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1. 1538-1553: E non ha fermezza La sfortuna critica di Giorgio Vasari in campo artistico ha influito non poco sulla valutazione delle Vite: usandole per lo pi gli storici dellarte per rintracciare volta per volta informazioni spicciole sui singoli artisti, si giunti a perderne la visione storica complessiva. Per di pi, la congiuntura fatale e necessaria fra cultura e politica (1) operata nel ventennio 1554-1574, in cui Vasari fu al servizio del duca Cosimo I e che port alla creazione di quelle che sono le istituzioni fondamentali dellarte occidentale (lAccademia, la galleria; non il museo ch il termine fu posto in uso dallamico Giovio), ha condotto a una valutazione parziale dellattivit di Vasari, e in particolare del suo pensiero, che quello che qui ci interessa. La critica vasariana degli ultimi anni ha cio operato una semplificazione della figura di Vasari schiacciandone lattivit di scrittore sullultimo periodo della sua vita, quello in cui a partire dal dicembre 1554 fino alla morte egli fu il principale artefice e coordinatore della politica artistica del duca Cosimo I a Firenze; si passato, invece, sotto silenzio il periodo che va dal 1537 al 1554 in cui Vasari si allontan dai Medici e per alcuni anni progett di stabilirsi a Roma per trovarvi una sistemazione definitiva e per avere dei benefici ecclesiastici: eppure fu in ambiente romano e farnesiano, cio antimediceo per eccellenza che Vasari scrisse la prima re-

(1) Lespressione di A. PAOLUCCI, Giorgio Vasari fra cultura e politica, in Percorsi vasariani tra le arti e le lettere, a cura di M. Spagnolo e P. Torriti, Montepulciano, Le Balze, 2004, pp. 13-19.

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dazione delle Vite. Vasari cortigiano di Cosimo sembra al contrario essere oggi diventata la cifra sotto cui catalogare lautore delle Vite: un tipo di lettura monodirezionale che non concede allautore studiato la possibilit di unevoluzione intellettuale e che, fatta eccezione per la struttura interna dellopera, finisce per indirizzare ideologicamente la valutazione delle due edizioni delle Vite, la Torrentiniana del 1550 e la Giuntina del 1568. Una lettura di tal genere figlia della leggenda nera di Cosimo I ed nata dal disconoscimento dei risultati della ricerca storica novecentesca, prima fra tutti quella di Giorgio Spini (2), sulle vicende che portarono alla stabilizzazione del dominio fiorentino come ducato mediceo; a questo si deve aggiungere luso indiscriminato della categoria di Manierismo nel campo della storiografia artistica: la versione debole della categoria di Manierismo, opportunamente proposta da John Shearman, stata ripresa da Antonio Pinelli che lha piegata a fare di Vasari un esempio della coincidenza tra artista di corte e maniera (3). Pi articolata, a dispetto del sottotitolo, la posizione di Roland Le Moll in quella che resta lunica biografia recente (4): ma anche in questa insufficiente lanalisi del periodo centrale della vita di Vasari, quello in cui si emancip dalla protezione dei Medici e scrisse la prima redazione delle Vite; il peso dato al periodo cosimiano dellattivit di Vasari diventa preponderante, mentre sorvola sulla sua attivit al servizio del pi grande potentato fautore di una politica contraria ai Medici, quello dei Farnese durante il pontificato di Paolo III. Su questa linea il passo successivo stato compiuto dal filosofo francese Jean Salem (5) che assume Vasari ad archetipo del cortigiano opportunista, fino a trasformarlo nel simbolo dellarrivista pen-

(2) G. SPINI, Cosimo I de Medici e la indipendenza del principato mediceo, Firenze, Vallecchi, 1945; e si veda almeno F. DIAZ, Il Granducato di Toscana. I Medici, in Storia dItalia, a cura di G. Galasso, Torino, Utet, 1986, vol. 13. (3) A. PINELLI, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, Einaudi, 1993. (4) R. LE MOLL, Georges Vasari. Lhomme des Mdicis. Biographie, Paris, Grasset, 1995. (5) J. SALEM, Giorgio Vasari (1511-1574) ou lart de parvenir, Paris, Kim, 2002.

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tito, modello per gli ex sessantottini in carriera (lanctre trop peu connu des soixante-huitards repentis, p. 7), colui che incarnerebbe unepoca di riflusso mitterandiano dopo la libert o lutopia. Salem, senza pensare che tutta larte italiana, come tutta la letteratura francese (fino a Voltaire compreso, avrebbe detto lAlfieri), strettamente legata alle corti, giunge alle conclusioni parossistiche che abbiamo citato. Una tale interpretazione, pur nelle sue esagerazioni infantilistiche, comunque figlia dellopposizione repubblica/principato stabilita dalla tradizione storica su Firenze e pu riprendere e distorcere lanalisi condotta da Zygmunt Wazbinski in un convegno (6) del 1974 per radicalizzarla in un confronto tra un Vasari libero, non ancora cortigiano di qualcuno (1550) e un Vasari arrivato (1568): la differenza tra Torrentiniana e Giuntina starebbe tutta nel fatto che la seconda unopera cortigiana pervasa dal clima di celebrazione di Firenze e delle sue tradizioni, della famiglia Medici, ecc.: su queste e altre simili considerazioni si venuto a creare il mito del primato della Torrentiniana sulla Giuntina, che un altro bel luogo comune con pochi fondamenti e figlio della tendenza a ignorare levoluzione stilistica del genere storiografico nel Cinquecento della critica vasariana del secondo Novecento (7). La stessa accusa formulata in modo pi sottile da Georges Didi-Hubermann, che fa di Vasari il fondatore di una concezione dellimitazione come arte accademica, privilegio di un gruppo ristretto di cortigiani, in opposizione alla concezione epistemica aperta dellarte propria dellantichit (8); qui, ac(6) Lide de lhistoire dans la premire et la seconde dition des Vies de Vasari, in Vasari storiografo e artista, Firenze, Istituto Nazionale di studi sul Rinascimento, 1976, pp. 1-26. (7) Molto pi fondate mi paiono le considerazioni di A. MATUCCI, Machiavelli nella storiografia fiorentina. Per la storia di un genere letterario, Firenze, Olschki, 1991, p. 266: [] contemporaneamente un Vasari applica le forme della storiografia ad altri soggetti e nel passaggio dalledizione torrentiniana a quella giuntina delle Vite linsegnamento dei Discorsi e della Storia dItalia si fa sempre pi presente, nella ricerca di maggiori spazi riservati al giudizio del narratore, e nella conseguente costruzione di una linea unitaria che lega tutte le sezioni dellopera. (8) G. DIDI-HUBERMANN, Devant le temps, Paris, Editions de Minuit, 2000, pp. 59-72; ID., Ressemblance mythifie et ressemblance oublie chez Vasari: la lgende du portrait sur le vif, in Mlanges de l'Ecole franaise de Rome, Italie et Mditerrane, CVI, 1994, 2, pp. 383-432.

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canto a Vasari, viene svalutata lopera di Cosimo I, che con la sua politica culturale port invece a risolvere i problemi del provincialismo della cultura fiorentina drammaticamente emersi durante il ducato di Alessandro (9). Laver proiettato la realt finale di Vasari cortigiano su tutta la sua attivit e sul suo pensiero politico e storiografico ha influito negativamente anche su un recente studio di critica bibliografica (10) dedicato alle due edizioni delle Vite: qui lautore fa delle affermazioni incaute e non provate come quella secondo cui fu lo stesso Cosimo a ingiungere a Borghini, Lenzoni e Giambullari di seguire la revisione e la stampa delle Vite (p. 21) e, nonostante le ricerche rigorose, propone una lettura dellopera storiografica vasariana sotto linsegna della celebrazione medicea. La mancanza di una approfondita biografia critica di Vasari ci costringe qui a ripercorrere gli anni del distacco di Vasari dalla famiglia Medici dopo leducazione ricevuta negli anni delladolescenza e della prima giovent. I primi contatti di Vasari con la famiglia Medici risalgono infatti attorno al 1525 (o 1524) quando, allet di tredici anni, il cardinale di Cortona Silvio Passerini lo condusse a Firenze. Inizi da quel momento la lunga consuetudine che Vasari avrebbe avuto con la casata fiorentina e che lo condusse a proseguire la propria educazione, gi iniziata ad Arezzo soprattutto al seguito di Giovanni Pollastra, insieme agli allora promettenti rampolli di casa Medici, i futuri cardinale Ippolito e duca Alessandro: ma gli insegnamenti allora impartiti da un precettore come Pierio Valeriano vengono passati quasi sotto silenzio nelle memorie vasariane. Forse il Valeriano si indirizzava fin da allora
(9) In tempi recentissimi si avviata una nuova stagione di studi sulla politica culturale di Cosimo. Si vedano i lavori curati da Konrad Eisenbichler, The Cultural Politics of Duke Cosimo I de Medici, Burlington, Ashgate, 2001 e The Cultural World of Eleonora di Toledo: Duchess of Florenze and Siena, ivi, 2004. Sulla situazione storica nuovi approcci e documenti sono rintracciabili in S. LO RE, La crisi della libert fiorentina. Alle origini della formazione politica e intellettuale di Benedetto Varchi e Piero Vettori, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2006 e in P. SIMONCELLI, Fuoriuscitismo repubblicano fiorentino 1530-1554 (volume primo: 1530-1537), Milano, Franco Angeli, 2006. (10) C. M. SIMONETTI, La vita delle Vite vasariane. Profilo storico di due edizioni, Firenze, Olschki, 2005.

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verso argomenti ermetici che, al pari dellastrologia, della fisiognomica e della chiromanzia a Vasari non intereressavano per nulla, come attesta precocemente la straordinaria lettera della primavera del 1538 ad Ottaviano de Medici sopra la resolutione della pazzia di cui ci toccher di parlare pi avanti. La consuetudine con casa Medici venne per interrotta da una lunga crisi che comprende un periodo centrale della vita di Vasari, quello che va dal 1537 al 1554 e che contiene, fra laltro, lelaborazione, la stesura e la pubblicazione della prima edizione delle Vite. Negli anni tra il 1525 e il 1537 Vasari aveva avuto la protezione del cardinale Ippolito, del duca Alessandro e, soprattutto, quella di Ottaviano de Medici, e la possibilit di studiare e fare pratica con alcuni tra i maggiori artisti dellepoca. I primi sintomi di una crisi nei rapporti con i Medici e con la vita di corte vengono posti da Vasari nel 1535, data in cui il cardinale Ippolito de Medici muore (forse avvelenato su ordine del duca Alessandro); ancora nel suo profilo autobiografico, pubblicato nella seconda edizione delle Vite nel 1568, Vasari pu scrivere:
Intanto, essendo morto Ipolito cardinale, nel quale era la somma collocata di tutte le mie speranze, cominciai a conoscere quanto sono vane, le pi volte, le speranze di questo mondo, e che bisogna in se stesso, e nellessere da qualche cosa, principalmente confidarsi. [VI, 374] (11)

Sono i sintomi di una crisi di fiducia nelle vicende del mondo e delle corti alle quali viene opposta la pace della fede e del sentimento religioso. Questa opposizione latente esplose nel 1537, allindomani delluccisione del duca Alessandro per mano di Lorenzino de Medici: cos Vasari scriveva allo zio Antonio ad Arezzo subito dopo la notizia della morte del duca:
[] non piango gi il ritrovarmi nella mia professione nella maniera che sapete, perch se tutta la corte attendessi allopre virtuose, quando vien la morte de padroni loro ogni aria darebbe il pane alla loro servit; ma chi

(11) Le citazioni provengono da G. VASARI, Le vite de pi eccellenti pittori, scultori e architetti, nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, Firenze, Sansoni (poi S.P.E.S.), 1966-87.

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appoggiato a essa o per nobilt di sangue o per servit duomini che molti anni habbino seguito quella fattione, o che tolti dalle staffe o dal governo de cani e fatti segretarii dalle insolentie loro, questi ammorbano tanto il cielo, che Iddio che ci governa, togliendogli questappoggi, gli conduce in estrema disperatione e miseria. Conosco, ora che mi si stracciato il velo davanti a glocchi, che il non temere Dio, il non conoscerlo di dove mha tratto sendo ancor fresche le piaghe di casa mia per la morte di mio padre, se seguitavo questa servit, se bene acquistavo onore, fama e ricchezza per il corpo, facevo vergogna, danno e infelice lanima mia. Ora, poi che la morte ha rotto le catene della servit mia, presa gi con questa illustrissima casa, risolvo di separami per un tempo da tutte le corti, cos di principi ecclesiastici come secolari; conoscendo con questi esempli, che Iddio har pi compassione di me vedendomi andare stentando di citt in citt, facendo di questa poca virt che mha data ornamenti al mondo, confessando Sua Maest e esser sempre disposto al suo santo servitio (12).

