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MARGUERITE DURAS

OCCHI BLU CAPELLI NERI


Titolo dell'opera originale
LES YEUX BLUES CHEVEUX NOIRS

E' la storia di un amore, il più grande e terrificante che a me sia stato concesso di scrìvere. Lo so. Lo si
sa per sé soli.
Si tratta di un amore che non ha nome nei romanzi e non ha nome neppure per quelli che lo vivono. Di
un sentimento che in qualche modo non sembra avere ancora vocabolario, costumi, riti. Si tratta di un
amore perduto. Perduto, da perdizione.
Leggete il libro. In ogni caso, anche se gli siete ostili per principio, leggetelo. ' Non abbiamo niente da
perdere, né io da voi, né voi da me.
Leggete tutto. Leggete tutti gli intervalli che vi indico, quelli dei corridoi scenici che avvolgono la storia
e la placano e ve ne liberano mentre li percorrete. Continuate a leggere e, all'improvviso, è la storia che
avrete attraversato, con le sue risa, la sua angoscia, i suoi deserti.
Sinceramente vostra Duras
A Yann Andréa
Una sera d'estate, dice l'attore, sarebbe al centro della storia.
Non un soffio di vento. E già, spalancata davanti alla città, con vetrate e finestroni aperti, fra il cupo
rosseggiare del tramonto e la penombra del parco, la hall dell'hotel des Roches.
All'interno, donne con bambini; parlano della sera d'estate, è così raro, tre o quattro volte in tutta la
stagione, forse, e neanche ogni anno, bisogna approfittarne prima di morire, chissà se Dio ce ne regalerà
ancora di così belle.
Fuori, sulla terrazza dell'hotel, gli uomini. Si colgono le loro parole altrettanto distintamente di quelle
delle donne nella hall. Anche loro parlano di estati passate sulle spiagge del Nord. Ovunque, le voci che
dicono l'eccezionale bellezza della sera d'estate sono ugualmente leggere e vuote.
Dal gruppetto che guarda lo spettacolo della hall dalla strada dietro l'hôtel, si stacca un uomo. Attraversa
il parco e si avvicina a una finestra aperta.
Immediatamente prima ch'egli attraversi la strada, si tratta di pochi secondi, lei, la donna della storia,
arriva nella hall. E entrata dalla porta che dà sul parco.
Quando l'uomo raggiunge la finestra, lei è già lì, a pochi metri da lui, in mezzo alle altre donne.
Dal punto in cui si trova, l'uomo, quand'anche lo avesse voluto non potrebbe vedere il suo volto. Lei è
infatti girata verso la porta della hall che dà sulla spiaggia.
E' giovane. Porta scarpe da tennis bianche. Si vede il suo corpo lungo e flessuoso, il candore della sua
pelle in quell'estate di sole, i capelli neri. Il volto non lo si potrebbe vedere che controluce, da una
finestra che desse sul mare. Porta degli short bianchi. Intorno ai fianchi, una fascia di seta nera,
mollemente annodata. Fra i capelli, un nastro azzurro cupo dovrebbe far presentire il blu degli occhi che
non si può vedere.
Ad un tratto nell'hotel qualcuno chiama. Non si sa chi.
Qualcuno grida un nome dalla sonorità insolita, inquietante, una vocale querula e strascicata, una a
d'Oriente e il suo tremolare fra le pareti vitree di consonanti irriconoscibili, una a, forse, o una o.
La voce che grida è così chiara e così alta che la gente smette di parlare e aspetta come una spiegazione
che non verrà.
Poco dopo il grido, da quella porta che la donna guarda, quella dei piani dell'hotel, un giovane straniero
entra nella hall. Un giovane straniero occhi blu capelli neri.
Il giovane straniero raggiunge la giovane donna. Come lei, è giovane. E' alto come lei, come lei è in
bianco. Si ferma. L'aveva perduta. Per il riverbero che viene dalla terrazza i suoi occhi fanno paura tanto
sono blu. Quando si avvicina a lei, si vede che è colmo della gioia di averla ritrovata e dell'angoscia di
doverla perdere ancora. Ha il pallore degli amanti. I capelli neri. Piange.
Non si sa chi abbia gridato quella parola a tutti sconosciuta benché si credesse di averla udita giungere
dalle tenebre dell'hotel, dai corridoi, dalle camere.
Nel parco, non appena è apparso il giovane straniero, l'uomo si è avvicinato alla finestra del vestibolo
senza rendersene conto. Le sue mani sono aggrappate al bordo di quella finestra, e sembrano senza vita,
decomposte dallo sforzo di guardare, dall'emozione di vedere.
Con un gesto, la giovane donna indica al giovane straniero la direzione della spiaggia, lo invita a
seguirla, gli prende la mano, lui resiste appena, si allontanano tutti e due dalla finestra della hall e si
avviano dalla parte che lei ha indicato, verso il tramonto.
Escono dalla porta che dà sul mare.
L'uomo resta dietro la finestra aperta. Aspetta. Resta là a lungo, fino a quando la gente se ne va e arriva
la notte.
Poi abbandona il parco passando per la spiaggia, barcolla come un ubriaco, grida, piange come i
personaggi che si disperano in un film triste.
E un uomo elegante, alto e sottile. Nella sventura che sta vivendo resta lo sguardo annegato nella
semplicità delle lacrime e la foggia troppo particolare di abiti troppo costosi, troppo belli.
La presenza di quell'uomo solitario nella penombra di quel parco ha fatto oscurare di colpo il paesaggio
e diminuire d'intensità le voci delle donne nella hall fino al loro completo estinguersi.
A notte avanzata, dopo che la bellezza del giorno è sparita con la violenza di un'irreparabile catastrofe,
s'incontrano.
Quando egli entra in quel caffè in riva al mare, lei è già là con altra gente.
Non la riconosce. Potrebbe riconoscerla solo se fosse arrivata in quel caffè in compagnia del giovane
straniero, occhi blu capelli neri.
L'assenza di lui fa sì ch'ella gli resti sconosciuta.
L'uomo siede a un tavolino. Più ancora di lui, lei non l'ha mai visto.
Lo guarda. E' inevitabile che lo si faccia. E' solo, bello, estenuato d'esser solo, solo e bello come
chiunque al momento di morire. Piange.
Per lei è ignoto come se non fosse nato.
Si allontana dalle persone con le quali sta. Va al tavolo dell'uomo che è entrato e piange. Siede di fronte
a lui. Lo guarda.
Egli non vede niente di lei. Né le mani inerti sul tavolo. Né il sorriso sfatto. Né che lei trema. Che ha
freddo.
Non l'ha mai visto prima, nelle strade della città. Gli chiede che cos'ha. Lui dice che non ha niente.
Niente. Non deve preoccuparsi.
Dolcezza della voce che all'improvviso strazia l'anima e disorienta.
Lui non può fare a meno di piangere.
Lei gli dice: Vorrei impedirvi di piangere. Lei piange. Lui non vuole niente, davvero. Non la sente.
Lei gli chiede se vuole morire, se è questo che ha, la voglia di morire, lei potrebbe aiutarlo, forse.
Vorrebbe che lui parlasse ancora. Lui dice no, niente, di non badare a lui. Lei non può fare altrimenti, gli
parla.
"Siete qui per non tornare a casa." Sì, e così.
"A casa, siete solo."
Solo, sì. Cerca qualcosa da dire. Le chiede dove abita. Lei abita in un albergo in una di quelle strade che
danno sulla spiaggia.
Lui non sente. Non ha sentito. Smette di piangere. Dice che è in preda a una grande angoscia perché ha
perso le tracce di qualcuno che avrebbe voluto rivedere. Aggiunge che va spesso soggetto a questo
genere di sofferenze, a questi struggimenti mortali. Le dice: Restate con me.
Lei resta. Lui è un po' imbarazzato, sembra, dal silenzio. Le chiede, si crede obbligato a parlare, se le
piace l'opera. L'opera non le piace molto ma la Callas sì, molto. Come potrebbe non piacere? Lei parla
lentamente, come se avesse perso la memoria. Dice che c'è anche Verdi, stava dimenticando, e
Monteverdi. Avete notato, sono questi due che piacciono quando non si ama molto l'opera - lei aggiunge
- quando non si ama più niente.
Lui ha sentito. Sta ancora per piangere. Le sue labbra tremano. I nomi di Verdi e Monteverdi fanno
piangere tutti e due.
Anche lei, dice, va in giro la sera per i caffè quando le sere sono così lunghe e così calde. Quando tutta
la città è fuori non si può restare in una camera. Anche lei è sola? Sì.
Lui piange. E' qualcosa d'irrefrenabile. E' proprio così, piangere. Non parla più di niente. Non parlano
più né l'uno né l'altra.
Fino a quando il caffè chiude stanno là.
Lui è di fronte al mare e lei dall'altra parte del tavolo, davanti a lui. Per due ore lo guarda senza vederlo.
A tratti ricordano, si sorridono attraverso le lacrime. Poi di nuovo dimenticano.
Lui le chiede se è una prostituta. Lei non si stupisce e neppure ride.
Dice:
"In un certo senso, ma non faccio pagare."
Lui pensava anche che facesse parte del personale del caffè. No.
Lei gioca con una chiave per non guardarlo.
Dice: Sono un'attrice, mi conoscete certamente. Lui non si scusa di non conoscerla, non dice niente. E
un uomo che non crede più in niente di ciò che si dice. Deve pensare che lei lo scopra.
Il caffè aveva chiuso. Si erano ritrovati fuori. Lui aveva guardato il cielo a filo del mare. All'orizzonte,
c'erano ancora tracce di tramonto.
Lui aveva parlato dell'estate, di questa serata d'incomparabile dolcezza. Lei aveva avuto l'aria di non
sapere di che si trattasse. Gli aveva detto: Chiudono perché noi piangiamo.
Lo porta in un bar più all'interno, su una strada statale. E restano là fino a che si fa giorno. Là, lui le dice
che è in un momento difficile.
E lei: La vostra ultima ora. Non sorride. Lui dice sì, è così, l'aveva pensato, lo pensa ancora. Sorride, un
sorriso forzato. Le dice ancora di aver cercato nella città qualcuno che voleva rivedere, è per questo che
piangeva, qualcuno che non conosceva, che aveva visto per caso proprio quella sera ed era colui che
aspettava da sempre e che voleva rivedere a qualunque costo, anche a prezzo della vita. Quella era la sua
situazione.
Lei dice: Che coincidenza. E aggiunge:
"Per questo vi ho abbordato, credo, per via di questa disperazione."
Sorride, confusa per essersi servita di quella parola. Lui non capisce.
E per la prima volta la guarda. Dice: Voi piangete.
La guarda meglio. Dice:
"La vostra pelle è così bianca, si direbbe che siate appena arrivata al mare."
Lei dice che la sua pelle è così, refrattaria al sole, succede... - sta per dire qualcos'altro che non dice.
Lui la guarda con molta attenzione, dimentica perfino di vederla per ricordare meglio. Dice:
"Strano, è come se vi avessi già incontrata."
Lei riflette, lo guarda a sua volta, cerca dove e quando la cosa sarebbe stata possibile. Dice:
"No. Non vi ho mai visto prima di questa notte."
Lui ritorna al candore della pelle e in modo tale che la pelle bianca potrebbe essere un pretesto per
andare a cercare il perché delle lacrime. Ma no. Dice:
"E sempre un po'... spaventano sempre un po', occhi blu come i vostri...
ma forse è per via dei capelli così neri..."
Lei dev'essere abituata che le si parli dei suoi occhi. Risponde:
"I capelli neri e i capelli biondi cambiano l'azzurro degli occhi, è come se dipendesse dai capelli, il
colore degli occhi. I capelli neri fanno venire gli occhi di un blu indaco, anche un po' tragico, è vero,
mentre i capelli biondi fanno gli occhi di un azzurro più giallo, più grigio, che non fa paura."
Dice sicuramente ciò che ha evitato di dire un momento prima:
"Ho incontrato qualcuno che aveva questa sorta di blu negli occhi, non si coglieva il centro dello
sguardo, il punto da dove veniva lo sguardo, era come se a guardare fosse il blu tutto intero."
Di colpo, lui la vede. Vede che lei descrive i suoi occhi.
Lei piange, accade all'improvviso, con violenza, singhiozzi troppo forti, che premono, che lei non ha la
forza di far uscire.
Dice:
"Scusatemi, è come se avessi commesso un delitto, vorrei morire."
Lui ha paura che anche lei lo abbandoni, che sparisca nella città. Ma no, lei piange davanti a lui, con
occhi ormai senza mistero pieni di lacrime. Occhi che la lasciano nuda.
Lui prende le sue mani, se le mette sul volto. Le chiede se sono gli occhi blu a farla piangere.
Lei dice che è così, sì, si dà il caso che sia così, si può dire così.
Lo lascia fare con le mani. Lui chiede quando è stato.
Oggi.
Lui bacia le sue mani come farebbe con il suo volto, la sua bocca.
Dice che lei ha l'odore dolce e leggero del fumo.
Lei gli dà la bocca da baciare.
Dice che lo bacia, che bacia lui, quello sconosciuto. Dice: Voi baciate il suo corpo nudo, la sua bocca,
tutta la sua pelle, i suoi occhi.
Fino al mattino piangono la pena mortale della notte d'estate.
Il buio calerebbe in sala, il dramma avrebbe inizio.
L'attore descriverebbe la scena: una sorta di sala di ricevimento, arredata in modo austero con mobili
inglesi, comodi, molto lussuosi, in mogano scuro. Vi sarebbero sedie, tavoli, alcune poltrone. Sui tavoli,
lampade, diverse copie dello stesso libro, portacenere, sigarette, bicchieri, caraffe d'acqua. Su ogni
tavolo, un bouquet di due o tre rose. Sarebbe un po' come un luogo abbandonato da poco, funebre.
A poco a poco, si diffonderebbe un odore, all'inizio sarebbe stato quello descritto qui, d'incenso e di
rosa, poi sarebbe diventato quello, inodoro, della polvere di sabbia. Perché molto tempo dovrebbe
sembrare trascorso dalla prima diffusione dell'odore.
La descrizione dell'ambiente, dell'odore sessuale, quella dei mobili, del mogano scuro, dovrebbe essere
letta dagli attori con lo stesso tono usato per raccontare la storia. Anche se, a seconda dei diversi teatri in
cui il dramma sarebbe rappresentato, gli elementi di questo sfondo non
coincidessero con l'esposizione che qui ne è stata fatta, essa resterebbe immutata. In questo caso,
spetterebbe agli attori far sì che l'odore, i costumi, i colori si adeguino allo scritto, al valore delle parole,
alla loro forma.
Si tratterebbe sempre di un luogo funebre, della polvere di sabbia, del mogano scuro.
Lei dormirebbe, dice l'attore. Avrebbe l'aria di farlo, di dormire. Al centro della stanza vuota, su lenzuola
bianche stese direttamente sul pavimento.
Lui le è seduto accanto. A tratti, la guarda.
Non vi sono neanche sedie nella stanza. L'uomo deve aver portato le lenzuola e poi, una a una, una porta
via l'altra, deve aver chiuso le stanze della casa. Questa camera dà sul mare e sulla spiaggia. Non vi è
giardino.
Ha lasciato al suo posto il lampadario dalla luce gialla.
Non deve sapere con chiarezza il perché di ciò che ha fatto con le lenzuola, le porte, la luce.
Lei dorme.
Lui non la conosce. Guarda il suo sonno, le mani aperte, il volto ancora estraneo, i seni, la bellezza, gli
occhi chiusi. Se avesse lasciato aperte le porte delle altre camere, lei sarebbe certamente andata a
vedere. Deve essersi detto proprio questo.
Lui guarda le gambe rilassate, levigate come le braccia, come i seni.
Anche il respiro è così, leggero, lungo. E sotto la pelle delle tempie, calmo, il flusso del sangue che
pulsa, rallentato dal sonno.
Al di là della luce gialla che cade dal lampadario centrale, la stanza è buia, rotonda, si direbbe,
impenetrabilmente chiusa intorno al corpo.
E' una donna.
Dorme. Ha l'aria di farlo. Chissà. L'aria d'essersi dileguata, tutta intera, nel sonno, con gli occhi, le mani,
la mente. Il corpo non è perfettamente dritto, dà un po' di lato, verso l'uomo. Le forme sono morbide, i
legamenti invisibili. Parole salgono alle labbra, quelle della sconnessione delle forme sotto la pelle che
le ricopre.
La bocca è leggermente socchiusa, le labbra nude, screpolate dal vento, per venire deve aver camminato
e fa già freddo.
Che questo corpo dorma non significa che sia senza vita. Al contrario. E a tal punto, che sa, attraverso il
sonno, quando qualcuno guarda. Basta che l'uomo entri nella zona di luce perché un movimento
improvviso lo attraversi, perché gli occhi si aprano e osservino, inquieti, fino a che lo riconoscono.
Era stato sulla strada statale, allo spuntar del giorno, quando anche il secondo caffè aveva chiuso; lui le
aveva detto che cercava una giovane donna che dormisse accanto a lui per qualche tempo, aveva paura
d'impazzire. E voleva pagarla, quella donna, era una sua idea che bisognasse pagare le donne perché
impedissero agli uomini di morire, d'impazzire. Aveva pianto ancora, estenuato
com'era. L'estate gli faceva paura. La loro solitudine nell'estate, quando i posti di mare erano pieni di
coppie, di donne e di bambini, quando ovunque erano oggetto di derisione, nei varietà, nei casinò, nelle
strade.
Nella luce terribile del giorno, lei lo vede per la prima volta.
E' elegante. Nello sfacelo che sta vivendo, restano quegli abiti estivi, troppo cari, troppo belli, quel
corpo lungo, quello sguardo annegato nella disarmante semplicità delle lacrime che fa dimenticare gli
abiti.
Le mani, la pelle, sono molto bianche. E' alto, sottile. Come lei, deve aver fatto sport a scuola, quand'era
molto giovane. Piange. Intorno agli occhi, tracce di khol blu.
Lei gli dice che una donna pagata sarebbe lo stesso che niente. Lui dice d'esser sicuro di volerla così,
senza amore per lui, solo il corpo.
Non aveva voluto che lei venisse subito. Fra tre giorni, aveva detto, il tempo di sistemare.
L'aveva accolta con circospezione, con una certa freddezza, le mani gelate nella calura. Tremava. Era
vestito di bianco come il giovane straniero occhi blu capelli neri.
Aveva chiesto di non sapere né il suo nome né il suo cognome. Lui non aveva detto il suo e lei non
aveva domandato niente. Le aveva dato l'indirizzo. Lei conosceva il posto, la casa, conosceva bene la
città.
Il ricordo è confuso, doloroso. Era una richiesta umiliante. Ma che bisognava comunque fare, nel caso
lei fosse venuta. Si ricorda di lei in quel caffè, di quest'altra donna, della carnale dolcezza della sua
voce, del profluvio di lacrime sul volto bianco. Degli occhi, blu da disorientare. Delle mani.
Lei dorme. Accanto a lei, sul pavimento, un fazzoletto di seta nera.
