La famiglia del terzo millennio: Tre millenni di famiglie
By AA.VV.
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Ciò con lo scopo di restituirle quella pluralità di sfaccettature troppe volte schiacciate ed opacizzate dagli effetti di un filtro oppositivo, quello tra naturale e non, complice l’apparente immutabilità della parola che la rievoca (attestata ininterrottamente dalla latinità ad oggi).
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La famiglia del terzo millennio - AA.VV.
anonima.
AA.VV.
LA FAMIGLIA DEL III MILLENNIO, TRE MILLENNI DI FAMIGLIE.
Riflessioni interdisciplinari.
Volume I
Grammatica della società
Collana di studi sul rapporto tra genere e società
Forum Terzo Settore Lazio & Centro studi dipartimentale multidisciplinare
Grammatica e sessismo
(Università di Roma Tor Vergata)
Comitato scientifico
Benevene Paula (Psicologia del lavoro e delle organizzazioni / Diritti umani)
Bifulco Luca (Sociologia dello sport e società)
Caravaggi Lucina (Urbanistica / Ambiente e risorse naturali rinnovabili)
Cavagnoli Stefania (Lingua e diritto)
Consoli Francesco (Sociologia economica del lavoro e dell’organizzazione)
Cosentino Antonietta (Economia aziendale)
Danese Francesca (Epidemiologia sociale e politica)
Dragotto Francesca (Lingua e linguaggi)
Fiocco Gianluca (Storia contemporanea e costume)
Gentili Angela (Antropologia alimentare)
Iezzi Domenica Fioredistella (Statistica sociale)
Malaisi Barbara (Diritto)
Panzarani Roberto (Innovation Management)
Parrillo Giovanni (Economia aziendale)
Pascale Alfonso (Sociologia / Agricoltura sociale)
Poccetti Paolo (Scienze dell’antichità)
Vereni Pietro (Antropologia ed etnografia urbana)
Volterrani Andrea (Comunicazione sociale e modelli sociologici)
Coordinatrice
Francesca Dragotto
Alla memoria di Alberto Valentini
Indice organizzato dei contributi
Premessa a cura di M. Ferrazzoli (CNR)
Tutto il bene e tutto il male possibili
Premessa a cura di F. Dragotto (Università di Roma Tor Vergata e Comitato scientifico del Forum del Terzo settore del Lazio)
Le parole, ritratti del mondo a portata di mente. Premessa di fine e di metodo al volume e alla collana sull’opportunità di una linguistica politica
I parte: Famiglia e società, famiglia nella società
All’origine della famiglia moderna
E. Paoli (Università di Roma Tor Vergata)
La Sacra Famiglia: modello impossibile, modello eversivo, modello imitabile
Famiglie, società e media
E. Meli (ISTAT)
La famiglia dà i numeri. I dati raccontano le famiglie del III millennio
S. Melchiorre (Università della Tuscia)
La costruzione dell’identità della famiglia attraverso i (social)media
F. Danese (Forum del Terzo settore del Lazio)
Il Forum e i servizi alla famiglia e alle famiglie
M. Macchiaiolo (Ospedale Bambino Gesù)
Famiglie nella cura medica
A. M. di Santo (Università di Roma Tor Vergata)
Figli della famiglia, figli delle famiglie. Psicologia della famiglia italiana contemporanea
A. M. di Santo (Università di Roma Tor Vergata)
Le nuove famiglie
Famiglie italiane al cinema
F. Natalini (Università di Roma Tor Vergata)
Istantanee di famiglia… La famiglia italiana nella cinematografia
Famiglie dal di fuori
M. Azzacconi (Famiglia e minori ONLUS
)
La famiglia italiana raccontata dal mondo delle adozioni
II parte: Rappresentazioni di famiglia, rappresentazioni della famiglia
Famiglie antropologiche
P. Vereni (Università di Roma Tor Vergata)
Famiglia naturale, un mito andato a male
Famiglie (psico)linguistiche
F. Dragotto (Università di Roma Tor Vergata)
La semantica di famiglia
al crocevia tra esperienza, cognizione e organizzazione mentale del lessico
Famiglie nel diritto di famiglia
S. Cavagnoli (Università di Roma Tor Vergata)
