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Gli ultimi giorni di Gondrano
Gli ultimi giorni di Gondrano
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Gli ultimi giorni di Gondrano

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“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Così recita l’articolo 4 della Costituzione della Repubblica Italiana. Ma nella realtà questo diritto spesso non è garantito. Nella figura di Gondrano, il protagonista di questo romanzo, molti lettori potranno riconoscersi e tutti i personaggi hanno i nomi di quelli de La fattoria degli animali di George Orwell e rappresentano una categoria sociale con affinità a quelle descritte dallo stesso Orwell a cui l’Autore si ispira.
Tutto avviene un giorno qualunque, quando all’improvviso e senza alcuna reale spiegazione, gli viene comunicato con freddezza che verrà licenziato per esigenze di riorganizzazione aziendale. La sua vita da quel giorno non sarà mai più la stessa, in cerca non solo di un nuovo lavoro e di risposte di sindacato in sindacato, ma anche alla ricerca della propria dignità. E così, come un uomo invisibile, trascorre in modo apatico le sue grigie giornate, nascondendo a tutti, per vergogna e pudore, quello che sta vivendo. Gondrano voleva soltanto essere un uomo come tanti altri, alla ricerca di quella normalità che oggi diventa sempre più spesso speciale perché capace di renderci uomini liberi e veri.

Emilio Cattaneo, dopo aver esercitato per qualche anno la professione di Avvocato, dalla fine degli anni ’90 inizia a lavorare all’interno di grandi aziende multinazionali del settore del credito e delle assicurazioni. Attualmente è Direttore del Personale, Organizzazione e IT di una multinazionale nel settore industriale. Sposato, con una figlia, vive in provincia di Brescia.
LanguageItaliano
Release dateFeb 28, 2019
ISBN9788830602694
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    Gli ultimi giorni di Gondrano - Emilio Cattaneo

    genitori

    Prologo

    Ricordo tutto come fosse oggi.

    Mi rivedo persino annodare velocemente le stringhe delle scarpe, serrandole forse troppo bruscamente, tanto che una volta rialzatomi sono infastidito dalla pressione che avverto sul dorso del piede. Mi sembra di sentirla ancora oggi. Sono le sette e mezza di una meravigliosa serata di primavera. È maggio inoltrato e le giornate sono lunghe abbastanza da regalare, quando il tempo è bello come questa sera, uno scampolo di estate anticipata. È un ricordo ricco di colori.

    Tolgo in fretta l’uniforme dell’ufficio per indossare pantaloncini corti e maglietta e questo già mi allontana dalla giornata appena trascorsa. So che i fatti del lavoro sfumeranno ancora più veloci tra poco, fino ad annullarsi, quando sarò finalmente fuori, in strada, a correre.

    La casa dove abito è lontana dal traffico. È situata sul versante sud di una assolata ed estesa collina.

    Quando esco ascolto con soddisfazione il rumore metallico del piccolo cancello che si chiude alle mie spalle. È un suono prezioso per me. Come il rintocco di una campana a volte anticipa una cerimonia, così quel suono mi getta beffardo in un mondo nuovo. Esco da quel piccolo cancello solo per correre.

    Fuori svolto subito a sinistra. Il sole è un faro acceso che sta per cadere dietro la linea dell’orizzonte ma fa ancora in tempo ad indicarmi nitidamente la strada da percorrere. Supero la casa del mio vicino. Un pointer anche questa sera mi accompagna al trotto, senza abbaiare, lungo tutta la cancellata anteriore. Percorro una decina di metri e posso già scorgere, sebbene molto lontana dalla mia prospettiva, l’autostrada che collega il nord della Lombardia a Milano, con il suo incessante flusso di veicoli. Da qui non mi infastidisce. Nessun rumore. Solo vetture che paiono muoversi così lente, così distanti. Oltre l’autostrada nascono i primi piccoli rilievi, increspature nel terreno alte qualche centinaio di metri e ricche di vegetazione che anticipano a nord la fine della pianura Padana e annunciano le Alpi. Sembrano solo i lembi rialzati di un grande tappeto da dove li osservo, ma è lì che sono diretto questa sera.