Queste parole potrebbero essere interpretate come lindice di una crisi momentanea dovuta alla morte del duca e al timore di una sollevazione popolare che avrebbe colpito gli uomini, come lui, legati ai Medici. In realt la disposizione danimo di Vasari non era dovuta alla contingenza del momento, ma si fondava su un sentimento religioso profondo che sembra anticipare scritture e testimonianze religiose di un Cinquecento pi maturo. Questa esplosione di sentimenti religiosi si risolve anche in un atteggiamento politico in Vasari: la condanna delle corti inequivocabile, anche se i toni della lettera non possono venire ricondotti a un atteggiamento savonaroliano, come pure sarebbe stato possibile vista la continuit sotterranea di quellinsegnamento a Firenze (Vasari stesso ricorder ancora, ad anni di distanza, lammirazione di Michelangelo per il domenicano). Certo la morte del padre avvenuta dieci anni prima e quella di quasi tutti i suoi grandi protettori dovettero segnare profondamente lanimo del giovane Vasari, che nella relazione scritta anni dopo giunger ad edulcorare i toni di quei momenti e a suggerire ununit di intenti con Ottaviano de Medici:

(12) Cito, con ammodernamenti, dalla copia settecentesca conservata alla Biblioteca Riccardiana di Firenze (Ricc. 2354, cc. 25r-26v) da cui dipendono tutte le edizioni della lettera e, da ultima, Il carteggio di Giorgio Vasari, edito e accompagnato dal commento critico del dott. Carlo Frey, Mnchen, Mller, 1923, vol. I, pp. 76-77. La data del 7 gennaio 1537, il giorno successivo alluccisione di Alessandro, giustamente messa in dubbio dal Frey.

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Ora, mentre andava procacciandomi sotto la protezione del duca Alessandro onore, nome e facult, fu il povero signore crudelmente ucciso, et a me levato ogni speranza di quello che io mi andava, mediante il suo favore, promettendo dalla fortuna. Per che mancati, in pochi anni, Clemente, Ipolito et Alessandro, mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a non volere pi seguitare la fortuna delle corti, ma larte sola, se bene facile sarebbe stato accomodarmi col signor Cosimo de Medici nuovo duca. [VI, 376]

Rispetto a quanto pubblicato nel 1568 lepistolario offre altri toni, molto pi drammatici, anche se risolti in chiave religiosa ed insieme estetica nel soggiorno al convento e alleremo di Camaldoli. Non chiaro, visti i contrasti di poco successivi, se nel 1537 Ottaviano de Medici fosse daccordo con la decisione di Vasari; in ogni caso egli part per Arezzo in preda a quella che oggi verrebbe definita una profonda depressione e della quale Vasari descrive minutamente i sintomi: lo stare chiuso in casa abbandonando i rapporti umani, il lavorare senza unidea precisa dei risultati da raggiungere, la mancanza di prospettive per uno che sentiva il peso di dover sostenere la famiglia, dovetterlo trascinarlo verso la disperazione. La via duscita gli fu offerta ancora una volta dal suo vecchio istitutore, lumanista aretino Giovanni Pollastra, che gli offr, appunto, di andare alleremo di Camaldoli a dipingere per i monaci. Era il luogo che, oltre a consentirgli una vita allaria aperta, poteva soddisfare le sue ansie religiose con unesperienza di petrarchesca vita solitaria; cos, infatti, Vasari si esprimeva nella splendida lettera che da Camaldoli, probabilmente ai primi di agosto del 1537, scriveva al Pollastra:
Se tutti i mali fossero conosciuti da Medici, come ha conosciuto la vostra accuratezza la cagione del mio, credo che dopo la morte farebbe poco danno alla generatione humana. Ecco io, smarrito cost in Arezzo, disperato da travagli della morte del duca Alessandro, dispiacendomi il commertio deglhuomini, la domestichezza de parenti e le cure familiari di casa, mero per malinconia rinchiuso in una stanza; n facendo altro che lavorare, consumavo lopera, il cervello e me medesimo in un tempo, senza la mente per le immaginationi spaventose fatta malinconica, mi havevano in modo ammorbato lintelletto, che credo, sio fossi perseverato in quei pensieri, facevo col tempo qualche cattivo fine. Siate voi, messer Giovanni mio caro, benedetto da Iddio mille volte, poi che sono per mezzo vostro condotto allhermo di Camaldoli, dove non potevo per cognoscer me stesso capitare in luogo nessuno migliore. Percholtre che passo tempo con util mio in compagnia di questi santi religiosi, i quali hanno in dua giorni fatto un

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giovamento alla natura mia s buono e sano che gi comincio a conoscere la mia folle pazzia, dove ella ciecamente mi menava, scorgo qui in questo altissimo giogo dellalpe fra questi dritti abeti la perfettione che si cava dalla quiete. Cos come ognanno fanno essi intorno a loro un palco di rami a croce andando dritti al cielo, cos questi romiti santi immitandoli e insieme chi dimora qui lassando la terra vana, con il fervore dello spirito elevato a Dio alzandosi, per la perfettione del continuo se gli avvicina pi; e cos come qui non curano le tentationi nimiche e le vanit mondane, ancora che il crollare de venti e la tempesta gli batta e percuota del continuo, non di meno ridendosi di noi, poi che nel rasserenar dellaria si fan pi dritti, pi belli, pi duri e pi perfetti che fussin mai: che certamente si conosce chel cielo gli dona la costantia e la fede, cos a questi animi che in tutto servano a lui. Ho visto e parlato sino a ora a cinque vecchi, danni 80 luno in circa, che, fortificati di perfettione nel Signore, m parso sentir parlare cinque angioli di paradiso; e son stupito a veder quegli di quella et decrepita la notte per questi ghiacci levarsi come i giovani, ancora che le nevi salzino assai, e partirsi dalle loro celle, murate e sparse lontano 150 passi per lermo, venire alla chiesa a i mattutini e a tutte lore diurne con una allegrezza e giocondit come se andassino a nozze; quivi il silentio st con quella muta loquela sua che non ardisce a pena sospirare; n foglie deglabeti ardiscono di ragionar co venti; e le acque, che vanno per certe doccie di legno per tutto lermo, portano dalluna allaltra cella de romiti acque, camminando sempre chiarissime con un rispetto maraviglioso. Mi piaciuto il vedere per ogni cella uno ambulatorio da passeggiare di 12 passi e uno scrittoio da scrivere e studiare e il letto vicino e un tavolino che come una finestra che, bucata di fuori, pare una ruota da monache e si serra: dove mettono la piatanza a detti romiti i conversi, acci che chi sta drento, aprendolo a sua posta, fa tavola e piglia il mangiare; e finito, ripone e i piattti e quello gli avanza, chiudendo; e il medesimo che gli port pieni, gli porta via voti senza una parola mai. Vi da fare il fuoco con buona provisione di legne per la state e per il verno, e una bella cappelletta, ornata e devota, che caveria le orationi de pensieri a ogni disperato animo. Taccio laltre infinite comodit di loggie, comodit di lavar panni, orti bellissimi, che sono un conforto grandissimo a chi gli gode: pensate a chi gli vede [] (13).

Anche tralasciando i richiami letterari di una tale descrizione, occorre per notare la grande capacit letteraria di Vasari nel genere epistolare; gi la lettera allo zio aveva lasciato intendere la sua abilit: ora il passaggio della sua condizione dai toni cupi della malinconia depressiva a quelli elegiaci della salute ritrovata nella solitudine alpestre delleremo lascia spazio a toni degni delle opere latine del Petrarca. La descrizione che Vasari far della stessa esperienza nella Giuntina del

(13) Ricc. 2354, cc. 29r-30v (poi in Carteggio cit., pp. 89-90).

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1568 tace i toni drammatici della sua condizione esistenziale e attenua la descrizione poetica dellambiente per tornare ancora una volta sullopposizione tra la quiete e la meditazione su Dio rispetto alla vita di corte e alla mondanit:
E cos tirando innanzi in Arezzo la detta tavola, e facciata di San Rocco con lornamento, mi andava mettendo a ordine per andare a Roma, quando per mezzo di Messer Giovanni Pollastra, come Dio volle (al quale sempre mi sono raccomandato e del quale riconosco et ho riconosciuto sempre ogni mio bene), fu chiamato a Camaldoli, capo della congregazione camaldolense, dai padri di quelleremo a vedere quello che disegnavano di voler fare nella loro chiesa. Dove giunto, mi piacque sommamente lalpestre et eterna solitudine e quiete di quel luogo santo, [] in detto spazio di due mesi, provai quanto molto pi giovi agli studii una dolce quiete et onesta solitudine, che i rumori delle piazze e delle corti, conobbi dico lerror mio, davere posto per laddietro le speranze mie negluomini e nelle baie e girandole di questo mondo. [VI, 376-77]

Certo lopposizione da un punto di vista della salvezza dellanima ma anche della necessit di una ricerca di crescita personale e artistica alla vita di corte si fece sentire in quel periodo come una scelta di campo. Anche negli anni successivi le sue ansie religiose, a dispetto di comportamenti non apprezzati dalla Chiesa, continuarono e si trasformarono poi in una fede pi serena, come testimoniano le poesie e le lettere a uno dei pi grandi predicatori dellepoca, il padre Gabriele Fiamma (14), con il quale Vasari intrattenne una sincera amicizia. Tornato da Camaldoli fu pressoch obbligato a eseguire per Ottaviano una copia del dipinto di Raffaello che raffigurava Leone X con i cardinali Giulio de Medici e de Rossi: fu questo lultimo lavoro prima di partire per Roma:
Bench, signor mio, il desiderio che mi sprona, un di, sio potr farlo, di ricondurmi a quella Roma, la quale mediante lopere antiche e moderne fece condurre glingegni eccellenti a quella perfetione dove difficilmente si pu arrivare; e ve ne faccia fede le sue statue e pitture (15).

(14) Lettere al Fiamma sono riprodotte nel Carteggio cit. Poesie di Vasari dal Ricc. 2948 sono state pubblicate da U. SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari scrittore, Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, XIX, 1906, pp. 263-303. Sul Fiamma si veda ora C. LERI, Esercizi metrici sui Salmi: la poesia di Gabriele Fiamma, in Scrittura religiosa. Forme letterarie dal Trecento al Cinquecento, a cura di C. Delcorno e M.L. Doglio, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 127-159. (15) Dalla lettera a Ottaviano de Medici, posteriore al 20 dicembre 1537, Ricc. 2354, c. 31r (poi in Carteggio cit., pp. 92-3).

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Vasari giunse cos a Roma nel febbraio del 1538 per continuare i propri studi e affinare la propria maniera sullarte antica: le opinioni sulla durata del soggiorno romano dovevano per essere molto diverse. Pochi mesi dopo, nella stessa primavera del 1538, Ottaviano de Medici cerc di convincerlo a tornare a Firenze e a entrare alle dipendenze di Cosimo, ma Vasari fu irremovibile. Due lettere non datate, di tenore e stile completamente diversi, scritte da Roma nella primavera del 1538 a Ottaviano che lo richiamava a Firenze, mostrano un Vasari convinto in pieno della propria risoluzione e basterebbero da sole a confermarne le qualit letterarie e la capacit di adottare stili epistolari diversi gi in quel periodo. La prima lettera, scritta nel registro ufficiale e con toni pomposi, non dovette sortire leffetto che Vasari si riproponeva:
Da che la sola cortesia vostra, Magnanimo Patrone, stata principio dellesser mio, quelle gratie che il cielo in me fa risplendere vengano mosse pi dal rispetto che hanno a vostri fatali vestigii, che al merito della bassezza mia. Perch quella benignit che in voi han messa la generosit delle stelle e lo influsso de fati han s colmo le misure de vostri alti concetti, che ne traboccate dogni ora talmente, che non maraviglia se chi vi si aggira intorno non pure illustra, risplende e indora, ma molto pi chi con affetione vi osserva, rassomiglia. E da che Iddio e voi solo mi havete fatto conoscere quali sieno quelli che per la fama e per opere al mondo son chiari, stimati, riveriti, honorati e con premio riconosciuti, non ci essendo termine di facult o di grado a chi per vilt di nascita e per istento di beni non pu al mondo apparir chiaro, sendo il senno di tali tenuto abbietto, via non si trova migliore quanto quella del seguitare gli studii di quale scienza si voglia, per venire di tanta bassezza a qualche principio di eminentia [] (16).

Alle stesse altezze volava la prosa di Vasari nel resto della lettera, ma lesercizio di alta retorica non tocc minimamente Ottaviano, che con prosa molto pi bassa dovette fargli sapere che considerava una pazzia il rifiuto di tornare a Firenze per entrare al servizio di Cosimo. A quel punto Vasari oper un capovolgimento di valori su tutto il fronte: sentendosi dare del pazzo ripens alle proprie meditazioni religiose e alle proprie ansie: prese loffesa per impresa e costru un proprio breve elogio della pazzia, che naturalmente non po(16) BRF, cod. ricc. 2354, cc. 56v-58v (poi in Carteggio cit., pp. 94-5).

