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AChAB - Rivista di Antropologia

Numero XI - giugno 2007

Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paola Abenante, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini, Sara Zambotti Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Referente del sito Antonio De Lauri Tiratura: 500 copie
Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Universit degli Studi di Milano Bicocca Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005 * Immagine in copertina Lorenzo DAngelo, Stop Here!, Freetown, Sierra Leone, 2007.

Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori, scrivete a: redazione@achabrivista.it

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In questo numero...

Quando gli dei si vestono da militari


Unetnografia dei sogni sulle Ande Peruviane

di Arianna Cecconi 10 Patologie per l'altare, patologie per l'ospedale


Alcuni casi in un villaggio del Ghana settentrionale

di Simone Ghiaroni 18 Imparare a scoprire


Teorie della conoscenza e dellapprendimento nella ricerca di campo

di Cati Coe 28 The postmodern deconstructivism of Donna Haraway


or: why cyborgs matter

di Sandra Finger 34 Social scientists wrestling with race and nation


African-american W.E.B. Du Bois and cuban Fernando Ortiz compared

di Alessandra Lorini 47 Pinocchi, balordi e ballerini


Il mutamento dellimmagine degli albanesi nei mezzi di comunicazione italiani (1997-2006)

di Piero Vereni Recensioni 59

Altri generi. Inversioni e variazioni di genere tra culture


di Barbara Pinelli

62

Tra ordinario e straordinario: modernit e vita quotidiana


di Caterina Satta

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Quando gli dei si vestono da militari


Unetnografia dei sogni sulle Ande Peruviane
di Arianna Cecconi

Quando una guerra finisce, ovvero quando i riflettori si spengono e per un p non se ne sente pi parlare, ci si sente sollevati, anche se tutti in fondo sappiamo che la guerra non affatto finita. il febbraio 2005, e mentre la guerra in Irak non d segnali di tregua, io mi trovo in una comunit campesina1 delle Ande Peruviane. Qui della guerra in Medio Oriente non se ne sente parlare, e le facce disperate degli Iracheni e le bombe dei loro "salvatori" non disturbano la quiete di notti in cui la luna sembra troppo vicina. Eppure nel silenzio di queste montagne, ogni giorno si trovano le tracce di un'altra guerra, che finita pochi anni fa, e che continua a vivere nella memoria, nei corpi e nei sogni di chi vive in questi luoghi. quindi attraverso una guerra che oggi non "c' pi", una guerra "piccola", di cui in Italia si parlato poco, che vorrei esplorare la violenza che la guerra continua ad esercitare anche quando finita. Questa ricerca nasce sulle Ande centrali del Per, in una regione Ayacucho2 che, all'inizio degli anni '80, stata l'epicentro di una guerra civile tra il movimento rivoluzionario Sendero Luminoso e le Forze Armate (FFAA). La parola Ayacucho in quechua3 significa "il ritrovo dei morti" ed un nome-icona che sembra purtroppo incarnare la storia di queste montagne. Sendero Luminoso4, nato da una frangia rivoluzionaria del Partito Comunista Peruviano, ha dato inizio nel 1980 a una rivolta armata che si protratta fino al 1992, anno della cattura del suo leader, il professore universitario Abimael Guzman, e della successiva decomposizione del movimento. Se inizialmente le proporzioni di questo scontro erano apparse limitate, solo le recenti analisi della "Comisin de la Verdad y Reconciliacion"5 hanno portato alla luce l'entit di una guerra civile che ha provocato 70 mila vittime e 10 mila desaparesidos, per lo pi campesinos della regione di Ayacucho. Questa ricerca6 ha seguito un percorso verticale, all'inizio a Chiwa7, una comunit campesina a 2.700 metri, dove da qualche hanno arrivata l'elettricit e l'acqua corrente, poi dopo alcuni mesi, una curiosit anti-gravitazionale mi ha spinto a salire sopra i 3.000 m., fino a Contay8 dove la notte ancora illuminata solo dalla luna. Gli abitanti si dedicano soprattutto alla coltivazione di patate, mais e alla pastorizia. In entrambe le comunit il quechua la lingua pi usata, anche se lo spagnolo viene parlato correntemente soprattutto dalle nuove generazioni. La scelta delle Ande peruviane come luogo di ricerca era inizialmente relazionata al tema della paura. Dopo aver svolto una

ricerca etnografica sugli immigrati peruviani a Parigi9, e aver analizzato la persistenza e le trasformazioni del "susto" (la malattia dello spavento) in un contesto urbano e d'immigrazione, avevo deciso di continuare l'analisi della "paura come malattia" in un luogo recentemente colpito dalla guerra. Volevo analizzare la presenza e le trasformazioni della categoria nosologica del susto, in un contesto dove la paura e il trauma della violenza avevano rappresentato per molti anni un'esperienza quotidiana. Ma nel corso dell'etnografia i sogni sono invece diventati il filo conduttore attraverso cui guardare quest'epoca di violenza, e la paura che stata incorporata da queste montagne. L'importanza dei sogni nelle vite individuali, il loro uso sociale, il loro potere politico, performativo e profetico mi hanno spinto a guardare la guerra dal punto di vista della notte. Senza voler reificare un "andinismo onirico", ho cercato di analizzare il sogno come esperienza individuale, e al tempo stesso collettiva all'interno delle comunit, e di esplorare lo scambio dialettico tra simboli onirici pubblici e privati (Obeyesekere, 1981). Le narrazioni dei sogni hanno spesso molti elementi comuni, ed proprio l'intrinseca relazione tra la dimensione mitica e quella onirica a spiegare in parte queste intime somiglianze. Anche la recente guerra, oltre ad aver disorientato il panorama religioso, e aver attivato il fenomeno delle conversioni10, ha violentato il mondo onirico, lo ha monopolizzato ed ha rappresentato un evento di "collettivizzazione" dei sogni. I sogni "collettivi" sulla guerra potrebbero cos diventare parte di una riflessione sul recente conflitto, seguendo l'esempio dell'interessante analisi di Charlotte Beradt11 che dal 1933 al 1939 ha raccolto i sogni che venivano fatti in Germania durante il Terzo Reich, come documenti storici per una denuncia del nazismo anche da un punto di vista notturno (Beradt, 2004). Tre sono i momenti che segnano il movimento dialettico tra i sogni e la guerra: i sogni prima della guerra, (quelli che come premonizioni l'hanno anticipata), i sogni durante la guerra, e quelli che sono venuti dopo e che continuano a visitare i sognatori per ricordargli che la guerra non ancora finita. I sogni prima della guerra "La sociologia si interessa solo dell'uomo sveglio come se l'uomo addormentato fosse morto" affermava Bastide12 criticando il disinteresse di molti studiosi verso la dimensione onirica. Che cosa succede di notte all'uomo e alla culture? La disciplina

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antropologica fin dagli inizi si interessata al sogno, Taylor fondava proprio sull'esperienza onirica la sua teoria sulla religione e sull'anima. Il sogno un'esperienza universale e al tempo stesso connotata culturalmente, ed a partire dagli anni 60 che lo studio dei sogni, nelle differenti societ, diventato un nuovo ramo degli studi di Cultural and Personality. In molti gruppi sociali viene supposta una dipendenza e una continuit tra vita notturna e attivit diurna, e fluido il confine stesso che le separa: i sogni sembrano continuamente interferire con le attivit materiali, con le pratiche, e con le relazioni interpersonali. Lo statuto epistemologico attribuito al sogno varia culturalmente, e vi sono societ nelle quali il sogno rappresenta un luogo di sapere e potere, un atto cognitivo che consente l'accesso ad alcune forme di verit e rivelazioni. Anche nel contesto occidentale, nelle tradizioni popolari, e in alcune discipline come la psicologia e la psicanalisi, viene riconosciuta la valenza epistemologica del sogno, ma essa tuttavia rimane all'interno di un quadro culturale in cui lo statuto ontologico della veglia prioritario rispetto a quello onirico. Il fatto stesso che gran parte dei sognatori occidentali non si ricordino al risveglio i propri sogni resta una traccia significativa di questa storica frattura tra la categoria del sogno e della realt. I primi giorni in cui mi svegliavo a Contay mi ricordo le facce stupite di Mamma Damasina quando mi domandava "che cosa hai sognato stanotte?" e io le rispondevo di non ricordarmi. "Chi non si ricorda i sogni poco intelligente" dice Eudalia, come se l'intelligenza stessa si arricchisse attraverso il materiale onirico. Alcune teorie di psicologi e neurofisiologi mostrano come le persone differiscono nella capacit di ricordare i sogni per varie ragioni che riguardano la personalit, le motivazioni, lo sviluppo conscio e "imaginery visual" (Tedlock, 1996). Se tra le differenti variabili individuali, la memoria relazionata anche alla motivazione e all'importanza che diamo alle cose, la diffusa capacit di ricordare i sogni nel contesto andino, sembra allora rappresentare un segno del ruolo centrale che essi assumono nella vita delle persone e della comunit. al mattino, appena svegli, mentre si fa bollire la minestra di patate, che i sogni vengono raccontati alla famiglia13, a volte la narrazione incomincia gi nel letto, mentre mama Domasina si infila la sua gonna verde fosforescente e accende una candela perch fuori non ancora arrivata l'alba. Anche durante il giorno, mentre si lavora nei campi o si pascolano le capre i sogni vengono commentati alla vicina o all'amica. In alcuni casi sono state le mie domande a sollecitare le narrazioni oniriche, ma spesso mi sono trovata davanti a sogni che venivano raccontati in modo imprevisto all'interno di discorsi che parlavano d'altro. Un antico incrocio semantico tra la parola quechua14 muskuy (sognare) muspay (delirare o parlare nel sogno), e musyay (adivinare) sembra evocare uno stretto legame tra il sogno, l'allucinazione e la rivelazione. "Mus" una radice quechua che allude ad una attivit mentale distinta dal sapere razionale (yachay). Oggi viene spesso usata anche la parola spagnola "suynuy", che viene quechizzata15 dal suffisso chasunki che indica "un qualcosa che influisce su di te". L'espressione suynuychasunki si potrebbe allora tradurre con "il sogno ti rivela".

Le parole stesse della lingua nativa rivelano l'importanza del sogno come esperienza conoscitiva. I sogni sono fonti di informazioni significanti, sono una forma di "pensare addormentati" (Krake, 1992), e un luogo di rivelazioni. La valenza epistemologica del sogno riconosciuta collettivamente, ed supportata dalla sua valenza ontologica. Il sogno visto come una forma di realt, e una forma di conoscenza. Nel cercare di indagare la provenienza di questo sapere onirico, la categoria del "dentro" e del "fuori" si alternano.16 Ci sono sogni che vengono "da dentro", ovvero che sono legati alle preoccupazioni quotidiane, dove le tracce e i ricordi del giorno si ripresentano nella notte, sogni che hanno uno statuto epistemologico inferiore rispetto ai sogni che vengono "da fuori" dove il sapere-potere invece associato alla rivelazione e al contatto con la divinit e l'alterit. Sono questi ultimi ad essere pi "veri", e ad essi viene conferito il potere di illuminare e "informare" la realt e quindi costituirla. Ecco allora che il concetto di performativit, che la letteratura antropologica utilizza spesso in relazione al rituale, pu venire usato anche per addentrarsi nello spazio onirico (Tedlock, 1992). Il sogno nell'orientare e "dare forma" alle azioni e decisioni della veglia, partecipa alla costruzione stessa della realt. La fluida continuit tra sogno e veglia non solo da intendersi nei termini di una reciproca influenza, la continuit si manifesta nel momento stesso in cui si cerca di tracciare il confine che separa le due esperienze. In alcune narrazioni, elementi della veglia e del sogno si mescolano, si sovrappongono creando una circolarit tra i due momenti. Vi sono apparizioni, premonizioni, allucinazioni che fluttuano in entrambe le dimensioni, che stanno tra la veglia e il sogno, che stanno tra i due mondi, e sembrano essere la porta stessa che li unisce. Molte delle apparizioni della divinit andina della Montagna, l'Apu, vengono descritte come sogni, altre come esperienze diurne avvenute nella solitudine degli altipiani. Alla fluidit dei confini tra sogno-veglia, dentrofuori, si aggiungono cortocircuiti temporali che rompono anche le presunte frontiere tra il presente-passato-futuro. I sogni non sono solo visti in relazione al passato (come nella concezione psicologica di regressione)17, ma al contrario lo statuto epistemologico del sogno andino rivolto soprattutto al futuro. La dimensione onirica pu illuminare le "possibilit emergenti" (Brown, 1992) che potranno materializzarsi nella vita quotidiana, e preannunciare le trasformazioni, e gli eventi eccezionali che possono stravolgere la vita di un individuo o della collettivit. In molte comunit andine i sogni hanno visto la guerra prima che arrivasse. Molte donne affermano di aver sentito gli spari, aver visto il sangue, e i corpi "morti come cani" prima che si manifestassero nella realt. "tal quale come nel mio sogno...cos successo" "nel mio sognio ci colpivano, ci picchiavano e ci facevano salire sulle montagne. Cos proprio come avevo sognato hanno portato via il mio sposo". "sognare gente nuda era perch saremmo stati tristi... La gente commentava che sarebbe arrivato il pericolo perch sognavamo questo..gente nuda..guardavi e vedevi che dalle montagne veniva

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gente..nei tuoi sogni vedevi gente nuda" "nel mio sogno io camminavo sopra il sangue, c'erano fiumi di sangue..si il mio sogno era ben chiaro. Io ho visto nella realt il sangue, ed in quei momenti che ricordavo quello che sognavo, era quasi uguale ai miei sogni". "nel mio sogno io mi cambiavo il vestito felice e quando mi svegliavo dovevo vestirmi di nero per piangere...io ho visto come li picchiavano, gli dicevano "ubriacone!" "io ho pianto tanto tanto, fino a che i miei occhi si gonfiano e fino a che mi faceva male la gola". (Testimonianze, di alcune donne di Contay)18 Nonostante la naturale trasformabilit dei segni e dei simboli onirici in relazione ai cambiamenti socio culturali, si possono oggi incontrare nelle comunit tracce di un antico codice d'interpretazione19 che non solo nelle mani di specialisti, ma che condiviso dai comuni sognatori. Sognare acqua sporca preannuncia la malattia, mais il denaro, carne il furto, sognare pecore, gente nuda, neonati e sangue sono tutti segni che preannunciano sventura. Frequente nell'interpretazione dei sogni anche il meccanismo dell'inversione, e molte donne prima delle incursioni dell'esercito sognavano di ridere, cantare e ballare. La realt della guerra riattiva il ricordo di quei sogni che l'avevano gi annunciata, sogni premonitori che hanno avvertito dell'arrivo di una terribile disgrazia, ma che non hanno avuto il potere di evitarla. Solo in alcuni casi c' chi afferma di essersi salvato grazie ad una rivelazione notturna. Adela negli anni della violenza viveva a Contay, era ancora una bambina eppure era lei "l'antenna onirica" che avvisava tutta la sua famiglia prima che arrivasse Sendero o l'esercito. Quando lei vedeva in sogno scendere degli uomini dalla montagna, si svegliava per raccontarlo e Mama Julia, suo padre e le sue sorelle, scappavano tutti nei campi. I sogni e la guerra All'infuori di alcune premonizioni, quando chiedo "che cosa sognavi durante gli anni della guerra?" mi trovo per lo pi davanti all'oblio, un oblio insolito rispetto alla straordinaria capacit di ricordare i sogni che caratterizza gli abitanti di queste montagne. La notte diventa la temporalit stessa della guerra, e non solo in senso metaforico. I Senderisti venivano chiamati in quechua tutapurisqa "quelli che camminano di notte". La loro presenza notturna si avvicinava ad altre figure mitiche che popolano le notti delle Ande. Se all'inizio, di fronte agli insoliti rumori notturni, molte delle persone sospettavano che si trattasse di gentiles, condenados o jarchachas20, durante la guerra saranno "quelli che camminano di notte" o i militari a disorientare e trasformare l'immaginario e le gerarchie della paura. Per evitare di essere avvistati dall'esercito i sovversivi facevano infatti incursioni nei villaggi quando ormai era buio. Esigevano ospitalit e cibo, in alcuni casi obbligavano bambini, e giovani a seguirli in nome della rivoluzione, e giustiziavano pubblicamente coloro che venivano sospettati di appoggiare i militari. I corpi dei soplones (degli spioni) non potevano essere seppelliti, rimanevano in mezzo alla piazza per ricordare a tutti che chi non stava dalla parte

di Sendero sarebbe morto come un cane. Dopo le incursioni dei sovversivi arrivava l'esercito che uccideva indiscriminatamente i campesinos sospettati di essere "terrucos" (terroristi). Di notte nessuno dormiva nelle proprie case, gli abitanti di Chiwa dormivano tutti insieme in un raggruppamento a Paqueq, a Contay spesso la notte ci si nascondeva sulle montagne, e si facevano i turni di guardia per avvistare le possibili incursioni degli uni o degli altri. "In quegli anni non sognavo, in quegli anni quasi non si dormiva". (Maria, Contay) Che sogni poteva fare la signora Pia, che passava tutte le notti vestita e seduta su una seggiola, con i due figli abbracciati, per paura che arrivassero da un momento all'altro i militari per interrogarla? Se dormire ha a che fare con l'abbandono, il costante sentimento di paura e terrore, che abitava nelle persone, impediva loro di lasciarsi andare al sogno. la realt stessa della guerra che viene descritta attraverso la metafora onirica. "sembrava tutto un sogno"..."ero come in sogno". La dimensione onirica si avvicina in questo caso alla borrachera (ubriacatura). Molti bevevano per farsi passare la paura, e anche chi non lo faceva, si sentiva lo stesso come ubriaco. Nella lingua quechua vi un tempo verbale21 usato per indicare sia lo stato di ubriacatura, che il sogno, entrambe esperienze temporali in cui la persona non cosciente22. Ma se in molti casi proprio lo stato di "incoscienza" del sogno che consente di ricevere le rivelazioni, in queste testimonianze, la metafora della guerra come un sogno, sembra alludere piuttosto ad uno stato di confusione e delirio, ad una pazzia "estabamos como locos" (eravamo come pazzi). Qui il muskuy (sognare) si avvicina pi al muspay (delirare), che al musyay (divinare). La guerra un incubo da cui non ci si riesce a svegliare. Paura, sogno e borrachera diventano la realt della guerra. Cos un militare si era rivolto ad un gruppo di campesinos: "state con i vostri figli e andate ognuno nella propria casa, fate come se questo era un sogno" .(Testimonianza, CVR)23 "ho pensato che quello che stava succedendo era uno scherzo, che in un qualsiasi giorno qualcuno veniva ad uccidermi. Non ho mai pensato che era (verdad) realt, tutto era come un sogno." (Testimonianza, CVR) Alcune persone raccontano di essere state attaccate da una specie di sonno profondo, proprio nel mezzo di episodi di guerra, come Lucia scappata sul tetto della sua casa mentre i militari portavano via suo marito. Da lass aveva visto bruciare la casa comunale e proprio in quel momento era stata assalita dal sonno. Suo zio, arrivando dopo qualche ora a casa sua, l'aveva sorpresa addormentata e le aveva detto "tuo marito morto, che ci fai addormentata?". Il terrore e l'impossibilit di sostenere emotivamente quello che stava accadendo sembrano generare un improvviso effetto sonnifero. "ero come in sogno. [] durante tutto questo tempo sono stata

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come addormentata, quasi dall'anno 92 fino al 98 era come se fossi stata addormentata, tutto era un incubo". (Testimonianza CVR) La guerra stata come una lunga notte, e al tempo stesso una lunga pausa onirica ha segnato gli anni della violenza. L'insonnia accompagna anche le notti del dopo-guerra, e a Contay spesso le persone mi sono venute a chiedere se avevo delle pillole per dormire. La maggior parte dei sogni relazionati a quell'epoca hanno un contenuto persecutorio, si sogna di scappare, si sognano i morti. Sogni dove le immagini della violenza resuscitano nel presente con una vivida ricchezza di particolari, e dove i rumori e gli spari disturbano ancora il silenzio delle notti attuali. "Fino ad ora non posso dormire tranquillo, mi sveglio per la paura, saltando, saltando, e sogno sempre che mi feriscono" (Testimonianza CVR) I sogni del dopo-guerra consentono anche di ristabilire una comunit di linguaggio con i parenti scomparsi. I figli, i mariti, che un giorno sono stati risucchiati nel nulla, si manifestano nei sogni tormentando la memoria di chi sopravvissuto. "sogno sempre mio figlio, mi dice che non morto, che sta lavorando a Lima. A volte credo che ancora vivo e che era un'altra persona quella che ho seppellito". (Testimonianza, CVR) "sogno sempre mio figlio, una volta mi ha detto che stava in un campo e che era difficile che lo avrei incontrato, mi lasci un po' di mais e se ne andato". (Testimonianza, CVR) Fragile anche la frontiera che separa il sogno dall'incubo. Se per parlare dei sogni si usano i verbi quechua suuruni e miskuruni, l'incubo viene chiamato almanitiruan, che si potrebbe tradurre letteralmente come "unanima ti sta guardando". Anche l'incubo non sembra venire da dentro, ma da fuori, in quanto generato dall'anima di un morto che ti viene a visitare per regolare dei conti rimasti aperti. Maria racconta di quando l'anima di un suo vicino, con cui aveva litigato, l'ha "pesadillada"24. L'anima rimane dietro alla porta della stanza, e ti guarda. Si tratta di uno sguardo che ha un vero e proprio peso specifico "ti pesa addossonon puoi muovertiil tuo corpo si immobilizza", "lo sguardo ti pesa". Gli incubi sono descritti con vivide metafore corporee "non puoi respirareti senti come se qualcuno ti stesse schiacciando". Ma non tutte le visite della anime diventano incubi. In alcuni casi gli incontri notturni con i parenti scomparsi sembrano invece "alleggerire" ed accompagnare i sopravvissuti nel delicato processo d'elaborazione del lutto. Molte le testimonianze di madri o spose che dicono di aver smesso di piangere in seguito ad un sogno in cui l'amato diceva di stare bene, e dava consigli e parole di conforto "non piangere pi". "un giorno riuscii a sognarlo e lui mi ha detto "non preoccuparti..sono felice!". Solo allora ho creduto che era

morto, cos ho cominciato a piangere" (Testimonianza, CVR) Il marito di Olga stato sequestrato nel 1991 da un gruppo di Senderisti. La donna sogn pi volte lo sposo scomparso, e una volta lui le disse di andare a recuperare la sua casacca e la sua radio che erano state prese dal signor Mario, che lavorava con lui nella miniera. Effettivamente seguendo l'indicazione onirica Olga aveva incontrato quegli oggetti. Il marito continua oggi attraverso i sogni a interferire sull'educazione dei figli, sgridando la moglie quando troppo severa. Molte sono state le persone che si sono messe in viaggio dopo aver sognato un familiare scomparso che rivelava nel segreto della notte il luogo in cui era stato interrato "io sono in quel luogo, dietro quella pietra, vienimi a cercare". Le notti del dopo guerra sono popolate da incubi, da insonnia, ma anche da sogni che aiutano a ricostruire quella "realt" andata in pezzi. La violenza su queste montagne non certo arrivata con il conflitto armato tra Sendero Luminoso e l'esercito. Nella storia si sono susseguiti gli abusi dei coloni, degli hacendados25, e i conflitti interni tra le famiglie delle comunit. Nell'avvicinarsi ad alcune narrazioni ci si accorge di come le differenti forme della violenza siano state incorporate dentro l'immaginario onirico, mitico e religioso di questi luoghi. L'Apu, la divinit andina della Montagna, oltre a proteggere e castigare chi vive in questi luoghi, sembra agire come "ricorso mnemonico" (Taussig, 1987), che incorpora nella sua stessa immagine i conflitti e le trasformazioni storiche del potere, che hanno segnato la storia di questi luoghi. Nella mutevole iconografia della Montagna appaiono le tracce di un "dramma semiotico" (Taussig, 1987) in cui riaffiora il contatto irrisolto che caratterizza l'incontro tra popoli, politiche, sistemi di pensiero differenti. Da un lato c' l'Apu la cui iconografia coincide con la montagna stessa. "Quello l'Apu Antarcacca", dice Pilar indicando con la mano una montagna rocciosa che si vede da Contay. sulla montagna come luogo, dentro le sue grotte e le fessure della terra che vengono depositati i pagapu, (le offerte rituali)26. Ma l'Apu pu anche trasformarsi in "altro" dalla Montagna; nei sogni e nelle apparizioni pu infatti assumere le sembianze di alcuni animali, come il condor, un uccello-divinit molto importante nella cosmologia incaica, o come il toro, un animale arrivato invece con gli Spagnoli. La Montagna pu anche "farsi uomo" (o donna) e in questo caso si trasforma per lo pi in un "gringo", in un uomo bianco, alto, con il cappello. In questo caso la divinit "andina" si incarna in un'icona dell'alterit, ed evoca, nel gioco di memorie e specchi, l'immagine dei coloni e degli hacendados che vivevano in questi luoghi. Ci sono poi sogni in cui l'Apu appare nelle sembianze di un prete o di un militare. "solo appare nei miei sogni...bene, ora ti racconto come appariva nel mio sogno..nel mio sogno appariva come un prete e voleva prendermi...il prete veniva e voleva coprirmi con il suo mantello" (Luca - Muchapata) "Alcuni dicono che anche lui ha un casco (come il poliziotto), per io non l'ho visto cos, io l'ho visto come un giovane con un cappello di paglia" (Mara - Contay)

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"Piuchu 27 sinchis chayqa, Puyu puyukun chaypi paypi, Rikurisuykita munan Jovenkuna formakun guardiakuna" Trad: "Piuchu dicono che militare. In mezzo alla nebbia, quando vuole ti appare in forma di giovane o di militare" (Camila - Contay) Sogni e testimonianze della realt, raccolte negli stessi luoghi, dialogano e si riflettono tra loro. Gli abusi reali degli hacendados, dei gringos, dei preti e dei militari28 popolano i sogni, ma un aspetto interessante come questi personaggi reali, una volta che si presentano nella dimensione onirica, vengano interpretati come manifestazioni dell'Apu. Ogni volta che con le mie domande cerco di mettere in relazione queste differenti figure di potere, non trovo molte risposte. Alla domanda "ha mai sognato un hacendado?" la maggior parte delle donne risponde di no. "Un militare le ha mai rivelato nei suoi sogni?" non sembra una domanda pertinente. Chi rivela nei sogni l'Apu, la Pacha o anche la Vergine e i Santi, mentre l'hacendado, i preti o i militari, per quanto potenti, non possono ascendere al pantheon delle divinit e quindi alle rivelazioni. Loro sembrano solo prestare la loro faccia bianca, il cappello nero, la tunica o il fucile alla divinit della Montagna molto pi antica e potente di loro. Le immagini oniriche, le iconografie mitiche e religiose si sono trasformate storicamente e sembrano aver incorporato le rappresentazioni locali del potere e della violenza. In passato si a volte guardato al mito e al sogno come se si trattasse di due categorie separate dell'esperienza. Il sogno rappresenterebbe un'esperienza personale e privata, di natura sensoriale, laddove il mito rappresenterebbe un discorso pubblico. Molteplici autori hanno invece mostrato l'artificialit di questa distinzione, e l'impossibilit stessa di considerare separatamente simboli pubblici e privati (Obeseyekere, 1981). Secondo Kracke29, rispetto alla parola, il sogno e il mito percorrono una strada inversa. Il sogno nasce come immagine sensoriale e si trasforma poi in immagine verbale, mentre il mito nasce come linguaggio e si trasforma poi in immagine sensoriale. Si crea cos un circolo fluido e continuo tra il sogno come percezione, che si trasforma in parola, e il mito come parola che si trasforma nuovamente in percezione. Gli avvenimenti significativi della realt entrano in questo stesso circolo, e quando arriva la guerra non pu che violentare sia la percezione del sogno, che la parola del mito. Nelle notti di Contay la guerra viene vissuta e rivissuta con tutti i sensi, si vede il sangue, si sente il rumore degli spari, il dolore del corpo, e l'odore dei morti. La narrazione del sogno alimenta e trasforma l'iconografia dell'Apu, che a sua volta entrer nei sogni di coloro che hanno sentito parlare di lui. La divinit della Montagna a volte sembra aver salvato le persone attraverso rivelazioni notturne, altre volte le colpisce nel sonno. Molte donne raccontano di essersi ammalate proprio in seguito ad un sogno in cui l'Apu, vestito da militare sparava loro30. L'Apu buono e cattivo al tempo stesso, protettore e violento, fa paura e seduce. Anche le figure di potere che "vengono da fuori" sembrano a volte evocare questa stessa ambiguit. Come sottolinea lo storico Nelson Manrique, gli hacendados sfruttavano

i campesinos e li trattavano come schiavi, ma allo stesso tempo li chiamavano "hijitos" (figliolino), e l'hacendado era per il campesino il "tayta", o "papay" (mio pap). Questa modalit di chiamarsi non era solo pura retorica, ma evocava una densa e complicata relazione affettiva. Si tratta di un'ambivalenza insita in una nozione di paternit, dove un padre amoroso, al tempo stesso capace di una efferata violenza per "correggere" e indirizzare i suoi figli nella retta via. Anche l'Apu viene chiamato Tayta, e la "Montagna Pap" presenta le stesse caratteristiche contraddittorie del padre che protegge i suoi figli campesini e che al tempo li pu castigare con estrema violenza. L'ambivalenza dell'Apu e dell'hacendado si riflettono nella stessa icona. Da molti campesinos anche i Senderisti sono percepiti come buoni e cattivi. Dopo avermi raccontato le barbarit di alcuni "terrucos", Julia mi dice: "Poverino Abimael, (il Leader di Sendero) ora in carcere, se lo incontri regalagli del pane". Anche i militari simboli della violenza e degli abusi, in pi di unoccasione vengono considerati una presenza necessaria e una garanzia di ordine, e non si pu che riflettere sulle ultime elezioni politiche dove il candidato che ha trionfato nella regione di Ayacucho31 un ex-ufficiale dell'esercito, che ha fatto gran parte della sua carriera durante gli anni di Sendero Luminoso, nelle zone di emergenza. difficile guardare in faccia questa ambivalenza. A volte mi sorprendo nel tentativo di ritrovare un confine tra il bene e il male, tra il sogno e la veglia, tra il dentro e il fuori, e invece pi ci si avvicina all'Apu, pi ci si perde nelle sue contraddizioni.

Mercato di Huanta

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Note
Per comunit campesina si intende il raggruppamento di pi nuclei familiari, la cui attivit economica l'agricoltura e la pastorizia. Vi sono oggi comunit campesine dove sussiste ancora la propriet collettiva della terra, altre dove essa stata privatizzata. Ogni comunit ha una propria organizzazione comunale ed elegge i propri rappresentanti. Acceso oggi il dibattito che cerca di definire le trasformazioni di questa micro entit politica, ma non questo il luogo dove poter approfondire un tema cos complesso. 2 Ayacucho sia il nome della regione, sia il nome della sua citt capoluogo. uno dei distretti pi poveri del Per. Dati del censo del 1993 (Inei) segnalavano che il 50.8 % della sua popolazione in situazione di estrema povert, e il 32.5 % in situazione di povert non estrema. 3 Quechua, Kichwa o Runasimi (runa = "uomo" + simi = "lingua", letteralmente "bocca") una lingua nativa del Sud America. Fu la lingua ufficiale dell'impero Inca, ed oggi parlata in svariati dialetti da quasi dieci milioni di abitanti in molti stati del Sud America. In Per e in Bolivia il quechua considerato lingua ufficiale accanto allo spagnolo e al aymara. 4 Sendero Luminoso non n un movimento "indigenista" n l'autentica rappresentazione politica del Campesinato Peruviano. Il suo nucleo fondatore composto da giovani meticci di origine urbana. La sua struttura verticale, autoritaria e si caratterizzato per l'uso di una violenza "esemplare" (spedizioni punitive, esecuzioni di massa) diretta non solo contro i nemici dei campesinos, ma contro le comunit stesse che interferivano con la sua avanzata. 5 La Comisin de la Verdad fu creata il 4 giugno del 2001 durante il governo di transizione del Presidente Valentin Paniagua, con la finalit di far luce sugli anni della violenza. Inizialmente composta da 5 membri, fu ampliata a 12, e il suo nome con il governo del Presidente Toledo divenne "Comisin de la Verdad y Reconciliacin". 6 La ricerca iniziata nel luglio del 2004, fino al luglio del 2006. Alcuni lunghi periodi di permanenza sul campo, (tre mesi nel 2004, 8 mesi nel 2005, e 7 mesi nel 2006), sono stati intervallati da periodi in Italia. 7 La Comunit di Chiwa composta da una trentina di famiglie e si trova ad un ora della cittadina di Huanta. Nella piccola piazza centrale c' un ambulatorio medico, e una scuola che stata per distrutta durante gli anni della guerra e non pi agibile. La sua posizione favorevole, in una fertile vallata attraversata dal fiume Chaki, consente una grande variet di prodotti agricoli, mais, camote, (un tubercolo) verdura e frutta di vario tipo. Gli abitanti si occupano di pastorizia e agricoltura, e tutte le domeniche vendono i loro prodotti al mercato di Huanta. Oggi la comunit composta solo da una trentina di famiglie, e da persone anziane che vivono sole. Gli abitanti si occupano principalmente d'agricoltura e tutte le domeniche vendono i loro prodotti al mercato di Huanta. 8 Contay una comunit campesina a 3.600 metri, vicino a alla
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cittadina di Vilchasuaman. A Contay non c' la luce elettrica, n l'ambulatorio medico. Solo una piccola scuola elementare, e nella piazza centrale una Casa Comunale, dove ogni domenica si tengono le assemblee della comunit. Data l'altezza vengono soprattutto coltivati mais e alcune specie di tubercoli, ma per la maggior parte si tratta di un'agricoltura di sussistenza. L'allevamento permette invece ad alcune famiglie di commerciare animali (tori, vacche e pecore) con le comunit vicine o ad Ayacucho. 9 Questa ricerca etnografica stata condotta nel 2002. Mmoire du Dea "La migration du susto", sotto la direzione del Professor Jean Pierre Dozon e Carmen Salazar, EHESS. 10 Se la popolazione del dipartimento di Ayacucho si dimezzata in seguito agli anni della violenza, al contrario si sono moltiplicate in tutto il dipartimento le chiese evangeliche e pentecostali. 11 L'opera di Charlotte Berardt, "Das Dritte Reich des Traums" recentemente tradotta dal tedesco in francese "Rver sous le III Reich" una densa raccolta di sogni fatti a Berlino tra il 1933 e il 1939, da persone appartenenti a differente classi sociali. I sogni raccolti mostrano con efficacia la modalit attraverso la quale la dittatura violentasse l'universo onirico e rappresentano efficaci prove storiche contro il nazismo. Nonostante non fosse estranea alle discipline psicologiche, l'autrice non si avvale di un approccio psicoanalitico, ma si concentra sui tratti comuni dei sogni avvenuti nel terzo Reich che diventano "sogni politici", sismografi che registrano gli effetti degli avvenimenti storici nell'interiorit degli uomini. 12 Bastide R., Le rve, la transe et la folie, Paris, Flammarion, 1972. 13 Sia a Chiwa, che a Contay sono stata ospitata da una famiglia e questo mi ha permesso di partecipare ogni giorno alle narrazioni e interpretazioni mattutine dei sogni. 14 Se all'inizio pensavo di aggirare le difficolt che incontravo nell'avvicinarmi alla lingua quechua raccogliendo solo i sogni in spagnolo, quando ho cominciato ad analizzare e tradurre alcune narrazioni raccontate dalla stessa persona in entrambe le lingue, mi accorgevo di come lo stesso sogno cambiasse spessore e densit. Ogni parola quechua racchiudeva immagini e riferimenti che venivano a mancare nella narrazione in spagnolo. 15 Nelle lingue agglutinanti le parole sono costituite da una radice a cui vengono aggiunti prefissi o suffissi per indicare categorie grammaticali diverse (ad esempio genere, numero, caso o tempo verbale). Molteplici sono oggi le contaminazioni linguistiche, e vi sono molte parole di origine spagnola a cui vengono aggiunti prefissi e suffissi quechua. 16 In un recente studio, il linguista Ciudad, analizzando il tessuto narrativo dell'esperienza notturna, viene incuriosito dall'espressione linguistica con cui generalmente inizia il racconto del sogno: "dice che". Ma chi che dice? Anche alla domanda: "i sogni vengono da dentro o da fuori? soprattutto la categoria del "fuori" che viene menzionata, ma i cui contorni non sono ben definiti. 17 Se Freud descriveva il processo del sogno come un'esperienza

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regressiva e interpretava i suoi simboli a partire dal passato del sognatore, in molteplici societ al contrario il sogno intimamente connesso alla vita futura del sognatore. 18 Il materiale etnografico si basa soprattutto su testimonianze di donne (di et variabili). Inizialmente non si trattato di una scelta volontaria, ma di una condizione che si imposta durante la ricerca stessa, data la maggior difficolt a intessere relazioni con gli uomini. Parte del materiale e delle testimonianze sono state anche raccolte nell'Archivio della Commissione della Verit, che si trova a Lima. 19 Un denso studio sul sistema semiotico onirico stato svolto dal linguista Mannheim. La sua ricerca prende vita nello stesso luogo dove Perez Bocanegra aveva stilato nel 1631 la documentazione di un codice dei segni onirici. 20 Molteplici sono i personaggi mitici delle notti andine. I gentiles sono gli spiriti degli antenati, jarchachas , sono lama demoniaci in cui si trasformano gli incestuosi, e condenados sono morti che ritornano in vita anima-corpo per scontare le loro colpe. Personaggi notturni dove l'immaginario andino e quello dei colonizzatori si sovrappongono. 21 Viene chiamato dai linguisti passato "ivre" o "passato narrativo", ed marcato dal suffisso "sqa". Questo tempo verbale descrive ogni azione che si svolge senza la partecipazione diretta dell'enunciatore, o nel momento in cui non era del tutto cosciente. (Manneheim, 2000) 22 Complessa tuttavia l'articolazione tra memoria e oblio relazionata all'utilizzo di alcool. Oggi infatti proprio quando gli uomini o le donne si ubriacano che "si ricordano delle vite anteriori e delle posizioni che occupavano durante l'epoca della violenza", in quei momenti che si riaccendo i conflitti, e che resuscitano le accuse "terrucos" o "soplone". L'alcool agisce come luogo che offre agli uomini la possibilit di esprimere il proprio dolore, diventa quindi una sorta di "spazio femminile". (Theidon, 2004) 23 Alcune delle testimonianze riguardo ai sogni e alla violenza sono state incontrate nell'archivio della Comisin de la Verdad, che si trova a Lima. 24 In verbo spagnolo "pesadillar..alien", significa "far fare un incubo a qualcuno". 25 Fino all'anno della riforma agraria nel 1968, le haciendas

(latifondi) furono la colonna vertebrale del territorio, furono la presenza permanente dell'autorit che connetteva centro-periferia. 26 Un antico patto di reciprocit tra l'Apus e i pastori, e tra la Pacha (la divinit della terra) e i contadini manifesta tutt'oggi la sua presenza. Quando gli animali vengono lasciati soli sulle montagne a pascolare, sar lo spirito della montagna a proteggerli, ma in cambio di questa protezione i pastori gli devono offrire periodicamente (soprattutto nel mese d'agosto) una "mesa rituale" (offerta rituale i cui ingredienti sono generalmente foglie di coca, frutta, sigarette, vino). 27 Piuchu il nome di uno degli Apu di Contay. 28 L'Apus militare diventa una traccia della memoria guerra, ma perch non ho incontrato in Contay n in Ciwa sogni dove l'Apu appare come Senderista? Con questa riflessione non voglio in nessun modo affermare che la presenza di Sendero Luminoso sia stata meno violenta di quella dell'esercito. Quello che importante sottolineare come non esista una narrazione ufficiale e condivisa per parlare della guerra. Ogni comunit, a partire dalla propria esperienza, ricostruisce una "memoria locale" del conflitto enfatizzando aspetti distinti. A Contay, che appartiene a quella che veniva definita la "zona rossa" (ovvero la zona che pi ha supportato la sovversione), l'esercito ha avuto l'impatto pi violento, ed la figura del militare che popola maggiormente i sogni e che viene incorporato al potere dell'Apu. Vi sono invece comunit nell'altura di Huanta dove Sendero ora narrato e sognato come il nemico pi pericoloso. Qui si dice che gli Apu erano alleati e proteggevano i Senderisti nascondendoli dentro la nebbia. Sulla montagna di Rasuhuillca si trovavano fiori, sigarette, limoni "erano i Senderisti che avevano fatto il pagapu". (Theidon, 2004) 29 Kracke W. "Myths in dreams, thought in images: an Amazonian contribution to the psycoanalitic theory of primari process" in Tedlock, 1987. 30 Questa malattia viene chiamata "maldad o dao del cerro" e pu portare alla morte se non viene curata in tempo dai curanderos. 31 Le elezioni politiche del 2006 sono state vinte dal candidato del Partito Aprista Alan Garcia, ma nella regione di Ayacucho stato il candidato nazionalista Humala ad ottenere la maggioranza assoluta di voti.

