ai suoi bicipiti, come farebbe in
una situazione di gran pericolo, come per farsi proteggere.
Qualche minuto dopo sono sulla stuoia e la tunica di lei
è spalancata come un libro, un libro tutt’altro che sacro.
Sdraiato sopra il suo lungo corpo il meccanico pompa con
le braccia possenti, dando con il bacino bordate sempre più
energiche, come piantando nella terra un grosso palo, come
preoccupato di finire in fretta un compito assai faticoso. Con
la guancia incollata alle piastrelle azzurre del pavimento lei
guarda verso la finestrella a baionetta aperta sul viale con le
nigeriane in vendita, ma nei suoi occhi c’è la stessa nebbia di
quando si sta per svenire. Sembra non rendersi conto di nien-
te, sembra drogata. È sola nel suo mondo di silenzio e vento.
Il motociclistico satiro la sbatacchia ancora più forte, sem-
bra voler sfondare il pavimento dell’ex pescheria, precipitare
nella cantina di sotto, nell’inferno (una delle tante fissazioni
del mio supposto figlio, ma con una sua innegabile potenza
coreografica, e forse anche simbolica). Finché emette un ra-
glio che si direbbe l’inspirazione di un asino restato in apnea
fin quasi a morire. Per qualche secondo rimane sospeso nel
vuoto, percorso da tremiti che potrebbero far pensare all’ini-
zio di una crisi epilettica. Si affloscia invece sopra di lei, quasi
che in quell’affastellamento di turgidi muscoli si fosse rotto
qualcosa. Questo uno a zero era però solo l’antipasto: l’im-
ponente cero bianco è sceso di appena qualche millimetro, si
tratta solo di riprendersi un poco. Non sarà certo una notte
di lunghe disquisizioni e di teorie filosofiche: guardano anzi
in direzioni opposte, lei verso la parete di mattoni di vetro che
dà sulla corte postfordista, lui verso i piattini di dolcetti sul
bordo della vasca dei pesci adibita a letto.

132
i diabolici danni collaterali

Per quanto possa andare indietro con la memoria – un modo


di dire, vista la micidiale efficienza della mia memorizzazione
– non mi sono mai sbagliato. Ma proprio mai. D’accordo, in
qualche occasione ho sterminato degli innocenti, ma non ho
mai preso fischi per fiaschi. Questa volta il mio cervello ha inve-
ce fatto un buco nell’acqua.* Avevo tutti gli indizi sotto gli occhi,
però una tempesta di sentimenti (non saprei come altro chia-
marli) ha messo fuori combattimento le mie doti divine, come
quei marchingegni elettronici capaci di mandare in tilt i radar
del nemico. Era con il meccanico che la lubricissima ragazza
aveva pianificato una sessione di sesso tribale, peraltro sfociata
in un deludentissimo quattro a zero, non con il bel fusto che si
dibatte come una mosca incollata alla carta moschicida.
Questa situazione non può più durare. L’ho detto e ridet-
to: sono fuori dal tempo e dallo spazio-tempo, ma quando
qualcosa dura, dura, e bisogna tenerne conto, correre ai ri-
pari. Non è concepibile che tutta la mia esistenza, o come
altro vogliamo chiamarla, sia scombussolata da un singolo
esemplare della razza umana, e nemmeno tra i migliori. La
tipa non è un’asceta abitata da un fuoco mistico che le per-
mette di incassare con occhi colmi di devozione le peggiori

*
Come è ovvio se io voglio fare un buco nell’acqua (intendo un foro
che rimane tale, senza subito richiudersi, o anche solo diminuire col
tempo di diametro) lo faccio senza problemi, posso anzi farne quanti ne
voglio, trasformando una bacinella d’acqua in una forma di formaggio
Emmenthal. L’espressione non va quindi presa in senso letterale.

133
torture della carne, il che compenserebbe certo, come è già
successo in tanti altri casi, pecche e difetti di varia natura:
è un’atea militante che passa le notti a cercare di sabota-
re il sito web del Vaticano (recentemente è riuscita a tro-
vare la falla che cercava, temo il peggio), un’incorreggibile
miscredente favorevole al matrimonio degli omosessuali e
all’interruzione volontaria di gravidanza, che ha praticato
in prima persona per ben due volte, e attenta solo alla pro-
pria soddisfazione sessuale. Poco importa che quest’ultima
sia molto aleatoria, come attestano i punteggi sempre mi-
serrimi con cui si risolvono le sue zuffe pornografiche: l’os-
sessione è quella. Una strega insomma che in altre epoche
sarebbe finita su un rogo fumante. Nemmeno nei peggiori
romanzacci succedono cose così.
Il problema sono i danni collaterali, per certi versi più no-
civi dei guasti diretti. Gli effetti sul mio umore, chiamiamolo
così. La notte dormo da cani (i cani dormono benone, ma
tant’é), sprofondo in ragionamenti sempre più labirintici e
mi sembra che la mia perfezione sia meno cristallina, meno
paradigmatica. Il primo caso di perfezione imperfetta: da
far venire l’emicrania al più dialettico dei filosofi. Non è
tanto la differenza di età – visto che io non ho età – e nem-
meno quella di rango, in ogni caso il mio non può essere
paragonato con quello di nessuno, ma un dio è un dio, e un
uomo è un uomo. Corro il rischio di rendermi ridicolo per
il resto dell’eternità, se solo si sparge la voce. Sarò ricordato
per sempre come il dio che ha perso la testa per un’atea che
infila il braccio nell’ano delle mucche e fa i roghi di crocifis-
si. Alt! mi dico, sto delirando! Questi ragionamenti sono demenziali!
Pericolosissimi!
Per miliardi di anni (ammesso che non fossero anco-
ra di più: a dir la verità non ho mai tenuto il conto) tut-
to è filato più liscio dell’olio: tenevo d’occhio, presenziavo,

134
sovraintendevo, ricompensavo, rimettevo in riga, castigavo
– non ho nessuna difficoltà a ammetterlo – davo in escan-
descenze (succedeva). La normale amministrazione di un
dio unico, che proprio per il fatto di non avere collabora-
tori e/o colleghi ha tutto il fardello del cosmo sulle spalle,
ma che a ragione della sua onnipotenza se la cava benone.
Adesso invece esito, tergiverso, indugio: ho sempre paura di
sbagliarmi.
Mi chiedo se per caso non sono un po’ depresso. Al gior-
no d’oggi la maggior parte degli uomini è demoralizzata,
vista la situazione senza uscita nella quale si sono cacciati:
a forza di stare lì a guardarli mi sono forse beccato anch’io
un malanno del genere. Con la differenza che io non posso
certo andare da un terapeuta e dirgli che sono Dio, e che
non mi sento tanto per la quale. Nemmeno Freud in perso-
na potrebbe aiutarmi: un elefante zoppicante non può far-
si sostenere da un presuntuoso moscerino austroungarico.
Senza contare che il novantanove per cento degli psicanali-
sti è ateo, il che creerebbe una situazione surreale: un ateo
che conversa amabilmente con Dio (che Dio parli a un ateo
è già più normale). E nemmeno posso prendere delle gocce
di un antidepressivo (e poi quante?; certo il fogliolino non
specificherebbe la dose ottimale per il sottoscritto!). Un dio
deve sempre cavarsela da solo, qualsiasi cosa succeda e in
qualsiasi pasticcio si cacci.
È questo diario – peccato solo che non sia mai sfilato
un solo giorno, qui dove sto io – che sto scrivendo, che mi
sta portando alla rovina. Uno scrive, e più scrive più si sdi-
linquisce, è inevitabile, e va a finire che si mette in testa
ogni sorta di fesserie. Comincia a sragionare, s’innamora.
È successo fin dalla notte dei tempi a milioni di ragazzine e
di giovinetti chiusi nelle loro tristi camerucce, ma anche a
schiere di adulti, perfino a insigni vecchioni, indifferenti ai

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morsi crudeli del ridicolo. Tutti a partorire frasi appiccicose
di sentimentalismo, reprimendo i singhiozzi e bagnando le
tastiere – prima erano fogli di carta, e prima ancora papiri –
con calde lacrime, aizzati dagli stessi ridicoli vagiti che esco-
no dai tasti dei loro computer (prima erano penne, e prima
ancora stili e calami). E adesso succede a me, dio o non dio.
lʼabitazione dei serpenti

L’abitazione dei serpenti è una pietraia molto scoscesa


alla base di una parete di roccia grigia non ancora colpita
dalle sciabolate del sole che si sta levando. Un vero posto da
serpenti, si dice Dafne, provando un brivido lungo la schiena.
Segue la zoologa che saltella con brio da una pietra all’altra:
sono tanto silenziose che al limite del bosco due caprioli
fanno tranquillamente colazione. Di serpenti per il momen-
to neanche l’ombra, ma la piccola esploratrice non sembra
preoccupata: per esserci ci sono, sussurra, sorridendo di lato
come quando si parla di un amico particolarmente simpati-
co. E in effetti nemmeno due minuti dopo già ne stringe uno
in pugno. La grandona non sa dove l’ha preso, perché guar-
dava dall’altra parte: sa solo che adesso lo sostiene come
farebbe con una cintura, senza particolari precauzioni, ma
anche con delicatezza, quasi temesse di rovinare il cornetto
che ha in mezzo alla fronte.
Dafne ha passato tutto il giorno precedente, una dome-
nica, e tutta la notte, al laboratorio. Ventitré ore non stop,
con solo due interruzioni per tre bignè al cioccolato e per
un sacchetto di patatine al peperoncino trovato sullo scaffa-
le del chimico con l’acne che vorrebbe sposarla e fare dieci
figli. E naturalmente tre confezioni di zenzero candito. Nel
vedere i gioiosi occhi di cerbiatta e le gengive color gengi-
va della piccoletta, all’appuntamento davanti all’erborista
greca, le è sembrato che tutta la fatica se ne scivolasse via
di colpo, come ci si sfila di dosso un pesante cappotto. Poi

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durante il tragitto con il fuoristrada del Museo di scienze si
è lasciata cullare dagli ondeggiamenti originati dalla salita
tutta curve: più il tempo passava più si sentiva di buon umo-
re, più aveva l’impressione di essersi appena alzata.
Sempre tenendo in mano la vipera che fa la cravatta,
Afra, la piccoletta (sono un po’ stufo di chiamarla sempre
così), si inginocchia a terra. Con la mano libera estrae dal
tascapane la sua attrezzatura, e la dispone in bell’ordine su
una pietra piatta. Poi con un resto di sorriso sulle labbra
ben disegnate, incide con un bisturi la pelle dell’animale a
qualche centimetro dalla testa, e sollevatone il lembo infila
una piccola pastiglia elettronica. Per finire disinfetta accu-
ratamente la ferita e la richiude con un cerotto largo due
dita. Dopo il cerotto cadrà via, è fatto apposta, dice con la sua voce
pulita come l’acqua, posando la vipera per terra. Questa
per un attimo resta immobile, poi sguscia via lentamente,
come un qualsiasi paziente che è stato dal dottore, e ripensa
a quanto gli è stato detto.
Adesso Dafne ha un po’ paura. Pensa che un’altra vipera
del corno, visto che a quanto pare quella pietraia ne è pie-
na, potrebbe sbucare all’improvviso e morderle la caviglia
sopra gli stivaletti da motociclista, o insomma qualcosa po-
trebbe andare storto. Forse proprio nel vedere la sua fronte
increspata Afra le dice che è quasi impossibile farsi mordere
da una vipera: sono molto più pericolose le mucche con le
quali ha a che fare lei. Lei è contagiata da quella sua cal-
ma: il suo dubbio se ne va come una nuvoletta che transita
veloce nel cielo, e poi sparisce. Così spesso se ne scappano
via i presentimenti – anche quando sono giusti – degli esseri
umani.
Appoggiata a un accogliente tronco della famigliola di
larici al limite della valanga minerale, la osserva: è evidente
che il suo corpo sensuale di gatta, solo la testa è da cerbiatta,

138
ha bisogno di quel tipo di caccia, è evidente che la sua è una
vera missione. La vipera del corno rischia di estinguersi, e lei
la sta studiando per sapere come aiutarla. Seguendo i suoi
movimenti si dice che forse ha ragione quell’amica di ogni
sorta di animali e animaletti, la natura bisogna in primo
luogo prenderla così com’è. Lei invece ha pensato sempre
a modificarla, a carpirle i segreti per metterla al guinzaglio
e spremerla. È un’idea che fatica a avanzare, come un car-
rello con le ruote arrugginite: si ripromette di rifletterci con
calma. Per il momento sta bene in quel silenzio, col sole che
accarezza ormai le cime leggere dei larici. Poi non pensa
più niente, perché si addormenta. Dorme come un angelo
(gli angeli non dormono, ma lasciamo stare).
Scendendo verso la pianura asfaltata e cementificata Afra
le dice che non ne può più di lavorare al Museo di scienze,
dove ormai la preoccupazione è solo organizzare mostre
idiote: anche le scienze naturali si sono piegate alla dittatu-
ra dell’audience e del pensiero unico, come tutto il resto. E
comunque non l’assumeranno mai, con la scusa della crisi
economica: ha rotto troppo le scatole. Del resto lei non vuo-
le più essere connivente con questo sistema che sta portan-
do il genere umano alla catastrofe: vuole lavorare la terra,
far crescere con le sue mani le carote e i cavoli, allevare una
capra e delle galline, e se possibile anche un asino. È giunta
l’ora di organizzare una vera resistenza.
La genetista rimane allibita. Lei ha sempre abitato in cit-
tà, non si immagina che si possa vivere altrove. Ha sempre
pensato che l’agricoltura più moderna è ancora molto arre-
trata e andrebbe resa più tecnologica. Dovrebbe essere or-
ripilata da quei propositi tanto simili alle velleità dell’amico
di sua mamma e dei suoi compari, tutti coi capelli bianchi e
la passione per la marijuana e il vino rosso. E invece pensa
alle carote che crescono in condizioni semifeudali, e le viene

139
da piangere. Non sa nemmeno lei perché è successo, e fa in
modo di non essere vista.
Mentre rientrano nella fumigata città, la piccoletta le dice
che ha deciso di lasciare Vittorio. Si aspettava sempre che
migliorasse, ha portato pazienza: adesso è proprio stufa.
Non glielo ha ancora comunicato ma lo farà presto, dice
con una determinazione per certi versi gaia: il tono con cui
si espongono i programmi per le vacanze. Del resto il sesso
con lui non è mai stato molto soddisfacente, aggiunge come
dando l’ultima martellata. Lei non ribatte niente, anche se
le piacerebbe parlare dei suoi due a zero e tre a zero e uno
a zero: sempre zero. Le viene di nuovo il groppo alla gola,
quindi guarda dal finestrino di lato.
tornare a non pensare più a niente

Non è che gli altri sette miliardi di uomini li trascuri, per


carità, ma come succede quando si è molto presi da qualco-
sa ascolto con un orecchio solo, cercando di sbrigarmela più
in fretta possibile. Non mi era mai capitato di fare dei favo-
ritismi, a dispetto delle preferenze etniche che mi hanno af-
fibbiato, e a dire la verità non mi entusiasma molto l’idea di
cominciare alla mia venerabile età. Mi sforzo allora di fare
le cose come vanno fatte, di salvaguardare la mia ineccepi-
bile scrupolosità professionale. Se l’agonia di un vecchietto
è un pochetto lunga, per esempio, non lo faccio passare se-
duta stante a miglior vita, come avrei la tentazione di fare:
lascio che ci metta il tempo che ci mette.
Appena posso torno a concentrarmi su quello che in
questo momento mi interessa più di tutto (preso dalla foga
stavo per scrivere l’unica cosa): la guardo mentre traffica nel
laboratorio con il camice bianco aperto sulla pelle un po’
ruvida di bionda, mentre defeca con la gatta cieca sulle gi-
nocchia, mentre dorme. Mi piace moltissimo vederla dor-
mire: sdraiata tra le lenzuola, senza il tocco serioso degli
spessi occhiali, e abbandonata al calore un po’ umido e
sensuale del sonno – una sensualità innocente, con sentori
quasi di pane, o di lievito – sembra uno di quegli angeli
molto lunghi di certi quadri manieristi, intenti a annuncia-
re questo o quello, o svolazzanti sul soffitto di certe chiese.
Quando dorme non ho timore che combini atti offensivi
nei miei confronti, e non c’è nemmeno più il pericolo che

