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AFFINARE LO SGUARDO.
RIFLESSIONI SULLA FOTOGRAFIA
DI GUIDO GUIDI
AFFINARE LO SGUARDO.
RIFLESSIONI SULLA FOTOGRAFIA
DI GUIDO GUIDI
Affrontare l’invasione, 9
Arte come riscatto, 12
Camminare puntando lo sguardo, 13
Il vocabolario, 17
La memoria, 19
La fotografia é la fotografia, 22
Bibliografia, 25
AFFRONTARE L’INVASIONE
[1] Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido Guidi e
Antonello Frongia, p. 165
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La fotografia deve essere fotografia, deve parlare da sé e non asservire
ad altri scopi, né rinviare ad altro se non a se stessa.
Con questa idea in testa è stato in grado di mostrarsi come un autore
autonomo e personale, procedendo per la propria strada, ma senza
risultare mai ovvio nè ripetitivo.
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ARTE COME RISCATTO
[1] Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido Guidi e
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CAMMINARE PUNTANDO LO SGUARDO,
PER UNA CONSAPEVOLEZZA ETICA E VISIVA
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Reichsstrasse, Autobahn e rendendosi, in questo modo, il miglior
catalogo di declinazioni possibili sul tema specifico della strada. [1]
Nonostante tutte le trasformazioni e le conseguenti diversità, però,
la B1 mi sembra offrire, attraverso le foto di Guidi, un paesaggio quasi
omogeneo, fatto di strade asfaltate e non, di palazzine in cemento e
di altre mal intonacate, di adulti che siedono sotto casa davanti
al portone e di altri che trovano ombra sotto ai rami mentre i bambini
giocano lungo la strada.
E’ il contesto della periferia a imporre un diverso significato alla parola
abitare che, liberata dalle urgenze della città, riprende il flusso del
vivere più comune e autentico.
Lontano da città imbellettate per esigenze di mercato “nella periferia le
maglie si allargano, c’è più spazio per un segno sul muro, la frenata
di un’auto, un paracarro urtato da un incidente e non aggiustato” [2].
Sono luoghi, anzi non-luoghi, dove persone di paesi diversi sembrano
vivere una vita simile, molti nella propria transitorietà sono sospesi
in una condizione di attesa: c’è chi aspetta un treno, chi un autobus,
chi riposa aspettando di riprendere il lavoro, altri attraversano strade
assolate e vuote, mentre li guardo non so da dove partano, né dove
siano diretti.
La presenza umana solitaria o riunita in piccoli gruppi rianima gli
spazi in cui si trova al momento dello scatto e l’esistenza stessa delle
persone nonostante possa apparire banale ad una prima vista, ad una
osservazione più attenta trova il proprio riscatto proprio nei gesti
più minimi ed intimi che contraddistingue l’autenticità di ognuno
di noi, come accade nella produzione cinematografica del regista
americano Jim Jarmusch, dove i personaggi sono ripresi in quelli
che normalmente vengono considerati tempi morti: tragitti in cab,
chiecchiere davanti ad un caffè... ed è proprio questo mondo delle
piccole cose che ha reso interessante l’opera del regista newyorkese,
totalmente lontano dai dettami del cinema holiwoodiano.
Nelle fotografie di In between cities il tempo sembra avanzare più lento,
alle volte sembra quasi fermarsi per permettere al pensiero
di percorrere spazi mentali e più intimi.
Guidi cammina nello spazio, lo ispeziona, si guarda attorno così da
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poter interrogare ogni frammento che lo circonda e lo attira.
Non c’è un unico punto da cui si può riprendere lo stesso oggetto
e così, con qualche passo verso un’altra direzione, un edificio ritratto
nel dettaglio da vicino, può essere visto interamente qualche pagina
successiva all’interno dello stesso libro, e poi, ancora più avanti,
ricompare, ma questa volta di scorcio.
Una ragazza viene ripresa in due istanti consecutivi mentre cammina
sul marciapiede affianco ad una Fiat 127 verde chiaro, un portico
sorretto da colonne molto alte attira l’attenzione del fotografo, lo
invita ad attraversare la strada, si fa percorrere e lo accompagna alla sua
estremità opposta, fino a che non arriviamo anche noi, nella pagina
seguente, ad osservare dei colorati telefoni pubblici da molto vicino.
Con questo modo di operare Guidi sembra ripetere le parole
di Cezanne a proposito della propria pittura: “lo stesso oggetto, visto
da una nuova angolazione offre un motivo di studio di estremo interesse e
di tale varietà che credo potrei occuparmene per mesi interi senza cambiare
posizione, solo girandomi ora verso destra ora verso sinistra”. [3]
[1]Marco Venturi, Tra le città, in In between cities, Electa, Milano, 2004, p. 150
[2] Cit. in Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido
Guidi e Antonello Frongia, p. 164
[3] Cit Paul Cezanne in Paolo Costantini, Identificazione di un paesaggio, in Nuovoo
paesaggio americano. Dialectical Landscapes, Electa, milano, 1987, p. 15
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IL VOCABOLARIO
Con gli anni lo sguardo di Guido Guidi si è fatto più acuto, pungente,
selettivo e non ha mai smesso di sentirsi a suo agio nelle periferie
delle città, lungo strade ad alta viabilità che collegano centri urbani,
ma anche lungo sentieri e sterrati, percorrendo quella che Giuseppe
Samonà ha definito campagna urbanizzata.