    Il nucleo di case è ormai lontano. Si sono ritirate tutte alle mie spalle e da una decina di minuti intorno a me ci sono solo campi incolti. Mi accompagnano sino in prossimità dell’autostrada. Lì, tracciano il loro confine abbandonandomi in una desolazione fatta di laterizi, sacchi di spazzatura e rete di recinzione. L’unico modo per attraversare la minacciosa lingua di asfalto è passarci sotto, attraverso un sottopasso buio e gelido. Lo imbocco e sono dall’altra parte. Il caldo torna a farsi sentire sulla mia pelle e la prospettiva da cui osservo il mondo da lì nasconde finalmente il degrado che ho appena incontrato.

    Si apre invece la vista su uno splendido bosco. Si annuncia con piccoli arbusti e aiuole di robinie, ma più ci si addentra, più la vegetazione si fa lussureggiante e ad osservare i visitatori che passeggiano per i suoi sentieri ci sono alberi secolari dal fusto imponente. Sono trascorsi solo pochi minuti ed è come se fosse iniziata un’altra giornata, diversa dalla precedente, che rinnova la precedente.

    Attraverso in parte il bosco, tagliandolo nel mezzo con un buon ritmo e quando la mia sagoma già non proietta più alcuna ombra davanti a sé, proprio al termine di un breve tratto in salita, sbuco dall’altra parte della collina, sulla strada provinciale che collega il paese alla stazione ferroviaria più vicina. Devo percorrere questa strada per un buon tratto prima di rituffarmi nella vegetazione, qualche centinaio di metri più avanti. A quest’ora della sera non c’è praticamente traffico, come se i treni che dovevano arrivare fossero già tutti arrivati e quella strada non avesse più nessuno da condurre a casa. Do un’occhiata all’orologio, sono in giro da mezz’ora. Dagli scampoli di tramonto che ho incontrato al principio della mia corsa, alla completa oscurità trascorreranno ancora solo poche decine di minuti.

    Mi accorgo che c’è una stele sul ciglio della strada, sul lato opposto a quello sul quale sto correndo, proprio dove la carreggiata disegna un’ampia curva. Qualcuno ci ha lasciato un mazzo di fiori freschi. C’è anche una iscrizione, ma sono mesi che non passo da queste parti, forse un anno intero o più e proprio non ricordo di averla vista prima. La ignoro in ogni caso, perché davanti a me già intravedo le recinzioni di cemento che fiancheggiano un tratto della ferrovia e sono il segnale che tra poco dovrò svoltare. Le costeggio solo per un momento infatti e quando la vegetazione si dirada, attraverso la strada e mi rituffo nel bosco.

    C’è un sentiero in discesa quasi totalmente coperto da foglie secche. Le scarpe o l’oscurità che sta conquistando questo mondo mi tradiscono. Appoggio male un piede in una irregolarità nascosta del terreno e scivolo. Scivolo rovinosamente a terra. Giù per il pendio. Sto cadendo.

    Cerco di fermare la caduta agitando le mani, ma sembra che l’unica cosa che io riesca a fare sia solo raccogliere una gran quantità di rami secchi e foglie marce. Trascino di tutto giù con me per il bosco. Quello che non raccolgono le mani, lo raccolgono piedi e natiche. Quando mi fermo, qualche metro più giù, c’è un forte odore di muschio e foglie e terra umida nell’aria e sembra provenire da me. Rialzandomi, mi accorgo che fortunatamente le foglie e i rami hanno attutito la caduta e –a parte lo spavento e la terra che mi si è infilata un po’ dappertutto – non ho nulla che non va. Mi volto a guardare la striscia marrone scuro che il mio corpo ha disegnato al suolo. Ho smosso una gran quantità di terreno, trascinando con me tutto quello che ho incontrato per quei pochi metri. Della mia caduta rimane solo una striscia di fango che lentamente si sta già persino ricoprendo di altre foglie. Corrono a coprire il vuoto creato dalle prime, come se il bosco fosse una entità dotata di vita propria. Un ammasso di detriti intanto quasi mi nasconde interamente i piedi.