La famiglia nel diritto di famiglia
Famiglie all’anagrafe
R. Oliva De Conciliis (Rete per la parità
)
Famiglie all’anagrafe. Le famiglie italiane raccontate dai cognomi e non solo
B. Belotti (Toponomastica femminile
)
Segnali familiari. Immagini e immaginario della/e famiglia/e nei percorsi urbani
Famiglie pubblicitarie
L. Bagini (Università di Poitiers)
Ricostruzioni familiari. La famiglia italiana rappresentata da Carosello
Classi IVa e IIIa indirizzo economico-sociale del liceo San Paolo di Roma (progetto ASL Comunicazione consapevole
), coordinate da Ilaria liberati
Le classi raccontano il proprio progetto
L. Selvarolo (Università di Roma Tor Vergata)
Famiglia: una nessuna centomila. Un’analisi comparativa tra realtà riconosciute, percepite e rappresentate
Famiglie nei libri
A. Cassarino (Università di Roma Tor Vergata)
La famiglia nei libri di scuola di ieri e di oggi
C. Coccia (Università di Roma Tor Vergata)
Lezioni di famiglia: casi di studio nell’insegnamento dell’italiano L2
Famiglie sui giornali
M. Ferrazzoli (CNR Aldo Moro)
La famiglia ha ancora i titoli
Famiglie a scuola
S. Dai Prà (Is Europa Woolf serale)
La famiglia a scuola, la scuola e le famiglie
V. Borsetti (scuola primaria C. Pisacane)
L’esperienza della famiglia dei bambini e delle bambine della scuola Pisacane di Roma
P. Vaglioni
Rispetto
Tutto il bene e tutto il male possibili
Prefazione a cura di Marco Ferrazzoli
Ciambella di salvataggio e palla al piede, rete di protezione ma anche gabbia… Della famiglia possiamo dire senza tema di smentita tutto il bene e il male possibili. Per certo, possiamo affermare che almeno in Italia resta la cellula fondamentale del corpo sociale. Non a caso, la si tira subito in ballo quando si vuol fare sociologia spicciola, così come accade con la scuola e, da minor tempo, con le reti (e i social in particolare).
Banalizzando ulteriormente, possiamo paragonare la famiglia all’aria, cioè uno di quei beni la cui utilità è chiara solo quando mancano. In una società della conoscenza come quella dove sosteniamo di vivere, questo è ancora più vero. Ce ne accorgiamo, purtroppo, nella formazione: l’università ha perso da tempo gran parte della sua funzione di ascensore sociale, il ritorno di gran parte dei nostri sforzi di docenti nel cercare di trasmettere conoscenze e competenze, ma soprattutto metodo e interesse, è strettamente correlato alle basi di partenza degli studenti. Scuola e famiglia, per l’appunto.
Ed è ancora con la famiglia che ce la prendiamo quando lamentiamo la scarsa intraprendenza di molti ragazzi, la loro prevalente tendenza a erodere il capitale socio-economico-culturale ricevuto in eredità, anziché ad avviare iniziative diverse, a inventare nuovi mestieri, a staccarsi dal nido, a muoversi, anche fisicamente. Una critica, peraltro, giustificata solo in parte: i dati al riguardo sono mutevoli e contraddittori, oggi è molto meno vero che i giovani italiani siano bamboccioni
e anche questo non è del tutto un bene, poiché la loro maggior disponibilità ad andarsene di casa
spesso è dettata dalla convinzione che l’espatrio e l’emigrazione siano le uniche strade professionalmente percorribili. E poi, siamo così sicuri che seguire le orme lavorative già tracciate sia sempre un male? L’impresa famigliare è sempre stata un pilastro del made in Italy, ci ha consentito di affermare nel mondo alcuni brand e di dominare alcuni comparti, e la crisi alla quale essa è oggi soggetta, a causa degli spietati meccanismi concorrenziali imposti dalla globalizzazione, non ci può certo far felici. Anche perché mette a rischio il patrimonio di inventiva, talento, genialità e creatività conservato nelle nostre piccole e medie (talvolta micro) imprese.
