Il futuro della civiltà globalizzata: probabile un’intesa Europa-Russia per
bilanciare gli Stati Uniti
Islam e Occidente, le stesse radici greche Ma oggi domina la tecnica, che ha preso il posto di Dio
di Emanuele Severino, filosofo
Pronunciare oggi la parola “Occidente” suscita perplessità, perché, dal punto di
vista della cultura dominante che è quella della specializzazione, dire “Occidente” è dire qualche cosa di troppo indeterminato. In questa cultura l’Occidente interessa dal punto di vista della politica, oppure dell’economia, o della storia, o della letteratura, o della fisica, o della geografia. Si potrebbe allora dire che esistono gli Occidenti, stando alla prospettiva dominante, che è quella della specializzazione scientifica. Ma stando a questa prospettiva, non potremmo mai rispondere alla domanda: “Qual è il canone dell’Occidente”? Canone, in greco, significa regola, fondamento. Ora, la teoria della specializzazione scientifica non è specialistica: teorizzare che esista - o che sia serio - soltanto un sapere di tipo specialistico non è una teorizzazione specialistica, bensì una visione generale, d’insieme, della nostra cultura: è una visione, diciamo la parola, filosofica. La teoria filosofica che afferma la liceità esclusiva del sapere specialistico non nasce in maniera ingiustificata: ha una storia, è il risultato di un processo storico che inizia agli albori della nostra cultura, cioè quando si inizia a riflettere sul significato di fondo che sta alla base di tutti i significati della cultura e della civiltà. C’è un significato di fondo? Cerchiamo di chiarirlo. Carl Marx sosteneva che la filosofia sia una specie di sottoprodotto di ciò che è veramente reale, cioè dei rapporti di produzione. Un sottoprodotto quindi determinato dall’“esistenza”, che risente dell’esistenza. Nelle Tesi su Feuerbach, del 1845, Marx afferma che non è la coscienza a determinare l’esistenza ma l’inverso: è l’esistenza a determinare la coscienza. La “coscienza” è il diritto, la religione, la filosofia, la letteratura eccetera. Sennonché, quando deve definire il rapporto di produzione economica, il “lavoro” (Arbeit), cioè l’“esistenza” che determina la coscienza, Marx lo qualifica come “attività conforme a uno scopo” (zweckmäßig Tätigkeit). Ora, se l’uomo agisce in relazione a scopi, per agire in relazione a scopi deve poter vedere il mondo che vuole trasformare: ma per vedere il mondo non deve poter vedere innanzitutto un significato unitario del mondo? Poniamo ora una tesi provvisoria. Tra tutti i significati, più o meno complessi, con i quali ci mettiamo in rapporto, qual è il significato che regge e che dà senso a tutti gli altri? Heidegger si rivolge al senso della cosa. Ebbene, l’esser cosa delle cose è sì il significato fondamentale, ma non certo nel modo indicato da Heidegger. È il significato di fondo che sta alla base di tutti i significati. Ma qual è il significato di cosa? La storia dell’Occidente inizia nel momento in cui il popolo greco pensa il senso della cosa in un modo mai prima pensato. Platone definisce la cosa l’“oscillante” (επαµφοτεριστής) tra l’essere e il nulla, ossia ciò che è disponibile alla volontà di potenza. Se le cose fossero cristalli eterni che non si lasciano scalfire, non ci sarebbe la possibilità di manipolarli. Qual è il canone, la regola dell’Occidente? Non è forse la progressiva dominazione del senso della cosa? Un cono di luce con il vertice appoggiato a terra. I pensatori greci sono il vertice del cono, che un poco alla volta si allarga e diventa sempre più ampio fino a includere tutto ciò che è accaduto nella storia dell’Occidente. Tutto ciò che è accaduto, è avvenuto all’interno del senso che i Greci hanno dato alla parola cosa: la cosa, come disponibilità alla volontà di potenza. Invece di individuare, per