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Delitto e castigo
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Delitto e castigo

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About this ebook

Dostoevskij scrisse Delitto e castigo nel 1866. La storia narra le vicende dello studente Raskolnikov che, per cercare una via d’uscita dalla miseria ed aiutare la madre e la sorella, uccide una vecchia usuraia e la sorella per derubarle. Da quel momento Raskolnikov diventa l’implacabile giudice di sé stesso. Combattuto fra il rimorso per il delitto ed il timore di venire scoperto è assalito da stati di vero e proprio delirio. La storia si chiude con il pentimento e l’espiazione del protagonista, accortosi della disumanità di una astratta morale da ‘uomo superiore’.  
LanguageItaliano
Release dateJun 10, 2019
ISBN9788874174836

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    Delitto e castigo - Fëdor Dostoevskij

    II

    Informazioni

    In copertina: Edvard Munch, Malinconia, 1910

    © 2019 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata su una traduzione del 1934 di Luigi Ermete Zalapy. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    PARTE PRIMA

    I

    In un’afosa serata dei primi di luglio, un giovane uscì dalla cameretta ammobiliata che occupava nella soffitta di una grande casa di cinque piani, nel vico­lo S..., dirigendosi lentamente, un po’ titubante, verso il ponte di K... Ebbe la fortuna di non incontrare per le scale la padrona di casa. Questa abitava al piano in­feriore e teneva costantemente aperta la porta della cu­cina, che dava sulle scale, di modo che il giovane, quan­do doveva uscire, era sempre costretto a passare sotto il fuoco nemico, provando ogni volta una sensazione morbosa di paura che l’umiliava e provocava sul suo viso una smorfia di dispetto. Egli aveva contratto qual­che debito di non lieve entità con la padrona di casa e temeva d’incontrarla. Non che le sventure lo avessero intimidito o abbattuto, tutt’altro; ma da qualche tempo si trovava in uno stato di depressione nervosa prossimo all’ipocondria e a furia di isolarsi, di rinchiudersi in sé stesso, era arrivato al punto di sfuggire, non solo la padrona di casa, ma anche la vista dei propri simili.

    Benché assillato dalla povertà, Raskolnikoff vi si era ormai abituato e aveva del tutto rinunciato alle occu­pazioni giornaliere. Non si può dire, dunque, che si preoccupasse gran che della padrona di casa e delle misure che questa avrebbe potuto prendere contro di lui, ma, certo, preferiva svignarsela alla chetichella, sgattaiolando senza esser visto, piuttosto che essere fer­mato per le scale, sentire ogni sorta di sciocchezze, di cui non gl’importava nulla, subire recriminazioni, mi­nacce, lagnanze, rispondere con pretesti e menzogne.

    Questa volta, però, quando fu sulla via, si meravigliò del proprio timore d’incontrare la sua creditrice.

    « Come posso spaventarmi di simili sciocchezze, mentre sto meditando un colpo così ardito? — pensò con uno strano sorriso. — Uhm!... Già... l’uomo ha tutto nelle sue mani e lascia che tutto gli passi sotto il naso, unicamente per pigrizia... Questo è un assio­ma... Sarei curioso di sapere di che cosa la gente ha più timore; credo che essa tema soprattutto ciò che la strap­pa alle sue abitudini... Ma io chiacchiero troppo, e per questo non riesco a far niente. È vero che potrei egual­mente dire: chiacchiero perché non faccio niente. È ormai un mese che ho preso quest’abitudine di chiac­chierare, accoccolato in un cantuccio per giornate in­tere, pensando a sciocchezze... Vediamo un po’, perché faccio ora questa corsa? Sono forse capace di compiere quel che ho in mente? È forse una cosa seria, questa?... No, non è affatto seria. Sono bolle di sapone, che diver­tono la mia fantasia, pure chimere! »

    La via era pervasa da un calore soffocante. La folla, la vista della calce, dei mattoni, delle impalcature e quel lezzo speciale così noto al Pietroburghese che non ha mezzi per affittare una capanna in campagna durante l’e­state, tutto contribuiva ad irritare maggiormente i ner­vi già eccitati del giovane. L’odore insopportabile delle osterie, molto numerose in quella parte della città e gli ubriachi che s’incontravano ad ogni passo, benché fosse giorno di lavoro, davano l’ultimo tocco a quel quadro disgustoso. I fini lineamenti del giovane tradi­rono per un istante un senso di profondo disgusto. Di­ciamo, a questo proposito, che le doti fisiche non gli facevano difetto, di statura superiore alla media, snello e ben fatto della persona, aveva capelli castani e begli occhi scuri.

    Ma, poco dopo, egli cadde in una profonda astra­zione, o piuttosto in una specie di torpore intellettuale e andò avanti evitando di proposito di osservare ciò che lo circondava. Di tanto in tanto mormorava fra sé qualche parola, giacché, come aveva egli stesso ricono­sciuto poco prima, aveva l’abitudine dei soliloqui. In quel momento, sentiva che le idee gli si confondevano e che era assai debole, erano due giorni che non mangiava quasi nulla.

    Era vestito così male, che un altro si sarebbe fatto scrupolo di uscire in pieno giorno conciato in quel modo, per quanto il quartiere permettesse d’indossare qualsiasi costume. Nei dintorni del Mercato del Fieno, in quelle vie del centro di Pietroburgo dove abita la popolazione operaia, neppure l’abbigliamento più stra­ no avrebbe potuto destar meraviglia. Ma l’animo del giovane era così pieno di feroce sdegno, che, nonostante il suo pudore inerente agli anni, egli non si vergognava di mettere in mostra la propria cenciosa miseria.

    Certamente, gli sarebbe rincresciuto d’incontrare qualche conoscente o qualcuno degli ex compagni, nei quali generalmente evitava d’imbattersi...Pur tutta­via, si fermò subito sentendosi indicato all’attenzione dei passanti da queste parole pronunciate con tono can­zonatorio: « Oh! Cappellone tedesco! » Chi lo aveva apostrofato in tal modo era un ubriaco portato, chi sa dove e perché, sopra un carro.

    Con gesto convulso, il giovane si tolse il cappello e si mise ad osservarlo. Era una tuba comperata da Zimmermann, già logora dall’uso, rossiccia, tarlata, unta, pie­ na di ammaccature e per di più priva di falde. Tutta­via, lungi dal sentirsi punto nel suo amor proprio, il legittimo possessore di quello strano copricapo, a quel­le parole, fu colto più da un senso di inquietudine che non di umiliazione.

    — C’era da immaginarselo! — mormorò turbato — lo prevedevo! Un’inezia simile, una sciocchezza insi­gnificante può guastare tutto il piano! Sì, questo cap­pello attira troppo l’attenzione. È davvero ridicolo... Per andare in giro con questi cenci, ci vuole assolutamente un berretto; un vecchio berrettaccio qualunque sarà sempre meglio di questa tuba indecente. Nessuno porta un cappello come questo, che si vede lontano un miglio e rimane impresso... più tardi se ne ricorderan­no e potrebbe servire come indizio... Ora mi conviene attirare il meno possibile l’attenzione dei passanti... Le piccole cose hanno la loro importanza, sono sempre quelle che rovinano ogni cosa...

    Non doveva andar lontano, sapeva perfino la distanza esatta che separava la sua dimora dal luogo ove si re­cava: seicentotrenta passi precisi. Li aveva contati quando il suo piano era appena vagamente abbozzato e non credendo neppur lui che sarebbe giunto ad attuar­lo, si limitava ad accarezzarlo come una chimera sedu­cente e orribile ad un tempo. Ma ormai era trascorso un mese ed il giovane cominciava a considerare la cosa sotto un altro punto di vista. Benché, segretamente, si rimproverasse la propria mancanza d’energia, la propria irresolutezza, tuttavia, inconsciamente, egli si era a po­co a poco abituato a considerare come possibile l’avve­rarsi del suo sogno, pur continuando a dubitare di se stesso. Ora egli andava a fare la prova generale dell’im­presa e la sua agitazione cresceva ad ogni passo.

