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La scatola senza pareti
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La scatola senza pareti

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Gabriele è un giovane programmatore software che vive in un paesino della provincia lombarda. Le sue giornate sono sempre uguali, scandite dalle stesse facce, dalle stesse persone, dalle stesse storie. Genitori separati, un fratello con cui non condivide quasi più nulla e una indipendenza ottenuta prendendo in subaffitto un appartamento da un parente che fino a quel momento non ricordava di avere. Apparentemente un bravo ragazzo, studioso e lavoratore, in realtà cela nel profondo un’inquietudine che sconfina nella violenza, nel desiderio di ferire non solo se stesso ma anche chi è più fragile di lui. La sua maschera di argilla si incrina un mattino quando rinviene sullo zerbino davanti casa una scatolina con su scritto, a pennarello nero, il suo nome. Lì per lì è motivo di semplice curiosità, ma la sera mentre sta fumando un po’ d’erba sul terrazzino una voce proveniente proprio dalla scatola gli dice che conosce la sua insoddisfazione e lo invita a seguirlo in un mondo dove ciò che appare è davvero e dove nessuno è costretto a indossare una maschera. Un’allucinazione? Il tentativo della sua coscienza di redimere una giovane vita stropicciata sotto la delusione di un amore che ha mostrato, inevitabilmente, le sue crepe? Eppure, quella voce lo spinge a mettere in discussione le sue aspettative e lo proietta alla ricerca di quella parte di sé ancora capace di godere delle piccole e grandi gioie dell’esistenza.
Un romanzo d’esordio intenso e bruciante.
LanguageItaliano
Release dateApr 1, 2019
ISBN9788832924190
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    La scatola senza pareti - Andrea Dell’Erba

    Edi.

    1

    Una tenue e calda brezza estiva d’un dieci agosto mi sfiora il viso. Il paese silenzioso, le strade deserte immerse nella quiete e le case del circondario hanno le serrande chiuse.

    Cosa faccio ancora qui?

    Il sole scompare al di là dell’orizzonte e le sfumature crepuscolari d’arancione che dipingevano il cielo limpido, lentamente, vanno dissolvendosi. Fuori, in piedi sul balcone con i gomiti appoggiati alla ringhiera e il capo chino sulle spalle, pronto a lasciarmi trasportare dalla leggerezza d’uno spinello chiuso col tabacco d’una Marlboro rossa e l’erba che il mio amico Rudy mi ha procurato per un modico sovrapprezzo, lascio che l’interrogativo spazi libero e indisturbato nell’etere. Accendo lo spinello e tiro a pieni polmoni.

    Cosa faccio ancora qui?

    Ventiquattro anni trascorsi nello stesso quartiere dello stesso anonimo paese d’una innocua provincia lombarda. Ventiquattro anni trascorsi incrociando per le strade sempre gli stessi volti. Quello di Tamara, la fornaia dal sorriso solare e le gote infarinate da cui ritiro il pane il sabato mattina, non cambia mai. Quello di Alberto, il burbero tabaccaio a cui manca il mignolo della mano sinistra perduto, ogni volta che ne racconta la storia, in una maniera differente e più avvincente e assicura a ogni corsa di conoscere il nome del cavallo che per primo taglierà il traguardo, non cambia mai. Io non cambio mai. Rendermene conto mi accende lo stomaco.

    Dovrei partire?

    Solamente una quasi discreta fortuna, risparmiata grazie a un lavoro d’ufficio che in poco tempo ho imparato a detestare, sarebbe disposta a permettermi un piccolo, ma coraggioso, passo verso il vuoto. I lampioni accesi disegnano ampi cerchi di luce gialla che illuminano le strade e i marciapiedi. Il cielo si avvolge nel suo mantello scuro e risalta lo splendore delle stelle. Sono tantissime, vorrei poterle contare.

    Cosa faccio ancora qui? Dovrei partire.

    Un altro tiro. Il fumo invade i polmoni e la mente comincia a perdersi. Cosa mi trattiene dall’andare a trovare un posto soltanto un po’ più giusto per me? La famiglia?