141
si masturbi. Sogna, e io adoro seguire i suoi sogni ottimisti,
freschi come l’acqua di un ruscello (petrarcheschi?), ma con
continue sorprese e colpi di scena.
È proprio quando la osservo dormire che mi vengono le
fantasie più folli. La mia amica, ormai dentro di me la chia-
mo così, potrebbe diventare una dea, mi dico. La eleverei al
rango di divinità, come facevano piuttosto spesso gli immor-
tali – i fantasiosi personaggi supposti tali – adorati dai greci.
Diventerebbe la mia consorte. Insomma, una convivente, o
una concubina, come diavolo si preferisce, beninteso sba-
razzata dall’incombenza del decesso: tecnicamente parlan-
do sarebbe un’inezia. Invece di correre intorno a rubare i
crocifissi e a abbuffarsi di cannoli siciliani resterebbe al mio
fianco, o si farebbe dei giretti per le galassie. Adatta sarebbe
adatta: per certi versi già me la vedo, con le sue treccine.
Studierebbe i frammenti di meteorite, o qualche mistero
scientifico del cosmo, invece dei batteri. Con tutta quella
materia il suo spirito matematico avrebbe di che nutrirsi per
l’eternità: un po’ alla volta ne saprebbe più di me (faccio per
dire). E forse a un certo punto si metterebbe a scrivere una
bibbiona riassuntiva, un compendio che sarebbe apprezza-
to fino alla fine dei tempi. Non sarei più solo, saremmo una
coppia, una coppia di dei.
Certo le religioni monoteiste rimarrebbero spiazzate: i
culti attuali prevedono che Dio abbia un figlio, dei discen-
denti, ma non una consorte, o compagna che dir si voglia.*
Ma forse mi sto facendo troppi problemi: le dottrine sono
sempre state talmente approssimative e vaghe, al mio ri-
guardo, che sposato o non sposato non cambierebbe nulla.
Senza contare che non ci sarebbe nessuna fretta di spargere
*
Il che è un’ulteriore prova della natura intrinsecamente egoistica degli
uomini: non vedo perché loro passino il tempo a accoppiarsi, o comunque
a pensare di accoppiarsi, e io invece non possa avere una moglie legittima.

142
la notizia ai quattro venti: per il momento potremmo fare
le cose con discrezione. Poi un po’ alla volta gli uomini co-
mincerebbero a subodorare che non sono più solo, e si met-
terebbero al passo: aggiornerebbero i testi sacri, cambiereb-
bero le immagini e le statue. Con tutta calma.
Stop! mi dico poi. Devo smettere seduta stante di pensare a quella
ragazzetta! Qualsiasi cosa succeda devo dimenticarla! Tornare a non
pensare a niente, che è poi la sola maniera di pensare equanimemente a
tutto! Io sono Dio, mi dico.
le terribili iniquità del pianeta

Quando arriva al laboratorio tutti la salutano come si fa


con le persone che hanno appena perso un parente stretto,
Dafne però non se ne accorge. Sotto i larici ha dormito forse
mezz’ora, ma si sente abbastanza in forma per il bombar-
damento in programma. Pare che abbiano messo fuori i risultati
del concorso, le bofonchia il suo stechiometrico spasimante,
guardandosi come sempre gli scarponcini da prete in gita
che spuntano dal camice. Lei lo ascolta come si ascoltano
i grandiosi seccatori, senza notare la fosforescenza più in-
tensa dei brufoli. E dopo aver finito con calma di sparare i
microproiettili d’oro rivestiti di geni manipolati, va a vedere.
E legge che ha vinto l’oca inetta. Lei è seconda. Ha l’impres-
sione di sognare, e invece è proprio vero: seconda, con molti
punti di differenza. Il suo primo pensiero va alla pila a bat-
teri, come ci si preoccupa di mettere in salvo un bambino.
Di solito le ingiustizie del pianeta chiamato Terra non mi
fanno né caldo né freddo. Il mio non è cinismo, intendiamo-
ci, è semplice buon senso: intervenire sarebbe come cercare
di tappare i buchi di un colabrodo grande come la Terra
stessa.* Questa volta però sono indignato: c’è un limite a tut-
to. In fondo non sarebbe poi così difficile rimediare, mi dico,
convogliando sul direttore del laboratorio una forma molto
*
Senza contare che gli uomini adorano le ingiustizie: se arginassi tutte
quelle esistenti, loro si spremerebbero le meningi per farsene venire in
mente altre più tremende ancora, più feroci. Non si può pretendere che
un ippopotamo cammini su un filo, o che una giraffa impari a volare.

145
aggressiva di leucemia: una di quelle agonie che nonostante
tutti gli antidolorifici strappano urla strazianti che accap-
ponano la pelle a tutto un reparto dell’ospedale. O ancora
meglio annientare in una botta sola lui e l’amena vincitrice:
un soffitto che cede, una bombola di idrogeno che esplode:
uniti negli intrallazzi concorsuali e uniti nel trapasso. Certo
come ho già detto più volte di solito mi astengo da questi
mezzucci degni delle epopee primitive, ma certi casi vanno
trattati in modo speciale.
La grande ingenua finisce poi per capitolare. Le è venuta
fuori tutta la stanchezza: l’avverte nei polpacci robusti, nel
busto magro, nel collo troppo lungo, nel cervello più volu-
minoso del normale. Le sembra di non essersi mai sentita
così esausta. I suoi colleghi le dicono che forse i dirigenti
troveranno i soldi per rinnovarle il contratto, ma le loro pa-
role sono senza mordente, sono dettate dalla pena che ispi-
ra. Anche il chimico con l’acne sembra ormai rassegnato a
perderla: piange. Decide allora di andare a casa.
Invece di portarla all’ex pescheria la sua moto si dirige
verso la periferia sud della città, e poi sale verso le colline
con le fresche ville dei nuovi ricconi. E poi ancora devia
verso la valletta scarruffata dei residuati bellici sessantottini
e dei loro emuli. Arriva nel parcheggio (chiamiamolo così)
accanto alla casa (chiamiamola così) del suo patrigno, si leva
il casco, e si rende conto di non sapere più cosa fare: ha l’im-
pressione di essersi levata anche la testa. Il neobuddista con-
vinto di essere suo padre abbandona la carriola che stava
spingendo verso il fienile – ma sarebbe forse meglio definirlo
essiccatoio di marijuana – e si affretta verso di lei. La sostie-
ne per un braccio, o meglio vorrebbe sostenerla, ma vista
la sua goffaggine la intralcia, peggiorando le cose. Lei fissa
dritto di fronte a sé con occhi da statua di cera. Quindi lui
la spinge all’interno, come si spingono gli asini recalcitranti.

146
È accasciata sul divano sfondato che è la camera da letto
del cane grosso con il pelo lungo, il quale guarda il collega
con il pelo corto, più sveglio di lui, quasi volesse chiedergli
che cavolo sta succedendo: perché non muove un muscolo, per-
ché non piange? Fa insomma come faceva quando aveva tre
anni e sua madre era morta d’improvviso (per lei era morta
d’improvviso). Forse proprio ricordando quella catastrofe
l’uomo che assomiglia a don Chisciotte la fissa grattandosi
la sezione calva della testa. Vorrebbe chiederle qualcosa, ma
non hanno mai davvero parlato di argomenti gravi, e que-
sto non facilita le cose. Poi però massaggiandosi la guancia
le chiede se è successo qualcosa. Hanno preso l’oca, risponde
lei con voce impersonale e come automatica. Si zittisce di
nuovo, e anche lui tace.
Io però sono Dio, e quindi so cosa macinano i suoi neu-
roni. Lui pensa che l’azzimato direttore di laboratorio ha
certo un’elegante automobile: le auto tutte elettroniche bru-
ciano ancora meglio delle vecchie, producendo gran fumo e
gran puzza. O forse potrebbe rapirlo e piantargli degli spilli
nello scroto: l’élite neoliberista tratta sempre peggio gli esse-
ri umani, e è giunto il momento di cominciare a ribellarsi.
Poi però guardando l’altarino con il grassone a torso nudo
ricorda le parole del suo guru in India, e si dice che tutto
quello che avviene è funzionale al karma. Gli spilli nello
scroto sarebbero controproducenti.
Dopo essersi grattato il collo rimugina che certi squali del
neocapitalismo oligarchico una punizione se la meritano,
anche senza arrivare a certi eccessi. E quindi ritorna all’ipo-
tesi automobilistica, in una versione meno radicale: potreb-
be spazzolare la vernice metallizzata in lungo e in largo con
un bel chiodone da quindici. In certe situazioni gli afflati
misticheggianti dentro di lui fanno a pugni con uno spiri-
to insurrezionale di matrice anarchica: prima della deriva

147
orientale faceva parte di un gruppuscolo che aspirava alla
rivoluzione perpetua. In una successiva onda spirituale si ridice
che quello che succede nella vita materiale conta in fondo
molto poco.
Le porta una birra e gliela apre. Lei beve un paio di sorsi
guardando qualcosa di invisibile davanti a sé. Lui allora si
raspa la gola, come chi vuole introdurre un tema che reputa
importante. Dice che sua madre – lui dice Gea, perché il suo
nome era quello – conosceva bene un prete che l’ha aiutata
quando non aveva un posto dove stare, e con il quale face-
va grandi discussioni: secondo lui Dafne dovrebbe andare
a trovarlo. Lei ha un impercettibile sussulto, probabilmente
un puro riflesso meccanico: non sembra avere capito. È un
prelato ammanicato con i politici e le persone che contano, ma era molto
legato a tua madre, e senz’altro aiuterà anche te, ritorna all’attacco
guardandosi le pantofole, sempre con quella sua voce poco
naturale.
Dafne fissa gli enigmatici strati di macchie sul pavimento,
senza peraltro vederli. Vedrai che potrai andare avanti con i tuoi
batteri, sei molto brava, la incoraggia lui. Allora scoppia final-
mente a piangere: come piange lei, senza far rumore, senza
muovere un solo muscolo. Piange a lungo. Beve la birra di-
rettamente dalla bottiglietta e piange. Quando la finisce ne
beve un’altra: lui gliela porge come si fa con i ciclisti, che
prendono senza ringraziare. E poi un’altra ancora, sempre
piangendo con il silenziatore. Poi ancora senza nemmeno
rendersene conto si sdraia, e finisce per addormentarsi.
Quello che reputa essere suo padre la copre con la coperta
che usa per la meditazione trascendentale, e spegne la luce.

148
solo per una notte

Questa notte, diciamo così, mentre faticavo a addor-


mentarmi, idem, mi dicevo che se davvero mi incarnassi
non ricalcherei certo le orme dell’autoproclamato mio di-
scendente. Non andrei in giro a piedi nudi a fare proseliti,
non pronuncerei frasi ispirate, spesso e volentieri inesatte,
non farei miracoli. Anzi, l’attrattiva – stavo per dire la ver-
tigine – starebbe proprio nel cambiamento radicale: basta
profondità abissali e spiegazioni ultime, mi immergerei
fino al collo nella parzialità, nella finitezza. Farei cose nor-
mali: mi schiaccerei in mezzi di trasporto alle ore di punta,
entrerei in centri commerciali strapieni, guarderei le se-
rie televisive stravaccato su un divano. Per sperimentare
tutta la paletta di sensazioni umane, camminerei con le
infradito su una spiaggia semideserta, mi lancerei con gli
sci ai piedi lungo un pendio innevato, fumerei una siga-
retta, proverei la fantomatica sauna siberiana, prenderei
un aeroplano. La mia sarebbe insomma un’incarnazione,
se non proprio in incognito, a carattere privato: senza cla-
mori e senza piazzate, con la dignità e la pacatezza che mi
sono consone.
Per incarnarmi potrei scegliere un palmeto alla deri-
va sopra un magnifico mare trasparente (o così sembra,
guardando dall’alto), o un lindo villaggio alpino, una
formicolante metropoli orientale: non avrei che l’imba-
razzo della scelta, come una persona facoltosa sfoglia in
un’agenzia turistica i dépliant patinati per decidere dove

149
andare. E nessuno mi impedirebbe di spostarmi all’istante,
e senza soffrire di jet lag, se cambiassi idea. Finirei inve-
ce per ripiegare, c’è da scommetterci, mi dicevo, su quel-
la periferiaccia che si fonde con la pianura intristita da
nebbie, fumi industriali e miasmi di allevamenti suinicoli
e bovini, dove vive Dafne. Quei vialoni con le pedisseque
fermate del tram abitate da immigrati rassegnati, le car-
tacce che svolazzano nell’aria, le deprimenti lande deso-
late in attesa che la speculazione edilizia riprenda – finita
l’eterna crisi – il suo corso.
Tanto varrebbe, se proprio mi decidessi a lanciarmi, non
essere troppo anziano, e anzi piuttosto prestante, mi dice-
vo. Non dico un bellimbusto, dio ci salvi dai culturisti, però
nemmeno uno sgorbio. Un giovanotto insomma senza in-
cipienti calvizie, con un viso piacente e affidabile, un corpo
ben fatto, un apparato riproduttivo proporzionato e tonico
da statua greca.* Non mi dispiacerebbero gli occhiali, che
mi hanno sempre attirato. Certo potrei essere invece una
ragazza, anche se forse mi sentirei un po’ (ma non vorrei
essere tacciato di maschilismo) un travestito.
Se lo volessi, mi dicevo, potrei incarnarmi in un miliar-
dario che nuota nel lusso e negli agi: lo sforzo (sforzo?) sa-
rebbe identico. La verità invece è che assumerei l’apparen-
za di una persona normalissima. Non mi sono mai piaciuti
i ricchi: nove volte virgola nove su dieci si credono migliori
degli altri solo perché posseggono qualche oggetto in più,
e pretenderebbero che fossero tutti ai loro piedi. Su questo
*
L’aspetto fisico ha sempre avuto un’esagerata importanza, giù dagli
uomini, secondo loro stessi per motivi legati alla cosiddetta evoluzione:
scegliendo padri piacenti le madri speravano di assicurarsi una prole
gagliarda. E idem i padri, anche loro convinti che la gradevole apparenza
fosse una garanzia contro le malattie e le fragilità. Non si capisce però
perché, messi adesso astutamente in soffitta i meccanismi evolutivi, conti
ancora più di prima.

150
mi trovo d’accordo con mio figlio, anche se certi suoi estre-
mismi continuano a lasciarmi perplesso.*
Ma una volta uomo, mi chiedevo anche, quale sarebbe la
mia primissima azione, o battesimo che dir si voglia? Berrei
un espresso al banco, guardando da sopra la tazzina gli altri
avventori? Prenderei un ascensore? E come mi comporte-
rei nei confronti di Dafne, se l’incrociassi? Oserei parlarle
dei miei sentimenti, sempre a patto che siano davvero sen-
timenti? E se li snobbasse cosa farei, io che sono abituato a
avere sempre tutto quello che voglio? Chi mi assicura, cer-
cando di adottare già adesso un punto di vista umano, che
non mi maltratterebbe come fa con il chimico muto, e come
fanno spesso le donne? Come reagirei se mi facesse sospira-
re, togliendomi l’appetito, riducendomi come uno straccio?
Non la prenderei molto male?
La cosa più destabilizzante, diciamo così, era accorgermi
che per certi aspetti mi piacerebbe, essere disperato. Un po’
come affacciandosi dalla cima di un grattacielo ci si sen-
te attratti dall’abisso sottostante. Per un attimo, quel tanto
da essere sicuro di sapere cosa vuol dire: sentirmi un nodo
duro nella gola, un’oppressione sui polmoni, gli occhi che
pizzicano. Non vedere davanti a me alcun futuro (io!), solo
il deserto dell’infelicità.

*
Se rinascesse in questi tempi di sacralizzazione del denaro, mi dico
qualche volta, sarebbe un terrorista: altro che porgere l’altra natica per
ricevere un altro calcio nel sedere.