    Tra le foglie, proprio davanti a me, vedo sbucare un oggetto. È così vicino che è come se fossi stato io a perderlo, nella caduta, ma non è così, non avevo nulla con me. È un oggetto che è piombato lì chissà da dove, forse non doveva nemmeno essere lì e ci si è trovato esattamente come mi ci sono trovato io, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Temo con la mia caduta di averlo risvegliato, dissotterrandolo da un sonno eterno.

    Quelle che vedo sbucare dal fogliame sono le bretelle di uno zaino. Le ho prese e l’ho sollevato. Uno zaino verde, verde militare. In altre condizioni non l’avrei mai visto, il bosco lo avrebbe nascosto per chissà ancora quanto tempo, ma oggi è lì e non può evitare di uscire. Non sembra vecchio, ha solo l’aria di chi è rimasto sepolto per mesi sotto una coltre di foglie marce e rami secchi. Dopo un giro in lavatrice potrebbe tornare buono mi dico, anche se non ho nessuna intenzione di portarmelo a casa. Non fossi caduto sarebbe rimasto sepolto ancora, chissà per quanto tempo. Decido di dargli un’occhiata.

    Ricordo tutto come fosse oggi.

    Capitolo 1

    La caduta

    "Poiché non sappiamo quando moriremo,

    si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile;

    però tutto accade solo un certo numero di volte,

    un numero minimo di volte.

    Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia,

    un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita

    - forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno.

    Quante altre volte guarderete levarsi la luna – forse venti –

    eppure tutto sembra senza limite."

    Il thè nel deserto, film di B. Bertolucci, 1990

    Le prime correnti di aria fredda sferzavano il cielo, a Milano, quella mattina di novembre. Finalmente. Un’altra estate arrivata troppo in ritardo aveva allungato i suoi tentacoli su tutto il mese di ottobre e l’inizio di novembre, confondendo con giornate miti e senza pioggia i cicli della natura e anche quelli degli uomini. Ma ora il freddo. Lo sentivi sulla fronte, nelle ossa, tra le dita gelide affondate nelle tasche del cappotto, alla ricerca di un po’ di tepore.

    L’autunno iniziava così ad insinuarsi tra le sagome dei pendolari che ogni mattina si riversano senza sosta sulle banchine della Stazione Centrale di Milano. Ogni mattina. I treni in arrivo nella metropoli da ogni parte del nord, li rovesciano, si svuotano e poi ripartono lasciando il posto ad altri convogli che arrivano gonfi di persone. È un pulsare continuo che anima ogni mattina questa città, un pulsare di persone che scorrono come sangue nelle sue vene.

    Ad accogliere questa massa di impiegati, studenti, operai e immigrati le incombenti insegne pubblicitarie che campeggiano perennemente accese sulla sommità della stazione, sfavillanti perché tutti le vedano.

    L’aggressione di questi colori, così vivaci e il volume degli slogan pubblicitari che li accompagnano in una danza caotica, ricorda alla massa grigia che pulsa al suolo l’eterno bisogno di nutrire speranza, come se gli anni di benessere appena trascorsi avessero solo bisogno di una piccola spinta, un lieve movimento del polso, per rimettersi in movimento, simili a lancette di un orologio fermo da poco.

    ***

    "Pensate a tutti i milioni di persone che vivono insieme

    anche se non gli piace,

    odiano il lavoro ma hanno paura di perderlo,

    non c’è da meravigliarsi se hanno le facce che hanno."

