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DOMANDE CHE NESSUNO FA..


(e risposte che nessuno da)

Il CorrierEconomia del 12 aprile 2010 apre con un articolo di Sergio Rizzo e quattro di Isidoro Trovato. Vertono tutti sulle stesse questioni angosciose:

Il ritardo nei pagamenti, tanto da parte di imprese private quanto pubbliche, dei loro fornitori, le cui operazioni vengono strangolate, quando non
uccise, da codesta pratica.
La mancanza cronica di liquidità, alla quale segue l’indebitamento obbligato in banca: “C’è meno liquidità e dobbiamo indebitarci” lamenta Mauro
Baruzzi dell’impresa familiare omonima.
L’effetto danneggiante inversamente proporzionale alle dimensioni di una impresa: quanto più piccola e puntuale nell’assolvere i suoi impegni,
tanto più colpita ne viene dallo Stato, delle banche e delle grandi imprese private.
Nemo custodit ipsos custodes: Le tasse e imposte colpiscono senza remore e senza pietà, la delinquenza degli enti pubblici nell’assolvere i loro
obblighi rimane impunita: “Il patto di stabilità era stato creato per evitare ai comuni di sforare il proprio budget. Ma il risultato è che, verso fine
anno, quando si accorgono di aver raggiunto il limite massimo di spesa, i comuni e tutti gli altri enti locali sospendono i pagamenti di tutte le
fatture e li rimandano all’anno successivo. Questo perché così vengono contabilizzati nel bilancio dell’esercizio successivo”. Così Antonella Gabriellini
di Toscana Costruzioni

Trovato quasi butta la spugna: “Fare in modo che le imprese riscuotano almeno una parte dei loro crediti potrebbe rappresentare una via di uscita… Ma
come riuscirci senza squilibrare ulteriormente i conti pubblici, non è ancora chiaro”.

E non lo sarà mai, mi si permetta di aggiungere, perchè l’economia nella quale ci dibattiamo non è naturale. Ne sono un sintomo i rimedi proposti.
Cominciamo da Rizzo: “Non rispettate i tempi? Scatti la multa”, tuona il titolo. E’ la stessa politica che sguinzaglia i vigili urbani a multare chi parcheggia
dove può senza che il municipio pensi alla soluzione razionale: costruire parcheggi sotto ad ogni strada, così da avere circolazione sopra e parcheggio
sotto. “Ma non ci sono fondi!” esclama chi ha imparato economia dagli scagnozzi dell’usura. Vi ritorneremo. Poi diventa poetico: “I cittadini evadono le
tasse perchè sono troppo alte e le tasse sono troppo alte perchè i cittadini le evadono”. Bello, come la storia dell’ex-capitano della Royal Navy ritirato a
Zanzibar, che sparava un colpo di spingarda puntualmente a mezzogiorno. Quando un ospite gli chiese come facesse ad avere il tempo esatto, “Ah,
quando mi reco in città per approvvigionarmi sempre passo dall’orologiaio locale, che ha un cronometro pienamente affidabile”. L’ospite si reca a
Zanzibar città e va dall’orologiaio. “So che avete un cronometro che marca il tempo con esattezza. Come fate? “Ah, c’è un ex-capitano della Royal Navy
che dall’altro lato dell’isola spara un colpo esattamente a mezzogiorno…” Circolo vizioso che gode di credito grazie all’assenza della logica dalla “squola”
italiana.
Continuiamo con Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato: “Abbiamo bisogno di norme severe contro i cattivi pagatori che mettono in
ginocchio le piccole imprese… strette in una morsa di oneri finanziari, costi amministrativi per disincagliare i crediti in sofferenza, perdite di tempo, oneri
legali per ottenere la riscossione del credito agendo per via giudiziaria”.
Che non serve, finisce Rizzo, giacché “rivolgersi al giudice civile è semplicemente inutile, per non dire controproducente: le cause in Italia durano
decenni, e una piccola impresa che cita in giudizio una grande impresa difficilmente avrà altre commesse. Questa è la giungla italiana, dove la regola
della lealtà ha lasciato il posto alla legge del più forte. Per quanto si può ancora andare così prima che il sistema collassi?”
Le soluzioni proposte sono tutte violente: norme severe, sanzioni, multe, insomma la giungla. Però nessuno fa le domande, radicali nel senso etimologico
del termine, che andrebbero fatte per trovare l’uscita dal labirinto.

La questione fondiaria, il lavoro e la tassazione

Fu Jean Baptiste Colbert (1619-1683), ministro capo del Re Sole, a dire che “l’arte del tassare consiste nello strappare ad un anatra il massimo numero di
penne con il minimo di sibili”.
Colbert ebbe solo il merito di dire apertamente quel che faceva, giacché a farlo vi erano stati i baroni predoni dei secoli anteriori, che confiscavano gli utili
dei mercanti di passaggio con lo stesso criterio di mazzimizzazione degli introiti e minimizzazione della voglia del mercante di restarsene a casa o di
cambiare strada[1]. Di Colbert sappiamo che riuscì a “sviluppare ogni aspetto della vita nazionale”, ma sappiamo anche che “morì amaramente deluso, e
odiato dal popolo a causa delle tasse opprimenti”.[2] Ciononostante, gli “economisti” odierni sono colbertiani fino all’osso.
Facciamo la prima domanda che nessuno fa: è possibile una tassazione che risponda a criteri di giustizia? Nei trattati di economia la questione non si pone
neanche: si dà per scontato che l’unica differenza tra Colbert e i predoni privati fosse che lui rubava legalmente e loro no. Anche il pirata catturato da
Cesare lo sapeva: “Io lo faccio con un piccolo naviglio e mi chiami pirata. Tu lo fai con vascelli da guerra e ti fai chiamare imperatore”.
Ammetto che non è facile dirimere la questione in un regime intellettuale e morale che si è andato disfacendo della verità da quattro secoli a questa
parte, dando così origine allo iuspositivismo, per il quale “la legge dice” è il solo criterio di azione, anche se la legge autorizza l’immoralità più sfrenata. Lo
iuspositivismo ci ha per di più regalato (!) una pletora di diritti accompagnata da una corrispondente carestia di doveri.
Chi quindi parteggia per lo iuspositivismo non legga oltre; in quel regime non vi è soluzione alcuna ai problemi sotto considerazione.
Per lo iusnaturalismo, dove la giustizia segue tutta e solo dalla verità delle cose, giustizia vuol dire corrispondenza tra diritti e doveri, tanto privati quanto
pubblici. Per cui se lo Stato ottempera ai suoi doveri, ha il diritto di ricuperare i costi di ottemperanza con le tasse. In caso contrario lo Stato estorce, con
più o meno violenza, come il barone predone dei tempi andati.
Facciamo dunque la seconda domanda che nessuno fa: quali sono i doveri dello Stato?
Neanche qui è facile rispondere inequivocamente, giacché dai tempi di Jean Bodin (c. 1530-1596) regna una confusione crescente tra Stato e Governo, al
punto che pochi oggi sono in grado di farsi la domanda, non parliamo poi di rispondervi. È dovere primario dello Stato governare, cioè espletare cinque
funzioni inalienabili:

1. Amministrare la giustizia: distributiva (dello Stato verso i cittadini), legale (viceversa), commutativa (tra cittadini) e sociale (di tutti verso il bene
comune).
2. Difendere la comunità politica dall’aggressione esterna.
3. Punire i malviventi e premiare i cittadini esemplari.
4. Emettere il circolante necessario perchè i cittadini possano pagare le tasse;
5. Proteggere i cittadini stranieri residenti nel suo territorio in cambio di una equivalente protezione ai suoi cittadini residenti all’estero.