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teva adottare la prosa aulica e affettata ma doveva essere impostato allinsegna di uno stile comico e di un linguaggio basso che non censura le espressioni volgari. Ma se lo stile era comico le sue considerazioni erano molto serie e riguardavano unidea di vita libera dalle corti e fondata su soddisfazioni e pensieri che andavano oltre la realizzazione economica:
Al Magnifico Ottaviano de Medici, sopra la resolutione della pazzia. La salute di chi al mondo vive consiste nella quiete e nel contentarsi e nel stimare niente le cose del mondo e assai quelle del cielo, e cos la inquietudine consiste nel non dar mai posa n fine alle cose del dominare e del reggere, che una sete che lacqua che si bee di tal tazza per spegnerla, te laccende ogni ora pi; tal che sempre si sta in agonia danimo con desiderio di potere, e incazzito dalla speranza fa giardini nel cervello, che vi pianta verzure che non fur mai nel Dioscoride stampate n da lui mai immaginate o scritte. E questo nasce che si riempie di grandezze il capo e l cervello e l corpo, che mai si trova sieda degna del suo culo. Quivi nasce che la servit che gl intorno, strangolata dalla poca carit, dalle villanie, il pi delle volte o il ferro o il veleno fa le vendette dellinsolentia loro; e qui ogniuno che beve a questa tazza vuole le bertucce, le scimie, e babbuini, pappagalli e nani: che altri nani, pappagalli, babbuini, scimie e bertuccie che loro? Atteso che il loro instabile cervello va rodendo con la fantasia il modo dello ampliarsi; e dove la voglia si mette accanto, non pu comportare vicini, onde compera case, orti, chiese; e tutto spiana cercando di allargare il mondo, non li parendo tante quelle tre braccia di terra che l sotterrer. Di sorte che quando veggo spegnere tanta calcina e fare quei viottoli lunghi e mettere in opera tanti legni e fare i granai di Faraone, dico fra me stesso: costoro debbono havere con Cristo fatto la scritta per un pezzo, da ch vanno perpetuando in s fatta maniera le cose loro. E, voltomi in l, guardo la Quiete che alza il capo a ogni cosa e sprezza e si ride degli strafori delle porte e delledifitio da seccare i fichi al sole; alza il capo allo ins et ghignia a uso dasino quando vuole ridere e, messosi i panni della gonnella in capo, volta le chiappe del culo al mondo e al cielo per le astrologie false e per le filosomie vane e per le chiromantie a rovescio, parendoli che il pane che si mangia dovessi essere senza sospetto e di dovere essere sottoposto a correre la fortuna deglhuomini e havere a combattere nel campo della disperatione quella grandezza che odiata da tutti quelli che hanno a dire di s contra lor voglia e fare servit con coloro che vorrebbono vedergli pi presto morti che vivi. E per beati a coloro che pazzi al mondo vengano, per che al meno sono fuori di briga a un tratto, ch non hanno glhuomini piacere di vedergli o di fargli impazzar loro: che mi pare, che chi milita sotto linsegna dello honore meriti la palma come Santo Stefano, perch sono troppo orribili gli scherni che la vergogna senza rispetto ti fa. Se un nobile di sangue tanto plebeo di vita e di costumi che sia additato per porco o per scimunito o per sgratiato; se di virt illustre, tanto vile di nascita che si vergogna fra grandi comparire e spesso sente rimproverare la vilt de sua antenati; se nobile e virtuoso, vi sar

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la povert e tante corna, che pare che l diavolo habbi fatto il macello a casa sua e la beccheria; se sar virtuoso, ben nato e con tutti e costumi, tanta miseria e gagliofferia che non trova via da potersi la fame e lavaritia cavare; se prodigo e liberale, i debiti, gli scrocchi e la maledicenza singegnano strangolarlo; se in quiete e pace ti riposi e con esercitio manuale ti eserciti, non stimando se non il proprio vivere e lonestamente vestire, i balzelli ti piovano e glaccatti di Luciano, onde sei sforzato alla disperatione darti in preda e, bestemmiando il principe, taccusano, ti tolgon la robba e la vita insieme; o e ti fan scherzi che lamore al quale in vita hai portato tanta reverenza, gli fai quel merito che se li conviene. Tal che, come di sopra io dissi, la pazzia ha dal mondo, dal cielo priviliegii tali, che vadia come vuole o faccia quel che li piace, che i vituperii, glonori li sono tuttuno, perch non vede, non ode, non sente, non gusta e non tocca a lui smaltire le male fatte si interpongono fra questo satrapo e laltro. E cos, fino che la vita lo intrattiene, vive; non cura freddo, non caldo, non sete, non fame; n li da noia se mostra pi le coscie che l capo o vero altro pi dishonesto membro. Si muore, e il pitaffio scrive cos al nome suo per le lingue delle genti, come in ne marmi scritti quelli che di eloquentia pieni con tanti travagli hanno passato questa vita; e trovansi, quando e sono pazzi ecellenti, cos costoro in su le cronache e in su libri come i Cesari et glaltri semidei. Per tanto io mi risolvo, che quando la Signoria Vostra et glaltri vostri di casa mi danno titolo di pazzo, che mi sia una corona altro che di lauro o di mirto, ma di purissimo oro; ancora chio conchiudo che nella mia pazzia godo pi e con manco affanni che non fate voi con cotesti altri Aristotili salvatichi nella vostra sapienza. Perch havete tanto che pestare con le figure vive, che far non vogliono a modo vostro, pi che io con le mie dipinte, che mettono la barba a posta mia e si spogliono e vestano a mio piacere, dormono e vegghiano secondo che mi aggrada: onde mi nasce uno esercito fra mano, ammazzo chio voglio senza mio pericolo e fo vivere chi mi piace e fo le persone partiali in qual si voglia cosa, come sono glhuomini naturali, e mi fanno onore, utile e grado senza fine. Intanto che io, che non ho invidia a cosa vostra nessuna, vi ringratio del titolo che mi date, parendomi che altra lode maggior dar non si possa. E con questo bascio le mani alla Signoria Vostra (17).

Ho voluto qui riprodurre per intero la lettera, oltre che per la sua unicit nel corpus epistolare vasariano, perch da questa lettera data la liberazione di Vasari dal servizio dei Medici: e fu una liberazione che dal 1538 dur fino a quasi tutto il 1554. Questo distacco di Vasari dai Medici stato totalmente taciuto dalla recente critica vasariana: molto pi facile ridurre Vasari a un fedele servitore del potere senza esitazioni; servitore lo fu, come tutti gli artisti di allora, ma con

(17) BRF, cod. ricc. 2354, cc. 58v-60v (poi in Il carteggio di Giorgio Vasari cit., pp. 97-99).

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una propria dignit e con un proprio sentire non comuni. In ogni caso, questa volta Vasari colse nel segno e Ottaviano dovette convincersi che la sua non era stata una risoluzione affrettata e dettata dallo smarrimento seguente alla morte del duca. Vasari pot continuare la sua personale ricerca artistica, di cui tappe fondamentali furono, oltre i momenti di quiete e meditazione nelleremo di Camaldoli, i soggiorni a Roma, Venezia, Napoli, Rimini, i viaggi in Emilia e nel Veneto e i frequenti ritorni in Toscana, a Firenze e Arezzo soprattutto. Nel 1545, per, dopo otto anni di commesse non durature, lormai trentaquattrenne pittore dovette pensare che dopo tanto vagare era venuto il momento di trovare una sistemazione pi stabile. Al suo ritorno da Napoli a Roma entr al servizio del cardinale Alessandro Farnese nellottobre del 1545: fu una decisione favorita probabilmente dallinteressamento degli amici Paolo Giovio e Annibal Caro, ma fu anche una decisione che avrebbe a lungo ostacolato i suoi successivi tentativi di tornare in Toscana e di mettersi al servizio di Cosimo I. Quando questi, figlio di Giovanni dalle Bande Nere, nel 1537 fu tolto dalla sua condizione privata e scelto per diventare il nuovo duca di Firenze dopo lassassinio di Alessandro, si trov ostacolato dalla famiglia Farnese che intendeva estendere alla Toscana la sua politica filofrancese: le ostilit tra Cosimo e i Farnese si manifestarono immediatamente a proposito del matrimonio della vedova di Alessandro de Medici, Margherita dAustria figlia dellimperatore Carlo V, e giunsero al loro culmine con linterdetto comminato a Firenze e ai suoi domini da Paolo III. La politica antimedicea dei Farnese ebbe il suo esecutore proprio in Alessandro Farnese che, oltre ad essere uno dei nipoti favoriti di Paolo III, aveva coagulato attorno a s i fautori della politica antimedicea e in particolare i fuoriusciti toscani che tendevano alla restaurazione di una repubblica a Firenze. Mettendosi al servizio di Alessandro Farnese Vasari sceglieva consapevolmente di schierarsi contro i suoi antichi protettori e credeva di scegliere definitivamente Roma e non Firenze come dimora per la vita. A questo periodo, in particolare tra il 1545 e il 1547, Va-

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sari fa risalire la composizione della prima redazione delle Vite: ancora nella seconda edizione delle Vite del 1568, allorch era un fedele collaboratore di Cosimo I, non ebbe difficolt a riconoscere che limpulso a impegnarsi nella scrittura storica degli artisti gli era venuta dal cenacolo di letterati riuniti attorno ai Farnese. Il racconto di Vasari forse fin troppo noto, ma non sembra inutile riproporlo qui alla luce delle considerazioni sulla temperie storica e politica che abbiamo fatto:
In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo, con bellissimi et onorati ragionamenti, il Molza, Anibal Caro, Messer Gandolfo, Messer Claudio Tolomei, Messer Romolo Amasseo, monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de quali sempre piena la corte di quel signore, si venne a ragionare una sera fra laltre del museo del Giovio, e de ritratti degluomini illustri che in quello ha posti con ordine et inscrizioni bellissime. E passando duna cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averla ancora, daggiugnere al museo et al suo libro degli Elogi un trattato nel quale si ragionasse degluomini illustri nellarte del disegno, stati da Cimabue insino a tempi nostri. Dintorno a che allargandosi, mostr certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti, ma ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava cos in sottile e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, lopere, e non dicea le cose come stavano a punto, ma cos alla grossa. Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me disse il cardinale: Che ne dite voi Giorgio, non sar questa una bellopera e fatica?. Bella, risposio monsignor illustrissimo, se il Giovio sar aiutato da chichesia dellarte a mettere le cose a luoghi loro, et a dirle come stanno veramente. Parlo cos, perci che, se bene stato questo suo discorso maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per unaltra. Potrete dunque, soggiunse il cardinale pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e daglaltri dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti artefici, dellopere loro secondo lordine de tempi. E cos aranno anco da voi questo benefizio le vostre arti. La qual cosa ancor che io conoscessi essere sopra le mie forze, promisi secondo il poter mio di far ben volentieri; e cos messomi gi a ricercare miei ricordi, e scritti fatti intorno a ci, infin da giovanetto, per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva a la memoria de nostri artefici, ogni notizia de quali mi era carissima, misi insieme tutto che intorno a ci mi parve a proposito. E lo portai al Giovio, il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: Giorgio mio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che ottimamente veggio saprete fare, perci che a me non d il cuore, non conoscendo le maniere, n sapendo molti particolari che potrete sapere voi, sanza che quando pure io facessi, farei il pi pi un trattatetto simile a quello di Plinio; fate quel chio vi dico, Vasari, perch veggio che

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per riuscirvi bellissimo, ch saggio dato me ne avete in questa narrazione. Ma parendogli che io a ci fare non fussi molto risoluto me lo f dire al Caro, al Molza, al Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi finalmente, vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che rivedutola et acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio. [VI, 390-91]

La prima redazione era pronta nel 1547, quando a Vasari occorse un incidente privato che lo costrinse a modificare i suoi progetti di vita e le sue aspettative: le lettere e le sue poesie testimoniano dei suoi rapporti con famose cortigiane, ma nuove ricerche darchivio (18) hanno rivelato che in quellanno Vasari ebbe due figli illegittimi da una giovane vedova aretina, Maddalena Bacci. Per Maddalena Vasari dovette provare un amore intenso (19): non dato avere notizie certe del perch quellamore non si concluse con ununione stabile. Forse agirono motivi di convenienza o forse altro (i figli illeggititmi potevano essere riconosciuti, come aveva fatto anni prima lo stesso Paolo III): in ogni caso Maddalena spos un capitano delle milizie ducali e Vasari incaric Vincenzio Borghini di iniziare le trattative per organizzare il matrimonio (una sorta di matrimonio riparatore?) con Niccolosa, la giovanissima sorella di Maddalena, che nel 1547 aveva appena undici anni. Data la giovane et della sposa, Vasari chiedeva nel 1549 di inserire nel contratto di matrimonio la clausola che Niccolosa dovesse stare ancora due anni nella casa dei genitori. La scelta del matrimonio fu sconsigliata da alcuni influenti amici di Vasari, da Paolo Giovio a Pietro Aretino, pi che altro con motivazioni scherzose; certo che il matrimo(18) N. LEPRI A. PALESATI, Fuori dalla corte. Documenti per la biografia vasariana, Montepulciano, Le balze, 2003. Un terzo figlio illegittimo lo ebbe, anni pi tardi, da Isabella Mora. Infecondo fu il matrimonio con Niccolosa Bacci. (19) Si vedano i tentativi di N. Lepri, nellopera citata alla nota precedente, di rintracciare la figura di Maddalena nei dipinti di Vasari. Allamore per Maddalena credo si possa riferire il seguente sonetto di Vasari: Fra l s e l no combatte il senso mio; / Lamor che mhai mi sforza assai amarte, / Lesser daltrui affatto mi diparte / Da te, ma lamor tuo non mettin oblio. / Tanto quanto vivr, tuo sar io, / Ma non di notte, per chin altra parte / Tendo mie rete e do lalma in disparte, / Che l buon cercando vo fuggendo il rio. / Mi sar grato sempre haver suggetto / Dimostrarti lamor dogni interesso / E far dobligation per esser sciolto. / Tu pi sarai di te, n con rispetto / Vivrai di me, e lontano e dappresso, / N pi paura harai chio ti sia tolto. Cito dal Ms. Ricc. 2948, c. 21r. (gi edita con errori in SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 282).

