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R.I.P.

Pierre Hadot
(21 Febbraio 1922 – 24 aprile 2010)

(by wu_bi 01.05.2010)

«La philosophie n’est pas une construction de système, mais la résolution, une fois prise, de regarder naïvement en soi et
autour de soi.»

Muore Pierre Hadot, forse uno dei pochi, veri filosofi


contemporanei, e in quanto tale il più antico. Il più antico perché il più
consapevole della possibilità stessa di un'amicizia tra gli umani e il
sapere, il più vero perché il più conseguente nel pensare e praticare un
rapporto con la sophia che coinvolga non solo le cellule cerebrali, ma
l'esistenza intera nella sua pienezza di corpo e spirito. Spirito che nella
lingua francese, esprit, suona come una parola un po' meno
compromessa da idealismi, spiritualismi, tradizionalismi, fascismi e
misticismi vari più o meno d'accatto, che ne rendono l’uso in italiano
molto difficile e usurato.

Esprit, dunque, nel senso in cui Descartes usò questa parola per
designare tutte le attività soggettive degli umani - la res cogitans - dunque
sì l'intelletto, ma anche l'immaginazione, la fantasia, le passioni, le
percezioni, insomma i più vari e diversi "moti dell'anima".
Spirituali sono gli esercizi cui ci richiama Hadot per comprendere
la filosofia antica e la filosofia tout court. Nulla c'è in essi di misticismo e
ascetismo in senso cristiano. Gli esercizi spirituali di Hadot sono quanto
di più laico e contingente si possa pensare, nonostante rimandino per
assonanza ai più noti e cattolicissimi Esercizi di Loyola, fondatore dei
Gesuiti. Laici e contingenti laddove Hadot riprende la linea antica degli
stoici, degli epicurei, dei cinici, delle scuole elleniche di filosofia che
nella tarda antichità potevano vantare una tradizione millenaria di fronte
all'allora giovane e ultimo arrivato: il cristianesimo. Scuole dove le opere
e l'attività teoretica non erano volte alla costruzione di sistemi coerenti,
logici ed universali, ma finalizzate all'attività formativa, pedagogica e
psicagogica, nel difficile compito di formare gli animi, piuttosto ché
informarli. Opere, teoresi, sistemi appartenevano sì al discorso della
filosofia, ma non ne costituivano affatto lo scopo principale ne tantomeno
esaurivano la filosofia stessa; erano discorsi considerati come parte
integrante di un nuovo orientamento nel mondo - scopo delle scuole
filosofiche - orientamento che esigeva una trasformazione, una
metamorfosi del sé. Questa tradizione millenaria dovette a un certo punto
confrontarsi con la nuova religione, che nel percorso di costruzione della
sua identità vi fece ricorso appropriandosene e differenziandosene al
contempo. Confronto che la portò fino quasi alla scomparsa, riuscendo
però a mantenersi viva per secoli, seppur come rivoli sotterranei,
all'interno della cultura e civiltà cristiana.
Questi rivoli sotterranei - assieme e in fusione con altre correnti
antiche rimaste nascoste e minoritarie come la cabala, il misticismo,
l'alchimia, la gnosi, il neoplatonismo - all'incirca tra il xv e il xvii secolo
riemersero in quei fenomeni che siamo soliti chiamare umanesimo,
razionalismo, rinascita dell'antichità classica e del paganesimo antico,
neostoicismo e così via. Emersione in una società in mutazione, che si
configurò come un doppio movimento che vide da una parte l'affermarsi
di nuove esigenze spirituali ed esistenziali - unite a un timore un po'
meno reverenziale per l'autorità ecclesiastica in declino e indebolita per
lo meno nei suoi disegni universalistico-imperiali - come motore che
stimolava a scandagliare il patrimonio dell'antichità classica. A sua volta
questo emergere di nuovi contenuti, concetti, forme di vita diversi portava
linfa nuova grazie al delineare una particolare visione dell'umano e del
cosmo, per certi versi antitetica a quella della cristianità. Una visione
probabilmente più disincantata, meno ossessionata dal tema della
salvezza propria e altrui, e generalmente più consapevole della finitezza
dell'uomo, della sua piccolezza all'interno del cosmo, laddove il cristiano
si pone invece di contro alla natura, che gli appare come separata in
quanto afflitta dal peccato originale ma, a differenza di lui, non
destinataria del messaggio di redenzione del cristo. Finitezza e piccolezza
dell'umano che - in un paradosso che suona tale solo a orecchie cristiane
- sono fonte e scaturigine della possibile grandezza degli umani,
perseguibile attraverso l'ascesi nel suo senso greco di esercizio (asceta,
per il greco, era colui che si esercitava nell'attività fisica) volta alla cura
di sé, degli amici e del mondo più prossimo, nel tentativo di vivere il
presente come unico luogo e tempo dov'è possibile una vita virtuosa e
piacevole che realizzi l'unità corporeo-spirituale dell'umano, vale a dire
l'esistenza nella sua interezza.

