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Genova 2001,
i molti volti della rivolta
globale ed il volto assassino
del Grande Fratello
di Serge Quadrupanni (manifestante a Genova)
C’è un’immagine che potrebbe diventare un simbolo di quel che è successo a Genova
tra il 19 e il 22 luglio. Ad un certo punto della manifestazione detta degli immigrati
(nella quale la maggioranza non era di immigrati), la folla che sfilava lungo le vie
della città vecchia in direzione del lungomare ha cominciato a battere ritmicamente
sui containers collocati dal Grande Fratello in numerosi punti della città allo scopo di
«proteggere» le installazioni della fiera dove alloggiava il corpo della polizia. Era una
scena allegra e triste al tempo stesso. Allegra perché un’infinità di persone che
parlavano molte lingue - europee e non europee - da punk con criniera a professori
occhialuti, da vecchi rappresentanti della cultura operaista a giovani forati da mille
piercing, da quelli che sventolavano bandiere a individui privi di affiliazione politica,
avevano infine trovato un linguaggio comune: colpire al cuore questo simbolo della
paranoia dei potenti.
Ci battevamo tutti insieme: non vi erano ancora stati morti, né sangue sui
muri, né torture nei commissariati, e nemmeno lacrimogeni e arresti. Era
svanito il timore che non arrivasse abbastanza gente, non importava più
l’annuncio dei treni annullati e dei battelli greci respinti. Vi erano solo i canti, le
bandiere, e il piacere di essere in tanti. Ma quella scena era anche triste
perché i nostri pugni battevano sul ferro indistruttibile.
Tre giorni più tardi, ci siamo ritrovati a Lione con il nostro amico Aris, partito a
notte fonda, insieme con il coraggioso gruppo di Samizdat, per fuggire le
perquisizioni search and destroy che hanno animato le ultime notti genovesi.
Quando ci siamo seduti sulla terrazza di un bar a sorseggiare una bibita,
rilassati al contemplare la piazza accarezzata dal sole e brulicante di gente a
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Per capire ciò che è veramente successo a Genova durante quei tre giorni di
collera, bisogna provare ad immaginare una città con immensi viali vuoti, una
popolazione ridotta a poche persone che facevano fugaci apparizioni al balcone
o, più raramente, agli angoli delle strade, saracinesche chiuse, non un bar né
un negozio di alimentari aperti, pochissime automobili.
Era come un Ferragosto di quattro giorni causato dall’arrivo dei padroni del
mondo. Un incessante carosello di ogni sorta di veicolo della polizia - blindati
compresi -, difese del tipo New Jersey (denominazione ufficiale) e poliziotti in
divisa da robot intenti a sbarrare le strade della zona rossa; il rumore
ossessivo – giorno e notte – degli elicotteri che volteggiavano sulle nostre
teste. Ovunque si posasse lo sguardo, c’erano microfoni, telecamere e
macchine fotografiche: quelle dei media di tutto il mondo, quelle dei poliziotti,
e quelle dei manifestanti che si riprendevano e registravano l’un l’altro.
Le Tute Bianche
Venerdì 20, verso mezzogiorno, nello Stadio Carlini, messo a disposizione dal
comune, le Tute Bianche si allenavano per la manifestazione con caschi,
maschere antigas, scudi, pittoresche imbottiture in spugna o gomma piuma, e
bottiglie di plastica. In un piacevole ambiente da bordello organizzato, la
serietà e al contempo l’umorismo con cui si travestivano da superman o da
giocatore di rugby, esprimevano con forza una volontà ed un’intelligenza
collettive: si trattava di dimostrare che si può disobbedire ai divieti, non
rispettare le zone rosse decretate dagli Stati, senza cadere nella trappola della
violenza spettacolare.
C’erano dei gruppi con estintori per i lacrimogeni e molti portavano guanti per
rispedirli al mittente. Vi era anche un lungo camion scoperto per la musica,
che scandiva slogan e consegne. Era divertente osservare la delegazione della
LCR (Ligue Communiste Révolutionnaire), ovvero quei trotzkisti francesi che a
suo tempo si erano tanto scontrati con gli autonomi, stare adesso in coda ad
una manifestazione nata da questo movimento. Poi hanno avuto l’occasione di
dimostrare quello che sapevano fare meglio: retrocedere scandendo «Ce n’est
qu’un début continuons le combat».