Bibliografia
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Notte a Contay

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Patologie per l'altare, patologie per l'ospedale


Alcuni casi in un villaggio del Ghana settentrionale
di Simone Ghiaroni

Erano circa le sette del mattino. Sedevo con alcuni uomini e il capo-villaggio - il Kadewura - nel cortile dell'ewurkpa (la casa del capo) mangiando da una pentola comune qualche igname bollito intinto in una salsa molto piccate a base di pesce, quando giunsero a piedi dalla strada proveniente dalla vicina cittadina di Bole due donne e un uomo. Si trattava di una coppia sposata e della madre della donna. Vennero accolti dal capo ed ebbi la possibilit di scambiare un paio di battute con loro: parlavano francese e mi dissero di venire da Bouna, in Costa d'Avorio. Chiesi loro cosa li aveva spinti a intraprendere un viaggio cos lungo per venire fino a Manful e loro mi raccontarono che erano gi state al villaggio l'anno prima per curare l'impotenza del marito e per propiziare la nascita di un bambino; oggi erano tornate per offrire un sacrificio di ringraziamento all'altare di Manful perch finalmente il bambino era nato e se non avessero offerto qualche bene alle divinit e agli antenati l'uomo avrebbe potuto tornare a soffrire d'impotenza sessuale e il neonato avrebbe potuto ammalarsi gravemente o

Il capovillaggio Kadewura Kotobri Langa

addirittura morire. Mi mostrarono quindi i doni portati: due taniche di birra di miglio (pito), un paio di bottiglie di distillato locale (akpeteshi), una decina di noci di cola, due galline. Entrammo nella stanza che contiene l'altare e gli specialisti rituali celebrarono i sacrifici, che vennero accettati dagli antenati. Cos, pi sollevati, i tre stranieri si incamminarono sulla via che li avrebbe ricondotti a Bole e da l avrebbero cercato un mezzo per tornare a Boun. Questo solo un esempio dei tanti sacrifici offerti come ringraziamento agli antenati per una guarigione, una nascita o la risoluzione di altri problemi personali che possibile osservare stando qualche giorno in uno dei centri rituali pi importanti del gonja. A Manful arrivano genti provenienti da tutta la regione gonja, dai territori limitrofi, ma anche persone provenienti dalla vicina Costa d'Avorio e, addirittura, dal Togo. La ragione che fa di questo villaggio un luogo rituale d'importanza inter-regionale e, a volte, internazionale, la grande potenza magica di cui si ritengono in possesso gli antenati e gli di di Manful. Proprio come si sceglie l'ospedale pi specializzato o pi rinomato per un dato intervento, cos si giunge a Manful per l'efficacia dei rituali di medicina tradizionale l condotti. E, in ragione dei questa potenza, al villaggio si torna ciclicamente per continuare ad offrire doni in modo che gli di e gli antenati non tolgano ci che hanno dato. Manful un piccolo villaggio di case costruite con fango e pali che ospita non pi di trecento persone, senza energia elettrica, servito da una piccola pompa d'acqua posta in prossimit della strada d'ingresso al villaggio. situato a circa quindici chilometri a sud-est dalla capitale distrettuale Bole, in territorio gonja, nella Northern Region del Ghana vicino al confine con la Costa d'Avorio, dove il fiume Volta Nero fa un'ampia ansa prima di dirigersi verso il lago Volta. I gonja parlano una lingua appartenente alla famiglia Kwa-Guang, simile a quelle akan diffuse nel sud del paese, ma si ritengono discendenti di una popolazione di cavalieri di origine mande proveniente dall'odierno Mali, che attorno al XVI secolo hanno intrapreso una campagna di conquista verso la costa del golfo di Guinea per il controllo delle rotte commerciali dell'oro estratto nel sud del paese (in zona asante) indirizzate ai centri da cui partivano le carovane trans-sahariane. Per quanto strettamente legato

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all'organizzazione socio-politica e alla storia gonja (Goody 1954, 1966, 1967), Manful spesso considerato un villaggio appartenente al gruppo linguistico safalba (Kluge e Hatfield 2002). Il safalba una lingua appartenente alla famiglia GurMole-Dagbane, che comprende un vasto numero di idiomi parlati da molte altre popolazioni ritenute autoctone delle zone del Ghana settentrionale, come i dagaaba o, nella variante Gur-Grusi, come Kasena, Sisala, Chakalle, Tampolense e Vagla. A Manful, per tutti gli ambiti domestici e quotidiani, la lingua utilizzata , appunto, il safalba, ma considerare Manful un villaggio autoctono una leggerezza. Per comprendere la sua atipicit necessario cogliere l'eccezionalit della sua storia e del suo posizionamento all'interno del sistema gonja: Manful, infatti, un insediamento di un clan gonja non appartenente alla dinastia regnante, ma composto da specialisti rituali chiamati nlsuh che rivestono importanti ruoli nell'investitura e nei funerali dei capi tradizionali. Lo scopo di questo articolo riportare le storie delle persone in trattamento presso i guaritori a Manful durante il periodo del mio soggiorno avvenuto tra il primo agosto e l'8 settembre del 2005. Per perseguire questo fine necessario premettere alle narrazioni due brevi quadri riassuntivi circa la concezione tradizionale della malattia e lo schema dello svolgimento delle cure nel villaggio, trattazioni che non hanno nessuna pretesa di completezza 1. Esula da miei obbiettivi qualsiasi generalizzazione o sistemazione teorica, l'unico tentativo di sintesi la riorganizzazione delle evidenze tratte dai casi raccontati in base ad alcune tematiche e criteri, in particolare la tipologia delle patologie, quella delle cause, l'articolazione di medicina biomedica o "scientifica" e tradizionale in relazione con alcune variabili socio-culturali. Mi preme, inoltre, sottolineare il carattere situato, nel tempo e nello spazio, delle storie che riporto e il tentativo di introduzione nello scritto della presenza del ricercatore e delle condizioni, spesso difficoltose, nelle quali sono avvenuti i dialoghi sul campo. Da queste narrazioni emerge chiaramente, mi pare, la situazione molteplice, spesso contraddittoria, dei comportamenti osservati, delle idee esposte, degli incidenti significanti, che nella pratica di ricerca sul campo si traducono in una differenza e multivocalit nella produzione, affidabilit, dettaglio e quantita delle informazioni che, inevitabilmente, influiscono sulla resa e sulla forma finale del testo scritto. Cenni sulla medicina tradizionale La condizione necessaria per parlare di medicina tradizionale che ogni applicazione di tecniche mediche sia corredata da atti rituali che agiscono in base a determinate concezioni magicoreligiose. Ci non significa che i medici tradizionali siano completamente digiuni di cognizioni che hanno qualche base organica: ad esempio, i medici tradizionali usano erbe i cui principi attivi sono spesso ben noti alla medicina biomedica: le ferite vengono medicate e bendate, le fratture ossee sono

trazionate e immobilizzate. Tutti questi trattamenti, per, nel paradigma teorico-pratico della medicina tradizionale non sono sufficienti e, a volte, nemmeno efficienti in s per l'azione meccanica o chimica che esercitano, bens necessitano di un corollario di pratiche rituali che conferiscano efficacia ai presdi utilizzati e completino la cura su piani diversi da quello strettamente materiale. L'aspetto principale della concezione tradizionale della malattia e della cura quello immateriale e spirituale: non basta curare la situazione di patologia fisica del paziente, ma occorre sanare la situazione di disordine sociale e magico-rituale che ha causato la malattia espressa nel corpo del paziente. La spiegazione causale di molte patologie, infatti, da ricercarsi in comportamenti antisociali dai quali hanno origine delle aggressioni stregonesche 2 perpetrate nei confronti del paziente da una persona spesso appartenente al suo gruppo dei pari (principalmente, parenti o amici invidiosi). Questo non significa che nella concezione tradizionale non sia riconosciuto o sia negato il carattere materiale dell'incidente; se si inciampa in una radice, la causa della caduta individuata nella collisione tra il piede e la radice stessa; cos se si viene morsi da un serpente, la causa della morte o del dolore identificata nel veleno del serpente instillato nel corpo tramite il morso. Per metterla in termini aristotelici, se la causa materiale la malattia o l'ostacolo o l'animale, occorre scoprire la causa efficiente, che per esempio pu essere la stregoneria o una sanzione sovrannaturale inviata dagli antenati, e la causa finale, che spesso la ricomposizione di conflitti, la soluzione di comportamenti anti-sociali o la correzione di comportamenti immorali. La domanda essenziale non come successo, bens perch capitato. Perch non si mai inciampato prima camminando su questa strada che viene percorsa ogni giorno? Perch quella persona? Perch oggi? Con domande sospese di questo tipo, una cura che si occupi solo di annullare gli effetti fisici (rispondere e curare il come) una cura inefficace poich se non vengono opportunamente trattate quelle che sono intese come cause efficienti e finali, sempre possibile che quest'influenza malefica produca ulteriori malanni. Non basta riconoscere la successione di causa e effetto che ha condotto all'evenienza di una certa situazione, ma bisogna scoprire il movente di quella configurazione causale, le sue ragioni ultime; ragioni che vanno ricercate nelle sfere della vita sociale, morale o religiosa 3. La medicina tradizionale una medicina olistica, una pratica di cura che va oltre la patologia organica ricercandone le cause nell'ambiente sociale del soggetto secondo determinate concezioni socio-culturali. Di fronte a una malattia necessario scoprirne le cause efficienti, sanare i disordini sovrannaturali e procedere alla cura del paziente; per questo un guaritore tradizionale contemporaneamente divinatore, anti-stregone e erborista; un individuo, cio, che coniuga la visione delle cause, la potenza magica positiva e la conoscenza delle erbe

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necessaria alla completa guarigione del soggetto. Il processo di cura Dal punto di vista dell'analisi, si pu pensare al procedimento di cura come un processo4 costituito da pi fasi che rispondono alle diverse componenti della concezione della malattia. La prima fase l'introduzione degli stranieri nel villaggio (che chiamer fase di ingresso); la seconda costituita dal rituale di divinazione celebrato per scoprire le cause efficienti del problema (fase della divinazione); la terza la risoluzione rituale degli eventuali influssi di magia negativa (fase del sacrificio iniziale); la quarta fase il trattamento con erbe e tecniche mediche (fase del trattamento); la quinta e ultima fase costituita dal rituale conclusivo di ringraziamento (fase del sacrificio conclusivo). Appena arriva al villaggio, il richiedente, di solito accompagnato da alcuni parenti, entra in una casa e chiede ospitalit. Se questa, come di solito accade, viene concessa, il "padrone di casa", il kawurnyin (in safalba, disundaba), cio l'uomo pi anziano della casa, prende in carico gli stranieri e informa il capo e gli anziani del nuovo arrivato. Cos, il kawurnyin si reca dal portavoce del capo, il dogtee, e annuncia l'ingresso al villaggio di stranieri ospitati presso la sua abitazione giunti per consultare l'oracolo e intraprendere il processo di cura. Il portavoce ha l'incarico di informare il capo, gli altri divinatori e di fungere da mediatore tra questi e gli stranieri appena arrivati. Egli si reca poi da questi ultimi per ascoltare le loro richieste, comunicare le decisioni dei divinatori riguardo il giorno in cui si terr il rituale e impartire le istruzioni su come affrontarlo. La fase della divinazione consiste nel rituale oracolare vero e proprio durante il quale vengono ricercate le cause del problema esposto dai richiedenti elaborandone una diagnosi nei termini della struttura di credenze tradizionali. In seguito, i divinatori N 1 2 3 4 Nome J. K. L.K. K.D. K.A. Eta 35 28 23 26 Genere M M F F Gruppo Etnico Mo Gonja Gonja Gonja Religione RC T M/RC M

comunicheranno ai richiedenti quali beni portare l'indomani per eseguire i sacrifici necessari.Nello stadio del sacrificio iniziale, animali e altri beni vengono offerti agli antenati con lo scopo di risolvere il disordine magico-rituale individuato attraverso l'oracolo. Nell'offrire i sacrifici viene valutato se le cause individuate dall'oracolo sono le uniche o se necessario intraprendere un'altra seduta di divinazione: gli antenati non accetteranno il sacrificio offerto se il sacrificante si trova ancora in una posizione di disordine magico-rituale, cio se animali, danno la risposta: se la gallina spira supina i sacrifici l'agente stregonesco sortisce ancora effetti nefasti. I movimenti agonici della gallina, offerta a chiusura della serie di sacrificisono stati accettati e pu cos iniziare la fase di trattamento, se spira prona si rende necessaria un'altra seduta di divinazione. La fase del trattamento del problema individuato avviene attraverso l'uso di erbe, infusi e altre tecniche. Questo periodo pu durare da pochi giorni a diversi mesi, fino alla guarigione del soggetto, che durante questo lasso di tempo risieder nel villaggio sottoposto alle cure quotidiane degli erboristi. L'ultima fase, si tiene a conclusione del processo di guarigione ed l'offerta di un sacrificio di ringraziamento corrispondente a quanto promesso inizialmente. Nel caso in cui questo sacrificio non venisse accettato, secondo le modalit prima esposte, si rende necessaria un'ulteriore consultazione dell'oracolo e un'ulteriore terapia. Se il cammino di guarigione del richiedente non venisse chiuso dal sacrificio di ringraziamento o se i beni sacrificati non fossero conformi a quanto promesso, potrebbe verificarsi una grave ricaduta. Terminate le varie fasi del procedimento di cura, il soggetto pu ritornare al suo villaggio, a condizione di tornare annualmente a Manful per continuare ad offrire i sacrifici all'altare.

Professione insegnante agricoltore commerciante commerciante

Provenienza Bamboi Manful Kabampe Manful

Arrivo a Manful 22/5/05 / 1/05 /

Diagnosi cataratta congiuntivite malattia mentale frattura avambraccio sinistro sx infezione alla mano sx malattia mentale

5 6

N.A. C.K.

43 /

M M

Gonja Ga

M /

camionista /

Tuna Accra

5/05 /

[Religione: RC = Cattolica Romana; T = Tradizionale; M = Musulmana]

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Patologie per l'altare e patologie per l'ospedale Durante il periodo del mio soggiorno nel villaggio, erano presenti sei persone in cura presso gli erboristi, tutti nella fase del trattamento. Tra queste, due erano residenti nel villaggio, mentre gli altri erano venuti specificatamente a Manful per curare le proprie malattie. Solo uno ha dichiarato di essere di religione tradizionale; tutti gli altri dichiaravano la propria professione di fede musulmana o cattolica romana. Dopo una tabella riassuntiva dei dati principali riguardo l'et, il genere, la dichiarazione di appartenenza etnica e religiosa, la professione, la provenienzageografica, la data di arrivo a Manful e una diagnosi sommaria della patologia5 dalla quale sono affetti, saranno presentate le storie di questi sei casi. Caso 1. J.K. un insegnante elementare di Bamboi, cittadina posta sul confine tra le regioni Northern e Brong-Ahafo a circa ottanta chilometri da Bole. arrivato a Manful accompagnato dal figlio di circa dodici anni, che lo guida nei suoi spostamenti poich la cataratta gli ha opacizzato il cristallino dell'occhio destro privandolo quasi totalmente della vista. Dialogare con lui stato particolarmente difficile in quanto non sono mai riuscito a parlargli da sobrio: fin dalla prima mattina si fermava in ogni casa a bere akpeteshi, il distillato locale. Prima di arrivare a Manful, si recato all'ospedale di Techiman (nella regione Brong-Ahafo) dove lo hanno visitato e gli hanno prescritto alcuni farmaci; volevano poi sottoporlo a un'operazione oftalmologica e esponendogli il rischio di cecit permanente a cui sarebbe andato incontro se non fossero intervenuti chirurgicamente. Per iniziare le cure, all'ospedale gli hanno richiesto il pagamento di trecentomila cedis, equivalenti a circa trenta euro (ma sulla cifra J. K. era molto incerto). Egli conosceva Manful e sapeva che in quel villaggio c'erano specialisti di medicina tradizionale che sapevano curare le malattie legate agli occhi. Cos ha assunto i farmaci e, dopo aver constatato che le condizioni della sua cataratta non miglioravano, si deciso a venire al villaggio. stato sottoposto al rituale oracolare e i divinatori hanno affermato di poterlo curare; cos, ha offerto come sacrificio d'ingresso una gallina, alcune noci di cola, una bottiglia di akpeteshi e trentamila cedis (anche su questa cifra era molto confuso). Il trattamento consiste nell'effettuare una lavanda oculare ogni mattina e ogni sera con un infuso di erbe fornite dai guaritori tradizionali. Dopo un paio di settimane di trattamento, J.K. afferma di vederci molto meglio, anche se - per quanto ho potuto constatare - la situazione della cataratta non ha avuto miglioramenti evidenti. Al termine della cura, ha promesso di offrire come ringraziamento una capra, una gallina, altro akpeteshi, e centoventimila cedis. Posto di fronte alla possibilit di non riuscita del trattamento, egli ha negato categoricamente che questa evenienza possa verificarsi. Caso 2. L. K. stato il mio ospite nel villaggio e fin dal primo giorno della mia permanenza notai la forte congiuntivite che gli affliggeva l'occhio sinistro. L. K. divinatore e guaritore tradizionale e non si sottoposto al rituale di divinazione, ma, da subito, ha iniziato autonomamente le cure erboristiche che

riteneva pi adeguate: ha intrecciato una collana di erbe e, durante la costruzione di questo amuleto, ha sacrificato una gallina aspargendone il sangue sulla collana. Nel giro di una settimana, l'occhio migliorato vistosamente e, raggiunta la piena guarigione, mi ha assicurato che avrebbe chiamato il padre (anziano divinatore e consigliere del capo) per offrire insieme a lui una pecora in sacrificio sul suo altare domestico. Caso 3. K. D. una ragazza affetta da una severa forma di disagio psichico, venuta a Manful, accompagnata dalla madre, perch alcuni parenti avevano sentito parlare dell'efficacia delle cure somministrate in questo villaggio per le malattie mentali. Prima dell'insorgenza della malattia la ragazza era di religione islamica, ma dopo i primi sintomi si convert al Cristianesimo. K. D. ha passato una lunga degenza in ospedale; nonostante le cure, i parenti non notavano miglioramenti significativi nella sua condizione e cos decisero di rivolgersi alle pratiche di medicina tradizionale. Appena giunti al villaggio si sono sottoposti alla divinazione dal quale emerso che la causa della malattia di K. D. derivava da un conflitto nell'ambito parentale: qualcuno appartenente al lignaggio del marito le era particolarmente ostile e non aveva intenzione di accettarla quale parente acquisita; da questo odio scaturita la stregoneria che l'ha colpita e le ha provocato la sua condizione di disagio. Per risolvere il disordine magico-rituale derivante da questo conflitto parentale hanno offerto una gallina, delle noci di cola, varie taniche di pito e bottiglie di akpeteshi. Il trattamento della malattia, invece, costituito da una lavanda completa del corpo con un infuso di erbe preparato dagli erboristi da eseguirsi quotidianamente. A detta della madre, K.D. appare ora molto pi calma e "ragionevole" di quando, circa sette mesi prima, giunse al villaggio e inizi il trattamento. Al termine della cura, si sottoporranno di nuovo all'oracolo per accertarsi che non ci siano altre cause magiche da sanare e, in qual caso, offriranno una pecora in ringraziamento. Caso 4. K. A. nata a Manful in una famiglia di divinatori. In seguito al matrimonio contratto con un uomo musulmano, si convertita alla religione islamica e si trasferita a Bole. Quando l'ho incontrata, il diciassette agosto, aveva l'avambraccio sinistro immobilizzato tramite una stecca costruita con pezzi di canna e erbe intrecciate per trattare una frattura avvenuta in seguito a una caduta accidentale. L'incidente era in qualche modo stato previsto dai divinatori di Manful: infatti, tempo prima, era stata punta durante la notte da un insetto, e questa puntura si era gonfiata in modo anormale; insospettita dall'anomalia, si era recata al villaggio per consultare l'oracolo. Il responso era stato chiaro: si trattava della prima di due sventure, causate da un attacco di stregoneria, che avrebbero dovuto abbattersi su di lei. Purtroppo, ormai non era pi possibile intervenire per annullare la causa della stregoneria, in quanto questa aveva gi colpito. Poco tempo dopo, infatti, cadde percorrendo una strada che frequentava ogni giorno e si procur la frattura scomposta ed esposta dell'avambraccio sinistro. Per prima cosa si rec all'ospedale di Bole dove le richiesero trecentomila cedis per procedere con le cure, dopo

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qualche tempo, non notando miglioramenti, decise di rivolgersi al fratello che, come gi detto, un divinatore e erborista di Manful. Dopo aver offerto una gallina, varie noci di cola e akpeteshi, inizi il trattamento che, oltre a una steccatura per garantire l'immobilizzazione dell'arto, comporta l'uso di infusi di erbe con cui lavare il braccio fratturato. A quattro mesi dall'incidente, la frattura non ancora perfettamente guarita, ma K. A. non nutre dubbi sull'esito positivo delle cure: la lentezza della guarigione non data, secondo lei, dalla infruttuosit delle terapie, ma dal fatto che si tratta di un danno causato da una stregoneria particolarmente potente. Caso 5. N. A. un autista di camion. Un giorno si trovava a Kumasi, nella regione Ashanti, dove aveva trasportato un carico di legname. Stava scaricando e accatastando i tronchi dal camion, quando arrivato un bambino dicendogli che durante la notte avrebbe trafugato un tronco. N. A. gli ha risposto di non essere il proprietario del legname e, senza troppo badare all'episodio, si era rimesso a lavorare. Poco dopo ha notato un'abrasione sulla mano sinistra dalla quale ha asportato con noncuranza un piccolo lembo di pelle e si rimesso subito al lavoro. Una settimana dopo la mano si gonfiata e N. A. ha iniziato ad avvertire un forte dolore

pentola. Quando l'acqua si raffredda compie una lavanda completa del corpo e segna la propria mano con una croce di un unguento preparato e fornito dagli erboristi di Manful. Di sua spontanea iniziativa, senza chiedere nulla n informare i divinatori, dopo tre giorni dall'inizio del trattamento ha cominciato ad applicare sopra la ferita un miscuglio di olio di palma e penicillina per proteggere la soluzione di continuit della pelle ed evitare cos che vi ci si posino mosche e zanzare. Interrogato sulla penicillina, ammette di conoscerne la funzione antibiotica. Dopo circa due mesi di trattamento afferma che va molto meglio, il braccio e la mano si sono sgonfiati e ora sta riacquistando la mobilit dell'arto. Al termine della cura, offrir una capra, delle galline e delle noci di cola, ma non offrir alcolici perch di professione islamica. Caso 6. C. K. tenuto incatenato a un pesante tronco in una stanza vuota poco distante dal ewurkpa, un uomo di circa trent'anni affetto da quella che mi sembra essere una grave forma di schizofrenia, alterna momenti in cui ha scatti violenti a altri nei quali resta in uno stato di semi-incoscienza. Purtroppo incapace di parlare e il suo accompagnatore, al momento delle mie interviste, era momentaneamente rientrato ad Accra. I guaritori che lo hanno in carico mi raccontano la sua storia: era emigrato in Canada e, poco dopo, aveva iniziato ad avvertire i primi segni di squilibrio. Aveva dunque deciso di ritornare in patria e di rivolgersi agli specialisti di medicina tradizionale. Il trattamento della sua malattia consiste in un bagno completo con un infuso di erbe effettuato due volte al giorno da un erborista. Dopo averlo lavato, il guaritore prende della "black medicine", un unguento scuro ricavato da diverse erbe, e segna la sua testa prima seguendo la forma del cranio, poi seguendo i lineamenti del viso. Dall'analisi di questi sei casi possibile avanzare qualche considerazione. Innanzitutto, ogni patologia ha una causa efficiente da ricercare nella stregoneria e questa la prima cosa da sanare prima di cominciare il trattamento. (Il caso di L. K., nlsuh e guaritore tradizionale, fa eccezione perch l'evenienza che un anti-stregone sia esso stesso colpito da stregoneria costituisce una contraddizione inconciliabile nella visione tradizionale.) Il trattamento medico vero e proprio quasi sempre basato sull'utilizzo di infusi di erbe e foglie e sull'uso di speciali unguenti preparati dagli erboristi; nel caso in cui il paziente non sia in grado di provvedere personalmente alla preparazione e alla somministrazione delle terapie, un erborista ne prende in carico la responsabilit. Particolarmente interessante risulta essere il rapporto tra i sistemi di cura tradizionali e il sistema ospedaliero: molti degli intervistati hanno detto di essersi rivolti all'ospedale, ma sono in seguito venuti a Manful per rivolgersi ai guaritori tradizionali. Questo succede per vari motivi: in primo luogo, per ragioni economiche, poich ogni cura deve essere pagata e spesso le cifre richieste sono molto alte per un agricoltore. In secondo luogo, diffusa una certa sfiducia nei sistemi di biomedicina; o meglio, diffusa un'eccessiva aspettativa rispetto la sua efficacia che viene

Il trattamento di C.K., malato mentale

a ogni movimento. Sapeva che a Manful, luogo di provenienza della madre, potevano curarlo meglio che in qualsiasi ospedale, cos venuto direttamente al villaggio. A Manful ha consultato l'oracolo che gli ha rivelato di essere caduto vittima dell'odio che qualcuno provava per il proprietario del legname che aveva portato a Kumasi. L'aggressione stregonesca, che si era servita del bambino come veicolo, aveva colpito lui invece che dirigersi verso il suo datore di lavoro. L'influsso malefico della stregoneria stato risolto dagli anti-stregoni con l'offerta di una capra e una gallina pi qualche "drink" (akpeteshi, pito). Per trattare la mano, deve quotidianamente far bollire delle erbe in una grande pentola, facendo una sorta di "bagno di vapore" aiutandosi con un telo col quale coprirsi e posizionando la mano direttamente sopra la

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ritenuta istantanea e se la guarigione non rapida la fiducia accordata viene persa e ci si rivolge ai sistemi tradizionali. In terzo luogo, siccome ogni malattia ha una causa profonda radicata nella stregoneria, solo gli anti-stregoni possono risolvere la causa magico-rituale officiando i rituali appropriati: nessun ospedale pu offrire questo tipo di servizio. In conclusione, dunque, sembra che i due sistemi non siano in conflitto o in contraddizione, bens siano in un rapporto di instabile complementarit. Annullando lo squilibrio economico nell'accesso alle strutture ospedaliere, probabile che i pazienti si rivolgano contemporaneamente all'ospedale, per ottenere le cure necessarie per la guarigione fisica, e ai divinatori e guaritori tradizionali per affrontare l'aggressione derivante dalla stregoneria. Ad esempio, N. A., l'uomo con l'infezione alla mano, continua ad applicare sia l'infuso di erbe prescritto dai guaritori sia la penicillina. A alcune domande su questo punto ha risposto con un proverbio che si pu rendere in italiano con "chi pi ne ha, pi ne metta". Viene dunque dimostrata contemporaneamente fiducia e sfiducia per entrambi i sistemi: fiducia perch ci si affida ad entrambi con speranza e sfiducia in quanto si crede che coadiuvare l'uno con l'altro sia meglio perch dove non pu l'uno, potrebbe l'altro. Ciononostante, non viene espressa mai l'idea della possibilit di fallimento del trattamento tradizionale, la possibilit, cio, che questo non conduca alla completa guarigione: il sistema medico tradizionale un sistema ideologico (Aug 1977, 1986) chiuso, in cui anche i casi non risolti non fungono da falsificazione per le credenze e le pratiche, ma rappresentano ulteriori conferme della struttura di credenze. Un incidente significativo riguardo ai rapporti tra le credenze sulla medicina biomedica e quelle sulla medicina tradizionale accaduto quando, marted nove agosto, giunta da Bole una delegata dell'ospedale per distribuire a tutti gli abitanti del villaggio una pillola contro il tracoma oculare (un antibiotico a base di azitromicina). Gli atteggiamenti rispetto l'assunzione del farmaco variavano notevolmente in base alla posizione sociale degli individui: quasi tutte le donne e i bambini l'hanno assunta davanti all'incaricata; alcuni, soprattutto i divinatori, o l'hanno presa e buttata via in seguito o, addirittura, non si sono presentati alla distribuzione; infine, altri, soprattutto uomini senza competenze di medicina tradizionale, volevano assumerne pi di una, fornendo come giustificazione il potere rinvigorente insito in quel medicinale - incitando pi volte anche me ad assumerne per "rinforzarmi". Questo caso, in apparenza banale, rivela l'ampiezza dello spettro degli atteggiamenti possibili di fronte alla biomedicina: da una parte, viene ritenuta una sorta di panacea, un elisir di lunga vita che, indiscriminatamente, serve a tutto; dall'altra, vi una totale sfiducia nei suoi mezzi che porta, addirittura, a disfarsi del farmaco deliberatamente. Inoltre, da notare come la cura delle patologie oftalmiche sia una delle specializzazioni di Manful e molti divinatori mi hanno confermato che la loro medicina basta per far fronte a ogni evenienza e assumere le pillole dell'ospedale non necessario. A Manful, ho registrato due casi palesi di fallimento delle cure tradizionali: il primo il figlio del Kadewura che affetto da

disagio psichiatrico fin dalla nascita che gli comporta frequenti attacchi di convulsioni e un evidente ritardo mentale con gravi deficit nella vita relazionale; il secondo caso la figlia di L. K., il mio ospite, rimasta sorda dopo alcune complicazioni durante il parto. Nonostante le prolungate cure e i numerosi rituali svolti, non stato possibile risolvere le situazioni patologiche di queste due persone. Questo non ha intaccato minimamente la credenza nel sistema medico tradizionale, al contrario trova in esso giustificazione: infatti, mi stato spiegato che il problema di queste persone non deriva da agenti umani che li avevano colpiti con la loro stregoneria, bens discende direttamente da una sanzione sovrannaturale comminata dagli antenati o dalle divinit. I motivi di questa sanzione restano imperscrutabili ed impossibile per gli uomini agire su questo tipo di patologie per risolverle. In sintesi, le principali patologie, oltre a quelle di origine traumatica, curate a Manful sono quattro: infertilit (in gonja, egbentip; in safalba, ubadgira), impotenza, malattia mentale e malattie oftalmiche. Ogni tipologia di malattia mentale accomunata alle altre e viene chiamata indifferentemente yayasi: cos la supposta schizofrenia di G. K., la demenza del figlio del capo e la patologia di K. D. sono ritenute essere uno stesso tipo di patologia e vengono trattate in modi analoghi. Anche per le malattie oculari viene usato un singolo termine, ma il trattamento differenziato: sia la cataratta di J. K. che la congiuntivite di L. K. sono chiamate ningedlebu, ma in questo caso, come visto, la cura differente. Le cause riconosciute sono di tre tipi: 1. organiche: viene riconosciuto il carattere fisico-organico della maggior parte delle patologie, ma questo non esime dalla ricerca di cause pi profonde;

Il villaggio visto dal tetto della casa dell'etnografo

2. stregonesche: quando qualcuno, per odio, invidia, gelosia o altri comportamenti anti-sociali deliberatamente attacca con mezzi stregoneschi;

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3. sovrannaturali: sono patologie mandate direttamente dagli antenati o dagli di per sanzione morale, per cause imperscrutabili o, semplicemente, per obbligare gli uomini a offrire il culto e i sacrifici. Il rapporto tra medicina tradizionale e biomedicina molto complesso e le concezioni di senso comune sull'una e sull'altra si intrecciano in un agglomerato di concezioni magiche e sociali influenzate dalle strutture ideo-logiche: la medicina tradizionale infallibile perch appartenente alla millenaria tradizione degli antenati, mentre la medicina biomedica potente perch deriva da quella scienza e tecnica egemonica imposta durante gli anni del colonialismo. Sembra, inoltre, che per ogni patologia "semplice" ci si rivolga all'una o l'altra istituzione medica in base a considerazioni personali, economiche e di posizione sociale; mentre patologie complesse dalle cause difficilmente comprensibili e dalla difficile guarigione - come le malattie mentali o l'infertilit - siano destinate ad essere trattate secondo i dettami della medicina tradizionale che, pur non risolvendo la situazione, pu almeno fornirne una spiegazione in termini magico-religiosi e rendere cos "accettabile" il disagio. Ideo-logica, struttura socio-culturale e stratificazioni socioeconomiche concorrono alla scelta o alla compresenza di pi sistemi di cura intrecciandosi continuamente e occorrerebbe una ricerca finalizzata al chiarimento dell'interdipendenza e dell'interfunzionalit dei due sistemi di istituzioni che combini dati qualitativi e dati quantitativi, oltre all'eventualit di valutare in

base alle conoscenza della medicina biomedica, della farmacopea occidentale e della psicologia clinica l'efficacia dei sistemi di cura tradizionali messi in atto a Manful come in buona parte dell'Africa occidentale (in Ghana hanno parzialmente assolto questo compito gli studi di Twumasi 1975, Field 1960 e Schirripa 2005). Concludendo, vorrei raccontare un episodio personale lasciando al lettore lo sforzo di cogliere e interpretare la densit di questa come delle altre storie proposte. La mattina del venticinque agosto mi sono svegliato e, cercando di alzarmi dal mio giaciglio sul pavimento, sono ricaduto all'indietro, senza forze. Madido di sudore, stremato, in preda a brividi e con una forte cefalea, mi sono misurato la temperatura: la colonnina di mercurio del termometro si era fermata sui quarantun gradi centigradi. Sospettando un attacco malarico ho subito assunto i farmaci appropriati e una pillola di paracetamolo per abbassare la febbre. Appena ho avuto la possibilit di parlare con il mio ospite, gli chiesi se, come divinatore e guaritore, poteva far qualcosa per me; se poteva cio scoprire le cause della mia malattia e somministrarmi un trattamento per guarire - col doppio scopo di ottenere una cura e di poter essere soggetto di una seduta di divinazione e di trattamento tradizionale per fini euristici. A questa richiesta, L. K. mi rispose, con viva preoccupazione per la mia salute, di farmi vedere al pi presto dai medici dell'ospedale di Bole.

Note
Desidero ringraziare Luca Beneventi, Stefano Boni, Silvia Cuoghi, William Ghiaroni, Sonia Gibellini e Fabio Viti per i consigli, le correzioni e l'incoraggiamento. La loro attenzione ha contribuito a rendere migliore il mio testo, la cui responsabilit, soprattutto per quanto riguarda lacune imprecisioni e errori, resta comunque solamente mia. Tutte le foto incluse nell'articolo sono mie. 1. Per alcuni riferimenti bibliografici riguardo la concezione della malattia, della cura, del male, della stregoneria, della medicina e della persona rimando direttamente al fondamentale testo curato da Marc Aug e Claudine Herzlich (1984), ai classici studi di Edward Evans-Pritchard (1937), al volume collettaneo curato da Mary Douglas (1970), all'articolo di Robin Horton (1967), alla raccolta di saggi curata da Meyer Fortes e Germaine Dieterlen (1956), oltre al volume curato da Roberto Beneduce con Elisabeth Rudinesco (2005). 2 . Nel volume curato da Douglas (1970), incluso un importante saggio di Esther Goody sulle logiche dell'aggressione stregonesca nell'area gonja. 3 . Questa visione della malattia strettamente connessa con la nozione di persona; per quanto riguarda l'Africa sub-sahariana, un buon testo di riferimento l'articolo di Godfrey Lienhardt (1985). 4 . Si accetta qui l'idea di Victor Turner (1969) secondo la quale il processo rituale sia un insieme pi vasto del singolo rito preso in considerazione; un insieme che comprende un iter di passaggi e rituali, antecedenti e successivi al rito singolo, indispensabili per giungere alla comprensione di quest'ultimo. 5. La diagnosi delle patologie stata compiuta da me, in seguito a colloqui e a osservazioni. Ci tengo a precisare che non ho nessun tipo di competenza medica e che la patologia riportata indicativa e ha senso solo messa in relazione con le categorie locali che riporto pi avanti nella trattazione.

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Bibliografia
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Imparare a scoprire
Teorie della conoscenza e dellapprendimento nella ricerca di campo
di Cati Coe*
In Learning how to ask, Charles Briggs sostiene che fare domande una pratica radicata nelle convenzioni culturali. Gli etnografi partono da alcuni presupposti relativi alla natura del discorso e della conoscenza e le loro domande possono suscitare tipi di informazioni e relazioni diverse dalle aspettative. Questo articolo analizza etnograficamente le teorie della conoscenza ad Akuapem, Ghana, e come queste interagiscono con le teorie stesse del ricercatore durante le interviste. Imparare le convenzioni locali sulla trasmissione del sapere diventa perci uno dei compiti principali degli etnografi.

