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Il morso della luna
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Il morso della luna
Ebook995 pages15 hours

Il morso della luna

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About this ebook

Southcreech, un paesino avvolto dalle fredde montagne del nord, nasconde un segreto. Un segreto che nessuno mai avrebbe potuto immaginare e che avrebbe fatto paura al mondo intero.Qui vive una ragazza di nome Sarah, la cui vita cambierà radicalmente raggiunta la maggiore età. Una maledizione antica la rapirà lasciandola sprofondare in incubi mai provati prima e che non avranno mai fine . Diventerà l'artefice di orribili misfatti dietro l'ordine di una luna quasi beffarda e vendicativa. Molte vite periranno sotto i colpi lucenti dei suoi artigli e delle sue zanne.Anche la vita di Dave, giornalista di cronaca nera inviato sul posto per scrivere degli offerati omicidi che sono iniziati in quelle terre gelide e desolate, cambierà profondamente dopo l'incontro con lei. Leggende popolari non rimarranno tali, brutalità della bestia verra fuori in tutta la sua devastante potenza e non lascerà scampo a nessuno, a meno che...
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateMay 10, 2019
ISBN9788867829491
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    Il morso della luna - Giampiero Daniello

    Giampiero Daniello

    Il morso della luna

    Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    Tel 02.90970439

    www.gdsedizioni.it

    www.gdsbookstore.it

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Ogni riferimento descritto nel seguente romanzo a cose luoghi o persone

    sono da considerarsi del tutto casuale.

    Copertina e progetto di : StudioNole

     DISPONIBILE ANCHE IN FORMATO CARTACEO

    Giampiero Daniello

    Il morso della luna

    PROLOGO

    Stava per succedere ancora. La luna era alta e splendeva piena nel freddo e gelido cielo di South Creek, rischiarando il paesaggio tipicamente invernale delle foreste del Nord America e qualcuno o qualcosa stava nuovamente lottando per non venir fuori, per non uccidere ancora. Ma la lotta era impari perché la belva era lì, albergava nell’animo e pulsava nel cuore; e quando la luna raggiungeva la sua massima pienezza, nessuna cura o sortilegio o magia l’avrebbero fermata.

    Era giunto il momento. Il corpo iniziò a vibrare come se milioni di formiche lo percorressero in una corsa all’ultimo respiro, le pulsazioni del cuore aumentarono a dismisura quasi a voler squarciare quel corpo che stava cambiando di nuovo. Dolori lancinanti iniziarono a smembrare le ossa, come se volessero distruggere quell’esile involucro che conteneva la furia della belva, che da lì a poco avrebbe prevalso su qualsiasi tentativo di resisterle. In preda agli spasmi, lì fuori, nella gelida notte innevata e rischiarata soltanto dalla luna, tra i cespugli di una radura coperta di soffice e candida neve, si strappò i vestiti di dosso, rivelando un corpo sinuoso dalle forme snelle e procaci, decisamente ancora sexy e decisamente ancora umane. Non avvertiva in nessun modo i morsi del grande freddo di quella notte, perché a dispetto della temperatura sotto zero, lei stava bruciando dal di dentro e la belva spingeva per emergere. Il suo cervello non conteneva più i pensieri ed inibiva qualsiasi processo logico e razionale. Stava mutando.

    Fitte lancinanti allo stomaco le provocarono nausea che si diffuse fino al cervello. Sarah iniziò a vomitare schiuma e si piegò per gli spasmi, mentre le ossa con scricchiolii sinistri iniziarono ad allungarsi. Le sue urla coprirono qualsiasi suono che la natura del bosco potesse produrre e presto diventarono latrati. Tutto intorno era silenzio, come se la natura intera si fosse arresa alla forza della belva, ed immobile assistesse alla mutazione. Nessun animale sembrava più esistere, solo lei, e sola nella fitta boscaglia, tra i verdi pini e i pioppi coperti dallo strato di neve che ogni inverno faceva cambiare quel paesaggio, regalandogli un fascino quasi spettrale, si stava trasformando per l’ennesima volta. Per l’ennesima volta le sembrava di morire.

    La bocca si allungò fino a diventare muso, mentre i denti stridevano tra di loro. Gli occhi cangiarono colore e forma, da un verde corallo, diventarono gialli e sprigionarono tutta la cattiveria dell’animale che veniva fuori. Le ossa delle mani, come quelle di tutto il corpo, si tesero verso il cielo, quasi a voler afferrare la luna che l’aveva resa schiava di quella maledizione. Una fitta peluria iniziò a ricoprirle il corpo, solo pochi minuti prima snello e formoso, dalle curve calde e morbide ed ora divenuto ruvido e spesso, possente e duro come una roccia. La pelliccia di lupo le copriva il corpo ormai di lupo. I denti si allungarono fino a diventare zanne affilate e fetida bava fuoriuscì dalle fauci, le unghie crebbero fino a diventare artigli. Alla fine, il cuore rallentò i suoi battiti che si uniformarono all’affanno del corpo che ormai aveva ultimato il suo cambiamento.

    Ora, immobile nella neve resa ancora più bianca dalla luce della luna, ascoltava i suoni della notte, aveva fame e doveva soddisfare quell’istinto primordiale che le pulsava nel cervello, nel cuore ed in ogni fibra muscolare del suo corpo. Iniziò a muoversi silenziosa nella boscaglia fitta, percependo ogni minimo rumore, ma lei sapeva dove cacciare e non era nel bosco. Aveva fame di carne umana.

    Lasciò la fitta boscaglia che circondava la città e si diresse verso la periferia a est, costeggiando la strada. Si muoveva con fare quasi umano, era su due zampe e camminava nella neve lasciandosi dietro vistose impronte di lupo. Voleva del cibo, voleva uccidere, solo così avrebbe placato anche questa volta l’istinto animale che la dominava.

    Jean e Ricky stavano tornando a casa dopo cinema e cena fuori. Fidanzati da tre anni erano stati a vedere un film horror sui vampiri e dopo il cinema si erano fermati a mangiare hot dog e patatine in un burger king sulla Shoreline Drive. Con la loro auto dovevano percorrere solo pochi chilometri della Novantanove Avenue per arrivare a casa ma dovevano lasciare il centro abitato per raggiungere la zona residenziale dove risiedevano entrambi. Si camminava piano con tutta quella neve per strada, e c’erano poche macchine in giro, ma a Ricky andava bene così. In fondo voleva trascorrere ancora un po’ di tempo con la fidanzata, non era ancora giunto il momento di accompagnarla a casa. Magari avrebbero potuto appartarsi un po’ e scambiarsi qualche carezza. Più ci pensava e più aveva voglia di toccare e baciare la sua ragazza.

    Forse faremo l’amore si diceva rinvigorito da quel pensiero.

    Era stata una serata piacevole anche se al cinema, con il favore del buio, Ricky aveva più volte tentato di far scivolare le sue mani tra le gambe di Jean. Non era un granché con i pantaloni invernali, ma insomma…

    «Dai amore, lo sai che il buio mi eccita da morire» aveva provato a spiegare Ricky, quando Jean aveva risposto seccamente scostandogliele.

    «E lo sai bene che a me non va in pubblico caro.»

    Avendo accavallato le gambe, Jean non aveva lasciato molto spazio di manovra a Ricky, a meno che non avesse dovuto sforzarsi molto per aprirgliele e fare troppi movimenti, lasciando così agli altri spettatori la possibilità di rimproverarlo e riportarlo al silenzio.

    Troppo faticoso pensò.

    Così a distanza di pochi minuti, prese ad abbracciarla per tentare di arrivare dal suo lato sinistro al seno, facendo scivolare la mano lungo il collo prima e sul petto poi.

    Quel tocco era comunque piaciuto a Jean anche se non lo dava a dimostrare.

    «Finiscila!» ringhiò, e si spostò il più lontano possibile da lui, allungandosi verso l’altro lato della poltroncina.

    «Dai Jean, voglio solo starti vicino» aveva risposto lui con il muso imbronciato.

    «Puoi starmi vicino comunque, senza diventare un maniaco» tuonò lei per chiudere la discussione una volta per tutte. «E poi voglio vedere il film. Siamo venuti per questo, no?»