In sostanza, l’impressione è che spesso la severità con cui giudichiamo la struttura famigliare italiana sia eccessivamente condizionata dalla sentenza di Banfield sul familismo amorale
. Condanna che, purtroppo, meritiamo pienamente: resta sempre viva, almeno per chi ha l’età giusta, l’icona del ‘Borghese piccolo piccolo’ creato da Vincenzo Cerami, diretto da Mario Monicelli e interpretato da Alberto Sordi. Ma anche questo giudizio andrebbe più articolato, riflettendo per esempio su quanto accade nello sport, settore dove le doti individuali dovrebbero marcare una differenza ineludibile e dove invece la presenza di una scuola locale o addirittura domestica è spesso determinante.
Ma è quando si scende più nel privato che la funzione della famiglia o di altre cellule sociali come le parrocchie recupera tutta la propria attualità e utilità. Quando abbiamo un problema di salute fisica o psichica, quando la vita ci impone prove di particolare durezza come un incidente, un’invalidità, una menomazione, una dipendenza. Allora la fortuna diviene l’elemento fondamentale, visto che l’Italia è un paese di servizi e strutture distribuiti a macchia di leopardo, con classifiche di qualità che vedono stabilmente il Nord e la provincia battere Sud e grandi città. Allora la famiglia è spessissimo l’àncora per non affondare nella disperazione e per evitare di essere trasportati dalla deriva, nel tentativo di trovare una soluzione. O, per lo meno, è la ciurma per non affrontarli in solitudine. È il primo hub informativo, se vogliamo usare una metafora più aggiornata.
Il discorso ci porterebbe lontano e richiederebbe troppo tempo e spazio. Limitiamoci a raccogliere quanto lamentano e reclamano reti famigliari come quella dei siblings che assistono fratelli in difficoltà: se una quota maggiore della spesa pubblica destinata ai servizi sociali fosse destinata direttamente alle famiglie, l’efficienza e l’economicità dell’assistenza aumenterebbero sicuramente (Franco Pannuti, oncologo fondatore di Ant Italia, parla di 30-40 euro per l’assistenza domiciliare contro i 240/700 del ricovero in strutture ospedaliere). E comunque la cronica insufficienza delle risorse, progressivamente aggravata dal record di longevità e invecchiamento nazionale, è un dramma che non ha l’attenzione politica e mediatica che merita. In tale contesto lo stillicidio di tante tragedie consumate tra le mura domestiche, continuo e anch’esso sottaciuto, non deve meravigliarci. Ultimi casi di cronaca nera e giudiziaria, al momento in cui scriviamo, il pronunciamento della Cassazione che ha rifiutato l’attenuante del valore morale
all’uomo che aveva ucciso la moglie sofferente di Alzheimer e la tragedia del piccolo Giuseppe, picchiato assieme alla sorella e ucciso – si presume – dal compagno della madre.
Le parole, ritratti del mondo a portata di mente. Premessa di fine e di metodo al volume e alla collana sull’opportunità di una linguistica politica
Prefazione a cura di Francesca Dragotto
Sono un linguista e per questo reputo che nulla di linguistico
mi sia estraneo.
