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Elisa Calore

AFFINARE LO SGUARDO.
RIFLESSIONI SULLA FOTOGRAFIA
DI GUIDO GUIDI
AFFINARE LO SGUARDO.
RIFLESSIONI SULLA FOTOGRAFIA
DI GUIDO GUIDI

Corso di Storia della fotografia


Prof. Antonello Frongia
AA. 2008/2009
A Guido Guidi,
anche per l’enorme disponibilità.
Grazie.
Indice

Affrontare l’invasione, 9
Arte come riscatto, 12
Camminare puntando lo sguardo, 13
Il vocabolario, 17
La memoria, 19
La fotografia é la fotografia, 22
Bibliografia, 25
AFFRONTARE L’INVASIONE

Nel suo libro Il viaggio dell’icononauta, Brunetta scrive che un uomo


del medioevo nell’arco della sua vita era sottoposto alla visione
di poche immagini, inizialmente addirittura meno di una decina,
tutte raffiguranti temi religiosi. Dove la parola faticava ad arrivare,
l’immagine era in grado di farne le veci, dando successivamente vita
a quella raccolta di disegni narranti la vita di Gesù che venne definita
Biblia pauperum.
L’immagine ha accompagnato l’uomo nei secoli, ne ha raccontato
vita e paure attraverso rappresentazioni di carattere religioso e
mitologico, storico o puramente immaginario. Nel corso della sua
storia l’immagine si è trasformata in base alle tecniche rappresentative,
ai supporti materici e alla cultura visiva del momento storico in cui
compariva: dai graffiti rupestri ai geroglifici, dai mosaici bizantini
ai disegni prospettici rinascimentali, dalle stampe dei venditori
ambulanti, alle lastre delle lanterne magiche, dalla stereoscopia alla
fotografia al cinematografo.
La società odierna è soggiogata ad un invasivo regime visivo,
l’indiscusso potere delle immagini viene sfruttato in termini spaziali
e temporali, i messaggi vengono così ripetuti e diffusi per essere più
rapidamente assimilati dalla gente.
Oggi siamo circondati da fotografie: tutti ne produciamo e tutti siamo
obbligati a riceverne: i giornali, la televisione, internet ne diffondono
miliardi di qualsiasi soggetto, il più delle volte per vendere, per
convincere, per comprare consensi.
Il mercato sfrutta l’immagine perché funziona e questa inevitabilmente
viene assimilata con valori aggiunti a lei inizialmente sconosciuti.
Parlare quindi di cultura dell’immagine, come si fa attualmente
riferendosi al mondo contemporaneo, mi sembra scorretto in quanto
essa viene sempre accompagnata da un testo, anche breve, che la
descrive o ne indirizza la lettura (basti pensare alle foto che compaiono
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all’interno dei quotidiani, presentate da un titolo, affiancate da un
articolo e chiarite da precise didascalie).
Come sostiene il fotografo Guido Guidi in un’intervista tenuta con
Antonello Frongia nel libro Sul campo, che documenta il lavoro svolto
dal fotografo durante un laboratorio di Arti Visive dello IUAV, “spesso
i filosofi hanno lamentato che nel mondo contemporaneo c’è un invasione
dell’immagine, io penso invece che ci sia un invasione della parola che pretende
di spiegare ogni cosa”. [1]
Qual è l’urgenza che spinge un fotografo ad intraprende un tale
percorso e che senso può avere oggi per un artista raccontare il mondo
con uno strumento divenuto così comune e che sembra essere stato
superato da forme artistiche più contemporanee? In fin dei conti
viviamo una società in rapida trasformazione, difficilmente coglibile
attraverso una fotografia che blocca il tempo dell’istante dello scatto
e ne dilata la durata. Ci sentiamo più vicini alla rapidità del video nel
quale il tempo degli accadimenti ripresi sembra essere più in sincronia
con quello impiegato dagli stessi per verificarsi.
All’opposto però è il silenzio dell’immagine statica a darci la possibilità
di essere letta, perché colta nella sua scarna natura puramente visiva
possiamo interpretarla senza altri intermediari.
Quando osserviamo abbiamo bisogno di un tempo per vedere e
uno per comprendere e la fotografia è in grado di venirci incontro
perchè è l’unico mezzo espressivo che riesce a durare un istante
come anni. La fotografia scatta in un tempo brevissimo, lo congela
e lo dilata all’infinito, ma ogni volta che si osserva una foto si può
vedere qualcosa di diverso, come se non si trattasse sempre dello stesso
momento, ma si trasformasse, si facesse altro.
Nonostante una brevissima esperienza all’interno di un’agenzia
pubblicitaria, peraltro abbandonata precocemente, Guido Guidi, ancora
molto giovane, capisce che quello è un ambiente dal quale è meglio
prendere le dovute distanze.