Lo Stato può –non deve- espletare anche funzioni alienabili, ma sussidiariamente, cioè nella misura in cui l’iniziativa privata non arriva: educazione,
agricoltura, trasporti, ecc.ecc.
Ma limitiamoci alla tassazione: lo Stato, per espletare quei doveri, ha il diritto di tassare per ottenerne i mezzi. E qui viene la terza domanda che nessuno
fa: perché chi può evade le tasse? Diamo un’occhiata agli imponibili:

1. La produzione di ricchezza, colpita dall’imposta diretta sul reddito;


2. Il consumo, colpito dalle imposte indirette;
3. Le transazioni domestiche, colpite dall’IVA;

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4. Le transazioni esterne, colpite dalle dogane.

La gente evade le tasse con l’economia sommersa non per “slealtà” ma per legittima difesa. Le somme evase vengono ri-immesse nel circolo sanguigno
dell’economia reale, che favorisce la produzione e gli scambi.
Però questo non è il punto. Il punto è l’innaturalità dei quattro imponibili, verso i quali il contribuente sente una ripugnanza viscerale. Se fossero secondo
natura, il contribuente non solo pagherebbe spontaneamente, ma perfino in anticipo. Ciò è possibile, come vedremo; ma prima facciamo la quarta
domanda che nessuno fa: esiste un imponibile naturale?
Lo Stato moderno, disposto (a parole) a difendere “l’ultimo metro” di territorio con la forza delle armi, ha effettivamente abdicato la sovranità sul
territorio ai terratenenti, che si guardano bene dallo sbandierarla, ma la esercitano di fatto, o pagando salari da fame ai loro dipendenti, o esigendo il
canone più alto possibile dai loro affittuarii. Si noti che il prezzo di un terreno, urbano o rurale, è direttamente proporzionale non alle strutture costruitevi
su dal possessore, ma alle attività svolte attorno ad esso da una folla di operatori economici. In un villaggio abbandonato, per esempio, quel prezzo è
nullo.
Lo Stato moderno, inoltre, ha abdicato, da Waterloo in poi, la sovranità sul denaro, oggi emesso dalla BCE per il contante e dalle banche commerciali per
il credito. Lo Stato si limita a coniare gli spiccioli, sui quali stampiglia la reivindicazione di sovranità. Per di più, lo Stato prende in prestito tanto il credito
quanto il contante dal sistema bancario, tassando i cittadini per pagarne l’interesse (esponenziale composto).
Ne segue che lo Stato moderno non governa più: governicchia, intrufolandosi in questioni che dovrebbero riguardarlo solo sussidiariamente, ma che
invece lo tengono occupato a tempo pieno, e per finanziare le quali non ha altra uscita che tassare e tartassare il valore aggiunto dallo sforzo di chi
lavora. Ciò lo si chiama “governance” ben sapendo che “governo” è un’altra cosa. E chi lavora si difende come può: con l’economia sommersa, con la
criminalità organizzata (e impunita), eccetera.
Chiunque lavora ha bisogno di terra sotto i piedi, ma ciò non significa esserne proprietario. La ragione è anch’essa naturale: la terra non è manufatturato
umano, e non è res nullius per la semplice ragione che non è res ma locus, o se si vuole, situs[3]. Per cui, come la verità, essa non appartiene a
nessuno, ma tutti hanno il diritto di usare, vita natural durante, quella superficie di cui hanno bisogno per lavorare. Superficie che non ha ragione di
essere sempre la stessa. Res nullius non è la terra, ma La Terra, il pianeta, la cui area è più che sufficiente perchè ogni uomo libero possa trovare dove
sviluppare i suoi talenti e desideri. Se fosse libero. Non lo è perchè una legislazione perversa gli nega quel diritto.
La Questione Fondiaria fa da una delle due ali di un uccello infernale di malaugurio, della quale si può leggere in Tito Livio per poi vederla fare da sfondo a
qualsiasi libro di storia di qualsiasi luogo e periodo. Quanto meno l’autore dello scritto ne percepisce l’importanza come causa determinante di guerre,
trattati, matrimoni dinastici, colonialismo, elezioni papali, rivoluzioni, esecuzioni capitali e chi più ne ha più ne metta, tanto più costui rivelerà al lettore
attento, e solo a lui, i drammi per non dire le tragedie della sperequazione fondiaria.
Quattro ne sono le conseguenze innaturali.

La recintazione conduce, prima o poi, al latifondo. I gestori meno abili di una proprietà non ci metteranno molto a venderla, facendola così fondere
con quella di chi ci sa fare e che offre loro una certa somma. Questa è una ragione per cui nessuna “riforma” agraria basata sulla recintazione abbia
mai avuto successo.
Il latifondo deprime i salari tanto di chi vi lavora dentro quanto fuori, spingendo il margine di coltivazione sempre più lontano dai centri di
consumo[4]. Ecco una seconda ragione del fallimento delle cosiddette “riforme” agrarie: il costo delle distanze non compensa il beneficio della
“proprietà”.
Per massimizzare la rendita, il “sovrano” latifondista deve poter contare su un pool di disoccupati, così da poter mantenere bassi i salari, e su
tariffe doganali che lo proteggono dalla concorrenza, così da poter mantenere alti i prezzi di vendita. In genere ottiene i due scopi manipolando le
politiche governative. Ecco perché la disoccupazione non sparisce.
Man mano che la società si va dividendo in un gruppo poderoso (ma necessariamente piccolo) di terratenenti e un gruppo spodestato, ma in
continuo aumento, di nullatenenti, è la lotta di classe, che non è affatto invenzione marxista: basta leggere Tito Livio per chiunque la voglia capire.
Lo spargimento di sangue, sia di guerra intestina sia estera provocata da chi vuole proteggere i privilegi ingiusti a tutti i costi, è inevitabile.

L’imposizione fiscale del terratenente, cioè l’aumento del canone degli affittuari e la diminuzione dei salari dei suoi dipendenti, gli permette anche di
monetizzare come rendita tutti i vantaggi dei servizi sociali. Ad ogni miglioramento di infrastrutture, di amenità pubbliche, di tecnologia, ecc., capace di
indurre gli agricoltori a restarsene dove sono invece di migrare, il terratenente o aumenta il canone di affitto o deprime i salari dei dipendenti, o
entrambe le cose quando la proprietà è abbastanza grande da permetterlo.
La storia della questione fondiaria è lunga. I patrizi e i plebei di Roma lottavano proprio per questo. Ad ogni minaccia di rivolta, i patrizi facevano in modo
di sviare l’attenzione della gente verso un’invasione nemica, frequentemente provocandola.
Nella storia ecclesiastica la stessa questione incombe massiccia, dalla donazione di Pepino di Heristal (756)[5] alla scomparsa degli Stati Pontifici
(1870).[6]
La questione fondiaria è alla base della tensione mai risolta tra sovrano[7], nobiltà e plebe, nonché di fenomeni come la “sovrappopolazione”, la
criminalità organizzata e la guerra come valvola di scarico della lotta di classe. La cosiddetta “sovrappopolazione” è effetto diretto, a volte
drammaticamente istantaneo, dell’espulsione dei piccoli usufruttuarî terrieri a vantaggio dei grandi terratenenti. Chi è al tanto della questione vede la
confisca dei monasteri inglesi da parte di Enrico VIII Tudor sotto un’altra luce. Il regime di proprietà monastica, benché si accollasse i servizi sociali
(sanità, educazione, albergheria ecc.), non era naturale: era un latifondo benevolo. Si trasformò in latifondo malevolo in soli tre anni (1546-49). I poveri,
prima accuditi da una armata di 10.000 monaci, vennero completamente disattesi dai nuovi proprietari, che ancora oggi difendono i loro privilegi ingiusti
con il cane da guardia chiamato Camera dei Lords che ringhia verso la House of Commons. I liberi yeomen di un tempo divennero, tra il 16o e il 19o
secolo, straccioni affamati che si affollavano nelle città durante la rivoluzione industriale[8]. Lo stesso occorreva con l’emigrazione degli extremeños che
andavano a ripetere l’usurpazione fondiaria in America dopo averla subita in Spagna; con i ragazzi che Don Bosco raccoglieva per le strade di Torino, e
con la massiccia emigrazione dalle Due Sicilie a cavallo tra il 19o e 20o secolo, a causa della politica fondiaria sabauda.
Già, perché cosa fare con l’improvviso straripare di proletari, proletarie e proletarietti di ambo i sessi? Non c’è che l’imbarazzo della scelta: dal “Modest
Proposal” di Jonathan Swift (1667-1745), cioè servire i loro neonati come manicaretto prelibato alle tavole dei ricchi; a quella di Malthus (1766-1834) (che
ancora viene presa sul serio), di convincerli ad avere meno figli; al Terrore, il cui vero scopo fu una drastica riduzione della popolazione francese[9];
all’emigrazione irlandese, volontaria verso l’America o forzata verso l’Australia (anche per il furto di un fazzoletto), alla coscrizione di centinaia di migliaia
di disoccupati come carne da cannone, e alla facile incarcerazione (gli U.S.A. ne ospitano 3 milioni nelle patrie galere, circa l’1% della popolazione). E via
dicendo.
Se lo Stato moderno è impotente quindi a sottomettere terratenenti e banchieri, è perchè i cittadini, tenuti all’oscuro di storia e di altro, non lo
sostengono. Si limitano a votare di tanto in tanto, ma è ormai ovvio che dopo ogni elezione le politiche non cambiano, e nel frattempo divertimenti senza
fine li tengono “occupati” a non pensare.
Rispondiamo ora alle domande che nessuno fa.