    «Ok, ok», rispose lui, «ma mi dici quando potremo stare un po’ insieme noi? Sono due settimane che ora per un motivo, ora per un altro, non ci facciamo un po’ di coccole.»

    Lei sbuffò e voltandosi verso il grande schermo, disse:

    «Poi vedremo, se ti comporterai bene, sarai ricompensato. Ora godiamoci il film.»

    Ricky, se pur a malincuore, si ricompose per poi continuare a guardare con lei il prosieguo del film.

    Jean ricordava bene l’ultima volta che erano stati insieme a casa dei suoi, partiti per il fine settimana. Erano sul divano a guardare la TV quando Ricky iniziò a baciarle il collo fino al lobo dell’orecchio. Un brivido aveva scosso Jean che girandosi aveva iniziato a baciarlo sulla bocca, sicura che non essendoci nessuno in casa, si sarebbe potuta rilassare completamente.

    Lui, a quel punto, aveva iniziato a massaggiarle i seni aprendole la camicia un bottone alla volta, e facendo crescere in lei il desiderio. Sbottonata la camicia con la mano, le aveva stretto leggermente i seni inturgidendole i capezzoli, floride coppe, provocandole un brivido lungo la schiena che si irradiava fino all’inguine.

    «Ti desidero» aveva sussurrato Ricky, poi distendendosi sul divano lei lo aveva accolto tra le sue gambe e aveva cercato sotto i pantaloni ancora abbottonati il membro di lui già eretto. Nell’impeto della passione crescente, si erano tolti il resto dei vestiti e Jean, sfrontatamente rispetto al suo carattere timido, si era sentita libera di mettersi a cavalcioni su di lui e di inghiottirne fin nel suo ventre il membro, facendolo impazzire. Così aveva ritmato il loro piacere fino a quando sazi, si erano riversati sul divano esausti.

    «Ti amo» disse lui.

    «Ti amo» rispose lei sospirando, e dopo essersi rivestiti avevano continuato a vedere un film di Bruce Lee.

    Si era sentita libera quella sera, sfrontata e sfacciata, e non negava a se stessa che avrebbe potuto concedersi di nuovo prima di rientrare anche se nulla sarebbe stato paragonabile alla comodità di casa sua anzi, l’auto non le era mai piaciuta troppo per scambiarsi effusioni.

    Troppo scomoda aveva pensato. Bisogna essere contorsionisti per riuscire a trovarcisi bene, ripeteva sempre sorridendo.

    In auto però, al ritorno, nonostante il riscaldamento acceso, Jean avvertiva brividi di freddo.

    «Non è possibile aumentare la temperatura qui dentro? Sto morendo di freddo!»

    Ricky per tutta risposta le rimise la mano libera tra le gambe ed incominciò ad accarezzarla dalle ginocchia in su.

    «So io come riscaldarti tesoro.»

    Ma a lei, al solo pensiero di doversi spogliare in auto, era passata la voglia, già minima, di stare insieme quella sera.

    «Te lo scordi Ricky Patterson, non qui, non ora e non con questo gelo.»

    «Ma avevi detto che lungo la via del ritorno ci saremmo potuti appartare un po’!»

    «Non pensarci neanche, tesoro. Ho sonno e freddo e voglio andare a casa.»

    Ma Ricky non demorse. Smise di accarezzarle la gamba e prese a massaggiarle i seni.

    «No, ho detto!» sentenziò Jean e spostandosi verso il finestrino, fece scivolare anche Ricky che pur non perdendo la presa sul seno, lasciò andare il volante e la macchina iniziò a sbandare.

    «Attentooo! » urlò lei e spinse Ricky in posizione corretta.

    Lui riprese lo sterzo, ma la macchina aveva iniziato a sbandare a causa della neve e del ghiaccio sulla strada. Cominciò a girare su se stessa come fosse una giostra volante, da una carreggiata ad un’altra, nonostante lui tentasse in tutti i modi di riprenderne il controllo.

    Jean si teneva forte alla maniglia del lato passeggeri con gli occhi sgranati e senza dire una parola, mentre Ricky tentava di tenere l’auto dritta ma senza riuscirci. Entrambi rimasero ammutoliti e non ebbero neanche il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, quando si ritrovarono a sbattere addosso ad un cumulo di neve sul ciglio destro della strada.

    «Oh Dio! Oh Dio! Oh Dio!» riuscì a dire Jean quando finalmente, dopo l’urto, la macchina si fermò.

    «Ti sei fatta male Jean?» chiese Ricky premuroso e preoccupato. «Tutto a posto?»

    Jean lo fulminò con lo sguardo e quando riuscì ad aprire bocca imprecò con tutto il fiato che aveva in corpo.

    «Vaffanculo, Ricky, vaffanculo! Ti rendi conto che avremmo potuto morire?»

    Per fortuna, non andando molto veloce, non si erano fatti nulla di grave, e la neve al bordo della strada, aveva attutito il colpo.

    «Non esagerare Jean, non eravamo su una pista a trecento chilometri orari. È stato divertente» osò ribadire Ricky.

    «Tu e le tue mani!» lo incalzò Jean urlando. «Se le avessi tenute a posto ora non saremmo in questa situazione, porca miseria! Accidenti a te Ricky, accidenti a te! Fa un freddo cane e noi siamo bloccati sulla strada, con la macchina su un muro di neve! Adesso fai qualcosa, o quant’e vero Iddio non ti rivolgerò mai più la parola finché campo!» tuonò Jean e gli diede le spalle voltandosi dal lato del finestrino.

    «Ok Jean, agli ordini, Jean!» le rispose Ricky e non continuò per non peggiorare la situazione.

    Uscì dall’auto, si avvicinò al cofano e armeggiò per aprirlo, con non poche difficoltà visto che era gelato.

    La notte stava diventando, se possibile, ancora più fredda ed iniziò nuovamente a nevicare.

    «Ci voleva solo altra neve, porca troia!» imprecò Ricky, mentre Jean in auto teneva il muso e guardava dal finestrino il bosco che costeggiava la strada.

    Per fortuna i fari dell’auto erano rimasti accesi, e comunque i lampioni che costeggiavano la strada mandavano un fascio di luce ovattata a causa della neve che scendeva soffice su di loro.

    Ricky non capiva molto di meccanica, perciò restò impalato davanti all’auto, tremando per il freddo, a guardare il motore e cercando di capire da dove provenisse tutto quel fumo che in realtà fuoriusciva dal radiatore. Iniziò a toccare alcuni pezzi del motore come i santoni indiani toccano le parti del corpo dei loro pazienti da curare.

    Jean all’interno dell’auto accese una sigaretta per alleviare il nervosismo e i brividi di freddo che l’assenza del riscaldamento provocava lungo tutto il corpo.

    «Accidenti a lui!» ripeteva. «Accidenti a lui e alle sue manie sessuali! Ci vuole molto?» chiese poi abbassando di poco il finestrino e Ricky rispose che sembrava tutto a posto e che doveva provare a riaccendere il motore.

    Jean allora spazientita, si spostò sul lato guida e girò la chiave ma senza successo. Un sordo ronzio sentenziò la cattiva riuscita dell’operazione.

    «Accidenti, non va!» gridò lei dall’interno.

    «Riprova» disse Ricky. «Riprova, deve accendersi questa dannata macchina, deve!»

    Intanto l’animale, che in precedenza era stato sorpreso dal rumore dell’auto che sbandava e dallo stridio degli pneumatici sollecitati dai freni sulla neve, si era acquattato silenzioso tra i cespugli innevati che costeggiavano la carreggiata ed aveva assistito immobile all’incidente. Aveva trovato le sue vittime ed ora con un rantolo animalesco, stava per attaccare, sicuro che le sue prede non sarebbero potute scappare, non da quella distanza così ravvicinata. Dal suo muso uscivano nuvole di vapore ad ogni respiro ed un sordo ringhio preannunciava lo slancio verso la preda. Il suo corpo vibrava teso come corde di violino, e come un dardo che sta per essere scoccato da una faretra, si preparava al balzo finale. Non gli sarebbero sfuggiti.

    Tutto intorno era silenzio, solo il rumore del vento tra gli alberi e sui rami sembrava dare l’allarme ai due malcapitati e smuoveva cumuli di neve sollevandoli in aria e sferzandoli da una parte all’altra come una tempesta impazzita.