[1] Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido Guidi e
Antonello Frongia, p. 165

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La fotografia deve essere fotografia, deve parlare da sé e non asservire
ad altri scopi, né rinviare ad altro se non a se stessa.
Con questa idea in testa è stato in grado di mostrarsi come un autore
autonomo e personale, procedendo per la propria strada, ma senza
risultare mai ovvio nè ripetitivo.

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ARTE COME RISCATTO

Ho visto un documentario durante il laboratorio di cinema


documentario di Marco Bertozzi, Il mio paese, di Daniele Vicari.
Partendo dal documentario di Ivens, L’Italia non è un paese povero,
il regista ripercorre l’Italia e le dà voce. Le iniziali illusioni riversate
sulla popolazione dall’industria svaniscono con gli anni, lasciando
industriali e operai con l’amaro in bocca. La nostra penisola si dimostra
più povera di quanto si pensasse, debole e incapace di affrontare
il futuro a meno che non ci si fermi a riflettere su eventuali alternative.
Ad una riunione tra gli imprenditori di Prato, prende voce lo scrittore
Edoardo Nesi, che suggerisce di cercare il riscatto nell’arte.
Quando Guidi racconta di come voglia sentire il mondo riprendere
vita attraverso l’arte, l’unica cosa che ci rimane, egli è d’accordo con
il Nesi. “Voglio sentire se il mondo è andato davvero a catafascio. Lo so che
è andato a catafascio ma, proprio per il fatto che ne tasti il polso, il cuore
riprende a battere: forse solo per te, forse è solo un’illusione, ma se tutti
facciamo così, qualcosa accade”. [1]

[1] Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido Guidi e

Antonello Frongia, p. 165

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CAMMINARE PUNTANDO LO SGUARDO,
PER UNA CONSAPEVOLEZZA ETICA E VISIVA

“Nel momento in cui guardiamo il territorio


prendiamo la distanza ideale per capire:
ci distanziamo quanto basta
per possedere il paesaggio davanti a noi.”
Paola Viganò