151
le telecamere nascoste

Salendo a tre scalini per volta le rampe dell’Associazione


degli allevatori Dafne si dice che approfitterà dell’inaspetta-
ta convocazione del presidente per chiedergli che le facciano
fare più interventi: certo adesso non è più tanto d’accordo con
l’inseminazione artificiale – anzi, più ci pensa più è contraria
– ma insomma per sopravvivere è meglio che niente. Quando
arriva davanti alla sua scrivania la segretaria simile a Cleopatra
la guarda come se il suo abbigliamento le desse più noia del
solito. Ma anche con scintille di tripudio negli occhi, una gioia
assetata di sangue ancora caldo, solo in extremis dirottata sul
cactus in erezione accanto alla fotografia della sua famigliola.
Lei si scrolla di dosso quel peso con uno scatto equino
del collo, e entra nell’ufficio presidenziale. L’omone con gli
occhi piccoli e tondi di solito le sorride come gli uomini roz-
zamente testosteronici sorridono alle ragazze giovani, belle
o brutte che siano: spacciando il desiderio sessuale per un
cordiale buonumore. Questa volta l’accoglie invece con il
mento sollevato e la testa da toro un po’ inclinata. Stando-
sene asseragliato dietro alla scrivania con le braccia con-
serte. Poi senza dirle nulla si mette a cercare qualcosa nel
computer. A quanto pare però non lo sa trovare, e quindi
sbuffa. Lei si dice che sembra proprio un toro all’inizio di
una corrida: i tori hanno difficoltà a distinguere le mucche
vere dalle imitazioni, immaginiamoci con i computer. Del
resto le sue dita sono troppo grosse: ci vorrebbe una tastiera
con i tasti grandi come quelli di certi giochi per i bambini.

153
Il presidente finisce per annuire, dondolando la testa in-
nestata sul collo taurino: ha trovato quello che cercava. E
dopo qualche secondo di giubilo solitario gira lo schermo
piatto verso di lei, disegnando con il braccio un semicer-
chio che potrebbe essere scherzoso: l’arresto è però violento.
Sullo schermo sfila il filmato in azzurro e bianco di una te-
lecamera di controllo: un corridoio vuoto e piuttosto buio,
nel quale non transita nessuno. Per un bel po’ non succede
assolutamente niente, a parte il palpitare dell’immagine di
scarsa qualità. C’è solo il corridoio, e quell’inquietante vuoto
di quando non accade nulla (tipica frase ridondante messa
lì per rendere il testo più avvincente). Poi una porta si apre
lentamente, e appare lei. Sarebbe difficile sbagliarsi: sotto la
tuta da operaio spunta lo stesso giubbotto di pelle che indos-
sa ora, e anche gli stivaletti da motociclista sono gli stessi. Per
non parlare delle inconfondibili treccine a andamento oriz-
zontale. Avanza con passo sicuro e si infila in un’altra porta
proprio nell’angolo opposto dell’immagine. Dopo qualche
istante riappare con un crocifisso in mano: stretto bene nel
pugno, come se fosse una piccola ascia. Prima di riaprire la
porta da dove è sbucata lo infila nella borsa a tracolla, la stes-
sa ora ai suoi piedi, come un pescatore ripone con cura un
pesce appena pescato. Poi scompare, e la porta si richiude.
Senza interruzione un altro video comincia a scorrere.
Questa volta si vede una sala con molte file di sedie e un
pulpito fornito di microfono sul fondo. Dai finestroni sulla
parete si fa strada una luce radente: sembrerebbe una sera
estiva. O meglio, è un pomeriggio di agosto, Dafne lo ri-
corda benissimo. È la colonia cattolica accanto alla grande
stalla appena rinnovata che appartiene alla curia, non lon-
tana dalla riva del lago con le monumentali ville ammuffite.
Aveva appena finito il lavoro, e si era detta che visto che era
lì poteva andare un po’ a caccia. E infatti eccola apparire,

154
voltata come se avesse sentito un rumore. Giunta dietro
il pulpito allunga il braccio verso il crocifisso appeso alla
parete. Solo che è troppo alto, anche mettendosi in punta
di piedi e stirandosi al massimo non ce la fa. Manca poco,
ma proprio non ci arriva. Va allora a prendere una sedia e
ci monta sopra. Questa volta stacca senza difficoltà il mio
supposto figlio dal muro, lo avvicina a sé e lo guarda, senza
scendere dalla sedia. Poi d’improvviso lo scaglia sul pavi-
mento, come folle di rabbia.
Da qualche tempo in certi paesi asiatici riescono a imita-
re il legno in maniera perfetta, certo a costi bassissimi. Ma
non si possono certo bruciare nel caminetto delle croci di
plastica. Questo era il problema. Il presidente però non lo
può sapere: per lui è il gesto di una squilibrata. La guarda
da sopra lo schermo (si è alzato in piedi) quasi fosse una
spietata terrorista islamica. E invece lei non ha mai ucci-
so nessuno, e fa le cose bene: non per niente nel filmato si
china e raccatta i pezzi della croce e del cristo, sbriciolato
anche quello. Sul video non si colgono i dettagli, si vede solo
che è accucciata sul pavimento, di spalle: sembra quasi che
stia facendo pipì. Lei però si ricorda bene come è andata:
ha raccolto tutti i frammenti cristiani e se li è messi in tasca.
Il presidente rigira lo schermo verso la gigantografia della
mandria bovina al tramonto, espirando dal naso, lui stesso
toro che riordina le idee. Poi la fissa senza dire niente. Final-
mente può esprimere tutta la riprovazione machista che ha
sempre covato, frammista anch’essa a desiderio sessuale, e
quindi ancora più impulsiva, più poderosa. Qui ci sono almeno
un paio di reati, sentenzia. Effrazione e furto, dice, contando sul-
le enormi dita uno e due. Lei ha l’impressione di stare per
svenire. Non si trovava in una situazione del genere da un’in-
tera vita. Dal collegio-prigione delle suore, all’epoca delle
elementari e delle medie inferiori: alle superiori ha imparato

155
a utilizzare come arma i meriti scolastici. La sensazione di
essere in balia del nemico, di stare per essere annientata.
Nemmeno un malato di mente potrebbe pensare di fare una cosa del
genere, rubare i crocifissi, sbotta il minotauro idrofobo. Più ci
pensa più sembra infuriarsi, quando per la verità non è pra-
ticante, e tanto meno credente, anche lasciando stare alcuni
dettagli della sua cosiddetta vita privata. Ma più fa l’indi-
gnato più è indignato davvero. Sgambetta avanti e indietro
per l’ufficio con passi risentiti, sprizzando sprezzante risenti-
mento dalle froge e da tutti i pori. Cosa facciamo, telefoniamo alla
polizia o ai carabinieri? dice poi, fermandosi di botto e fissando
il telefono sulla scrivania. Crede forse di essere a teatro.
La stangona non riesce a dire niente: suda gocce gela-
te. Vorrebbe fare no-no con la testa, ma è paralizzata. Non
è solo vergogna, è un totale senso di annientamento allo
stesso tempo fisico e morale. Il suo cervello efficiente come
sempre le dice che presto i carabinieri – solo un deficiente
potrebbe pensare che è una cosa da polizia – saranno lì e
la trascineranno in caserma. Perquisiranno l’ex pescheria, e
troveranno i borsoni di plastica intrecciata pieni fino all’or-
lo: decine di frati e parroci che hanno fatto querela per i san
Giuseppe e i re Magi scomparsi si sfregheranno le mani, e
le domande di risarcimento pioveranno sulla sua testa come
coriandoli. E poi guarderanno nei computer e troveranno i
dati segretissimi ai quali è riuscita a accedere. Metteranno
la notizia sul giornale: arrestata ladra di crocifissi e di madonne:
nella sua abitazione rinvenuta la contabilità riservata del Vaticano.
Quando uscirà di prigione dovrà dormire per la strada: si
aggirerà con un carrello del supermercato pieno di stracci.
E ora non può fare niente per tirarsi d’impaccio.*
*
Uno dei drammi dei non credenti è che nei momenti critici non hanno
nessuno al quale appellarsi: la Razionalità e la Scienza non hanno mai
aiutato nessuno, e mai lo faranno. Perché dovrebbero?

156
la titanica lotta contro me stesso

Ci ho pensato molto, ho preso le mie decisioni. Ci do un


taglio. Beninteso senza tutti i drammi strappalacrime che
farebbe al mio posto un essere umano: la lotta con me stesso
è titanica, e per molti versi mi sento un vulcano il momento
prima dell’eruzione, ma niente tuoni e fulmini, niente terre-
moti o trombe d’aria per sfogarmi i nervi, niente massacri
di innocenti. Un dio si vede anche nei momenti molto dif-
ficili, o forse per l’appunto nei momenti molto difficili. Un
dio è dio. Io sono Dio, mi ripeto.
Cancellare dai miei pensieri la ragazzona e tornare a es-
sere Dio e basta mi sembra la più implacabile condanna
che si possa immaginare, la più crudele. La mia condizione
mi appare peggiore di quella dell’ultimo asteroide in caduta
libera, del più derelitto pesciolino piccolo che sta per essere
divorato da un pesce più grande che a sua volta sarà deglu-
tito da uno più grande ancora. Ma so cosa farò. Sono inna-
morato, non potrei essere più innamorato, però ho deciso, e
quando un dio ha deciso ha deciso.
La aiuterò, e poi tornerò a me stesso. Non è mia abitudi-
ne svolgere il ruolo dell’algoritmo di un sito di incontri, ma
le troverò anche un fidanzato. Farò anzi mostra della mia
magnanimità divina nello scovare un ragazzo in gamba, al
tempo stesso attento e servizievole, simpatico, alla mano.
Uno che non ha la fissa del sesso, che non pensa solo a quel-
lo, a differenza del climatologo: un giovanotto che di tanto
in tanto prova il desiderio e l’impulso di accoppiarsi, come

157
è normale nella specie umana. E è anzi capace di rispettare
il nono comandamento.
Si incontreranno per caso, e subito capiranno di essere fatti
uno per l’altra. Già mi vedo la scena: zacchete, amore a prima
vista. Sarà la degna conclusione, l’unica davvero all’altezza
del mio rango, di questa vicenda. Prima però devo sistema-
re tutto il resto. Una cosa alla volta. In fondo non c’è poi
tutta questa fretta, per il fidanzato.
Il bel Vittorio l’ho spedito tra i canguri e i discenden-
ti degli assassini inglesi. Gli ho fatto cadere lo sguardo su
un’offerta di lavoro di un’università australiana: cercavano
un ricercatore proprio con il suo profilo. Lui nemmeno ha
preso la cosa seriamente – proponevano un salario da favola
– ma con la sua solita ironia noncurante ha mandato la sua
candidatura. Gli hanno risposto in un battibaleno, dicendo-
gli che era proprio la persona che faceva per loro. Per una
serie di circostanze erano molto in ritardo su un certo progetto,
e quindi avevano tanta fretta.
Dopo aver riletto cinque o sei volte le clausole economi-
che del contratto non restava più il minimo sentore del suo
dopanimico struggimento per Dafne. Non finirà mai di stu-
pirmi, l’incostanza degli uomini. Nemmeno si è accomiata-
to di persona, quel vigliaccone: le ha mandato uno sciame
di messaggini pseudospiritosi. Avevo quasi la tentazione di
dargli una piccola punizione a tema. E invece l’ho aiutato
per i preparativi, e gli ho perfino messo a posto il gomito –
nel giro di due giorni l’articolazione era come nuova – pote-
va partire tranquillo. E è effettivamente decollato con il suo
sorriso irresistibile: già durante il volo ha fatto amicizia con
una tirolesina con il seno a balconcino e una cuffia acustica
viola pentecoste. Mi dispiace molto, ma da adesso in poi nel
mio diario c’è un personaggio in meno: bisognerà accon-
tentarsi di quelli che restano.

158
la raccomandata con molti francobolli

Il minotauro solleva la cornetta, compone lentamente le tre


cifre. Polizia, si dice Dafne, per niente stupita della scelta idiota.
Mentre aspetta che rispondano lui tamburella con il dito pi-
cassiano sulla scrivania, a quanto pare preparandosi a spiega-
re la situazione. Attende ancora. Poi però all’improvviso mette
giù, come preso da un raptus che coglie di sorpresa lui stesso.
Non ne facciamo niente, ma qui non ci metti più piede! urla, facendole
segno di andarsene come si fa con gli animali importuni. Via!
urla. E non credere di trovare più lavoro come inseminatrice, le grida
dietro mentre lei ha già la maniglia sulla porta, come se si
fosse dimenticato di quel dettaglio. Nemmeno in Basilicata! dice.
Quando la vede apparire la segretaria con i tacchi e il
trucco da prostituta bizantina le punta addosso le pupil-
le trionfanti: anche lei si atteggia a paladina della religio-
ne cattolica. Quando è da due anni e due mesi, se proprio
vogliamo mettere i puntini sulle i, che nel tardo pomerig-
gio officia un sesso adulterino sulla poltrona presidenziale.
Questo però la stangona non lo subodorerebbe nemmeno
in condizioni normali, figuriamoci in questo momento.
Si ritrova in strada, senza sapere perché è lì e con l’im-
pressione di essere ubriaca. Piange, senza rendersi conto che
sta piangendo. Devo confessare che anch’io sono un po’ tur-
bato. Certo lo sapevo che avevano i filmati che la ritraevano
mentre faceva incetta di crocifissi, sapevo che era stata con-
vocata per quello, sapevo che il telefono sarebbe stato mes-
so giù. Una cosa è però saperle, le cose, un’altra vedersele

159
davanti, viverle per così dire in prima persona: l’emozione tira
brutti scherzi. Quasi quasi mi aspettavo, preso com’ero, che
la polizia rispondesse e mandasse una pattuglia. E adesso
ho quasi il groppo alla gola, a vederla singhiozzare a quel
modo: onnipotenza può voler dire anche avere il groppo
alla gola senza avere una gola.
Parcheggiando la moto davanti all’ex pescheria si dice
che almeno ha un posto dove stare, è già qualcosa. Crisi o
non crisi troverà il modo di guadagnare due soldi, a lei lavo-
rare non ha mai fatto paura. In fondo non avrebbe potuto
durare, la faccenda delle inseminazioni: è successo esatta-
mente quello che doveva succedere. Si ripete insomma delle
frasi incoraggianti senza fondamento, come fanno gli esseri
umani per rincuorarsi.
Dalla buca delle lettere sporge una raccomandata con
molti francobolli: evidentemente l’indiano ha firmato al po-
sto suo (mi metto ancora una volta nei panni della prota-
gonista, per questo è solo un’ipotesi). La apre come se fosse
una qualsiasi fattura: e invece il proprietario dell’ex pesche-
ria le comunica che non le rinnova il contratto di affitto.
Sono previsti dei lavori di ristrutturazione: ha due mesi per
liberarla. Deve leggere tre o quattro volte prima che le paro-
le possano incanalarsi verso il suo cervello, e questo prenda
atto che è uno sfratto. Scoppia allora di nuovo a piangere.
Singhiozza seduta sul water, sulle ginocchia la gatta cieca
che sembra domandarsi da dove sgorghino tutte quelle goc-
ce salate che piovono sul suo bel pelo morbido e cosa siano
quei ragli sincopati.