    Col cuore in tumulto e le membra scosse da un tre­mito nervoso, si avvicinò ad un immenso caseggiato prospicente da una parte sul canale, dall’altra sulla via... Questo edificio, costituito da una quantità di piccoli ap­partamenti, era abitato da gente dai mestieri più diversi: sarti, cuoche, tedeschi di varie categorie, pro­stitute, piccoli funzionari, ecc. Un formicaio di persone entrava e usciva dalle due porte. Tre o quattro porti­nai erano addetti al servizio di quella casa. Con sua grande soddisfazione, il giovane non incontrò nessuno, dopo aver oltrepassato la soglia senza essere visto, in­filò immediatamente la scala di destra.

    Egli conosceva già quella scala tetra e stretta, la cui oscurità non gli dispiaceva; era tanto buia, che nascon­deva anche gli sguardi più curiosi, « Se ora tremo in questo modo, che sarà quando verrò sul serio? » pen­sava egli avvicinandosi al quarto piano. Qui, il giovane fu obbligato a fermarsi, perché alcuni facchini, soldati in congedo, sgombravano un appartamento occupato — come egli sapeva — da un funzionario tedesco con la sua famiglia. « Grazie alla partenza di questo tedesco, per qualche tempo non vi saranno più su questo piane­rottolo altri inquilini all’infuori della vecchia. Bene a sapersi... per ogni eventualità... » pensò, suonando al­l’uscio della vecchia. Il campanello mandò un suono fievole, come fosse di latta anziché di ottone. È questo il suono comune a tutti i campanelli delle case popo­lari. Egli aveva dimenticato tale particolare ed ora il tintinnio speciale del campanello dovette ricordargli al­l’improvviso qualche cosa, poiché ebbe un brivido; i suoi nervi erano molto scossi. Un momento dopo la por­ta si schiuse e la padrona di casa si mise ad osservare dallo spiraglio il visitatore con evidente diffidenza; nel­l’oscurità apparivano solamente i suoi occhietti come due punti luminosi. Udendo, però, che sul pianerottolo vi erano altre persone, si rassicurò e spalancò la porta.

    Il giovane entrò in un’anticamera buia che un tra­mezzo separava dalla cucina. In piedi, davanti a lui, la vecchia lo interrogava silenziosamente con lo sguardo.

    Era una donna sui sessant’anni, piccola e magra, dal nasetto a punta e dagli occhietti penetranti e cattivi. Aveva il capo scoperto e i capelli brizzolati rilucevano d’unto. Uno straccio di flanella le copriva il collo lun­go e sottile come una zampa di gallina e nonostante il caldo, portava sulle spalle una pelliccia rognosa e giallastra. La tosse non la lasciava in pace un istante. Poiché il giovane la guardò in modo strano, negli occhi di lei brillò di nuovo la diffidenza.

    - Raskolnikoff, studente. Son venuto qui, da voi, un mese fa, — si affrettò a dire il giovane, facendo un mezzo inchino, poiché nel frattempo aveva riflettuto che era d’uopo comportarsi con maggior cortesia.

    - Me ne ricordo, caro, me ne ricordo benissimo, — rispose la vecchia continuando ad osservarlo con diffi­denza.

    - Ecco... vengo per un affaruccio dello stesso ge­nere, - continuò Raskolnikoff, un po’ turbato e sor­preso dell’espressione diffidente di lei.

    « Dopo tutto, può darsi ch’ella sia sempre così, ma l’altra volta non me ne sono accorto, » pensò, un po’ sconcertato.

    La vecchia rimase per un istante silenziosa, come se pensasse a qualche cosa. Poi, indicando al giovane l’u­scio della camera, gli disse cedendogli il passo:

    — Entra, giovanotto.

    La cameretta nella quale entrarono era tappezzata di carta gialla; sulle finestre adorne di tendine di mussola v’era qualche geranio; il sole, entrando, inondava la stanza di una luce scialba, « Anche allora, certamente, il sole risplenderà così!... » disse tra sé Raskolnikoff, volgendo intorno un rapido sguardo per osservare gli oggetti che lo circondavano e imprimerseli nella memo­ria. Ma la camera non racchiudeva nulla di particolare. Vecchi mobili di legno giallo, un divano dall’enorme spalliera convessa, una tavola ovale davanti al divano, una toletta con uno specchio addossata alla parete fra le due finestre, poche sedie lungo le pareti, due o tre litografie dozzinali, in cornici gialle, raffiguranti alcune ragazze tedesche con uccelli in mano.

    In un angolo, davanti a una piccola icona, ardeva una lampada. Sia il mobilio che il pavimento erano lucidi per la pulizia.

    « È Elisabetta che governa la casa, » pensò Raskolni­koff. Non si sarebbe trovato un granellino di polvere in tutto l’appartamento. « Bisogna venire da queste vedove cattive e vecchie per vedere una pulizia così scrupo­losa, » continuò fra sé Raskolnikoff, guardando curioso la tenda d’indiana che nascondeva l’uscio di una secon­da cameretta, dove egli non aveva mai messo piede e dove si trovavano il letto e il cassettone della vecchia.

    Tutto l’alloggio si componeva di quelle due stanze.

    — Che cosa volete? — domandò in tono asciutto la vecchia, che, dopo aver seguito il visitatore, gli si piantò dinanzi per guardarlo in faccia.

    — Sono venuto a portare un pegno, ecco... — e così dicendo, trasse di tasca un vecchio orologio piatto d'ar­gento, sulla cui cassa era inciso un globo. La catena era d’acciaio.

    — Ma non mi avete ancora rimborsato la somma che vi ho già prestata. Il termine è scaduto ieri l’altro.

    — Continuerò a pagarvi l’interesse per un mese: ab­biate pazienza!

    — Sono libera, giovanotto, di aver pazienza o di vendere il vostro oggetto fin da ora, se così mi piacesse.

    — Che cosa mi date per questo orologio, Elena Ivanovna?

    — Ma tu, figliuolo mio, mi porti sempre robetta che non vale nulla. L’altra volta, per l’anello, ti prestai due rubli, mentre per un rublo e mezzo se ne può comprare uno nuovo dall’orefice.

    — Datemi quattro rubli... Verrò presto a spignorarlo... Era di mio padre. Debbo riscuotere fra pochi giorni una somma.

    — Un rublo e mezzo e interesse anticipato.

    — Un rublo e mezzo! — esclamò Raskolnikoff.

    — Se non vi conviene, potete riprendervelo — e così dicendo la vecchia gli porse l’orologio.

    Raskolnikoff l’afferrò irritato e stava per andarsene, quando rifletté che l’usuraia era la sua ultima risorsa: d’altra parte, egli era venuto con ben altro scopo.

    — Datemi il denaro! — disse brutalmente.

    La vecchia si frugò in tasca, ne trasse le chiavi e pas­sò nell’altra camera. Rimasto solo in mezzo alla stanza, il giovane si mise in ascolto tendendo l’orecchio e abbandonandosi. Sentì che l’usuraia apriva il cassettone. « Dev’essere il cassetto di sopra, — suppose. — Ella dunque porta le chiavi nella tasca di destra... Sono unite tutte insieme da un anello d’ac­ciaio... ve n’è una tre volte più grande delle altre ed ha l’ingegno dentato. Non può essere del cassettone... Ci sarà certamente qualche cassa o qualche forziere... Le chiavi dei forzieri hanno generalmente quella forma... Ma com’è disgustoso tutto questo. » La vecchia com­parve.

    Ecco qua, giovanotto: prendendo una grivna al mese per ogni rublo, su un rublo e mezzo devo prele­vare quindici copeki, poiché l’interesse deve pagarsi anticipato. Di più, siccome mi pregate di attendere an­ cora un mese per il rimborso dei due rubli che vi ho prestati, mi dovete per questo venti copeki, e perciò la somma totale ammonta a trentacinque. Devo dunque darvi, sul vostro orologio, un rublo e quindici copeki. Eccoli qua, prendete!

    - Come! Mi date soltanto un rublo e quindici copeki?

    - Non vi spetta altro!