    Ricky non aveva udito nessun rumore strano nei dintorni, perché distratto dal rumore del vento che ululava minaccioso e in quanto preso dai suoi pensieri sull’incidente. Continuava ad armeggiare vicino al motore dell’auto e di tanto in tanto chiedeva a Jean di riprovare ad accenderlo nella speranza che desse segni di vita. Lei dall’interno continuava a provare e la sua voce sembrava perdersi nella bufera che sferzava ormai fuori in quella strana notte di Gennaio; la neve continuava a scendere copiosa e nessuna macchina era ancora passata di lì da quando si erano fermati, forse per colpa dell’orario, decisamente tardo, forse perché quella strada che collegava il centro della città con la zona residenziale, era poco trafficata e a quell’ora sarebbe stato difficile trovare ancora qualcuno in giro.

    Il mostro a quel punto uscì allo scoperto e trovandosi di fronte all’auto, ad una decina di metri di distanza da Ricky, venne rischiarato completamente dai fari.

    Apparve qualcosa di inquietante, un animale alto due metri, con zanne aguzze ed artigli affilati. La deformità del suo corpo era agghiacciante. Le sembianze di un enorme lupo, le movenze di quel po’ di umano che gli era rimasto, avrebbero fatto paura e terrorizzato chiunque, soprattutto per la consapevolezza che una volta di fronte a quella creatura, non ci sarebbe stata più speranza di fuggire. La vita di qualsiasi essere vivente, sarebbe stata recisa in un istante.

    Gli occhi gialli si infuocarono, il muso si alzò scoprendo le gengive in un ringhio che gelava il sangue. Il corpo, robusto ed agile nella neve, si trovò in un istante a poca distanza da Ricky, che avvertì solo quando era troppo tardi il rumore dei passi della belva dietro di lui.

    Fece appena in tempo a voltarsi e trovandosi di fronte l’animale, non riuscì, e non ne ebbe il tempo, a dire nulla. Nel suo sguardo, si dipinse tutto il terrore e la paura che lo avevano sopraffatto dinnanzi a tanta malvagità animale.

    Ricky non credeva ai suoi occhi, non avrebbe mai potuto immaginare che potessero esistere creature simili, racchiuse fino a quell’istante, solo in credenze popolari e leggende antiche per spaventare i bambini.

    Era vero invece, e gli stava capitando in quella notte gelida e spettrale. La sua vita e quella di Jean stavano per finire, così, semplicemente, tragicamente tra le fauci della bestia. Jean non poteva vedere cosa stava succedendo, perché aveva dinnanzi il cofano del motore dell’auto alzato che le impediva la visuale e nel frattempo sempre imbronciata e sbuffando, aveva chiuso il finestrino per cercare un po’ di riparo dal freddo e acceso la radio per alleviare la tensione.

    Sul viso mostruoso della belva si delineò un ghigno quasi demoniaco e le fauci aperte a mostrare i denti si fecero a pochi centimetri dal volto di Ricky inondandolo del suo fetido alito. Rimasto immobile e senza voce, egli stava assistendo inerme alla sua fine. L’ultimo ricordo che il ragazzo ebbe da vivo, furono l’orrenda creatura con le fauci aperte su di lui, i suoi occhi gialli che, come fari nella notte, si illuminavano e sprigionavano cattiveria primordiale e selvaggia, lo sguardo che gelava il sangue nelle vene, i denti affilati e il ghigno che nulla aveva di umano… solo quello, poi le zanne e gli artigli fecero il resto e tutto finì. Come un interruttore spegne la luce, come lo scatto di una presa toglie corrente d’improvviso al monitor di un computer e alle sue funzioni, così si spense la vita di Ricky Patterson.

    Un ringhio sordo e selvaggio sembrava penetrargli nel cervello, con le braccia cercò di coprirsi il volto ma invano, l’animale lo afferrò per il collo e in un attimo gli recise la giugulare squarciandolo da una parte all’altra. Con gli artigli gli aprì letteralmente il petto in un solo colpo provocando dei tagli fin giù allo stomaco. A quel punto alla vista di tutto quel sangue che sgorgava copioso dal corpo di Ricky, l’animale, famelico e voglioso di saziare il suo appetito, alzò il muso alla luna e ululò con tutta la potenza delle sue corde vocali. Il suo latrato riecheggiò nella notte al di sopra del vento e della bufera, come a suggellare il suo potere assoluto e totale sulla preda ormai inerme.

    Un istante dopo era sulla vittima a sbranare e divorare con voracità il corpo senza vita. I suoi denti affondarono la carne come una lama affilata taglia un foglio di carta. Strappava a morsi pezzi di Ricky, divorandolo avidamente. Gli spezzò il collo recidendogli la testa dal corpo e facendola rotolare a poca distanza dall’auto. Schizzi di sangue macchiarono un faro e dipinsero a terra nella neve dei disegni inquietanti. La belva strappò un braccio dal corpo e continuò a divorare le carni mentre si era acquattato a terra davanti all’auto per poter terminare più comodamente il suo pasto. Tutto intorno era sangue e, nonostante la temperatura gelida, il liquido caldo penetrava nella neve sciogliendola e lasciando sul terreno delle forme irregolari.

    Jean in quell’istante, spazientita dal tempo trascorso in auto, decise di uscire per controllare la situazione e chiedere a Ricky quanto tempo ancora ci volesse per poter ripartire e tornare finalmente a casa. Era decisa a mandare a quel paese il suo ragazzo per la stronzata dei palpeggiamenti, stava costando caro ad entrambi e lei non glielo avrebbe mai perdonato. Non sapeva ancora quanto sarebbe costato caro essersi fermati. La musica rock sparata ad alto volume l’aveva protetta dalle urla e dai lamenti del fidanzato morente.

    «Insomma, Ricky sto morendo di freddo, dobbiamo stare qui tutta la notte?»

    La visione che le si parò davanti, una volta fuori, fu sconcertante.

    Il rumore dello sportello intanto distrasse la belva che drizzò le orecchie, come drizzano le orecchie i cani quando avvertono un rumore sospetto in casa. Non aveva ancora finito, mentre la musica si confondeva con il rumore del vento.

    Jean urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

    Osservò sbigottita quella pozza di sangue e i resti di Ricky sulla neve, non le sembrava vero, non poteva essere vero. Il corpo di Ricky era diventato un puzzle da assemblare con mille pezzi sparsi qua e là sulla neve macchiata di rosso. Poi cercò di concentrarsi sull’animale che stava divorando il fidanzato. Sembrava un grosso lupo, ma aveva qualcosa di strano, di umano, ma anche di orrendo.

    Jean non riusciva a capire cosa fosse successo e cosa fosse quell’animale. Non riusciva a mettere a fuoco le immagini che aveva davanti. Notò solo quegli occhi che distoltisi dal corpo di Ricky, le ringhiarono contro mentre la belva lasciava i resti straziati e si alzava in tutta la sua grandezza per prepararsi ad un altro attacco.

    Una volta in piedi, ululò ancora penetrando con quel suono sinistro nelle orecchie di Jean fino al cervello che sembrò paralizzarsi dinnanzi a quell’essere così mostruoso, così malvagio. Un ultimo barlume di lucidità in Jean, come se il suo cervello le dicesse un’ultima volta prima di impazzire: Scappa, corri più lontano che puoi! la fece voltare di scatto e iniziare a fuggire lontano.

    Non sapeva dove, non sapeva come, sapeva solo che doveva fuggire da quell’essere per poter sopravvivere. Non fu così, le gambe pesanti nella neve le impedirono movimenti rapidi e le fecero percorrere solo pochi passi. L’animale con un balzo era già su di lei. L’urlo le rimase strozzato in gola quando si sentì afferrare per una gamba e trascinare a terra. Nel cadere perse i sensi, sbattendo la faccia contro il duro e spesso asfalto ricoperto di ghiaccio… i sensi troppo traumatizzati e scossi per rimanere vigili e sopportare quell’orrore.

    L’unico ed ultimo ricordo che la sua mente lucida registrò, fu il ringhio dietro di lei, quelle zampe che le bloccarono la gamba, graffiandola sul polpaccio, la luna alta nel cielo che si stagliava impassibile sulla distesa di neve e che sembrava deriderla ed osservarla fredda e glaciale, ed una notte intera che guardava ammutolita, senza la possibilità di intervenire per salvarla.