    Charles Bukowski

    La grande Stazione Centrale dei Treni di Milano è un luogo costantemente affollato. Non dà e non si dà un momento di tregua. Come uno stantuffo instancabile preleva le persone in arrivo e le restituisce alla città attraverso i suoi tentacolari collegamenti.

    Una giornata come tante altre si direbbe osservando questo flusso continuo ed incessante di persone. Per molti di loro una giornata che si sarebbe dimenticata nella memoria della esistenza come ogni altra.

    Non per lui.

    I soliti volti, con gli occhi rossi scavati dal freddo e dalle poche ore di sonno si incrociano per un istante prima di abbandonarsi alla giornata che sta per iniziare e tuffarsi nel sottosuolo. Lì, nel sottosuolo, troveranno ad aspettarli altri treni e altri ancora.

    Per ciascuno è sempre un lungo viaggio quello per raggiungere il posto di lavoro. Ci si abitua a tutto pur di lavorare e si è disposti a fare qualsiasi tipo di sacrificio. Ogni pendolare conosce i percorsi più brevi per raggiungere la propria destinazione, quelli più veloci, quelli alternativi e i pericoli del traffico e come un marinaio, impara in fretta a navigare nel mare della vita.

    A ciascuno il proprio viaggio e la propria fatica. A ciascuno questi fardelli sembrano sempre più pesanti di quelli degli altri, ognuno intimamente è convinto che la propria croce sia maledettamente più greve di quella dell’altro. In verità se buttassimo in un mucchio la nostra croce, poi correremmo subito dopo a cercare di riprendercela scoprendo che non è né meglio né peggio, né più leggera, né più pesante di altre, semplicemente è la nostra e ad essa ci siamo ormai abituati. Nel dubbio ci teniamo la nostra.

    La croce di Gondrano è lunga due ore al mattino e due ore la sera. Abita in un paese in provincia di Varese. Impiega quindici minuti di auto per raggiungere la stazione dei treni più vicina al mattino e, una volta sul treno, altri 50 minuti per raggiungere Milano. Sceso dal treno ha dieci minuti a piedi per arrivare a prendere la metropolitana. Quindici minuti di metropolitana e poi fuori ad aspettare il tram che taglia la città, da est verso ovest, rincorrendo la notte che fugge nelle prime ore del mattino. Mezz’ora di tram e altri cinque minuti a piedi per entrare in azienda. Più o meno. Il totale in basso a destra fa 120 minuti. Due ore. La sera percorso contrario. Esce a piedi, mezz’ora di tram, metropolitana, stazione centrale, un’ora di treno, auto, casa. Due ore.

    Questo in assenza di scioperi, dei treni o dei trasporti pubblici locali. Ogni venerdì c’è praticamente uno sciopero. Di tutte le sigle contemporaneamente o di una o più sigle minori alternativamente, venerdì si sciopera. Scioperano i treni o scioperano i mezzi urbani, o scioperano entrambi. Scioperano gli autoferrotranvieri della Lombardia o quelli del Veneto o quelli del Piemonte, insieme o alternativamente. Perché scioperano?

    A Gondrano, come ad ogni altro pendolare ormai non interessa più, avranno le loro ragioni. In realtà sono sette anni che i sindacati provano a sbloccare la vertenza del contratto nazionale degli autoferrotranvieri con l’arma dello sciopero. Forse occorrerebbe pensare a qualcosa d’altro. Il contratto è scaduto alla fine del 2007 e non è stato più rinnovato. Non sono bastati gli anni di trattative per un contratto che coinvolge 110 mila lavoratori. A causa della crisi economica, sono sempre meno i soldi a disposizione del settore, che dipende molto dai contributi pubblici. Il comparto è poi allo sfascio anche per la cattiva gestione delle aziende del trasporto pubblico locale, che in molti casi sono tecnicamente fallite o in situazioni finanziarie drammatiche.

    Dispiace a tutti.