Questo di sé e degli orizzonti del proprio studio affermava Roman Jakobson (1896-1982), studioso di lingue e di linguaggi percorso come pochi da un desiderio famelico di conoscenza del linguaggio in lungo e in largo. Decine di migliaia le pagine lasciate in eredità agli studi futuri, nelle quali colpisce l’anelito di descrizione in particolare delle manifestazioni tipiche delle aree di confine, quelle zone scivolose difficilmente attribuibili all’uno o all’altro dominio di conoscenza implicato col linguaggio e con le sue concretizzazioni. Zone che fanno tremare il bisturi di chi, per definire la propria attività di studio, si rifà a presunti confini definitori prestabiliti, rispetto ai quali tutto quanto pienamente rientrante nei limiti del taglio è imputato al dominio d’altri.
In Sono un linguista e per questo reputo che nulla mi sia distante
– nulla e basta, non solo di linguistico
–, sommava l’attitudine e l’estensione dell’azione descrittiva di Jakobson Umberto Eco¹, impegnato a ripercorrerne – ed omaggiarne – la curiositas, percolata in quel numero incalcolabile di pagine per le quali occorre provare immensa gratitudine; una gratitudine che va al di là del progresso che Jakobson ha consentito di operare agli studi linguistici del Novecento, giacché la sua riflessione ha contribuito a realizzare una migliore comprensione delle specificità di Homo sapiens sapiens, il segmento evolutivo attuale della specie cui apparteniamo, la cui essenza è racchiusa proprio nel nucleo di ciò che costituisce il Linguaggio (verbale), il sistema semiotico più importante, fondamentale e primario […] realmente il fondamento della cultura […] lo strumento essenziale della comunicazione in quanto informazione
(McQuown, citato da Jakobson nel prosieguo dello stesso saggio).
Di quel Linguaggio, ciascun individuo si appropria in modo differente e strettamente dipendente alla partecipazione a contesti sociali vari, fin dal giorno della nascita: sarà infatti l’immersione tra i parlanti a far sì che la predisposizione innata al Linguaggio si traduca in pezzi di una lingua via via più consistenti, la cui fattura risulterà dipendente dalla qualità degli usi con i quali si viene in contatto e poi, insieme, dalle possibilità offerte dall’apprendimento, culminante nei vari gradi della scolarizzazione.
Parole, quelle di chi già le usa, fanno perciò da modello per la progressiva emersione di parole in chi ancora non le maneggia ma presto lo farà: in una manciata di mesi, infatti, ciascun nuovo esemplare della specie costruirà la grammatica mentale della o delle lingue con le quali si mantiene progressivamente e prolungatamente in contatto, ma così facendo pagherà un prezzo spesso sottovalutato, consistente nell’impossibilità di vedere
la realtà in modo autonomo rispetto alla lingua per mezzo della quale se la rappresenta e la ripensa, per poi eventualmente comunicarla.
Agli antipodi rispetto a quanto sostenuto dalla logica simbolica, che vuole i significati linguistici
disgiunti dalla presenza delle cose
e ridotti al sistema di relazioni che la singola espressione intrattiene con le altre espressioni (jakobson 1966:21), l’esperienza della costruzione di ogni tessera di quell’entità alla quale, presa nel suo complesso, ci si riferisce per prassi come al dizionario mentale dell’individuo non si separa invece, fin dagli esordi, proprio dalle forme dell’esperienza delle cose
fatte da chi parla.
Il qui, l’ora e i soggetti con cui si interloquisce (includendo anche l’interlocuzione indiretta, per esempio quella mediatica, tipica della tv e degli altri media tradizionali, e, più di recente, quella mediale relativa ai vari social media la cui frequentazione si è abbassata e continua ad abbassarsi, per età, presso le ultime generazioni), entrano
di fatto nell’esperienza della lingua che porta il soggetto parlante a ritagliare una espressione per facilitare il richiamo proprio di quella data esperienza e di tutte quelle che con essa condividono un numero abbastanza ampio di caratteristiche affini. Una condizione, questa, di non separabilità del simbolo linguistico da ciò che significa e rappresenta, che provoca la tendenza, e a maggior ragione nel caso di segni carichi di significato sociale, a far coincidere l’intero significato del segno con una forma specifica del reale: quella più pervasiva
non perché necessariamente la più rappresentativa di un dato contesto sociale, ma perché la più ricorrente nella vita sociale dell’individuo. Una vita fatta
di narrazioni almeno quanto di azioni non verbali.