Mepe se anka mihu w amanne, nanso enye se wubisabisa asem pii (Avrei voluto capire le loro usanze, ma non era appropriato fare tante domande) Tratto dal diario del missionario di Basilea Andreas Riis del suo viaggio a Kumase e soggiorno a Fomana, 11 dicembre 1839; originale in tedesco tradotto in Twi da N. Clerk, pubblicato in Kristofo Senkekafo (1917:78-79) In Out of our minds (2000), Johannes Fabian esamina le pratiche della ricerca scientifica di alcuni esploratori in Africa centrale. Nell'ex Costa d'Oro (l'attuale Ghana), questi antenati dei moderni antropologi comprendevano missionari, come Andreas Riis, che studiavano i costumi e la lingua locale con l'intento di convertire gli africani al Cristianesimo. Leggendo le riflessioni dei missionari sui loro viaggi nella Costa d'Oro, rimasi sorpresa e stupita di trovare dei parallelismi con le mie stesse difficolt incontrate sul campo ad Akuapem, in Ghana. Nella citazione riportata in alto, dopo undici anni di vita e lavoro nella Costa d'Oro, soprattutto ad Akapuem, Riis dimostra una consapevolezza dei limiti del porre domande, che avrebbe potuto essere per lui, come lo fu per me, il primo canale verso la comprensione. Questo articolo esplora i problemi che possono sorgere nel condurre interviste ad Akapuem e discute le modalit di produzione di discorso e conoscenza emerse nella raccolta di storie di vita nel contesto della mia etnografia sulla produzione di una cultura nazionale nelle scuole di Akapuem, Ghana. Lo scontro con i canali locali di trasmissione culturale, infatti, mi fece guardare pi attentamente alla costruzione del sapere e alle pratiche di apprendimento nelle scuole e nei contesti comunitari. Vorrei incoraggiare i ricercatori a prestare attenzione agli intervalli, ai fraintendimenti e ai silenzi che si creano durante le interviste e nei dialoghi, non solo perch ci aiutano a formulare domande pi utili e appropriate, ma anche perch le teorie locali sulla conoscenza possono essere centrali per i temi che noi (in quanto mediatori e p r o d u t t o r i d i co n o s cen za) s t u d i amo p i d i q u a n to c i p o s s a i nizialmente sembrare. Il codice linguistico di unintervista non corrisponde al codice locale del dialogo o della trasmissione culturale. Gli antropologi si sono occupati di questioni epistemologiche, cimentandosi in rappresentazioni e scritture pi dialogiche, pi esplicitamente soggettive o multi-genere (Clifford e Marcus 1986; Rose 1990; Behar 1996) e analizzando le relazioni di potere entro cui la conoscenza etnografica si costruisce (Asad 1973; Fabian 2000). Tuttavia, non si sono interessati altrettanto all'analisi e alla trasformazione dei metodi di ricerca etnografica in conseguenza a queste questioni epistemologiche (ma vedi Wolf 1996). Anzi, in antropologia, il metodo di "campo" rimane inesaminato e misterioso. Di conseguenza, gli studenti possono ritornare da esperienze di campo difficili ricercando un rigore metodologico maggiore, credendo che il problema sia nella formazione, non nel metodo stesso. Gli antropologi necessitano di contrapporsi alle prospettive di campo naturaliste, comportamentiste e riduzioniste in cui "l'oggetto dell'indagine antropologica un oggetto esterno" e avrebbe

* Articolo gi comparso in Field Methods, v. 13, N. 4, pp. 392-411, con il titolo: "Learning how to find out: theories of knowledge". Copyright 2001 by Sage Publications. Reprinted by Permission of Sage Publications Inc.

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due principali caratteristiche: la stabilit e l'osservabilit (Karp e Kendall 1982: 251). Le questioni epistemologiche che gli antropologi hanno sollevato riguardo alla rappresentazione dovrebbero essere applicate anche allambito della metodologia di campo, sia tenendo in considerazione le modalit locali di produzione di conoscenza, sia concentrandosi sulla costruzione dei significati e sulla loro scoperta. Uneccezione rispetto a questa mancanza di interesse sulla metodologia di campo in antropologia costituita da Learning how to ask di Charles Briggs ([1986]1992). Questi sostiene che le interviste siano eventi linguistici multidimensionali in cui un ruolo fondamentale e giocato dalle teorie native dei ricercatori sulla comunicazione piuttosto che da quelle dei loro interlocutori. Di conseguenza, spesso, le interviste implicano incomprensioni ed errori di interpretazione. Egli descrive come i Messicani nel nord del New Mexico ai quali poneva le sue domande rispondessero "Chi lo sa?". I ricercatori arrivano sul campo con dei modelli retorici specifici che possono avere piu o meno senso per le persone con le quali parlano. Briggs sostiene che i ricercatori debbano ascoltare e imitare le strategie meta-comunicative prima di partecipare attivamente a questi scambi facendo domande; devono imparare prima di tutto in quale modo domandare. In ogni caso, le difficolt vanno oltre la mancanza di corrispondenza fra le cornici comunicative del ricercatore e quelle del nativo. Briggs lo lascia intendere quando sostiene che le credenze dei ricercatori sul linguaggio mettono in primo piano la sua funzione referenziale o descrittiva, dando rilievo ad oggetti, persone, eventi e processi ignorando l'atto linguistico come tale e il suo contesto. Le teorie dei ricercatori, in questo modo, mettono in luce il contenuto informativo del linguaggio piuttosto che, per esempio, il suo ruolo nel definire le relazioni tra parlante e uditore. Briggs mette perci in rilievo alcuni presupposti che stanno alla base delle teorie sul sapere dei ricercatori. Quali sono le teorie e i concetti dei ricercatori riguardo alla conoscenza? Michel Foucault (1990) descrive il processo attraverso cui il sesso, prima oggetto della confessione cristiana, venga medicalizzato durante il diciannovesimo secolo. La verit deve venire alla luce e la sua esplicitazione libera colui che la confessa. Ma la confessione richiede un interlocutore, una persona di autorit che la possa interpretare: "E' perch il lavoro di produzione della verit, se lo si vuole convalidare scientificamente, deve passare attraverso questa relazione" (p. 66 ed. ital. p.62). Nonostante Foucault stesse analizzando le radici della psicologia, questo processo di produzione del sapere scientifico pu valere anche per l'etnografia, in cui la ripetizione terapeutica e la conoscenza trasformativa. La conoscenza di s considerata desiderabile ed essenziale al processo. Molti dei nostri metodi di ricerca presuppongono che la conoscenza debba essere verbalizzata e spiegata per essere valida (Mavanho 1993) e che essa non risieda in pratiche

ben riuscite o esperienze corporee 1. Come Foucault e altri hanno mostrato, questo desiderio di conoscere l'intimit delle persone legato ai regimi di disciplina e potere. Coloro che sono al potere, siano imperatori o direttori aziendali, vogliono "una conoscenza sociale sistematica scritta" per gestire e dirigere meglio (Rose 1990: 31; Bendix 2000). Dunque, il desiderio di sapere di coloro che hanno potere legittima l'uso che gli etnografi fanno di un linguaggio che esprime significati letterali (linguaggio referenziale) e rappresentazioni del sapere decontestualizzato e indipendente dalle circostanze in cui stato prodotto. Su questo punto sono importanti alcuni recenti lavori sullapprendimento. Invece che concepire il sapere o l'apprendimento come internalizzato o come qualcosa di acquisito, Jean Live e Etienne Wenger (1991) definiscono l'apprendimento una pratica situata. Di conseguenza, la conoscenza non mai "fuori di l", un oggetto stabile ed osservabile, ma patrimonio di una complessa struttura di attori che agiscono in un contesto (Lave 1993). Il sapere rappresentato, discusso e negoziato da persone che sanno cose diverse e parlano con interessi ed esperienze differenti, costituendo insieme una situazione. Il conflitto presente in tutti gli ambiti dell'esistenza umana, incluso l'apprendimento. Voglio qui sostenere che non dobbiamo prestare attenzione soltanto alle pratiche meta-comunicative locali, ma anche alle meta-teorie della conoscenza che costituiscono le basi dell'interpretazione dei nostri interlocutori riguardo alle nostre attivit e ai nostri oggetti di ricerca. Abbiamo bisogno di essere sicuri che le nostre preoccupazioni epistemologiche, riflesse nei dibattiti teorici e nelle pratiche di rappresentazione, orientino anche i nostri metodi etnografici per comprendere come "la conoscenza di un mondo costruito socialmente socialmente mediata" (Lave e Wenger 1991: 51). Akuapem e la nazione, cristianesimo e cultura Akuapem un'area collinosa nella regione est del Ghana. Le sue diciassette citt si estendono su una catena collinare di bassa altitudine, che oscilla dai 365 ai 487 metri (Blay 1972). Nelle valli vicino alle fattorie si trovano molti piccoli villaggi: a lungo andare, un elevato numero di persone migrato qui. Ciononostante, le ville nelle cittadine mostrano che le persone sono legate al proprio luogo d'origine: tornano a casa in occasioni di festival e funerali durante i weekend, e in questi momenti, se possono, costruiscono case. Le citt nel distretto di Akuapem sono in competizione tra loro e i conflitti sono stati acuiti dalla conoscenza che gli abitanti hanno circa la storia della loro citt, raccontata con una certa consapevolezza delle identit etniche e delle ingiustizie passate. I primi coloni di Akuapem furono di lingua Guan2, ma fino al diciassettesimo secolo Akuapem fu conquistata e governata da popolazioni Akan di lingua Twi, tra i quali i primi furono gli Akwamus, che misero in atto politiche linguistiche di tipo imperialistico, costringendo i detenuti ad imparare il Twi ed ad usarlo per difendersi in tribunale. Gli storici locali indicano le atrocit commesse dagli Akwamus

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come causa della richiesta di appoggio ai governanti di Akyem Abuakwa da parte degli abitanti di Akuapem nella guerra per rovesciare i governanti Akwamu. Dopo che gli Akwamus furono sconfitti e allontanati oltre il fiume Volta, i guerrieri Akyem chiesero Akuapem come ricompensa per averli aiutati e, siccome gli abitanti di Akuapem non avevano oro, chiesero agli Akyem di guidarli. Agli Akyem, anche loro un popolo Akan, furono date delle terre per stabilirsi nelle attuali citt di Akropong e Amanokrom. Portarono ad Akan l'organizzazione politica, designando parenti e amici ad importanti ruoli e organizzando le diciassette citt in una disposizione gerarchica tradizionale Akan, basata su formazioni militari. Akropong divenne la capitale del nuovo regno con un capo supremo. Questa storia oggi riattivata grazie alla consapevolezza etnica Guan e all'effettiva disintegrazione dello stato tradizionale Akuapem in tanti stati indipendenti durante gli anni '90 (Gilbert 1997). Arrivai ad Akuapem per studiare la produzione della cultura nazionale nelle scuole del Ghana. Il Ghana sembrava essere un luogo affascinante dove studiare il modo in cui i governi stavano tentando di riavviare lo sviluppo nazionale attraverso la formazione di un patrimonio nei giovani cittadini. Cercai di comprendere le forze- sociali, intellettuali e ideologiche- che stavano dietro alla promozione scolastica della cultura in Ghana, e i motivi per cui le persone si battevano per e attraverso la cultura. Pianificai anche di analizzare in che modo i curriculum nazionali e la politica culturale venivano trasformati dagli attori sociali nelle scuole di Akuapem. La mia ricerca si concentrava su come le scuole divennero il luogo di produzione, invenzione e oggettificazione della cultura nazionale, costituita non solo dagli ufficiali di Governo e dalle lites nazionali, ma anche dagli attori locali. Il PNDC, Provisional National Defence Council del Ghana, che sal al potere nel 1981, era particolarmente interessato alla produzione di una cultura nazionale e al ringiovanimento della tradizione, cioe alla creazione di una nuova politica culturale, promuovendo festival nazionali e istituendo l'insegnamento della cultura nelle scuole (National Commission on Culture 1991)3. Il programma scolastico aveva due componenti. Come parte della riforma dell'istruzione finanziata dalla Banca Mondiale, una materia chiamata "studi culturali" fu aggiunta nel 1986 al programma nazionale per i primi nove anni di istruzione. La materia prevedeva per gli studenti lapprendimento di musica, danza, rituali del ciclo di vita, arte oratoria e religione. Un secondo metodo pi diffuso includeva competizioni culturali tra scuole in cui gli studenti si esibivano in cori, performance di tamburo, recitazione di poesie, danze e mostravano i loro lavori in esposizioni di arti e manufatti. Intervistare era solo uno dei tanti metodi per capire le motivazioni ideologiche e gli effetti non voluti dell'inclusione delle tradizioni culturali nelle scuole. Ho vissuto nella citt di Akropong, nell'area di Akuapem, per 12 mesi, da agosto 1998 ad agosto 1999, un anno scolastico. Ho

osservato le lezioni di tradizioni culturali e altre materie, le prove per le competizioni culturali e le competizioni stesse; ho partecipato alle messe, ai festival e alle attivit scolastiche di domenica; e ho fatto ricerca storica in archivi nazionali e regionali. Cercando di capire gli effetti complessi della produzione della cultura nazionale in Ghana, mi sono concentrata su tre aree: 1) il processo attraverso cui, storicamente, la cultura diventata un oggetto di discorso, una selezione del flusso di pratiche culturali, ed stata associata alla nazione, 2) i diversi discorsi contemporanei sulla cultura e le modalit in cui studenti e insegnanti negoziano la politica governativa con i simboli cristiani nelle lezioni e nelle esibizioni, 3) l'impatto dell'insegnamento della cultura sulla relazione degli studenti con il sapere nelle scuole. Usando questi tre elementi, ho documentato gli effetti complicati e problematici dei programmi culturali rivolti ai giovani nelle scuole in una nazione africana post-coloniale. Ho esaminato come le pratiche e i significati della scuola in un'area (Akuapem) hanno trasformato gli intenti ideologici dei programmi governativi, laddove questi programmi creavano differenti possibilit rispetto a quelle disponibili a scuola. Fui introdotta ad Akuapem da un intellettuale in pensione, che promuoveva la sua citt natale ai forestieri, specialmente stranieri, facendo da intermediario rispetto alle influenze esterne. Ex insegnante di lingue, aveva insegnato a molti professori delle scuole e perci facilit il mio ingresso a scuola. Queste coincidenze avevano anche un senso da una prospettiva di ricerca. Un luogo collinare, considerato perci salubre per gli europei, la costa di Akuapem -e Akropong in particolare- divenne il quartier generale dei missionari di Basilea sulla Costa d'Oro negli anni '40 del 1800. Akuapem ha una lunga storia di esposizione al Cristianesimo e all'istruzione e un alto tasso di scolarizzazione (Kwamena-Poh 1973). Le Chiese in Ghana si contrappongono alle pratiche tradizionali: un antagonismo mostrato vividamente quando Ephraim Amu, un insegnante di musica del Presbtyterian Teacher's College, fu espulso dalla Chiesa e dalla scuola per aver indossato un vestito africano in chiesa nel 1931 (Agyemang 1988). Akuapem non rappresentativo del Ghana, ma un luogo che evidenzia alcune problematiche la cui rilevanza va oltre Akuapem stesso: la tensione ideologica tra Cristianesimo e "tradizione", le tensioni strutturali di un'economia basata sull'agricoltura ma che arricchisce i cittadini e coloro che sono vicini allo stato, e le fluttuanti relazioni tra citt, etnicit e nazione. Fare tante domande: il processo di costruzione delle storie orali Quando iniziai la mia ricerca sul campo ad Akuapem nell'agosto 1998, decisi che nei primi mesi, mentre aspettavo di aver accesso alle scuole, mi sarei concentrata sull'incorporazione storica della tradizione nelle scuole di Akuapem. Mi domandavo se l'insegnamento della cultura nei curricula scolastici risalisse a

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prima della riforma del 1986, magari alla fine del periodo coloniale negli anni '30 e '40 o all'inizio dell'indipendenza negli anni '60. Essendo a conoscenza della scarsit dei documenti scritti negli archivi, dopo un viaggio esplorativo di due mesi nel 1997, speravo di studiare le ragioni ideologiche dell'interesse nella cultura tradizionale attraverso le storie orali, intervistando insegnanti e chiedendo loro delle loro esperienze di studenti e insegnanti dagli anni '40 in avanti. Nonostante l'insegnamento della cultura fosse una riforma nazionale, ero curiosa di sapere se gli insegnanti erano stati attivi nel promuovere l'eredit ghanese che poi il governo aveva adottato. Dalle poche persone che conoscevo, raccolsi una lista di nomi degli insegnanti pi vecchi con un interesse nella cultura. Da quel punto, usai un "campionamento a catena" e finii per intervistare dieci persone, fermandomi prima di aver intervistato tutti coloro che mi erano stati consigliati. Le persone che intervistai erano uomini anziani, dai 60 ai 90 anni: erano insegnanti in pensione o ministri che avevano insegnato all'inizio della loro carriera. Il loro inglese era abbastanza buono. All'inizio, condussi le interviste in inglese; poi, parlammo Twi, usando l'inglese occasionalmente quando non capivo cosa era stato detto o quando avevo difficolt ad esprimermi4. Qualche volta, le persone che mi avevano fornito i contatti mi accompagnavano alla prima visita per presentarmi; altre volte, mi dicevano di citare i loro nomi. Inutile dire che avevo dimenticato il consiglio di Briggs ([1986] 1992) riguardo alle prime osservazioni e all'imitazione delle tipologie locali di discorso prima di imbarcarsi nelle interviste; ero preoccupata di portare a termine tutto ci che dovevo fare e cos andavo avanti a fare ci che vedevo essere il mio lavoro5. Descriver quello che accadde durante una serie di visite e interviste con Mr. Asante (uno pseudonimo) svolte nellarco di un mese come esempio di ci che comunemente avveniva durante le interviste. Egli era uno dei miei primi informatori-chiave quindi le difficolt del processo furono amplificate. Durante la mia prima visita con Mr. Asante, una visita di presa di contatto per come la pensavo io, mi presentai e descrissi il mio progetto: ero interessata all'insegnamento della cultura (termine locale) sotto forma di proverbi, musica, danza, "arti e mestieri" nella scuola primaria e secondaria (i primi nove anni di istruzione). In ogni caso, avevo bisogno di qualche coordinata sulla riforma e speravo che Mr. Asante potesse raccontarmi di come queste cose venivano insegnate quando egli frequentava e insegnava a scuola. Dissi che stavo scrivendo un long essay, la parola usata nelle scuole di abilitazione e nelle universit per indicare la tesi. Spiegai che volevo registrare l'intervista e che potevamo parlare nella lingua in cui Mr. Asante si sentiva pi a suo agio. In questo modo, se avesse detto qualcosa in Twi a me poco comprensibile, avrei potuto tornare indietro e riascoltare la registrazione. Gli dissi anche che volevo ricordarmi delle cose che mi diceva e che sarei stata felice di dargli delle copie delle cassette. Egli disse che avrebbe preparato qualcosa da leggere per la registrazione. Lo rassicurai che non era necessario, ma non ascolt le mie obiezioni. Sembrava contento e impaziente, mi disse che era stato un piacere incontrarmi e che aveva molti documenti da mostrarmi. Parl

anche della sua storia di vita e mi present alla sua famiglia. Poi ci accordammo sul giorno in cui dovevo tornare6. Alla seconda visita, spiegai di nuovo il mio oggetto di ricerca in Twi. Mr. Asante inizi a raccontarmi di come l'artigianato veniva insegnato nella sua scuola elementare di Akropong e poi raccont della sua biografia e lo stato delle "arti e mestieri" durante la sua formazione in diversi posti e di quando divenne insegnante e si spostava di scuola in scuola in diverse citt nel sud del Ghana. In questa fase, mise molta enfasi sulle date e sui luoghi. Era a disagio con l'uso del registratore, ma mi lasci prendere appunti mentre parlava. Quando arriv alla fine della sua biografia, Mr. Asante mi chiese cosa volevo studiare e io mi spiegai un po' meglio, modificando le mie domande in modo da riflettere i suoi interessi per le "arti e mestieri". Mi disse che uno dei motivi per cui mi aiutava era che sentiva il bisogno di documentare la sua vita per passare oltre tutte le cose che aveva fatto e visto. Nonostante si considerasse pi un artista che un insegnante, sentiva che ora, sulla spinta dei miei interessi, doveva pensare ad insegnare l'arte ai suoi figli. Poi mi spieg l'origine del suo nome e mi raccont della sua prima moglie che era morta qualche anno prima e dei suoi figli. Mi invit inoltre a restare a cena e io accettai. All'incontro successivo, una decina di giorni dopo che avevamo consumato la cena preparata dalla sua nuova moglie, mi lasci accendere il registratore mentre leggeva gli appunti preparati per quell'occasione e altri brani dall'autobiografia che aveva scritto negli anni '80. Gli appunti che aveva preparato sembravano l'inizio di un libro di testo sulla lavorazione della creta scritto per insegnanti della scuola primaria e secondaria, dove si descriveva l'importanza della lavorazione, come preparare la creta, i metodi di cottura e decorazione dei pezzi di argilla. Alla fine di questo incontro, dopo un'ora e mezza di sua lettura su cassetta, tornai a casa completamente sconcertata, chiedendomi cosa era successo. Cosa avevo detto che gli aveva fatto pensare che volessi un testo sulla lavorazione della creta? Ripensai a cosa avevo detto e fatto, ma alla fine realizzai che potevamo solo perpetuare l'inevitabile componente di incomprensione connaturata alla nostra comunicazione. Alla quinta visita, una settimana dopo, Mr. Asante continu a leggere il suo testo e quando finii i suoi scritti, prosegui leggendo un discorso che aveva sostenuto al Festival delle Arti di Legon nel 1977 sulle "Forme contemporanee dell'espressione artistica". Dopo 45 minuti, approfittai dello scatto emesso dalla fine della cassetta, per cambiare la direzione del nostro discorso. Senza toccare il registratore, gli feci domande pi precise su cosa succedeva durante la formazione da insegnante di arti e mestieri ad Achimota e sugli scopi dell'insegnamento di quella materia a quel tempo. Cercavo in tutti i modi di passare da una forma generale ad una pi descrittiva e dall'aspetto pratico a quello ideologico. La conversazione divenne sbilanciata, con tante domande e risposte dirette da me. Una volta arrivata a casa, mi sentii male per non aver riacceso il registratore e averlo fatto continuare. Pianificai un'altra intervista, in cui mi chiese di accendere il

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registratore e inizi a leggere ancora dal suo taccuino, dicendo che era "felice di continuare la nostra discussione sull'educazione artistica". Quando fin, gli feci ancora una volta alcune domande sulla sua esperienza e sulla lavorazione della creta, finendo in una conversazione instabile. Questa fu la nostra ultima intervista. Rimasi per in contatto con Mr. Asante, tornando a trovarlo circa una volta al mese quando si trovava nel quartiere. Qualche volta passavo semplicemente per salutare e chiedere come stavano lui e la sua famiglia; altre volte, lo aggiornavo sullo stato della mia ricerca per avere riscontri ed approfondimenti da parte sua. Nel giugno 1999 scrissi "Mi sembra di dover dire alle persone cosa sto trovando e non trovando e coinvolgerli in questo modo". Una volta mi prese in prestito il registratore e qualche cassetta per intervistare i suoi parenti sulla loro storia familiare. Su questo modello si strutturarono anche le interviste svolte con altri informatori, sebbene questi piuttosto che dei lavori d'argilla parlassero della storie della citt, dei missionari e della chiesa ad Akuapem e dello sviluppo della musica da chiesa. Tutti si preoccupavano della precisione delle informazioni che mi stavano trasmettendo, spesso leggendo da documenti o da libri in loro possesso, ma Mr. Asante fu l'unico che cre un libro per me7. Mi davano cio informazioni che erano abituati a trasmettere e riguardo cui si sentivano esperti; e io non ero l'unica che implorava informazioni per molti dei miei informatori. In questo modo, mi venivano impartite delle lezioni: mi trasmettevano informazioni codificate che avevano un indirizzo e un ordine, nel senso di avere un inizio, un corpo centrale e una fine, cos come le narrazioni storiche o le introduzioni alle materie nei libri di testo. Non ero sicura che stesse andando male. Le persone con cui parlavo sembravano gentili, come se volessero aiutarmi, e l'atmosfera era positiva. Sicuramente lavoravano duro per aiutarmi. Ciononostante le nostre comprensioni e le interpretazioni delle nostre reciproche interazioni erano abbastanza diverse. Cosa significava la cultura, per i Ghanesi e per me Nel momento in cui iniziai le interviste con Mr. Asante, non ero ancora completamente consapevole dei significati locali del termine "cultura" (in Twi, ammamere) che usavo come punto di partenza in questi colloqui, bench sapessi che era un termine locale. La gente di Akuapem pensa che la cultura tocchi le loro vite solo occasionalmente, in eventi fuori dall'ordinario: cerimonie rituali, festival e competizioni culturali scolastiche. Incorporata dai capi, che ne erano i guardiani, la cultura forniva delle connessioni con gli antenati e il passato. La cultura era associata alla performance, specialmente alla musica e alla danza, e alle pratiche tradizionali religiose. Perci, non comprendeva gli interessi di Mr. Asante nelle arti e mestieri. Stavo lavorando sotto l'influenza delle nozioni tardo coloniali di cultura africana che comprendevano "arti e mestieri" locali, dopo aver letto della fondazione della scuola di Achimota nel 1927, in cui sia l'artigianato che le esibizioni tradizionali erano importanti in quanto emblemi della cultura africana. La riforma del sistema

educativo, sponsorizzata dalla Banca Mondiale del 1986, aveva istituito la materia "studi culturali" cos come "studi vocazionali", che riformavano l'insegnamento di alcune arti e mestieri rispetto a come erano state insegnate a Achimota. Pensai che ci fosse una continuit ideologica e pratica tra Achimota e questa riforma. Invece, per la gente di Akapuem, gli studi vocazionali erano considerati una formazione al lavoro (bench manuale) e non avevano nessun legame con la cultura, considerata qualcosa di futile rispetto alle questioni centrali dell'istruzione. Io definisco la cultura in modo diverso da la maggior parte dei ghanesi. Vedo la cultura come qualcosa che include le pratiche quotidiane, incorporate e abituali, delle persone; questo comprende le pratiche del Cristianesimo, dell'istruzione e i processi di appropriazione dei temi e delle idee occidentali. contestuale e flessibile: si svolge in uno specifico contesto in una popolazione specifica. Per esempio, sostengo che ci sono tradizioni culturali scolastiche in Ghana in cui certe pratiche e certi modelli linguistici sono diventati naturali e attendibili; il modo scolastico di trasmettere la conoscenza era ci che stavo stimolando nelle mie interviste. Ma per molti ghanesi, la cultura significava cultura ghanese, che si poteva evitare o a cui si poteva partecipare di domenica o in specifiche occasioni. Attraverso le mie interviste e altre conversazioni pi spontanee imparai il campo semantico del termine cultura e iniziai ad usarlo in maniera pi appropriata. Nozioni locali di esperti Realizzai anche che parte del problema era costituito dal fatto che mi stavo concentrando sul periodo sbagliato. Le persone che mi erano state consigliate erano uomini anziani cresciuti negli anni '30 e '40 quando le scuole erano sotto il controllo della Chiesa; non erano molto interessati alla cultura, considerata antitetica rispetto al Cristianesimo. Inoltre, le poche informazioni che avevo sul passato erano frammentate: in quanto insegnanti, questi uomini si erano spostati molto seguendo i loro incarichi, e cos non riuscivo a ricostruire una storia dell'educazione ad Akropong o perfino ad Akuapem perch questi avevano insegnato in una citt (magari nella regione centrale o nella Brong-Ahafo o nel nord) per tre anni e in un'altra per i successivi otto. Realizzai che dovevo chiedere di coloro che a quel tempo erano quarantenni o cinquantenni, che erano cresciuti nell'epoca dell'indipendenza quando l'insegnamento della cultura venne promosso. Forse avrei dovuto interessarmi meno agli insegnanti che si erano spostati di citt in citt ma piuttosto a chi era stato studente ad Akropong. Per erano proprio coloro che non avevano avuto successo a scuola che erano rimasti a vivere ad Akropong e questo genere di persone erano esattamente quelli che non godevano di rispetto e che non mi erano stati consigliati come "esperti". Il campionamento "a catena" diventa dunque problematico quando l'oggetto del proprio studio diverso dalla comprensione locale di ci che un sapere prioritario. Ottenni qualche successo facendo domande sulla storia dell'insegnamento della cultura ad insegnanti di mezza et che incontravo quando visitavo le scuole. Normalmente non si

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trattava di interviste strutturate, ma conversazioni sotto il portico o nella sala insegnanti la mattina presto o durante l'intervallo, suscitate dai miei racconti sui miei interessi e su cosa stavo cercando. Mi raccontarono soprattutto storie personali ed erano meno preoccupati di essere precisi perch non c'era il registratore, a quel punto mi conoscevano meglio rispetto ai miei informatorichiave e le loro storie facevano parte di conversazioni alla pari. In ogni caso, durante le interviste, anche gli insegnanti di mezza et mi parlavano della cultura sotto forma di varie e importanti usanze, insegnandomi, per esempio, l'ordine delle attivit all'interno di un festival o di un rituale. Spesso avevo l'impressione di rompere la cornice della conversazione se chiedevo delle loro storie personali o degli eventi e dei curricula nelle loro esperienze. Un problema era che l'insegnamento della cultura nelle scuole non era considerato da loro un sapere. Cos, anche quando usavo il termine "cultura" in maniera appropriata, e nonostante parlassi con persone che avevano conosciuto personalmente i programmi culturali durante l'istruzione, questi volevano trasmettermi un corpo di conoscenze riguardanti la cultura, bench chiedessi dei programmi scolastici. Per capirne le ragioni, necessario analizzare le teorie locali sulla conoscenza e l'apprendimento ad Akuapem. Saperi locali e contesti di apprendimento Nell'etnografia della conoscenza di Maurice Bloch (1993), egli distingue diversi tipi di saperi e stili comunicativi corrispondenti a diversi stadi e status nel ciclo di vita degli Zafimaniry del Madagascar. I bambini sono associati con il sapere pratico e scientifico della foresta, le persone sposate con il sapere pratico agricolo e gli anziani con la saggezza e la storia: in questo modo, con il passare dell'et, la conoscenza ha una pertinenza decrescente rispetto all'ambiente circostante e diventa pi astratta. Bloch sostiene che il saper leggere e scrivere tra gli Zafimaniry visto come qualcosa di simile al sapere degli antenati, nonostante il fatto che la maggior parte degli alfabetizzati siano giovani uomini. Prendendo ispirazione dalla tipologia di Bloch, distinguo tre tipi diversi di conoscenza che ho visto operativi ad Akropong e in generale ad Akuapem. Il primo un tipo di sapere pratico, legato a compiti quotidiani come i lavori di casa (cucinare, lavare, spazzare). Un altro un sapere specializzato, come la carpenteria, la tessitura kente, il suonare i tamburi, che dipende dall'accesso ai contesti di performance per parentela o apprendistato. Il terzo un sapere incentrato sulla storia (genealogie di famiglie e di capi, storia della citt) e sulla pratica rituale. Come gi accennato, la storia (della Chiesa e della citt) un importante genere di discorso ad Akuapem, che si ritrova nei sermoni religiosi, nelle conversazioni quotidiane in cui gli anziani mostrano il loro sapere sotto forma di aneddoti storici, e durante i funerali. Solo alcuni di questi tipi di saperi sono identificati come culturali dagli abitanti di Akuapem: alcune delle conoscenza specializzate, come suonare i tamburi o danzare, sono qualificate sotto questa etichetta, ma pi comunemente, sono considerate in questo modo la conoscenza storica e rituale. Questi saperi hanno una

connotazione di genere e dimostrano una gerarchia gerontocratica che opera ad Akuapem: il sapere pratico disponibile a chiunque ma specialmente usato da giovani uomini e da donne, mentre il sapere degli eventi antichi e rituali il pi prestigioso, non largamente disponibile e nelle mani di alcuni anziani. Un'esecuzione adeguata altamente valutata per tutte e tre le tipologie di conoscenza, e perfino la pi astratta posta in atto: durante i funerali, si discute di genealogie per chiarire questioni legate all'eredit, e i rituali sono messi in scena ai festival. La rappresentazione pu includere un'esibizione di abilit verbale. La precisione ha un grande peso nella rappresentazione pubblica. Una cattiva esecuzione un'umiliazione personale e una perdita di reputazione (vedi Yankah 1995); errori durante le esecuzioni rituali possono provocare punizioni (perfino mortali) da parte degli spiriti arrabbiati o degli antenati. La conoscenza pi potente e sacra considerata segreta, usata per rinforzare lo status di certi anziani e capi. Cos come i capi sono protetti dal mondo profano dalla mediazione dei loro akyeame o portavoce (Yankah 1995), lo sono anche gli oggetti potenti o gli eventi tenuti nascosti e protetti dall'ambiguit e dalla segretezza. Molti saperi culturali e storici sono considerati segreti e controllati dagli anziani; per questo sono chiamati mpanyinsem, affari degli anziani. La natura segreta della conoscenza sottolineata dagli autori che rendono quella conoscenza pubblica, attraverso i loro libri. Nella prefazione di un famoso libro che documenta numerosi festivals in Ghana, A. A. Opoku (1970) scrive che difficile esprimere ringraziamenti "in un libro che ha a che fare con ci che sacro e in qualche misura segreto nel nostro patrimonio culturale". Nella recensione di due testi che descrivono due festivals Akan, I. E. Boama (1954) scrive: I due festivals Twi che ogni Akan dovrebbe cercare di vedere sono Adee e Odwira. Ma ci sono molte persone che pur avendo assistito ai festivals, ne hanno visto solo una parte. Questo perch solo chi sta dentro ha il permesso di vedere le vere attivitse sei un cittadino (figlio della nazione), compri questi libri per leggerli e se conosci i segreti della tua nazione, non li scarterai. (Traduzione dal Twi di Afari Amoako e me) Il sapere culturale al suo livello pi profondo e pi puro era dunque considerato nascosto, non accessibile agli estranei: i libri che lo documentavano violavano quel segreto descrivendo rituali a chi non era parte della cerchia dei reali e ai giovani. Anche alcune storie erano considerate segrete. Un giorno, mentre percorrevamo la strada principale di Larteh, il professor Asiedu, uno dei miei principali informatori, mi raccont che quando, nel 1957, scriveva la sua tesi per il Presbyterian Training College sulla storia di Larteh and a parlare con un anziano della sua citt natale. L'anziano gli disse che non gli avrebbe detto niente se non avesse portato da bere, e quando lui torn il signore era morto. Un altro anziano non gli raccont niente e l'allora giovane professor Asiedu, lo rimprover dicendogli "se non parli, come faranno i bambini a imparare?".

