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Giacomo l'immoralista: Sull'orlo del nulla. Leopardi e la mezza filosofia
Giacomo l'immoralista: Sull'orlo del nulla. Leopardi e la mezza filosofia
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Giacomo l'immoralista: Sull'orlo del nulla. Leopardi e la mezza filosofia

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About this ebook

Sempre nominato, sovente calunniato, molto amato ma sostanzialmente poco letto e ancor meno compreso, Leopardi è una presenza imbarazzante nella storia del pensiero europeo; anzi, a dispetto dell’immensa mole della bibliografia relativa, ancora un’immensa assenza, una grande, affascinante sfida.
Gli autori di questo volume si sono ripromessi - “semplicemente” - di leggere Leopardi; per il piacere dell’avventura, per amore del rischio. Questo volume costituisce una specie di «diario di bordo» del loro viaggio nell’immenso universo leopardiano; la testimonianza del tentativo di aprire un colloquio quant’è possibile onesto con quello che è stato definito «uno dei grandi saggi dell’umanità»: senza costringere nei limiti dei propri pregiudizi la sua libertà; senza provare a semplificare la sua complessità; senza cedere al desiderio di ignorare le sue contraddizioni o, peggio ancora, di scioglierle; provando a condividere il suo gusto per le domande e la sua diffidenza per le risposte.
Questo, lo scopo dichiarato: lasciar parlare Leopardi «senza prestargli qualità che non ha» ovvero senza forzare quello che dice per farlo entrare in uno schema precostituito; mettersi in ascolto; umilmente, sapendo quant’è difficile ascoltare e vedere. Di qui l’ampio e sempre insufficiente spazio lasciato alla parola di Leopardi: in modo da fare di questo libro, anche, una sorta di antologia del pensiero leopardiano. L’idea era di mostrare Leopardi come si mostrerebbe un panorama, il cielo stellato, i monti e gli oceani della luna. Sforzandosi di evitare, nei limiti del possibile, la tentazione, decisamente troppo ricorrente tra gl’interpreti, di rinchiudere l’imprendibile ricchezza di Leopardi in una formula.
Il titolo che gli autori hanno voluto assegnare a questo libro sembra denunciare il loro fallimento, o la difficoltà di mantener fede ai propri propositi; ma il termine di immoralista che hanno applicato a Leopardi è tale, sia per la provocatorietà sia per l’ironia, da non poter essere assimilato a etichette pretenziose come quella tradizionale di pessimista o quella, più aggiornata, di nichilista: esso serve semmai a prendere le distanze da quelle, ormai palesemente inadeguate, definizioni; e ad attirare l’attenzione su un aspetto poco noto ma molto importante del Leopardi filosofo: sul suo desiderio d’essere il nuovo, eversivo Machiavello: il duro critico della società, il moralista-immoralista che pretende di chiamare le cose col loro nome e, poiché le virtù non sono praticate, propone di abolirne i nomi; l’intransigente cultore dell’acerbo vero che, avendo scoperto che «il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene» e «l'educazione buona, o così chiamata, consiste in gran parte nell'ingannare gli allievi», vuole spezzare le tavole della morale corrente perché sono al servizio di questo inganno e della trionfante alleanza dei «vili contro i generosi». 
LanguageItaliano
Release dateJun 7, 2019
ISBN9788899415600
Giacomo l'immoralista: Sull'orlo del nulla. Leopardi e la mezza filosofia

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    Giacomo l'immoralista - Vincenzo Gueglio