    L’animale aveva vinto di nuovo, trascinò Jean svenuta oltre il bordo della strada, tra i cespugli innevati del bosco ed iniziò a divorarla. Con le zampe le strappo di netto le gambe affondando i grossi artigli nelle cosce e nell’impeto della furia animale, una volta completamente sul suo corpo, le addentò il collo con le zanne ancora grondanti sangue del corpo di Ricky. Le unghie penetrarono nella carne all’altezza dello stomaco, brandelli di vestiti volavano via nella neve scoprendo involontariamente prima un seno poi l’altro.

    Era rimasta nuda e pronta per essere finita. L’animale divorava la preda velocemente, avidamente. Succhiava il sangue ancora caldo e strappava filamenti di carne. Tendini e legamenti si sfilacciavano e venivano dilaniati, le ossa si sgretolavano sotto la potenza delle sue mascelle e dei canini affilati e robusti. La carne evidentemente più tenera veniva inghiottita a grossi pezzi e di Jean non restò che il ricordo, sparso in una pozza di sangue.

    Il mattino era ormai prossimo anche se non era ancora spuntato il sole e la luna troneggiava ancora nel cielo. L’animale era ormai sazio, aveva placato la sua fame. Abbandonò i resti delle prede e si ritirò nel fitto del bosco dove, una volta giorno, sarebbe mutato ancora, ritornando ad essere donna.

    La luce dell’alba scacciò la notte e con sé quella creatura che ancora una volta aveva seminato terrore e morte. La luna scomparve lasciando il posto ad un pallido sole. La natura sembrò destarsi da quell’incubo ed i suoni della foresta riecheggiarono nella vallata, e sulla città che iniziava a destarsi. Nessuno ancora poteva soltanto immaginare cosa avrebbero trovato gli abitanti di South Creek da lì a breve, lungo quella strada, teatro di violenza e morte.

    Nel fitto del bosco intanto, Sarah giaceva a terra svenuta ed infreddolita, nuda, ignara di quanto terrore era stata in grado di spargere soltanto poche ore prima. Come sempre succedeva, ad un tratto perdeva le forze e si accasciava a terra, come se la luna, al suo scomparire, portasse via con sé le energie del lupo e le forze della belva, lasciandola nuovamente sola ed inerme in quel corpo di donna.

    Tutto si era nuovamente compiuto.

    CAPITOLO PRIMO

    «Qui è Jenna Swadson che vi parla, dal Canale 88 News per il giornale del mattino.

    «Siamo tornati a South Creek, la cittadina diventata famosa per le efferate e, non ancora chiare, dinamiche omicide che hanno portato a sei vittime, negli ultimi quattro mesi. Altri due corpi straziati e letteralmente dilaniati, sono stati trovati stamane all’alba da un passante sulla Novantanove Avenue.

    «Il signor Jerry Rosisky, questo è il nome di colui che ha trovato per primo i resti dei corpi, è ora sotto shock per lo spettacolo che si è trovato di fronte. Ha fatto solo in tempo a chiamare la polizia e poi è svenuto alla vista di quello scempio. Ora è ricoverato in ospedale per ulteriori accertamenti sul suo stato di salute.

    «Le vittime che si aggiungono alla lista, rispondono ai nomi di Ricky Patterson e Jean Flowers, rispettivamente ventotto e ventisei anni. La loro auto è stata ritrovata sul ciglio della strada ed i loro corpi straziati, lì intorno. I due devono aver perso il controllo dell’autovettura, per finire poi fuori strada. Quanto sia successo nei momenti successivi, rimane un mistero. L’addetto stampa della polizia ci ha solo confermato che i corpi sembrano essere stati letteralmente sbranati, come in tutti gli altri casi.

    «I corpi sono stati ritrovati a poca distanza dall’auto ed è stato necessario rimettere insieme i pezzi per cercare di ricomporli. Mentre il ragazzo, o quel che ne è rimasto, è stato trovato davanti all’auto, la ragazza è stata rinvenuta qualche metro indietro. Ricostruendo la dinamica, o meglio, cercando di farlo, si presume che una volta fuori strada, lui avrebbe cercato di riparare la macchina portandosi logicamente sul davanti e lì deve essere stato aggredito dal folle che si presume fosse nascosto oltre il ciglio della strada tra i cumuli di neve. Da lì è saltato fuori per finire il giovane alle spalle. La ragazza invece avrebbe cercato di scappare per poi essere raggiunta dal lato posteriore.

    «Tutto intorno all’auto è una pozza di sangue ghiacciatosi durante la notte. Si colloca l’orario in cui sarebbero avvenuti i fatti tra le due e le cinque del mattino. La polizia ha circondato ovviamente la scena del crimine e mantiene il più stretto riserbo sulle valutazioni e sulle piste da seguire.

    «Pare che siano state individuate orme di un animale, probabilmente di un lupo intorno all’auto, ma questo risulta essere assai strano perché nessun lupo si è mai spinto così vicino al centro abitato e soprattutto nessun lupo ha mai aggredito e sbranato persone qui a South Creek.

    «Sembra piuttosto che il maniaco, o l’aggressore, ma a questo punto è chiaro che possiamo parlare di maniaco, usi delle tecniche per confondere le idee agli inquirenti, utilizzando infatti, finte orme di animale. Ma la domanda che ci poniamo tutti è soprattutto questa: può un uomo solo usare così tanta violenza e straziare in questo modo le sue vittime? E perché dopo averle uccise, ne dilanierebbe i corpi in quell’orribile modo? Potrebbe trattarsi di un caso di cannibalismo?

    «Gli abitanti di South Creek, ormai nel panico, chiedono alle forze dell’ordine maggior impegno e maggior numero di uomini per stanare l’assassino. Indiscrezioni ci avrebbero confermato che si sarebbero formati dei gruppi autonomi di vigilanti che da soli avrebbero organizzato dei turni di guardia e delle ronde per sorvegliare la città nei quartieri maggiormente sensibili, di periferia o più isolati e meno illuminati.

    «È stato indetto dal Sindaco della città il coprifuoco ed in nessun modo si deve uscire di casa da soli o dopo le ore diciotto. La situazione, alla luce di questi altri due omicidi, è diventata allarmante, qui a South Creek. La polizia brancola ancora nel buio e l’assassino continua, o meglio ha ripreso, a mietere vittime.

    «Dal luogo dei ritrovamenti nella cittadina di South Creek, la vostra Jenna Swadson di Canale 88 News. Per ulteriori aggiornamenti, appuntamento con il giornale delle undici. Buon proseguimento di giornata.»

    «Ok, Jenna, puoi staccare.»

    «Porca puttana Ben, hai filmato tutto? Hai visto cosa è stato capace di combinare quel pazzo maniaco?»

    «Certo, Jenna, certo. Porca troia, i pezzi dei corpi di quei poveracci erano sparsi in un perimetro di venti metri. Deve essere un dannato maniaco questo qui, un fottuto maniaco che si diverte a sbudellare le sue vittime. Non vorrei mai trovarmi di fronte ad un pazzo del genere.»

    «A chi lo dici Ben. Ok, ora leviamoci da qui. Fa un freddo cane e tutta questa neve mi ha gelato le gambe. Torniamo al tepore del nostro furgone e andiamo a prenderci una cioccolata calda, ne ho davvero bisogno dopo quello che ho visto.»

    «D’accordo, sei tu il capo. Ora ti porto a bere la migliore cioccolata calda della città.»

    Di primo mattino, Dave Wedder aveva sempre una brutta cera. Colpa delle notti insonni e brave che molto spesso trascorreva con ragazze e soprattutto con alcool e un po’ di cocaina ogni tanto, per tirarsi su quando la situazione ed il tasso alcolico avevano la meglio su di lui. Ma a lui andava bene così, gli piaceva ubriacarsi e tirare in compagnia di fanciulle pronte a tutto per qualche pippotto di polvere bianca.

    Era abituato ad addormentarsi da solo alle prime luci dell’alba, solo o in compagnia e, a distanza di poco, alzarsi per andare al lavoro e, nonostante questa sua vita sregolata, era riuscito a studiare e a laurearsi in giornalismo alla Dowson University.

