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I pasticci di Leonardo
I pasticci di Leonardo
I pasticci di Leonardo
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I pasticci di Leonardo

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Eretico, falsario, esoterista, spia, pittore, scienziato, architetto: su Leonardo da Vinci se ne sono dette molte. Forse perché la sua biografia è costellata di enigmi non ancora risolti. Di certo sappiamo che fu eclettico, al limite della schizofrenia, estremamente curioso e che annotò qualunque cosa gli passasse per la testa. Nel disporre le proprie volontà, il genio toscano indicò nel giovane Francesco Melzi l’erede del suo tesoro più prezioso: tutti et ciascheduno li libri che possiede, ossia decine di migliaia di fogli con appunti manoscritti e disegni sugli argomenti più disparati, accumulati nel corso di un’intera vita. Inizia così la storia dei codici di Leonardo che nel corso dei secoli si disperdono in tutto il mondo.
Uno di questi, il più anomalo e anticonvenzionale, viene ritrovato, nel corso di un trasloco, da Ascanio Righi, pasticcere a Vinci, nei locali in cui secondo la leggenda sarebbe stato ubicato il forno e il mulino di famiglia di Leonardo. Si tratta di un taccuino ingiallito le cui pagine, seppur ridotte a un velo, sono ancora leggibili. All’interno sono annotati pensieri confusi, conteggi delle entrate e delle uscite, disegni e diverse ricette di dolci. Ricette ben strane! Secondo chi scrive infatti avevano poteri taumaturgici e forme originali.
Sono l’occasione per Ascanio di rimettere in discussione tutta la sua vita fino ad aprire una linea di pasticceria rinascimentale: I pasticci di Leonardo. Coadiuvato da due storiche e dalla donna che gli ha ridato serenità affettiva, Ascanio deve anche rispondere a domande inquietanti: quale collegamento ha il taccuino di Leonardo con l’antico sultanato ottomano di Bayezid ii? E soprattutto quali sono i veri poteri dei dolci del Maestro?
Romanzo intrigante, combina abilmente alchimia, profumi, sapori ed emozioni.
LanguageItaliano
Release dateJun 1, 2019
ISBN9788832924749
I pasticci di Leonardo

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    I pasticci di Leonardo - Simona Bertocchi

    Vinci

    Prologo

    Da qualche giorno i francesi avevano permesso a Milano di sollevare la testa, la città era esausta dai saccheggi selvaggi e dal sangue versato, le truppe di Francesco I, dopo la sconfitta per mano degli imperiali, erano ancora più inferocite.

    Il duca Francesco II Sforza, ultimo figlio di Ludovico, non fu all’altezza delle strategie e dell’abilità militare del Moro, il popolo si sentiva orfano e abbandonato, piegato da un vento di guerra che soffiava furioso.

    Nella stanza dove dormiva Salaì con la moglie filtravano strisce di luce d’argento, le grida dei soldati erano l’unico suono di quella notte infinita di luna piena.

    Giovanni Giacomo Caprotti, per tutti il Salaì, si era barricato in casa. Gli uomini dello Sforza lo cercavano per vendicarsi del suo tradimento: aveva già venduto al re di Francia molti beni ereditati dal suo maestro Leonardo, tra cui il quadro della Gioconda, e altri dipinti dal valore di milleduecentocinquanta scudi, una cifra considerevole alla quale si aggiungeva il valore di pietre preziose e vestiti di lusso. Come se non fosse bastata tanta ricchezza, il nome di Salaì compariva nel registro degli assegnatari di lauti doni e benefici ricevuti dalla Corona francese.

    La sua sposa gli si era raggomitolata accanto soffocando il pianto, la accarezzò sfiorandole appena la spalla e le baciò la fronte in un gesto istintivo mentre lei chiudeva gli occhi.

    Salaì stava male, non controllava più il suo corpo e la sua mente. Gli ultimi dolcetti mangiati contenevano delle droghe, ormai ne era dipendente. I pensieri e i suoni si deformarono; come salvare il diario che era riuscito a togliere dalle mani di Francesco Melzi? ragionare era difficile.