    Diogene

    1

    Titolo originale

    Giacomo l’immoralista

    Sull’orlo del nulla. Leopardi e la mezza filosofia

    di Vincenzo Gueglio – Emanuela Gueglio

    © 2019 Oltre s.r.l., Sestri Levante

    edizioni.oltre.it

    ISBN 9788899415600

    Indice

    1. Premesse. Buoni propositi, cattive pratiche

    1. 1. Filosofia e nervi malati

    1. 2. Un’insolente apertura

    1. 3. Castelli in aria. Toujours préluder

    1. 4. Prendere Leopardi come malattia

    1. 5. E allora proviamoci

    2. Sull’orlo del nulla. un primo sguardo.

    2. 1. Nichilismo. La parola

    2. 2. Il tema filosofico

    2. 2. 1. Nietzsche

    2. 2. 2. Dopo Nietzsche

    3. Primo approccio al nulla leopardiano

    3.1. L’affogamento

    3.2. Elleboro a Leopardi

    4. Una filosofia per Leopardi

    4.1. La filosofia è scelleraggine ragionata

    4.2. Il ruolo della contraddizione nel pensiero leopardiano

    4.3. Natura e qualità della ragione

    4.4. Zanotti e il perfetto filosofo

    4.5. Quale lingua per la filosofia. Quale filosofia

    4.5.1. Pensare il mistero

    4.5.2. Ancora la questione della lingua filosofica

    5. Leopardi secondo lui stesso

    5.1. Leopardi scettico e relativista assoluto

    5.2. Leopardi socratico

    5.2.1. Concordanza con le antiche filosofie

    5.2.2. Platonismo in Leopardi

    5.3. Leopardi epicureo e antiepicureo

    5.4. Teofrasto, Bruto e il disinganno

    5.5. E Hume?

    6. Il filosofo e la poesia. La funzione del bello

    6.1. Il sonno, l’oppio, il dolore e il paradiso della tecnica

    6.2. Il nulla, il gignens e la Ginestra

    7. Ancora sul nulla leopardiano

    7.1. Minima tavola del nulla leopardiano

    7.1.1. Noia come esperienza (mistica?) e privilegio. Potere conoscitivo della malinconia e della noia

    7.1.2 Il nulla come figura della noia

    7.1.3. Il nulla come richiamo religioso alla vanitas vanitatum

    7.1.4. L’infinità del nulla: solo una parola

    7.2. E adesso? Un’estetica del nulla? Ontologia negativa?

    8. Niente filosofia. Tutt’al più, mezza

    8.1. L’ordine incomparabile

    8.2. Il mondo a caso

    8.3. Illusioni al pascolo

    9. Leopardi immoralista

    9.1. L’inquietudine etica di Leopardi

    9.1.1. Amor fati? La mite ferocia leopardiana

    9.1.2. Le passioni di Leopardi

    9.1.3. Convertire la ragione

    9.1.4. La fame di virtù. Elogio del delitto

    9.1.5. Testimone del vero

    Conclusioni?

    Bibliografia essenziale

    Alcune edizioni delle opere leopardiane consultate

    Indice dei nomi

    In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto facilissimamente diviene vastissimo. Tanto più è necessario, volendo pur fare un libro, che uno sappia limitarsi, che attenda diligentemente a circoscrivere il proprio argomento, sì nell'idea de' lettori, e sì massimamente nella propria intenzione; e che si faccia un dovere di non trapassare i termini stabilitisi.

    (Zibaldone, 4484)

    Certamente il vero non è bello. Nondimeno anche il vero può spesse volte porgere qualche diletto: e se nelle cose umane il bello è da preporre al vero, questo, dove manchi il bello, è da preferire ad ogni altra cosa.

    (Detti memorabili di Filippo Ottonieri, Cap. V)

    […] conosciuto, ancor che tristo, / ha suoi diletti il vero.

    (Epistola al conte Carlo Pepoli)

    Ma l'intelletto umano è capace di contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà.

    (Zibaldone, 3151)

    1. PREMESSE.

    BUONI PROPOSITI, CATTIVE PRATICHE

    1. 1. Filosofia e nervi malati

    Molti lettori, anche autorevolissimi,¹ si sono rifiutati di fare i conti seriamente col pensiero leopardiano giudicandolo un frutto dei nervi malati dell’uomo: toccato all’occasione dalla grazia che gli ha concesso alcuni bei versi, ma negato (perciò stesso?) alla filosofia.

    Oggi le cose sono molto diverse, e il pensiero di Leopardi viene studiato con attenzione; anche se molti autori sembrano mossi soprattutto dall’esigenza – umana ma decisamente troppo umana e nel caso di Leopardi inopportuna e fuorviante – di dedicargli un capitolo nella storia della filosofia; e, guidati da questo bisogno d’ordine, sono indotti a chiarire razionalizzare semplificare; e insomma tendono a immobilizzare in una istantanea o in una proiezione ideale un pensiero la cui caratteristica precipua è data dall’essere frammentario, mobile, aperto, incompiuto; irto di contraddizioni che non bisogna cercare di sciogliere ma vanno preservate in quanto svolgono una funzione strutturale.

