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LIRA . LA SUA LUNGA STORIA http://cronologia.leonardo.it/storia/a1937c.

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LA LIRA
segue: LE BANCHE PRIVATE DI....STATO (E chi vigila? Le stesse Banche!

Prima dell'unità del Regno d'Italia sul territorio c'erano gli istituti bancari
autorizzati ad emettere banconote. Nel 1860 vi era la Banca Nazionale Sarda, la
Banca di Parma, Banca delle Quattro Legazioni (Bologna e dintorni), la Banca
Nazionale Toscana.
Nello stesso anno nasce anche la Banca Toscana di Credito, anch'essa autorizzata
ad emettere banconote. Nell'anno successivo, con la proclamazione del Regno
d'Italia, la Banca Nazionale Sarda assume la denominazione di Banca Nazionale del
Regno d'Italia, assorbe la Banca di Parma e la Banca delle Quattro Legazioni e
diventa il più importante istituto di emissione del neonato Regno d'Italia,
estendendo la sua attività anche all'Italia centrale e meridionale.

Nel 1866 anche il Banco di Napoli viene autorizzato ad emettere banconote, mentre
nell'anno successivo godrà della stessa autorizzazione il Banco di Sicilia. Tre anni
dopo, siamo quindi nel 1870, la Banca dello Stato Pontificio riassume la vecchia
denominazione di Banca Romana, ottenendo anch'essa dal governo centrale iI
riconoscimento del diritto di emissione. Alla fine del 1870, quando il giovane Stato
Italiano può stabilire a Roma la propria capitale, circolano dunque su tutto il
territorio nazionale banconote emesse dai seguenti istituti: Banca Nazionale del
Regno d'Italia, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banco di
Napoli, Banco di Sicilia, Banca Romana.

Tutte le banconote emesse da questi istituti hanno corso legale. Ma giá dal 1866 le
banconote circolavano in "corso forzoso".

Il motivo principale di questo provvedimento furono le spese per le operazioni


belliche del 1859 e del 1866 che erano state eccezionali per l'intraprendente Re di
Sardegna (1859) e per il novello Re d'Italia (1866). Che erano poi la stessa persona,
S.M. Vittorio Emanuele II di Savoia. E poiché far debiti é una bella cosa, ma poi
bisogna anche pagarli, la quadratura del cerchio si chiamava appunto "corso

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forzoso", concesso in contropartita ai finanziamenti che lo Stato aveva avuto dalla


Banca Nazionale del Regno, ma esteso ovviamente agli altri istituti bancari
(provvedimento questo inevitabile: in caso contrario infatti le banconote degli altri
istituti avrebbero soppiantato quelle della Banca Nazionale del Regno).

Se riflettiamo però sugli effetti pratici del corso forzoso, ossia sull'attribuzione "ope
legis" di valore a un pezzo di carta (la banconota), noteremo come il corso forzoso si
traduca, nella pratica, in un prestito obbligatorio, oltretutto senza interessi, imposto
ai cittadini. Si traduce cioè nel trasferire sulle tasche dei cittadini il debito contratto
dallo Stato con la Banca.
Questa sa che può stampare banconote senza che ne venga chiesta la conversione in
oro, quelli devono accettare le banconote che, per loro natura, conoscono però un
fenomeno sconosciuto invece all'oro: la svalutazione, ossia la perdita del "potere di
acquisto". E' vero che la legge mi impone di credere che cento lire siano sempre
cento lire, ma é altrettanto vero che l'ortolano, il salumiere, il panettiere (che sono
poi da sempre i problemi del vivere quotidiano) mi danno, giorno per giorno,
qualcosina in meno a fronte di quelle cento lire, perché a loro volta nutrono poca
fiducia in un mero pezzo di carta, anche se la legge autorizza una banca ad
emetterlo senza dar nulla in cambio.

L'imposizione del corso forzoso della lira ingenera quindi i primi fenomeni di
inflazione, per usare un termine oggi fin troppo conosciuto.

Alla fine del 1866 il "circolante" ammontava a lire 650 milioni. Ma il vero
problema ingenerato dal corso forzoso non era tanto quello dell'inflazione indotta,
quanto il fatto che, essendo all'epoca le banche di emissione delle semplici società
per azioni, ossia organi di diritto privato, si dava il là ad una autonomia bancaria
sfrenata, si creavano cioè dei soggetti privati investiti della facoltá di "creare
ricchezza". E questi soggetti potevano essere (come del resto erano) portatori di
interessi particolari (industriali, commercianti, latifondisti ecc.). Se é vero che il
periodo del corso forzoso favorì una forte crescita industriale, perché permise un
allargamento del credito, indispensabile in una nazione agricola che muoveva i
primi passi verso una struttura più moderna, é altrettanto vero che questa
espansione (basata su una presunzione di sviluppo e non su solide garanzie già
esistenti) rischiava di diventare una bomba a scoppio ritardato.