La Terra Franca

L’imponibile naturale non è il valore aggiunto dallo sforzo di chi lavora: è il valore sottratto alle risorse naturali del Paese, sulle quali uno Stato dovrebbe
esercitare una sovranità reale. Codeste risorse sono in primis il suolo, e in secundis il sottosuolo, lo spazio aereo, lo spettro elettromagnetico, e
l’inquinamento del medio ambiente. Tassandole, lo Stato lascerebbe il 100% del reddito da lavoro nelle tasche di chi lo produce, e incamererebbe il 100%
della rendita da suolo spoglio, prodotta dalla comunità e ritornante ad essa in concetto di servizi di pubblica amministrazione.
Per quello che riguarda il sottosuolo, lo Stato agirebbe da acquirente esclusivo, contrattando il prezzo della risorsa e rivendendola sul mercato tanto
interno quanto esterno in concorrenza con altri stati che godessero delle stesse risorse.
Il canone, si noti, sarebbe modesto, dato che non coprirebbe che le spese di pubblica amministrazione; come finanziare le infrastrutture lo vedremo fra
poco.
È vero che la storia non è fatta di “se” e di “ma”, ma come esperimento mentale si ritorni agli eventi storici appena accennati e ci si chieda se uno solo di

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essi si sarebbe svolto come si svolse ad essere esistito un regime di Terra Franca, come qui proposto sulla scia di Henry George (1839-1897) in Progress
and Poverty (1879) e Silvio Gesell (1862-1930) in Natürliche Wirtschaftsordnung (1906)[10].
Ma sarebbe sufficiente l’istituto della Terra Franca perchè il contribuente pagasse anche quelle poche tasse a cuor leggero, come ventilato su? Non senza
risolvere la Questione Monetaria, come si vedrà nella seconda parte di questo saggio.

La Questione Monetaria, il lavoro e la tassazione

Paradosso

Il problema più paradossale che assilla il mondo, “sviluppato” o no, da 200 anni a questa parte, è la disoccupazione. L’Italia in particolare ha un perenne
ed inestinguibile numero di disoccupati,[11] nonostante non manchi il lavoro da fare.
Cosa manca?
Si rileggano i paragrafi iniziali: manca denaro per finanziare il lavoro.
Ora si ripeta ad nauseam: “C’è lavoro, ci sono i materiali e c’è gente disposta a lavorare; manca il denaro” fino ad interiorizzarne l’assurdità.
La disoccupazione ce la stiamo trascinando dietro per lo meno dalla Rivoluzione Francese, ed è evidente che si sia riacutizzata con l’avvento dell’euro.
Tutti notano che questa moneta non ha mantenuto una sola delle promesse facenti bella mostra di sé nel Trattato di Maastricht, ma nessuno sembra
capire.
Bisogna capire in primis perchè l’euro non funziona e non funzionerà mai, e solo in secundis quale èla soluzione naturale del problema.

2600 anni di dipendenza monetaria: la triplice superstizione di Creso

Dobbiamo alla decisione (solo in apparenza innocua) di questo re di Lidia (m. 546 a.C.) di imprimere il sigillo reale su un pezzo di metallo prezioso per
garantirne il peso, tre superstizioni o incantesimi che dir si vogliano, che in 26 secoli di storia oscillano dal grottesco al tragico quando non all’assurdo,
come i due millenni e mezzo che ci sono voluti per cominciare ad accorgersene.
La prima è una contraddizione pratica: spendere, o risparmiare, sono un aut aut radicale senza mezzi termini.
Una seconda superstizione, che solo oggi si comincia a sfidare, è che l’informazione detta ‘moneta’ debba essere monopolio di Stato.
La terza, data per scontata, è che ad un paese debba corrispondere un solo tipo di moneta.

Una contraddizione dopo l’altra

Una contraddizione pratica non è affatto innocua. Non può fare altro che generare illusioni e perpetuare falsità, quando non far scorrere fiumi di sangue,
come purtroppo occorre da sempre.
Cominciamo con la credenza, diffusissima, che ‘essere ricco’ equivale a ‘avere molto denaro’. Quando però con molto denaro non c’è niente da comprare,
come è avvenuto storicamente non poche volte, la ricchezza torna al suo alveo naturale: il capitale umano con le sue conoscenze e abilità, tanto manuali
quanto intellettuali. Ecco perché dicevano gli antichi greci che “il saggio porta la sua ricchezza dentro di sé”.
Orbene, coniando un metallo prezioso, l’attenzione dei possessori di moneta viene poderosamente attratta dal materiale, non dalla stampigliatura.
Succede tutto il contrario con coloro che ne hanno bisogno per lavorare, ai quali importa l’informazione stampigliata, e niente affatto il metallo. I primi
tendono a tesoreggiarla, i secondi a spenderla.
La cartamoneta mantiene la superstizione. Si paragoni un biglietto nuovo con uno sudicio e puzzolente dello stesso taglio. Quale dei due viene speso per
primo? È un’altra maniera di dire che il biglietto lercio favorisce l’economia reale in proporzione diretta al numero di volte che cambia di mano rispetto al
biglietto nuovo. Questo punto, cioè che un tipo di moneta è tanto più efficace quanto meno valore intrinseco possiede, è di importanza capitale, anche se
le facoltà di economia si ostinano nel farne caso omesso, come fanno caso omesso di Proudhon (1809-1865) e di Gesell (1862-1930), gli scopritori di
codesto principio più di un secolo fa.
La stessa contraddizione falsifica le decisioni politiche prese all’oscuro dello stesso principio. Ogni “esperto” in questioni monetarie fa di tutto perché il
paese mantenga la stessa stabilità tanto nei prezzi e salari interni quanto nelle transazioni esterne. Però la moneta, con la sua contraddizione pratica
mezzo di scambio/portavalori non si fa domare da nessuno, “esperto” o no.
Favorendo la prima funzione, la quantità di circolante deve seguire la produzione interna di beni e servizi. Perchè la stessa moneta mantenga un tasso di
cambio stabile con l’estero, bisogna che le economie di quei paesi con i quali si mantengono relazioni commerciali abbiano parametri identici.
Chiaramente ciò non può mai succedere. Per cui vige, da sempre, una contraddizione pratica tra una “moneta forte” (come l’euro), progettata con il
secondo fine, e la stabilità dei prezzi e dei salari all’interno. La stabilità interna richiede una moneta abbondante e che circoli rapidamente.
La contraddizione è di vecchia data. Pochi sanno che Mussolini cadde in questa stessa trappola nel 1926.
Alla presa di potere, nel 1922, il Duce aveva ereditato una lira “forte”, il cui tasso di scambio con la sterlina britannica (sola ‘riserva’ a quei tempi) era di
90:1. La sua politica di sviluppo aveva fatto circolare la lira, creando prosperità e abbondanza ma spingendo il tasso di scambio tra lira e sterlina a 154:1
in quattro anni.
E qui bisognava salvare “il prestigio internazionale” dell’Italia.[12] E fu “Quota Novanta”. La deflazione salvò l’astrazione “lira”, condannando però al
fallimento migliaia di piccole imprese, asfissiate dalla mancanza di ossigeno che per loro è il contante.
Lo stesso avveniva in Spagna, e allo stesso tempo. L’economista catalano Manuel Reventós i Bordoy (1888-1942)

era profondamente costernato dalla situazione monetaria angustiosa che infuriava in Spagna nel 1930, nel fare attenzione sulla difficoltà che comportava
il cambio della peseta con le divise straniere, in termini che non distruggessero il commercio sia all’interno che all’estero.