    Il giovane prese il denaro senza discutere. Guardava la vecchia e non si decideva ad andarsene. Sembrava che volesse dire o fare altro, ma non sapeva neppur lui che cosa...

    - Non è difficile, Elena Ivanovna, che vi porti fra breve un altro oggetto... un porta sigarette d’argento... molto bello... quando l’amico a cui l’ho prestato me lo restituirà. — Pronunciando queste parole, Raskolnikoft appariva molto impacciato.

    - Va bene, ne riparleremo, giovanotto.

    - Arrivederci. E voi, sempre sola, eh? Non vi fa compagnia vostra sorella? — domandò col tono più in­differente che poté, rientrando in anticamera.

    - Ma che cosa v’importa di mia sorella, giovanotto?

    - È vero, ho detto così per dire, e voi subito... Arri­vederci, Elena Ivanovna!

    Kaskolnikoff uscì molto turbato, scendendo le scale si fermò più volte come vinto dalla violenza dei propri sentimenti. Infine, giunto in strada, esclamò: « Dio! come mi sconvolge l’animo questa faccenda! È possi­bile, è possibile che io... Ma è una sciocchezza, una cosa assurda! — aggiunse risolutamente. — Come mai mi è potuta venire in mente un’idea così obbrobriosa? Di quale infamia dovrei essere capace? Sì, obbrobrio, infamia, viltà!... E per un intero mese io... »

    Ma le parole non potevano esprimere tutto il suo tur­bamento.

    Il senso di profondo disgusto che aveva cominciato ad opprimerlo mentre si recava dalla vecchia, aveva rag­ giunto una tale intensità, che egli non sapeva come fare per sottrarsi a quel supplizio. Camminava sul marciapiede barcollando come un ubriaco, senza accorgersi dei passanti, nei quali urtava continuamente. Ma quando ebbe voltato l’angolo, rientrò in se. Guardandosi intorno, si accorse di essere vicino ad una bettola, alla quale si accedeva per una scaletta posta a livello del marciapiede. In quel punto stesso Raskolnikoff vide uscirne due ubriachi che si reggevano l’un l’altro, scam­biandosi ingiurie.

    Senza esitare un sol minuto, Raskolnikoff scese i gra­dini. Non era mai entrato in una bettola, ma in quel momento aveva il capogiro ed era, inoltre, tormentato da una gran sete. Desiderava bere un po’ di birra fre­sca, tanto più che attribuiva la propria debolezza allo stomaco vuoto. Dopo essersi seduto in un angolo buio e sudicio, davanti a un tavolino unto, si fece servire la birra e ne bevve un primo bicchiere con avidità. Si sentì subito sollevato e i pensieri gli si schiarirono. « Sciocchezze! — disse fra sé, rinfrancato — non c’era proprio di che turbarsi! Si tratta solo di un malessere fisico! Un bicchiere di birra, un po’ di biscotti e la mente si rinforzerà, le idee diverranno più lucide, i pro­positi più saldi! Sciocchezze! » Era già più tranquillo, come se a un tratto si fosse liberato da un gran peso. Cominciò a osservare con sguardo amichevole gli avven­tori. Eppure aveva il sospetto che quel ritorno di ener­gia fosse fittizio.

    La bettola si era spopolata. Dopo i due ubriachi, era uscita una comitiva di cinque suonatori ambulanti e nel locale, divenuto silenzioso, erano rimasti solo tre av­ventori. Un individuo leggermente ebbro, un borghese, a giudicare dall’aspetto, era seduto davanti a una bot­tiglia di birra. Vicino a lui sonnecchiava sopra una pan­ca, in uno stato di completa ubriachezza, un omaccione dalla barba bianca, avvolto in un largo pastrano, che di tratto in tratto faceva scricchiolare le dita, allargava le braccia e sussultava col solo busto, senza alzarsi dalla panca su cui era seduto. Quel gesticolare era accompa­gnato da una sciocca canzone di cui si sforzava di ricor­dare i versi:

    Per un anno ho accarezzato mia moglie

    Per un anno ho accarezzato mia moglie ...

    Oppure :

    Nella Podiatkeskaia

    Ho ritrovato la mia vecchia ...

    Ma nessuno prendeva parte alla sua allegria. Il suo stesso compagno ascoltava quei gorgheggi in silenzio, facendo qualche smorfia di malcontento. Il terzo avven­ tore sembrava un ex funzionario. Seduto in disparte, portava di tanto in tanto il bicchiere alle labbra guar­dandosi intorno. Sembrava egli pure in preda ad una certa agitazione.

    II

    Raskolnikoff non era abituato alla folla, e, come già abbiamo detto, da qualche tempo specialmente, evitava ogni rapporto con la società. Ma ora si sentiva ad un tratto attirato verso i propri simili; pareva che avesse subito un cambiamento e che si fosse risvegliato in lui l’istinto di socievolezza. Dopo essersi abbandonato per un mese intero ai sogni malsani nati nella solitudine, era così stanco di quel lungo isolamento, che desi­derava ritrovarsi, sia pure per un solo istante, in mezzo agli uomini e ad onta del sudiciume di quella bettola, vi rimase con molto piacere. Il padrone del locale stava nel retro bottega, ma veniva spesso nella sala. Non ap­ pena egli appariva sulla soglia, le sue scarpe a larghi ro ­ vesci rossi attiravano subito gli sguardi. Portava il grem­ biule allacciato sotto un panciotto di raso nero bisunto, era senza cravatta, ed il viso sembrava unto d’olio.

    Un ragazzo di quattordici anni era seduto al banco, un altro più piccino serviva i clienti. Le vivande esposte al pubblico, fette di cetrioli, biscotti neri e pesce ta­ gliato a pezzetti, mandavano un odore nauseante. L’aria soffocante era così impregnata di esalazioni d’alcool, da ubriacare in soli cinque minuti chiunque la re­ s pirasse.

    S’incontrano talora persone sconosciute che destano subito il nostro interesse, prima ancora che si scambi con loro una parola. Così accadde a Raskolnikoff con l'individuo che sembrava un ex funzionario.

    In seguito, ricordando questa prima impressione, il giovane l’attribuì ad un presentimento. Egli non riusciva a staccare gli occhi dal solitario bevitore, anche perchè quest’ultimo non smetteva neppur lui di osser­varlo , come se volesse attaccar discorso. Il funzionario scrutava con aria annoiata e con alterigia gli altri avventori e il padrone: si trattava, evidentemente, di in­dividui troppo inferiori a lui per condizione sociale e per educazione, perché egli si degnasse di rivolger loro la parola.

    Era un uomo sulla cinquantina, di statura media e di struttura robusta, quasi calvo, con pochi capelli grigi. Il viso largo, giallo, o piuttosto verdastro, rive­lava il vizio del bere; sotto le palpebre gonfie brilla­vano due occhietti rossastri, ma pieni di vivacità. Quella fisionomia, però, colpiva soprattutto per lo sguardo, in cui la fiamma dell’intelligenza e dell’entusiasmo si al­ternava con un’espressione di pazzia. Indossava un vec­chio soprabito lacero, nemico della sciatteria, si era abbottonato l’unico bottone superstite: di sotto al pan­ciotto di nanchino si vedeva uno sparato sgualcito e pieno di macchie. La mancanza della barba rivelava il funzionario, ma egli doveva essersi rasato già da molto tempo, poiché una fitta peluria cominciava ad annerir­gli le guance. Anche il contegno denotava una certa gra­vità burocratica; in quel momento, però, sembrava in­quieto, si arruffava i capelli e, di tanto in tanto, appog­giando i gomiti sulla tavola unta, senza timore d’insudi­ciare le maniche strappate, si metteva il capo fra le mani. Infine, cominciò con voce alta e ferma, rivolto a Raskolnikoff:

    — Sono forse indiscreto, signore, se oso rivolgervi la parola? Nonostante la modestia dei vostri abiti, l’espe­rienza mi fa riconoscere in voi un uomo bene educato e non un frequentatore di bettole: ho sempre apprezzato la buona educazione congiunta alle qualità dell’animo. Io sono un funzionario dello Stato, permettetemi di pre­sentarmi: Marmeladoff, consigliere titolare. Posso do­mandarvi se rivestite qualche carica?