    Da qualche mese sono riuscito a fuggire dallo stretto appartamento di quattro stanze in cui convivevo con mia madre e mio fratello più giovane per attraversare la strada e trovare indipendenza in uno stabile subaffittato da un lontano parente di cui ignoravo l’esistenza, le cui pareti ancora odorano di nuovo. Un padre lo avevamo avuto ma, come soluzione alle tediose giornate incolore che lo accompagnavano da così tanti anni, aveva ben pensato di rifugiarsi nelle voluttà adrenaliniche che una relazione segreta con un’altra donna poteva donargli. Una volta svelata la ragione dei piacevoli e incomprensibili sprazzi di vita che di tanto in tanto lo ravvivavano durante l’ora di cena, si è ritrovato da un giorno all’altro seduto sullo scomodo divano d’un monolocale a imprecare verso la conduttrice televisiva dal corpo di plastica del programma delle estrazioni della lotteria che rifiuta di nominare i numeri stampati sulle schede che tiene strette tra le mani. Mia madre per dimenticare il tanto amato e al contempo odiato compagno scelto per la vita aveva drasticamente convertito la sua routine, dando il benvenuto ad aperitivi con vecchie amiche e nuovi pacchetti di sigarette dimenticati nei cesti della biancheria sporca, appuntamenti al buio rimediati su siti di incontri on-line e corsi di ballo caraibici.

    Io e Marco osservavamo da vicino il declino naturale d’un matrimonio del terzo millennio. Marco, mio fratello più piccolo d’età ma ormai non più di statura. Insieme condividiamo poco o nulla. Memorie di pomeriggi spesi a giocare in giardino da bambini che rimangono impressi sul suo sopracciglio sinistro a forma di cicatrice verticale, souvenir di un incontro ravvicinato con un pilastro di cemento mentre rincorreva il pallone. Ora il vizio per quel rilassante naturale coltivato amorevolmente in una serra improvvisata nella cantina della casa dei nonni di Rudy.

    Io, posto sott’esame ai loro occhi, mi sento solamente quel Gabriele: da sempre portato per lo studio, da poco laureato in scienze informatiche con il massimo dei voti. Lo conoscono alzarsi tutte le mattine per correre in stazione speranzoso che il treno non sia stato come di ricorrenza soppresso per andare in ufficio a fare il programmatore, rientrare a casa la sera esausto e, taciturno, sfogliare le pagine d’un romanzo di altisonanti nomi o di una rivista di cultura generale. Se solo potessi dar loro un assaggio di questo Gabriele, ch’io conosco e con cui, obbligato, convivo giorno per giorno, svestito di quell’abito stretto e soffocante che mi hanno cucito addosso e mi sento in dovere di portare ogni volta che sono in loro presenza, svelato dietro la maschera d’argilla priva d’espressione che da soli hanno modellato da porgermi sul viso e che in piena autonomia sceglie quali parole è ammissibile lasciar trapelare attraverso, e quali altre no, conoscerebbero un Gabriele che in ufficio, davanti a uno schermo ultrapiatto, conta implorante i minuti che lo separano dalle diciotto, ha trascorso mesi in analisi a un metro di distanza da un dottore in poltrona con tanto di occhialetti, barba curata e taccuino in grembo, che prende sonno grazie a gocce contate di flaconcini di Xanax e fuma marijuana la sera sul balcone quando i vicini hanno le inferiate chiuse.

    Vago tra i pensieri in cerca d’un motivo che si nasconda, timido e rannicchiato, in qualche meandro della mente e mi convinca a rimanere, mi sorrida, mi conforti e mi dica: ehi, va tutto bene. Ci sono io. Il tuo posto è questo.

    Dove sei? Non ti trovo.

    Fisso in alto lo sguardo ad ammirare il firmamento che, come ogni sera, offre al mondo lo stesso spettacolo. Senza mai stancare. Trovo in quel cielo che si ripropone sempre uguale ma allo stesso tempo con dettagli differenti il fascino dell’eternità di ciò che può permettersi di cambiare sempre, senza cambiare mai. Una stella cadente, piccola scia di luce, lo attraversa da parte a parte in una frazione di attimo. È un riflesso naturale voltarmi e cercarla per batterla sul tempo ed esclamare: L’ho vista prima i...

    Oh, già.

    Al mio fianco non c’è nessuno.

    Un altro tiro. Dalle narici una nuvola grigia senza peso si disperde libera nell’aria.

    La scorsa notte di San Lorenzo il parapetto che ci sorreggeva e dal quale contavamo gli astri sorvolare le nostre teste era quello d’una via che costeggiava il Lago Maggiore. Sotto di noi le onde fatte d’acqua e di schiuma si muovevano e facevano rumore e s’infrangevano sull’alto muro di sassi.