Una forma di vita, quella pagano classica, praticamente opposta a


quella che si è venuta delineandosi all'interno del cristianesimo -
modellata quest'ultima su di un'imitatio christi formalizzata e
"reinventata". Una forma di vita che non glorifica né la sapienza in sé né
come medium per il divino, ma come esercizio per il raggiungimento di
una "buona vita", l'aristotelica eu zen. Progetto difficile e impegnativo, ma
non impossibile e, soprattutto, alla portata della finitezza dell'uomo senza
alcun bisogno dell'intervento redentivo-messianico della grazia, del
divino, di un cristo, di un messia. Progetto che mette capo a un continuo
interrogarsi e ricalibrarsi di fronte a sé, agli altri e al mondo e che secerne
da sé solamente opinioni, intese in senso alto come opposto delle Verità
assolute: idee e prassi non definitive, deboli, contingenti, disposte al
cambiamento all'interno di un franco confronto. In quanto tali queste
prassi, guidate da tali idee, diventano produttrici al contempo di un
benefico e produttivo conflitto d'idee e disattivano sul nascere la
possibilità di sterili e mortifere contrapposizioni, diatribe, faide e guerre
sante a colpi di dogmi e Verità.

Ecco perché Hadot si presenta a noi con la sua opera come il più
contemporaneo e il più antico dei filosofi.
Perché, con buona pace e a differenza di quello che prevedevano,
speravano e desideravano molti anche solo 15-20 anni addietro (tra i
quali mi includo), molto probabilmente una delle eredità più importanti
della filosofia del novecento non sarà l'ansia di iperteoria e sistemazione
concettuale del mondo - nelle sue variante costruttiviste, strutturaliste,
marxiste, decostruzioniste e quant'altro. Un'ansia destinata
probabilmente alla paralisi della prassi a seguito del suo continuo
accumulare teoria su teoria, in quanto non si capisce in virtù di quale
magia essa dovrebbe e potrebbe appunto trasformarsi in pratica
quotidiana, condivisa, universale. (En passant, tra l'altro, non si
potrebbero leggere i terribili e violenti fenomeni storici quali ad esempio
khmer rossi, rivoluzione cinese, stalinismo, terzomondismo, brigate rosse
et simili, come tentativi di superare lo steccato tra una
iperconsapevolezza teorica e l'impossibilità di riversarla nella realtà
peraltro spesso refrattaria?).
Ma, appunto, probabilmente la più importante eredità dell'ultimo
secolo filosofico potrebbe essere proprio questa proposta di Hadot di una
filosofia maestra di vita buona, di vita giusta. Di vita etica dove finalmente
l'etica viene spogliata di ogni suo riferimento moralistico e
normativo/legalitario a un "dover essere", a un "che cosa si deve" e "che
cosa non si deve" fare - con tutto il suo necessario legame col potere atto
a imporla nel governo delle vite - per tornare al suo significato letterale di
habitus, costume, attitudine, modo e forma di vita da acquisire con
l'esercizio, l'autoformazione, l'autogoverno e la tendenziale
disattivazione di ogni pratica e ansia di dominio, sugli umani e sul
mondo. Apparentemente, se si vuole, ci troviamo di fronte a una
paradossale commistione di classicità e anarchia, dove ognuno coltiva il
proprio autogoverno e la propria responsabilità del proprio occupare un
pezzo di cosmo (anche in senso propriamente fisico, e dunque di peso e
di ingombro) alla ricerca del conseguimento, su questa terra, di una cosa
semplice semplice sempre suonata sospetta, colpevole e fin peccaminosa
per i cristiani se lasciata nelle mani dei soli umani non illuminati e non
avviati verso la redenzione grazie al cristo: la felicità (l'eudaimonia, tema
eterno della filosofia!).