160
resterò muto come un pesce

Vorrei poterglielo dire, che può stare tranquilla. Lavoro,


casa, amore, tempo libero: sistemerò ogni cosa. Le scoverò
un appartamento non molto costoso ma bellino, con un let-
to – mi si permetta il gioco di parole – come dio comanda. E se
tutto va bene, faccio per dire, potrà continuare le ricerche
che tanto la entusiasmano. Tranquilla, Dafnetta, ora sistemo tut-
to, vorrei poterle dire. Ci sono io, che sono Dio, non so se mi spiego,
le vorrei sussurrare all’orecchio con voce piena di tenerezza,
ma anche molto rassicurante.
E invece resterò muto come un pesce. Fedele alla mia abi-
tuale riserva divina. Qualsiasi cosa avvenga, in qualsiasi pa-
sticcio si cacci. Non mi è facile vederla in quelle condizioni,
ma non lascerò che la commozione mi prenda in ostaggio,
non agirò d’impulso. Ogni cosa a suo tempo. Per questa
sera mi limiterò a mandarle un buon sonno riparatore, del
quale godrà nel suo acquario secco: è importante poter ri-
posare, quando le cose vanno male, altrimenti i nervi – evito
il gergo neurologico – si logorano. Anche ai sogni, ho pen-
sato personalmente: per tirarla su ho messo a punto una
serie di leggiadre romanticherie zeffirelliane sature di colori
pastello e di preziosità fiorentine, ma con qua e là qualche
spennellata più barocca alla Greenaway. Non è molto il suo
genere, ma dovrebbero piacerle.
E certo lei crederà che le cose si sono messe a posto da
sole, quando vedrà che tutto s’è aggiustato, atea com’è. Si
dirà che è stata proprio fortunata, dopo tutte le sfighe, utilizzo

161
il suo linguaggio, che le sono piombate addosso. Ma non
mi importa. Amare vuol dire prima di tutto pensare al bene
dell’amato, non a se stessi (il racconto mi porta ormai dove
vuole lui).
la cassa del supermercato

S’era detta che stare alla cassa di un supermercato non


doveva essere stancante: e invece si è subito accorta che in
quel carcere merceologico le lancette dell’orologio sembra-
no incagliate nel disgustoso cocktail di odori di prosciutto
cotto, detersivi per lavatrice, pecorino e dopobarba. Le ore
non scorrono proprio. Le sue colleghe le dicono che poi ci
si abitua, ma lei s’è convinta che prima di abituarsi morirà:
ogni giorno le pare un’interminabile tortura. La sera è tal-
mente distrutta che le sembra di avere la testa in tanti piccoli
pezzi incollati male, frammenti anch’essi in vendita. Come
mazzata finale per rientrare all’ex pescheria deve prendere
la metropolitana, e poi un autobus: una mattina è uscita di
casa, e la sua bella bicilindri non c’era più. O meglio, c’era-
no i resti del lucchettone, ch’erano riusciti a forzare. Anche
la catena s’erano portati via.
All’inizio lanciava delle occhiate ai corpi e alle facce dei
clienti. È incredibile quanti elementi di un essere umano si
possono captare con un’occhiata quasi istantanea, si diceva,
quando ancora aveva voglia di elaborare teorie, cercando di
tradurre la cosa in termini matematici e informatici. Poi ha
capito che repertoriare le facce e i vestiti è una fatica di trop-
po: per non parlare dello sforzo di dover sorridere. È molto
meglio tenere la testa bassa e compiere i minimi movimenti
indispensabili per far passare i prodotti e prendere i soldi o
il bancomat. Adesso fa anche lei come le altre, si risparmia.
Dopo nemmeno due settimane, per lei i clienti sono

163
ormai sagome di profughi che sfilano una dopo l’altra, gru-
mi di stress che si portano appresso un odore e una fisicità,
ma soprattutto tante ansie, tante angosce. Quasi tutti sono
di cattivo umore, o comunque hanno fretta:* lo percepisce
anche senza guardarli, lo sente sullo sterno. In particolare
alle ore di punta, quando davanti alla sua cassa la coda si
allunga. Un supermercato non è un luogo dove si è felici: la
felicità le persone la lasciano fuori, sperano di trovarla dopo,
grazie agli articoli che hanno messo nel carrello, ognuno
con il suo carcerario codice a barre.
Se sapesse che è solo una situazione transitoria la pren-
derebbe diversamente, povera piccola (si fa per dire). Ma la
curva della disoccupazione si è ulteriormente impennata,
e con la sua mente deterministica lei ne deduce che dovrà
restare inchiodata a quella cassa di merda (uso le sue paro-
le) ad aeternum. Io ho rinunciato a mandarle dei segnali di
speranza: testona com’è non li capta. Le ho fatto incon-
trare nella metropolitana una veggente che le ha predetto,
gratuitamente, che tornerà a fare la ricercatrice: ha pensa-
to che avesse indovinato il suo lavoro per caso. Le ho messo
sotto il naso un oroscopo che annunciava tempi fasti per le
sagittarie della terza decade: con la sua boccona piatta si è
fatta una truce risata. Finché non toccherà con mano non ci
crederà, quella materialista.
Com’è immaginabile, se proprio volessi rintracciarle su-
bito un altro impiego potrei farlo, crisi o non crisi. La via che
ho scelto è però questa. Molti praticanti si immaginano che
un dio ragioni come un vigile urbano, con tutto il rispetto
per i vigili urbani, non sanno che il suo agire è sempre mol-
to elevato e complesso. Non foss’altro perché deve tenere
*
Se c’è un rito che rivela quanto gli esseri umani siano messi male, adesso
che si sono disfatti di me, è quello del supermercato: non posso che
concordare.

164
presente il bene di milioni e milioni di credenti, miliardi di
credenti, prevenendo le infinite interazioni, e dando la prio-
rità a chi ne ha più diritto, ai fedeli più fedeli, come è giusto
che sia. Se fosse questione di aiutare una sola persona, una
monade aliena da gravitazioni galleggiante in un substrato
sterile, sarebbero capaci tutti.
I suoi gesti sono ormai automatici. Passa i prodotti davanti
al lettore del codice a barre senza alcuna interruzione tra un
movimento e il seguente, ma non troppo velocemente: un
compromesso tra la necessità di mostrarsi efficiente e quella
di resistere otto ore. Sa che dalla sua cabina sopraelevata il
responsabile con la pancia da donna incinta la tiene d’oc-
chio: fin dal primo istante l’ha inquadrata come una spoc-
chiosa, prendendo per disprezzo le sue perplesse occhiate
da miope e da matematica. Attraverso i vetri riflettenti lei
non può vederlo, lui però fissa porzioni ben precise del suo
corpo con i suoi occhi umidi da mucca lubrica. Non è colpa
mia se tutti i suoi superiori la desiderano, e la infastidiscono
come i satiri molestavano le ninfe nelle foreste: io mi limito a
descrivere la situazione. Teoricamente alla cassa ci dovreb-
bero essere persone di entrambi i sessi, ma nei fatti sono solo
ragazze, tutte con il posteriore e le cosce un po’ abbondanti:
i gusti del cerbero gravido sono quelli.

165
lʼesistenza degli uomini

Non mi ero mai reso conto fino a che punto l’esistenza


degli uomini fosse tragica, prima di considerare la cosa da
vicino. Sono costantemente in balia di ogni sorta di malat-
tie, incidenti, disgrazie, catastrofi ambientali: da un istan-
te all’altro la loro situazione può diventare insostenibile.
L’unica cosa sicura è che devono morire, di solito tra atroci
dolori: non è una certezza che può rendere allegri. In quelle
condizioni è vano che facciano programmi per il futuro, an-
che se loro non si arrendono e continuano a farne.
Prima li consideravo dei gran piagnoni, dei depressi
cronici: degli ingrati. Ora mi sembra che per certi versi si
possano capire: non deve essere tanto confortevole avere
sempre fame, terribilmente fame, e poi quando si trova da
mangiare avere male di pancia, perché si è mangiato trop-
po. Avere freddo, terribilmente freddo, sognare di essere al
calduccio, e in men che non si dica crepare dal caldo e rim-
piangere il fresco. Desiderare un partner, soffrire atroci pa-
temi perché non si lascia avvicinare, per poi accorgersi che
con quel partner ci si annoia a morte, e provare l’impulso di
assassinarlo. Assistendo impotenti al raggrinzimento inarre-
stabile della propria pelle e alla degradazione dei propri or-
gani vitali, rendendosi conto che anche il cervello comincia
a perdere colpi.
Nell’impossibilità di essere felici passano la totalità della
loro esistenza a fantasticare che lo saranno in un secondo
tempo. Cinque minuti dopo, mezz’ora dopo, il pomeriggio,

167
l’anno seguente, tra dieci anni: gli inconvenienti e i proble-
mi spariranno, quello che manca spunterà dal nulla, come
per magia tutto sarà bello e facile. A differenza di tutti gli altri
animali nascono da un parto prematuro, e per quanti sforzi
facciano non riescono più a rimettersi al passo: in loro rima-
ne sempre qualcosa di infantile, di non finito.* Cercano di
compensare raccontandosi mille storie, distorcendo i fatti,
filosofeggiando: annegando nelle parole. Ma naturalmente
sono sforzi vani: infelici sono e infelici rimangono.
Forse avrei dovuto invertire la sequenza: piazzare la mor-
te all’inizio della loro esistenza, e la nascita alla fine. Come
dire, in questo modo sarebbero sollevati di essersi già tolti
di torno il decesso – fuori il dente fuori il dolore – e di avere da-
vanti la ciliegina di una bella e pacifica infanzia. Forse così
la loro condizione risulterebbe più accettabile, forse così sa-
rebbero più contenti. Esaurita la fase per moltissimi versi
insopportabile della maturità scivolerebbero in una serena
incoscienza: giocherebbero e salterebbero e strillerebbero
con l’entusiasmo di tutti i bambini. E poi ancora rientrereb-
bero nel ventre delle loro madri senza rimpianti e senza sof-
ferenza, come si parcheggia la macchina in garage la sera,
per godersi l’unico periodo davvero tranquillo e in fusione
con l’universo. Tempo otto o nove mesi sarebbero ridotti a
un embrione, e poi a un irrequieto spermatozoo e un ovulo,
e poi più nulla.

*
Proiettano purtroppo questa pregiudiziale manchevolezza anche sul
sottoscritto: il loro non può essere un rapporto maturo.

168
le carote coltivate con la zappa

Sono solo le sei di pomeriggio, e lei non sa cosa darebbe


per poter scappare via seduta stante, o anche solo poter-
si chiudere in bagno. Sarebbe un sogno poter fumare una
sigaretta seduta sul water: è proibito, ma lei lo fa. E invece
tra un cliente e l’altro non ha nemmeno il tempo di riem-
pire fino in fondo i polmoni. Del resto ha l’impressione che
l’odore di supermercato, con un sottofondo anche di gor-
gonzola e lacca per capelli, le impregni ormai i bronchioli
respiratori, la carne, la pelle. Se però guarda ancora l’oro-
logio vicino alla cabina dell’orco all’ottavo mese vede che
è passato solo un minuto, o quando va bene due. Il tempo
proprio non riesce a vincere l’attrito di quel pantano nel
quale si è cacciata.
Quando finalmente esce va dalla piccoletta, anche se
si sente stravolta e preferirebbe filare subito a casa: sono
d’accordo così. La trova con la casa-zoo sottosopra: sem-
bra molto contenta di vederla, ma ogni due secondi riceve
una telefonata e discute di striscioni, di frontiere da passa-
re, del furgone sul quale viaggeranno, dei possibili blocchi
della polizia. Il pappagallo e gli altri vari animali sembrano
domandarsi in che altro pasticcio si stia cacciando: è già
stata in prigione una volta, lasciando la casa nel caos. Come
rispondendo alle loro perplessità lei spiega che parte alla
volta di una cittadina di un paese dell’est, dove falceranno
un campo di mais geneticamente modificato e lo spargeran-
no nella piazza del municipio. Ma soprattutto libereranno

169
duemila maiali di una stalla che usa solo mangimi geneti-
camente modificati. Parte la mattina seguente molto presto.
Mentre mette a scaldare l’acqua per un tè le parla di
Vittorio. Sorridendo come al solito con i suoi occhioni ca-
scanti le dice che ha proprio avuto un culo grande come una
casa (come sempre io mi limito a riferire letteralmente): si
ritrova a fare esattamente quello che gli piace, e guadagna
un bordello di soldi. Lei ne è davvero felice, dice, ridendo con
le guancette che tremano. Proprio felice, ripete, frugandole
in fondo agli occhi. E scoppia a piangere. Singhiozza con
guaiti acuti della gola e strizzando la faccia come i bambini.
Il telefono squilla ma lei non risponde, forse nemmeno lo
sente. Dafne le cinge le spalle con il lungo braccio, anche lei
commossa: piange beninteso anche e forse soprattutto per
se stessa, come sempre fanno gli esseri umani.
In realtà è contenta che Vittorio si trovi a ventimila chilo-
metri di distanza, però si sente a terra, dice la piccola Afra
quando si è un po’ calmata, accarezzandole a sua volta le
scapole. Il pappagallo è tornato sulla sua spalla: sembra vo-
ler seguire da vicino le sue spiegazioni. Non se l’aspetta-
va proprio,* dice, asciugandosi le lunghe sopracciglia alla
Bambi. Piange di nuovo, ma nello stesso tempo sorride con
i suoi denti birichini. Il telefono suona per l’ennesima volta,
e adesso risponde. Cocò, l’impiccione pappagallo bianco,
decolla alla volta del frigorifero, prendendo atto con i suoi
nevrastenici scuotimenti della testa e delle spalle che i dram-
mi sono finiti.
In realtà potremmo affittare assieme un terreno, sbotta poi. Una
casa dove vivere e un bel pezzo di terra da coltivare, aggiunge, acca-
rezzando il volpacchiotto ferito a una gamba che si è presa
in grembo (Cocò lo scruta con diffidenza dalla cima del
*
Se posso dire la mia, l’ennesima riprova della completa incongruenza
degli uomini: vogliono una cosa, e quando ce l’hanno, si lamentano.

170
frigorifero). Dafne resta con la tazza di tè a mezz’asta. Lei
ha sempre detestato il silenzio rotto solo dal rumore delle
galline e del trattore del vicino, le colture a perdita d’occhio.
Proprio una bella idea, risponde però la sua bocca. E davve-
ro adesso che l’ha detto le sembra che sarebbe contenta di
abitare con la sua amica in campagna, le pare anzi l’unica
maniera per liberarsi dal supermercato. Prova un vero sol-
lievo, se ci pensa.
Accarezzandola con occhi che si tuffano nello struggimen-
to Afra le dice che con la sua intelligenza potrà inventare un
sacco di soluzioni utili per l’irrigazione e per lo stoccaggio
dei legumi, ne è sicura. E quando mi porti dal tuo patrigno? le
chiede senza aspettare che ribatta. Ho proprio voglia di vedere
il posto dove sta e di parlare con lui, continua premendo i palmi
uno contro l’altro, vedendola con gli occhi spalancati e fissi.
Lei finisce per prometterglielo, ma dentro di sé si dice che
non lo farà mai: la sua amica sarebbe molto delusa se vedes-
se quel gran sfigato dell’amico di sua mamma e il tugurio
dove abita, così simile a uno sfasciacarrozze. Del resto lui
starebbe zitto come una mummia, come fa sempre: sarebbe
solo molto imbarazzante. Non capisce perché le sia venuta
quella strana ubbia.
E anche l’idea di coltivare le carote con la zappa non le
appare più tanto buona, mentre cammina sotto la piogge-
rellina gelata verso la metropolitana. Le sembra anzi che tra
lei e la sua amica ci sia un’incompatibilità di formato: quella
bombetta di energia e di buonumore ha le sue battaglie da
portare avanti, i suoi amici vegani, i suoi sogni neoagresti.
È tutta presa dalle meditazioni animiste, dagli animali che
cura – per lei provvisti di anima, sorta di potentissimo com-
puter di bordo –, dal sogno di un mondo in cui tutti coltiva-
no carote e fanno assemblee per decidere questo o quello.
Lei invece, a parte una gatta cieca e affetta da ninfomania,

171
non ha niente. Non ha una famiglia, non ha orgasmi, e in
fondo non ha nemmeno dei principi da difendere: non sa
nemmeno più se è favorevole o contraria agli organismi mo-
dificati, non sa più nulla. Sa solo che è infelice e che l’unica
cosa che le viene davvero bene è quella, sentirsi infelice.
Mi si spezza il cuore, si dice così, a vederla in quello stato.
Certo, faccio arrivare l’autobus subito e le faccio trovare un
posto a sedere, sebbene sia tutto pieno, ma queste sono pic-
cole cose, lo so anch’io. Prendila con filosofia, presto ritroverai la
moto, vorrei dirle. E poi un po’ alla volta verrà anche il resto, amore
mio (amore mio!). E invece resto muto come un pesce. Sono Dio,
mi dico. Dio.
il paradisiaco angelo indiano