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"Perch non volevano raccontare niente?", chiesi a Asiedu in Twi. "Wosuro (avevano paura)", rispose. "Di cosa avevano paura?" chiesi. Lui mi disse che avevano timore di rivelare qualcosa di segreto e che qualche spirito li avrebbe puniti. (Note di campo, 19 febbraio 1999). La segretezza di un certo tipo di sapere storico e culturale permette agli anziani potenti di manipolare importanti decisioni sui diritti di propriet e sulle posizioni politiche che sono connesse profondamente alla genealogia familiare e alla storia locale. Come sostiene William Murphy (1980), il contenuto di questo sapere nascosto non influisce quanto i privilegi che lo stesso segreto crea. Bench in tutte le forme di saperi della comunit venga privilegiato l'aspetto empirico, che si tratti di lavori domestici mattutini, di festivals o di rituali in boschi sacri, l'attivit scolastica ad Akuapem si distingue per trasmettere un sapere che non n pratico n utile, in cui la conoscenza resa astratta e creata in un gioco di riproduzione di parole, una litania da apprendere senza discussioni e con poca attinenza con la vita quotidiana. Le lezioni a scuola - e questo modello diventa pi evidente e pi forte nei livelli superiori dell'istruzione- consistono in una discussione guidata dall'insegnante. Il professore fa delle domande il cui scopo esplicito far emergere la preparazione degli studenti, ma questi riconoscono che ci si aspetta che diano la riposta che l'insegnante ha in mente. La discussione si risolve in una serie di liste e di definizioni scritte alla lavagna. Vengono poi forniti gli appunti: l'insegnante infatti scrive alla lavagna delle frasi e dei paragrafi sull'argomento, spesso riproponendo alcuni punti della precedente discussione, e gli studenti copiano questi appunti nei loro quaderni. Questi testi saranno la base per esercizi, domande di verifica e (si presuppone) per gli esami nazionali. Qualche volta, per compito in casa o in classe, l'insegnante scrive delle domande alla lavagna basate sugli appunti e gli studenti devono scrivere le risposte sui quaderni8. Gli appunti danno la possibilit agli studenti di ripassare le informazioni dalla lavagna copiandole nei loro quaderni. Si tratta di un processo meccanico e faticoso. I quaderni sono spesso gli oggetti materiali attorno ai quali ruotano le lezioni: gli studenti si precipitano a copiare dalla lavagna; gli appunti vengono raccolti per essere valutati dall'insegnante, che spesso ha pile di quaderni sulla cattedra, poi i quaderni vengono ancora ridistribuiti e si fanno le correzioni. Gli appunti sono un meccanismo importante della trasformazione del sapere quotidiano in sapere scolastico, dato che verbalizzano una conoscenza incorporata attraverso parole inglesi, definizioni e liste. La natura astratta e decontestualizzata del sapere scolastico lo rende molto simile al sapere storico e al sapere degli anziani, ma nel momento in cui viene insegnato ai bambini, viene semplificato e appiattito, fenomeno che ho discusso nei dettagli altrove (Coe 2000). A differenza del sapere storico e culturale,

comunque, la conoscenza scolastica utile solo nella sua riproduzione sui fogli d'esame. La messa in scena della competenza Ho presentato queste tipologie di conoscenza perch hanno strutturato il modo in cui le persone rispondevano e davano senso alle mie domande. Mi sembra che molti dei miei informatori pi importanti pensavano alle mie domande come a delle interrogazioni scolastiche: il loro recitare da documenti e il mio registrare su cassetta o prendere appunti riproduceva le modalit di trasmissione da insegnanti ad alunni, eccetto che per la lavagna. Questo fece s che presentassero una conoscenza codificata e formalizzata, non la propria esperienza personale. Le mie domande sulla cultura stimolarono descrizioni di usanze e di rituali da parte degli insegnanti di mezza et che insegnavano queste stesse descrizioni o a cui erano state insegnate in giovinezza. L'accuratezza era importante nei termini di una corretta performance, dove gli informatori tenevano a presentare informazioni vere e dove l'ansia era accresciuta dal mio registrare. Non ero l'unica a chiedere loro informazioni. Il professor Asiedu si assicur che sapessi che altre persone erano state da lui per avere informazioni sulla storia della citt. Egli comment, facendomi allo stesso tempo un complimento, che siccome delle persone sagge venivano a cercarlo, i suoi figli e sua moglie pensavano che anche lui lo fosse. A un giovane insegnante che capit durante una mia visita, Asiedu disse che eravamo andati a imparare mpanyinsem o le questioni degli anziani da lui. I miei informatori, dunque, avevano l'impressione che le mie domande contribuissero al loro status e alla loro autorit di anziani ben informati agli occhi delle loro famiglie o dell'arena pubblica. Il professor Asiedu, in particolare, aveva trasformato se stesso da insegnante in pensione ad anziano della citt, da Oyeame a capo, e poteva aver visto i miei interessi pi nella natura dei mpanyinsem che nel sapere scolastico. Per evidenziare la loro competenza, i miei informatori indicavano la loro et e la loro esperienza durante le narrazioni delle loro storie di vita, elencando le date e i luoghi di nascita, il curriculum scolastico, gli incarichi da insegnante, la formazione, gli ultimi impieghi e la pensione. Qualche volta il racconto includeva la spiegazione dei loro nomi e la discussione della loro storia familiare, come abbiamo visto con Mr. Asante. Dopo diversi episodi simili, imparai a domandare questo tipo di storie di vita. La prima volta che lo feci, la moglie dell'informatore che stava ascoltando la nostra intervista, fece un grugnito di soddisfazione, mostrando quanto la domanda fosse appropriata. Altre domande che valorizzavano l'et e l'esperienza dei miei informatori si rivelarono utili, come suggerire comparazioni fra il passato e il presente. Gli anziani spesso facevano paragoni tra il presente e il passato per evidenziare la loro conoscenza e criticare il modo di agire attuale9. Imparai a chiedere "Com'era l'educazione ai tuoi tempi?"10 e a seguire "Cos' cambiato da allora?", invitando a criticare il presente. Entrambe queste domande mostravano

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rispetto per le loro competenze ed esperienze e suscitavano uno specifico stile di discorso associato agli uomini anziani, aiutando quindi a costruire la cornice dell'intervista come quella dell'insegnamento impartito da una persona pi grande ad una pi giovane11. Ero contenta che mi raccontassero le loro storie di vita perch le vedevo come un'occasione per porre domande pi specifiche sull'istruzione e sulle esperienze d'insegnamento. I miei informatori, per, non capivano perch stessi facendo quelle domande; volevano raccontarmi le loro prospettive e i loro saperi in toto, come un pacchetto preconfezionato. Cambiare la direzione delle conversioni e interrompere le loro lezioni sull'argomento non era rispettoso dell'et e delle competenze. Indagare sulle esperienze personali poteva essere interpretato come una minaccia alla loro autorit- davvero sai questo? Eri veramente l? Il mio scopo era sostenere delle interviste aperte, colloquiali, informali e scorrevoli (Jackson 1986; Rubin e Rubin 1995), ma la comprensione delle interviste da parte dei miei interlocutori risult pi formale, dove loro impartivano un sapere codificato e preciso da anziani ad una giovane, o da insegnanti ad una studentessa. Di conseguenza, la mia nozione emica di cosa dovesse essere un'intervista colloquiale, supportata dalla mia formazione accademica, si modific in un genere di discorso di Akuapem (mpanyinsem) pi formale, sistematizzato e ordinato di quanto volessi o mi aspettassi. Altri metodi Ho visitato diverse scuole e osservato le lezioni di cultura e di altre materie. Ho continuato a partecipare alle messe in citt, a parlare con la gente che mi fermava per strada e ad andare ai festivals e ad altre attivit rituali. Ho parlato con i giovani adulti della famiglia con cui vivevo, sono andata a trovare gli insegnanti nelle loro case e sono stata adottata e protetta da due professoresse pi anziane. Ho mantenuto i contatti con chiunque conoscessi e ho continuato ad andarli a trovare. Ho fatto affidamento su conversazioni informali, lasciando che gli altri dirigessero il dialogo e facendo domande quando si presentava l'opportunit. Ho guadagnato l'accesso a diverse situazioni accompagnando conoscenti e amici in chiesa, al mercato, a feste e andando a trovarli nelle loro case e nelle loro scuole. Quando la scuola superiore ha iniziato a prepararsi per le competizioni culturali in febbraio, ho accompagnato il funzionario del distretto di studi culturali alle formazioni che teneva per gli insegnanti, e poi ho scelto tre scuole secondarie dove seguire le prove e le performances. Ho intervistato i giudici delle competizioni, con successo variabile a seconda del loro interesse per la cultura. Ho anche condotto delle interviste di gruppo con gli interpreti delle esibizioni e altre interviste individuali dopo la competizione. I gruppi di discussione hanno funzionato meglio che i colloqui individuali con gli studenti: il mio potere diminuiva nel gruppo e gli studenti si correggevano l'un l'altro ed elaboravano insieme le

loro posizioni. In tutte queste interviste, i miei interlocutori volevano descrivermi i vari costumi tradizionali e io lentamente negoziavo ci che volevo, facendo domande sulle loro esperienze di competizioni nella scuola primaria e secondaria, la logica delle loro performances e il modo di apprenderle. In ogni caso, partendo da basi comuni (le prove e le competizioni culturali) su cui discutere, potevo sollevare domande ancor pi precise. Ho anche percepito che gli adolescenti erano aperti con me pi degli adulti. Nessuna di queste interviste durata pi di un'ora o un'ora e mezza. Guardando le prove delle competizioni culturali e dei festivals, ho notato che i bambini e i giovani imparavano a recitare attraverso l'osservazione seguita dall'imitazione. I bambini e gli adolescenti recitavano "dietro le quinte", in contesti fuori dalla vista degli adulti, esibendosi pubblicamente solo quando si sentivano sicuri di non fare errori sotto lo sguardo altrui. Durante un gruppo di discussione con dei ragazzi, chiesi come avevano imparato a suonare il tamburo fontomfrom: Vedi, ascoltiamo. Questa cosa, non che suonano il tamburo fontomfrom un solo giorno. Se lo ascoltiamo, non lo suonano solo per un giorno o un minuto e poi basta. Lo fanno di continuo, cos noi lo sentiamo per tutto il tempo in cui lo suonano. Ascoltiamo come fa, com' esattamente il suono e lo seguiamo. Cos se sento che stanno suonando il tamburo in quel modo, lo seguo esattamente, il ritmo. La volta successiva, se vado in quel posto e nessuno l, provo a suonarlo nel modo in cui l'ho sentito. Questo come ho visto il modo di suonare. Questo come ho imparato a suonare il tamburo. (discussione registrata, 22 marzo 1999; traduzione dal Twi di Afari Amaoako, Bobina Ofosu-Donkoh e me) Vorrei essere partita imparando a fare domande sul modo in cui questo ragazzo aveva imparato a suonare. Invece, ho imparato attraverso la pratica, facendo attenzione a successi e fallimenti, a fare domande o affermazioni che permettessero ai miei interlocutori di aprirsi e altre che creassero silenzi o introducessero altri temi. Invece, solo dopo ripetute frustrazioni, feci un passo indietro e osservai come le persone imparavano. Conclusioni. Dalle interviste allosservazione Come ho descritto, condurre interviste produsse tipi di linguaggio e trasmissione del sapere diversi da ci che mi aspettavo. La mia frustrazione nel processo di intervista mi permise di osservare e imitare le interazioni pi attentamente, qualcosa che Briggs sosteneva dovessero fare i ricercatori prima di iniziare a fare domande. Queste difficolt nel percorso mi aiutarono a vedere alcuni aspetti pi chiaramente- la costruzione della conoscenza, le teorie dell'apprendimento, le strategie comunicative, l'importanza della corretta performance- che arrivai a definire come temi centrali dell'insegnamento della cultura ghanese nella scuola. L'intervista, come ogni conversazione, un qualcosa di negoziato, non solo nella forma, ma anche nella sua interpretazione. Sia l'intervistato che l'intervistatore segnalano e

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interpretano il contesto dell'intervista attraverso il loro discorso. Ma nel mio caso gli intervistati avevano teorie della conoscenza e modi di trasmetterla differenti. Se io ero portatrice di un senso del sapere accessibile e pubblico, libero dalle relazioni di potere, la gente di Akapuem vedeva la conoscenza, specialmente quella culturale e storica, come segreta e protetta, legata profondamente allo status sociale e al potere. Partivo dal presupposto che la conoscenza storica fosse legata all'esperienza personale, al punto di vista o all'identit dei miei informatori, mentre questi usavano le storie di vita per evidenziare la loro et e competenza e preferivano costruire il sapere come riproducibile (scritto), preciso, generale e descrittivo, seguendo le regole della conoscenza scolastica vigenti ad Akapuem insieme alle nozioni locali di saperi e storia degli anziani. Senza capire i principi di questa trasmissione di saperi, cercai di direzionarla attraverso i miei criteri di intervista. La conoscenza socialmente mediata, legata alla mia posizione di ricercatrice americana e alle loro posizioni di anziani che

trasmettevano un sapere. Le nostre posizioni sociali e le nostre comprensioni della produzione e trasmissione di conoscenza influenzarono ci che ci dicevamo e quali modalit usavamo. Tutto il sapere mediato socialmente, ma queste interviste problematiche lo resero ancor pi visibile. La mia conoscenza graduale delle strategie locali di apprendimento mi aiut ad accedere pi facilmente al sapere degli anziani e a partecipare in quelle conversazioni come una giovane rispettosa. Imparare le convenzioni locali della trasmissione dei saperi dunque essenziale nell'etnografia. Abbiamo bisogno di capire le cornici interpretative che le nostre domande e le nostre interviste fanno emergere cos come i nostri interessi si intersecano con le nozioni locali di conoscenza e competenza. In ogni caso, questo significava ad Akapuem imparare come indagare, attraverso la sperimentazione, l'osservazione e l'imitazione. (Traduzione di Valentina Mutti)

Note
Allo stesso tempo, c' stata una certa attenzione nei confronti dell'esperienza corporea e dell'incorporazione come strumenti di conoscenza (Sklar, 1994; Young 1994). 2 I Guan probabilmente arrivarono presumibilmente nel XV secolo, si puo senzaltro affermare sulla base di ritrovamenti archeologici, che essi giunsero prima la fine del XVI secolo (Kwamena-Poh 1973). 3 L'instabilit nel corpo militare caus un colpo di Stato nel 1979 a opera del tenente pilota Jerry Rawlings, che poi pass le redini ad un governo civile nato da elezioni democratiche. Due anni e mezzo dopo, questo governo sub nuovamente un colpo di stato ad opera di Rawlings, con accuse di corruzione. Il nuovo governo fu diretto da Rawlings e dal PNDC. Bench all'inizio fosse socialista e populista, il PNDC divenne poi linterlocutore prediletto del Fondo Monetario e della Banca Mondiale e promosse riforme di adattamento strutturale e liberalizzazione economica. In seguito alla pressione internazionale, il governo del PNDC inizi un processo di democratizzazione e si trasform in un partito politico civile, l'NDC, che vinse le elezioni parlamentari e presidenziali nel 1992 e nel 1996. Seguendo l'esempio di molti scienziati politici studiosi del Ghana, cos come quello degli editorialisti in Ghana che per sottolineare la continuit tra il PNDC e il NDC parlano di governo (P)NDC. 4 La mia padronanza del Twi miglior durante l'anno. Alla fine, ero in grado di comprendere la maggior parte dei discorsi ufficiali e delle lezioni delle scuole inferiori e superiori in Twi e di sostenere conversazioni quotidiane con le persone. Trovavo difficolt nel leggere il linguaggio pi arcaico e proverbiale della poesia, della legislazione e della Bibbia. In generale, come spesso
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accade nell'apprendimento di una seconda lingua che ha grammatiche e dizionari, le mie capacit di lettura e scrittura erano maggiori di quelle orali e di comprensione. 5 Dan Rose (1990) presenta le storie di vita degli etnografi come pratiche culturali inserite nello sviluppo dell'accademia. 6 Un monitoraggio dei soggetti non era abituale nellambito della ricerca antropologica all'Universit della Pennsylvania. Personalmente ero preoccupata del consenso e dell'uso del materiale e feci firmare ai miei informatori un consenso nel quale si diceva che avrei potuto usare le informazioni in pubblicazioni nelle quali avrebbero potuto scegliere di essere citati o restare anonimi. Accettai anche delle modifiche a questo modello. 7 In una discussione sul consenso, un informatore mi chiese di non usare le informazioni "grezze", ma di fare controlli con altre persone o documenti per verificarne la veridicit. 8 Questa strategia di insegnamento nasce in parte come risposta alla mancanza di libri di testo: quando i libri sono tirati fuori dagli armadi, ogni libro usato da cinque o pi studenti, che stanno vicini intorno a un banco, leggendo sottosopra, di lato, sulle spalle degli altri. 9 Per esempio, un insegnante delle superiori, di cui avevo osservato le lezioni, faceva notare ai suoi studenti la differenza tra come si celebravano i funerali ai suoi tempi rispetto alle celebrazioni di oggi. Era chiamato opanyin o anziano. Sono sicura che non fosse solo per l'et (una sessantina), ma anche per il suo stile retorico. 10 Per "ai tuoi tempi" usavo i termini Twi, "wo bere so" e "saa bere no". 11 A quel tempo avevo 27 anni ma molte persone ad Akuapem pensavano fossi pi giovane.

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The postmodern deconstructivism of Donna Haraway - or:


why cyborgs matter
di Sandra Finger

The increasing demand for more inter-disciplinarity in social sciences emphasizes a critical scrutiny of authoritative knowledge and has led to a critical engagement with all different kinds of practices of making meanings. The relativist turn during the 1960s has been the key development of this process. Particularly Kuhn and Popper - just to mention the two key figures in this movement - have been significantly important in proving the necessity of a critical review of thoughts within disciplines that would have maybe been less contested concerning their meanings, such as natural sciences. So, just as Said (1979) or Starn (1991) give the examples of Orientalism and Andeanism separating the world into spaces and giving meaning as a result of a specific history and its power discourse, we can scrutinize recent and contemporary conditions. This kind of deconstructionism in social sciences has often been linked to a pessimist outlook with the focus on the submission and subjection of the individual to capitalist and late-capitalist disciplinary forces and also, broadly speaking, to a certain ideological and racist hegemonic order of today (Young, 1995; Gilroy, 2000). For this reason Donna Haraways concept of the human being in todays condition seems to be particularly significant to look at. She, in fact, not only contests the authority of natural sciences concepts of nature, but also defends the idea of using the outcome of late capitalism against capitalism itself, for the wealth of humanity. Therefore she thinks at technological development as an opportunity for dynamism. Haraways agenda is ontological as well as political and in particular feminist. However, the options of empowerment by means of the appropriation of technologies and other innovations and changes launched by capitalism, can also be useful for the male stance. It is possible to understand the relevance of Haraway's thought concerning the male domain if we read, for example, her issues on transcendence integrating them and going beyond her discourse through Adorno, Horkheimer or Young. Haraway herself has in the meantime, though only after having published her concepts of nature and science, agreed with a possible female and male agenda which I will explain in this essay. So I will look at Haraways concepts of nature and science and how they are supported by other critical theorists from a disgendered perspective. Afterwards I will discuss her concept of the cyborg and its implications. Last but not least, I will discuss,

the arguments of critical theorists regarding the shortcomings of Haraways thinking and I will conclude explaining where and why, in critical theory, Haraways concepts instead do matter. Nature and Science or natural science as culture The analysis of nature or of the role of sciences might not contain Haraways central or maybe best-known theoretical contribute. It is however important to highlight this contribution because her understanding and analysis of nature and sciences present the pillars for her idea of the cyborg with which I will deal later in this essay. Trained in molecular and development biology, I identify professionally as a historian of science1, these are the words with which Donna Haraway describes herself. In her work Primate Visions: Gender Race, and Nature in the World of Modern Sciences she argues that biology as well as the concept of nature are both historical discourses (Haraway, 1989). Social relations of domination are built into the hardware of logics of technology, producing the illusion of technological determinism. Nature is, in fact, constructed as a technology through social praxis (Haraway, 1989: p.54). She supports her argumentation by comparing researchs on primates in different regions. Results of a research carried out by Japanese scientists in Japan for example display an idea of unity of human beings and animals. Other than in Western societies, in Japan the relations between animal and human are like relations between older and younger siblings or parents and children. In Buddhist tradition however, the series of possible transformations among animals, gods, and humans sets up a horizontal system of relationship (Haraway, 1989: p.247). Haraway continues saying that in Western societies nature is not presented valuable because it is wild in Teddy Roosevelts sense. In the case of Japan, however, nature is an aesthetic value [...]. Nature is a work of art (p.248). The same research in Japan also shows a matriarchal order among primates which, according to Haraway, reflects the Japanese culture preoccupation with mother-son relations that has different tones from the Western version. These and an essential number of other case studies prove, from Haraways point of view, that primatology has been determined by human social sciences. She argues that sciences have been working in the service of socio-

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politics, in order to establish the place of the Human in this world (Haraway, 1989: p.87, p.235-243, p. 288). According to Haraway the different understandings and concepts of nature reflect different orders of discourse. In one of her later works, after Primate Vision, Haraway becomes quite explicit and clear in this regard: The truths of biology are historically crafted in practices where materiality and semiotics encompassing the dynamic agency of humans and nonhumans cannot be disintertwined. Teaching Christian creationism as science is child abuse as well as in bad biology, but teaching biology as an a-historical representation of objects separate from their agencies of observation is equally debilitating (Haraway, 1997, p.118). This argument on the constructed nature of nature as well as of science is actually nothing innovative in critical theory and social sciences. Nietzsche (1878) and Foucault (1970), both identify the discourse and its aesthetics as concepts that have to be understood as a history of ideas: in the confrontation with migrations during the Classical Age and afterwards, the Greek civilization2 was concerned in organizing itself and went out of the struggle with the idea of a higher culture, as opposed to the Roman Empire, let alone the nomads, also called by the Greek Barbarians. For Max Horkheimer (1974) ideas of intellectuals such as Plato and Aristotle are not than speculative thought and a doubtless luxury [...] in a society based on group domination only a class of people exempt from hard labor could afford (p.103). According to Horkheimer, Nietzsche, Foucault and Haraway, certain scientific discourses are to be understood as outcomes of the thought of a privileged minority that eventually imposes its worldview and concepts on other less advantaged or less powerful people. If the construction of nature, sciences, ideology or other products of the discourse have already been contextualized before Haraways work as discussed above, why then has there been in the seventies 'a new vogue' (Young, 1992) in the understanding of ideology, nature and geography, or sciences in general, as a contest of meaning? First of all the new shift to the Kuhnian paradigm that involved sciences (Chalmers, 1982) in 1962, opened up a perspective onto observation as a highly subjective and paradigm-dependant undertaking. Observation experienced hence a critical objection relevant for scrutiny itself. Science was, for the first time, openly discussed as a subject to compare with rival paradigms which then also touched more and more upon, both social and natural sciences (Chalmers, 1982). This led to the unthinkable relativism of the post-modernist discourse, that revealed power relations and discursive practices lying under the structure of meaning (Young, 1992). According to Horkheimer (1974) intellectually, the modern man is less hypocritical than his forefathers of the 19th century but hypocrisy of early intellectuals has been instrumentalized by them, exploiting this knowledge to alienate the human being from its authentic existence and its (more) original needs (Nietzsche, 2000; Horkheimer, 1974: p. 100/101). Theodor W. Adorno (2000), at the time of the dispute of positivism in German Sociology during the 70s, during one of his lectures criticizes the

truly narrow concept of sociology and its misplaced dominance which lies in the fact that the technology of situations which are controllable by sciences, and therefore the reified relationship embodied in such situations, is transferred to society, which ought to be the subject of all those concepts (2000, p.135). We can hence understand Haraways argumentation as a result of the vivid debates around the legitimacy of ideas and sciences coming out of this paradigm-change as depicted above. Although, as the debate shows, Haraways approach is not new, her examples in the field of natural sciences lose nothing in their pervasiveness and originality and enhance the credibility of her argumentation (Young, 1992). Within this concept of hegemony that constructs entities and disciplines to guarantee its continuity, Haraway qualifies the education system as one of the key institutions from where the students and scholars focus of observation is reshaped and determined by ideology. State ideology is embodied by the state apparatus of education securing the reproduction of political and economic conditions (Haraway 1989; Althusser, 1994). In his reflection about the state apparatus, Althusser determines the education system as main instrument for exploitation of the people on a falsified representation of the world in which they have imagined an order to enslave other minds by domination of their imaginations (Althusser, 1994: p.124). With the state as the educator, the intellectual and scholar educated by the state himself, plays the key role of agent in transmitting this hegemonic worldview (Gramsci, 1998: 210-216). Donna Haraways concept of nature as an artificially and intentionally created and institutionalized entity opposes humanity as the other, as the constitutive outside for ones own identification (Haraway, 1989: p.23-25), as a result of this new awareness of constructionism by the relativist shift. This new view of nature can be linked to a period of rediscovery of ideology3 and increasing awareness of the institutionalization of ideologies such as race, class, consciousness etc.4 which determines the science and the perceptions produced by that science (Hall, 1986). Since ideologies keep bound to economic and political conditions and are incorporated by state and education institutions, Rouse (1992) argues that science is to be taken as a cultural formation which can be understood by detailed examination of it, by the situations it responds to or tries to explain, and by the ways in which it transforms those situations (Rouse, 1992: 58). This awareness of nature and humanity as two constructed entities as well as the correspondingly imagined border drawn between human being and animal, between technology and nature, leads Haraway to point out which will be the leading theme in her development of the cyborg. Furthermore she defines the groundwork to imagine and develop what Michael Joyce calls the Cyborg Consciousness (Joyce, 1995: p.3): if so called facts promoted by sciences and its political ideological agenda as true are in fact intentionally constructed, then they are imagined. So if fact becomes fiction, then fiction can become also fact according to paradigm and discourse. This implies again

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that fact and fiction are of the same value and credibility (Haraway, 1989: p. 368-382). Since the cyborg is often criticized of being rhetoric (Kuzru, 1997: p.4) this idea of fiction becoming fact and fact becoming fiction is crucial to retain. The Concept of the Cyborg Articulation and identification presents for Haraway a paradigmatic psychoanalytic question (Haraway, 1992: p.324) which signifies the object: We articulate; therefore, we are5. Thus Haraway looks for an exit from the discourse and its conceptualizing and identifying practices. In order to liberate oneself from discursive and paradigmatic forces, one has to draw upon the possibilities of imagination which, as discussed above, does oppose to constituted facts only in their functional and instrumental character for the discourse (Haraway,1991: p. 149). Haraway suggests for this the space of technologies because they are unruly partners in discursive construction (Haraway, 1991: p.304) and concreticizes this in the cyborg. First of all a Cyborg is a hybrid being that goes beyond the distinction of (a) machine and organism, (b) human and animal, and (c) physical and non-physical. It is the opposite to the content of ideologies and hence opposite to (claimed) realness, authenticity and nature. It is the negation of distinction between natural and cultural. One could say it is a creature of social reality as well as social creature of fiction, but since the traditional opposition of reality /fiction loses its meaning with Haraway, this statement becomes redundant for Haraway. The liberation of us implies the creation or self-confidence to dissociate ourselves from paradigmatic thinking and imagine a new consciousness (Haraway, 1991). The cyborg is open to change, a never finished project (Haraway, 1992: p.304) giving up much of what it means to be human. Cyborgs embody fluidity, adaptability (Arsham, 1995: p.8). The Cyborg neither wants to be called modern nor post-modern: the belief in modernity was a mistake because modernity as any other paradigm has alienated creatures from themselves (Haraway, 1991: p.304) so that the term post-modern becomes redundant anyway. Apart from that, the post-modern revolt has become institutionalized, is official or public culture of the Western society (Jameson, 1991: p. 14), as well as its paradigm. Haraway describes her concept as a transformation from a discourse on physiological organisms [...] to a discourse on cybernetic technological systems (Rouse, 1992: p. 8). For Haraway in the realities of modern life, the relationship between people and technology are so intimate and close that it is no longer possible to tell where we end and machines begin (Kunzru 1997: p.3). The different levels in the melting of machine and human are as unclear as is the transition from one discourse to a new way of existence. Haraways concepts are abstract and it is this abstractive thinking that constitutes the alternative to exit the discourse. However, to make the concept more concrete, I will give an example from Kunzrus (1997) article about Donna Haraway to illustrate what

cyborgism or being a cyborg implies for her: thinking about the technology of sports footwear, she says. Before the Civil War, right and left feet werent differentiated in shoe manufacture. Now we have a shoe for every activity. Winning the Olympics in the cyborg era isnt just about running fast. Its about the interaction of medicine, diet, training practices, clothing and equipment manufacture, visualization and timekeeping. When the furor about cyborgization of athletes through performance-enhancing drugs reached fewer pitch last summer, Haraway could hardly see what the fuss was about. Drugs or no drugs, the training and technology make every Olympian a node in and international technocultural network, just as artificial as sprinter Ben Johnson at his steroid peak. (Kunzru, 1997: p.3) The power of the cyborg is, according to Haraway, the empowerment by internalizing and embodying the paradoxical nature of capitalism on the one hand, but offering new alternatives to communicate, to assume new identities or to behave differently etc. Besides which is very important the Cyborg is not romantic or nostalgic. Since we have created the world that we are living in, instead of looking back or yawning for the ideal image of nature, we should assume responsibility of our deeds. This does not mean simply acceptance but to employ the available means and start working from within the monster (Haraway, 1992). Last but not least, Haraways Cyborg is post-gender or pan-sexual and feminine: it is a polychramic girl...the cyborg is a bad girl, she is really not a boy. Maybe she is not that much bad as she is shape-changer, whose dislocations are never free. (Penley and Ross,1991: p. 20). Feminism for Haraway is a myth and so it is for the cyborg (Wright, 1994: p. 4) Cyborg Under Fire The Cyborg and Its Shortcomings As much as Haraways concept arouses interest and fascination, that much questions and criticisms does it attract. I will turn to one of the maybe most criticized of her arguments. As described above, the Cyborg is feminine, a matter of fiction and lived experience that changes what counts as womens experience in the late twentieth century (Haraway, 1991: 149). This is what she says in her original and most well-knows piece, the Cyborg Manifesto. Just a few months later in an interview with Constance Penley and Andrew Ross about the cyborg she states: She is a girl whos trying not to become Woman, but remain responsible to women of many colors, positions, and who hasnt figured out a politics that makes the necessary articulations with the boys who are your allies. Its undone work. Everything about the Cyborg is fluid and open, there is no happy end to the story (see Haraway, 1992: p. 304) and so might be the concept of Haraway which means also open to development. Zizek writes in an article about post-human beings that humanity has got access to all kinds of technologies and new possibilities but that humanity is still immature and barbarian, it did not reach yet the

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full wisdom (Gutmair, Flor: 1998). Haraway herself admits: I had never imagined how a man might read it. This really is the first time I have had to imagine that line being read by people not just male people in a masculine subject position (Penley, Ross: 1991, p. 19). She continues that for the Cyborg gender is something incredibly problematic and she really does not know what to do with it (Penley, Ross, 1991: p. 19). However, after her extensive work on primates, the history of science and nature, an important part of her work does not include an explicit female stand point and can hence also be read from a non-feminist perspective. Moreover, in a world where cyber-technique and new technologies are more debated than ever, it seems even more surprising that Haraway sees herself for the first time confronted with the issue of integrating male into her Cyborg concept. However, she signals that she is open to new and extending work. Another point, raised by Arsham (1995) is that the Cyborg reflects parts of its culture as well, namely capitalism, and in which way Haraway is restricted by her own cultural background. Questions related to this issue would be then how racist can a Cyborg be, considering that not everybody in this world has got equal access and maybe also not the need to the recent sport shoes, let alone internet or other technological luxuries (Wilson, Wallin, Reiser 2003). One could question how much Haraway herself is restricted by illusions and imagination of the paradigm she lives in. Connected to this issue of positioning and subjectivity, in an article about African American Critical Theory and Cyberculture, Kali Tal6 argues that within literature about cyber-culture we should pay more attention to the theory and literature of those who have long been wrestling with multiplicity, to see how much immersion and how many new ways of being the cyberspace for example offers to those individuals who are maybe more haunted by the force and suppression of the discourse than others for example the black minority being more discriminated by law (Provine, 1998) than the white majority. Not directly about the Cyborg concept but about the genome project, published in 2000, Paul Gilroy (2000) also argues that the recent developments of the genome project and biotechnical achievements have not resolved but extended the concept of race, for example mixing genes in a way to create supposedly perfect babies or also the shape of the perfect body. In both documentaries, Killing Us softly (Dir. Sut Jhally, 2000) and Beyond killing us softly(Dir. Magaret Lazarus, 2000), one becomes aware of how much advertisement, if digital, via radio, TV or via Internet etc. influences our self-image and how we imagine ourselves: most of the time white skinned, the women typically female and the men typically male. These contributions raise the question with regard to options and effects by new media and technology of how ideologically and racist influenced messages fueling our brain and imagination can (a) promise a deliberating imagination of spheres beyond the discourse and (b) enhance and promote independent thinking at all. This is not to release human agency at all, but Paul Gilroy sets a warning signal that and he would probably accuse Haraway of being too optimistic.

There are probably more points that could be criticized, but instead I will now turn to argue why and how a positive attitude towards cyberspace and technologies is important as affirmed by Zizek (Gutmair, Flor, 1998), Giddens (1991), Wright (1994) and Young (1992) and why the Cyborg does matter. In an interview about Hysteria and Cyberspace Zizek clearly opposes the pessimism about cyberspace and new technologies. He questions that sphere that people perceive and describe as their reality while denying that cyberspace is part of it. Cyberspace affects what it means to be a subject which should be seen positive. However, he is suspicious of the hysterical economy that cyberspace is caught in. As Giddens argues in his article about Dilemmas of the Self, particularly after Marx many of his followers have only seen the human being as alienated, but ignored the potential of unification among those who share the same experiences with the capitalist system: modernity fragments; it also unites (Giddens, 1991) and in Haraways mind Cyborg could present a result of shared experiences (Haraway, 1991). Wright (1994) argues also against a one-sided pessimism and prefers to see in the chaos of new technologies also a potentially liberatory human activity (p. 4). Conclusion So far I have given an insight into the argumentation by opponents as well as supporters of new technologies, focusing on the possible developments and consequences into which Haraways Cyborg is to be embedded in. Robert J.C. Youngs critique of Donna Haraways critique of science, is a contribution that considers both positive elements as well as shortcomings. For him the power about Haraways story is that she sets new standards for sheer immersion in the texture of the history of ideas, institutions, research traditions, individuals reflections in themselves. Her argumentation is nothing to be proven, but a story that can create inspiration and fascination the more you make contact with it, the more you get stuck into it. However, he concedes, that the same story also seduces him away both from the outer and inner worlds and into a playful space, where it would not be right to remain for too long, lest I forget the longterm goals of changing ourselves and the world. To conclude, Donna Haraway suggests a story, a narrative of todays realities, an alternative to overcome the pessimism towards a capitalism that has influenced and invoked change of social structures. I am sick to death of bonding through kinship and the family, and long for models of solidarity and human unity and difference rooted in friendship, work, partially shared purposes, intractable collective pain, inescapable mortality and persistent hope (Haraway, 1997: p.265). Within a swarm of theories and concepts of deconstructions, she deconstructs but and that is definitely something to be valued offers an alternative. This alternative remains bound essentially to the realm of imagination, but provided one agrees with the concept of Gramscis hegemony and Althussers ideological state apparatus, imagination might reveal a first step towards an alternative outside the discourse.

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Notes
Cited by Josephine M. Carubia, Haraway on the Map, The Semiotic Review of Books, 1998, 9(1), 4-7. With reference to the critical analysis of values embedded in the concepts used today it seems important and exemplary to mention that of Robert Young (2000). 3 See also the article The rediscovery of ideology: return of the repressed in media studies by Stuart Hall (1986), where he exactly argues similarly in so far that by the analysis of practices of representation -in this case by the media- one can understand how the a speaker for example makes history, but under specific conditions which are not in his control, but which determine what he says and how he represents it (also insightful here his book on Represenation: Cultural Prepresentations and Signifying Practices, 1997, The Open University, Glasgow). 4 Haraway opposes the Freudian theory of the Ego with Lacanians mirror concept. The latter describes the Ego as a psychological birth tha happens when the human being perceives himself for the first time in the mirror. Together with the birth of the Ego, the individual becomes alienated from its original state of mind. Lacan distinguishes the imaginary, the symbolic and reality, whereas in an abstract way all of these entities are not distinguishable. 5 See also Stuart Halls article Who needs identity. Here the authordescribes identity as the different ways of being which are determined in their characteristic by the discourse. 6 See internet link in bibliography, no year or date available. On the web page there is a link to a short version of the same article published in 1996 in the Online journal Wire which suggests that the respective article that I refer to here was published shortly before or in 1996.
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Visual sources:
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Social scientists wrestling with race and nation


African-american W.E.B. Du Bois and cuban Fernando Ortiz compared
di Alessandra Lorini

It is a peculiar sensation, this double-consciousness, this sense of always looking at one's self through the eyes of others, of measuring one's soul by the tape of a world that looks on in amused contempt and pity. One ever feels his twoness - an American, a Negro; two souls, two thoughts, two unreconciled strivings; two warring ideals in one dark body, whose dogged strength alone keeps it from being torn asunder. W.E.B. Du Bois, The Souls of Black Folk (1903) Para mi abuelo todos los para l odiosos cubanos separatistas, hroes de la manigua revolucionaria, no eran sino negros o mulatos...Yo, que me ufanaba de mi reciente titulo de bachiller, trataba de convencer a mi racista abuelo de su errorDe nada me valiaLe record al ya caido Jos Mart, el lucero de los mambises, hijo de progenitores espanoles y sin asomo de negra oriundez, y me respondio: "Mart no era de color, pero como si lo fuera; ese fu mulato por dentro." Y entonces comprend que en mi tierra el color oscuro en la piel llevaba implicitamente consigo una prejuiciosa consecuencia de inferioridad y vilipendio social transida de injusticias y dolores. Hasta a las almas se la suponia negras cuando se la quercia envilecer. Fernando Ortiz, Mart y las razas (1935)

In the late nineteenth and early twentieth centuries Atlantic crossings of racial ideas, social scientists played a rather crucial role. Both in Europe and in the Americas an impressive number of international conferences discussed new scientific paradigms that legitimized popular beliefs in racial hierarchies and gave a new professional status to social scientists1. Yet an important minority of social scientists wrestled with the heritage of nineteenth-century biological theories and philosophical beliefs that justified slavery in racial terms. By unifying their scientific work and public commitments in the name of racial equality, they produced alternative scientific paradigms to erase racism from progressive science. German-Jewish anthropologist Franz Boas and African-American activist and social scientist W.E.B. Du Bois were among the leading figures of this international minority of racial equalitarians. At the dawn of the twentieth century, Du Bois in particular, prophetically forecasted

that the problem of the "color line" was going to be the core of modernity2. When he made this often-quoted prophecy at the first Pan-African Congress in London, his country, the United States of America, was going through its third year of military occupation of Cuba (1898-1902), and the U.S. "color line" was being transformed in the Cuban context in which intersections of race and nation building, as a recent and rich scholarship has shown, constituted a laboratory of social investigation and "invention of traditions." It can be argued that, in the Atlantic crossings of racial ideas, the Cuban laboratory produced competitive public discourses of race that social scientists would use to both dismantle existing anti-Negro prejudice and strengthen the myth of white superiority. Seen in this context, the figure of Cuban social scientist Fernando Ortiz becomes rather paradigmatic when compared to that of W.E.B. Du Bois. Aware of each other's work, the two scientists would meet a few times in Cuba and (perhaps)

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in the United States. Both were followers and creators of transnational intellectual traditions inspired by emispheric and global thinkers and socially-committed scientists, and in their wrestling with race and nation, their scientific trajectories from bio-racial arguments to culturlist approaches and to racial integration diverged to a significant degree. There is no biography of Fernando Ortiz which even vaguely resembles David Levering Lewis' comprehensive biography of W.E.B. Du Bois. This biographical masterpiece provides an abundance of detail as well as powerful interpretations of Du Bois's life, his eclectic works, his national and international public commitments, his superb literary capacities, and his difficult personality3. Du Bois himself wrote at least three autobiographies that map his racial consciousness throughout his long life (he was born in Great Barrington, Massachusetts in 1868 and died as a volunteer exile in Ghana in 1963). Ortiz, on the other hand, did not leave behind any lengthy autobiographies, and available biographies of the influential Hispanic social scientist are far from comprehensive4. Du Bois tracked his ancestors back to one Tom Burghardt, the slave of a Dutchman who had gained his freedom fighting for the American Revolution and had a son who fought in the war of 1812. On his father's side of the family he was able to follow the movements of his ancestors from France, to the Bahamas, to Connecticut, to Haiti, to New York, to Massachusetts. Du Bois's birth, as he himself concluded in Darkwater: Voices from Within the Veil (1920), was the making of an international, "global" product: "So with some circumstance having finally gotten myself born, with a flood of Negro blood, a strain of French, a bit of Dutch, but, thank God! No 'Anglo-Saxon,' I come to the days of my childhood.", While his goal was to attend Harvard after he graduated from high school, he found out instead that white town leaders had arranged a scholarship for him at Fisk University, a black college in Nashville, Tennessee. During this journey to the South, he noted the "curious irony by which I was not looked upon as a real citizen of my birthtown with a future and a career, and instead was being sent to a far land among strangers who were regarded as (and in truth were) 'mine own people'." Thus, young Du Bois suddenly felt like a foreigner in his own birthplace and was to find instead a collective identity with strangers in a "foreign" place in the South. At Fisk, he wrote, "racial equality was asserted and natural inferiority denied." As he later recalled in Dusk of Dawn, at the black college he became "a member of a closed racial group with rites and loyalties, with a history and a corporate future, with an art and philosophy."5 It was 1885. Du Bois, a northern black American visiting the South, experienced the world of southern racial segregation and would leave Fisk with the intention of liberating the "Negro race." In 1888 Du Bois finally applied to Harvard and won a scholarship. It was there that he began to face the "scientific race dogma" which stressed the difference between the development of the white race and the "lower races." For a graduate student of sociology during the 1890s, however, Max Weber's Berlin, not