Vorrebbe chiederle a che cosa può servire, poi vi rinuncia, pensa che deve servirle in generale per la
notte, per proteggersi gli occhi dalla luce e, lì nella camera, da quella luce gialla che cade dal lampadario
e si riflette sulle lenzuola bianche.
Ha messo le sue cose contro la parete. Scarpe da tennis bianche, indumenti di cotone pure bianchi, un
nastro azzurro cupo.
Si sveglia. Non capisce subito. Lui è seduto sul pavimento, la guarda, leggermente chino sul suo volto.
Lei ha un gesto di difesa, ma appena, accenna a coprirsi gli occhi con il braccio. Lui se ne accorge.
Dice: Vi guardo, nient'altro, non abbiate paura. Lei dice che non è paura, sorpresa piuttosto.
Si sorridono. Lui dice: Non sono abituato a voi. E truccato. Vestito di nero. Negli occhi, confuse con il
sorriso, vi sono le lacrime della sera d'estate, la tristezza disperata.
Lei non chiede niente. Lui dice:
"Non posso toccare il vostro corpo. Non posso dirvi nient'altro, è più forte di me, della mia volontà, non
posso."
Lei dice che l'ha saputo fin da quando l'aveva visto in quel caffè in riva al mare.
E dice che, quanto a lei, è tutta presa dal desiderio di quell'uomo dagli occhi blu di cui gli ha parlato in
quel caffè, ferma nell'irremovibile desiderio di lui solo, e che perciò non fa niente, anzi.
Lui dice che vuole provare, così, per ogni evenienza, a prendere il corpo con le mani, senza guardare,
forse, perché li lo sguardo non c'entra. Lo fa, posa le mani sul corpo, alla cieca, prende i seni, i fianchi,
nella freschezza della pelle nuda, fa oscillare il tutto in un movimento violento e, in una sorta di spinta,
di schiaffo piatto, lo rovescia, lo mette a faccia in giù. Si ferma, stupito della sua stessa brutalità. Toglie
le mani dal corpo. Immobile, dice: Non è possibile.
Anche lei resta così com'è caduta, bocconi. Quando si gira, lui è sempre lì fermo, sopra di lei. Non
piange. Non capisce. Si guardano.
Lei chiede:
"Non vi è mai capitato?"
"Mai."
Non gli chiede se sa da dove venga quella difficoltà nella sua vita.
"Mai con una donna, volete dire."
"Appunto. Mai."
La dolcezza della voce è definitiva.
Lei ripete, sorride:
"Mai desiderio per me."
"Mai. Tranne," esita, "in quel caffè, quando aveva parlato di quell'uomo che avete amato, dei suoi occhi,
ecco, in quel preciso momento vi ho desiderata."
Lei si copre il volto con la seta nera. Trema. Lui si scusa. Lei dice che non importa, è solo quella parola,
pronunciata li, in quella camera.
E dice che l'amore può benissimo venire anche così, ascoltando parlare di uno sconosciuto, di com'erano
i suoi occhi. Dice:
"Mai in altro modo? Neanche per un attimo, un dubbio?"
"Mai."
"Come esserne sicuri a tal punto?"
"Perché volere a tal punto che non ne sia sicuro?"
Lo guarda come guarderebbe la sua immagine in sua assenza. Dice:
"Perché non si può fare diversamente."
Lo guarda ancora con quella fissità. Dice:
"Non si può capire."
Lei gli chiede perché vada cercando qualcos'altro dal momento che è sicuro di essere così fino alla
morte. Lui non sa bene perché. Cerca.
"Forse per avere una storia. Anche per questo non si può fare diversamente. Anche per niente."
"E vero, si dimentica sempre. Una storia come: scrivere una storia. Con, al centro, quella differenza che
fa il libro."
Passa molto tempo prima che lei parli ancora. E' altrove, a lungo, sola.
Senza di lui, lui lo sa. Ripete:
"Così, non avete mai desiderato una donna." "Mai. Ma mi capita di capire che si possa farlo," sorride,
"che ci si possa sbagliare."
Nasce un'emozione. Lei non sa bene che cos'è, se è paura, di nuovo, e questa volta più forte di lei,
oppure se è espressione di un'attesa che lei non sapeva di vivere. Guarda la camera, dice:
"E' strano, è come se fossi arrivata da qualche parte. Come se avessi aspettato questo da sempre."
Le chiede perché ha accettato di venire nella camera. Lei dice che qualsiasi donna avrebbe accettato,
senza sapere perché, quella unione bianca e disperata. E lei è come tutte le donne, neanche lei sa perché.
Chiede: Capisce qualcosa, lui?
Lui dice che non ha mai sognato una donna, mai pensato a una donna come a un oggetto che si potesse
amare.
Lei dice:
"E terribile. Non l'avrei mai creduto prima di conoscervi."
Lui chiede se è terribile come non credere in Dio.
Lei pensa di sì. E' l'essere indefinitamente presente a se stesso che spaventa. Ma dev'essere la situazione
migliore, la più adatta per vivere la disperazione, con quegli uomini sterili che non sanno d'esser
disperati.
Le chiede se vuole andarsene. Lei sorride, dice di no, le lezioni non sono ancora cominciate
all'università, può restare, ha tempo. Vi ringrazio, dice, ma no. E poi, il denaro, non vi sono insensibile.
Arriva, prende le lenzuola, le porta nella zona d'ombra. Vi si avvolge tutta e si sdraia là, contro la parete,
sul pavimento. Estenuata, sempre.
Lui la guarda attentamente, la vede fare gli stessi gesti, compiere lo stesso errore. Lascia che lei sbagli.
Solo dopo, più tardi, quando è addormentata, glielo dice.
Va dov'è lei, apre le lenzuola, la trova dentro che dorme, calda. Solo allora le dice che deve andare sotto
la luce centrale della camera. Lei crede che forse lui voglia proprio che lei prima si sbagli. Per doverle
poi ricordare quello che deve fare.
Si sveglia. Lo guarda. Chiede: Chi siete? Lui dice: Ricordate.
Lei ricorda. Dice: Siete colui che stava morendo in quel caffè in riva al mare. Le dice di nuovo che deve
andare sotto la luce, è nel contratto. Lei è sorpresa. Credeva che fosse meglio per lui saperla là, senza
aver da vederla. Lui non risponde. Lei lo fa, va sotto la luce.
Tuttavia, per parecchie volte di seguito andrà a dormire contro la parete, avvolta nelle lenzuola. E ogni
volta lui la riporterà sotto la luce centrale. Lei lo lascia fare. Fa ciò che lui dice, esce dalle lenzuola, si
sdraia sotto la luce.
Lui non saprà mai se è vera dimenticanza o è una resistenza che lei gli oppone, un limite per i giorni
futuri di cui ancora ignorano tutto.
Spesso lei si sveglierà disorientata, inquieta. E ogni volta chiederà che casa è quella. Lui non risponde
alla domanda. Dice che è notte, che è ancora autunno, prima dell'inverno.
Lei chiede: Che cos'è questo rumore?
Lui dice: Il mare, là, dietro il muro della camera. E io sono quello che avete incontrato una sera di
quest'estate in quel caffè lungo il mare.
Quello che poi vi ha dato del denaro.
Lo sa, ma non ricorda bene perché sia lì.
Lo guarda, dice: Siete quello che era disperato. Si fa un po' fatica a ricordare, non trovate?
All'improvviso anche lui sente che ricordarsi è difficile e che è già tanto se si ricorda qualcosa. A
proposito, disperato perché? All'improvviso si sorprendono a guardarsi. E, all'improvviso, a vedersi. Si
vedono fino alla sospensione della parola sulla pagina, fino a quello shock negli occhi che poi sfuggono
e si chiudono.
Lei vuol sentire come lui amava quell'amante perduto. Lui dice: Al di là delle forze, al di là della vita.
Lei vuol sentirlo ancora. Lui ripete.
Lei si copre di nuovo il volto con la seta nera, lui si sdraia al suo fianco. Niente dei loro corpi si tocca.
La loro immobilità è comune. Lei ripete con la voce di lui: Al di là delle forze, al di là della vita.
Poi, brutalmente, con la stessa voce, la stessa lentezza, lui dice:
"Mi ha guardato. Ha scoperto la mia presenza dietro la finestra della hall e mi ha guardato,
ripetutamente."
Sotto la luce gialla, lei è seduta. Gli occhi fissi su di lui, ascolta.
Non sa di che cosa parli, non lo sa affatto. Lui continua:
"Ha raggiunto una donna, quella donna gli ha fatto cenno con la mano di seguirla. E a quel punto ho
visto che lui non voleva lasciare la hall.
Lei gli ha preso il braccio e l'ha trascinato via. Un uomo non l'avrebbe mai fatto."
La voce è mutata. Sparita la lentezza. Non è più lo stesso uomo che parla. Grida, le dice che non
sopporta che lei lo guardi come sta facendo. Lei non lo guarda più. Lui grida, non vuole che lei si
corichi, vuole che resti in piedi. E non uscirà finché non avrà sentito la storia. Lui continua la storia.
Non ha visto il volto della donna che il giovane straniero aveva raggiunta, era girata verso di lui e non
sapeva, non sapeva che qualcuno fosse lì a guardarli. Lei aveva un abito chiaro, sì, bianco. Le chiede se
sta ascoltando. Sì, ascolta, stia tranquillo.
Lui continua la storia:
"Lei l'ha chiamato proprio perché lui mi guardava con quell'insistenza.
Ha dovuto gridare per far sì che lui distogliesse il suo sguardo da me.
Improvvisamente siamo stati separati. Sono spariti tutti e due dalla porta del vestibolo che dà sulla
spiaggia."
Si trattiene dal piangere. Piange.
Dice:
"Sono andato a cercarlo sulla spiaggia, non sapevo più quel che facevo.
Poi sono ritornato nel parco. Ho aspettato fino al calar della notte.
Quando hanno spento le luci nella hall mi sono mosso, sono andato in quel caffè in riva al mare. Di
solito le nostre storie sono brevi, non ho mai provato una cosa simile. La sua immagine è qui," indica la
testa, il cuore, "fissa. Mi sono chiuso in questa casa con voi per non dimenticarlo. Ora sapete la verità."
Lei dice: Terribile, che storia terribile.
Lui parla della sua bellezza. A occhi chiusi, riesce ancora a evocare l'immagine nella sua perfezione.
Rivede la rossa luce del tramonto e i suoi occhi che fanno paura tanto sono blu in quella luce.
Rivede il pallore degli amanti. I capelli neri.
Qualcuno aveva gridato a un certo punto, ma in quel momento, al momento del grido, non l'aveva
ancora visto. Perciò non sa se è lui che ha gridato. Non è neppure tanto sicuro che sia stato un uomo ad
aver gridato. Era intento a osservare la gente riunita nella hall. E, all'improvviso, c'era stato quel grido.
No, ripensandoci bene, il grido non veniva dalla hall ma da molto più lontano, recava in sé sonorità di
ogni tipo, echi di desiderio, echi del passato. Doveva essere stato uno straniero a gridare, un giovane,
per divertirsi, per far paura, forse.
Poi la donna l'aveva portato via. Lui aveva battuto la città e la spiaggia, non l'aveva più trovato, come se
quella donna l'avesse portato chissà dove.
Lei domanda ancora: Perché il denaro?
Lui dice: Per pagare. Per disporre del vostro tempo come io ho deciso.
Per mandarvi via quando io lo voglio. E sapere in anticipo che obbedirete. Per ascoltare le mie storie,
quelle che invento e quelle che sono vere. Lei: Anche per dormire sul sesso acquietato. E finisce la frase
del libro: E piangere anche là, qualche volta.
Lui chiede a che serve la seta nera. Lei dice: "La seta nera, come il sacco nero, dove si mette la testa del
condannato a morte."
L'ascolto della lettura del libro, dice l'attore, dovrebbe essere costantemente uniforme.
Non appena, fra un silenzio e l'altro, si produrrebbe la lettura del testo, gli attori dovrebbero stare
sospesi a essa, immobilizzati, respirando appena, come se attraverso la semplicità delle parole, per gradi
successivi, vi fosse sempre più da capire.
Gli attori guarderebbero l'uomo della storia, qualche volta guarderebbero il pubblico. Qualche volta,
anche, guarderebbero la donna della storia, ma questo non avverrebbe mai per caso.
Questo non-sguardo degli attori sulla donna della storia dovrebbe essere percepibile.
Degli eventi che si sarebbero prodotti fra l'uomo e la donna, niente sarebbe mostrato, niente
rappresentato. Sarebbe dunque la lettura del libro a proporsi come il teatro della storia.
Nessuna particolare emozione dovrebbe essere espressa in determinati passaggi della lettura. E nessun
gesto. Semplicemente, l'emozione davanti alla rivelazione della parola.
Gli uomini sarebbero vestiti di bianco. La donna, nuda. L'idea di un abito nero, per lei, è stata
abbandonata.
Lei gli dice che fa parte di quelle persone che la notte vanno su e giù per la spiaggia. Lui ha un leggero
moto all'indietro, come se mettesse in dubbio ciò che lei gli annuncia. Poi dice che le crede. Chiede:
Oltre a quei giri sulla spiaggia, oltre a quell'amore, chi è lei? Oltre a quei giri, oltre alla sua presenza
nella camera, chi è?
Lei si mette la seta nera sul volto e dice: Sono uno scrittore. Forse ride, lui non lo sa, non chiede.
Tacciono, si ascoltano ugualmente distratti. Chiedono senza aspettare risposta. Parlano soli. Lui aspetta
che lei parli. La sua voce gli piace, glielo dice, non ascolta sempre quando qualcuno parla, ma lei sì,
ascolta sempre la sua voce. E' per via della sua voce che le ha chiesto di venire nella camera.
Lei dice che un giorno farà un libro sulla camera, trova che come luogo è uno sbaglio, qualcosa di
essenzialmente invivibile, infernale, una ribalta chiusa. Lui dice che ha tolto i mobili, le sedie, il letto,
gli oggetti personali, perché non si fidava, non la conosceva, magari avrebbe rubato. Dice anche che
adesso è il contrario, ha sempre paura che se ne vada mentre lui dorme. Con lei chiusa in quella camera,
non si sente del tutto separato da lui, da quell'amante, occhi blu capelli neri. E crede che è in quella
camera, con quella luce da palcoscenico, che bisogna cercare l'inizio di quell'amore, da molto prima di
lei, dalle estati della sua infanzia subite come castigo. Non dà spiegazioni.
Il silenzio della camera è profondo, nessun rumore arriva più né dalle strade né dalla città né dal mare.
La notte è al termine, ovunque limpida e nera, la luna è scomparsa. Hanno paura. Gli occhi fissi al
pavimento, egli ascolta quel silenzio spaventoso. Dice che è l'ora della bonaccia, ma già le acque
dell'alta marea stanno salendo, l'evento è in corso, sta per prodursi ormai e passerà inosservato a
quell'ora della notte. Dice che è sempre desolato di dover constatare che eventi come quello non
vengano mai visti.
Lei lo guarda mentre parla, gli occhi spalancati e nascosti. Lui non la vede, tiene sempre gli occhi fissi
al pavimento. Lei gli dice di chiudere gli occhi, di farsi cieco, in qualche modo, e di ricordarsi di lei, del
suo volto.
Lui lo fa. Chiude gli occhi con forza e a lungo, come fanno i bambini.
Poi smette.
Di nuovo dice:
Non appena chiudo gli occhi, vedo qualcun altro che non conosco." I loro sguardi si evitano, scivolano
via. Lei dice: Sono qui davanti a voi e voi non mi vedete, fa paura. Lui parla in fretta per soffocare la
paura.
Dice che questo deve dipendere anche dall'ora della notte, dal cambiamento del mare, anche quel viavai
sulla spiaggia sta per finire e loro saranno tra poco i soli esseri viventi di quella parte della città.
Lei dice che no, non è così.
Passa ancora molto tempo prima che parlino di nuovo. Lei è davanti a lui, il volto nudo, senza la seta
nera. Lui non alza gli occhi. Restano immobili così, a lungo. E poi, lei lo lascia, lascia la luce, va lungo
la parete. Le chiede di quei giri sulla spiaggia, di spiegargli, lui non sa niente, è poco che abita in quella
città. Lei dice che si tratta di gente che si nasconde laggiù per penetrarsi e godere senza per questo
conoscersi né amarsi, senza quasi vedersi. Vengono dalla città e da molte altre stazioni balneari. Lui
chiede se vi siano delle donne. Sì, e anche bambini, cani, pazzi.
Lui dice:
"Il sole passa a fior d'acqua sul mare." Una pozza di sole è apparsa sul fondo del muro della camera,
viene da sotto la porta d'ingresso, è grande come una mano, trema sulla pietra del muro. Non vive che
pochi secondi. La sua sparizione è brutale, viene strappata dal muro alla sua stessa velocità, quella della
luce. Lui dice:
"Il sole è passato, è arrivato ed è finito, come nelle prigioni."
Lei si rimette la seta nera sul viso. Lui non sa più niente, né del volto né dello sguardo. Lei piange a
piccoli scatti. Dice: Non è niente, è l'emozione. In un primo momento lui ha qualche dubbio sulla
parola, chiede: L'emozione? Poi la dice per pronunciarla con le proprie labbra senza interrogativo
alcuno, senza oggetto: L'emozione.
Il sonno deve averla colta molto più tardi. Il sole era alto nel cielo e lei non dormiva ancora. Lui si era
addormentato a sua volta, e così profondamente che non l'aveva sentita uscire dalla camera. Lei al suo
risveglio non era più là.
E' seduto accanto a lei senza toccare il corpo. Distesa nella luce, lei si addormenta. Lui guarda la forza
dentro l'esilità, le articolazioni delle membra. Lei lo lascia solo. E' molto silenziosa. Pronta in ogni
momento della notte sia a restare nella camera sia ad andarsene, scacciata.
La sveglia. Le chiede di rimettersi i vestiti e andare sotto la luce perché lui la guardi. Lei lo fa. Va a
vestirsi sul fondo della camera, nell'ombra del muro del mare. Poi torna sotto la luce. Rimane in piedi
davanti a lui che la guarda.
E giovane. Porta scarpe da tennis bianche. Intorno alla vita, una sciarpa nera annodata con negligenza.
Fra i capelli neri, un nastro blu cupo dello stesso blu incredibile delle pupille blu. Porta short bianchi.
E' là, davanti a lui, lo sa bene, pronta a ucciderlo perché l'ha svegliata a quel modo e altrettanto pronta a
restare là, in piedi davanti a lui tutta la notte. Lui non sa da dove venga loro quella facoltà di subire tutto
ciò che si presenta come fosse ordinato da Dio.
Le chiede se è sempre vestita così. Lei dice che da quando lo conosce, sì.
"Sembrava piacervi, allora ho messo gli stessi colori."
Lui la guarda a lungo. Lei dice: No, lui non l'ha mai vista prima di quella sera, nel caffè in riva al mare.
Le dispiace.