    — No, sono studente... — rispose il giovane un po’ sorpreso da quel linguaggio cortese e tuttavia urtato nel vedere uno sconosciuto rivolgergli la parola così a bruciapelo. Benché si trovasse in un momento di socie­volezza, il giovane sentì risvegliargli dentro la repul­sione che di solito provava per chiunque tentasse di avvicinarlo.

    — Dunque, voi siete studente o ex studente! — ri­prese vivamente il funzionario. — Proprio come pen­savo io! Ho fiuto, signore, un fiuto dovuto a una lunga esperienza!

    E si puntò un dito sulla fronte, soddisfatto del suo fine intuito.

    - Avete compiuto, certamente, gli studi superiori. Ma permettete...

    Così dicendo si alzò, prese il bicchiere e andò a se­dersi vicino a Raskolnikoff. Benché fosse brillo, parlava con chiarezza e con una certa coerenza. Pareva che an­che lui non avesse più aperto bocca da un mese.

    - Signore, — dichiarò con una certa gravità — la povertà non è un vizio, questo è vero. So pure che l’ubriachezza non è una virtù; tanto peggio! Ma la mendicità, signore, la mendicità è un vizio. Nella povertà voi conservate ancora l’innata fierezza dei vostri sentimenti, nella mendicità non conservate più nulla. Il mendicante viene scacciato dalla società umana, non già a basto­nale, ma a colpi di scopa e questo è ancor più umi­liante. Ed è giusto che si faccia così; poiché il mendicante è disposto lui per primo ad avvilire se stesso. Da ciò il bisogno di bere! Signore, un mese fa Lebeziatnikoff ha malmenato mia moglie... Ora, toccar mia moglie, non è forse come colpire me stesso e nel lato più sen­sibile? Capite? Permettetemi di farvi ancora una do­manda, oh! per semplice curiosità: Avete qualche volta passato la notte sulla Neva, nei barconi di fieno?

    - No, non mi è mai accaduto, — rispose Raskolnikoff. — Perché?

    - Ebbene, io vi dormo già da cinque notti.

    Egli riprese il bicchiere, lo vuotò, si fece pensoso, gli si vedevano infatti, qua e là sugli abiti e perfino tra i capelli, alcuni fuscelli di fieno. A giudicar dal­l'aspetto, dovevano essere davvero cinque giorni che non si lavava né si cambiava d’abito e di biancheria. Le sue mani rosse e dalle unghie listate a lutto, erano orribil­mente sudice.

    Tutti lo ascoltavano con una certa attenzione svo­gliata. I ragazzi ridevano dietro il banco. Il padrone era sceso apposta per ascoltare quell’originale e, se­duto a una certa distanza, sbadigliava con aria d’importanza. Evidentemente Marmeladoff era noto da mol­to tempo in quel locale. Molto probabilmente egli doveva la sua notorietà all’abitudine di chiacchierare con tutti i frequentatori della bettola. Quest’abitudine di­venta un bisogno in certi bevitori in quelli, specialmente, che a casa sono malmenati dalle mogli poco pazienti: questi cercano d’acquistare all’osteria, fra i com­pagni di bevute, quella considerazione che manca loro in famiglia.

    - Corpo di bacco! — esclamò l’oste. — Ma perché non lavori, perché non vai in ufficio, giacché sei fun­zionario?

    — Perché non vado in ufficio, signore? — riprese Marmeladoff, rivolgendosi esclusivamente, a Raskolnikoff, come se la domanda gli fosse stata rivolta da que­st’ultimo — perchè non vado in ufficio? Ma la mia inu­tilità non è forse un dolore per me? Quando, un mese fa, Lebeziatnikoff picchiò con le sue mani mia moglie, ed io assistevo ubriaco fradicio a quella scena, non sof­frivo, forse? Permettete, giovanotto, non vi è mai ac­caduto... uhm!... non vi è mai accaduto di chiedere un prestito senza speranza?

    — Sì... ma che intendete dire con queste parole: sen­za speranza?

    — Voglio dire, sapendo già prima che non otterrete nulla. Per esempio, voi avete la certezza che quell’uo­mo, quel cittadino utile e ben intenzionato, non vi pre­sterà denaro, giacché, di grazia, perché dovrebbe prestarvene? Egli sa che voi non glielo renderete. Per pietà? Lebeziatnikoff, partigiano delle idee nuove, ha spiegato l’altro giorno che la pietà, ai tempi nostri, è perfino proibita dalla scienza e che tale è la dottrina dominante in Inghilterra, ove impera l’economia poli­tica. Perché, dunque, ripeto, quell’uomo dovrebbe pre­starvi denaro? Voi siete sicuro che non lo farà, tutta­via vi mettete in cammino, e...

    — E perché ci andrei, in tal caso? — l’interruppe Raskolnikoff.

    — Ma perché bisogna pure rivolgersi a qualcuno quando non c’è altra via di scampo! Viene un momento in cui l’uomo si decide, di buona o di malavoglia, a un passo qualsiasi. Quando l’unica mia figlia andò a farsi iscrivere alla polizia, dovetti andarci anch’io... (do­vete sapere che mia figlia ha il biglietto giallo) — aggiunse fra parentesi, guardando Raskolnikoff un po’ inquieto. — Che m’importa? Che m’importa? — si af­frettò poi a dichiarare cori apparente calma, mentre i due ragazzi dietro il banco non potevano trattenere le risa e il padrone stesso sorrideva. — Che m’importa! Io non m’inquieto delle loro scrollatine di te­sta, poiché la cosa è notoria, e tutti i segreti, prima o poi, si scoprono; non considero la cosa con sdegno, ma soltanto con rassegnazione. Ridano pure! Ridano pure! Ecce homo! Permettete, giovanotto: potete voi, o piut­tosto osate voi, fissando ora gli occhi su me, affermare che io non sia un porco?

    Raskolnikoff non rispose.

    L’oratore attese dignitosamente la fine delle risate pro­vocate dalle sue ultime parole, poi riprese:

    - Si, io sono un porco, ma lei, è una signora! Io ho su me il sigillo della bestia, ma Caterina Ivanovna, mia moglie, è una persona ben educata, figlia d’un ufficiale superiore! Ammetto ch’io sia un buffone, ma mia moglie ha un cuore nobile, sentimenti elevati, ed è educata finemente. Eppure... Oh! Se lei avesse pietà di me! Signore, signore, ogni uomo ha bisogno di tro­vare in qualcuno un po’ di pietà! Ma Caterina Iva­novna, nonostante la sua grandezza d’animo, è ingiu­sta! Capisco io per primo che quando mia moglie mi tira i capelli, lo fa, in fin dei conti, per mio bene, (poiché, non esito a ripeterlo, Caterina Ivanovna mi tira i capelli, giovanotto), — confermò con dignità, udendo nuovi scrosci di risa, — ma, Dio mio! se, al­meno una volta... Ma no, ma no, è inutile parlar­ne!... Neppure una volta ho ottenuto ciò che deside­ravo, neanche una volta sono stato trattato con pietà, ma... questo è il mio destino... ed io sono un vero bruto!

    - Lo credo bene! — osservò, sbadigliando, il proprietario della betto­la.

    Marmeladoff battè il pugno sulla tavola.

    - Questa è la mia natura! Sapete, sapete, signore, che le ho bevuto tutto, perfino le calze? Non dico le scarpe, ciò si capirebbe ancora fino a un certo punto, ma le calze, le calze, me le sono bevute, le sue calze! Le ho bevuto anche la pelliccina di pelo di capra che le avevano regalata prima di sposarmi e che era di sua pro­prietà e non mia!... E abitiamo in un freddo tugurio; quest’inverno si è ammalata, tossisce continuamente e sputa sangue. Abbiamo tre bambini e Caterina Ivanov­na lavora da mattina a sera, fa il bucato, lava i panni, poiché fin da giovane è stata abituata alla puli­zia. Disgraziatamente, ha i polmoni deboli, è prediposta alla tisi ed io lo sento. Non lo sento, forse? E più bevo, più lo sento. E appunto per sentire e per offrire di più, mi abbandono al bere... bevo perché voglio soffrire di più.