Cambridge, was the place to be. Indeed, while at Fisk, Du Bois had already begun to focus on studying in Europe. When his fellowship to study at the University of Berlin expired and was not renewed he was advised to present himself for the Ph.D at Harvard. Du Bois' supporting Slater Fund committee "expressed, with great earnestness, the hope thatyou will devote your talent and learning to the good of the colored race."6 The first African American to receive a Ph.D from Harvard, Du Bois gave an address to the elitist American Negro Academy in 1897. Still greatly influenced by his German mentor and Harvard supervisor Albert Bushnell Hart, who held a racialist view of history, Du Bois declared in Hegelian terms: "The history of the world is the history, not of individuals, but of groups, not of nations, but of races, and he who ignores or seeks to override the race idea in human history ignores and overrides the central thought of all history." In his Hegelian scheme, great men were no more than representatives of racial ideals. Each "race" - that is, each "family of human beings, generally of common blood and language, always of common history, traditions and impulses, who are both voluntarily and involuntarily striving together for the accomplishment of certain more or less vividly conceived ideals of life " - had its own "gift" to offer to humanity. This was the result of differences - "subtle, delicate and elusive, though they may be - which have silently but definitively separated men into groups." The historical examples of racial groups that he gave were the Teutons, the Slavs, the English of Great Britain and North America, the so-called Romance nations, the Negroes of Africa and the Americas, the Semites, the Hindus, and the Mongolians. Whereas the English gave the world constitutional liberty and commercial freedom, the Germans contributed science and philosophy, and the Romance nations provided literature and art. Negroes too, in Du Bois's view, possessed the cohesiveness of these "racial" groups, but their spiritual message had not been fully communicated to the world. The Egyptian civilization showed just a hint of that message, but the Negro race, like the yellow and Slavic races, was just beginning to deliver its messages. Black people's "subtle sense of song" had given America, Du Bois held, "its only American music, its only American fairy tales, its only touch of pathos and humor amid its money-getting plutocracy." It was, therefore, black people's duty "to conserve their physical powers, intellectual endowments, spiritual ideals." As a race, black people "must strive by race organizations, by race solidarity, by race unity to the realization of that broader humanity which freely recognizes differences in men, but sternly deprecates inequality in their opportunities of development." Raising the dilemma of his double consciousness, of being an American and a Negro, Du Bois asked himself: "Am I an American or am I a Negro? Can I be both? Or is my duty to cease to be a Negro as soon as possible and be an American?Does my black blood place upon me any more obligation to assert my nationality than German, or Irish or Italian blood would"? For Du Bois, Negroes were Americans "not only by birth and citizenship" but also by their political ideals, language, and religion. Nevertheless, he added that "farther than

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that our Americanism does not go." Negroes for young Du Bois were "members of a vast historic race that from the very dawn of creation has slept, but [was] half awakening in the forests of its African fatherland." Because of their nature, blacks had a mission to accomplish in the United States: "We are the first fruits of this new nation, the harbinger of that black to-morrow which is yet destined to soften the whiteness of the Teutonic to-day." According to Du Bois, it was feasible for the white and Negro races in America "to develop side by side in peace and mutual happiness," each with their own peculiar contribution to make to the culture of their common country.7 The early life of Fernando Ortiz coincides with the early life of the first Cuban republic. Born in 1881 in Havana to a Spanish father and a Cuban mother, Ortiz lived with his parents in Spain from 1882 until 1895 when the family returned to Cuba. The period of 1895-1898 is the crucial period of the second Cuban war of independence, the defeat of Spanish colonialism, and the beginning of the first North American military occupation of the island. As recent scholarship has shown, U.S. hegemony on the island not only limited Cuban independence but also granted a continuity of that very social order which Cuban revolutionary anti-colonialists wanted to change. American investors in Cuba needed order and stability, and independence was granted at the expense of social justice. The U.S. military forces left in 1902, and the Platt Amendment attached to the Cuban constitution gave them the right to return to protect Cuban independence and North American interests on the island. During the period of 1898-1902 that witnessed the U.S. hegemonic control of the island, the U.S. color line penetrated Cuba, and American racial stereotypes openly excluded darker, lower-class Cubans, giving support to the former "white" colonial elite.8 In this process, what historian Ada Ferrer has called "the silence of patriots," namely Cuban patriots' ideology of nationhood that erased racial identities, helped to create a strong national identity which opposed American cultural and racist hegemony.9 Nationalist intellectuals like Fernando Ortiz, with their scientific work and public commitments, contributed to the notion of "Cubanidad" conceived as an antiracial, color-blind identity. Young Ortiz went back to Spain from 1899 to 1902, the period of "Cuba between empires," as Louis Prez has put it, during which time the institutions of the island went through the most complex process of modernization.10 During that time, Ortiz studied penal law, comparative legislation, and the history of international law in Barcelona and Madrid. Having defended a dissertation in penal law and inspired by positivist social theories, he received the title of Doctor of Law from the University of Madrid and then, in 1902, the title of Doctor of Public Law from the University of Havana. In 1903 Ortiz went to Italy and resided in Genoa as chief secretary for the Cuban consulate. There he published the magazine La cultura latina, wrote book reviews, translated texts, and did other editorial jobs in order to make a living. At the University of Turin he took classes in criminal anthropology taught by the renowned scientist Cesare Lombroso. Highly influenced by this father of the Italian positivist school and his

followers, Ortiz collaborated in the formation of an archive of criminal anthropology, psychiatry, and legal medicine. In 1906, at the age of 25, he returned to Cuba as a distinguished scientist of the international positivist school of criminology.11 If Du Bois's early work helped circulate Hegelian and German nationalist ideas seen through the lenses of William James's pragmatism in the United States, Ortiz's first book was a good example of the Atlantic crossing of European positivist scientific theories. Los negros brujos (Negro witchery), published in 1906, was in fact strongly influenced by the Italian criminologist Cesare Lombroso who also prefaced the first edition. Finding the book of tremendous interest, Lombroso praised in particular Ortiz's interpretation of suicide among Negroes, along with several forms of Afro-Cuban criminality. Several Italian positivist scientists and followers of Lombroso strongly supported the nineteenth-century "Cuba Libre," as they saw in the strenuous struggle to live in the Americas the origin of a new, powerful race12. The Italian school also theorized that crime was a form of regression to primitivism, and that the Negroid type was the most imperfect of all human races. In his first book, using the language of Lombroso's atavism, Ortiz analyzed somatic characteristics of black people as relevant factors in determining the criminal expressions of this group, and group psychology as the expression of a "primitive" stage of civilization confronting a "superior" one. While he would later reject his early usage of such stigmatizing words, in 1906, following Lombroso's theory of the uomo delinquente (inborn criminal), Ortiz looked at the Negro race as a group of uncivilized peoples, whose lack of "a large skull" made them prone to criminal behavior. Unable to adjust to Spanish civilization, AfroCubans had entered "la mala vida."13 In Cuban society Ortiz saw "an imperceptible graduation from the white, who is placed by his talents at the level of the refined civilized man, to the African black who, sent back to his native country, would resume his libations in the open skull of an enemy." Realizing that while some blacks were moving ahead, the white lower class was also being "Africanized," Ortiz argued in favor of eliminating dangerous forms of African culture from the island. Taking the example of the beneficial influence that Methodism had had on African Americans in the United States, he called for the importation of more progressive religions to the island. The overall solution was a "whitening" of the island by encouraging the immigration of Europeans14. It is extraordinary how, in a just a few years, Ortiz would reject these early racist views and move closer to the racial egalitarianism of Franz Boas that was challenging Negro-phobia in the United States at the time. Just like Du Bois, Ortiz would take the path of using active social science as a weapon against racial inequality. On the road of active social science In July of 1910 Du Bois resigned from his professorship of economics and history at Atlanta University to accept the position of director of publicity and research for the newly founded National Association for the Advancement of Colored People (NAACP). He saw this as an opportunity to turn the impotence of

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social science into an active weapon of change by asserting the centrality of the Negro question within American democracy in the pages of The Crisis, the NAACP's magazine. In his first editorial, Du Bois set the agenda of militant journalism: to investigate and publicize "those facts and arguments which show the danger of race prejudice." In other words, militant social science would show that racial inequality was not the product of inborn antipathy between white and dark races, as mainstream social scientists held, but rather the outcome of a social system of class and caste. Under Du Bois's leadership, the magazine became self-supporting within five years. "With this organ of propaganda and defense and with its legal bureau, lecturers and writers," Du Bois remarked, the NAACP was able to organize "one of the most effective assaults of liberalism upon prejudice and reaction that the modern world has seen."15 The year Du Bois became the editor of The Crisis, Ortiz published La reconquista de America (1910) in which he had already overcome any possible racist assumptions. In this collection of articles, Ortiz joined the circle of transnational PanHispanic intellectuals at the University of Salamanca who spearheaded a new crusade in the American continent on the basis of linguistic, racial, and religious unity. In these articles he strongly argued in favor of cultural crossings. Six years later, in Los negros esclavos (1916), Ortiz reconstructed the history of this large and heterogeneous group of people who were forcefully brought to the island of Cuba, including the different forms of their rebellion during the process of assimilation. In this pathbreaking work in the new field of ethnohistory, he concluded that slavery had made the black race socially homogeneous; yet such a race was culturally heterogeneous given the different ethnic groups that were brought to Cuba.16 By then, Ortiz no longer held Lombroso's view that the Negro race was unable to struggle against oppression. He argued, instead, that the lack of a large number of Negro rebellions was due to social, not racial, factors. Furthermore, he distanced himself from Lombroso's notion that peoples lacking in civilization were "immoral." By then Ortiz shared Franz Boas's historical method of defining a group culture. To Boas, in fact, the egalitarian approach was a prerequisite for anthropological research. According to the German-Jewish anthropologist who had been transplanted to the United States, a scientist needed to adapt his or her mind to the people under observation. Boas's new paradigm, as summarized in The Mind of Primitive Man (1911), was based on evidence which showed that "the organization of mind is practically identical among all races of man; that mental activity follows the same laws everywhere, but that its manifestations depend upon that character of individual experience that is subjected to the action of these laws." At this stage of Ortiz's thoughts on race, even more important than the influence of Boas was the rich search for Cuban national identity that was taking place within the newly independent republic.17 Leading intellectuals like Ortiz would help to forge this search by following the philosophical heritage and political legacy of Cuban national hero Jos Mart. After his

exile in New York City from 1880 to 1895, Mart returned to Cuba and died in battle at Dos Rios. Before his death he interacted intensively with the city and the nation around it, and wrote extensively about what he saw, heard, felt, and experienced. In the period of 1898-1902, when Cuba became a laboratory of U.S. cultural imperialism, the image of Mart was a powerful source of Cuban national identity. Although the alliances Mart so carefully forged had broken apart, and his warnings against U.S. hemispheric expansion would be dismissed by a Cuban government that depended on U.S. economic aid and had accepted the Platt Amendment, a consensual memory of Mart turned his image from a symbol of "patria" into one of a modern republic17. It can be argued that Ortiz interpreted the legacy of Mart's "Cubanidad" as the overcoming of racial differences in Boasian terms. Interpreting Mart's legacy: towards a Cuban national identity There is no evidence that Cuban exile Jos Mart and AfricanAmerican scholar Du Bois were aware of each other's work and public commitments. Despite profound differences, both Mart and Du Bois were "global prophetic leaders" whose public selves were shaped by a strong tension between their artistic creativity (they were both poets, fiction writers, and journalists) and the critical dimensions of the international politics which they were actively involved in. In 1900 W.E.B. Du Bois prophetically propounded from London his often-quoted statement: "The problem of the twentieth century is the problem of the color line." On the other hand, Jos Mart made a different prophecy for the new century as early as 1882, in his attempt to build Cuban national identity by erasing racial differences, seeing it as "not the century of the struggle of races but of affirmation of rights."18 In a way, they were both right. But the legacy of Mart in the new Cuban republic was crucial and would profoundly affect Ortiz's active social science. Jos Mart spent the greater part of his life as an exile from his native Cuba and produced most of his literary work in New York. Here he carried out his revolutionary leadership by uniting the communities of Cuban refugees and immigrants living in that city and in Florida within the Cuban Revolutionary Party, which he founded in 1892. An eloquent and charismatic speaker, writer, and political leader, Mart offered first-hand information on the U.S. in the "Gilded Age" for Latin-American newspapers such as La Nacion (Buenos Aires), La Republica (Honduras), La Opinion Publica (Uruguay), and El Partido Liberal (Mexico). He also translated the works of several North American authors into Spanish, wrote plays, poems, novels, art criticism, and essays, and edited newspapers, political and economic journals, and children's magazines.19 He was, furthermore, known as "el Maestro" and considered teaching his mission. If his intense literary production gained him an international reputation as one of the best LatinAmerican essayists and poets of his generation, his death for the cause of Cuban independence turned his memory into that of the moral hero, the "apostle" of civic virtues, personal integrity, and

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patriotic love. When the Ten Years' War broke out in Cuba in 1868 and young Mart began to write anti-Spanish pamphlets leading to his imprisonment and exile, W.E.B. Du Bois was born in Great Barrington, Massachusetts. When Fernando Ortiz was born in Cuba in 1881, the exiled Mart was interpreting New York and the U.S. for Latin America. According to Mart, healthy nations were created by virtue of a balance of feminine and masculine traits: he considered violence, energy, and action as masculine traits, and thought, arts and sentiments to be feminine qualities. He elaborated this idea in "Nuestra America," his most well-known essay, published in both La revista illustrada of New York and El Partido Liberal of Mexico City in 1891. "Nuestra America" is Mart's most powerful analysis of the intersections of U.S. expansionism, allegorized as "the giant with seven-league boots," and a Cuban national identity defined through the use of gender differences for a racially egalitarian society. Publishing "Nuestra America" in both the United States and Mexico showed that Mart read national events as part of transnational forces, and that he considered LatinAmerican states to be agents of the unification effort in order to protect their populations and sovereignty from the economic and political expansion of the United States. In a very creative effort to devise what sociologist Benedict Anderson would call "an imagined community," Mart forged a source of identity for those American societies produced by Iberian colonialism. He called it "Our America," assuming the existence of a geocultural distinction from those American societies produced by British colonialism.20 By then he was convinced that the philosophy of "Manifest Destiny," which led to the annexation and colonization of half of Mexico's territory at mid-century, would now pursue new lands and markets. As European powers were colonizing Africa and Asia, the United States was looking south to Latin America and the islands of the Pacific. Having lived for many years in the U.S. and being deeply familiar with American political culture, it was clear to Mart that early 1890s expansionism, powerfully devised in terms of Anglo-Saxon racial superiority, was becoming mainstream national identity. Thus Mart wrote this essay as a manifesto addressed to Hispanic intellectuals, urging them to find a source of identity in Native America's classical civilization. He believed that the members of the Creole elite should no longer think of themselves as extensions of the European bourgeoisie. There was a difference, Mart argued, between the ability to assimilate foreign ideas in a healthy manner and their shallow imitation by pretending that these ideas had universal validity. Unlike Du Bois's early Pan-Africanism, Mart articulated his rejection of the racial/biological model of identity formation in the name of a cultural/geographical one and dedicated his concluding paragraph to the erasure of racial hatred: There is no racial hatred, because there are no racesThe soul, equal and eternal, emanates from bodies that are diverse in form and color. Anyone who promotes and disseminates opposition or hatred among races is committing a sin against humanity.21

According to Mart, one's kinship with those who live within the same geographical environment was stronger than any supposed relationship of race. In Mart's view, the foundation of one's identity lies in the "spirit" of the "land" that has been "drawn in with the air one breathes." The idea of a raceless society in Cuba that Mart forcefully put forward in Patria (the organ of the Cuban Revolutionary Party) in 1893 ("Mi Raza"), derived from the way he read the racial question in the United States. "To insist on racial divisions, on racial differences, in an already divided people," Mart wrote, "is to place obstacles in the way of public and individual happiness, which can only be obtained by bringing people together as a nation." In Cuba, he wrote, "there is no fear whatsoever of race war. 'Man' means more than white, more than mulatto, more than Negro. 'Cuban' means more than white, more than mulatto, more than Negro.. An affinity of character is more powerful than affinity of color."22 A year later, in 1894, in Patria, Mart made the no-race argument even stronger by including the Hispanic world: "There are no races.Latins and Saxons have an equal capacity for virtues and defects...What varies are the particular consequences of the distinct historical grouping." Mart insisted on racelessness by inaugurating a permanent section in Patria dedicated to "The Truth about the United States," which the people of "Our America" needed to know. In this way, "the crude, unequal, and decadent character of the United States, and the continual existence within it of all the violences, discords, immoralities, and disorders of which the Hispanoamerican peoples are accused" could be demonstrated.23 Poet, chronicler, and great political organizer Mart died in 1895. As soon as the first Cuban republic was born on May 20, 1902, tensions began to grow between an autochthon tradition embodied in the images of the palmas, the lonely star, the machete, and the mambis, and a search for the political modernity that the U.S. represented. Americanization seemed to be crucial in order to erase any residual colonial past from the island. "The soldier and the activist must become citizens," Cuban Enrique Jos Varona wrote in 1898, "they should defend their ideals in a new field and with new weapons." "Patria," a nineteenth-century symbol of a community of feelings, should be turned into a twentieth-century "Republic." The paradigm of modernization also meant the inclusion of the island into "a community of modern nations." The ardent patriot of the war of independence, it was argued, should become a citizen, obedient to his civic duties. In this context, the "patriotic symbol" of Mart became part of the process of "inventing traditions" for the new republic. In political rhetoric the common use of Mart's image meant the legitimization of any public discourse by placing it in "the true Mart's legacy." This would be true for both those speaking on behalf of the government and those speaking for the political opposition. In 1913 Cuban historian Ramiro Guerra wrote that "celebrating national holidays, glorifying our national heroes, worshipping our flag, singing patriotic hymns, all are powerful instruments to be used in the classroom to keep our faith lively and stirring." Teachers were asked to spend many hours in the

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classroom explaining Mart's work to children, in terms of the "synthesis of Cuban national identity." Mart was commemorated in civic ceremonies like the pledge to the Cuban flag and other public rituals of nation building. In 1914 a survey among school children showed that Mart was the most well-known historical figure in the country.24 However, after his death, the revolution he had envisioned took a different path: the alliances he had forged in Cuban communities and with external forces broke apart, and his analysis of the dangers of U.S. expansionism went largely unheeded by a new Cuban government that had accepted the Platt Amendment and was economically dependent on the U.S. Mart's pre-1959 popularity was the expression of a strong Cuban nationalism hostile to pervasive forms of Americanization. His warnings about the enormous political and cultural power of the northern colossus became a "usable past" for Cuban politicians: many of them used Mart's writings as a political weapon to remind their opponents of what they should do. The North American military intervention of 1898, the event that Mart had feared the most, had changed everything by ending those hopes for social transformation that Mart had envisioned and left as his legacy: national independence, racial equality, and social justice for all. All this was left unfinished. Yet the unfinished revolution of 1895-1898 produced a new political language, shaped the content of republican politics, and became, in historian Louis Prez's words, "a legacy that served as a mandate to revolution for the next three generations of Cubans."25 The transformation of the questions that Ortiz addressed in his scientific work fell in line with Mart's legacy. Ortiz as a national-liberal intellectual: social science as a transcultural weapon of nation-building In 1913 Ortiz published Entre cubanos. Psicologia tropical, a collection of short essays investigating all sorts of existing obstacles to Cuban "modernization." Expressing a strong criticism of Cuban political elites, Ortiz put forward a project of "transatlantic regeneration" for the generation of 1898. A new intellectual alliance with Spain was a must, in Ortiz's view, in order to face the danger of the historical disintegration of Cuban culture. He found that only scientific research, the development of popular education, and the creation of cultural institutions could make Cuba really independent and no longer "between empires." The echoes of Mart's "Nuestra America" resounded in the pages of Entre cubanos, as the author pointed out the need for making Cuban and Latin-American intellectuals and artists known in Europe. "Wake up and work!" was the order that Ortiz gave to his Cuban readers. The time was ripe, he said, for Europeans to know that Cuban independence was not le beau geste des yankees, and that annexationism to the U.S. was not the solution that Cuban modernists wanted.26 Unlike Du Bois's racial "talented tenth," Ortiz's Cuban cultural and political elite was made up of color-blind intellectuals. In a public speech of 1914 Ortiz reminded his audience that the founders of journals, newspapers, schools, professorships, museums, and those who funded scholarships abroad, invited

professors from abroad, published books, and reported on the full range of Cuban problems "demonstrated how the efforts of one group of men can transform an impoverished overseas trading post into a people and a nationality."27 Like Du Bois, who founded The Crisis as a weapon for racial equality in 1910, Ortiz founded cultural institutions like the Universidad Popular in the second half of the 1910s, became a member of the Partido Liberal, and produced several publications including "La crisi politica cubana" (1919), an important article in which he proposed the intensification of diplomatic and cultural relations with the United States, based on "mutual respect" and, at the same time, a strong "national effort." Ortiz dedicated this article to "the genius of Woodrow Wilson." Like Du Bois, Cuban social scientist Ortiz believed in Wilson as a scholar, a man of higher learning and vision. Again like Du Bois, he was to be disillusioned in the end. 28 The period of 1919-23 in Cuba witnessed movements of political, economic, and cultural nationalism, including a large student movement to reform the university system. As a professor in Havana, Ortiz made his contribution by authoring the "Manifesto" of a "Junta Cubana de Renovacion Civica." In 1924 he joined the Grupo Minorista in order to promote a radical renovation of the arts and investigate the political and social problems of Cuba, the Americas, and the world. These efforts led to the first collective protest against the Machado regime in Cuba, along with the political oppression in Nicaragua, Santo Domingo, Haiti, and Mexico, and they promoted the defence of intellectuals and artists who were victims of the dictatorial regimes of Latin America and Spain. In 1927 Ortiz resigned from his mandate at the Cuban Parliament. Although he had originally supported Machado as the Liberal Party's reformist candidate, as opposition grew in the country against the dictator and the repression of the student movement, Ortiz wrote an anti-Machado manifesto ("Base para una efectiva solucion cubana").29 Heavily censored, he decided to take the path of political exile to the United States and chose to stay in Washington, D.C. for two years, with the hope of influencing U.S. politics towards Cuba. Following the example of Mart, Ortiz published articles like "Las responsabilidades de Estados Unidos en los males de Cuba" (1930) and "Lo que Cuba desea de los Estados Unidos" (1932) during his exile. After he returned to Cuba, he published "El deber nortemaericano in Cuba" (1934) based on a speech he had presented to the Economic Society of Friends of Cuba.30 Yet, unlike Cuban leftist nationalists who urged a break from the United States, given its support of the Machado dictatorship, Ortiz leaned towards a realpolitik position by virtue of geographical proximity. At the same time, Ortiz opposed those conservatives who supported U.S. interests in the island at any cost, urging them to accept the "historical necessity" of Cuban national sovereignty. Ortiz reminded those North Americans who supported repressive governments that they were the ones responsible for creating those governments, given their physical and historical proximity. At this point, Ortiz wanted to create stable institutions and restore constitutional public freedoms on the island. The Machado period

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was a watershed in Ortiz's public life. After Machado's dictatorship, Ortiz became more skeptical, more removed from politics, and more involved in his scientific investigations, particularly those related to Afro-Cuban issues.31 In the 1930s, given the growth of Fascism and the pervasive racist theories of Nazism in Europe, Ortiz delved into their Cuban version that he called the "negrofobia" of Western racism. From that point on, Ortiz became passionately involved in overcoming the concept of race by connecting Mart's vision of a raceless society to Boas's egalitarian concept of culture. At the same time, his extensive work on Afro-Cuban folklore exerted an influence on the artistic vanguard of the literary "Afrocubanista" movement. In the 1920s and 1930s, race was at the core of the reinterpretation of "Cubanidad" in which Ortiz was actively involved. The combination of U.S. racial categories, according to which one drop of "black blood" made a person black, the belief that blacks were inferior, and the mixing of races placed most Cubans, in U.S. eyes, in a situation of permanent inferiority and backwardness. Ortiz stated in 1937: "We Cubans, whites, blacks, and mixed, know well how frequently we are all denigrated without distinction and en masse by some foreigners" (meaning North Americans). According to U.S. observers, racial composition was the cause of Cubans' incapacity for selfgovernment. Consequently, to reconstruct "Cubanness" implied a revalorization of black contributions to the formation of the Cuban nation, as by the 1920s it had become clear that Cuba could not be a "white country." Despite attempts to attract "desirable" European immigrants, as Ortiz had encouraged in the early 1900s, blacks and mulattoes remained a large part of the total population. As attempts at whitening had failed, Cuban nationalist intellectuals tried to reconcile modernity with racial diversity, "two concepts that North Atlantic racial ideologies had systematically presented as incompatible." As in other LatinAmerican countries, nationalist intellectuals promoted the exaltation of autochthonous cultural elements. In Cuba this meant the fusion of white and black elements which had produced a synthesis deemed to be uniquely Cuban. The Afrocubanist cultural movement was the most visible expression of this process, challenging dominant conceptions of blacks' inferiority and the negative effects of racial mixing: "Where Americans saw race degeneration and mongrelization, the Cubans saw racial improvement." Ortiz's scientific language had made it clear that all races were equal, and the emphasis shifted from heredity to culture, from climate and history.32 In the new redefinition of a racially-inclusive Cuban nationhood, Ortiz played an important role by elaborating on a discourse which was based on Mart's heritage and celebrated cultural synthesis: "Without the black, Cuba would not be Cuba," Ortiz would say in 1943.33 Du Bois's notion of art and social science as "propaganda" By intersecting national and international perspectives, the Harlem Renaissance and the movement of the New Negro of the 1920s gave new meanings to the concept of race in the U.S. In the

hands of talented young African-American artists, Du Bois's color-line metaphor became a powerful weapon of "racial pride, consciousness, history, heritage," stirring a new desire for integration into American society. How could Americanism and Negro race values be reconciled? As recent studies of the Harlem Renaissance have shown, these movements were able to articulate a variety of responses to relations between race, culture, and art, alternating national and international perspectives34. In the same period in Cuba, the Afrocubanist movement raised similar questions but offered different answers. In their own specific ways, both Du Bois and Ortiz devised new perspectives of active social science. Late in 1926 Du Bois discussed "The Criteria of Negro Art." Concerned that politics were abandoning the Harlem Renaissance and that the New Negro movement was turning into a mere search for recognition of its individual artists, he pointed out that white publishers expected "Uncle Toms," "good darkies," and clowns as Negro characters and were ready to reward the authors that provided them. He also admitted the existence of a few successful Negro artists, but in his view they were "the remnants of that ability and genius among us whom the accidents of education and opportunity have raised to the tidal waves of chance." To Du Bois, the "apostle of beauty" was "the apostle of truth." Accordingly, he declared: "Thus all art is propaganda and ever must be, despite the wailing of the purists. I stand in utter shamelessness and say that whatever art I have for writing has been used always for propaganda for gaining the right of black folk to love and enjoy. I do not care a damn for any art that is not used for propaganda. But I do care when propaganda is confined to one side while the other is stripped and silent." Du Bois warned against the seductive idea that there was no use in fighting, and that creative talents should do great things and get the reward they deserved. Fighting was crucial, in Du Bois's view, because the color line was still an imposing presence: that a black woman sculptress could not find a school in New York willing to accept her meant that the "Negro question," with all its unglamorous battles for the ballot, education, jobs, and housing, was still a priority.35 That year, in 1926, Du Bois also reviewed Alain Locke's The New Negro in The Crisis and made similar points. He found the book excellent but disagreed with Locke's idea that "Beauty rather than Propaganda should be the object of Negro literature and art." He worried that the Negro Renaissance would lead to "a search for disembodied beauty which is not really a passionate effort to do something tangible." While he also recognized that this controversy was as old as time, he believed that if Locke's thesis was insisted on too much, it would "turn the Negro Renaissance into decadence.36" Years later, Du Bois also applied this notion of "propaganda" to social science. The final chapter of his book Black

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Reconstruction, entitled "The Propaganda of History," was the most powerful assault ever written on the Dunning School which had produced biased research in sympathy with the white South. The Anglo-Saxon nexus of the elite of the North and the South granted the supremacy of the Dunning School of Reconstruction.37 After having produced evidence that created a major paradigm shift in the history of the Reconstruction and its "tragic era" interpretation, with black people placed at the center of the story and portrayed not only as victims but as agents of oppression, Du Bois's concluding chapter affirmed history as truth which empowers true democracy. If historians chose to lie less, Du Bois argued, addressing historians of the Dunning School such as Rhodes, Fleming, and Bowers, along with others who based their interpretations on racist assumptions, there would finally be a science of history. Writing this chapter as a powerful attack on a distorted public use of history, to Du Bois the triumph of the white South had been a phase in the global exploitation of the darker world. As he put it, the most "magnificent drama" in the last thousand years of human history was the transportation of ten million human beings out of their "mother continent." Yet this tragedy did not seem to interest historians. Du Bois asked himself why and came up the following answer: "Because in a day when the human mind aspired to a science of human action, a history and psychology of the mighty efforts of the mightiest century, we fell under the leadership of those who would compromise with truth in the past in order to make peace in the present and guide policy in the future."38 By this point, Fernando Ortiz could have reached a similar conclusion. From Afrocubanism to transculturation In the aftermath of the Machado regime, Cuba went through a period of political turmoil (passing through six governments in seven years) but it also witnessed many important social victories including the repeal of the Platt Amendment and women's suffrage. Becoming more and more critical of U.S. political interference in the island, Fernando Ortiz's public commitment followed two directions: the establishment of new cultural institutions, and the scientific investigations which would lead to his major publications of the 1940s. In 1941 Professor Ortiz organized the Alianza Cubana por un Mundo Libre in order to fight against Nazi Fascism, eugenic measures, Anglo-Saxon superiority, anti-Semitism, and legends of Aryan racial purity. That July he gave a lecture at the Palacio Municipal de La Habana entitled "Mart y las razas" in which he reminded a large audience that to Mart, all races were an artifice that did not reflect any reality: they were "bookshelf races," the invention of anthropologists. In 1940 Ortiz published Contrapunteo cubano del tabaco y del azucar in which he introduced, for the first time, the term "transculturation." The book examined the national debate, already developed in the 1920s, over the excessive dependency of

the Cuban economy on the monoculture of sugar production. Here Ortiz compared sugar and tobacco, the most famous Cuban products, to one another: the value of tobacco was in its leaves, whereas that of sugar was in its stalk, he wrote; cane lived for years, tobacco for months; cane sought sunlight, tobacco shade; cane was without scent, and could be left alone for months; tobacco was aromatic and needed the constant care of skilled men. Above all, cane demanded seasonal mass labor, whereas tobacco needed constant attention from a few experienced hands. Cane was grown on large estates, tobacco on small holdings. All sugar was the same in the end, beet and cane sugar even producing the same element, whereas no cigar was alike. Finally, as sugar spelled slavery, and tobacco freedom, Ortiz concluded that Cuba should escape from the production of sugar into that of tobacco. The introduction to the first edition of the book was written by the internationally-renowned anthropologist Bronislaw Malinowski who had founded the functionalist school of British anthropology and was teaching at Yale University in the United States at the time. That contribution, the visit he paid to Ortiz in Havana in 1939, and the intense correspondence between the two men reveal the importance that the concept of "transculturation" had for a paradigmatic shift in the field.39 What did Malinowski find so attractive in Ortiz's definition of "transculturation"? Ortiz explained that he introduced this term because he thought that the word "transculturation" better expressed "the different phases of the process of transition from one culture to another." In his view, this process did not consist "merely in acquiring another culture, which is what the English word acculturation really implies." The concept also carried the idea of the consequent creation of new cultural phenomena and was therefore "fundamental and indispensable to an understanding of the history of Cuba.an intense, complex, unbroken process of transculturation of human groups, all in state of transition.and, for analogous reasons, of that of America in general."40 What was the real difference between the concept of "acculturation" explored by Franz Boas's former student Melville Herskovits in his book Acculturation (1938), and Ortiz's "transculturation"? More than a conceptual difference, the two terms revealed the existence of a conflict between the North American and British schools of professional anthropology. Herskovits had accused British anthropologists of complicity with British colonial politics by making native history invisible. Perhaps Ortiz's concept was what Malinowski needed to strengthen his arguments against the American school. At the same time, Ortiz was looking for a new anthropological concept which could emphasize the contradictions within the U.S. "good neighbor" politics with Cuba in terms of imperial politics. By then his work was greatly appreciated among American social scientists as a point of reference in the field of racial integration in the Americas.41 Apparently, however, in the exchange between Herskovits and Ortiz, something went wrong. Ortiz sent a copy of his Contrapunteo to Herskovits, who found the term transculturation "thought-provoking" but defended his

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term acculturation from the charge of ethnocentrism.42 In a letter to Ortiz, Herskovits held firmly that: "in our use of the term [acculturation] in this country there is no implication of handing down a superior civilization to a savage folkIf anybody has been guilty of discussing cultural contact in terms of inculcation - to use Malinowski's own word - it has been his own students writing of culture contact, rather than those of use in this country who are concerned with the scientific problems of acculturation. I wish it were possible for us to discuss theoretical questions of this nature personally, since the implications of your contribution are of far-reaching importance."43 Transculturation, two-ness, and agency Herskovits had come up with the term "acculturation" after extensive field-work in Dahomey and Haiti. Influenced by the Harlem Renaissance of the 1920s, but still a believer, like his mentor Boas, that only a cosmopolitan view and assimilation could defeat scientific racism, Herskovits decided that he would rely on accurate research in physical and cultural anthropology to produce evidence of the discontinuity between African and African-American culture. His studies of the 1920s made him realize that African Americans had not been absorbed into the general population, as Boas had hoped. As a matter of fact, more racial mixing had occurred in the nineteenth than in the twentieth century. He concluded that African Americans were forming a "new type" that was a mixture of African, American Indian, and Caucasian ancestry, a type that was likely to remain physically distinctive for a long time.44 During his trips to Africa in the late 1920s and early 1930s, Herskovits's findings intersected both Du Bois's Pan-Africanist arguments on the Negro past, and Ortiz's studies of the African influences on the Negro societies in the New World. "Acculturation," according to Herskovits, was "the continuous contact over a long time in which a people are exposed to a culture different from their own."45 It could be argued that Ortiz's term "transculturation" is less relativistic and, as Mary Louise Pratt has observed in Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation (1992), helps to avoid reproducing the simplistic binary view of colonialism (e.g. oppressor/oppressed, self/Other) of those texts which deal with the encounter between colonizer and colonized.46 It is a "thick" concept which expresses the complex phenomenon of cultural encounters and conflicts, of the meeting of two different cultures and their mutual influence which then creates a new culture that synthesizes both. It is a dynamic concept, implying "agency," instead of passive reception from the colonizer to the colonized. With this concept, Ortiz left his early positivism behind for good. "Transculturation" also evokes cultural hybridity and mestizaje, as Ortiz stated in his El engano de las razas, published in 1946. Here Ortiz explicitly declared that "toda America es mestiza."47 "American history cannot be understood without knowing the history of all ethnic groups that in this continent have fused, and without taking into consideration the real result of their mutual

transculturation." He wrote this book, he said, for his compatriots who were debating the question of races and racisms, believing as he did that a man of science had the duty to fight against racism with the weapon of science.48 Based on the material of his lectures at the University of Havana in 1944, Ortiz gave the final blow to the idea of race itself, using Mart's ethical statement: "En este mundo no hay mas que una raza inferior: la de los que consultan ante todo su proprio interes; ni hay mas que una raza superior: la de los que consultan antes que todo el interes humano."49 Focusing on the survival power of a dominated culture instead of the assimilative power of the dominant culture, Herskovits published his findings in his most well-known work, The Myth of a Negro Past (1941). Comments on the book diverged greatly and the debate which it generated was rather hot, as the question at stake was the role of anthropology as a weapon to defeat racism in America. Reviewing the book for the American Academy of Political and Social Science, Du Bois defined it "epoch-making." The book dealt with the origins of African slaves, where they came from, what degrees of human culture they represented, and how far after their transplantation to America their African origins could be discerned. Du Bois read the chapter on "The African Cultural Heritage" as a powerful attack on the interpretations of African culture which were current in the United States. He also emphasized Herskovits's evidence which demonstrated the widespread refusal of black Americans to submit to enslavement in Africa, on the middle passage, in the West Indies and South America, and in the United States, the forms of subtle slave protests which consisted of a slowing down of work and sabotage, as well as explicit revolts. The character of organized slave revolts and the ingenious forms of escape indicated, in Du Bois's view, a capacity of leadership of African origin that constituted a powerful counter-argument to the common assumption that the American slave represented the lowest element of African population. Just as Du Bois had contested the negative myth of Reconstruction, now Herskovits attacked all of the scholarship that misinterpreted the Negro past and that, in so doing, justified racial prejudice. Du Bois highlighted what he considered to be Herskovits's major arguments: that Negroes were not child-like and did not easily adjust to low social conditions; that it was untrue that only the poorest stock of Africans were enslaved; that it was untrue that on coming to America they lost whatever cultural patterns they had; that it was untrue that African cultural patterns were easily forgotten; and, consequently, that it was untrue that the Negro did not have any past.50 By arguing that African Negro culture was neither simple nor naive, that it ranked high among societies of the world and was comparable to European cultures of the Middle Ages, and that it involved complex social, political, and economic organizations and religious systems, Herskovits's book strengthened Du Bois's belief that American Negroes had retained much of the ancient African culture, and that the "acculturation process" - not

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"transculturation" - by which they became Americans, had brought the gift of their valuable past to America just like any other ethnic group. This is precisely what Du Bois emphasized in Black Folk, Then and Now: An Essay in the History and Sociology of the Negro Race, a book he opened explicitly denying the biological relevance of race and concluded with words echoing his own of almost forty years earlier that the problem of the twentieth century was still the problem of the color line.51 Ortiz, on the other hand, continued to strengthen the raceless argument of Jos Mart. Concluding remarks: did Du Bois and Ortiz ever meet? Du Bois had been one of the founders of the NAACP in 1910, but he left that organization after the proclamation of the Truman Doctrine because of its tactical position on Cold War anticommunist practices. By then most of the black leadership did not support Du Bois's opposition to the Marshall Plan, NATO, the U.S. programs for underdeveloped countries, and the Korean War, nor did they approve of his defence of the Rosenbergs. Du Bois's point was that the betterment of race relations in the country could not be achieved by supporting "patriotism" at any cost. We learn from Du Bois's last autobiography, A Soliloquy, that among the many appeals and letters against his indictment as an "unregistered foreign agent" in connection with his leadership of the Peace Information Center, he received those of "outstanding Cubans like Dr. Fernando Ortiz, Latin America's most famous sociologist."52 More research needs to be done on how Du Bois and Ortiz met and what they thought of each other's work and commitments. Besides the influence that both Boas and Herskovits had on Du Bois and Ortiz, there was one moment in which the life of the African-American scholar intersected with that of the Cuban, thanks to Irene Ellen Diggs. Diggs was an African-American graduate student of Du Bois's at Atlanta University who worked as his secretary for many years. Acting as a force behind the

publication of his major works of the late 1930s and 1940s, Diggs also accompanied Du Bois to Cuba.53 Raised in an AfricanAmerican working-class family in Illinois, Irene Diggs came to At lanta University when she was twenty-seven in order to study with the famous Dr. Du Bois. From a few details concerning Diggs revealed by Du Bois's biographer David Levering Lewis, we learn of a relationship which evolved throughout the years in which Diggs made a significant contribution to Du Bois' research, typing and proofreading his books Black Reconstruction in America (1935), Black Folk, Then and Now (1939), Dusk of Dawn (1940), and The Encyclopedia of the Negro (1945).54 Given her decision to enter the University of Havana as a Roosevelt Fellow in the fall of 1943, it seems probable that Diggs went to Cuba with Du Bois as his secretary in the summer of 1941 in order to set in motion a process which allowed her to return as a doctoral candidate in anthropology with Fernando Ortiz as her advisor.55 While according to Lewis's sources there is no mention of meeting Fernando Ortiz during that trip, it is quite possible that their encounter occurred at that time. Similar to several other women who developed a professional relationship with Du Bois, Diggs's own scholarship was overshadowed by his dominant presence.56 Her career is an example of gender-bias academia, and of the fact that anthropology was one of the few fields open to women of that generation, although they remained in the lower ranks. More research also needs to be done on Irene Diggs's role in developing a transnational link between African-American and Afro-Cuban studies, as well as her relationship with her mentor Ortiz and other Cuban intellectuals. Instead of being remembered as one of Du Bois's many neglected women whose strenuous work only served to feed Du Bois's towering intellectual image, Diggs can be seen as an important link in the interaction between U.S. and Cuban social science, as well as an example of the limits that active social science had, and still has, when the issue of gender intersects that of race.