Gli individui, per dirla con Jerome Bruner, apprendono la realtà e organizzano la loro conoscenza per mezzo di strutture narrative, che costituiscono inoltre la principale modalità di comunicazione alla base dell’interazione umana (bruner 1991): di qui il ruolo attivo delle narrazioni nel determinare la realtà rappresentata presso ciascun individuo e, insieme, il significato delle parole all’interno del suo dizionario mentale.
Risultando impossibili da scindere dall’agire comunicativo dei gruppi nel cui ambito l’individuo si trova a intrattenere relazioni comunicative – gruppi che si caratterizzano per una geometria variabile dovuta alla centralità instabile del nucleo di interessi intorno a cui il gruppo si addensa e muove –, appare chiaro il legame tra l’agire di qualunque natura e la costituzione di modelli mentali². Lampante si manifesta il rischio, per non dire la quasi scontatezza, che tra una certa realtà e la sua rappresentazione mentale si venga a stabilire un rapporto del tipo la parte per il tutto
(o sineddochico), ovvero che il modello mentale (che si rifà a una parte, ovvero a uno dei vari modi di realizzare
una certa cosa
) finisca, in chi lo detiene, per assumere funzione di tutto. Un tutto percepito come naturale e non come frutto di una costruzione mentale alimentata dal vivere sociale.
Una volta costituitisi, i modelli mentali forniscono perciò il meccanismo attraverso il quale le nuove informazioni vengono filtrate e archiviate (si tende a vedere quello che già si conosce): di qui, anche sul piano linguistico, la possibilità che il particolare stato di cose a cui si riferiva la porzione di testo che ha alimentato il modello finisca per rappresentare l’insieme di tutti i modelli possibili.
È quanto avviene, per esempio, nel caso di famiglia
, oggetto di riflessione di questo volume al centro anche di recenti dibattiti incentrati proprio sulla contrapposizione tra chi, usandola al singolare, ricerca anche nella longevità e nella sostanziale immutabilità formale del termine una prova della sua coincidenza con un unico modello sociale e perciò di necessità anche mentale, e chi, invece, facendo i conti con le innumerevoli declinazioni assunte nel tempo e nello spazio dalla realtà in carne ed ossa
rappresentata dal termine, rigetta il singolare e, insieme ad esso, la sussistenza di continuità anche linguistica e istituzionale del costrutto, assumendo come normalità
la pluralità di esiti a cui lo stare insieme può dare luogo e dei relativi stati mentali.
O per altri lemmi particolarmente significativi perché potenzialmente compresi in quello che Sabino Cassese, ha definito alfabeto civile
rifacendosi al titolo di una giornata di studi in memoria di Tullio De Mauro, il cui modo di intendere e ampliare l’ambito di riflessione proprio della linguistica
ci ha aiutato a capire l’Italia, la nostra storia, come parlavamo e pensavamo e come parliamo e pensiamo, e, attraverso la parola, come siamo. La lingua è stato un punto di vista, un espediente per comprendere l’Italia e gli italiani (cassese 2018:52).
Capire le parole significa infatti capire chi le usa, assumendo la prospettiva di una centralità del linguaggio verbale³ che, a ben vedere, è da intendersi, adottando un approccio sistemico-funzionalista quale quello di Halliday (halliday 1985; halliday - matthiessen 1999), come centralità del significato, qui assimilato alla relazione che ogni simbolo intrattiene con il reale (se tangibile con mano o solo
narrativo non importa, in entrambi i casi si tratta del primitivo
da cui trae origine il significato) e, insieme, a quella che intrattiene con tutti gli altri significati. A fare le spese di tale centralità sarebbe così la forma espressiva, ridotta a solo involucro funzionale alla trasmissione, e quindi alla spendibilità in un nuovo ciclo comunicativo, del significato.