    L’ansia classificatoria degli interpreti ha condotto negli ultimi tempi a fare di Leopardi una sorta di precursore di Nietzsche; non senza qualche ragione e non senza una certa complicità dello stesso Nietzsche.²

    Del resto fu proprio il De Sanctis a riconoscere per primo un certo carattere nichilistico al pensiero leopardiano: dopo avere negato che Leopardi possegga una filosofia, e affermato che egli «è più un moralista che un metafisico» (affermazione che peraltro Giacomo, prescindendo dalla svalutazione del proprio sistema, avrebbe probabilmente sottoscritto) , il critico scrive:

    Del resto la sua metafisica è compendiata in una sola frase: Arcano è tutto. Che cosa è il mondo e a che nato e come, mistero. Rigetta tutte le spiegazioni religiose e filosofiche. Il nihil scire è il suo sapere. Ciò che dà al suo filosofare un carattere scettico, leggermente ironico.³

    Sull’incomprensione, clamorosa, del Croce, sulla quale inevitabilmente saremo costretti a tornare, esercita la propria ironia Giuseppe Rensi:

    Nella storia dell’estetica che il Croce ci dà nella sua Estetica e in cui sono racimolati anche i più insignificanti scrittori tedeschi, e, si capisce, viene costruito un posto d’eccezione per Vico e De Sanctis, non è nemmeno una volta nominato un pensatore come il Leopardi, del quale, non foss’altro per la sua importanza letteraria e per le moltissime pagine da lui dedicate all’estetica, una storia italiana dell’estetica parrebbe non dover omettere un cenno. Ma il Leopardi non è tra i filosofi che godano dell’imprimatur da parte del Croce.

    Fra gli autorevolissimi che negarono dignità filosofica al pensiero di Leopardi fu Carducci:

    Nell’epistola al Pepoli il poeta mostrò dire addio ai dolci inganni: d’ora innanzi indagherà solo il vero: filosoferà. Non dategli retta, non filosoferà mai: perocché Giacomo Leopardi fu un gran poeta, e un osservatore e pensatore fiero e profondo, non un filosofo, nel senso sistematico di questo vocabolo.

    Addirittura stizzito del ritrovamento e della pubblicazione dello Zibaldone è Gentile, che la giudica «una certa quale indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi»; ritrovamento e pubblicazione sostanzialmente inutili, del resto, dato che quegli appunti sono «i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non avvivò». D’altra parte, sembra spazientirsi l’ancor giovane filosofo,

    Passione vera per la speculazione il Leopardi non ebbe mai. Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e studioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pensiero di Platone e di Aristotele. […] Di Leibniz sorrise come Voltaire, non sospettando in alcun modo la profondità del suo pensiero. Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma […] fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore filosofico, è molto mediocre.

    In un saggio di poco posteriore Gentile rimprovera il Leopardi di non essere gentiliano:

    […] il Leopardi non si solleva al concetto dell’essenza dello spirito.

    Eppure Gentile, tutto sommato, fu sensibile all’opera di Leopardi, e vi tornò ripetutamente: con risultati, infine, interessanti: tanto che il suo lungo Proemio (1918) alle Operette morali è ancora oggi raccomandabile.

    Conviene ricordare, in merito alla lettura gentiliana delle Operette, i rilievi mossi da Giuseppe De Robertis alle «meticolose impacifiche strutture architettoniche» che il filosofo crede di scoprire nell’ordinamento del volumetto leopardiano:

    Il Gentile […] distribuisce, raggruppa e distingue, per fondarci sopra una imponente dimostrazione; che vuol essere una dimostrazione della idea hegeliana. Tutte le Operette, insomma, venti di numero, tolto […] un prologo e un epilogo, sarebbero, secondo il suo concetto, ordinate in tre grandi parti, ciascuna di sei: una sorta di trilogia, che movendo dalla negazione dei valori della vita, e culminando in una crisi di dolore e di disperazione, alla fine ricostruisce e ricrea ciò che ha distrutto. [… Ma] manca nelle Operette fin l’ombra di ciò che il Gentile ama chiamare ‘ricostruzione’, contrapposta all’idea di rovina e quasi di sfacelo assegnata alla prima parte.

    Per De Robertis la struttura del libro è determinata invece

    da una semplice idea di concordanza, e quasi da un musicale istinto.¹⁰

    Ma anche lui, a nostro avviso, sbaglia inclinando a una lettura tutta estetica delle Operette: che senza dubbio sono libro d’arte ma anche, e non meno, di pensiero; e se «un musicale istinto», che certo non mancò a Leopardi, presiedette alla loro struttura, esso non fu l’unico ad agire: sicuramente non fu (solo) per un «musicale istinto» che Leopardi volle che le Operette terminassero col Timandro nel 1827 e poi, dal ’34, col Tristano. Le Operette saranno anche un libro che «bruciarlo è il meglio», ma in esse il disegno di Leopardi d’essere a un tempo perfetto filosofo e perfetto poeta ha la sua piena, altissima attuazione.

    1. 2. Un’insolente apertura

    Alla complessa e praticamente inestricabile ricerca leopardiana, sincera e impervia come pochissime altre, ci avviciniamo trepidanti. Confidiamo che il nostro fallimento, che sappiamo inevitabile, sarà dovuto soltanto ai limiti della nostra intelligenza e non anche alla presunzione di chi, incapace come tutti di giungere a Leopardi, sostituisce il testo originario con uno che è in grado di capire o che magari, semplicemente, gli è più congeniale.