Notes
I have discussed thise role of social scientists in my Rituals of Race: American Public Culture and the Search for Racial Democracy (Charlottesville VA: Virginia UP, 1999). On Atlantic crossings of social theories see the pathbreaking work by Daniel T. Rogers, Atlantic Crossings. Social Politics in a Progessive Age (Cambridge: Harvard UP, 1998). 2 Du Bois's prophetic speech was entitled "To the Nations of the World": "The problem of the twentieth century is the problem of the colour line, the question as to how far differences of races, which show themselves chiefly in the colour of the skin and the texture of the hair, are going to be made, hereafter, the basis of denying to over half the world the right of sharing to their outmost ability the opportunities and privileges of modern civilisation...." Report of the Pan-African Conference.....[London], in Herbert Aptheker, ed., Writings by W.E.B. Du Bois in Non-Periodical Literature Edited by Others (Millwood NY: Kraus-Thomson Organization, 1982), 11. 3 David L. Lewis, W.E.B. Du Bois: Biography of a Race, 1868-1919 and W.E.B. Du Bois: the Fight for Equality and the American century, 1919-1963. Lewis has defined Du Bois as the most multifaceted, prolific, and influential writer that black America has produced whose chosen weapons were grand ideas and the uncompromising language of prophecy. 4 Fernando Ortiz's papers and original documents are gathered in the Collecion Fernando Ortiz, a collection of the Fundacion Fernando Ortiz, a scientific institution founded in 1995 at Habana. Works on Ortiz published by the Fundacion include: Carlos Del Toro Gonzales, Fernando Ortiz y la cultura hispanocubana (1996); Salvador Bueno, ed., Fernando Ortiz. Italia y Cuba (1998); Jesus
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Guanche, ed., Fernando Ortiz y Espana a cien anos de 1898 (1998). The Fundacion has also published in 2001 the Spanish translation of W.E.B. Du Bois's The Souls of Black Folk. 5 W.E.B. Du Bois, Darkwater: Voices from Within the Veil (1920), quote in Lewis, W.E.B. Du Bois. Biography of a Race, 26; Dusk of Dawn: An Essay toward an Autobiography of a Race Concept (Millwood NY: Kraus-Thomson, 1975 [1940]), 100, 98, 99. 6 A loan and a fellowship from the Slater Fund would enable him to go to Germany with the unexpected result of nearly completing his doctorate from the University of Berlin. Because of the requirement of six semesters' work, Du Bois could not defend his dissertation at Berlin. According to biographer Lewis, the Du Bois's case, given its superlative success abroad, merely proved the original unwisdom of such an experiment in the higher education of Negroes. How useful to the education of a people one generation removed from slavery could a University of Berlin teacher be, after all? The Fund went toward the training of primary school teachers and the construction of school buildings. Lewis, W.E.B. Du Bois. Biography of a Race, 146. 7 For a more extensive analysis of this fundamental speech see Lorini, Rituals of Race, 78-80. 8 See: Prez, Cuba Between Empires ; Ferrer, Insurgent Cuba; Alejandro de la Fuente, A Nation for All. Race, Inequality, and Politics in Twentieth-Century Cuba (Chapel Hill NC: North Carolina UP, 2001), 1-53; Alessandra Lorini, "Race and Reconciliation: The United States and Cuban Independence" in Flavia Brizio-Skov, ed., Reconstructing Societies in the Aftermath of War (Boca Raton FL: Bordighera Press, 2004), 215-244. 9 Ada Ferrer, "The Silence of Patriots: Race and Nationalism in Marti's Cuba," in Jeffrey Belnap, Raul Fernandez, eds., Jos Marti's "Our America": From National to Hemispheric Cultural Studies (Durham NC: Duke UP, 1998), 228-49. 10 For a deep cultural and political analysis of this process see: Marial Iglesias Utset, Las metaforas del cambio en la vida cotidiana: Cuba 1898-1902 (Habana: Ediciones Union, 2003). 11 "Chronology" in Miscelanea II of Studies Dedicated to Fernando Ortiz (New York: Interamerica, 1998); Norma Suarez, Alberto Quesada Morales, Cronologia. Fernando Ortiz (Habana:Fundacion Fernando Ortiz, 1996); Julio Le Riverend, Fernando Ortiz. Seleccion y profilo (Habana: Union de Escritores y Artistas de Cuba, 1973). 12 Fernando Ortiz, Los negros brujos (Habana: Editorial de Ciencias Sociale, 2001 [1906]), 1. In the forward Lombroso stressed the importance of the concept of "atavism" in explaining Negro witchcraft, the observation of phenomena of mediumism, spiritistism, and hypnosis, which were all "rather frequent in the primitive era of humanity." Lombroso strongly encouraged Ortiz to continue his studies of "criminal ethnology," to gather data on skull and tactility anomalies existing in a certain number of "criminals and sorcerers, and in a corresponding number of normal blacks." The Italian scientist ended his preface by wishing Ortiz "a happy return to your country." 13 For ana analysis of Ortiz's progressive change of racial perceptions see: Ricardo Quiza Moreno, "Fernando Ortiz y su hampa afrocubana," in Jos A. Piqueras Arenas, ed., Diez nuevas miradas de historia de Cuba (Castello de la Plana, Spain: Publicacionsm de la Universitat Jaume I, 1998), 227-45. Ortiz will make clear his rejection of stigmatizing words in his famous speech of 1943 "For a Cuban Integration of Whites and Blacks." Excerpts of this sppech can be found in Pedro Prez Sarduy, Jean Stubbs, eds., Afrocuba. An Anthologyof Cuban Writing on Race, Politics, and Culture (Hoboken NJ: Ocean Press, 1993), 27-33. 14 For "whitening" policies in the early twentieth-century Cuba see: Aline Helg, Our Rightful Share. The Afro-Cuban Struggle for Equality, 1886-1912 (Chapel Hill NC: North Carolina UP, 1995), 6, 7, 16, 104, 235. 15 Lorini, Rituals of Race, 142-48. 16 Ortiz argued that slavery needed to be studied as the result of the slave trade. He studied black slaves since their arrival to the island up to their assimilation; in other words he studied work habits, costums, diseases, eating habits, languages and traditions. In doing so Ortiz heavily relied on 19th century Cuban literature in which the presence of the black as a "pictoresque" element characterized a genre ("costumbrismo"). The work of Cirillo Villaverde, the author of of the novel Cecilia Valdez, the nineteeenth-century masterpiece of Cuban literature, was a point of reference for Ortiz's historic reconstruction of slavery in Cuba. Moreno, "Fernando Ortiz y su 'Hampa Afrocubana'," 239. 17 Marial Iglesias Utset, "Jos Mart: mito, legitimacion y simbolo. La gnesis del mito martiano y la emergencia del nacionalismo republicano en Cuba (1895-1920)," in Piqueras Arenas, ed., Diez nuevas miradas de historia de Cuba, 201-26. 18 Jos Mart, Carta al Director de La Opinion Nacional (Caracas), March 23, 1882, in Mart, Obras completas (1963-65), 14: 407. 19 Mart's work amounts to 27 volumes for 12,500 pages. Articles el cronista Mart wrote from New York in the 1880s often discussed race relations, the Native-American genocide, labor movements, and American popular culture (he wrote on such a variety of subjects as the New York elevated railways, urban tenements, American technology, international expositions, American anarchists, Buffalo Bill, and literary giants like Walt Whitman and Ralph Waldo Emerson). He explored such a variety of subjects with the lenses of an exile who looked at these areas of major conflicts in the US, his hosting country whose mainstream culture, by the late 1880s, he had discovered, showed clear signs in favor of expansionism and imperialism. See: Colectivo de autores, Jos Mart y los Estados Unidos (Habana: Centro de Estudios Martianos, n.d.); Esther Allen, ed., Jos Mart. Selected Writings (New York: Penguin Books, 2002); Carlo Bat, Jos Mart. Il maestro delle due Americhe (Verona: Achab, 2002). 20 Jos Mart, "Our America," in Allen, Jos Mart. Selected Writings, 288-96. Belnap, Frnandez, Jos Mart's "Our America."

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Mart, "Our America,"295-96. Mart, "My Race," in Allen, Jos Mart, 319-20. 23 Mart, "The Truth About the United States," in Ibid., 329, 333. 24 Citations are translations from quotes included in Iglesias Utset, "Jos Mart: Mito, legitimacion y simbolo,"204, 216, 217. 25 Prez, Cuba Between Empires, 386. 26 Fernando Ortiz, Entre cubanos. Psicologia tropical (Habana: Editorial de Ciencias Sociales, 1987 [1913]), 4. 27 Quote in Miscelanea II of Studies dedicated to Fernando Ortiz...Chronology, 28. 28 Quote in Ibid., 30. During these years Professor Ortiz published an extensive number of essays on Afro-Cuban folklore, lectured in Sweden, and was elected president of the Sociedad Economica de Amigos del Pais. This association's goal was the preservation of Cuban cultural traditions by "illuminating the sound judgment behind the elements guiding Cuban society, and to maintain the more than one-hundred-year-old tradition of culture and patriotism." See: Enrico Maria Santi, Fernando Ortiz: contrapunteo y transculturacion (Madrid: Editorial Colibr, 2002), 29. 29 Inititially the Machado government pursued a program of important reforms: public works, the beginning of the major Cuban highway, the economic diversification of the country. But he soon turned to violence to repress his oppositors. The international crisis of 1929 coincided in Cuba with the first Machado government which inherited the problems of the historical dependency of an economic system based on monoculture (sugar). Ortiz supported the first government Machado at international events such as the Third Pan-American Conference (1926), the International Congress of Americanists in Rome, and the Sixth Pan-American Conference in Habana in 1928. Ibid., 31, 32, 30. 30 This includes such a language as "toda actividad programatica del cubano para determinar una actitud de la vida colectiva de Cuba ha de contar con le factor americano.A la diplomacia de Washington se le pide [que] debe apoyar el cese de los regimenes de facto y con sustentacion militarista, que desde hace muchos anos y a espaldas de su pueblo, han venido gobernando en Cuba" Ibid., 34. 31 Ibid., 35 32 Quotes in de la Fuente, A Nation for All, 177. According to de la Fuente, "For all its ambiguities and contradictions, this process was nothing short of a cultural and ideological revolution. In contrast to the early republic, in which Cuba's future was frequently identified with the demographic expansion of its white population and the consolidation of its Spanish cultural ancestry, by the late 1920s the Afrocubanista movement was asserting that African influences were at least equally important in defining the character and nature of the Cuban nation."183. 33 Ortiz, "On the Relations Between Blacks and Whites," in Miscelanea II...., 19. 34 See: Genevive Fabre, Michel Feith, eds., Temples for Tomorrow. Looking Back at the Harlem Renaissance (Bloomington: Indiana UP, 2001), 4, 5. 35 Quotes from Alessandra Lorini, "'The Spell of Africa Is Upon Me": W.E.B. Du Bois's Notion of Art as Propaganda,"in Ibid., 159. 36 A visible sign of this decadence was, in Du Bois's view, McKay's Home to Harlem which he reviewed in 1928 in the Crisis together with Larsen's Quicksand and anthropologist Melville Herskovits's The American Negro. Editor Du Bois liked Larsen's book but found MacKay's nauseating. "After the dirtier parts of its filth," a dismayed Du Bois wrote, "I feel distinctly like taking a bath." Although he admitted that the book included some good stuff in the way its author portrayed characters, he could not tolerate McKay's giving in to the "prurient demand" of a "certain decadent section of the white American world" centered in New York. In the same review, Du Bois praised anthropologist Melville Herskovits's work. He thought Boas's student a real scientist that is, "a man who is more interested in arriving at truth than proving a thesis of race superiority." At the end of an extensive research of physical anthropology, Herskovits concluded that American Negroes were forming a new racial type that was a mixture of African, American, Indian, and Caucasian ancestry, and were likely to remain physically distinctive for long time. Du Bois welcomed Herskovits's findings showing that fewer than one-fourth of the Negroes in the United States were of unmixed Negro blood, and that forty percent of them had as much, or even more, white blood as they did Negro. This meant, in Du Bois's view, the unsoundness of the argument that the Negro was an inassimilable race in the United States and the idiocy of discussing American Negroes as if they were Bantu. Ibid., 160. Herskovits, who will correspond with and meet Ortiz in the early 1940s, was influenced by his close encounter with the Harlem renaissance and the desire of black intellectuals to develop a distinctive cultural tradition rooted both in the African past and in AfricanAmerican folklore. In Herskovits's findings Du Bois saw a good piece of social science susceptible to being used as a weapon of "propaganda." What Du Bois actually meant by such a use of social science as "propaganda" became clear when he published his pathbreaking Black reconstruction in America, 1860-1880 (1935). By then, he had resigned from the Crisis and the Board of the NAACP, and had become the chairman of the Sociology Department at Atlanta University (1934-1944). 37 Eric Foner, Reconstruction: America's Unfinished Revolution, 1863-1877 (New York: Harper and Row, 1988) 38 Du Bois, Black Reconstruction in America : An Essay Toward a History of the Part Which Black Folk Played in the Attempt to Reconstruct Democracy in America, 1860-1880, quoted in Lewis, W.E.B. Du Bois. The Fight for Equality and the American Century, 375. 39 Santi, Fernando Ortiz, 36, 38, 39.
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Quote in Ibid., 66; Miscelanea II....Chronology, 32 Miscelanea II....Chronology, 34. In 1943 Ortiz was given the chair of the Instituto Internacional de Estudios Afroamericanos, and in 1954 received the Doctor Honoris causa in the humanities from Columbia University and its bicentennial celebration. 42 Santi, Fernando Ortiz, 73. 43 Letter from Herskovits to Ortiz, October 29, 1940, in Ibid., appendix, 262-63. 44 Melville Herskovits, The American Negro: A Study of Racial Crossing (1928), quoted in Walter Jackson, "Melville Herskovits and the Search for Afro-American Culture," in George W. Stocking, Jr., Malinowski, Rivers, Benedict and Others. Essays on Culture and Personality (Madison: Wisconsin UP, 1986),105. 45 Herskovits, Acculturation. The Study of Culture Contact (1938), quoted in Jackson, "Melville Herskovits and the Search for AfroAmerican Culture," 113. 46 Mary Louise Pratt uses the concept to transculturation to argue that the colonial encounter is a "contact zone" in which "disparate cultures meet, clash, and grapple with each other, often in highly asymmetrical relations of domination and subordination." Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation (New York: Routledge, 1992), 4-5. 47 Fernando Ortiz, El engano de la razas (Habana: Editorial de Ciencias Sociales, 1975), 31, 32 48 The book tracked the origins of the word "raza" in different languages, established the connection between the development of African slavery and the spreading of the word raza, and racial hierarchies. Offering a definitive argument against the idea of racial purity, Ortiz also quoted Franz Boas extensively on the question of racial heterogenity. He concluded that "Toda la historia de la especie humana es un entrecruciamento incesante de la amorosa trama que con los abrazos de los sexos ha ido anudando sobre la urdimbre de los pueblos todas las hebras humanas sin reparar en sus colores. El mestizaje no es la excepcion sino la norma. Hay un mestizaje unversal." Consequently "Es infructuoso buscar en Europa el imaginado tipo promedial o estadistico de raza nordica, alpina, o mediterranea. Esas tres razas blancasno son sino idealizaciones de ciertos tipos dentro del hibridismo universal." There was no justification to any racial hierarchy as all men of science did not even consider those racial characteristics that were popularly assumed as "typical" of a race. Ibid., 329, 339. 49 Ibid., 360. 50 Herbert Aptheker, ed., Book Reviews by W.E.B. Du Bois (Millwood NY: Kraus-Thomson, 1982), 208. 51 W.E.B. Du Bois, Black Folk Then and Now: An Essay in the History and Sociology of the Negro Race (Millwood NY: Kraus-Thomson 1975 [1939]). 52 Du Bois, The Autobiography of W.E.B. Du Bois. A Soliloquy on Viewing My Life from theLast Decade of Its First Century (New York: International Publishers, 1991 [1962]), 373. 53 Du Bois's biographer Lewis briefly mentions Ellen Irene Diggs as a twenty-seven year old graduate student at Atlanta University in 1933, with a BA in anthropology and economics from Minnesota, who had just moved to the city and to the new sociology department: "brilliant, trim, and stunningly black, was to grow in Du Bois's esteem and affection over the years until those who knew the depth of their relationship thought that Diggs might become the second Mrs. Du Bois. Irene Diggs certainly came to define her being in terms of that inestimable status. .... Du Bois found her energy and intellectual sophistication enormous assets as he pressed ahead on the first draft of the book he intended to call 'Black Reconstruction of Democracy in America." Lewis, W.E.B. Du Bois. The Fight for Equality and the American Century, 305 54 She also co-founded with Du Bois Phylon: A Review of Race and Culture. Ibid. 55 According to Lewis's sources, their staying in Havana was certainly pleasant, but it was less productive than Du Bois had wished. No mention is made of meeting with Fernando Ortiz, although it is quite possible that their encounter occurred at that time. Four months later Du Bois returned to Cuba under the ACLS sponsorship to attend the Havana conference on intellectual cooperation. 56 Highly influenced by Ortiz's scholarship, Diggs' work on Latin American color line was published in the Crisis. In 1947 Diggs got a position at Morgan State College in Baltimore - a traditional black college - where she remained until she retired in 1976. A fellow of the American Anthropological Association, of the American Association for the Advancement of science, of the Society for Applied Anthropology, and the American Association of Physical Anthropologists. In 1978 the Association of Black Anthropologists honored her for her studies on the African diaspora in Latin America. (Lynn A. Bolles, entry Ellen Irene Diggs in Women Anthropologists: A Biographical Dictionary, pp 59-64, NY Greenwood Press, 1988; same author, "Ellen Irene Diggs: Coming of Age in Atlanta, Havana, and Baltimore," in African-American Pioneers in Anthropology, ed. by Ira E. Harrison and Faye V. Harrison, pp. 154-167, Urbana, Illinois UP, 1999).
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Pinocchi, balordi e ballerini


Il mutamento dellimmagine degli albanesi nei mezzi di comunicazione italiani (1997-2006)
di Piero Vereni

Eravamo ragazzini quando stavamo al paesino, c'era la guerra civile del 1997. L'unica cosa che ho imparato nella guerra civile stato ascoltare i Led Zeppelin e la musica rock. Perch noi andavamo al mare. Avevamo questa radio e la portavamo in riva al mare. Sentivamo radio Bari. Tra le nove e le dieci di sera davano un programma di musica rock. "Ora ascoltiamo una canzone, una pietra miliare del rock, Stair Way To Heaven, loro sono i Led Zeppelin". Poi mettevano i Jethro Tull, i Deep Purple. Guardavamo questo mare, le onde del mare, e intanto ascoltavamo queste canzoni sparate a tutto volume. Io e il mio amico ascoltavamo e dicevamo: guarda il mondo come bello di l Intervista a Elton Sinami, registrata a Firenze il 16 dicembre 2006

Introduzione Tra il giugno 1995 e il febbraio 1997, mentre svolgevo la ricerca sul campo in Macedonia occidentale greca per il mio dottorato, mi sono recato diverse volte in Albania in visita a Gilles de Rapper, un collega francese che conduceva la sua ricerca nell'area di confine tra Albania e Grecia. Durante uno di questi viaggi, a Voskopoj ebbi modo di chiacchierare con Dhori Fallo, un professore di matematica in pensione che parlava un elegante italiano imparato durante la prigionia in Italia negli anni Quaranta. Tenendo in braccio il nipotino di pochi mesi, Dhori mi raccont che aveva due figli, uno sposato che lavorava clandestinamente in Grecia (il nipotino era figlio suo), e l'altro in Italia dal 1991, arrivato con una di quelle carrette del mare stipate di uomini che tutti ricordiamo quell'estate. Il discorso che il padre tenne al figlio prima di vederlo partire fu di questo tenore: "Vai in Italia, cercati un lavoro l e dimenticati di essere albanese. Sposati se puoi con una donna italiana e cresci dei figli italiani. Adesso non tempo di essere albanesi, non abbiamo una dignit da difendere, ma solo miseria umana e morale da sconfiggere. Tra qualche anno, quando e se l'Albania ritrover un suo onore, potrai dire ai tuoi figli che sono albanesi, ma non adesso, adesso dimenticati anche tu che provieni da questo Paese". Ricordo la forte impressione che mi suscit questo imperioso comando di un padre a scordare la patria, la terra dei padri. All'epoca, gli albanesi non godevano in Europa di buona fama: noti alle cronache solo per i casi criminali, sembravano in generale aver fatto tesoro del consiglio di Dhori, rendendosi, perlomeno in Italia (il paese con la pi alta percentuale di emigrati, assieme alla Grecia) praticamente invisibili, anche per via delle caratteristiche

somatiche "mimetiche". Appena rientrato in Italia, nel febbraio 1997, ebbi modo di verificare rapidamente il modo in cui gli albanesi erano visti e giudicati dato che la crisi finanziaria che stava devastando il Paese balcanico da gennaio inizi presto ad attrarre l'attenzione dei mezzi di comunicazione italiani, soprattutto quando produsse sollevazioni, incidenti e rapidi tentativi di fuga dal paese. Ne emerse un'immagine complessa ma sostanzialmente negativa degli albanesi, delle loro motivazioni e delle loro strategie culturali, la cui analisi costituisce la parte centrale e pi consistente di questo lavoro. Nelle pagine finali, invece, presento un rapido caso di studio in corso per avanzare alcune riflessioni sul ruolo che un altro mezzo di comunicazione di massa ha avuto nella rappresentazione dell'identit albanese, e cio la televisione d'intrattenimento nei primi anni del nuovo millennio. Lungi dal voler essere una disamina sistematica sul ruolo dei mass media nella formazione delle identit collettive, queste pagine sono piuttosto un primo resoconto di una ricerca tuttora in corso, che cerca di riflettere sul ruolo dinamico dei mass media, strumenti di comunicazione sempre bidirezionali, che molto dicono non solo sulla natura dell'oggetto rappresentato, ma anche sulle forme culturali del soggetto che attua l'operazione di rappresentazione. Pastori e pinocchi Il 1997 un anno di svolta per l'economia albanese. A partire dalla met di gennaio le numerose finanziarie sorte come funghi nel biennio precedente, attraendo i risparmi delle famiglie e le

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rimesse degli emigrati con prospettive di rendita elevatissime, stavano collassando a ritmi incontrollabili. Il sistema piramidale della raccolta del denaro (per cui ogni cliente, per poter iniziare ad avere una rendita dal proprio investimento, doveva trascinare con s una dozzina di nuovi utenti) era giunto a saturazione e il denaro, drenato nelle mani di pochissimi, si era letteralmente volatilizzato. La crisi colp la quasi totalit della popolazione residente in Albania e l'inerzia del governo di Sali Berisha nell'affrontare per tempo la situazione provoc da febbraio un periodo di sommosse, sollevazioni popolari e scontri anche violenti, periodo oggi ricordato come la "guerra civile", anche se non mai stato chiaro quali fossero (e se ci fossero) le parti contrapposte. Su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fu attivata in Albania tra il 15 aprile e il 12 agosto 1997 la "missione Alba", condotta dalla Forza Multinazionale di Protezione per aiutare la popolazione albanese e sostenere attivamente il ritorno della stabilit politica. Per la prima volta, una missione internazionale era a guida italiana, come italiana era la maggior parte delle truppe coinvolte sul territorio. Si tratt quindi di un'importante occasione per fare vedere, sullo scacchiere della politica internazionale, quale potesse essere il ruolo militare dell'Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. L'intera vicenda ebbe un'intensa copertura mediatica globale, cui ovviamente partecip anche l'Italia. Nelle prossime pagine ricostruisco il modo in cui i "corsivi" di quattro quotidiani italiani hanno raccontato la crisi dell'economia albanese tra febbraio e marzo 1997. Ho scelto il corsivo soprattutto per la sua implicita natura di testo "autoriale", volendo quindi porre un parallelo tra la scrittura giornalistica e la scrittura della saggistica antropologica. I quotidiani selezionati sono stati: La Repubblica, il Corriere della Sera, Il Giornale e Il Gazzettino, con l'intento di fornire un quadro genericamente esaustivo del panorama disponibile all'epoca, pur se costretto a tralasciare altri grandi quotidiani "d'opinione". Per buona parte di febbraio i giornali italiani non sembrano prestare molta attenzione a quel che accade in Albania, anche se i crolli finanziari si susseguono a catena e non mancano le manifestazioni di protesta. Ci sono pochissimi articoli, solo nelle pagine interne, e quasi nulla che somigli a un corsivo. Posso citare due colonne non firmate su la Repubblica dell'11/2, anche perch, primo tra tutti, questo pezzo mette a fuoco il tema che ossessioner gli italiani di l a qualche settimana: "E quando, come ormai pare certo, cadranno anche le company fino a ieri ritenute pi solide da un punto di vista economico [] non rester agli albanesi altro che tornare a imbarcarsi sui traghetti, scafi e gommoni alla volta delle coste pugliesi". Quando l'interesse cresce, predomina un'immagine degli albanesi come "popolo folclorico": "noi andammo all'attacco di quello che, allora, veniva definito 'il nobile popolo schipetaro'. C'era un re che si chiamava Zogu e che aveva sposato una contessina ungherese di nome Geraldine: un bel soggetto per un musical [] Vittorio Emanuele III divent sovrano anche di quelle serene popolazioni dedite alla pastorizia e che hanno dato al mondo

Madre Teresa di Calcutta e Anna Oxa da Bari", Corriere della Sera, Biagi, 5/3. Biagi ribadir quest'icona tra l'agreste e il comico pochi giorni dopo: "Quando stoltamente andammo ad occupare quel povero Paese [] trovammo un mondo arretrato e primitivo, una reggia da operetta e attorno brava gente che custodiva greggi o buttava reti", Corriere della Sera, 18/3. Normale, viste le premesse, che quelli truffati siano descritti come "gente che aveva creduto a un sogno: la moltiplicazione della ricchezza attraverso lo scambio di carta; parossistica rappresentazione di un capitalismo da film di Frank Capra", Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Nessuno nota che quel concetto di capitalismo lo stesso che pochi anni prima aveva nutrito un meccanismo finanziario del tutto simile, e cio il sistema dei junk-bonds, i "titoli-spazzatura" utilizzati negli anni Ottanta da squali della Borsa come Michael Millken. Si preferisce descriverli in modo lapidario: "Gli albanesi sono dei pinocchi che credono nel Paese dei Balocchi", il Gazzettino, Sgorlon, 15/3, o li si deride con una curiosa inversione di oggetto che gi sposta l'attenzione da "loro" a "noi": "quei gonzacchioni che si son fatti accalappiare da degli pseudo finanzieri d'assalto - non poi molto diversamente da come noi stessi negli anni Cinquanta ci lasciammo infinocchiare dai vari Virgillito and company", il Giornale, Riva, 2/3. In generale, in questa prima fase, che dura fin circa la met di marzo, i corsivisti parlano ancora con toni compassionevoli, con indubbi risvolti da complesso di superiorit: "un popolo dall'animo vuoto pi ancora delle tasche", Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Ma meglio chiarire subito: "Gli albanesi non sono i nostri 'fratelli separati'. Semmai sono i nostri cugini scalognati", il Giornale, Riva, 2/3. Cugini di cui bene fidarsi poco, soprattutto se si pensa che sono "una popolazione che di violenza si sempre nutrita", il Giornale, Caputo, 4/3. Precoce la preoccupazione che la crisi albanese possa dilagare, anche se non sono chiari i motivi o le forme di questo potenziale contagio, paventato con un non sequitur che risente evidentemente di un radicato stereotipo della "polveriera" che cos bene si accompagna al quadro "balcanico" (Todorova 1997): in Albania succedono sommosse, quindi c' il rischio che si incendino i Paesi vicini. "L'Albania non un'eccezione, ma solo l'anello pi debole di quella catena che collega la Serbia, la Croazia, la Bulgaria, la Romania. Paesi diversi legati da un comune destino: l'incapacit di gestire la transizione dal comunismo al mercato", Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. "Ora il passato albanese sembra volersi prendere una rivincita che nelle nuove condizioni minaccia di infiammare il Kosovo, la Macedonia, e di l tutti i Balcani", Corriere della Sera, Venturini, 4/3. Un esperto paventa il rischio del contagio a tutto l'est excomunista: "Dunque: oggi in Albania, domani in Romania, in Bulgaria e, forse, in Russia?" Gazzettino, Ostellino, 4/3 e qualcuno prevede ripercussioni su tutta l'Europa, senza distinzioni: "una crisi che destabilizza ancor pi l'area balcanica e che minaccia ripercussioni gravi per tutta l'Europa" Gazzettino, Tito, 14/3. "Gli Stati Uniti [] sanno che dopo l'Albania pu esplodere il

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Kosovo [] Poi c' la Macedonia, piena di soldati americani mandati a circoscrivere l'incendio dei Balcani. La Grecia, intanto, si allarma per le sorti della propria minoranza nel sud dell'Albania", Corriere della Sera, Cingolani, 6/3. "Un'altra Somalia, un altro Libano? No, perch l'Albania qui, in Europa e per massima disdetta anche nei Balcani, nella nostra secolare e gi tanto insanguinata 'polveriera'", Corriere della Sera, Venturini, 15/3. Un altro esperto dell'area sostiene una variante di questa teoria, per cui non si tratterebbe, per l'Albania, del caso particolare di una regola generale, ma del contagio subito dal Paese delle Aquile, della balcanizzazione di uno Stato fino ad allora immune: "Il nuovo regime di Tirana ha infatti realizzato dopo il 91 una metamorfosi del tutto balcanica del paese [] Si quindi sostenuta una 'balcanizzazione' del paese invece di contrastarla", la Repubblica, Cavallari, 6/3. Una versione peculiare di questa teoria del "contagio balcanico" quella proposta da Robi Ronza, che prende le mosse dai rischi di un intervento concertato europeo: "Coinvolgere l'Europa vuol dire coinvolgere la Grecia, che da sempre rivendica come cosa sua proprio quella regione dell'Albania meridionale attorno a Valona che attualmente in piena rivolta contro il governo di Tirana; una regione dove tra l'altro insediata una minoranza di lingua greca, la cui cultura priva di qualunque tutela e riconoscimento ufficiali. Ci sarebbe oggi in effetti da verificare in quale misura la rivolta in corso, cos violenta e nel medesimo tempo cos delimitata dal punto di vista territoriale, non trovi il suo punto di forza nella minoranza greca, e nell'appoggio che le pu provenire dalla madrepatria, la Grecia", il Giornale, Ronza, 9/3. A parte il fatto che il cosiddetto "Epiro settentrionale" - e cio i distretti di Saranda, Argirocastro, Tepeleni, Coriza e Prmet, dove vive la minoranza grecofona d'Albania - ben distante da Valona, citt del tutto albanese per cultura e lingua, la Grecia, in realt, non "rivendica da sempre come sua" alcuna terra d'Albania. Se vero che diversi politici greci (di destra) hanno sfruttato la questione dei territori dell'Albania meridionale abitati anche da popolazione di lingua greca, anche vero che nessun governo greco dalla fine della seconda guerra mondiale ha mai avanzato alcuna rivendicazione ufficiale presso alcun organismo internazionale. In questi territori (pi a sud e pi a est di Valona) vive comunque una minoranza di lingua greca e religione ortodossa, riconosciuta ufficialmente dallo Stato albanese (c' semmai contrasto tra governo e rappresentanti della minoranza sulla consistenza numerica della medesima), con il diritto di scuole in greco e tre quotidiani in lingua e alfabeto greci. Proprio nell'agosto precedente la crisi albanese si erano aperte tre nuove scuole elementari in greco, a Saranda, Argirocastro e a Delvina, frutto dell'accordo del marzo 1996 tra i due governi, di Tirana e Atene (Human Rights Watch 1997). Restano questioni aperte per la minoranza greca in Albania, ma lo stesso organismo che all'epoca monitorava in Albania il rispetto degli accordi di Helsinki ammetteva che "la minoranza greca una parte integrante della societ albanese". Questo tipo di giornalismo - che trasforma

senza argomenti la Grecia in uno Stato pericolosamente irredentista e l'Albania in un oppressore dei diritti delle minoranze - risente, oltre che dei suoi oggettivi limiti, della vocazione a "balcanizzare i Balcani", ad attribuire cio pregiudizialmente a tutta l'area genericamente "a sud est" istinti primordiali, siano essi di difesa del proprio gruppo o di oppressione di quelli altrui. Ma questa visione balcanizzante dell'Albania si intreccia con un'altra proposta interpretativa, che indichiamo come "teoria del congelamento". Secondo questa chiave - applicata con sistematicit durante il crollo della Jugoslavia - quel che accaduto in Europa orientale negli anni Novanta sarebbe la ripresa di dinamiche storiche che i regimi socialisti e comunisti non avrebbe fatto altro che congelare. Cos, si interpretato il presente usando manuali di storia ed etnologia scritti prima della guerra, presentando di solito la questione albanese come un token del type balcanico ("Se si sfoglia un celebre libro sui Balcani, il secondo volume delle memorie di Raymond Poincar, intitolato appunto 'Le Balkans en feu', si vedr quanto fosse intrattabile gi allora, nel 1912, la 'questione albanese'", la Repubblica, Viola, 13/3); e si sono spiegati gli eventi caotici e cruenti come un ritorno alle origini, intendendo con ci le condizioni socioeconomiche precedenti all'insediamento dei regimi comunisti. In tutti i giornali considerati per questa indagine abbondano gli articoli "storici" che mostrano le "analogie" tra l'Albania che sub l'invasione fascista nel 1939 e quella dell'operazione Alba. "In queste ultime due settimane tornata in scena, infatti, dopo quasi mezzo secolo di stalinismo pastorale e qualche anno di parvenze democratiche, l'Albania dei libri di storia. Un paese arcaico, privo di un vero cemento statuale, ancora fondato sulle divisioni regionali, il familismo, il clan e le lealt tribali", la Repubblica, Viola, 13/3. "Il recupero del passato, del resto, una chiave fondamentale per interpretare il caso albanese. Il 'fis' (clan), il 'kanun' (la legge consuetudinaria), la 'besa' (parola d'onore), la divisione tra il Nord 'ghego' e il Sud 'tosco', le tre religioni (musulmana in maggioranza, ortodossa nel meridione, cattolica in alcune zone settentrionali): tutto ci che era stato soffocato sotto la cappa della dittatura ideologica, torna prepotentemente alla luce. La Storia rinasce, come in gran parte dei Balcani", Corriere della Sera, Cingolani, 8/4. Questo schema interpretativo della realt albanese (presentata naturalmente come una "ennesima versione della 'poudrire balkanique'", la Repubblica, Viola, 13/3) ha la curiosa caratteristica di poter essere contraddetto senza andare in frantumi. Lo stesso Cingolani, che ha appena scritto che la divisione in clan del Paese sarebbe stata soffocata, congelata dal regime, aggiunge subito: "Le divisioni sono rimaste pressoch intatte durante la dittatura di Enver Hoxha che impose un'egemonia dei clan meridionali (era nato ad Argirocastro). Ramiz Alia, suo successore, fu appoggiato dal Nord, che vedeva giunto il momento di recuperare il potere perduto", Corriere della Sera, Cingolani, 8/4. Una delle forme pi compiute in cui compare questa teoria in un articolo di Sandro Viola: "L'Albania si rivela in fin dei conti identica - almeno per un aspetto - ad ogni altro paese su cui sia

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scesa la sventura del comunismo. L'aspetto cio del congelamento, dell'eclisse solo apparente e temporanea, durante il periodo comunista, dei suoi mali pi antichi. Come in Polonia e in Ungheria sono riemersi negli anni scorsi gli umori antisemiti, come in Jugoslavia sono esplose le avversioni etnico-religiose che avevano sempre diviso i popoli della Federazione, cos in Albania sono tornati a galla il disordine, l'irrequietezza dei clan, la pratica del brigantaggio che erano sempre stati i fattori della sua arretratezza. [] Quattro decenni e pi di comunismo hanno lasciato sotto il ghiacciaio del sistema totalitario, sotto la repressione dello stato di polizia, le cose come stavano. Nulla ha potuto evolversi, maturare", la Repubblica, Viola, 16/3. Banditi e invasori Quando, il 13 del mese, le manifestazioni si intensificano, gli scontri diventano pi gravi e anche il governo di Tirana ammette che non si tratta pi di "pochi facinorosi", allora sui giornali italiani si alza il tiro. "L'Albania si dissolta", Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. "In un paio di settimane la protesta dei truffati ha cambiato natura, prima diventata rivolta politica, poi insurrezione, infine catastrofe umanitaria, politica, diplomatica", Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. A questo punto il ministro degli Interni "potenziava le frontiere e chiudeva la porta a nuove possibili ondate di profughi", Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Del resto, "L'Albania non c' pi", Corriere della Sera, Biagi, 18/3. "A Tirana semplicemente crollato lo Stato", il Giornale, Ricossa, 19/3. E che sia crollato solo lo Stato troppo poco per alcuni commentatori: "Ma l'insurrezione sfuggita agli apprendisti stregoni e si sono scatenate forze ancestrali", Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Il climax assume toni da film horror: "In Albania tutto ci che fa di una massa di gente un "paese" ossia l'ordine, la legalit, la convivenza, l'amor di patria, la fiducia nell'avvenire, la tradizione, l'economia, la cultura, la religione, sembra svanita [sic] nell'aria per effetto di una magia potente da Signore del Male", il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Il corsivista, che dovrebbe fornire dati essenziali alla comprensione o proporre una griglia interpretativa per dati gi noti, sembra rinunciare al suo ruolo, cedendo alle lusinghe della spiegazione "magica": "L'Albania, a me sembra, diventato un caso clinico della storia e della politica. Ma stiamo attenti, noi italiani Potremmo essere noi stessi, in un futuro non lontano, contagiati da una qualche forma di sindrome albanese", il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Gli albanesi sono dunque in preda al Male, o a una malattia contagiosa. Questa analisi "irrazionalista" della crisi albanese non rara e qualche giorno dopo affiora prepotente in un nuovo commento: "ma il grande nemico, lo spirito del male, spesso invincibile perch poggia sull'inganno, sulla frode, sul tradimento vergognoso dell'uomo. E in Albania sembra essere sceso in forze, con una tale violenza da farci dubitare perfino della giustizia e della verit", Corriere della Sera, Bo, 20/3. Del resto, del pericolo di venir infettati dagli albanesi si era appena parlato: "Questa, come abbiamo gi detto, piuttosto un'invasione di massa, [] una marea capace di esportare sul nostro territorio il virus del disordine e della rivolta",

la Repubblica, Valentini, 19/3, e ne accenner ancora il decano dei giornalisti italiani: "l'Albania con i suoi virus di decomposizione e di guerra di bande", Corriere della Sera, Montanelli, 30/3. Il paradosso comunicativo evidente. Nei corsivi sembra saltare qualunque tentativo di spiegare razionalmente una sommossa popolare in gran parte comprensibile data l'entit della crisi finanziaria, e si cede chiaramente proprio a quel richiamo "illogico" e "irrazionale" che affliggerebbe gli albanesi: di fronte al Male non resta altro che il silenzio, o il rituale apotropaico, per allontanarlo (dalle nostre coste, ovviamente). I corsivisti fanno presente fin dall'inizio quale sia il vero rischio di sottovalutare la crisi albanese: " nostro interesse riportare a Tirana un dialogo corretto tra governo e opposizione [] Se questo non dovesse avvenire aspettiamoci nuove invasioni di profughi. Pi di quelle che quotidianamente gi abbiamo", Gazzettino, Cerruti, 2/3. Non chiaro cosa intenda Cerruti per "invasioni quotidiane", ma l'equivalenza tra sottovalutazione della crisi e invasione di albanesi ribadita anche sul Corriere della Sera: "L'Italia pu e deve stanziare aiuti immediati [] ben sapendo che costerebbe assai pi caro un nuovo assalto alle nostre coste come quello dell'estate '91", Corriere della Sera, Venturini, 4/3. Un'altra voce autorevole: "Adesso c' il rischio di una invasione alla rovescia, il terrore che la Guardia di finanza debba lanciare il grido delle vedette della Wehrmacht sul Vallo Atlantico: 'Sie kommen', arrivano", Corriere della Sera, Biagi, 5/3. La minaccia dell'invasione conferma la necessit di un intervento italiano, visto che se l'Italia non entrasse in gioco: "Quelle che vediamo arrivare sulle nostre coste diventerebbero allora le timide avanguardie di un popolo in fuga che non potremmo n avremmo il diritto morale di respingere", Corriere della Sera, Venturini, 15/3. L'escalation prospettata terribile: "A questo punto tutto possibile, anche l'impensabile: cio la sparizione di uno Stato, la disgregazione di ogni forma di convivenza. Dal caos pu uscire perfino un'orgia di rissa etnica senza confini ma non senza precedenti", il Giornale, Pasolini Zanelli, 14/3. Cosa si intenda per "precedenti" presto detto: "L'Albania potrebbe trasformare l'Europa nel ventre molle occidentale, come la trasform la Bosnia", Corriere della Sera, Caretto, 17/3. "L'Albania, come la Bosnia, non un fatto nostro: ma un problema dell'Europa. Pu essere l'inizio di una catena di guai per tutti", Corriere della Sera, Biagi, 18/3. Altro pericolo incombente sono le ripercussioni razziste che si potrebbero avere in Italia: "E speriamo, questo s, che la loro presenza [in Italia] non inneschi da noi quei furori elettorali che in Austria hanno fatto la fortuna di Haider, che in Francia soffiano ancora nelle vele del Fronte nazionale", Corriere della Sera, Venturini, 19/3. Le tinte fosche con cui si raccontano l'Albania e i suoi abitanti si incupiscono ancor pi dopo la met di marzo, quando l'Italia si "rende conto" di dover affrontare quel che pi spesso viene definito un "esodo".