(1874 - CONSORZIO DELLE BANCHE )


Questa serie di preoccupazioni portarono a un primo intervento legislativo: nel
1874 fu costituito il Consorzio Obbligatorio degli istituti di emissione. Le sei banche
autorizzate all'emissione venivano sottoposte ad una regolamentazione uniforme, e
per ciascuna di esse veniva fissato l'importo massimo di banconote che potevano
essere emesse, fissando altresi gli scarti massimi che si potevano tollerare rispetto
alle riserve in metalli o valute pregiate. Le banche mantenevano la loro struttura di
società di diritto privato, ma veniva riconosciuta al Ministro dell'Industria e del
Commercio la facoltá di controllo e ispezione.

Nel frattempo la politica governativa (era al potere la "Destra Storica") era tesa al
risanamento finanziario dello Stato e il pareggio di bilancio, conseguito nel 1876 dal
governo Minghetti, contribuì al consolidarsi di un clima di fiducia in un sistema
economico che sembrava ben instradato, tant'è che nel 1884 il corso forzoso venne
abolito, con l'intento soprattutto di invogliare i capitali stranieri ad investire in
Italia. Non si verificò la corsa alla conversione in oro delle banconote (paventata

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dalla Destra che, proprio nel 1876, dopo aver pareggiato il bilancio dello Stato,
aveva dovuto però cedere il potere alla Sinistra), perché ormai la lira riscuoteva
fiducia sia all'interno che all'estero. Infatti solo 250 milioni vennero convertiti, a
fronte di un circolante ormai superiore al miliardo, e nel giro di un paio di anni
quasi la metà di quell'oro era già tornato nei forzieri delle banche di emissione. Era
una prova di grande stabilità per la nostra lira, che aumentò di quotazione in tutte
le Borse estere, attirando capitali stranieri, che vennero investiti in Italia per oltre
un miliardo.

Se la lira dell'ancora adolescente Regno d'Italia iniziava il suo cammino nelle valute
di importanza internazionale, il sistema bancario di emissione evidenziava invece i
suoi difetti di fondo e la carenza di controlli veramente efficaci. Il Diavolo, é cosa
nota, produce ottime pentole ma, in quanto a coperchi, non vale molto. In vena di
proverbi, vorremmo citarne un altro: "La tentazione fa l'uomo ladro". Ma prima di
spiegarvi perché citiamo questa popolar saggezza, permettete, cari lettori, una
domanda un po' maliziosa; mettetevi una mano sul cuore e rispondete con tutta
sincerità: chi di voi, se in un domani, per qualche strana ed eccezionale circostanza,
si trovasse autorizzato a stampare dei bei foglietti di carta con scritto "vale lire
mille", se la legge imponesse a tutti i cittadini di accettare questi foglietti, chi di voi,
dicevamo, non indugerebbe, almeno per un attimo, nel pensierino di quante cose
belle si potrebbero fare se il pulsante che ferma la macchina da stampa si guastasse,
e la macchina continuasse a stampare, stampare, stampare.

Scherzavamo, naturalmente, per introdurre l'argomento dello scandalo della Banca


Romana, scandalo per certi versi provvidenziale, perché fu quello che fece scattare i
primi campanelli d'allarme sul sistema di emissione delle banconote.

( LA BANCA ROMANA )
La Banca Romana era sorta nel 1835, per iniziativa di un gruppo di capitalisti
francesi e belgi. Nel 1851 aveva assunto la denominazione di Banca dello Stato
Pontificio, divenendo l'istituto di emissione degli Stati della Chiesa. Dopo gli eventi
militari e politici che culminarono nel 20 settembre del 1870, e con la proclamazione
di Roma Capitale, la banca riassunse la sua vecchia denominazione, mantenendo,
come avevamo già visto, il suo diritto ad emettere banconote. La proclamazione di
Roma Capitale aveva provocato una vera "febbre" edilizia e per alimentare i
cantieri che sorgevano come funghi gli imprenditori fecero un gran ricorso al
credito. Nell'atmosfera da "conquista del West" in cui si svolgeva questa attività
erano carenti i controlli sulla reale solvibilità dei debitori, ed esistevano già (vizio
antico, Calvi, Sindona & C., in fondo, non hanno inventato proprio nulla di
nuovo...) i clienti e le "clientele" a cui non si poteva negare un credito bancario.