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nio, pi o meno voluto, costringeva Vasari a rivedere i suoi progetti: spingeva a trovare una sistemazione in Toscana e precludeva, volendo continuare la carriera a Roma, la possibilit di scegliere la strada chiericale e di ottenere dei benefici ecclesiastici, come testimoniano i primi versi di un suo forse inconcluso capitolo poetico A Michelagnolo Buonarruoti:
Consiglio a voi, messer, che siate vecchio, Chieggio, per che gran pratica ci havete, Sendo darte e di senno eterno specchio, Mi trovo qui lontan, come sapete, Da casa mia, servendo questa corte E non posso, chho moglie, esser pi prete. Non so che posso haver dalla mia sorte Che l far ben e l far mal qua tuttuno, Anzi chi meglio, si stragina alla morte (20).

Gli ultimi versi fanno propendere per lipotesi che questo frammento di capitolo sia stato composto tra il 1550 e il 1555, durante il pontificato di Giulio III, gi cardinale Gian Maria Ciocchi Del Monte, cio di Monte San Savino nei pressi di Arezzo. Dopo la morte di Paolo III, avvenuta il 10 novembre 1549, Vasari dovette propendere per la decisione di staccarsi dai Farnese e puntare su un ritorno a Firenze: in questo senso prese la decisione di dedicare a Cosimo I le Vite che erano allora sotto i torchi della stamperia ducale dei Torrentino a Firenze. Soltanto tre mesi dopo, lelezione al soglio pontificio di Giulio III rimetteva tutto in discussione e riproponeva a Vasari lalternativa tra Firenze e Roma. Lultima terzina citata del capitolo a Michelangelo registra la delusione che poco dopo Vasari avrebbe provato davanti alla volubilit di committente di Giulio III, sul quale nelledizione giuntina delle Vite avrebbe poi espresso giudizi molto duri, e che lo avrebbe convinto a tornare in Toscana per riunirsi con la moglie e possibilmente entrare al servizio di Cosimo. Ma in quellinizio del 1550 lelezione di Giulio III, che aveva fatto grandi promesse a Vasari (21), dovette far sorgere forti dubbi in lui
(20) Ricc. 2948, 16v (e SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 277). Non raro trovare versi ipermetri nelle poesie di Vasari. La forma stragina forma regionale per strascinare, ben attestata in Vasari. (21) Perci che andando io fuor di Fiorenza ad incontrare il cardinal di Mon-

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e soprattutto nel suo amico Borghini che con una lettera del 22 febbraio 1550 non tard a rimproverargli leccessiva fretta nel dedicare lopera e a consigliargli di scegliere Roma come residenza:
Messer Giorgio mio, voi havesti la fretta maggiore a prometter, voi mintendete, che havete persa unoccasione dutile et dhonore, che Dio sa quanto ve ne verr simile a mano. Et pi hora lo conosco che veggo quello che mi scrivete, anchor che subito che fu creata S. Santit, io ci corsi con lanimo; hor sia con Dio! Noi siamo qui; et, in quanto a me, non mi dispiace punto il disegno vostro, et per me lo farei in ogni modo et cos si potessi far di tutta: che sarebbe principio forte di qualche edifitio buono per voi, anchor che, per la gratia di Dio et per le qualit vostre et per lo animo che si vede in S. Santit, spero che non vi sia per manchare nessuno buono et honorevole partito appresso di lui. N dico questo: che ella non sia ottimamente allogata per mille conti dove lavete disegnata; ma per esser questa cosa del Papa, cosa nuova, et questa altra, per tanti libri dedicatili, quasi horamai stucca, quelle cose che vengono prime et fresche nno un certo che di buono, che poi quando si fatto il callo non si stiman tanto; voi mintendete meglio chio non dico (22).

Ad ogni buon conto la prima edizione delle Vite usc con la dedica a Cosimo. La speranza di Vasari era di ingraziarsi il duca con questa dedica e di far dimenticare a lui e alla corte il periodo passato al servizio del suo peggior nemico. Sebbene Paolo III fosse morto (e poco dopo di lui, il 31 gennaio 1550, era morto un altro acerrimo nemico dei Medici, il cardinale Ridolfi), il cardinale Alessandro Farnese non desisteva dalla politica antimedicea e organizzava insieme agli esuli fiorentini a Roma le attivit che avrebbero portato alla guerra

te, che passava per andare al Conclavi, non gli ebbi s tosto fatto riverenza et alquanto ragionato, che mi disse: Io vo a Roma, et al sicuro sar papa. Spedisciti, se hai che fare, e subito, avuto la nuova, vientene a Roma sanza aspettare altri avvisi o dessere chiamato. N fu vano cotal pronostico, per che essendo quel carnovale in Arezzo, e dandosi ordine a certe feste e mascherate, venne nuova che il detto cardinale era diventato Giulio Terzo, per che montato subito a cavallo venni a Fiorenza, donde, sollecitato dal Duca, andai a Roma per esservi alla coronazione di detto nuovo Pontefice et al fare dellapparato [VI, 397]. (22) Il carteggio di Vincenzio Borghini, I (1541-1552), lettere in lingua italiana a cura di D. Francalanci e F. Pellegrini, lettere in lingua latina a cura di E. Carrara, Firenze, S.P.E.S., 2001, p. 303. Per i problemi relativi alledizione torrentiniana e in particolare alla dedica dellopera rimando a M. POZZI E. MATTIODA, Giorgio Vasari storico e critico, Firenze, Olschki, 2006, pp. 1-7.

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nel senese del 1554. La lettera con cui Vasari lotto marzo del 1550 accompagna linvio al duca della prima copia delle Vite affronta apertamente il punto del suo passato al servizio dei Farnese:
[] Et ancora che per essere io subietto basso et non meriti favor nessuno da Quella n venire in consideratione di s gran principe, sElla riguardera alla servit di XXII anni che ho fatto a la Illustrissima Casa Vostra, e con quanta devotione io abbi spettato che mi si comandi, ancor che non sia stato messo da Vostra Eccelentia in opera, merci forse dun biasimo che per campar dallo stento mi conuenuto andar a trouar di luogho in luogho chi mi metta in opera, ho fatto per servire ogni vilissima cosa: che se forse io fussi stato dalla piet di qualcuno, come soglion gli altri che si mettono in opera, arei fatto forse frutti migliori. Ora, come io mi sia, non avendo altro obbietto n altra speranza che nella bont e benignit Vostra, liberalissimamente, oltra lo avervi fatto presente di me, vi porgho non le fatiche e lo stento di duo mesi, ma quelle di dieci anni [] (23).

Lopposizione al ritorno di Vasari a Firenze era forse sostenuta dagli artisti che lavoravano per Cosimo, come stato sostenuto traendo dubbie conseguenze dai severi giudizi di Vasari su alcuni di essi (24); ma le critiche rivolte a Vasari non erano di carattere artistico, bens politico: Cosimo veniva sconsigliato di portarsi in casa uno che a Roma era stato al servizio dei Farnese e che probabilmente aveva allacciato rapporti con i fuoriusciti fiorentini. Dei contatti con la parte antimedicea testimonia lelenco delle copie della Torrentiniana da inviare in omaggio a Roma (25): se si eccettuano il Signor Baldovino, cio il fratello di Giulio III, e lo spagnolo cardinale di Burgos, lelenco comprende quattro cardinali ostili ai Medici come Alessandro Farnese, Salviati, Georges dArmagnac e Rodolfo Pio da Carpi (nunzio apostolico in Francia), e altre personalit che per motivi diversi si ritrovavano nella parte antimedicea: Annibal Caro che stava con i Farnese, il banchiere Bindo Altoviti della cui posizione antimedicea si dir tra poco, e Michelangelo. Vasari inviava in omaggio le copie a queste personalit non solo per riconoscenza, ma an-

(23) Il carteggio di Giorgio Vasari cit., p. 270 (corsivo mio). (24) A. PINELLI, La bella maniera cit. (25) Il carteggio di Giorgio Vasari cit., p. 281.

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che perch nel marzo del 1550 Roma si riproponeva come una scelta auspicabile, nonostante il matrimonio. La dedica dellopera a Cosimo non sort immediatamente leffetto sperato, alla fine del 1549, di una sistemazione definitiva a Firenze. Vasari, dopo lelezione al soglio pontificio di Giulio III, continu a sognare una sistemazione definitiva a Roma. Nel giro di pochi mesi si dovette per rendere conto che Giulio III come committente non era allaltezza di Paolo III e del nipote Alessandro Farnese: i continui ripensamenti e le indecisioni di quel pontefice erano dovuti in gran parte alla sua incapacit di dominare la corte; linfluenza dei cortigiani e dei cardinali era fonte di continua instabilit e rendeva impossibile una progettazione a medio termine. Una tale situazione riproduceva gli aspetti pi negativi delle corti: non il principe, ma i cortigiani detenevano il potere effettivo, e occorreva adularli per giungere ad avere le commesse. Fu probabilmente in questo periodo che Vasari matur la convinzione che era preferibile aver a che fare con un committente deciso, sovrano nelle sue decisioni, piuttosto che con una pletora di cortigiani, convinzione che egli avrebbe poi manifestato apertamente nella Giuntina a proposito della fuga da Venezia di Paris Bordon (cfr. infra 2). Questa situazione dovette fargli ricordare le sue meditazioni sulla follia umana espresse nel 1538 a Ottaviano de Medici, come attesta un capitolo poetico alla moglie Niccolosa Bacci riferibile con buona probabilit allinizio del 1552 (26):
[] Nessun si mosse mai che non andassi Per far un suo disegno, e la fortuna Col contrario suo far nol gliel guastassi, S che colui che assai cose raguna Di ricchezze, muraglie e possessioni unombra cieca al sciemo della luna! Per che le nostre vane openioni, Che fan disegni per perpetuarsi Quaggi, che non son nostre abitationi,

(26) Ai vv. 56-7 afferma: N ti dar passion chio ti prometto / Esser cost di carnovale il giorno. Appunto tra la fine di febbraio e linizio di marzo del 1552 Vasari si mosse da Roma alla volta di Arezzo, cosa che non accadde negli altri anni.

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Color che pensier fanno in Dio fermarsi E da lui riconoscano ogni bene A quelli il Paradiso debba darsi. (vv. 10-21) (27).

A queste considerazioni faceva immediatamente seguito la critica della corte:


Certo chio mertar debbo queste pene Chio patisco, ogni giorno in questa corte, Che chi fa ben, quasi mal sempre gli viene. Conosco ben che la mia vana sorte, Per acquistar pi fama e pi ricchezze, Mi tien lontan da te, cara Consorte. (vv. 22-27)

Il problema veniva individuato nella necessit di riunirsi con la moglie, ma la soluzione poteva venire solo dalla decisione del luogo in cui lartista si sarebbe stabilito, in Toscana o a Roma:
Hor, poi che chiara io ho dal ciel la vista, E chel mio mal conosco e la tuo voglia, Vo lasciar questa vita amara e trista: Caver te di pensier e me di doglia Col venir io cost, o tu a Roma: Questo un s, chal cor mai pi si spoglia. (vv. 40-45)

Vasari non era in grado di prendere una decisione. A spingerlo a lasciare Roma per tentare una problematica sistemazione a Firenze fu la stanchezza di Giulio III e della sua corte. Dalla fine del 1551 Vasari tent di liberarsi dalle commesse papali, ma non pot fare a meno di assolvere a un debito di ospitalit che certo non deponeva a favore della sua fedelt medicea e della sua volont di stabilirsi a Firenze. Infatti, per anni a Roma Vasari era stato ospitato dal grande banchiere Bindo Altoviti: per ripagare lospitalit Vasari dovette affrescare le logge del palazzo di Bindo in riva al Tevere. Fu un lavoro che esegu in tre periodi compresi tra lautunno del 1551 e quello del 1553: e fu anche un lavoro eseguito di mala voglia, avendo ormai determinato di stabilirsi in Toscana, possibilmente a Firenze al servizo di Cosimo, o piuttosto di essere un libero pittore che vive di commesse effimere e del profitto dei terreni acquistati. Oltre alla volont di svincolarsi da
(27) Ricc. 2948, c. 30v (SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 290).

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Giulio III, il malanimo di Vasari era forse dettato dal fatto che lavorare per Bindo Altoviti era altrettanto compromettente che lavorare per i Farnese. Infatti, dal 1549 e poi dichiaratamente dal 1553, il banchiere (28) aveva sciolto il suo nicodemismo politico e aveva preso decisamente posizione finanziando i fuoriusciti antimedicei: ancora una volta Vasari si trovava dalla parte sbagliata proprio quando progettava di tornare a Firenze ed entrare al servizio di Cosimo. Troppo, infatti, pesavano i suoi rapporti romani per permettergli di essere accolto a Firenze al servizio del duca: cos scelse di fare un lungo soggiorno in Toscana dal novembre 1552 alla primavera del 1553; e, nel novembre dello stesso 1553, dopo aver terminato di affrescare palazzo Altoviti, Vasari prese la decisione di abbandonare definitivamente Roma e di trasferirsi ad Arezzo per vivere insieme alla moglie, riprendendo ad essere un pittore libero che viveva di ordinazioni da parte di ordini religiosi o di privati. Neppure questo taglio netto con Roma sort subito leffetto sperato di una chiamata da parte di Cosimo; e nemmeno le mediazioni del vescovo di Cortona Gian Battista Ricasoli e di quello di Arezzo Bernardetto Minerbetti riuscirono a risolvere in breve tempo la questione. Cosimo non prese una decisione ma si limit a commentare che vedeva Vasari non troppo convinto e sempre sul piede di partenza a ogni richiamo romano; si veda in proposito la lettera del Minerbetti a Vasari del 7 ottobre 1553:
Se voi dite da vero di voler mangiar loca a Arezzo, voi pagherete al debito cogniugale e vi reconcilierete con quel vostro Talassio che dentro alla porta di messer Ottaviano mi par che vi guardi con occhio bieco fin di qua. E consolando li amici, sgannerete il duca mio signor, che a ogni motto che di voi li vien detto risponde: E non ha fermezza, come quello che dubita che dandovi qualche faccenda, o da Sua Santit o da altri interrotto e corrotto, voi non lo piantiate (29).