Si spoglia. Si sdraia al suo posto sotto la luce. Ha uno sguardo selvaggio che piange senza saperlo, come
quello di lui. Lui trova che si somigliano. Glielo dice. Anche lei trova che hanno la stessa statura, occhi
dello stesso colore blu e i capelli neri. Si sorridono. Lei dice: E, nello sguardo, la tristezza di un
paesaggio notturno.
A volte, è lui a vestirsi in piena notte. Si trucca gli occhi, danza.
Ogni volta crede di non averla svegliata. Talora mette il suo nastro blu, la sua sciarpa nera.
Una notte. Lei gli chiede se potrebbe farlo con la mano, senza per questo avvicinarsi, senza neppure
guardare.
Lui dice che non può. Non può fare niente di simile con una donna. Non riesce a dire l'effetto che gli fa
quella richiesta da parte sua. Se accettasse, rischierebbe di non volerla più vedere, mai, e forse anche di
farle del male. Dovrebbe lasciare la camera, dimenticarlo. Lei dice che è il contrario, non può
dimenticarlo. Che, dal momento che fra loro non avviene niente, resta il ricordo, ossessivo, di ciò che
non avviene.
Lo fa lei, con la sua mano, davanti a lui che guarda. Nel godimento si direbbe le esca dalle labbra una
specie di suono molto basso, molto sordo, remoto. Una specie di nome, forse, senza alcun senso.
Irriconoscibile, per lui. La crede portatrice di una clandestinità naturale, immemore, fatta d'innocenza, di
disponibilità assoluta.
Dice:
"Vorrei che mi scusaste, non posso essere in un altro modo, è come se il desiderio svanisse quando mi
avvicino a voi."
Lei dice che è così anche lei in quel periodo.
Ha detto una parola un momento prima, lui le dice, qualcosa come una parola straniera. Sì, chiamava
qualcuno nello smarrimento del piacere.
Lui sorride, le dice:
"Non posso pretendere che mi diciate tutto di voi. Neppure con del denaro."
Lei ha il colore di occhi e di capelli degli amanti che lui desidera: quel particolare blu degli occhi
quando i capelli sono di quel nero. E questa pelle bianca refrattaria al sole. A volte vi sono delle efelidi,
ma chiare, loro sì scolorite dalla luce. E vi è anche quel suo sonno profondo che lo libera dalla sua
presenza.
La forma del viso è molto bella, disegnata sotto la seta nera.
Lei si muove. Di nuovo fuori dalle lenzuola, si stira e poi resta distesa, e, quando si rilassa, resta così
com'è, annientata da quell'abbandono che viene a volte da un'infinita stanchezza.
L'uomo va a lei. Le chiede di che cosa si riposi, che fatica è mai quella. Senza rispondere, senza neppur
guardare, lei solleva la mano e accarezza il volto sopra di lei, le labbra, la zona intorno alle labbra, là
dove vorrebbe baciare; il volto oppone resistenza, lei continua ad accarezzare, i denti si stringono, il
viso si ritrae. La mano ricade.
Lui chiede se è la sua pretesa che sia lì ogni notte vicino a lui a far sì che lei invochi il sonno. Lei esita,
poi dice che sì, forse è così che ha inteso la cosa, e cioè che egli desiderava averla vicino a sé ma
nascosta dal sonno, il volto cancellato dalla seta nera come da un altro sentimento.
Lei è nell'ombra, separata dalla luce. Il lampadario fasciato di nero illumina solo il punto in cui sono i
corpi. L'ombra del lampadario fa diverse le ombre. Il blu degli occhi e il bianco delle lenzuola, il blu del
nastro e il pallore della pelle si son ricoperti dell'ombra della stanza, quella del verde delle piante sul
fondo del mare. Lei è là, confusa con i colori, e l'ombra, sempre triste di un male a lei sconosciuto. Nata
così. Con quel blu negli occhi. Quella bellezza.
Lei dice che quello che sta vivendo in quel momento con lui le va bene.
Si chiede che cos'altro avrebbe fatto se non si fossero incontrati in quel caffè. E' lì, in quella camera, che
si è svolta la sua vera estate, la sua esperienza, l'esperienza dell'odio per il suo sesso, e per il suo corpo,
e per la sua vita. Lui l'ascolta, diffidente. Lei gli sorride, gli chiede se vuole che continui a parlargli. Lui
dice che non ha niente da insegnargli, che tutto ciò che può dire sono luoghi comuni. Lei dice:
"Non vi parlo di voi, parlo di me davanti a voi. Viene da me, la complicazione. La vostra ripugnanza per
me, non mi riguarda. Viene da Dio, bisogna accettarla come tale, rispettarla come la natura, il mare.
Non è il caso di tradurla nel vostro linguaggio personale."
Guarda la collera repressa nella bocca contratta, negli occhi. Ride.
Tace. La paura arriva nella stanza, a volte, ma quella notte la paura cresce, e non è la paura di morire, è
quella d'esser ridotta male, come da una bestia, d'esser graffiata, sfigurata.
La sala sarebbe immersa nel buio, direbbe l'attore. Il dramma comincerebbe continuamente. A ogni
frase, a ogni parola.
Gli attori potrebbero non essere necessariamente attori di teatro.
Dovrebbero sempre leggere il libro a voce alta e chiara, conservare con tutte le loro forze un'assoluta
mancanza di memoria del testo, avere la convinzione di non conoscerlo affatto, e questo ogni sera.
I due protagonisti della storia occuperebbero lo spazio centrale della scena, vicino alla ribalta. Ci
sarebbe ovunque una luce incerta, tranne nel punto dei protagonisti dove la luce sarebbe violenta e
uniforme.
Intorno, le forme vestite di bianco che si muovono in giro.
Non può lasciarla dormire. Lei è nella casa, chiusa con lui nella casa.
E' mentre lei dorme che gli viene questa idea, a volte.
Ha già preso l'abitudine. Vede che lui cerca di non gridare. Dice:
"Se volete, posso andarmene. Tornare più tardi. O mai. E' nel contratto: restare qui o andarsene, è
uguale."
Si alza, piega le lenzuola. Lui piange. Non trattiene i singhiozzi, sono sinceri, come dopo un gran torto
che gli avrebbero fatto. Lei lo raggiunge contro il muro. Piangono. Lei dice:
"Non sapete ciò che volete."
Lo guarda esistere in quella incoerenza paralizzante che glielo rende bambino. Gli si avvicina come se
condividesse la sua sofferenza, improvvisamente lui stenta a riconoscerla. Lei dice:
"Vi desidero molto, oggi, è la prima volta."
Gli dice di venire. Venite. Dice che è un velluto, un'ebbrezza, ma anche, non creda, un deserto, qualcosa
di malefico che porta anche al delitto e alla follia. Gli chiede di vedere, è una cosa schifosa, criminale,
un'acqua torbida, sporca, l'acqua del sangue, un giorno dovrà pur farlo, almeno una volta, rovistare in
quel luogo comune, non potrà evitarlo tutta la vita. Che sia più avanti o quella sera, che differenza fa?
Lui piange. Lei torna verso il muro.
Lo abbandona a se stesso. Mette la seta nera, lo guarda attraverso.
Aspetta che lei si addormenti. E poi, lo fa spesso, va nella parte della casa che è chiusa. Torna con in
mano uno specchio, va nella luce gialla, si guarda. Fa delle smorfie. Poi si corica e subito dorme, la testa
volta all'esterno, senza muoversi assolutamente, certo per paura che lei si avvicini ancora. Ha
dimenticato tutto.
Tranne quello sguardo qualche giorno fa, o chissà quando, non succede più niente, solo i movimenti del
mare, i traffici notturni, i pianti.
Dormono, voltati uno da una parte uno dall'altra.
E' lei che di solito sprofonda per prima nel sonno. Lui la guarda allontanarsi, andarsene nell'oblio della
camera, di lui, della storia.
Di ogni storia.
Quella notte lei chiama ancora, sempre con quella parola, colpita, ferita, che vuol dire chissà cosa, che
forse è un nome, quello di qualcuno di cui lei non parla mai. Un nome come un suono, cupo e fragile al
tempo stesso, una sorta di gemito.
La stessa notte, più tardi, verso il mattino, mentre crede che lei dorma, anche lui le parla di ciò che è
accaduto la notte precedente.
Dice:
"Devo dirvelo, è come se foste responsabile della cosa che è dentro di voi, di cui niente sapete, e che mi
spaventa perché ingoia e trasforma al suo interno, senza averne l'apparenza."
Lei non dormiva.
Dice:
"E vero, sono responsabile di questo stato astrale del mio sesso dal ritmo lunare e sanguinante. Di fronte
a voi come di fronte al mare."
Si riavvicinano fino quasi a toccarsi. Si riaddormentano.
Prima di quella notte, nel corso delle altre notti, lei non l'aveva mai visto. E non riesce a stancarsi di
vederlo. Gli dice:
"Vi vedo per la prima volta."
Lui non capisce, è subito diffidente e lei, lei lo preferisce così. Gli dice che è bello in un modo in cui
nient'altro è bello al mondo, nessun animale, nessuna pianta. Che potrebbe non esser lì. Non esser
capitato nella trama della vita. Che ha voglia di baciare i suoi occhi, il suo sesso, le sue mani, di cullare
la sua infanzia fino a esserne lei stessa liberata. Dice:
"Nel libro sarà scritto: I capelli sono neri e gli occhi hanno la tristezza di un paesaggio di notte."
Lo guarda.
Gli chiede che cosa gli è successo.
Lui non capisce la domanda e questo la fa ridere. Lo lascia così, in una vaga inquietudine. E poi lei lo
bacia e lui piange. Quando lo si guarda molto intensamente, piange. E lei piange di questo.
Scopre di non saper niente di lei, né il nome, né l'indirizzo, né ciò che fa in questa città in cui lo ha
incontrato. Lei dice: E troppo tardi adesso per saperlo, saperlo o no sarebbe uguale. Dice:
"Sono ormai come voi, alla fine di una lunga e misteriosa sofferenza di cui non so la ragione."
Sotto la luce gialla, il volto nudo.
Lei parla della cosa interiore. All'interno di questa cosa c'è il caldo del sangue. Forse sarebbe possibile
fare come se fosse un luogo diverso, fittizio, e scivolarvi dentro, scivolarvi lentamente fino a
raggiungere il calore del sangue, restare là, e aspettare, nient'altro, aspettare, veder venire.
Lei ripete: Venire una volta per vedere. Che sia adesso o più tardi, non potrà evitarlo.
Lui sente che forse lei piange. Non sopporta il suo pianto, la lascia.
Lei si rimette la seta nera sul volto.
Tace.
E quando lei non chiede più niente che lui va sul sesso acquietato. Lei allarga le gambe perché lui si
metta nell'incavo.
E' nell'incavo delle gambe aperte.
Posa la testa sul socchiudersi della cosa interiore.
Sta con il volto contro il monumento, già nel suo umidore, quasi sulle sue labbra, nel suo respiro.
Rimane a lungo là, in una docilità che fa venire le lacrime, con gli occhi chiusi, sulla piana superficie
del sesso abominevole. Allora lei gli dice che è lui il suo vero amante, per via di quella cosa che le ha
detto, di non voler mai niente, e la sua bocca è così vicina, non può resistere, deve farlo, amarla con la
sua bocca, amarla come lei ama, lei, lei ama chi la fa godere, grida che lo ama, di farlo, per lei lui è uno
qualunque, come lei per lui.
Grida ancora mentre lui allontana il volto.
Non grida più.
Lui si rifugia contro il muro, vicino alla porta. Dice:
"Bisogna lasciarmi perdere, è tutto inutile, non potrò mai."
Lei si sdraia, il volto contro il pavimento. Grida di collera, si trattiene dal colpire, poi non grida più,
piange. E poi si addormenta.
Lui si avvicina. La sveglia, le chiede di dire che cosa crede. Lei crede che sia già troppo tardi perché si
separino.
Si volta dall'altra parte. Lui ritorna verso il muro. Lei dice:
"Forse l'amore si può vivere così, in un modo spaventoso."
Dorme sotto la seta nera fino a giorno fatto.
All'indomani lei va contro il muro. E ancora tutta la notte dorme. Lui non la sveglia. Non le parla. Lei se
ne va all'alba. Le lenzuola sono piegate. La luce accesa. Lui dorme, non la sente andar via.
Lui resta nella camera. La paura, all'improvviso, di essere abbandonato.
C'è un temporale. Lui resta là, non spegne il lampadario, resta nella luce.
La sera di quel giorno lei non c'è. L'ora del suo arrivo è passata. Lui non dorme. L'aspetta per ucciderla,
con le sue mani, ucciderla.
Arriva nel cuore della notte, molto tardi, è quasi l'alba. Dice che è in ritardo per via del temporale. Va
verso il muro che dà sul mare, sempre in quel punto. Sicuramente crede che lui non dorma. Getta i suoi
abiti a terra, come fa di solito, sempre con quella precipitazione verso il sonno. Si mette nelle lenzuola,
si gira verso il muro. Sprofonda nel sonno tutto a un tratto, dorme.
Quando è addormentata lui le parla. Le dice che sarà cacciata prima della scadenza. Si direbbe che lei
non lo senta, che non senta più niente.
Lui piange.
Piange solo quando lei è lì, in quel luogo che è solo suo e che lei ha invaso. Piange solo in quel caso, nel
caso che lei sia lì mentre lui vorrebbe che ci sia solo quando lui lo ordina. Ben presto il pianto diventa
senza ragion d'essere, come il sonno. Lui piange come lei dorme.
A volte però lei piange nella notte, senza rumore.
Mentre lei dormiva, nascosta nelle lenzuola, gli è certo venuta voglia di servirsi di quella donna, di
andare a vedere nella cavità calda del sangue, di goderne di un godimento anomalo, sconveniente. Ma,
per questo, sarebbe stato necessario che lei fosse morta, e lui, invece, aveva dimenticato di ucciderla.
Le dice che ha mentito sulle ragioni del ritardo. E sempre quella, la parola che gli viene alle labbra:
mentire. Prova ne sia che lei dorme.
Può ben parlare, lui: lei dorme, mente come le altre donne mentono, lei dorme.
Lui grida: Domani lascerà la camera per sempre. Vuole stare tranquillo.
Ha altro da fare che non il poliziotto in casa propria. Chiuderà la porta, lei non entrerà più.
Spegnerà le luci affinché il luogo le sembri deserto. Le dirà: Non è più il caso di venire, mai più.
Chiude gli occhi. Cerca di sentire, di vedere: la camera è nera. Di sotto la porta non filtra alcuno sprazzo
di luce. Lei batte, lui non risponde, allora lei grida di aprire. Il nome non lo sa; chiede che le si apra.
Sono io, aprite. Lui può immaginarla sola nella città o in mezzo a quella gente laggiù sulla spiaggia, l'ha
già fatto, l'ha già immaginata quando per esempio viene ed è già buio. Ma non può immaginarla davanti
alla porta chiusa. Capirebbe subito, lei. Sì, lei è così, capirebbe subito che la porta chiusa è una finta. Di
sicuro lo saprebbe vedendo che non vi è più luce.
Si sbaglia. Ricomincia: no, lei non griderà, se ne andrà senza aver bussato alla porta e per non tornare
mai più. Il gesto di uccidere, di abbandonare per sempre, di andarsene per sempre, se dovesse compiersi,
è lei che lo farebbe. Guardandola dormire, improvvisamente lui lo sa: è una persona che non torna
perché è una persona che crede a ciò che le si dice. Allo stesso modo, lei dorme, gli crede.
Lui dorme a lungo. Quando si sveglia, è mattina tardi. Il sole è alto.
Lo si vede dai fori della porta, la sua luce spumosa filtra, di una luminosità d'acciaio.
Lei non è più nella camera.
Debolezza che dà nausea, all'improvviso, fin nella testa, ma particolare, personale. Infelicità, ma quale
lui l'ha creata. Ne conosce l'economia, la materia.
Spegne il lampadario dalla luce gialla. Si sdraia sul pavimento della camera, a più riprese si addormenta,
si risveglia, non va a mangiare nella cucina della casa chiusa. Non apre la porta, resta nella camera.
Sta nella camera, nella solitudine.
Quando si avvicina l'ora del suo arrivo, decide che lei dovrà andarsene, ma da sola, che da sola dovrà
arrivare a capire che lui non può ordinare niente, mai.
Vorrebbe parlare con qualcuno. Ma non c'è nessuno, lei non è lì per parlare. La sofferenza è chiara,
diffusa nella camera, nella testa, nelle mani, la sofferenza toglie forza, placa la solitudine, lo lascia là, a
pensare che forse sta per morire.
Contro il muro, le lenzuola che lei ha piegato. Le ha posate con cura a terra, come farebbe un'invitata.
Lui va verso le lenzuola piegate, le apre e se ne ricopre: il freddo, all'improvviso.
La sera lei bussa alla porta rimasta aperta.
Per quanto riguarda i protagonisti della storia, direbbe un attore, non si saprebbe chi sono né perché.
A volte, per poterli guardare, li si abbandonerebbe a se stessi, nel silenzio, un lungo momento: intorno a
loro, gli attori immobilizzati, muti, e loro, nella luce, sorpresi da quel silenzio.
Spesso lei dorme. E lui la guarda.
tante volte, nei movimenti del sonno, le loro mani si toccano ma per evitarsi subito.
Sarebbero accecati dalla luce, e sarebbero nudi, il sesso nudo, creature senza sguardo, esposte.
Durante le notti che seguono, non accade nulla, solo il sonno. Si va verso un certo oblio degli
avvenimenti dell'estate.
A volte, per distrazione, i corpi si avvicinano e si toccano e si produce un risveglio leggero, subito
sopraffatto dal sonno. Dopo essersi toccati, e proprio per questo, i corpi non si muovono più. Questo,
finché uno dei due si volta e si allontana. Ma non avviene niente che sia chiaro. Senza uno sguardo,
sempre. Senza una parola.
A volte parlano. Ciò che dicono non si riferisce affatto a quanto avviene nella camera, se non nel senso
che non dicono niente di quella camera.
A volte lei si gira, si difende da una minaccia esterna, dal grido di un animale, dal vento contro la porta,
dalla sua bocca dipinta, dalla dolcezza del suo sguardo. Si riaddormenta sempre. A volte, intorno
all'alba, toccherebbe strati più profondi di assenza. Solo il respiro permane, a volte. A volte pare di avere
accanto una bestia addormentata.
Al mattino, la sente che se ne va. Ma appena. lui non si muove. Si potrebbe credere che è anche lui in
quella stessa assenza opprimente del mattino. E lei fa come se lui dormisse veramente.
A volte si può dire che ciò che accade è solo questa menzogna.
Quando scende la notte, lei è là, all'ora convenuta, il corpo disposto sulle lenzuola bianche, nuda, nella
luce del lampadario.
Fa la morta, il volto cancellato sotto la seta nera. E quel che lui pensa nei giorni brutti.
Di certo è ancora notte. Da fuori, ancora nessuna luce. Intorno alle lenzuola bianche, l'uomo che
cammina, che gira.
Il mare è arrivato davanti alla camera. Il mattino non dev'esser lontano. Il mare insonne è là, molto
vicino ai muri. E' il suo rumore, più lento, fuori, che porta a morire.