Il vocabolario rintracciabile nei suoi itinerari fotografici è fatto di
infrastrutture, di elementi del codice della strada, di pali e tralicci,
di veicoli, di architetture grandi e altre minime che ne ricordano
l’archetipo, di elementi della comunicazione che in certi punti le
vestono e danno loro la voce: manifesti, insegne, messaggi scritti a
mano, segni lasciati sui muri...
Senza dimenticare i monumenti americani ritratti da Evans, Guidi
riconosce nel paesaggio nuove testimonianze urbane e lascia a loro
lo spazio della fotografia.
Spesso dal punto da cui viene scattata la foto gli elementi verticali
urbani (spigoli di edifici, tralicci telefonici, pali che sorreggono
la segnaletica...) vanno a delimitare lo spazio, rimarcando i confini
laterali della superficie fotografica.
Se “Luigi Ghirri diceva di non essere più in grado di fotografare il paesaggio
perché la vista delle colline è ostruita dai pali della luce”, Guidi, al contrario,
se ne serve per costruire la sua foto, dando a paracarri, pali e muretti
la funzione che ricopre la puntina da disegno quando ci si appresta
a disegnare. [1]
Un guardrail diventa allora un buon soggetto, perché non esiste
il soggetto ideale, anzi, una questione che ricorre costantemente
nell’opera di Guidi è proprio il rifiuto di una gerarchia prestabilita
che precluda certi soggetti in favore di altri, tutto può essere interessante,
suscitare in un certo momento un’attrazione nei confronti del nostro
sguardo. E’ così che, liberati, gli occhi possono indagare, interrogare
lo spazio, percepirne il vuoto come elemento a sé stante.
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L’invito che ho sentito anche durante le sue lezioni al laboratorio
di fotografia allo IUAV è quello di non limitarsi banalmente
a vedere, ma di guardare e lasciarsi sedurre, quindi selezionare senza
farsi prendere dal sentimento perché “un buon fotografo lavora con poco
cervello, molto fegato e senza cuore”, ad indicare che la sua idea
di fotografia è distante dalla premeditazione ed è violenta nello
scegliere su cosa scattare e su cosa tagliar via “con l’accetta”.
[1] Cit. in Guido Guidi, Quel che resta, da Sul campo, intervista del 2003 tra Guido
Guidi e Antonello Frongia, p. 163
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LA MEMORIA
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vedere gli oggetti attorno a noi, comprendiamo la loro presenza
nello spazio e siamo in grado di indicarli relazionandoci con loro.
Guidi aggiunge di non prenderlo alla lettera, “non parlo solo di due occhi
e una bocca, è tutta la superficie che ci guarda. Vedi, quello spigolo mi sta
fissando adesso, questo dito anche”. [1]
Quando osserviamo, tutto vibra, tutto ciò che ci circonda è sguardo
che ci risponde. Si tratta di un dialogo tra i nostri occhi e tutta
la superficie della fotografia. Nelle sue foto vari oggetti si mettono
così in moto e grazie al punto di vista, all’inquadratura, all’ esposizione
e alla messa a fuoco in ogni fotografia accade qualcosa: le linee
non son più semplici contorni, limiti che separano una superficie
dall’altra bloccandone le caratteristiche materiche e cromatiche in
una determinata parte dello spazio bidimensionale, ma, muovendosi,
accompagnano il nostro sguardo all’interno della fotografia.
In una quiete apparente fatta di luoghi quasi vuoti, raramente abitati
al momento dello scatto, emerge uno stato di forte tensione tra gli
oggetti ripresi e tra la loro presenza nella superficie fotografica e
il nostro sguardo che si muove per osservarli.
E’ come se la composizione ultima della fotografia volesse aiutare
gli occhi, conducendone i movimenti verso una nuova esplorazione
saccadica e di analisi, che altrimenti si baserebbe su informazioni
che precedono lo sguardo.
Ancora una volta ci viene consigliato di abbandonare le gerarchie che
abbiamo appreso durante la nostra vita: dobbiamo imparare a guardare
tutto con insaziabile curiosità.
La memoria di una cosa già vista ne sostituisce la banalità, andando
a scrivere nuove metafore e dando nuovi significati alle corrispondenze
che si instaurano sotto allo sguardo di Guidi.
[1] Guidi a tal proposito cita il libro di Michael Fried, Le Modernisme de Manet,
Gallimard, 2000, nel quale si parla della tela di Olimpia. Non sono solo i suoi occhi a
guardarci, ma l’intera superficie della quadro.
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Nuovi piccoli mondi accadono nella superficie fotografica, mentre
nello spazio reale alcuni oggetti semplicemente stanno nel vuoto.