Perciò grazie Hadot, per averci fatto capire che la millenaria


domanda “che cos’è filosofia?” se vuole mantenere un senso, andrebbe
per lo meno aggiornata e riformulata con un “che cos’è filosofo/a?” e “che
cos’è filosofare?”. Grazie per averci spinti in direzione della
trasformazione di una domanda teorico-epistemologica in una domanda
etico-estetica nel suo senso pieno e forte di “forma di vita buona”; dove
"forma" rimanda sia all’apparire, dunque alla dimensione estetica, sia al
"modo" di apparire, dunque all’ethos come costruzione di un sé (come
autonarrazione), di una soggettività come acquisizione di un habitus; e
dove il “buona”, lungi dal richiamare valori e principi morali trascendenti
(siano essi rivelati o autoevidenti) sta per “adeguata”. Perché l’adeguarsi,
quando si fa comune, fonda la comunicazione/condivisione (coppia
concettuale che il tedesco esprime con lo stesso lemma: Mit-teilung) e
dunque si fa principio costitutivo e regolativo di comunità/società umane
giuste. Giustizia, dunque, come un “comune adeguarsi”: da una parte
messa al bando della violenza, sostituita dalla pura medialità della
lingua/comunicazione (lingua come luogo/medium della
comunicazione/condivisione, della giustizia, della terzietà e della
testimonianza) dall’altra come “adeguazione” alla “provvisorietà della
morale” e rinuncia alla sua definitività e al suo carattere assoluto. In due
parole: un nichilismo messianico.

Nota.

Sarebbe interessante vedere se regge l'ipotesi di lettura dell'opera di Hadot come


"epistemologia della non verità", il cui unico postulato si potrebbe formulare così: l’essere non
c’è, e se c’è non si può pensare, e se si può pensare non si può dire, e se si può dire non è
comunicabile. Perciò non ci rimane altra strada che aprirci a un vero discorso, laddove il vero
va inteso come un percorso dove le posizioni realmente si confrontino, modifichino,
costruiscano ed evolvano assieme. Un discorso davvero ironico, anzi autoironico, al cui interno
s'installi un dispositivo di autosospensione e disattivazione che impedisca il dominio e la
sopraffazione di una posizione sulle altre.
Tra i primi risultati di questa lettura si potrebbe arrivare alla riabilitazione completa
della figura dei sofisti come operatori di pratiche e discorsi "democratici", di contro alla figura di
Socrate (e di Platone?) il cui "sapere di non sapere" si basa invece su una forte consapevolezza
di possedere la Verità, o per lo meno su una forte consapevolezza che “una” Verità esista e
coincida con il Sommo Bene e che questi siano conoscibili e raggiungibili. Consapevolezza che
gli permette di installarsi all'interno del discorso altrui - fingendo di prenderlo per vero, ma in
realtà ignorando completamente la possibilità che il discorso altrui possa essere davvero "altro",
cioè possedere una verità "altra" - per guidarlo con la sua arte maieutica verso la Verità, in un
percorso di riduzione delle verità alla propria Verità che può assumere le forme più lievi del
plagio come le più forti della persuasione occulta, della circonvenzione, della cattiva coscienza,
della prevaricazione e del dominio.
Alcuni link:
Le Monde > http://is.gd/bN2wj
Libération > http://is.gd/bN0Gl
Nouvel Observateur > lungo articolo scritto da Hadot e apparso nel 2008, ricapitolativo dei suoi
temi > http://is.gd/bOfgOH
Philosophie magazzine > coccodrillo http://is.gd/bOfmM e lunga intervista del 2008
http://is.gd/bOfoJ
CIEPFC (Centre international d’étude de la philosophie française contemporaine) >>
registrazioni degli interventi tenuti nella "Journée Pierre Hadot et la philosophie française
contemporaine" (2007) con un intervento dello stesso Hadot > http://is.gd/bOfT2

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