    Melzi era arrivato alla bottega di Leonardo molti anni dopo Salaì dimostrandosi il più dotato e affidabile tra gli allievi, il maestro lo scelse per affidargli la sua eredità intellettuale. Alla ricca bibliografia in possesso di Melzi mancava, però, il diario in cui Leonardo dava sfogo a visioni e malinconie e su cui scriveva i pensieri più fragili e strane ricette. Il diario gli era stato sottratto proprio da Salaì, l’assistente indisciplinato, scomodo, imbroglione ma anche l’unico a cui il maestro aveva aperto l’anima, colui con cui aveva diviso tutto.

    I ragionamenti di Salaì scivolavano disturbati dalle grida francesi provenienti dalla strada e dal pianto sommesso della moglie. Era dilaniato dai dubbi, si chiese se fosse giusto raggiungere i Medici e consegnare gli scritti visionari di Leonardo, con la speranza che il granduca di Toscana, Cosimo il Grande, lo accogliesse con l’ospitalità che si aspetta chi per anni ha servito e assistito il più rivoluzionario artista d’Italia; o forse continuare le trattative con la Francia era meno pericoloso?

    Dalla strada qualcuno lo chiamò: Vieni fuori, cane! Venduto ai francesi!

    L’effetto delle droghe e l’orgoglio ferito lo fecero reagire, prese il coltello che si portava sempre dietro e, barcollando, scese in strada con uno sguardo folle.

    La moglie tra i singhiozzi pregava Santa Chiara di salvare anche quella volta il suo Giovanni Giacomo.

    Il tuono di uno schioppo e l’urlo straziante del marito le fecero capire che la Santa non l’aveva ascoltata.

    1

    Le nuvole di Caterina

    Vinci, 1458

    Succedeva sempre più frequentemente che La buca dei golosi non avesse più tavoli disponibili, la pasticceria di Ser Accattabriga era diventata un nome conosciuto nella Val d’Elsa. Non si trattava di una delle tante taverne simili a bordelli dove veniva servito del pessimo vino annacquato e ci si guardava alle spalle dagli attentatori. No, dall’Accattabriga si andava per peccare di gola.

    I commensali parlavano con la bocca piena e lo sguardo eccitato, alcuni ridevano sguaiatamente dandosi pesanti colpi sulle spalle, altri mangiavano a testa china i bocconi dolci e polposi gocciolanti di creme. A ingozzarsi del cibo del peccato erano rozzi contadini, arroganti commercianti e noti banchieri, ogni tanto, però, capitavano anche signori di palazzo e artisti di corte.

    Gli uomini non toglievano gli occhi di dosso da donna Caterina, alcuni l’avevano già spogliata col pensiero, non resistevano all’impulso di afferrarla dai fianchi morbidi per sentirla fremere e divincolarsi sotto le loro mani, ma la bella locandiera era una femmina capace di farsi rispettare, anche se i suoi ceffoni e i morsi rabbiosi su quegli omoni scatenavano solo grasse risate.

    Quel giorno, però, Caterina non aveva badato ai fischi e agli apprezzamenti pesanti dei clienti con la bocca sporca di miele e canditi, nemmeno li aveva guardati in faccia. Impastava, versava salse, sfornava torte. Ciocche di riccioli le scendevano sul lungo collo, le guance e il seno erano spolverati di farina e aveva le tempie sudate. Per tutti era lei il vero dolce.

    Era passato molto tempo da quando era la serva delle famiglie ricche del Valdarno e sognava di fuggire da Vinci per diventare una gran dama!

    Sognava a occhi aperti pensando che Cosimo il Vecchio aveva avuto un figlio dalla sua schiava Maddalena, Carlo de’ Medici, divenuto poi presbitero. Maddalena avrà ricevuto di certo dei trattamenti speciali dal signore di Firenze, pensava continuamente.