    Aveva cominciato a lavorare per lo Street Journal, giornale nazionale, come freelance poi, entrato nelle grazie del capo, aveva avuto una proposta che non poteva rifiutare. Erano passati dieci anni ed era ancora lì, a scrivere di omicidi efferati e di casi irrisolti. A trentotto anni aveva comunque raggiunto una certa posizione ed una stabilità che gli permettevano di spendere denaro per donne e alcool.

    «Non voglio farmi mancare nulla», diceva, «la vita è troppo breve per sprecarla senza emozioni.»

    Non si era mai sposato, nonostante le numerose storie che avevano caratterizzato la sua vita, perché non si sentiva pronto per un rapporto stabile.

    «Meglio gli omicidi», replicava ai colleghi quando si parlava dell’argomento, «almeno alle vittime e ai corpi senza vita, non devi mai delle risposte.»

    Forse Dave amava più i morti che i vivi.

    Gli piaceva la cronaca nera.

    «Scrivere articoli su omicidi di ogni genere», diceva, «ti fa conoscere meglio le persone ed il loro lato più oscuro.»

    Era questo che affascinava Dave, il lato oscuro degli uomini, la loro malvagità e la loro capacità di autodistruggersi. Riteneva ovviamente orrendo il fatto che un uomo potesse uccidere un suo simile, e questa era per lui la strada verso l’autodistruzione della specie umana.

    La mattina dopo l’ennesima strage di South Creek, arrivò al lavoro, come al solito in ritardo e, non appena fu nel suo ufficio, venne chiamato dal direttore, il suo capo, per delle comunicazioni urgenti.

    «Wedder, domani vai a South Creek. Hai sentito il notiziario stamattina?»

    Dave pensò che la prima mattina gli era servita per riprendersi da una fantastica notte passata con Perla, studentessa venticinquenne ansiosa di conoscere un vero giornalista, non certo per sentire uno stupido notiziario, e si ritrovò a pensare a lei nel suo letto.

    «Pare che in quella fottuta cittadina tra i monti e piena di neve, stiano succedendo fatti assai curiosi, che sicuramente solleticheranno il tuo interesse e il nostro» proseguì il direttore.

    Dave, che nel frattempo si era distratto tornando con la mente alle curve di Perla e a come era stato bello fare sesso con lei, chiese nuovamente:

    «Come scusi? Mi ero distratto.»

    Il direttore sbatté il pugno sulla scrivania di rovere del suo ufficio, facendo sobbalzare le matite che vi si trovavano sopra.

    «Ma mi ascolti quando parlo, Wedder?» tuonò. «A cosa cazzo pensi quando sei al lavoro? Dicevo, domani vai a South Creek, a seguire gli strani omicidi che si stanno verificando in quella cazzo di città e a scrivere qualche pezzo. Sembra che le morti siano riprese. Sono quattro mesi che da quelle parti sta succedendo di tutto e noi non possiamo farci scappare servizi di tale interesse, ok? Stanno mandando notizie su tutto il territorio nazionale. Sembra che ci sia stato un altro massacro. Non voglio perdere altro tempo in spiegazioni inutili. Domani andrai là, non devo certo dirti io quello che devi fare. Ora sparisci!»

    Dave rimase fermo sulla porta dell’ufficio del direttore senza ribattere di una virgola.

    Il lavoro è lavoro, pensava, ma perché dovesse mandare sempre lui nei posti più sperduti dello Stato, questo lo ignorava.

    «Ma direttore…» provò a replicare una volta che si fu ridestato da quei pensieri.

    «Wedder, sei ancora qui? Ti ho detto di sbrigarti, va’ a preparare le tue cose e scrivimi dei pezzi decenti, sono stato chiaro? Giù in segreteria troverai i biglietti per il treno già prenotato, prima classe, sei contento?»

    Quelle urla gli fecero di nuovo risuonare in testa i tamburi che solo un paio d’ore prima avevano cessato di percuoterlo.

    «Va bene direttore, va bene.»

    Era sempre molto brusco e diretto il capo, specialmente di primo mattino, forse per tutto il lavoro che come ogni giorno, sapeva attenderlo lì, nel suo ufficio dalle pareti color mogano e dai mobili in legno. Lo stesso ufficio da anni, l’ufficio che l’aveva accolto appena diventato direttore, l’ufficio che lo vedeva da molto tempo combattere con le politiche non sempre corrette del giornalismo, correggere articoli, cancellare recensioni scomode, sempre lì chiuso come in gabbia.

    Dave chiuse la porta dell’ufficio e si trattenne fuori a pensare che non era giusto, non era giusto che dovesse lasciare la città per andare a ficcare il naso in una sperduta cittadina di montagna, al freddo e al gelo per scrivere di omicidi, perché per lui non erano altro che omicidi. Neanche lontanamente avrebbe immaginato che dietro quei ritrovamenti invece c’era molto di più, certo non la furia assassina di una belva sanguinaria che mieteva le sue vittime durante le notti di luna piena.

    Si ritrovò a pensare, tra i corridoi del giornale lastricati di bianco e con le luci al neon accese anche di giorno, che avrebbe dovuto rimandare il suo secondo appuntamento con Perla la sera successiva, e chissà quando l’avrebbe potuta rivedere. Anche se in realtà non gli importava molto. Quello che voleva, l’aveva avuto, e lei lo avrebbe sicuramente cercato ed aspettato.

    Mentre tornava nel suo ufficio al piano inferiore, incrociando alcuni colleghi che gli rivolsero il saluto, ma senza avere risposta, si ritrovò a dover combattere con il suo solito mal di testa del giorno dopo. Aveva fitte che ad intermittenza gli bombardavano il cervello come delle scariche elettriche, lo destavano da un sonno innaturale, e a cadenze quasi ritmate, lo percuotevano come un sordo tamburo. Ogni passo che muoveva, gli rimbombava in testa come un martello pneumatico. Dimenticò Perla, dimenticò tutto, arrivò nel suo ufficio, si chiuse la porta alle spalle e sprofondò nella sua sedia. Ingurgitò due aspirine che teneva sempre a portata di cassetto, chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi.

    Il pensiero di dover nuovamente partire gli provocava delle fitte allo stomaco, forse anche dettate dalla nausea che ogni volta gli saliva lungo l’esofago fino alla gola.

    Mi serve altro caffè pensò. Devo riprendermi o non riuscirò a combinare niente.

    Si alzò di scatto e la velocità del movimento lo indusse quasi a sbattere contro la scrivania, alla quale si aggrappò con forza per non cadere. Si trascinò fuori dov’era la macchinetta che serviva bevande.

    Devo aver davvero esagerato ieri sera pensò. Oggi sarei dovuto restare a casa, in questo modo quello stronzo del direttore non avrebbe avuto la felice idea di sbattermi a South Creek. Avrebbe sicuramente mandato qualcun altro e io sarei rimasto a casa a rilassarmi e a riprendermi. Senza contare che avrei potuto dormire tutto il giorno. Questo avrei dovuto fare, dannazione!

    Arrivò davanti alla macchinetta del caffè, inserì la scheda magnetica e compose il codice per l’ordine di un caffè lungo e senza zucchero. Mentre sorseggiava la bevanda calda, un sollievo immediato lo invase, non era certo il sapore del caffè, in genere scadente, ma psicologicamente lo aiutava il fatto che assumendo caffeina, il dolore alla testa sarebbe dovuto passare, prima o poi.

    Ma io posso tornare a casa ora riflettè tra sé e sé. Lo ha detto anche il direttore, in fondo devo prepararmi per il viaggio.

    Si sentì subito meglio perché aveva realizzato che poteva tornare a casa. Ed era quello che voleva: dimenticare tutto, dimenticare South Creek e sprofondare in un sonno profondo fino a sera. L’indomani sarebbe stato meglio. Così fece, corse in ufficio a raccogliere le sue cose, percorse il corridoio fino all’ascensore, lo prese e una volta giunto nell’atrio a piano terra, sfrecciò come un fulmine verso l’uscita, senza salutare nessuno.

    Nel parcheggio trovò la sua auto, sistemata nelle vicinanze dell’ingresso e a gran velocità si diresse verso casa. Non era molto lontana, per cui non ci avrebbe messo più di mezz’ora, traffico permettendo.

    Una volta a casa, farò esattamente quello che mi ha detto il direttore. Mi preparerò per la partenza di domani, già.