Lei ha aperto gli occhi.
Non si guardano.
La cosa dura da diverse notti. Non vi è definizione esterna possibile per dire ciò che stanno vivendo.
Non vi è soluzione per evitare la sofferenza.
Lei dorme.
Lui piange.
Piange su un'immagine lontana della notte d'estate. Ha bisogno di lei, della presenza di lei nella camera
per piangere il giovane straniero, occhi blu capelli neri.
Senza lei nella camera l'immagine resterebbe sterile, farebbe inaridire il suo cuore, spegnere il desiderio.
Il corpo, non l'aveva visto. Solo che portava abiti bianchi, una camicia bianca.
Pallido, era pallido, veniva dal nord, dal paese segreto.
Alto.
La voce, chissà.
E' immobile. Rifà il tragitto dal parco dell'hotel fino alla finestra della hall.
Ascolta, a occhi chiusi. Sente il grido. Continua a non cogliervi alcuna parola, alcun senso. Quando apre
gli occhi è già troppo tardi, il corpo dagli occhi blu avanza in silenzio verso la finestra aperta.
A lei, non parla di lui. L'idea non lo sfiora. Non parla della sua vita.
Non gli è mai venuto in mente che si potesse farlo. Non ci sono le parole né la frase per mettervi dentro
le parole. Perché gli uomini si dicano quel che a loro accade c'è il silenzio o il riso o qualche volta, con
le donne, piangere.
Lei lo guarda. E' così che lo vede quando non c'è, com'è adesso. Pieno d'immagini mute, ebbro di
sofferenze diverse, del desiderio di ritrovare un oggetto perduto come di acquistarne uno che non ha
ancora e che diventa improvvisamente la sua ragione d'essere, quel vestito, quell'orologio, quell'amante,
quell'auto. Ovunque sia, qualunque cosa faccia, un disastro, sempre.
Lei può guardarlo a lungo, notti intere. Lui si accorge che i suoi occhi sono aperti. Le sorride co-' me se
fosse in qualche modo smascherato, contrito, sempre in quell'interminabile scusa di vivere, di doverlo
fare.
Lei parla per piacergli.
Dice che abita in quella città durante l'estate. Che vive non lontano da lì, in una città universitaria, dov'è
nata. Che è una provinciale.
Le piace molto il mare, quella spiaggia soprattutto. Lì, non ha una casa. Vive in albergo. Preferisce.
L'estate, è meglio. Per le pulizie, le colazioni, gli amanti.
Lui comincia ad ascoltare. E' un uomo che ascolta tutto ciò che si dice con uguale passione. A un punto
tale che non se ne capisce la ragione.
Le chiede se ha degli amici. Ne ha, sì, sia qui che nella città in cui abita d'inverno. Amici da sempre?
Qualcuno sì, ma naturalmente si tratta soprattutto di gente che lei ha conosciuto all'università. Perché, è
all'università? Sì, si occupa di scienze. E' anche docente incaricata di scienze, sì. Parla di sé. Lui dice di
aver capito che lei aveva fatto studi superiori. Lei ride. Ride anche lui, turbato di aver colto quanto fosse
profonda la loro connivenza. Poi, bruscamente, vede che lei non ride più, lo abbandona, lo guarda come
se lui fosse adorabile, o morto. E poi vede che ritorna.
Nel suo sguardo resta un barlume dello smarrimento che ha attraversato in sua presenza.
Non parlano di quella paura. Lei è meno consapevole di lui che qualcosa è successo. Restano a lungo
discosti, a cercar di ritrovare la cosa accaduta quando si sono guardati, quello spavento di cui non hanno
ancora conoscenza.
A lui piace molto pensare che lei sia venuta nella camera e abbia accettato il denaro perché è pazza. Sa
che è ricca, lui sa cogliere quel genere di cose. Le dice che, se si mettesse ad amarla, sarebbe soprattutto
per questo, per la sua ricchezza, per la sua follia.
Una notte, come in risposta a tutti quei discorsi, lei scopre sui suoi polsi le tracce sottili della lametta da
barba. Di questo lui non ha mai parlato. Lei piange. Non lo sveglia.
All'indomani, lei non viene. Torna solo due giorni dopo. Non dicono niente di quell'assenza. Lui non fa
domande. Lei non parla.
Tornerà nella camera come faceva di solito prima della scoperta di quelle tracce sulle braccia.
Il rumore del mare si è allontanato. Il giorno è ancora lontano.
Lei si sveglia, gli chiede se è ancora notte. Lui dice si, è ancora notte. Lei guarda a lungo quell'uomo che
dorme male, lo sa. Dice: Ho ancora dormito molto.
Gli dice che, se vuole, può parlarle mentre lei dorme. Può anche svegliarla se lo desidera per farle
ascoltare quello che dice. Non è più stanca come quella volta nel caffè in riva al mare. E se desidera
anche quello, mentre lei dorme può anche baciarle gli occhi, le mani, come quella volta nel caffè.
Quando lei sarà addormentata di nuovo, a notte fonda, lui lo farà.
La seta nera sarà scivolata via e il volto sarà nudo sotto la luce. Lui le toccherà le labbra con le dita,
quelle del s'esso, anche, bacerà gli occhi chiusi, il blu che sfugge sotto le dita. Toccherà anche certe parti
del suo corpo, corrotte e criminali. Quando lei si sveglierà, glielo dirà:
"Ho baciato i vostri occhi."
Lei si rimetterà giù, metterà ancora la seta nera sul volto. Lui si sdraierà contro il muro e aspetterà il
sonno. Lei ripeterà la frase che lui ha detto, ma con la dolcezza di lui, la sua intonazione: Ho baciato i
vostri occhi.
Nel cuore della notte, lei ha un attimo come di spavento. Si tira su, dice che un giorno avranno superato
il numero delle notti previste e non lo sapranno. Lui non sente. Quando dorme, non sente. Lei torna a
sdraiarsi, fa fatica a riaddormentarsi, lo guarda, lo guarda, senza fine, e gli parla e ciò che gli dice,
quell'amore, la fa piangere.
Lui cammina nella camera intorno alle lenzuola bianche, lungo il muro.
Le chiede di non dormire. Di restar nuda, senza la seta nera. Cammina intorno al corpo.
A volte, lui resta con la fronte appoggiata al muro freddo, là dove batte poderoso il mare.
Lei chiede che cosa sente attraverso il muro. Lui dice:
"Tutto. Grida, colpi, esplosioni, voci."
Sente anche la Norma. Lei scoppia a ridere. Lui interrompe il suo camminare. La guarda ridere, stupito
di quel riso. Le si avvicina e sta lì a guardarla ridere, ridere, ridere, portar via tutta la loro storia in una
risata irrefrenabile.
Lei gli chiede: Ma chi canta la Norma? Lui dice che è la Callas, non c'è che lei per cantare Bellini. Ma
dove si canta la Norma alle quattro del mattino, lì, in quel posto? Lui dice che c'è qualcuno in un'auto,
lungo la spiaggia, non ha che da ascoltare... Lei ascolta e ride ancora: non c'è niente. Allora lui dice che
se vuole ascoltare la Norma, si può fare: in casa c'è un giradischi. Lei lo lascia andare. Ha richiuso la
porta e poco dopo la camera si è riempita della voce della Callas.
Lui ritorna. Chiude la porta alle sue spalle. Dice: Non avrei mai osato imporvela.
Quando lui ascolta la Norma, lei gli bacia le mani, le braccia. Lui lascia fare.
All'improvviso, brutalmente, lui torna nell'altra stanza, ferma il disco. Esce.
E sulla terrazza. La luna è sparita. Il cielo è assolutamente senza nuvole, lo si potrebbe credere blu. C'è
bassa marea, la spiaggia è scoperta oltre i moli del canale, è diventata una grande landa abbandonata,
solcata di laghi, erosa. Continua il va e vieni della gente sull'orlo della spiaggia, uomini soprattutto.
Certi, invece, passano vicino al muro della camera. Senza guardare. Per molto tempo lui non aveva
saputo niente di quei traffici, pensava che quelle persone andassero a fare un lavoro di notte là dove si
pesca o nei mercati delle vicinanze. Aveva lasciato quella città molto giovane, a un'età in cui non poteva
ancora sapere. Era rimasto a lungo lontano. Da poco era tornato a viverci, da qualche mese soltanto. Di
lì, era regolarmente andato via. Sempre per ragioni sentimentali. E fino a quel momento era sempre
tornato. Aveva solo quella casa, perciò non aveva mai cercato un altro posto dove tornare a vivere.
Ricorda: quando è lontano di lì, non guarda il mare, neanche quando il mare è là, alla sua porta.
Non fa niente, lui. E' qualcuno che non fa niente e il cui stato d'inazione occupa la totalità del tempo.
Forse lei lo sa, che non lavora. Un giorno, gli ha detto che in quella città vi era molta gente che non
lavorava, che viveva affittando ville per l'estate.
Gente che passa, sempre: alcuni vanno verso la città, camminano nella direzione della foce del fiume,
sono quelli che ritornano. Gli altri vanno verso il labirinto di pietre, verso gli ammassi scuri.
Camminano come quelli che rincasano, senza guardare, senza vedere.
In lontananza, verso il nord, si distingue il punto degli ammassi di pietre dal resto dell'orizzonte. E in
fondo a una collina calcarea, una massa scura. Ora ricorda, c'erano delle cabine sfondate, una casamatta
tedesca precipitata dalla scogliera.
Nella camera, lei è seduta sotto il lampadario dalla luce gialla.
Qualche volta, come questa sera, quando lui rientra dalla terrazza, ha dimenticato che nella camera c'è
quella donna.
Gli torna in mente che quella sera lei era leggermente in ritardo sull'orario abituale, non gliene ha
parlato però. Se ne preoccupa, non già perché ha dimenticato di farglielo presente, piuttosto perché teme
che quel ritardo possa assumere una certa importanza più avanti, nei giorni che verranno, quando
arriverà a credere che ha preso ad amarla.
Lei è in piedi nella luce del lampadario, girata verso la porta. Lo guarda venire avanti nella camera come
ogni giorno con la stessa emozione della prima volta in quel caffè in riva al mare. Il corpo è nudo, le
gambe sono lunghe e magre, da adolescente, lo sguardo è esitante, di una dolcezza incredibile. Lui tiene
gli occhiali in mano, non la vede bene.
Dice ch'era in riva al mare a guardare quella gente come in un libro che lei avrebbe scritto. Non era
andato via. Non se ne andava più come faceva una volta. Non aveva più pensato di andarsene già da
molti giorni.
Da quando lei era nella camera aveva preso quell'abitudine di andare sulla terrazza, di notte, e guardare
il mare.
Tacciono insieme come fanno spesso, a lungo.
E' lei che parla, turbata dal silenzio.
E' vero, non si sente più niente, neppure il solito rumore del mare e del vento confusi insieme. Lui dice:
Il mare è molto lontano, quasi piatto, è vero, non si sente più niente.
Lei si guarda intorno. Dice: Nessuno può sapere che cosa succede in questa stanza. E neppure può dire
che cosa succederà più tardi. Dice che le due cose sono ugualmente spaventose per chi li guarda. Lui è
stupito: Chi li guarda? Gli abitanti della città. E' evidente che la casa non è vuota: attraverso le imposte
chiuse vedono che c'è luce e si chiedono...
Che cosa, si chiedono? Se non è il caso di chiamare la polizia. La polizia chiede: Per quale ragione siete
qui? E loro non ne trovano, ragioni. Ecco.
Lui dice: Un giorno non ci conosceremo più. Molto presto la casa sarà vuota, venduta. Io non avrò figli.
Lei non lo ascolta, parla da sola. Dice: "Forse qualcuno, da fuori, potrebbe arrivare a sapere ciò che sta
avvenendo nella camera. Qualcuno che semplicemente li guarderebbe dormire e saprebbe, partendo dal
sonno, dalla posizione dei corpi, se quelli della camera si sono amati.
Lei trova anche che è troppo tardi, che dormono troppo a lungo ogni giorno. Non dice per fare che cosa,
dal momento che non hanno aspettative. Lo dice in un altro modo: dice che hanno bisogno di tempo per
pensare a loro stessi, ai loro destini.
Lei vorrebbe che lui le ricordasse ciò che ha detto poco prima, quando si è svegliata. Le succede di
parlare nel dormiveglia e non ricordarsi bene, al risveglio, di quello che ha detto. Ma adesso ricorda
perfettamente una voce di donna che assomigliava alla sua, e una frase complicata, dolorosa, strappata
dalla propria carne, che lei non aveva del tutto compreso e che l'aveva fatta piangere.
Ora ricorda quello che ha detto dormendo. Ha parlato del tempo che passa nella camera. Vorrebbe tanto
sapere come esprimere quel desiderio di tenere stretto a sé quel tempo che passa, faccia contro faccia,
corpo contro corpo, vicini. Dice che parla di quel tempo fra le cose, fra le persone, quello che gli altri
buttano, senza importanza per loro, per quella gente perduta. Ma dice che è forse il non parlarne che lo
fa esistere, quel tempo che lei cerca di ritrovare.
Piange. Dice che la cosa più terribile è l'oblio degli amanti, di quei giovani stranieri, occhi blu capelli
neri. Lui resta immobile, lo sguardo distolto. Lei si sdraia, si copre con le lenzuola e, il volto, lo
nasconde con la seta nera. Lui si ricorda che di tempo che passa si deve trattare nelle strane parole che
talvolta lo fanno svegliare.
Chiacchiera.
Lo fa spesso, di notte. Lui ascolta con attenzione tutto ciò che lei va dicendo. Questa notte, lei dice che
quando si saranno lasciati non ricorderanno nessuna notte particolare, nessuna parola, nessuna
immagine che sia separata dal resto delle parole, dal resto delle immagini. Che avranno un ricordo fisso
del vuoto della camera, del fondale di luce gialla, delle lenzuola bianche, delle pareti.
Si sdraia accanto a lei. Non la interroga. Improvvisamente, lei è molto stanca, sta quasi per piangere. Lui
dice: Avremo anche il ricordo della seta nera, della paura, della notte. Dice: Del desiderio, anche. E lei:
E vero, del desiderio reciproco di cui non facciamo niente.
Lei dice: Abbiamo mentito. Non vogliamo sapere ciò che avviene nella camera. Lui non chiede perché
sia così stanca.
Si rigira su se stessa. Si stende quanto è lunga ma resta là senza accostarsi a lui, il volto sempre sotto la
seta nera.
Dice che è stata con un uomo prima di venire da lui, e ha goduto molto intensamente con quell'altro
uomo, con quel desiderio che ha di lui e questo l'ha stancata.
Per un po' da lui non giunge alcun segno di vita. Poi, parla. Chiede com'era quell'uomo, il suo nome, il
suo modo di godere, la sua pelle, il suo sesso, la sua bocca, le sue grida. Chiede fino all'alba. Solo alla
fine, il colore degli occhi. Lei dorme.
La guarda. Nella massa inanellata dei capelli, nella profondità di quella lucentezza nera, bagliori rossicci
che ricordano quelli delle ciglia. E gli occhi, una pennellata di blu. E dalla fronte fino ai piedi, quella
simmetria del corpo a partire dall'asse del naso, della bocca, nel corpo tutto quella reiterazione, quella
ripetizione regolare delle cadenze e della forza e della fragilità. La bellezza. Le dice che è bella. Bella
più di ciò che ha mai visto. Le dice che la prima sera, quando era apparsa alla porta della camera, lui ne
aveva pianto. Questo, lei non vuol saperlo, non vuol più sentir niente di ciò che si dice di questa
calamità.
Lui le ricorda che già tre giorni prima lei era in ritardo sull'orario abituale. Le chiede se era a causa di
quell'uomo. Lei cerca di ricordare. No, non era a causa sua. Il giorno che intende lui, quell'uomo l'aveva
abbordata sulla spiaggia. Solo oggi erano andati nella camera dell'hotel per la prima volta.
A partire da quella sera, lei arriverà più tardi di quel che dovrebbe.
Di sua spontanea volontà non dice perché è in ritardo. Bisogna che lui glielo chieda, allora lo dice. E a
causa di quell'uomo, lo rivede nel pomeriggio e restano insieme fino all'ora del contratto, quando lei
viene in quella camera per passarvi la notte. Quell'uomo conosce la sua esistenza, lei gliene ha parlato.
Anche lui gode in modo molto violento del desiderio che lei ha per un altro uomo.
Quando gli parla di quell'uomo, i suoi occhi lo guardano, sempre. Molto spesso lei parla mentre sta per
prender sonno.
Quando si addormenta, lui lo sa dalla sua bocca che si socchiude, dagli occhi che cessano di tremare
sotto le palpebre e di colpo sprofondano verso l'interno del volto. Allora lui la fa scivolare dolcemente
verso il pavimento, nel campo del suo sguardo. Lei dorme. Lui guarda. Rimuove la seta nera, guarda il
volto. Il volto, sempre.
Questa sera, il trucco degli occhi è stato smangiato dai baci dell'altro uomo. Le ciglia sono nude, hanno
il colore rossiccio della paglia. Sui seni, qualche piccolo livido. Le mani sono aperte, hanno come
un'ombra di sporcizia e il loro odore è cambiato.
Quell'uomo esiste come lei lo dice.
La sveglia.
Le chiede tutto in una volta da dove viene, chi è, la sua età, il nome, l'indirizzo, la professione.
Lei non dice niente. Né da dove viene. Né chi è. Non dà il suo nome.
Basta. Lui non insisterà. Parlerà d'altro.
Dice: Nei vostri capelli, sulla vostra pelle, c'è un profumo nuovo, difficile dire cos'è.
Lei abbassa gli occhi per dirlo. Non è più soltanto il suo profumo, è anche quello dell'altro uomo. Se lo
desidera, lei verrà portandosi addosso solo il profumo di quell'uomo, domani, se lo desidera. Lui non
dice se lo desidera.
Una notte le chiede perché sia venuta al suo tavolo nel caffè in riva al mare. Perché abbia accettato il
contratto delle notti bianche.
Lei riflette. Dice:
"Perché non appena siete entrato in quel caffè nello stato in cui eravate, in quel dolore tranquillo,
ricordate: avevate voglia di morire, a mia volta ho voluto morire in quel modo teatrale ed esteriore.
Volevo morire con voi. Mi sono detta: Mettere il mio corpo contro il suo corpo e aspettare la morte.
Come certo immaginate, ho alle spalle un'educazione che avrebbe dovuto farmi credere che voi eravate
un poco di buono e bisognava che io avessi paura di voi, ma voi piangevate, ho visto solo questo e sono
rimasta. E' stato al mattino, su quella strada statale, quando avete detto che volevate pagarmi, che vi ho
guardato tutto. Ho visto gli abiti da clown e il khol blu intorno agli occhi.
Allora ho saputo che non mi ero sbagliata, che vi amavo perché, contrariamente a quello che mi
avevano insegnato, non eravate né una canaglia né un assassino, eravate uscito dalla vita."
Lui crede di cogliere nel sorriso lo spasmo delle lacrime, l'assenza e, nello sguardo, la nuova ipocrisia,
quella che sopravviene quindici giorni dopo l'inizio delle cose. Ne è spaventato.