    La vita aveva dato ben altro destino a Caterina costringendola a sposare il burbero Accattabriga. Da quel momento i suoi compiti erano cucinare, governare la taverna e partorire figli, possibilmente maschi. Il miraggio di essere amata e sposata dal notaio Ser Piero da Vinci era rimasto tale.

    L’amore non è cosa per le serve, il matrimonio men che mai, si ripeteva.

    Negli ultimi mesi il lavoro non mancava alla Buca dei golosi, gli incassi erano decisamente buoni. Caterina sapeva che ogni moneta finiva dritto nelle tasche del marito, ma era pur vero che quel marito rozzo e un po’ ignorante l’adorava e non le faceva mancare niente.

    Le braccia le dolevano a forza di caricare pesi e le scarpe strette le causavano sofferenza per tutte quelle ore in piedi, ma poco importava, presto avrebbe potuto permettersi un paio di scarpe nuove e un vestito diverso dalla sottana di lana che le pungeva le gambe.

    Lo zucchero e il sale erano merce rara, dall’uso farmaceutico fatto nel Medioevo erano ora considerati delle spezie e quindi beni di lusso per i banchetti dei ricchi signori, per quanto, quel diavolo di pasticcere riusciva a servirli anche ai popolani. I cittadini di Vinci e dintorni, pur di assaggiare il nettare degli dei erano disposti a spendere più del dovuto e ad affrontare i sensi di colpa.

    Nelle altre bettole si mangiava per rifocillarsi prima di tornare al lavoro o per scaldarsi dal freddo con zuppe bollenti, dall’Accattabriga, invece, si andava per soddisfare il piacere. I dolci del burbero erano una perdizione per il corpo e per lo spirito, toccavano i sensi, tutti, non solo il gusto, davano forza, smuovevano passioni assopite o, semplicemente, facevano tornare il buon umore.

    Quello che di giorno era un forno con mulino per la vendita di farine, olio, pane e focacce, di sera si trasformava in un luogo dove gustare dolci di ogni forma, consistenza e sapore.

    Non solo gli uomini vi si recavano, anche le donne, nascoste dentro lunghi mantelli, varcavano la porta della Buca. Non erano prostitute o locandiere, erano serve, contadine, balie, si portavano dietro un sacchetto di velluto contenente qualche fiorino. Pagavano con mani tremanti le loro fette di torta o le deliziose creme, le mangiavano in un angolo chiudendo gli occhi per gustarne il succo e se ne andavano piene di sensi di colpa.

    Frutta caramellata, malto lavorato con mandorle e noci, pan di zenzero, torte soffici e profumate, latte e miele addensati, creme di ogni colore formavano un’onda avvolgente di aromi irresistibili e sconosciuti.

    Si entrava per brevi assaggi e ci si fermava per ore ad affondare le mani e i cucchiai di legno nei dolci impasti, poi si buttava giù in un solo sorso del buon vino liquoroso per ovattare i sensi già indeboliti.

    Quei momenti di piacere erano pura condivisione, svegliavano antichi ricordi, pensieri nascosti, toglievano ogni inibizione. Le discussioni o le chiacchiere duravano anche tutta la serata e si finiva per piangere, ridere o per fare l’amore.

    Accattabriga aveva rischiato la galera per avere materializzato il girone dei golosi, lo avevano scoperto sfornare dolci nel periodo della Quaresima e si sa che nei quaranta giorni in cui bisogna allontanare ogni tentazione, non era ammissibile vedere un viavai di persone entrare nella pasticceria di Vinci e uscirne sazi di zuccheri con lo sguardo ebbro di piacere. Le guardie erano state allertate e il clero aveva mandato i suoi giustizieri, il pasticcere si era salvato solo perché tra gli abitudinari vi era Giacomo Ammannati Piccolomini, il cardinale, vescovo di Pavia, il quale aveva abilmente celato lo scandalo.

    Quali erano le pozioni magiche che l’uomo univa a uova, miele, latte e farina?