    E chinò la testa sulla tavola con un gesto di dispe­razione.

    - Giovanotto, — riprese poco dopo raddrizzandosi - mi par di leggere una certa afflizione sul vostro viso. Appena siete entrato, ho avuto quest’impressione e per questo vi ho rivolto subito la parola. Raccontandovi la storia della mia vita, non intendo già espormi alle beffe di questi oziosi, i quali, del resto, sono già al corrente di tutto; ma cerco la simpatia di un uomo ben educato. Sappiate, dunque, che mia moglie è stata educata in un collegio aristocratico di provincia e che all’esame di uscita ballò in scialle davanti al governa­tore e alle altre autorità e si guadagnò la medaglia d’oro e un attestato di lode. La medaglia... l’abbiamo venduta... già da molto tempo... Uhm! Ma l’attestato è ancora là; mia moglie lo conserva in un cofanetto e, or non è molto, lo mostra alla nostra padrona di casa. Con questa litiga continuamente, ma nondimeno fu felice di poter mostrare a qualcuno le sue glorie passate. Non gliene faccio una colpa, poiché l’unica sua gioia è ora di ricordarsi dei giorni felici di una volta; tutto il resto è svanito! Sì, sì, lei è tutta fuoco, fiera, intrattabile. Lava da sola i pavimenti, mangia pan nero, ma non tollera che le si manchi di rispetto. E perciò non sopportò la volgarità di Lebeziatnikoff e, quando, per vendicarsi d’essere stato messo a posto, quest’ulti­mo la picchiò, dovette mettersi a letto, più per l’insulto patito che per le botte ricevute. Quando la sposai, era vedova con tre bambini. Aveva sposato in prime nozze un ufficiale di fanteria, col quale era fuggita dalia casa patema. Amava immensamente suo marito, ma quest’ultimo, poco pri­ma di morire, si rovinò col gioco, tanto da incappare nella giustizia. Negli ultimi tempi, era arrivato persino a picchiarla. So da fonte sicura che Caterina Ivanovna era abbastanza intrattabile anche con lui, cosa che ora non le impedisce affatto di piangere al ricordo del de­funto e di stabilire continuamente fra me e lui con­fronti poco lusinghieri per il mio amor proprio. Io ne sono contento; mi fa piacere ch’ella si illuda d’essere stata felice un tempo.

    « Dopo la morte del marito, si trovò sola con tre bam­bini in un distretto lontano e selvaggio, dove appunto la conobbi io. Le sue angustie erano tali, che io, che pure ne ho viste di ogni sorta, non mi sento la forza di descriverle. Tutti i parenti l’avevano abbandonata; d’altronde, il suo orgoglio non le avrebbe permesso di fare appello alla loro pietà. Allora, signore, allora io, che ero pure vedovo ed avevo da un primo matrimonio una figlia di quattordici anni, offrii la mia mano a quella povera donna, tanto mi faceva pena vederla soffrire. Istruita, bene educata, uscita da una famiglia rispettabile, lei acconsentì, ciò nondimeno, a sposare me. Da ciò potete arguire a qual segno fosse giunta la sua miseria. Accolse la mia domanda piangendo, sin­ghiozzando, torcendosi le mani, ma acconsentì, perché non sapeva più dove andare. Capite, capite, signore, che cosa significhino queste parole: non saper più dove andare? No! voi non lo potete ancora capire!...

    « Per un intero anno, feci il mio dovere onestamente, santamente, senza toccare affatto questo (e indicò la mezza bottiglia che aveva davanti), perché anch'io ho un’anima. Ma non ne ebbi alcun frutto; in quel frat­tempo, perdetti l’impiego, senza nessuna colpa; alcuni cambiamenti burocratici portarono alla soppressione del mio ufficio; da allora in poi mi misi a bere.

    « Ora, da circa diciotto mesi, dopo tanti fastidi e tante peregrinazioni, ci siamo stabiliti in questa magnifica capitale popolata d’innumerevoli monumenti. Qui, ero riuscito a trovarmi un posto, ma ho perduto di nuovo il mio impiego. Questa volta, è stato per colpa mia, la mia abitudine di bere mi ha rovinato... Ora abitiamo in una camera presso Amalia Fedorovna Lippevechzel. Ma ignoro di che viviamo e con che paghiamo. Vi sono, a buon conto, molti altri inquilini. Quella casa, è una vera trappola... uhm!... davvero! E durante questo tem­po, la figlia che ebbi dalla prima moglie si è fatta adul­ta. È meglio che non racconti quello che la matrigna le ha fatto soffrire. Benché piena di nobili sentimenti, Caterina Ivanovna è una donna impulsiva e incapace di contenere gli accessi di collera... È la verità. Ma, an­diamo, è inutile parlare di queste cose! Come potete immaginare, Sonia non ha ricevuto una grande istru­zione. Quattro anni fa, provai ad insegnarle la geo­grafia e la storia universale, ma siccome nemmeno io sono troppo forte in queste materie e, per di più, non avevo nessun buon manuale a mia disposizione, i suoi studi non progredirono molto. Ci fermammo a Ciro, re di Persia. Più tardi, quando era già adulta, cominciò a leggere qualche romanzo. Lebeziatnikoff le ha pre­stato, or non è molto, la « Fisiologia » di Ludwig. Co­noscete quest’opera? Lei l’ha trovata molto interes­sante e ce ne ha anche letto diversi brani ad alta voce; a ciò si limita tutta la sua cultura.

    « Signore, mi appello alla vostra sincerità: credete coscienziosamente che una giovanetta povera, ma one­sta, possa vivere col suo lavoro?... Se non possiede nes­sun merito speciale, potrà guadagnare al massimo quindici copeki al giorno e per raggiungere questa cifra, non dovrà perdere neppure un minuto! Che dico? Sonia ha cucito una mezza dozzina di camicie di tela d’Olanda per il consigliere di Stato Ivan Ivanovitc Klopstock, avete sentito parlare di lui? Ebbene, non solo lei aspetta ancora d’essere pagata, ma egli l’ha messa alla porta col pretesto che non aveva preso bene la misura del collo. Intanto i bambini morivano di fame. Caterina Ivanovna girava per la camera torcen­dosi le mani e chiazze rosse apparivano sulle sue guan­ce, come accade sempre in quella malattia: « Fannullona, — le diceva — non ti vergogni di vivere a nostro carico, senza far nulla? Mangi, bevi e ti scaldi. » Vi domando io che cosa poteva bere e mangiare la povera ragazza, quando da tre giorni neanche i bambini ave­vano visto un tozzo di pane! Ero coricato in quel mo­mento... via, tanto vale dirlo! ero ubriaco. Intesi la mia Sonia rispondere timidamente con la sua voce dolce (lei è bionda, con un viso sempre pallido e sofferente): « Come, Caterina Ivanovna, volete ch’io faccia una cosa simile? »

    « Dovete sapere che già tre volte Daria Frantzovna, una donnaccia nota alla polizia, le aveva fatto alcune proposte per mezzo della padrona di casa. « Oh! — risponde ironicamente Caterina Ivanovna — che bel tesoro, da serbarselo con tanta cura! » Ma non l’incol­pate, signore, non l’incolpate! Lei non aveva coscien­za di ciò che diceva; era agitata, vedeva pian­gere i suoi bambini affamati e parlava in quel modo piuttosto per torturare Sonia che per incitarla al vizio. Caterina Ivanovna è così: appena sente gridare i suoi piccini, si mette a picchiarli, anche quando è la fame che strappa loro quelle grida. Erano le cinque passate, vidi Soniescka alzarsi, mettersi la mantellina e uscire.