Il nostro grande corteo risoluto, imbottito e festoso è disceso lungo una grande
via (Corso Garibaldi – Via Tolemaide), costeggiando la ferrovia con l’intenzione
di entrare nella zona rossa senza colpo ferire. In realtà l’enorme meccanismo
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poliziesco ci ha fermato molto prima, nei pressi di Piazza Brignole, e non siamo
mai riusciti ad andare oltre. Per ore, mentre la fila di testa subiva le cariche e i
lacrimogeni, noi siamo andati prima avanti e poi indietro, poi di nuovo un po’
avanti e infine di nuovo indietro.
Il corteo ha finito per tornare allo stadio, mentre scoppiavano violenti litigi, al
limite della rissa, tra quelli di Sud Ribelle e alcune Tute Bianche. Il tentativo di
forzare la zona rossa era fallito.
Siccome non siamo dei soldatini, le due osservazioni che seguono non sono di
carattere militare. In primo luogo bisogna dire che una parte di queste persone
bardate e imbottite si trovavano molto lontano rispetto al «fronte», mischiati
ai manifestanti privi di protezione. A cosa serve giocare a fare superman per
poi sfilare come tutti gli altri?
Non era difficile, in realtà, uscirne indenni; bastava avere un po’ d’esperienza,
non farsi prendere dal panico e saper cogliere il momento opportuno per
ritirarsi. Posso tranquillamente affermare che quei personaggi ben equipaggiati
che si annoiavano in coda al corteo sarebbero stati molto più utili in testa.
Si dirà che tutti gli eserciti hanno degli imboscati, ma era proprio quello che
costoro non volevano essere: un esercito. Al principio la teatralità delle Tute
Bianche non mi ha disturbato, nemmeno il fatto che fossero così fotogeniche.
Ma poi ho potuto verificare che il rischio di queste pratiche ipermediatizzate è
che molti di coloro che ne sono affascinati per il carattere ludico, non sono poi
capaci di andare fino in fondo e ad assumerne i pericoli.
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Una dose di teatralità vi è sempre stata in ogni movimento, anche nei più
radicali. Ma qui il teatro ha avuto la meglio. Nelle settimane precedenti avevo
ascoltato Luca, il portavoce delle Tute Bianche annunciare: «entreremo nella
zona rossa con la sola arma dei nostri corpi». Come molti altri mi ero fidato
della loro immaginazione, ed ero sicuro che avessero previsto qualche tattica
inedita per essere all’altezza della sfida. Da una settimana stavano nello stadio
e dovevano pur aver avuto il tempo di inventare delle sorprese. Ebbene, la
sorpresa è che non c’erano sorprese! Avevano pensato solo a delle tanaglie per
tagliare le grate della zona rossa.
Il Black Bloc
Le poche persone presenti stavano sistemando delle candele al suolo. Era una
scena patetica ed irrisoria che dava l’impressione di una stupefacente
solitudine. Noi avremmo voluto condividere la nostra tristezza e la nostra
rabbia con migliaia di persone.
Quelli che danno alla distruzione di beni la stessa importanza della distruzione
di persone, mostrano chiaramente da che parte della barricata stanno: è
precisamente contro questa gestione delle cose che ci siamo ribellati. Poi
bisogna dire che davanti ad una città che segnava un passo in più nel processo
di calcificazione del mondo, di fronte ai caschi e ai musi blindati del Grande
Fratello, la pulsione distruttiva mi è invece sembrata un atto vitale.
Credo di non aver nulla da dire a quelli, che di fronte al tipo di vita che ci viene
imposto, non hanno mai sentito il bisogno di spaccare tutto. Al tempo stesso la
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Le Tute Bianche hanno cercato l’accordo con altre componenti del GSF sulla
base della «disobbedienza civile», spingendo quest’approccio fino alle ultime
conseguenze. In un proclama hanno annunciato alla popolazione di Genova
che loro non volevano fare alcun male alla città, ma al contrario, volevano
liberarla dall’occupazione del G8 e del suo esercito di 18000 uomini. Per
principio non si volevano toccare i beni privati degli abitanti.
Mentre invece il sorriso è sparito dal volto di quegli abitanti che dall’angolo di
una strada guardavano degli individui mascherati intenti a devastare un
negozietto o a demolire il benzinaio di quartiere.