così dire, un’origine, si possono individuare alcune categorie proprie dell’Occidente. Innanzitutto, quelle ereditate dalla cultura greca: ad esempio, la razionalità, l’idea di giustizia, l’idea di democrazia. Quindi i valori dell’eredità cristiana: l’individualità e l’universalità; e i valori dell’Illuminismo: autonomia, pluralismo, tolleranza. Ma perché questi “luoghi” dell’Occidente - razionalità, democrazia, giustizia, individualità, universalità, laicità, conoscenza, autonomia, umanesimo, pluralismo eccetera - si sono trovati insieme? È, il loro, un casuale trovarsi insieme, oppure c’è tra essi una relazione di fondo? I tratti dell’Occidente appaiono fra loro isolati. Si tratta di vedere quale sia la loro relazione. Il concetto di cosa, ovvero il senso della cosa evocato dai Greci (il senso della realtà, che è realitas, res, cosa) è presente in ognuna delle cose specifiche, quindi anche in ognuno di quei luoghi (o categorie) dell’Occidente. Quando il Greco evoca il concetto di “cosa”, lo evoca all’interno di un tipo di sapere che prima non c’era: “sapere razionale”. Che cosa significa razionalità? Significa pensare la realitas, la res, la cosa, non come la pensa il mito. E quindi criticando l’esistenza mitica. Cioè assumendo un atteggiamento negativo rispetto a ciò che è incapace di resistere al “no” che si può avanzare di fronte alle varie pretese del mito. Il “no” filosofico è l’esigenza di razionalità: lo stare ancorati a ciò che non rotola giù quando gli si dice “no”. Lo spirito critico più radicale è quello che si accompagna alla volontà di portare alla luce il senso incontrovertibile della realitas, della res. La cosa è ciò che, oscillando tra l’essere e il nulla, ha il proprio fondamento nella Cosa immutabile e divina. Un altro tratto della civiltà occidentale è senza dubbio la democrazia. Eppure, la democrazia del nostro tempo non è la democrazia greca; anzi, è agli antipodi di quella greca. La democrazia greca ha i caratteri che per il cristianesimo - e soprattutto per il cattolicesimo - devono essere attribuiti alla societas: la società deve essere non solo “libera” ma anche “vera” (le encicliche dei papi che si sono recentemente succeduti insistono su questo concetto, riferito alla democrazia: “Niente libertà senza verità”). La verità è la razionalità. “Niente libertà senza verità” significa: niente libertà senza l’adeguazione dell’uomo libero all’Ordine delle cose. Ma a un Ordine, un Canone, che non sia arbitrariamente o miticamente voluto, imposto, comandato: all’Ordine che si impone da sé. La democrazia, per i Greci e la tradizione, è lo Stato in quanto si adegua a questo Ordine, è lo Stato in quanto si adegua alla verità dove la “cosa” - che oscilla tra l’essere e il nulla - è da ultimo dominata dalla sapienza di un Dio immutabile. La democrazia è dunque l’alleanza dello Stato con la potenza suprema del Dio. La democrazia del nostro tempo è tutta un’altra cosa: è un metodo di decisione. Si tratta di capire l’inevitabilità con la quale si passa dal senso greco della democrazia al senso attuale, dove la democrazia non ha più un contenuto di verità, ma è solo un metodo di decisione. Jefferson diceva che la democrazia ha il dovere di tenere fuori dalla porta della cosa pubblica la religione. E anche la filosofia, si aggiungerà poi. È chiaro che la democrazia del nostro tempo è arrivata dove è arrivata perché - ed è il problema decisivo - si è imposta la distruzione della tradizione da parte del pensiero degli ultimi due secoli: del pensiero filosofico, e anche scientifico. Fra l’Occidente e la tradizione c’è la distruzione inevitabile di quelle categorie per così dire fondanti. Questo è accaduto per ognuno dei grandi “luoghi” della tradizione dell’Occidente. Per esempio, che cos’è la giustizia oggi? Tommaso d’Aquino