Il neretto è mio. Costernato, ma senza capire, Reventós, imbattendosi nella stessa contraddizione in cui si era imbattuto Mussolini quattro anni prima,
menava colpi alla cieca incolpando i funzionari statali della Monarchia di “insufficiente autorità”, di “mancanza di fiducia” eccetera. E non osservava che i
record monetari del secolo anteriore mostravano risultati identici.[13]
Non era questione né di incapacità né di cattiva volontà. Qualunque cosa avessero fatto, la stessa, insolubile contraddizione avrebbe sempre ribaltato le
aspettative più ottimistiche. Anche costoro menavano colpi alla cieca, quando non per disperazione.[14]
Non è quindi affatto sorprendente che l’euro, progettato per valicare frontiere, abbia causato disastri nell’economia interna di tutti i paesi che lo hanno
adottato. Aspettarsi stabilità monetaria in paesi tanto diversi come la Germania e la Grecia, per non parlare dell’Italia, è una chimera che non si è
realizzata in nove anni e non si realizzerà mai. Ecco perchè la disoccupazione infuria dovunque.
Ebbene, la scarsezza di contante non è legge di natura, ma imposizione politica. Il contante si emette non in funzione dei bisogni dell’economia reale, ma
in funzione delle “riserve” della Banca Centrale.

Come funziona l’inganno: Banca Centrale, Governo e Popolo

Per quasi 3000 anni il popolo è andato sopportando, muto e impotente, le vessazioni di faraoni, imperatori, re e principi incantati da Creso.
Costoro coniavano moneta quando trovavano metalli preziosi e facevano morire di inanizione l’economia quando non ne trovavano più.
La moneta la si coniava come mezzo di scambio, però in tutta la storia nessun governo è mai riuscito ad impedire che risparmiatori e usurai (per
il nostro discorso sono lo stesso) la sottraessero dalla circolazione per interessi particolari. La scarsità di moneta, ancora oggi infuriante, è causa
principale, anche se non unica, del disordine economico che affligge tutti i paesi ancora sotto l’incantesimo di Creso.
Da Waterloo (1815) le banconote vengono emesse non dai governi ma dalle banche centrali a volte maldenominate “nazionali”. Le banche commerciali
emettono credito. L’euro l’ha fatta finita con la sovranità monetaria dei paesi europei che lo hanno adottato.
Pochi sanno –e forse si scandalizzeranno a leggere- che l’istituto della Banca Centrale è di conio marxista. Fu proprio “il capoccia dei confusionari” come lo
chiamava Henry George,[15] a proporre, nel Manifesto Comunista del 1848,

La centralizzazione del credito nelle mani dello Stato per mezzo della creazione di una Banca centrale con monopolio esclusivo.

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E così la liquidità, il cui uso interessa la stragrande maggioranza dei cittadini, viene emesso non secondo i loro interessi, ma secondo quelli di possessori,
esportatori e importatori.
Una scarsezza permanente e asfissiante di contante richiede che lo sostituisca il credito. Ma questo lo concedono le banche, e non ai piccoli operatori
economici ma ai grossi conglomerati, internazionali o domestici.
Ne segue la bolscevizzazione dell’economia: l’artigiano, il piccolo commerciante, l’agricoltore a conduzione diretta, prima languiscono e poi spariscono,
per riapparire nelle periferie di città in cerca proprio di contante. Ed ecco il perché delle megalopoli mostruose in tutto il mondo, invariabilmente
circondate da baraccopoli formicolanti di umanità.
Quando poi il credito va a finire nella speculazione, come accade dal 1990, si gonfia una bolla di sapone finanziaria di proporzioni gigantesche[16],
inevitabilmente destinata a scoppiare come abbiamo appena visto. E la recessione attanaglia il mondo.

La Grande Illusione

Molti continuano a credere che Banca Centrale e Governo facciano la parte di placidi buoi che tirano il carro, e che il popolo la faccia da cocchiere
che vigila perchè i due lo tirino nella stessa direzione.
La realtà è che è il popolo a farla da bue, la Banca Centrale da cocchiere, e il Governo da frusta.
Ciò si deve al fatto che nessuna politica monetaria è mai stata capace di far corrispondere la quantità di contante + credito ai bisogni
dell’economia di produzione e di scambio. Il denaro entra ed esce dal mercato secondo i ghiribizzi di risparmiatori, speculatori, usurai, lavandai di moneta
sporca, e malfattori di ogni risma, però non ce ne è mai, ripeto mai, abbastanza per chi ne ha bisogno per lavorare. Chi paga alla fin dei conti è sempre il
popolo.
Deve proprio essere sempre così? E che l’Italia debba trascinarsi dietro tutti quei problemi senza risolverne uno? No. Esistono alternative. La scarsezza di
circolante, che consolida al potere coloro che ne controllano il monopolio, è innecessaria.

L’usura

Questa pratica secolare non è, come comunemente si crede ‘un eccessivo tasso di interesse’[17]. L’usura è il tributo che chi ha bisogno di denaro come
mezzo di scambio deve pagare a chi lo sottrae dalla circolazione come mezzo di risparmio.
L’usura nasce agli scambi, non ai prestiti. Lo si verifichi in un qualsiasi mercato ortofrutticolo verso mezzogiorno. Le ortaglie vengono cedute a prezzi
stracciati, pena il vederle appassire prima di sera. Lo stesso vale per i “saldi” di fine stagione: da un giorno all’altro i negozianti riducono i prezzi fino ad
un 50%, sotto pena di fallimento per non poter pagare l’affitto al terratenente e gli interessi all’usuraio.
L’usura, pertanto, non è che forma di potere, che immancabilmente spacca una nazione in due tra ricchi e poveri, cioè tra chi ha accesso al credito e il
resto. Essa è stata lo strumento di privilegi ingiusti, crisi economiche e politiche, guerre, rivoluzioni, lotta di classe, povertà nel bel mezzo
dell’abbondanza, e della questione sociale. L’usura soggiace praticamente ad ogni problema economico e politico.
La ragione di base risiede nella prima superstizione di Creso: uno stesso pezzo di carta che rappresenta domanda e offerta al medesimo tempo, fa sì che
la domanda, sostenuta da denaro indeperibile, conceda al suo possessore un vantaggio indebito sull’offerta, sostenuta.. dai danni del tempo, cambi di
moda, tarli, umidità, funghi, ratti, ladri e via dicendo.
L’offerta è costretta a pagare il tributo di usura alla domanda, o abbassando i prezzi fino al livello impostole dalla domanda, o pagando un interesse
convenuto per l’uso del denaro a prestito. L’usura, quindi, non ha niente a che vedere con teorie di “fecondità”, “produttività”, “utile”, “lucro cessante”,
“denaro che lavora”, “interesse eccessivo” o “sfruttamento”. Da questa imposizione primaria, il suo potere passa a tutto ciò che scambiano domanda e
offerta, dal capitale ai minimi oggetti di consumo.
Quando la domanda non è soddisfatta dall’ammontare del tributo, come in periodi di prosperità, si ritira dal mercato, causando ristagno economico,
deflazione, disoccupazione e depressione, come avvenne nel 1932-39 e sta avvenendo adesso.

