Come la maggioranza dei popoli antichi, anche i Romani,
mutuando dai Greci e questi ultimi verosimilmente dagli Egizi, divinizzarono molto per tempo espressioni fisiche e naturalistiche dell’ambiente di vita caratterizzandole col profilo di geni protettori dei luoghi. Da qui il pullulare di ninfe e divinità minori specifiche (Amadriadi, Oreadi, Naiadi, Meliadi, Nereidi, Oceanine, ecc.), preposte a connotare i vari aspetti della vita e dell’ambiente in tutti le sue manifestazioni. A queste entità erano riservati culti gioiosi e semplici, espressioni di fede popolare e di dedizione spontanea. Il dio Volturno, ancor prima che i Romani ne definissero la connotazione mitica, godeva già presso le popolazioni locali di una venerazione che era suscitata dall’impronta impressiva della sua maestosità e dall’impeto delle sue acque ruggenti. Verosimilmente però, anche nella Roma arcaica e monarchica, questa divinità naturalistica godette di uno straordinario rispetto ereditato dalla venerazione degli Etruschi per un altro nume naturalistico, di carattere incerto, forse un perfido genio dalle acque sinistre e costantemente ostili. Perché, al fine di scongiurare la minaccia della natura violenta si finiva per venerare, sotto il nome di un dio, un suo aspetto inquietante, una sua forza selvaggia e irrompente, una espressione del paesaggio concepita alla stregua forse di un enorme serpente dalle spire possenti che scivola in mezzo a piane assolate per immergere l’ampia testa dell’estuario nelle acque del mare. In fondo è così che nascono gli dèi e quindi le religioni che ne organizzano le ritualità, le strutture gerarchiche, la riflessione teologica, ecc. Al dio Volturno dunque, venivano riservati onori e celebrazioni importanti. Qualcuno ritenne addirittura che Volturnus fosse il nome più antico dello stesso Tiber, il Tevere. Georges Dumézil, che fu uno studioso di filologia comparata della metà del secolo scorso, sulla scorta delle testimonianze più remote, ritenne invece che con le Volturnalia, ovvero le celebrazioni in onore di Volturnus, i Romani dell’epoca pre- repubblicana non celebrassero affatto il dio turbolento delle acque tortuose, ma quello di un vento caldo e frequente in questa regione, lo scirocco. Anche il nome Volturnus ha un’etimologia controversa. Lungi dal soffermarmi sulle apparenze epidermiche del significato che lascerebbero intendere un corso d’acqua dalle molte volute o giri, come adombrerebbe l’ipotesi di Teodoro Mommsen, esso avrebbe invece a che vedere con vultur, ovvero l’avvoltoio, l’uccello che delle carogne trasportate dalle acque si cibava. L’etimo vultur, avvoltoio, non genera sostantivi in italiano salvo che ad apparire vagamente nella radice di Volturnus; vultur è presente invece in molte lingue neolatine e non (avvoltoio si dice vulture - che è un latinismo - in inglese; vautour in francese, ecc.). Per altri studiosi il nome Volturnus avrebbe avuto origine dalla denominazione di una città etrusca, Velthurna, che potrebbe essere stata quella dell’antica Capua bagnata dal Fiume. Ad ogni buon conto, i due profili: quello locale e quello romano del Fiume finirono presto per confondersi e identificasi nell’immagine antropomorfa del barbuto dio Volturno (Volturnus o Vulturnus), “dai cerulei cigli” che richiama uno colore azzurro delle sue acque, ormai smarrito. Come alle divinità di importanza maggiore, anche a Volturnus erano riservate festività solenni dette, come accennato, Volturnalia, che avevano luogo nei mesi estivi. Le manifestazioni, cui era preposto un Flàmine, ovvero un sacerdote così chiamato perché preceduto da portatori di torce (anche se c’è chi ritiene differente l’etimologia), si traducevano in offerta sacra alle acque e in voti augurali affinché le inevitabili piene dei mesi invernali non fossero portatrici di sventure e di carestie. Con la Roma imperiale, ormai colta e lontana dalla schiettezza delle tradizioni più antiche, smarrito pure il timore ancestrale che la violenza irriducibile delle acque generava, la figura del dio fluviale, forse quella zoomorfa del pitone, si modificò. Volturnus assunse il profilo barbuto di un vecchio saggio e nerboruto, la fronte coperta di arbusti palustri e delle celeberrime cannucce. Lo si fece padre di Giuturna, una ninfa acquatica dalle chiome lunghissime, protettrice delle fonti, che Virgilio indica come sorella di Turno, il re dei Rutuli sconfitto da Enea che ne sposò la promessa sposa, Lavinia. Ad onore del vero non sono molte le testimonianze fisiche della storia del Fiume nei corso dei secoli. Non restano che alcuni elementi decorativi di un arco dell’anfiteatro romano dell’antica Capua (oggi Santa Maria Capua Vetere) e la memoria nei versi apologetici delle Silvae del poeta napoletano Papinio Stazio, vissuto nel I sec. d.C. e dedicati all’imperatore Domiziano. Stazio, nell’apologia che faceva di questo imperatore costruttore dell’omonima strada, descriveva il ponte gagliardo che attraversava il Fiume indifferente alla forza della sua corrente. Il poeta interpretava lo spirito delle acque ribelli che erano costrette ora a sostenere il peso onesto ma duro di quella straordinaria