    Per limitare questo rischio lasceremo molto spazio alla parola di Leopardi; cosa per noi fondamentale; e cercheremo di rispettare, del testo, anche le zone d’ombra; o quelle che tali ci appaiono: rinunciando, per cominciare, alla tentazione di appianare a forza le contraddizioni e sciogliere ogni nodo per condurre l’aspro farsi del pensiero leopardiano a un esito smagliante, apollineo: se non proprio spiritualista almeno bene ordinato, tale insomma da poter piacere anche a Croce.

    La tentazione esiste; la forzatura è quasi inevitabile; perché il pensiero leopardiano si costruisce faticosamente, di giorno in giorno, di rimando in rimando; e vive in quei grovigli, in un andirivieni tendenzialmente interminabile e comunque interminato. Non abbiamo innanzi a noi un oggetto soddisfatto di sé, preciso e chiuso su se stesso come un sonetto; ma un maestoso caos: vivo, inquieto, che cerca di estendersi sino ai confini dell’universo per riportarne una mappa accurata, munita di commento e note: perché l’esplorazione operata da Leopardi è esplorazione di filologo; la sua acribia è acribia di filologo. Con un filo di ironia potremmo apparentare anche il suo scetticismo e relativismo alla cautela con la quale il filologo contempla i risultati del proprio lavoro: consapevole che per quanto accuratamente abbia condotto l’indagine non può aver tenuto conto di tutte le variabili; sicché il lavoro rimane sempre aperto, provvisorio: un eterno preludio pronto ad agganciare una divagazione, ad accogliere una smentita o una contraddizione.

    Probabilmente è proprio questa insolente apertura a sconcertare e irritare i filosofi. E tutti noi, in fondo, che avremmo bisogno di rigirare fra le mani un oggetto chiaro e ben tornito e invece siamo costretti ad addentarci in un territorio pieno di insidie e praticamente inesplorabile. Ma straordinariamente affascinante.

    1. 3. Castelli in aria. Toujours préluder

    Benché l’indagine del Leopardi copra tutto l’esistente, il suo principale interesse è rivolto non tanto al mondo fisico quanto all’umano, e ambisce a farsi scienza dei sentimenti.

    Infatti, fra i libri che Leopardi si riproponeva di realizzare, troviamo, annotati in un elenco di Disegni letterari stilato nel febbraio del 1829, un Trattato delle passioni e dei sentimenti degli uomini e un Della natura degli uomini e delle cose.¹¹

    È un progetto sul quale vale la pena soffermarsi un poco sin d’ora; Leopardi ne parla in una lettera del marzo, quindi pochi giorni dopo la stesura dei Disegni, a Pietro Colletta:

    Il trattato Della natura degli uomini e delle cose, conterrebbe le questioni delle materie astratte, delle origini della ragione, dei destini dell’uomo, della felicità e simili: ma forse non sarebbe oscuro, né ripeterebbe le cose dette da altri, né mancherebbe di utilità pratica.¹²

    Tra gli altri Disegni si ricordano, come particolarmente significativi dell’inclinazione teorico-pratica del Leopardi:

    Manuale di filosofia pratica: cioè un Epitteto a mio modo. Galateo morale: cioè dei rispetti che bisogna avere nella conversazione e nel viver civile, per non offendere certe passioni degli uomini, in certe maniere, poco osservate. Il Machiavello della vita sociale. Orazioni morali: cioè Prediche e Panegirici senza Scrittura e senza teologia.¹³

    In filigrana a queste Orazioni morali sembra di intravedere una sorta di Théologie portative alla maniera di D’Holbach.

    In fase di realizzazione più avanzata pareva il progetto di un Dizionario filosofico filologico del quale aveva parlato ripetutamente con Antonio Fortunato Stella fra i primi d’agosto e settembre 1826. Il 19 settembre Leopardi aveva scritto da Bologna all’editore:

    Incoraggito dalle sue parole relative al mio Dizionario, mi son dato ad estrarre, a porre in ordine ec. i materiali che ho per quest’opera, la quale dovrebbe anche contenere un buon numero di articoli o trattatelli relativi a cose di lingua, che sieno di un interesse generale, filosofico o filologico; i quali articoli si potranno anche pubblicare appartatamente. Quanto alla Censura, Ella non deve temere, perché io conosco i principii che la reggono, e secondo questi mi regolerei, tanto nella scelta delle materie quanto nel modo di trattarle.¹⁴

    Nella lettera al Colletta sopra citata Leopardi scriveva:

    Voi riderete di tanta quantità di titoli; e ancor io ne rido, e veggo che due vite non basterebbero a colorire tanti disegni. E questi non sono che una quinta parte degli altri, ch’io lascio stare per non seccarvi di più, e perchè in quelli non potrei darvi a intendere il mio pensiero senza molte parole. Ma quando avessi tanta salute da poter comporre, sceglierei quelli che allora mi andassero più a genio: e i materiali destinati a quei disegni che non avessero esecuzione, entrerebbero per buona parte in quei lavori a cui dessi effetto. In fine, queste non sono che ciance, ed io di tanti disegni, secondo ogni verosimiglianza, non farò nulla […]. Dico non farò nulla, per non potere non già per non volere; che la volontà non mi mancherebbe.¹⁵

    In verità Leopardi lavorò molto seriamente a dar concretezza ai suoi disegni; fra l’altro componendo, certo con immensa fatica, fra l’11 luglio e il 14 ottobre a Firenze, il preziosissimo Indice del mio Zibaldone di pensieri¹⁶ e le Polizzine, ove sono richiamate con puntigliosa precisione le pagine dello Zibaldone da utilizzare per alcune delle opere vagheggiate; in primo luogo per il trattato Della natura degli uomini e delle cose; e poi per il Manuale di filosofia pratica ecc.¹⁷

    La sua filosofia, sempre togliendo, niente aggiungendo, secondo il metodo, da lui approvato, dei filosofi moderni, tende a scoprire le leggi del vivere in società pretendendo di stilare un Galateo morale che detti – ironicamente – le norme da adottare «nella conversazione e nel viver civile»: Il Machiavello della vita sociale; Prediche e Panegirici senza Scrittura e senza teologia.

    Queste opere non le ha scritte, d’accordo; ma gli ribollivano dentro. Le preparò, le configurò: anche con una certa precisione; ma non poté compierle. E fu un motivo di rammarico (un altro, povero Giacomo: uno dei tanti) . Nel giugno 1836,¹⁸ espresse così, nelle forme di una mite protesta, la sua frustrazione:

    malgré le titre magnifique d’opere que mon libraire a cru devoir donner à son recueil, je n’ai jamais fait d’ouvrage, j’ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder, mais ma carrière n’est pas allée plus loin.¹⁹

    Facciamo pure la tara della modestia a queste righe (poco prima Leopardi è arrivato a schermirsi «si j’avais été poète», se fossi stato poeta) , ma siamo persuasi che quanto Leopardi scriveva al suo giovane interlocutore corrispondesse esattamente al suo sentimento: con amarezza tanto maggiore in quanto nel giugno del ’36 Giacomo non si faceva alcuna illusione circa la possibilità di fare l’opera.²⁰

    1. 4. Prendere Leopardi come malattia

    Leopardi è un mondo grande e difficile. La sua esplorazione comporta dei rischi, è un’avventura vera, che non può essere affrontata con leggerezza. Carlo Bo si incarica di ricordarcelo. Alla sua maniera, appassionata e ruvida.

    Lo studioso dedicò al Leopardi solo un paio di saggi, ma memorabili: uno giovanile,²¹ aspro, quasi iroso, sostanzialmente ingiusto, che tuttavia, con la serietà che ha sempre contraddistinto Bo, avvertiva:

    Il pericolo per un lettore di Leopardi – e ogni spirito degno non si limita a un soccorso d’incontri ma vuole un’intelligente convivenza – sta nello scegliere delle risposte agli infiniti interrogativi della sua preoccupazione spirituale o per lo meno nell’adattare secondo le informazioni reperibili della «storia della sua anima» delle conclusioni e delle soluzioni.²²

    Senza alcuna reverenza, con tutta la schiettezza e l’asprezza che gli sembrano necessarie, Bo lancia un’accusa veemente e a nostro avviso ingiustissima:

    Fu un’anima senza avventura: il grido, la ribellione, e magari la bestemmia finivano, si esaurivano in una falsa pace, e a volte purtroppo in un accomodamento. […] La sua vita stessa, i libri e l’eterno giuoco degli studi, servirono ad addormentare delle domande che sarebbero state la risposta che anelava e la sua consolazione.²³

    No, che Leopardi sia «un’anima senza avventura» è affermazione che non possiamo concedere nemmeno all’impeto agonistico di Bo; né possiamo ammettere che Leopardi abbia mai consentito, ai libri né a nient’altro, di «addormentare delle domande»; ci sembra evidente il contrario; eppure il rimprovero di Bo avrebbe toccato Giacomo in un punto sensibile; lui stesso, infatti, verso i « libri e l’eterno giuoco degli studi» ebbe più di un moto d’impazienza: non certo perché sospettasse che potessero (diciamo così provando a interpretare Bo) addormentagli la coscienza o occultargli delle domande, ma perché li sentiva un malinconico succedaneo all’azione: che sola riteneva degna dell’ideale d’uomo che vagheggiava.