    Sorrise pensando al suo comodo e morbido letto in cui infilarsi una volta giunto a destinazione. Tutto quello che sarebbe successo poi, lo avrebbe deciso e pianificato con calma.

    Vaffanculo il direttore, South Creek, il giornale, e vaffanculo tutti!

    La casa di Dave non era esageratamente grande, ma era comoda e funzionale, arredata con gusto. Al quinto piano di un palazzo moderno di oltre dieci piani sulla Quinta Avenue, aveva due camere da letto, una più grande ed una leggermente più piccola, una cucina spaziosa e moderna, un salottino accogliente in stile etnico, due bagni, ripostiglio ed ingressino open space. Il giusto spazio per le sue serate in compagnia, sempre pronto ad accogliere gli amici e le amiche.

    Il tempo era uggioso quella mattina, freddo e umido. Ogni tanto il cielo di New Town, velato di un pallido grigio, mandava giù una spruzzatina d’acqua dissipando la nebbia che avvolgeva per quasi tutto l’inverno la città, rendendola assonnata e affaticata, stanca di tutto quel vapore che ovattava tutto e tutti.

    Non appena giunse a casa, Dave inserì la chiave nella toppa, entrò e gettò immediatamente valigetta, sciarpa e cappotto sul divano, lasciando le chiavi sul mobiletto sempre in stile etnico, all’ingresso. Con la pressione del piede accese l’interruttore delle piantane che aveva disposto su due angoli della casa e subito una luce calda e soffusa si irradiò nell’appartamento concedendo agli occhi un’accoglienza vellutata.

    Dave si diresse verso il frigo per un sorso d’acqua fresca ed immediatamente si precipitò nella camera da letto per tuffarsi ancora vestito sul soffice giaciglio che lo avrebbe accolto fino a sera. Avvertì quasi un abbraccio al contatto con la coperta morbida, sospirò delicatamente e si lasciò cullare dal suo stesso respiro fino a perdere i sensi tra le braccia di Morfeo.

    Sprofondò in un sonno pesante quasi subito, la stanchezza e la spossatezza erano tante ed il fatto che avesse ancora i postumi di una serata esagerata, lo fecero subito addormentare con ancora le scarpe a piedi. Neanche una intera boccetta di sonnifero sarebbe stata in grado di fare meglio.

    Ma il sonno non fu senza pensieri, o meglio incubi. Lo angosciava il fatto di dover partire, di dover prendere un dannato treno ed arrivare in una fogna di cittadina piena di neve e ghiaccio e immersa tra le montagne, per scrivere articoli su casi che probabilmente non sarebbero mai stati risolti.

    Sarah era ancora lì, nuda e inerme, il corpo macchiato di sangue ed il viso completamente coperto del liquido rosso che solo poche ore prima fluiva caldo nelle vene di Ricky e Jean.

    Si ridestò al freddo, tra gli alberi, nella neve, alle prime luci del mattino, sgomenta e sconcertata, in un corpo che ancora non riconosceva, come se fosse stata rapita da forze aliene, e poi rilasciata in un mondo sconosciuto. Riprese i sensi, infreddolita per la rigida temperatura invernale, aprì gli occhi, ma alla vista di tutta quella luce che riverberava come il sole in uno specchio, li richiuse immediatamente. Doveva ancora abituarsi al giorno, il suo cervello non era ancora lucido e continuava a proiettare flash dei corpi straziati, immagini ad intermittenza di quello che lei era stata la notte prima, di quello che era stata in grado di fare.

    Si mosse per risvegliarsi dal torpore e dallo stordimento, aprì lentamente il palmo della mano sinistra e si accorse che era pieno di sangue raggrumito e gelato. Il freddo le impediva dei movimenti completi perché le aveva quasi immobilizzato gli arti. Ad ogni tentativo di muovere braccia e gambe, delle fitte di dolore la percuotevano dalla testa ai piedi rimbombandole nel cervello. Non sentiva più la maggior parte del corpo che aveva ancora bisogno di tempo per svegliarsi e la circolazione necessitava di più calore per fluire nuovamente veloce nelle vene.

    Cercò ancora di aprire gli occhi e di tenerli aperti mentre i pensieri si rincorrevano veloci nella mente. In un barlume di lucidità, ricordò della sera prima solo la luna, la grande palla color argento che la immobilizzava e la stregava, rendendola schiava della più atroce delle maledizioni.

    I flash della notte trascorsa si muovevano sempre più velocemente nella sua testa e, come in un vortice, venivano risucchiati dal suo cervello ingordo, avido di notizie e che cercava dati, ricordi, cercava di rimettere a posto i pezzi per tornare lucido. Ma quello che riusciva ad assemblare e a ricordare, era solo terrore e paura, paura per quello che ancora una volta Sarah era stata.

    Gli occhi nel frattempo, si erano abituati alla luce, dandole la possibilità di osservarsi. Sarah riuscì a muoversi finalmente e si mise a sedere, mentre la testa le girava ancora vorticosamente. Si guardò a fondo non riuscendo a credere che si trovasse lì, nuda e piena di sangue. Non riusciva a gridare, neanche un sibilo usciva dalle sue labbra. Avrebbe voluto ma non poteva. Il corpo le bruciava, come se si fosse scottato dopo un bagno di sole e lei continuava ad avere dolore ovunque, quasi fosse stata anestetizzata e si fosse svegliata bruscamente.

    Mentre la mente riordinava gli eventi, il cervello si rifiutava di credere a quelle informazioni. Terrore e morte erano i soli messaggi, la testa confusa e stordita da tutto quel caos, stava per scoppiare. Era sempre così, ogni volta, ed ogni volta aveva bisogno di accettare la situazione lentamente, rassegnata all’idea che il tempo non avrebbe cancellato quegli eventi, non li avrebbe messi nel dimenticatoio. Sarah doveva conviverci, doveva farlo per non impazzire.

    Si alzò di scatto, le vertigini le aumentarono e, perdendo l’equilibrio, riuscì a malapena ad aggrapparsi ad un albero situato nelle vicinanze per non cadere di nuovo. La corteccia ruvida del pino le graffiò i seni ed il mento, provocandole delle escoriazioni al di sopra dei capezzoli, sulla parte alta del seno. La pelle chiara si coprì subito di rosso ed un rigolo di sangue fuoriuscì dalle piccole ferite, erano graffi, ma sanguinarono subito. Restò in piedi comunque ed iniziò a correre dopo essersi allontanata con le braccia dall’albero ed affondando i primi passi incerti nella neve alta.

    Sarah correva senza neanche sapere dove, tra i cespugli innevati, cercando di evitare l’urto con altri alberi. Ancora frastornata, si muoveva a fatica nella neve che le impediva i passi. Non sapeva dove quella corsa l’avrebbe portata, ma avanzava nel bosco cercando di non far riaffiorare alla mente i ricordi di quella notte. Mentre la fatica le spezzava il fiato, nuvolette di vapore fuoriuscivano dalla sua bocca. Il freddo era intenso e Sarah iniziava ad avvertirlo in modo concreto, sulla pelle, sul corpo nudo.

    Il sole era ormai alto su South Creek e sul suo bosco, ma non avrebbe di certo alleviato o attutito il freddo di quella mattina.

    Mentre Sarah correva all’impazzata tra grovigli di rami ed alberi, graffiandosi braccia e gambe, dovette fermarsi all’improvviso. Spossata dalla fatica, ebbe come una visione, una reminescenza della realtà, della quotidianità, vestiti, casa, lavoro, vita normale. Riuscì finalmente ad urlare e lo fece con tutto il fiato che le rimaneva in corpo, come se quella scoperta la riportasse indietro bruscamente ad una realtà da cui era mancata per chissà quanto tempo. Riuscì a ricordare chi era veramente, la sua vita normale, il lavoro, la casa, gli amici.

    Tutto questo, i ricordi che continuavano a riaffiorare, le strapparono dagli occhi lacrime amare. Ora rammentava perfettamente quello che era successo. Aveva ripreso in mano la sua vita, sfuggente solo di notte, con la luna piena che le pulsava nelle vene e nel cervello. Si era ridestata da un incubo, aveva riacquistato lucidità e la consapevolezza di quanto era successo la sera prima.