Un involucro che, quand’anche sfuggito al mutamento nel corso del tempo, può esprimere contenuti mentali e sociali diversi: o rispetto al passato, o rispetto alle diverse zone in cui il medesimo sistema linguistico è impiegato, o persino rispetto al singolo individuo. Contenuti che, per essere investigati con l’intento di comprendere che posto e che peso abbiano nella vita dei parlanti, necessitano di una azione di sconfinamento oltre la lingua che forse costituisce il senso stesso di una ricerca linguistica che voglia costituire anche una ricerca sul funzionamento della società – difficilmente comprensibile al netto dei linguaggi di cui si serve – che operi però in modo complementare alla sociolinguistica e alla sociologia del linguaggio. Di una linguistica politica, dunque, nel senso di ‘funzionale alla comprensione della polis’⁴ e alla descrizione delle pratiche che in essa hanno luogo, a partire da quelle che consentono a ciascun individuo che ne sia parte la rappresentazione di sé e del mondo in cui vive.
Si potrebbe del resto obiettare che quanto affermato per famiglia
possa valere per qualsiasi segno linguistico, e lo si affermerebbe a ragione: ma ci sono parole per cui le implicazioni tra lingua e mondo contano maggiormente, al punto di riuscire a dare voce
a emergenze sociali, problemi del tempo in cui si vive ai quali provare a rispondere attraverso il meticciato dei saperi e quindi delle scienze, la cui positività è stata un pallino fisso dello stesso De Mauro, almeno da Minisemantica, del lontano 1982, in cui scriveva
a una visione adeguata del linguaggio, delle lingue, e dell’esprimere e comprendere individuali è possibile pervenire soltanto chiamando a raccolta e filtrando criticamente […] gli apporti derivabili da una pluralità di scienze diverse, dalla statistica alle neuroscienze, dalla biologia evolutiva alle scienze demologiche e antropologiche, al diritto e, ovviamente, agli studi storici, sociologici e psicologici. […] Le diverse occasioni di studio e le diverse esperienze […] sono andate convergendo verso l’idea che l’esplorazione del mondo del linguaggio debba svolgersi integrando saperi scientificamente accertabili (formigari 2018:292⁵).
L’accertabilità costituisce del resto una garanzia del valore di una affermazione e più in generale di un testo, ma risulta difficilmente praticabile o di limitata efficacia qualora non si possiedano competenze metalinguistiche (nel senso jakobsoniano di competenze relative al codice) in quantità adeguata a consentire un accesso non solo superficiale. Nel caso della lingua, per esempio, la conoscenza e la competenza linguistica propria dell’utente medio/a, intesa, per esempio, come capacità di accedere al contenuto espresso dagli enunciati, non garantisce la possibilità di accedere alla porzione di conoscenza veicolata dal testo nel suo complesso, di cui l’enunciato è solo un elemento costitutivo. Comprendere, altresì, il carico enunciativo del testo solo perché si sa capire o leggere non è lo stesso che comprendere le ragioni per cui il testo è stato strutturato, anche nel senso della tipologia testuale adottata e delle implicature, e formato esteriormente nel modo in cui ci si offre.
Questa competenza richiede infatti assai più che il possesso delle competenze di base relative alla lingua e ai suoi usi: richiede l’integrazione di conoscenze acquisite (l’esperienza partecipata a partire dalla quale facciamo nostra la lingua) e conoscenze frutto di apprendimento (formale, informale o non formale poco importa) e di costante pratica, in assenza delle quali il processo di decodifica/interpretazione non è stimolato o non lo è abbastanza.