(28) Cfr. P. SIMONCELLI, Esuli fiorentini al tempo di Bindo Altoviti, in Ritratto di un banchiere del Rinascimento. Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini, a cura di A. Chong, D. Pegazzano, D. Zikos, Milano, Electa Boston, Isabella Stewart Gardner Museum, 2004, pp. 285-327. (29) Il carteggio di Giorgio Vasari cit., p. 367. Il testo stato ricontrollato sulloriginale conservato a Casa Vasari di Arezzo ed stato perci possibile correggere la data e altre scorrettezze. Il mangiare loca un riferimento alla data di San Martino.

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Labbandono di Roma e il domicilio stabile ad Arezzo dovettero convincere Cosimo; ma proprio tra il 1553 e il 1554 si verific la ripresa della guerra con i fuoriusciti fiorentini che avevano invaso il senese e giunsero a minacciare Firenze. Soltanto un evento storico che mettesse fine alle speranze dei fuoriusciti poteva far realizzare nello stesso tempo le speranze di Vasari e permettere a Cosimo una politica artistica di grande respiro: questo avvenne il 2 agosto del 1554 a Marciano, dove lesercito dei fuoriusciti agli ordini di Piero Strozzi sub la disfatta definitiva da parte delle truppe ducali al comando del Marignano. A quel punto le speranze dei repubblicani fiorentini tramontarono definitivamente; Cosimo, nonostante la continuazione della guerra di Siena, poteva impostare una politica artistica degna di un principe e Vasari non era pi sospetto di vicinanza al nemico: nemmeno quattro mesi dopo, nel dicembre 1554, veniva chiamato al servizio di Cosimo. La successiva collaborazione di Vasari alla politica urbanistica e artistica di Cosimo cosa nota; alcuni anni dopo, quando era ormai papa quel Pio V che impost una politica di stretta alleanza con Cosimo, Vasari pot indirizzare al papa una sonettessa in una delle cui code celebrava il suo allontanamento dai Farnese:
Colui che fu gi nostro, Dir Farnese, stato conosciuto Le sua virt; or ce lhavin perduto (30).

E in un sonetto Al Granduca Cosimo (dunque posteriore al 1569 se giusto il titolo riportato dal Ricc. 2948 anno in cui Pio V assegna il titolo granducale a Cosimo) Vasari poteva finalmente scrivere lepitaffio e porre la pietra tombale sulle passate indecisioni tra Firenze e Roma:
Tuo son e sar, fin che questalma Sta drento a questa spoglia, e poscia spero Viver per lopre mie con teco al paro. Per te la virt mia vive oggi in calma N spera pi nel successor di Pietro Ma in te, che troppo mami e mi tien caro (31).

(30) Ricc. 2948, c. 4r (SCOTI BERTINELLI, Giorgio Vasari cit., p. 265). (31) Ricc. 2948, c. 12r (Ivi, p. 273) con probabili errori del copista secentesco (Pietro per Piero, ecc.).

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2. Architettura e politica Il percorso che abbiamo cercato qui di riassumere ha avuto effetti decisivi sul pensiero e sullopera letteraria di Vasari; ma la maturazione intellettuale e artistica di Vasari a Roma si probabilmente nutrita, oltre che dei rapporti con il gruppo dei letterati farnesiani, anche dei rapporti con i repubblicani fiorentini e con il pensiero politico e storiografico elaborato a Firenze dopo il 1494 per cercare di spiegare gli imprevisti mutamenti nella politica locale e internazionale: un pensiero che, soprattutto per quanto riguarda Machiavelli e Guicciardini, ha lasciato tracce evidenti nellopera di Vasari. Se allora ebbe contatti diretti con i fuoriusciti fiorentini a Roma, Vasari cerc poi di cancellarli accuratamente nel periodo in cui fu al servizio di Cosimo. Proprio un silenzio molto interessante di Vasari potrebbe rimandare ai contatti con gli esuli fiorentini: mi riferisco al suo silenzio su chi lo ha minutamente informato sullattivit degli artisti italiani alla corte di Francia. Vasari in Francia non and mai e non pu aver visto le opere l eseguite dagli artisti italiani, da fra Giocondo a Leonardo, fino al Rosso Fiorentino, Paris Bordon e Francesco Primaticcio: qualcuno che stava a Parigi deve averlo informato e Vasari, altrove sempre pronto a ringraziare chi gli ha fornito ragguagli (32), su questo punto tace. Il problema in questione stato oggetto di esame dal punto di vista ristretto della critica leonardesca, ma credo vada affrontato dal punto di vista pi ampio delle notizie che Vasari pot avere dalla Francia. Certo la descrizione che Vasari fa di Monna Lisa pone grossi problemi (33). Ma, nel caso Vasari non abbia mai visto quel quadro, doveva allora fidarsi ciecamente del suo informatore delle cose francesi visto che valuta il dipinto col suo metro di giudizio pi alto in assoluto (34), quello della produzione di timore e tremore negli intendenti e negli artefici, giudizio

(32) Cfr. POZZI- MATTIODA, Giorgio Vasari storico e critico cit., pp. 70-71. (33) Cfr. almeno F. ZLLNER, Leonardo's Portrait of Mona Lisa del Giocondo, in Gazette des Beaux-Arts, CXXI, 1993, pp. 115-138; C. VECCE, Leonardo, Roma, Salerno editrice, 1998, pp. 256-59, 324-26 e 332-336 (34) Sui criteri di giudizio di Vasari rimando a POZZI - MATTIODA, Giorgio Vasari storico e critico cit., pp. 231-260.

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che assegna a sole due altre opere: la cupola di Brunelleschi e il Giudizio universale di Michelangelo. Una spia dellambiente da cui gli giunsero le informazioni pu venire da un aneddoto su uno scherzo subito da fra Giocondo alla corte di Francia, aneddoto aggiunto nella Giuntina del 1568: qui Vasari ci dice che linformazione gli stata fornita da Donato Giannotti. improbabile che Giannotti sia la fonte diretta delle informazioni sugli artisti in Francia, anche perch non certo che sia mai stato a Parigi (sicuramente and due volte a Lione per conto del cardinale di Tournon), ma la presenza dellex segretario dei dieci della repubblica fiorentina del 1527-30 sembra aprire uno spiraglio verso le frequentazioni romane di Vasari. Certo entrambi a Roma frequentavano Michelangelo, attorno al quale si radunavano altri fiorentini, dei quali talvolta difficile riconoscere la posizione politica: certo, invece, che rispetto ai pochi personaggi citati nella Torrentiniana (Tommaso de Cavalieri, Bindo Altoviti, Gherardo Perini, Bartolomeo Bettini), nella Giuntina lelenco si allunga a comprendere Tiberio Calcagni, Francesco Bandini, Uberto Ubaldini, Tommaso de Bardi, il cardinale Ridolfi. Giannotti viene citato pi volte nella Giuntina, segno di una certa frequentazione, e forse i due si erano rivisti durante il soggiorno di Vasari a Venezia nel 1566: la sua presenza, come quella degli altri, nella Giuntina indica che a quel tempo Vasari riteneva talmente sicura la sua posizione a Firenze da poter citare anche i fedeli sostenitori della repubblica, ma sembra essere anche un omaggio a uno degli ultimi pensatori politici, verso cui mostra stima anche quando in disaccordo con le sue idee. Un confronto con le idee di Donato Giannotti forse ravvisabile nella vita di Paris Bordon, che offre un modello alternativo a quella di Tiziano che la precede: Vasari cerca qui di smontare il mito repubblicano di Venezia, mito ben presente nella cultura politica non solo fiorentina, ma che aveva trovato la sua sistemazione pi organica nel Della Repubblica de Viniziani del Giannotti: egli nega la mitizzazione dellordinamento veneziano come esempio di governo misto e afferma come sulla laguna prevalgano interessi privati e di parte:

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Ma conoscendo Paris che a chi vuole essere adoperato in Vinezia bisogna far troppa servit in cortegiando questo e quello, si risolv, come uomo di natura quieto e lontano da certi modi di fare, ad ogni occasione che venisse andare a lavorare di fuori quellopere che innanzi gli mettesse la fortuna, senza averle a ire mendicando; per che trasferitosi con buona occasione lanno 1538 in Francia al servizio del re Francesco, gli fece molti ritratti di dame et altri quadri di diverse pitture [] E questo basti aver detto di Paris, il quale essendo danni settantacinque, se ne sta con sua comodit in casa quietamente, e lavora per piacere a richiesta dalcuni prncipi et altri amici suoi, fuggendo la concorrenza e certe vane ambizioni per non essere offeso e perch non gli sia turbata una sua somma tranquillit e pace da coloro che non vanno (come dice egli) in verit, ma con doppie vie, malignamente e con niuna carit, l dove egli avezzo a vivere semplicemente e con una certa bont naturale, e non sa sottilizzare, n vivere astutamente. [VI, 172-3]

Niente di strano, si dir: prevedibile che nel 1568 il fedele suddito di Cosimo I non condivida il mito repubblicano od oligarchico di Venezia; ma qui c di pi, c tutta la distanza tra la nuova generazione che preferiva la pace garantita dal sovrano, e la vecchia che rivendicava la libert repubblicana: non solo per Vasari quello della repubblica un mito superato, ma molto meglio per lartista servire un sovrano assoluto, piuttosto che un governo repubblicano oligarchico; questultimo avviluppa lartista in una ragnatela di clientele, di servit e di speranze per lo pi deluse; molto meglio allora il rapporto diretto, seppur rischioso, con il principe. La condizione dellarte moderna non prevede pi spazio per trattative esasperanti n reti di salvataggio come potevano essere le botteghe e le corporazioni: il rapporto diretto dellartista con il committente, che Vasari fa iniziare con Leonardo (la cui vita non a caso apre la terza e ultima et dellarte), ha fatto finire la tradizione delle botteghe e ha condotto a un diverso ruolo dellartista. Il rapporto tra il grande committente (che sia il re di Francia o il duca di Firenze) e lartista viene letto da Vasari come un rapporto di forza asimmetrico che richiede da parte dellartista il raggiungimento di una grande statura morale e intellettuale per saper fronteggiare linterlocutore. Gran parte della riflessione vasariana dedicata proprio a delineare come lartista debba maturare la propria Bildung e giungere a comportarsi davanti alle situazioni diverse che la fortuna gli propone. questa una teorizzazione che gli

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sarebbe stata impossibile senza la lezione e il linguaggio degli storici fiorentini e di Machiavelli in particolare. Vasari fa risalire al suo primo periodo romano lo studio dellarchitettura, ma probabile che in quel tempo abbia condotto, o almeno approfondito, anche lo studio degli scrittori di storia e di politica (35), visto il fruttuoso scambio di concetti e di termini tra i due ambiti nella sua opera. Luso del lessico architettonico nelle teorie politiche del Rinascimento cosa nota (36); quello che stupisce in Vasari il processo inverso: luso del linguaggio politico per descrivere i mutamenti artistici. Vasari non solo ha usato i concetti principali della storiografia politica per costruire la sua visione della storia dellarte ma, per di pi, dove non aveva un lessico per indicare certi avvenimenti o categorie artistiche, lo ha mutuato dal linguaggio della politica. Il caso pi evidente mi sembra quello del termine licenzia, che viene inserito da Vasari allinterno di una rete lessicale di termini, come ordini e regola, compresenti con connotazioni diverse nel linguaggio politico e in quello architettonico. Nella ricostruzione storica di Vasari, larte del Quattrocento aveva iniziato il recupero della conoscenza dellantico: in particolare Brunelleschi e Donatello nella pratica e Alberti anche a livello teorico avevano imposto la ripresa delle simmetrie e delle leggi architettoniche antiche, quelle che anche in Vasari contribuiscono a precisare la regola, e avevano distinto e imposto i vari ordini architettonici. Ma se il tardo Quattrocento aveva seguito con studiata accuratezza (e quindi con affettazione) la regola e gli ordini, il Cinquecento introduce una funzione liberatoria, anarchica proprio rispetto alla regola e agli ordini, ed questa che per analogia col linguaggio politico Vasari chiama licenzia. Il concetto di licenza,
(35) Vasari giunge a Roma allinizio del 1538 su invito del cardinale Ippolito de Medici. In quel periodo la clientela del cardinale, insieme a quella di Giovanni Gaddi (che comprende, tra gli altri, Caro e Varchi) impegnata nella preparazione delledizione delle opere di Machiavelli. Cfr. LO RE, op. cit., pp. 170-71. (36) Oltre alle pagine di J.W. WHITFIELD, On Machiavellis Use of Ordini, in ID., Discourses on Machiavelli, Cambridge, W. Heffers & Sons, 1969, pp. 141-162, mi sembra fondamentale lanalisi del lessico politico machiavelliano condotta da J.L. FOURNEL e J.C. ZANCARINI, Sur la langue du Prince: des mots pour comprendre et agir, in MACHIAVEL, Le Prince De principatibus, Paris, P.U.F., 2000, pp. 545-610. Si vedano anche le considerazioni di F. BRUNI, La citt divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 461-62.