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"l'esodo degli albanesi verso le coste italiane ha assunto le proporzioni di una fuga di massa", Corriere della Sera, Venturini, 19/3. "esodo albanese, che ha un sapore biblico", il Giornale, Sterpa, 21/3. E ormai si parla di "Puglia invasa dagli albanesi [] La gente [italiana] si comportata bene, ha mostrato di capire e compatire malgrado l'impatto tremendo dell'invasione", il Gazzettino, Pezzato, 19/3. Forse, a distanza di anni, utile ricordare che fino a quella data la cosiddetta invasione riguardava meno di diecimila persone. Nonostante alcuni appelli alla calma, predomina una visione apocalittica: "Stiamo difendendo la nostra frontiera, le nostre citt, le nostre famiglie e i nostri figli", il Giornale, Giannattasio, 28/3. Sono pochissimi gli esempi, in questi giorni, di corsivi improntati alla moderazione dei toni e degli animi: " solo che ci saremmo aspettati che tanti anni e tanti fiumi di inchiostro spesi in predicazioni e sermoni a favore della tolleranza [] avrebbero aiutato un popolo di cinquantasette milioni di benestanti a mantenere i nervi saldi e a non scambiare diecimila albanesi per l'invasione dei Visigoti", la Repubblica, Polito, 27/3. Mentre si rimodella la questione albanese (da fenomeno in fin dei conti ancora esotico, limitato all'oltre sponda, a questione interna italiana) si ridisegna anche l'immagine degli albanesi. Prima di tutto quelli l, in Albania, che tendono a incupirsi nelle descrizioni dei corsivisti: "La 'terra delle aquile' in mano agli sciacalli. Bande di uomini mascherati scorrazzano per le citt e i villaggi", Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Qualcuno tenta un'analisi politica e sociologica per spiegare il mutamento di prospettiva da cui osservare gli insorti: "quella che sembrava una rivolta popolare contro una truffa finanziaria si rapidamente trasformata in una guerra di bande, gestite da loschi burattinai: ex dirigenti comunisti, mafiosi locali infiltrati dalla criminalit organizzata internazionale e soprattutto italiana, cani sciolti della polizia segreta allenati a pescare nel torbido e a sobillare le masse", la Repubblica, Garimberti, 14/3. Qualcuno punta invece decisamente sulla fisiognomica: "Gruppi di rivoltosi presidiano i tornanti che si inerpicano sulle montagne brulle. Volti di pastori, contadini, sottoproletari urbani si mescolano alle facce sanguigne di ex ufficiali alla ricerca di un riscatto, o alle sembianze oscure degli agenti disseminati dalla polizia segreta", Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. La natura attualmente feroce degli albanesi pu essere messa in risalto anche dal contrasto con la bont italiana del 1991: "I pugliesi furono meravigliosi nel protendersi verso questa gente che arrivava macilenta e stanca. Aprirono le loro case, persino i bagni, e non mica normale. E ci siamo ritrovati, dopo pochi anni, migliaia di prostitute e un sacco di ragazzini ai semafori schiavizzati dai loro zii. Che bella bont", il Giornale, Farina, 27/3. Oppure il contrasto si pone tra presente feroce degli albanesi e loro passato pacifico: "Un tempo avevano la religione, la tradizione, il buon senso dei contadini. Oggi non hanno pi nemmeno queste cose. E meno che mai la fierezza del proprio passato", il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Se questa l'immagine sempre pi fosca e insieme pi vaga, meno dettagliata, degli albanesi d'Albania, quelli che cercano di

arrivare qui sono studiati con pi precisione. Una delle descrizioni assieme pi analitiche e pi "fantasmatiche" di coloro che stanno arrivando (a quanto pare albanesi e non, ma Arbasino di proposito abbastanza ambiguo da far s che le accuse agli uni possano cadere anche sugli altri) quella proposta da un nome di grido: "Ospiti balcanici che si presentano in compagnia del kalashnikov, per la consuetudine etnica al saccheggio che (secondo gli storici) precedeva da secoli i traumi per la caduta del comunismo Ospiti che sistemano valigie di bustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccine minorenni sui viali 'del vizio', si sistemano frotte di pupi laceri e affamati e picchiati ogni giorno ai semafori Ospiti che si battono a coltellate con bande di altri ospiti per il controllo del territorio, secondo i costumi africani descritti dagli antropologi e rivisti spesso in televisione per indurci a sensi di colpa", la Repubblica, Arbasino, 15/3. Notevole, in questo fosco quadro, il ruolo attribuito all'antropologo Sempre su la Repubblica, ma qualche giorno dopo, si tenta invece l'operazione inversa, di spiegare perch gli albanesi sarebbero cos diversi dagli altri immigrati (e cos diversamente trattati): "gli albanesi sono alquanto refrattari a indossare i panni dei nuovi schiavi dell'Occidente. Quindi, poco utili. Non sono cristianamente remissivi come i filippini, non amano i bambini come le colf somale, non fanno i muratori per quattro lire come i polacchi, non vendono cianfrusaglie come i senegalesi. Pi che essere comandati, a loro piace comandare", la Repubblica, Polito, 27/3. Senza essere categorici come Biagi ("Da loro riceviamo, per l'interscambio, marijuana, e anche braccianti senza diritti, ragazze da avviare al marciapiede, e organizzatissimi criminali. Punto", Corriere della Sera, Biagi, 5/3) tutti i commentatori puntano comunque su una questione sentita come centrale, non appena arrivano le prime navi: come distinguere il grano dal loglio? Coloro che hanno diritto di asilo da quelli che invece dovrebbero essere scacciati? Il quesito rivela il diritto degli italiani a sospettare, sempre, in modo sistematico. "Per intervenire efficacemente dovremmo avere notizie sicure e sapere se chi chiede aiuto e asilo veramente uno che chiede la carit (oggi si chiama solidariet) oppure uno che veste di abiti del derelitto e sfrutta, ingannandolo, chi pronto a venirgli in soccorso", Corriere della Sera, Bo, 20/3. Come a dire che siamo di fronte a una "invasione di disperati, ma anche di delinquenti", il Giornale, Giannattasio, 28/3. Se per alcuni "tra mamme e bambini si nascondono gruppi di evasi per i quali previsto il rimpatrio automatico", Corriere della Sera, Venturini, 19/3, dando cos l'impressione che tra i molti poveracci si nasconda qualche criminale, per altri il rapporto inverso: "tra i boat-people dell'Adriatico ci sono pi mafiosi che fuggiaschi e accoglierli tutti, aiutandoli perfino ad arrivare in porto quando le loro carrette non ce la facevano ' stata una pazzia'", il Giornale, Caputo, 22/3. L'aspetto che colpisce di pi in questo tipo di argomentazioni ci che potremmo chiamare "la natura oggettiva e dicotomica del male". La distinzione tra buoni e cattivi in questi corsivi sempre

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netta e senza appello. arduo distinguere i due gruppi in concreto, ma nessuno mette in dubbio che di due gruppi si stia parlando. "Quanti saranno i 'poco di buono' arrivati con gli 11 mila albanesi? Sta di fatto che la fuga caotica di donne, uomini, e bambini verso la Puglia, e di qui verso il resto della Penisola, si rivelata quello che il filtro della solidariet non ci aveva consentito di vedere con chiarezza: un esodo in parte cinicamente organizzato dalle mafie a un milione pro capite, viaggio gratis per i bambini perch inteneriscono gli italiani e ammorbidiscono i controlli", il Gazzettino, Pezzato, 20/3. evidente la rappresentazione degli albanesi come popolo miticamente dicotomico rispetto alla morale, senza le ovvie sfumature, ambiguit e sovrapposizioni che ci caratterizzano: ognuno di loro pu (e quindi deve) essere collocato o tra i buoni o tra i cattivi. Quando la divisione non si limita ad attraversare le generazioni (bimbi buoni, adulti cattivi) passa allora anche tra i sessi: "Capisco le donne e i bambini. Capisco i ragazzini di quindici anni, meglio qui che l a imbracciare Kalashnikov. Capisco i vecchietti, gli storpi e i ciechi. Ma non capisco quell'orda di uomini d'et compresa fra i 20 e i 50 anni, che arrivano in massa e intervistati confessano di non avere uno straccio di documento n di voler fornire le generalit e di non essere arrivati per accompagnare figli neonati o madri ottuagenarie. Invece sono qui per scelta individuale, e l'ottuagenaria l'hanno lasciata in Albnia [sic] a difendere la casa [] Sono giovani, forti. E scappano. Disertori non solo nell'esercito e nella polizia: disertori nell'animo e nella vita", il Giornale, Vigliero Lami, 18/3. Cos riporta Livio Caputo una discussione cui ha assistito tra "un sindacalista della Cgil e un suo amico della stessa parrocchia": "Essi hanno sostenuto la tesi, tutt'altro che peregrina, che il governo doveva ammettere sul territorio italiano soltanto le donne, i bambini e gli anziani, spesso usati dai mafiosi come 'schermo' e rimandare invece immantinente in Albania tutti gli uomini validi che, anche a giudicare dai loro ceffi, non avevano davvero molto bisogno di protezione", il Giornale, Caputo, 22/3. Sono pochi quelli che tentano una difesa "globale" degli albanesi in arrivo: "Via, presi nell'insieme sono dei poveracci e fanno bene i nostri governanti a non avere il cuore di buttarli a mare", la Repubblica, Bocca, 19/3. Affiora un tema che diverr comune tra qualche giorno, dopo una tragedia che segner uno spartiacque, il tema degli albanesi come nostri antenati, come doppio grottesco degli italiani: "Li guardi un po' in faccia, questi immigrati, onorevole Brighella (onorevole Arlecchino, onorevole Pantalone), non le ricordano nessuno? Non le ricordano, per caso, suo nonno, quello che mangiava la carne una volta al mese, quello che stava sulla groppa di un somaro? [] Fanno paura, evidentemente, i ragazzi che assomigliano ai nostri nonni", Corriere della Sera, Zincone, 28/3. Ma i giudizi cominciano a farsi pesanti e verso il 25 marzo si comincia a parlare di "battelli stracarichi di falsi profughi (ossia di disperati che in realt sono soltanto degli emigranti abusivi reclutati e sfruttati da bande di filibustieri locali)", il Giornale, Guarini, 25/3. A questo punto, il dilemma morale di distinguere tra albanesi buoni e albanesi cattivi sembra inclinare verso

soluzioni radicali: "I nostri sentimenti sono confusi: adotteremmo i bambini albanesi, ma i loro padri li sbatteremmo volentieri in galera, o addirittura in fondo al mare, visto che sparano", il Giornale, Farina, 27/3. Il giorno dopo, infatti, Venerd Santo, la nave albanese Kater I Rades veniva speronata dalla nave Sibilia della marina italiana, che cercava di bloccarne l'ingresso in acque italiane. A seguito dell'affondamento, morirono in mare almeno 58 albanesi. Lo choc immediato. Sembra che si sia realizzato qualcosa di terribile, ma che tutti, in Italia, in qualche modo, in qualche anfratto impresentabile della coscienza collettiva, desideravano che accadesse. L'affondamento della Kater I Rades del 28 marzo segna un punto di non ritorno nell'analisi dei corsivisti italiani. Assieme allo sgomento, si affacciano i primi seri dubbi su come stata raccontata, fino a quel punto, la "crisi albanese": "In effetti, nessuno di noi potrebbe spiegare con un minimo di precisione che cosa stia accadendo in Albania. Tutto quel che ci chiaro, dopo cinquanta giorni di convulsioni, che l'Albania un paese sconosciuto. Indecifrabile", la Repubblica, Viola, 30/3. Il cosiddetto problema degli albanesi viene riportato alle sue reali dimensioni con pi fermezza: "Ma noi entriamo in crisi psicologica perch dodicimila albanesi sono sbarcati (e gi quasi duemila sono stati riportati al paese di origine con metodi abbastanza spicci). Noi insceniamo ogni giorno uno psicodramma con sindaci muniti di tanto di fascia tricolore che scavano fossati, rifiutano accoglienza", la Repubblica, Scalfari, 30/3. Ancora: "Mi ribello all'idea che si nasconda razzismo, intolleranza, meschinit, dietro il paravento della drammatizzazione del problema dei quindicimila albanesi arrivati in un paese di quasi sessanta milioni di abitanti in cui gi si sono fra un milione e due milioni di extracomunitari. In realt si tratta di un problema relativamente modesto trasformato in un caso nazionale", il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. Nell'insieme si assiste a un ridimensionamento del linguaggio e del tono: l'Albania un Paese in crisi, ma non pi quella bolgia infernale, quel non-luogo maledetto dagli dei raccontato solo una settimana prima: "In Albania non esiste una guerra civile, quelli che hanno raso al suolo universit, uffici, caserme, persino i canali di irrigazione erano mossi da una decennale carica di rancore per un regime ormai morto e non degnamente sostituito [] La stragrande maggioranza degli albanesi vuole solo ritornare a una vita decente, ha come si visto dalle trasmissioni televisive, un rispettabile nucleo di societ civile, una tradizione culturale", la Repubblica, Bocca, 12/4. Ma col passare dei giorni l'Albania tende a sfumarsi in dissolvenza, per lasciare spazio sempre di pi all'Italia e alle conseguenze in Italia di un possibile intervento armato in Albania. Questo sia sul versante interno: "Al quinto giorno [dopo l'affondamento] tutto o quasi finito in politica interna", la Repubblica, Fuccillo, 3/4; sia per l'immagine e il prestigio italiani: "Il successo dell'Operazione Alba vale dieci 'manovrine' per Maastricht. Un fiasco confermerebbe i nostri partner nel gi radicato pregiudizio anti-italiano e ci lascerebbe ai margini

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dell'Europa per il futuro prevedibile", la Repubblica, Caracciolo, 8/4. Per essere chiari: "l'Italia si gioca pi di quanto creda. Anzi, si gioca tutto. Perch l'incrocio con la tragedia albanese strappa l'Italietta dell'Ulivo all'eterno teatrino e la pone davanti a un'alternativa grave. Se la missione Alba avr successo, il nostro Paese e il governo ne riceveranno enorme prestigio [] E a quel punto, parametri o non parametri, toccher a Germania e Francia preoccuparsi di imbarcare l'Italia nel pullman di Maastricht, anche a prezzo di uno sconto sulla tariffa. Al contrario, se Alba si tradurr in un disastro [] allora non ci saranno parametri o finanziarie o manovrine o larghe intese che possano tenere", la Repubblica, Maltese, 16/4. Paradossalmente, l'Italia di quei giorni sembr decidere di andare in Albania come via pi diretta per "entrare in Europa". L'impegno militare degli italiani veniva assunto, prima di tutto, di fronte alla comunit internazionale e ai partner dell'Unione Europea, per vedere che l'Italia non era pi l'Italietta pavida e bizantina uscita dalle macerie della seconda guerra mondiale. Assistiamo quindi a una precisa inversione delle identit: non l'Albania che deve dimostrare di essere uno Stato e una Nazione. Questo carico simbolico ora grava sull'Italia. Non mancano quindi le impennate di orgoglio nazionale fin da quando un editoriale del Times critica la proposta di un intervento diretto italiano sul suolo albanese: "l'editoriale del Times contro l'imminente intervento italiano in Albania [] rispecchiava benissimo il senso di superiorit e gli stereotipi che da sempre nutrono l'atteggiamento dei sudditi di sua Maest verso gli italiani", Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. Lo stesso Panebianco sottolinea poi a sua volta le conseguenze politiche che la futura "operazione Alba" potr avere non tanto sull'Albania (tema questo del tutto secondario) quanto sull'immagine dell'Italia all'estero: "abbiamo forse ora la possibilit, se sapremo comportarci correttamente sia sotto il profilo tecnico che sotto quello politico, di assestare un colpo ai tanti pregiudizi negativi spesso non privi di fondamento - sugli italiani, da sempre sedimentati nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigenti europee (non solo del Regno Unito)", Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. L'Albania diviene dunque il luogo del riscatto dell'identit italiana, il pretesto per mostrare ai partner europei la qualit della nazione. La questione italo-albanese va misurata non tanto per le possibilit che oggettivamente l'Italia ha di migliorare la situazione politica ed economica del Paese oltre Adriatico, ma solo ed esclusivamente per quanto l'Albania possa, nel bene e nel male, influire sull'immagine dell'Italia all'estero. Il carnevale delle identit Il nuovo tono nel parlare dell'Albania e l'attenzione sempre maggiore prestata al ruolo che questo Paese pu giocare per l'Italia possono essere visti come gli ultimi sintomi di un'inversione, di un "carnevale" provocato dagli albanesi con la loro presenza e che aveva iniziato a manifestarsi gi prima dell'affondamento: "durante la trasmissione di attualit Italia Radio (emittente notoriamente vicina al Pds), intervenuta una signora romana: 'Ho famiglia, siamo otto persone, tutte di sinistra. Ieri sera ci siamo riuniti per vedere Moby Dick sull'Albania.

Ebbene, alla fine abbiamo convenuto tutti che aveva ragione Gasparri, il deputato di An cui durante la campagna elettorale mi ero perfino rifiutata di stringere la mano. E su certi punti aveva ragione perfino Tablandini della Lega. I miei, un disastro.", il Giornale, Caputo, 22/3. Caputo non l'unico ad ascoltare Italia Radio, quei giorni: "Provate a sentire Italia Radio, l'emittente del Pds. Ogni mattina, al suo filo diretto, si scarica la rabbia di abituali buonisti che minacciano sfracelli se non si ferma l'invasione", la Repubblica, 27/3. Un sintomo chiaro la confusione tra destra e sinistra: "Qui [anche a sinistra] si registra una ostilit dura e compatta contro gli albanesi. Una pioggia di telefonate esprime sentimenti che sembrano costole della Lega", Corriere della Sera, Zincone, 28/3. "'Buttiamoli a mare, buttiamoli a mare'. Nei giorni scorsi l'invocazione sibilava tra le labbra di tanti, troppi italiani. La si sentiva nei bar del Nord, ma anche nei caff del Centro o del Sud. I sindaci leghisti vogliono alzare le barriere per difendere la purezza delle loro citt. Ma anche quelli di sinistra chiedono al governo di risparmiarli, per carit, dall'invasione, supplicano di lasciare i barbari alle porte", Corriere della Sera, Cingolani, 29/3. "Perch la parte pi progressista della nostra opinione pubblica sta riservando agli albanesi un trattamento che mai si sarebbe permesso nei confronti di somali e marocchini, senegalesi e filippini?", la Repubblica, Polito, 27/3. Tra le possibili risposte a questa domanda una val la pena di essere citata perch ben si accorda con quanto stiamo dicendo sul "carnevale" albanese: "La prima ragione che ci viene in mente che gli albanesi hanno la colpa di essere bianchi, somaticamente non distinguibili da un italiano qualsiasi [] Poco, diversi, troppo simili", la Repubblica, Polito, 27/3. Ci si rende subito conto, dopo l'affondamento della nave, del ruolo attivo che hanno gli albanesi per la costruzione di noi stessi come italiani: "La vicenda degli albanesi ci ha messo a nudo [] davanti a noi stessi, come di fronte ad uno specchio che riflette un'immagine reale e non deformata. Nessuna illusione ottica, siamo proprio cos", il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Chi non ama questa immagine, preferisce invece attribuire agli albanesi un ruolo magico, di tricksters in grado veramente di ribaltare l'Italia: "Con il pianto, e con i soldi di Berlusconi a 34 superstiti, l'inversione dei ruoli proprio completata: la destra si fa sinistra e viceversa", Corriere della Sera, Merlo, 1/4. Lo stesso identico concetto, lo stesso giorno, ma su un altro giornale: "la sinistra ha lasciato a Berlusconi uno spazio suo proprio, quando il Cavaliere ha ripetuto che un Paese di 50 milioni di abitanti non pu lasciarsi dominare dal panico politico per l'arrivo di 10 mila profughi. C' stata cio una singolare inversione dei linguaggi, se non delle parti", la Repubblica, Mauro, 1/4. Ma tutti - che si parli di svelamento o di ribaltamento dell'identit - sono concordi sul senso totale di straniamento: "Strani [gli italiani], perch non si era mai visto un governo di centrosinistra, e per di pi sorretto dagli ultimi comunisti, beccarsi del fascista persino dai giovani norvegesi. Strani perch con la stessa bocca predichiamo la solidariet e poi gridiamo 'buttiamoli a mare'. Strani perch a guardare la tv, pubblica e privata, sembra che il

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leader dei progressisti sia un reazionario e quello dei moderati un rivoluzionario", il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Ancora una volta torna la metafora del contagio: "Sembra quasi che per contagio la disgregazione albanese abbia colpito la nostra classe politica", il Gazzettino, Sensini, 2/4. Fatto sta che "dove finisca la maggioranza e finisca l'opposizione difficile dire", la Repubblica, Bocca, 3/4, e quando si parla di "un Paese governato dall'incertezza, e con una maggioranza inesistente", il Giornale, Cervi, 4/4, non pi all'Albania che si fa riferimento, come due mesi prima ("Tutti sono contro tutti. Non c' pi maggioranza, non c' mai stata opposizione", la Repubblica, 11/2) ma all'Italia. La metamorfosi, per effetto del contatto con gli albanesi, sembra estendersi dal mondo politico per coinvolgere tutti: "il nostro strano Paese assiste a troppi rigurgiti di intolleranza. Convinto di essere cattolico e solidaristico come pochi, all'improvviso si sveglia con la voglia di gettare in mare un popolo in fuga. E, cosa incredibile, per poco non ci riesce", il Gazzettino, Pittalis, 1/4. "Italia: fino a ieri il paese dell'amore e del sole, tutto spaghetti, chitarre e mandolini. Oggi, razzista, cinico e egoista", il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. "il ceto politico e la stampa rispecchiano gli elettori e i lettori che in questa fase della nostra storia non sembrano pi gli 'italiani brava gente' ma una collettivit ansiosa, che non crede in se stessa, che pensa di sopravvivere innalzando alle frontiere 'cortine di acciaio'", la Repubblica, Bocca, 3/4. "Prima c'era un paese che, tutto sommato compatto, pensava e diceva di trovarsi di fronte a un'immigrazione clandestina e di massa dall'Albania. Quindi: accoglienza, controllo e rimpatrio. Opinione pubblica, istituzioni, governo, maggioranza e opposizione stavano tutti pi o meno scomodi dentro questo triangolo. Dopo i morti, gli immigrati sono ridiventati profughi e ciascuno ha mutato la sua parte in commedia [] c' stata quella notte, ha sconvolto gli animi e distorto i comportamenti", la Repubblica, Fuccillo, 3/4. Un modo interessante di guardare al problema quello proposto da Ernesto Galli della Loggia, in un fondo apparso sul Corriere della Sera subito dopo l'affondamento della Kater I Rades: "Ma come possibile che una nazione di sessanta milioni di abitanti, che una grande e ricca nazione europea come l'Italia si faccia spaventare da qualche migliaio di profughi albanesi a tal punto che sembra quasi non vi sia pi una citt, un paese, un comune disposti ad accoglierne neppure qualche decina? [] possibilissimo, invece: sono il benessere e il timore di perderlo, la diffusione ormai senza limiti di valori e di stili di vita ispirati al materialismo e al consumismo [] La realt che se una nazione di sessanta milioni di abitanti, se una ricca e grande nazione come l'Italia si fa spaventare da una manciata di profughi albanesi precisamente perch essa non si sente affatto una nazione. [] Gli italiani, dal canto loro, non si percepiscono come gli abitanti di questo vasto insieme nazionale quanto piuttosto gli abitanti di una somma di comunit sparse, legate da un debole e malcerto vincolo. Gli albanesi spaventano e inducono al rifiuto precisamente perch sono visti non gi come dei profughi che arrivano in Italia, in una grande nazione, bens come degli intrusi

non invitati in questa o quella delle tante comunit di cui sopra", Corriere della Sera, Galli della Loggia, 1/4. La tesi trova consensi: "Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha analizzato bene gli umori degli italiani nella crisi albanese. Noi, dice l'autore, non siamo n razzisti, n egoisti, n insensibili, siamo soltanto orbi della nazione e orfani dello Stato [] Tutto questo molto triste. Senza nazione e senza Stato non si va lontano, si pu essere sconfitti anche in una battaglia non combattuta contro i pezzenti, nel canale d'Otranto", il Giornale, Scarpino, 3/4. impressionante leggere, ora, degli italiani come di un popolo "senza nazione e senza Stato", quando per un mese erano stati gli albanesi ad essere descritti cos. Marcello Veneziani riprende l'argomento di Galli della Loggia esasperando il gioco degli specchi incrociati: "Gli italiani temono ondate di immigrati albanesi non perch siano razzisti o sciovinisti, ma per due opposte ragioni. Perch vedono gli albanesi come degli italiani affamati, li temono perch sono la nostra versione primitiva. E temono di mettere a repentaglio il benessere, la sicurezza, la modernit: li spaventa l'arretratezza, la puzza del nostro passato. E poi li respingono non per orgoglio nazionalista ma al contrario, perch temono la fragilit del nostro sgangherato sistema Paese, con tante piccole Albanie e disoccupazione. Non si fidano dell'Italia e si sentono una comunit nazionale spappolata", il Giornale, Veneziani, 5/4. Albanesi e ballerini Ma questo ripensamento di s attraverso l'incontro/scontro con l'altro esattamente quel che gli albanesi, nel 1997, stavano sistematicamente vivendo da oltre un decennio, da quando cio il cronico isolamento imposto dal regime - ricordo solo che il confine di stato era preceduto da un confine interno che creava una fascia-cuscinetto spessa alcuni chilometri, cui potevano accedere solo gli autorizzati - si allent nella seconda met degli anni Ottanta per crollare del tutto nel 1990. L'apertura del confronto con l'altro ( noto in questo senso il ruolo giocato dalla televisione italiana, soprattutto commerciale) ha prodotto per anni una bassa autostima sociale. Il pi famoso intellettuale albanese, Ismail Kadar, ha parlato all'epoca di una "psicosi pessimista che imperversa da alcuni anni in Albania. Questa volont di autodenigrazione, autoavvilimento e di autodistruzione che porta a ripetere giorno e notte che questo paese maledetto, non ha un futuro e merita di sparire diventata una moda in alcuni ambienti", la Repubblica, Kadar, 13/3. Non vi dubbio che la dittatura comunista di Hoxha si sia retta, oltre che su uno spietato stato di polizia, anche sull'orgoglio nazionale, profuso in quantit massicce dal potere attraverso tutti i canali della propaganda. Gli albanesi nati nel secondo dopoguerra sono cresciuti nella ferma convinzione (suffragata da continui indizi di tipo linguistico, affermazioni, discorsi, e mai smentita da una verifica su modelli diversi, invisibili) di appartenere a una Nazione antichissima, fiera quante altre mai e di gente industriosa e capace.

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La fine della dittatura ha riportato gli albanesi di fronte alla necessit di far i conti con il giudizio degli altri, delle altre nazioni di fronte alla propria. Gli antropologi sanno benissimo quanto questo giudizio da parte dell'Altro sia un elemento fondamentale per la costruzione di s come comunit etnica e/o nazionale (Jenkins 1997). Per ragioni esclusivamente storiche e contingenti la nazione albanese si era costruita in quasi totale assenza del giudizio altrui. Apparenti eccezioni hanno costituito il contatto con l'Unione Sovietica prima e con la Cina poi, fino al 1978, ma in entrambi i casi la possibilit di giudicare ed essere giudicati veniva di molto limitata dall'ideologia inter-nazionalista che faceva dei sovietici e dei cinesi non un Altro da valutare e da cui essere valutati, ma piuttosto un Simile. Tanto simile da dover essere tenuto a distanza, in ogni contesto per cui il contatto non fosse strettamente necessario. Detto altrimenti, gli albanesi avevano un'idea di s che si basava solo su un giudizio interno, giudizio assai benevolo e indulgente. Il contatto prima mediatico e poi diretto con l'Occidente ha letteralmente spazzato via questo giudizio. Il fiero popolo albanese, cui era stato detto che stava costruendo il Paese pi evoluto del mondo, si reso conto che gli equivalenti degli scassati trattori cinesi con cui coltivava la terra non erano pi usati in occidente da diversi decenni; che le poche fabbriche nazionali producevano pezzi di qualit peggiore di qualsiasi concorrente dell'ovest; che insomma la superiorit naturale del popolo albanese veniva messa in discussione dalla realt quotidiana che filtrava dalle televisioni e, dopo il 1990 sempre pi frequentemente, dai racconti di chi tornava da viaggi all'estero. C' un indizio linguistico evidentissimo di questo tentativo di ricostruire un'immagine di s come popolo che tenga conto del giudizio altrui. Come noto "Albania" un termine prima romano poi bizantino per designare una regione chiamata invece dagli abitanti "Shqipria". Allo stesso modo, quelli che tutto il mondo chiama "albanesi" (con le diverse varianti, Albanians, Alvanoi, ecc.) chiamano se stessi "Shqiptar". Con due amici italiani ero alla fine del 1996 in un villaggio nel sud-est del Paese. In macchina con noi c'era un ragazzo albanese, Madin. Lo conoscevo da tempo, e normalmente comunicavo con lui tramite il mio collega Gilles, che per era tornato in Francia. Madin fortunatamente parlava un po' di greco, per cui riuscivamo a comunicarci l'essenziale. I due amici italiani vogliono visitare la moschea, costruita da poco. Con la macchina ci avviamo lungo una strada fangosa che presto si restringe a sentiero. Forse un chilometro prima della moschea la strada bloccata da una macchina in sosta nella direzione opposta alla nostra, con l'autista al volante. Potrebbe accostare alla sua sinistra, c' uno spiazzo libero di fronte a una casa, ma si vede che ha difficolt a far manovra con scioltezza, e rischia quasi di venirci addosso. Madin guarda con aria di sberleffo mista a disprezzo il maldestro autista, e lo apostrofa con un "Albanes!" che, dal tono con cui viene pronunciato, significa con tutta evidenza: "Imbranato!". Chiedo comunque a Madin di ripetere quel che ha detto, forse ho capito male, e lui mi spiega in greco che quello "Odigi san alvans", letteralmente: "Guida come un albanese".