costruzione. Si lamentava perciò, con gemiti inconsolabili rimpiangendo il tempo in cui lo solcavano solo sandali dalla chiglia piatta di pescatori di anguille. Il Fiume ingabbiato non si sentiva adulato nemmeno dall’immagine bugiarda della sua statua di travertino, sdraiata come su un triclinio posta su un parapetto dal ponte, che lo rappresentava con il volto barbuto e i capelli fluenti in un intreccio turbinoso di erbe acquatiche e canne. Di questo ponte antico restano ancora tracce nell’opus incertum su cui sorge l’attuale Castello. E l’unica testimonianza storica questa, legata alla vita del Fiume e alla storia della nostra città. Una città abbandonata ormai e condannata a sparire dalle mappe della storia con le vicende del Fiume che l’onora del nome, per l’ignavia incolta di tanti condottieri eletti dalla cecità di gente paziente quanto distratta. Il Fiume non è più dio ormai, non è più storia sognante di quella bella età mitologica di cui siamo tutti figli orfani. Se volete che immagini il profilo del Volturno di oggi, ecco, io non posso concepirlo più secondo i registri di lettura del passato ormai onirico e lontano che esaltarono Stazio, Silio Italico e Lucano. Questo povero Fiume non ha più cerulei cigli e non è nemmeno biondo come il fratello Tiber e men che meno è più il padre delle limpide acque della dolce Giuturna vergiliana. Non è sicuramente più quel pitone immenso e contorto che tuffava il largo capo nelle acque del Tirreno. Né riesco a immaginarlo con il volto severo dalla barba fluente come le sue acque che fluenti non son più da lustri. E nemmeno lo immagino col bel volto paffuto della riproduzione ai piedi dello scalone del Comune, copia della testa di un incerto imperatore, forse Tito, ma che di sicuro iconograficamente non rappresenta il Volturno… Rileggo nello scendere cupo delle acque, scorrenti quasi morte fra cento città indifferenti, l’amore che il Fiume porta con sé per una terra che bagna da almeno dieci millenni. Scorre, ma chi può dire che questo scorrere, men che di orgoglio è prova di un pianto silenzioso di abbandono. Gli dedico un pensiero e vorrei fosse un canto, vorrei esaltarne il contorno fiorendone le sponde, vorrei ravvivarne i colori per farlo degno del vanto di specchiare il volto del cielo, come una volta… Nessuna geografia credo fu più amata e funestata come quella del Volturno, nel corso degli ultimi venticinque secoli, da quelli che sulle sue sponde son nati e da chi qui venne a trovar rifugio. Da chi soprattutto le sue acque macchiò del sangue di gente sconosciuta che sulle sue ripe si confrontò per appagare smanie di dominio, da Annibale nel corso del decennio più funesto della seconda guerra Punica, ai Normanni sanguinari e affamati di terre, dai Saraceni che qui fecero razzie di messi fiorenti e violenza a donne imploranti, agli anglo-americani che vi trovarono la più fiera resistenza nazista. Tutto quello che ravviso, tutto ciò che resta del Volturno, sono le cannucce sbiancate dal cloro e il brusio silenzioso del suo scorrere nella sera, scuro come un lamento, senza più il coro monocorde e interminato delle rane. E resta pure il ricordo delle nostre infanzie sperdute, quando il Fiume si faceva terrore delle nostre madri perché temuto, mellifluo rapitore di bambini. Noi eravamo affascinati dalle sue acque; era in fondo un compagno di giochi, un fratello più grande al quale però ci avvicinavamo con circospezione, temendone la furia e l’inganno sottile, l’inganno del fango scivoloso e dei gorghi apparentemente innocenti. Ci adescava il Fiume, col suo brusio sottile, con la dolcezza della sua onda lieve e bugiarda. E noi sulla sua riva sinistra correvamo di soppiatto a giocare, proprio con quel luzzo insidioso, il suo limo grigio, liscio e plastico che si piegava sotto la forza delle nostre piccole dita scultrici. Correvamo quasi attratti per magia; al Fiume ci legava infatti, perpetuamente, un insondabile fato per aver bevuto l’acqua delle sue cannucce, come l’elisir fatato di un mito o il filtro di un romanzo d’amore. Come rintrona nella mente il ricordo di quelle urla materne a richiamare figli, piezz e’ accise, che insofferenti di correzioni e incoscienti di rischi, del Fiume vivevano affrontando l’esperienza del primo nuoto, quasi un volo di giovani uccelli e primo battesimo del coraggio! Resta il ricordo di un tempo in cui esso non aveva bisogno di essere identificato con un nome, perché nessuno di quelli che abitano da millenni sulle sue rive l’ha mai chiamato Volturno. Non ce n’è bisogno. Per essi il nome più dolce è o’ ciummo, il Fiume, come il vezzeggiativo che si dà ad un bambino e l’accompagna per tutta la vita smarrendo la sacralità del nome primo. O’ ciummo, le cui acque abbiamo bevute nel cavo della mano lodando la sete, quelle acque che scorrendo fra le canne hanno da atavico tempo l’omerico dono o la malasorte di provocare il ritorno di chi le beve. Una volta era un privilegio, oggi è una condanna. Il Volturno per la sua gente è o’ ciumme, il Fiume per eccellenza, non essendone concepiti altri e questo solo per l’orgoglio di possederlo idealmente e idealmente appartenergli. 13.02.2008 Vittorio Russo