    Non sono solo gli scioperi ad allungare il cammino. La croce è lunga due ore in assenza di incidenti stradali o ferroviari, ritardi dei mezzi, frequenti con o senza condizioni atmosferiche proibitive, pioggia, neve, furti di rame. Gelo di inverno che blocca gli scambi dei binari, caldo torrido in estate che dilata il metallo di cui sono composti con le medesime conseguenze. E così via.

    Ciascuna di queste variabili, ogni giorno può allungare il tempo che Gondrano impiega per raggiungere l’ufficio e la sera può rendere una odissea il rientro a casa. Anche solo venti minuti di ritardo diventano davvero una eternità. Gondrano conosce la metafora della stufa che Einstein usa per spiegare la relatività del tempo. Oltre i venti minuti qualsiasi giornata viene distrutta dalla propria stanchezza. Il segreto diventa certamente ingannare il tempo, come se il tempo potesse essere ingannato, stringendo amicizie o scambiando solo poche parole con gli altri passeggeri, sviluppare conoscenze, oppure perdersi con i passatempi che amiamo di più. Quale che sia la scelta, ciò che conta è vivere il singolo momento del viaggio per quello che è, un momento di passaggio verso una condizione di benessere, a casa.

    Il viaggio può diventare così un lungo momento di purgatorio che consente di allontanare le tossine della giornata per rientrare a casa con la mente finalmente vuota da pensieri e preoccupazioni. La mente vuota, non libera.

    Non ci si riesce mai realmente a liberare di questi fardelli. Si svuota il contenitore, come si svuota un cestino della spazzatura, consapevoli che il giorno seguente finirà presto per essere colmo nuovamente di altra immondizia. Non troppo pesante, questo ci si augura, perché sia meno gravoso il compito di liberarlo.

    Gondrano questo lo sa bene.

    ***

    C’è un guasto alla linea 3 della metropolitana oggi. Gondrano lo intuisce ancor prima di averne conferma dal messaggio diffuso dagli altoparlanti, perché i volti che incrocia le altre mattine stanno già facendo il percorso contrario al suo.

    È costretto a scegliere un tragitto alternativo. Un quarto d’ora in più, ma neanche se ne accorge. Non fosse stato per gli avvenimenti successivi della giornata, l’episodio sarebbe naufragato come altri insignificanti mattoni nell’oceano della sua memoria. Ma dati gli avvenimenti successivi non è naufragato, si è salvato, come tutto il resto e adesso è lì che gli ricorda persino i volti delle persone che ha incontrato quella mattina.

    Sono ormai quasi le otto e trenta quando scorge finalmente il palazzo dove lavora. Nonostante abbia fatto come al solito una colazione abbondante ha già quasi fame. Nota sul marciapiede antistante l’ingresso due colleghe che parlano cheek to cheek. Le riconosce abbastanza in fretta come la responsabile del Controllo Interno e una impiegata addetta alla riparazione delle uova. Mentre si avvicina e le guarda immagina che sia l’ennesimo tentativo della seconda di ottenere una raccomandazione per entrare finalmente nello staff della prima e lasciare la caienna, il famigerato bagno penale che è la Direzione Riparazione Uova. Non accadrà mai, vorrebbe dir loro che è tutto inutile. Quando si accorgono della sua presenza gli sorridono, complimentandosi per il suo aspetto e fingono di continuare a raccontarsi la trama del film trasmesso la sera prima. Le supera, indifferente alla loro pantomima ed entra veloce in azienda.

    ***

    Ore 9.00

    Gondrano è finalmente seduto alla sua scrivania quando chiama Trifoglio. Gli chiede di raggiungerlo. L’idea è quella di prendere un caffè insieme. Trifoglio, la Radio, è il responsabile delle riparazioni in fattoria. Sono entrati in confidenza quasi subito Gondrano e lui. Quando Gondrano è stato assunto gli è stato temporaneamente assegnato un ufficio vicino a quello di Trifoglio. Iniziando a conoscersi, non è tardato molto che condividessero il desiderio di prendere il caffè insieme. Da un certo momento in poi il caffè del mattino è diventata una abitudine e un piacere per entrambi. Qualche tempo dopo l’assunzione Gondrano è stato spostato ancora, al suo attuale ufficio, due piani sopra quello di Trifoglio, ma il caffè del mattino è rimasto.