    « Alle otto passate, tornò. Appena entrata andò difilato da Caterina Ivanovna e, in silenzio, senza pronunciar parola, depose trenta rubli d’argento sulla tavola, davanti a mia moglie. Poi prese il nostro fazzolettone verde (quello che serve per tutta la famiglia), se ne av­volse la testa e si coricò sul letto, col viso rivolto verso la parete; ma le spalle ed il corpo erano agitati da un tremito continuo... Io, ero sempre nello stesso sta­to!... E in quel momento, giovanotto, vidi Caterina Ivanovna inginocchiarsi in silenzio presso il lettino di Soniescka: lei passò tutta la serata in ginocchio, ba­ciando i piedi di mia figlia, senza volersi alzare; poi entrambe si addormentarono insieme, l’una nelle brac­cia dell’altra... tutt’e due... tutt’e due... sì... ed io, io ero sempre là, sfinito dall’ubriachezza.

    Marmeladoff tacque, come se la voce gli fosse man­cata. Poi si versò bruscamente da bere, e dopo una pau­sa riprese:

    - Da quella sera, signore, in seguito a un disgra­ziato incidente e su denuncia di persone malevoli, (Daria Frantzovna ha avuto la parte principale in que­sta faccenda, perché voleva vendicarsi di una pretesa mancanza di rispetto) da quella sera, mia figlia Sofia Seinenovna fu messa nei registri e dovette lasciarci. Amalia Fedorovna non ha voluto transigere su questo punto, dimenticando che lei stessa aveva poco prima favorito gl’intrighi di Daria Frantzovna. Lebeziatnikoff si è unito a lei... Uhm!... sì, proprio per Sonia, Ca­terina Ivanovna ha avuto con lui quei litigio di cui vi parlavo poco fa. Nei primi tempi egli circondava So­nia di premure, ma ad un tratto il suo amor proprio si è risentito : « Può forse, — ha detto — un uomo di riguardo come me abitare nella stessa casa dove abita una creatura simile? » Caterina Ivanovna ha preso le difese di Sonia e Lebeziatnikoff l’ha picchiata... Ora, mia figlia viene spesso a trovarci, verso sera e aiuta come meglio può Caterina Ivanovna; è alloggiata da Kapernaumoff, un sarto zoppo e balbuziente.

    « Kapernaumoff ha una famiglia numerosa e tutti i suoi figli son balbuzienti come lui. Anche sua moglie ha un difetto di pronuncia... Abitano tutti nella stessa camera, ma Sonia ha il suo posticino a parte, dietro un paravento... Uhm!, proprio... gente poverissima e bal­buziente... sì... La mattina dopo, dunque, mi sono alzato, mi sono vestito coi miei stracci, ho alzato le braccia al cielo e sono andato da Sua Eccellenza Ivan Atanasievitc. Conoscete Sua Eccellenza Ivan Atanasievitc? No? È un santo... un vero e proprio santo!

    « Il mio racconto, ch’egli si è degnato di ascoltare fino alla fine, gli ha fatto venire le lacrime agli occhi. « Via, Marmeladoff, — mi ha detto — tu mi hai già deluso una volta... Ti prendo nuovamente sotto la mia responsabilità personale, — così si è espresso — abbi cura di ricordartene: puoi andare! » Ho baciato la pol­ vere delle sue scarpe, mentalmente, bene inteso, giacché Ivan Atanasievitc non l’avrebbe mai permesso: è un uomo troppo evoluto per accettare un simile oltraggio. Signor Iddio, che accoglienze ebbi a casa mia quando annunciai che riprendevo servizio e che avrei avuto uno stipendio!...

    La commozione costrinse di nuovo Marmeladoff a in­terrompersi. In quel momento l’osteria fu invasa da una comitiva di ubriachi. Un organetto di Barberia suona­va dinanzi alla porta e la voce fioca d’un fanciullo can­tava « Il piccolo podere ». La sala si era affollata. Il padrone e i camerieri si affaccendavano premurosi in­torno ai nuovi venuti. Senza badare a questi ultimi, Marmeladoff proseguì il suo racconto. Il progredire dell’ubriachezza rendeva il funzionario sempre più espansivo. Al ricordo della recente riammissione in ser­vizio, il viso gli brillava di gioia. Raskolnikoff lo ascol­tava attentamente.

    — Da allora sono passate cinque settimane, signore, sì... Appena Caterina Ivanovna e Soniescka appresero la notizia, mi sentii come trasportato in paradiso. Pri­ma, ricevevo soltanto ingiurie: « Vai a letto, animale! » Ora, camminavano in punta di piedi, facevano star zitti i bambini: « Silenzio! Simone Zakarovitc è tornato stanco dall’ufficio, bisogna lasciarlo riposare! » Prima che uscissi per andare in ufficio, mi portavano il caffè con la panna! Vera panna, capite? E dove andarono a pescare gli 11 rubli e 50 copeki che occorrevano per rifornire il mio guardaroba? Non ci capisco nulla. Fat­to sta che mi rivestirono da capo a piedi! Ebbi le scar­pe nuove, una camicia di cotone finissimo, un’unifor­me; tutto in ottimo stato. Spesero undici rubli e mezzo... La prima mattina, torno dall’ufficio, e che cosa vedo? Caterina Ivanovna mi aveva preparato nientemeno che due piatti, una minestra e una pietanza di salame con contorno di radici, una cosa davvero straordinaria! Ca­terina Ivanovna, dovete sapere, non ha vestiti, proprio di nessun genere, e invece te la trovo vestita, come se dovesse andare a fare una visita di gala: dal niente, si­gnore, era riuscita a tirar fuori tutta quella roba. Poi, ecco che si pettina, si mette un collettino pulito, i pol­sini e, guarda un po’, diventa un’altra donna più gio­vane e più bella! E Sonia, la colombuccia mia, che ci soccorreva con qualche piccola somma: « Ora, — dice — non verrò tutti i giorni, non sta bene, qualche volta di sera... perché nessuno s’accorga che vengo a trovarvi. » Sentite, sentite! Dopo pranzo me ne sono andato a dor­mire un pochino... E che cosa credete, che Caterina Iva­novna poteva frenare la gioia? La settimana prima si era accapigliata con la padrona di casa, Amalia Fedorovna, ed ora invece la invita a prendere una tazza di caffè. Due buone ore sono state insieme a parlottare! ( Ora Simone va all’ufficio, Simone riscuote la paga, Simone è andato da Sua Eccellenza e Sua Eccellenza gli è andato incontro facendo aspettar tutti (sentite, sen­tite!) e lo ha preso per le mani in presenza di tutti... ». « Io — dice — ricordando, si capisce, i vostri servigi, benché voi... ho deciso di perdonarvi quel vizio... dato che avete anche promesso di migliorarvi e considerato pure, che la vostra assenza... (sentite, sentite!) era av­vertita da tutti. Per tutto questo — dice — tengo conto della vostra parola di gentiluomo. »

    « Tutto ciò, capite, inventato di sana pianta, non dico per frivolezza o per la smania di mentire, ma perché lei stessa ci crede per prima e si conforta con l’im­maginazione, né io voglio condannarla, com’è vero Iddio!

    « Sei giorni fa, quando portai a casa il primo mese di stipendio, ventitré rubli e quaranta copeki, mia mo­glie mi diede un pizzicotto sulla guancia e mi chiamò pesciolino! Eravamo soli, beninteso... Non vi sembra forse gentile quest’atto?

    Marmeladoff s interruppe e tentò di sorridere, ma un tremito improvviso gli agitò il mento. Per altro, riuscì a contenere l’emozione. Raskolnikoff non sapeva che pensare di quel beone che andava errando da cinque giorni, coricandosi sui barconi di fieno e che, ciò nono­stante, nutriva un affetto morboso per la propria fami­glia. Il giovane ascoltava attentamente, ma con un senso di malessere, pentito di essere entrato in quella bet­tola.