    Non dite nefandezze! reagiva offeso verso chi gli rivolgeva quella domanda. Il magazzino del retrobottega, però, era stipato di sacchi e cesti di frutta sconosciuta, aromi, spezie, miele di ogni tipo e poi ampolle, recipienti con infusi di erbe e fiori.

    Le spezie valevano quanto l’oro, messere Antonio di Piero Buti del Vacca lo sapeva e aveva affinato l’astuzia per comprare la merce di contrabbando dai pirati e dai mercanti che tornavano con i carichi da Costantinopoli.

    Che fossero foglie, semi, radici o frutti, erano tutti prodotti della terra, rari e costosi, davano benessere al corpo e piacere ai sensi, il profumo intenso era un balsamo per lo spirito, una carica di energia, colpiva l’olfatto e arrivava al cervello.

    Nel sestiere del Molo di Genova, in zona Mandraccio, si incontravano e si scontravano razze, costumi, lingue di ogni parte del mondo allora conosciuto. Una statua, rappresentante la divinità protettrice dei naviganti, Diana Efesia, vegliava sui marinai e sui mercanti e il mare portava a galla o nascondeva negli abissi le storie e l’anima della sua gente.

    Ogni giorno arrivavano le galee a remi e a vela salpate da terre lontane con carichi di merce preziosa e racconti di pirati.

    Accattabriga era diventato in poco tempo uno dei clienti migliori, sapeva quali erano i bastimenti da aspettare e quali i mercanti o i pirati con cui contrattare.

    Al ritorno, nei cesti intrecciati e foderati di foglie di vite o nei sacchi di juta, sistemava le nuove spezie: quelle energizzanti come il ginepro, il pepe nero e la curcuma; quelle afrodisiache come la cannella, lo zenzero, il peperoncino; le rilassanti e confortanti come il sambuco e il papavero. Le nascondeva tutte sotto altri oggetti perché non si vedessero, ma soffocare l’odore delle droghe era impossibile e ogni volta l’uomo correva grossi rischi.

    Suvvia Ser delle Vigne, provate questa bontà di pan di zenzero e rosa canina. Caterina aveva una voce volutamente civettuola.

    Donna Caterina, qui c’è dell’altro, ditemi cosa c’è in questa crema rossa che copre i dolci? Ditemi, qual è il nome di codesto nettare a cui non so resistere?

    Cosa importa messere? Vi porta la forza e il buon umore che avete sempre avuto ma che vi stava abbandonando.

    Ser Accattabriga scuoteva la testa divertito, la sua Caterina sapeva sempre come ottenere quello che voleva, aveva un cervello la sua donna. Quante donne potevano dire di avere un cervello?

    Sapete cosa c’è nel cibo che preparate, marito mio?

    Ditemelo voi, amata moglie. Il pasticcere stava al gioco ridacchiando.

    Il diavolo e gli dei. I vostri dolci confortano corpo e mente oppure li portano alla perdizione, è un piacere lento o un brivido immediato.

    Parlate piano o vi prenderanno per una strega. La gola è un peccato, non lo sapete? L’uomo buttò giù un po’ di liquore di ginepro.

    Una volta rimasto solo Accattabriga rifletté sulla sua fortuna, pensandoci bene Caterina avrebbe potuto sposare l’arrogante Ser Piero da Vinci, un borioso notaio che aveva lasciato il paesino per fare carriera a Firenze, ma Ser Piero non poteva avere per sposa una giovane serva, avrebbe ostacolato la sua immagine di uomo di successo e, per quanto quella donna fosse il fuoco e la tentazione, la abbandonò.

    Adesso la bella Caterina era sua, solo sua!

    In una piccola casa di Anchiano, una frazione di Vinci, nella notte di sabato quindici aprile 1452, Caterina diede alla luce Leonardo. Il grido al mondo della creatura fu l’urlo che per tutta la vita avrebbe accompagnato la ribellione e il genio di colui che sarebbe diventato il più grande uomo di scienza di tutti i tempi.

    La serva Caterina partorì nella sua piccola ma dignitosa casa di mattoni rossi con una grande aia ai piedi del bosco.