    «Oh Dio! Oh Dio! È successo ancora. Nooooooooooo!» urlò di nuovo e con gli occhi pieni di lacrime che le segnavano il viso, si chiese se quella maledizione sarebbe mai finita, se lei sarebbe stata mai libera dalla più atroce delle schiavitù.

    «Succederà, un giorno o l’altro, succederà, non posso rimanere in questo stato per sempre. Ci deve essere una soluzione, un modo per uscire da questo incubo. Quei poveri ragazzi, li ho uccisi, li ho divorati… li ho sbranati! Che colpa avevano, cosa avevano fatto di male?»

    Il senso di colpa la divorava sempre il giorno dopo, una volta che si era resa conto dell’accaduto. Imprecò e si rivolse a chiunque dall’alto la potesse aiutare ad estirpare quel male, ma non c’era mai nessuno a confortarla.

    Il rimorso era un pugno nello stomaco, un dolore fitto e sordo che la divorava, martellante come i tamburi di una guerra. Nulla l’avrebbe salvata da quell’incubo. Solo la speranza, sempre remota e vana, che sarebbe stata l’ultima volta, l’aiutava a riprendere la vita di sempre, la speranza che la crisi della notte precedente potesse essere stata l’ultima… che qualcosa o qualcuno potesse aiutarla a superare quell’orrore.

    Ma poi si rendeva conto che nulla sarebbe mai cambiato. Prendeva coscienza che lei era ciò che era e che non avrebbe mai potuto farci nulla. In questo modo cercava di dare una giustificazione a se stessa, tentava di sopravvivere pensando al naturale svolgersi degli eventi: come in natura gli animali cacciano per sopravvivere, così lei cercava di dar pace alla sua anima e di superare il cancro che era il rimorso, che la divorava ogni volta. Ma il morso della luna era anche senso di libertà, di primordiale ed ancestrale istinto e la rendeva serva di una bestialità selvaggia e antica come la sua maledizione, potente ed avvolgente. La rapiva rivelandole ogni volta la natura animale e poi odori diversi, profumi diversi, sensazioni completamente diverse da quelle umane. Era belva, era mostruosità pura, e nulla mai avrebbe placato la sua fame.

    Ora doveva tornare a casa. Rimanere lì fuori, nuda e piena di sangue non sarebbe stato prudente. Se l’avesse vista qualcuno sarebbero stati guai, oltre al fatto che ora avvertiva il freddo in tutta la sua rigidità. Non poteva restare nuda ancora a lungo in quel primo mattino gelido ed innevato.

    Trovò tra gli arbusti, semicoperto dalla neve, un vecchi sacco, di quelli che si usavano per il foraggio, buttato lì da chissà chi. Lo prese per poi strapparlo all’estremità, dalla parte chiusa. Lo indossò come si indossa normalmente un abito da sera. Era largo però, doveva assicurarselo alla vita per non farlo cadere. Staccò da un albero dei rami sottili, situati più in basso e se li cinse alla vita stringendoli alla meglio. Tutto sarebbe servito per non rimanere nuda ed al freddo di quel mattino.

    Il fatto di avere ora qualcosa addosso, le regalò un piacevole tepore, ancora poco per sottrarsi al vento gelido che soffiava sempre a South Creek, ma abbastanza rispetto a quando il suo corpo nudo tremava come una foglia ad ogni passo mosso nella neve.

    Cercò di orientarsi per riuscire a tornare a casa, infilarsi degli abiti caldi e puliti e farsi un’interminabile doccia calda, anche per lavar via quel senso di colpa che continuava a mordere così come un grosso cane fa con il suo osso. Le sembrava quasi di sentire il ringhio sordo dell’animale mentre addentava il suo trofeo.

    Aveva vagato senza meta la notte precedente ma non aveva percorso più di due, tre chilometri dalla sua abitazione. La belva era stata fortunata a scorgere i due ragazzi con l’auto in panne non molto distante da casa.

    Le lacerazioni e le escoriazioni provocate dai rami e dai cespugli nel bosco, le bruciavano ancora di più a contatto con il tessuto ruvido del sacco che le fungeva da vestito di fortuna. Ad ogni passo lo sfregamento le provocava dolore, ma doveva rientrare a casa, doveva farlo per tornare alla normalità, per diventare nuovamente padrona della sua vita. Era giorno e nella sua esistenza tutto era tornato apparentemente normale. Doveva dimenticare la sua seconda natura, chiuderla bene a chiave in un cassetto, almeno fino alla volta successiva che si sarebbe di nuovo mutata, per ridiventare una divoratrice di uomini. Sapeva che presto sarebbe successo ancora, ma non voleva pensarci. Da essere umano rifiutava l’idea di dover uccidere ancora. Questo perché la sua fame animale si era placata, perché di giorno, senza la luna, non avvertiva l’istinto primordiale di cacciare ed uccidere, ma presto quell’istinto avrebbe preso nuovamente il sopravvento, rapendola e trasformandola in un’assassina spietata e crudele.

    Trovò a fatica il percorso del ritorno, questo perché quando la luna inondava di luce il cielo e si stagliava pallida e spettrale nel cielo di South Creek, Sarah usciva di casa quasi in trance, e dimenticava sempre il momento in cui lo faceva, percependo solamente il richiamo selvaggio della bestia che voleva uscire. Il suo orologio biologico era madre luna che la chiamava a sé e le ordinava di cambiare, di diventare animale e di nutrirsi come solo gli animali sanno fare, cacciando e uccidendo.

    Finalmente scorse le prime case, avrebbe dovuto superare solo pochi isolati per raggiungere la sua abitazione situata alla periferia della città, una villetta accogliente con un giardino recintato sul retro ed uno aperto sul davanti. Erano tutte disposte in quel modo, a schiera, le villette di South Creek, almeno in quella zona della città, e costeggiavano su entrambi i lati la Pennyrose Street. Tutte uguali con giardino e garage laterale.

    Nel frattempo i cittadini di South Creek si erano svegliati in quella gelida mattina e, pigramente si erano diretti al lavoro. C’era abbastanza traffico sulla strada, il pulmino della scuola accompagnava i bambini, le casalinghe si muovevano operose e a fatica per le strade innevate alla ricerca di supermercati dove fare la solita spesa. Il servizio postale stava già consegnando a tutti la posta ed i negozi erano ormai aperti e pieni di gente.

    Sarah si acquattò dietro un’auto parcheggiata lungo la strada in attesa che il camion dei rifiuti fermo di fronte, svuotasse i bidoni colmi dalla sera precedente, e in attesa che arrivasse il momento buono per sgattaiolare indisturbata verso la sua abitazione. L’aveva ormai raggiunta senza farsi scoprire da nessuno ma solo con quel sacco addosso, non sarebbe potuta restare fuori ancora molto e non sarebbe passata inosservata. I piedi le si erano intorpiditi per il freddo e le facevano male i graffi sotto il tessuto ruvido del sacco. Si avvicinò furtiva aspettando che due signore incappucciate e coperte a dovere attraversassero la strada di fronte a casa sua. Non appena furono passate, attraversò anche lei stando attenta a che, in quel momento, non ci fosse nessuno. Corse più velocemente che poté, intravedendo in lontananza solo due autovetture, ancora troppo lontane per accorgersi di lei.

    Arrivò di fronte al garage e tentò di aprirlo ma senza successo perché chiuso dall’interno.

    Dannazione! pensò. È chiuso.

    Si ricordò in quel momento che la porta posteriore era stata lasciata chiusa ma senza mandata, per cui l’avrebbe potuta facilmente aprire, quindi, sempre attenta e con gli occhi bene aperti, si portò sul retro dell’abitazione fino ad infilarsi sotto il piccolo portico in legno che aveva fatto costruire qualche anno prima per proteggere l’ingresso secondario da neve, vento o acqua, a seconda delle stagioni.

    Una volta di fronte alla porta, aprì la zanzariera e afferrando il pomello della maniglia, iniziò a ruotarlo in senso orario per sbloccare la serratura. Le dolevano ancora le mani screpolate per il gelo, e usando forza sul freddo metallo della serratura, provò dolore, ma doveva farlo per riuscire nel suo intento. Mentre ci provava, non poté non notare la mano ancora insanguinata, nonostante, quando era ancora nel bosco, avesse provato a lavar via quel sudiciume con la neve. Un brivido le percorse la schiena, facendole riaffiorare i ricordi dell’incubo di poco prima. Il senso di gelo le fece inturgidire i capezzoli, mentre lo sfregamento con il tessuto ruvido del sacco la fecero sobbalzare, ricordandole cosa era successo la notte precedente e cosa fosse stata in grado di compiere.