Quando il grande boom edilizio si sgonfiò ed iniziarono i fallimenti, la Banca


Romana risultò una delle più esposte, sepolta sotto una valanga di cambiali che
valevano come carta straccia, data l'insolvenza dei debitori. Fin qui, non vi sarebbe
stato nulla di particolarmente nuovo: una banca che rischia di andare a picco per
aver concesso crediti a eccessivo rischio non era una novitá. Altro era l'aspetto
veramente allarmante: come accertarono gli ispettori del ministero dell'Industria,
Alvisi e Biagini, il governatore Bernardo Tanlongo, "dominus" della Banca
Romana, aveva trovato un'elegante soluzione al problema dei clienti insolventi:
emetteva banconote "a ruota libera". Aveva superato spensieratamente di 25
milioni il limite consentito, e poi, non soddisfatto, ne aveva stampati altri nove

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clandestinamente, senza alcuna annotazione nelle registrazioni contabili. Eravamo


nel 1889. Inaugurando un comportamento che sarebbe divenuto col tempo uno dei
piú popolari sport nazionali, Crispi, allora primo ministro, insabbiò l'inchiesta:
erano in troppi ad aver banchettato con le casse della Banca Romana. Per la
cronaca, ministro del Tesoro era all'epoca tale Giovanni Giolitti.

E proprio quest'ultimo, quando divenne a sua volta primo ministro, tentó il colpo
gobbo per calare definitivamente il sipario sullo scandalo della Banca Romana:
propose la nomina di Tanlongo a senatore (i senatori erano all'epoca, giova
ricordarlo, di nomina regia). Ma venne battuto sul tempo da un irruente deputato
repubblicano, già combattente garibaldino, Napoleone Colajanni, che il 20
dicembre 1892 rendeva noto in Parlamento il rapporto dell'ispettore Alvisi (che
l'aveva affidato, in punto di morte, ad amici per scaricarsi la coscienza). Una
commissione d'inchiesta, che concluse i suoi lavori il 20 marzo 1893, rilevò tra
l'altro, oltre a quanto già appurato a suo tempo dagli ispettori, un "buco" di cassa
di 20 milioni. II cassiere principale, Lazzaroni, sfuggí col suicidio al carcere, le cui
porte si aprirono invece, il 13 giugno del 1893, per il governatore della Banca,
Tanlongo. Giolitti rassegnò le dimissioni da primo ministro e per una decina d'anni
dovette restarsene in freezer.

Non ci soffermiamo sulla faida Giolitti-Crispi che caratterizzò tutta la faccenda:


entrambi implicati, entrambi speranzosi di fregarsi vicendevolmente, entrambi
infangati politicamente dallo scandalo. Al di là di queste poco edificanti lotte per il
potere, il segnale d'allarme però era grosso. il potere di emettere banconote era
stato usato illecitamente e lo scandalo rischiava di vanificare anni di lavoro che,
come vedevamo sopra, avevano generato una diffusa fiducia nella lira italiana.

( NASCE LA BANCA D'ITALIA )


Nel 1893 si attua cosi la prima riforma del sistema di emissione. La Banca Romana
veniva posta in liquidazione e le operazioni erano affidate al nuovo istituto, la
Banca d'Italia, sorta dalla fusione della Banca Nazionale del Regno con la Banca
Nazionale Toscana e con la Banca Toscana di Credito. La Banca d'Italia nasceva
con la forma giuridica della società anonima (oggi diremmo "società per azioni") e,
sotto la guida del governatore Stringher, iniziava a "rimettere ordine" nella
circolazione monetaria.

Restavano a questo punto tre istituti autorizzati ad emettere banconote: la neonata


Banca d'Italia e i due banchi meridionali, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Il
nuovo secolo iniziava tra speranze di progresso e di benessere. Nascevano in quegli
anni, con capitali tedeschi, due banche che avrebbero rianimato la finanza e dato
una grossa spinta all'industria: la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano.
Il trasferimento di forza-Iavoro all'industria decongestionò í campi, rendendo meno
disagiata la condizione di vita dei contadini, mentre le nuove leve operaie, pur con
tanti problemi di integrazione nelle città, non conobbero i paurosi livelli di
sfruttamento a cui era stato sottoposto un secolo prima l'operaio inglese. Il ritardo
della nostra "rivoluzione industriale" infatti fece sí che questa coincidesse con lo
sviluppo del movimento sindacale e quindi coi primi seri tentativi di tutela del
lavoratore. Insomma, tutto andava bene: il Paese progrediva e la nostra lira viveva
un momento quieto. Era una moneta convertibile, che nel 1909 arrivò addirittura a
"far aggio" sull'oro, cioè a valere più del suo corrispettivo in metallo prezioso, con
una circolazione regolare, ora più vigilata dopo la dura lezione data dal clamoroso

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scandalo della Banca Romana.