Il credito bancario

Si tende a chiamare “denaro” tanto il contante quanto gli assegni bancari, confondendoli permanentemente. È vero che ceteris paribus si comprano le
stesse cose tanto con un biglietto da 100 euro (dollari, sterline, yen, rubli o quel che sia) quanto con un assegno per lo stesso importo. Si rifletta però che
l’assegno non fa che trasferire informazioni da un conto bancario ad un altro, una sola volta. Il biglietto da 100 euro trasferisce beni e servizi per 100 euro
ogni volta che cambia di mano. Nel caso ipotetico ma non impossibile che quello stesso biglietto venga scambiato tre volte al giorno per un anno, lo
stesso pezzo di carta farebbe muovere beni e servizi per più di 100mila euro. Questo è il significato di liquidità, posseduta dal contante ma non dal
credito.
Il credito bancario nacque, e ancora esiste, per supplire alla cronica mancanza di denaro liquido. E Creso induce la gente a risparmiare proprio il mezzo di
scambio, ritirato dalla circolazione o sotto il proverbiale materasso o nel fidatissimo (prima del disastro del 2008) conto in banca.[18] L’espansione del
credito a spese del contante negli ultimi due secoli[19] è riuscita a mettere fuori combattimento i piccoli e medi operatori economici. Per cui si dà il
paradosso che ha accesso al credito chi non ne ha bisogno.

Il credito extra bancario

La cambiale, come l’assegno, trasferisce informazioni da una parte contraente all’altra. Il suo uso è esclusivamente dovuto alla scarsezza di liquido. Però
la cambiale non si estingue dopo un solo scambio come l’assegno bancario. Circola. Può essere rigirata a terzi, diverse volte fino alla scadenza o al
protesto.
La cambiale è quindi una pericolosa concorrente del sistema bancario, che continua a far di tutto per ostacolarla, screditarla, avvilirla e toglierla di mezzo.
Si è così creata un’atmosfera di paura e diffidenza verso questo utilissimo strumento di credito, capace di monetizzare ricchezza altrimenti condannata al
ristagno dalla mancanza cronica di liquidità.
L’asservimento dello Stato ai poteri usurai è facilmente misurabile dalla legislazione sulla cambiale. Uno Stato forte e indipendente la favorisce,
avallandola legalmente e incoraggiandone la circolazione. Uno Stato debole e asservito all’usura ostacola la cambiale, tassandola.
Però la cambiale nacque in tempi di bassa tecnologia. Dal 2007 è in auge, grazie all’alta tecnologia della telefonia mobile, un flusso rapidissimo di
liquidità, che sta causando un vero mal di testa alle banche. La liquidità telefonica allevia la situazione in maniera inversamente proporzionale agli ostacoli
postile da banche e da governi[20].

La riserva frazionaria

Ai guai sopra enunciati si aggiunge una frode inaugurata dalla Banca di Amsterdam esattamente 400 anni fa[21], cioè che su una scarna base di
contante, le banche emettono credito per 10-12 volte di più, chiamando l’operazione “riserva frazionaria”.
Sottraendo così ulteriore contante dall’economia reale, il credito bancario favorisce non questa ma la speculazione, che irretisce senza posa gli incantati
da Creso.
La qual frode, però, è in tono minore. Quella in tono maggiore è il modus operandi dei cosiddetti “prestiti” bancari. Quando si presta veramente alcunché,
bisogna necessariamente disfarsene. Le banche dicono di prestare denaro depositato dai loro clienti, ma in realtà si guardano bene dal farlo. Autorizzano
invece il “prestatario” ad emettere denaro sotto forma di creazione di credito, firmand un assegno per far passare l’informazione ivi scritta al conto del
ricevente. Confondendolo con un prestito, il firmatario si impegna a restituire una somma-capitale mai esistita e a pagare interesse, per il quale però la
banca non gli permette di emettere niente. L’interesse deve estrarlo o dalla ricchezza da lui stesso prodotta, (lavorando di più), o da quella prodotta da
un altro, o indebitandosi ulteriormente. Risultato: se dieci prestatari prendono in prestito (emettono capitale) per 100 ciascuno per un totale di 1000, e
devono restituire 1100 alla maturazione dell’interesse, uno di loro prima o poi andrà in bancarotta.
Ed ecco la crescita innaturale, forzata e continua di una economia da usura.
L’euro non scappa neanche ad una delle anomalie suddescritte. Le conseguenze non sono affatto incoraggianti.

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Delinquenza. I criminali sono coloro che vengono attratti non tanto dalla funzione di mezzo di scambio quanto da quella di portavalori.
C’è disoccupazione perchè costa meno non impiegare che contrarre debiti. Senza debito ed interesse, non solo vi sarebbe lavoro per tutti, ma
anche i prezzi si manterrebbero stabili. Il loro aumento senza tregua è dovuto all’implacabile aumento esponenziale dell’interesse composto, mal
chiamato “inflazione”. Per di più, una riserva di disoccupati fa il gioco di usurai e terratenenti, come già visto.
Povertà. I ricchi con il loro stile di vita ultralussuoso, i poveri nella miseria.
Ristagno economico. Non si costruiscono infrastrutture per mancanza di denaro, che oltre a pagare gli interessi su un “debito pubblico” parassita e
innecessario, fluisce nell’alveo della speculazione invece che in quello della produzione.
Corruzione. Il burocrate che sollicita la mazzetta, o il commerciante che usa misure truccate, lo fanno per impadronirsi di contante-portavalori.
Servilismo. Se il “governo” italiano governasse invece di governicchiare, potrebbe liberarsi dalle imposizioni della finanza internazionale
riaffermando la sovranità monetaria, che come vedremo consiste nel dare priorità al contante mezzo di scambio e zero al credito.

Ma lo schieramento delle difficoltà è imponente. Per sconfiggerlo è necessario spezzare il triplice incantesimo di Creso una volta per tutte. Vediamo come.

La Moneta Franca

Il Concetto

Il genio che mise a nudo la contraddizione pratica della forma di moneta convenzionale e ne propose il rimedio fu Silvio Gesell (1862-1930),
commerciante tedesco trasferitosi in Argentina negli anni 1880-90.
Costui propose una doppia separazione: prima, quella della moneta dai metalli preziosi; seconda, quella dell’unità monetaria dall’oggetto che la
rappresenta.
La prima separazione ebbe luogo in due tappe: il 21 settembre 1931 il Premier britannico MacDonald, con le lagrime agli occhi, annunziava che il
Regno Unito rinunciava al sistema aureo per sempre. Avevano forzato il passo prima la Grande Guerra, e poi l’ammutinamento della flotta Atlantica ad
Invergordon. Il sistema aureo cadde dappertutto eccetto che negli Stati Uniti.
A spezzare l’incantesimo fu De Gaulle, quando pretese oro per la pletora di pezzi da 100 dollari rifilati dagli USA alla Francia come “moneta di
riserva”.[22]
Il 15 agosto 1971 il Presidente Nixon buttava la spugna. Non c’era oro sufficiente, e il sistema aureo andò a finire nel dimenticatoio della
storia.[23]
Gesell fu discepolo di Proudhon (1809-65), il primo ad accorgersi che la moneta, lungi dall’aprire le porte del mercato, fa da “chiavistello che le
sbarra”. Proudhon aveva visto il problema, sbagliandone però la soluzione. Con domanda e offerta in perenne squilibrio, aveva proposto di far salire
l’offerta al livello della domanda, aumentando la produzione di capitale fino alla sparizione dell’interesse.
Gesell mise allo scoperto il punto debole dell’argomentazione di Proudhon: l’offerta soffre i capricci del tempo; la domanda, spalleggiata dalla
moneta, no. È possibile però farglieli soffrire, facendo così scendere la domanda a livello dell’offerta.
Come? Emettendo una moneta deperibile, cioè con data di emissione e di scadenza, da mantenere in circolazione con un’imposta sul valore facciale dello
0,1% per settimana, o 5,2% annuale.[24] La chiamò Freigeld (moneta franca) cioè affrancata da usura, e pertanto da debito, da interesse, da inflazione
e da deflazione.
È la stessa idea del biglietto sporco e puzzolente di prima.
Esaminiamo il successo, sebbene di breve durata, della Moneta Franca.