Qualcuno bussa alla porta dell’ex pescheria: con il solito


morale nelle scarpe Dafne si trascina a aprire, sicura che sia
l’unica persona che sbarchi da lei senza prima telefonare.
E effettivamente si trova di fronte un indiano. Solo che è
più giovane del vicino, e più bello. O meglio, è un ragazzo
magnifico: ha grandi occhi neri come il carbone, lucentis-
simi capelli ondulati con riflessi di petrolio, una pelle liscia
e luminosa che segue la forma espressiva ma anche dolce
degli zigomi, labbra elegantissime e quasi viola, come dise-
gnate con un unico finissimo tratto di penna, denti candidi
e brillanti di saliva, un bellissimo collo, bellissime clavicole,
bellissimi polsi, bellissime mani. Sono un cugino del tuo vicino,
le dice, premendosi con la mano d’angelo il torace piatto.
Lei non risponde niente, è annientata da quell’inaspetta-
ta annunciazione maschile: davvero per qualche attimo le
sembra che abbia una nuvoletta luminosa attorno alla testa.
Avremmo bisogno di un cavetto per collegare il computer alla stam-
pante, se puoi prestarcene uno, continua l’angelo indiano, come
intuendo la sua situazione, e quasi scusandosi. E disegna un
filo nell’aria con movimenti leggeri di ballerino, o forse di
funambolo, pieni di una grazia malinconica ma forse anche
un po’ ironica.
Mi chiamo Aryaman, aggiunge, porgendole una mano più
liscia e fresca di una stoffa di seta. Sorride come potrebbe
sorridere un angelo irresistibilmente simpatico e affabile, un
angelo laico (mi metto nei panni della ragazza). Anche la sua

173
voce non sembra terrena, è l’incantesimo di una struggen-
te cantata barocca (questa volta il paragone è mio). Dafne
rimane a bocca aperta: quella sua bellezza è sconvolgen-
te, atroce. Per lei è evidente che quell’apparizione non ha
niente di casuale: è l’incontro che aspettava da tanto tempo,
da sempre. È lui. Vedo sorgere queste parole nella corteccia
cerebrale del suo emisfero sinistro, come una grande scritta
rossa che appaia di colpo su uno schermo.
Lo fa entrare a sua volta con un sorriso indomabile sulla
faccia: non è imbarazzata per il disordine, è solo euforica.
D’altra parte lui non sembra fare caso a una contingenza
tanto insignificante come il cimitero di lattine vuote e piatti
con avanzi in via di decomposizione: è evidente che i suoi
pensieri volano altissimi nel cielo, nonostante i suoi meravi-
gliosi piedi simili a slanciate piroghe siano ben piantati per
terra. Dopo averlo fatto accomodare sul divano di palline
di polistirolo lei gli chiede se vuole un tè, e lui chinando in
avanti il collo da cigno risponde: sì. Lei riempie d’acqua una
padellina e estrae la teiera dal baule delle stoviglie. Poi però
invece di accendere il fornello afferra due grossi bicchieri,
ci versa del rum e aggiunge alcuni cubetti di ghiaccio, dello
zucchero di canna liquido e un po’ di limone. E anche dei
pezzi di ananas che aveva nel frigo da camion e un po’ di
cannella. E una foglia di menta. Va verso di lui ruotando
l’indice nell’aria, per giustificare il cambio di programma.
L’angelo fissa il bicchierone con una lievissima ruga tra-
sversale sulla fronte molto liscia e molto ispirata: per certi
versi di direbbe che sia la prima volta che tiene in mano
un bicchiere di rum. Quasi si domandasse come diavolo
reagirà il suo corpo cherubinico a quella terrena sostanza.
Dopo averlo annusato ne beve un minuscolo sorso, e dice:
buonissimo (lo pensa davvero). Sembra essere molto felice di
essere lì da lei, sembra che in realtà del cavo per il computer

174
non gliene importi più nulla. La guarda come si guardano i
dolci squisiti, ma anche con l’antracite degli occhi piena di
ammirazione, quasi vergognandosi delle sue voglie segrete.
Mio cugino mi ha detto che sei parecchio brava con i computer, dice
con la sua voce di flauto traverso. Pare che tu riesca a entrare in
qualsiasi rete informatica, dice con un delizioso sorrisetto un
po’ sghembo di connivenza indiana. Io una volta sono riuscito
a mettere in crisi per qualche ora una grossa banca, tutto qui, prose-
gue alzando le spalle. Dafne gli ribatte che nell’ultimo anno
si è concentrata solo sul sito del Vaticano, com’è noto una
delle roccaforti più inespugnabili che esistano. Ci ha messo
un sacco, ma è riuscita finalmente a accedere ai codici per
entrare nella contabilità e ha scaricato moltissimi rapporti
sulla pedofilia. Adesso ha intenzione di diffonderli, anche se
non sa ancora come.
Non sa nemmeno lei perché ha spifferato quei segreti così
delicati a quello sconosciuto: nemmeno a Afra ha mai detto
niente della falla che ha scovato, e dei rapporti segretissimi
ai quali è arrivata. O meglio, lo sa benissimo: è sicura che
quell’angelo vivente – anche gli atei più incalliti sono sog-
giogati dalle virtù angeliche – sia l’anima gemella che aspet-
tava da anni e anni, da sempre. Ne è stata certa dal primo
istante in cui l’ha visto, quando si è resa conto che quella
comparsa era avvolta da magia. Per questo il suo cuore bat-
te come un tamburo africano, ma nello stesso tempo si sente
anche molto calma: la pace che precede i momenti solenni
e le decisioni molto gravi. Ha finalmente incrociato l’uomo
della sua vita.
Dafne lo guarda e lui la guarda, come quando si sta per
passare a un altro argomento di conversazione. E invece sen-
za consultare il suo cervello lei allunga il collo verso di lui,
e nello stesso tempo lui muove la testa verso di lei. Le loro
bocche si ritrovano incollate una all’altra, come se fosse una

175
cosa decisa da molto tempo. Lei prende possesso di quelle
sue labbra dure e viola dal vago gusto di alloro (forse anche
di incenso e di spazi siderali) come un’assetata, ma anche lui
sembra apprezzare il sapore di vaniglia, con una punta di
rame leggermente ossidato, della sua lingua. Bevono l’uno
il fiato dell’altra, si scambiano la saliva. L’efebico indiano è
molto serio, quasi grave: sembrerebbe gustarsi ogni minima
sensazione con una concentrazione da chirurgo. Per certi
versi parrebbe la prima volta che tocca una donna.
Dopo il lungo aperitivo di concitati baci e toccamenti
Dafne lo trascina perentoriamente fino al letto. Lui si lascia
immergere nella vasca dei pesci, come per un primitivo bat-
tesimo. In men che non si dica sono mezzi nudi, e lei apre
le gambe per accoglierlo. Lui sembrerebbe sembra un po’
stupito da quella celerità, in qualche modo intimidito: si di-
rebbe quasi che non sappia bene cosa fare. Poi invece, pren-
dendo il coraggio a due mani, avvicina l’affare ben teso al
ventre di lei. Si direbbe risoluto a ingaggiare una lunga lotta
amorosa: quasi subito invece il suo bacino ha uno scossone,
tutto il suo corpo è percorso da violenti brividi. Lui stesso
sembra stupito: guarda in basso con due rughe trasversali
sulla fronte, come cercando di capire meglio, come affran-
to. Parrebbe avere difficoltà a capacitarsene, sembra molto
imbarazzato.
Appena capisce cos’è successo Dafne si mette a ridere.
Più lo vede confuso più ride senza potersi contenere: per
lei quell’incidente non è per niente grave, è anzi spassoso.
Appoggia la mano sul suo sperma angelico, e continuando
a ridere se lo spalma sulle cosce e sulla pancia. E poi con
l’indice lo stende anche sulla fronte con tre rughe trasver-
sali. E anche sui lobi delle orecchie. Allora anche lui ride,
seppure un po’ a denti alti. Quando però capisce che non
deve esagerare lei gli accarezza la testa dai capelli molto fini

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e nerissimi, lo bacia sul collo e poi sul bel naso affilato da
indiano. Scusami, gli sussurra tra un bacio e l’altro. Poi ti rifai,
amore, gli dice. Fa un po’ fatica a non ridere, ma si impone
di trattenersi.
Riprendono a baciarsi e a accarezzarsi come prima. Lui
adesso sorride, ma respira in un modo un po’ innaturale,
come i cani quando hanno sete. È come se avesse preso un
gran spavento, o avesse paura di qualcosa. Lei si mette di
buzzo buono per metterlo a suo agio: non è affatto preoccu-
pata, perché le sono già capitati casi del genere e sa che poi
in men che non si dica tutto si risolve per il meglio. Lo bacia
dappertutto, lo tocca con molta perizia nelle parti intime.
Lui però è sempre più impalato. Resta bello come il sole, e
attorno alla sua testa dai riflessi di petrolio sembra aleggiare
ancora un’aureola di luce purissima, però è più teso della
fune di acciaio di un ponte sospeso. Adesso non sorride più.
Non vorrebbe fare quella figura, ma proprio il membro non
gli si rizza. E sente che non si rizzerà nemmeno dopo: più
ci pensa più gli sembra impossibile che si rizzi ancora. È
questo che lo fa stare così male. Vorrebbe potergli ordinare
di mettersi seduta stante sull’attenti, come potrebbe fare se
fosse un dio, ma lui è solo un normalissimo mortale.
È giovane, è pieno di energia, si sente lui stesso pieno di
fascino, desidera sopra ogni cosa quella ragazzona, ma per
qualche ragione il suo affare se ne sta lì accartocciato su se
stesso come un pallone bucato. Non vuole saperne di irrigi-
dirsi, nemmeno un pochino. Per questo lui è così a disagio,
per questo suda freddo. Mai avrebbe pensato che potesse
succedergli una disgrazia del genere. Vorrebbe andare sotto
terra, invece che essere in quella vasca per i pesci trasfor-
mata in lettone. Dafne lo stuzzica ancora, e poi cambiando
posizione lo prende in bocca, mettendo la mano a coppa
sotto i testicoli, infilando le dita birichine tra le chiappe: una

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ricetta di solito infallibile. L’ellenico membro resta floscio,
e Aryaman è una statua di marmo. Ormai la sua è una
smorfia barocca di dolore. Bellissima, come tutto quello che
si riferisce a lui, ma pur sempre una maschera di sofferenza.
Si capisce che vorrebbe solo morire. Lei allora abbandona
la modalità sesso e lo stringe a sé, gli accarezza la schiena e
la testa per fargli capire che non è affatto grave. Le fa anzi
tenerezza che sia successo quell’incidente. E soprattutto le
piace restare distesa contro quel corpo così bello mentre sta
scendendo la notte. Si sente felice.
Poi si addormenta. Un sonno profondissimo e per cer-
ti versi innaturale: qualcosa come l’immersione abissale di
un’anestesia, di un viaggio nell’Ade. Quando si sveglia è or-
mai buio completo, e al suo fianco non c’è nessuno. Si alza a
sedere e sporgendosi oltre il bordo della vasca si guarda in-
torno, ma l’indiano proprio non c’è. Le rivengono in mente
tutti i dettagli di quello che è successo, come fosse però un
episodio molto lontano, con i contorni già un po’ incerti. E
mentre cerca di fare mente locale si domanda come quel
paradisiaco ragazzo fosse a conoscenza dei suoi hackeraggi,
visto che non ne ha mai parlato con nessuno, e tanto meno
con il vicino. Anche questo è molto strano. Non è stato però
un sogno: sul lenzuolo c’è una vistosa macchia, che ancora
non si è seccata completamente. Prova a annusare: è pro-
prio sperma. E davanti al divano ci sono i due bicchieri vuo-
ti. Il cavo per la stampante è rimasto sullo schienale della
sedia dalle gambe segate.
Il pomeriggio seguente tornando dal supermercato passa
dal vicino, che l’accoglie come sempre con struggenti sorrisi
e battendo i palmi delle mani come per applaudire. Con
la gola stretta da un cappio gli chiede se suo cugino è an-
cora da lui. Lui la guarda strizzando gli occhi sprofondati
nelle orbite scure, sembra non capire. Lei allora articolando

178
bene le parole gli spiega che il giorno prima ha conosciuto
suo cugino, che è passato da lei per chiederle un cavetto
per la stampante: vuole sapere se si sono poi arrangiati. Per
gentilezza lui continua a sorridere, ma ancora non capisce,
sembra anzi capire sempre meno. Tuo cugino, ripete lei pun-
tandogli contro l’indice, e nello stesso tempo guardandosi
intorno. Io ho tanti cugini, ma non sono qui, dice lui, contento di
aver finalmente afferrato.
Sì, ma ieri pomeriggio tuo cugino è venuto da me a chiedermi il cavet-
to, ripete lei, mimando con le braccia il filo di una stampan-
te. Ha l’impressione di stare per impazzire. Ha la sensazione
che il suo corpo la stia lasciando, che stia diventando legno
secco. Con la solita deliziosa gentilezza induista ma anche
con molta fermezza lui ripete che i suoi cugini non sono nei
paraggi. Forse l’anno prossimo verrà mio cugino, dice, sventolando
la mano per sottolineare che non è ancora sicuro. Questa
volta non sorride più, e sembra dispiaciuto di deluderla. Lei
allora si scusa e entra nell’ex pescheria trascinando a fatica
le sue gambe di legno. Si guarda in giro cercando qualche
prova che quell’etereo incontro è avvenuto davvero. I bic-
chieri però li ha lavati prima di andare al supermercato, ha
messo tutto a posto nella speranza che il celestiale indiano
tornasse. E non ci sono altri segni della sua sovrannaturale
apparizione. Va allora a guardare il lenzuolo: la macchia
non c’è più. Lo ispeziona centimetro per centimetro pas-
sandosi la stoffa tra le mani, ma la macchia proprio non la
trova. Per qualche strana combinazione (strana combinazione!)
seccando è scomparsa. Letteralmente volatilizzata. Si mette
allora a piangere accucciata per terra, e la gatta cieca le bal-
za sulle ginocchia, dicendosi nella lingua felpata ma anche
spazientita dei gatti che è proprio un periodaccio.

179
sterminare i pensieri

Ho toccato il fondo. È la lingua che mi ha ridotto in que-


sto stato, la lingua sobillata e aizzata dalle frasi scritte e dai
nugoli di emozioni incontrollate da esse sprigionate, come
un fuoco inferocito via via da secchiate di benzina. Una
qualsiasi lingua contiene tutte le idiozie e le follie che gli
uomini continuano imperterriti a vomitare, te le strappa di
bocca. Non le importa che si tratti della cavità orale dell’ul-
timo immigrato clandestino o di un dio: l’importante per lei
è infangare, fomentare, devastare. Scrivere una frase è come
versare il primo secchio di benzina, subito si levano altissi-
me le fiamme delle iperboli e degli struggimenti, e più si va
avanti più ci si imballa, più ci si convince di pensare davvero
le cose che si scrivono, più si va verso il delirio puro, covan-
do azioni nefaste. Se uno non pensa, e tanto meno scrive,
non ha stati d’animo, e può starsene tranquillo e beato per
miliardi di anni. Senza rischiare di fare cavolate.
I problemi sorgono in realtà già al primo pensiero, il
primo qualsiasi pensiero. Perché questo benedetto primo
pensiero ne convocherà subito un secondo, e questo sarà:
ho fatto bene a pensare quella cosa lì? Senza parlare del terzo,
che contraddirà quasi sicuramente il primo, senza peraltro
riuscire a togliere di torno il secondo. E il quarto sarà: perché
esisto? e il quinto: esisto davvero? e il sesto: sono innamorato? e via
dicendo, con comportamenti sempre più inappropriati, atti
sempre più inconsulti. I pensieri sono infettivi, contamina-
no le azioni, diventano nefandezze.