Lei dice:
"Non vi conosco. Nessuno può conoscervi, mettersi al vostro posto, voi non avete posto, non sapete
dove trovare un posto. Per questo vi amo e per questo siete perduto."
Lei chiude gli occhi. Dice: "In questa casa in riva al mare, voi siete perduto come un popolo senza
discendenza. In quel caffè, ho visto che volevate avere quella reputazione, quello status, sono rimasta
con voi in un momento della mia vita - nel pieno della mia gioventù - in cui ero come se questo popolo
smarrito fosse anche il mio."
Si ferma, lo guarda, poi gli dice che durante le prime ore del loro incontro lei aveva saputo che si era
messa ad amarlo come si sa che si è cominciato a morire.
Lui chiede se è abituata alla morte.
Lei dice che crede di sì, è la cosa cui ci si abitua meglio. Dice: "Dopo, al termine della notte, era già
troppo tardi perché rifiutassi.
E' sempre stato troppo tardi per non amarvi più. Il denaro, pensavate, doveva confermare la morte, e per
questo voi mi avevate pagata, per non amarvi. E io, in tutti quegli stratagemmi, ho visto solo che eravate
ancora molto giovane e i vostri espedienti di denaro non sono serviti a niente."
Vuole sapere di quell'uomo in città.
Lei gli dice: Si vedono nel pomeriggio in una camera d'albergo che lui ha preso in affitto a mese per
incontrarsi durante il giorno. Restano insieme in quella camera fino all'ora del contratto.
Le capita di addormentarsi, ecco la causa dei ritardi, è lui che la sveglia di solito e se lui non c'è lei non
si sveglia. A volte, anche, uscendo dalla camera lei va direttamente in quell'albergo e vi resta fino alla
sera dopo.
Gli comunica di aver dato le dimissioni dal suo posto d'insegnante. Lui la sgrida. Stupida, pazza che non
è altro, dice. Non sarò io a mantenervi, non contateci. Lei ride, ride, e lui finisce per ridere con lei.
E' sdraiato accanto a lei. Lei sta sotto la seta nera con gli occhi chiusi, accarezza gli occhi, la cavità degli
occhi, la bocca, la linea del volto, la fronte. Cerca alla cieca un altro volto, attraverso la pelle, le ossa.
Parla. Dice che quell'amore è terribile a viversi quanto l'immensità indiana. E grida.
Toglie le mani dal volto dell'uomo della camera come se scottasse, si allontana da lui, va a gettarsi
contro il muro del mare. E grida.
Singhiozza. Scopre in quell'istante di essere davanti alla perdita di ogni ragione di vita.
La cosa accade all'improvviso, con la subitaneità della morte.
Lei chiama qualcuno con voce molto bassa, soffocata, lo chiama come fosse lì, come farebbe con un
morto, al di là dei mari, dei continenti, col nome di tutti lei chiama un uomo solo con quella sonorità
centrale della vocale-singulto d'Oriente, quella scaturita da sotto i tetti dell'hotel des Roches alla fine di
quella giornata d'estate.
Piange lontano da lui, lontano dall'uomo che è lì, indipendentemente da lui, al di qua di ogni storia,
piange la storia che non è stata.
L'uomo è ridiventato l'uomo della camera. E' solo. Prima, quando lei ha gridato, non l'ha guardata, si è
alzato per andarsene, per fuggire. E poi ha sentito il nome. Allora è tornato lentamente vicino a lei. Ha
detto:
"E' strano, cerco di ricordare al vostro posto, come se fosse possibile, mi sembra di poterlo fare,
ritrovare le circostanze, il luogo, le parole... e nello stesso tempo so che è impossibile perché... una cosa
simile, così tremenda, sarebbe straordinario che l'avessi dimenticata."
E' come se non avesse parlato. Lei resta lontano da lui, la faccia contro il muro, gli dice di andar via. Gli
chiede di andare in un'altra stanza, di lasciarla sola.
Per un giorno intero resta nella camera.
Quando lui torna in quella stanza, lei è nel riquadro della porta aperta, vestita di bianco.
Sorride. Dice: "E' lo spavento."
Lui chiede che cosa la spaventi. Lei dice:
"La nostra strana storia."
Le chiede cosa le sia successo. Lei dice che stava accarezzando il suo volto, proprio il suo, ma che, certo
senza rendersene conto, senza che lei stessa lo sapesse, aveva cercato un altro volto. E che
all'improvviso sotto le sue mani c'era stato quell'altro volto.
Le ragioni che lei dà, lui non le prende in considerazione. Lei dice:
"Non capisco, era come un'apparizione, per questo ho avuto tanta paura."
Lei dice che sono come se fossero imprigionati insieme in un libro e che, con la fine del libro,
torneranno a dissolversi nella città, di nuovo separati.
Parlerà dell'incidente con leggerezza. Dirà: "Avrebbe potuto benissimo accadere lontano da qui, molti
anni fa, in un paese straniero, durante un'estate abbagliante, come quelle vacanze mortalmente tristi e
che vi facevano piangere, avrebbe potuto essere dimenticato perfino nei sogni, dimenticato per sempre,
e ritornare all'improvviso sotto la mano con la forza di una prima volta, di un amore folle,
improvvisamente."
Lui dice che comincia a dimenticare gli occhi del giovane straniero, occhi blu capelli neri. Qualche
volta, al risveglio, dubita perfino che la storia sia mai esistita. Come quel volto che lei cercava senza
saperlo, quello del giovane straniero deve mascherarne un altro per lui, uno futuro. Dice che il volto
cieco di cui ancora si ricorda ora gli appare ostile, brutale.
Gli dice che era sicuramente lui che lei voleva amare, da sempre, un falso amante, un uomo che non
ama.
Lui dice:
"Ero dunque già io prima che mi conosceste."
"Sì, come il ruolo a teatro, ancor prima di sapere che esistevate."
Lui prova un certo spavento. Non gli piace che si parli di questo, di certe cose. Dice che hanno parlato
di ciò che non conoscono. Lei non ne è sicura. Dice:
"Vi sbagliate, forse non è così. In certo qual modo si conosce tutto, tutto e tutti intendo dire. Guardate la
morte, come la si conosce bene."
Lui resta a lungo immobile nella luce gialla, nella spaventosa sonorità delle parole. Le dice di venire più
vicina. Lei lo fa, si stende molto vicino a lui ma senza minimamente toccare il suo corpo. Lui chiede se
è il volto di qualcuno che è morto quello che lei ha trovato sotto la mano.
Lei impiega un po' di tempo a rispondere. Dice di no, sicuramente no.
Lui vorrebbe che lei venisse nella luce. Ancora non può farlo, gli chiede di lasciarla stare. Lui non
desiste, la interroga e lei, lei risponde:
"Perché avete gridato?"
"Perché ho creduto a un castigo del Cielo."
Dormono, si svegliano, lui chiede ancora com'era quell'amore, com'era vissuto. Lei dice;
"Come un amore che ha un inizio e una fine, indimenticabile anche quando lo si è dimenticato, non
ricordo più."
Lei dice che si dovrebbe riuscire a vivere come fanno loro, il corpo abbandonato in un deserto e, nello
spirito, il ricordo di un solo bacio, di una sola parola, di un solo sguardo per tutto un amore.
Lei dorme.
Lui dice: Era una sera eccezionalmente tiepida, non un soffio di vento, tutti fuori a parlare della mitezza
del clima, una temperatura coloniale, l'Egitto in primavera, le isole del Sudatlantico.
Alcune persone guardavano il tramonto, la hall sembrava una gabbia di vetro posata sul mare.
All'interno, c'erano donne e bambini, parlavano della sera d'estate, dicevano che era molto raro, tre o
quattro volte in tutta la stagione, forse neppure,, bisognava approfittarne prima di morire perché chissà
se Dio avrebbe regalato altre estati così belle.
Gli uomini erano fuori, sulla terrazza dell'hotel, li si sentiva altrettanto distintamente delle donne nella
hall, anche loro parlavano delle estati passate. Le parole erano le stesse, e anche le voci erano
ugualmente leggere e vuote.
Lei dorme.
"Ho attraversato il parco dell'hotel, mi sono avvicinato a una finestra aperta, volevo andare sulla terrazza
con gli uomini, ma non ho osato, sono restato là a guardare le donne. Era bella, quella hall posata sul
mare al centro del sole."
Lei si sveglia.
"L'ho visto dopo essere arrivato vicino alla finestra, un attimo dopo.
Doveva essere entrato dall'ingresso del parco. L'ho visto mentre attraversava la hall, a metà del
percorso. Si è fermato a pochi metri da me." Sorride, cerca di scherzare, ma le mani gli tremano.
"E là che è successo. Quell'amore di cui non vi ho parlato, era là. E' là che ho visto per sempre un
giovane straniero, occhi blu capelli neri, colui per il quale volevo morire quella sera davanti a voi, nel
caffè in riva al mare" - sorride, vagamente ironico, ma trema ancora.
Lei lo guarda, ripete le parole per poterle dire: Un giovane straniero, occhi blu capelli neri.
Sorride, chiede: Quello di cui mi avete già detto, quello che è andato via con la donna vestita di bianco?
Lui conferma: Sì, è così.
Lei dice:
"Sono passata dalla hall, quella sera, ma solo un momento, per raggiungere qualcuno che doveva
lasciare la Francia."
Ricorda il brusio delle donne nella hall, l'eco di certe parole sull'eccezionale bellezza di quella sera di
fine estate.
Della serata per se stessa, però, non ricorda niente.
Cerca di ricordare. Sì, c'era uno stupore generale davanti alla eccezionalità di una sera della quale si
parlava come di qualcosa da preservare dalla morte per poterla raccontare più tardi ai figli. E ricorda
anche che lei avrebbe voluto invece seppellirla, quella sera d'estate, ridurla in cenere.
Tace a lungo. Piange.
Dice che «ricorda soprattutto il cielo rosso, attraverso le tende abbassate della camera dell'hotel des
Roches dove faceva l'amore con un giovane straniero che non conosceva, che aveva gli occhi blu e i
capelli neri.
Piange lui, adesso. Poi tace. Si allontana.
Lei dice che ci sono tanti stranieri che vengono lì d'estate per imparare il francese, e hanno sempre i
capelli neri, qualche volta gli occhi blu. E aggiunge: E la carnagione un po' olivastra come certi
spagnoli, avete notato? Lui ha notato, sì. Le chiede se a un certo punto della notte non c'era stato accanto
a lei, nella hall, per un attimo, qualche secondo appena, un altro uomo molto giovane vestito di bianco,
un altro giovane straniero, occhi blu capelli neri. Lei chiede:
"In bianco, dite?"
"Mi sembra, si, ma non sono più sicuro di niente. Vestito di bianco.
Bello."
Lei lo guarda, ed è lei a chiedere:
"Chi è quest'uomo?"
"Non lo so. Non l'ho mai saputo."
"E perché sarebbe straniero?"
Lui non risponde. Lei piange, gli sorride fra le lacrime.
"Forse perché è partito per sempre?"
"Probabilmente."
Sorride anche lui fra le lacrime.
"Per disperare ancora più a lungo."
Piangono. A sua volta, lui chiede:
"E anche lui se n'è andato, dunque?"
"Sì. Anche lui per sempre."
"C'è stato qualcosa fra voi."
"Siamo rimasti chiusi per tre giorni in quella camera dell'hotel des Roches. E poi è arrivato il giorno
della sua partenza, quel giorno d'estate che dite e di cui non ho visto che quei pochi minuti nella hall.
Ero scesa per prima dalla camera e lui doveva raggiungermi.
Eravamo in ritardo."
Lui esita. Le chiede di dirglielo. Lei glielo dice:
"No. Gli piaceva stare con le donne."
Lui dice, "Presto o tardi sarebbe venuto a noia, finiscono tutti per arrivarci, basta aspettare il tempo
necessario."
Lei sorride, dice:
"Non sarebbe rimasto nella camera."
Lui chiude gli occhi. Dice che rivede la hall nella luce d'estate.
Chiede:
"Non voleva lasciarvi, vero?"
"Si, è così, non voleva. Non voleva."
"Il crimine di cui parlavate, era questo?"
"Era questo."
"La separazione."
Lei non lo guarda. Dice: Sì. Dice:
"Perché? Chissà... Non so. Non so ancora, forse non saprò mai. La bellezza forse, era straordinaria,
incredibile. C'era anche questo, quella bellezza profonda che sembrava avere un senso, come sempre, la
bellezza, quando spezza il cuore. Contrariamente a ciò che si poteva credere, veniva dal Nord. Da
Vancouver. Ebreo, credo. Aperto all'idea di Dio."
Dice: Forse l'idea della felicità, lo spavento.
Dice: O forse l'idea del desiderio, troppo forte, terribile.
Lui chiede:
"Qualche volta, dormendo, pronunciate come un nome, una parola. E' verso l'alba, e bisogna stare molto
vicino al vostro volto per riuscire a sentirla. Non è proprio una parola, ma sembrerebbe un po' quella che
una voce gridava nell'hotel."
Lei gli parla di quella parola. Era il nome con il quale lei aveva chiamato l'uomo e con il quale lui
l'aveva chiamata a sua volta, l'ultimo giorno. Era il nome di lui, ma deformato da lei. Lei l'aveva scritto
la mattina stessa della sua partenza davanti alla spiaggia deserta per il caldo.
L'aveva guardato dormire. Era intorno a mezzogiorno, l'aveva svegliato perché la prendesse ancora. Lui
aveva aperto gli occhi, senza un gesto.
Era lei che l'aveva preso, lei si era fatta penetrare da lui, mentre sotto di lei lui moriva di dolore di
doverla lasciare. Ed era stato allora che l'aveva chiamata con il suo stesso nome, quel nome d'Oriente
deformato da lei. Erano andati sulla spiaggia un'ultima volta. Poi non avevano più saputo che fare fino
all'ora della partenza.
Lui era risalito in camera a prendere i bagagli. Lei no, non aveva voluto tornarci. E lui poteva averla
chiamata in quel momento, temendo che lei scappasse, che uscisse dalla hall prima che lui scendesse.
Ricorda l'urlo che veniva dall'alto, dagli abbaini dell'hotel. Sì, all'ultimo aveva proprio avuto voglia di
scappare ed era stato quell'urlo a trattenerla nella hall.
Lui chiede se l'uomo piangesse. Non lo sa, non lo guardava più, voleva perderlo.
Poi era giunta l'ora.
"L'ho accompagnato all'aereo. Si usa così, sono abitudini internazionali."
"L'età?"
"Vent'anni."
"Sì."
La guarda. Dice: Come te. Dice:
"I primi giorni, dormivate molto nella camera. Era per via di lui, e io, che non lo sapevo e vi
svegliavo..."
Stanno a lungo in silenzio, poi lei dice:
"Con il suo nome ho fatto una frase. In questa frase e' è un paese di sabbia. Una capitale del vento."
"Non la direte mai."
"Gli altri la diranno per me più tardi."
"Che cosa vuol dire la parola nella frase?"
"Forse l'uguaglianza dei destini davanti al suo sonno, quella mattina?
davanti alla spiaggia, davanti al mare, davanti a me? Non so."
Tacciono ancora. Lui chiede:
"Avete comunque aspettato una lettera in cui avrebbe detto che tornava.
"Sì. Non conoscevo il suo nome né l'indirizzo, ma lui sapeva il nome dell'hotel in cui eravamo. Ho
avvertito l'albergo nel caso fosse arrivata una lettera con quella parola sulla busta. Non ho avuto niente."
"Avete fatto di tutto per morire."
Lei lo guarda, dice:
"Non potevamo fare diversamente. Sono perfino venuta da voi per morire di più."
Le chiede di dire la parola. L'ascolta con gli occhi chiusi mentre lei la dice. Le chiede di dirla ancora e
ancora, lei la dice per lui e lui l'ascolta sempre. Piange. Dice che era stata lei a gridare nell'hotel:
riconosceva la voce come se l'avesse appena sentita. Lei non lo nega.
Dice: Come volete.
Lui sta sempre con gli occhi chiusi davanti al giovane straniero, occhi blu capelli neri. Dice che lui non
capisce quella parola, che pensava non volesse dir niente fino a questo momento in cui l'ha sentita come
l'ha sentita il giovane straniero, occhi blu capelli neri, nella camera dell'hotel des Roches dove stava con
una donna.
Lei, adesso, si ricorda bene dell'estate, di quella sera, di quelle gabbie di luce spalancate sul lungomare e
improvvisamente silenziose davanti alla bellezza delle cose.
Le chiede di non mettere il fazzoletto nero sul volto, quella notte, perché vorrebbe guardarla dormire.
Guarda dormire colei che è stata penetrata dal giovane straniero, occhi blu capelli neri. Al mattino, lui
parla del suo sonno, vorrebbe sognare di lei, non sogna mai una donna, non ricorda alcun sogno,
neppure il più scarno e banale, in cui ci fosse una donna.
I giorni sono più brevi, le notti più lunghe, viene l'inverno. Nelle ore che precedono lo spuntar del sole,
il freddo comincia a insinuarsi nella camera, ancora impercettibile ma puntuale, ogni giorno. Lui è
andato a prendere delle coperte all'interno della casa.
Oggi c'è tempesta, il rumore del mare è vicinissimo. E una grande marea che si accanisce contro il muro
della camera. L'insieme della camera, del tempo, del mare è diventato la storia.
Lui parla di lasciare la Francia, di andare all'estero in un paese caldo. L'inverno in Francia gli fa paura.
Tornerebbe l'anno prossimo d'estate.
Lei dice che tutte le volte che lui parla di partire lei sente i cani dell'Ade latrare nella sua testa e intorno
alla casa.
Gli chiede: All'estero, per fare che cosa?
Non sa, forse niente, forse un libro. Per incontrare qualcuno, forse.
Qualcosa come un ultimo incontro prima di morire.
Lei dorme. Lui le parla mentre dorme.
E' sdraiata accanto a lui sul pavimento, dorme. Lui dice:
"Non so niente di ciò che pensate. Non posso immaginare che possiate soffrire per ciò che dico. Non
dico niente. Non dico mai la verità. Non la conosco. Non dico niente che possa far soffrire. E' dopo,
quando voi soffrite, che ho paura di ciò che ho detto."
Esita e poi la sveglia. Dice:
"E inutile contare le notti che restano. Ce ne saranno certo ancora prima della nostra separazione."
Lei lo sa: anche quando sarà l'ultima notte, sarà inutile sottolinearlo, perché quello sarà l'inizio di
un'altra storia, quella della loro separazione.
Lui non capisce bene ciò che lei dice, ha sempre avuto storie molto brevi, senza domani. La storia del
giovane straniero, occhi blu capelli neri, è la più lunga via via che passa il tempo, a causa di lei che la
preserva. Lei pensa che lui si sbagli, che le storie si vivono anche senza saperlo. Che loro si trovano già
all'estremo limite del mondo, là dove i destini svaniscono, dove non sono più sentiti come personali e
neppure forse umani. Amori di collettività, lei dice. Dipenderebbe dal cibo e dall'uniformità del mondo.