    Lei in piedi con le braccia ampie e i palmi delle mani delicate aperti sulla ringhiera di ferro scuro dalla quale si sporgeva un poco. Io dietro lei cingendola stretta e forte fra le braccia. Facevamo a gara: Vince chi ne vede di più.

    Vincevo io.

    È sempre stata così spontaneamente distratta. Lei troppo semplice per un gioco troppo complicato come dichiarare il possesso di una meteora fendente il cielo. Quel che per lei più contava era esprimere un desiderio entro tre secondi dalla scomparsa della stella cadente. Guai se per l’indecisione non ci riusciva. La scorsa notte di San Lorenzo era prima che quello che credevo il ritratto della mia vita venisse strappato in tanti piccoli pezzetti come un debole foglio di carta riciclata. Io, inetto spettatore impotente.

    Troppo per una sera soltanto.

    Con una mano spingo sul ventre a fare rientrare il malessere. Con l’altra porto lo spinello alle labbra. Tiro.

    L’erba è finita, aspiro fuoco che brucia.

    Cosa faccio ancora qui? Devo andarmene.

    2

    Si fa mattino. Me lo ripete la radiosveglia che suona a un braccio di distanza dai miei timpani. Distendo l’arto e la spengo.

    Suona. La spengo.

    Suona. Ha vinto: mi alzo.

    Siedo sul letto lasciandomi accarezzare, come viziato dal tocco delicato delle dita callose della mano di un nonno premuroso, dal silenzio che riempie le mura di casa. Le braccia tese verso l’alto, la schiena inarcata si sgranchisce. Le labbra guardano all’insù dando vita a una, seppur sottile, parentesi sorridente. La notte porta con sé le inquietudini e di prima mattina saper convivere con se stessi è un po’ più semplice. Schiaffeggio le guance e mi alzo per andare a svuotare la vescica. Un ragazzo a petto nudo attraversa lo specchio del bagno. Ha l’aria stanca e gli occhi sottolineati da ombre scure.

    Su, forza. Un passo alla volta.

    Spalanco il miscelatore del rubinetto dal lato dell’acqua fredda, unisco le mani a forma di conca sotto il getto che scende e vi affogo il viso.

    Sveglio.

    Accendo il gas in cucina e metto a bollire sul fuoco il pentolino colmo fino all’orlo di latte scremato. Cerco in dispensa i cereali ricoperti di cioccolato fondente e il mormorio del latte bollente fa da sottofondo. Colazione abbondante per la giornata che mi attende.

    Scorro gli appendini nell’armadio in camera da letto. Jeans e maglietta nera, berretto con la visiera dal colore sbiadito e scarpe da ginnastica bianche segnano la definita ricerca dell’anonimato. A volte, quando cammino per le strade affollate, una risata che libra da sola sonante nell’aria riesce nel farmi sentire il fragile bersaglio d’uno scherno. Egocentrico a tal punto da considerarmi protagonista di un momento di passanti sconosciuti. Io mi assicuro di rendere remota la possibilità che avvenga vestendo come tutti, non dando nell’occhio.

    Esco dalla porta di casa per intraprendere la via della stazione e sferro un calcio inavvertito a una scatolina posta sullo zerbino davanti all’uscio. Rotola su se stessa qualche giro e si ferma al centro del pianerottolo condiviso tra gli appartamenti del primo piano del residence. Giro la chiave nella serratura e ascolto due scatti meccanici e mi affretto a coglierla da terra. Piccola e completamente costruita in legno e s’una faccia, scritto in pennarello nero, c’è il mio nome.

    E questa?

    Un minuto perso di troppo mi costa la corsa del treno. Rapido, la getto nello zaino tenuto sulle spalle e a passo svelto scendo le scale e m’incammino per raggiungere il sottopassaggio della stazione. Graffiti e imprecazioni e numeri di telefono accompagnati dalle più improbabili offerte di favori sessuali scritti a bomboletta ne imbrattano i muri. Disegnate in piccolo in un angolo prima dei gradini che portano ai binari mi colpiscono: A + G.

    Erano le nostre.

    Voi. Ostinate a non sbiadire; eh?