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che limitatamente alla pittura coincide con quello castiglionesco di sprezzatura, viene elaborato e definito da Vasari allinterno di una rete lessicale propria del linguaggio politico:
[] mancandoci ancora nella regola, una licenzia, che non essendo di regola, fosse ordinata nella regola e potesse stare senza fare confusione o guastare lordine, il quale aveva bisogno duna invenzione copiosa di tutte le cose e duna certa bellezza continuata in ogni minima cosa, che mostrasse tutto quellordine con pi ornamento (IV, 5).

Vasari sostituisce a sprezzatura il termine licenza, probabilmente avendo in mente luso che di questo vocabolo faceva la storiografia non solo fiorentina come della forma degenerata della democrazia. Allinterno della sua costruzione progressiva della storia dellarte, dalla rinascita verso la perfezione, Vasari si occupa anche di indagare quali siano le forze che possono portare alla decadenza. Posso supporre (ma non provare) che avesse in mente in particolare quel passo del Proemio al quarto libro delle Istorie fiorentine, dove Machiavelli oppone le citt ben ordinate, quelle cio che sono fondate su buone leggi e su un governo misto, a quelle che possono essere preda della licenza (37). Vasari assume allora dal linguaggio politico il termine licenzia in opposizione alla regola e agli ordini, che ha appena teorizzato come principi dellarte insieme alla misura, al disegno e alla maniera, ma che erano termini fondamentali della discussione politica sullo stato. Per i trattatisti darte precedenti, e per Alberti in particolare, la regola, cio la legge in architettura, ripresa dagli edifici antichi; gli ordini sono i differenti stili architettonici; la misura la proporzione nelle membra, ecc. Vasari sostiene che la terza et dellarte ha saputo raggiungere la perfezione perch in questi cinque principi ha inserito una licenzia, un principio anarchico che stato ordinat[o] nella regola: teorizza, cio,

(37) Le citt, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sotto nome di republica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro, non mediante la libert e la servit, come molti credono, ma mediante la servit e la licenza. Perch della libert solamente il nome dai ministri della licenza, che sono i popolani, e da quegli della servit, che sono i nobili, celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere n alle leggi n agli uomini sottoposto. Si veda ancora: Istorie fiorentine, VIII, 29; Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I, 2 -3; I, 47. Di Guicciardini si tengano almeno presenti Storia dItalia, II, 2 e V, 9.

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la perfezione dellarte alla stregua dello stato ben regolato, in cui la regola e gli ordini possono prevedere la trasgressione. Tradotto nel linguaggio dellarte significa trovare un principio di libert allinterno del classicismo, inglobare linvenzione dentro alle regole, agli ordini, alle misure. Da un punto di vista terminologico Vasari riprende il lessico dei teorici del classicismo, Alberti in particolare, ma lo rivolta contro di loro iniziando la critica alla regola matematica delle proporzioni e alla simmetria degli ordini (38). Daltro canto, le conseguenze di una simile teorizzazione per limpianto storico complessivo dellopera vasariana non sono di poco conto: se la licenza originariamente una forza disgregatrice, quella che pi di ogni altra spinge verso la decadenza, laverla regolata dentro la legge significa averle posto un freno, aver dato un governo cos perfetto allarte che molto difficilmente potr ripiombare in una decadenza generalizzata, in un disordine degli ordini: lunica decadenza possibile potr essere a questo punto quella personale dellartista che smette di studiare e si limita a tirar di pratica. Laver inglobato la licenza nella regola permette un passo in avanti finale, soprattutto per quanto riguarda larchitettura, in cui si passa dalla sgraziata regola senza regola degli architetti del Duecento al superamento degli ordini nellordine composito (un ordine senza ordine, si potrebbe dire) ottenuto da Michelangelo grazie alla licenzia nella sacrestia di San Lorenzo a Firenze:
E perch egli la volse fare ad imitazione della sagrestia vecchia, che Filippo Brunelleschi aveva fatto, ma con altro ordine di ornamenti, vi fece dentro uno ornamento composito, nel pi vario e pi nuovo modo che per tempo alcuno gli antichi et i moderni maestri abbino potuto operare; perch nella novit di s belle cornici, capitegli e base, porte, tabernacoli e sepolture, fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola facevano gli uomini secondo il comune uso e secondo Vitruvio e le antichit, per non volere a quello agiugnere. La quale licenzia ha dato grande animo a quelli che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca pi tosto che a ragione o regola, a loro ornamenti. Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via duna strada comune eglino di continuo operavano [VI, 54-55].
(38) Cfr. POZZI - MATTIODA, Giorgio Vasari storico e critico cit., pp. 260-283.

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Il fatto che Vasari abbia scritto una storia degli artisti ha in qualche modo ostacolato la percezione della sua opera come una delle grandi opere della storiografia rinascimentale; si studiata parzialmente la sua concezione della storia, ma non si tenuto conto dei modelli storiografici recenti che gli permisero di giungere a pensare e organizzare unopera cos complessa. Eppure Vasari, sostenendo di essersi ispirato agli storici, si riferiva non certo ai vecchi cronisti (39) ma alla moderna storiografia, in particolare a quella fiorentina: gli storici e i teorici della politica che cita sono Machiavelli, Guicciardini (di cui conosceva, probabilmente attraverso la copia manoscritta in mano di Vincenzio Borghini, la Storia dItalia che poi user ampiamente nei Ragionamenti) e Donato Giannotti (40). Vasari rivendica la sua condizione di storico, non di cronachista o di raccoglitore di notizie; quello che lo distingue da questi ultimi lattenzione alla prudenza, o piet o magnanimit, che gli uomini usano nelle loro azioni; lindagine sulle cause, i rapporti, le decisioni e le motivazioni delle azioni per giungere alla storia come insegnamento:
Quando io presi primieramente a descrivere queste Vite, non fu mia intenzione fare una nota delli artefici et uno inventario, dir cos, dell'opere loro, n giudicai mai degno fine di queste mie, non so come belle, certo lunghe e fastidiose fatiche, ritrovare il numero et i nomi e le patrie loro, et insegnare in che citt et in che luogo appunto di esse si trovassino al presente le loro pitture o sculture o fabriche; ch questo io l'arei potuto fare con una semplice tavola, senza interporre in parte alcuna il giudizio mio. Ma vedendo che gli scrittori delle istorie, quegli che per comune consenso hanno nome di avere scritto con miglior giudizio, non solo non si sono contentati di narrare semplicemente i casi seguiti, ma con ogni diligenza e con maggior curiosit che hanno potuto, sono iti investigando i modi et i mez-

(39) Eccezion fatta per Villani che, insieme alla Storia dItalia di Guicciardini, anche una delle fonti pi importanti per i Ragionamenti in cui Vasari spiega le allegorie dei dipinti eseguiti a Palazzo Vecchio. (40) Le Vite di Vasari agirono anche in senso inverso: indussero altri storici a precisare o correggere le proprie notizie. il caso della correzione che Benedetto Varchi apport in un manoscritto della Storia fiorentina. Nel quarto libro attribuiva a Giotto la tavola dellAnnunziata conservata nella chiesa dei frati dei Servi: nel manoscritto indicato da Simone Albonico come RC4 compare una correzione autografa che sposta lattribuzione a Pietro Cavallini, in seguito alla conoscenza delle Vite vasariane (cfr. Storici e politici fiorentini del Cinquecento, a cura di A. Baiocchi, testi a cura di S. Albonico, Milano-Napoli, Ricciardi, 1994, pp. 1089-90).

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zi e le vie che hanno usati i valenti uomini nel maneggiare l'imprese, e sonsi ingegnati di toccare gli errori, et appresso i bei colpi e' ripari e' partiti prudentemente qualche volta presi ne' governi delle faccende, e tutto quello insomma che sagacemente o straccuratamente, con prudenza o con piet o con magnanimit hanno in esse operato, come quelli che conoscevano la istoria essere veramente lo specchio della vita umana, non per narrare asciuttamente i casi occorsi a un principe o d'una republica, ma per avvertire i giudizii, i consigli, i partiti et i maneggi degli uomini, cagione poi delle felici et infelici azzioni; il che proprio l'anima dell'istoria; e quello che invero insegna vivere e fa gli uomini prudenti, e che appresso al piacere che si trae del vedere le cose passate come presenti, il vero fine di quella; per la qual cosa avendo io preso a scriver la istoria de' nobilissimi artefici, per giovar all'arti quanto patiscono le forze mie, et appresso per onorarle, ho tenuto quanto io poteva, ad imitazione di cos valenti uomini, il medesimo modo; e mi sono ingegnato non solo di dire quel che hanno fatto, ma di scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono, e l'ottimo dal migliore, e notare un poco diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e le fantasie de' pittori e degli scultori; investigando, quanto pi diligentemente ho saputo, di far conoscere a quegli che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e del miglioramento e peggioramento delle arti accaduto in diversi tempi et in diverse persone. [III, 3-4]

allinterno di questa impostazione che il giudizio storico viene a fare i conti con un concetto ben noto della storiografia rinascimentale, quello di qualit de tempi (41), che Vasari richiama nel Proemio alla seconda et in un paio di affermazioni tese a stabilire una sorta di relativismo storico nellapplicazione del giudizio artistico:
Bene vero che quantunque la grandezza delle arti nasca in alcuno da la diligenza, in un altro da lo studio, in questo da la imitazione, in quello da la cognizione delle scienzie che tutte porgono aiuto a queste, e in chi da le predette cose tutte insieme o da la parte maggiore di quelle, io nientedimanco, per avere nelle vite de particolari ragionato a bastanza de modi de larte, de le maniere e de le cagioni del bene e meglio e ottimo operare di quelli, ragioner di questa cosa generalmente, e pi presto de la qualit de tempi che de le persone, distinte e divise da me, per non ricercarla troppo minutamente, in tre parti, o vogliamole chiamare et, da la rinascita di queste arti sino al secolo che noi viviamo, per quella manifestissima differenza che in ciascuna di loro si conosce (III, 5-6). Ma chi considerer la qualit di que tempi, la carestia degli artefici, la difficult de buoni aiuti, le terr non belle, come ho detto io, ma miracolose, e ar piacere infinito di vedere i primi principii e quelle scintille di buono che nelle pitture e sculture cominciavono a risuscitare (III, 13-4).

(41) Cfr. in proposito J.L. FOURNEL e J.C. ZANCARINI, Sur la langue du Prince cit.

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Il giudizio sui pittori e sulla loro importanza relativo alla qualit de tempi, deve cio tener conto delle conoscenze e della situazione in cui gli artisti si trovarono ad agire. in questo ambito che si rivela limportanza che Vasari doveva attribuire al XXV capitolo del Principe di Machiavelli, sul quale doveva aver attentamente meditato e che viene tacitamente richiamato pi volte nel corso dellopera: non solo in quelle poche pagine poteva ritrovare due volte lespressione qualit de tempi, ma poteva rinvenire la caratterizzazione di papa Giulio II come impetuoso, che riprende per drammatizzare il rapporto tra il papa e Michelangelo:
Ma tanto quanto pi ricusava, tanto maggior voglia ne cresceva al Papa, impetuoso nelle sue imprese, e per arroto di nuovo dagli emuli di Michelagnolo stimolato, e spezialmente da Bramante, che quasi il Papa, che era sbito, si fu per adirare con Michelagnolo. [...]. L dove condottola fino alla met, il Papa, che vera poi andato a vedere alcune volte per certe scale a piuoli aiutato da Michelagnolo, volse che ella si scoprissi, perch era di natura frettoloso e impaziente, e non poteva aspettare chella fussi perfetta e avessi avuto, come si dice, lultima mano (VI, 33-37).

Ma, ancor pi del giudizio storico, il rapporto dellartista col gusto del tempo e con la committenza che viene delineato in modo prettamente machiavelliano. Lartista ha un carattere (impetuoso o respettivo, si potrebbe dire con Machiavelli) e uno stile: se questi si accordano con quanto richiesto dalla committenza e dalla qualit de tempi ha fortuna; se invece discordano, non ha un successo, quanto a denaro e fama, pari alle sue capacit artistiche. Il riscontrarsi col tempo, il possedere le doti che si accordano a quanto richiesto dai tempi la maggior fortuna per lartista come per il principe machiavelliano. Quanto Vasari scrive a proposito di Antonio Pollaiolo potrebbe figurare come chiosa al capitolo XXV del Principe:
Ebbe nel tempo suo felicissima vita, trovando pontefici ricchi e la sua citt in colmo, che si dilettava di virt; per che molto fu stimato: dove se forse avesse avuto contrari i tempi, non avrebbe fatto que frutti che e fece, essendo inimici molto i travagli alle scienze delle quali gli uomini fanno professione e prendono diletto (III, 508).