Ma la vecchia Europa era piena di convulsioni; l'impero Austro-Ungarico, mutilato


negli anni a beneficio della Prussia e dell'Italia, era deciso a non subire ulteriori
umiliazioni. L'Italia aveva intrapreso la conquista della Tripolitania e della
Cirenaica approfittando dei contrasti tra il Kaiser e la Francia, che aveva occupato
il Marocco. I paesi balcanici stavano costituendo una lega per scacciare
definitivamente i Turchi dall'Europa. Tutto questo fuoco che covava sotto la cenere
scoppiò definitivamente il 28 giugno del 1914, quando le rivoltellate di Gavrilo
Princip contro l'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando diedero il pretesto a
Vienna per iniziare la guerra contro la Serbia. In poco più di un mese Germania,
Russia, Francia e Inghilterra scesero in campo. La nostra neutralità durò meno di
un anno.

Come inevitabile conseguenza dell'entrata in guerra, il "corso forzoso" fu


nuovamente introdotto nel 1915. Lo sforzo bellico comportava spese eccezionali, né
si poteva rischiare una corsa all'oro in cambio di banconote. E la lira rimase non
convertibile per altri dodici anni, fino al 21 dicembre 1927, quando il corso forzoso
fu abolito e fu stabilito il nuovo rapporto di 3,66 lire-carta per una lira oro,
sancendo cosi ufficialmente, pur col mantenimento della convertibilità, la
divaricazione tra valore nominale della cartamoneta e valore effettivo. Ma nel
settore della monetazione, l'avvenimento importante era già accaduto l'anno
precedente: con la legge 812 del 6/5/26 l'emissione di banconote era stata assegnata
in esclusiva alla Banca d'Italia, alla quale venivano assegnate le riserve metalliche
del Banco di Sicilia e deI Banco di Napoli e che doveva, in contropartita, farsi
carico per intero della produzione del circolante necessario alle esigenze economiche
del paese.

In quel 1926 fu quindi creata la situazione in cui viviamo tuttora: la Banca d'Italia é
l'unico istituto autorizzato ad emettere banconote. Le banconote dei banchi
meridionali circolarono ancora per un quinquennio, ad esaurimento, venendo via
via ritirate e sostituite con quelle della Banca d'Italia. Questo provvedimento
doveva essere quello definitivo per il riordino della monetazione, anche in armonia
col resto dell'Europa, dove ogni paese aveva un solo istituto di emissione, con
l'eccezione della Gran Bretagna, che manteneva la differenza sul suo territorio tra
sterlina inglese, scozzese e irlandese (peraltro tra loro intercambiabili), per poter
esercitare meglio e in modo accentrato il controllo sulla massa circolante di danaro
liquido. L'esclusiva alla Banca d'Italia arrivava dopo che il grande aumento della
massa circolante (favorito dal corso forzoso) aveva causato un incremento dei prezzi
all'interno e un crollo delle quotazioni internazionali della lira. All'epoca la moneta
di riferimento era la sterlina (come oggi é il dollaro).

( LA QUOTA "NOVANTA" )
Nel 1922 per acquistare una sterlina erano necessarie 90 lire. Nel 1926 ne servivano
154. Il governo di Mussolini fece del ritorno a "quota novanta" una questione di
prestigio: l'obiettivo fu raggiunto nel dicembre del 27, quando fu fissata una
quotazione di lire 92,46 per una sterlina. E il 21 dicembre, come dicevamo sopra, il
corso forzoso veniva abolito.

Era però alle porte un'altra crisi, quella del 29, che dal crollo di Wall Street portò i
suoi effetti in tutto il resto del mondo occidentale.
E nel 1925, pur mantenendo la convertibilità della lira, venne sospeso l'obbligo

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della copertura in oro in misura del 40%.