I paesaggi ritratti nelle fotografie agli albori di questa disciplina sono


cambiati irrimediabilmente, la presenza dell’uomo e le sue attività
vitali e commerciali han portato allo sfruttamento del territorio e alla
sua radicale modifica: le città si sono espanse, nuove zone industriali
e mercantili e grandi infrastrutture han sostituito quello che un
tempo era solo paesaggio naturale. I grandi fotografi americani
han documentato i cambiamenti nel loro paese: villaggi di legno
cominciano a dar vita al deserto, agglomerati ordinati di case identiche
si dispongono lungo i due lati delle lunghe strade che rigano gli
States, benzinai, drive-in e parcheggi mostrano come l’automobile stia
modificando l’organizzazione degli spazi urbani.
La mostra Dialectical Landscapes/Nuovo paesaggio americano organizzata
da Paolo Costantini nel 1987 che portò a Palazzo Fortuny, a Venezia,
la nuova visione americana, permise ai fotografi italiani di osservare i
paesaggi registrati da Lewis Baltz, William Eggleston, Stephen Shore,
Robert Adams e John Gossage e li accompagnò ad assumere una
nuova posizione.
Adams racconta il Colorado che si sta perdendo, senza criticare, egli
cerca di capire quanto stia accadendo, registrando attraverso l’obiettivo
della macchina fotografica e scrivendo. Lontano dal rapporto idillico,
tra uomo e natura adesso è necessario che il primo prenda coscienza
della propria azione e ammetta di aver rotto un equilibrio delicato
oltraggiando un territorio tanto prezioso quanto fragile.
Fotografare, in questo senso, può liberare l’uomo da una condizione
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di colpa e spronarlo ad interrogarsi e a proporre nuove soluzioni.
In Italia negli anni settanta l’urbanistica diventa una disciplina
completa e complessa che si occupa dei fenomeni urbani e dello
spazio circostante, dovendo saper discutere con geografi, politici,
tecnici e progettisti di vari ambiti, l’urbanista si scopre un professionista
eclettico che esegue delle precise operazioni di ricerca, cammina,
osserva e rileva percorrendo a piedi la zona su cui vuole operare,
chiedendosi come sia mutata e cominciando ad abbozzare un concept
di progetto. A tal proposito l’opera di fotografi che si addentrano
nel paesaggio, lo scrutano e lo colgono con i loro strumenti, offre
un punto di osservazione diverso, che mette in luce le qualità
del luogo in un percorso mai identico a sé stesso.
Attraverso l’operazione del fotografare luoghi ed architetture
il fotografo ricopre un ruolo critico e influenza architetti e urbanisti.
E’ quanto mai importante, in questo senso, l’attraversamento
degli spazi, la partecipazione alla vita negli stessi, la ricerca della luce,
della giusta distanza così da poterli raccontare senza produrne ritratti
esclusivamente estetici, che causano spesso una ricerca ossessiva
di fotogenia architettonica da parte del progettista di turno.
Descrivere un luogo significa non isolare le architetture dal proprio
contesto, ma comprenderle nella loro funzione, in questo modo
non si va ad aggiungere l’ennesima immagine cartolina che il turista
ricerca quando va a visitare quel luogo, ma si vive un’esperienza
della quale se ne fornisce una documentazione visiva.
Ho davanti In between cities e sfogliandolo percorro assieme a Guido
Guidi e Marco Venturi la strada B1 (Bundesstrasse 1) che collega
la Russia alla Spagna.
Si tratta di un viaggio intrapreso dai due tra l’agosto del 1993 e
l’aprile del 1996 che ha mostrato come i processi di urbanizzazione
siano basati su similitudini di soluzione, nonostante la disomogeneità
dei paesi attraversati. La strada B1 nel suo dispiegarsi cambia nome
e aspetto, svolgendo di volta in volta funzioni diverse in base alle
richieste del momento storico e del paese servito, così nel corso della
sua vita è stata strada romana, cammino di pellegrinaggio, Koenigsweg,
Hellweg, Hansestrasse,Via Marchionis, Chaussée napoleonica,

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Reichsstrasse, Autobahn e rendendosi, in questo modo, il miglior
catalogo di declinazioni possibili sul tema specifico della strada. [1]
Nonostante tutte le trasformazioni e le conseguenti diversità, però,
la B1 mi sembra offrire, attraverso le foto di Guidi, un paesaggio quasi
omogeneo, fatto di strade asfaltate e non, di palazzine in cemento e
di altre mal intonacate, di adulti che siedono sotto casa davanti
al portone e di altri che trovano ombra sotto ai rami mentre i bambini
giocano lungo la strada.
E’ il contesto della periferia a imporre un diverso significato alla parola
abitare che, liberata dalle urgenze della città, riprende il flusso del
vivere più comune e autentico.
Lontano da città imbellettate per esigenze di mercato “nella periferia le
maglie si allargano, c’è più spazio per un segno sul muro, la frenata
di un’auto, un paracarro urtato da un incidente e non aggiustato” [2].
Sono luoghi, anzi non-luoghi, dove persone di paesi diversi sembrano
vivere una vita simile, molti nella propria transitorietà sono sospesi
in una condizione di attesa: c’è chi aspetta un treno, chi un autobus,
chi riposa aspettando di riprendere il lavoro, altri attraversano strade
assolate e vuote, mentre li guardo non so da dove partano, né dove
siano diretti.
La presenza umana solitaria o riunita in piccoli gruppi rianima gli
spazi in cui si trova al momento dello scatto e l’esistenza stessa delle
persone nonostante possa apparire banale ad una prima vista, ad una
osservazione più attenta trova il proprio riscatto proprio nei gesti
più minimi ed intimi che contraddistingue l’autenticità di ognuno
di noi, come accade nella produzione cinematografica del regista
americano Jim Jarmusch, dove i personaggi sono ripresi in quelli
che normalmente vengono considerati tempi morti: tragitti in cab,
chiecchiere davanti ad un caffè... ed è proprio questo mondo delle
piccole cose che ha reso interessante l’opera del regista newyorkese,
totalmente lontano dai dettami del cinema holiwoodiano.
Nelle fotografie di In between cities il tempo sembra avanzare più lento,
alle volte sembra quasi fermarsi per permettere al pensiero
di percorrere spazi mentali e più intimi.
Guidi cammina nello spazio, lo ispeziona, si guarda attorno così da