Vasari sa bene che lartista non ha la possibilit di scontrarsi

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con un potente come il papa o come un sovrano; in un rapporto di subordinazione e deve ringraziare quando viene pagato: il rapporto di forza troppo asimmetrico. Una via percorribile sarebbe utilizzare dei cortigiani come intermediari e sopra tutto ripetere le richieste fino a raggiungere lo scopo per sfinimento dellavversario; per far questo occorre per essere dotati di animo adeguato; artisti grandissimi ma eccessivamente timidi, come Andrea del Sarto o Baldassarre Peruzzi, non sono adatti a gestire un rapporto di committenza come quello richiesto dai tempi moderni: si trovano bene se incontrano il committente generoso, ma non riescono a concludere degnamente la contrattazione se devono continuamente chiedere denaro; non sanno adattarsi ai tempi e alle necessit. La riflessione a proposito di Peruzzi nel definire i rapporti fra artista e committente sembra appunto ricalcare lopposizione machiavelliana tra impetuosi e respettivi:
Ma ancorch tante fussero le virt e le fatiche di questo nobile artefice, elle giovarono poco nondimeno a lui stesso e assai ad altri, perch, se bene fu adoperato da papi, cardinali e altri personaggi grandi e ricchissimi, non per alcuno dessi gli fece mai rilevato benefizio; e ci pot agevolmente avvenire non tanto dalla poca liberalit de signori, che per lo pi meno sono liberali dove pi doverrebbono, quanto dalla timidit e troppa modestia, anzi, per dir meglio in questo caso, dappocaggine di Baldassarri. E per dire il vero, quanto si deve esser discreto con i principi magnanimi e liberali, tanto bisogna essere con glavari, ingrati e discortesi, importuno sempre e fastidioso: perci che, s come con i buoni limportunit e il chieder sempre sarebbe vizio, cos con glavari ell virt, e vizio sarebbe con i s fatti essere discreto (IV, 325).

Per Vasari soltanto Michelangelo, straordinario anche in questo, sapr adeguarsi ai tempi e alle necessit, essere impetuoso o respettivo e giungere fino a scontrarsi con Giulio II e con gli altri pontefici. Laneddoto relativo ai denari anticipati da parte sua per pagare i marmi e la susseguente fuga da Roma serve a mettere in luce questa lotta titanica contro il potere politico ed economico che Michelangelo intraprende da solo e che costituisce un punto fondamentale del riconoscimento giuridico ed economico dellartista:
Dicesi che, mentre che Michelagnolo faceva questa opera, venne a Ripa tutto il restante de marmi per detta sepoltura, che erano rimasti a Carrara, e

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quali fur fatti condurre coglaltri sopra la piazza di San Pietro: e perch bisognava pagarli a chi gli aveva condotti, and Michelagnolo, come era solito, al Papa; ma avendo Sua Santit in quel d cosa che gli importava per le cose di Bologna, torn a casa e pag di suo detti marmi, pensando averne lordine subito da Sua Santit. Torn un altro giorno per parlarne al Papa, e trovato dificult a entrare, perch un palafreniere gli disse che avessi pazienzia, che aveva commessione di non metterlo drento, fu detto da un vescovo al palafreniere: Tu non conosci forse questo uomo. Troppo ben lo conosco disse il palafrenieri, ma io son qui per far quel che m commesso da miei superiori e dal Papa. Dispiacque questo atto a Michelagnolo, e parendogli il contrario di quello che aveva provato innanzi, sdegnato rispose al palafrenieri del Papa, che gli dicessi che da qui innanzi quando lo cercava Sua Santit essere ito altrove; e tornato alla stanza, a due ore di notte mont in sulle poste lasciando a due servitori che vendessino tutte le cose di casa ai giudei e lo seguitassero a Fiorenza, dove egli sera avviato (VI, 29).

Il rapporto tra la grandezza dellartista e il potere del committente viene anche presentato da Vasari secondo un'altra opposizione di termini: cio, come la ricerca di un giusto mezzo tra la discrezione del committente e la pacienza, cio la sopportazione dellartista. I due termini vengono introdotti nella narrazione di un aneddoto risalente al secolo precedente, aneddoto che doveva avere una sua tradizione a Roma e che Paolo Cortesi (42) aveva gi narrato nel 1510. Vasari (con tutta probabilit senza conoscere il De cardinalatu) deve averlo sentito raccontare a Roma e lo ripropone al grande pubblico in una versione addolcita, se si vuole, ma pi costruttiva. Laneddoto riguarda Andrea Mantegna che cerca di rimproverare papa Innnocenzo VIII che non paga puntualmente il pittore e che sembra non aver discernimento, discrezione nel riconoscere i grandi artisti:
Dicesi che il detto Papa, per le molte occupazioni che aveva, non dava cos spesso danari al Mantegna come egli arebbe avuto bisogno, e che perci

(42) P. CORTESII De cardinalatu, In castro cortesio, 1510, c. 87v : Nam cum sacellum in suburbano palatino picturis ornare decrevisset, Andreamque Mantegnem, qui tum maxime frugi ac verecundus naturae imitator in pingendo putaretur, sponte conductum adhibuisset atque is cum primo quoque tempore ad eum venisset, bienniique prope spatium pinxisset, nec assem quidem ab eo accoepisset, statuissetque pro eo quod erat ingeniosus et pictor, aliqua ei interpunctione salis tenacem remunerandi procrastinationem exprobare, simulachrum muliebri specie adultaque aetate inchoasse dicitur, quod cum Innocentius aspexisset, quis essetque ex eo quae nam esset illa tam decursa aetate anus. Atque is ingratidudinem esse respondisset, commode inquit prope posset patientia pingi.

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nel dipignere in quel lavoro alcune virt di terretta, fra l'altre vi fece la discrezione; onde andato un giorno il papa a vedere l'opra, dimand Andrea che figura fusse quella, a che rispose Andrea: Ell' la discrezione. Soggiunse il pontefice: Se tu vuoi che ella sia bene accompagnata, falle a canto la pacienza. Intese il dipintore quello che perci voleva dire il Santo Padre, e mai pi fece motto. Finita l'opera, il Papa con onorevoli premii e molto favore lo rimand al duca (III, 553).

Pure lartista deve per usare la discrezione nel suo lavoro:


Bisogna poi che l pittore abbia risguardo a farle [le prospettive] con proporzione sminuire con la dolcezza de colori, la qual nellartefice una retta discrezione et un giudicio buono [I, 120]

Anche qui Vasari riprende un concetto forte come quello di discrezione e gli mette accanto il buon giudicio che sembra richiamare un concetto forte dellepoca rinascimentale, ben noto dal Cortegiano di Castiglione fino al Guicciardini: in realt lespressione anche qui ambigua, perch per Vasari il giudicio la capacit di valutare leffetto che lopera darte far sulla percezione visiva e di preferire questo alla regola e al rispetto della misura: il giudicio insieme alla grazia parte integrante di quella licenzia di cui si diceva sopra. Il ricorso alla discrezione necessario anche nella direzione opposta: lartista va premiato, ma non con un vitalizio che gli tolga la voglia di lavorare. Chi raggiunge una condizione agiata difficilmente continua a lavorare con limpegno di prima. Nella prima et fu questo il caso di Agnolo Gaddi: allora larte poteva arricchire un bravo artista, ma era probabilmente pi redditizia la professione di mercante, almeno a certi livelli, come il caso di Agnolo sembra dimostrare. Al tempo di Vasari la situazione era profondamente mutata: la crisi di unistituzione come la bottega, laffrancamento dalle corporazioni, le commissioni di grandi monarchi e banchieri potevano far raggiungere, come abbiamo gi indicato, un livello economico che Vasari non esitava a definire principesco. Questa condizione poteva allontanare dalla pratica dellarte anche chi vi si era dedicato con tutte le proprie forze e costituire un danno per il progresso dellarte. quanto accade a Sebastiano del Piombo che, assunto un ufficio fin troppo ben remunerato come quello del piombo, smette quasi di dipingere e

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quando lo fa sembra esservi costretto; di qui una riflessione sulle onorificenze con cui possono essere premiati gli artisti:
Da che si pu conoscere quanto singanni il discorso nostro e la poca prudenza umana, che bene spesso, anzi il pi delle volte, brama il contrario di ci che pi ci fa di mestiero, e credendo segnarsi (come suona il proverbio tosco) con un dito, si d nellocchio. comune opinione degluomini che i premii e glonori accendino glanimi de mortali agli studii di quellarti che pi veggiono essere rimunerate, e che per contrario gli faccia stracurarle e abbandonarle il vedere che coloro, i quali in esse saffaticano, non siano dagluomini che possono riconosciuti; e per questo glantichi e moderni insieme biasimano quanto pi sanno e possono que prncipi che non sollievano i virtuosi di tutte le sorti, e non dnno i debiti premii e onori a chi virtuosamente saffatica; e comech questa regola per lo pi sia vera, si vede pur tuttavia alcuna volta la liberalit de giusti e magnanimi prncipi operare contrario effetto, poich molti sono di pi utile e giovamento al mondo in bassa e mediocre fortuna, che nelle grandezze e abbondanze di tutti i beni non sono (V, 96).

La nuova dignit dellarte richiede che lartista sia compensato adeguatamente ma non pi del necessario. Gli artisti aspirano, per, anche ad altre gratificazioni, al di l dellarricchimento: la riflessione di Vasari su come lartista possa essere premiato alla base di una linea di pensiero che arriver fino al XVIII secolo e con cui si confronter ancora lAlfieri del Del principe e delle lettere. Durante la civilt comunale il riconoscimento pi grande che gli artisti potessero ricevere era quello di essere chiamati a qualche magistratura o incarico diplomatico: con le loro opere infatti aumentavano il credito della citt e i cittadini ne erano loro grati. Il proemio della vita di Ambrogio Lorenzetti sembra un elogio del sistema comunale:
Se grande, come senza dubbio, lobbligo che aver deono alla natura glartefici di bello ingegno, molto maggior doverebbe essere il nostro verso loro, veggendo cheglino con molta solecitudine riempiono le citt donorate fabriche e dutili e vaghi componimenti di storie, arrecando a se medesimi il pi delle volte fama e ricchezze con lopere loro, come fece Ambruogio Lorenzetti pittor sanese, il quale ebbe bella e molta invenzione nel comporre consideratamente e situare in istoria le sue figure (II, 179).

Ad Ambrogio vennero assegnate cariche importanti: questo premio civile esalta la figura dellartista, gli riconosce una funzione di rappresentanza e funziona da forte stimolo a emu-

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larlo (43). La comunit premia gli artefici, perch, come si legge nella premessa alla vita di Taddeo Gaddi:
bella e veramente utile e lodevole opera premiare in ogni luogo largamente la virt e onorare colui che lha, perch infiniti ingegni che talvolta dormirebbono, eccitati da questo invito, si sforzano con ogni industria di non solamente apprendere quella, ma di venirvi dentro eccellenti per solevarsi e venire a grado utile e onorevole, onde ne segua onore alla patria loro e a se stessi gloria, e ricchezze e nobilt a discendenti loro, che da cotali principii sollevati, bene spesso divengono e ricchissimi e nobilissimi (II, 203).

Nel Cinquecento ormai lontana la possibilit di ottenere tali riconoscimenti: lartista che agisce a corte o presso un ricco privato ha il compito di dare lustro al suo principe, che ormai non si serve pi di illustri letterati o artisti ma di tecnici specializzati. Per lo pi allartista viene affidato il compito di preparare omaggi e feste per i grandi ospiti, oltre che di abbellire e arricchire la corte. In questa nuova condizione non pu sperare che prebende economiche; in particolare, se lavora per lo Stato della Chiesa, pu sperare di ricevere delle rendite che gli consentano di affrontare il futuro con tranquillit economica. Ma il rapporto tra artista e committente viene prevalentemente interpretato da Vasari allinsegna dellopposizione fra virt e fortuna (44) e fra risoluzione e irresoluzione (impetuoso e respettivo nel vocabolario machiavelliano), che diventano le coordinate attorno a cui si gioca la realizzazione dellopera. In molti casi le grandi opere spesso non vennero rea(43) Che lartista dia onore e rinomanza alla patria Vasari lo affermava gi nella Torrentiniana anche a proposito di Spinello aretino: Quando un solo cagione di illustrare una virt usatasi rozzamente in una patria gi per molti anni, e rendendole il vero splendore la fa conoscere per lodata e ispiritosa, pare che tutti quegli che di sapere e di virt operano si voltino a lodarlo, a favorirlo, a inalzarlo e ad onorarlo, di maniera che molto si sente caricare il peso delle fatiche quel tale in cercare dinalzarsi in quella virt o scienza, attesoch diventano obbligati agli onori tutti coloro a quali per le virt e per le fatiche son fatti commodi e favori nellarte ingegnose che hanno apprese; come fu fatto in Arezzo a Spinello di Luca Spinelli pittore (T II, 277). (44) Sul motivo machiavelliano di virt e fortuna in Vasari cfr. A. CALECA, Vasari e Machiavelli in Percorsi vasarianicit., pp. 21-25. Ricordo che la prima redazione delle Vite era pronta nel 1547; lanno successivo Vasari dipinse per il soffitto della sala del camino della sua casa aretina unallegoria in cui combattono Virt, Fortuna e Invidia.