La Prova del Fuoco

Il primo successo ebbe luogo a Schwanenkirchen, in Germania, nel 1930. Herr Hebecker, proprietario di una miniera di carbone, la manteneva aperta in
piena depressione economica emettendo Wära come mezzo di scambio. I minatori ricevevano il 90% della paga in Wära, e chi accettava Wära poteva
redimerli in carbone. Ogni buono Wära subiva la svalutazione[25] programmata geselliana per favorirne la circolazione rapida. La cosa funzionò così
bene da attrarre l’attenzione del Cancelliere Heinrich Brüning (1885-1970). Costui non perdette tempo a cassare Schwanenkirchen e a passare
decreti-legge di emergenza contro l’emissione di qualsiasi moneta non ufficiale.[26]
Il protagonista della seconda storia fu Michael Unterguggenberger (1884-1936), borgomastro di Wörgl, cittadina del Tirolo austriaco.
Dopo un paziente lavoro di avvicinamento e di convinzione presso i piccoli impresari, negozianti e professionisti di Wörgl, il 5 luglio 1932 proclamava:

La causa principale del barcollo dell’economia è la bassa velocità di circolazione della moneta. Questa progressivamente sparisce dalle mani dei lavoratori
come mezzo di scambio. Filtra invece nell’alveo dove scorre l’interesse, finendo con l’accumularsi nelle mani di pochi, che invece di riversarla sul mercato
per acquistarvi beni e servizi, la trattengono per specularvi su.

Il municipio emise un totale di 32.000 Bestätigter Arbeitswerte (Certificati di Lavoro) che scadevano dopo un mese dall’emissione a meno di non
rinnovarne la validità con un bollino del valore dell’1% sul facciale, acquistabile in municipio. Questo, da parte sua, accettava i certificati come pagamento
di imposte.
In pratica, la circolazione raggiunse una media di 5.300 scellini, cioè un irrisorio due scellini o meno a persona, che però procuravano lavoro e prosperità
alla cittadina di Wörgl più di quanto lo facessero i 150 scellini/persona della Banca Nazionale. Come aveva predetto Gesell, la velocità di circolazione era
l’importante: scambiandosi circa 500 volte in 14 mesi, contro le 6-8 volte della moneta ufficiale, quei 5.300 scellini mossero beni e servizi per ben due
milioni e mezzo. Il municipio, con le casse continuamente piene da un lato e vuote dall’altro, costruì un ponte sul fiume Inn, asfaltò sette strade, rinnovò
le fognature e le installazioni elettriche, e costruì perfino un trampolino di salto con sci. Per avere un’idea del potere di acquisto, lo stipendio del
borgomastro era di 1.800 scellini mensili.
Quei 5.000 scellini furono il sangue dell’economia locale, agendo proprio come i cinque litri del corpo umano, che in quantità di 50 grammi ad ogni sistole
ne fa circolare ben cinque tonnellate nelle 24 ore.
Ai primi del 1933 circa 300.000 cittadini della provincia di Kufstein erano lì lì per estenderne l’esperimento.
Però gli “scienziati” alla Banca Nazionale erano intenti a “provare” che l’esperimento doveva essere verboten. Eccone le ragioni “scientifiche”:

Benché l’emissione di certificati di lavoro sembri avallata al 100% da una quantità equivalente di moneta ufficiale austriaca, le autorità sovrintendenti,
cominciando dall’area amministrativa di Kufstein fino all’ufficio governativo del Tirolo, non devono permettersi di sentirsi soddisfatte. La cittadina di Wörgl
ha ecceduto i suoi poteri, dato che il diritto di batter moneta in Austria è privilegio esclusivo della Banca Nazionale, come per art. 122 del suo statuto.
Wörgl ha violato quella legge.[27]

Wörgl appellò. La Corte Suprema cassò l’appello e mise fine all’esperimento.


Tornarono la disoccupazione, la miseria e la fame. Impossibile affermare –o negare- che il secondo conflitto mondiale si sarebbe evitato dando retta a
Gesell. È un fatto che furono i voti dei disoccupati a portare Hitler al potere.
La Moneta Franca è quindi puro mezzo di scambio senza funzione alcuna di portavalori.
L’ultimo passo sarebbe quello di istituzionalizzarla, sfidando il potere finanziario.

Matrimonio Euro-Lira Franca

La zona Euro è una Unione Monetaria, le cui due intenzioni fondazionali, espresse nel Trattato di Maastricht, sono:

Mantenere i prezzi stabili;


Allocare efficientemente le risorse economiche per mezzo del libero commercio.

È più che evidente, dopo nove anni, che non si è realizzato nessuno dei due pii desideri, e che le cose vanno di male in peggio. Sappiamo perché: non

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esiste un solo esempio storico di successo congiunto delle due –contraddittorie- intenzioni in regime di moneta portavalori. Per di più, con il libero
commercio non si importano solo le derrate del paese esportatore; si importa anche la sua legislazione sul lavoro. Ecco perchè i salari di tutti i paesi che
liberamente importano manufatturati cinesi si stanno abbassando al livello dei lavoratori cinesi. Ecco anche il perchè delle rilocazioni di impianti, del
fallimento di piccole industrie non più protette da tariffe doganali, e della crescente frustrazione dei produttori in paesi abituati ad alti livelli salariali.
Prima dell’euro vi era stata l’Unione Monetaria Latina, nei 50 anni 1865-1915.
Né questa né altre lungo il 20° secolo hanno funzionato. I soliti “esperti” continuano a biasimare le politiche fiscali, la mancanza di autorità centrali, il
signoraggio, il non aver creato una unione politica prima di una monetaria, e simili. Uno di costoro perfino raccomanda:
La flessibilità dei salari e dei prezzi è condizione sine qua non. L’assenza di questa è una minaccia all’esistenza di qualsiasi unione.[28]

Dice che una unione monetaria deve necessariamente danneggiare la sicurezza economica di chi lavora.
Le ragioni del fallimento di codeste unioni, nate con le migliori delle intenzioni, vanno cercate nel non aver percepito che bisogna spezzare tutti e tre gli
incantesimi una volta per tutte, non uno alla volta.
Che si tratti di incantesimi ce lo insegna l’Estremo Oriente, in una lezione imperitura di pratica monetaria.
Il sapek di rame che per 40 secoli lubrificò l’economia del Celeste Impero fino al 1911, godeva di accettazione dalla Malesia al Giappone. Veniva coniato
in grandi quantità, che sebbene sostenessero il pieno impiego, non permettevano di tesoreggiare. La Cina non monetizzò mai l’oro, con il risultato
(taciuto dai soliti “esperti”) che rimase immune dalla depressione degli Anni Trenta.
Nelle dogane giapponesi, ai primi del 20o secolo, si pagava con sacchetti pieni di miscugli di monete, senza aprirli per verificarne il contenuto. Era una
tacita ammissione della irrilevanza del “valore intrinseco”. Nel 1900, otto libbre (3,6kg) di sapek valevano un dollaro.
Per di più, una gran quantità e tipi di monete estere erano andate apparendo nei porti cinesi dalla metà del 16° secolo; nell’immenso entroterra il sapek
continuava a circolare incontrastato.
Lo stresso avviene oggi in Panama, dove il domestico balboa circola insieme al dollaro USA, e in Svizzera, nel Regno Unito, ecc. Questi paesi sono de
facto in regime monetario doppio. L’euro viene accettato nei paesi europei ancora fuori dalla Zona: chi vende sa che se non li accetta non vende.
L’accettazione è la sola cosa che importi.
L’Italia (come qualsiasi altro paese) ha i mezzi per rompere i tre incantesimi di Creso. Come? Con la Lira Franca, idealmente nazionale, ma anche
regionale o municipale, non invece dell’euro, ma insieme ad esso.
Si potrebbe obiettare che il Trattato di Maastricht obbliga l’Italia ad aderire all’euro “come sola moneta a corso legale”.
E sia. L’euro è oggi, e sarà domani, “sola moneta a corso legale”. Il che vuol dire che commette reato chi rifiuta euro contanti in pagamento di beni e
servizi.
Ma non commetterebbe reato chi rifiutasse di accettare la Lira Franca, emessa in Italia e per l’Italia per colmare la lacuna da sempre prodotta dai
succhiatori di quel misterioso ingrediente detto “portavalori”.
Il popolo garantirebbe la sua circolazione semplicemente accettando Lira Franca, la quale assesterebbe il colpo di grazia all’usura una volta per tutte.