181
Milioni di esseri umani farebbero carte false per avere an-
che solo un milionesimo dei miei poteri e delle mie preroga-
tive, lo so bene. Lo considererebbero un insignificante inci-
dente di percorso, questa storia (storia!) dell’ex inseminatrice
con le treccine viola. Nessuno è mai morto per amore! direbbero.
Passerà anche a lui, come è sempre passata a tutti! direbbero. Certo
non gli mancano i mezzi per consolarsi! proseguirebbero, convin-
tissimi che se fossero nei miei panni se la caverebbero me-
glio di me. Questa loro tracotanza la conosco a memoria: è
da quando il mio supposto figlio li ha convinti che io sia un
benevolo assistente sociale, per non dire un vecchio babbio-
ne, che non smettono di farmi la predica.
Sarebbe tutto più facile se solo potessi partire per un
viaggio, un qualsiasi tipo di traversata o safari che mi re-
settasse il cervello, scacciando via tutto quello che riguar-
da quella donna. O anche solo se potessi ritirarmi in una
galassia completamente isolata sulla quale l’onniveggenza
e l’onniscienza andassero fuori uso, come quei posti dove
non c’è copertura telefonica. Penserei solo e esclusivamen-
te ai fatti miei. Lontano dagli occhi lontano dal cuore, dice il fami-
gerato proverbio. Il problema è che io non posso scappare
altrove, non posso voltarmi dall’altra parte: dovunque mi
rigiri vedo sempre lei, ovunque vada me la ritrovo davanti.
Per non parlare dell’inossidabile infallibilità della mia me-
moria.
Il grande punto di forza degli uomini è che dimenticano,
un po’ alla volta dimenticano tutto. Quanti cuori affranti
rispolverano in quattro e quattr’otto un succedaneo, quante
inconsolabili vedove si rimettono a civettare e a ballare! E
poi comunque muoiono, che è la forma di oblio più radicale
che esista. Io invece non dimentico e non muoio. Posso illu-
dermi per qualche istante di riflettere su altro, ma in realtà
una sezione del mio mastodontico cervello non molla l’osso.

182
E chi trovasse una metafora corporale più adatta è pregato
di suggerirmela.*
È facile ripromettersi qualcosa, il problema è passare poi
ai fatti senza tentennamenti o ripensamenti, anche se nel
mio caso si tratta di fatti metafisici, se mi si permette l’os-
simoro. Sapevo bene cosa dovevo evitare, sapevo che non
dovevo lasciarmi tentare, però qualcosa non ha funziona-
to. L’unica soluzione a questo punto è chiudere baracca,
intendo la baracca mentale, sterminando i pensieri ancora
prima che possano venire alla luce: subito la situazione tor-
nerà alla normalità. Mi ricorderò di questo periodo come
di una strana e terribile perturbazione, come di un’orribile
via crucis. Forse qualche teologo ne trarrà qualche trascen-
dente insegnamento, o addirittura lo inserirà nei testi sacri
d’una qualche religione, uno di quei culti un po’ irriverenti
che spuntano di questi tempi.

*
Questa poi, rivolgermi ai potenziali lettori – come davvero potessero
esserci lettori – e domandare loro aiuto: non me l’aspettavo, giuro.

183
il morto non ancora morto

Dopo un ecumenico viaggio con svariati mezzi pubblici


Dafne arriva nel piazzale del grande fabbricato con il tipico
mortificante squallore dei seminari: adotto il punto di vista
del mio personaggio, io so benissimo che è un seminario, so
quando è stato costruito, eccetera eccetera. Scivola nell’en-
trata abiotica e macchinalmente adocchia diversi crocifissi:
per un attimo esita, anche se dopo il trauma del minotauro
si è ripromessa di non cacciare più. I buoni propositi degli
umani lasciano per definizione il tempo che trovano. Poi
però si dice che preferisce sbrigarsela il prima possibile.
In un corridoio con il caratteristico odore di minestra cat-
tolica si imbatte in una suora tracagnotta con occhi gialli da
pantera: una tipologia che sa essere temibile. Lei le suore
le conosce a menadito, potrebbe fare una tassonomia con
chiave dicotomica basata sulle varie specie di ipocrisia, per-
fidia e frustrazione sessuale.* Le spiega perché è lì, e quella
dimentica subito la sua controriformistica benevolenza e la
squadra dalla testa ai piedi come se fosse una scarpa che
ha pestato una merda di cane. Non trovando però nessu-
na buona scusa per buttarla fuori, si avvia per il corridoio
a passi inferociti. Dopo varie svolte e carcerarie rampe di
scale bussa a una porta e mette dentro con pia deferenza la
*
Se c’è una questione teologica, una sola, sulla quale sono perfettamente
d’accordo con la mia amata (mi si permetta quest’espressione per così dire
postuma, visto che è solo una nota a piè di pagina, di quelle che di solito
si saltano a piè pari) è proprio questa.

185
testa, sussurrando come solo i cattolici sanno sussurrare. Poi
la fa entrare, a quanto pare indignata, scandalizzata.
Nella stanza con un finestrone che dà sul fiume c’è un
letto regolabile da ospedale, e su questo è sdraiato un an-
ziano molto magro. Ha una normalissima maglietta di co-
tone a maniche lunghe, ma lei vede subito che è un prete.
Lo capisce – anche senza considerare i vari orpelli clericali
sul tavolino da notte – dagli occhi impiccioni e astuti, dalle
guance cascanti e allo stesso tempo imperiose, dalla tensione
contraddittoria delle spalle, dalla posizione ostentatamente
devota delle mani, da tutto. Un prete con la faccia stretta da
protestante, pallidissimo. Quel bianco porcellana che tira
al verde di certi quadri un po’ macabri. Ha il braccio at-
taccato a una flebo e due tubicini nel naso. È chiaramente
molto malato, o per meglio dire ha già la morte stampata
sul viso. È un morto con ancora poca, pochissima vita. E
tanta morte.
Quel morto non ancora morto le tiene addosso gli occhi
da uccello rapace, esibendosi in piccole smorfie involontarie
di dolore, come se il solo fatto di guardarla gli costasse una
fatica al di sopra delle sue forze. Sembrerebbe però conten-
to di vederla. Colpito, per certi versi quasi spaventato, e nel
contempo ringagliardito. Con un gesto che vorrebbe forse
apparire tenerezza le fa segno di accomodarsi sulla sedia
accanto al letto, e invita con gli occhi la suora a uscire. Que-
sta se ne va lanciandole uno sguardo di odio. Lei tossicchia
di imbarazzo, perché detesta i preti, e ancor più quando
vogliono mostrarsi umani.
Con un tipo in quelle condizioni potrebbe parlare di bare,
o di questioni ereditarie: doveva venire prima, se voleva rac-
contargli le sue sfighe e chiedergli che l’aiutasse. Ammesso e
non concesso che da sano fosse in grado di fare qualcosa, e
ne avesse avuta davvero l’intenzione. Non capisce come ha

186
potuto dare retta a quel relitto che s’è bruciato il cervello
entrando in contatto lisergico con la Mente Globale, e non
ne ha mai fatta una giusta in vita sua, ovvero il suo patri-
gno. Ormai però è lì in quella situazione del cavolo, non
può battersela subito. Resterà ancora qualche minuto. Del
resto si sente troppo stanca per tagliare subito la corda: ha
l’impressione che qualcuno le abbia appoggiato tre sacchi
di cemento sullo sterno, fatica a respirare. Ha bisogno di
recuperare un po’ di forze, un po’ di lucidità.
Quel prete agli sgoccioli la fissa senza dire niente, ansi-
mando come se avesse fatto una gran corsa. A quanto pare
riscalda i motori in vista dell’agonia. Non smette però di
morderla con i suoi occhiacci avidi, quasi volesse a tutti i co-
sti saggiarla, capire cos’ha dentro. Con quella gravità di chi
sta per fare una spesa troppo grande per le proprie tasche,
spropositata, e vuole essere sicuro che la merce in vendita
valga il sacrificio. Per lunghi minuti, nel silenzio irreale di
quella monumentale fabbrica di preti sperduta in mezzo agli
odori di liquami bovini e di terra satura d’acqua inquinata.
Ha percorso più volte ogni millimetro del suo corpo, a
parte – per ragioni balistiche – le caviglie e i piedi. Seguita
però a trascinare gli occhi sfiniti su di lei con la stessa insi-
stenza testarda. È evidente che si sta bruciando le ultime
briciole di vita che gli restano, lui stesso ne è cosciente, ma
non abbassa le palpebre, non si arrende. La cosa stranissima
è che lei comincia a accorgersi che non le dà noia quella
macabra calamita che le si è appiccicata addosso. Anzi, più
la luce proveniente dalla finestra affacciata sul fiume dimi-
nuisce e più le sembra normale e benefica. Per certi versi è
quasi un riposo, un sollievo. Ancora un attimo e poi me ne vado,
si ripete.

187
il vescovo pedofilo

La suora apre la porta e mette dentro la testa con una di


quelle smorfie con gli occhi strizzati che si fanno per terro-
rizzare i bambini: a quanto pare intende comunicarle che la
maschera mortuaria s’è già stancata troppo. Lui la scaccia
con un’occhiata esausta ma ancora piena di autorità, come
ci si libera di un importuno che non si rende conto della
gravità del suo atto. E appena la porta si richiude riprende a
fissare Dafne come se la vedesse di nuovo per la prima volta.
Si direbbe che voglia parlare, ma non dice niente. Quasi re-
putasse che nessuna parola è adatta, o non sapesse scegliere
tra le troppe che gli si fanno sotto. O semplicemente fosse
troppo andato.
Tua madre era una persona eccezionale, finisce poi per sussur-
rare con una voce flebile come una cordicella che sta per
spezzarsi. Una donna molto pura, continua, con le consonanti
ancora più impastate. Fino a qualche giorno prima la sua
dizione era pretenziosamente limpida: Dafne non può sa-
perlo. A sentire nominare sua madre ha l’impressione che
sotto la sua sedia si apra una cateratta: nella perturbantis-
sima surrealtà di quell’incontro tanto simile a un incubo si
era scordata che quel prete conosceva sua mamma, della
quale lei ha qualche vaghissimo ricordo. Molto elevata, sus-
surra lui, frugandole negli occhi con quel suo sguardo già
culo e camicia con la morte. Prima ancora di rendersene
conto Dafne si mette a piangere. Come piange lei, senza
muovere un muscolo e senza fare rumore.

189
Puoi essere fiera di lei, dice il sacerdote facendole segno,
all’inizio lei non afferra, di prendere in mano il crocifisso
parcheggiato sul tavolino da notte. Bene, mormora quando
lei finisce per capire e obbedire, stringendo tra il pollice e
l’indice l’estremità della croce. Sembrerebbe che voglia ag-
giungere qualche ragguaglio essenziale. E invece i suoi occhi
stremati si riempiono di un liquido trasparente, come una
piccola marea che sale dal basso. Dopo un po’ le lacrime
cominciano a traboccare sulle rughe livide, a scivolare sul
bianco del lenzuolo. Piange anche lui. Fissa il muro ai piedi
del letto e piange. Respirando più forte, come un mantice
che sta per rompersi.
Dafne lo guarda e piange, e lui piange fissando la parete.
Piangono in realtà in modo simile, anche se le lacrime di
lei sono più grosse e si susseguono veloci come gocce di un
rubinetto che perde. Quelle di lui sono invece piccole e spa-
ziate tra loro, sembrano anch’esse stremate. Lei non pensa
più a andare via, non pensa a niente. Si sente stranissima,
seduta nella semioscurità con un crocifisso in mano, e nello
stesso tempo sente che è un momento necessario, quasi una
prova iniziatica. Se comandasse la sua implacabile lucidità
si alzerebbe di scatto e correrebbe via, ma una qualche for-
za invincibile le inchioda le cosce alla sedia metallica.
La porta si apre di nuovo, e appare un uomo giovane con
un camice bianco. Il prete fa un gesto appena accennato,
ma pur sempre violento: quasi fosse oltraggiato che osino
continuamente disturbarlo. Il dottorino abbassa la testa e
scompare. Ho imparato molto da tua madre, biascica lui come
riprendendo a fatica il filo del discorso, di nuovo fissandola.
Adesso la voce è ancora più flebile, vince appena il fruscio
del fiume. Le discussioni con lei mi hanno dato molto, raramente ho
trovato una tale profondità sulle questioni dello spirito: la guarda
come per avere una conferma. E nello slancio di empatia

190
ecumenica cerca di spostare la mano verso la sua, concentra
tutte le sue energie in quella piccola operazione. Non ha
però abbastanza forza per sollevare l’avambraccio di quei
pochi millimetri necessari, o anche solo per farlo strisciare
sul lenzuolo. Dafne quindi allunga il braccio e gli prende la
mano: è molto fredda, davvero ghiacciata. La tiene nelle sue,
la scalda, con il crocifisso sulle ginocchia. A lungo. Adesso fa
quasi buio, e il fiume è una lustra colata di piombo.
La porta si riapre, e appare il dottorino accompagnato
da un anziano che avanza con passo autoritaro, il quale ac-
cende la luce sul comodino. Questa volta irrompono senza
chiedere il permesso e prendono posizione attorno al letto.
Con loro c’è anche una suora, diversa da quella di prima,
più alta e più al passo coi tempi. Il prete guarda il medico
con la fisarmonica di rughe sul collo, sembra che stia per or-
dinargli di lasciarli ancora da soli. E invece si limita a chiu-
dere gli occhi, come abbagliato dalla flebile luce. Rimane
immobile: è chiaro che è troppo esausto per sollevare anche
solo le palpebre. Dopo aver controllato che la flebo continui
a funzionare il medico con la faccia da bambino gli tocca il
polso, gli sistema il lenzuolo.
La suora internauta guarda Dafne come se fosse un’assas-
sina recidiva. E anche il dottore accartocciato la sogguarda
con pupille di astio fondamentalista. È chiaro che vogliono
che levi seduta stante le tende (le tende non si usano più da
secoli, a parte i campeggiatori per diletto, ma l’espressione
è rimasta). Lei non sa cosa fare, si sente ancora più frastor-
nata. Poi si alza di scatto, esce dalla stanza e si avvia per il
corridoio, sempre stringendo il crocifisso. Un crocifisso di
buona qualità che non ha rubato: glielo ha affidato un vesco-
vo moribondo. Le sue orecchie hanno captato questo titolo.
Mentre scende i pochi scalini dell’entrata guarda il fiume
nello sbadiglio struggente dell’ora violetta. E in quell’istante

191
preciso capisce che quel morto in fieri è il confessore che
l’ha violata per tutto un inverno, quando aveva nove anni,
e poi ancora l’anno dopo. O meglio, si rende conto che una
sentinella dentro di lei l’ha captato nell’istante in cui l’ha vi-
sto, ma qualcosa le impediva di prenderne atto. Ricomincia
a piangere. Questa volta però è scossa da strattoni simili a
accessi di tosse.
tornare a essere dio

Un dio non può e non deve parlare, perché le lingue uma-


ne sembrano concepite apposta per formulare menzogne di
tutti i tipi, per chiamare a raccolta i grilli per la testa, per
condurre fuori dal seminato, per traviare. In altre parole
per attizzare la vera specialità dell’uomo, la sua intrinseca
ragione di essere: il male. Gli altri animali se ne stanno tran-
quilli perché non parlano e non hanno mai parlato, mica
per altro.* Il linguaggio divino è il silenzio: non c’è bisogno
di parole per esprimere l’armonia e l’amore, o anche una
giusta collera. Basta guardarsi, o semplicemente guardare
fisso davanti a sé, e tutti capiscono che si è d’accordo, o c’è
il dato problema.
Presto smetterò di scrivere, presto tornerò a essere Dio e
basta. Senza pensare, senza distrarmi, senza fissare lo sguar-
do su qualcosa di preciso: come ho sempre fatto. Quello
che deve fare un dio è presenziare, prima ancora di darsi
da fare per questo o quello. Del resto è logico: sarebbe una
catastrofe, un dio che c’è e non c’è, o sfacciatamente assen-
teista, o anche solo part-time. In poco tempo l’ateismo e l’a-
gnosticismo si estenderebbero a macchia d’olio, prendendo
il sopravvento sulle religioni. I veri cancri dei tempi presenti
sono questi: bisogna fare di tutto per combatterli. Non va
mai dimenticato che una volta insediati poi per debellarli ci
*
Se parlassero comincerebbero subito a sfottersi, a aizzarsi, a farsi
la guerra: i passeri contro i fringuelli, le pulci contro i pidocchi, gli
ippopotami grigio topo contro gli ippopotami grigio chiaro, e via dicendo.