Ridono. Vedersi ridere li rende pazzi di gioia.
Lei gli dice di avvertirla se per caso un giorno, chissà, lui si metterà ad amarla e a saperlo. Dopo aver
riso, piangono insieme come ogni giorno.
Quando lei va via, il sole irrompe, esplode nella camera. Quando lei chiude la porta, la stanza precipita
nell'oscurità e lui entra già nell'attesa della notte.
Quella sera lei arriva più tardi del solito.
Dice che fa freddo, che la città è deserta, il cielo chiaro, lavato dalla tempesta, quasi blu. Non dice
perché è in ritardo. Tacciono a lungo, distesi uno accanto all'altro. Lei ancora contro la parete, e lui che
ancora la riporta verso il centro dell'attenzione, il punto della luce teatrale.
Si è tolta il fazzoletto nero dal volto.
Parla dell'altro uomo. Dice:
"L'ho visto questa mattina all'hotel, uscendo di qui. Sapevo che questa notte avrebbe dormito in
quell'albergo. Me l'aveva detto. Mi aspettava.
La porta era aperta. Lui era in piedi in fondo alla camera, con gli occhi chiusi, aspettava. Sono stata io
ad andare da lui."
Lui abbandona il centro di luce gialla, si allontana da lei, va verso il muro. Sta con gli occhi bassi per
non vederla. Stanno tutti e due senza uno sguardo l'uno per l'altro, nell'istintiva finzione di un'assoluta
indifferenza. Lui aspetta, lei continua a parlare:
"Mi ha chiesto se fra noi due c'era stato qualcosa. Ho detto di no, che il mio desiderio di voi era sempre
più grande ma non ve lo dicevo perché l'idea di quel desiderio vi ripugnava. Improvvisamente, sono
stata in balia delle sue mani. L'ho lasciato fare ciò che voleva.",....
E dice che l'uomo gridava, che era come impazzito, che le sue mani erano diventate molto brutali nel
toccare il corpo. Che il piacere era stato tale da morirne.
Tace.
"Sto per partire;" dice lui.
Lei non risponde. Ha ripreso il suo posto di bella addormentata sotto la luce. Si è rimessa il fazzoletto di
seta nera sul volto. Senza scusarsi.
Lui resta lungo la parete, immobile, non si avvicina. Lei probabilmente pensa: sto per andarmene,
cacciata per sempre. Le dice di coprirsi con le lenzuola bianche, dice che lui non vuol vedere. La guarda
coprirsi.
Lei fa come se non lo vedesse, ma lui le chiede di guardarlo. Lei guarda.
Guarda la camera attraverso la seta nera, senza posare lo sguardo, come guarderebbe l'aria, il vento.
Parla dell'altro uomo. Dice che l'aveva visto per la prima volta sulla spiaggia, la sera stessa che era
arrivata, si erano visti, nient'altro. E poi l'aveva rivisto nelle vicinanze di casa. Dice che la gente di
quegli incontri lungo la spiaggia si riconosce senza conoscersi. Lui era venuto dapprima per vederla. Poi
una sera l'aveva abbordata..
Non sapeva che lei passasse dalla spiaggia per venire. Non lo fa sempre.
Per lo più, viene dalle stradine alle spalle del viale ma alla fine piega comunque verso la spiaggia: per
vederla. Dice:
"L'andirivieni è poco, stasera, per il vento freddo e gli avvenimenti" -
non dice quali. Ridono.
Lo sa, lei, che cosa succede laggiù, verso quei massi di pietra, a seconda del tempo che fa, del freddo,
del vento? Sì. Lo sa fin dal diradarsi dell'abitato. Dice che prima di aver capito quello che succedeva di
notte in quella parte della spiaggia lei non sapeva per così dire niente. Era ciò che accadeva là, quasi
ogni notte, che faceva sì che un giorno lei avrebbe scritto. E anche se quella conoscenza non fosse
apparsa chiara nei libri che avrebbe scritto, attraverso di essa i libri avrebbero avuto un senso e
obbligato alla lettura.
Ha sentito parlare di quel viavai quando era giovane. Le compagne di scuola parlavano dei massi di
pietra e della gente che vi andava di notte. Certe ragazze vi erano state per farsi toccare dagli uomini.
Molte non osavano farlo, per paura. Quelle che ci erano state, una volta tornate di là, non potevano più
essere uguali a quelle che non sapevano.
Una notte vi era andata anche lei, aveva tredici anni. Nessuno parlava, le cose si facevano in silenzio.
Addossate ai massi di pietra vi erano delle cabine. Loro erano appoggiati alle pareti delle cabine, uno di
fronte all'altro. Era stata una cosa molto lenta, prima lui era entrato con le dita, poi con il suo sesso.
Nell'eccitazione parlava di Dio. Lei si era dibattuta e lui l'aveva tenuta fra le braccia. Le aveva detto di
non aver paura. Il giorno dopo, aveva avuto la tentazione di parlare alla madre della sua visita a quella
gente della spiaggia. Ma, durante il pranzo, le era sembrato che la madre già sapesse quello che era
accaduto alla bambina. Fino a quel momento la bambina non ignorava che la madre conosceva
l'esistenza di quel luogo. Infatti ne parlava, una volta aveva detto che, di notte, bisognava evitare di
andare da quelle parti. Ciò che la bambina non sapeva, prima di quella sera, era se quella donna avesse
anche lei attraversato quell'equatore, compiuto quel passo. E l'aveva saputo dallo sguardo della madre su
di lei, quella sera, dal silenzio fra di loro,, dal riso segreto che metteva nello sguardo inconfessabili
connivenze. Erano alla pari nei confronti di quanto avveniva in quell'angolo della notte.
Ogni sera lei porta il suo corpo nella camera, lo libera dalle vesti, lo dispone al centro della luce gialla.
Si copre il volto con la seta nera.
Quando suppone che si sia addormentata, lui guarda ciò che l'altro uomo ha fatto sul corpo: delle ferite,
spesso, ma molto leggere, involontarie. Quel giorno, il profumo dell'uomo è molto forte, un po' alterato
dall'odore del sudore, della sigaretta, del trucco- Solleva il fazzoletto di seta nera. Il volto è disfatto.
Bacia gli occhi chiusi. Non rimette la seta nera.
Lei si gira verso di lui, si direbbe che stia per guardarlo, ma no, non apre gli occhi, si volta dall'altra
parte.
Nella notte, molto prima che faccia giorno, durante il viavai della gente sulla spiaggia, lei gii fa una
domanda che voleva fargli molte notti prima.
"Volevate dire che pagare il tempo passato nella camera significava pagare del tempo perduto. Perduto
da una donna?"
Non ricorda bene, all'inizio, poi rammenta.
"Tempo perduto anche per l'uomo, tempo che all'uomo non serviva più a niente."
Lei gli chiede di che cosa stia parlando. Lui dice:
"Come voi, della nostra storia, della camera. Dice: La camera non serve più, tutto è immobile nella
camera.
Probabilmente si sbaglia. Non deve aver pensato, mai, che potesse servire a qualcosa. A che cosa
sarebbe servito? Lei dice:
"Avete detto che la camera serviva per obbligare a restare qui, vicino a voi."
Lui dice che sì, era vero quando si trattava di giovani prostitute ma ora non era il caso.
Non cerca più di capire. Neppure lei cerca più. Dice: "Era anche per obbligarle ad andarsene allo
scadere del termine, a lasciarvi."
"Forse. Mi sono sbagliato, non volevo te."
Lei lo guarda a lungo, e attraverso lo sguardo lo prende, lo tiene chiuso in lei fino a sentir male. Lui sa
che gli sta capitando questo. E anche che questo non lo riguarda. Lei dice:
"Non avete mai voluto niente forse."
All'improvviso lui è interessato. Chiede:
"Credete?"
<Sì, mai."
E un uomo che non si accorge se qualcuno parla di lui o di altri, se qualcuno risponde alle domande da
qualunque parte vengano, anche da lui.
"E' possibile. Mai niente."
Aspetta, riflette, dice: Forse è proprio questo il punto, che non voglio mai niente, mai.
A un tratto lei ride.
"Potremmo andarcene insieme se volete, anch'io non voglio niente."
Ride anche lui, ma con una sorta d'incertezza e di paura, proprio come farebbe se fosse appena scampato
a un pericolo o a un'occasione non sollecitata e alla quale non avrebbe potuto sfuggire.
Nel silenzio che segue, tutto a un tratto lei glielo dice. Dice che lui è il suo amante: Siete il mio amante
per la ragione che avete detto, perché non volete niente.
Con un gesto brusco, lui fa per proteggersi il volto con la mano. Poi la mano ricade. E tutti e due
abbassano gli occhi. Non si guardano, forse guardano il pavimento, il bianco delle lenzuola. Hanno
paura che i loro occhi s'incontrino. Non si muovono. Hanno paura che i loro occhi si vedano.
Lei ascolta qualcosa che viene dai massi di pietra e dal tratto di spiaggia che è davanti alla camera. Si è
prodotto un silenzio inconsueto. Ricordano che poco prima una decina di uomini sono passati
vicino al muro. E all'improvviso ecco dei gran colpi di fischietto, grida, rumori di passi in corsa. Lui
dice: La polizia, ci sono dei cani.
Sull'onda di quella frase, lo sguardo di lui passa su di lei. I loro occhi si guardano per un breve istante, il
tempo, ad esempio, di un balenar di vetri nel sole della stanza. Nell'intensità di quello sguardo, i loro
occhi si sono bruciati, fuggono e si chiudono. Nel cuore il tumulto si placa, tace.
Lei ha girato la faccia dall'altra parte, se l'è ricoperta con la seta nera. Lui la guarda fare. Dice:
"Avete mentito sul piacere con quell'uomo."
Lei non risponde: ha mentito.
Lui grida, chiede com'era il piacere con quell'uomo. Lei esce dal sonno ma resta con gli occhi chiusi.
Ripete:
"Da morirne."
Lui resta immobile, trattiene il fiato. Ha chiuso gli occhi per morire.
Lei lo guarda. Piange. Dice:
"Era un piacere soffocante."
Il respiro torna normale. Lui tace sempre. Lei dice:
"Come con te."
Singhiozza. Prende il suo piacere da se stesso. Vuole che lei lo guardi mentre lo fa. E chiama un uomo,
gli dice di venire, di venirgli vicino nel momento preciso in cui lui sta per godere alla sola idea dei suoi
occhi. Come lui, lei chiama quell'uomo, gli dice di venire, si mette nella direzione del volto di lui,
vicinissima alla sua bocca, ai suoi occhi, già nell'esalare delle sue grida, dei suoi richiami, ma senza
assolutamente toccarlo, come se, facendolo, avesse rischiato di ucciderlo.
Una notte, lui scopre che lei guarda attraverso il fazzoletto di seta nera. Che guarda con gli occhi chiusi.
Che guarda senza sguardo. La sveglia, le dice che ha paura dei suoi occhi. Lei dice che è della seta nera
che lui ha paura, non dei suoi occhi. E che, più ancora, ha paura di qualcos'altro. Di tutto. Forse di
questo. Si gira dall'altra parte, verso il muro del mare.
"E' come questo rumore attraverso la pietra,
diciamo che è il rumore del mare, mentre è quello del nostro sangue."
Lei dice: Qualche volta, è vero, vi guardo attraverso il fazzoletto nero, ma non è di questo che parlate.
Quello che volete dire, credo, è che non sapete quando lo faccio perché il mio volto è diventato qualcosa
d'incerto, fra la seta e la morte. Voi cominciate a conoscerlo, ed esso ha cominciato a perdersi ai vostri
occhi.
Dice: Non è quando ho gli occhi aperti in direzione della vostra faccia che vi vedo nel modo di cui voi
avete paura, è quando dormo. Ride. Lo bacia e ride. Lui dice:
"Non è lui che vedete di notte nei vostri sogni."
Lei smette di ridere. Lo guarda come se l'avesse di nuovo dimenticato.
Dice:
"E vero, non è ancora lui. Non è ancora qualcuno di preciso. Sono lunghe a riaffiorare, nei sogni, le cose
importanti."
Gli chiede come sono le sue, di notti. Lui dice che è sempre la stessa cosa, che smuove mari e monti alla
ricerca di quell'amante. Ma, come per lei, di notte, lui non appare ancora. Le chiede se lei ha cominciato
a dimenticarlo. Lei dice:
"I lineamenti del volto, forse, ma gli occhi no, né la voce, né il corpo."
E lui, comincia a dimenticare? No. Dice: E' un'immagine fissa che persisterà fino a quando ve ne sarete
andata.
Lei è distesa nell'oro della luce gialla, dice l'attore, dritta, i seni che sbocciano dal corpo, belli come
marmo chiaro.
Se parlasse, dice l'attore, direbbe: Se la nostra storia fosse data a teatro, un attore verrebbe
all'improvviso sull'orlo del fiume, del fiume di luce, vicinissimo a voi e a me che sono accanto a voi. Ma
guarderebbe solo voi. E non parlerebbe che per voi. Parlerebbe come voi avreste parlato se aveste
dovuto farlo, lentamente e senza colore, come leggendo un testo letterario. Ma una letteratura dalla
quale sarebbe continuamente distratto per via dell'attenzione che dovrebbe porre nell'ignorare la
presenza della donna sulla scena.
La tempesta si è placata con il vento. Il mare è lontano, il viavai laggiù ha ripreso. Questa sera vi sono
alcuni uomini a cavallo.
Da quando lei è là, ogni notte lui esce dalla camera, va sulla terrazza, guarda. A volte scende sulla
spiaggia. Vi resta fino alla fine del viavai.
Quando rientra, lei non dorme. Lui dà alcuni ragguagli. Il vento è caduto e quella sera degli uomini a
cavallo sono passati sul lungomare.
Lei li conosce, quei cavalieri, ma preferisce gli uomini che vanno là in fila indiana con una ragione
inevitabile quanto il loro destino. I cavalieri non fanno parte della gente che va laggiù.
Si mettono a piangere. I singhiozzi escono dai loro corpi. Come se avessero bevuto. Lei è vicino a lui,
quasi pelle contro pelle. E' una felicità che non conoscevano ancora. Quella di essere insieme davanti
alla tempesta immobile. E ridere e piangere, anche. Vorrebbe che lei piangesse come piange lui. Che i
singhiozzi uscissero dai loro corpi ed essi non ne sapessero il perché. E piange mentre glielo chiede.
Come avesse bevuto. Lei piange a sua volta e ride con lui della richiesta.
Lui scopre che in vita sua, fino a quel momento, non ha pianto abbastanza. E stato necessario che
s'incontrassero perché questo fosse possibile.
Lei dice che non sono più così sconosciuti l'uno per l'altra ora che lui ha parlato del pianto. Si sdraia.
Piangono come si amerebbero. Lui dice che questo lo aiuta a sopportare la sua presenza in quella stanza,
l'idea di una donna che aspetta un uomo della città. Nel corso dello spettacolo, direbbe l'attore, a un
certo punto la luce calerebbe, lentamente, e la lettura si arresterebbe.
Gli attori abbandonerebbero il centro della ribalta e tornerebbero sul fondo dove vi sarebbero i tavoli, le
sedie, le poltrone, i fiori, le sigarette, le caraffe d'acqua. In un primo tempo resterebbero là, inoperosi, gli
occhi chiusi e la testa rovesciata sullo schienale della poltrona, oppure fumerebbero, o farebbero qualche
esercizio respiratorio, o berrebbero un bicchier d'acqua.
Dopo essersi messi addosso qualcosa, i due protagonisti resterebbero immobili e silenziosi, come gli
attori.
Ben presto un'immobilità totale avvolgerebbe i personaggi e la scena divenuta azzurrina - di
quell'azzurro lattiginoso del fumo di sigaretta nella penombra. Si tratterebbe di un riposo, un ricupero di
forze attraverso quell'immergersi nel silenzio. Si dovrebbe credere di udire ancora la storia mentre essa
avrebbe cessato d'esser letta. Dalla durata di quel silenzio si dovrebbe misurare la portata della lettura
che è appena stata fatta, tanto nel suo enunciato che nel suo ascolto.
Per cinque minuti la scena resterebbe sospesa nel sonno, sarebbe occupata da persone addormentate. E
questo stesso sonno si farebbe spettacolo. Si sentirebbe una musica, una musica classica, la si
riconoscerebbe perché già udita prima dello spettacolo e prima ancora, nella vita. Una musica lontana,
che non disturberebbe il silenzio, al contrario.
La ripresa della recitazione muoverebbe da un crescendo della luce, dalla fine della musica. Gli ultimi a
tornare sarebbero gli attori, e lo farebbero lentamente.
Sulla terrazza. Non fa freddo. Il cielo è coperto da una densa foschia.
E' più chiaro della sabbia, più chiaro del mare. Il mare è ancora nelle tenebre, vicinissimo. Lambisce la
sabbia, inghiotte, è dolce, fluviale.
Non l'ha visto arrivare. E' un battello da diporto, bianco. I ponti sono illuminati e deserti. Il mare è così
calmo, le vele sono ripiegate, il motore è al minimo, ronza pigro con la leggerezza del sonno. Lui
avanza sulla spiaggia, muove incontro al battello. L'ha visto tutto a un tratto, come fosse sbucato
dall'oscurità, l'ha visto solo quando gli è stato davanti.
C'è solo lui sulla spiaggia. Nessun altro vede il battello.
Il battello vira e passa lungo il suo corpo, è come una carezza infinita, come un addio. Impiega
parecchio, il battello, a raggiungere il canale. Lui torna sulla terrazza per seguirlo meglio con gli occhi.
Non si domanda che cosa ci faccia là, quel battello. Piange. Dopo che è passato, lui resta ancora lì a
piangere sul suo lutto. Il giovane straniero, occhi blu capelli neri, se n'è andato per sempre.
Ritorna nella camera molto tempo dopo. All'improvviso, vorrebbe non ritornare più da nessuna parte.
Resta con il corpo appoggiato al muro esterno della casa, aggrappato alle pietre, come se potesse, chissà,
non rientrare mai più da nessuna parte. Rientra.
Passata la porta, subito, il profumo dell'altro uomo.
Lei è là, nelle proprie tenebre, immersa in quell'odore, da lui privata di amanti.
Si corica accanto a lei, improvvisamente stremato, poi non si muove più.
Lei non dormiva. Gli prende la mano. Doveva aspettarselo, vagamente, ma già da soffrirne. Trattiene la
mano. Lui gliela lascia. Da qualche giorno la sua mano non si ritira più quando lei la
prende. Lei dice che lo immaginava, che lui fosse sulla terrazza, che non si fosse spinto lontano come
l'altra notte. Dice che non l'avrebbe cercato, questa notte, l'avrebbe lasciato andare, lasciato morire
anche, non dice perché. Lui non cerca di capire ciò che lei dice, non risponde. Resta sveglio a lungo. Lo
vede girare per la camera, cerca di fuggire, di morire. L'ha dimenticata. Lei lo sa. Quando lascia la
camera, lui si è addormentato sul pavimento.