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poter interrogare ogni frammento che lo circonda e lo attira.
Non c’è un unico punto da cui si può riprendere lo stesso oggetto
e così, con qualche passo verso un’altra direzione, un edificio ritratto
nel dettaglio da vicino, può essere visto interamente qualche pagina
successiva all’interno dello stesso libro, e poi, ancora più avanti,
ricompare, ma questa volta di scorcio.
Una ragazza viene ripresa in due istanti consecutivi mentre cammina
sul marciapiede affianco ad una Fiat 127 verde chiaro, un portico
sorretto da colonne molto alte attira l’attenzione del fotografo, lo
invita ad attraversare la strada, si fa percorrere e lo accompagna alla sua
estremità opposta, fino a che non arriviamo anche noi, nella pagina
seguente, ad osservare dei colorati telefoni pubblici da molto vicino.
Con questo modo di operare Guidi sembra ripetere le parole
di Cezanne a proposito della propria pittura: “lo stesso oggetto, visto
da una nuova angolazione offre un motivo di studio di estremo interesse e
di tale varietà che credo potrei occuparmene per mesi interi senza cambiare
posizione, solo girandomi ora verso destra ora verso sinistra”. [3]

[1]Marco Venturi, Tra le città, in In between cities, Electa, Milano, 2004, p. 150
[2] Cit. in Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido
Guidi e Antonello Frongia, p. 164
[3] Cit Paul Cezanne in Paolo Costantini, Identificazione di un paesaggio, in Nuovoo
paesaggio americano. Dialectical Landscapes, Electa, milano, 1987, p. 15

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IL VOCABOLARIO

Con gli anni lo sguardo di Guido Guidi si è fatto più acuto, pungente,
selettivo e non ha mai smesso di sentirsi a suo agio nelle periferie
delle città, lungo strade ad alta viabilità che collegano centri urbani,
ma anche lungo sentieri e sterrati, percorrendo quella che Giuseppe
Samonà ha definito campagna urbanizzata.
Il vocabolario rintracciabile nei suoi itinerari fotografici è fatto di
infrastrutture, di elementi del codice della strada, di pali e tralicci,
di veicoli, di architetture grandi e altre minime che ne ricordano
l’archetipo, di elementi della comunicazione che in certi punti le
vestono e danno loro la voce: manifesti, insegne, messaggi scritti a
mano, segni lasciati sui muri...
Senza dimenticare i monumenti americani ritratti da Evans, Guidi
riconosce nel paesaggio nuove testimonianze urbane e lascia a loro
lo spazio della fotografia.
Spesso dal punto da cui viene scattata la foto gli elementi verticali
urbani (spigoli di edifici, tralicci telefonici, pali che sorreggono
la segnaletica...) vanno a delimitare lo spazio, rimarcando i confini
laterali della superficie fotografica.
Se “Luigi Ghirri diceva di non essere più in grado di fotografare il paesaggio
perché la vista delle colline è ostruita dai pali della luce”, Guidi, al contrario,
se ne serve per costruire la sua foto, dando a paracarri, pali e muretti
la funzione che ricopre la puntina da disegno quando ci si appresta
a disegnare. [1]
Un guardrail diventa allora un buon soggetto, perché non esiste
il soggetto ideale, anzi, una questione che ricorre costantemente
nell’opera di Guidi è proprio il rifiuto di una gerarchia prestabilita
che precluda certi soggetti in favore di altri, tutto può essere interessante,
suscitare in un certo momento un’attrazione nei confronti del nostro
sguardo. E’ così che, liberati, gli occhi possono indagare, interrogare
lo spazio, percepirne il vuoto come elemento a sé stante.