193
vogliono terremoti, carestie, carneficine, o tremendi regimi
dittatoriali: una terapia d’urto che francamente preferisco
evitare.
Io non ho bisogno degli uomini, devo anzi evitarli. Gli
uomini sono solo un infausto incidente di percorso, una
poco edificante parentesi. Quello sconsiderato del mio sup-
posto figlio ha creato un sacco di confusione al riguardo,
ha messo in giro l’idea che avessero chissà quale importan-
za, quando invece non contano nulla, e in men che non si
dica spariranno dalla circolazione. In un certo senso io non
voglio nemmeno più sentirli nominare: che facciano quello
che vogliono, a me non interessa. Sono Dio.
la casina tra i rovi

Dafne ci mette un bel po’ a realizzare in che letto è sdraia-


ta, quando si sveglia. Poi mano a mano che il suo processore
centrale ricomincia lentamente a carburare si rende conto
che è nella stanza con l’ottocentesca lavatrice e il paleolitico
smielatore a manovella. E allora le viene in mente perché è
lì: è una doccia gelata che riaccende di botto la sua memoria
esterna. Si ricorda che uscita dal seminario ha aspettato non
sa quanto tempo un treno, fissando come ipnotizzata il fiume:
nel suo delirio le sembrava che fosse suo padre. Poi ha vaga-
to per il centro, senza sapere cosa stava facendo. Finché si è
ritrovata alla stazione centrale, e ha preso l’ultima corriera
per il paese delle ville dei ricconi. Da lì ha camminato sotto
la pioggia – come spinta dalla forza d’inerzia – fino dal suo
patrigno. E adesso non sa che farsene di quella giornata che
sta cominciando. Ha l’impressione di essere il cadavere di un
naufrago spinto dalle onde sulla spiaggia.
Ripensa all’alto prelato dal quale è andata, come si riper-
corre un incubo terrificante. Fa molta fatica a pensare che non
si tratti di un’allucinazione, che quell’incontro sia avvenuto
davvero. Deve continuamente richiamare all’ordine la sua
testa, intimarle di accettare quel dato di fatto: di sicuro è quel
maledetto bastardo che forse adesso è già schiattato – è ef-
fettivamente spirato poco prima dell’alba, questo posso con-
fermarlo – che ha pilotato a distanza la sua infanzia e la sua
adolescenza, come un burattinaio tira i fili che fanno muove-
re la marionetta. È lui che l’ha schiaffata negli istituti religiosi

195
dove è cresciuta, è lui che ha pagato. Lei non lo sapeva, ma
era una marionetta. Anche adesso è una marionetta. Una
burattina accasciata su se stessa, che nessuno può aggiustare.
Le sembra di sentire delle voci. Il gorgheggio sordo del
suo patrigno che parla a alto volume con qualcuno. Prova a
fare più attenzione: per un attimo ha l’impressione di capta-
re il timbro cristallino di Afra. Ha le traveggole, si dice, c’è
solo quello scoppiato neobuddista che sapeva chi era il suo
burattinaio, e che non le ha mai detto niente. Che l’ha in-
gannata, senza nemmeno accorgersi che quel mostro aveva
abusato del suo corpo. Adesso i vuoti e i silenzi si riempiono,
e i vari elementi si incastrano tra loro alla perfezione, come
nel passato delle persone normali.
La porta si apre lentamente, e appare una facciotta che
sprizza una gaiezza birichina: il sorriso irresistibile della pic-
cola Afra. È proprio lei, e le ha portato una tazza di caffè:
gliela porge imitando un ossequioso maggiordomo. Sono ve-
nuta a trovarvi, le dice, come rispondendo al suo stupore. È
evidente che è molto contenta di averle fatto una sorpresa,
e che vuole condividere la sua gioia con lei. Lei però è para-
lizzata. Per aggrapparsi a qualcosa prende in mano la tazza,
la porta alle labbra. Le sembra molto buono quel caffè, le
sembra che le faccia assai bene. Sorride, non riesce a fare a
meno di sorridere, e nello stesso tempo si sente il personag-
gio virtuale di un gioco elettronico. Afra si siede sul bordo
del letto, la guarda. Il tuo patrigno è fortissimo, mi fa morire, le
dice. E ride. Ride scoprendo le gengive color gengiva e mo-
strando i suoi denti molto bianchi. Ti stiamo aspettando per la
colazione, conclude poi, rialzandosi.
Quando arriva in cucina il tavolo è apparecchiato per tre, e
coperto da un sacco di cose buone. C’è pure la marmellata di
fichi neri preparata dalla compagna dell’ex comunista gros-
sista di banane, che a lei piace molto. E anche una torcia di

196
foglie rosse e arancioni assemblate con molto gusto (non può
essere stata che Afra), intercettata da una lingua di sole che la
colpisce attraverso la finestrella foderata di ragnatele. L’aria è
pulitissima, e con quel cielo così blu il cortile cosparso di rug-
ginosi relitti sembra bello. Perfino i tre cani paiono soddisfatti
di quello splendore autunnale, e dell’atmosfera familiare.
Francesco mi ha portato a vedere una casina molto carina, dice
Afra, accarezzando con la faccia il muso del cane grande
con il pelo corto. Era chiusa, ma siamo riusciti a entrare, aggiun-
ge con il suo contagioso sorriso da monello. Intorno c’è un bel
pezzo di terra, per noi sarebbe perfetta, conclude. Il suo magris-
simo patrigno annuisce con la barba candida da apostolo
californiano, come se avesse detto la cosa più normale del
mondo. Secondo me non vogliono tanti soldi per l’affitto, sentenzia.
Sarebbe eccezionale, ribatte Afra, guardandolo negli occhi. Si
capisce che hanno già parlato della cosa, e soprattutto che
si trovano molto simpatici. Anche per questo lei fa fatica a
credere che non sia un film di fantascienza.
Afra insiste per portarla subito a visitare la casetta dei
sette nani. Lei si sente un po’ frastornata, preferirebbe tor-
nare a sdraiarsi, ma si avviano a piedi, seguiti dal cagnetto
maniaco, ormai innamorato secco della piccoletta. Il cielo
è un mare profondo, e il bosco è un incendio che nessuno
può spegnere: la valle dove vive il suo patrigno le sembra
molto più allegra del solito. E anche la casupola con il tetto
di vecchie tegole arancioni, che pare nuotare nel selvaggio
intrico di rovi e cespugli, è davvero graziosa. Su un lato c’è
una specie di fosso con due roverelle (questo lo dico io: lei
non conosce gli alberi), e davanti una pacifica spianata con
molti scarruffati alberi da frutto.
Entrano da una finestra sfondata e visitano le tre stanze
e la cucina. Doveva abitarci un’anziana (confermo), un vero mi-
racolo che non abbiano portato via niente, dice Afra (e dai con

197
i miracoli!). Con il suo solito sorriso benevolente adocchia
e memorizza i vari dettagli, facendo l’inventario delle cose
che ci sono da fare. Con un’imbiancata e qualche lavoretto è abita-
bile, dice, muovendosi come se fosse già casa sua. Per l’inverno
prossimo ci vorrà però una stufa migliore di questa. La mia anima qui
sta benissimo, conclude dopo aver chiuso gli occhi. Ma anche
lei si sente bene lì dentro, per qualche motivo è attratta an-
che lei. Per la prima volta l’ipotesi di abitare in campagna
non la spaventa, per la prima volta non ci vede degli insupe-
rabili inconvenienti. Forse sul serio tra qualche settimana abiteremo
qui, si dice.
Riescono a sbloccare il rosicchiato portone di legno, e
escono sul davanti: addossata alla facciata c’è una panca
di pietra grigia, sormontata da un enorme alloro con un
tronco liscio che fa pensare alla pelle di una persona. L’or-
to lo facciamo qui, dice Afra, indicando il vasto spazio piano
tra i meli inselvatichiti e gli albicocchi afflitti da bucoliche
malattie. Stringe le labbra da cerbiatta con un cipiglio quasi
grave: è lì che vuole coltivare le sue carote lavorate solo con
la zappa e concimate solo con il letame di una stalla bio-
logica. I fagioli invece li mettiamo là, aggiunge indicando una
zona un po’ in pendenza. Non guarda la terra, ma un metro
più in alto: vede già le piante dei fagioli abbarbicate ai loro
tutori, grandi e rigogliose. Per l’acqua c’è la piccola sorgente sotto
il castagneto, bisognerà mettere un tubo nuovo, dice. Lei si sente un
turacciolo di sughero in balìa della corrente, e non riesce a
immaginarsi l’orto nel suo massimo rigoglio, perché non ha
tanta dimestichezza con quelle cose. A me piacerebbe piantare
dei girasoli, le viene però da dire, con voce un po’ esitante.
Da piccola era affascinata dal fatto che da un semino venis-
se fuori un fiore enorme e molto bello. Certo, ribatte Afra,
come se fosse un’idea fondamentale. Basta che scegli un posto,
dice, quasi fosse una decisione che deve essere presa subito.

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Io penso che fanno proprio tenerezza quelle due matta-
relle, una nanetta e l’altra spilungona, e ognuna con una sua
forma molto personale di purezza: non è ancora fede nel
sottoscritto, ma è pur sempre l’inizio di qualcosa. Per certi
versi sembrano due fidanzatini che visitano la casa dove an-
dranno a abitare. Vorrei quasi tranquillizzarle riguardo alle
intenzioni delle proprietarie: sono tutte e tre d’accordo per
affittare. O meglio, una non ancora, ha bloccato anche una
trattativa precedente, ma stasera lo sarà: so che argomenti
usare per convincerla. E anche il prezzo sarà molto ragio-
nevole, come spesso succede quando ci sono di mezzo più
eredi. Le lascio però nella loro incertezza, così poi saranno
ancora più contente: gli umani apprezzano di più le conqui-
ste ottenute con difficoltà.
Il pomeriggio risalgono lungo il torrente ammirando il
grande rogo vegetale schiacciato sotto l’inchiostro del cielo.
Afra come sempre le racconta un sacco di cose molto inte-
ressanti sugli animali e le piante che vivono da quelle parti.
E ogni tanto guizza o si acquatta, acchiappando qualche
bestiola. Lei sta un po’ meglio, la rassicura l’idea che forse
tra poco abiteranno in quel posto e potranno fare altre pas-
seggiate. Ha l’impressione di essere appena uscita da una
malattia gravissima, di avere bisogno di una lunga convale-
scenza. Quando tornano a casa preparano un risotto con le
ortiche e altre strane erbe che hanno raccolto. E mangiano
scherzando e ridendo. Afra mostra le gengive, e Francesco
batte la mano sul tavolo per accompagnare la fine delle fra-
si: guardandolo, Dafne si dice che non gliene vuole, ha fat-
to quello che ha potuto. Si sente bene, per la prima volta
le sembra di avere una famiglia. L’intenzione era quella di
rientrare la sera con l’ultima corriera, ma decidono di dor-
mire lì, e di partire la mattina.
Afra insiste per sdraiarsi lei nel giaciglio improvvisato per

199
terra, nella stanza disastrata con la lavatrice e lo smielatore,
ma Dafne non ne vuole sapere. E allora si stendono entram-
be sul letto a una piazza, dicendosi che ci penseranno dopo.
Per un po’ se ne stanno abbracciate, e anzi incollate, senza
dire niente. Poi la piccoletta comincia a accarezzarle con
molta delicatezza un fianco. E poi anche l’altro. E poi il ven-
tre piatto, e risalendo piano con il palmo della mano anche
i seni da ragazzina. E poi ancora la bacia, prima sul mento,
e ben presto sulla bocca. Dafne sembra un po’ stupita, ma
risponde al bacio, e anzi giocando con la lingua e premendo
forte le labbra lo fa diventare ancora più appassionato. Si
baciano a lungo sulla bocca, accarezzandosi ovunque. Poi
Afra le mette una mano sul pube e la tocca anche lì, stirac-
chiandole i peli. Mentre la situazione degenera di secondo
in secondo io ho l’impressione di non credere ai miei occhi:
non mi sarei mai aspettato una cosa del genere. Mai. In
men che non si dica iniziano a amoreggiare con sospiri e
posizioni degne di un film pornografico. Risparmio i detta-
gli, e mi limito a dare l’eloquente risultato finale: tre a tre.
Quando si addormentano è ormai l’alba.

200
gli uomini sono irrecuperabili

Solo un pezzo di pane come me poteva confidare che


la razza umana col tempo sarebbe migliorata. In verità è
stata una catastrofe fin dall’inizio, e lo sarà fino al suo ulti-
mo giorno. Il primo pensiero dell’uomo è stato rubare una
mela, il secondo rubarne un’altra lavorando il meno possi-
bile, il terzo usare la mela rubata per circuire sessualmente
un’innocente, e via così fino ai tempi presenti. Le cose co-
minciate troppo male non si possono più aggiustare: avrei
fatto bene a prenderne atto fin dall’episodio della Golden. E
invece sono andato avanti sperando che prima o poi sareb-
bero rinsaviti, confidando in quelli che mi sembravano dei
piccolissimi passi avanti. Altro che progressi: ormai la por-
nografia e l’omosessualità dominano incontrastate. Basta
vedere quello che è appena successo sotto i miei stessi occhi.
Il loro problema è l’assoluta immoralità. Non fanno che
pontificare sulla bontà e sull’onestà – hanno comincia-
to nonappena imparato a far risuonare le corde vocali – e
non smettono di commettere le perversità più disgustose. Si
gargarizzano con i buoni propositi e le belle teorie, scrivono
montagne di libri edificanti, e ne combinano di tutti i colori.
Amano il male, lo hanno sempre amato e lo ameranno sem-
pre: ce l’hanno scritto nei geni. Nessuna scimmia ha mai scrit-
to un tomo di mille pagine di etica, ma nessuna scimmia ha
mai trucidato la sua amica e ne ha mangiato il cuore, nessun
ippopotamo si è trasformato in serial killer, gli orsi bianchi
non si sono mai considerati superiori agli orsi bruni, e nessuna

201
mucca ha mai pensato di bruciare in un forno tutte le colle-
ghe con il naso fatto in un certo modo. Tra gli uomini invece
è moneta corrente, basta prendere in mano un libro di storia.
La mia non è stizza, intendiamoci bene: sono e resto im-
perturbabile. Figuriamoci se un dio dà in escandescenze o
addirittura soffre, ci mancherebbe solo quello. Sono deluso,
molto deluso, ma la delusione non ha nulla a che vedere con
la sofferenza. Gli umani mi hanno deluso, tutto qui. Una
volta, due volte, dieci miliardi di miliardi di volte: ho finito
per averne abbastanza. Checché ne possa dire qualche creti-
no, uno di quei fessi che pensano che per me gli uomini siano
essenziali, e che anzi senza di loro non sarei nessuno, l’in-
qualificabile depravazione di quella ragazza è solo la goccia
che ha fatto traboccare il vaso, in realtà ero arrivato a questa
conclusione già prima: gli uomini sono irrecuperabili.
Certo lo stanno già facendo da soli, ma una spintarella
potrei darla anch’io. Come si lascia cadere un mozzicone di
sigaretta in una foresta ben secca, o si assesta un calcione a
una porta che già si stava chiudendo per i fatti suoi. Posso
far saltare i nervi a qualche dittatore, in modo che faccia
partire un po’ di missili a destra e a manca, o anche sempli-
cemente fare esplodere due belle centrali nucleari, o inven-
tarmi una nuova letale epidemia. Poi le guerre spaventose
e le carestie e i disastri a catena verranno da soli, non avrò
certo modo di stancarmi. E naturalmente mi aspetto molto
dai cambiamenti del clima, cavallo di battaglia del nostro
buon Vittorio pure in Australia.* E se proprio vedo che la

*
Ma non intendo certo annoiare il lettore con quello che blatera tra
i marsupiali e i discendenti degli stupratori britannici: quando un
personaggio è uscito di scena è uscito di scena, sarebbe fuori luogo
rimetterlo di nuovo sotto i riflettori. Ha continuato la relazione con la
tirolesina balconata dell’aereo? Affari suoi! E che dica quello che vuole in
Australia, non interessa più a nessuno.