    Madre e figlio vissero insieme pochi mesi, presto Ser Antonio da Vinci pretese di avere il nipote nella sua abitazione in zona Santa Croce dove il bambino crebbe.

    Leonardo non fu, tuttavia, legittimato, era pur sempre figlio di una serva e non poteva ambire all’eredità di famiglia!

    Antonio era un notaio molto rispettato a Vinci, un cittadino benestante che divideva la casa con i figli Piero e Francesco. La famiglia possedeva alcuni appezzamenti dove coltivava principalmente il grano, erano suoi anche diversi terrazzamenti di uliveti e vigneti da cui si ricavava olio e vino e, non per ultimo, era proprietario di un mulino accanto a una fornace. A far bene i conti, il vecchio Antonio e sua moglie Lucia non erano ricchi, ma la cifra di millequattrocento fiorini permetteva loro una vita dignitosa e qualche agio.

    Ser Piero aveva poco più di vent’anni quando conobbe Caterina.

    Capitò nell’estate del 1451, a Firenze. Piero si stava affermando come notaio nella città del giglio, ma, appena poteva, andava a trovare i vecchi amati genitori e tutte le estati trascorreva i mesi più caldi nel paese natale. Raccontava a tutti di lavorare presso le più alte magistrature fiorentine, si vantava di fare una bella vita e di avere trovato un agiato alloggio intorno alla Badia Fiorentina.

    Caterina era solo una serva, conduceva una vita umile, ma la sua bellezza non lasciava indifferenti. Si diceva che era stata comprata come schiava molti anni prima da un ricco nobile, erano solo voci ma la sua pelle ambrata e gli occhi nerissimi dal taglio allungato facevano pensare che quelle voci erano fondate.

    La campagna di Vinci, i profumi dell’estate, l’allegria delle feste di paese, le tiepide notti stellate sotto il respiro del vento caldo furono complici del sentimento tra Piero e Caterina, la loro fu una bruciante passione, tanto intensa quanto breve.

    Caterina non sapeva leggere e tanto meno scrivere, però aveva una mente fervida e curiosa. Le piaceva ascoltare i racconti fiorentini di Ser Piero, adorava apprendere tutte le vicende politiche e si divertiva con gli scandali di corte. Chiudeva gli occhi e si vedeva nella città dei Medici, con la fantasia sedeva ai banchetti dei signori di Firenze o si faceva ritrarre dal Pollaiolo, tutti dicevano che era bravo a dipingere i volti di donna.

    Antonio temeva che la bruciante passione tra Caterina e suo figlio potesse trascinare la famiglia nello scandalo, non furono abbastanza intimidatorie le lettere che mandava a Ser Piero in cui minacciava di togliergli l’eredità se avesse sposato una serva. Il vecchio attese che il fuoco diventasse brace e passò ai fatti obbligando il figlio a contrarre matrimonio con una donna fiorentina benestante.

    Fu così che, nel 1452, Ser Piero di Antonio da Vinci convolò a nozze con Albiera di Giovanni Amadori, la quale gli diede solo una figlia, Antonia, che purtroppo morì troppo presto.

    Al battesimo di Leonardo, nella chiesa parrocchiale di Santa Croce a Vinci, erano assenti sia il padre, sia la madre, che, non essendo sposati, non potevano partecipare alla cerimonia religiosa.

    A breve anche Caterina, per salvare l’onore, fu costretta a maritarsi con Antonio di Piero Buti del Vacca, un contadino di Campo Zeppi chiamato da tutti l’Accattabriga. L’uomo, sotto una discreta ricompensa, accettò il matrimonio. In realtà non fu un grande sacrificio, Caterina era di una bellezza sconcertante e questo faceva dimenticare le sue umili origini.