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L’invito che ho sentito anche durante le sue lezioni al laboratorio
di fotografia allo IUAV è quello di non limitarsi banalmente
a vedere, ma di guardare e lasciarsi sedurre, quindi selezionare senza
farsi prendere dal sentimento perché “un buon fotografo lavora con poco
cervello, molto fegato e senza cuore”, ad indicare che la sua idea
di fotografia è distante dalla premeditazione ed è violenta nello
scegliere su cosa scattare e su cosa tagliar via “con l’accetta”.

[1] Cit. in Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido
Guidi e Antonello Frongia, p. 163
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LA MEMORIA

Mi è capitato più volte, guardando le fotografie di Guido Guidi,


di riconoscervi all’interno delle facce e di sentirmi osservata
di riflesso, come se dai paesaggi ripresi emergessero strane creature
che ci strizzano l’occhio, sonnecchiano con le palpebre semichiuse,
a volte son sorridenti, altre ambigue, dubbiose.
La personificazione emerge ovunque, il più delle volte dalla forma
più elementare del costruito, la tipica casa che si disegna da bambini,
la porta tra due finestre e il tetto a due falde.
Mi sono ricordata di aver letto in un intervista che per il fotografo
sarebbe bello riscattare la fotografia dal ruolo relegatole di registratore
del presente, cercando di farle “attraversare il tempo” come si crede sia
in grado di fare la letteratura.
Con questo proposito capita che, viaggiando, Guidi si ritrovi a scattare
su cose viste quando era bambino.Come se quelle presenze tornassero
in superficie riprendendo aria dopo una lunga apnea memoriale.
C’è un’interessante corrispondenza tra il desiderio di vincere sul tempo e
il tornare allo sguardo di quando si era bambini, nel momento in cui
c’era ancora la possibilità di stupirsi della cose, di vederle per la prima
volta, di provare meraviglia.
Dopo averne parlato assieme, Guidi dice di non poterlo affermare con
così tanta sicurezza.
Mi fa notare che l’elemento antropomorfo emerge maggiormente
durante le revisioni con i sui studenti, è lì che lo incontra e suggerisce
di scoprirlo nello spazio.
Nel libro Storia naturale dell’occhio di Ings Simon si legge che uno
dei primi organi a svilupparsi nel feto è proprio quello della visione
e che la luce è visibile fin dal nostro sviluppo all’interno del grembo
materno. Nei primi due mesi dopo la nascita il bambino riconosce
gli occhi della madre, nei mesi successivi tutto il viso.
Dopo il primo anno di vita, verso il sedicesimo mese, riusciamo a

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vedere gli oggetti attorno a noi, comprendiamo la loro presenza
nello spazio e siamo in grado di indicarli relazionandoci con loro.
Guidi aggiunge di non prenderlo alla lettera, “non parlo solo di due occhi
e una bocca, è tutta la superficie che ci guarda. Vedi, quello spigolo mi sta
fissando adesso, questo dito anche”. [1]
Quando osserviamo, tutto vibra, tutto ciò che ci circonda è sguardo
che ci risponde. Si tratta di un dialogo tra i nostri occhi e tutta
la superficie della fotografia. Nelle sue foto vari oggetti si mettono
così in moto e grazie al punto di vista, all’inquadratura, all’ esposizione
e alla messa a fuoco in ogni fotografia accade qualcosa: le linee
non son più semplici contorni, limiti che separano una superficie
dall’altra bloccandone le caratteristiche materiche e cromatiche in
una determinata parte dello spazio bidimensionale, ma, muovendosi,
accompagnano il nostro sguardo all’interno della fotografia.
In una quiete apparente fatta di luoghi quasi vuoti, raramente abitati
al momento dello scatto, emerge uno stato di forte tensione tra gli
oggetti ripresi e tra la loro presenza nella superficie fotografica e
il nostro sguardo che si muove per osservarli.
E’ come se la composizione ultima della fotografia volesse aiutare
gli occhi, conducendone i movimenti verso una nuova esplorazione
saccadica e di analisi, che altrimenti si baserebbe su informazioni
che precedono lo sguardo.
Ancora una volta ci viene consigliato di abbandonare le gerarchie che
abbiamo appreso durante la nostra vita: dobbiamo imparare a guardare
tutto con insaziabile curiosità.
La memoria di una cosa già vista ne sostituisce la banalità, andando
a scrivere nuove metafore e dando nuovi significati alle corrispondenze
che si instaurano sotto allo sguardo di Guidi.