Curioso modo all'italiana per reintrodurre un "quasi-corso forzoso". L'anno
successivo la Banca d'Italia fu trasformata in Istituto di diritto Pubblico,
assumendo anche la funzione di `"banca delle banche" e di controllo sull'esercizio
del credito. Intanto il governo proclamò, a conclusione della guerra con l'Etiopia,
l'Impero: l'entusiasmo fu tale da far passare in seconda linea il fatto che la faccenda
era costata la bellezza di dodici miliardi. Poi ci fu la partecipazione alla guerra
civile in Spagna e di lì a poco il mondo sprofondava nella tragedia della Seconda
Guerra Mondiale. Il "corso forzoso" diveniva la norma in cui viviamo tuttora, con
la particolarità che sempre più spesso i decreti ministeriali di autorizzazione alla
Banca d'Italia all'emissione di banconote omettono un piccolo particolare:
l'importo massimo dell'emissione. Con tutti i limiti della sintesi, abbiamo cosi visto
come la banconota, da "certificato di deposito" di un valore reale sia diventata essa
stessa "valore". E ci sorge una maligna domanda: Tanlongo fu un furfante o solo un
anticipatore? In fondo, non aveva fatto altro che emettere banconote a fronte di un
oro che non aveva.....

Per chiudere, vorremmo accennare ad altri mezzi di pagamento cartacei. In primis,


il "biglietto di stato". Chi non ricorda il biglietto di stato da lire 500, stampato
perché le monete d'argento di pari importo erano sparite dalla circolazione,
divenendo di fatto pezzi da collezione? E chi non é più giovanissimo ricorderà i
"biglietti di stato a corso legale" da lire una, due, cinque e dieci. Dal punto di vista
pratico, per il cittadino, il biglietto di stato é del tutto assimilabile alla banconota.
Non viene però emesso da una banca, ma dallo Stato stesso, che può così porre
rimedio a carenze di piccoli tagli (come fu nel caso delle cinquecento lire), oppure
può autofinanziarsi per proprie esigenze, emettendo, di fatto, dei pezzi di carta che
rappresentano un debito pubblico fluttuante, senza interessi. E' da notare che per il
biglietto di stato non si pone neanche il problema del "corso forzoso", perché questo
è insito nel biglietto stesso, che infatti non contiene una promessa di pagamento
("pagabile a vista al portatore"), ma solo la dizione "a corso legale". Non esistono
ai giorni nostri "biglietti di stato" in circolazione, ma in passato si é fatto spesso
ricorso a questo mezzo di pagamento. Attualmente tutte le banconote sono emesse
dalla Banca d'Italia, mentre la Zecca di Stato (gestita dall'Istituto Poligrafico dello
Stato) provvede solo alla battitura delle monete metalliche che, come è noto, non
sono di metallo pregiato e in tal senso costituiscono anch'esse una moneta a "corso
forzoso".

(I MINIASSEGNI )
Da ultimo, vorremmo ricordare il curioso fenomeno dei "mini-assegni". Negli anni
1976 e 77 la carenza di monete di piccolo e piccolissimo taglio era diventata così
grave da indurre alcune banche ad emettere assegni circolari per importi che
variarono dalle cinquanta alle trecentocinquanta lire, per far fronte alle richieste
della clientela che aveva bisogno di questi tagli per le normali esigenze quotidiane di
pagamenti. Per ragioni pratiche questi assegni erano più piccoli dei tradizionali
assegni del "libretto": da qui la denominazione di "mini-assegni". Le banche che
non erano autorizzate all'emissione di assegni circolari trovarono l'escamotage di
emettere assegni bancari, da loro interamente compilati a stampa, ma ufficialmente
tratti da loro clienti a favore di "portatore". La faccenda durò un paio d'anni e fu
un ottimo rimedio ad una carenza di spiccioli che diventava davvero insopportabile,
ma si tradusse anche in un ottimo affare per le banche: infatti moltissimi di questi
mini-assegni non tornarono mai alla banca per il pagamento, vuoi perché smarriti o

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deteriorati dall'eccessiva circolazione, vuoi perché divenuti oggetto di collezione,


con tanto di quotazioni. E così diverse banche assunsero per due anni la veste di
"istituti di emissione" di piccoli tagli, a corso forzoso, stabilito non de iure, ma con i
dati di fatto.

Il fenomeno cessò quando la Zecca di Stato, passata in gestione al poligrafico dello


Stato, fu finalmente in grado di far fronte alle necessità di piccoli tagli. All'epoca dei
mini-assegni ci fu polemica perché si disse che in diverse banche avessero operato
tanti piccoli Tanlongo, emettendo assegni circolari senza avere il deposito liquido
previsto dalla legge. Nulla ci autorizza ad avallare questo sospetto. Sta di fatto che
l'affare le banche lo fecero comunque, perché a fronte di quei titoli, per emettere i
quali avevano ricevuto un deposito in danaro, le richieste di rimborso furono
minori della massa circolante. E questo non é indubbiamente un "corso forzoso", ne
ottiene però i medesimi risultati.

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