Ultimo Contrattacco

A che cosa agganciarla? A qualsiasi unità conveniente (euro, dollaro, lira di una certa data ecc.).
Che quantità emetterne? Data l’alta velocità di circolazione, basterebbero 2 lire per abitante, diciamo 120 milioni. Circolando 500 volte in un anno, e non
essendo tesoreggiabile, questa somma farebbe muovere beni e servizi per ben 60 miliardi. E senza indebitare nessuno[29]. Chi non volesse accettarla
sarebbe liberrimo di farlo.
La Lira Franca, libera da debito e da interesse, non contemplerebbe “fondi”, “riduzione di costi”, “analisi costi-benefici”, “risparmi di tempo”, e altri termini
usurai ai quali siamo tanto abituati da non riflettere quanto siano assurdi. Il costo di un’opera verrebbe misurato in ore di lavoro, non più in unità
monetarie. Qualsiasi pagamento avverrebbe in contanti e alla consegna, senza scadenze di “fine mese”. I risparmi in Lira Franca si depositerebbero in
istituzioni pubbliche o private, che però sarebbero costrette a riimmetterli rapidamente nel circolo sanguigno dell’economia reale. Non si potrebbe né
specularvi su, né arricchirsi, né contraffarla, né derubarla, né, insomma, vivere da parassita di chi lavora.
Questo è il punto algido. Due poderosi ostacoli si opporrebbero alla Lira Franca con tutti i mezzi a loro disposizione.
Il primo, esterno, sarebbe la Banca Centrale Europea, che per fortuna si trova a più di 1000 km di distanza, e gli italiani sono 60 milioni, non gli sparuti
4000 abitanti di Wörgl del 1932.
Quello interno lo costituirebbe la pletora di nullafacenti con “posti di lavoro” lautamente retribuiti.

Dal basso in alto: Lira Franca Privata

Esistono esempi di moneta franca privata come i buoni Frequent Flyer, emessi dalle linee aeree, che permettono di acquistare non solo biglietti per voli
ma anche giornali, riviste e alimenti negli aeroporti o in volo. Codesti buoni scadono proprio come la Moneta Franca, però non mensilmente ma tutto in
una volta.
Il che vuol dire che qualunque entità che produce beni e servizi che godono di una certa domanda, come Herr Hebecker di Schwanenkirchen 80 anni fa, è
in grado di emettere i suoi certificati franchi con i quali stimolare l’economia locale:[30]Municipii, Regioni, compagnie di trasporto, di elettricità, di
telefonia mobile, ecc.
Basterebbe quindi che lo Stato accettasse Lire Franche in pagamento di tasse e imposte, lasciando che le entità intermedie operassero senza ostacoli
burocratici.

Dall’alto in basso: Lira Franca Pubblica

Nel caso di Lira Franca emessa dallo Stato:

La Lira Franca farebbe da livellatore, colmando la lacuna da sempre dovuta allo scarseggiare di mezzo di scambio con funzione parassitaria di
portavalori.
L’istituto emittente goderebbe di un’unica funzione: regolare i prezzi emettendo Lira Franca quando questi cadono, o ritirandola quando
aumentano.
La Lira Franca garantirebbe un potere d’acquisto stabile nel tempo, ad interesse 0% nelle tasche altrui, a -6% nelle proprie.
Dato il carattere perituro e l’alta velocità di circolazione, non se ne troverebbero mai grandi somme. I falsari non avrebbero alcun vantaggio, e
quindi interesse, a contraffarla e spacciarla. E non favorirebbe neanche truffatori, grassatori e malfattori di ogni risma. Costoro o continuerebbero
con l’euro, o si renderebbero conto che alla fin dei conti lavorando guadagnerebbero di più che rubando.
La Lira Franca assorbirebbe il 100% dei disoccupati. Gli extracomunitari dovrebbero continuare a cercarsi chi li paghi in euro, dato che mandare a
casa moneta deperibile e non convertibile non servirebbe a nulla.
Le dogane diverrebbero ridondanti. Il commercio diverrebbe davvero libero.
Una moneta tesoreggiabile favorisce la concorrenza e l’individualismo più sfrenati. La non tesoreggiabile Lira Franca favorirebbe necessariamente
la solidarietà, la confidenza, la generosità, e la consapevolezza che “è meglio dare che ricevere”.
Non esisterebbe più l’aberrazione di considerare il lavoro come “costo di produzione”. Qualsiasi abilità, da parte di chiunque, italiano o no, verrebbe
offerta a chi la pagasse immediatamente in contanti di Lira Franca.

Il Lavoro

La scarsezza di manodopera forzerebbe una drastica revisione di politiche anti-famiglia, dal controllo delle nascite all’aborto, ecc., che piagano l’Italia.
Con la Lira Franca si potrebbe –perchè no?- pagare uno stipendio alle madri con figli dai 0 ai 6 anni, alla pari con gli stipendi che oggi si elargiscono loro
per lavorare fuori di casa. Esse avrebbero la scelta, e quindi la libertà, se lavorare a casa o fuori.
E si potrebbe anche –perchè no?- pagare gli studenti per lavori ben fatti invece di costringerli al lavoro coatto in quelle prigioni a tempo parziale

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fraudolentemente dette “scuole”, così abituandoli all’idea che il lavoro produce reddito.

Il Parassitismo

Una istruzione corrotta ha instillato nei più una mentalità dipendente, distruggendo così quello spirito di iniziativa che un tempo contraddistingueva gli
Italiani.
Per cui oggi si cerca non lavoro, ma “il posto” che garantisca uno stipendio fisso a fine mese, che si sia lavorato o no.
La Lira Franca assesterebbe un colpo, se non mortale, per lo meno gravissimo a codesta mentalità.
Chi insistesse a farsi pagare onorari superiori alla media potrebbe sì farlo, ma senza poterli tesoreggiare. Gli stipendi pubblici non eccederebbero quelli
privati. Guadagnerebbe di più solo chi lavorasse di più. Non sarebbe più possibile ostacolare chi riesce nella vita semplicemente perchè ha più voglia di
lavorare.