    Si bloccò e calde lacrime le fuoriuscirono nuovamente dagli occhi, segnandole il viso ed inumidendole naso e labbra.

    Non è possibile! si disse. Non sono io a fare quelle cose, non sono io!

    Si ritrovò a piangere come una bambina a cui il padre ha negato una bambola ed in quel momento, desiderò ardentemente di morire, di scomparire dalla faccia della terra per non compiere più quelle atrocità.

    Voleva convincersene ma la consapevolezza di essere ciò che era, le strinse lo stomaco già dolorante, sembrava che venisse strizzato come uno straccio bagnato. Il dolore le produsse di nuovo un forte senso di nausea.

    Sapeva di non poter restare fuori ancora a lungo, quindi cercò di allontanare quei pensieri dalla mente. Riuscì ad aprire la porta ed entrò in casa. Si chiuse l’uscio alle spalle ed una volta dentro, sospirò a fondo.

    Era ancora frastornata. Cercava di recuperare, come sparse nella neve, briciole di normalità. I profumi a lei familiari le allentarono un po’ la tensione.

    Sono a casa e va tutto bene si disse. Ora subito sotto la doccia.

    La casa era in ordine. Almeno in apparenza, non vide nulla di rotto.

    Devo essermi comportata bene ieri sera prima di uscire pensò. Non ho fracassato niente.

    Quando la luna la rapiva, non riusciva mai a ricordare nulla della metamorfosi. Un momento era indaffarata nelle faccende domestiche, un momento dopo era persa nella neve, nuda e al freddo, il più delle volte ricoperta di sangue. Prima di ricordare gli orrori che era stata capace di compiere, passava sempre del tempo, e si ritrovava nuovamente a ripercorrere con le immagini che il cervello le regalava, quei momenti strazianti.

    Sentiva vivo il desiderio di preda, di carne umana. Si sentiva ogni volta diversa, più forte e decisa. Avvertiva la bestia pulsare nelle sue vene e a nulla sarebbero serviti i tentativi di resisterle. Poi il buio. Non ricordava i dolori strazianti che la prendevano, non ricordava le urla lancinanti che emetteva la sua gola fino a diventare latrati, non ricordava lo smembramento delle ossa che si allungavano fino a diventare ossa di animale.

    Si ritrovava a vedere il mondo con occhi diversi, con occhi cattivi di belva, potenti, selvaggi, pronti ad avvistare la preda perché lei potesse ucciderla con un solo morso. Non ricordava mai il lacerarsi dei vestiti ed il bruciore del corpo, mai l’urlo alla luna, che da animale selvatico produceva. Solo, dopo il passaggio si ritrovava diversa: occhi gialli che scrutavano la notte, odori e profumi che il suo naso riusciva a percepire e che nemmeno lontanamente l’olfatto umano avrebbe potuto sentire, orecchie appuntite e pronte ad ascoltare il più piccolo dei brusii, mani diverse, zampe che riconosceva nella notte e che erano pronte a scattare e ad uccidere.

    Attraversò la cucina da cui era entrata, infatti l’uscita secondaria, dal giardino conduceva direttamente lì, e proseguì superando una porta a vetri, trovandosi nell’ampio salone, di fronte all’ingresso principale. Sulla sinistra c’erano le scale che davano accesso ai piani superiori dove si trovavano le camere da letto e un bagno grande e poi, dopo altre due rampe, la mansarda. Aveva bisogno di riscaldarsi, di acqua calda che portasse via i suoi incubi. In casa ovviamente non si stava male, ma Sarah aveva preso troppo freddo e tremava ancora come una foglia.

    Iniziò a salire le scale e a togliersi di dosso quel sudicio sacco che fuori l’aveva protetta dal gelo, lo lasciò cadere a terra e non si curò di raccoglierlo, lo avrebbe fatto dopo. Si ritrovò nuovamente nuda di fronte alla porta del bagno, sul pianerottolo della zona notte. La aprì e vi entrò accolta dai profumi familiari di quella stanza, dai suoi profumi. Ora lei puzzava come una capra ed aveva addosso odore di carne andata a male, di sangue rappreso e di morte, ma l’avrebbe lavato via, a tutti i costi. Doveva dimenticare, aveva bisogno di distendere i nervi e di allontanare il più possibile da lei il ricordo di quell’ennesimo scempio.

    Aprì l’acqua calda ed un getto vaporoso fuoriuscì dalla doccia. Una volta riempita la vasca, vi si immerse e chiuse gli occhi trovando un deciso sollievo nel tepore di quel liquido avvolgente e rassicurante. I muscoli si rilassarono mentre si lasciava accarezzare dalle piccole onde dell’acqua provocate da ogni suo minimo movimento. Prima di insaponarsi decise che sarebbe rimasta lì immobile, a cullarsi avvolta dal vapore caldo che fuoriusciva dall’acqua, un morbido abbraccio che l’avrebbe protetta dagli incubi. Ma sapeva che quegli incubi non potevano svanire e dissolversi nel vapore acqueo della vasca, non potevano sparire lasciandola libera. Erano lì, inquietanti e terrificanti, le ricordavano, come frustate, che la realtà era quella e nulla l’avrebbe fatta mai cambiare.

    Restò così, per alcuni istanti, immobile, ma i rimorsi la assalirono ancora, come fredde pugnalate allo stomaco. Le ricordavano chi realmente fosse e cosa avesse fatto ancora una volta. Iniziò a rivivere gli istanti della caccia, rivide le prede ed il loro sangue in bocca, le sembrava quasi di sentire le loro ultime urla strazianti di dolore, mentre venivano dilaniate e divorate da una creatura senz’anima.

    Provava dolore per quei ragazzi, ma allo stesso tempo aveva la recondita consapevolezza che non poteva fare a meno del loro sangue, della loro carne per sopravvivere. Un’improvvisa presa di coscienza la fece sprofondare nel peggiore degli incubi:

    Sono un mostro pensò. Se non uccido non posso sopravvivere. Non sono in grado di combattere la furia della belva quando viene fuori, non posso resisterle.

    In un lampo di pura follia, le venne in mente che l’unica soluzione al problema, sarebbe stata quella di uccidersi per porre fine al terrore e ai rimorsi che ogni volta la divoravano dal di dentro. Presa da questa sconcertante consapevolezza, si lasciò scivolare sotto la superficie dell’acqua.

    Mi tolgo la vita e la faccio finita! pensò ancora, nel ritrovarsi in un mondo nuovo e silenzioso, sicuro e rilassante. Vorrei tanto rimanere qui sotto per sempre, al sicuro da tutto e tutti.

    Ma quella sensazione di benessere durò poco e quando iniziò ad avere bisogno di ossigeno, sgusciò fuori dall’acqua annaspando e inspirando, a grandi boccate, l’aria che di nuovo entrava nei polmoni, l’aria, questo elemento unico per la vita.

    Si rese conto che non era in grado di farlo… non poteva e non voleva uccidersi. Allora scoppiò in un pianto ininterrotto, si sciacquò il viso, ma le lacrime continuarono ad uscirle, come se si fosse rotto un capillare all’interno del bulbo oculare e non fosse possibile guarirlo.

    Prese il sapone ed iniziò a lavarsi con frenesia, strofinandosi istericamente la spugna sul corpo, come se volesse strappare via il primo strato di pelle, o cancellare le tracce di quel massacro. L’acqua si tinse di rosso per tutto il sangue che scivolava via, mischiandosi alla schiuma del sapone.

    Sarah aveva bisogno di altra acqua, acqua pulita. Aprì il tappo della vasca e fece scivolare via quella sporca. Un leggero senso di benessere la avvolse, come se scomparendo alla vista, quell’acqua portasse via anche i rimorsi per ciò che aveva fatto.

    Riaprì il getto d’acqua fino a quando la vasca fu nuovamente piena. Vi spruzzò altro bagnoschiuma, inebriandosi di vivi profumi. Ricominciò a massaggiarsi il corpo, stavolta più lentamente, sfiorando i seni

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