L’offerta del vecchio mostrava bene come il dialogo tra loro, il giovane casseur
con il suo delirio teatrale e l’operaio che incarna la memoria di tante disfatte
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La presenza di infiltrati nel BB non si discute: come quasi tutto in quei giorni è
stata filmata. Io stesso ho osservato un trio di personaggi sulla quarantina,
mascherati e vestiti sportivamente che si agitavano mentre gli altri BB li
evitavano accuratamente.
Autenticità della loro ribellione, debolezza della maggior parte dei loro
obiettivi: questa doppia constatazione deve servire da base per instaurare il
necessario dialogo con il Black Bloc.
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Gli altri
Una delle scene più impressionanti rimane quella di una decina di membri del
gruppo inglese «Pink» – raccolti intorno ad una ragazza dai lunghi capelli rosa
con un cartello che diceva: «perché avete ucciso i nostri figli?» – i quali sono
riusciti a far retrocedere un nutrito gruppo di poliziotti parlando con loro e
cantando.
Sebbene conosca piuttosto bene l’Italia e da quasi 10 anni ci viva la metà del
mio tempo, sono rimasto sconvolto dal carattere selvaggio della repressione.
Ritenevo che il paese fosse avanzato di più sulla strada della normalità
«europea». Spaccare in due una manifestazione pacifica di 300.000 persone,
sparare, far grandinare lacrimogeni con accanimento nel bel mezzo di un
corteo, disperdere i dimostranti nelle viuzze laterali, è qualcosa di inedito che
si direbbe appannaggio di una dittatura in crisi.
Quando ho visto i poliziotti che lo facevano, ho avuto molta più paura che
durante gli scontri del giorno prima. Parevano capaci di tutto. Ed è vero che,
oltre a sparare sulla folla, hanno proprio fatto di tutto, (come per esempio
lanciare tre blindati a tutta velocità contro manifestanti).
Chi ha pagato il prezzo più caro della repressione sono stati coloro i quali che
non si riconoscevano nelle tendenze radicali, ma nello striscione apparso nella
manifestazione di sabato, divertente, ma tragicamente falso: «mamma non ti
preoccupare, solo tu mi puoi menare». La fiducia nelle regole minime della
convivenza democratica implica che la polizia non ti picchia se tu non te lo
cerchi. Una tale fiducia è svanita, all’improvviso, dopo le manganellate
distribuite alla cieca e con un rancore inaudito.
Noi (i miei alleati ed io) non abbiamo nulla a che spartire con gli assassini in
uniforme, né con nessuna riforma, Tobin tax, o pseudoproposta da fare ai
signori del G8, i serial killer del mondo.
Quando si è installato nel suo quartier generale, Fini, vice primo ministro post
fascista, ha fatto fatica a dimostrare ai miei amici dell’estrema sinistra che,
fasci o non fasci, vi erano delle differenze. L’intervista al poliziotto di Bolzaneto
pubblicata da La Repubblica, mostra la presenza tra i poliziotti di base, come
tra tutti gli “specialisti” antisommossa e i supercarabinieri, del fascismo storico
con denominazione di origine controllata (DOC).
Era ovvio che piazzandosi lì, ben in vista ed armate fino ai denti, le forze
dell’ordine avrebbero provocato il furore dei manifestanti; poi vi sarebbero
stati i consueti lanci di bombe lacrimogene e la colpa di tutto sarebbe andata
al GSF. E, in effetti, circa un migliaio di persone si è staccato, dalla
manifestazione e di queste il Black Bloc non costituiva che una piccola parte.
Erano numerosi gli striscioni dei COBAS e dei giovani di Rifondazione; vi era il
gruppo degli indipendentisti sardi che si spostava vero la testa di questo
spezzone di corteo gridando «assassini, assassini!».
In ogni modo possiamo dire che c’era di tutto: tutte le sensibilità e tutte le
nazionalità. Questa folla inferocita dalla morte di Carlo si è scrollata di dosso il
controllo delle organizzazioni d’appartenenza per gridare la propria collera. A
Genova abbiamo visto uno degli sforzi incipienti di costruire una forza
realmente autonoma ed internazionale, in rottura con questo ordine mondiale
mortifero. Noi (milioni di persone) dobbiamo far si che una simile presa di
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