la definiva “la volontà di dare a ciascuno ciò che gli è proprio”, che è formula platonica e che significa: ciò che è proprio di ciascuno è il rapporto che ciascuno ha con l’Ordinamento divino. Ma oggi la giustizia è tutt’altro. Come è potuto accadere? Non è stato semplicemente il gusto di qualche filosofo del nostro tempo, o di qualche scienziato, quello di dire “no” alla verità, alla razionalità assoluta. Non è stato certamente per un Nietzsche, che si limiterebbe a proclamare che “Dio è morto”. Non è per questo che la tradizione trema. Trema per il fondamento dell’affermazione che non ci possono essere il vecchio Dio, la vecchia giustizia, la vecchia potenza, la vecchia democrazia. Si tratta di capire che se ci fosse una verità o un Dio immutabile, non ci sarebbe il mondo diveniente che ci sta davanti agli occhi. La grandezza di pensatori come Nietzsche va cercata in questa direzione. Occorre allora parlare di cristianesimo e di democrazia non semplicemente descrivendo queste categorie, ma mostrando la dinamica inevitabile che ha condotto l’Occidente dalle sue radici - dove il senso della cosa è avvolto da una verità assoluta - al nostro tempo, dove si nega che esistano cose che non oscillino tra l’essere e il nulla. Non è detto però che, arrivando all’oggi, l’oggi abbia l’ultima parola. Ha la parola vincente rispetto a ieri. Sicché, per esempio, possiamo affermare che il crollo dell’Unione Sovietica non sia stato un semplice “fatto”, ma qualcosa di inevitabile; come così la crisi del cristianesimo non è un “fatto”, ma qualcosa di inevitabile; e così via. Unione Sovietica, cristianesimo, capitalismo, democrazia sono forme secolarizzate del vecchio Dio. L’oggi travolge il passato. Ma poi anche l’oggi sarà chiamato a dar conto di sé. La forma più visibile di conflittualità oggi esistente sulla terra è determinata dal fondamentalismo islamico. Si tende a porre da una parte tale integralismo e dall’altra l’Occidente. Ma questa contrapposizione tra mondo islamico e mondo occidentale non sussiste: l’islam è essenzialmente Occidente. La lotta non è tra l’islam e l’Occidente, ma tra il passato - costituito, da una parte, dal passato del cristianesimo e, dall’altra, dall’islam - e il presente, costituito, da una parte, da un cristianesimo che ha fatto i conti con la critica moderna, con l’illuminismo, e, dall’altra, da un islam che invece si è arrestato prima di fare questi conti. L’islam si arresta molti passi indietro rispetto al cristianesimo proprio per questo motivo: il cristianesimo ha fatto i conti con la scienza moderna, con la filosofia moderna, con il nuovo atteggiamento dell’arte (l’arte non dice più: “Cantare per lodare Dio”, ma “lodare Dio per cantare”). Rispetto a questi fattori, l’islam si è arrestato al livello - certamente alto - in cui il cristianesimo si trovava nell’età medioevale. Perché l’islam è essenzialmente Occidente? Perché ha quelle stesse radici greche in cui affonda la sua anima l’Occidente cristiano. L’operazione fondamentale compiuta dalla cultura filosofica araba - si pensi ad Avicenna - è stata di mostrare che il Corano è conciliabile con la razionalità greca, con Aristotele. Tommaso d’Aquino, che ammira molto Avicenna, a sua volta ripropone in clima cristiano il discorso di Avicenna, cercando di mostrare come la rivelazione di Gesù sia assolutamente conciliabile con la razionalità greca, cioè con il senso greco della cosa. Il cristianesimo è giunto a rifiutare lo Stato assoluto con il quale le chiese cristiane si sono spesso alleate; non così l’Islam, ancora legato a quel passato, che si può chiamare epistemico, dove viene indicata la verità ultima e definitiva delle cose, e al quale gli ultimi due secoli della nostra cultura hanno invece detto “no”. L’Occidente, e ormai tutto il Pianeta, è una gestione