    Infine Bo concedeva:

    Non ha barato: l’onestà lo ha posseduto interamente. Così anche da questo punto di vista la sua povertà – il dolore della sua anima derelitta – diventa un esempio […].²⁴

    Ma il Bo più interessante e ammirevole, e non importa stabilire sino a che punto lo si voglia condividere, è quello di uno splendido saggio del 1962 che, radicalmente ripensando il vecchio testo e forse rimproverando a se stesso la chiusa consolatoria di venticinque anni prima, ammonisce:

    I grandi poeti che hanno scelto Leopardi contro tutto il resto del libro della nostra poesia – da Pascoli ad Ungaretti – hanno fatto una scelta salutare ma di ordine limitato, hanno preso Leopardi come una medicina e non come sarebbe stato più giusto come una malattia, come una frazione attiva di morte.²⁵

    Leopardi – almeno nell’ambito della nostra letteratura – è stato molte volte riconosciuto come un modello: ciò vuol dire che non sempre è mancata la buona volontà, piuttosto sono state insufficienti le forze e soprattutto su un nuovo corso della letteratura ha prevalso un sentimento di obbedienza e di ossequio a una certa struttura rettorica. Ce ne convince – se ne avessimo bisogno – la storia dei ritorni più conclamati a Leopardi, ritorni che hanno messo in luce una parte dell’opera, un’immagine fra le cento altre del poeta e, per il resto, hanno fuso in un unico gesto l’oblìo e il disprezzo per quello che a nostro avviso resta il punto più alto del tentativo leopardiano: l’interrogazione costante, in profondità, l’interrogazione disperata sulla presenza dell’uomo in terra, nella natura, nel mondo che rifiuta la regola, la definizione, insomma la composizione nella ragione.²⁶

    Ancora:

    Leopardi poteva anche dare quest’illusione di essere nella tradizione e se noi oggi facciamo la storia della critica leopardiana vediamo che i maggiori sforzi sono stati fatti per legarlo in quel cerchio e leggerlo a quella luce. Che non sarebbe poi un errore, a patto che si trattasse di lettura completa e ognuno non cercasse di adattarlo all’immagine che gl’interessa di più. D’altra parte una lettura chiusa nella tradizione evita proprio il Leopardi che ci tocca di più e che ha posto la nostra letteratura all’avanguardia, ai limiti estremi dell’interrogazione. Ma detto questo, è facile capire che per noi Leopardi rimane un isolato. Bontempelli che ha parlato dell’uomo solo²⁷ probabilmente intendeva aggiungere anche questo: non soltanto il poeta che si sente solo nella natura, nel mondo, fra gli uomini, ma anche che è rimasto solo dopo. […] Che cosa c’impediva dunque di leggere Leopardi per intero, oltre il senso della tradizione, che cosa ci ha sempre fatto anteporre il lirico all’uomo delle domande, non dico al filosofo, perché in tal caso sarebbe come ricondurre Leopardi in un cerchio chiuso di leggi, di abitudini, di norme. Se noi leggiamo infatti gli studi che sono dedicati alla filosofia del Leopardi, non tardiamo a riconoscere che si compie al proposito un’altra operazione di sistemazione e di adeguamento: si cerca cioè di spiegare Leopardi con gli elementi che ci mette a disposizione la cultura del suo tempo e non si vuole invece vedere che il suo atto di negazione investe anche quelle categorie, anzi proprio quelle categorie prima di tutte le altre.²⁸

    Ecco, con questo ammonimento serio e severo nello zaino, partiamo per la nostra esplorazione di Leopardi. Dalla quale non intendiamo riportare altro che sparsi appunti di viaggio.

    1. 5. E allora proviamoci

    Assegnare nomi alle cose è inevitabile, ma troppo facilmente siamo indotti a credere che la conoscenza del nome coincida con la conoscenza della cosa; e a compiacerci di questa malinconica finzione; quindi cercheremo di evitare, nei limiti del possibile, la tentazione, decisamente troppo ricorrente, di rinchiudere l’imprendibile ricchezza di Leopardi in una definizione. Verso la notomia (e la critica che ne adotta i sistemi nella beata persuasione che, in quanto scientifici, siano perciò stesso infallibili) nutriamo la massima diffidenza: perché ci pare di aver notato come, alla fine delle sue sottilissime operazioni, non rimanga, a dispetto della abilità tecnica dispiegata, nemmeno la memoria dell’oggetto che si sarebbe dovuto conoscere.