    Essendo dipendente da oltre un decennio Trifoglio conosce vita, morte e miracoli dell’organizzazione e si è rivelato sempre una fonte preziosa di informazioni per Gondrano, oltreché un sincero compagno di caffè.

    A Trifoglio, la Radio, il soprannome comunque non è stato regalato per il patrimonio di informazioni di cui è depositario, no. Il soprannome gli deriva dalla caratteristica che ha di non ascoltare nessuno durante una conversazione e di parlare sempre, all’infinito, anche tornando ripetutamente a raccontare lo stesso avvenimento senza che nessuno glielo domandi. In molti lo definirebbero logorroico, perché in effetti il dilungamento verbale continuo e senza sosta alla fine risulta insostenibile. Però, data la simpatia che Gondrano nutre nei suoi confronti, preferisce solo pensare a lui come a la Radio e continuare ad ascoltarlo quando parla. Perché periodicamente, come alla radio, prima o poi arriva sempre qualcosa di interessante.

    Il discorso che Gondrano ascolta mentre beve il caffè con Trifoglio quella maledetta mattina però, non è tra i più alti di quelli che gli sia mai capitato di ascoltare da lui. Gli sta spiegando come avviene il calcolo del valore del PSA, durante il famigerato esame della prostata, nei maschietti. Lo sa perché lo ha fatto alcuni giorni prima. Questo discorso del cazzo viene interrotto molto velocemente però. Mentre parlano, qualcuno bussa alla porta. Dall’altra parte non aspettano di sentire la parolina d’ordine, avanti, per mettere piede in ufficio. Irrompono così, con una cartellina azzurra sotto il braccio Minimus, il capo di Gondrano e il suo scagnozzo dell’Amministrazione Pecore, Beniamino. Hanno lo sguardo serio e si capisce che c’è qualcosa in ballo. Minimus chiede alla Radio di lasciarli soli e uscire. Non servono i preamboli, Gondrano sa cosa sta per accadere, perché proprio qualche giorno prima…

    ***

    "La parola è civiltà.

    La parola, anche la più contraddittoria, mantiene il contatto.

    È il silenzio che isola."

    Thomas Mann

    C’è una strana atmosfera in azienda da qualche tempo a questa parte. Da giorni infatti non si fa altro che parlare di un misterioso meeting organizzato dal Capo della Fattoria Napoleon, in una location segreta, lontano da occhi e orecchie indiscrete. A questo incontro sono stati invitati tutti i dirigenti più importanti, tre – evidentemente considerati non importanti – sono rimasti a casa con buona pace per loro, ma che cosa si siano detti gli altri è un mistero. L’alone di mistero è acuito dal fatto che questo meeting ne segue un altro, tenutosi solo qualche settimana prima, del quale allo stesso modo non è trapelato nulla.

    Dunque in azienda tutti sanno che i dirigenti si sono trovati in due occasioni, a distanza di tempo e per alcuni giorni in un luogo segreto per parlare, per ascoltare probabilmente, ma nessuno sa dove e soprattutto che cosa si siano detti.

    Dal momento che intorno alla metà di settembre, in occasione della visita in Italia del Capo di Tutte le Fattorie accompagnato dagli azionisti di maggioranza, Napoleon, Minimus e altri Dirigenti già trovarono occasione di appartarsi allo stesso modo, diventano così tre i meeting che vedono riunirsi tutto lo stato maggiore e di cui il personale non ha informazioni. Anche in quel caso, nessuna notizia trapelò ai dipendenti. Il numero in basso a destra somma due mesi di silenzio e congetture.