Se la donna parlasse, dice l'attore, direbbe: Se la nostra storia fosse data a teatro, un attore avanzerebbe
all'estremità della ribalta, sulla sponda del fiume di luce, molto vicino a voi e a me, e sarebbe vestito di
bianco, concentrato al massimo, interessato a se stesso in sommo grado, teso verso la sala come verso di
sé. Si presenterebbe come l'uomo della storia, l'uomo, si potrebbe dire, nella sua assenza centrale, nella
sua irreversibile esteriorità. Guarderebbe, come voi avete tendenza a fare, verso l'esterno dei muri, come
se fosse possibile, nella direzione del tradimento.
E' sulla terrazza. Comincia appena a far giorno.
Sulla riva del mare, il viavai. Non le ha parlato del battello bianco.
Da quella gente sulla spiaggia salgono brevi parole gridate con voce acuta, parole che vengono riprese
da alcuni e poi abbandonate, avvertimenti, certo, raccomandazioni di prudenza. C'è in giro la polizia.
Dopo le grida non resta che il rumore del mare.
Lui ritorna nella camera. Lei era lì, dietro lo spessore dei muri. Ogni volta che lui ritorna dal mare quasi
dimentica la sua esistenza.
Lontano, nel sonno, lei ha dovuto sentire che la porta veniva aperta, ha dovuto sentire l'irrompere del
rumore. Adesso deve sentire che qualcuno richiude la porta molto adagio, che cammina, deve sentire il
rumore dei passi sul pavimento, e che qualcuno si siede lungo il muro, anche questo deve sentirlo. Resta
l'affanno leggero che segue lo sforzo. Poi nient'altro che il rumore della notte attutito dai muri.
Forse lei non dorme. Non vuole svegliarla, se lo impedisce, la guarda.
Il volto è al riparo, sotto la seta nera. Solo il corpo nudo è nella luce gialla, martire.
A volte, intorno a quell'ora, col nascere del giorno sopraggiunge l'infelicità. Lui scopre la donna sotto la
luce gialla e vuol colpire il corpo che dorme di un finto sonno, che sa come fare per disobbedire, per
rubare il denaro.
Le si avvicina, guarda il punto della frase che lo indurrebbe a ucciderla, là, alla base del collo,
nell'intreccio dei vasi del cuore.
La frase si riferirebbe al battello e qualunque ne fosse il senso chiamerebbe la morte.
Si corica accanto a lei. La seta nera è scivolata sulla spalla. Gli occhi si aprono, si richiudono. Lei si
riaddormenta. Gli occhi si aprono, ciechi, un lungo istante, inutilmente, per richiudersi ancora e
riprendere il viaggio verso la morte.
E poi, sul finir della notte, gli occhi sono rimasti aperti.
Lei non dice la frase che lui aspetta per ucciderla. Si tira su, ascolta. Chiede: Questo rumore che si sente,
cos'è?
Lui dice che è il rumore del mare e quello del vento che si scontrano, che sono echi di cose umane mai
ancora sentite, risa, grida, richiami lanciati da un confine all'altro del tempo, quando tutto era ignoto, e
che, questa notte, raggiungerebbero la spiaggia che è lì, davanti alla camera.
Quella storia non le interessa. Si riaddormenta.
Non ha visto il battello, è evidente. Non ha sentito il rumore. Ignora ogni cosa, del battello, perché,
semplicemente, dormiva quando è passato. Tanta innocenza lo induce a prenderle la mano e baciarla.
Lei non sa di esser diventata colei che ignora tutto del battello.
Tuttavia, ha già come un presentimento di quella irruzione del battello nella loro vita. Per esempio,
quando lui bacia la sua mano lei non la guarda.
Questa notte, si addormenterà appena arrivata.
Lui non violerà il suo sonno, lo lascerà fluire. Non le domanderà se ha rivisto un'altra volta quell'uomo
in città, sa che l'ha rivisto. Lo sa sempre da certi indizi, da certi nuovi lividi sui seni, sulle braccia,
dall'invecchiamento del volto, da quel suo sonno senza sogni, dal pallore. Da quella fatica invincibile al
termine della notte, da quella desolazione, da quella tristezza sessuale in occhi che tutto hanno visto del
mondo.
Ha lasciato la porta aperta. Lei dormiva, lui se n'è andato, ha attraversato la città, le spiagge, il porto
degli yacht, laggiù verso i massi di pietra.
Ritorna nel cuore della notte.
Lei è là, contro il muro, in piedi, fuori dalla luce gialla, vestita per andarsene. Piange. Non può smetter
di piangere. Lui dice: Vi ho cercato nella città.
Lei ha avuto paura. L'ha visto morto. Non vuole più venire nella camera.
Lui va verso di lei, aspetta. La lascia piangere come se non fosse la causa delle sue lacrime.
Lei dice: Neanche di quelle pene, di quegli amori che dite che vi uccidono, voi sapete niente. Dice:
Sapere di voi, è saper niente del tutto. Neanche di voi, sapete niente, neanche che avete sonno o che
avete freddo.
Lui dice: E vero, non so niente.
Lei ripete: Non sapete. Sapere come voi, è uscire per la città e credere sempre che si tornerà. E lasciarsi
dietro dei morti e dimenticare.
Lui dice: Sì, per quel che riguarda i morti è così.
Lui dice: Adesso sopporto la vostra presenza nella camera anche quando gridate.
Restano là a lungo, in silenzio, mentre spunta il giorno e, con lui, il freddo penetrante. Si ricoprono con
le lenzuola bianche.
Gli dice che l'altro uomo la interroga anche lui sulla camera. Dice: E lo faccio anch'io, gli domando da
cosa dipende che voi sappiate così poco di voi. Che ignoriate a tal punto ciò che fate, e perché lo fate.
Perché mi avete messa in questa camera. Perché volete uccidermi quando questa idea vi fa tanta paura.
Lui mi ha detto che non era niente, che tutti erano più o meno come voi. Che la sola cosa grave, ero io di
fronte a voi.
Gli aveva detto di poter desiderare anche uomini di quel tipo, che li desiderava meno degli altri ma che
forse l'amore era più solo, più puro, più al riparo di altri desideri, d'incontri sbagliati. Che quella
sventura d'esser ripugnante diventava plausibile in determinate circostanze della vita, quelle appunto
della passione dalla quale lei era stata travolta quell'estate.
La collera è svanita. Le mani si levano verso il volto di lui e lo accarezzano. Ha rimesso la seta nera
della pace. Dice:
"Se non foste tornato, sarei andata di nuovo laggiù, ai massi di pietra, con quella gente, di notte, per
essere con loro, andare senza sapere, ritornare allo stesso modo. Guardarli mettere il loro sesso nella
mano della ragazzina e piangere a occhi chiusi."
Lei dice:
"Niente può venirci dal di fuori, a voi e a me, per insegnarci qualcosa."
"Nessuna conoscenza, nessuna ignoranza?" "Nessuna. Vi sono persone fatte così, chiuse, che non
possono imparare da nessuno. Noi per esempio, non possiamo imparare alcunché, né io da voi né voi da
me, né da qualcuno né da qualche cosa, né dagli avvenimenti. Come muli."
Anche se secoli e secoli copriranno di oblio le loro esistenze, quell'ignoranza sarà esistita così come essa
è là, in quel preciso momento, in quella data precisa, in quella luce fredda. Lo scoprono e ne sono lieti.
E anche che di lì a mille anni saranno stati mille anni che quel giorno sarà esistito, giorno per giorno.
Che quella ignoranza della terra intera di ciò che avrebbero detto quel giorno sarà datata. Senza parole,
senza inchiostro per scriverlo, senza libro per leggerlo, datata. Anche di questo sono lieti.
Lei dice: Così, tutto ciò che è qui, nella camera. E mostra con la mano aperta le piastrelle del pavimento,
le lenzuola, la luce, i corpi.
Lei dorme il sonno della gioventù, ostinato e sovrano.
E' diventata colei che non sa che il battello è passato.
Lui pensa: Come il mio bambino.
A volte, lui toglie la seta nera dal volto. Il corpo si muove appena, consapevole di ciò che lui sta facendo
ma senza potersi liberare dal sonno. Sul volto, la spruzzata di efelidi estive è quasi sparita. Lui guarda.
Guarda bene, come ogni sera. A volte chiude gli occhi per allontanare l'immagine, fissarla in una
fotografia di vacanze con un altro. Ma certo è già troppo tardi per isolarla dalla sua vita, accanto a lui.
Sola nella camera, la spoglia soffice e allungata delle lenzuola bianche. Separata da questa, la forma
dell'estranea seduta sul pavimento, la testa appoggiata alle braccia ripiegate. Le. braccia a nascondere gli
occhi. Vicino a lei, la forma di lui, distesa, lontano dalle lenzuola, lontano da lei. Fino all'alba restano
così fra le lacrime, il sonno, le risa e di nuovo le lacrime, la vita, la morte.
Lei dice: Questa difficoltà che avete, c'è sempre stata, nella mia vita, iscritta nell'intimo del mio
godimento con gli altri uomini.
Lui le chiede di che cosa parli. Parla di quella impossibilità, di quel disgusto che lei gl'ispira. Dice che
quel disgusto di sé, lo condivide.
Ma poi no, non è disgusto. No, il disgusto è un'invenzione.
E' quella cosa, lei crede, che è accaduta nella camera come sarebbe accaduta altrove, evento universale
che non possono conoscere, che non conosceranno mai, dissimulata dalla sua somiglianza con altre
cose, così bene che nessuno aveva potuto positivamente isolarne l'esistenza in quanto dato generale
dell'uomo.
Tutti gli uomini? Lui chiede.
Tutti. Lei aggiunge: Avete ragione.
Lui è disteso nella pozza bianca delle lenzuola al centro della camera.
Lei lo guarda a sua volta. Lo chiama. Piangono. La quiete ritorna sul mare, nella camera. Lei dice che lo
ama al di là di lui stesso, che non deve aver paura.
Le chiede se ha rivisto quell'uomo in città.
L'ha rivisto.
E un uomo che va in quei bar che aprono il pomeriggio tardi, senza finestre, con la porta chiusa, per
entrare bisogna bussare. Quel che sa di quell'uomo è che dev'esser ricco, non lavora neanche lui. Vanno
in una camera al piano, quella riservata agli incontri fra uomini. Qualche volta, vanno anche in una
camera che lui ha preso in un albergo. Lei vi resta fino a sera e vi ritorna quando la notte è passata. Gli
fa sapere che ha disdetto la camera d'albergo in cui abita di solito durante l'estate: troppi posti diversi.
Dice:
"Alla fine, mi confondevo."
Lui non ride.
Lei si è tolta la seta nera. Guardano insieme il suo corpo. Lei ha dimenticato che è il suo, lo guarda
come fa lui. Le fa domande sull'altro uomo.
Lei dice che la batte, anche. Insieme, guardano i punti del corpo dove l'altro uomo ha colpito. Lei dice
che lui l'ama e la insulta con le stesse parole, che è spesso così con gli uomini, è lei che lo chiede. Ma
non è che tutto sempre avvenga somigliandosi. Dice: Come fra te e lui.
Le chiede di ripetere gli insulti. Lei lo fa. La voce cerca di essere neutra, oggettiva. Lui chiede che cosa
dica ancora, l'altro. Lei ripete:
"Dice che non vi è niente di paragonabile. Assolutamente."
Lui chiede a che cosa alluda, l'uomo. Lei dice: Alla cosa interiore.
E' quello che crede, crede di parlare di questo. Lui, quell'uomo della città, chiama questa cosa interiore il
luogo del godimento. Penetra con molta sapienza e molta follia, ama godere. Quanto ad amare, sì, sa
anche amare alla follia. E' possibile che provi per lei un certo sentimento, facile ed effimero, ma non lo
confonde con il desiderio del suo corpo.
Non gliene parla mai. Invece, dice che ha sempre paura per la sua bellezza in quella camera senza sole
che lei gli racconta, paura che vi perda il blu, favoloso, dice, degli occhi, la dolcezza della pelle. Dice
che a volte la batte a causa di lui, dell'uomo che l'aspetta nella camera. Ma è perché ha voglia di godere
che la batte, voglia di uccidere, com'è naturale. Lei sa che quell'uomo va fra i massi di pietra. Dice che
in questo momento lui non ha in mente che la sua storia con lei, che va ai massi di pietra per cercare
delle ragazzine che prendano in mano il suo sesso. Dice: Va lì a colmarsi di dolore per prendere me, la
sera, nella camera d'albergo.
Lei dice che le piacerebbe che anche lui parlasse di ciò che gli accade.
Lui dice che non gli accade niente. Mai. Solo l'idea. Lei dice che è lo stesso. Lui non risponde, non sa
rispondere.
Quell'uomo dice che ciò che fa godere è la genialità, la testa, che senza di essa il corpo non sa.
Lei gli dice che gli dà tutto ciò che gli ha appena raccontato, perché ne faccia ciò che vuole la notte
quando è solo.
Dice che gli insulti che quell'uomo usa nei confronti di certe donne sono qualcosa come una cultura
profonda.
Lui le chiede che cosa preferisce, non dice fra che cosa. Lei dice:
"La ripetizione dell'insulto nell'istante preciso in cui è stato pronunciato la prima volta,
quando la brutalità appare senza che si sappia ancora quale sarà."
Accende le luci della camera. E si sdraia spontaneamente al centro della luce, fra le lenzuola che ha
trascinate lì. Si corica, si copre il volto. Dapprima tace. Poi parla. Dice:
"Non sappiamo niente, né voi né io. Ciò che sappiamo, è che questa differenza, questo impedimento che
voi provate per me sta a nascondere qualcosa che si riferisce alla vita."
Una sera, direbbe l'attore, lei verrebbe sull'orlo della ribalta, del fiume di luce e direbbe: Potrebbe
prodursi qualcosa come un cambiamento del cast degli attori, come avviene per il personale dei casinò,
dei sommergibili, delle fabbriche. Questo avvicendamento di attori si compirebbe con un movimento
silenzioso, leggero. I nuovi sarebbero arrivati diciamo nel pomeriggio, nessuno li avrebbe mai visti
prima e tutti assomiglierebbero a quell'uomo, il protagonista.
Avanzerebbero fino a lei, fino al suo corpo disteso fra le lenzuola, come è adesso, il volto nascosto dal
fazzoletto di seta nera. E lei, lei l'avrebbe perduto, non lo riconoscerebbe più in quei nuovi attori e ne
sarebbe disperata. Direbbe: Voi siete molto vicino a un'idea generale dell'uomo, è per questo che siete
indimenticabile, per questo mi fate piangere.
Lui dorme.
Da qualche giorno si abbandona al sonno più facilmente. La diffidenza è meno grande. Nei primi giorni,
andava spesso a dormire dentro, nelle stanze chiuse della casa. Ora, quando rientra dalla terrazza, gli
accade di dormire davanti a lei, di non gridare quando lei gli si avvicina.
Si sveglia. Dice, come per scusarsi: "Sono stanco, come se stessi morendo."
Lei dice che non è niente, che quello che stanca è vivere di notte, che prima o poi lui dovrebbe ritrovare
la luce del giorno, ridurre le ore notturne.
Lui la guarda, dice:
"Non avete il fazzoletto nero."
No, non lo mette, vuole guardarlo mentre dorme.
Si sdraia accanto a lui. Sono svegli tutti e due. Nessun contatto, neanche le dita si toccano. Le chiede di
dire com'era il sesso dell'uomo dei massi di pietra. Lei dice che assomigliava a un oggetto primevo,
grossolano e brutale, pietrificato nello stato del desiderio, gonfio e duro, dolorante come una piaga. Lui
chiede se il ricordo fa male. Lei dice che si trattava di un dolore molto vivo ma attutito dal godimento
che sgorgava, dolore divenuto godimento a sua volta. Ma separato, e diverso.
Aspetta che lei dorma. Avvicina il proprio corpo al suo, lo mette contro il suo. Resta così. Lei apre gli
occhi, il tempo di riconoscerlo e si riaddormenta. Sa che spesso lui la guarda, di notte, per abituarsi.
Soprattutto dopo che lei ha visto quell'uomo in città, quando dorme di un sonno sfinito.
Il corpo di lei, contro il suo, è tiepido. Resta contro di lei, il corpo che tocca il suo, immobile, nel suo
benessere. Il tepore diventa comune, la pelle, la vita interiore.
E un uomo che non si chiede perché, questa sera, può tollerare quel corpo così vicino al suo. Che non si
chiede mai il perché del proprio stato, che aspetta di divenire, di dormire, che allo stesso modo aspetta la
notte, il giorno, il piacere. Che improvvisamente è su di lei senza forse averlo deciso, staccato da se
stesso, fuori dalla propria corazza.
Si volterà. Coprirà il proprio corpo con il corpo di lei, lo riporterà a sé, nell'asse del proprio corpo, e
lentamente s'impantanerà nel magma caldo del centro. Resterà là senza muoversi. Aspetterà il suo
destino, il volere del suo corpo. Per tutto il tempo che occorrerà.
Il tempo di pensarvi, e l'idea si manifesta, brutale, in un grido di agonia. E passa. Nella lenta ricaduta del
corpo di lei lungo il suo, il grido s'iscrive, brevissimo, soffocato di rabbia, strangolato.
Resterà là. Poi si girerà verso il muro per sempre. Insulterà ancora.
Non piangerà.
Lei rimane sotto la luce gialla, non lo guarda, l'ha dimenticato.
Tacciono a lungo.
Lui dice che spetta a lei dire perché non è possibile.
Ma lei non sa più com'è quando è possibile; dice che non ha più desiderio per nessun uomo, di lasciarla
stare.
Lui dice: forse è questo posto, questa camera che lei ha usurpato. No, non è la camera, lei non lo crede.
E' Dio, pensa. Colui che fa i campi di concentramento, le guerre. Dice: Bisogna lasciar perdere. Lo
chiama, piange.
Lei si alza. Cammina nella camera.
Dice che forse è il mare che non li abbandona un istante, che è sempre là con il suo rumore, così vicino,
a volte, che bisogna scappare, che è quella luce scolorita, funesta, quella lentezza del giorno a
conquistare il cielo, quel ritardo che loro accumulano rispetto al resto del mondo con quell'amore.
Si guarda intorno nella camera, si mette a piangere. Per via di quell'amore, dice. Si ferma. Dice che è
terribile vivere come vivono loro. All'improvviso, si rivolge a lui. Grida che non si può leggere niente in
quella casa, che non c'è neanche questo, qualcosa da leggere, che lui ha gettato tutto, libri, riviste,
giornali, che non c'è più né televisione né radio, non si sa cosa succede nel mondo, e neppure vicino a
loro, non si sa più. Che per vivere come vivono, tanto vale morire. Si ferma ancora davanti a lui, lo
guarda, piange, ripete: Per via di questo amore devastante e impossibile.
Si ferma. Lui l'ha ascoltata. Non ride. Chiede:
"Di che cosa parlate?"
Lei è confusa, dice:
"Ho parlato senza pensare, sono molto stanca."
Dice: Non mi sono mai posta il problema.