    - Signore, signore ! — si scusò Marmeladoff. — Signore, forse anche voi, come gli altri, trovate ridi­colo quello che dico, forse vi annoio, raccontandovi tutti questi stupidi e miserabili particolari della mia vita domestica, ma per me non è ridicolo: io lo sento, ho qui sul cuore... Tutta quella giornata benedetta, tutta la sera feci sogni incantevoli: sognai il modo d’or­ganizzare la nostra vita, di vestire i ragazzi, di procu­rare un po’ di riposo a mia moglie, di trarre dal fango l’unica mia figlia... Quanti progetti! Ebbene, signore (Marmeladoff fu scosso da un brivido e alzò la testa guardando in viso Raskolnikoff), il giorno dopo, sono cinque giorni precisi, dopo aver accarezzato tutti que­sti sogni, di soppiatto, come un ladro notturno, aprii il baule di Caterina Ivanovna e presi quanto avanzava del denaro portato da me... Non ricordo più quan­to... Ed ora, eccomi qua, guardatemi tutti! Da cinque giorni ho lasciato la mia casa e i miei non sanno dove sia andato, ho perduto l’impiego, ho lasciato l’uniforme in una bettola sul ponte Egipetsky e mi hanno dato in cambio questi stracci... E così tutto è finito!

    Marmeladoff si diede un pugno sulla fronte, digrignò i denti e chiudendo gli occhi, appoggiò un gomito sulla tavola... Ma, dopo un istante, il suo viso cambiò im­provvisamente espressione. Guardò Raskolnikoff con un cinismo affettato e disse ridendo:

    — Oggi, sono stato da Sonia; e le ho chiesto un po’ di denaro per bere! eh! eh! eh!

    - E te l’ha dato? — gridò ridendo sguaiatamente uno dei nuovi venuti.

    — Questa mezza bottiglia è stata pagata col suo denaro, — riprese Marmeladoff, rivolgendosi esclusivamente a Raskolnikoff. — Lei è andata a prendere trenta copeki e me li ha consegnati con le proprie mani; era tutto quello che possedeva, l’ho visto io stesso... Non mi ha detto nulla, si è limitata a guar­darmi in silenzio... Uno sguardo che non appartiene alla terra, uno sguardo come quelli che hanno gli angeli che piangono sulle colpe umane, ma non le condannano! Ed è più triste non ricevere rimproveri!... Trenta co­peki, sì. Ed ora lei ne ha certamente bisogno. Che ne pensate, mio caro signore? Deve vestir bene, ora. L’eleganza necessaria al suo mestiere costa molti quat­trini. Capite? Occorrono pomate, sottane inamidate, scarpine che le ingentiliscano il piede, se mai le capita di saltare una pozzanghera. Capite, capite, signore, l’im­portanza di quella eleganza? Ebbene, io, suo padre carnale, sono andato a privarla di trenta copeki per berli! E li bevo! Li ho già bevuti! Andiamo! Chi potrà dunque aver pietà d’un uomo simile? Ora, signore, potete compiangermi? Parlate, signore, avete pietà di me sì o no? eh, eh, eh!

    Stava per versarsi di nuovo da bere, quando si accorse che la mezza bottiglia era vuota.

    — Ma perché aver pietà di te? — gridò il proprietario della bettola.

    Scoppiarono da ogni parte risate clamorose e invet­tive. Quelli che non avevano udito le parole del funzio­nario, facevano coro con gli altri, soltanto a vedere il suo viso.

    Sembrava che Marmeladoff attendesse la domanda forse per dare il via alla propria eloquenza.

    - Perché aver pietà di me? esclamò alzandosi improvvisamente e protendendo una mano. — Perché aver pietà di me, tu dici? È vero, non c’è ragione! Bisogna crocifiggermi, mettermi in croce, ma crocifig­gendomi, abbi pietà di me! E allora anch’io andrò in­contro al supplizio, perché non ho sete di gioia, ma di dolore e di lacrime!...

    « ...Tu pensi, mercante, che la mezza bottiglia mi abbia procurato piacere? Ho cercato la tristezza, la tri­stezza e le lacrime, in fondo a questa bottiglia, e trovandovele, le ho assaporate; ma Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, Colui che tutto e tutti comprese avrà pietà di noi. Egli è il solo giudice, egli verrà nel­l’ultimo giorno e domanderà: « Dov’è la figlia che si è sacrificata per una matrigna tisica e cattiva, per bam­bini che non erano suoi fratelli? Dov’è la figlia che ebbe pietà del padre suo terreno e non ebbe orrore di questo beone e crapulone? » E dirà: « Vieni! ti ho già perdonata una volta... ti ho perdonata una volta... E anche ora i tuoi peccati ti sono rimessi, perché molto amasti... » E perdonerà, così, alla mia Sonia, Egli la perdonerà, lo so... L’ho sentito poco fa, quando sono stato da lei!... Tutti saranno giudicati da Lui ed Egli perdonerà a tutti, ai buoni e ai tristi, ai saggi e ai mansueti... E quando avrà pensato agli altri, allora ver­rà il nostro turno: « Avvicinatevi, anche voi, — ci dirà.

    — Avvicinatevi, voi beoni; avvicinatevi, voi vili; avvi­cinatevi, voi depravati! » E ci avvicineremo tutti senza timore. E ci dirà: « Voi siete porci! Voi portate l’im­pronta della bestia; ma venite egualmente! » E i saggi, i benpensanti, diranno: « Signore, perché accogli co­storo? » Ed Egli risponderà: « Io li accolgo, o saggi, io li accolgo, o benpensanti, perché nessuno di loro s’è creduto degno di questo favore... » E ci tenderà le brac­cia e noi ci precipiteremo... e scoppieremo in singhioz­zi... e comprenderemo tutto... Allora capiremo tutto... capiranno tutti... anche Caterina Ivanovna capirà... Si­gnore, venga il regno Tuo!...

    Spossato, si lasciò cadere sulla panca, senza guardare nessuno, come avesse dimenticato tutto ciò che lo cir­condava, e restò immerso in una profonda meditazione. Le sue parole avevano prodotto una certa impressione; ci fu un momento di silenzio, ma presto ricominciarono le risa e le invettive:

    - Magnifico ragionamento!

    - Che pazzo!

    - Impiegataccio!

    — Andiamocene, signore, — disse improvvisamente Marmeladoff rialzando la testa e rivolgendosi a Raskolnikoff. — Accompagnatemi a casa... casa Kozel, nel cortile. È ora di ritornare da Caterina Ivanovna...

    Da tempo Raskolnikoff aveva pensato di andarsene e d’offrire il suo aiuto a Marmeladoff. L’ex funzionario, le cui gambe erano molto più fiacche della voce, si appoggiava pesantemente al suo compagno. La distanza da percorrere era di due o trecento passi, ma come si avvicinava a casa, l’ubriaco pareva sempre più turbato e inquieto.

    — Non credete che abbia paura di Caterina Ivanovna, adesso, — balbettò. — Son certo che comincerà col tirarmi i capelli, ma che m’importa dei capelli? Anzi, è meglio che me li tiri. Quel che mi fa paura, sono gli occhi... sì... gli occhi... e poi anche le chiazze rosse delle sue guance... e poi, poi il respiro... Non avete mai notato come respirano questi ammalati quando sono in preda a una violenta commozione? Ho anche paura del pianto dei ragazzi... Perché, se Sonia non ha dato loro qualche cosa da mangiare, non so che cosa possano aver mangiato... non lo so! Ma delle botte, no, non ho pau­ra... Sappi, infatti, signore, che, anziché farmi soffrire, quelle botte sono per me un sollievo... Non ne posso fare a meno, anzi. È meglio. Ch’ella mi picchi, si sfo­ghi... sarà meglio. Ma siamo già arrivati... Casa Kozel...

    Il proprietario è un tedesco, benestante... Ac­compagnatemi!

    Attraversato il cortile, salirono al quarto piano. Era­no quasi le undici e, per quanto in quella stagione le notti di Pietroburgo siano abbastanza chiare, appena salivano, le scale divenivano sempre più buie.