    La bella serva abbandonò la sua misera casa, ma continuò ad allattare il figlioletto per un breve periodo. In quei momenti di sconfinato amore Leonardo la fissava con i piccoli occhi da uccellino, respirava il suo odore, si cibava di lei e Caterina lo custodiva ancora nel suo grembo, lo proteggeva, lo accarezzava, si addormentava con lui, cantava per lui con voce melodiosa. Distaccarsi dal figlio fu quanto di più atroce per la giovane mamma, quel cordone ombelicale, però, sarebbe sempre stato la fonte di vita di Leonardo.

    Per sistemarsi la coscienza, Ser Antonio cedette all’Accattabriga il mulino con la vecchia fornace di ceramica da cui l’uomo ricavò un forno per sfornare pane e dolci e sbarcare il lunario.

    Piero da Vinci non abbandonò mai completamente Leonardo, almeno fisicamente. Quando non era a Firenze, andava con la moglie Albiera nella casa dei genitori a trovare quel figliolo amato e odiato, ogni volta si sorprendeva nel vederlo così cresciuto e sempre più bello.

    Leonardo aveva già sei anni e una mente sorprendentemente attenta e ingorda, ma non gli fu concesso andare a scuola o familiarizzare con gli altri bambini. Imparò a leggere e a scrivere grazie allo zio Francesco che, pur non essendo in grado di insegnare al nipote il latino o la filosofia dei classici, si rivelò un bravo maestro. Leonardo apprendeva con grande facilità e riportava tutto senza filtri con la scrittura sgraziata dalla sua mano sinistra, la mano del diavolo.

    Quello zio, dedito più all’ozio che al lavoro, aveva una mente curiosa, si intendeva di molte cose sul mondo della natura e della scienza, sapeva scrivere senza troppi errori, conosceva la grammatica e la matematica e se la cavava bene nella conversazione.

    Mai avrebbe immaginato, Leonardo, quanto l’esempio di Ser Francesco da Vinci lo avrebbe ispirato per sempre, di lui imitò la maniera smodata e sconclusionata di vivere e, come lui, scelse di rigirare le regole mantenendo sempre una sicura indifferenza verso l’opinione pubblica.

    Vinci, oggi

    Ascanio se ne stava seduto immobile e teneva tra le mani, dure come la pietra, le pagine logorate dal tempo di quello che doveva essere stato il diario segreto di Leonardo da Vinci. I fogli ridotti a un velo pesavano come una zavorra. Uno sguardo disorientato gli segnava il volto.

    Non era solito perdere la calma, sapeva governare le tempeste interne, mostrava sempre una certa sicurezza nei gesti e nel tono di voce ogni volta che doveva affrontare le difficoltà, ma questa volta la paura dell’ignoto lo risucchiava.

    Quando gli ordinarono di trasferire l’attività a Firenze iniziò il calvario tipico di ogni trasloco: macchinari da smontare, mobili da svuotare, libri da archiviare, muri da ripulire. Per carattere, ogni volta che gli si dava un ordine lo eseguiva come un soldato, con disciplina e rigore, mascherando la stanchezza.

    Abbiamo preparato una bella torta, dissero le sorelle Bastogi. Antonia e Marisa Bastogi, nonostante l’età, avevano una voce giovane e cristallina. Entrarono reggendo una torta cosparsa di petali di fiori e una bottiglia di spumante per festeggiare.

    Sembrava la scena di un film: in mezzo al disordine, alla polvere e al rumore del trapano, appaiono due creature profumate di mughetto e vestite con abiti e cappelli colorati. A Ascanio scappò un sorriso.

    Come lo videro, bianco in faccia e con lo sguardo stralunato, si occuparono di lui.

    Sono fiori commestibili, senti che leggero sapore di liquirizia ha l’angelica su questa torta al latte e il pizzico di piccante che dà la calendula? Lo senti? disse Marisa muovendo i suoi piccoli e vispi occhi azzurri. Chissà… magari questa ricetta è tra i fogli rilegati che hai trovato, aggiunse irrigidendo appena i lineamenti.

    Quali fogli rilegati? La voce uscì a fatica. Non aveva più provato a parlare dopo lo shock.

    "Quelli che prima, con aria sconvolta,

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