Lui si è alzato. La solleva verso di sé. Bacia la sua bocca. Il desiderio, nella sconfitta, violento, da
tremare. Si separano. Lui dice: "Non sapevo che poteva essere così forte." Restano in piedi nella
camera, a occhi chiusi, senza parole. A una certa ora della notte non vi è più alcun rumore intorno alla
casa. Con la bassa marea, lontano dalla camera, si sente solo il ritmico pulsare della risacca, senza eco
alcuna. In questa tregua, tace l'abbaiare dei cani e lo sferragliare dei camion. Dopo gli ultimi movimenti
di quella gente sulla spiaggia, sul far del giorno, le ore si svuotano di ogni sostanza fino a diventare
spazi nudi, granelli di sabbia che scorrono in una clessidra. Il ricordo del bacio è allora molto forte,
brucia il loro sangue, fa sì che non parlino, non possono.
A quell'ora della notte lei si muove, di solito. Oggi, no, certo teme l'approssimarsi del giorno e la calma
che lo accompagna. Il bacio è divenuto godimento. Ha avuto luogo. Si è preso gioco della morte,
dell'orrore dell'idea. Non è stato seguito da alcun altro bacio. Occupa tutto il desiderio, è, da solo, il suo
deserto e la sua immensità, il suo respiro e il suo corpo.
Lei è nella pozza bianca delle lenzuola alla portata della sua mano, il volto scoperto. Il bacio fa i loro
corpi più vicini di quanto non faccia la nudità, la camera. Ecco, lei si sveglia. Dice:
"Eravate qui."
E guarda intorno a lui, la camera, la porta, il suo volto, il suo corpo.
Gli chiede se quella notte gli è ancora venuta l'idea di ucciderla. Lui dice:
"Si, quell'idea mi è venuta, ma come quella di amare."
Del bacio, non parleranno.
Lei è nel primo sonno.
Lui esce, va nel senso opposto ai massi di pietra, lungo i Grand hôtel che fiancheggiano la spiaggia.
Non vi è più tornato. Certo per paura d'esser riconosciuto da qualche testimone come il vero autore di
uno scandalo - ora lo crede - che era scoppiato là quella sera d'estate. Ritrova il punto in cui stava,
vicino alla finestra aperta, di fronte a quella del giovane straniero, occhi blu capelli neri. La hall è chiusa
da ogni parte. Mobili inglesi.
Poltrone, tavoli in mogano scuro. Dentro, in quella calma, molti fiori al riparo dal vento e dal rumore.
Immagina molto bene l'odore dei fiori rinchiusi, quello di un calore solare ora raggelato dal freddo.
Dietro le vetrate, nello stesso silenzio, il cielo in movimento, il mare.
La desidera, quella donna del caffè sul lungomare. Non l'ha baciata dall'altra sera. Quel bacio dalle
bocche si è diffuso in tutto il suo corpo. E in lui, interamente trattenuto, come un intatto segreto, una
felicità che bisogna sacrificare per paura, per paura che abbia un futuro. L'idea di quel bacio lo porta a
quella della morte. Potrebbe aprire la hall e morire lì in un modo qualunque, o dormire lì nel tepore di
serra.
Quando rientra, lei è là, al suo posto, distesa.
Guarda verso di lui senza vederlo, con occhi vacui. E in uno stato di collera che lui non conosce, sorda,
cattiva. Dice:
"Voi vorreste disporre dell'idea di Dio come fareste di una merce, riversarla dappertutto, chiassosa e
stantia, come se Dio avesse bisogno dei vostri servigi."
Lui non risponde. E' un uomo che non risponde.
Lei continua: Quando piangete, piangete perché non potete imporre Dio.
Perché non potete rubare Dio e dispensarlo.
La collera svanisce, la menzogna. Lei si sdraia, ricopre il suo corpo con le lenzuola e il volto con la seta
nera. Sotto la seta nera piange.
Dice, piangendo:
"E vero, neanche di Dio parlate mai." Dice: Dio, è quella legge, quella di sempre e di ogni dove, non
vale la pena andare a cercarlo di notte spostandovi verso il mare.
Piange. Si tratta di uno stato di pena profonda e sgomenta, che non fa soffrire, che si esprime col pianto
più che con la parola, che può accompagnarsi con una certa felicità. E alla quale lui sa che non potrà mai
avvicinarsi.
Lei lo sveglia.
Dice che sta diventando pazza.
Dice: Dormivate, tutto era tranquillo. Ho guardato il vostro volto e ciò che vi avveniva mentre
dormivate. Ho visto che andavate di spavento in spavento per tutta la notte.
Parla con gli occhi girati verso il muro. Non si rivolge a lui. Vicino a lui, è estranea alla sua presenza.
Dice: Improvvisamente, nel tessuto dell'universo, nel punto di questa piccola distesa che è il vostro
volto si è prodotto un cedimento improvviso della trama, ma appena, solo l'impigliarsi di un'unghia in
un filo di seta. Dice che la sua follia dipende forse dal fatto che l'altra notte, mentre lui dormiva, lei
aveva visto - insieme a quella differenza di destinazione fra quel volto e il tutto dell'universo -
l'uguaglianza della sorte che era loro riservata, e cioè che erano travolti insieme e annientati allo stesso
modo dal moto del tempo, e questo fino alla ricostituzione della trama liscia dell'universo.
Ma di certo si sbaglia, non sa più di che parla quando parla di lui, di quel sentimento che ha per lui. Ciò
che sa con certezza, è che bisogna fare attenzione durante le ore che precedono lo spuntare del sole,
dopo gli ultimi andirivieni laggiù, ai massi di pietra, quando la notte è buia.
Ancora in piena notte, lei lo sveglia, ha dimenticato di dirgli, gli racconta: Quel lungomare, lei lo
conosce bene, l'ha visto per tutta la vita, e conosceva anche quella camera, l'aveva vista, era una casa
disabitata con una finestra rotta. Si diceva che una volta c'erano state delle donne in quella casa, che
d'estate stavano sulla terrazza con i bambini. Ma lei non aveva mai visto le donne e i bambini, per quel
che ricorda non c'era più stato nessuno in quella casa. Poi un giorno si era vista la luce accesa. Glielo
voleva dire da tanto tempo, se n'era dimenticata.
Lui le chiede se era lei che bussava alla porta certe sere.
Forse, sì.
Qualche volta lo faceva in certe case, ma quando c'era la luce e quando sapeva che erano abitate da
uomini soli.
Era stata lei, una sera di quest'estate, a bussare a questa porta della casa? Lui non aveva aperto. Non apre
quando non aspetta qualcuno. Stacca il telefono e non apre. Poteva essere lei, quest'estate? Non ricorda
esattamente d'esser venuta, ma adesso che lo conosce le sembra che avrebbe dovuto farlo.
Ragionevolmente no, perché avrebbe dovuto vedere della luce attraverso i vetri, ma anche senza luce
avrebbe potuto farlo, qualche volta.
Lui dice che a volte, quando non aspetta nessuno, lascia entrare la notte nella casa, non accende. Per
sapere cosa può sopraggiungere in una casa vuota. Lei dice: Io, appunto.
Apre gli occhi, li richiude, dice: Quanto abbiamo dormito.
Con la mano gli accarezza il volto poi la mano ricade, piena di sonno.
Gli occhi si richiudono.
Lei dice:
"Questa notte ero con quell'uomo. Sono andata con lui nella camera sopra il bar. Gli ho chiesto di fare
con me come avremmo fatto se la morte non avesse pervaso il nostro spirito."
Nella camera, lui si è avvicinato. Si stende accanto a lei. Lei trema, parla con difficoltà. Ogni volta che
s'interrompe piange. Dice:
"Ho chiesto a quell'uomo di lasciarmi dormire vicino a lui per un po'.
Gli ho chiesto di fare certe cose su di me, ma di cominciare a farle solo durante il mio sonno, e appena
appena."
Ripete:
"Gli ho chiesto di dirmi le parole e fare le cose che gli avrei detto io, ma di dirle e farle molto
lievemente, molto a lungo, in modo che non uscissi dal sonno. Gli ho detto quali cose, quali parole.
"Gli ho detto anche di non preoccuparsi di sapere se, nonostante l'attenzione che metteva, mi fossi
svegliata. Perché in quel caso la privazione sarebbe stata molto lenta a dichiararsi, come
un'interminabile e meravigliosa agonia.
"Lui ha fatto ciò che gli chiedevo. Lentamente, a lungo. Poi la sua voce, all'improvviso, l'ho sentita, mi
sono ricordata, la sua mano ha bruciato la mia pelle. Dapprima appena, a intervalli, poi continuamente,
la sua mano ha fatto avvampare il mio corpo.
"Ha detto che le mie palpebre tremavano come se i miei occhi volessero aprirsi senza averne la forza. E
che dal profondo del mio ventre era uscita un'acqua torbida e densa, calda come il sangue. E quando le
mie gambe si erano aperte per lasciarlo venire dentro quella profondità, allora mi ero svegliata. Ha detto
che la penetrazione fino al cuore della profondità, lui l'aveva fatta molto lentamente per riuscire a
raggiungerla senza venir meno. Ha detto che gridava di paura. Che aveva aspettato molto a lungo nel
fondo della profondità che l'urgenza si fosse placata." Lei dice:
"Non ho voluto aspettare così a lungo, come lui desiderava. Gli ho chiesto di far presto, e forte.
Abbiamo smesso di parlare. Il godimento è arrivato dal cielo, noi l'abbiamo accolto, e ci ha annullati, ci
ha travolti per sempre e poi è svanito."
Nella stanza, i corpi sono ricaduti nel candore delle lenzuola. Gli occhi chiusi suggellati al volto.
E poi si sono aperti.
E poi si sono ancora richiusi.
Tutto era compiuto. Intorno a loro, la camera distrutta.
Erano rimasti così, a occhi chiusi, a lungo, spaventati.
Dapprima si erano tenuti lontani l'uno dall'altra, poi le loro mani si erano ritrovate nel naufragio,
tremanti ancora, ed erano restate una con l'altra per la durata del sonno.
Al risveglio, tutti e due ancora una volta in lacrime, lo sguardo girato verso il muro, la vergogna.
A lungo erano rimasti separati uno dall'altra, piangendo. Poi, senza piangere né muoversi erano rimasti
lì, a lungo ancora.
E poi lei gli aveva chiesto se quella penombra era il giorno che incominciava. Lui aveva detto che era
certamente il giorno ma che in quel periodo dell'anno era così lento a spuntare che non si poteva esserne
sicuri.
Lei gli domanda se è l'ultima notte. Lui dice che sì, è possibile che sia l'ultima, non sa. Le ricorda che
non sa mai niente.
Va sulla terrazza. Fuori è ancora molto buio. Resta lì, guarda. Piange.
Quando ritorna nella camera, lei è seduta, dritta, lo aspetta. Si guardano. Si desiderano.
Lei gli dice che ha paura di essere uccisa come una donna in un albergo di passaggio dopo la notte
dell'addio. Lui dice che non ha più niente da temere. Lei pensa che quell'idea gli sia venuta quando è
andato sulla terrazza. Lui conferma. Dice: Solo per un attimo, un abbaglio.
Lei piange. Dice che è l'emozione di sapere quel bisogno che lui ha avuto per tutto il tempo della loro
storia, e di pensare che, solo che lui l'avesse voluto, il suo corpo avrebbe potuto cessare di vivere per
sempre accanto al corpo di lui nella camera.
Lui dice che sì, effettivamente quell'idea gli era venuta ogni notte, insieme con lo spavento del mare,
con la sua inaccessibile bellezza.
Le parla del battello.
Dice che ha visto passare un battello da diporto là, vicinissimo, a cento metri dalla riva. I ponti erano
deserti. Il mare era come un lago, il battello avanzava su un lago. Una specie di yacht. Bianco. Lei
chiede quando. Non ricorda, saranno parecchie notti.
Lei non ha mai visto battelli su quella spiaggia. Comunque, perché no.
Certo qualcuno che si era perso nella nebbia - ce n'è sempre in alto mare in questa stagione - e che si è
poi diretto verso le luci dei grandi alberghi delle stazioni balneari.
Lui era rimasto sulla spiaggia fino a che il battello non era sparito nel canale. Il rumore del motore al
minimo gli era entrato nel cuore in un modo che ancora non conosceva. Crede che il desiderio per il
giovane straniero, occhi blu capelli neri, si era destato in lui un'ultima volta in quel preciso momento,
quando il battello si era allontanato dalla spiaggia. Doveva esser caduto sulla sabbia quando il battello
era scomparso.
Quando si era svegliato, molto tempo dopo la scomparsa del battello, un'ondata era arrivata fino al muro
della casa ed era ricaduta ai suoi piedi come per evitarlo, frangiata di bianco, viva, come una scrittura.
L'aveva presa come una risposta che gli avrebbero mandato dal battello.
Di non aspettare più il giovane straniero dagli occhi blu, non sarebbe più tornato sulle spiagge di
Francia.
Era stato in quel momento di mare fluviale che lui aveva avuto voglia di amare. Un amore-desiderio,
folle, come nell'unico bacio che si erano dati. E che era riaffiorato in lui il ricordo della sua pelle, dei
suoi occhi, dei suoi seni, della totalità delle cose del suo corpo, del suo profumo, delle sue mani.
Era rimasto in questo stato di desiderio di lei per diversi giorni, diverse notti.
Poi quell'amore era ritornato - come il ricordo del bacio - quello che era stato il sangue della sua vita,
che gli aveva fatto paura quella sera d'estate quando si erano incontrati nel caffè in riva al mare.
Lei dice che quell'amore, quello pianto da loro due quella sera, costituiva la loro autentica, reciproca
fedeltà, al di là della loro esperienza presente e di ogni loro esperienza futura.
Gli dice che quella sera in riva al mare un solo e medesimo giovane straniero era causa della loro
disperazione.
Ricorda che lui le ha parlato spesso di un giovane straniero occhi blu capelli neri, ma lei non aveva mai
pensato che si trattasse di colui che aveva amato.
Ricorda meglio le angosce mortali di cui lui parlava, quelle che lo assalivano ogni estate fino a
distruggerlo, astratte e senza alcun seguito mai.
Lui dice che sbaglia sempre storia ma che, a causa del loro incontro in quel caffè, il ricordo del giovane
straniero gli era parso immune dall'errore.
Lei dice che no, non possono sapere ciò che era avvenuto, erano come quei testimoni che nei delitti
hanno dimenticato di guardare.
La sola prova sarebbe stata che lui avesse riconosciuto in lei la donna della hall. Nel qual caso non si
sarebbero conosciuti quella sera, in quel caffè sul lungomare.
E' andato a bere qualcosa di forte dentro, nelle stanze disabitate. Lo fa, a volte, e a lei la cosa non
importa. Vorrebbe essere sicuro dell'esistenza di quel battello bianco. Questa notte lo confonde con un
altro ricordo, con un luogo ugualmente chiuso. Dice: Con la hall di un hôtel in riva al mare.
Lei dice: Il battello è esistito. In città se n'è parlato. Veniva da Le Havre. Era stato trascinato al largo
dalla marea ed era probabilmente tornato verso le luci della costa. Uno yacht di media grandezza, di
nazionalità greca. Altri l'avevano visto, oltre a lui, e avevano detto che a bordo c'era solo l'equipaggio.
E lui, aveva visto dei passeggeri su quel battello?
Non ne è sicuro ma, quando il battello aveva virato, crede, sì, di aver visto un uomo e una donna
appoggiati al parapetto, giusto il tempo di fumare una sigaretta e ammirare la lunga sequela di casinò
illuminati lungo le spiagge. Ma dovevano essere, già scesi in cabina quando il battello si era avviato
verso il canale - non li aveva più visti.
Si sdraia vicino a lei. Provano una felicità che non hanno mai conosciuto, così profonda, ne sono
terrorizzati.
Lui dice che si è sbagliato, che non è il giorno che spunta, è il crepuscolo, vanno verso un'altra notte e
bisognerà che passi tutta per arrivare al giorno, si sono sbagliati circa il passar delle ore. Lei gli chiede il
colore del mare. Non lo ricorda.
La sente che piange. Le chiede di che cosa pianga. Non aspetta risposta.
Le chiede che colore dovrebbe avere, il mare. Lei dice che il mare prende il colore da quello del cielo -
che non si tratta tanto di un colore quanto di uno stato della luce.
Lei dice che forse hanno cominciato a morire.
Lui dice di non saper niente sulla morte, è un uomo che non sa quando ha amato, quando ama, quando
muore. Nella sua voce vi sono ancora grida, ma lontane, intrise di pianto.
Tuttavia le dice che anche lui, adesso, crede che fra di loro ci sia quello che diceva lei nei primi giorni
della loro storia. Lei nasconde il volto contro il pavimento, piange.
E' l'ultima notte, dice l'attore.
Gli spettatori, immobili, guardano nella direzione del silenzio, quella dei protagonisti. L'attore li indica
con lo sguardo. I personaggi sono ancora esposti alla luce intensa della ribalta. Sono sdraiati di fronte
alla scala. Annientati dal silenzio, si direbbe.
Guardano verso la sala, l'esterno, la lettura, il mare. Lo sguardo spaventato, dolente, sempre colpevole di
essere stato oggetto dell'attenzione generale, quella degli attori sulla scena e quella degli spettatori in
sala.
L'ultima notte, annuncia l'attore. Sono di fronte alla sala, accostati e lontani, pronti a scomparire da ogni
storia umana.
Non sarà il calare della luce ma la voce dell'attore isolato che provocherà l'immobilità degli altri attori,
l'arresto dei loro movimenti, l'ascolto obbligato, infernale, dell'ultimo silenzio.
Quella sera della sesta notte, lo sguardo di lui si sarebbe distolto da quello della donna, e lei, al suo
avvicinarsi, si sarebbe ricoperta con il lenzuolo bianco.
Un'ultima frase, dice l'attore, sarebbe forse stata detta prima del silenzio. Presumibilmente, sarebbe stata
detta da lei, per lui, durante l'ultima notte del loro amore. Si sarebbe riferita all'emozione che si prova a
volte nel riconoscere ciò che non si conosce ancora, all'impaccio in cui ci si trova nel non poter
esprimere questo impaccio a causa della sproporzione delle parole, della loro povertà davanti
all'enormità del dolore.
In fondo al teatro, dice l'attore, ci sarebbe stato un muro di colore blu. Questo muro chiudeva la scena.
Massiccio, esposto a ponente, di fronte al mare. Si sarebbe trattato, in origine, di una casamatta tedesca
abbandonata. Questo muro era per definizione indistruttibile, benché fosse battuto, giorno e notte, dal
vento del mare, e subisse in pieno l'infuriare delle più violente burrasche.
L'attore dice che il teatro era stato costruito intorno all'idea di questo muro e del mare, affinché il
rumore del mare, vicino o lontano, fosse sempre presente nel teatro. Quando non c'era vento, era attutito
dallo spessore del muro, ma lo si avvertiva sempre, al ritmo pacato del mare. Non ci si sbagliava mai
sulla sua natura. Quando c'era burrasca, certe notti, si sentiva chiaramente l'assalto delle onde contro il
muro della camera e il loro frangersi attraverso le parole.
FINE.

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