    La porticina fuligginosa che dava sul pianerottolo era aperta. Un mozzicone di candela illuminava una paniera poverissima, lunga dieci passi. Questa stanza, che dall’ingresso si poteva abbracciare interamente con l’oc­chio, era nel massimo disordine: biancheria da bam­bini era sparsa qua e là. Un lenzuolo bucato era steso in modo da nascondere l’angolo più lontano dalla porta. Dietro quel paravento improvvisato si nascondeva pro­babilmente un letto. La stanza conteneva soltanto due sedie, un brutto divano ricoperto di tela incerata e una vecchia tavola da cucina, di legno grezzo e senza tap­peto. Sulla tavola era posato un candeliere nel quale finiva di bruciare un mozzicone di candela. Marmeladoff aveva il letto in un corridoio. La porta di comunicazione con l’alloggio degli altri inquilini di Amalia Lippevechzel era socchiusa. Ne usciva un grande frastuono. Certamente c’era gente che giocava a carte e beveva il tè: si sentivano grida, risate e parole talvolta molto volgari.

    Raskolnikoff riconobbe subito Caterina Ivanovna, una donna snella, alta, ben fatta, ma d’aspetto molto malaticcio. Aveva ancora una bella chioma castana e, come aveva detto Marmeladoff, le sue guance erano cosparse di chiazze rossicce. Con le labbra aride, premendosi il petto con le mani, passeggiava avanti e indietro nella cameretta. Il suo respiro era breve e ineguale. Gli occhi luccicavano come per febbre, ma il loro sguardo era duro e fisso. Quel viso tisico e agitato, illuminato dalla luce tremula del mozzicone di candela, produceva un’impressione penosa. Mostrava una tren­tina d’anni e, difatti, era molto più giovane del marito... La donna non si accorse dell’arrivo dei due: sembrava che avesse perduto il senso della vista e del­l'udito.

    Ad onta del caldo soffocante e delle esalazioni nauseabonde che venivano dalle scale, non si era curata di aprire la finestra, né di chiudere la porta; dalle camere interne entrava un denso fumo di tabacco che la faceva tossire, ma ciò nonostante, non si dava la pena di chiudere l’uscio di comunicazione.

    La figlia più piccola, una bimba di sei anni, dormiva seduta sul pavimento, con la testa appoggiata al divano, il maschietto, di un anno più grande di lei, tremava in un angolo e piangeva, probabilmente perché era stato picchiato. La figlia maggiore, una fanciulla di nove anni, alta e sottile, coperta da una camicia tutta lacera e con una mantellina sulle spalle nude, fattale forse due anni prima, giacché non le arrivava neppure al ginocchio, stava in piedi nell’angolo, accanto al fratellino, col lungo braccio, magro come un fiammifero, gli cingeva il collo, gli parlava a bassa voce, cercando di farlo tacere e intanto seguiva la madre con lo sguardo inquieto. I suoi grandi occhi scuri, dilatati dallo spavento, sembravano ancora più grandi su quel visetto scarno. Marmeladoff, invece d’entrare nella camera, s’inginocchiò vicino alla porta e invitò col gesto Raskolnikoff a farsi avanti. La donna, vedendo uno sconosciuto, gli si accostò e rimase per un momento perplessa cercando di spiegarsi la presenza del giovane.

    « Che viene a fare qui costui? » ella pensò. Ma finì per convincersi che egli andava da qualche altro inqui­lino, essendo quella dei Marmeladoff una stanza di pas­saggio. Perciò, senza badare all’estraneo, stava per chiu­dere la porta d’ingresso, ma un grido improvviso le sfuggì, scorgendo il marito in ginocchio sulla soglia.

    — Ah! Sei tornato! — gridò con voce vibrante di collera. — Scellerato! Mostro! Dov’è il denaro? Che cos’hai in tasca? Fa’ vedere un po’! E questo non è il tuo vestito! Che ne hai fatto del vestito? Dov’è andato a finire il denaro? Parla!...

    La donna si curvò su di lui frugandolo per tutte le tasche. Senza opporre la minima resistenza, Marmela­doff alzò le braccia per facilitare la perquisizione. Non aveva più addosso neppure un copeko.

    — Dov’è il denaro? — gridò la donna. — O Dio Signore, è possibile che si sia bevuto tutto? C’erano ancora dodici rubli nel baule.

    Presa da un improvviso accesso di collera, afferrò il marito per i capelli e lo trascinò violentemente nella camera. Marmeladoff, senza protestare, seguì docilmen­te la moglie, trascinandosi in ginocchio dietro a lei.

    — Questo mi fa piacere! Non è un dolore, per me, ma un godimento, signore! — egli gridava, mentre Caterina Ivanovna gli scoteva con tanta forza la testa, da fargli battere la fronte sul pavimento. La piccina che dormiva per terra si svegliò e si mise a piangere. Il ragazzo, in piedi nell’angolo, cominciò a tremare e a gridare correndo verso la sorella, tanto spaventato da sembrare in preda a una convulsione. La ragazza mag­giore tremava come una foglia.

    — S’è bevuto tutto! S’è bevuto tutto, fino all’ultimo copeko! — gridava Caterina Ivanovna disperata. — Per­fino il vestito s’è bevuto! E questi hanno fame! Hanno fame! (e torcendosi le mani indicava i ragazzi.) O vita tre volte maledetta! E voi, non vi vergognate di venir qui dopo essere stato all’osteria? — aggiunse prenden­dosela con Raskolnikoff. — Tu hai bevuto con lui, è vero? Hai bevuto con lui? Vattene!

    Raskolnikoff non se lo fece ripetere due volte e se ne andò senza proferir parola. La porta interna si spa­lancò e sulla soglia apparvero parecchi curiosi che, fumando chi la pipa chi la sigaretta, si godevano la scenata con provocante aria canzonatoria; in berretto e veste da camera alcuni, altri mezzo svestiti e quasi indecenti, qualcuno con le carte in mano. Si divertivano soprattutto a sentire Marmeladoff che, trascinato per i capelli, gridava che era soddisfatto di quell’accoglienza. La camera cominciava a essere invasa dagli inquilini, quando si udì la voce irritata di Amalia Lippevechzel che, facendosi largo tra la folla, veniva a ristabilire l’or­dine a modo suo. Per la centesima volta la padrona di casa ripeté alla povera donna di sloggiare l’indomani.

    L’intimazione di sfratto fu, naturalmente, accompagna­ta da parole piene d’insulti.

    Raskolnikoff aveva ancora il resto del rublo scam­biato alla bettola. Prima d’andarsene, prese dalla tasca un pugno di spiccioli e, senza esser visto, li posò sulla finestra. Ma quando fu sulle scale, si pentì della propria generosità e per poco non risalì dai Marmeladoff.

    « Che sciocchezza ho fatto! — pensò — loro hanno Sonia, io non ho nessuno. »

    Ma rifletté che non poteva riprendere il denaro e anche se avesse potuto, non lo avrebbe fatto. Dopo questa decisione, proseguì per la sua strada.

    « Ci vuole un po’ di pomata per Sonia, — continuò con un sorriso amaro. — Quell’eleganza costa molti quattrini !... Uhm! Pare che Sonia non sia caduta, oggi. Di fatti, la caccia all’uomo è come quella alla bestia feroce; si rischia spesso di ritornare a mani vuote... Dunque, domani si troverebbero in un brutto imba­razzo, se non avessero il mio denaro... Ah! Sì, Sonia! È lo stesso. Hanno trovato una buona vacca da mun­ gere! E ne approfittano! Questo non fa loro impresione, ci sono avvezzi. Prima hanno piagnucolato un po’, poi ci si sono abituati. L’uomo è vile! Si abitua a tutto! — Raskolnikoff divenne pensieroso. — Ebbene, non è così, — esclamò poi — se l’uomo non è necessariamente « vile », deve calpestare tutti i timori, tutti i pregiudizi che l’ostacolano!... »

    III

    L’indomani Raskolnikoff si svegliò tardi, dopo un sonno agitato che non era bastato a ristorarlo. Al risveglio si guardò attorno pieno di malumore. La stanza, lunga sei passi, aveva un aspetto molto misero con quella tappezzeria giallastra, polverosa ed in catt­ivo stato; per di più, il soffitto era così basso, che un uomo d’alta statura si sarebbe trovato a disagio per il pericolo di battervi contro la testa. Il mobilio era degno del locale: tre vecchie

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