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lizzate perch venne a mancare un fattivo rapporto fra committente e artista: spesso chi voleva far eseguire una grande opera non era in grado di comprendere le capacit degli artisti e si affidava a persone di scarsa qualit, tramandando alla posterit la propria incompetenza. A volte, invece, principi poco intendenti avevano la fortuna di imbattersi in artisti validi capaci di ingrandire oltre il merito la loro fama:
Molti ingegni si perdono, i quali farebbono opere rare e degne, se nel venire al mondo percotessero in persone che sapessino e volessino mettergli in opera a quelle cose dove e son buoni: dove egli avviene bene spesso che chi pu, non fa e non vuole, e se pure chi che sia vuole fare una qualche eccellente fabbrica, non si cura altrimenti cercare duno architetto rarissimo e duno spirito molto elevato, anzi mette lo onore e la gloria sua in mano a certi ingegni ladri, che vituperano spesso il nome e la fama delle memorie; e per tirare in grandezza chi dependa tutto da lui tanto puote la ambizione d spesso bando a disegni buoni che si gli danno e mette in opera il pi cattivo, onde rimane alla fama sua la goffezza dellopera, stimandosi per quegli che sono giudiciosi lartefice e chi lo fa operare essere duno animo istesso, da che ne lopere si coniungono. E per lo contrario quanti sono stati i principi poco intendenti, i quali per essersi incontrati in persone eccellenti e di giudizio, hanno doppo la morte loro non minor fama avuto per le memorie delle fabriche che in vita si avessero per il dominio ne popoli! (IV, 233-4).

E si vedano altre citazioni: ad esempio, il proemio alla vita del Pinturicchio:


S come sono molti aiutati dalla fortuna senza essere di molta virt dotati, cos per lo contrario sono infiniti quei virtuosi che da contraria e nimica fortuna sono perseguitati; onde si conosce apertamente che ell'ha per figliuoli coloro che senza l'aiuto d'alcuna virt dependono da lei; poich le piace che dal suo favore sieno alcuni inalzati, che per via di meriti non sarebbono mai conosciuti. Il che si vide nel Pinturicchio da Perugia, il quale, ancor che facesse molti lavori e fusse aiutato da diversi, ebbe nondimeno molto maggior nome che le sue opere non meritarono (III, 571).

E si confronti con quello della vita del Sodoma:


Se gluomini conoscesseno il loro stato quando la fortuna porge loro occasione di farsi ricchi, favorendoli appresso gluomini grandi, e se nella giovanezza saffaticassino per accompagnare la virt con la fortuna, si vedrebbono maravigliosi effetti uscire dalle loro azzioni; l dove spesse volte si vede il contrario avenire, perci che, s come vero che chi si fida interamente della fortuna sola resta le pi volte ingannato, cos chiarissimo, per quello che ne mostra ogni giorno la sperienza, che anco la virt sola non fa gran cose, se non accompagnata dalla fortuna (V, 381).

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Quella tra virt e fortuna uninimicizia, i cui effetti si fanno sentire anche sui grandi artisti, addirittura su Michelangelo; cos Vasari spiega lincompiutezza della Notte, ma quello che dice pu assumere valore di teorizzazione pi generale: E certo, se la inimicizia ch tra la fortuna e la virt, e la bont duna e la invidia dellaltra, avesse lasciato condurre tal cosa a fine, poteva mostrare larte alla natura che ella di gran lunga in ogni pensiero lavanzava (VI, 59). Soltanto se il committente ha la competenza necessaria, lanimo risoluto nelle decisioni e la tenacia di sollecitare lartista si pu giungere a un grande risultato. Nella vita di Antonio Rossellino il committente viene delineato come un principe machiavelliano che, nel condurre gli eserciti, deve fidarsi delle armi proprie e mostrare prontezza e risolutezza nelle decisioni; cos anche i committenti devono essere risoluti, comprendere velocemente qual il progetto da realizzare e farlo mettere in opera con alacrit:
E tutto averebbe finito, ogni poco pi che gli fusse stato conceduto di vita, il detto Pontefice [Niccol V], il quale era danimo grande e risoluto, e intendeva tanto che non meno guidava e reggeva glartefici che eglino lui. La qual cosa fa che le imprese grandi si conducono facilmente a fine, quando il padrone intende da per s e come capace pu risolvere subito: dove uno irresoluto e incapace nello star fra il s e il no, fra varii disegni e openioni lascia passar molte volte inutilmente il tempo senzoperare (III, 395).

La percentuale di responsabilit che nella realizzazione delle grandi opere assegnata alle vicende della storia, della sorte personale, insomma della fortuna, deve essere limitata dalla risolutezza del committente, come si afferma nella vita di Lorenzo di Bicci a proposito delle opere commissionate da Niccol da Uzzano:
e se bene non potr mai la fortuna oscurare la memoria e la grandezza dellanimo di Niccol da Uzzano, non per che luniversale, dal non si essere finita questa opera non riceva danno grandissimo. Laonde, chi disidera giovare in simili modi al mondo e lasciare di s onorata memoria, faccia da s mentre ha vita e non si fidi della fede de posteri e degleredi, perch rade volte si vede avere avuto effetto interamente cosa che si sia lasciata perch si faccia dai sucessori (II, 319).

Laneddotica presentata da Vasari a questo proposito molto

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ampia e varia: si va da committenti ignoranti o irresoluti, come papa Giulio III e Pier Soderini, a committenti che invece riescono a far modificare il volto di un paese: il caso dei Gonzaga committenti di Giulio Romano, di Leone X nellet aurea e del duca Cosimo I al tempo di Vasari. Se a questi ultimi va gran lode, ai committenti che, mancando di gusto, hanno affidato grandi opere ad artisti di secondordine, va invece il pesantissimo rimprovero di aver modificato la percezione che della loro epoca ebbero le et successive. La mancanza, loro imputabile, di opere eccelse si riflette sullinterpretazione del periodo storico, come viene detto allinizio della vita del Filarete a proposito delle porte di San Pietro:
Se papa Eugenio Quarto, quando deliber far di bronzo la porta di S. Piero di Roma, avesse fatto diligenza in cercare d'avere uomini eccellenti per quel lavoro, s come ne' tempi suoi arebbe agevolmente potuto fare essendo vivi Filippo di ser Brunellesco, Donatello e altri artefici rari, non sarebbe stata condotta quell'opera in cos sciaurata maniera come ella si vede ne' tempi nostri. Ma forse intervenne a lui, come molte volte suole avvenire a una buona parte de' principi, che o non s'intendono dell'opere o ne prendono pochissimo diletto; ma se considerassono di quanta importanza sia il fare stima delle persone eccellenti nelle cose publiche per la fama che se ne lascia, non sarebbono certo cos stracurati n essi n i loro ministri: perci che chi s'impaccia con artefici vili e inetti d poca vita all'opere e alla fama, senzach si fa ingiuria al publico e al secolo in che si nato, credendosi risolutamente da chi vien poi che, se in quella et si fossero trovati migliori maestri, quel principe si sarebbe pi tosto di quelli servito che degl'inetti e plebei (III, 243-4).

La stessa affermazione non isolata, ma accompagnata da varie obiezioni contro la vita di corte che si trovano sparse soprattutto nella terza et e che non sono semplici riprese di luoghi comuni letterari, ma provano la maturit e la libert di giudizio di Vasari in senso politico. La riflessione sulle corti legata allinstabilit dellartista che deve dipendere spesso dalla volubilit di un committente che, come la fortuna, pu variare da un momento allaltro; cos largomento viene presentato nella vita di Girolamo da Carpi:
Ma perch quel Pontefice [Giulio III] non si poteva mai in simili cose contentare, e massimamente quando a principio sintendeva pochissimo del disegno e non voleva la sera quello che glera piacciuto la mattina, e perch Girolamo avea sempre a contrastare con certi architetti vecchi, ai quali parea strano vedere un uomo nuovo e di poca fama essere stato preposto a

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loro, si risolv, conosciuta linvidia e forse malignit di quelli, essendo anco di natura pi tosto freddo che altrimenti, a ritirarsi; e cos per lo meglio se ne torn a Monte Cavallo al servizio del cardinale. Della qual cosa fu Girolamo da molti lodato, essendo vita troppo disperata aver tutto il giorno e per ogni minima cosa a star a contendere con questo e quello; e come diceva egli, tal volta meglio godere la quiete dellanimo con lacqua e col pane, che stentare nelle grandezze e neglonori. Fatto dunque che ebbe Girolamo al cardinale suo signore un molto bel quadro che a me, il quale il vidi, piacque sommamente, essendo gi stracco se ne torn con esso lui a Ferrara a godersi la quiete di casa sua con la moglie e con i figliuoli, lasciando le speranze e le cose della fortuna nelle mani de suoi avversarii, che da quel Papa cavarono il medesimo che egli e non altro. [V, 418-9]

La protesta contro certi principi e contro le corti torna ancor pi chiaramente nella vita di Giovanni da Udine:
Onde accortosi, bench tardi, quanto siano le pi volte fallaci le speranze delle corti e come restino ingannati coloro che si fidano nelle vite di certi prncipi, se ne torn a Roma, dove, se bene arebbe potuto vivere duffici e dentrate e servire il cardinale Ippolito de Medici et il nuovo pontefice Paulo Terzo, si risolv a rimpatriarsi e tornare a Udine. [V, 454]

Lartista vive nella necessit di una vita sicura che la corte pu garantire: ma qui deve difendersi dallinvidia dellambiente cortigiano e dalle lotte che si scatenano; onde non stupisce che Vasari apprezzi scelte contrarie come quelle di Giovanni da Udine o di Giovanfrancesco Rustici:
Essendo poi tornata in Fiorenza la famiglia de Medici, il Rustico si fece conoscere al cardinale Giovanni per creatura di Lorenzo suo padre e fu ricevuto con molte carezze, ma perch i modi della corte non gli piacevano et erano contrarii alla sua natura tutta sincera e quieta e non piena dinvidia et ambizione, si volle star sempre da s e far vita quasi da filosofo, godendosi una tranquilla pace e riposo. [V, 476]

Lalternativa tra la sicurezza economica della vita di corte, e la tranquillit morale e lindipendenza non priva di rischi economici dellartista isolato, si present pi volte allo stesso Vasari, che nel tracciare il proprio profilo autobiografico non prov timori riverenziali nel denunciare i pericoli della vita i corte; anzi riprese passi del proprio epistolario per ricordare alcune sue scelte contro la vita di corte:
mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a non volere pi seguitare la fortuna delle corti, ma larte sola, se bene facile sarebbe stato accomodarmi col signor Cosimo de Medici nuovo duca. [VI, 375]

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il quale in detto spazio di due mesi, provai quanto molto pi giovi agli studii una dolce quiete et onesta solitudine, che i rumori delle piazze e delle corti, conobbi dico lerror mio, davere posto per laddietro le speranze mie negluomini e nelle baie e girandole di questo mondo. [] E cos rimaso daccordo, me ne venni a Firenze a vedere Messer Ottaviano, dove stando alcuni giorni, durai delle fatiche a far s che non mi rimettesse al servizio delle corti, come aveva in animo; pure io vinsi la pugna con buone ragioni, e risolveimi dandar per ogni modo, avanti che altro facessi, a Roma. [VI, 376]

La sua fuga da Firenze nel 1537 fu molto diversa da quella da Roma del 1553: la prima fu una fuga disperata, figlia della depressione e risolta in ansie religiose; la seconda fu una decisione razionale presa in conseguenza della maturazione personale e della meditazione che nel frattempo aveva condotto su quei testi politici e storici del Cinquecento che formarono il suo pensiero e gli permisero di trasformare le Vite in un capolavoro della storiografia. Certo le affermazioni sulle corti vengono in qualche modo corrette dalle lodi a Cosimo I, ma non possono essere passate sotto silenzio: Vasari cosciente che mettendosi a corte lartista in mano alla volubilit della fortuna e che questa pu cambiare da un momento allaltro. Per Vasari lartista deve saper prepararsi in ogni momento una via di fuga, un ritiro in cui far valere le proprie qualit e affrontare serenamente la povert pur di salvaguardare la propria dignit. Non si pu insomma ridurre Vasari, come pure stato fatto negli ultimi anni, a un artista ossequiente e prono al potere; Vasari ha infatti ereditato dalla concezione politica e morale degli storici repubblicani fiorentini un alto concetto del particulare, che non tornaconto personale ma affermazione morale della propria virt umana, nutrita di preparazione culturale fino a giungere allequilibrio della condotta morale, alla prudenza e alla conoscenza di se stessi. Quando le sue condizioni non si accorderanno alla qualit de tempi, lartista dovr fare fondamento su se stesso, mantenere intatta la propria virt al di fuori della corte. La storia aveva ormai negato fortuna ai vari modelli ideali di realizzazione personale elaborati nel Rinascimento: il cardinale di Paolo Cortesi, il segretario, il cortegiano di Casti-

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glione o il cavaliere cristiano di Sabba da Castiglione. Lartista, come delineato da Vasari, nel suo cercare di adattarsi alla fortuna e alla qualit de tempi allora lultima proposta di un modello, di un ideale di vita che ha un fondamento etico nelleducazione e nella maturazione personale. Lultimo fondamento di questo ideale infatti nella conoscenza di se stessi e nella ricerca della perfezione pi che delle ricchezze; sono questi convincimenti che lo spingono a inserire nelle Vite sentenze che non hanno nulla da invidiare alle riflessioni morali dei grandi pensatori dellUmanesimo e degli storici fiorentini:
E per vero dire, chi stimando le ricchezze quanto si deve e non pi, ha per fine delle sue azzioni la virt, si acquista altri tesori che l'argento e l'oro non sono, senzach non temono mai niuna di quelle cose che in breve ora ne spogliano di queste ricchezze terrene, che pi del dover scioccamente sono dagli uomini stimate. [III, 313] E nel vero la maggior prudenza e saviezza, che possa essere in un uomo, conoscersi, e non presumere di s pi di quello che sia il valore. [IV, 514]

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