Precariato e povertà involontaria

In regime di qualsiasi moneta portavalori fare il precario è poco meno che una disgrazia. In regime di Lira Franca, il lavoro a tempo parziale diverrebbe
la norma; ma invece di essere la gente ad inseguire “posti di lavoro” inesistenti, sarebbero i lavori (non i posti), numerosi e ben retribuiti, ad inseguire chi
li volesse espletare.
Le conseguenze sarebbero desiderabilissime, impensabili in regime di euro. Prima, la libertà personale. Perché mendicare giorni di vacanza da un “datore
di lavoro”? Espletato un contratto, uno si prenderebbe qualsiasi vacanza prima di compromettersi con un altro.
Seconda, la qualità delle prestazioni. Non sarebbe più possibile nascondersi dietro l’anonimato di un conglomerato per fare il meno possibile con uno
stipendio garantito a fine mese. A prestazione scadente, pagamento scadente o nullo.
Terza, sarebbe possibile separare gli inabili dagli svogliati. I primi li sosterrebbe la famiglia, o nell’assenza di questa, la carità pubblica o privata; i secondi
farebbero la fame, o li si invierebbe ai lavori forzati (ma ben retribuiti).
Quarta, sparirebbero quelle istituzioni che sfruttano la disoccupazione come fonte di introiti, dai sindacati alle cooperative di consumo, uffici collocamento
ecc. Senza legislazione alcuna, La Lira Franca farebbe da Ercole che da solo lavò le stalle di re Augeas.
In regime di moneta portavalori si arriva al paradosso che la maggioranza manca delle necessità esistenziali, mentre una minoranza gode di eccessi
sconcertanti, come yacht da 3000 tonnellate. In regime di Lira Franca tutti guadagnerebbero il sufficiente per mangiare, vestirsi e coprirsi. Sarebbe certo
possibile ostentare ricchezza, ma ricchezza da lavoro, non da sfruttamento, corruzione e altre forme di disordine morale ed economico.

Infrastrutture

La Lira Franca muoverebbe le montagne, letteralmente. Alla domanda: “Quanto costerebbe questo tunnel (sbancamento, terrapieno, autostrada ecc., la
risposta sarebbe “x ore-uomo di lavoro”. Solo la scarsezza di manodopera o il non bisogno limiterebbero la costruzione di infrastrutture.
Valga lo stesso per la sistemazione di frane e di tutti i possibili problemi legati all’accidentata orografia italica.

Autonomia Nazionale

Chi paga, dà ordini. Senza violenza contro niente e nessuno la Lira Franca, moneta naturale ma ‘brutta’ secondo i canoni usurai, a poco a poco
toglierebbe potere all’euro, non nel senso di abolirlo, ma di ridurne l’uso alle transazioni intereuropee, che dopo tutto sono quelle per cui fu progettato. Le
tempeste più furiose della grande finanza internazionale non smuoverebbero minimamente le profondità dell’economia di produzione e di scambi italiana
spinta in avanti dalla sua Lira Franca.
Chi è arrivato fin qui non si fermi: cerchi di identificare quanti più problemi può, macro- o microeconomici, irrisolvibili dagli istituti di Terra Franca e di
Moneta Franca. Se dovesse identificarne anche uno, mi scriva.

Silvano Borruso
silbor@strathmore.ac.ke
1 maggio 2010

discussione su: http://www.primit.it/forum/phpBB3/viewtopic.php?p=12612

[1] Lo stesso facevano i burocrati del Celeste Impero. Gli esempi storici non mancano

[2] Le due citazioni sono del Chambers Biographical Dictionary, voce COLBERT.

[3] Non chiedo scusa a nessuno per l’uso di termini aristotelici. Sono gli unici che permettono una sana filosofia, cioè il mettere ciascuna realtà al suo
posto.

[4] Il latifondio ha sempre avuto come contropartita la schiavitù: oggi, derrate pagate € 0.06/kg alla produzione si rivendono a € 1,20/kg al mercato.

[5] O anche di Costantino per chi preferisce. E’ irrilevante chi sia stato a fare le donazioni per primo.

[6] Per più di 1000 anni ogni papa cingeva due corone: quella di capo della Chiesa e quella di re degli Stati Pontifici. Gli interessi delle due non sempre
coincidevano, per dirla con moderazione. Forse l’episodio più grottesco fu la guerra di Sua Maestà Cristianissima Filippo II di Spagna a Papa Paolo IV per
la contea di Paliano nel 1555.

[7] Questo termine vale tanto per i re e principi di una volta quanto per presidenti , chairmen e simili titoli odierni.

[8] Cobbett non fa mistero di come la cosiddetta “Riforma” fosse la scusa ideale per arraffare quelle terre.

[9] Lo afferma Nesta Webster (1876-1960) in World Revolution, Britons 1971.

[10] I due autori sono tabù nelle facoltà di economia di tutto il mondo.

[11] Tre milioni ufficialmente. Quanti siano costoro in realtà è difficile affermare.

[12] Perchè una moneta “forte” debba fare il prestigio di un paese rimane un mistero inspiegato.

[13] La relazione si trova in Pensamiento Jurídico y Económico de Manuel Reventós i Bordoy. Maria Encarnación Gómez Rojo, Cap. IV.

[14] È ancora più divertente constatare come l’autrice succitata continui a non capire neanche lei.

[15] 1839-97. Il suo Progresso e Povertà (1879) ha venduto più copie di tutte le opere di Marx messe insieme. Però l’economia ufficiale continua ad
ignorarlo. La prima (e ultima) traduzione italiana risale al 1891.

[16] A metà 2008 si era perduto il conto: si stimava il “valore” della bolla da un minimo di 615mila miliardi a un massimo di 1200mila miliardi di dollari.

[17] Questa definizione, fraudolenta, è di Jeremy Bentham (1748-1832). Per sbugiardarla basta chiedersi: a che punto comincia il supposto “eccesso”?
Dice Rizzo che “nel 2004 il premier Silvio Berlusconi è arrivato ad affermare che evadere tasse troppo alte rientrerebbe ‘nel diritto naturale’”. È come
chiedersi quando un certo numero di peli sul mento di un uomo può chiamarsi “barba”.

[18] È la mentalità di Paperon de’ Paperoni, le cui montagne di monete d’oro strangolano l’economia. Disney però questo non lo dice, se per ignoranza
non sta a me dirlo.

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[19] Le proporzioni sono oggi sui 95% di credito contro 5% di contante. La crisi finanziaria è così deleteria perchè coinvolge il credito, mentre la
questione del signoraggio, che colpisce solo il contante, è irrilevante.

[20] In Kenya questo fenomeno, chiamato M-PESA, ha aumentato il reddito di famiglie povere di un 30%.

[21] 1609-1819. Quella banca fallì per la stessa ragione per cui è scoppiata la bolla finanziaria del 2008: un eccesso di pezzi di carta rivendicanti la doppia
funzione di portavalori/mezzo di scambio. All’epoca il fenomeno fu locale; oggi è planetario.

[22] 250 anni prima aveva preteso lo stesso il Principe di Conti con John Law (1671-1729), facendone crollare la banca. Law aveva capito l’incanto di
Creso, Conti no.

[23] Le due date dovrebbero campeggiare nei libri di testo di economia come date di vera liberazione. Non lo fanno perchè poderosi interessi creati
continuano a estrarre oro dalle viscere della terra per seppellirlo nei sotterranei delle banche, così continuando a fomentare la superstizione di Creso.

[24] Questo tasso non è obbligatorio. L’importante è che non sia né tanto alto da scoraggiare l’accettazione, né tanto basso da incoraggiare la
tesaurizzazione.

[25] Si svaluta l’oggetto che rappresenta l’unità monetaria, non il suo potere d’acquisto.

[26] Il 1 marzo 2010 la città di Lipsia ha cominciato ad emettere la sua moneta regionale, sulla scia di più di 50 esperimenti locali.

[27] Wörgl non aveva violato alcuna legge. I certificati non sostituivano lo scellino ufficiale; ne riempivano la lacuna scavata dalle attività parassitarie,
dal risparmio alla speculazione.

[28] Sam Vaknin, Ph.D. in htp://samvak.tripod.com/nm032.html

[29] Sparirebbe per primo quello sconcio chiamato ‘debito pubblico’.

[30] Le economie locali soffrono non perchè non arrivi contante, ma perchè quando questo esce non ritorna più.

03/05/2010 : signet@work : sandro pascucci : www.signoraggio.com v.0.5


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