[1] Guidi a tal proposito cita il libro di Michael Fried, Le Modernisme de Manet,
Gallimard, 2000, nel quale si parla della tela di Olimpia. Non sono solo i suoi occhi a
guardarci, ma l’intera superficie della quadro.
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Nuovi piccoli mondi accadono nella superficie fotografica, mentre
nello spazio reale alcuni oggetti semplicemente stanno nel vuoto.
Le foto si trasformano così in spazi scenici dove la linea scorre
ovunque e tesse assieme elementi di per sè distanti e tutto si muove
come gli esserini antropomorfi, legati tutti miracolosamente assieme da
vivaci linee nere, che fluttuano nel blu di alcune tele di Joan Mirò.
Un mondo che riemerge attraverso la memoria del pittore di un
tempo lontano e felice, dimentico dalla guerra che sta attanagliando
la realtà. Decisione che, forse in modo diverso, prende anche Guidi,
mostrandoci una realtà più serena e apolitica rispetto a quella che in
un certo periodo riempì le pagine di cronaca negli stessi anni in cui
stava lavorando, gli anni di piombo del nostro paese, seguendo alla
lettera le parole di Evans, “No politics whatever!”.
Da questa visione, scaturisce quasi una vicinanza alla poetica del
Fanciullino pascoliano, nella quale l’autore riesce a sopravvivere al
mondo: lo sguardo del fanciullo infatti riesce ancora a vedere come se
fosse la prima volta, il suo occhio è nella condizione di poter esclamare
“ah, ho capito, accidenti! Non me n’ero accorto...”, l’ultimo incanto prima
di vedere come si vede il saputo.
La forza della fotografia sta poprio nello scattare da una condizione
che permette di cambiare le cose, dando nuove forme a ciò che
quotidianamente vediamo. Si tratta di riscrivere con un altro alfabeto,
di tradurre in un altro linguaggio provocando lo sconcerto in chi
pensava di avere già visto.
Guidi riesce a trovare nuove corrispondenze tra le presenze del reale
più quotidiano che sfugge alla nostra percezione abituale, appannata
dal peso delle convenzioni. Come Pascoli, Guidi non vuole incaricarsi
del ruolo di “ammonitore”, ma semplicemente impiegando le
potenzialità della fotografia in quanto fotografia, senza nessun altro
scopo, nè presunzione, incuriosisce il nostro sguardo divenuto quasi
cieco, lo invita a reuperare le forze e la voglia di guardare di nuovo.
Ecco allora che il sublime emerge dalle piccole cose, che trovano la
propria dignità nei particolari più semplici ed umili.

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LA FOTOGRAFIA È LA FOTOGRAFIA

“Fotografare non è vedere, fotografare è fotografare”