    La medesima diffidenza per la notomia – e la stessa impaziente sazietà, diremmo, nei confronti della dilagante letteratura critica leopardiana – riscontriamo in Gentile:

    Questa poesia da un secolo e più conquide tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che spontaneamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base di mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla pretensiosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora alla intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una definizione.²⁹

    Parole sante, viene da dire, e sano sentimento; lo stesso che gli fa dire

    «Leopardi non è soltanto il poeta degli idillii»,³⁰

    che lo innamora delle Operette e gliele fa sentire

    «un organismo, un tutto unico […] un poema»;³¹

    e lo fa sbottare contro Croce e Zumbini e lo spinge a rifiutare la stessa stanca etichetta di pessimista incollata sul Leopardi. Peccato, ahinoi, che pretenda di sostituire quell’etichetta con l’altra, di ottimista, secondo le preoccupazione d’ordine filosofico e ideologico legate al suo proprio sistema e alle esigenze «spirituali» del regime:

    la lettura del Leopardi non sarà mai pericolosa [!], anzi salutare e corroborante a chi saprà leggergli nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani e vigorosi ottimisti, che ci possano apprendere il segreto della vita operosa e feconda.³²

    Confessiamo volentieri la povertà della nostra strumentazione: un taccuino, tante domande e una grandissima sfiducia nelle risposte.

    Leopardi non avrà potuto insegnarci molto, ma la sua diffidenza per le pretese costruttrici dei filosofi, la ricordiamo bene:

    Paragonando la filosofia antica colla moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente perché i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare. Il che se gli antichi tal volta facevano, niuno però era che in questo caso non istimasse suo debito e suo interesse sostituire. […] Così fecero anche nella prima restaurazione della filosofia Cartesio e Newton. Ma i filosofi moderni, sempre togliendo, niente sostituiscono. E questo è il vero modo di filosofare, non già, come si dice, perché la debolezza del nostro intelletto c’impedisce di trovare il vero positivo, ma perché in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno.³³

    Questo, vorremmo fare: lasciar parlare Leopardi «senza prestargli qualità che non ha» ovvero senza forzare quello che dice per farlo entrare in uno schema precostituito. Metterci in ascolto; umilmente, sapendo quant’è difficile ascoltare e vedere.

    La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio. Quindi è che i più semplici più sanno: che la semplicità, come dice un filosofo tedesco, (Wieland³⁴) è sottilissima, che i fanciulli e i selvaggi più vergini vincono di sapienza le persone più addottrinate: cioè più mescolate di elementi stranieri al loro intelletto. Di qui si conferma quel mio principio che la sommità della sapienza consiste nel conoscere la sua propria inutilità,³⁵ e come gli uomini sarebbero sapientissimi s’ella mai non fosse nata: e la sua maggiore utilità, o per lo meno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’è possibile) appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento. E quello ch’io dico qui dell’intelletto, dico altrove, e qui ridico, anche per rispetto alla vita, e a tutto quello che appartiene all’uomo, e che ha qualsivoglia relazione colla sapienza.³⁶

    Ma sì, lo sappiamo anche noi che questa lettura ingenua – e umile per giunta – è un’utopia impossibile.

    Siamo consapevoli (se anche non avessimo compreso appieno Ricoeur e Gadamer, abbiamo comunque avuto notizia di Pirandello e Kurosawa) che non esiste né realtà né testo in sé: e che tutto ciò che vediamo e comprendiamo lo vediamo e comprendiamo in quanto tradotto in noi ovvero in quanto ha attraversato il filtro dei nostri sensi e della nostra coscienza/cultura: insomma ci giunge attraverso l’interpretazione che di esso diamo inconsapevolmente ecc.

    Lo sappiamo. Tuttavia, dopo le centinaia di migliaia di pagine che si sono accumulate sulla parola leopardiana, sentiamo il bisogno – forse lo sentiamo tutti – di tornare ad essa con il minimo di schermi possibili (auspicio eminentemente leopardiano del resto). Vorremmo dimenticare tutte quelle minuziose classificazioni: idilli primi e secondi, grandi e piccoli; pessimismi storici, cosmici o che altro… Fare un po’ di pulizia in casa… Togliere, se mai fosse possibile, un po’ delle incrostazioni che si sono depositate su Leopardi, che lo chiudono come in un sarcofago…

    NOTE

    1 De Sanctis e Croce su tutti, come vedremo; ma diciamo subito che la posizione del De Sanctis è complessa e la sua lettura leopardiana sempre attenta, onesta e utile. Così il Timpanaro: «Rimane comunque al De Sanctis il grande merito di avere posto il problema, tuttora aperto, del Leopardi progressivo. Bisogna anche aggiungere che il De Sanctis, uomo immune da ogni rigida consequenzialità dottrinaria, conservò sempre in sé una vena di pessimismo e un certo distacco ironico-amaro da quello storicismo che pur professava: si pensi […], nello Studio sul Leopardi, a certi accenni al problema del male […]. Ciò gli concedeva nei riguardi del pessimismo leopardiano una simpatia e una comprensione molto maggiore di quella che avranno più tardi i neo-idealisti». Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1969², p. 32.