    Maleodorante e zeppo di anziani che mi fissano mentre sono alla ricerca d’un posto libero a sedere e ragazzini coi brufoli accesi pronti a esplodere sulle facce assonnate: non ho perso il mio treno. Gli auricolari nelle orecchie suonano una dopo l’altra le tracce di un infinito Stadium Arcadium e io conto le fermate del treno alle stazioni e immagino che il soggetto fuori dal finestrino venga dipinto in un’opera d’arte moderna.

    Alberi rigogliosi e colorati fuori dal finestrino.

    Automobili ferme in coda fuori dal finestrino.

    Una fermata.

    Cemento grigio fuori dal finestrino.

    Sacco della spazzatura stracolmo e strappato e lattine schiacciate, casco integrale senza visiera e bianche cartacce persi in un quadrato di verde fuori dal finestrino.

    Due fermate.

    Le porte del mezzo si aprono sulla città immobile e sporca dell’olezzo di fumo di sigaretta misto a quello dell’urina di senzatetto che bagna i cespugli tra i capolinea dei binari. Dev’essere fatta da poco, altrimenti il caldo l’avrebbe evaporata. Con le mani ben salde nelle tasche dei pantaloni mi muovo per le vie del centro, evitando i bambini rumorosi alle fermate dell’autobus e meravigliandomi dell’anziano signore che non lascia mai per nessun’altra quella panchina davanti alla fontana su cui siede leggendo il giornale e lanciando briciole di pane ai piccioni, e ammiro in silenzio da lontano, al sicuro dietro un vetro trasparente che ci separa, la giovane ragazza del bar che serve le colazioni. Indossa una maglietta semplice e una corta gonna in jeans e sul volto l’espressione cordiale rivolta alle nonnine che portano alle labbra tazzine di caffè con mani rugose e tremolanti.

    Inclino la testa all’indietro, volto a mirare, dal basso, il cornicione del condominio che ospita la maggior parte delle ore che danno vita alle mie giornate. Salgo le scale e vesto l’abito d’ufficio: grigio sbiadito, come incolore, dal taglio identico a quello di tutti gli altri colleghi. Singolarità non ammessa, personalità soffocata dal cappio al collo a forma di cravatta. Dietro, fra le scapole, cucito il numero identificativo del badge. Indispensabile per distinguerci l’uno dall’altro. Afflosciato sulla poltrona ergonomica, dall’alto della finestra del terzo piano, numero le persone che, piccole, ingorgano i vicoli pedonali passeggiando con i cani al guinzaglio o in mano le buste della spesa e sento con poca attenzione il cliente lamentarsi del sito web che avrei dovuto consegnare ultimato la settimana scorsa.

    Vedi quel bottone rosso in alto a destra? Indica premendo l’indice sullo schermo, dando vita a un fastidioso alone scuro sotto l’impronta.

    Ecco, lo vorrei più in basso.

    In basso c’era già stato. Subito prima che tu lo volessi in alto a destra.

    E poi, non è così che dovrebbe essere l’immagine del carrello.

    Un carrello è un carrello.

    È tutto sbagliato. Non me l’ero per nulla immaginato in questo modo.

    Colpa mia?

    Con l’espressione più affabile e serena che posso dipingere in viso lo rassicuro: è l’undici agosto. Nessuno, a parte noi, è seduto dietro a una scrivania incollando gli occhi al monitor di un computer. Avrà il sito web pronto, decorato da mirabolanti carrelli per la spesa e bottoni stilisticamente impeccabili, a patto che se ne vada e mi lasci lavorare. Lo spilungone in giacca e cravatta dalla permanente ben curata e lo sguardo poco brillante lascia la stanza risentito.

    Tra noi, l’uomo di successo è lui.

    Digito sulla tastiera infinite quantità di caratteri che appaiono sullo schermo come stringhe di codice colorate che vengono compilate per diventare il sito web bramato dal mio cliente.

    Non stai lentamente morendo davanti a una griglia di led luminosi imprigionati nel vetro di una scatola nera. Ti prego. Non pensarlo.

    Cattura la mia troppo scarsa attenzione facendo capolino da dietro il monitor del computer, in parte nascosta da un portamatite a forma di orsetto, la piccola scatolina in legno che ho raccolto davanti casa.

    Non l’avevo lasciata nello zaino?

    Scuoto la testa veloce da destra a sinistra, strizzo forte le palpebre e prendo il cubo

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