del senso greco della “realtà” (res) intesa come mobilità, disponibilità alla volontà di potenza. La volontà intende manipolare le cose, cambiarle, produrle o distruggerle. Oggi la tecnica fa quello che faceva Dio creando e distruggendo il mondo. Gli Stati Uniti sono la più potente gestione del senso greco della cosa. Anche Russia, Giappone, India e Cina sono ormai forme di grande gestione del senso greco della cosa. Come lo è stata anche l’economia pianificata dell’Unione Sovietica. Il capitalismo è pensiero filosofico. Sono cattivi servitori del capitalismo quanti affermano che il capitalismo è uno strumento neutrale, una tecnica, e non una filosofia. È invece una grande filosofia, che gestisce in modo dominante la disponibilità delle cose a essere manomesse, modificate, prodotte, distrutte. Certo, la gestione del senso greco della cosa, da parte degli Stati Uniti, ha un carattere ambivalente, oscillante fra la tradizione da un lato - tornata alla luce con le ultime elezioni, che hanno conferito al Paese una fisionomia avvicinabile a quella delle teocrazie di tipo islamico o cristiano - e la distruzione del passato dall’altro, distruzione che si è portata talmente in avanti da essersi perfino dimenticata dei motivi per cui il passato è andato distrutto (se infatti si domanda all’uomo del nostro tempo: “Perché non credi che Dio esista?”, è estremamente difficile che dia motivazioni convincenti. Nemmeno gli uomini di cultura e i filosofi risalgono alle radici della contemporaneità - che non sono le radici dell’Occidente ma solo della contemporaneità -, alle radici costituite dalla “gigantomachia” in cui pensatori, come Nietzsche o Gentile, hanno detto “no” al passato. Nel “laicismo” di oggi questo radicale “no” al passato - il “no” al cui contenuto concreto qui non possiamo nemmeno avvicinarci - è dato per scontato e diventa esso stesso un dogma). Con la negazione del passato dell’Occidente, il pensiero filosofico ha aperto la strada alla tecnica. La strada destinata a togliere il terreno sotto i piedi anche a forme di persistenza del passato come quelle, ad esempio, dell’integralismo americano o dell’integralismo islamico (e in generale di alcune forme di cristianesimo). La tecnica è ormai la forma suprema di dominio delle cose. È il modo in cui oggi può esistere Dio. Come il capitalismo, nemmeno la tecnica è una forza neutrale. Coloro che la usano ne sono determinati. In qualche modo, la tecnica è il “cavallo di Troia” che entra in tutte le forme di cultura che intendono servirsene come di un semplice strumento. Esiste una situazione conflittuale fra le grandi forze del passato - capitalismo, cristianesimo, democrazia - che sono uscite vincenti dallo scontro con il socialismo reale. Un’alleanza tra democrazia e capitalismo è un equivoco. La democrazia, avendo altri valori, intende stabilire dei limiti al progetto capitalistico di assumere come scopo ultimo della società l’incremento indefinito del profitto. Così come non esiste alleanza tra cristianesimo e capitalismo. La Chiesa dice: “Il capitalismo è più efficace dell’economia pianificata; però lo scopo ultimo della produzione di ricchezza non è l’incremento del profitto bensì il bene comune” (e ricordiamo che quello di “bene comune” è un concetto aristotelico, che la Chiesa tiene fermo). Ora, gli antagonisti si combattono con la potenza a disposizione, e oggi la forma suprema di potenza a disposizione è quella guidata dalla scienza moderna. Si chiama tecnica. La tecnica è lo strumento con cui le grandi forze dominanti nel mondo intendono combattersi. Tra queste forze c’è l’islam, il cristianesimo, il capitalismo. Ieri c’era il socialismo reale. Ma quando sussiste una situazione conflittuale - cristianesimo contro democrazia e capitalismo; ieri, capitalismo contro comunismo - alimentata non solo a parole ma anche a fatti, con la forma maggiore di potenza a disposizione, cioè la tecnica guidata dalla scienza moderna, allora si mette in moto un meccanismo inesorabile. Il meccanismo cioè per il quale ogni forza ha interesse a che lo strumento di cui essa si serve per realizzare i propri scopi specifici funzioni in modo ottimale; sicché quando tale forza si mette in questa direzione, in cui essa ha tutto l’interesse a far prevalere il proprio scopo - chiamiamolo “ideologico” senza dare a questa parola un significato negativo - e quindi a far funzionare in modo ottimale il proprio strumento, allora si produce un ribaltamento decisivo - o per lo meno una forte tendenza al ribaltamento - per cui lo strumento con cui si tenta di realizzare il proprio scopo diventa così indispensabile da divenire esso lo scopo di quelle forze, che pertanto diventano esse qualcosa di strumentale. Oggi, per esempio, tutti sono assolutamente convinti che il capitalismo si serva della tecnica. Ma siamo proprio sicuri che gli Stati Uniti siano un capitalismo che si serve della tecnica - tra cui quella militare - per affermarsi nel mondo, o invece non abbiamo sempre più a che fare con una potenza tecnica la quale si serve del capitale per salvaguardare innanzitutto la propria capacità di produrre scopi? Se il meccanismo è questo, per cui le forze che si servono della tecnica tendono a dare tale un’importanza tale allo strumento di cui si servono da farlo diventare addirittura lo scopo, rinunciando progressivamente a parti più o meno determinanti del proprio scopo originario, allora si può pensare che abbia a prodursi un processo in cui non sarà più l’Occidente - il capitalismo, il comunismo, l’islam - a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica a servirsi dell’Occidente; un processo che coinvolgerà anche aggregati sociali come l’islam o la Cina. Certo non è lecito affermare che la tecnica abbia l’ultima parola. Tuttavia stiamo parlando della tecnica non scientisticamente o tecnicisticamente intesa, non cioè della tecnica che crede che il discorso filosofico debba essere lasciato da parte (quanta ingenuità, in questo atteggiamento! Come se un uomo affermasse che non esiste la circolazione sanguigna, che invece è ciò che lo fa vivere). Si tratta di comprendere, invece, la destinazione al dominio da parte di una tecnica che va ascoltando sempre più la voce di quella modernità destabilizzante, di quella modernità distruttiva che vediamo riflettersi anche nel comportamento della masse. Sullo schermo televisivo scorrono i vari messaggi - il papa vicino al calciatore, la pubblicità ecologica vicino a quella imprenditoriale -, ma quello che resta dinanzi agli occhi delle masse è un unico fondamentale messaggio, cioè la capacità del mezzo televisivo di diffondere tutti i messaggi. Ciascun messaggio intende servirsi della televisione, ma da ultimo il messaggio fondamentale è, per le masse, la capacità del mezzo telematico, televisivo e informatico, di servirsi dei messaggi che esso trasmette. La tecnica tende a entrare in simbiosi con gli ultimi duecento anni di pensiero filosofico che spingono verso la luce il loro terribile spirito di distruzione del passato, mostrando che il passato non può più avere diritto di contrapporsi al processo che lo toglie di mezzo. La tecnica autenticamente potente e vincente è strettamente unita al messaggio sapienziale, filosofico, terribile e distruttivo della “morte di Dio”. “Se Dio è morto, allora tutto è permesso”, diceva Dostoevskij. Ma non è così: se Dio è morto non c’è il caos, perché la potenza stabilisce la gerarchia in cui le potenze più deboli sono subordinate a quelle più forti. Si va cioè verso un tempo in cui la potenza maggiore, quella tecnico- filosofica, va subordinando a sé, gerarchizzandole, tutte