    2 Ved. il libro che il filosofo tedesco non ha mai scritto ma che va sotto il suo nome: Friedrich Nietzsche, Intorno a Leopardi, a cura di Cesare Galimberti, Il melangolo, Genova 1992.

    3 Francesco De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Torino, Einaudi 1983, p. 263.

    4 Giuseppe Rensi, Lo scetticismo estetico del Leopardi (a cura di Barnaba Maj) , Gallio, Ferrara 1990, p. 24, n. 1. E diciamolo qui, giusto nello spazio dimesso d’una nota, nemmeno il Rensi, che si permise di salutare Leopardi come il sommo filosofo italiano, godette l’imprimatur del Croce. Né, a quanto pare, di molti altri; certo non di Gentile, che lo giudicò in maniera sprezzante; persino Adriano Tilgher, che pure lo stimava e da lui apprese, forse, a studiare seriamente il pensiero di Leopardi, lo valutò moralista più che filosofo (A. Tilgher, Un moralista: Giuseppe Rensi, Il Lavoro, Anno XXXVI, n. 56, 6 marzo 1938).

    5 G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi (1898) , in Carducci, Opere, vol. XX, Leopardi e Manzoni, Zanichelli, Bologna 1937, p. 82.

    6 G. Gentile, La filosofia del Leopardi (1907) , in G. Gentile, Manzoni e Leopardi, Treves, Milano 1928, p. 43, 40 e 46. .

    7 Una storia del pensiero leopardiano, 1911, in cit. , p. 58

    8 Alberto Caracciolo si domanda, maliziosamente, «se sia stato veramente l’incanto lirico dell’opera leopardiana ad attrarre a sé il Gentile, o non piuttosto la rispondenza o la presunta rispondenza di quell’opera, nella sua testimonianza umana, a un paradigma di dramma morale, che è poi il substrato umano (in parte almeno) della gnoseologia e della metafisica gentiliana: l’annientamento inerte, desolante, mortale, dell’uomo nella natura nel momento meccanicistico, la rivincita creativa e gioiosa di lui sulla natura nel momento idealistico. » Quindi annota: «Il Leopardi è sollevato tra gli eletti, tra i decisamente eletti, in grazia di una vittoria così splendida da far arrossire uno stesso idealista. L’affermazione infatti dello spirito e dell’umana grandezza nel Leopardi, dato l’avvilimento del suo destino fisico e il deprimente materialismo della filosofia da cui proveniva […] testimonia una forza di più o men consapevole ma sostanziale idealismo da lasciare ammirati». E vibra la stoccata: «E al lettore non sfugge che il Gentile finisce col comportarsi col Leopardi così come Dante con gli spiriti magni del mondo antico: che, quando poté, li fece cristiani, e, quando non poté, li fece presaghi del cristianesimo, sospirosi e sofferenti dell’assenza di esso». A. Caracciolo, Scritti di estetica, Brescia 1949, pp. 229-230 (cit. in Giovanni Moretto, Presentazione, in A. Caracciolo, Leopardi e il nichilismo, Bompiani, Milano 1994, p. 8) . Il Caracciolo si rivela straordinario scrittore e temibile polemista; tuttavia le accuse di scarsa sensibilità poetica e di scarsa duttilità psicologica e storica ci sembrano troppo severe: in particolare la lettura gentiliana delle Operette Morali (anche là dove il filosofo rileva l’organicità essenziale e l’unitarietà dell’opera) è decisamente interessante; così come l’avvertenza – opportunissima! – che «il Leopardi non è soltanto il poeta degli idillii». I saggi leopardiani del Gentile si leggono, non senza utilità, come abbiamo detto, in G. Gentile, Manzoni e Leopardi, Treves, Milano 1928, pp. 33 e segg.

    9 G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, cit. , pp. 151-152.

    10 Ibid.

    11 Disegni letterari, in Giacomo Leopardi, Poesie e Prose, a cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni, Mondadori, Milano, 1988, vol. secondo, Prose, a cura di R. Damiani, p.

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