Mi spiegher poi che il termine ormai d'uso comune, per indicare i fessi, gli incapaci, gli ignoranti. La parola che in tutto il mondo indica gli albanesi diventata in Albania un termine spregiativo usato come un insulto. Per la Shqipria, fare i conti con l'Albania, con le immagini delle navi cariche verso la Puglia, degli uomini rinchiusi negli stadi, ha significato dover affrontare un giudizio radicalmente diverso e negativo e gli shqiptar, tanto orgogliosi d'esserlo, fieri della loro storia e della loro cultura, capiscono che noi non li consideriamo altro che albanesi. Ma quest'immagine sbiadita e irrimediabilmente negativa dell'identit albanese si lentamente e parzialmente modificata, almeno in Italia. Il mutamento, che riguarda assieme la categorizzazione esterna (cio il modo in cui gli italiani vedono gli albanesi) e l'identificazione interna (cio il modo in cui gli albanesi vedono se stessi) ha iniziato a prendere forma all'inizio del terzo millennio, grazie a una serie di eventi in parte casuali. Tra gli albanesi giunti in Italia con la prima ondata del 1991 vi era anche un ragazzo diciassettenne di nome Kledi Kadiu. Di "buona famiglia" (madre farmacista e padre docente universitario), Kledi appassionato di danza fin da bambino, e i genitori l'hanno iscritto a dieci anni all'Accademia Nazionale di Tirana, poco distante dalla casa dove cresciuto. il 1984, Enver Hoxha sarebbe morto l'anno successivo, e in Albania diventa sempre pi facile guardare i programmi della televisione italiana, prima per semplice debordamento hertziano, e poi tramite le parabole in grado di ricevere il segnale satellitare. Kledi balla e guarda la televisione italiana, e le due attivit diventano parte di un solo progetto, che cos oggi viene raccontato nelle note biografiche del suo sito ufficiale <http://www.kledi.it/Biografia.html>: Rimanevo affascinato dai grandi artisti Italiani di quel periodo come Heather Parisi, Lorella Cuccarini, Raffaella Carr, Raffaele Paganini. Ricordo che mi divertivo a sognare di ballare al loro fianco, in un grande show. Come sappiamo, si tratta di un sognare che diventa progetto, un caso esemplare di quel che Appadurai (1996) chiama "immaginazione come pratica sociale". Il 12 agosto 1991, "mentre era in vacanza a Durazzo", si imbarca su una delle navi che facevano la spola tra l'Albania e la Puglia cariche di disperati e speranzosi, ma viene mandato allo stadio di Bari, per essere espulso dall'Italia quasi immediatamente. Rientrer pi di un anno dopo, chiamato da una compagnia di danza di Mantova che aveva avuto il suo nome dall'Accademia Nazionale di Tirana. Passa rapidamente alla televisione, diventando nel 1997 primo ballerino del programma pomeridiano Buona domenica, dove rimarr fino al 2003. Conosce cos Maria de Filippi, che dal 2002 lo vuole con s sia a C' posta per te, sia ad Amici. Mentre il pubblico di Buona Domenica e C' posta per te in buona parte adulto, l'audience di Amici di Maria de Filippi tendenzialmente giovane e femminile, e ne decreta il definitivo successo come sex symbol. Nel 2004 Kledi fonda a Roma la "Kledi Academy", una scuola di danza e musica che sta riscuotendo un buon successo e che organizza corsi annuali e stage estivi. Nel frattempo, diventato anche

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un attore di successo sia per il cinema (Passo a due, La cura del gorilla, entrambi del 2005) sia per il piccolo schermo (Domani un altro giorno, 2006). In sintesi, la figura di Kledi Kadiu quella di un albanese "vincente", il primo a raggiungere in Italia notoriet per le sue qualit artistiche. Anche senza enfatizzarne il ruolo individuale, certamente Kledi stato il prodromo di una nuova generazione di albanesi, disposti a proporre agli inizi del terzo millennio una forma alternativa di identit rispetto al modello "poveraccio o criminale" che si era imposto negli anni Novanta e che abbiamo visto essere particolarmente attivo durante la crisi del 1997. Proprio la loro tendenza a privilegiare la televisione italiana come veicolo di informazione, sia dall'Albania attraverso le antenne paraboliche, sia una volta giunti in Italia (Mai 2005, p. 558), ha consentito agli albanesi di fruire di una nuova immagine da articolare in modelli alternativi di appartenenza. Uno dei veicoli principali di questo nuovo modello identitario stato Amici di Maria de Filippi. Il programma (si conclusa nella primavera 2007 la sesta edizione e si prepara per l'autunno la settima) concepito come un game show in cui un gruppo di giovani partecipa a tempo pieno a una scuola per artisti (cantanti, ballerini e attori) che prevede una serie di sfide settimanali tra i partecipanti. Le sfide ripetute portano all'eliminazione progressiva degli studenti/concorrenti in base al giudizio di una commissione e ai voti telefonici del pubblico a casa, fino alla proclamazione del vincitore assoluto. Gi alla seconda edizione, tra gli studenti vi era una ragazza albanese, Anbeta Toromani, che proveniva dalla stessa scuola di Kledi e che sarebbe giunta seconda alla finale. Oggi Anbeta una ballerina professionista e fa parte del cast stabile del programma. La stagione successiva (2003-2004) gli studenti albanesi della scuola di Maria de Filippi erano due: Olti Shagiri (fratello minore di Ilir Shagiri, un altro ballerino da qualche anno nel corpo di ballo di Maria de Filippi) e Leon Cino, ballerino molto dotato che infatti vinse quell'edizione, entrando anche lui nel corpo di ballo stabile del programma. La quarta, conclusasi a maggio del 2005, ha visto la partecipazione di altri due ragazzi albanesi: Tili Lukas e Klajdi Selimi. Quest'ultimo stato sicuramente il personaggio chiave dell'anno, anche se non ha vinto la gara: con la sua vena polemica, la costante rivalit con Marco, un altro allievo della scuola che non esitava a fare appelli agli "italiani" perch votassero lui invece di un "albanese", e con il rispetto profondo mostrato verso il pubblico che numerosissimo lo votava da casa, Klajdi ha catalizzato l'attenzione di un pubblico sempre numeroso (i dati di ascolto del programma nella sua fase serale si aggirano stabilmente attorno ai sei milioni di telespettatori; per le fasi finali i voti da casa hanno sfiorato il milione a puntata, anche se la telefonata costava un euro). Anche le successive edizioni hanno visto la presenza di concorrenti albanesi, ma il programma ha cercato di internazionalizzarsi ammettendo nella stagione 2006/2007 anche due concorrenti romeni (entrambi ginnasti) e un ballerino spagnolo. I protagonisti di Amici di Maria de Filippi sono riusciti a modificare in modo sostanziale il giudizio di molti loro coetanei

italiani sull'identit albanese. Se dieci anni fa albanese era sinonimo di immigrato clandestino, criminale, persona pericolosa o comunque povera (in Grecia girava allora una terribile freddura: sai qual la barzelletta pi corta del mondo? Turista albanese!) oggi tra molti giovani italiani "albanese" significa anche spirito di sacrificio, caparbiet, orgoglio e determinazione. Per molte ragazze, poi, innegabile che l'uomo albanese abbia assunto connotazioni sexy del tutto impensabili fino alla comparsa di Kledi e dei suoi connazionali sul piccolo schermo. Questa immagine prodotta dalla televisione italiana ha iniziato a riverberarsi sull'autorappresentazione degli albanesi, in Italia e in Albania (dove i programmi delle reti Mediaset sono particolarmente seguiti). Gli "eroi" delle sfide di Maria de Filippi sono intervistati sui settimanali popolari albanesi e proposti come modelli per la giovent nazionale. Klajdi Selimi che, con la bandana in testa e perennemente a torso nudo (come spesso Kledi), dichiara di sentirsi "un gladiatore pi che un ballerino" incarna un modello appetibile per gli italiani e per gli albanesi. La messa in scena del corpo come strumento di performance di eccellenza ricorda altri casi famosi: i giocatori di cricket indiani nelle squadre inglesi (Appadurai 1996) o i campioni afroamericani negli Stati Uniti (Page 1997). Corpi senz'altro naturalizzati, addomesticati dallo sguardo egemone in funzione di un godimento estetico rassicurante. Ma corpi capaci anche di riscattare un'identit smarrita se non esplicitamente sottomessa, in grado di riappropriarsi di una dignit personale che pu diventare condivisa dall'intera comunit di riferimento. Questo processo di manipolazione fisica e simbolica del corpo passa sia attraverso la storia "occidentale" della disciplina che si apprende, sia attraverso la genealogia delle proprie "origini": come la "magia" indiana diventa capacit funambolica sul campo da cricket, e come la "naturalit" africana diventa potenza esplosiva sulle piste di tartan, cos l'orgoglio "balcanico" degli albanesi diventa capacit di disciplinarsi, di rimanere fedeli all'obiettivo senza cedere alle lusinghe del facile successo. Cos descrive una giornalista italiana le ragioni del successo di Kledi: Kledi non riflette il clich del divo osannato e capriccioso, ma trasmette l'idea del lavoratore scrupoloso, preparato e devoto al pubblico che lo apprezza, rispettoso di una gloria raggiunta con fatica attraverso interminabili ore di preparazione (Seralisa Carbone, sul sito Leonardo.it). Questa rappresentazione dell'artista albanese si rapidamente imposta come role model: Anbeta Toromani, Leon Cino e gli altri artisti albanesi sono noti per la loro laconicit - non sempre dovuta a una scarsa conoscenza della lingua italiana, ma alla esplicita contrapposizione tra dire e fare - oltre che per la loro tenacia e forza di volont. Sono facilmente etichettati come persone "serie", che vanno al sodo e non si perdono in smancerie o inutili salamelecchi. Questa versione alternativa dell'essere albanese oggi sta chiaramente contaminando l'autorappresentazione degli albanesi in Italia, che seguono numerosi il programma Amici di Maria de Filippi con veri gruppi

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di ascolto che partecipano attivamente al voto da casa. Anche se non posso fornire indicazioni quantitative precise, dato che la mia ricerca ancora in corso, mi sembra plausibile ipotizzare un "ritorno" dell'identit albanese tra gli immigrati in Italia, soprattutto tra i pi giovani, che sembrano quindi aver trovato una risposta alla richiesta del vecchio Dhori di dimenticarsi di essere albanesi. Oggi, sembrano dire i giovani albanesi in Italia, finalmente possibile "ricordare" la propria identit. Come evidente, un ricordare spurio, che unisce in una miscela del tutto originale la tradizione balcanica del ballo come espressione sociale, la scuola albanese di balletto classico, l'espressione di una virilit estremamente fisica e poco "ciarliera", lo spirito competitivo e l'orgoglio di un popolo "tribale" con le esigenze del mercato televisivo, il sex appeal del body fitness, la telegenia e la capacit di assecondare le fameliche richieste delle audience pi giovani, notoriamente refrattarie al richiamo del piccolo schermo. Non vi , in tutto questo, nulla di chiaramente orientato al passato (un'opzione impraticabile di fatto per gran parte degli albanesi) ma piuttosto la voglia di progettare un sentire comune con i frammenti della modernit e della tradizione, senza temere il mutamento ma accettandolo come parte inevitabile di un qualunque sano processo di identificazione collettiva che non voglia sclerotizzarsi nella nostalgia dei bei tempi andati, che per molti giovani albanesi semplicemente non esistono come ricordo politicamente spendibile sul mercato delle appartenenze. Conclusioni L'intento di queste pagine stato quello di spingere a riflettere su alcune forme recenti delle appartenenze e delle identit. La "crisi albanese" del 1997 ha costretto alcuni noti opinionisti a ripensare pubblicamente il senso e il ruolo dell'identit italiana, e le esigenze commerciali di un programma televisivo italiano hanno contribuito al riposizionamento dell'identit albanese, per gli

attori e per gli astanti. Ancora una volta, seppure con ingredienti insoliti, confermiamo quindi il sapere degli antropologi, che ci dice la natura necessariamente relazionale dell'identit. Per quanto riguarda invece lo specifico rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e identit collettive, mi sento di azzardare il giudizio complessivo (ormai acquisito nel dibattito teorico) che non vi alcun rapporto causale diretto tra rappresentazione nei media e percezione della propria identit. Non basta, cio, vedersi descritti come sciocchi o criminali o ballerini dai grandi mezzi di comunicazione di massa per percepirsi come tali, dato che il discorso dei media entra nelle ordinarie spirali comunicative come una delle voci in gioco. In questo senso, possiamo dire che i mass media paventati da certi approcci teorici "non esistono", se per mass media intendiamo un sistema di comunicazione autonomo e tendenzialmente "persuasore", i cui effetti sociali possano essere resecati da quelli della pi vasta struttura entro cui si inscrivono (Tomlinson 1991). Al contrario, un'analisi di taglio antropologico sui mezzi di comunicazione di massa ci rende sempre pi consapevoli della natura "mediata" della vita sociale in generale (Mazzarella 2004). Esistono cio nuclei pi o meno densi di comunicazione e aggregazione di significati che non possono esistere se non in forma mediata, cio comunicata: gli stili culturali da cui si proviene, le aspettative sociali, gli incentivi individuali, gli habitus come archivi consolidati e generatori sperimentali di pratiche, e i capitali culturali ed economici di cui si dispone. Dentro questo quadro, agiscono i mezzi di comunicazione di massa. L'antropologia ha fatto male, finora, a sottovalutare spesso il loro ruolo in nome di un purismo dell'"autentica cultura" che non aveva ragione di essere. Farebbe altrettanto male, credo, se iniziasse ora a sopravvalutarlo, in nome di un determinismo che altrettanto ingiustificato, teoreticamente ed empiricamente.

Bibliografia
Appadurai, Arjun, 1996, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis-London, University of Minnessota Press; traduzione italiana Modernit in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001. Human Rights Watch, 1997, "Albania", in Human Rights Watch. World Report, 1997. Testo reperibile online all'indirizzo <http://www.hrw.org/1997/WR97>. Jenkins, Richard 1997, Rethinking Ethnicity. Arguments and Explorations, London, Sage. Mai, Nicola, "The Albanian Diaspora-in-the-Making: Media, Migration and Social Exclusion", Journal of Ethnic and Migration Studies, 31, 3, 2005, pp. 543-561. Mazzarella, William, 2004, "Culture, Globalization, Mediation", Annual Review of Anthropology, 33, pp. 345-367. Page, Heln E., 1997, "'Black Male' Imagery and Media Containment of African American Men", American Anthropologist, New Series, 99 (1), pp. 99-111. Todorova, Maria N., 1997, Imagining the Balkans, Oxford, Oxford University Press, 257 p. Tomlinson, John, 1991, "Media Imperialism", in Cultural Imperialism: A Critical Introduction, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1991, pp. 34-67; ora in Lisa Parks, Shanti Kumar, editors, Planet Tv. A Global Television Reader, New York and London, New York University Press, 2003, pp. 113-134 [non comprende il paragrafo "Laughing at Chaplin: problems with audience research", alle pp. 50-56 dell'originale].

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Klajdi Selimi, uno dei protagonisti di Amici di Maria de Filippi,ritratto dalla rivista albanese KLAN (anno IX, n. 408, 14 maggio 2005) [immagine fornita da Paolo De Simonis]

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Altri generi. Inversioni e variazioni di genere tra culture


Flora Bisogno e Francesco Ronzon (a cura di) Il Dito e la Luna, 2007

Il testo raccoglie sei etnografie che affrontano da diverse angolature il tema del "terzo genere" e dei "generi multipli". Distinte fra loro per la prospettiva teorica, per il luogo geografico di ricerca e infine per l'oggetto stesso di analisi, queste ricerche sono "un contributo a superare l'ipotesi di un unico sistema dualistico di genere presente all'interno delle differenti culture umane". Attraverso un'analisi transculturale che coglie "un'ampia variet di assunti relativi al corpo e a ci che costituisce il sesso", queste etnografie vanno sotto ai discorsi dominanti che pensano il genere come una deriva del corpo biologico e che ordinano desideri, sessualit, corpi sessuati in un dualismo maschile/femminile. Originale nei contenuti proposti e importante per la fonte di sapere che produce, questa raccolta di saggi risponde in modo convincente ad una domanda: in che modo l'antropologia offre un contributo innovativo allo studio dei processi che costruiscono i generi e la sessuazione dei corpi? I livelli esplorati nelle ricerche sono molteplici: i discorsi, le performance, i comportamenti che costruiscono alcuni soggetti come appartenenti ad un genere distinto dal femminile e dal maschile; la costruzione di s come un genere che non si polarizza; la posizione che le comunit/culture considerate attribuiscono al terzo genere; i modi con cui i discorsi - che a seconda delle etnografie sono religiosi, sociali, culturali - legittimano o contraddicono l'esistenza di generi multipli e le pratiche omo/bi/transessuali. Queste argomentazioni rendono particolare questa raccolta per almeno tre motivi. In primo luogo, l'analisi etnografica dei generi e dei processi che costruiscono i corpi sessuati coglie la dimensione soggettiva nella costruzione del genere al di l dei discorsi egemonici e mostra lo spazio di libert che le persone ritagliano dentro essi. In seconda istanza, le soggettivit di genere coinvolte nelle ricerche rappresentano in modi diversi posizioni riconosciute socialmente. I gay/bantut che negoziano per la comunit locale la relazione con l'alterit culturale americana, le/i berdache e il loro prestigio, le fa'afafine che hanno un ruolo nei processi di costruzione del genere, la femminilit fallica dei travestis, le hijra che si identificano in figure religiose induiste, i "maschi sociali" nei Balcani hanno un loro posto nelle comunit considerate. Questo non significa che i saggi eliminano le ambivalenze o le

difficolt dei processi di gender-crossing o le contraddizioni con cui queste soggettivit di genere sono integrate nelle societ e nelle culture. Piuttosto, queste ricerche offrono una particolare analitica del potere sui generi e sui corpi che considera i discorsi egemonici come i vissuti delle persone. Raccontando le esperienze dei soggetti coinvolti nelle ricerche e del loro posizionamento sociale - che non necessariamente abietto o fuori dalla norma - queste ricerche mostrano altri modi di essere soggettivit di genere e di nominare il proprio corpo. In altri termini, smontano il paradigma del dimorfismo sessuale e dell'eteronormativit, rendendo esplicito il carattere arbitrario e limitato del maschile e del femminile per nominare i corpi. Infine, questi saggi tornano a noi in molti modi. Le etnografie presentate illustrano come la mascolinit e la femminilit non siano una conseguenza del corpo biologico, piuttosto la deriva di un discorso sociale sui corpi e sulle differenze. Di conseguenza,

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mostrano come il maschile e femminile siano categorie insufficienti per descrivere e indagare la variabilit e la molteplicit dei generi ascrivibili sui corpi sessuati. Nonostante riconoscano come diversi discorsi si iscrivano sui corpi decidendo della loro sessualit, del loro genere e del loro orientamento sessuale, questi saggi hanno il pregio inoltre di cogliere il ruolo attivo dei soggetti nella costruzione del (proprio) genere e mostrano come questa identit anche come il prodotto di desideri e motivazioni individuali. I saggi di Samira Nanda e Mark Johnson sono pi descrittivi rispetto agli altri presenti nel volume. Il primo testo Hjira e Sadhin. N uomo n donna in India illustra come nell'Induismo siano riconosciute varianti e trasformazioni sessuali e di genere, ambiguit che non necessariamente si risolvono polarizzandosi verso un maschile o un femminile e che trovano nella religione induista figure in cui identificarsi. In particolare, l'autrice descrive la posizione sociale, i comportamenti, le abitudini e gli orientamenti sessuali delle hijra. Le hijra nascono biologicamente maschi e diventano donne attraverso un'operazione di evirazione rituale. La studiosa mostra la particolarit delle hijra: il loro essere n uomo n donna, oppure uomo e donna insieme, fanno rimanere queste figure nel transito senza risolvere la loro appartenenza di genere in uno dei due opposti. Sono un terzo genere, sottolinea l'autrice, ovvero non si pu comprendere la loro posizione soggettiva e sociale se si rimane intrappolati dentro alla dicotomia maschile - femminile. Il saggio di Mark Johnson Negoziare stile, mediare bellezza. I concorsi di bellezza gay/bantut nelle Filippine del Sud analizza i significati di due tipologie di concorsi di bellezza gay (bantut nella terminologia locale) in tre comunit musulmane: Tausug e Sama di Zamboanga City, Jolo. Questi concorsi di bellezza barangay e Miss Gay International - sono performance rituali in cui gay/bantut veicolano per la comunit locale l'appropriazione di un'alterit "culturale-globale" - americana - che al contempo desiderabile e minacciosa. In queste manifestazioni circola un idioma di bellezza che si rif quasi completamente ad un'immagine occidentale (si imitano cantanti come Madonna o star di Hollywood) oppure star "locali globalizzate", che hanno riproposto cio - e a questo devono il loro essere famose - modelli di personaggi televisivi americani. Questo ideale di bellezza americano desiderato (ilmu' milikan - sapere-potere americano) calato in un contesto locale specifico e come tale si affianca ad un altro modello ilmu' Islam (potere-sapere islamico). Ragionando sul concetto di bellezza come un modo per esporre "il proprio essere donna" e sul corpo del gay/bantut come luogo in cui si affiancano questi due modelli fra loro contrapposti, Johnson tenta di mostrare come i gay/bantut abbiano un ruolo importante nella negoziazione in fieri di un'identit musulmana. L'etnografia forse non sufficiente per raggiungere questa operazione e alcuni passaggi rimangono inesplorati. I bei resoconti etnografici di William Roscoe Come diventare Berdache. Verso un'analisi unificata della diversit di genere e di Andrea Cornwall Identit e ambiguit di genere fra travestis a Salvador, Brasile hanno il pregio di rendere chiara la posizione

teorica di femministe come Judith Butler dove l'ordine discorsivo anticipa il corpo e la sua sessuazione. Il saggio di William Roscoe parte da ricerche condotte sulle/sui berdache per costruire un modello teorico definito "paradigma dei generi multipli" secondo cui le differenze fisiche di sesso non sono necessariamente percepite come bipolari. Le/i berdache indossavano abiti diversi da abiti femminili o maschili, avevano a seconda dei casi individuali orientamenti omo-, bi- o eterosessuali ed erano integrate/i nella societ. Inoltre, questi ruoli erano, sottolinea l'autore, conseguenza di certe condizioni sociali e storiche, ma anche motivati da desideri individuali e scelte soggettive. Con queste descrizioni Roscoe mostra come il genere berdache non fosse un ruolo socialmente deviante, n un attraversamento di genere o una intersezione fra i due, ma un genere separato - terzo o quarto genere - all'interno di un paradigma a generi multipli. E' proprio la prospettiva teorica costruita dall'autore a rendere importante questo saggio. Roscoe tenta di smontare due proposizioni: 1) l'origine del genere nel sesso/il sesso ha un primato sul genere 2) poich i sessi sono due, sono due anche i generi. In questa logica, il genere una reiterazione del sesso e se una variazione ammessa solo quello dello scambio, della mescolanza fra i due generi o il transito da un genere all'altro. Sostenere che il genere multiplo e potenzialmente autonomo dal sesso - cio non una sua deriva non implica pensare che esistano pi sessi fisici, ma che le differenze fisiche non sono fisse e che soprattutto sono insufficienti a stabilire il genere. Attraverso l'analisi della relazione sesso e corpo, il paradigma dei generi multipli mostra come l'ordine discorsivo anticipi il corpo biologico e non viceversa: le differenze morfologiche sono delle marcature, ma questi marcatori del sesso, gi nel momento in cui sono scelti rispetto ad altri per decidere a quale genere quel corpo appartiene, sono conseguenze di interpretazioni sociali e culturali. Il genere, in altri termini, esiste gi nello stabilire i segni distintivi di un corpo, che lo classificheranno come maschile o femminile. Attraverso l'analisi dei ruoli berdache, Roscoe illustra come non tutte le culture riconoscano medesimi marcatori anatomici e come non tutte le culture riconoscono i marcatori anatomici come naturali e come tali contrapposti al dominio del culturale. La ricerca condotta a Salvador da Andrea Cornwall nel 1990 propone un'analisi delle identit di genere assunte dalle travestis. Le travestis nei loro corpi dotati di seno e di pene rappresentano una femminilit fallica e non si identificano n con le donne, n con gli uomini. Cornwall concentra la sua analisi sulla prostituzione di strada e sulle performance rituali legate alla religione afro-brasiliana del Candombl per mostrare il processo di costruzione dei generi. L'attenzione posta su due figure di prostitute, una "mascolina" e una "femminile", entrambe in possesso di pene. Il fine esplorare il rapporto fra mascolinit e potere e i diversi modi con cui le due figure sfidano la concezione occidentale della presenza del pene per definire un corpo come maschile. La stessa Cornwall sottolinea che l'ambiguit delle travestis pone importanti sfide teoriche all'analisi dei generi. In primo luogo, la studiosa critica sia il bipolarismo di genere sia

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l'uso della categoria terzo genere. Il riferimento ad un genere intermedio riconfigura, infatti, una dicotomia di genere e ripropone una concezione essenzialista del maschile e del femminile. Le travestis non rappresentano una transizione da un genere all'altro, da un corpo maschile ad uno femminile o viceversa: il transito verso un'identit di genere non necessariamente viene assorbito da uno dei due opposti e non necessariamente va a collocarsi "in mezzo a" due poli. In seconda istanza, Cornwall mostra l'agency dei soggetti nel costruire una propria identit di genere e nel "fare" il proprio corpo. Il saggio che mira ad evidenziare l'esistenza di discorsi egemonici sui corpi e sui generi, illustra altrettanto bene "i processi attivi di creazione dei generi nei percorsi esistenziali dei soggetti" e come i corpi "non sono la mera tela biologica su cui si possono dipingere inequivocabili caratteri di genere". Nel caso specifico, Cornwall illustra come travesti non si nasca ma si diventa e come nel contesto della prostituzione di strada non sia l'assenza o la presenza del pene a generare maschilit o a stabilire se un corpo sia o meno maschile. Nonostante siano trascorsi circa quindici anni dalla sua pubblicazione originale, questa ricerca ha il pregio di essere innovativa per l'oggetto di ricerca che propone, per gli strumenti analitici a cui l'antropologa ricorre e infine per il contributo originale che offre allo studio sui generi. Il saggio Travestitismo maschile e cambiamenti culturali a Samoa di Jeannette Marie Mageo esplora il ruolo delle travestite fa'afafine - che significa "alla maniera delle donne" - nella costruzione dell'identit di genere da parte delle ragazze e dei ragazzi nelle isole Samoa. Le fa'afafine si prendono gioco delle categorie di genere grazie alla loro posizione liminale e ambigua, rappresentando cos un terzo genere che si posiziona fra il maschile e il femminile. L'uomo biologico che diventa donna ha il compito di riempire uno iato nella struttura sociale verificatasi a partire dalla missionarizzazione ad oggi e che ha modificato sia l'erotismo che il ruolo delle giovani donne biologiche a Samoa. Mostrando il ruolo che le fa'afafine svolgono nei processi di costruzione del genere, Mageo offre una dettagliata rappresentazione delle performance (per lo pi coreutiche) e dell'importanza della burla nelle relazioni fra ragazzi/ragazzi,

ragazze/ragazze e ragazzi/ragazze nell'acquisizione dei generi. In queste descrizioni si affiancano molti livelli analitici che danno al saggio una sua originalit ma che nell'economia delle poche pagine a disposizione lo rendono a tratti difficile da seguire nella sua evoluzione. Interessante l'ultimo saggio Donna diventa uomo nei Balcani di Ren Grmaux che documenta la presenza di "femmine biologiche/maschi sociali" nei Balcani occidentali affiancando una letteratura etnografica di fine '800 a materiale raccolto direttamente. Grmaux si concentra su quattro storie di vita al fine di illustrare come esistano due tipologie di "maschi sociali": la "femmina biologica" allevata da genitori e parenti come un figlio; la "femmina biologica" che, dopo essere stata donna e riconosciuta socialmente come tale, ricostruisce se stessa come "maschio sociale". Entrambe queste trasformazioni chiedono un voto di verginit e la rinuncia al matrimonio e alla maternit. Nella sua ricerca, Grmaux si concentrato sull'analisi della sessualit e dell'identit di genere delle persone incontrate al fine di comprendere sino a quale livello i maschi sociali si identificano con le pratiche attribuite al genere maschile e in quali modi il corpo vergine legato ad un'idea di mascolinit. Questi due livelli di analisi permettono a Grmaux di esplorare come l'identit di genere acquisita non sia in realt ben definita e non si identifichi pienamente con l'idea di mascolinit dell'area geografica da lui considerata. L'attraversamento di genere (gender-crossing) produce quindi un terzo genere senza risolversi in un'identit maschile piena. Il contributo dell'autore nel mostrare come questa posizione di genere intermedia si leghi non alla natura ambigua del corpo biologico, ma all'intersecarsi di due precisi discorsi sociali: l'alta valutazione nella cultura dei Balcani occidentali dei "maschi" e della mascolinit, il significato ambiguo attribuito alla verginit e alla vita asessuata. Nei Balcani infatti - ci racconta Grmaux - le "ragazze" diventano "donne" con il matrimonio e la maternit; la verginit prolungata nell'et adulta solo consente comportamenti mascolini altrimenti non legittimati, ma marca il confine fra "donne" e "vergini".

Barbara Pinelli

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Tra ordinario e straordinario: modernit e vita quotidiana


Paola Di Cori e Clotilde Pontecorvo (a cura di) Carocci, 2007

una materia incandescente, magmatica, quella offerta al lettore che, incuriosito dallo spazio celato e dischiuso tra le parole del titolo, decida di avventurarsi nei sentieri, piani e tortuosi al tempo stesso, della vita quotidiana. Si trover cos a ripercorrere le "traiettorie" tracciate da un nutrito gruppo di ricercatori e ricercatrici durante un ciclo di seminari, dal titolo generale Modernit e vita quotidiana: tra ordinario e straordinario, svoltosi nei mesi tra febbraio e giugno 2005 presso l'Universit "La Sapienza" di Roma, di cui la raccolta di saggi contenuti nel volume costituisce un primo risultato. Quella che si presenta una scrittura la cui trama non si dipana linearmente, frutto di connessioni impreviste e risultato delle differenti angolature disciplinari attraverso cui lo stesso tema della vita quotidiana stato osservato. L'effetto quello di una polifonia che non vuole ricondurre il tutto ad un'unit armonica ma anzi cerca il pi possibile di esprimere simultaneamente la pluralit di voci anche, e tanto pi, se discordi e stonate. La sensazione che l'architettura stessa del volume abbia incorporato gli insegnamenti di Michel de Certeau offrendosi ad una lettura tattica, che "si sviluppa di mossa in mossa", senza strategie o pianificazioni, e volendo promuovere ed esaltare maggiormente, come osserva Paola Di Cori nel suo saggio Arti del fare, discipline e pratiche quotidiane: Michel de Certeau, dopo Foucault e Bourdieu, un'analisi tesa a valorizzare le pluralit piuttosto che una piatta omogeneizzazione delle esperienze alla ricerca di grandi leggi. Di fronte ad una tale sfida intellettuale, data dal voler al tempo stesso racchiudere e lasciar scorrere l'essenza in divenire della quotidianit, inevitabile risulta, dunque, il ricorso alle metafore per cercare di dire la quotidianit, definita meravigliosamente da Blanchot, tramite un paradosso, come "l'inaccessibile al quale abbiamo gi da sempre avuto accesso". In questa opera di "espressione" del quotidiano il volume ha il pregio, anche rispetto al panorama degli studi sull'argomento in Italia, di abbandonare asfittiche prospettive monodisciplinari e di mettere insieme discipline differenti, dalla filosofia all'antropologia, dalle arti visive alla sociologia e finanche alla psicologia, cos come interventi, nazionali e stranieri, che attingono da orientamenti teorici differenti, quali l'empirismo, il

marxismo e gli studi culturali. Nella prima parte del libro, in cui viene privilegiato un approccio maggiormente teorico, sono tracciate le origini del rapporto tra quotidiano e modernit, inizialmente attraverso l'analisi del pensiero di autori classici, come Simmel e Freud, (rispettivamente trattate nei saggi Georg Simmel: la vita quotidiana come disseminazione di Davide Borrelli e La psicopatologia della vita quotidiana di Freud. Patologia o "vita quotidiana" di Lesley Caldwell), che intorno ai primi del Novecento iniziarono a considerare la quotidianit quale terreno privilegiato da cui osservare la societ e comprenderne i mutamenti. Le nevrosi, le "ultime cose" diventano segni del quotidiano, rilevanti all'occhio del ricercatore per comprendere il dispiegarsi della societ nel suo insieme. Specifica a riguardo Paola Di Cori, citando Foucault, come in ambito storico l'attenzione alla quotidianit sia databile ancora prima, e cio intorno alla seconda met del Settecento, quando, a partire dalle

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riflessioni di Kant sul presente, differenti pensatori iniziarono a problematizzare la dimensione dell'attuale e ad occuparsene come ambito di riflessione di cui essi stessi erano parte. Nel panorama dei pensatori che intorno agli anni Sessanta cominciarono ad occuparsi di vita quotidiana Paola Di Cori sottolinea nel suo saggio la specificit del pensiero di Michel De Certeau che rispetto a chi, come Foucault, pur interessato alla "vita degli uomini infami" si concentra maggiormente sulle procedure adottate dal potere per assoggettare, sar invece pi interessato "a ci che si sottrae a tali meccanismi" e "a guardare cosa fanno gli esseri comuni, cosa fabbricano i cosiddetti consumatori nella loro vita di ogni giorno". Il processo di accreditamento del quotidiano come ambito proficuo di ricerca stato comunque lento, contrastato e, per quanto oggi goda di grande fortuna, non pu dirsi concluso. Il quotidiano, da sempre ritenuto luogo del triviale e del banale, dominato dalla dimensione privata, assurge in ambito sociologico, intorno ai menzionati anni Sessanta, ad un'importanza crescente anche come risposta allo strutturalismo parsonsiano, che poco spazio concedeva alla soggettivit del singolo. Il convincimento, riscontrabile anche in certa storiografia, e ben espresso dalle parole di uno dei massimi esponenti della microstoria, Carlo Ginzburg, dunque quello di "adottare uno sguardo analitico che guardi le cose da vicino per arrivare a una visione pi solida, pi profonda dei nessi che tengono insieme la societ". Il richiamo pertanto a cogliere quell'attenzione che il dato secondario, apparentemente inutile allo sguardo velato dal senso comune, richiede e a considerare la quotidianit come il "posto dei dettagli", secondo l'efficace definizione del saggio di Paolo Jedlowski Il posto dei dettagli. Prospettive di una sociologia della vita quotidiana. Quello teorizzato da Jedlowski dunque un ribaltamento di prospettiva nell'osservazione sia a livello generale, rispetto a teorie universali onnicomprensive, sia a livello micro, da compiersi attraverso una sospensione dell'atteggiamento quotidiano, cio del "pensare come sempre", che permetta quell'inversione nel "sistema delle rilevanze, che d ordine a ci che vediamo", e "avvii processi di nuova comprensione e di elaborazione della nostra esperienza". Tutta intrisa di questa tensione verso il nuovo, verso qualcosa in grado di rompere con gli schemi precostituiti del passato, la modernit, attraversata da profondi mutamenti che riguardano contemporaneamente i campi del sapere e del fare. Tale ansia di ricerca ben esemplificata nelle arti anche dalla nascita della danza libera, o moderna, descritta nel bel saggio di Patrizia Veroli, Arte e vita quotidiana. L'invenzione della danza moderna; quella danza libera che agli inizi del Novecento si presenta come un fenomeno rivoluzionario, di rottura rispetto alle codificazioni reiterate del balletto tradizionale. La danza moderna movimento, ricerca libera, ed soprattutto espressivit di un corpo vivo, teso a "mantenere un fortissimo legame con il dato esperenziale, cio con l'identit di chi lo praticava, con la realt delle sue pulsioni e del suo vivere quotidiano". Rilevanza assume quindi il soggetto, non solo per le sue capacit intellettuali e razionali, ma anche per il suo corpo, con le sue dimensioni

percettive e sensoriali. Saranno questi gli elementi che progressivamente andranno ad occupare lo spazio di riflessione di artisti e performer, come pure di scienziati e studiosi. Ed qui, al centro dei corpi, che la complessit nuovamente si ripresenta come tensione irriducibile tra opposte concezioni, divergenti e convergenti. Se da una parte infatti il modernismo nella danza, ed in generale nelle arti, si presentava come una forma di critica alla razionalizzazione e mercificazione che caratterizzava la modernit e le pratiche disciplinanti sui corpi, dall'altra effettuava, su un binario parallelo a quello della scienza, uno stesso percorso alla ricerca di nuove concettualizzazioni sui fondamenti fisici e dinamici del corpo. Le scoperte della scienza entrano a far parte delle sperimentazioni artistiche, si inizia ad analizzare il movimento del corpo "nelle sue componenti cinetiche (in quanto flusso), dinamiche (per il suo contenuto energetico), ritmiche (rispetto al tempo) e metriche (riferite allo spazio)". Ci che le differenzia sono per le finalit; se infatti per la scienza la ricerca e la conoscenza erano tese ad un maggiore controllo sui corpi, per le discipline artistiche lo scopo era, al contrario, di liberare i corpi da codici comportamentali predeterminati. dunque all'interiorit del soggetto che tendono, e proprio a quel livello lavorano creativamente, usando il corpo come specchio di tale interiorit. Si cominciano pertanto ad indagare le relazioni tra corpi e psiche, tra corpi e spiritualit arrivando a teorizzare, cos come ben espresso dalle parole di Franois Delsarte, maestro di retorica teatrale, che "ad ogni funzione spirituale corrisponde una funzione del corpo. Ad ogni funzione del corpo corrisponde un atto spirituale". Nella seconda parte del volume l'attenzione si sposta sui "nuovi soggetti" che con la modernit acquistano maggiore visibilit nello spazio pubblico, pur continuando a parlare e ad agire ai margini di tale spazio. Bisogna a questo riguardo sottolineare come a partire da bell hooks - che del margine "fa l'elogio", volendo con tale espressione rivendicare una specificit di esperienza e di vedute di chi non potendo considerarsi parte di quel centro da cui i margini erano stati tracciati, non aveva avuto voce nella costruzione della storia con la S maiuscola- e da molti altri pensatori e pensatrici riconducibili alla galassia dei "postcolonial studies", seguita in differenti ambiti accademici un'attenzione a tali "nuove" soggettivit ponendole al centro di ricerche volte a ricostruirne lineamenti e biografie. Nei saggi vengono presentate ricerche etnografiche in cui il senso del quotidiano ad essere ricostruito, andando a scoprire cosa si nasconda dietro il normale svolgersi della vita quotidiana all'interno di setting ordinari, "riempiti" da tali soggetti, dove, imprevedibilmente, si aprono nuovi spazi di significato. Cos nell'articolo di Francesco Ronzon sugli incontri omosessuali in una sauna-palestra nell'Italia del nord-est, come pure in quello di Franca Balsamo Anziane e "badanti". Spazi domestici tra cura e intercultura, sulle relazioni di cura, presenti all'interno del servizio di cura, tra "badanti" e anziane nel chiuso dello spazio domestico. Anche i giovani vengono presi ad esempio di quella novit e di quella eccentricit, o "eXtraordinariet", come pi volte

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sottolineato nel saggio Culture eXtraquotidiane di Massimo Canevacci, espressione di una soggettivit ibrida e nomadica, difficilmente catturabile attraverso l'ordinariet del linguaggio comune. Da l la scelta dell'autore di sperimentare un linguaggio, quasi un manifesto metodologico, volutamente informe e rapsodico, a tratti criptico, per il timore, e la non volont, di congelare con una definizione "i tratti disordinanti delle produzioni giovanili sterminate". Carmen Leccardi, nel saggio Generazioni di donne italiane nel tempo. La reinvenzione della vita quotidiana, indaga la dimensione temporale con una prospettiva di genere e generazionale, sottolineando la centralit del movimento delle donne nella rivalutazione del quotidiano come "punto di partenza e punto di arrivo nella trasformazione delle relazioni di potere" e nell'opera di disvelamento della sua ambivalenza, del suo essere, cio, al tempo stesso luogo di ripetizione rassicurante di certi assetti sociali come pure di mutamento. Nella terza parte un approfondimento specifico riservato al tema "famiglie e vita quotidiana", (sviluppato attraverso gli interventi del gruppo di ricerca composto da Marilena Faticante, Alessandra Fasulo, Pl Andr Aarsand e Karin Aronsson e diretto da Clotilde Pontecorvo), attraverso la presentazione di alcuni risultati di una ricerca internazionale, di tipo etnografico e discorsivo, sulla vita di famiglie di classe media residenti in Italia, Svezia e USA, avente lo scopo di comprendere come queste affrontano e risolvono i problemi della vita quotidiana: a livello di conciliazione tra sfera privata e sfera lavorativa, nella cura dei bambini e, infine, nel normale svolgimento delle routine familiari. Punto di partenza dell'indagine la constatazione di come le famiglie siano state prevalentemente studiate a livello macro, attraverso indagini demografiche, dando informazioni sui cambiamenti che le hanno attraversate pi che sviluppando una

comprensione del funzionamento interno e "delle forme di "appropriazione" realizzate dai suoi membri nei riguardi di tali cambiamenti". Da l la necessit di "guardare" la famiglia con un occhio interno, offerto dal metodo etnografico, e con l'approccio analitico della psicologia discorsiva in grado di valorizzare la prospettiva dei soggetti coinvolti considerandoli come "partecipanti attivi alla costruzione del significato nel discorso e nell'azione sociale". Il pregio di tale lavoro risiede nell'aver voluto analizzare in profondit la sfera domestica, denaturalizzando quella rappresentazione comune che la vede come "luogo d'elezione del quotidiano familiare" e ne sottolinea principalmente, dandoli per scontati, gli aspetti pi "banali" e routinari. Ma proprio nell'ambito domestico, come sottolineato nello stimolante saggio Compiti a casa. Routine, estetica sociale e ambiguit della vita quotidiana di Ben Highmore, che si registra "la centrale ambiguit della routine, la sua doppia natura di imposizione limitante e consuetudine rassicurante". proprio nella routine che Highmore trova il senso ultimo della vita quotidiana, riscoprendone una profonda natura estetica in grado di contenere ed esprimere l'indicibilit della sua ambiguit. Routine ed estetica risultano cos per l'autore intrinsecamente legate poich l'estetica "si occupata proprio di ambiti dell'esperienza difficili da interpretare" e la routine, tenendo in s simultaneamente opposti stati mentali di consapevolezza e disattenzione, sfugge ad una comprensione meramente razionale. Su questo passaggio il saggio si sviluppa aprendo ad una nuova dimensione sensoriale e percettiva a cui necessariamente attingere, anche come studiosi, per svolgere quella delicata opera di "espressione" dell'esperienza della quotidianit.

Caterina Satta

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