    Già a settembre il silenzio tombale sulla visita non venne accolto con entusiasmo. Tutti i dipendenti sanno dei risultati sempre negativi dell’azienda, nel corso degli ultimi cinque anni. Se ci fossero state buone notizie i vertici aziendali ne avrebbero parlato o avrebbero in fretta lasciato trapelare qualcosa. Il silenzio non è quasi mai foriero di buone notizie, non lo è in generale e non lo era all’epoca. Il sillogismo silenzio/cattive notizie fu subito chiaro a buona parte dei dipendenti. La maggioranza di loro tuttavia attribuì la mancanza di informazioni alla illuminata consapevolezza da parte dei vertici aziendali che le informazioni circa la definizione di piani strategici di alto livello non potevano essere lasciate trapelare con superficialità. Questa rassicurante prospettiva scaturiva probabilmente dal radicamento di una dinamica comunicativa molto diffusa in azienda e che evidentemente ha colmato il vuoto di informazioni e notizie persino più a fondo di quanto non si potesse temere. In azienda infatti sono molti quelli che considerano l’informazione come fonte di potere. Per questo utilizzano l’esclusivo possesso dell’informazione come strumento per affermare la propria autorità. Il numero e la qualità delle informazioni possedute diventa così strumento di controllo. Questa è una dinamica ricorrente in particolare nei rapporti capo intermedio – collaboratore, ma cambiando il necessario diventa utilizzabile anche per gruppi di individui e categorie sociali più ampie.

    Ripensandoci a distanza di tempo, questo probabilmente è quanto accadde alla maggioranza, consapevole e rassegnata vittima di un sistema di controllo dell’informazione tanto rudimentale quanto efficace.

    Ma la maggioranza aveva torto. Bisogna dire che il vuoto venutosi a creare per il bisogno non soddisfatto di informazione da parte dei dipendenti, venne comunque colmato rapidamente dai dipendenti stessi dando fondo al pettegolezzo e alle voci di corridoio, che trovarono evidentemente terreno fertile dove attecchire.

    Così per mesi si assistette ad un proliferare di voci fantasiose che andavano dal …compreremo un’altra Fattoria… a …l’azienda è in run off…. Qui in mezzo qualcuno avrà anche detto la verità.

    Ora, la comunicazione interna in azienda non è un processo che c’è o non c’è. Non si può non comunicare! Così non è corretto dire, in termini generici, che esiste un buon sistema di comunicazione interna contrapposto a un cattivo sistema di comunicazione interna. Sembra piuttosto corretto affermare che c’è un sistema di comunicazione interna che è funzionale o non è funzionale agli obiettivi strategici che l’organizzazione si è data. E questa Gondrano credeva fosse proprio la cornice all’interno della quale occorreva collocare la mancanza di informazioni e la mancanza di notizie da parte dei vertici aziendali sui meeting che si erano susseguiti nel corso del tempo. In azienda il silenzio era, ed è ancora oggi, lo strumento scelto dai vertici per comunicare. Su questo punto maggioranza e minoranza, nei dibattiti che si susseguivano nel luogo – in ogni azienda – deputato a questo tipo di conversazioni, la macchinetta del caffè, erano d’accordo. La differenza era sul significato da attribuire al silenzio. La maggioranza, come detto, nutriva cieca speranza. La minoranza invece era un po’ più preoccupata e Gondrano era tra questi.

    Nella sua esperienza il silenzio da parte dei vertici aziendali non è mai stato utilizzato come facevano i suoi genitori prima delle feste di compleanno, quando con aria incurante sembrava lasciassero avvicinarsi i giorni per poi fargli la sorpresa con il regalo che desiderava. Nemmeno è quasi mai stato utilizzato esclusivamente come strumento di controllo. Spesso, piuttosto, fasi di prolungato silenzio da parte dei vertici hanno preceduto duri processi di riorganizzazione, di solito processi che

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