John szarkowski

A Padova di recente un’esposizione curata da Italo Zannier e Enrico


Gusella, dieci fotografi d’oro, ha messo in mostra per Guidi un lavoro da
lui presentato per il progetto di osservazione del territorio Lugoland,
le foto sono state scattate in diversi anni ma mostrano di essere tenute
assieme da un unico filo conduttore, la porta, l’ingresso, l’uscio, la
serranda... Ricordo precisamente una frase che Guidi disse nel corso
di una lezione del suo laboratorio di fotografia lo scorso anno, a
proposito di un ritratto: “si è bello che scatti su di lui, che è appena tornato
da una battuta di pesca e ti mostra orgoglioso il suo trofeo... Ma pensa se nel
palazzo che fa da sfondo alla scena una donna aprisse nell’istrante in cui scatti
il balcone, ecco, quella è la fotografia!”
Forse Guidi sta seguendo nel corso degli anni un unico progetto
infinito, che racconta la fotografia come atto del vedere, ultimo
momento di un osservazione attenta e continua.
La fotografia, che non deve essere nient’altro che fotografia, ci mostra
come avviene: la luce entra nella macchina e quando l’otturatore scatta
l’immagine si fissa sulla pellicola.
Nell’intuizione di John Szarkowski che portò al MOMA nel 1975
una mostra intitolata Mirrors and Windows era custodita la duplice
essenza di questa tecnica di scrittura: nella foto in quanto finestra,
l’importanza sta nel margine che delimita ciò che sta dentro e scarta
ciò che viene tagliato fuori, nella foto in quanto specchio la luce
si trasforma, diventa materia e plasma paesaggi anche surreali.
I margini, nella fotografia di Guidi assumono un’importanza radicale,
delimitano lo spazio e chiariscono quanto sta accadendo: uno spazio
tridimensionale è stato trascritto attraverso la luce in un’immagine
bidimensionale. Guidi è chiaro, esplicito fin da subito: stai attento,
sembra dirci, non stai vedendo una cosa, ma la sua rappresentazione.

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Non ci sei solo tu e l’oggetto, di mezzo c’è la mia visione.
Come scrive Morpurgo ci troviamo di fronte ad una seconda visione
che “si realizza tramite l’intero procedimento fotografico che ritroviamo
esplicito nell’immagine conclusiva”.[1]
Ecco allora che la vignettatura che appare in alcune foto scattate
negli anni ottanta ci ricorda che stiamo guardando, il nostro occhio
incastonato dentro al cranio osserva attraverso i fori obitali ciò che
sta fuori, un vaso di vetro ingiallito frantumato per terra ci mostra
il bulbo oculare, alcune foto appiccicate su una porta bianca si fanno
finestre per vedere aldilà, mentre la copertina del libro SS9 mostra un
pozzo nero che come un gigantesco unico occhio rimanda alla visione
attraverso la macchina fotografica e allo stesso tempo ci risucchia
all’interno del libro. La fotografia è solo il momento ultimo di tutto
il processo che investe il nostro organo di senso nell’atto del vedere,
ancora una volta Guidi ci dice che la fotografia non rimanda ad altro
se non a sé stessa.
L’aneddoto della visione che appare nelle sue fotografie ci avverte.
Il margine invece mostra come tagliamo nel momento in cui
guardiamo e allo stesso modo i limiti indicano nelle fotografie questa
violenza sul paesaggio osservato. Fotografare significa svelare il mezzo
fotografico attraverso la messa in mostra del margine, della selezione,
della costruzione dello spazio bidimensionale.
Alla fine di tutto resta semplicemente la fotografia.
Fotografia in quanto fotografia.

[1] Gaddo Morpurgo, Il gusto di rivedere. Immagini: scritture trascrizioni e progetto. Franco
Angeli, Milano, 1985, p.105
23
BIBLIOGRAFIA

Luigi Ghirri (a cura di)Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria, 1984

Luigi Ghirri (a cura di), Esplorazioni sulla via Emilia. Vedute nel paesaggio, Feltrinelli,
Milano, 1986

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1839-1989, Alinari, Firenze, 1989

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Paolo Costantini (a cura di) Venezia-Marghera, Charta, 1997

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Guido Guidi (a cura di), In between cities, Electa, Milano, 2004

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Laboratorio di fotografia A. Aprile/Luglio 2006 dello IUAV, Grafiche Veneziane,Venezia,
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Paolo Costantini, Percepire le differenze, in Fotologia 5, estate-autunno 1986, pag. 80.

Gaddo Morpurgo, Il gusto di rivedere. Immagini: scritture trascrizioni e progetto. Franco


Angeli, Milano, 1985

G.Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 1989

John Szarkowski, L’occhio del fotografo, Five continent editions, Milano, 2007

Robert Adams, La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali, Bollati
Boringhieri, Torino, 2006

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Robert Adams, The new west, Aperture, New York, 2008

Stephen Shore, The nature of photography, Phaidon, Londra, 2007

Ilaria Infante, Pascoli e la poetica del fanciullino, Luciano editore, Napoli, 1999

Ings Simon, storia naturale dell’occhio, Einaudi, Torino, 2008

26

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