Tra ciò che sfugge o che si va persino a perdere ricadono le ragioni stesse che possono aver animato il testo, che in minima parte hanno a che fare con la lingua ma che della lingua e del suo enorme potere simbolico si servono per raggiungere fini non sempre coincidenti con l’interesse sociale, termine-scorciatoia preferito a verità per una serie di ragioni che allontanerebbero troppo dal brevissimo giro di orizzonte di questa riflessione.
Quando si parla di capacità di usare la lingua del posto in cui si vive si sottovaluta spesso, infatti, quanto si stia parlando di accesso a quel sistema di diritti e doveri che, in democrazia, dovrebbe consentire a ciascun individuo di progredire lungo la scala del benessere sociale, specialmente in un’epoca in cui la conoscenza è ricchezza.
Una ricchezza che paradossalmente oggi – epoca in cui è disponibile, e per una massa di persone incommensurabilmente più numerosa, per effetto dell’architettura della conoscenza che sorregge gli applicativi dei dispositivi mobili, una quantità di conoscenza non paragonabile a nessuna fase precedente – è appannaggio di gruppi sociali ristrettissimi, la cui supremazia si regge proprio sulla capacità di gestione della conoscenza, sempre più da intendersi come dati relativi al singolo individuo e alle sue reti.
Una ricchezza che, per essere riequilibrata, necessiterebbe proprio di diffusione di conoscenza e di un allenamento metacognitivo permanente e proattivo, giacché in special modo in quest’era caratterizzata da un intorno
in stato di permanente fibrillazione multilinguistica (nel senso dei linguaggi nel loro complesso e non della sola lingua), l’accesso e la partecipazione alla vita democratica passa ed è garantita più di quanto non si pensi dalla capacità di non subire ma coagire i processi comunicativi.
Perché l’illusione che le competenze relative alla lingua siano un fine da raggiungere, imparando prima a parlare e poi a scrivere, nella prima età infantile e che questa literacy sia bastante per affrontare il mondo dei testi con i quali ci si dovrà confrontare nel corso di tutta l’esistenza, costituirà la principale fonte di arricchimento di quell’analfabetismo funzionale allo studio del quale non a caso proprio De Mauro è giunto al culmine di una vita di studio in cui costantemente ha tenuto ancorato il discorso sulla lingua a quello sulla vita (e la necessità di una educazione) democratica.
Ripensare o ribadire, invece, per la lingua, il ruolo di facilitatrice non neutrale di conoscenza e lavorare, almeno nei contesti dell’educazione e della formazione, sui limiti di una competenza basata sulla sola literacy, costituirà la sola possibilità di vaccinarsi per gli effetti dell’oversemplification che chi ha conquistato ricchezza e consenso attraverso la conoscenza ha tutto l’interesse di spacciare come naturale.
L’eccesso di semplificazione che porta a spacciare una rappresentazione della realtà che si regge su dicotomie sempre declinate in senso valoriale (+/-) conduce infatti, se non contrastata, a un assopimento della capacità di saper decostruire i testi di cui con le nostre stesse vite siamo costantemente parte. Della capacità di individuarne gli elementi costitutivi e le relazioni e auspicabilmente le ragioni e gli effetti.
La conoscenza, bene sommo perché ricchezza in sé e perché fonte di ricchezza anche materiale che dovrebbe, sulla carta, garantire una vita migliore per ciascun individuo, deve essere costantemente accudita se si hanno a cuore le sorti di una società. Ciascuno e ciascuna cercando di mettere in condivisione il proprio tassello di sapere su un dato argomento, gli autori e le autrici di questo e dei volumi a venire di questa collana si adopereranno per offrire a chi ne leggerà il contributo uno spunto polifonico a confrontarsi con un tema già noto ma, forse proprio per questo, necessitante di un’altra riflessione, che muova da una considerazione diversa sul ruolo che i linguaggi hanno sulle nostre vite e sul nostro benessere.
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1. La parafrasi terenziana Linguista sum, nihil a me alienum puto
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