Le foto si trasformano così in spazi scenici dove la linea scorre
ovunque e tesse assieme elementi di per sè distanti e tutto si muove
come gli esserini antropomorfi, legati tutti miracolosamente assieme da
vivaci linee nere, che fluttuano nel blu di alcune tele di Joan Mirò.
Un mondo che riemerge attraverso la memoria del pittore di un
tempo lontano e felice, dimentico dalla guerra che sta attanagliando
la realtà. Decisione che, forse in modo diverso, prende anche Guidi,
mostrandoci una realtà più serena e apolitica rispetto a quella che in
un certo periodo riempì le pagine di cronaca negli stessi anni in cui
stava lavorando, gli anni di piombo del nostro paese, seguendo alla
lettera le parole di Evans, “No politics whatever!”.
Da questa visione, scaturisce quasi una vicinanza alla poetica del
Fanciullino pascoliano, nella quale l’autore riesce a sopravvivere al
mondo: lo sguardo del fanciullo infatti riesce ancora a vedere come se
fosse la prima volta, il suo occhio è nella condizione di poter esclamare
“ah, ho capito, accidenti! Non me n’ero accorto...”, l’ultimo incanto prima
di vedere come si vede il saputo.
La forza della fotografia sta poprio nello scattare da una condizione
che permette di cambiare le cose, dando nuove forme a ciò che
quotidianamente vediamo. Si tratta di riscrivere con un altro alfabeto,
di tradurre in un altro linguaggio provocando lo sconcerto in chi
pensava di avere già visto.
Guidi riesce a trovare nuove corrispondenze tra le presenze del reale
più quotidiano che sfugge alla nostra percezione abituale, appannata
dal peso delle convenzioni. Come Pascoli, Guidi non vuole incaricarsi
del ruolo di “ammonitore”, ma semplicemente impiegando le
potenzialità della fotografia in quanto fotografia, senza nessun altro
scopo, nè presunzione, incuriosisce il nostro sguardo divenuto quasi
cieco, lo invita a reuperare le forze e la voglia di guardare di nuovo.
Ecco allora che il sublime emerge dalle piccole cose, che trovano la
propria dignità nei particolari più semplici ed umili.
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LA FOTOGRAFIA È LA FOTOGRAFIA
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Non ci sei solo tu e l’oggetto, di mezzo c’è la mia visione.
Come scrive Morpurgo ci troviamo di fronte ad una seconda visione
che “si realizza tramite l’intero procedimento fotografico che ritroviamo
esplicito nell’immagine conclusiva”.[1]
Ecco allora che la vignettatura che appare in alcune foto scattate
negli anni ottanta ci ricorda che stiamo guardando, il nostro occhio
incastonato dentro al cranio osserva attraverso i fori obitali ciò che
sta fuori, un vaso di vetro ingiallito frantumato per terra ci mostra
il bulbo oculare, alcune foto appiccicate su una porta bianca si fanno
finestre per vedere aldilà, mentre la copertina del libro SS9 mostra un
pozzo nero che come un gigantesco unico occhio rimanda alla visione
attraverso la macchina fotografica e allo stesso tempo ci risucchia
all’interno del libro. La fotografia è solo il momento ultimo di tutto
il processo che investe il nostro organo di senso nell’atto del vedere,
ancora una volta Guidi ci dice che la fotografia non rimanda ad altro
se non a sé stessa.
L’aneddoto della visione che appare nelle sue fotografie ci avverte.
Il margine invece mostra come tagliamo nel momento in cui
guardiamo e allo stesso modo i limiti indicano nelle fotografie questa
violenza sul paesaggio osservato. Fotografare significa svelare il mezzo
fotografico attraverso la messa in mostra del margine, della selezione,
della costruzione dello spazio bidimensionale.
Alla fine di tutto resta semplicemente la fotografia.
Fotografia in quanto fotografia.
[1] Gaddo Morpurgo, Il gusto di rivedere. Immagini: scritture trascrizioni e progetto. Franco
Angeli, Milano, 1985, p.105
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BIBLIOGRAFIA
Luigi Ghirri (a cura di), Esplorazioni sulla via Emilia. Vedute nel paesaggio, Feltrinelli,
Milano, 1986
Guido Guidi e Luigi Ghirri (a cura di), Il museo diffuso, Mazzotta, Milano, 1987
Paolo Costantini e Italo Zannier (a cura di), L’insistenza dello sguardo. Fotografie italiane.
1839-1989, Alinari, Firenze, 1989
Guido Guidi (a cura di), Guido Guidi. Varianti, Art&, Udine, 1995
Guido Guidi (a cura di), Un resoconto. Selezione dei lavori realizzati dagli studenti del
Laboratorio di fotografia A. Aprile/Luglio 2006 dello IUAV, Grafiche Veneziane,Venezia,
2007
John Szarkowski, L’occhio del fotografo, Five continent editions, Milano, 2007
Robert Adams, La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali, Bollati
Boringhieri, Torino, 2006
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Robert Adams, The new west, Aperture, New York, 2008
Ilaria Infante, Pascoli e la poetica del fanciullino, Luciano editore, Napoli, 1999
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