le altre forme di potenza del passato (anche la potenza dell’islam, dunque). Le aspirazioni degli intellettuali non determinano il corso storico (non lo determinano nemmeno le iniziative degli uomini pratici. La storia contiene e determina ogni iniziativa). Non si tratta infatti di dire ai popoli quello che devono fare, ma innanzitutto di capire quello che i popoli stanno facendo, e quello che vogliono. Questo vale anche per l’Europa. Per remare in barca su un fiume ci si deve innanzitutto rendere conto della direzione della corrente. Per non andarle contro. Si tratta di vedere qual è la direzione della corrente europea. Autonomia dell’Europa significa essere realmente partner degli Stati Uniti. L’Europa non può esserlo senza forza, e quindi senza forza militare. Altrimenti non sarebbe un partner, ma un dipendente, una figura di secondo piano di cui gli Stati Uniti si servono per la loro politica planetaria. La seconda metà del Novecento è stato un periodo di pace - di una pace retta e determinata dalla tensione atomica. Un periodo in cui né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica avevano interesse a che l’Europa diventasse una forza politica unitaria e autonoma. Un’Europa unitaria avrebbe infatti rotto l’equilibrio tra le due superpotenze. Con la fine della guerra fredda è accaduto qualche cosa che porta ulteriormente a dubitare della capacità dell’Europa di diventare unità politica. In due straordinari articoli pubblicati dal Corriere della Sera anni fa, Richard Nixon diceva: finché avevamo da combattere contro l’Unione Sovietica avevamo interesse a che l’Europa fosse unita. Adesso che il pericolo dell’Unione Sovietica non c’è più, è proprio vero che ci interessa favorire l’unità dell’Europa? E proponeva come asse preferenziale l’alleanza tra Stati Uniti e Germania, pregiudicando così la possibilità di un’Europa unita. Tende a costituirsi, peraltro, una sorta di asse che va da Madrid, a Parigi, a Berlino, a Mosca. Al quale potrebbe aggiungersi Roma. Intendo alludere al possibile avvicinamento tra capitale europeo e quel fattore, ormai indispensabile, che è costituito dall’arsenale atomico russo tuttora concorrenziale rispetto a quello degli Stati Uniti. È, questa, una tendenza verso l’autonomia, che rende l’Europa un vero interlocutore degli Stati Uniti e non una semplice cassa di risonanza delle loro decisioni. D’altra parte, la simbiosi tra capitale europeo e armamento atomico russo è una strada in salita, per i problemi di carattere politico, giuridico, istituzionale, e soprattutto perché il processo di maturazione democratica della Russia è ancora molto in ritardo. Anche se è vero che i grandi processi di unificazione economico-politica tendono sempre più a svincolarsi dalle forme statuali - sicché non è necessario che la cooperazione Europa-Russia passi attraverso forme di unificazione come quelle che vorrebbero pervenire all’unificazione politica dell’Europa. Sembra comunque in atto il processo che prefigura la gestione tecnologica del senso greco della “cosa”: da un lato l’asse che va dall’Europa, alla Russia e alla Cina, dall’altro l’asse che va dagli Stati Uniti, all’India e al Giappone. E nel mezzo, il processo che è destinato a condurre il mondo islamico dalla volontà di gestire ideologicamente la tecnica alla gestione tecnologica dell’ideologia religiosa. Dopo il duumvirato USA-URSS, che ha costituito la prima forma di Superstato mondiale, la pax technica è il punto d’arrivo della tendenza fondamentale del nostro tempo, dove l’apparato scientifico-tecnologico si propone esso come la forma vincente di monopolio legittimo mondiale della violenza. Ma, anche, è in relazione a questa perturbante vicinanza tra la “pace” e la “violenza” che si fanno innanzi problemi più gravi. (Milano, 27 marzo 2006)