202
cosa va per le lunghe resta sempre l’ipotesi dell’asteroide gi-
gante. Una bella sbocciata, e non se ne parla più. Un lavoro
forse più pulito, esteticamente meno datato.
tutto sembra aggiustarsi

Dafne sale le scale del commissariato come un condan-


nato entra nel braccio della morte. Ci mancava solo questa,
si dice. Lo ha capito fin dall’attimo in cui il vicino con un
inchino indiano le ha messo in mano la convocazione, se lo
sente: la processeranno e la metteranno in prigione. Non a
caso la voluminosa arpia dietro il banco le indica sgarba-
tamente due sediacce in un budello senza finestre: per lei è
una criminale già condannata. Ma anche gli altri poliziotti
che transitano la spiano nello stesso modo: tutti sanno per-
ché è lì e cosa le succederà. Gliela faranno pagare.
Dopo un bel po’ appare un tipetto con una vaporosa au-
reola di capelli bianchi, che la invita a seguirlo. La fa sedere,
e mentre il suo cuore batte all’impazzata cerca serafico in
un plico di pratiche sulla scrivania. Abbiamo trovato la moto di
sua proprietà, le dice poi, con un sorriso da clown triste. Lei
guarda la foto sul documento che le porge: non crede ai
suoi occhi, ma quella è proprio la sua bicilindri, e sembra
essere in ottima forma. Quindi non c’entrano le liste che ha
sottratto al Vaticano. Sente un’esplosione dentro il petto, e
senza averlo deciso scatta in avanti, cercando di abbracciare
l’ometto con la faccia da angelo buono. Lui fa un balzo su
un lato, come un portiere molto bravo. È stata davvero fortuna-
ta, di moto ne recuperano una su dieci, sentenzia con voce più da
zio che poliziesca. Può ritirarla anche subito al deposito, e anzi, può
approfittare della pattuglia che sta per andare proprio lì, dice. Non ho
il casco, ribatte lei, con le lacrime silenziose che le scendono

205
sulle guance. Vuol dire che l’accompagneranno a prenderlo, replica
lui, puntando con il dito molto pallido da cherubino il suo
indirizzo sulla pratica.
Io sono misericordioso. Non ho sfogato la mia ira come
avrebbe fatto un dio collerico: non ho fatto investire da un
autista ubriaco quelle due ragazzacce colpevoli di sodomia
al femminile, non ho incistato due di quei nefasti carcino-
mi che si manifestano solo anni dopo, quando non c’è più
nulla da fare. E anzi ho sistemato la questione del contratto
della casina bucolica: lo hanno già firmato, contente come
fringuelline. Vivranno nella depravazione, sbizzarrendosi in
altri tre a tre ogni sera: non servirebbe a nulla mettere i pali
tra le ruote, al punto in cui sono arrivate le cose. Si facciano
confezionare dieci bambini in provetta, o si clonino, fac-
ciano quello che vogliono, non me ne importa né tanto né
poco. Pagheranno a tempo debito, come tutti gli altri.*
Il direttore del laboratorio le ha telefonato chiedendo
di vederla, ma Dafne non aveva intenzione di presentarsi.
E invece mentre si appresta a montare in sella vede che è
proprio l’ora dell’appuntamento fissato, e decide di andare.
Ora che ha di nuovo la sua moto se la sente, e anzi ne ha
bisogno. Quell’azzimato coglione le racconterà chissà quali
panzane, le farà delle nebulose promesse per nettarsi la co-
scienza cattolica, ma se l’ha convocata lei non intende sot-
trarsi. Vuole dire addio a testa alta al laboratorio che è stato
tanto importante per una lunga fase della sua vita.
Quando però arriva all’Istituto una grande tenaglia l’af-
ferra per la gola: la nostalgia delle provette, degli odori di am-
moniaca e di acido solforico, degli ululati delle centrifughe,
*
Non è detto però che non opti per una selezione per categorie di peccati,
come quella prefigurata dal signor Dante Alighieri, invece di riprendere
in mano uno a uno l’infinità di casi personali: qualche volta mi chiedo chi
me lo farà fare.

206
della macchinetta del caffè nel corridoio. Perfino di quel
deficiente di chimico con i brufoli viola. Non deve rimpian-
gere nulla, nel suo futuro adesso ci sono le zucchine e le
carote coltivate senza pesticidi, che sono molto più sane, si
dice. Ruota su se stessa: non ha la forza per affrontare quella
prova. Poi però si dice – per certi versi è come se sentisse
una voce che glielo intima – che deve essere forte. Piroetta
di nuovo e affronta la rampa di scale.
Il direttore la fa sedere nel suo intonso ufficio sfregan-
dosi le mani come se le avesse sotto un rubinetto di acqua
tiepida: sembra uscire da una lunga doccia, soddisfatto di
se stesso ancora più del solito. Lei si dice che le pioveranno
addosso le peggiori cazzate. E in effetti lui comincia subito a
emettere i soliti mozziconi verbali simili a schizzi impazziti
di dizionario. Poi invece, riuscendo quasi a concludere al-
cune frasi, le annuncia che è arrivato un finanziamento re-
gionale sul quale non contava: per un enorme colpo di fortuna
hanno scelto il loro laboratorio. E nessuno può mandare
avanti quella cosa meglio di lei. Lei lo guarda, come sem-
pre con l’impressione di non capire. Stavolta però ha capito
benissimo: è che non riesce a crederci. È tutto vero, le sussur-
ra nell’orecchio il vocione molto autorevole. E glielo ripete
ancora: per adesso è così, poi a breve ci sarà l’assunzione a tempo
indeterminato. Questo come soluzione provvisoria, poi ti assumiamo,
chiarisce subito dopo il direttore, agitando la mano da talpa
accanto all’orecchio. Lei non vorrebbe piangere davanti a
quello stronzone, ma piange. Anche lui allora si commuove:
gli vengono gli occhi lucidi. Sembra essersi dimenticato che
è lui che ha truccato il concorso.
Si potrebbe pensare che anche questa faccenda l’abbia
risolta io, e invece qui non ho mosso un dito. È stato il ve-
scovo morente a sistemare tutto: aveva capito perché era
venuta. Con le ultime forze, dopo che lei se n’è andata, ha

207
fatto chiamare un importante politico, il quale ha chiamato
il direttore dell’Istituto, fatto nominare dal suo partito: alle
nove di sera tutto era sistemato. L’influente senatore contra-
rio al matrimonio tra omosessuali ha fatto dire al vescovo
pedofilo che nel giro di qualche mese l’avrebbero assunta a
tempo indeterminato, perché si era liberato un posto. Lui
già non poteva più parlare, e si stava avvicinando all’agonia
vera e propria, ma ha scosso impercettibilmente la testa. Poi
l’ha scossa di nuovo, per chiedere l’estrema unzione.
Purtroppo è successa una cosa molto triste, le dice il direttore
mentre l’accompagna verso le scale, scuotendo nell’aria le
braccia come per scacciare dei moscerini mendeliani. La
vincitrice del concorso è stata travolta sulle strisce pedonali da un ca-
mion, prosegue, mobilitando i soliti moncherini di frase che
fanno pensare a rami capitozzati da un giardiniere troppo
zelante. I medici non sanno dire se si sveglierà dal coma (sì,
si sveglierà), e se il suo cervello, nel caso succeda, avrà delle
conseguenze (qualche strascico non si può escludere), ma
in ogni caso il suo posto resterà vacante. Una terribile fatalità,
perché il veicolo andava in realtà a passo d’uomo, dice, di nuovo
commosso: pensa che quell’incidente poteva benissimo ca-
pitare a lui, che è sempre molto distratto. Iddio fa quello che
vuole, sospira, e io non posso che confermare.
Alla stangona dispiace che la velina acerebrata sia in
coma, ma esce pur sempre come volando dall’Istituto. Le
sembra che la forza di gravità sia diminuita e che nei suoi
polmoni ci sia del protossido di azoto: è quel gas esilaran-
te che tira le sue labbra ai lati, costringendola a sorride-
re. Le sembra che il parco spelacchiato sia molto più bello
del solito, e che i merli le facciano l’occhiolino. Riprenderà
a lavorare la mattina dopo, decide. Poi invece ci ripensa:
comincerà il lunedì successivo. Adesso che può contare su
uno straccio di stipendio, anche se modesto, può cercare

208
un miniappartamento (confermo: lo troverà). Certo andrà a
stare con Afra, che è senza ombra di dubbio l’uomo della sua
vita, ma per il momento preferisce avere anche una base in
città, così tra le altre cose eviterà gli avanti e indietro quo-
tidiani. Inforca la moto, e mentre guida ha l’impressione di
galleggiare nell’aria, le sembra di essere un arcangelo sul
soffitto di una maledetta chiesa.
lʼestinzione

Per ora ha prevalso la mia infinità bontà. Adesso però


davvero è venuto il momento di estinguerli, gli uomini.
Come ho fatto con i dinosauri e i mammut, ogni volta to-
gliendo dalla piazza un bel corteggio di esseri. E non me ne
sono mai pentito. Anche le specie dopo un po’ vengono a
noia, come tutte le altre cose: si ha necessità di facce nuove,
di aria fresca. Senza contare che gli uomini cancellano a
un ritmo sempre più indiavolato un numero stratosferico di
animali e vegetali: la loro estinzione sarà un evento molto
ecologico. A ben vedere non sono che una tra le dieci mi-
lioni di specie, lasciamo stare le loro stime inaffidabili, del
regno animale. Tra novemilioninovecentonovantanovemi-
lanovecentonovantanove specie e dieci milioni di specie non
cambia molto, su questo sarebbe d’accordo chiunque. Mol-
to presto, forse già in contemporanea con l’ultima sillaba di
questo infausto diario, mi deciderò a spegnere l’interruttore:
avranno la ricompensa che si meritano.
Certo ci vorrà un po’ di tempo per cancellare tutte le trac-
ce delle loro malefatte, ma l’importante è iniziare. I fiumi
ricominceranno a scorrere dove hanno voglia di scorrere,
inondando per bene le pianure, le città e le strade scom-
pariranno sotto l’intrico della vegetazione. Prima partiran-
no all’attacco i licheni e i muschi, poi le prime erbette, fino
a arrivare alle imponenti querce. Gli alberi non dovranno
più temere che qualcuno li tagli alla base o anche solo li
poti, torneranno a troneggiare indisturbati. Per l’opera di

211
bonifica confido in effetti nei vegetali: al limite se vedo che
c’è bisogno spargerò un po’ di concime: naturale, basta con
la chimica. I grattacieli cominceranno a pencolare come i
campanili a Venezia, e poi cascheranno come birilli. Addio
parcheggi asfaltati, linee dell’alta tensione, centri commer-
ciali, aeroporti: le foreste domineranno incontrastate. E so-
prattutto non ci saranno più chiese, quei pericolosi covi di
ipocrisia e mal esempio. Non vedo l’ora di essere di nuovo
tranquillo.
Che pace, senza gli uomini: già mi godo la meravigliosa
bonaccia. Basta aerei che assordano l’atmosfera – per non
parlare delle antiestetiche strisce – basta puzza di industrie
e di scappamenti, basta vagonate di anidride carbonica. La
notte farà buio, e si potrà dormire in pace. I pesci potranno
di nuovo scorrazzare senza paura di finire in una scatola
di latta o polverizzati nella mangiatoia di una porcilaia, gli
uccelli voleranno dove avranno voglia di volare, le mucche
reimpareranno a essere un po’ meno mansuete, senza pro-
durre tutto quel latte di scarsa qualità, i cani perderanno
quel loro insopportabile servilismo, i gatti riprenderanno a
graffiare e soffiare. Si tornerà a una libera competizione tra
le specie, senza i trucchetti e i colpi bassi che gli umani han-
no utilizzato fin dall’inizio a loro vantaggio.
Il solo pericolo è che in qualche palude o grotta riman-
gano nascosti astuti manipoli di superstiti. Che se ne stiano
lì quatti quatti a rosicchiare bacche e lucertole, aspettando
tempi migliori, quando potranno mettere in atto una delle
loro esplosioni demografiche, specialità nella quale sono im-
battibili, come una subdola malattia ormai mezza dimenti-
cata, che riesploda in tutta la sua aggressività. Me li vedo
bene a reinventare in quattro e quattr’otto il fuoco, i pu-
gnali di ferro, la polvere da sparo, e avanti fino ai telefonini.
Veglierò quindi che non rimanga la più piccola tasca di

212
resistenza: userò una potente eruzione, una di quelle nevi-
cate di lapilli che portano via la luce per qualche anno, una
Pompei alla terza potenza, se necessario. Non ho nessuna
intenzione di ricominciare daccapo questa triste commedia.
Forse però la soluzione migliore, pensandoci meglio, è
quella di imprimere una potente accelerazione, come si
spinge un bambino su un’altalena, a Andromeda. Il coz-
zo apocalittico era previsto tra due miliardi di anni? Ridu-
co l’attesa a due minuti! Addio Via Lattea, finite le inutili
chiacchiere. Non bisogna esitare a fare le cose in grande,
quando si vuole un risultato sicuro. O anche risveglierò, se
proprio vorrò agire in maniera più discreta, l’appetito di
Sagittarius A*, in modo che si pappi buona parte delle stelle
che gli vorticano attorno, a cominciare appunto dal sole.
Me lo vedo benissimo mentre succhia con la sua orrida boc-
caccia i vari astri, come Polifemo sgranocchiava i compagni
di Ulisse. Solo che questa volta non ci sarà Ulisse che tenga:
finite le astuzie e le parole umane. Ora ci penso meglio, e
decido. O per meglio dire la scelta giusta si imporrà da sola,
senza bisogno del pensiero. Io sono Dio, mi dico, prima di
chiudere definitivamente.

213
indice

9  Non ho bisogno di pensare

13  La motociclista sodomitica

19  La devozione interessata degli uomini

23  Il laboratorio del due a zero

29  Sono perfetto

33  La cena dei poveri cristi

39  Il turismo intergalattico

43  Il latte delle montagne

47  L’incredibile tracotanza degli uomini

51  La gestazione del cosiddetto amore

55  La poesia della matematica

59  I silenzi trascendentali del paleobeatnik

63  La notte dei rospi innamorati

67  La buona coscienza degli ecologisti

71  Le manacce dappertutto

77  Il riposo delle galassie


81  Il concorso di bellezza

85  Il mio immenso senso estetico

91  Gli occhi preistorici dellʼiguana


97  La lingua umana mi vince

101  Lʼaffondamento del titanic

107  Non so cosa mi succede

111  I prodromi rituali del sesso

117  Quattro passi nel cosmo

121  La liturgia erotica

127  Mi vengono idee strane

131  Il sesso indiavolato

133  I diabolici danni collaterali

137  Lʼabitazione dei serpenti

141  Tornare a non pensare più a niente

145  Le terribili iniquità del pianeta

149  Solo per una notte

153  Le telecamere nascoste

157  La titanica lotta contro me stesso

159  La raccomandata con molti francobolli

161  Resterò muto come un pesce

163  La cassa del supermercato

167  Lʼesistenza degli uomini


169  Le carote coltivate con la zappa

173  Il paradisiaco angelo indiano

181  Sterminare i pensieri

185  Il morto non ancora morto

189  Il vescovo pedofilo

193  Tornare a essere dio

195  La casina tra i rovi

201  Gli uomini sono irrecuperabili

205  Tutto sembra aggiustarsi

211  Lʼestinzione
finito di stampare nel mese di maggio 2016
presso tipografia bianca & volta

Printed in Italy

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